Star Trek Keter Vol. V: Stella cadente

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Crepe ***
Capitolo 3: *** Verso l'abisso ***
Capitolo 4: *** Linea d'ombra ***
Capitolo 5: *** Apocalisse ***
Capitolo 6: *** Dispersi ***
Capitolo 7: *** Il mondo infestato ***
Capitolo 8: *** Trenta secondi a mezzanotte ***
Capitolo 9: *** Tempus fugit ***
Capitolo 10: *** Vigilanza eterna ***
Capitolo 11: *** Se camminassi in una valle oscura... ***
Capitolo 12: *** Ora zero ***
Capitolo 13: *** Il Giorno dell'Orrore ***
Capitolo 14: *** All'ultimo sangue ***
Capitolo 15: *** ...non temerò alcun male ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Keter Vol. V:

Stella cadente

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE KETER.

LA SUA MISSIONE È DIFENDERE

GLI ACCORDI TEMPORALI

E L’UNIONE GALATTICA,

CON OGNI MEZZO NECESSARIO.

QUANDO UNA MINACCIA ELUDE

LE CONTROMISURE TRADIZIONALI,

LA KETER ENTRA IN AZIONE.

 


Prologo:

Data Stellare 2556.031

Luogo: Nuova Berlino, Luna

 

   La bambina bionda giaceva nella capsula di stasi, con gli occhi chiusi, immobile come lo era stata negli ultimi tre anni. Numerosi sensori medici monitoravano le sue condizioni. I dati erano leggibili su un’interfaccia parietale: battito cardiaco, respirazione, attività cerebrale. Tutti questi parametri erano estremamente rallentati, data la sua condizione di stasi. Solo così i medici potevano ostacolare la progressione della malattia che l’aveva colpita, quando i Na’kuhl avevano sferrato il loro devastante attacco al sistema solare. La bambina era una tra i milioni di vittime dell’Agente 47, il virus che i medici federali non riuscivano ancora a curare. Molti pazienti erano morti nei primi, terribili giorni dell’epidemia. Altri, come lei, erano finiti in stasi, nell’attesa di trovare una cura. Ma dopo tre anni di ricerche e sperimentazioni, la situazione non era incoraggiante.
   La capsula era allineata con altre, lungo uno stanzone grigio e spoglio. Solo delle tendine divisorie davano un minimo di privacy alle famiglie che visitavano i loro cari. In fondo alla sala, una grande finestra mostrava il desolato paesaggio lunare, con i crateri e le colline ammantati di regolite grigia. Le cupole di Nuova Berlino erano in gran parte infrante e i palazzi all’interno erano diroccati, per via del bombardamento Na’kuhl. Spente le luci, dispersa l’atmosfera, morti o fuggiti gli abitanti, gli edifici erano divenuti spettrali ammassi di rovine. Il cielo nero era attraversato ogni tanto da qualche navetta di pattuglia.
   «Bambina mia...» mormorò Vlatka, passando la mano sul coperchio della capsula. Non poteva nemmeno toccare sua figlia; doveva accontentarsi di guardarla attraverso quella barriera trasparente. Vederla così vicina, eppure così lontana da lei, era una stilettata al cuore. Una stilettata che la colpiva ogni volta che si presentava all’ospedale, cioè quasi tutti i giorni. Tre anni di amare veglie e di pianti notturni l’avevano fatta sfiorire precocemente. Il suo viso era magro e pallido, con gli occhi cerchiati e febbricitanti.
   «Vieni, amore» disse Sergej, cingendole le spalle col braccio. «I dottori vogliono parlarci. Potrebbe essere importante». Alto, con le spalle larghe e il volto barbuto, Sergej sembrava un uomo tutto d’un pezzo. Solo sua moglie e i parenti più stretti sapevano quanto anche lui fosse dilaniato dal dolore.
   «Vengo anch’io?» chiese Juri, il figlio più grande della coppia, sfuggito al virus. Era un ragazzino di dieci anni, quasi undici. Molto alto per la sua età, era magro e introverso. La malattia della sorellina lo aveva reso ancor più melanconico.
   «No, Juri. Credo che questo sarà un discorso da grandi» disse suo padre, con un groppo in gola. «Perché non torni in anticamera? Ci sono altri ragazzi della tua età...».
   «Preferisco stare qui» rispose Juri, accomodandosi su una seggiola accanto alla capsula di stasi. «Così posso leggere a Svetta le sue fiabe preferite». Sollevò il d-pad in cui aveva scaricato i testi, prima di venire all’ospedale.
   «Sai che non può sentirti...» mormorò il padre, addolorato.
   «Mi sente, invece» ribatté Juri, cocciuto. «A volte sorride quando le parlo».
   I genitori si scambiarono un’occhiata dubbiosa. Nessuno di loro aveva mai notato i sorrisi e gli altri movimenti che, secondo Juri, Svetlana faceva nel sentire la sua voce. Non volendo impelagarsi in una discussione, gliela diedero vinta e lasciarono la sala, per sentire cos’avevano da dire i dottori.
   Appena fu solo con la sorellina, Juri azionò un comando della capsula di stasi, per permettere alla sua voce d’essere udita all’interno. «Ciao, come stai oggi?» le chiese. «Io bene, grazie. Ieri l’insegnante di Storia ci ha dato le verifiche corrette. Ho preso il massimo, sai? La prof dice che sono portato per l’argomento. Scusa se non sono venuto a dirtelo subito, ma ieri avevo troppi compiti. E quella stupida palestra che papà e mamma mi obbligano a fare. Ma oggi posso stare con te. Sai che fra una settimana sarà il mio compleanno? Avrò undici anni! Però la mamma dice che non potremo festeggiare, per via della guerra. Meglio così... le feste mi annoiano» disse il ragazzino, levandosi un ciuffo di capelli dalla fronte. Osservò la sorellina, sperando in una sua reazione.
   Svetlana rimase immobile, come al solito.
   «Invece il mese prossimo ci sarà il tuo compleanno» proseguì Juri, senza perdersi d’animo. «Avrai otto anni... chissà, magari per allora i dottori avranno la cura e potrai uscire da lì. La tua cameretta è ancora come l’hai lasciata, non abbiamo cambiato nulla. Sarai indietro con la scuola, ma non preoccuparti. Ti aiuterò io» si offrì. Guardò ancora Svetlana, speranzoso, ma la bambina non mostrò alcuna reazione.
   «Vuoi che ti legga le storie, vero?» chiese Juri, scorrendo i titoli sul d-pad. «Vediamo, da quale comincio? Ah, ecco la tua preferita: Caschetto Rosso». Il ragazzino drizzò la schiena e si schiarì la voce: raccontare fiabe era una cosa importante.
   «C’era una volta, in mezzo a una nebulosa fitta fitta, un piccolo pianeta dove abitava una bambina bella e buona. Aveva una tuta spaziale con un casco rosso fiammante, per cui tutti la chiamavano Caschetto Rosso. Spesso lei e la mamma andavano a casa della nonna, che viveva tutta sola in una piccola stazione spaziale, in mezzo alla nebulosa.
   Una mattina la mamma chiese a Caschetto Rosso di andare dalla nonna, che era un po’ malata, per portarle un nuovo replicatore. L’accompagnò fino alla navetta, che aveva la rotta programmata per portarla a destinazione. Caschetto Rosso era coraggiosa e non temeva di fare il viaggio da sola; e poi voleva molto bene alla nonna.
   “Stai molto, molto attenta, piccola mia” le raccomandò la mamma. “Se devi dalla tua rotta, potresti perderti per sempre”. La bambina promise di seguire la rotta impostata, senza fermarsi e senza deviare. Salutata la mamma, si mise in viaggio. Presto il pianeta scomparve dietro la navicella, che si addentrava sempre più nella nebulosa.
   Caschetto Rosso era piena di buone intenzioni e voleva seguire i consigli della mamma. Ma a un certo punto vide una bellissima cometa, mai segnata sulle mappe. Pensò di seguirla per un tratto, assumendo il controllo della navetta. Così facendo finì fuori rotta, dove i gas nebulari erano più densi e scuri. Vedendo sparire le stelle, la bambina si spaventò e cercò di tornare indietro.
   Proprio in quella, però, i suoi sensori rilevarono una navicella aliena in avvicinamento. Caschetto Rosso non lo sapeva, ma era guidata da un Mutaforma cattivo, che avrebbe tanto voluto mangiarla. Quando il Mutaforma la chiamò, Caschetto Rosso pensò che fosse scortese non rispondere, così aprì un canale. Il Mutaforma si presentò con l’aspetto di un Vulcaniano, perché tutti sanno che i Vulcaniani dicono solo la verità.
   “Dove vai, bella bambina, tutta sola nella nebulosa?” chiese il Mutaforma.
   “Vado dalla mia nonna, a portarle un nuovo replicatore” rispose educatamente Caschetto Rosso.
   “Tua nonna vive sola?” volle sapere il Mutaforma, con l’acquolina in bocca.
   “Sì, e non apre agli sconosciuti” avvertì la bambina. “Anch’io non li faccio entrare, signor Vulcaniano. E la mia navetta ha sempre i siluri fotonici innescati”.
   “Fai bene” disse il Mutaforma. “Ci sono tanti malintenzionati in giro. Ma perché segui la rotta più lunga? Se prendi quella che ti sto trasmettendo, arriverai molto prima!”. Era una bugia, perché il percorso indicato dall’alieno era il più lungo. Ma Caschetto Rosso non se ne accorse, così ringraziò il Mutaforma e corresse la rotta secondo le sue indicazioni.
   Con questo tranello, il Mutaforma si assicurò di arrivare per primo alla stazione della nonna. Assumendo l’aspetto di Caschetto Rosso, e imitando persino la sua voce, la convinse ad abbassare gli scudi. Così poté salire a bordo. Trovata la nonna, riuscì a sopraffarla e la imprigionò nel buffer degli schemi del teletrasporto. Poi assunse le sue sembianze e si mise a letto, aspettando l’arrivo di Caschetto Rosso...».
   Proprio ora che la storia si avviava al climax, Juri s’interruppe. Aveva sentito delle grida provenire da fuori. Riconobbe la voce di suo padre e ne fu spaventato, perché erano grida di rabbia. Anche sua madre urlava, o per meglio dire singhiozzava. Stava succedendo qualcosa di grave. Qualcosa che probabilmente riguardava sua sorella.
   «Scusa, devo capire che succede» mormorò Juri, sempre rivolto a Svetlana. «La storia te la finisco dopo, d’accordo?».
   Mollato il d-pad sulla sedia, il ragazzino lasciò la sala. Seguendo le voci concitate raggiunse un ufficio adiacente. Lo conosceva per esserci stato altre volte, al seguito dei genitori. Finalmente li vide: gesticolavano animati, rivolti a due medici dell’Unione, un Edosiano e un’Angosiana. A Juri gli Edosiani facevano un po’ paura: erano magri e senza capelli, con i volti simili a teschi. Cosa ancor più inquietante, avevano tre braccia e tre gambe. Gli Angosiani, invece, erano quasi indistinguibili dagli Umani. Il ragazzino scivolò silenziosamente dietro una consolle, per ascoltare la discussione.
   «Non se ne parla!» stava dicendo suo padre. «Non staccherete la spina a nostra figlia!».
   «È l’opzione più logica, e anche la più etica» ribatté l’Edosiano. «Abbiamo lottato contro la malattia per tre anni. Abbiamo sottoposto vostra figlia a tredici terapie sperimentali. Nessuna ha dato il benché minimo risultato. A questo punto è inutile insistere. Dovete accettare il fatto che avete perso vostra figlia. Vi affiancherò un Consigliere, per aiutarvi a elaborare il lutto».
   «Io non elaboro un bel niente!» gridò Vlatka, tremando in tutto il corpo esile. «Mia figlia è viva!».
   «È tenuta in vita da una macchina» obiettò l’Angosiana con voce fredda. «Se la scollegassimo, il virus le divorerebbe il sistema nervoso in poche ore. Le pareti cellulari si romperebbero e vostra figlia inizierebbe a vomitare sangue. È questo che volete per lei?».
   «Voglio che la teniate in stasi, finché si troverà la cura!» ribatté la madre.
   «La sua malattia ha raggiunto uno stadio troppo avanzato» spiegò l’Edosiano, gesticolando con i tre arti. «Vedete, anche in stasi il virus continua a diffondersi lentamente».
   «Perché non la trasferite in una capsula crono-statica? Se fermate lo scorrere del tempo, fermerete anche il virus!» affermò Sergej.
   «Le capsule crono-statiche sono ancora sperimentali» spiegò l’Edosiano. «E consumano moltissima energia. Con le restrizioni imposte all’ospedale, dobbiamo risparmiarle per i pazienti al primo stadio d’infezione, che hanno più speranze di guarire».
   «Allora trasferiremo nostra figlia in un ospedale terrestre!» tuonò il padre.
   «Negativo. La paziente è in cura presso di noi, non consentirò alcun trasferimento» lo gelò l’Edosiano, stringendo gli occhietti gialli. Dietro al suo nascondiglio, Juri rabbrividì.
   «In cura? Quale cura?! Avete appena detto di volerla uccidere, perché non sapete che fare!» gridò Sergej.
   «Siete medici; dovreste proteggere la vita, non troncarla!» singhiozzò Vlatka.
   «Il nostro dovere è preservare la qualità di vita dei pazienti» corresse l’Angosiana. «Se ciò non è possibile, allora dobbiamo evitare l’accanimento terapeutico. È una questione di rispetto per la dignità delle loro vite».
   «Se i pazienti danno il loro consenso!» obiettò Sergej. «Ma Svetlana è in stasi e non può dire la sua. E in ogni caso è minorenne. Noi siamo i suoi genitori; la decisione spetta a noi» disse a muso duro.
   «Col dovuto rispetto, signor Smirnov, non è così» ribatté l’Angosiana con decisione. «La responsabilità è di noi medici, quali rappresentanti dell’ospedale e quindi dello Stato».
   «Uno Stato che ha diritto di vita e di morte sui cittadini! Anche sui bambini!» sibilò il padre. «Chi siete voi, per decidere quali vite sono degne d’essere vissute e quali invece vanno scartate?!».
   «Siamo i dottori che hanno curato la paziente per tre anni, cioè le persone più qualificate per prendere questa difficile decisione» rispose prontamente l’Angosiana. «Voi invece non avete né le competenze mediche, né la lucidità necessaria. Siete accecati dal dolore, lo comprendo. Ma non vi permetteremo di commettere un abuso nei confronti di vostra figlia» proseguì. «Voi credete che tenerla in vita sia un gesto d’amore. Vi sbagliate. È un atto di puro egoismo, che le infligge sofferenze inutili. Se amate davvero vostra figlia, allora dovete lasciarla andare».
   «Non osi mettersi tra una madre e sua figlia!» gridò Vlatka, fuori di sé dalla disperazione. «Non osi strapparmela!».
   «Perché non la tenete in stasi ancora un po’ di tempo?» suggerì Sergej, sforzandosi di ragionare con i medici. «Sono tre anni che sta in quella capsula. Che male vi fa, se ci resta ancora qualche mese?».
   «Prolungare la degenza di un paziente incurabile è irrazionale» insisté l’Edosiano. «Inoltre quella capsula è una risorsa preziosa per la collettività. Potrebbe salvare la vita di un paziente allo stadio iniziale dell’infezione».
   «Ah, ecco spiegato il vostro accanimento: volete sgombrare un posto letto!» ringhiò Sergej, fremendo di collera. «E se fra poco qualche team medico, fra le migliaia che sono al lavoro, scoprisse la cura?».
   «Non possiamo basare il nostro giudizio su una remota speranza» obiettò l’Edosiano. «Il nostro parere di medici è che vostra figlia sia irrecuperabile. Non resta che spegnere le sue sofferenze, nel modo più rapido e indolore». Così dicendo, l’alieno premette alcuni tasti sull’oloschermo del suo computer.
   «Che ha fatto?!» chiese Sergej, impallidendo.
   «Vi prego di non opporre resistenza. Quello che facciamo è nel miglior interesse di vostra figlia» disse l’Angosiana. «Ha il diritto di andarsene con dignità».
   «Maledetti!» gridò l’uomo, precipitandosi fuori dall’ufficio. Voleva correre alla capsula, per invertire il processo d’eutanasia, ma si trovò il passo sbarrato da due guardie dell’ospedale, chiamate dai medici. «Levatevi di mezzo!» gridò, rosso in viso.
   «Si calmi, o saremo costretti ad arrestarla» rispose severamente uno dei tutori dell’ordine.
   «Vogliono uccidere mia figlia! Fatemi passare!» strillò Vlatka, fuori di senno.
   «Lasciate stare mia sorella! Non vi ha fatto niente di male!» gridò Juri, sbucando dal suo nascondiglio.
   Scoppiò il pandemonio. Alcuni infermieri, richiamati dalle urla, si gettarono su Vlatka cercando d’immobilizzarla, benché la poveretta si dibattesse come un’ossessa. Sergej si gettò in avanti contro le guardie, ma fu preso e scaraventato indietro. Cadde contro un carrellino medico, facendolo ribaltare. Juri si scagliò contro l’Edosiano, sebbene l’alieno rinsecchito lo spaventasse. Lo afferrò e lo tempestò di pugni sul volto duro come cuoio, anche se l’altro aveva tre braccia ed era molto più forte di lui. Quando l’Angosiana cercò di staccarlo dal collega, il ragazzino colpì anche lei con un calcio.
   Tra grida e imprecazioni, lo scontro divenne sempre più violento. I tre Umani lottavano con tutte le loro forze, pur essendo soverchiati dal personale dell’ospedale. Con un braccio già immobilizzato dietro la schiena, Vlatka tirò calci e graffiò un infermiere sul viso. Questi gridò dal dolore e indietreggiò, con il volto deturpato da quattro lunghi tagli. Corse a prendere un rigeneratore dermico per curarsi. Il suo posto fu preso da un collega armato d’ipospray. «Questo la calmerà» disse. Mentre gli altri infermieri trattenevano a viva forza la donna, il nuovo arrivato le praticò l’iniezione nel collo. «Venti milligrammi di axonon; stenderebbero anche un Klingon» ridacchiò.
   «Maledetti... tutti... voi...» mormorò la donna, accasciandosi. La dose di sedativo era così massiccia che nemmeno il picco d’adrenalina poteva contrastarla. Gli infermieri la sorressero, per evitare che si ferisse cadendo. Poi la distesero su un lettino, legandovela sopra, casomai al risveglio desse ancora in escandescenze.
   Nel frattempo Sergej era venuto alle mani con un sorvegliante che cercava di ammanettarlo. Riuscì a divincolarsi, gli afferrò la testa e gliela sbatté su una mensola, stordendolo. L’attimo dopo fu colpito alla schiena da un raggio phaser. «No...» rantolò, reggendosi a stento alla mensola. Il guardiano ancora in piedi alzò di una tacca la regolazione del phaser, puntandolo su massimo stordimento. Mirò attentamente e fece fuoco, colpendo l’uomo in pieno petto. Sergej crollò a terra, trascinandosi dietro un vassoio pieno di strumenti medici, alcuni dei quali andarono in pezzi.
    «Ora non fai più il gradasso, eh?» commentò il guardiano, avvicinandosi. «Aggressione a pubblico ufficiale... sei mesi di galera non te li leva nessuno» aggiunse mentre lo ammanettava.
   «Mamma! Papà!» gridò Juri, scioccato nel vedere i suoi genitori – i suoi punti di riferimento – cadere uno dopo l’altro. Ma sapeva che erano solo storditi. Ciò che lo terrorizzava era la sorte di Svetlana. Siccome l’Edosiano lo aveva afferrato con le tre braccia e cercava d’immobilizzarlo, il ragazzino afferrò un d-pad dalla scrivania e glielo ruppe in testa. L’alieno barcollò, semi-stordito, e lasciò la presa. Juri si girò appena in tempo per fronteggiare l’Angosiana, che aveva preso un ipospray. Le bloccò il polso e con la forza della disperazione glielo ritorse contro. Svuotò l’ipospray nel fianco dell’aliena, che scivolò a terra svenuta.
   Subito il ragazzino corse in avanti, facendo slalom fra gli infermieri che cercavano di agguantarlo. Saltò sopra una scrivania, colpendo uno di loro con un calcio in faccia. Poi balzò giù, passando sotto una mensola per sfuggire a un altro. Accortosi che la guardia lo stava prendendo di mira, afferrò il vassoio metallico caduto e lo usò come scudo. Fece bene, perché il guardiano sparò sul serio. Il raggio phaser colpì lo scudo improvvisato, trasmettendo a Juri una forte scossa, che gli fece rizzare i capelli. Più tardi, consultando i regolamenti, il ragazzino verificò che sparare a un minorenne – sia pure per stordire – era illegale. Eppure era accaduto.
   Solo contro tutti, Juri corse nel salone con le capsule di stasi. Gli infermieri gli stavano alle costole; ne udiva le imprecazioni e poteva quasi sentirne il fiato sul collo. Trafelato, il ragazzino raggiunse la capsula di Svetlana, per difenderla fino all’ultimo respiro. Ma qui lo attendeva un’amara sorpresa. La capsula era senza energia. Sul monitor parietale, tutti gli indicatori dei segni vitali erano a zero. Incredulo, Juri sfiorò il coperchio trasparente della capsula. La luce interna era spenta, così che non poteva vedere il corpo senza vita della sorellina. «Non andartene, ti prego» sussurrò, con gli occhi appannati di lacrime. «Devo finire la storia...».
   «Tua sorella è morta, ragazzino» disse l’Edosiano, strappando la tendina che circondava la capsula. Tese il collo lungo e magro, allungando in avanti la testa grinzosa, su cui iniziava a formarsi il bernoccolo. «È meglio che lo accetti, se non vuoi finire come i tuoi genitori».
   «È morta perché voi l’avete uccisa!» ringhiò Juri, fissando gli occhi grigi in quelli gialli dell’alieno.
   «È morta perché aveva una malattia incurabile» corresse il medico. «Abbiamo fatto tutto il possibile per salvarla. Ma quando non c’è speranza, bisogna avere il coraggio di lasciar andare i propri cari».
   «Stavolta era troppo presto per rinunciare alla speranza» insisté il ragazzino, con voce dura. «Io credo che l’abbiate fatto perché era la cosa più facile».
   «Sei un dottore, tu?  Certo che no. E allora non insegnarci il mestiere!» rimbeccò l’Edosiano. «Lascia queste cose a chi è adulto e competente. Va’ a casa, ora. Il poliziotto ti accompagnerà».
   «E i miei genitori?».
   «Tua madre sarà rilasciata appena riprenderà i sensi. Tuo padre, però, dovrà essere processato per l’aggressione» rispose la guardia. «Mi spiace che tu abbia assistito a tutto questo. Spero che non seguirai l’esempio dei tuoi genitori e che crescendo sarai rispettoso della legge. Per stavolta te la cavi... ma alla prossima infrazione ti prenderemo i dati biometrici. Hai capito?».
   «Capisco anche troppo» rispose Juri, fissandolo con disprezzo. «Capisco che i forti comandano e i deboli muoiono». Poi si rivolse di nuovo all’Edosiano. «Se Svetta non fosse stata Umana, ma della sua specie, le avrebbe spento la capsula?» chiese.
   «Certamente» rispose il medico.
   «Chissà!» rispose il ragazzino, scrutando con diffidenza gli alieni che lo circondavano. Poiché non gli restava più nulla da fare lì, si accinse ad andarsene. Posò una mano sul freddo coperchio della capsula: avrebbe dovuto dire addio a Svetlana, ma non ne fu capace. «Leggerò le fiabe per te» fu tutto ciò che riuscì a dire. Cercò con lo sguardo il suo d-pad, ma non trovandolo lasciò perdere e seguì il poliziotto, dopo aver lanciato un’ultima occhiata velenosa al dottore. Il senso d’impotenza gli schiacciava il cuore come un macigno. Per quanto si sforzasse, non riuscì a trattenere le lacrime. La sua infanzia era morta lì, con Svetlana. E sebbene lui vivesse ancora, Juri non pensava che sarebbe mai più stato capace di provare felicità.
 
   Di lì a due giorni, l’ospedale recapitò agli Smirnov la piccola urna con le ceneri di Svetlana, assieme a un biglietto di condoglianze. Il corpo era stato cremato per distruggere ogni traccia del virus. Il funerale avvenne subito, in forma strettamente privata. Sergej non poté parteciparvi, essendo agli arresti per l’aggressione alla guardia. Poiché alcuni parenti erano morti nella guerra e altri non potevano raggiungere la Luna in quel momento, solo Juri e sua madre vi parteciparono.
   Il cimitero era scavato nel sottosuolo, come quasi tutti gli ambienti della colonia lunare. Con mani tremanti, Vlatka collocò l’urna cineraria nella sua nicchia, accanto a innumerevoli altre. Solo la targhetta sottostante permetteva d’identificarla: 
 
 
SVETLANA SMIRNOVA

AMATA FIGLIA, AMATA SORELLA

2548 – 2556
 

   Quando l’urna fu a posto, Juri le posò accanto un mazzetto di gigli. Poi indietreggiò di qualche passo, tornando accanto alla madre.
   «Vuoi dirle qualcosa, prima di andare?» mormorò Vlatka, con gli occhi arrossati e il viso rigato di lacrime.
   «Non serve» rispose il ragazzino. «Io le parlo spesso».
 
   Tre settimane dopo la morte di Svetlana, Juri stava in camera sua. Era lì che passava tutto il suo tempo, quando non era a scuola. Sua madre si aggirava per casa come il fantasma di se stessa, svolgendo a mezzo i lavori domestici, in una sorta di sonnambulismo causato dagli psicofarmaci. A volte si chiudeva nella propria camera per singhiozzare, ma Juri la sentiva. Quanto a suo padre, era ancora in cella; non lo vedeva dal giorno della sciagura. Il ragazzino andava a scuola da solo e si faceva da mangiare con il replicatore. A volte passava l’intera giornata senza scambiare una sola parola con sua madre, sebbene vivessero nella stessa casa. Sui mobili si accumulava la polvere, che nessuno dei due aveva voglia di levare.
   La cameretta di Svetlana era sigillata. Le sue olografie sparse per casa erano sparite, tolte dalla madre che non aveva la forza di guardarle. Juri ne aveva salvata solo una, nascondendola in un cassetto della sua camera. Da quando aveva perso la sorellina, ricordava solo una successione di giorni uguali, tutti grigi e deprimenti.
   Quel giorno, però, era diverso dagli altri. Fin dal mattino Juri aveva ricevuto una comunicazione dalla scuola. Le lezioni erano sospese, perché l’Unione Galattica – cioè la Federazione e i suoi alleati – stavano affrontando il Fronte Temporale a Procyon V. Era la più grande battaglia mai vista e avrebbe sancito la fine della guerra. Restava da vedere chi ne sarebbe uscito vittorioso. Juri sapeva che se l’Unione cedeva, il Fronte Temporale sarebbe balzato nel sistema solare, per finire il lavoro iniziato dai Na’kuhl tre anni prima. C’erano navi trasporto pronte a partire, anche lì sulla Luna, ma gli spazioporti erano ingolfati da gente terrorizzata. Piuttosto che farsi calpestare nella calca, Juri e sua madre preferivano restare in casa e attendere. Se il Federal News avesse annunciato che l’Unione era stata sconfitta, sarebbero corsi allo spazioporto Armstrong, sperando di trovare qualche carretta su cui imbarcarsi. O forse sarebbero rimasti a casa, nel loro stato apatico, in attesa della distruzione. Che senso aveva fuggire nello spazio flagellato dalle anomalie, braccati dal Fronte, mentre i pianeti federali erano distrutti uno dopo l’altro?
   Seduto sul letto, Juri non staccava gli occhi dall’oloschermo. Il Federal News trasmetteva gli aggiornamenti della battaglia, il cui esito continuava a oscillare. In certi momenti l’Unione sembrava in vantaggio; in altri era il Fronte a prevalere. La carneficina proseguì per ore, in un crescendo di distruzione e colpi di scena. Entrambe le armate ricevettero rinforzi inaspettati; ci furono atti d’eroismo e di tradimento. Juri seguiva le notizie con il cuore in gola, ignaro di avere trascorso l’intera giornata senza toccar cibo.
   Era ormai sera quando fu chiaro che la vittoria spettava all’Unione. Con la distruzione delle Sfere e la fine delle anomalie, i Tuteriani cedettero, tornando nel loro universo. La loro ritirata sconquassò lo schieramento del Fronte, inducendo gli alleati a fuggire. Solo i Na’kuhl, l’anima nera del Fronte, resistettero fino all’ultimo. La loro flotta s’immolò in attacchi kamikaze, facendo pagare un durissimo scotto all’Unione. Infine la loro nave ammiraglia cedette, anche se le sorti del Leader Supremo Vosk erano incerte: forse era riuscito a fuggire. Anche l’Enterprise-J fu gravemente danneggiata in quell’ultimo scontro. Sconfitti i Na’kuhl, gli ultimi rimasugli del Fronte si arresero. La battaglia – e con essa la guerra – era finita.
   Juri stentava a crederci. Aveva cinque anni quando il conflitto era iniziato: non ricordava com’era vivere in tempo di pace, senza le risorse razionate e la costante minaccia dell’annientamento. Ma finalmente l’incubo era finito. Il Fronte Temporale era caduto e non sarebbe risorto mai più.
   «Ce l’abbiamo fatta, Svetta» mormorò il ragazzino, togliendo l’olografia dal cassetto. «L’Unione ha vinto... la Galassia è salva». Era un sollievo saperlo, anche se con sua sorella morta, suo padre in carcere e sua madre in preda alla depressione più nera non aveva nessuno con cui festeggiare. I compagni di scuola lo avevano sempre maltrattato, quindi non provò neanche a chiamarli. Restò alzato fino a tardi, ascoltando le notizie che si rincorrevano.
   «Interrompiamo il bollettino di guerra per un annuncio che conforterà milioni di cittadini federali» disse a un tratto lo speaker. «Il Comando Medico di Flotta ha appena annunciato che è stata trovata la cura per l’Agente 47, il famigerato virus diffuso dai Na’kuhl. Le informazioni su come sintetizzare la cura sono state trasmesse via Olonet alla rete ospedaliera federale. Ora milioni di nostri fratelli e sorelle, chiusi nelle capsule di stasi, potranno uscirne guariti, in questa Galassia rinnovata...».
   Juri non sentì il resto. Una cura. Una dannatissima cura era stata trovata, alla fine. Avrebbe dovuto gioirne, al pensiero dei tanti malati ancora chiusi nelle capsule. Invece era furioso. Se i medici avessero scoperto il rimedio tre settimane prima, Svetta sarebbe stata viva e la sua famiglia non si sarebbe sfasciata. Ma era ingiusto prendersela con gli scopritori della cura. No, la colpa era di quelli che avevano ucciso Svetta, contro il parere dei genitori. Perché non gli avevano permesso di trasferirla in un altro ospedale? L’avrebbero eliminata così prontamente, se non fosse stata Umana? Juri sapeva che la sua specie, un tempo rispettata dagli altri popoli federali, ultimamente era divenuta il capro espiatorio per tutti i malumori. Lui stesso ne aveva fatto esperienza sulla propria pelle, a scuola. Ora il sospetto si era insinuato in lui e lo rodeva come un tarlo. Sentì sua madre piangere a dirotto, nella stanza adiacente: anche lei aveva sentito della cura.
   Sentendosi più impotente che mai, Juri sedette a capo chino. Tre settimane. Ancora tre settimane di pazienza e Svetta si sarebbe salvata. Ma non si poteva tornare indietro nel tempo... o sì? Nelle sue esplorazioni, la Flotta Stellare aveva scoperto dei modi per viaggiare da un’epoca all’altra. A scuola, gli insegnanti sostenevano che il viaggio nel tempo fosse ancora impreciso e pericoloso. Ma sull’Olonet circolavano altre teorie. Si diceva che la Flotta Stellare avesse segretamente affinato la tecnologia. Persino il Federal News affermava che su Plutone c’era un centro ricerche sul viaggio nel tempo, e che forse le prime crono-navette erano già uscite dal cantiere. Ma la Prima Direttiva Temporale vietava di alterare la Storia, fosse anche per evitare una strage. E con i miliardi di lutti che avevano colpito l’Unione, negli anni di guerra, chi mai si sarebbe preoccupato di un’unica bambina? Nessuno, si disse Juri. Nessuno... tranne lui. 
 

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Capitolo 2
*** Crepe ***


-Capitolo 1: Crepe

Data Stellare 2589.75

Luogo: K’normia

 

   La nave trasporto, massiccia e dalle forme squadrate, si avvicinò al pianeta ad alta velocità d’impulso, ignorando gli ordini sempre più concitati che giungevano dalla stazione di smistamento del traffico. Alcune navette private dovettero cambiare precipitosamente rotta, per non rischiare una collisione. Sulla stazione spaziale, i controllori allarmati cercarono d’identificare il trasporto. Dall’aspetto era certamente federale, ma non sembrava appartenere alla Flotta. Il suo numero di registro era stato abraso dallo scafo.

   Quando il trasporto fu a 50.000 km dal pianeta, una nave pattuglia fu inviata a intercettarlo. Era un vascello piccolo e armato alla leggera, con un equipaggio di appena quaranta elementi. I K’normian non avevano un esercito potente; per la loro difesa si affidavano alla Flotta Stellare. Sulla plancia della navicella, il Capitano osservò il trasporto che continuava ad avvicinarsi senza rallentare. I suoi ufficiali erano inquieti e lui stesso sentì crescere il nervosismo.

   «Attenzione» trasmise su un canale a banda larga. «Nave pattuglia K’normia 19 a trasporto sconosciuto. Avete violato il nostro spazio senza fornire le vostre generalità. Fermatevi e identificatevi subito, o sarete abbordati» avvertì.

   «Continuano ad avanzare... dovremmo toglierci dalla loro rotta» consigliò il pilota, sempre più teso.

   «Negativo, manteniamo la posizione» ordinò il Capitano, scuotendo la testa. Gli ordini erano chiari, la nave sconosciuta doveva essere fermata prima che arrivasse a distanza di teletrasporto dalla superficie. «Possiamo abbordarli?» chiese.

   «Hanno gli scudi alzati» ripose l’Ufficiale Tattico. «Sono schermi potenti... ci servono rinforzi, se vogliamo abbatterli».

   «Non siamo qui per cominciare una battaglia» ammonì il Capitano, guardandolo con severità. Quando tornò a rivolgere la sua attenzione al trasporto, lo vide pericolosamente vicino. «Regolate il raggio traente su respingimento» ordinò. Prima che gli ufficiali potessero eseguire, il trasporto frenò. Le due astronavi si fronteggiarono a poca distanza dal pianeta.

   «Ci chiamano» riferì l’addetto alle comunicazioni.

   «Alla buon’ora. Sullo schermo» ordinò il Capitano, seccato dal comportamento degli intrusi. Si alzò dalla poltroncina, per fronteggiare il loro capo. Era una donna Ekosiana, piuttosto giovane per comandare un’astronave. Il suo volto era inquadrato così da vicino che riempiva quasi tutto lo schermo.

   «Sono il Capitano Gidaf, della Guardia K’normian. Per caso avete problemi alle comunicazioni?».

   «Nessun problema, perché?» rispose l’Ekosiana.

   «Vi abbiamo ordinato d’identificarvi».

   «Sono il Capitano Valora, della Star Sentinel» rispose l’Ekosiana, dandosi importanza. «La mia missione ha la precedenza sulle formalità burocratiche. Devo sbarcare immediatamente i miei passeggeri sul vostro pianeta».

   «Signore, rilevo 470 segni vitali sul trasporto» avvertì l’addetto ai sensori. «Sono tutti alieni».

   «Veridiani» precisò Valora. «Li abbiamo salvati appena in tempo. Avvertite le vostre autorità, perché siano pronte a riceverli. Servono viveri, medicine e ovviamente alloggi. Vi stiamo trasmettendo le specifiche sulla loro fisiologia» spiegò in tono pratico.

   «Al tempo!» la richiamò Gidaf. «La Flotta non ci ha avvertiti di quest’operazione».

   «Ovviamente no. Io e il mio equipaggio non apparteniamo alla Flotta» spiegò l’Ekosiana. L’inquadratura si allargò, mostrandola a figura intera. Indossava una tuta di volo, che però non era l’uniforme regolamentare della Flotta Stellare. Lo stesso valeva per i suoi ufficiali, alcuni dei quali erano entrati nel raggio della telecamera. Era un equipaggio eterogeneo: non c’erano due persone della stessa specie.

   «Facciamo un passo indietro» disse Gidaf, sempre più confuso. «Chi ha autorizzato la vostra missione?».

   «Agiamo per proteggere vite innocenti» spiegò Valora.

   «Ma chi vi ha autorizzati?!» insisté il Capitano.

   «Quando ci sono vite in pericolo, non servono autorizzazioni» si accigliò l’Ekosiana.

   «Capitano, ho consultato il database» intervenne il Primo Ufficiale. «I Veridiani sono un popolo pre-industriale che vive a due settori da qui».

   «Pre-industriale!» sobbalzò Gidaf. «Lei ha violato la Prima Direttiva!».

   «La Prima Direttiva è irrilevante, quando ci sono vite in pericolo» ribatté Valora, con granitica determinazione.

   «Ma... la vostra non è una nave ologrammi» disse il Capitano, sempre più preoccupato. C’erano stati casi estremi in cui popoli pre-curvatura erano stati trasferiti da un pianeta all’altro con navi speciali, munite di grandi ponti ologrammi, perché non si accorgessero del viaggio. Ma quello non era il caso. «Li avete sedati, almeno?».

   «Sedarli?! Ma è impazzito? Che cosa barbara!» esclamò l’Ekosiana, disgustata.

   «Mi faccia capire: lei ha rapito 470 persone di una cultura pre-industriale e vuole ricollocarle da noi?» chiese il Capitano, sempre più incredulo.

   «Non ho rapito proprio nessuno» lo corresse Valora. «Tutte queste persone hanno fatto regolare richiesta d’asilo».

   «Come hanno potuto, se non conoscono le trasmissioni subspaziali e nemmeno le onde radio?» chiese il Primo Ufficiale, che stava scorrendo le informazioni sui Veridiani dal suo display. Si trattava di una specie umanoide, che in un continente aveva raggiunto una tecnologia di tipo rinascimentale, mentre negli altri era più arcaica. Nel 2371 il Capitano Kirk si era sacrificato per salvarli dal piano di uno scienziato folle, il dottor Soran, che voleva far esplodere la loro stella. Da allora gli abitanti di Veridiano IV erano stati osservati di nascosto, per seguirne i progressi.

   «Per superare questo problema, abbiamo intrapreso il Primo Contatto» spiegò tranquillamente l’Ekosiana. «Sono lieta di comunicarle che tutto si è svolto senza incidenti. I Veridiani sono una cultura progredita, pronta a unirsi alla comunità interstellare».

   «Progredita? Non conoscono nemmeno l’elettricità!» contestò il Primo Ufficiale. «Credono che il loro pianeta sia fisso e immobile al centro dell’Universo e che le stelle siano anime di antichi eroi. Come può dire che sono pronti a unirsi a noi?!».

   «Lo sono, ora che abbiamo spiegato loro la natura della Galassia» puntualizzò Valora. «Come le dicevo, sono un popolo evoluto che impara molto in fretta. Ed essendo in pericolo hanno chiesto asilo politico».

   «Non provi a minimizzare! Lo shock culturale sarà stato devastante» ribatté il Capitano Gidaf. «Lei ha violato intenzionalmente la Prima Direttiva, prelevando quegli individui. Non so cos’abbia raccontato loro, per convincerli a chiedere asilo, ma non credo siano consapevoli del tipo di viaggio che hanno intrapreso. A proposito... che pericolo li minacciava?» chiese il K’normian, assalito da un altro timore.

   «Una guerra tremenda, che negli ultimi anni ha fatto centinaia di migliaia di vittime» spiegò l’Ekosiana.

   «Una guerra di religione» precisò cupamente il Primo Ufficiale, continuando a scorrere i dati su quel popolo.

   «E viene a raccontarci che sono progrediti!» esclamò Gidaf, vedendo concretizzarsi il suo timore. «Senta, signorina...».

   «Capitano» corresse l’Ekosiana con severità.

   «... ci sono stati casi in cui la Flotta ha salvato popoli indigeni da disastri naturali, come asteroidi ed eruzioni vulcaniche. Ma in una guerra non si può intervenire, perché avvantaggiare una fazione significa danneggiarne altre. Non avrete dato armi ai Veridiani rimasti sul pianeta?».

   «Ma come le viene un’idea del genere? Certo che no!» protestò Valora.

   «Gli avete dato tecnologie di qualunque tipo?».

   «Solo cibo concentrato, medicine e coperte» rispose l’Ekosiana. «Abbiamo aiutato gruppi di civili in fuga dalle zone di guerra, promettendo che saremmo tornati».

   «Una promessa che non dovevate fare» disse il Capitano, corrucciato. «E che mi dice di quelli che avete imbarcato? Chi sono?».

   «I nostri passeggeri sono profughi di una città distrutta. Sono civili... famiglie... che senza il nostro intervento sarebbero morti. Capisce che non avevamo scelta?!» si appassionò Valora.

   «Uhm... per caso ci sono anche soldati sbandati, mischiatisi alla popolazione?».

   «Non credo... sono sicura di no» si corresse l’Ekosiana.

   «Ne è sicura?! E come può esserlo? Non li conosce abbastanza!» inveì il Capitano, sempre più esasperato.

   «Non sia paranoico» s’indurì Valora. «Ora che le ho spiegato la nostra missione, informi i suoi superiori. Devono ricevere i nostri passeggeri entro dodici ore standard. Raccomando di seguire puntualmente le prescrizioni di alimentazione e vestiario che vi abbiamo trasmesso. Queste persone hanno già sofferto tanto; non è il caso di aggiungere altri disagi. Capitano Valora, chiu...».

   «Ferma!» la bloccò Gidaf, alzando una mano. «Lei non può venire qui, da un altro settore, e dare ordini al mio governo. Può star certa che informerò i miei superiori della situazione; ma credo che le ordineranno d’invertire la rotta e riportare i Veridiani a casa».

   «Quale casa? Le loro abitazioni sono state distrutte!» s’infervorò l’Ekosiana. «Non capisce che rimandarli indietro significa condannarli a morte? Tanto vale che siluriate questa nave, con tutti noi dentro!».

   «Nessuno vuole silurarvi» rispose pazientemente il Capitano. «Ma la vostra richiesta aprirà un dibattito politico che si trascinerà per giorni, forse settimane».

   «Non possiamo aspettare tanto. Su Veridiano IV ci sono altre migliaia di persone che contano su di noi».

   «La loro fiducia è mal riposta. Avete già violato la legge, portando qui quella gente. Non vi consentirò di violarla ancora, con altri viaggi».

   «Così parlano i privilegiati, che non sanno cosa significa soffrire!» si stizzì l’Ekosiana. «Si è mai trovato nell’impossibilità di sfamare i suoi cari, o di salvarli dalla soldataglia? Ha mai visto la sua città incendiata da un esercito invasore? Certo che no! E allora non finga di sapere cos’è meglio per i Veridiani. Noi lo sappiamo... perché siamo scesi fra loro e abbiamo ascoltato le loro voci».

   Il Capitano abbassò lo sguardo per un attimo, rimuginando. C’era del vero in quelle parole. Ma lui era un servitore dello Stato e doveva far rispettare le leggi, che erano in vigore grazie a un sistema democratico. Forse un giorno le leggi sarebbero cambiate; ma fino ad allora non doveva fare eccezioni. «Abbassate gli scudi e preparatevi all’abbordaggio» ordinò, rialzando gli occhi. «La vostra nave sarà sequestrata e voi sarete arrestati».

   «E i nostri passeggeri?» chiese l’Ekosiana.

   «Resteranno lì, finché le autorità decideranno il da farsi» stabilì il Capitano.

   «Non ci sottometteremo ai vostri luridi giochi di potere» fu la decisa risposta. «Abbiamo imbarcato donne in stato di gravidanza, bambini, malati che non possono aspettare. Non interferite, mentre li sbarchiamo».

   «Non osi violare le disposizioni!» avvertì Gidaf, avvicinandosi allo schermo con aria severissima. «Lei e il suo equipaggio vi siete già meritati il carcere. Non peggiorate la vostra situazione con altre infrazioni».

   «Siamo tutti volontari, qui. Siamo pronti ad andare in prigione, pur di seguire la nostra coscienza» dichiarò Valora, per nulla intimidita. «L’avverto, però, che il mio governo non vi permetterà di trattenermi su K’normia» aggiunse con aria di sfida.

   «Si crede al di sopra della legge?» chiese Gidaf, rabbuiato.

   «Obbedisco a una legge ben più alta di quella federale: la legge del cuore» sentenziò l’Ekosiana, allargando le braccia. «Se devo essere punita per questo, così sia. Ma è più probabile che finiate voi nei guai. Ho dei giornalisti a bordo, che filmano le vostre mosse e le trasmettono in diretta Olonet. Se ci aggredite, tutta l’Unione lo saprà all’istante» aggiunse trionfante.

   Il Capitano si girò verso i suoi ufficiali, vedendo il terrore sui loro volti. Essere esposti al pubblico ludibrio poteva rovinare le loro carriere, le loro intere vite. Ma era un rischio che si erano accollati, entrando nella Guardia K’normian. «Le sue minacce non m’intimoriscono» disse il Capitano. «Per l’ultima volta: abbassate gli scudi e preparatevi all’abbordaggio».

   «Non posso farlo» ribatté Valora, scandendo bene le parole. «Quando avremo sbarcato i nostri passeggeri, fateci quel che volete. Ma non vi permetterò mai di riportarli in quell’inferno. Se volete fermarci, dovrete ucciderci tutti» sentenziò, e chiuse la comunicazione. La Star Sentinel riaccese immediatamente i motori a impulso.

   «Ci vengono addosso!» avvertì il timoniere.

   «Non lo faranno» disse il Capitano, ancora in piedi davanti allo schermo. «Non oseranno speronarci».

   «Io credo di sì» mormorò il Primo Ufficiale, vedendo la prua del trasporto che s’ingrandiva. Era uno scafo blindato, privo di oblò. Sembrava una macchina da sfondamento.

   Gidaf attese ancora per qualche secondo, mentre una goccia di sudore gli scorreva giù per la fronte alta, tipica della sua specie. Poi capì che la Star Sentinel non si sarebbe fermata. Non accennava nemmeno a rallentare o a deviare la traiettoria. «Raggio respingente! Manovra evasiva!» ordinò con voce strozzata.

   Gli ufficiali eseguirono all’istante, ma era troppo tardi. Il raggio respingente ebbe un effetto minimo sul trasporto, più grosso della nave pattuglia e lanciato a tutta velocità. La manovra evasiva evitò che la navicella K’normian fosse investita in pieno. Ma una gondola di curvatura fu strappata via di netto, generando danni a cascata in tutta la nave.

   Sulla plancia, gli ufficiali furono scaraventati di lato e alcune consolle esplosero. Le luci vennero meno per qualche secondo. Quando si riaccesero erano rosse, in segno d’emergenza. Gli ufficiali si rialzarono, doloranti e sconvolti. Uno di loro si era slogato una spalla, un altro aveva battuto la testa e giaceva privo di sensi.

   «Brecce sullo scafo dal ponte 3 al 5!» avvertì l’addetto ai sensori, tenendosi la spalla. «Perdiamo atmosfera. I motori a impulso sono fuori uso. Dalla sala macchine ci avvertono che il nucleo di curvatura ha riportato danni. Il campo di contenimento sta cedendo!» avvertì, assalito dal terrore.

   «Espulsione del nucleo, ora!» ordinò il Capitano, riguadagnando la poltrona. Mentre la nave vibrava, vide sullo schermo il nucleo di curvatura espulso che si allontanava nello spazio. «Non guardate!» raccomandò, chiudendo gli occhi e girando la testa. L’attimo dopo il nucleo esplose con un bagliore accecante. Era ancora vicino: l’onda d’urto investì in pieno la navicella, danneggiandola ulteriormente. La plancia vibrò come se dovesse andare in pezzi.

   «Nuova breccia sul ponte 2» avvertì l’addetto ai sensori. «Comunicazioni e teletrasporto fuori uso. Inoltre... no! Non è possibile!» gemette. I suoi occhi si riempirono d’orrore, mentre ricontrollava i dati sulla consolle.

   «Che succede?» chiese il Capitano, con un senso di rovina imminente.

   «Siamo nel pozzo gravitazionale di K’normia e perdiamo quota» riferì il giovane ufficiale, tutto smorto. «Fra un quarto d’ora bruceremo nell’atmosfera».

   «Abbandonare la nave!» ordinò il Capitano, saltando in piedi.

   «Non si può» lo gelò l’ufficiale. «Tutte le capsule di salvataggio sono state compromesse dai danni allo scafo. Il teletrasporto è rotto e con le comunicazioni fuori uso non possiamo nemmeno chiedere aiuto. Se non ci mandano un’altra pattuglia in soccorso, siamo morti».

   Tutti gli sguardi si appuntarono sul Capitano, che si guardò attorno smarrito. I suoi ufficiali attendevano qualche trovata geniale per trarsi fuori dai guai, ma non gli veniva in mente nulla. I danni alla nave erano troppo gravi. E le pattuglie di quel tipo non disponevano di navette. «Abbiamo ancora i sensori?» chiese.

   «Affermativo».

   «Voglio sapere che fa la Star Sentinel».

   «Si è disposta su un’orbita bassa. Sta teletrasportando i Veridiani nello Spazioporto Centrale, intasandolo».

   «Se crea confusione, le altre pattuglie potrebbero non accorgersi di noi» mormorò il Primo Ufficiale.

   «Proiezioni sulla nostra traiettoria» disse però il Capitano. «In base alla nostra massa e all’angolo di caduta, dove precipiteremo?».

   «Elaboro» disse un ufficiale, inserendo i dati nel computer. I risultati lo afflissero ancora di più. «Finiremo in mare, a cento chilometri dalla costa. L’onda anomala colpirà il porto di Kor Kamor».

   «Estrapolazione dei danni» ordinò Gidaf.

   «L’onda sarà alta cinque o sei metri. Ci saranno danni alle infrastrutture. E vittime, se non si riesce a evacuare in tempo la costa».

   Un silenzio di tomba scese in plancia. Il Capitano rivolse lo sguardo allo schermo, dove la superficie verde-azzurra di K’normia si avvicinava sempre più. Stavano già entrando nell’atmosfera, lasciandosi dietro una scia di gas ionizzati. Gidaf era certo che nessuno, sulla Star Sentinel, avesse previsto quell’incredibile serie di sciagure quando avevano forzato il blocco. Ma il problema era proprio questo: non l’avevano previsto. Avevano agito d’istinto, senza curarsi delle conseguenze. E così facendo avevano causato un male peggiore di quello a cui cercavano di rimediare. Perché quando si è nello spazio, con navi da migliaia di tonnellate che sfrecciano a centinaia di km al secondo, basta un niente a provocare una tragedia. Ecco perché esistevano leggi e regolamenti. «Tempo d’impatto?» chiese il Capitano con voce rauca.

   «Siamo già nella ionosfera... fra cinque minuti bruceremo e fra dieci i resti dello scafo cadranno in mare» rispose un ufficiale.

   «Energia d’emergenza all’integrità strutturale» ordinò Gidaf. «Teniamo insieme la nave fino all’ultimo». In quel frangente il Capitano sentì di dover rivolgere qualche parola al resto della ciurma, perciò aprì un canale con tutti i ponti. «Capitano Gidaf a equipaggio. Come sapete, stiamo precipitando in modo incontrollato dopo la collisione col trasporto. Non voglio togliervi la speranza, ma... sarò sincero: le possibilità di salvezza sono minime. Preparatevi al peggio, col coraggio e l’onore della Guardia».

   Detto questo, il Capitano strinse i braccioli della poltroncina e guardò lo schermo. Il mare si avvicinava a velocità spaventosa. Lo scafo esterno stava diventando incandescente per l’attrito con l’atmosfera. In condizioni normali avrebbe retto, ma in quel momento c’erano molte brecce in cui l’aria s’incanalava, dilaniando la navicella dall’interno. Squillò un allarme. «Perdiamo integrità strutturale!» riferì l’addetto.

   «Siamo una stella cadente» mormorò il Capitano, assente. Stavano già perforando le nubi più alte, lasciandosi dietro una scia infuocata.

   D’un tratto la caduta rallentò. Gli ufficiali furono sbalzati in avanti dalla brusca frenata. Stavolta, però, si rialzarono pieni di speranza. La nave cigolava intorno a loro, le pareti si deformavano per lo sforzo cui erano sottoposte le leghe. Poco alla volta la velocità di caduta si ridusse, finché la navicella galleggiò nell’atmosfera. Alcuni frammenti staccatisi dallo scafo furono risucchiati verso l’alto dal raggio traente. Infine la nave pattuglia cominciò la lunga risalita che l’avrebbe riportata nello spazio.

   «Chi ci ha salvati?» chiese il Primo Ufficiale.

   «Nave sconosciuta» riferì l’addetto ai sensori, inquadrandola sullo schermo. Sulle prime la luce del sole impedì ai K’normian di vederla bene. Poi la nave salvatrice eclissò l’astro, divenendo visibile. Era uno strano vascello, dalla forma compatta e lo scafo corazzato, privo di finestre. Il Capitano si stava chiedendo a chi appartenesse, quando un raggio teletrasporto lo prelevò assieme ad alcuni suoi ufficiali.

   Gli K’normian si ricomposero su una pedana collocata direttamente in plancia. Era una strana plancia, asimmetrica e dall’aspetto avanzatissimo. L’equipaggio, assai eterogeneo, indossava le uniformi della Flotta Stellare.

   «Benvenuti a bordo. Non preoccupatevi per i vostri colleghi; li stiamo imbarcando» gli disse il Capitano della nave misteriosa, venendogli incontro. Era una donna Elaysiana, dai corti capelli biondi e la fronte solcata dal morbido segno a V tipico della sua specie. Non sembrava risentire della gravità standard, micidiale per il suo popolo.

   «Le siamo grati per il salvataggio» disse Gidaf, scendendo dalla pedana e guardandosi attorno un po’ intimorito. «Indossate le uniformi della Flotta, ma il vostro vascello è insolito. Posso sapere chi siete?».

   «Capitano Hod, dell’USS Keter».

 

   Entrando in plancia a inizio turno, il Capitano Hod si era subito accorta che qualcosa non andava nell’equipaggio. Il Comandante Radek e l’Ufficiale Tattico Norrin erano di poche parole come al solito, ma tra gli altri correvano occhiate e bisbigli.

   Il primo indizio dell’accaduto fu che Vrel e Zafreen, la più nota coppia di bordo, giunsero separati per prendere turno. Il primo fu Vrel, che marciò verso il timone senza degnare i colleghi di un saluto, all’opposto del suo solito temperamento cordiale. Di lì a poco anche Zafreen arrivò, per rilevare la postazione sensori e comunicazioni. L’Orioniana si era abbellita i fluenti capelli neri con meches rosso fiamma. All’opposto di Vrel, avvolto da un’aura cupa, lei salutò i colleghi con apparente allegria. S’intuiva però qualcosa d’innaturale nel suo atteggiamento. Era sopra le righe... più del solito. Il Capitano intuì che quei due avevano litigato, e di brutto. Probabilmente la loro storia era finita. Ora Vrel era così arrabbiato che parlava a monosillabi, mentre Zafreen metteva sale nella piaga: il suo look indicava che era già a caccia di un nuovo partner. Hod si augurò che la situazione non compromettesse la loro efficienza nel lavoro. Vrel era il miglior pilota di cui disponeva e anche Zafreen, a modo suo, era un buon elemento. «Come stanno le nostre amiche?» chiese il Capitano, per riportare l’attenzione di tutti sulla missione in corso.

   «Bene, loro» disse Vrel, inquadrando le Meduse Spaziali sullo schermo. Quelle creature, fra le più sorprendenti mai incontrate dalla Flotta, galleggiavano nello spazio a poca distanza dalla nave, tenendosi teneramente per un tentacolo. Si sapeva che erano intelligenti, ma comunicare con loro era difficilissimo.

   «Durante il turno di notte hanno reagito a qualcuno dei nostri segnali?» volle sapere Hod.

   «Negativo... abbiamo continuato a trasmettere, ma loro non rispondono» spiegò Zafreen.

   «Forse non hanno niente da dire» suggerì Vrel seccamente.

   «Eppure i nostri segnali sono molto chiari» ribatté l’Orioniana con sussiego. «Anche un sordo capirebbe che vogliamo comunicare».

   «Magari vogliono solo essere lasciate in pace» insisté il timoniere.

   «State ancora parlando delle Meduse?» chiese il Capitano, infastidita da quel continuo punzecchiarsi. «Perché vi avverto che non tollero battibecchi in plancia».

   «Va tutto bene, Capitano» sostenne Zafreen, poco convincente.

   «Hm-hm» grugnì Vrel, senza girarsi.

   Hod si stava già preparando a una giornata di bisticci e recriminazioni, quando dalla postazione sensori venne un segnale. «C’è agitazione su K’normia, a tre anni luce da qui» rilevò Zafreen. «Un trasporto sconosciuto si avvicina senza autorizzazione. Strano, sta trasmettendo a banda larga le sue telemetrie». L’Orioniana si portò la mano all’auricolare, per capire di che si trattava. «Postano la trasmissione sull’Olonet, sul sito del Federal News. Oh, no...» gemette, facendosi di un verde più pallido.

 

   Mentre la Keter sfrecciava a massima velocità verso K’normia, il Capitano Hod s’illuse ancora di poter fermare la Star Sentinel prima che sbarcasse i passeggeri. Ormai il danno era fatto, ma almeno avrebbero evitato le conseguenze più estreme dello shock culturale. Giunta nell’orbita, la Keter si apprestò a fermare il trasporto. Ma quando Zafreen rilevò la nave pattuglia che precipitava nell’atmosfera, fu chiaro che bisognava scegliere cosa fare: non c’era tempo per intervenire su entrambi i fronti.

   Hod scelse di salvare gli K’normian, anche se ciò significava dare alla Star Sentinel il tempo di completare lo sbarco. Vrel eseguì un perfetto tuffo nell’atmosfera, portando la Keter alla giusta distanza dalla navicella che precipitava. Il raggio traente funzionò a dovere e il teletrasporto trasse in salvo tutto l’equipaggio. Poi la Keter iniziò a risalire, tirandosi dietro il relitto, mentre il Capitano Gidaf si guardava attorno incuriosito. «Non sapevo che la Flotta avesse navi con questa configurazione» commentò. «Che classe è?».

   «È un prototipo sperimentale» spiegò il Comandante Radek. «Non siamo in vista come le altre navi. Ci teniamo in disparte, occupandoci delle missioni più riservate. Ma in questo caso dovevamo intervenire».

   «Siamo risaliti di altri cinquanta km» riferì Zafreen. «Il raggio traente tiene. A questa velocità parcheggeremo il relitto in orbita entro venti minuti».

   «Bene. Ora chiami la Star Sentinel» disse l’Elaysiana con aria truce. Risedette in poltrona, distendendo gli arti sui braccioli.

   «Qui Capitano Valora, che succede?» chiese l’Ekosiana, apparendo sullo schermo.

   «Succede che ci avete fatti precipitare!» inveì Gidaf, incapace di trattenersi. «Se non fosse stato per i soccorsi, saremmo morti!».

   «Davvero?» si meravigliò l’Ekosiana. «Non ce n’eravamo accorti... sono molto spiacente. Non volevamo danneggiarvi».

   «Ci avete speronati!» insisté Gidaf, il volto arrossato dall’ira.

   «Solo perché non vi siete tolti di mezzo» rispose Valora, impassibile. «Vi rendete conto che quest’incidente è solo colpa vostra? Eravamo nel mezzo di una missione umanitaria e voi ci avete ostacolati, mettendoci tutti in pericolo. Un comportamento davvero incivile e sconsiderato. Per fortuna siamo riusciti a salvare ugualmente i nostri passeggeri».

   «Ricevo chiamate d’emergenza dallo Spazioporto Centrale» avvertì Zafreen. «Ci sono disordini dovuti al fatto che la Star Sentinel ha teletrasportato centinaia di persone tutte assieme. Gli K’normian hanno inviato la polizia. Stanno cercando d’evacuare i propri civili, finché riusciranno a identificare e smistare i nuovi arrivati».

   «Dovreste istituire un protocollo per queste cose» disse Valora, fissando Gidaf con aria di rimprovero. «Non potete farvi sorprendere da una situazione normale».

   «Normale un corno!» ringhiò lo K’normian. «Lei e il suo equipaggio siete in arresto e la vostra nave sarà confiscata. Glielo dica, Capitano!» esclamò, cercando l’appoggio di Hod.

   «Siete in stato di fermo, finché la situazione non sarà chiarita» disse l’Elaysiana, più diplomatica.

   «Hanno violato la Prima Direttiva!» insisté Gidaf.

   «Non temiamo l’arresto» disse Valora con serenità. «Per ciascuno di noi che imprigionate, altre cento, mille persone saranno ispirate a seguire le nostre orme. E continueranno a salvare vite innocenti, in barba alle vostre leggi egoiste».

   «Uhm... voglio parlare coi giornalisti che avete a bordo» disse Hod.

   «Perché?» s’insospettì Valora.

   «Per sapere chi sono e se conoscevano le vostre intenzioni, ad esempio» rispose l’Elaysiana, sempre più cupa.

   «Voleva vedermi? Eccomi!» disse una giovane cronista, entrando nell’inquadratura. Aveva la pelle ambrata, capelli neri molto corti e occhi scuri. I lineamenti peculiari la indicavano come un misto di varie specie. «Sono Lyra Shil, del Federal News» annunciò con orgoglio.

   «Lyra?!» si sgomentò Vrel, riconoscendola dal primo istante. «Che diavolo ci fai qui?!».

   «Faccio il mio lavoro, fratellone. A proposito, mi concedi un’intervista?».

 

   Nei meandri dell’Ammasso Nero, dove poche astronavi osavano avventurarsi, un vascello stazionava in mezzo alle volute di gas interstellari. Lo scafo verde scuro era irto d’armi, specialmente a prua, sebbene le fiancate alte indicassero che aveva anche stive capienti. C’erano poche finestre e le gondole quantiche erano incassate nella struttura, per proteggerle nei combattimenti. La Gemma di Orione era una nave famigerata già quando apparteneva al Clan di Goutric, una delle famiglie più in vista del Sindacato criminale. Ma da quand’era caduta in mano al misterioso pirata detto lo Spettro, che l’aveva ribattezzata Stella del Polo, era divenuta una leggenda. In tutto il Quadrante Alfa si raccontavano storie sulla nave fantasma che sbucava dal nulla per colpire i Breen ed eludeva le pattuglie federali con mille astuzie. Si era conquistata una tale fama che i falsi avvistamenti si moltiplicavano, dando l’impressione che fosse ovunque e complicando ulteriormente il lavoro degli investigatori.

   D’un tratto tre incursori di classe Dal’Rok uscirono dalla cavitazione e sfrecciarono verso la nave, come velociraptor in corsa verso un tirannosauro. Entrando nel raggio delle sue armi trasmisero il segnale di riconoscimento della banda. La tensione si stemperò e gli incursori poterono disporsi in formazione attorno all’ammiraglia.

   Negli alloggi del Capitano, ancora arredati con lo sfarzo barbarico degli Orioniani, squillò un comunicatore. Lo Spettro, che riposava a letto, si svegliò all’istante. Era un Umano, alto di statura e forte di muscoli. Gli occhi grigi spiccavano sul volto vissuto. Allungò una mano sul comodino, premendo il comunicatore. «Che succede?» chiese, già lucido.

   «Gli incursori sono tornati, Capitano» rispose la voce rasposa del suo Primo Ufficiale, un Letheano di nome Graush.

   «Com’è andata?» chiese l’uomo, rivestendosi.

   «Tutto secondo i piani. Il sensore Breen è distrutto e l’asteroide-base è stato saccheggiato. I ragazzi hanno preso quattro casse di disgregatori e una ventina di mine spaziali, oltre a molte parti di ricambio. Hanno anche liberato un paio di prigionieri. Sono mercanti Boslic, dati per dispersi due mesi fa, sul confine».

   «Eccellente» disse lo Spettro. «Fa’ i complimenti ai ragazzi e lascia che facciano baldoria, se lo sono meritato. Domattina mi congratulerò di persona. Intanto sistemate il bottino nelle stive».

   «E riguardo i mercanti?».

   «Date loro un alloggio, ma fate che non lo lascino fino al mio ordine. Domani gli parlerò, per sapere se sono interessati a unirsi alla banda. Altrimenti potranno andarsene».

   «Bene, Capitano. Buonanotte».

   Elettrizzato dalle buone notizie, lo Spettro non poteva facilmente riprendere sonno. Così, invece di tornare a letto, si recò alla finestra e premette il comando per sollevare la paratia corazzata. La nebulosa violacea apparve dal basso verso l’alto, gettando una luce crepuscolare nella camera. L’uomo aguzzò la vista e riconobbe, in mezzo ai gas, uno dei suoi incursori in formazione. Sorrise fra sé. Erano lontani i tempi in cui comandava un pugno d’evasi, disperati e pronti a tutto. La sua banda si era allargata, diventando una flottiglia. Impadronirsi della Gemma era stato il colpo decisivo, ma da allora aveva messo le mani su alcuni incursori, che gli permettevano di elaborare strategie di più ampio respiro. Molti coloni che vivevano abbandonati sul confine, in condizioni miserevoli, esposti alle razzie, lo vedevano come un eroe. Un partigiano in lotta contro i Breen. O persino un rivoluzionario che si opponeva all’Unione corrotta. Molte più persone, nei sistemi centrali dell’Unione, lo consideravano un ladro e un terrorista.

   Lui personalmente odiava quest’ultima definizione, visto che si era sempre astenuto scrupolosamente dall’attaccare i civili. Che fosse un ladro, invece, non aveva problemi ad ammetterlo. Ma un ladro gentiluomo, visto che dava ai poveri una buona fetta dei suoi bottini. Non lo faceva solo per generosità. Era un modo per coltivarsi la simpatia dei coloni, indispensabile per ottenere informazioni, copertura e nuove reclute. Ma era anche qualcosa che lo differenziava dai volgari criminali. Nei suoi momenti più ottimisti, lo Spettro si considerava l’erede spirituale dei ribelli Maquis, che due secoli prima si erano opposti ai Cardassiani a pochi settori di distanza. In quelli peggiori, ricordava che alla fine i Maquis erano stati sterminati. Così anche lui si chiedeva per quanto sarebbe andato avanti prima che i Breen, i federali o gli Orioniani si prendessero la sua testa. Aveva già ottenuto molto più di quanto sperava quando si era lanciato in quella pazza avventura. Ma non erano la Stella del Polo, né i suoi bottini, il tesoro più prezioso che aveva trovato in quegli anni.

   Qualcuno si avvicinò alle spalle dello Spettro, con passo felpato. Solo i suoi sensi vigili gli fecero percepire il suono lievissimo. Tuttavia l’uomo non reagì. Restò girato verso la finestra, a osservare il suo incursore. L’attimo dopo sentì che qualcosa gli veniva puntato contro la schiena.

   «Sei in arresto, Jack Wolff» disse una vellutata voce femminile alle sue spalle. Una che conosceva molto bene.

   «Solo tu mi chiami col mio vero nome» notò Jack.

   «Sei stato così incauto da rivelarmelo» sussurrò Jaylah Chase, Agente Temporale della Keter.

   «Mi arrendo» disse l’uomo, alzando le mani. Senza la sua tuta corazzata da Spettro, non poteva sconfiggere l’agente geneticamente potenziata. «Che sarà di me?» le chiese.

   «Sconterai le tue malefatte, pirata».

   «Ho almeno diritto a un ultimo desiderio, sbirra?».

   «Concesso».

   «Vorrei che la tua licenza durasse più a lungo» disse Jack, girandosi lentamente. La fiera Agente Temporale gli stava davanti con indosso solo un succinto baby-doll azzurro. Scalza, coi capelli sciolti e gli occhi ardenti, aveva lasciato il giaciglio poco dopo di lui. Il dito che gli aveva premuto contro la schiena, per gioco, era ancora teso in avanti. Jack le prese la mano e se la portò delicatamente alle labbra, senza smettere di fissarla.

   «Lo vorrei tanto anch’io» disse Jaylah, con voce appassionata. «Ma è un brutto momento per la Flotta. La Presidente Rangda sta per cancellare la Prima Direttiva e nel frattempo concede l’impunità a tutti gli attivisti muniti d’astronave. Le violazioni non si contano più... quest’ultimo anno è stato un inferno. Se non venissi da te ogni tanto, uscirei di senno. Ma in questa situazione non posso chiedere più giorni».

   «Allora sfruttiamo al massimo quelli che abbiamo» suggerì Jack, cercando di baciarla sulle labbra.

   «Uh-uh» fece Jaylah, sfuggendogli con aria giocosa. «Prima devi darmi una cosa!».

   «Che cosa?».

   «Il tuo casco! Ho sempre desiderato indossarlo» spiegò la mezza Andoriana con un sorriso birichino. Accennò all’inquietante tuta a Occultamento Sfasato appesa alla parete, pronta per essere indossata. Con quello strumento, che gli era valso il soprannome, lo Spettro aveva compiuto le sue imprese più memorabili.

   «Non ho mai permesso a nessuno, oltre a me, di calzarlo» avvertì il pirata, notoriamente geloso della sua creazione. «Ma per te farò un’eccezione, dolcezza». Accostatosi alla tuta, ne sganciò il casco nero. «Attenta alle antenne» raccomandò mentre lo calava in testa all’amante, nascondendone il sorriso emozionato. Dopo di che attivò il Visore.

   «Wow, mica male!» commentò l’Agente, godendosi il sistema di realtà aumentata. C’erano funzioni per vedere attraverso gli oggetti, sfruttando le diverse frequenze d’onda. L’interfaccia del computer le dava informazioni extra sull’ambiente circostante e i suoi stessi segni vitali. Jaylah si guardò intorno con curiosità, passando alla visione a infrarossi e poi ai raggi X. Quando Jack rientrò nel suo campo visivo, ne vide lo scheletro biancastro. «Okay, ne ho abbastanza» disse, facendo il gesto di levarsi il casco.

   «Aspetta» disse il pirata. Le mani di Jaylah ricaddero, mentre lui le spegneva il Visore, lasciandola al buio.

   «Che fai?».

   «Ieri mi hai detto che ti stai esercitando nelle percezioni extrasensoriali. Vediamo come te la cavi. Prova a orientarti senza la vista» suggerì lo Spettro.

   «Non sono brava nella visione telepatica» si schermì Jaylah. «I miei avi Aenar potevano vedere al buio, ma io sono mezza Umana».

   «Provaci» insisté Jack. «Cerca di localizzarmi».

   «Ma sei qui davanti a me, ti sento!» rise Jaylah.

   «Allora dovrò confonderti un po’» rispose l’Umano. Le prese gentilmente le spalle e le fece capire che doveva girare su se stessa.

   Jaylah stette al gioco e girò come una trottola, finché Jack la lasciò andare e lei si trovò a barcollare in mezzo alla stanza, disorientata. La situazione era sempre più surreale. Eccola lì, in sottoveste e con gli occhi coperti, che annaspava come un’ubriaca, cercando di acchiappare lo Spettro! Pensando a quanto doveva apparire ridicola, scoppiò a ridere. «Dove sei? Ti prendo... ti prendo!» esclamò, scattando in avanti. Ottenne solo di colpire con lo stinco un piede del letto. Per un attimo vide le stelle. Poi rise ancor più a crepapelle. Non c’era niente da fare... solo con Jack si sentiva così bene.

   «Concentrati» la richiamò lui. «Scaccia i pensieri che ti distraggono e trovami».

   Jaylah accolse il suggerimento e si diede una calmata. Respirò a fondo, svuotando la mente, e ricorse alle sue facoltà telepatiche per farsi una mappa mentale della stanza. In realtà molto di ciò che “vedeva” era frutto della memoria e anche il resto era vago, come una nebbiolina. Poco alla volta, però, le parve di acquistare l’orientamento. Da una parte c’era il letto, dall’altra la scrivania col terminale del computer e una sedia. Appese alle pareti c’erano armi e trofei dei vecchi proprietari Orioniani. Aveva più difficoltà a individuare la finestra panoramica e l’armadio incassato nella parete, ma la posizione dei mobili le bastò per capire com’era orientata la stanza. A quel punto cercò di localizzare Jack. Percepì una sagoma umanoide addossata alla parete e le mosse contro, ma poi capì che era il resto della tuta da Spettro. Allora si fermò, cercando di percepire i pensieri di Jack. Non era facile: l’Umano aveva una notevole padronanza della sua mente. Ma non poteva schermarla del tutto. E i suoi sentimenti per lei erano così forti che alla fine lo smascherarono.

   «Eccoti!» esclamò Jaylah, girandosi fulminea. Afferrò Jack per un braccio, prima che potesse ritrarsi. «T’ho preso, furfante!».

   «Brava» disse Jack, levandole finalmente il casco. «Allora, com’è stato?».

   «Divertente» fece lei. «Ma ora che ti ho preso, devi esaudire un mio desiderio» avvertì.

   «Ah, è così che funziona la giustizia federale?» ridacchiò lo Spettro, rimettendo il casco al suo posto.

   «No, così funziono io». La mezza Andoriana si distese languidamente sul letto e lasciò che l’Umano le venisse accanto. «Vorrei che mi facessi quella cosa...» spiegò, indicandosi le sensibili antenne craniali.

   «Volentieri» ghignò Jack. Cominciò a massaggiarle le antenne, mandandola in estasi.

   «Mmmhhh... non sai quant’ho aspettato questo momento» gongolò Jaylah. «Quando c’erano rogne sulla nave, pensavo alle tue coccole».

   «Mi spiace che te la passi male sulla Keter» commentò lo Spettro. «Fare l’Agente Temporale era il tuo sogno».

   «Non sono pentita» spiegò la mezza Andoriana. «Certo è dura, ma i colleghi mi sono cari. E facciamo cose importanti, che altrimenti non farebbe nessun altro. Ma tutta la Flotta è in subbuglio, per colpa di Rangda. Ci toglie il personale, le risorse, il potere d’intervento e poi ci accusa di non fare il nostro lavoro. Intanto i mass media continuano a dipingerci come i cattivi. È avvilente, sai, vedere i civili che ci odiano perché indossiamo l’uniforme. E anche dopo che ci prodighiamo per loro... continuano a odiarci».

   «La gente spesso è ingrata» convenne Jack, continuando a massaggiarle le antenne. «Cerca di non pensarci».

   «Non riesco a pensare a niente, quando fai così» tubò Jaylah, mostrando di gradire il trattamento. Di lì a poco le sue antenne si raggomitolarono ed ella tremò da capo a piedi, lasciandosi sfuggire un sospiro.

 

   Se avessero detto a Jaylah, fresca d’Accademia, che qualche anno più tardi si sarebbe trovata in quella situazione, non ci avrebbe creduto. Già l’idea di una relazione clandestina non la sfiorava minimamente. Ma il fatto di amare un ricercato, che avrebbe dovuto arrestare, le sarebbe parso folle. Eppure... eccola lì. Quattro anni nello spazio profondo avevano ribaltato completamente la sua visione delle cose. Aveva imparato a vedere le molteplici sfumature di grigio della Galassia e se necessario a scendere a compromessi. Aveva scoperto che un avversario poteva essere onorevole e un alleato poteva ingannare. E che l’amore era difficilissimo da trovare, tra le stelle. Ora che finalmente l’aveva trovato, non voleva rinunciarvi. Aveva fatto grossi sacrifici per diventare Agente Temporale e rischiava spesso la vita in missione. Ma rinunciare all’amore... no. Quello non era disposta a farlo. Non dopo aver scoperto che Jack era ricercato con false accuse, che servivano a coprire gli sporchi traffici di Rangda. Non dopo aver liberato assieme a lui dei prigionieri federali che altrimenti sarebbero morti. Non dopo che il pirata le aveva salvato la vita.

   Certo, non era facile andare avanti a quel modo. Mentire ai suoi stessi amici e parenti. Accontentarsi d’incontri fugaci e sporadici. C’erano momenti in cui si sentiva umiliata da quella situazione. Momenti in cui il suo spirito gridava giustizia. Tuttavia, dopo due anni di relazione segreta, cominciava ad abituarsi. La sua vita era come sdoppiata. Da un lato c’era la figlia dell’Ammiraglio, l’Agente Temporale, l’ufficiale decorato della Flotta Stellare. Sempre efficiente, impeccabile e rispettosa dei regolamenti. Era tutto ciò che gli altri si aspettavano che fosse. Poi c’era la sua seconda vita, fatta di struggenti attese, di ardenti incontri, di dolci ricordi. In quei momenti era ciò che lei voleva. Si sentiva un’altra persona, libera da qualunque regola. Il brivido del pericolo, del proibito, rendeva tutto ancora più eccitante.

   «Con chi parlavi, prima?» chiese quando Jack le ebbe lasciato le antenne.

   «Graush. Mi ha avvertito che gli incursori sono tornati».

   «Che hanno fatto?».

   «Hanno distrutto un sensore Breen, costruito per localizzarci nell’Ammasso Nero. Incidentalmente poteva anche spiare le mosse della Flotta. Quindi ti ho fatto un favore» ammiccò il pirata.

   «Non ne sapevo niente».

   «L’ho scoperto per caso, poco tempo fa. Sulle prime pensavo di attaccarlo con la Stella del Polo, ma gli incursori sono più adatti a farsi strada fra gli asteroidi. È andata bene... hanno anche liberato un paio di prigionieri».

   «La Stella del Polo...» mormorò Jaylah, i cui pensieri erano sfilacciati dal relax. «Non mi hai mai detto perché hai ribattezzato così la nave».

   «Non lo immagini?» fece Jack, con un sorriso enigmatico.

   «No... dimmelo» insisté la mezza Andoriana, fissandolo incuriosita.

   «L’ho chiamata così in tuo onore» rivelò lo Spettro. «Tu sei sempre la mia stella polare. Ogni volta che sto per superare il limite, penso a te e ritrovo la pace» confessò, carezzandole la guancia.

   Jaylah sgranò gli occhi, commossa. Era il gesto più romantico che le fosse mai stato rivolto. «Anche a me accade qualcosa del genere» confessò. «Ogni volta che sto per arrendermi a un’ingiustizia, penso a te e trovo il modo di reagire». Si abbracciarono, scambiandosi un lungo bacio.

   «Uhm... forse è un bene vederci di rado» commentò Jack quando si staccarono. «Se io fossi un cittadino rispettabile e vivessimo insieme, prima o poi ci verremmo a noia. Così è molto più eccitante».

   Jaylah rise, ammettendo fra sé che c’era del vero. Subito dopo, però, si fece seria. «Jack, c’è una cosa che devo dirti» cominciò, levandosi una ciocca di capelli dal viso. «Hai in programma d’incontrare i ribelli di Lytasia, la settimana prossima?».

   «Sì, perché?».

   «Non farlo. È una trappola della Flotta Stellare. Ci saranno agenti appostati ovunque» avvertì Jaylah. Per un attimo fu acutamente consapevole di aver tradito la Flotta, rovinando un’operazione pianificata da settimane. Poi si rese conto che non gliene importava un accidente. Anzi, ora che l’aveva detto si sentiva meglio, come se si fosse tolta un peso dal cuore. Non voleva che ci fossero segreti fra loro, e Jack non doveva rischiare ancor più del dovuto.

   «Grazie» mormorò lo Spettro, sapendo quanto le costava rivelare quelle informazioni. «Vorrei ricambiare il favore... e penso di sapere come. Conosci la malavita di Izar?».

   «Non ci ho mai avuto a che fare».

   «Io sì. C’è una banda, detta la Luna di Sangue, che tra le altre cose traffica in emettitori tachionici. Non sono un esperto, ma credo che possano servire per viaggiare nel tempo».

   «Infatti!» si allarmò Jaylah, balzando in ginocchio sul letto. «Dimmi subito dove si nascondono». Come Agente Temporale, doveva sempre vigilare contro le proliferazioni incontrollate di quella tecnologia.

   «Sulla luna del pianeta, in una base sotterranea vicino al polo sud. Hanno anche dei magazzini su Izar, nella città di Shik-shik. Ti darò le coordinate precise, così farai pulizia».

   «Quelli che ti chiamano criminale dovrebbero sapere quanto aiuti la giustizia» sorrise la mezza Andoriana.

   «Meglio di no. Prometti di non dire a nessuno da chi hai avuto la soffiata» disse lo Spettro.

   «Prometto» sospirò l’Agente. Conosceva i motivi della richiesta. Jack aveva già abbastanza nemici: non poteva mettersi contro tutte le bande del Quadrante. Quanto a lei, i suoi superiori non dovevano sospettare minimamente che lo incontrava, o la sua carriera sarebbe finita. Il tribunale di Flotta l’avrebbe sbattuta in cella, probabilmente a vita, con l’accusa di alto tradimento. Sarebbe stata una rovina non solo per lei, ma anche per i suoi genitori, che avrebbero dovuto dimettersi.

   «Ti amo» disse il pirata, attirandola a sé.

   «Fai bene» rispose l’Agente, abbandonandosi all’abbraccio.

 

   Seduta alla scrivania del suo ufficio, il Capitano Hod leggeva stancamente i rapporti sulla situazione a K’normia. Non erano incoraggianti. Nei due giorni trascorsi dal loro arrivo, alcuni Veridiani avevano già fatto perdere le loro tracce e altri davano segni d’irrequietezza. Dagli interrogatori era emerso che avevano un’idea molto approssimativa di cosa fosse l’Unione. Ma non era solo colpa dello shock culturale. Ai Veridiani erano state date informazioni fuorvianti sulla natura e gli scopi dell’Unione, per incoraggiarli a partire. Intanto la società k’normiana si stava polarizzando tra chi voleva accoglierli e chi riteneva di doverli respingere. C’erano già cortei e manifestazioni in corso.

   Simili incidenti non erano rari, in quel periodo. Con l’approssimarsi del voto sull’abolizione della Prima Direttiva, l’Unione era entrata in una spirale di esasperazione politica. I mezzi d’informazione parlavano incessantemente dell’argomento. Le manifestazioni e i sit-in di protesta erano continui, specialmente davanti al palazzo del Senato e al Quartier Generale di Flotta. Anche le ambasciate dell’Unione sui vari pianeti erano assediate dai dimostranti. Molti attivisti ricorrevano a proteste eclatanti: scioperi della fame e della sete, incatenamenti davanti agli edifici pubblici, fino ai gesti più estremi di auto-immolazione. Di conseguenza la società federale si era spaccata in due. I pianeti, le città e persino le singole famiglie erano lacerate fra Abolizionisti e Conservatori. I gesti di violenza tra le due fazioni erano all’ordine del giorno. Anziché calmare gli animi, i politici spesso gettavano benzina sul fuoco con le loro dichiarazioni irruente. A rimetterci erano le forze di sicurezza, prima fra tutte la Flotta Stellare, che si trovava al centro del ciclone in quanto garante della Prima Direttiva.

   E le cose rischiavano di peggiorare ancora. Molti popoli potenti e orgogliosi come i Klingon, i Romulani e i Cardassiani, che erano stati a lungo nemici della Federazione, erano contrari ad abolire la Prima Direttiva. Fino a un paio di secoli prima non avevano leggi del genere, anzi non si facevano scrupolo ad assalire e depredare le specie meno progredite. Con il passare del tempo si erano mitigati, tanto che entrando nella nuova Unione Galattica avevano accettato di lasciare in pace i mondi pre-curvatura. Ma elargirgli tecnologie e aiuti gratis oltrepassava la loro disponibilità.

   Questo aveva portato a scontri durissimi in Senato. In un celebre alterco di poche settimane prima, l’ambasciatore Klingon aveva minacciato la secessione in caso di vittoria degli Abolizionisti. La risposta della Presidente Rangda era stata lapidaria: «Andatevene pure. L’Unione non è posto per gli egoisti». L’ambasciatore Klingon se n’era andato oltraggiato e molti altri l’avevano seguito. La Repubblica Romulana, l’Unione Cardassiana, l’Alleanza Ferengi e decine di altri governi avevano già intrapreso iniziative economiche di protesta. Era chiaro che, se la riforma fosse andata in porto, avrebbero optato per la secessione. Così l’Unione Galattica rischiava di frantumarsi, vanificando secoli di sforzi diplomatici. Per i vertici della Flotta Stellare, questo sarebbe stato un disastro. Ma la popolarità della Flotta era ai minimi storici, tanto che agli ufficiali era vietato rilasciare interviste, per non incendiare ancor più gli animi.

   Mentre rifletteva su questi problemi, il Capitano si accorse di avere le spalle molto curve. Quando le raddrizzò, i muscoli della schiena protestarono per lo sforzo. L’Elaysiana sospirò, massaggiandosi il collo. La sua specie, evolutasi su un piccolo planetoide, faticava a reggere la gravità standard delle navi federali. Pochi di loro lasciavano Elaysia, affidandosi a esoscheletri di sostegno o alla terapia genica. Avendo sperimentato l’impaccio dell’esoscheletro ai tempi dell’Accademia, Hod aveva optato per la terapia, che integrava con l’esercizio fisico. Era una frequentatrice assidua della palestra di bordo, ma i suoi mille impegni le impedivano di passarvi tutte le ore prescritte. A volte, quando la schiena e le gambe protestavano, il Capitano assumeva un antidolorifico. Ma sapeva che quella non era una soluzione; prima o poi avrebbe dovuto affrontare il problema.

   «Capitano, il leader dei Veridiani è qui» la informò Norrin dal comunicatore.

   «Lo faccia entrare» rispose Hod, disattivando l’oloschermo. Non appena l’Ufficiale Tattico introdusse il Veridiano nel suo ufficio, il Capitano Hod lasciò la scrivania e gli venne incontro, sforzandosi di tenere dritta la schiena. «Ben arrivato, governatore» lo accolse, usando il suo titolo. «Posso offrirle qualcosa da bere?».

   «Siete troppo buona, altezza... sono io che dovrei offrirvi un tributo» rispose il Veridiano, inchinandosi profondamente. Era un tipo sulla quarantina, dagli abiti appariscenti, anche se un po’ malmessi dopo le vicissitudini degli ultimi giorni. Attorno al collo portava un’ampia gorgiera bianca.

   «Si rialzi, la prego» disse Hod, imbarazzata. «E mi stia a sentire: io non sono una regina».

   «Come?!» si meravigliò il Veridiano, tornando dritto. «Ma... solo una sovrana può avere così tanti servitori e guardie. Per non parlare del suo vascello astrale» disse, guardandosi intorno.

   «Astronave» corresse Hod, accorgendosi che non sarebbe stata una trattativa facile. «Io sono soltanto un Capitano».

   «Un Capitano... donna?» fece il governatore, ancora più stupito.

   «Sì» sospirò Hod, imponendosi d’essere paziente. «Ascolti, so che gli eventi degli ultimi giorni sono stati traumatici per lei e la sua gente. La vostra città è stata incendiata, siete dovuti fuggire... e poi avete incontrato quelle persone che vi hanno prelevati...».

   «Sulle prime li credemmo angeli» annuì il Veridiano. «Apparvero dal nulla, con bagliori luminosi. Guarirono i feriti e curarono i malati, anche quelli in punto di morte. La febbre aveva colpito molti bambini... non vi dico la gioia delle madri, quando tornarono in salute».

   Hod distolse lo sguardo. Di tutte le ramificazioni della Prima Direttiva, quella era la più difficile da accettare. Se la Star Sentinel non fosse intervenuta, quei bambini sarebbero morti. Come si poteva biasimare l’intervento dei volontari? Non avrebbe dovuto ringraziarli, invece di punirli? Eppure... Hod sapeva che la strada dell’Inferno è lastricata di buone intenzioni. Nessuno sapeva come avrebbero reagito i Veridiani nella nuova realtà in cui erano stati catapultati. «Sono felice per voi» disse gentilmente. «Ma ora dobbiamo parlare del vostro futuro. Avrete notato che il nostro stile di vita è molto diverso dal vostro».

   «Completamente diverso» convenne il Veridiano. «Gli oggetti... gli abiti... anche i volti ci sono estranei». Così dicendo diede un’occhiata a Norrin. L’Hirogeno aveva una fisionomia molto aliena ai suoi occhi, tanto che il poveretto distolse lo sguardo e deglutì spaventato.

   «Non vi biasimo, se siete confusi» disse Hod. «Però devo farvi alcune domande. Cosa vi hanno detto, di preciso, i vostri soccorritori?».

   «Hanno parlato di altri mondi» rispose il governatore. «Pensavo si riferissero alle nuove terre scoperte di recente oltremare... invece sono mondi tra le stelle» disse, accennando alla finestra dell’ufficio, che mostrava il firmamento. In realtà era un ologramma, perché la Keter era avvolta da una corazza di neutronio.

   «Continui» lo esortò Hod.

   «Ci hanno detto che qui non esistono povertà, fame, malattie e guerre» proseguì il Veridiano. «È la verità?».

   «Sì e no» disse Hod. «Esistono pianeti incantevoli, ma ce ne sono molti altri disagiati. Ci sono ancora malattie e conflitti, anche se meno di un tempo. Non siamo riusciti a eliminare tutti i problemi, purtroppo». Sperò di non spaventare l’interlocutore, ma doveva assolutamente fargli capire che quello non era il Paradiso, né il paese di Cuccagna.

   «Oh» fece il governatore, deluso. «Ma avete molte più cose di noi!» insisté, guardandosi attorno. «La gloriosa Valora e i suoi aiutanti ci hanno assicurato che la vostra gente ci avrebbe accolti in pace. Non solo noi, ma anche gli abitanti delle altre contee. Non è così?» chiese con ansia.

   Hod provò un’infinita pena. Era doloroso distruggere le speranze di quell’uomo, ma doveva spiegargli che la situazione non era così semplice. «Ascolti... Valora e gli altri vi hanno fatto molte promesse. Il guaio è che non erano autorizzati. Abbiamo leggi anche noi, lo capisce? Una di queste leggi afferma che non dobbiamo contattare popoli come il vostro».

   «Come il nostro? Che intende?» si stupì il Veridiano. «Sulla vostra nave ci sono popoli diversissimi, ma indossano la stessa uniforme. Perché loro fanno parte dell’Unione e noi no? È un’ingiustizia!».

   «Si calmi» lo richiamò Norrin, che col procedere della discussione lo guardava con crescente diffidenza.

   «Forse è un’ingiustizia... ma dipende dalla realtà delle cose» si difese Hod. «Vede, in questo momento può sembrarle che abbiamo a disposizione infinite risorse. Ma non è così. Anche noi conosciamo dubbi, fatiche e pericoli. Anche noi invecchiamo e moriamo. Non siamo dèi, voglio che questo le sia chiaro. È vero, abbiamo più strumenti di voi, e quindi più possibilità d’intervento. Ma nessuno ci ha regalato la nostra tecnologia. L’abbiamo sviluppata con le nostre forze, lottando contro enormi difficoltà. Perciò i nostri governanti hanno stabilito che solo le civiltà capaci di fare altrettanto sono abbastanza... affidabili da entrare nell’Unione».

   Il governatore restò in silenzio, fissando sconfortato il pavimento. Infine chiese con voce rauca: «Che sarà di noi?».

   «Non ne sono sicura» ammise Hod. «Visto che ormai ci conoscete, può darsi che l’Unione vi trovi alloggio, su questo pianeta o altrove. Ma non autorizzerà altri trasferimenti, per ora».

   «Molti di noi sono stati separati dai propri cari, durante il saccheggio della città!» insorse il Veridiano. «Ci sono famiglie divise che sperano di ritrovarsi».

   «Questo è uno dei motivi per cui Valora non avrebbe dovuto prelevarvi» s’incupì Hod. «Forse vi ha salvati... ma vi ha anche condannati all’esilio. E come avrete capito, non sarà facile adattarvi. Molto di ciò che facciamo vi sconcerterà. Dovrete avere tanta pazienza... e imparare tante cose nuove».

   «C’è anche un’altra possibilità» disse Norrin. «Se i nostri medici capiranno come funziona esattamente il vostro cervello, potremmo togliervi la memoria di questi ultimi giorni e riportarvi a casa».

   «Toglierci la memoria?!» inorridì il governatore. «Non potete... non voglio!» gridò, sempre più agitato.

   «Si calmi; non lo faremo contro la vostra volontà» disse l’Hirogeno, trattenendolo.

   «Sono spiacente di deluderla... ma vede, questa è la situazione» disse Hod.

   «E quindi che dovrei dire ai miei cittadini?» chiese il Veridiano, quando Norrin l’ebbe lasciato.

   «Gli dica che, per il momento, sono al sicuro» rispose il Capitano. «Ma li prepari anche, con molto tatto, all’eventualità di un nuovo trasferimento e persino del rimpatrio».

   «Uhm... se il rimpatrio è l’unico modo di riunire le famiglie, lo prenderemo in considerazione» rimuginò il governatore, fissando il pavimento. «Ma la nostra città è stata distrutta, non ci resta niente. Se ci portaste lontano dal fronte, forse potremmo rifarci una vita. Purtroppo il nemico è spietato... le contee cadono una dopo l’altra. Presto non ci sarà un luogo sicuro in tutto il reame» disse cupo. D’un tratto rialzò il capo e fissò Hod con una strana luce negli occhi. «C’è un’altra soluzione. Potreste darci le armi per sconfiggere i nostri avversari!» suggerì.

   «Se lo levi dalla testa» ribatté il Capitano, fronteggiandolo. «Il divieto d’interferire nei vostri conflitti è ancora più tassativo, per noi».

   «Ma il regno di Mogar è implacabile! Un covo d’eretici e assassini!» esclamò il governatore, tornando ad agitarsi. «Se lo eliminassimo, il mondo sarebbe un posto migliore. I nostri morti sarebbero vendicati, i nostri figli crescerebbero in pace. E Tul’kar ne sarebbe assai compiaciuto».

   «Chi è Tul’kar?» volle sapere Hod. Aveva appena formulato la domanda che capì di aver commesso un grave errore.

   «Come sarebbe, chi è Tul’kar?!». Il Veridiano era impallidito. «Egli è il Signore dell’Universo, che ha creato in dodici giorni. I Mogariani dicono che ne ha impiegati tredici... per questa blasfemia andranno tutti all’Inferno».

   Hod e Norrin si scambiarono uno sguardo inorridito. La ragion d’essere della Prima Direttiva gli era di nuovo chiara.

   «Perché non avete riconosciuto il santo nome di Tul’kar?» s’insospettì il governatore. «Forse lo adorate con altri appellativi?».

   «Nell’Unione c’è ancora chi crede in una o più divinità» rispose cautamente Hod. «Ma ogni cultura ha sviluppato il proprio pensiero al riguardo, con testi e rituali assai diversi. Noi rispettiamo tutte le credenze, finché sono pacifiche. Come rispettiamo chi non crede. È una delle cose che dovete accetta...».

   «Infedeli!» gridò il governatore, colpendola con un manrovescio. L’Elaysiana, che non se l’aspettava, cadde all’indietro contro la scrivania. La colpì col fianco e da lì cascò a terra.

   «Non siete angeli... siete demoni che ci hanno rapiti! Miseri noi, che abbiamo messo in pericolo le nostre anime!» si disperò il Veridiano, sentendosi tradito.

   «Capitano!» gridò Norrin, sapendo quant’era fragile l’Elaysiana. Siccome il governatore non accennava a calmarsi, e c’era il rischio che la colpisse ancora, l’Ufficiale Tattico estrasse il phaser. Il Veridiano non capì nemmeno che era un’arma. In preda alla disperazione sollevò una sedia per la spalliera e gli si avventò contro, ma Norrin reagì sparando. Colpito a bruciapelo dal raggio stordente, il governatore si accasciò. La sedia che aveva sollevato, nel suo impeto di furia, gli ricadde addosso. Nell’ufficio tornò il silenzio, rotto solo dal respiro affannoso di Hod.

   «Stai bene?» chiese Norrin, inginocchiandosi accanto a lei. Si accorse subito che aveva una brutta cera.

   «Non ne sono sicura... ah!» strillò l’Elaysiana, cercando di rialzarsi. Il suo corpo ricadde e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Portami in infermeria... ma usa il teletrasporto, l’equipaggio non deve vedermi» disse, quasi singhiozzando.

   «Cos’hai?» s’inquietò Norrin.

   «Non riesco...» gemette il Capitano, asciugandosi le lacrime. «Non riesco a rialzarmi».

 

   Di lì a poco il Capitano era sul bio-letto, con il sensore semicilindrico chiuso sopra di lei per scansionarla. La dottoressa Ladya Mol le aveva dato un sedativo e ora scorreva i dati medici sulla consolle parietale. Il suo cipiglio non suggeriva nulla di buono.

   «Allora, cos’ha?» chiese Norrin, accostandosi.

   «Sai che mantengo il riserbo sulle condizioni dei pazienti» rispose Ladya, distogliendo appena lo sguardo.

   «Ti ricordo che sono l’Ufficiale Tattico. Se il Capitano è inabile al comando, devo sapere perché. E per quanto tempo» avvertì l’Hirogeno.

   Ladya gli dedicò finalmente la sua attenzione. Quando il lavoro non li ostacolava, c’era una profonda intesa fra loro due. L’anno prima, Norrin le aveva persino dichiarato il suo amore. La Vidiiana aveva declinato la proposta, ma era innegabile che da allora lo trattasse con più familiarità. «Il Capitano ha una frattura al bacino, provocata dall’urto con la scrivania e dalla successiva caduta» spiegò a bassa voce, per non svegliarla. «Naturalmente la rimetterò a posto, anche se le serviranno due giorni di convalescenza. Il problema vero è un altro» sospirò.

   «La terapia genica» comprese Norrin. «Il Capitano non ne parla mai e io non faccio domande. Ma ormai ho capito che c’è qualche problema. So che per te la riservatezza medico-paziente è essenziale, ma devo chiederti spiegazioni».

   La Vidiiana gli fece cenno di seguirla. Andarono nel suo ufficio, per parlare liberamente, lontano dal resto dello staff medico. «Il DNA degli Elaysiani è meraviglioso, a suo modo» spiegò la dottoressa. «Riesce ad auto-ripararsi, proteggendoli dalle malattie genetiche. Lo svantaggio è che la terapia genica, che le permette di sopportare la gravità standard, regredisce col tempo. Quindi devo ripeterla a intervalli regolari».

   «Questi intervalli stanno diventando più brevi?» fece Norrin. «Lo chiedo perché negli ultimi tempi la vedo sempre stanca, con le spalle curve».

   La Vidiiana annuì. «È una stanchezza cumulativa dell’organismo. Potrei aumentare ancora la frequenza dei trattamenti, ma non è consigliabile. Ci vuole un intervento più radicale, se vuol continuare a comandare questa nave. Non voglio scendere ulteriormente in dettagli. Ti dico solo che la soluzione c’è, ma è un intervento complesso, che richiederà un periodo di convalescenza. Sempre che voglia farlo».

   «Perché, che alternative ha?» chiese Norrin.

   «Tornare su Elaysia. E restarci per sempre» fu la risposta lapidaria.

 

   «Per sempre?» chiese Hod con un filo di voce, quando fu informata della situazione.

   «Suvvia, non faccia la sorpresa. Sapevamo che saremmo arrivate a questo punto» le ricordò pazientemente la dottoressa. «In questi anni ho monitorato le sue condizioni e ho condotto una ricerca approfondita sull’argomento. La soluzione che cerca è l’adattamento neuro-muscolare, messo a punto da Teros e Bashir nel XXIV secolo. Lo combinerò con una terapia ossea, per rafforzare il suo scheletro e proteggerla dalle fratture».

   «Quella non mi dispiacerebbe» ammise l’Elaysiana, che provava ancora un dolore sordo al bacino. «Ma l’adattamento neuro-muscolare è un intervento pesante. Tutte le altre soluzioni di cui abbiamo parlato in questi anni che fine hanno fatto?».

   «Analizzandole a fondo, ho compreso che le darebbero maggiori problemi» spiegò Ladya. «Se vuole le darò spiegazioni precise su ciascuna. Per adesso le dico che la mia proposta è la più praticabile. Ho anche contattato il Comando Medico di Flotta e la Rete Ospedaliera Elaysiana, che convalidano la mia valutazione. L’adattamento sarà stressante per il suo organismo e richiederà un mese di degenza, ma risolverà i suoi problemi una volta per tutte».

   «Un mese!» si lamentò il Capitano. «Interferirà coi miei doveri».

   «Il mio referto medico la giustificherà presso il Comando».

   «S-sì, ma...» balbettò Hod, visibilmente in ansia.

   «Teme il dolore? Non deve... la terapia è stata perfezionata negli ultimi tempi» la rassicurò Ladya. «Non avrà crampi, né spasmi muscolari. Nessun problema di coordinazione neuro-motoria».

   «Ma è un intervento definitivo» disse il Capitano a bassa voce.

   «Certo... non è quello che vuole? Quello che ha sognato per anni?» chiese la Vidiiana.

   «Sì» ammise Hod, con una strana tristezza. «E no. Significherebbe dire addio a Elaysia. Se tornassi sul mio pianeta, sarei così sbalestrata che non riuscirei a vivere normalmente. Romperei gli oggetti e ogni passo diventerebbe un salto. Non riuscirei nemmeno a pranzare coi miei parenti senza rendermi ridicola».

   «Sente nostalgia di casa?» domandò Ladya.

   «A volte» ammise il Capitano. «Altre volte penso che la mia casa ormai è la Keter».

   «La decisione spetta a lei, ma... posso darle un consiglio da amica?» chiese la dottoressa.

   «Certo».

   «Lei ha una brillante carriera nella Flotta. Se molla tutto, potrebbe pentirsene».

   «In realtà non dovrei neanche mollare» spiegò Hod. «Il mio governo è sempre in cerca di ufficiali di collegamento».

   «Ma perderebbe le stelle» insisté la Vidiiana.

   «Sì, le perderei» convenne l’Elaysiana, afflitta. «Ma vede... molti del mio popolo non vedono di buon occhio l’adattamento neuro-muscolare. Dicono che interventi così radicali ci rendono... non più Elaysiani. E la mia famiglia condivide questo pensiero» confessò. «Mia madre e mio fratello mi hanno sempre esortata a non farlo. Non so come la pensasse mio padre... quando morì ero troppo giovane per affrontare questo argomento».

   «Suo padre era ingegnere, vero?» chiese Ladya.

   «Sì, sull’Enterprise-J».

   «Doveva piacergli la Galassia. Non crede che avrebbe voluto vederla libera di esplorarla?».

   «Suppongo di sì» ammise Hod. «Lui però non ha fatto l’adattamento. Ha sempre indossato l’esoscheletro di sostegno».

   «E lei non vuole saperne?».

   «M’impacciava all’Accademia... oggi sarebbe troppo di ostacolo».

   «Beh, le opzioni sono queste» sospirò Ladya. «O torna su Elaysia, o indossa l’esoscheletro, oppure fa l’adattamento neuro-muscolare. Quello che non può fare più è la terapia genica. Ormai è chiaro che il suo DNA la rigetta. Insistere potrebbe scombinare il meccanismo di auto-riparazione, provocandole guai molto più seri».

   «Quanto tempo ho per decidere?».

   «Un mese al massimo. Dopo di che non potrà più reggere la nostra gravità».

   «Un mese» mormorò il Capitano, assente. «La ringrazio per la consulenza, dottoressa. Io... ci rifletterò a fondo».

 

   Era raro che gli ufficiali superiori si radunassero in sala tattica senza il Capitano. Ma erano stati informati dell’incidente, anche se c’era riserbo sui dettagli. Così fu Radek a presiedere la riunione. Il Comandante era reduce da un incontro con le autorità K’normian e il Capitano Valora. Il dibattito, tenutosi a porte chiuse nel palazzo del governo, era durato cinque ore. Al suo arrivo, il Rigeliano – solitamente calmo – aveva un diavolo per capello. «Scusate se ho tardato; la riunione è durata più del previsto» disse, sedendosi di malagrazia. «Notizie del Capitano?».

   «Ho curato la frattura, ora sta riposando. Ne avrà per due giorni» spiegò Ladya.

   «Uhm... beh, vi riferirò in sintesi la situazione» disse Radek, strofinandosi gli occhi assonnati. «I Veridiani resteranno su K’normia, ricevendo alloggi e istruzione. La Star Sentinel è sotto sequestro, ma i volontari dell’equipaggio sono già stati rilasciati. Compresa Valora, che tornerà sul suo pianeta per ritirare premi e medaglie. La sua fondazione sta ricevendo ricche donazioni da tutta l’Unione, che a suo dire le permetteranno di fare altri salvataggi. I suoi avvocati, inoltre, hanno chiesto cospicui risarcimenti per le presunte diffamazioni che ha subito in questi giorni dagli K’normian».

   «La giovanotta ha il senso degli affari» commentò Norrin.

   «E la Prima Direttiva non esiste più!» sbottò Vrel, di malumore.

   «Sembra di no» convenne Radek. «Sarà meglio abituarci... questo è il nuovo corso delle cose. Comunque non abbiamo più motivo di trattenerci qui».

   «Torniamo dalle Meduse?» chiese Zafreen.

   «No, di loro si occuperà una nave scientifica» spiegò il Comandante. «Noi abbiamo una nuova missione. I nostri Agenti Temporali devono indagare sui ritrovamenti anacronistici in un sito archeologico sulibano. Fatto questo torneremo su Plutone, per alcuni upgrade. È tutto, ci aggior... no, mi correggo, c’è un’ultima cosa» disse il Rigeliano. «Riguarda lei, signor Shil».

   «Me?» si stupì Vrel, che stava già facendo il gesto di alzarsi.

   «Sua sorella Lyra dovrebbe tornare sulla Terra, ma con tutti i problemi burocratici che hanno segnato questo incidente sembra che non possa prendere un normale trasporto. Così ha chiesto a noi di darle un passaggio. Per rispetto nei confronti dei vostri genitori, ho acconsentito» disse Radek in tono asciutto. «A lei, Vrel, chiedo solo di tenere d’occhio sua sorella, finché sarà a bordo. Non appartenendo alla Flotta, deve restare fuori dalle aree riservate. Se ne può occupare?».

   «Occuparmi di mia sorella è sempre stata un’impresa superiore alle mie forze» grugnì Vrel. «Ora che è giornalista, poi, sarà dura impedirle di ficcanasare. Soprattutto nelle ore in cui sono di servizio. E nelle ore notturne».

   «Non le chiedo una sorveglianza continua» precisò Radek, un po’ sorpreso da quel pessimismo. «Forse la cosa più opportuna è che parli con lei».

   «Come vuole, Comandante» disse il timoniere. Ai colleghi era evidente la sua irritazione, che travalicava il caso della Star Sentinel. Doveva esserci qualcosa d’irrisolto, tra lui e Lyra. Ma la Keter era costruita per missioni speciali e non aveva un Consigliere di bordo. Gli ufficiali dovevano risolvere da soli i loro guai.

 

   Entrando nel ponte ologrammi, Vrel fu investito da un’ondata d’aria torrida. Si trovò in una sauna, con una vasca d’acqua calda e alcuni lettini per i clienti. Di clienti ce n’era una sola, al momento. Se ne stava sdraiata a pancia in giù, con un asciugamano a coprirle la parte inferiore del corpo. Due omaccioni le massaggiavano la schiena con oli profumati, chinandosi ogni tanto per sussurrarle porcherie all’orecchio.

   «Ciao, sorellina. Vedo che i tuoi passatempi non sono cambiati» la salutò il timoniere, senza allegria.

   «Vrel! Non si bussa?» protestò Lyra, contrariata dall’intrusione.

   «Sei sul ponte ologrammi di una nave stellare, non in un centro benessere di Betazed» le ricordò il fratello, dandole le spalle per permetterle di rivestirsi.

   «Potevi aspettare che avessi finito».

   «No, non potevo. Sono stanco e voglio chiudere la giornata» spiegò Vrel.

   «E prima devi parlare con me?».

   «Sì».

   «Questo vagabondo ti sta infastidendo?» chiese uno degli omaccioni. Lui e il suo collega marciarono contro Vrel, rimboccandosi le maniche.

   «No, è mio fratel... ma che parlo a fare? Computer, elimina i personaggi» ordinò la mezza Xindi. I massaggiatori sparirono prima di agguantare Vrel. Lyra si alzò dal lettino e prese a rivestirsi. «Mi hai evitata per due giorni. Cos’è cambiato?» chiese.

   «Quando sei salita a bordo, il Comandante mi ha chiesto di farti il discorsetto sui posti in cui non puoi entrare».

   «“Non puoi” è un concetto relativo...».

   «Non su questa nave. Ci occupiamo di missioni altamente riservate. Neanch’io so tutto quel che accade a bordo. Quindi non deve saperlo nemmeno il resto della Galassia».

   «E la libertà d’informazione dove la metti?» protestò Lyra. «Puoi voltarti, ora» aggiunse, essendosi rivestita.

   «La libertà d’informazione non comprende svelare segreti militari. Abbiamo agenti in missione che morirebbero, se lo facessi» spiegò Vrel, girandosi finalmente a fronteggiarla.

   «Che hai?» chiese Lyra, urtata dal suo atteggiamento. «Non ti ho mai visto così scostante».

   «Scusa... non è un buon momento, per me. Io e Zafreen ci siamo lasciati» rivelò il mezzo Xindi, amareggiato.

   «Oh, mi dispiace!» fece Lyra, cambiando atteggiamento. «So quant’era importante, per te. Stavate insieme da tre anni... com’è successo?».

   «Ti basti sapere che per un’Orioniana è difficile restare fedele» bofonchiò Vrel, che non aveva voglia di discutere l’argomento, né con sua sorella, né con altri.

   «Non hai pensato a una relazione aperta?» suggerì Lyra.

   «No, la mia relazione la voglio chiusa!» sbottò Vrel. «Se arriva qualcuno che la apre – manco fosse roba sua! – io me ne tiro fuori. Comunque» disse, riacquistando il controllo, «resterai sulla Keter solo finché torneremo nel sistema solare. A quel punto potrai prendere una navetta per la Terra. Fino ad allora, fammi il favore di non sgattaiolare in giro. Niente foto, niente filmati. Se volevi vedere navi come questa, dovevi entrare nella Flotta».

   «È questo il punto, vero?» s’indignò Lyra. «Papà, mamma e ora anche tu... ce l’avete con me perché non mi sono arruolata. Ma non c’è scritto da nessuna parte che la nostra famiglia debba essere tutta di ufficiali. Sono adulta, ora, e faccio le mie scelte».

   «Io non ce l’ho con te per questo» si difese Vrel. «E sono certo che anche i nostri genitori non te ne fanno una colpa. Quel che mi preoccupa è l’ingenuità con cui ti sei buttata in questo mestiere».

   «Che intendi?».

   «Hai partecipato a quest’operazione illegale e pericolosa senza nemmeno avvertirci».

   «Se è illegale, è per colpa di una legge ingiusta» ribatté Lyra. «Quanto ai pericoli... tu ne corri molti di più».

   «Sono addestrato. E sono sempre circondato da colleghi addestrati» spiegò Vrel.

   «Mi credi incapace di difendermi?» s’inalberò Lyra. «Ti mostrerò che ti sbagli. Computer, arena di lotta libera!» ordinò. Il ponte ologrammi le fornì subito quanto ordinato. Anche la temperatura scese rapidamente, tornando alla normalità. Lyra si tolse le scarpe e andò al centro del tappetino, eseguendo alcuni esercizi di riscaldamento.

   «Ti prego, no!» protestò Vrel. «Ti ho detto che sono stanco».

   «Solo un paio di riprese, per mostrarti che so il fatto mio» insisté Lyra, tirando pugni nell’aria.

   «Ci sono problemi che non si risolvono a cazzotti» avvertì Vrel. Si tolse a sua volta le scarpe ed entrò cautamente nell’arena.

   Fratello e sorella si girarono intorno, studiandosi. Erano entrambi atletici e scattanti, oltre che esperti in vari stili di lotta. Vrel era innegabilmente più massiccio di corporatura, quindi più forte e più pesante, il che gli dava un vantaggio. Ma nella sua impazienza, Lyra non se ne curò. Vedendo che il fratello restava sulla difensiva, decise di attaccare. Eseguì una finta a destra e poi attaccò sulla sinistra. Ma il fratello non si fece ingannare. Ignorata la finta, respinse il vero attacco, impedendo a Lyra di agguantarlo. Fu invece lui ad afferrarla, scagliandola a terra. La mezza Xindi approfittò della spinta per fare una capriola e tornare prontamente in piedi.

   «Tsk-tsk» la rimproverò Vrel. «Dovrai fare meglio di così. Ricorda che io mi alleno con Jaylah».

   «Miss Perfettina!» rise Lyra. «É ancora uno spocchioso pezzo di ghiaccio?».

   «Ti sorprenderebbe sapere quant’è cambiata» mormorò Vrel.

   «Ma non è a bordo» notò Lyra. «Peccato... ero curiosa di vederla come Agente Temporale».

   «S’è presa una licenza» disse Vrel, tacendo i suoi timori sulla destinazione. «Ma se fosse qui, non si farebbe intervistare».

   «È questo che non mi piace della Flotta. Tutti questi segreti» disse Lyra, tornando all’attacco. «Siete così divisi in compartimenti che non sapete nemmeno cosa fanno i vostri colleghi. La Sezione 31, ad esempio... esiste ancora? Continua a manipolare le nostre sorti?».

   «Non lo so» rispose Vrel, indietreggiando per proteggersi dagli assalti. «Adesso voglio fartela io, qualche domanda. Che ci facevi sulla Star Sentinel?».

   «E me lo chiedi? Il mio lavoro!» esclamò Lyra, interrompendo l’attacco.

   «Il tuo lavoro è riferire i fatti con imparzialità. Quei “volontari” hanno trasferito una comunità pre-industriale con false promesse, hanno speronato la pattuglia che cercava di fermarli e hanno fatto passare il concetto che le leggi non contano niente. Ma tu, nel tuo servizio, ne hai fatto lodi sperticate, tacendo tutti i problemi. Hai persino nascosto le ragioni della guerra tra i Veridiani. Sono stati i tuoi capi a ordinarti un taglio così propagandistico o è una tua decisione?».

   «Non è propaganda. È rispetto per la vita delle persone» si difese Lyra. «Vedi, la differenza fra me e te è tutta qui. Per te i Veridiani sono solo dei numeri. Degli intrusi che ti hanno guastato la giornata. Per me sono persone con la mia stessa dignità e il mio stesso diritto a vivere liberi dalle persecuzioni».

   «Il mio Capitano è in infermeria con le ossa rotte, dopo averne incontrato uno» la informò Vrel. «A lei chi ci pensa?».

   «Un incidente isolato non intacca la bontà della causa» insisté Lyra. I due avevano smesso di allenarsi e si fronteggiavano arcigni. «Tu non c’eri, su Veridiano. I volontari sono stati coraggiosissimi a sbarcare in quelle condizioni. Si sono presi la responsabilità di salvare delle persone e l’hanno fatto, sobbarcandosi fatiche e pericoli, per pura generosità» affermò la giornalista.

   «La generosità degli altri» puntualizzò il timoniere.

   «Come sarebbe a dire?!».

   «Dico che è facile portare la gente su altri mondi e poi lasciare che siano quelli del posto a sbrigarsela» spiegò Vrel. «La carità è una gran cosa, ma non dovrebbe mai essere imposta agli altri, perché in quel caso si trasforma nel suo opposto: una costrizione. Il tuo idolo Valora ha costretto gli K’normian ad accogliere i Veridiani. Poi se n’è andata a ritirare premi, mentre gli K’normian restano qui a gestire la crisi. Secondo te questo significa “prendersi la responsabilità”? A me sembra più un fuggire dalle responsabilità».

   «L’importante è che quelle persone siano salve» ribadì Lyra. «E la loro presenza su K’normia non è una “crisi”. È solo una novità che qualunque governo decente saprebbe gestire».

   «Può darsi, ma è ingenuo credere di risolvere i guai di una popolazione trasferendola da un posto all’altro. Personalmente non ho nulla contro i Veridiani. Ma se hanno dei problemi sociali – come l’intolleranza – se li porteranno dietro nella nuova patria».

   «Cerchi solo di difendere la Prima Direttiva, una legge razzista fondata sulla paura nei confronti del diverso! Oltre che sul desiderio egoistico di mantenere il potere e la ricchezza nelle mani di pochi!» gridò Lyra, furiosa. «Beh, ho una notizia: alla Prima Direttiva non crede più nessuno, tranne qualche mummia della Flotta. E tu ci credi davvero? Credi che dovessimo lasciar morire quelle persone, compresi i bambini?!».

   Erano faccia a faccia. Lyra aveva il respiro affannoso, non per la stanchezza, ma per la rabbia e l’indignazione. Vrel invece era più calmo, anche se soffriva nel vedere l’immagine distorta che sua sorella aveva di lui. «Te l’ho già detto altre volte» rispose in tono controllato. «Se fosse per me, la Flotta contatterebbe le civiltà che inviano segnali radio nello spazio per cercare altre forme di vita. Quindi senza aspettare che inventino il motore a curvatura. Ma per chi è più indietro, come i Veridiani, c’è poco da fare. Non sono pronti a inserirsi nella nostra società, ed è folle rifiutarsi di vederlo».

   «Sai qual è la follia? Rifiutarsi di ammettere che lo faranno in ogni caso» ribatté Lyra. «Ci sono organizzazioni criminali, come il Sindacato di Orione, che sbarcano sui pianeti pre-curvatura e trasferiscono le persone nell’Unione, mettendole a rischio durante il viaggio o anche schiavizzandole all’arrivo. È un business così grande che ha superato persino lo spaccio di ketracel rosso come fonte d’introiti della malavita. E la tua amata Flotta non può farci un bel niente. Quindi: assodato che queste cose accadono illegalmente, non è meglio gestirle in modo legale e controllato? Se contattiamo i popoli pre-curvatura per primi, offrendo assistenza, eviteremo che cadano in mani poco raccomandabili».

   «E con chi dovremmo accordarci? I popoli di cui parli sono divisi al loro interno tra fazioni sempre in guerra, spesso per motivi religiosi» le ricordò Vrel. «Nel momento in cui s’impadroniscono di tecnologie avanzate, non hanno alcuno scrupolo a sterminare gli avversari. Questo è un pericolo non solo per loro, ma anche per noi, vista la facilità con cui ci giudicano “nemici” o “infedeli”. E il fatto che ci siano trasferimenti illegali non significa che dobbiamo arrenderci alla situazione, facendo lo stesso».

   «Su questo non la penseremo mai allo stesso modo» sospirò Lyra, sconfortata. «Comunque è una discussione inutile. La Presidente Rangda ha la maggioranza assoluta in Senato e la sua riforma è in dirittura d’arrivo, per cui è certo che abolirà la Prima Direttiva entro pochi mesi. Io sono convinta che sarà un enorme miglioramento per tutti. Tu invece la consideri una catastrofe. Possiamo solo sperare che abbia ragione io, non trovi?».

   «Ah, lo spero eccome!» disse Vrel con amarezza. «Ma sarei più tranquillo se in futuro ti tenessi alla larga da navi come la Star Sentinel».

   «Non posso accontentarti. È con servizi come questo che ci si costruisce la carriera» affermò Lyra in tono pratico.

   «La carriera, eh? Guarda un po’ che c’è, sotto il tuo idealismo!» sbottò Vrel, partendo all’attacco. I suoi colpi energici e veloci costrinsero Lyra a indietreggiare. «Solo perché sei scesa su un pianeta pensi di conoscere la Galassia. Non hai idea di che sta accadendo» l’accusò. «Rangda ha cercato più volte di ucciderci. Sta distruggendo la Flotta perché così non avrà più limiti al suo potere. Non le importa un accidente di aiutare i bisognosi. Sta solo sfruttando la situazione per guadagnare consensi e imporre la sua dittatura».

   «Sei pazzo!». Lyra parava disperatamente, ma era in difficoltà. Per quanto fosse in ottima forma, non aveva la forza di Vrel, né la sua esperienza di combattimento. Diede fondo a tutte le proprie capacità, ricorrendo anche a mosse scorrette nel disperato tentativo di vincere. A un certo punto colpì Vrel con un calcio in pieno viso. Fu un errore. Perso l’ultimo briciolo di pazienza, il fratello le bloccò le braccia dietro la schiena e la schiacciò rudemente sul tappetino, come avrebbe fatto con un malvivente.

   «Sai, è una tipica mossa degli Abolizionisti mirare ai parenti degli ufficiali di Flotta e portarli dalla propria» le sibilò all’orecchio. «Ci provarono anche con Jaylah, anni fa, ma lei non si fece abbindolare».

   «Ancora Jaylah!» ringhiò Lyra, facendo sforzi convulsi per liberarsi. «L’hai sempre preferita a me! Anche da bambini t’importava solo di lei, la ragazzina pallida con le antenne, e mai di tua sorella. Ora che siamo grandi, stravedi ancora per lei. Che c’è, ti brucia di non essere riuscito a scopartela?!» gridò, schiumante di rabbia.

   «Non ci ho mai provato» rivelò Vrel, lasciandola andare. «Siamo amici d’infanzia. Per me è come un’altra sorella. Ma sarà l’unica, se non ti levi questo veleno che hai in corpo» avvertì, dopo essersi rialzato.

   Lyra si massaggiò le braccia indolenzite, rimproverandosi per aver proposto una sfida che non era pronta a vincere. Poi si rialzò, fissando il fratello con odio. «Per quanto mi riguarda, lei è la tua unica sorella. Io ho chiuso con te. Ma i miei servizi di denuncia contro la Flotta sono appena cominciati!» minacciò. «Computer, fine programma!».

   L’arena di lotta si dissolse, rendendo visibile la griglia olografica che copriva pareti, soffitto e pavimento. La cronista del Federal News raccattò le scarpe e lasciò il salone senza voltarsi. Il timoniere della Keter restò solo, a rimuginare sui mali che gravavano sulla Flotta e sulla sua stessa famiglia.

 

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Capitolo 3
*** Verso l'abisso ***


-Capitolo 2: Verso l’abisso
 
   Chino su un analizzatore quantico, Juri Smirnov passava meticolosamente in rassegna alcuni resti metallici deformati. C’erano schegge, bulloni, ma anche pezzi di trave, questi ultimi così pesanti che gli serviva un carrello antigravitazionale per trasportarli. Provenivano tutti dallo stesso sito, un canyon sul mondo natale dei Sulibani. Man mano che li analizzava, Juri compilava delle schede descrittive. I detriti erano composti di tetraburnio, una lega artificiale usata da varie civiltà, e da iridio. Il mistero era cosa ci facessero in un livello di sedimenti vecchi di tre milioni di anni. Non potevano essere opera dei Sulibani, che all’epoca non si erano ancora evoluti. Forse li aveva lasciati qualche specie di passaggio, anche se all’epoca non erano molte a solcare lo spazio.
   «Uhm... ancora segni di liquefazione» mormorò Juri, osservando un reperto deformato. Si sfiorò il mento, chiedendosi che tipo d’energia avesse fuso quel metallo durissimo. L’Umano non era cambiato molto, con l’età: sempre alto e smilzo, un po’ pallido perché detestava lasciare l’astronave per andare in missione sul campo. Non aveva mai messo su famiglia, preferendo concentrarsi sul lavoro. Gli ufficiali della Keter lo conoscevano come un collaboratore affidabile, anche se riservato e spesso malinconico.
   «Dottor Smirnov, chiamata per lei dall’Università di Nuova Berlino» avvertì il computer, distraendolo dalla compilazione.
   Juri saltò su come una molla. «Arrivo!» esclamò, incespicando nel suo laboratorio perennemente in disordine. Come storico di bordo, esperto in manufatti anacronistici, l’Umano aveva sempre molto da fare. Il suo compito era esaminare i reperti archeologici più disparati, cercando tracce di contaminazione temporale. Quando le trovava, il lavoro passava agli Agenti. Ma essendo un civile, l’unico della Keter, aveva sempre pensato alla sua presenza lì come a un incarico temporaneo. Una volta calmate le polemiche che lo avevano colpito all’Università, in seguito alle sue dichiarazioni politicamente scorrette, sarebbe tornato a insegnare e a fare ricerca lì. Lo spazio, per quanto interessante, era troppo pericoloso per i suoi gusti. Così fu col cuore in gola che sedette alla sua scrivania e attivò l’oloschermo.
   «Incrociamo le dita, Svetta» mormorò, dando un’occhiata all’unica foto sul tavolo, raffigurante la sorellina.
   «Buongiorno, dottor Smirnov» esordì il rettore, un anziano Cairn dalle tempie spelacchiate.
   «Buongiorno a lei, rettore» rispose cortesemente Juri. «Sempre che sia giorno, da voi. Non ho controllato l’ora lunare».
   «Non c’è molta differenza, qui nel sottosuolo, ma grazie comunque» disse il Cairn. «Volevo dirle che il Consiglio Accademico ha raggiunto un verdetto, in merito alla sua richiesta di riavere l’incarico».
   «Posso sperare nell’esito positivo?» chiese Juri. Lo incoraggiava il fatto che il rettore gli avesse voluto parlare di persona, anziché delegare a un sottoposto o mandargli una circolare.
   «Temo di no» lo gelò il Cairn. «La sua richiesta è stata respinta. Ci tenevo a farglielo sapere di persona, in segno di stima per gli anni che ha trascorso qui».
   «Grazie del pensiero» mormorò Juri, vedendo il suo sogno di tranquillità tramutarsi in cenere. «Ma vorrei chiederle una cosa. Se ripetessi la richiesta l’anno prossimo, avrei maggiori speranze?».
   «In tutta franchezza, dottor Smirnov, devo dirle di no».
   Per Juri fu un altro brutto colpo. Aveva già passato molto più tempo del previsto su quella nave e non si aspettava di doverci restare ancora degli anni. «In tal caso, vorrei una spiegazione» disse. «Vede, mi sono tenuto in contatto con alcuni colleghi. Mi avevano detto che il mio rientro era praticamente cosa fatta. Perciò vorrei sapere cos’è cambiato. E soprattutto perché è così pessimista sulle mie prospettive».
   «La facoltà sta compiendo uno sforzo di modernizzazione» spiegò il rettore. «I corsi cambiano e il personale deve rispettare certe linee guida».
   «Le assicuro che mi sono tenuto aggiornato sulle scoperte inerenti il mio campo di ricerca».
   «Non si tratta dei contenuti, ma di chi li espone» spiegò il Cairn. «Il Ministero dell’Istruzione ci raccomanda la massima sensibilità sui temi dell’inclusione. Avere Umani nel corpo docente – Umani che valutano studenti di altre specie – dimostrerebbe che questa facoltà è ancora controllata da voi. Non possiamo permetterci un simile danno d’immagine».
   «Un Umano che insegna... sarebbe un danno d’immagine?!» protestò Juri.
   «Come le ho detto, di questi tempi è essenziale promuovere i valori della diversità» puntualizzò il rettore.
   «Quand’è che “diversità” e “inclusione” sono diventati sinonimi di “vietati gli Umani”?!» sbottò Juri, senza più nascondere la collera.
   «Non si alteri. È ingiusto, da parte sua, vederla in questo modo» ammonì il Cairn. «Noi non discriminiamo nessuno. C’impegniamo solo per il progresso sociale».
   «Ciò che voi chiamate “progresso”, io lo chiamo “sonno della ragione”» ribatté Juri, disgustato. «E i mostri che ha generato sono già fra noi».
   «Addio, dottor Smirnov. Le auguro una buona vita» disse il rettore, seccato, e chiuse la comunicazione.
   Per un attimo Juri fissò l’oloschermo vuoto, metabolizzando l’accaduto. Poi fece qualcosa d’insolito per lui: dette un pugno sulla scrivania. Si prese la testa fra le mani, respirando a fondo, nel tentativo di calmarsi. Quando si sentì nuovamente padrone di sé, guardò la foto di Svetlana. «Che mi diresti, se fossi qui?» chiese con amarezza, contemplando la sorellina. «Non molto, penso. È a causa di gente così che sei morta».
 
   Il Capitano Hod respirò a fondo mentre la porta del turboascensore si apriva, permettendole di entrare in plancia dopo due giorni d’assenza. In altre circostanze sarebbe stata lieta di rivedere i colleghi. Ma per come si erano messe le cose, temeva d’incrociare i loro sguardi. Non voleva leggervi la commiserazione.
   «Capitano sul ponte!» annunciò Radek, sempre ligio alle formalità. Tutti i volti si girarono verso il Capitano, che mosse in fretta verso la sua poltrona, senza guardare in faccia nessuno. La sottile gabbia dell’esoscheletro le avvolgeva il busto e le membra, aiutandola a sopportare la gravità. I filamenti metallici erano molto sottili, ma in ogni caso non passavano inosservati. All’Elaysiana pareva di avvertire il ronzio dei meccanismi, ma forse era una suggestione. La dottoressa Mol le aveva assicurato che l’esoscheletro era perfettamente silenzioso. Era un modello più sofisticato di quello indossato da suo padre tempo addietro, o di quello che lei stessa aveva usato all’Accademia. Non le impacciava quasi per nulla i movimenti. Tuttavia la sua sola presenza era un segno d’invalidità. Hod si era ripetuta che non c’era nulla di cui vergognarsi. La Flotta si era sempre impegnata per includere i meritevoli, superando gli ostacoli fisici. Ma per un Capitano, mostrarsi vulnerabile era più problematico che per qualunque altro membro dell’equipaggio.
   «Questo è solo un sostegno temporaneo» chiarì Hod, in tono distaccato. Non disse però con cosa lo avrebbe sostituito. L’adattamento neuro-muscolare la spaventava ancora, tanto che non aveva preso una decisione. L’idea di staccarsi completamente dal suo pianeta e dai suoi cari la faceva soffrire fin nel profondo. «Come la dottoressa Mol ha dichiarato, sono abile al comando. Rapporto sulla situazione».
   «Siamo in rotta verso Suliban, per una missione della Squadra Temporale» riferì il Comandante. «Abbiamo anche una passeggera, Lyra Shil. Per il resto nulla da segnalare. Tutte le sezioni operano in piena efficienza».
   «Bene» disse Hod, guardandosi intorno con la coda dell’occhio. Passato il primo attimo, tutti gli ufficiali erano tornati alle loro mansioni, senza più fissarla. Si chiese se i suoi timori erano esagerati, tanto da distorcere il suo giudizio. Forse poteva mantenere quel discreto esoscheletro di sostegno, senza controindicazioni.
   «I sensori rilevano una delle nostre navette in avvicinamento» avvertì Zafreen di lì a poco. «Jaylah è tornata».
 
   La navicella di classe Gryphon entrò nell’hangar della Keter, attraverso il campo di forza che tratteneva l’atmosfera. Si posò dolcemente accanto alle altre navette. I dati di volo del computer erano stati falsificati, per non far sapere fin dove si era spinta. Spenti i motori, il portello si aprì e l’Agente Temporale vi si stagliò in controluce.
   «Ehilà» la salutò Vrel, venendole incontro. «Com’è andata la licenza su Pacifica?».
   «Benone!» rispose Jaylah, scendendo con passo elastico. «Mi sono tuffata nel Mare d’Opale e ho ballato al Festival delle Tre Lune».
   Al timoniere non sfuggì che la sua amica era di ottimo umore. L’allegria le scintillava sul viso come di rado le aveva visto. Eppure lui provava un senso d’inquietudine. «Davvero, eh? Quindi hai passato lì tutte le vacanze?» indagò.
   «Sì, certo. Ti ho anche preso un souvenir» disse Jaylah, consegnandogli un disegno ad acquerello raffigurante una spiaggia. Lo aveva acquistato frettolosamente alla Base Spaziale 621, sulla via del ritorno.
   «Grazie, lo appenderò in camera» mormorò Vrel, sentendo il magone. Evitò di sondarle la mente, sia per rispetto, sia perché se ne sarebbe accorta, chiudendosi a riccio. «Sono lieto che te la sei passata. Invece qui le cose non vanno tanto bene» sospirò.
   Mentre andavano in sala mensa a mangiare un boccone, il timoniere l’aggiornò sugli ultimi eventi, dalla sua rottura con Zafreen all’incidente della Star Sentinel, con tutte le conseguenze. Jaylah s’indignò nell’udire l’infortunio del Capitano, ma s’interessò alla presenza di Lyra. «Ne approfitterò per salutarla» disse quando furono seduti. «È un’eternità che non la vedo».
   «Forse è meglio di no» l’avvertì Vrel. «Mia sorella ha sposato le tesi degli Abolizionisti. Il suo servizio sull’incidente non è molto obiettivo. Inoltre... temo di averci litigato».
   «Anche con lei? Mi dispiace... non puoi far pace?».
   «Non è così semplice» disse il timoniere, tormentando le polpette che aveva nel piatto. «Lyra è sempre stata ribelle. Avere entrambi i genitori nella Flotta – e poi anche me – le ha dato una crisi di rigetto. Quando nostra madre ha lasciato l’Enterprise ed è tornata su Nuova Xindus, speravo che facessero pace. Invece no. Ora che lavora per il Federal News, Lyra è uno di quei cronisti d’assalto che farebbero di tutto per uno scoop scandalistico. Quindi sta’ molto attenta, se la incontri. Se scoprisse che hai qualcosa da nascondere... qualcosa di compromettente... non esiterebbe un istante a divulgarlo».
   Gli occhi di Jaylah si strinsero. Per un istante Vrel percepì la sua paura, mista però a una collera gelida. «Grazie dell’avviso» disse la mezza Andoriana. «Ma vorrei capire. Oltre che con la Flotta, ce l’ha con me personalmente?».
   «È gelosa della nostra amicizia. Lo è sempre stata, ma è peggiorata con gli anni. Crede che io tenga più a te che a lei, che tu le abbia rubato il mio affetto e altre scemenze simili. Il pensiero che mi stiate a cuore entrambe non la sfiora nemmeno» sospirò il mezzo Xindi.
   «Dev’essere duro per te» mormorò Jaylah, posando la mano sulla sua. «Ma grazie per avermene parlato. Sei sempre il migliore» disse, prima di lasciare il tavolo.
 
   «Tenente Chase a rapporto» disse Jaylah, presentandosi nell’ufficio di Norrin.
   «Bentornata» l’accolse l’Hirogeno, alzando gli occhi dai rapporti che stava leggendo. «Ti trovo bene».
   «Grazie» rispose la mezza Andoriana. «Sono qui perché ho ricevuto una soffiata su una banda, la Luna di Sangue, che traffica in emettitori tachionici. Il tipo di cosa che riguarda la mia squadra».
   «Tachionici? Non c’è tempo da perdere» si allarmò Norrin. «Dimmi che hai le coordinate precise».
   «Eccole. I magazzini sono su Izar, mentre il covo vero e proprio si trova al polo sud della luna» riferì Jaylah, trascrivendo le coordinate che si era appuntata sul d-pad.
   «Ho sentito parlare di quei criminali; sono tra i più sanguinari del settore» commentò Norrin. «Sono anni che la polizia locale gli dà la caccia, ma nessuno era mai riuscito a stanarli. Servirà un’operazione in grande stile per acciuffarli tutti. Sempre che la tua soffiata sia attendibile» ammonì l’Hirogeno. «Chi è il tuo informatore?».
   «Conosci la mia politica: non rivelo mai le mie fonti» rispose Jaylah in tono professionale. Erano passati i tempi in cui, fresca d’Accademia, si faceva intimidire dall’Ufficiale Tattico. Adesso che comandava la Squadra Temporale, un reparto semi-autonomo, la sua autorità rasentava quella di Norrin. In operazioni come quella poteva permettersi di trattarlo alla pari.
   «Uhm... non l’avrai saputo dal tuo spettrale amico?» inquisì Norrin, fissandola con sguardo penetrante. L’Hirogeno non era un telepate, ma era molto abile nel riconoscere le menzogne dall’espressione e dai gesti.
   «L’informazione è attendibile» ripeté Jaylah, inespressiva. «Ora sta a noi sfruttarla, prima che si raffreddi».
   «Lo faremo... non si scherza con la tecnologia temporale» disse Norrin, premendo un comando per allertare la sua sezione. «Se sarà un successo, avrai un altro encomio. Complimenti... hai trovato un bel modo di fare carriera» aggiunse sarcastico.
 
   Entrata in sala ricreativa, Lyra adocchiò subito la persona che cercava. Zafreen sedeva davanti a una piccola folla, pizzicando un curioso strumento musicale. Era costituito da un cerchio metallico, munito d’impugnatura, con le corde disposte a raggiera all’interno. L’Orioniana indossava un elegante abito da sera e aveva i capelli striati di rosso. Oltre a suonare si accompagnava con la voce. L’esibizione era gradevole, anche se non eccelsa, per la sua tendenza a esagerare con gli acuti. A fine spettacolo ottenne comunque grandi applausi. Un Illyriano, in particolare, sembrava entusiasta. Era un Agente Temporale, come indicava l’uniforme che indossava anche in quel momento. Aveva i capelli neri, tirati all’indietro e raccolti in una corta coda. La sua fronte era solcata dal largo segno a V degli Illyriani, diverso da quello di altre specie. Notando i suoi ferventi applausi, Zafreen gli mandò un bacio a distanza.
   Poco alla volta la piccola folla si disperse; alcuni tornarono ai loro passatempi e altri lasciarono la stanza. Soddisfatta, l’Orioniana ripose il suo strumento in una sacca circolare semirigida. Stava per lasciare la sala ricreativa quando fu approcciata da Lyra.
   «Complimenti, il concerto era meraviglioso. Hai un talento naturale» esordì la mezza Xindi.
   «Grazie» sorrise Zafreen, confortata dal parere dell’ospite. «A volte temo di stonare nelle note alte».
   «Scherzi? Eri perfetta» mentì la cronista, per lusingarla. «Lascia che mi presenti: sono Lyra Shil. Mio fratello ti avrà parlato di me».
   «Sì, certo» annuì l’Orioniana, un po’ a disagio. «Ti ho vista sulla Star Sentinel e so che passerai qualche giorno a bordo».
   «Ah bene, allora sai già tutto» sorrise Lyra. «Ho sempre desiderato incontrarti. Nei suoi messaggi Vrel parlava continuamente di te. È un peccato che sia arrivata proprio ora che vi siete lasciati».
   «Doveva succedere, prima o poi» mormorò Zafreen, rabbuiandosi. «Però non voglio scordare i bei momenti. Spero che saremo ancora in buoni rapporti... quando gli sarà passata la rabbia».
   «Ma sì, conosci gli uomini» disse Lyra, invitandola a sedere accanto a lei su un divanetto. «Dagli un po’ di tempo e verrà da te strisciando. Intanto, però, potremmo parlare. Sono certa che abbiamo molto in comune».
   «Anche tu sei ricercata dal Sindacato di Orione?» chiese Zafreen, sarcastica.
   «Ah ah, no!» rise Lyra, con un pizzico di nervosismo. «È solo che sappiamo goderci la vita, mentre quelli attorno a noi sono così seri. Ed entrambe lavoriamo con le informazioni. Sai che il tuo lavoro m’incuriosisce molto? Di solito gli addetti alle comunicazioni sono messi in ombra dalle Intelligenze Artificiali. Ma qui sulla Keter l’IA non c’è. Significa che il tuo compito è molto più importante. Ti occupi anche dei sensori, vero?».
   «È così» confermò l’Orioniana.
   «Avrai un sacco di storie da raccontare!» fece Lyra, con sguardo bramoso. «Sui tuoi superiori... su Vrel... su Jaylah e la sua Squadra Temporale. Sai che, se vuoi far sentire la tua voce, io posso pubblicare un’intervista anonima? Nessuno dei tuoi colleghi potrà risalire a te».
   «Davvero? E ti aspetti che riveli qualcosa di scottante?» chiese Zafreen.
   «Puoi dirmi tutto quello che vuoi, cara. Ad esempio, cosa pensi della Prima Direttiva? E degli Accordi Temporali? Il pubblico adora questi argomenti. La tua testimonianza può aiutarlo a farsi un’opinione critica. È mai capitato che i tuoi colleghi violassero le direttive? O che ricevessero ordini ambigui dalla Flotta?» incalzò, protendendosi sempre più verso l’Orioniana.
   «Ti dirò volentieri una cosa che mi è capitata».
   «Sì, dimmi!».
   «Mi è capitato che una passeggera di questa nave cercasse d’ottenere informazioni da me, per danneggiare il suo stesso fratello» disse Zafreen con freddezza. «Forse sperava che, avendoci litigato, io volessi distruggerlo per vendetta. Ma non è così. Le vendette le lascio al Sindacato di Orione. Io rispetterò sempre Vrel, anche se non stiamo più insieme, perché è un brav’uomo. Meriterebbe una sorella migliore».
   «E il mio pubblico merita di sapere cosa si trama su questa nave!» sibilò Lyra, scattando in piedi. «Ma a quanto pare siete attaccati ai vostri segreti. Vedremo quanto andrete avanti, prima che l’opinione pubblica vi presenti il conto!». Ciò detto, la cronista voltò le spalle all’addetta ai sensori e lasciò in fretta la sala.
   «Ehi, tutto a posto?» chiese l’Illyriano che aveva applaudito il concerto, avvicinandosi a Zafreen. «Chi era quella furia?».
   «Lyra, la sorella di Vrel» spiegò stancamente l’Orioniana.
   «Cos’è, te l’ha mandata lui?» si accigliò l’Agente.
   «No, Hakon, niente di tutto questo» assicurò Zafreen. «È una giornalista. Mi ha fatto delle domande indiscrete e l’ho mandata via. Non c’entra niente col fatto che adesso sto con te» assicurò, dandogli un rapido bacio.
   «Meno male!» rise Hakon, ricambiando con trasporto. «Devo già sorbirmi l’ostilità del tuo ex fidanzato. A proposito... credi che dovrei parlargli? Perché è da quando ci ha sorpresi che mi scansa come la peste. Ma fra poco andrò in missione e dovrò pur parlare con lui, per questioni di lavoro. Quindi sarebbe meglio se prima ci chiarissimo».
   «No! Lascialo sbollire» raccomandò l’Orioniana. «Anche se è in parte Vulcaniano, Vrel è di profondi sentimenti. Non so come reagirebbe».
   «Beh, non mi salterà alla gola... vero?» chiese l’Illyriano, ma nel dir questo lasciò trapelare un pizzico di dubbio. Vedendo l’espressione di Zafreen, poi, il suo ottimismo scemò.
   «Magari non nel senso letterale. Ma ti consiglio di non provocarlo».
   «Non pensavo di... oh-oh, guarda chi c’è!» fece Hakon, accennando all’ingresso. Vrel era appena entrato in sala ricreativa. Mosse verso la zona dei giochi da tavolo, ma non appena vide l’ex fidanzata e il rivale si bloccò. Girò su se stesso e tornò da dov’era venuto.
   «Io gli parlo» fece Hakon, radunato il coraggio.
   «No!».
   «Nella mia cultura è considerato salutare» insisté l’Illyriano, dirigendosi alla porta.
   «Non se lui ti fa un occhio nero» mormorò Zafreen, ormai troppo lontana per farsi sentire.
 
   «Ehi, Vrel!» fece Hakon, inseguendo il timoniere nel corridoio. «Ehi, dico a te!».
   «Non abbiamo niente da dirci» mugugnò l’interessato, tirando dritto.
   «Andiamo, non fare il duro» insisté l’Illyriano, trottandogli a fianco. «Quel che è successo fra noi è stato increscioso, ma che ci vuoi fare? Siamo tutti adulti, quindi comportiamoci come tali. Zafreen ha fatto la sua scelta...».
   «Sì, ha scelto il bellimbusto appena trasferito da un’altra nave, fresco di promozione» si disse Vrel, ma lo tenne per sé. «Appunto. Lei ha scelto e tra noi è finita. Quel che combina adesso con te non è più affar mio» disse invece.
   «Quindi nessun rancore?» chiese Hakon, sempre tallonandolo.
   Vrel avrebbe tanto voluto scrollarsi di dosso il rivale, ma era giunto al turboascensore e dovette fermarsi, mentre aspettava. «Se sei preoccupato per le missioni che ci aspettano, hai la mia parola che non ti danneggerò per ripicca» promise.
   «Okay» fece l’Illyriano, riordinando le idee. Non era la conciliazione che sperava, ma era meglio di niente. «Sei un professionista, lo capisco. Ti stimo molto».
   «Hm-hm» fece Vrel. Attese impaziente finché la porta dell’ascensore si aprì. Dentro era vuoto, purtroppo. Il timoniere vi entrò e, come temeva, l’Agente gli venne dietro.
   «Sai, quando mi hanno assegnato alla Keter mi sono informato sulle vostre missioni. Ne avete viste di tutti i colori» notò Hakon. «Sono certo che ci aspettano molte sfide interessanti. Personalmente non sto nella pelle!» disse, sorridendo a trentadue denti.
   «Sapessi io» borbottò il timoniere, resistendo all’impulso di fargliene saltare via qualcuno. Anche se erano entrati nell’ascensore, si astenne dall’ordinare la destinazione al computer, perciò rimasero fermi.
   «Naturalmente tu hai più esperienza di me su questa nave. Quindi se volessi darmi qualche dritta...» fece l’Illyriano, con aria complice.
   «Te ne do volentieri una» disse inaspettatamente Vrel. Si avvicinò ad Hakon, ma la sua espressione e il tono di voce erano così poco rassicuranti che questi indietreggiò fino a uscire dal vano. «Quando ti porti a letto la fidanzata di un altro, e poi ti metti stabilmente con lei, preparati a essere scaricato nello stesso modo» avvertì il mezzo Xindi.
   Costretto a uscire dall’ascensore, Hakon deglutì, a disagio. Di solito aveva la lingua sciolta, ma stavolta temeva che ribattere gli avrebbe attirato uno sganassone. E a parte questo, il monito del timoniere era valido.
   Vedendo la sua esitazione, Vrel increspò appena le labbra. «Lunga vita e prosperità, se ti riesce» disse in tono caustico, alzando la mano nel tradizionale saluto vulcaniano. Subito dopo il turboascensore si richiuse, separandolo dal rivale.
   Hakon rimase solo, a riflettere su quel breve scambio di battute. «Fiuuu... niente male, come prima settimana a bordo» disse fra sé. Con le missioni che li attendevano, sapeva che le prossime sarebbero state ben più impegnative.
 
   «Non ci avrete, maledetti!» gridò Vul-Isar, leader della Luna di Sangue. Il Remano correva in un tunnel della sua base lunare, scortato da pochi scagnozzi. Ogni tanto i malviventi si voltavano a sparare un colpo contro i federali che li inseguivano. L’attacco era giunto inatteso, interrompendo il rito di affiliazione della banda, proprio mentre s’incideva il marchio sulle nuove reclute. Sfruttando le tute occultanti, i federali si erano infiltrati nella base, stordendo le guardie. Nell’attimo in cui si erano rivelati, anche la Keter era uscita dall’occultamento per disabilitare le difese esterne. La fortezza sotterranea tremava ogni volta che l’astronave distruggeva una torretta in superficie.
   «Lanciate gli incursori, presto!» ordinò Vul-Isar, tramite il comunicatore inserito nel bracciale.
   «Non si può!» rispose la voce angosciata di un sottoposto. «Gli sbirri hanno colpito l’hangar. Il tetto è crollato, trascinandosi dietro tonnellate di roccia. Gli incursori sono sepolti!».
   Il Remano ringhiò incollerito. «Resistete! Disturbate le comunicazioni dei federali e isolate le sezioni della base che hanno occupato. Uccidete quelli che si sono spinti più avanti».
   «Mio signore, sono troppi. Oltre ai federali ci sono i corpi speciali di Izar. È un esercito!» si disperò l’altro.
   «Tratteneteli il più possibile. Intanto evacuate la base tramite i condotti pneumatici» ordinò il capobanda. Lui stesso era diretto a uno di quei tunnel, dove lo aspettava una capsula ad alta velocità. Con quella avrebbe raggiunto i livelli sotterranei della città più vicina, dov’era facile far perdere le proprie tracce.
   Alcune guardie del corpo di Vul-Isar caddero, stordite dai federali. Il Remano vedeva assottigliarsi le sue difese. «Volete la mia base? Ci resterete!» ringhiò, sparando a piena potenza contro il soffitto. Con uno schianto assordante il permacemento franò e con esso la roccia soprastante. Alcuni inseguitori rimasero travolti dal crollo, così come i criminali che giacevano al suolo storditi. Il resto della squadra federale rimase separato dai fuggitivi. Gli Agenti indietreggiarono precipitosamente, tossendo nella nuvola di polvere.
   «Ci siamo quasi!» esclamò Vul-Isar, riconoscendo l’ultimo tratto della galleria. Vedeva già la luce della camera d’imbarco che brillava in fondo. Lì si aprivano una mezza dozzina di condotti pneumatici, ciascuno con la sua capsula ad alta velocità. Per fuggire aveva solo l’imbarazzo della scelta. Ancora pochi passi...
   In quella una mezza dozzina di droni volanti entrò nella galleria. Erano strumenti semplici, larghi una trentina di centimetri ed equipaggiati con un phaser anteriore. Non avevano scudi, ma erano così piccoli e scattanti che colpirli era molto difficile. Aprirono il fuoco contro i banditi, che trovandosi in un tunnel dritto e sgombro non avevano nulla dietro cui ripararsi. Non potevano nemmeno tornare indietro, ora che avevano fatto crollare il soffitto alle loro spalle. In pochi secondi furono tutti storditi. I droni restarono in volo sopra di loro, scansionandoli.
   «Via libera» disse Jaylah, avuta conferma che erano fuori combattimento. La mezza Andoriana si era appostata nella camera d’imbarco, assieme a due colleghi. Il primo era un androide di nome Adam, che aveva l’aspetto di un Umano dalla carnagione scura. L’altro era Hakon. I tre Agenti Temporali lasciarono il riparo e si accostarono ai banditi privi di sensi. Tenevano pronti i phaser, se qualcuno di loro avesse dato segno di riprendersi. «Sembra che abbiamo il capo» constatò Jaylah, soffermandosi sul Remano. «Confermare identità».
   «Corrispondenza somatica al 99%» riferì Adam, che aveva in memoria la banca dati della polizia.
   «Corrispondenza genetica confermata» disse Hakon, dopo averlo esaminato con il tricorder. «È lui».
   «Bene. Ammanettateli tutti» ordinò la caposquadra. Mentre gli Agenti eseguivano, lei rimase qualche passo indietro, con il phaser in pugno. Senza perdere di vista i malviventi, contattò una dopo l’altra le sue squadre, accertandosi che la retata procedesse secondo il piano. Infine chiamò la nave per fare rapporto. «Tenente Chase a Keter, l’attacco procede in nostro favore. Abbiamo chiuso le vie di fuga sotterranee e procediamo a domare le ultime sacche di resistenza. Vul-Isar è in mano nostra. Purtroppo abbiamo perso due operativi in un crollo e altri quattro nelle sparatorie. Come va lì da voi?».
   «Abbiamo ostruito l’hangar principale e stiamo eliminando le difese perimetrali» rispose Norrin.
   «Chiedo una squadra di rinforzo nel livello 5, sezione 8, dove si concentra il maggior numero di ostili».
   «Sta arrivando. Voi non fatevi sfuggire il capobanda» le ripose direttamente il Capitano Hod.
   «Più che un’operazione di polizia è una battaglia» pensò Jaylah. C’erano centinaia di persone coinvolte, da una parte e dall’altra. Il grosso dello scontro era lì sulla luna, ma in quel momento la polizia di Izar stava attaccando anche i magazzini sul pianeta. Il fatto che la Luna di Sangue avesse potuto costruirsi quella fortezza su una luna abitata era inquietante. Qualcuno doveva saperlo, eppure non una segnalazione era giunta alle forze dell’ordine. Cose del genere erano possibili solo per chi godeva di un forte radicamento nel territorio.
   «Ma che...» mugugnò Vul-Isar, iniziando a riprendersi. Si rese conto d’essere ammanettato, come i suoi scagnozzi. Gli effetti residui dello stordimento gl’impedirono di alzarsi del tutto, perciò rimase semi-accasciato. «Dannati federali!» ringhiò, guardandosi attorno come una belva in trappola.
   «Vul-Isar, la dichiaro in arresto per traffico illecito di tecnologia temporale. E per così tanti altri reati che se li elencassi staremmo qui fino a domani» disse Jaylah, fronteggiandolo. «Tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei. Ha diritto a un avvocato...».
   Il criminale le rise in faccia. «Arrivi tardi, tesoro. Ho già venduto parecchi emettitori tachionici. Come sai, sono l’ingrediente essenziale per viaggiare nel tempo. Chissà chi li sta usando, ora... forse qualcuno che ha un conto in sospeso con l’Unione».
   «Per questo ci darai la lista dei tuoi clienti» disse Jaylah, chinandosi su di lui con aria minacciosa.
   «Ti piacerebbe, eh?» sogghignò Vul-Isar. «Povera sciocca. Non immagini che vi aspetta, là fuori. Siete in rotta verso l’abisso e ancora brancolate nel buio!».
   Jaylah percepì la gioia maligna del Remano e ne fu spaventata. Quel criminale sapeva qualcosa che lo rendeva certo dell’imminente rovina dell’Unione. L’Agente ne percepiva l’emozione, ma sfortunatamente non capiva a quale minaccia si riferisse. «La Flotta può estrarti quest’informazione senza violare il regolamento» avvertì.
   «Non ne dubito» disse Vul-Isar, fissandola con odio. «Ma non avrete niente da cercare. Siete finiti... presto cadrete tutti nell’abisso!». Ciò detto fece un movimento strano con la testa. I suoi occhi ruotarono all’indietro ed egli si accasciò. Per un attimo fu scosso dalle convulsioni, poi giacque immobile.
   «Frell!» imprecò Hakon, impressionato dall’inatteso epilogo.
   «Il prigioniero è morto» confermò Adam dopo averlo sondato. «Una ghiandola nel cervello ha rilasciato una tossina letale».
   «Come fanno i Vorta» commentò Hakon. «Ma i Remani non hanno nulla del genere... dev’essersela fatta impiantare. Non è insolito, per queste bande fanatiche» commentò, osservando il cadavere. Poi alzò gli occhi sulla caposquadra. «Non s’incolpi della sua morte. L’ha voluto lui... nessuno di noi è responsabile» la confortò.
   «Sembrava sicuro del fatto suo» mormorò Jaylah, a disagio. «Sapeva qualcosa che noi ignoriamo e ha preferito morire piuttosto che rivelarcelo. Tenente Chase a tutta la squadra: raddoppiate gli sforzi per prendere vivi i malviventi. E assicuratevi il controllo di ogni computer, d-pad e appunto della base. Ci serve l’elenco dei loro clienti».
 
   Al suo ritorno sulla Keter, Jaylah fu subito convocata nell’ufficio del Capitano. «Le mie congratulazioni, Tenente» l’accolse Hod. «Grazie a lei abbiamo sgominato la Luna di Sangue. Quei dieci emettitori tachionici che avete requisito potevano fare disastri, nelle mani sbagliate. E poi c’è il resto della refurtiva. La polizia locale la sta ancora inventariando, ma dice che ci sono merci di almeno cinque settori».
   «Grazie» disse la mezza Andoriana. «Purtroppo anche stavolta abbiamo avuto vittime. Quattro poliziotti locali e due dei miei Agenti. Forse, se avessi elaborato un piano migliore...».
   «Il suo piano d’attacco l’ho avallato io» le ricordò Hod. «Andava bene, ma in scontri di queste proporzioni ci sono sempre vittime. Deve farci l’abitudine».
   «Sì, Capitano» mormorò Jaylah. «Resta il problema degli emettitori tachionici già venduti. Sono almeno otto e non abbiamo idea di dove siano finiti. Non sappiamo nemmeno quanti fossero gli acquirenti... anche se dall’atteggiamento di Vul-Isar credo fosse uno solo».
   «Ci terremo in contatto con la polizia locale, nel caso scoprisse qualcosa» promise Hod. «Ma se così non fosse, non si disperi, Jaylah» aggiunse in tono più familiare. «Avere un emettitore tachionico non significa costruire una macchina del tempo. È un ingrediente, certo... ma ne servono molti altri. E anche avendoli tutti, bisogna conoscere la ricetta».
   «Lo so, ma la proliferazione di tecnologia temporale è sconfortante» sospirò Jaylah. «Più passa il tempo, più aumentano le fazioni che ne dispongono. I miei genitori hanno ragione: prima o poi ci sarà una Guerra Temporale».
   «Su, su» la confortò il Capitano, accostandosi. «Non spetta a noi risolvere tutti i problemi della Galassia. Oggi abbiamo fatto il nostro dovere, ottenendo un grande successo. È il momento di festeggiare». Per un attimo vacillò, colta da un attacco di debolezza. L’esoscheletro rilevò immediatamente il problema e si regolò per compensare. La cosa non sfuggì a Jaylah.
   «Sta bene, Capitano?».
   «Sì... non è niente» minimizzò l’Elaysiana. «Vada pure». Quando Jaylah fu sulla soglia, però, la richiamò. «Sa, ho ricevuto un rapporto della Flotta riguardante lo Spettro. C’era una grossa operazione per acciuffarlo a un incontro su Lytasia, ma è fallita perché lui non si è presentato. Come se lo avessero avvertito».
   «Avrà avuto sentore della trappola. I criminali come lui hanno occhi e orecchie ovunque» disse Jaylah, impassibile come una sfinge.
   «Già, ovunque» confermò Hod, con un’occhiata penetrante. «Anche dove meno ce lo aspettiamo. Comunque prima o poi lo acciufferemo. Nel frattempo... continui pure a riferirci le soffiate di quel suo misterioso informatore. Ci sono molto utili».
   «Non mancherò» promise l’Agente, lasciando l’ufficio. Vrel, Norrin e ora il Capitano... tutti le avevano fatto capire che sapevano. O almeno sospettavano. Ma Jaylah era certa che non avessero prove per incastrarla. E come il Capitano aveva ammesso, non ne avevano neppure l’interesse. Quella strana collaborazione con Jack era troppo utile. Certo che, se il sospetto si fosse diffuso fuori dalla cerchia dei suoi amici, sarebbe stata la fine. Doveva stare ancora più attenta.
 
   Tornando nel suo alloggio al termine di quella lunga e faticosa giornata, Jaylah trovò Lyra ad attenderla sulla soglia. «Eccoti, finalmente! Ero preoccupata per te» disse la cronista, venendole incontro. L’abbracciò come se fosse la persona più cara che aveva. «Ho sentito della retata... ma che dico, è stata una battaglia. E tu eri laggiù. Hai rischiato molto?».
   «Pochissimo. Abbiamo mandato avanti i droni» spiegò la mezza Andoriana, districandosi dall’abbraccio.
   «Così è questo il lavoro di voi Agenti. Evitate la proliferazione di tecnologia temporale».
   «È una delle cose che facciamo» disse Jaylah, guardinga. «Vuoi entrare? Ti offro qualcosa» suggerì, visto che erano davanti alla porta. Era certa che Lyra l’avesse attesa lì proprio per questo motivo: avere una scusa per intrufolarsi.
   «Volentieri» sorrise la mezza Xindi. Seguì Jaylah nel suo alloggio, restando un po’ delusa nel trovarlo così normale. «Sei sempre ordinatissima» commentò, guardandosi attorno. «Però mi chiedo come fate, sulla Keter, a resistere senza finestre. Non vi viene la claustrofobia?».
   «Abbiamo gli ologrammi» rispose Jaylah, attivando un panorama stellare che copriva gran parte di una parete. «E abbiamo le missioni. Che cosa prendi?».
   «Uno slusho, grazie».
   Jaylah ne chiese due al replicatore. Dopo averne offerto uno a Lyra sedette con lei sul divanetto, sorseggiando appena la bevanda.
   «Le missioni, già. Tu e Vrel ne avrete fatte di belle» commentò la cronista.
   «Ne abbiamo passate di tutti i colori» disse Jaylah. «Sai, non è solo una mia impressione... negli ultimi anni c’è stata davvero un’escalation di crisi in tutta l’Unione. Ma tu lo saprai, visto che lavori al Federal News».
   «In effetti è così» ammise Lyra a bassa voce. «I miei colleghi inviati nei settori di frontiera hanno paura. Alcuni sono stati richiamati, perché la situazione si era fatta troppo pericolosa. Ci sono stati anche dei rapimenti... alcuni finiti molto male».
   «Mi spiace. Però tu non ti sei fatta intimidire» notò Jaylah. «Hai avuto fegato a salire sulla Star Sentinel. No, tranquilla... non ti faccio la ramanzina. Ci avranno già pensato i tuoi» disse in tono amichevole.
   «Grazie... è raro trovare una che mi capisce» disse Lyra nel suo tono più cordiale. «Sai, sono lieta che tu e Vrel vi troviate sulla stessa nave. Quante probabilità c’erano che accadesse?».
   «Davvero poche».
   «Beh, è stato un bene» insisté Lyra. «Così potete sostenervi a vicenda nei momenti difficili. Mio fratello, ad esempio, ne sta attraversando uno brutto. La rottura con Zafreen l’ha buttato giù».
   «Si riprenderà».
   «Oh, certo. Francamente... credo che l’Orioniana fosse un ripiego. Il suo vero interesse è sempre stato un altro».
   «Quale?» chiese Jaylah, scettica.
   «Non lo immagini?» chiese Lyra, scuotendo tristemente la testa. «Mio fratello stravede per te. Per questo si è sempre preoccupato tanto della tua sicurezza. Ma non ha mai osato farsi avanti... teme che un rifiuto possa fargli perdere anche la tua amicizia».
   «Ma davvero? Non l’avrei mai immaginato» commentò Jaylah. Era certa che fosse una menzogna. Conosceva Vrel così bene da escludere questa possibilità e non credeva che Lyra potesse prendere un tale abbaglio. «Grazie per avermi avvertita. Ma come l’hai capito?».
   «Eh, eh... spirito da reporter» sorrise Lyra, indicandosi la tempia. Bevve un’altra sorsata.
   «Lo stesso spirito che ti fa sgattaiolare su e giù per la nave?».
   «Come dici?» s’inquietò la cronista.
   «Al tuo arrivo eri stata pregata di non ficcanasare. Eppure in questi pochi giorni ti hanno beccata in sala macchine, in una mezza dozzina di laboratori e persino nel blocco detentivo». Jaylah parlava ancora in tono amichevole, ma si godeva l’espressione sempre più contrariata di Lyra. «Cos’è, hai chiesto un passaggio nella speranza di fare uno scoop? Sfruttando il tuo cognome per farti accogliere a bordo?».
   «Stai diventando davvero offensiva» disse Lyra, con aria ferita. «Volevo solo incontrare te e Vrel. Sono secoli che non ci vediamo».
   «Non dirlo a me» commentò l’Agente Temporale. «Per fortuna in questi anni ho allenato la mia mente. Riconosco i tentativi d’intrusione, anche se sono discreti come il tuo».
   «Che dici!» si scandalizzò Lyra. «Non ti leggerei mai i pensieri. Sarà un’impressione data dalla stanchezza; hai avuto una giornata pesante».
   «E tu colpisci quando gli avversari sono stanchi» notò Jaylah, alzandosi. «Ma per te ho sempre energia quanto basta, “cara”. Quindi non provare mai più a violare la mia mente, o ti concio per le feste».
   Lyra scattò in piedi, sentendosi accapponare la pelle. Durante la conversazione aveva provato a sondare la mente di Jaylah, in cerca di segreti scottanti, ma l’aveva trovata sigillata come uno scrigno. E malgrado tutte le sue precauzioni, la mezza Andoriana si era accorta del tentativo. Lyra sapeva che era una telepate in gamba, ma si accorse che le sue capacità, e soprattutto la sua disciplina, erano molto cresciute negli anni. Più di quanto fosse progredita lei. Uno scontro mentale sarebbe stato pericolosissimo. «Devo andare» mormorò, arretrando verso la porta.
   «So tutto».
   «Come?!».
   «Ho parlato con Vrel, quindi so della tua invidia contro di me» rivelò Jaylah. «Raccontandomi quella frottola dell’amore segreto, speravi che io lo tenessi a distanza. Così ti saresti fatta avanti, riprendendo il tuo ruolo di sorellina viziata. Beh, ho una notizia: Vrel non mi vizia, perché non siamo più bambini. Siamo ufficiali della Flotta abituati a guardarci le spalle. Io non te l’ho “portato via” e lui non mi “preferisce” a te. Certo, viviamo sulla stessa nave, mentre tu sei lontana. Però questo non è un complotto a tuo danno. È andata così e basta». Si avvicinò tanto da prendere il drink che Lyra teneva ancora in mano. «Quando avrai voglia di parlare sul serio, sai dove trovarmi» concluse.
   Accortasi d’essere stata congedata, Lyra uscì precipitosamente dall’alloggio, in preda a confusione e vergogna. Fino a quel momento i suoi desideri personali e gli obiettivi di carriera erano stati perfettamente allineati. Ma ora che non era più sicura di voler punire Vrel e Jaylah, sarebbe stato ancora più difficile realizzare ciò che doveva: un servizio che mostrasse le colpe della Flotta.
 
   «Signore e signori, questa è la vostra missione» disse Juri, indicando la pila di frammenti metallici anneriti e contorti che campeggiava in un angolo del suo laboratorio. Gli Agenti Temporali li osservarono con atteggiamenti fra il deluso e il divertito.
   «Quella spazzatura?» ridacchiò Hakon.
   «Materiale archeologico» corresse lo storico. «Viene da Suliban e ha tre milioni di anni. Non tutti i reperti che studio sono capolavori d’arte. Un Agente Temporale dovrebbe saperlo... mai lei è nuovo, mi pare. È la prima volta che la vedo a queste riunioni».
   «Sono stato trasferito di recente dalla Sicurezza ordinaria» confermò l’Illyriano, con falsa modestia.
   «In tal caso le svelo un segreto. Se vuol conoscere sul serio una civiltà scomparsa, i monumenti non bastano. È nell’immondizia che bisogna immergere le mani!» ridacchiò Juri, accennando a una parte del suo laboratorio piena di oggetti che sembravano venire proprio da una discarica.
   «Ehm, potremmo concentrarci sulla missione?» li richiamò Jaylah.
   «Certo» annuì Juri, pescando un bullone dal mucchio di ferraglia. «È quasi tutto tetraburnio, con tracce d’iridio. Ci sono resti di paratie e ponteggi. Quello che vedete qui è solo una piccola parte, il resto si trova ancora in sito. È la prova che tre milioni di anni fa una specie progredita visitò il pianeta, quando gli antenati dei Sulibani avevano appena cominciato a scheggiare selci».
   «Potrebbero essere antichi astronauti. Magari Proto-Umanoidi» suggerì Hakon.
   «Il materiale e le tecniche costruttive non coincidono con ciò che sappiamo della loro tecnologia» notò Juri. «Credo che qualcuno sia andato indietro nel tempo, per trafficare coi Sulibani».
   «Cioè coi loro antenati scimmioni» corresse Hakon, visibilmente scettico.
   «Non si sono limitati a spiarli» avvertì Juri, mostrando un altro frammento. Era annerito e deformato: sembrava rappreso dopo essere stato in parte liquefatto. «Servono armi ad alta energia per ridurre così il tetraburnio. O una formidabile esplosione. Molti dei frammenti più grandi, ancora in sito, mostrano una deformazione compatibile con un’esplosione all’interno dell’edificio».
   «Non può essere un caso. I Sulibani sono coinvolti nella Guerra Temporale» notò Jaylah. «Quindi ogni incongruenza storica che li riguarda merita un’indagine. Ma com’è il sito?».
   «Eccolo qui» disse Juri, tornando alla scrivania. Attivò il proiettore olografico, mostrando un’immagine dettagliata dell’area di scavo. Era un canyon ampio e profondo, in cui scorreva solo un rivolo d’acqua. Tutt’intorno si elevavano montagne coniche.
   «Quelli sono vulcani?» chiese Jaylah.
   «Sì; Suliban è geologicamente instabile» confermò Juri. Mostrò un ologramma del pianeta, brullo e desertico. C’erano poche masse d’acqua e pochissima vegetazione. Gran parte della superficie era giallastra, picchettata di scuro.
   «I movimenti convettivi del mantello creano frequenti terremoti ed eruzioni» proseguì lo storico. «Periodicamente si verificano eruzioni di super-vulcani che danneggiano l’ecosistema. L’ultima di esse, avvenuta oltre settecento anni fa, fu così grave che quasi tutti i Sulibani dovettero abbandonare il loro mondo, diventando nomadi. Solo di recente, grazie agli aiuti federali, molti di loro sono potuti rimpatriare. Hanno costruito nuovi insediamenti, o rioccupato quelli antichi, e stanno ripristinando l’ecosistema. Hanno anche iniziato a fare scavi archeologici; così hanno scoperto questi» concluse, accennando ai resti metallici.
   «Puoi datarli con precisione?» chiese Jaylah. «Tre milioni di anni sono tanti... quando andremo in missione non vorrei trovarmi ventimila anni prima del momento che c’interessa, o cinquemila dopo».
   «La traccia quantica mi ha permesso una datazione precisa» spiegò Juri. «Mal che vada, farete più tentativi».
   «Faremo» corresse Jaylah.
   «Come?!». Lo storico la fissò con occhi sgranati.
   «Mi hai sentito... stavolta verrai con noi, professore» sorrise l’Agente Temporale.
   «E perché, di grazia?» chiese Juri, contrariato.
   «Ogni volta che trovi un manufatto anacronistico, tu resti in questo laboratorio mentre noi andiamo in missione...».
   «Siete Agenti Temporali, è il vostro lavoro! Io invece non appartengo neanche alla Flotta!» si difese l’Umano. Non aveva detto a nessuno di aver cercato più volte di lasciare la Keter. Temeva che gli altri ci restassero male, interpretandolo come spregio nei loro confronti. Non era così. Juri aveva una buona opinione di quasi tutti gli ufficiali superiori. Ma era stanco di vivere su quell’astronave spartana, che andava sempre a cacciarsi nelle situazioni più pericolose. E poi stare su una nave temporale, senza poterla usare per salvare Svetlana, era un continuo rovello.
   «Ma sei uno storico, quindi t’interessa il passato» argomentò Jaylah. «Sai che darebbero i tuoi colleghi per avere la possibilità di viverlo in prima persona? Sei in una posizione straordinaria... ma non te ne avvali quasi mai! Non sei stanco di stare fra queste quattro pareti?» chiese, accennando al laboratorio ingombro di reperti.
   «Non immagini quanto» pensò Juri, che bramava di tornare sulla Luna o sulla Terra. «Qualche volta vi ho accompagnati sul campo» le ricordò, più diplomatico. «Ci sono sempre state più avversità del previsto».
   «Ma ce la siamo sempre cavata. E il tuo aiuto ci è stato prezioso» insisté Jaylah. Aveva notato che Juri sembrava depresso, ultimamente, e sperava che una missione lo tirasse su di morale. Per rispetto nei suoi riguardi, però, non gli aveva sondato la mente per capire esattamente quale fosse il problema.
   «Forse è meglio non insistere, Tenente» disse Hakon. «Il dottor Smirnov è uno studioso, non un uomo d’azione. Chissà cosa incontreremo, in quel remoto passato! Forse viaggiatori del tempo, forse antichi astronauti. Oppure chissà, scopriremo che la civiltà sulibana è molto più antica del previsto! Di qualunque cosa si tratti, è meglio che il professore stia qui al sicuro. Se troveremo altri enigmi, gli porteremo le olografie e qualche campione da analizzare».
   Juri alzò il capo di scatto, indispettito. L’Illyriano lo aveva accusato d’essere un pusillanime e a giudicare dai sorrisetti degli altri Agenti era un’opinione condivisa. Eppure, nei quattro anni sulla Keter, era già andato ben oltre il suo dovere! Vedere che, nonostante tutto, gli altri avevano un’opinione così scarsa di lui era umiliante.
   «Giusto» annuì Jaylah, cogliendo l’occasione per punzecchiarlo. «L’ultima frontiera non è per tutti. Ci sono altri modi per mostrare le proprie qualità».
   Lo storico passò lo sguardo dall’uno all’altra, seccato. Era evidente che quei due volevano farlo arrabbiare. Così lui avrebbe accettato di seguirli, per difendere il suo amor proprio. «No» si disse. «Sono abbastanza maturo da ingoiare il rospo». In quella, però, un nuovo pensiero lo colpì con forza. In effetti la permanenza sulla Keter gli offriva un vantaggio: poteva fare scoperte che gli altri storici federali manco si sognavano. Molte purtroppo non potevano essere divulgate, per via degli Accordi Temporali. Ma se fosse andato in missione più spesso, forse avrebbe trovato qualcosa di pubblicabile. Questo gli avrebbe dato più prestigio in ambito accademico. E con il prestigio fioccavano le offerte di cattedra...
   «Ripensandoci, un po’ d’aria potrebbe farmi bene» mormorò lo storico, fingendo d’essere caduto nel tranello degli Agenti. «E poi la storia sulibana è poco conosciuta. Potrebbe valerne la pena. Sempre che voi vigiliate sulla mia incolumità» raccomandò. Non voleva farsi ammazzare solo per scrivere un articolo.
   «Conti su di me, professore!» promise Hakon, sorridendo a trentadue denti mentre gli porgeva la mano. Juri gliela strinse solo per cortesia. Aveva la sensazione che l’Illyriano fosse tutto fumo e niente arrosto.
   «Allora, quando partiamo?» chiese Juri, sentendo già montare l’ansia.
   «La Keter è in rotta verso Suliban. Arriveremo domani» spiegò Jaylah.
   «Non perdiamo tempo, eh? Ma che bellezza» mormorò lo storico.
 
   Quel pomeriggio Juri passò in infermeria per farsi autorizzare a scendere sul campo. La dottoressa Mol fu stupita di vederlo. Sapeva che allo storico non piaceva l’infermeria e che in generale mal sopportava i dottori e le medicine. Ad esempio in sala mensa non si soffermava mai a parlare con lei o con altri del suo staff. La dottoressa ne ignorava il motivo, ma in mancanza di ragioni impellenti non gli aveva mai chiesto spiegazioni. «Dottor Smirnov! Era da tanto che non la vedevo qui» lo accolse.
   «Fortunatamente non ho avuto problemi di salute» rispose Juri, distaccato. «Ma domani sarò in missione con gli Agenti, quindi mi occorre la sua autorizzazione». Si guardò attorno a disagio. Sotto la direzione della Vidiiana, l’infermeria si era riempita di vaschette per la coltivazione di tessuti e organi, da impiantare in caso di necessità. Era uno spettacolo che lo faceva rabbrividire. Ogni volta che entrava lì, la sua memoria andava a un certo ospedale sulla Luna. Un posto in cui i medici, anziché dargli fiducia e speranza, gliele avevano tolte.
   «Per autorizzarla, prima la devo visitare» disse Ladya. «Prego, si sieda».
   Juri si accomodò di malavoglia su un lettino, lasciando che la dottoressa lo sondasse con vari strumenti. Come temeva, gli rivolse un sacco di domande sulle sue abitudini: cosa mangiava, quanto moto faceva, come gestiva lo stress. Lo storico fornì risposte brevi, a volte condite con sarcasmo. Come si aspettava, ricevette un sacco di rimproveri per le sue abitudini alimentari e per il poco moto. Non che fosse sovrappeso, anzi era piuttosto magro. Ma era dura seguire uno stile di vita che soddisfacesse un medico della Flotta, abituato a seguire ufficiali al massimo della forma.
   «Insomma, sono idoneo?» chiese a un certo punto lo storico, stanco della ramanzina.
   «Sì» rispose Ladya. «Lasci solo che la vaccini contro i patogeni sulibani».
   «Hm-hm» fece Juri.
   La dottoressa si recò a un armadietto, dandogli le spalle mentre preparava l’ipospray. Intanto Juri si perse a osservare un cuore che pulsava nel suo bagno di sostanze nutritive. Aveva otto camere... chissà a che specie apparteneva. Forse era ktariano, si disse lo storico.
   «Sono lieta di poterle parlare» disse Ladya. «Ne approfitto per sottoporle una questione che mi sta molto a cuore».
   «Sarebbe?» chiese l’Umano, girandosi di nuovo verso di lei. Così facendo si trovò di fronte un’immagine sconvolgente. La dottoressa gli dava ancora le spalle, trafficando con l’ipospray, ma la sua testa era girata di 180º, come quella di una civetta, per fissarlo.
   «ARGH!» gridò lo storico, cadendo giù dal lettino. Rotolò a terra, si rialzò e subito si nascose dietro quel dubbio rifugio. «Dottoressa, che le è successo?! Ha il Torcicollo K’normiano, oppure è posseduta da un Pah-wraith?!».
   «Niente di tutto questo, glielo garantisco» disse Ladya, girandosi anche con il corpo. «Noi Vidiiani abbiamo tre vertebre in più rispetto alla maggior parte degli umanoidi. Significa che possiamo guardarci dietro le spalle senza risentirne. Quando siamo in salute, s’intende. Al tempo della Phagia le articolazioni erano le prime a risentirne e questo c’irrigidiva».
   «Ehm, scusi la mia reazione» disse Juri, alzandosi. «Per un attimo ho temuto che Kosst Amojan il Maligno ci avesse di nuovo invasi» disse, riferendosi a una delle missioni paranormali della Keter. Sedette di nuovo sul lettino, permettendo a Ladya di fargli l’iniezione. «Allora, di che voleva parlarmi?» chiese poi.
   «Ecco, lei è tra i pochi, a bordo, a non avere la tessera di donatore d’organi» spiegò la Vidiiana. «Sa che è un gesto molto nobile per la collettività...».
   «Pensa che mi farò ammazzare a breve?» chiese Juri, massaggiandosi la spalla un po’ indolenzita.
   «Certo che no!» rispose Ladya, urtata da quella reazione. «Non si tratta solo di donare organi in caso di morte prematura. Il tesseramento comporta la disponibilità a donare cellule e tessuti, una pratica che non compromette in alcun modo la salute, ma che può fare la differenza per gli altri».
   «Beh, forse io non voglio fare la differenza!» sbottò Juri, oppresso dai ricordi dolorosi. «Forse voglio solo essere lasciato in pace».
   «La prego di non aversene a male» disse Ladya, sempre più turbata. «Non voglio costringerla a fare nulla contro la sua volontà. Le suggerivo solo un gesto di solidarietà sociale...».
   «Non devo niente alla società» rispose duramente Juri, avviandosi all’uscita. «Quando ti chiede qualcosa, la società ti sta col fiato sul collo. Ma quando sei tu a farle una richiesta... chi la vede più!». Con queste parole l’Umano abbandonò l’infermeria.
 
   Attorniato dagli Agenti Temporali, Juri si faceva strada nella base aliena. Finora era andato tutto bene: la Keter aveva raggiunto Suliban ed era andata indietro nel tempo, centrando l’epoca corretta al primo tentativo. Il sito era proprio come gli archeologi l’avevano ricostruito. L’installazione sorgeva su entrambe le sponde del canyon, all’epoca una stretta valle, così che la sua parte centrale era sospesa nel vuoto. L’esatta funzione dell’impianto rimaneva però un mistero, anche perché non c’era traccia dei costruttori.
   «Questo posto sembra abbandonato» commentò Juri, dirigendo attorno a sé il fascio luminoso della torcia. «Forse siamo arrivati troppo tardi. Se andiamo indietro ancora di qualche anno, magari riusciremo a beccare gli artefici».
   «Intanto che siamo qui, cerchiamo di capirci qualcosa» obiettò Jaylah. «Tenete gli occhi aperti. Se vedete un computer o una semplice iscrizione, ditelo».
   «Dite anche se vedete qualche trappola» aggiunse Juri, che camminava un passo indietro rispetto agli altri. In quel momento percorrevano un lungo corridoio, privo di contrassegni. Sui lati c’erano delle porte chiuse. Se avessero deciso di proseguire l’esplorazione avrebbero cercato di aprirle, ma per il momento tirarono dritto. Finalmente sbucarono in un vasto salone avvolto nelle ombre. Diressero in avanti i fasci delle torce, illuminando la parete opposta: era coperta di fitti simboli.
   «Ah, delle iscrizioni» si rallegrò Juri. «Finalmente avremo qualche risposta. Sempre che la mia matrice di traduzione riesca a decifrarle» aggiunse, attivando il programma sul suo d-pad. «Avviciniamoci».
   Trascinato dall’emozione, lo storico si portò in testa al gruppo. Stava per metter piede nel salone, quando colse un movimento in basso. Qualcosa strisciava sul pavimento... qualcosa di sinistramente sibilante. Juri si bloccò a metà del passo, con la gamba sollevata, e abbassò la torcia. Ciò che vide lo fece rabbrividire da capo a piedi. Il pavimento brulicava di serpenti. Centinaia... no, migliaia di grossi serpenti, nerastri o verde scuro. Strisciavano uno sull’altro, così fitti da lasciare poche chiazze di pavimento sgombro.
   «Orrore!» rantolò Juri, ritraendosi precipitosamente. Gli Agenti Temporali invece restarono calmi. Uno di loro, l’Illyriano di nome Hakon, esaminò i rettili col tricorder. Per farlo dovette avvicinarsi, ma nessuno dei serpenti gli mosse contro. Restarono tutti nel salone, come se fosse la loro tana.
   «Non si preoccupi, professore» disse Hakon. «Questi rettili sono innocui. Sono una specie nativa del pianeta. Non possiedono veleno e mangiano solo piccoli animaletti. Non sono una minaccia per noi».
   «Forse si sono radunati qui per proteggersi dal freddo» ipotizzò Adam, l’androide.
   «Beh, dovremo farli sloggiare, se vogliamo leggere quelle iscrizioni» commentò Juri.
   «Non serve» disse Jaylah, tranquillissima. «Hai sentito l’Agente? Questi rettili sono innocui. Basterà non calpestarli, per non metterli in agitazione».
   «E chi è il volontario che farà questa passeggiata?» chiese Juri, ironico. Squadrò gli Agenti uno dopo l’altro, ma nessuno di loro si offrì. Stava per canzonarli, quando si rese conto che fissavano tutti lui. «Eh, no!» disse, sentendo crescere il batticuore. «Vi ho accompagnati in questa missione, ma non mi ficco là dentro».
   «È come vi dicevo: un vero codardo» commentò Jaylah, rivolta alla sua squadra.
   Juri ci restò male. La mezza Andoriana l’aveva già provocato, in passato, ma non era mai stata così brutale. Gli altri Agenti annuirono e molti di loro rincararono la dose.
   «Aveva detto che non voleva venire. C’era da immaginarlo, che alla prima difficoltà sarebbe scappato a gambe levate».
   «Quelli come lui non rischiano mai niente. E non combinano mai niente».
   «È tipico degli Umani, fuggire quando le cose si fanno impegnative».
   Juri fissò gli Agenti con incredulità e rabbia. Quelle non erano battute... erano insulti veri e propri. Non riusciva a capacitarsi che anche Jaylah si esprimesse così. Che aveva fatto per meritare tanto disprezzo? «Se addentrarsi in quel verminaio è una cosa da nulla, perché non lo fate voi?!» sbottò.
   «Tutti noi abbiamo già fatto cose simili. Più volte» spiegò Hakon.
   «Adesso tocca a te» aggiunse Jaylah. «Avanti... è una cosa da nulla. Ce la farebbe anche un bambino».
   «Ne dubito» mugugnò Juri. Siccome tutti continuavano a fissarlo e nessuno faceva segno di volerlo sostituire, capì che gli toccava davvero. Maledicendo l’atteggiamento degli Agenti, respirò a fondo e si fece avanti, fino a lambire la massa brulicante dei rettili. Il cuore gli batteva all’impazzata e l’aria gli mancava: dovette fare respiri profondissimi per sentire di nuovo l’ossigeno nei polmoni. Il sudore gli appiccicava i capelli alla fronte.
   «Allora? Datti una mossa!» esclamò Jaylah alle sue spalle.
   Juri digrignò i denti. Inveendo silenziosamente contro tutto e tutti, saltò in avanti, atterrando su una piccola area sgombra del pavimento. Alcuni serpenti alzarono la testa, ma nessuno gli si avventò contro. Rincuorato, Juri saltò ancora. E ancora. E ancora. Ogni balzo lo portava più vicino alle iscrizioni. C’erano abbastanza chiazze vuote, a terra, da permettergli di raggiungerle senza schiacciare i rettili. Lo storico iniziò a respirare meglio. Forse gli Agenti avevano ragione... non era poi così terribile.
   Fu allora che le cose volsero al peggio. Restavano solo due balzi, ma quando Juri cercò la prossima chiazza libera non la trovò. I serpenti dovevano essersi riassestati in modo da coprirla. Purtroppo non c’era altro modo di raggiungere il muro con le iscrizioni. Guardandosi attorno, Juri vide che alcuni rettili avevano alzato la testa e lo fissavano minacciosi, facendo guizzare le lingue forcute.
   «Ma che brutto...» mormorò, inumidendosi le labbra. Si voltò per tornare indietro, ma scoprì con orrore che anche le chiazze già percorse erano sparite. Era solo, in mezzo a un mare di serpenti dall’aria sempre più ostile. Alcuni erano enormi. E forse era una sua impressione, ma la stanza gli pareva sempre più buia. «Aiuto!» sussurrò, pallido come un cencio. Avrebbe voluto urlare, ma il terrore lo strozzava, levandogli la voce. «Qualcuno mi aiuti!».
   Gesticolò verso gli Agenti, implorando il loro intervento. Ma loro gli rivolsero sguardi di derisione e restarono pigramente appoggiati alle pareti del corridoio, al sicuro dalle serpi. Juri strabuzzò gli occhi, rendendosi conto che non lo avrebbero aiutato in alcun modo. Era solo.
   Come guidati da un’unica volontà, i serpenti strinsero il cerchio intorno a lui, fino a sfiorargli i piedi. Alcuni gli avvolsero le caviglie e presero a risalire le gambe. Lo storico tremò tanto che il d-pad gli cadde di mano, scomparendo nel brulichio. Intanto la sala continuava a scurirsi. Osservando la torcia, Juri vide che si stava esaurendo. Restò immobile, sia perché l’orrore lo paralizzava, sia perché muovere un passo gli avrebbe certamente fatto schiacciare qualche serpente. «Aiutatemi, maledizione!» rantolò, come ultimo tentativo di smuovere gli Agenti.
   «Di che ti preoccupi?» fece Jaylah. «Quei biscioni sono innocui».
   «Vieni qui, e vediamo se la pensi ancora a... allo... stesso...». La voce di Juri si spense, mentre il suo corpo tremava come gelatina. I serpenti erano ovunque: lo avvolgevano come corde, s’infilavano persino sotto le sue maniche. Uno gli circondò il collo. Le spire si contrassero e Juri si sentì soffocare.
   «Aria!» gemette lo storico, afferrando la serpe nel disperato tentativo di allentarne le spire. Questo gesto fece infuriare il rettile, che s’inarcò e lo morse al collo. Juri sentì il gelo che s’irradiava dalla zona del morso e fu certo che gli Agenti avevano mentito. I serpenti erano velenosi. Lo aveva appena compreso che subito ricevette altri morsi, ai polsi e alle gambe. Le ginocchia gli tremarono, mentre il gelo si diffondeva in tutto il corpo. Il veleno aveva un effetto rapido. Tra un attimo sarebbe caduto a terra, troppo debole per sorreggersi. La massa brulicante dei serpenti si sarebbe chiusa su di lui, per banchettare. Ecco dove lo avevano portato i federali: a morire lontano da casa, in quella trappola.
   «No, non è giusto! No, no!» gridò Juri, o forse si limitò a pensarlo, mentre si dibatteva. Doveva essere caduto, perché il suo corpo era disteso. Qualcosa gli ostacolava i movimenti: le serpi che ormai lo ricoprivano. No, era qualcosa di ampio e sottile. Una coperta?!
   «ARGH!». Madido di sudore, Juri si drizzò a sedere sul letto. La coperta era ormai ridotta a un involto stropicciato fra le sue mani. La gettò a terra, respirando affannosamente, e si guardò attorno. Riconobbe il suo alloggio sulla Keter. Un incubo... era stato tutto un maledetto incubo. Uno dei più agghiaccianti che ricordasse. Aveva ancora la pelle d’oca, tanto era stata realistica la sensazione dei serpenti che lo avvinghiavano.
   Appurato che non correva alcun pericolo, lo storico si lasciò ricadere sul letto. Chiuse gli occhi, cercando di respirare normalmente. Ricordò che la Keter era ancora in viaggio. Né lui, né gli Agenti Temporali avevano messo piede su Suliban, anche se non mancava molto.
   Quando si sentì più calmo, Juri lasciò il giaciglio e andò al replicatore. Ordinò una camomilla, che sorseggiò adagio, mentre rimuginava sull’accaduto. La Keter non aveva un Consigliere a cui chiedere consulenza, ma alla luce dell’imminente sbarco il suo incubo era facile da interpretare. La missione lo spaventava... i serpenti rappresentavano tutte le possibili insidie che lo attendevano. E l’atteggiamento degli Agenti, oscillante tra l’indifferenza e la derisione, indicava che non si fidava di loro. Il suo subconscio temeva che, in caso di pericolo, l’avrebbero abbandonato.
   «Non Jaylah» si disse. «È un buon ufficiale, non lascerebbe indietro nessuno». Continuò a ripeterselo mentre tornava a letto, risistemandosi la coperta alla meno peggio, e mentre finiva la camomilla. Tuttavia gli servì parecchio tempo per riprendere sonno.
 
   Suliban era un globo giallastro, screziato di bruno e nero. Le poche masse d’acqua avevano lo stesso colorito grigio della piccola luna. Secondo la classificazione federale era un mondo di classe L, “marginale” o “adattabile” alla colonizzazione. Eppure non era sempre stato così. Prima della colossale eruzione vulcanica di settecento anni prima, era abbastanza ospitale da permettere l’evoluzione dei Sulibani. Anche allora, tuttavia, era segnato da sconquassi geologici, come indicavano le migliaia di vulcani e gli spessi strati di basalto e zolfo che coloravano la superficie.
   Gli ufficiali della Keter osservarono il pianeta con dispiacere, immaginando quanto avessero sofferto i Sulibani all’epoca dell’eruzione e quanto faticassero ora per ricostruire il loro mondo. Mentre la nave entrava nell’orbita, Zafreen chiamò la capitale. A rispondere fu un Sulibano con l’uniforme bruna della Sicurezza locale.
   «Salve Keter, vi stavamo aspettando. Sono il Maggiore Selmak, della Milizia Sulibana».
   «Capitano Hod, lieta di conoscerla» rispose l’Elaysiana. «La Commissione per l’Integrità Temporale mi ha informata che la sua squadra ci affiancherà in questa missione. Stando così le cose, vorrei che venisse subito a bordo».
   «Certamente; ho già radunato i miei» annuì il Sulibano. Pochi minuti dopo lui e i suoi agenti erano sulla Keter. Il Capitano e gli ufficiali li ricevettero in sala tattica. Alla riunione partecipava anche la Squadra Temporale di Jaylah.
   «Sarà una missione esplorativa» chiarì subito Hod. «Il vostro incarico è stabilire se c’è stata contaminazione temporale. Solo in quel caso siete autorizzati a intervenire. Quindi se troverete antichi alieni non interferite, qualunque cosa facciano» precisò, rivolta ai Sulibani.
   «Conosco i rischi che comporta interferire col passato» disse Selmak. «Sono qui per proteggere la nostra Storia, non per alterarla».
   «Ed è consapevole che il Tenente Chase comanderà la missione, inclusa la vostra squadra?» insisté Hod.
   «Affermativo» rispose Selmak. «Anche se la trovo un po’ giovane per comandare la Squadra Temporale» aggiunse, osservando dubbioso la mezza Andoriana.
   «Ho diciotto missioni temporali al mio attivo, tutte completate con successo» rispose con calma l’interessata. «Lei quante ne ha?».
   Il Sulibano tacque.
   «Devo avvertirvi però di una complicazione» aggiunse il Capitano. «La missione dovrà essere svolta con la navetta temporale, anziché con tutta l’astronave».
   «Perché?» chiese Juri, inquieto nel sapere che non avrebbero avuto il supporto della Keter.
   «Per le spiegazioni lascio la parola all’Ingegnere e al Medico Capo» disse Hod.
   Il primo a parlare fu Dib, l’Ingegnere. Composto da una massa di protoplasma fluido, l’alieno indossava una tuta pressurizzata e refrigerante, che gli permetteva di condividere l’ambiente con gli umanoidi, oltre a dargli grosso modo la loro forma. «Negli ultimi anni, la Keter ha compiuto numerosi viaggi nel tempo» esordì il Penumbrano. «Alcuni, come l’indagine sugli antichi D’Arsay, ci hanno portati indietro di milioni di anni. Di conseguenza il nucleo temporale ha emesso grandi quantità di particelle tachioniche, che si sono accumulate sulla nave. I valori non superano ancora i livelli di guardia e in futuro potremo certamente continuare le missioni. Ma quando si tratta di viaggiare nel tempo per milioni di anni, generando alti livelli di particelle, consiglio di usare la crono-navetta anziché l’astronave».
   «Il rischio qual è?» chiese Juri.
   «Afasia sensoriale» rispose la dottoressa Ladya Mol. «È un senso di disorientamento, talvolta misto a bruschi sbalzi d’umore. Per i suoi effetti c’è chi la chiama “narcosi da tempo”. Nei casi più gravi può degenerare in psicosi temporale, una forma di follia incurabile».
   «Ah» fece Juri, con l’aria infelice.
   «Finora abbiamo avuto solo due casi lievissimi di afasia e nessuno di psicosi» lo rassicurò la dottoressa. «Possiamo ancora usare la Keter in tutta sicurezza, quando si tratta di missioni standard. La navetta è solo una misura precauzionale per i balzi più lunghi».
   «Certo» annuì lo storico, chiedendosi come faceva a ficcarsi sempre in queste situazioni.
 
   All’epoca del varo la Keter non disponeva di crono-navette, ma con l’aumentare delle sue missioni ne aveva ricevuta una, assemblata nei cantieri di Plutone: l’Excalibur. Era una navicella piuttosto grande, tanto da poter accogliere confortevolmente l’intera Squadra Temporale. Lo spazio interno era diviso in tre sezioni: la cabina, il comparto mediano con un tavolo e le cuccette, il comparto posteriore con le tute e l’armadietto delle armi. Un lettore di DNA consentiva l’ingresso solo al personale autorizzato.
   «Una crono-navetta è mai andata indietro nel tempo di così tanto?» chiese Juri mentre s’imbarcavano.
   «No, che io sappia» rispose Jaylah. «Stiamo per segnare un altro primato!».
   «Che bello» mormorò lo storico, con un sorriso evanescente. Entrò nella navetta. Intanto, nell’hangar, alcuni Agenti caricavano le ultime attrezzature.
   «Hakon, aspetta!». Zafreen entrò trafelata nell’hangar e corse incontro all’Illyriano. «Credevi di andartene senza neanche salutarmi?!» gli chiese, gettandogli le braccia al collo.
   «Starò via solo un minuto, dal tuo punto di vista» sorrise Hakon.
   «Ma per te sarà di più!» puntualizzò l’Orioniana.
   «Hai ragione... a presto, amore. Sei sempre nel mio cuore» disse Hakon, e la baciò. Poi riprese una cassetta con alcuni strumenti e tornò in fretta verso la navicella. Passando accanto a Jaylah, notò il suo cipiglio. «Scusi, Tenente. Zafreen è molto espansiva» si giustificò.
   «Lo so. Vada al suo posto, ora» disse freddamente la mezza Andoriana. «E speriamo che la tua abilità come Agente Temporale sia pari a quella nel sedurre le fidanzate altrui» aggiunse fra sé. Anche se cercava di tenersi fuori dalla faccenda, le dispiaceva che Vrel soffrisse tanto a causa del nuovo arrivato. E non capiva che ci avesse trovato Zafreen in lui. Forse se n’era infatuata solo perché era un Agente Temporale. Ma Hakon doveva ancora dimostrare il suo valore e Jaylah, che era la sua diretta superiore, non sarebbe stata tenera con lui.
 
   Quando tutti furono a bordo, l’Excalibur lasciò l’hangar della Keter, dirigendosi verso il pianeta. Jaylah era al timone, con Hakon a farle da copilota. In cabina c’erano anche l’androide Adam, il sulibano Selmak e Juri, seduti rispettivamente alle postazioni ingegneristica, tattica e sensori. Il resto della squadra attendeva nella sezione posteriore della navetta.
   «Ho inserito le coordinate spazio-temporali» disse Jaylah. Dal nucleo, posto orizzontalmente sotto il pavimento, veniva un ronzio sempre più forte, man mano che il livello d’energia saliva. Per viaggiare indietro di tre milioni di anni bisognava caricarlo al massimo.
   «Il nucleo temporale ha raggiunto il potenziale di cascata» riferì Adam, completando la sequenza di avvio sulla sua consolle. «Trasferimento fra tre... due... uno...».
   Juri chiuse gli occhi e inspirò a fondo, cercando di non tremare. Un lampo bianco riempì la navetta, riverberando sulle pareti. La sensazione era simile a quella del teletrasporto: per un attimo sembrava d’essere in due posti contemporaneamente. Ma passò in fretta. Juri riaprì gli occhi e lasciò andare il fiato, lieto d’essere ancora intero.
   «Benvenuti nel passato» disse Jaylah. «State tutti bene?».
   «Le radiazioni tachioniche sono nei limiti di sicurezza» disse Adam. Uno dopo l’altro i presenti confermarono di star bene. Selmak lasciò la postazione tattica e si avvicinò allo schermo, osservando rapito il suo pianeta. «Che meraviglia... ammirate la bellezza dell’antico Suliban!» si commosse.
   Gli altri osservarono il pianeta. C’era un po’ più di vegetazione e i piccoli mari erano più limpidi, ma a parte questo non sembrava poi così accogliente. Il grosso della superficie restava brulla. I federali però non dissero nulla, per non deludere il Sulibano.
   «Rilevo molti segni vitali proto-Sulibani» disse Juri, dalla postazione sensori. «Sono centinaia di migliaia, sparpagliati su una buona metà del pianeta».
   «In quest’epoca remota, i nostri antenati vivevano di caccia e raccolta» confermò Selmak. «Le grandi praterie erano la loro casa».
   «E la struttura aliena?» chiese Jaylah.
   «Eccola lì» disse Juri, mostrando una zona del pianeta. Dense nubi scure nascondevano la superficie, così che l’Umano passò ad altre lunghezze d’onda per renderla visibile. La base era arroccata su entrambe le sponde del crepaccio. Era costituita da un massiccio corpo centrale, circondato da altre tre sezioni, simili a torrette. «Proprio come nel mio sogno» pensò lo storico con un fremito. Ma non doveva stupirsi. Aveva fatto quel sogno dopo aver visto una ricostruzione computerizzata della struttura, fatta dagli archeologi. E ora l’osservazione dimostrava che il modello era corretto.
   «Rilevo alti livelli d’energia» notò lo storico. «Credo stia emettendo un raggio disgregante che perfora la crosta. Quella nube scura che si allarga è composta da polveri e ceneri».
   «Un raggio?!» si preoccupò Selmak. «Quell’area è geologicamente instabile. Se il raggio perfora la crosta, potrebbe provocare una super-eruzione vulcanica».
   «Il vostro mondo è stato colpito spesso da eruzioni» notò Jaylah. «Anche se questa è indotta artificialmente, non potrebbe essere una fra le tante?».
   «No... un’eruzione così massiccia avrebbe effetti catastrofici sul clima» disse il Sulibano, stringendo le pupille ad asterisco mentre osservava la nube in espansione. «Potrebbe condannare la mia specie all’estinzione!» si allarmò.
   «Allora siamo di fronte a una contaminazione temporale di categoria 1» disse Jaylah, riferendosi agli interventi così gravi da annientare un’intera specie. «Dobbiamo individuare i responsabili. Ci sono astronavi in orbita?».
   Adam sostituì Juri alla postazione sensori, conducendo una ricerca ad ampio spettro. «Negativo; siamo soli» concluse. «E non rilevo segni vitali alieni, né dentro la base, né altrove».
   «Molto strano» commentò Jaylah. «Ci sono difese automatizzate?».
   «Non rilevo nulla» disse l’androide, dopo una breve ricerca.
   «Chiunque abbia costruito questo impianto, è strano che l’abbia lasciato indifeso» notò Juri.
   «Già» annuì Jaylah. «Ma dobbiamo neutralizzarlo, o i Sulibani saranno condannati». Fece a sua volta qualche analisi. «Le emissioni d’energia interferiscono col teletrasporto. Dovremo scendere con l’Excalibur. Hakon, prenda il timone». Mentre l’Illyriano portava giù la navetta, Jaylah si recò nella sezione di poppa, aggiornando il resto della squadra sulla situazione. «Tenetevi pronti» concluse. «Non so chi abbia costruito tutto questo, ma sento puzza di trappola».
   L’Excalibur scese di quota, attraversando la nube di ceneri vulcaniche. Per qualche secondo fu avvolta dall’oscurità. Poi emerse al di sotto, trovandosi in un paesaggio infernale. Il crepaccio era come una ferita aperta sul pianeta, in fondo a cui rosseggiava il magma. L’impianto di trivellazione lo sovrastava, ancorandosi con enormi prolungamenti alle rocce circostanti, così che il corpo centrale era sospeso nel vuoto. Da esso scaturiva il raggio disgregante, che affondava nelle profondità del suolo. Fumo e ceneri avvolgevano la struttura, innalzandosi poi in una colonna, che s’allargava una volta raggiunta la stratosfera. Le particelle più pesanti cadevano come una neve scura, ricoprendo il suolo e l’installazione stessa.
   «Non proprio un’arcadia» commentò Juri.
   «È tutta colpa di quell’impianto» disse Selmak. «Distruggiamolo, prima che il danno ecologico sia irreversibile».
   «L’impianto genera molta energia» notò Adam. «Un’esplosione produrrebbe ulteriori danni ambientali».
   «Allora cerchiamo di disattivarlo» decise Jaylah. Osservò la base con attenzione. Le tre torri laterali erano connesse al corpo centrale solo tramite dei condotti nella parte bassa e delle passerelle più in alto. Probabilmente ospitavano i generatori. Ma la sala controllo doveva trovarsi nella struttura centrale. «Atterriamo lì» disse la mezza Andoriana, indicando un terrazzamento abbastanza ampio.
   «Ci farebbe comodo un po’ di copertura aerea» commentò Hakon, mentre portava giù la navetta.
   «Abbiamo i droni» rispose Jaylah, accedendo ai loro controlli. «Li programmo perché ci seguano e ci difendano in caso di attacco».
   Prima ancora che la navetta atterrasse, un comparto si aprì sul tetto e una dozzina di piccoli droni volanti ne uscì. Erano dello stesso tipo di quelli usati con successo sulla luna di Izar. I droni si allargarono, seguendo uno schema di pattugliamento. Subito dopo l’Excalibur si posò sul terrazzo. Il portello posteriore si aprì e gli Agenti Temporali sbarcarono, armati e pronti a tutto.
   «Non credo di potervi essere utile...» disse Juri, che non avrebbe voluto lasciare la relativa sicurezza della navetta.
   «Sei esperto di popoli antichi. Potresti riconoscere la tecnologia di questa base» insisté Jaylah, che lo attendeva accanto al portello. «Svelto, prima facciamo e meglio è!».
   Lo storico borbottò qualcosa di inaudibile e uscì all’aperto, coprendosi la testa con le braccia, per evitare che la cenere gli cadesse in faccia. Faceva caldo: dal crepaccio salivano vapori roventi. Un boato profondissimo emanava dal sottosuolo, come se il pianeta gemesse per la ferita che gli veniva inferta.
   Due Agenti, muniti di fucili phaser, iniziarono a tagliare una parete per aprire un varco. Intanto Jaylah, accostatasi all’orlo del terrazzo, non resistette alla tentazione di guardare in basso. Fissò le profondità oscure e ribollenti dell’abisso, con la strana sensazione d’essere a sua volta osservata.
   «Tutto bene, Tenente?» le chiese Adam.
   «Sì» mormorò Jaylah, riscuotendosi.
   I due tornarono verso i colleghi, che avevano perforato la paratia. Con una spinta l’androide fece cadere all’interno la sezione tagliata, aprendo così un ingresso. Jaylah fu la prima a entrare, con il phaser in pugno. Il resto della squadra la seguì in silenzio. Si trovarono in un lungo corridoio semibuio, rischiarato solo dal bagliore rossastro di un condotto energetico. Dopo averlo percorso per una ventina di metri giunsero in un enorme salone al centro della struttura. Qui sorgeva un emettitore d’energia, alimentato dai tre condotti provenienti dalle torrette laterali. L’energia così raccolta era indirizzata verso il basso, per perforare la crosta. Il raggio violaceo gettava una luce livida nell’ambiente, altrimenti buio.
   «Là c’è un quadro comandi» notò Juri, riconoscendo una consolle attigua all’emettitore. «Finalmente ci capiremo qualcosa».
   I federali si accostarono alla consolle. La sua superficie era scura, percorsa da simboli simili a graffi rossi. Riconoscendoli, Jaylah si sentì tremare fino al midollo. Il momento che aveva temuto per anni era finalmente giunto.
   «Mani in alto, feccia federale!» disse una voce secca alle sue spalle.
   Gli Agenti Temporali s’immobilizzarono. Jaylah si voltò lentamente, mentre i difensori dell’impianto uscivano dalle ombre. Erano alti e magri, con gli occhi rosso sangue che spiccavano sui volti cadaverici. Le teste glabre avevano le suture craniche in evidenza, come anche grosse vene pulsanti sulle tempie. «Sono il generale Ghrath, dei Na’kuhl» disse il capo. «Vi dichiaro in arresto, in nome di Vosk». 
 

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Capitolo 4
*** Linea d'ombra ***


-Capitolo 3: Linea d’ombra
 
   Armi in pugno, gli Agenti Temporali e i Na’kuhl si fronteggiarono. Il vantaggio toccava però a questi ultimi, che erano più numerosi e circondavano i federali.
   «Finalmente c’incontriamo» disse Jaylah, con duro cipiglio. «Sapevo che stavate facendo esperimenti di viaggio nel tempo, con le conoscenze carpite al resto del Fronte. Avrei dovuto intuire che tutto questo è opera vostra» aggiunse, accennando alla struttura attorno a loro. Il raggio disgregante era ancora attivo: ogni secondo avvicinava la catastrofe.
   «Non era così ovvio. Di solito i Na’kuhl usano la Materia Degenere» notò Juri. «Stavolta invece avete impiegato altri materiali, per non far capire che era opera vostra» aggiunse, rivolgendosi agli alieni.
   «E voi, nella vostra arroganza, siete venuti in pochi. Deponete le armi, svelti!» ordinò Ghrath.
   «Dovremmo fare come dice...» mormorò Hakon, che aveva due disgregatori puntati contro.
   La mezza Andoriana fissò Ghrath con sguardo bieco. «Violare gli Accordi Temporali non vi porterà alcun vantaggio» avvertì, senza abbassare l’arma.
   «Non abbiamo mai aderito agli Accordi» ribatté il Na’kuhl. «Non ci pieghiamo al vostro dispotismo. E poiché rifiutate di arrendervi, non ci resta che giustiziarvi».
   «Non sarà così facile» disse una terza voce. Selmak e gli altri Sulibani, che fino a quel momento erano rimasti invisibili, si manifestarono alle spalle dei Na’kuhl.
   «Mimetismo genetico» riconobbe Ghrath. «Voi Sulibani siete incorreggibili... rincorrete sempre il potenziamento».
   «Finché cercherete di annientarci, sì» confermò Selmak. «Ora gettate voi le armi, e subito!» ordinò.
   Ghrath alzò la mano sinistra, eseguendo un gesto che i federali non riconobbero. I suoi soldati abbassarono le braccia e si chinarono lentamente, facendo il gesto di deporre le armi.
   Non fidandosi, Jaylah li seguì attentamente con lo sguardo. D’un tratto, come al rallentatore, vide Ghrath rialzare il disgregatore. «Attenti!» gridò la mezza Andoriana, gettandosi di lato. Il raggio viola le passò vicinissimo alla testa, senza però colpirla. Tra federali e Na’kuhl scoppiò uno scontro selvaggio. Alcuni caddero nei primi attimi; i superstiti corsero a nascondersi dietro travi, condotti o altri macchinari della sala. I raggi phaser e disgregatori che non andavano a bersaglio danneggiarono le apparecchiature. Il rischio che un colpo facesse esplodere il generatore del raggio-trivella era altissimo.
   Con i raggi mortali che gli ronzavano tutt’intorno, Juri cercò un riparo. Per fortuna il salone era pieno di anfratti e nicchie. L’Umano ne trovò una, appena in tempo; un raggio disgregante colpì lo spigolo metallico, facendone saltare via un pezzo. Juri sentì le scintille incandescenti sul collo e sulla schiena. Si accoccolò più che poteva, mentre nel resto della sala infuriava la battaglia.
   «Attenti al generatore! Non ha ancora perforato la crosta!» gridò Ghrath ai suoi soldati. I Na’kuhl erano disposti a sacrificarsi per la causa, ma non se il sacrificio era vano. In questo caso, dovevano assicurarsi che il raggio disgregante raggiungesse il mantello fuso del pianeta.
   In quella i droni giunsero ad aiutare gli Agenti. I loro movimenti rapidi li rendevano difficili da colpire e i tiri precisi abbatterono diversi Na’kuhl. «Ritirata!» ordinò Ghrath, vedendo che lo scontro volgeva a suo sfavore. «Ma non finisce qui!» aggiunse all’indirizzo dei federali. Sparò alla consolle di controllo principale, distruggendola. Dopo di che lui e gli altri Na’kuhl balzarono allo scoperto. Il loro intenso fuoco di sbarramento abbatté due droni e costrinse i federali a restare acquattati. I Na’kuhl fuggirono lungo un corridoio, attivando un campo di forza all’imboccatura, per non farsi inseguire.
   «Chase a Excalibur, i Na’kuhl ci hanno teso un’imboscata» disse Jaylah, premendosi il comunicatore. «Tornate subito in orbita; non devono impadronirsi della tecnologia temporale».
   «Ce l’hanno già» notò Hakon.
   «Non è detto che sia progredita come la nostra. Dobbiamo conservare ogni minimo vantaggio» rispose la caposquadra.
   «Quindi mandi via la navetta?! Prima dobbiamo salirci!» protestò Juri, uscendo dal suo nascondiglio.
   «Se non distruggiamo l’installazione, la mia specie è condannata!» obiettò Selmak. «Piazziamo degli esplosivi e andiamocene».
   «L’esplosione del generatore a piena potenza provocherebbe comunque seri danni ambientali» avvertì Adam.
   «Allora disattiviamolo» decise Jaylah. Corse al quadro comandi, ma constatò che i controlli erano stati distrutti. E non sembrava possibile reindirizzarli nelle consolle ausiliarie. «Deve esserci un altro modo» mormorò, visualizzando uno schema olografico della base, che evidenziava il sistema energetico. C’erano tre nuclei, inglobati in torrette raggiungibili solo tramite passerelle sospese sull’abisso. La loro energia veniva incanalata nel generatore centrale. «Vediamo... questi sono i nuclei energetici. Possiamo disattivarli, ma non da qui, ora che i controlli primari sono distrutti. Dobbiamo tornare là fuori e spegnerli manualmente, per togliere energia all’impianto».
   «Fuori ci sono i Na’kuhl» le ricordò Hakon.
   «I droni ci forniranno copertura aerea» sostenne Jaylah. «Svelti, non perdiamo tempo!».
   «Fra undici minuti il raggio disgregante perforerà del tutto la crosta» precisò Adam, consultando i dati. Gli Agenti si diressero verso l’uscita, pronti ad avventurarsi sugli spalti dell’impianto.
   «E io che faccio?» chiese Juri, inquieto.
   «Aspettaci qui. È il posto più sicuro» disse Jaylah, già in procinto di uscire.
   «Non se questa baracca esplode!» obiettò lo storico.
   «Verremo a prenderti in tempo, okay?» promise la mezza Andoriana. «Fidati! Star qui è nel tuo migliore interesse».
   Juri fremette. Quelle parole gli erano state rivolte in altre occasioni e si erano sempre rivelate false. Ma non ebbe il tempo di ribattere, perché gli Agenti lasciarono la struttura, attraverso il foro che avevano praticato per entrare. Solo un drone rimase con Juri, che tornò sconsolato nel salone centrale. L’Umano si guardò nervosamente attorno, temendo che i Na’kuhl tornassero da uno degli altri corridoi. Raccattò il phaser di un Agente caduto e si appostò in un angolo, sudando freddo.
   «Che diavolo ci faccio qui?» si chiese, sentendo il frastuono della battaglia all’esterno.
 
   Tornata sugli spalti, Jaylah si accorse che la situazione era molto peggiorata. La stazione tremava, avviluppata da fumi tossici, bombardata da lapilli e bombe laviche. Dalle viscere della terra saliva un boato sempre più forte. Non c’era tempo di spegnere i nuclei in sequenza, anche perché i Na’kuhl avrebbero potuto riattivarli, man mano che loro si spostavano al successivo.
   «Dobbiamo dividerci» disse la mezza Andoriana, pur conoscendo i rischi. «Selmak, porti la sua squadra al nucleo 1». Dopo aver diviso i suoi Agenti in due gruppi, affidò a quello di Adam il nucleo 2, tenendo per sé il 3, il più lontano. «Quando i nuclei saranno spenti e il generatore disattivato, il teletrasporto funzionerà di nuovo. Potremo tornare sull’Excalibur e distruggere l’impianto. Muoviamoci!» ordinò.
   I tre gruppi corsero ciascuno verso il suo obiettivo. Ma i Na’kuhl non stavano certo a guardare. Appostati sugli spalti della struttura e in cima alle torrette, aprirono il fuoco sui federali, approfittando della posizione vantaggiosa.
   «Chase a droni, schema d’attacco sigma-9» ordinò Jaylah, premendosi il comunicatore. I droni presero quota e colpirono gli avversari dall’alto. Alcuni Na’kuhl dovettero distrarsi per fronteggiarli, il che permise ai federali di andare all’assalto. La battaglia divampò. Alcuni difensori, colpiti, caddero nella voragine infuocata. Ma anche un paio di Agenti che si erano fatti coraggiosamente avanti ebbero la stessa sorte.
   In testa al suo gruppo, Jaylah si appostò presso la passerella che conduceva alla torretta 3, in attesa del momento buono per scattare in avanti. Ma il fuoco di sbarramento dei Na’kuhl, appostati in cima, era intenso. La caposquadra si accorse che i difensori sparavano di proposito alla passerella, per distruggerla. I colpi concentrati ebbero ragione del tetraburnio: il ponteggio cedette e precipitò, isolando la torretta.
   «Fuoco di copertura, devo arrivare lassù» ordinò Jaylah ai quattro Agenti che erano con lei.
   «E come?» chiese Hakon.
   «Drone 9 a rapporto. Schema d’infiltrazione tau» ordinò Jaylah per tutta risposta.
   «Non può dire sul serio!» fece l’Illyriano, sgranando gli occhi.
   Il drone fluttuante si presentò a rapporto. Infoderato il phaser, Jaylah vi si aggrappò con ambo le mani. «Vai!» ordinò, cercando di non pensare a quant’era pericolosa quella mossa.
   Il drone diede maggior potenza ai motori, per compensare il peso aggiuntivo. E si avventurò nel vuoto. Aggrappata con le mani, Jaylah si vide guizzare i raggi disgregatori tutt’intorno. Ma la torretta era sempre più vicina: ancora pochi secondi e avrebbe raggiunto la base.
   Parecchi metri più in alto, un cecchino Na’kuhl mirò al drone con un fucile disgregatore di precisione. Lo centrò al primo colpo. Il drone esplose tra le mani di Jaylah, che però non ne fu gravemente ferita, dato che la sua uniforme era provvista di guanti in nano-fibra. La caposquadra cadde però per parecchi metri, atterrando proprio sull’orlo del camminamento che correva intorno alla torretta. Per un orribile istante barcollò sul ciglio dell’abisso; poi riuscì a portarsi in salvo, addossata alla parete. Lì iniziava una scala fatta di ponteggi, senza balaustre, che serpeggiava tutt’intorno alla torre.
   Jaylah guardò verso l’alto. La sommità sembrava irraggiungibile, attraverso tutti quei livelli di ponteggi. Ma doveva sbrigarsi, perciò estrasse il phaser e salì i gradini quattro a quattro, abbattendo gli avversari che le sbarravano la strada. Fortunatamente non era del tutto sola. Quand’era sul lato della torretta rivolto verso la base, i colleghi lì appostati le davano manforte, bersagliando i Na’kuhl. Quando passava dall’altro lato poteva contare sui droni.
   «Selmak a Chase, abbiamo disattivato il primo nucleo». La voce del Sulibano era musica per le sue orecchie.
   «Mantenete la posizione finché non avremo disattivato anche gli altri» ordinò Jaylah. Un drone la precedeva, per proteggerla man mano che saliva. La mezza Andoriana cominciava a credere che ce l’avrebbe fatta, quando il drone si bloccò a mezz’aria, obbligandola ad arrestarsi a sua volta.
   «Beh? Non fermarti!» ordinò la caposquadra. «Schema d’infiltrazione tau, ho detto!». Invece di obbedire, il drone si girò verso di lei. Aveva la spia del mirino accesa. Intuendo che avrebbe sparato, Jaylah si tuffò di lato, con tutta la rapidità di cui era capace. Il raggio phaser le sfiorò il braccio, perforando la tuta e lasciandole un’ustione. Barcollando sull’orlo dell’abisso, Jaylah sparò quasi alla cieca. Colpì il drone di striscio, mandandolo a sbattere contro la parete. L’ordigno girò su se stesso, cercando di tornare in assetto. Prima che potesse sparare ancora, Jaylah lo colpì, stavolta in pieno. Con l’altro braccio si protesse il volto dalle schegge dell’esplosione.
   «Chase a squadra, allarme violazione! Ci controllano i droni!» avvertì, allontanandosi dall’orlo del ponteggio.
   «Me ne sono accorto!» disse Hakon, che stava scendendo una scaletta scivolando sui corrimani. Quando fu sul pianerottolo si volse, imbracciando il fucile phaser, e centrò il drone che lo inseguiva, mandandolo in mille pezzi.
   «È strano che siano riusciti a violare così in fretta i codici di comando» notò Adam, attraverso il canale audio condiviso. Lui e la sua squadra stavano risalendo la torretta del nucleo 2, disputandola ai Na’kuhl e ora anche ai droni.
   «I Na’kuhl sono pieni di risorse» ammise Selmak. «Noi presidiamo il primo nucleo, ma voi sbrigatevi a disattivare gli altri! Ci restano pochi minuti!».
   «Ricevuto» disse Jaylah. Si guardò il braccio dolorante: la ferita non sembrava troppo grave. E in ogni caso le nanosonde nel suo flusso sanguigno avevano già cominciato a curarla. Alzò gli occhi, per vedere quanti livelli di ponteggio doveva ancora salire per giungere in sommità. Erano solo due. In quella vide un Na’kuhl che lasciava cadere un piccolo oggetto sferico. Una granata. Si precipitò dietro l’angolo della torretta, appena in tempo. L’esplosione distrusse una sezione del ponteggio. Prima ancora che i detriti ricadessero, Jaylah si sporse dal nascondiglio e sparò al Na’kuhl che aveva gettato la granata. Lo colpì al petto, facendolo cadere nel vuoto con un grido strozzato.
   Gli ultimi difensori si ritrassero e Jaylah si fece avanti, ma la passerella era spezzata. Capì che non sarebbe riuscita a passare con un salto. In quella vide un altro drone che si sollevava, rasente la parete. Arrivato alla sua altezza le avrebbe sparato. Ma prima di allora, per un attimo, avrebbe costituito un punto d’appoggio. Jaylah non ci stette a pensare, perché non ne aveva il tempo. Calibrata la distanza, balzò in avanti. Atterrò sulla sommità piatta del drone, arrestandone per un attimo la risalita, e saltò di nuovo in avanti, guadagnando la passerella. Subito si girò e sparò al drone, che aveva ripreso ad alzarsi, distruggendolo.
   «Adam a Chase, abbiamo disattivato il secondo nucleo» l’avvertì l’androide. «Ora tocca a lei».
   Jaylah deglutì, raccogliendo le ultime forze, e riprese a salire. Giunta finalmente in cima, arrischiò una rapida occhiata, prima di abbassarsi di nuovo. La sommità del nucleo energetico formava una struttura a cupola, circondata da un anello di consolle. A sorvegliarlo restavano tre avversari: meno di quanti si aspettava. La mezza Andoriana sganciò dalla cintura una granata a stordimento e la gettò sopra di sé. Oltre all’effetto stordente sapeva che i Na’kuhl, creature foto-fobiche, sarebbero rimasti abbagliati dalla luce intensa. Si schermò gli occhi con la mano, mentre la granata esplodeva, e poi balzò sul tetto della torre. I Na’kuhl erano in ginocchio, mezzi intontiti. Li stordì del tutto con tiri precisi, prima che potessero riaversi.
   «Hakon a Chase, le mie congratulazioni» le giunse la voce del sottoposto. «Ma devo avvertirla che restano solo tre minuti».
   «Me li farò bastare» disse Jaylah, correndo ai comandi. Estrasse il tricorder, attivando la matrice di traduzione, e cercò di disattivare il nucleo. Le altre due squadre ci erano riuscite in fretta, quindi non doveva essere difficile. Riconosciuti i comandi chiave, avviò la sequenza di spegnimento.
 
   Dalla sommità dell’installazione centrale, Ghrath aveva assistito al combattimento. Quando Jaylah prevalse sui difensori della torretta la mirò con un fucile da cecchino, ma l’Agente girò intorno al nucleo prima che potesse fare fuoco, mettendosi al riparo. Il Na’kuhl digrignò i denti affilati e settò la sua arma su un’altra funzione: impulso elettrico. Con quell’impostazione colpì il cerchio di consolle in cima alla torretta.
   La potentissima scossa mise fuori uso i comandi, impedendo di completare la sequenza di spegnimento, e si trasmise a Jaylah, che in quel momento aveva le mani sull’interfaccia. I guanti avrebbero dovuto proteggerla, ma l’esplosione del primo drone li aveva in parte lacerati. La mezza Andoriana gridò, incapace di staccare le mani dal pannello elettrizzato. Fulmini azzurri le risalirono le braccia, le avvolsero il corpo e risalirono fino alla testa, facendole crepitare i capelli. Le scesero in profondità nel petto, arrestandole il cuore. Con una cascata di scintille, la consolle esplose e Jaylah fu scagliata all’indietro, priva di sensi e in arresto cardiaco. L’ultimo nucleo era ancora attivo e il raggio disgregante, sia pure diminuito a un terzo della potenza, stava per raggiungere il mantello del pianeta.
 
   Rintanato nel salone centrale, davanti al generatore, Juri camminava nervosamente su e giù, in attesa degli eventi. Per conoscere gli sviluppi teneva aperte le comunicazioni con il resto della squadra. Così seppe che i Sulibani avevano disattivato il primo nucleo. L’attimo dopo ne ebbe conferma: uno dei tre condotti energetici che alimentavano il generatore si spense.
   Volendo rendersi utile, Juri si accostò a una consolle ancora integra e con l’aiuto del d-pad cercò di decifrarla. Capì che era un regolatore del raggio perforante. Il suo interesse aumentò quando si rese conto che forse anche da lì era possibile disattivarlo. Stava ancora cercando di tradurre i glifi Na’kuhl quando dal comunicatore gli giunsero le voci concitate degli Agenti: i droni si erano ribellati. E l’Umano sapeva che uno di quegli affari era rimasto con lui. Sentendo un ronzio alle spalle si gettò a terra, sfuggendo per un soffio al raggio mortale. Mentre stava ancora rotolando aprì il fuoco, colpendo la parte inferiore del drone. Seriamente danneggiato, l’ordigno cadde a terra. Juri balzò subito in piedi e lo finì con un secondo colpo. Tornato di corsa alla consolle, capì che il raggio disgregante poteva essere disattivato e l’energia re-instradata in un loop. Ma in assenza dei comandi per lo spegnimento vero e proprio, l’energia si sarebbe accumulata, fino a sovraccaricare il generatore. La base sarebbe esplosa. I Sulibani primitivi si sarebbero salvati, ma lui non ne sarebbe uscito vivo.
   «Ma no» pensò lo storico. «Jaylah disattiverà i nuclei e manderà qualcuno dei suoi a prendermi: l’ha promesso». Tese le orecchie, in attesa della notizia. Sentì che Adam aveva disattivato il secondo nucleo e infatti vide spegnersi un altro condotto. Trepidante, attese che gli Agenti sistemassero anche il terzo. Ma ciò che udì di lì a poco gli gelò il sangue. Jaylah era stata colpita, forse uccisa, e i colleghi non potevano raggiungere in tempo l’ultima torretta. Il pianeta era spacciato, a meno che lui non sovraccaricasse il generatore. Gli restava un solo minuto per decidere. Un senso di vertigine lo assalì.
   «Io non dovrei nemmeno essere qui... e adesso devo sacrificarmi per degli alieni che nemmeno conosco! No, anzi, per i loro antenati scimmioni!». L’ingiustizia della situazione lo fece sfrigolare di rabbia, a cui subentrò tuttavia un terrore mortale. Non c’era traccia degli Agenti Temporali; tutto dipendeva da lui.
   Con un brivido, Juri ricordò che quella missione era cominciata con il ritrovamento dei resti della base. Resti deformati e semiliquefatti, che rivelavano un’esplosione. Lo storico comprese d’essere coinvolto in un circolo temporale che, per completarsi, richiedeva il suo sacrificio. Per un attimo si chiese cosa sarebbe successo se si fosse rifiutato di farlo. Forse avrebbe creato una nuova linea temporale, in cui i Sulibani non erano mai esistiti e la Flotta non avrebbe mai indagato sulla cosa. No, non poteva permettere ai Na’kuhl di prevalere. Se si convincevano che quella era la strategia vincente, l’avrebbero ripetuta altrove.
   Con mani tremanti, Juri re-instradò l’energia, mandandola in loop. Squillò un allarme e il generatore prese a vibrare, man mano che la carica si accumulava. L’Umano non sapeva con esattezza quanto mancasse all’esplosione, ma considerando che l’Excalibur era nello spazio e il teletrasporto non funzionava, ritenne impossibile salvarsi. «Beh, Svetta... non era così che pensavo di andarmene» mormorò afflitto. «Milioni di anni nel passato... e nessuno, nel presente, saprà come sono andate le cose». Era l’ultima beffa del destino.
 
   Con un rantolo strozzato, Jaylah si alzò a sedere di scatto. Aveva un dolore sordo al cuore, che le batteva all’impazzata, con ritmo un po’ irregolare. Si guardò attorno, ansimando: era di nuovo al sicuro sull’Excalibur, nella sezione di poppa. I superstiti della sua squadra erano chini su di lei e la scrutavano preoccupati.
   «Bentornata, Tenente» disse Adam. «Come si sente?».
   «A pezzi, ma sono viva» boccheggiò la mezza Andoriana. Abbassando lo sguardo, vide che l’androide le aveva aperto la tuta, applicandole il defibrillatore. Non volle chiedergli quante scosse erano servite per rianimarla. «Cos’è successo?».
   «I Na’kuhl l’hanno colpita con un’arma elettrica. È stata in arresto cardiaco per 3 minuti e 45 secondi, prima che la rianimassi. Ora il suo battito si sta stabilizzando» spiegò l’androide, esaminandola con un tricorder medico. «Ha anche delle ustioni al braccio e alle mani. Le inietto 5 cc d’inaprovalina, prima di passare il rigeneratore dermico». Senza aspettare l’autorizzazione, l’androide prese l’ipospray che un altro collega gli porgeva e le praticò l’iniezione nel collo.
   Ancora debole, la mezza Andoriana si tolse il defibrillatore e richiuse la tuta. «Rapporto» mormorò, cercando di riprendere il comando.
   «Il raggio disgregante è stato disattivato prima che raggiungesse il mantello» rispose Adam. «Il pianeta è salvo».
   «Ma non sono riuscita a spegnere l’ultimo nucleo» obiettò Jaylah. «Chi l’ha fatto?».
   «Nessuno. Il nucleo è ancora in funzione».
   «Cosa?!» sussultò la caposquadra.
   In quella giunse una comunicazione dalla cabina: «Hakon a squadra, la base sta per esplodere. È questione di secondi».
   Confusa, Jaylah si rimise faticosamente in piedi. Respinse Adam, che cercava di curarle le ustioni, e si precipitò in cabina. Hakon era di nuovo al timone e Selmak gli stava accanto, con gli occhi fissi allo schermo. L’Excalibur orbitava centinaia di km sopra la scura nube vulcanica, che si era considerevolmente allargata. All’ingresso di Jaylah, il Sulibano si girò verso di lei. «Ah, Tenente, sono lieto di rivederla» disse. «Quell’Umano che si è portata dietro è un vero eroe. Non dimenticheremo il suo sacrificio».
   «Juri? Che ha fatto?!» chiese Jaylah, venendogli accanto.
   «Ha spento il raggio disgregante, sovraccaricando il generatore» spiegò Hakon. «Senza l’interferenza ci siamo potuti teletrasportare a bordo, prelevando anche lei».
   «E Juri?».
   «Vicino al generatore ci sono ancora troppi disturbi, non riesco ad agganciarlo. Mi spiace» disse l’Illyriano, scuotendo tristemente la testa.
   «Rimandatemi giù... avevo promesso di tornare a prenderlo!» esclamò Jaylah, angosciata. Ma in quel preciso momento la base Na’kuhl esplose. La detonazione brillò attraverso la nuvola di polveri, per poi sollevarne altre, ad altezze ancora maggiori. L’onda d’urto si allargò tutt’intorno: la prateria bruciò, i radi alberi furono sradicati.
   «L’esplosione ha una potenza di quaranta megatoni» disse Hakon, consultando i sensori. «Non sono pochi, ma abbiamo evitato la catastrofe. Fortunatamente non ci sono proto-Sulibani nell’area colpita. Direi che la missione ha avuto successo: la vostra specie è salva» si rivolse a Selmak.
   «Grazie infinite a tutti voi» disse il Sulibano, stringendogli la mano. Fece per stringerla anche a Jaylah, ma la caposquadra era rimasta congelata, con gli occhi fissi allo schermo.
   «Juri...» mormorò scioccata. Aveva insistito lei perché venisse, sottovalutando la pericolosità della missione. Una volta sul campo, gli aveva detto di restare presso il generatore, promettendo di tornare a prenderlo. E quando poi aveva fallito il suo compito, lo aveva costretto a immolarsi, lui che non era neanche della Flotta.
   «Venga, Tenente» disse gentilmente Adam, che l’aveva seguita in cabina. «Devo curarle le ustioni».
   «Quali sono gli ordini?» chiese però Hakon.
   A Jaylah servì qualche secondo per elaborare la risposta. «Scansionate il pianeta... no, tutto il sistema... in cerca dei Na’kuhl. Se non ce n’è più traccia, torniamo a casa» disse con la bocca secca. Poi, come trasognata, seguì Adam nella sezione di poppa. Non avvertiva nemmeno il dolore delle ustioni. La morte di Juri era assai più bruciante.
 
   Con il generatore che vibrava sempre più forte, Juri ebbe la certezza che mancassero pochi minuti all’esplosione.
   «Smirnov a squadra, mi sentite? Smirnov a Excalibur, mi sentite?!» chiese, con la flebile speranza che il teletrasporto fosse di nuovo operativo. Non ebbe risposta. Corse verso il corridoio che portava all’esterno, ma sbatté contro un campo di forza e cadde all’indietro tramortito. Mentre si rialzava dolorante, capì che era quel campo a bloccare le comunicazioni. Ma chi lo aveva attivato? Forse c’erano ancora dei Na’kuhl nell’installazione. E non volevano farlo scappare.
   «Fermo!» gridò una voce alle sue spalle. «Getti subito il phaser, o la ucciderò!».
   Non dubitando dell’ultimatum, Juri lasciò cadere l’arma. Poi si girò lentamente. Ghrath e un pugno di soldati superstiti erano tornati, probabilmente tramite uno degli altri corridoi.
   «Guarda chi si rivede!» sogghignò l’Umano. «È un po’ tardi per uscire, temo. Moriremo assieme».
   «Si sbaglia» disse Ghrath a sorpresa. «Anche se i suoi compagni l’hanno abbandonata, il mio popolo non fa lo stesso coi propri soldati. Guardi: il condotto temporale che ci ha portati qui si sta riattivando».
   Il Na’kuhl aveva ragione. Una distorsione luminosa di colore azzurro apparve al centro della sala e crebbe rapidamente, assumendo forma a imbuto. L’aria ne fu risucchiata, perché il luogo dall’altra parte aveva una minore pressione atmosferica. Sembrava quasi di trovarsi davanti a un piccolo buco nero. Ma Juri sapeva che dall’altra parte c’era qualcosa di peggio: l’infernale pianeta dei Na’kuhl.
   «Noi torniamo a casa» disse Ghrath. «E lei verrà con noi».
   «Per essere giustiziato? Preferisco finirla qui, in fretta» ribatté Juri.
   «La scelta non è sua» avvertì Ghrath. Regolò la sua arma elettrica su stordimento e fece fuoco. Colpito in pieno, l’Umano si accasciò con un lamento. Due soldati Na’kuhl si affrettarono a sollevarlo, tenendolo per le spalle e le gambe.
   Mentre gli allarmi squillavano a più non posso e scariche di plasma avvolgevano il generatore sovraccarico, i Na’kuhl attraversarono in fila indiana il condotto temporale. Ghrath passò per primo, mentre per ultimi vennero i due che reggevano il corpo esanime di Juri. Il condotto temporale si chiuse dietro di loro, emettendo alti livelli di radiazioni tachioniche.
   Pochi attimi dopo il generatore esplose con tale violenza da disintegrare il corpo centrale dell’installazione. Anche le torrette furono travolte. In una di esse, il nucleo ancora attivo si ruppe, provocando un’esplosione ancora più massiccia. Gran parte della base si vaporizzò. Frammenti semifusi di tetraburnio e iridio furono scagliati in tutte le direzioni, talvolta arrivando a chilometri d’altezza prima di ricadere sulla pianura. Nei tre milioni di anni successivi, gli agenti atmosferici li avrebbero ricoperti con strati di sedimenti, prima che gli archeologi Sulibani li riportassero alla luce.
 
   Jaylah rimase in silenzio mentre Adam le passava il rigeneratore dermico sulle ustioni al braccio e alle mani. Solo quando l’androide ebbe finito si riscosse dallo stato di shock. Le era già capitato di perdere degli Agenti, ma mai così tanti in un colpo solo. E la morte di Juri era ancora più dolorosa in quanto lo storico non avrebbe neanche dovuto essere lì. Tornata in cabina, la mezza Andoriana ebbe conferma che i sensori non rilevavano attività Na’kuhl in tutto il sistema.
   «Penso che siano tutti morti» disse Hakon.
   «Ma come hanno fatto a venire qui?» chiese Selmak. «Con un’astronave? O un condotto?».
   «Sappiamo pochissimo sulla loro tecnologia temporale» sospirò Jaylah. «I servizi segreti ritengono che quando facevano parte del Fronte Temporale i Na’kuhl abbiano acquisito molte conoscenze. E hanno passato gli ultimi trent’anni a perfezionarle. Ma questo è il primo caso confermato in cui hanno viaggiato nel tempo».
   «Allora dobbiamo avvertire la Flotta» disse Hakon.
   «Forse posso rispondere alla domanda del Maggiore Selmak» disse Adam, che si era messo alla postazione sensori. «Poco prima dell’esplosione c’è stato un picco di radiazioni tachioniche al centro della struttura. Potrebbe significare che i Na’kuhl sono fuggiti con un condotto temporale».
   «Ma non c’era nulla del genere in quella stanza!» obiettò l’Illyriano.
   «Forse la macchina si trova sul loro mondo e qui si è aperta solo l’estremità del tunnel» ipotizzò l’androide. «Le radiazioni sono durate un minuto e trentacinque secondi, abbastanza da permettere ai Na’kuhl di fuggire».
   Jaylah si sentì sprofondare. «Juri!» disse in un soffio. «C’era anche lui, là dentro».
   «L’avranno ucciso» disse Hakon, cupo.
   «O forse l’hanno portato con loro» ipotizzò Adam.
   «Prigioniero dei Na’kuhl? Per il bene del vostro amico, spero che non si sia fatto prendere vivo» disse Selmak.
   «Torniamo alla Keter» ordinò Jaylah, con il cuore in subbuglio per quell’eventualità. L’idea che Juri fosse morto per completare la sua missione era già abbastanza brutta. Ma il pensiero che fosse catturato e torturato dai Na’kuhl le era intollerabile. Nessun caposquadra avrebbe dovuto abbandonare i suoi uomini a un simile destino.
 
   «Avanti» ordinò il Capitano Hod.
   Jaylah entrò nell’ufficio con lo sguardo basso. Giunta davanti alla scrivania si mise sull’attenti, anziché accomodarsi sulla sedia degli ospiti, e restò in silenzio.
   «Ho letto il suo rapporto» disse Hod, dopo averla studiata per qualche secondo. «È stata molto dura con se stessa».
   «Non più del dovuto, Capitano» sostenne Jaylah. «Ho sottovalutato i rischi. Ho ripetutamente preso decisioni tattiche fallimentari. E sono responsabile della morte di Juri... o della sua cattura» aggiunse con un brivido.
   «É vero» riconobbe l’Elaysiana con gravità. «Ma non è l’unica ad aver sbagliato. Non avrei mai dovuto inviare una sola navetta in una missione così incerta. Almeno avete salvato i Sulibani» aggiunse con un sospiro. «Dib sostiene che, siccome tutto è cominciato col ritrovamento dei resti della base, siamo incappati in un circolo temporale. Perciò le cose non potevano andare diversamente da come sono andate. Se è così... non posso incolparla di niente».
   «Questo significa che viviamo in un Universo deterministico? Che ogni mia azione era già scritta nel destino e non avrei potuto fare altro?!» insorse Jaylah.
   «Ah, il libero arbitrio!» disse Hod, scuotendo tristemente la testa. «Abbiamo un disperato bisogno di crederci. Ma i viaggi nel tempo continuano a darci risultati contraddittori. A volte ci sono circoli temporali come questo; in altri casi la Storia viene realmente alterata».
   Il Capitano lasciò la poltrona e si avvicinò all’Agente Temporale. «Il dato più importante di questa missione è la conferma che i Na’kuhl possono viaggiare nel tempo. Ho ordinato che, d’ora in poi, i nostri scudi cronofasici siano costantemente in funzione. Se i Na’kuhl cambieranno la Storia, noi ce ne accorgeremo. E cercheremo di rimediare. Può andare, Tenente».
   Jaylah non si mosse. Respirò a fondo, come per raccogliere la determinazione. «Capitano, vorrei rassegnare le dimissioni» disse tutto d’un fiato.
   L’Elaysiana la fissò interdetta. «Dalla Squadra Temporale... o dalla Flotta?» chiese.
   «Dalla Flotta. In troppi sono morti al mio comando, oggi. Non deve più accadere» rispose la mezza Andoriana.
   «È una prova che ogni comandante, prima o poi, deve affrontare» disse Hod con severità. «La prima volta che persi un ufficiale, mi sentii a pezzi... ma sono andata avanti. Lei è ancora sotto shock, quindi fingerò di non aver sentito la richiesta. Vada in infermeria e poi si prenda qualche giorno di riposo. Pensi bene alle sue mosse. Finora ha avuto una carriera brillante. Gli eventi di oggi la intaccheranno, ma non è ancora al capolinea. Se molla la Flotta, non tornerà più nello spazio. È certa di volerlo? Se ne ha abbastanza della Squadra Temporale, può tornare alla Sicurezza ordinaria. Sarebbe un buon compromesso, se accetta il mio parere».
   «Io... ci penserò, Capitano» disse Jaylah, vacillando per la stanchezza. «Grazie». Lasciò l’ufficio, seguita dallo sguardo preoccupato di Hod.
 
   «Buongiorno, dottore».
   Con la mente ancora annebbiata e le membra doloranti per i postumi dello stordimento, Juri sbatté gli occhi e si guardò attorno. Era in ceppi, immobilizzato su una sedia da tortura, in una sala semibuia. Le pareti, il soffitto e il pavimento erano neri, appena rischiarati da qualche faretto rosso. In quella tetra penombra si stagliavano le sagome di alcuni Na’kuhl, alti e magri, dai visi crudeli appena intuibili. Alcuni di loro dovevano essere scienziati; e poi c’era Ghrath. La loro immobilità e il loro silenzio erano più spaventosi delle minacce.
   «Fatemi indovinare: fra poco rimpiangerò d’essere nato» mormorò l’Umano, con la voce ancora impastata. Finire in mano ai Na’kuhl era l’incubo dei federali. Nessuno era mai fuggito da loro con le proprie forze.
   «Questo dipende da lei, in realtà» disse Ghrath. «Come può immaginare, l’abbiamo risparmiata solo in quanto la sua mente è una miniera d’informazioni. E noi siamo esperti nell’attività estrattiva».
   A queste parole, gli altri Na’kuhl presenti in sala si recarono alle consolle. Un braccio meccanico articolato entrò nel campo visivo del prigioniero e si posizionò davanti a lui. Gli puntò in fronte un dispositivo simile a un’arma a raggi, ma terminante in un ago. Dai sinistri ronzii alle sue spalle, lo storico intuì che dietro di lui c’erano molti di quegli arnesi, pronti a entrare in funzione.
   L’Umano si passò la lingua sulle labbra secche. Non dubitava che i Na’kuhl avessero i mezzi per estrargli ogni singolo ricordo. C’era solo da chiedersi quanto lo avrebbero fatto soffrire, e quando si sarebbero degnati di ucciderlo. «Potreste restare delusi» disse con la fronte imperlata di sudore. «Non sono un Agente Temporale e non appartengo neanche alla Flotta. Sono solo un consulente storico. Ero lì nell’eventualità che le mie competenze fossero richieste... cosa che non è stata».
   «Però è stato lei a sovraccaricare il generatore, distruggendo la nostra base» puntualizzò Ghrath. «Così facendo si è schierato col nemico».
   «Quando sono sbarcato, non sapevo nemmeno che quell’installazione fosse vostra» ribatté Juri. «Poi, una volta dentro, siete stati voi ad attaccarci. Io non ci volevo neanche venire, in quel postaccio!».
   «Allora deve biasimare quelli che l’hanno trascinata lì, signor Smirnov».
   «Gli amici mi chiamano Juri. Lei può chiamarmi dottor Smirnov».
   «Il suo ricorso all’umorismo per sdrammatizzare indica che lei è terrorizzato, dottor Smirnov» ghignò il Na’kuhl. «E ne ha ragione. La informo che, comunque vadano le cose, lei morrà qui. Se non opporrà resistenza, durante la lettura mentale, conserverà il lume della ragione e a cose fatte sarà giustiziato in modo rapido. Se invece preferirà resistere e soffrire inutilmente, le sue facoltà mentali si deterioreranno, riducendola a una patetica larva. Da parte mia, posso solo consigliarle la strada meno dolorosa. Tanto per noi non cambia niente».
   Al cenno di Ghrath, l’inquietante strumento ad ago si attivò, proiettando un raggio viola contro la fronte di Juri. L’Umano gridò in agonia: aveva la sensazione che una lama incandescente gli aprisse in due il cranio. Avvinto com’era alla sedia, cercò di spostare almeno la testa. Ma qualcosa – forse un sofisticato campo di forza – gliela tenne immobile.
   «Connessione con l’ippocampo stabilita» disse un chirurgo Na’kuhl. «Inizio l’iper-stimolazione sinaptica».
   Il ronzio del marchingegno salì di tono e Juri sentì il dolore moltiplicarsi. Mai, in tutta la sua vita, aveva provato un’agonia simile. Gridò ancora più forte, ma dopo pochi secondi la bocca e le corde vocali smisero di rispondere.
   «Le urla mi danno fastidio» spiegò il chirurgo, degnandolo appena di uno sguardo. Poi si rivolse a Ghrath: «Ci vorrà un po’, Generale. Se ha altri impegni, la contatteremo non appena avremo qualcosa di rilevante».
   «Per adesso non danneggiatelo troppo» ordinò Ghrath, mentre se ne andava. «Forse gli vorrò parlare ancora».
 
   Non vista, Jaylah entrò nel laboratorio di Juri. Come ufficiale al comando della squadra, quando lo storico era scomparso, le toccava scrivere alla famiglia. Ma pur avendo già scritto le lettere per gli altri caduti, stavolta non sapeva proprio che dire. L’Umano era uno degli individui più enigmatici della Keter. Riservato e taciturno, usciva poco dal suo laboratorio; in mensa e in palestra lo si vedeva di rado. Giusto ogni tanto si tratteneva in sala ricreativa, per giocare a scacchi col Capitano o altri ufficiali. In queste occasioni Jaylah gli aveva parlato, scoprendo che lo storico sapeva essere sorprendentemente loquace, quando si toccavano argomenti di suo interesse. Ma non era mai riuscita a cavargli di bocca informazioni personali. Ed essendo lei stessa un tipo riservato, non aveva mai insistito. Ora però doveva parlare di lui alla famiglia, per giunta senza sapere con certezza se era vivo o morto. Sperava che, visitando il suo laboratorio, le venisse qualche idea. Magari si sarebbe ricordata qualcosa di particolare che Juri aveva detto o fatto.
   La mezza Andoriana passeggiò a lungo da una stanza all’altra del laboratorio, guardandosi attorno in cerca d’ispirazione. C’erano manufatti di mezza Galassia, molti dei quali non riusciva nemmeno a identificare. Alcuni erano inquietanti, come un teschio dall’occhio artificiale rosso che galleggiava dentro un campo di contenimento. Lunghi e sottili tentacoli metallici, terminanti in strumenti specializzati, gli uscivano dalla base al posto della spina dorsale. Un appunto di Juri lo descriveva semplicemente come “Servo-teschio imperiale, da maneggiare con cautela”. Altri oggetti erano semplicemente strani, come la statua di un angelo piangente, col viso nascosto fra le mani. Un appunto raccomandava di non spostarlo mai, perché non doveva uscire nemmeno per un istante dall’inquadratura della telecamera. Jaylah ne ignorava il motivo; ma sapeva che oltre ai manufatti storici lì c’erano alcuni oggetti provenienti da realtà alternative.
   Poco alla volta, la mezza Andoriana si concentrò sempre più sulla lettera da scrivere, facendola e disfacendola nella propria mente. Camminava in automatico, senza quasi più vedere gli oggetti davanti a lei. Per caso, o per un desiderio inconscio, i suoi passi la portarono davanti alla scrivania di Juri. Qui il filo dei pensieri s’interruppe e l’Agente si trovò a fissare l’unica foto che vi campeggiava. Raffigurava una bimba sorridente, di forse cinque anni, che correva in un prato. Una volta Juri le aveva rivelato che si trattava di sua sorella Svetlana. Jaylah sapeva che era morta da bambina, ma non conosceva i dettagli. D’un tratto provò il desiderio – persino l’urgenza – di approfondire. Non perché volesse menzionare Svetlana nella lettera, ma per capire un po’ meglio Juri. E oltre a questo, aveva l’inspiegabile sensazione che fosse importante saperlo.
 
   Flash.
   «Ti prendo, ti prendo!» gridò Juri. Aveva otto anni e stava inseguendo Svetlana, dopo averla cercata fra gli alberi. Ora correvano nel prato assolato, cosparso di fiori, così diverso dalla superficie grigia e spoglia della Luna.
   «No!» strillò lei con la sua vocetta acuta. La bambina correva a più non posso, ma aveva solo cinque anni. Il fratello maggiore aveva gambe più lunghe e quindi non faticò a raggiungerla. L’afferrò per un braccio, trattenendola.
   «Presa!» gioì Juri. «Quando giochiamo a nascondino devi cercare ogni volta un posto diverso. Sennò ti trovo subito!» spiegò.
   «Giochiamo ancora! Ancora!» gridò la bambina, saltellando vispa.
   «Juri, Svetta, venite!» gridò Sergej. La bambina corse verso di lui, ridendo, e il padre ne approfittò per scattare un’olografia. «Questa la incorniciamo» disse, soddisfatto di com’era venuta.
   «Che succede?» chiese Juri, arrivato subito dopo la sorella.
   «Si sta facendo tardi, dobbiamo andare» spiegò Vlatka.
   «Di già? Io voglio restare!» protestò il bambino.
   «Juri, sai che anche in vacanza ci sono regole» spiegò la madre. «Veniamo di rado sulla Terra e abbiamo molti posti da visitare. Su, andiamo».
   «Va bene...» si arrese Juri, un po’ immusonito.
 
   Flash.
   Nuova Berlino era nel caos. Le cupole si frantumavano e l’aria ne veniva risucchiata, trascinandosi dietro persone e oggetti. La popolazione cercava rifugio nei livelli sotterranei più profondi, ma anche questi crollavano, sotto la furia dell’attacco Na’kuhl. Anche la scuola di Juri stava crollando. Gli allarmi squillavano, le polveri grigie riempivano aule e corridoi. Il bambino vide insegnanti e compagni perire sotto le macerie, tutt’intorno a lui. Scese di corsa le scale e si precipitò per l’androne che portava al bunker. Non sapeva se quel rifugio avrebbe retto, o se gli sarebbe crollato addosso come tutto il resto, ma non aveva scelta. Il corridoio franò alle sue spalle, schiacciando i compagni meno fortunati. Juri udì le urla, ma non si voltò. Corse a perdifiato, inseguito dal crollo.
   L’ingresso del bunker era sempre più vicino. C’erano dei compagni, all’interno, che gli facevano segno di spicciarsi. D’un tratto il portone corazzato iniziò a chiudersi. «No, fermi!» gridò Juri, correndo ancora più forte. Da quando avevano fatto le esercitazioni, sapeva che i comandi del portone si trovavano dentro il bunker e non in qualche centralina. Quindi stava al giudizio di chi era già dentro scegliere il momento in cui isolarsi dall’esterno. «Aspettatemi!» gridò il bambino. Oltre ai compagni, vide che all’interno c’era anche un insegnante. Tutti lo esortavano a correre, ma nessuno fermava la chiusura del portone.
   Con uno scatto disperato, Juri varcò l’ingresso appena prima che si serrasse. Una volta dentro si gettò a terra, coprendosi la testa con le mani. Il bunker tremava e le pareti di tetraburnio si crepavano con un cigolio agghiacciante. D’un tratto i pannelli luminosi persero energia, lasciando i superstiti al buio. I bambini gridavano terrorizzati e molti tossivano, avendo respirato le polveri. Juri invece restò in silenzio, concentrandosi sulla speranza di rivedere i suoi cari.
 
   Flash.
   «Mamma!» gridò Juri, correndo fra le braccia di Vlatka.
   «Juri!» singhiozzò la madre, stringendolo a sé con tutte le sue forze. «Come stai? Stai bene?!» chiese, rigirandoselo tra le mani per osservarlo da tutti i lati. Per fortuna trovò solo qualche piccola escoriazione.
   «Sì, sto bene» disse Juri. «Il bunker ha resistito. Però è passato tanto tempo prima che ci facessero uscire».
   «Lo so, amore. Mi dispiace».
   Attorno a loro, altri bambini si ricongiungevano ai parenti. Molti, però, non avevano nessuno che li venisse a prendere. Poliziotti e personale medico stavano cercando di capire chi era rimasto orfano. Ancora più straziante era la vista dei genitori che si aggiravano come dissennati, gridando il nome dei loro figli senza riuscire a trovarli. Le squadre di soccorso stavano ancora scavando sotto le macerie.
   «Dov’è papà?» chiese Juri.
   «All’ospedale... ma sta bene, lui» rispose Vlatka con voce incrinata.
   «E Svetta?».
   «Lei è viva... non è ferita. Solo che...». Vlatka non riuscì a finire. Girò la testa, per non far vedere le lacrime al figlio.
   «Che cosa? Come sta?!» si agitò il bambino. «Dimmelo!».
   «Te lo dirò, tesoro, ma sii forte» disse Vlatka, tornando a stringerlo. «Tua sorella era alla scuola dell’infanzia, nel settore V-2. Quel settore è stato isolato per contaminazione. Chi ci ha attaccati ha usato un’arma biologica, di un tipo mai visto prima» rivelò.
   «Un’arma...? Vuoi dire una malattia?!» chiese Juri, atterrito.
   «Sì tesoro, una malattia» disse Vlatka, senza più nascondere le lacrime. «I dottori stanno cercando di capire come curarla. Per adesso hanno messo Svetta in una capsula di stasi, per impedire che il male si propaghi».
   «Ma la guariranno, vero? Si sveglierà, vero?!» implorò il bambino.
   Vlatka deglutì. Avrebbe voluto rassicurare il figlio, ma non osava dargli false speranze, nel caso accadesse l’irreparabile. «I dottori faranno tutto il possibile» mormorò.
   «Ma chi ci ha attaccati? I Costruttori di Sfere? I Krenim?» volle sapere Juri, per dare un senso all’accaduto.
   «No, si tratta di una specie mai vista prima» rivelò Vlatka. «Si chiamano Na’kuhl. Loro ci hanno fatto questo».
 
   Flash.
   «Tua sorella è morta, ragazzino» disse il medico Edosiano, strappando la tendina che circondava la capsula. Tese il collo lungo e magro, allungando in avanti la testa grinzosa. «È meglio che lo accetti, se non vuoi finire come i tuoi genitori».
   «È morta perché voi l’avete uccisa!» ringhiò Juri, fissando gli occhi grigi in quelli gialli dell’alieno.
   «È morta perché aveva una malattia incurabile» corresse il medico. «Abbiamo fatto tutto il possibile per salvarla. Ma quando non c’è speranza, bisogna avere il coraggio di lasciar andare i propri cari».
   «Stavolta era troppo presto per rinunciare alla speranza» insisté il ragazzino, con voce dura. «Io credo che l’abbiate fatto perché era la cosa più facile».
   «Sei un dottore, tu?  Certo che no. E allora non insegnarci il mestiere!» rimbeccò l’Edosiano. «Lascia queste cose a chi è adulto e competente. Va’ a casa, ora. Il poliziotto ti accompagnerà».
   «E i miei genitori?».
   «Tua madre sarà rilasciata appena riprenderà i sensi. Tuo padre, però, dovrà essere processato per l’aggressione» rispose la guardia. «Mi spiace che tu abbia assistito a tutto questo. Spero che non seguirai l’esempio dei tuoi genitori, e che crescendo sarai rispettoso della legge. Per stavolta te la cavi... ma alla prossima infrazione ti prenderemo i dati biometrici. Hai capito?».
   «Capisco anche troppo» rispose Juri, fissandolo con disprezzo. «Capisco che i forti comandano e i deboli muoiono». Poi si rivolse di nuovo all’Edosiano. «Se Svetta non fosse stata Umana, ma della sua specie, le avrebbe spento la capsula?» chiese.
   «Certamente» rispose il medico.
   «Chissà!» rispose il ragazzino, scrutando con diffidenza gli alieni che lo circondavano. Il tarlo del sospetto aveva già iniziato a rodergli la mente.
 
   «Svetta...» mormorò Juri, ancora intontito dai flash. Solo il sapore salato in bocca gli fece capire che stava piangendo. Sbatté gli occhi e poco alla volta tornò in sé. Era ancora avvinto alla sedia degli interrogatori, con la sonda mentale che violava i recessi più profondi della sua memoria. «Svetta, dammi la forza...» singhiozzò, certo che da un momento all’altro sarebbe uscito di senno, se non era già accaduto. Se fosse impazzito, se ne sarebbe accorto? Probabilmente no... i pazzi pensano di stare bene. Quindi finché temeva d’impazzire era ancora abbastanza sano di mente.
   «La resistenza del soggetto è sorprendente» disse uno dei chirurghi Na’kuhl. «Abbiamo impiegato il doppio del tempo consueto per superare le sue difese. E ora che cerchiamo informazioni sulla Flotta Stellare, veniamo sempre deviati su questi ricordi d’infanzia».
   «Perché?» chiese una voce profonda, che Juri non riconobbe. Lo storico sbatté gli occhi e cercò di mettere a fuoco il nuovo arrivato, ma questi se ne stava lontano, avvolto dalle ombre.
   «Credo si tratti di un meccanismo difensivo, signore. Questi ricordi gli danno forza» spiegò il chirurgo.
   «Ma è strano» disse un altro medico. «Di solito ci si aggrappa ai ricordi piacevoli. Questi invece sono traumatici. Eppure il soggetto continua a indugiarvi».
   «Non c’è nulla di strano» disse il visitatore. «Nell’estrema sofferenza, la maggior parte delle persone si aggrappa ai ricordi felici. Ma chi ha la volontà più ferrea rammenta i momenti che l’hanno forgiato. Momenti di dolore, di collera, di rimorso. Questi sì che possono rafforzare la volontà oltre ogni limite! Spegnete la sonda; voglio parlare con lui».
   «Agli ordini, mio signore».
   Il raggio fu disattivato all’istante. Juri strinse i denti e respirò a fondo, con le tempie che gli pulsavano all’impazzata e un dolore che s’irradiava dal centro del cranio. Gradualmente le fitte diminuirono e la vista si schiarì. Vide i medici Na’kuhl, in piedi davanti ai comandi della sonda mentale. Il nuovo arrivato invece indugiava in fondo alla sala, celato dall’oscurità.
   «Lei non è Ghrath... lo capisco dalla voce» disse Juri. «Le dispiace avvicinarsi? Vorrei vedere il suo grado, tanto per sapere quanto vale il mio cervello per voi».
   «Una richiesta cortese non si nega, dottor Smirnov» disse lo sconosciuto. I suoi stivali rimbombarono nella sala, man mano che si avvicinava. Finalmente entrò nel raggio dei faretti rossastri. Somigliava molto agli altri Na’kuhl, ma la sua pelle tendeva al beige anziché al violetto. La sua uniforme era nera, senza contrassegni tranne una mostrina con l’emblema dei Na’kuhl: un teschio da cui si allargavano ali da pipistrello. Passato il primo attimo d’incertezza, Juri riconobbe il suo volto. Lo aveva visto più volte, sui servizi del Federal News dedicati alla Guerra delle Anomalie. Ma dopo la fine del conflitto sembrava svanito nel nulla. Alcuni sostenevano che fosse morto, anche se non vi erano prove al riguardo. E invece eccolo lì, per nulla invecchiato. Ma non c’era da stupirsene: i Na’kuhl vivevano molti secoli.
   «Leader Supremo Vosk» mormorò Juri. «Non pensavo che avesse tempo per questioni di così poco conto».
   «Non si sottovaluti, dottore. Avere un ospite della Keter è un’imprevista, ma fortunata evenienza» assicurò il Leader Supremo. «Sono anni che m’interesso alla vostra nave, seguendone le mosse con la dovuta discrezione. In un certo senso vi ammiro... siete costretti a combattere su due fronti. Da un lato le mille insidie della Galassia, dall’altro un’Unione che vi disprezza e vi umilia».
   «Il valore di un uomo si misura dalla forza dei suoi avversari» disse Juri a denti stretti, fissando gli occhi sanguigni del mostro che aveva sterminato milioni di persone, inclusa sua sorella.
   «Ben detto!» approvò Vosk. «Lei mi piace, dottor Smirnov. Voglio discutere a fondo con lei. Facciamo stasera, nel salone delle cene ufficiali» decise. Con un cenno del capo chiamò alcuni soldati, che liberarono l’Umano dai ceppi.
   Vedendo che un Na’kuhl cercava di tirarlo su, Juri lo respinse e si alzò con le proprie forze. Sebbene fosse debole e la testa gli girasse, riuscì a tenersi dritto. «A stasera, allora» disse.
   Soddisfatto da quel primo incontro, Vosk girò sui tacchi e lasciò la sala degli interrogatori, senza aggiungere altro.
   «La scorteremo a un alloggio, così potrà prepararsi per la cena» disse un soldato, accostandosi a Juri. «Lei è molto fortunato... il Leader Supremo non concede facilmente udienza».
   «È prematuro chiamarla fortuna» ribatté Juri. Dopo di che si lasciò scortare dai Na’kuhl al suo alloggio temporaneo.
 
   Chiuso in uno degli spartani alloggi Na’kuhl, Juri non aveva modo di misurare il tempo. Perciò si preparò al più presto, sapendo che potevano prelevarlo in qualunque momento. Fece la doccia, si rasò e indossò un abito grigio che aveva trovato piegato su una sedia. Voleva rimettersi in sesto, per dimostrare ai Na’kuhl che non l’avevano piegato né spezzato. Però non tentò la fuga: avrebbe ottenuto solo di farsi uccidere o d’essere punito con ulteriori torture. In realtà non sapeva nemmeno su che pianeta era. Tutte le stanze e i corridoi che aveva visto erano privi di finestre. Se era su Na’kuhl Primo, allora si trovava migliaia di km nel sottosuolo. Se invece l’avevano portato in un avamposto, la superficie poteva essere più vicina. Ma da solo non aveva comunque speranza di evadere.
   Dopo quelle che gli parvero poche ore, l’Umano fu prelevato da un drappello di soldati. Senza una parola, lo condussero per corridoi e turboascensori, fino al salone delle cene. Era una stanza arredata in modo essenziale, con un tavolo e alcune sedie dalle linee minimaliste. Vosk era già seduto al suo posto. E poiché il tavolo era apparecchiato solo per due, non si aspettavano altri commensali.
   «Si accomodi, dottor Smirnov» lo accolse Vosk.
   «Grazie, Leader Supremo» disse Juri, rispettando il suo titolo, malgrado tutto l’odio che gli portava. Sedette nel posto che gli era stato preparato, sul lato opposto del tavolo, così da fronteggiare Vosk. Notò che due soldati erano rimasti in sala, ai lati della porta, certo per vigilare sulla sicurezza del loro leader.
   «Spero che mi perdonerà per la nostra cucina, ma non siamo abituati ad avere ospiti Umani» disse Vosk. «Comunque mi sono assicurato che non ci sia nulla di tossico per il suo organismo. Prego, si serva».
   Juri aveva davanti a sé diversi piatti, tutti coperti con dei vassoi. Fattosi coraggio, ne accostò uno e lo scoprì. Lo trovò pieno di grosse sanguisughe, gonfie di sangue. Le bestie erano vive, tanto che cercarono di strisciare fuori dal piatto.
   «Ottima scelta» disse Vosk. «Le sanguisughe sono uno dei nostri piatti preferiti. Perché bere a parte, quando si possono integrare i liquidi assieme al cibo?». Così dicendo scoprì il suo piatto, che era colmo delle stesse disgustose creature. Ne prese una, l’accostò alla bocca e la spremette, gustandosi il sangue caldo. Poi divorò anche la sanguisuga, con pochi morsi decisi.
   «Ehm... non ho sete, grazie» mormorò Juri, richiudendo il vassoio prima che le sanguisughe si mettessero a scorrazzare sul tavolo. Prese un altro piatto e lo scoprì. Questo conteneva dei grossi scarabei vivi, dalle elitre luccicanti.
   «Un’altra prelibatezza del nostro mondo» spiegò Vosk. «Su, l’assaggi!».
   Non osando rifiutare anche questo piatto, Juri prese uno scarabeo. Lo contemplò un attimo, mentre gli si agitava in mano. Poi chiuse gli occhi e ne staccò metà con un morso. Con sua sorpresa, non era così disgustoso. Aveva un esoscheletro croccante e un interno molliccio: sembrava quasi di masticare un biscotto. Juri ne mangiò parecchi, non volendo arrischiarsi a scoprire altre “prelibatezze”.
   «E ora agli affari» disse Vosk a pasto concluso. «Lei è un civile, eppure ha mostrato una dedizione da soldato su Suliban. Quando ha sovraccaricato il generatore del raggio, era certo di morire. Non si aspettava che le mie truppe la salvassero».
   L’Umano annuì.
   «Distruggendo quell’installazione, lei ci ha causato un danno notevole» proseguì Vosk. «Non parlo tanto dell’operazione in sé, visto che i Sulibani sono una specie secondaria. Mi riferisco al valore dell’esperimento. Stavamo cercando di capire se si può cancellare con successo un’intera specie, senza incappare in paradossi temporali. I nostri scienziati sono divisi sull’argomento. Quanto accaduto oggi potrebbe essere interpretato come una risposta negativa. Perciò mi dica: come avete fatto a trovarci nel passato?».
   Juri si chiese se gli conveniva mentire. Decise di no: la verità poteva scoraggiare Vosk dal riprovarci. «Tutto è cominciato dal ritrovamento dei resti della base» spiegò. «Gli archeologi Sulibani li hanno inviati a me. Io ho escluso che appartenessero a popoli antichi, anche se non avevo capito che fossero opera vostra. E sono riuscito a datare con precisione il momento dell’esplosione. Così ci siamo presentati».
   «Dunque siamo di fronte a un circolo temporale» riconobbe Vosk. «È fastidioso, non trova? Sembra quasi che, malgrado i nostri sforzi, il passato sia impossibile da modificare. Eppure so per certo che, in alcune occasioni, è stato fatto. Altrimenti non ci sarebbero Agenti Temporali disseminati nei punti chiave della Storia».
   «Sono uno storico, non un esperto di meccanica temporale» si schermì Juri. «Giusto per curiosità... che vi hanno fatto di male i Sulibani?».
   «Sono coinvolti nella Guerra Temporale» spiegò Vosk. «Come voi, del resto. Infatti i miei strateghi premono per un’incursione nel passato terrestre. Se distruggiamo l’umanità, la Federazione – e poi l’Unione – non sorgeranno mai».
   «Al solito!» sbottò Juri. «Aver creato il governo federale ci ha trasformati in bersaglio per tutta la Galassia».
   «Lei ha colto il punto» ghignò Vosk. «La nostra contesa deriva dal fatto che siete gli artefici della Federazione e che la Terra è tutt’ora la capitale. Se il punto nevralgico fosse Vulcano o Andoria, sarebbero quelli i miei bersagli».
   «Vuole sgretolare l’Unione per facilitare la sua espansione militare» riconobbe Juri. «Gli antichi Romani avevano un detto: divide et impera. Dividi e conquista».
   «Qualcosa del genere, sì» ammise Vosk. Prese un altro scarabeo e lo sgranocchiò. «Il problema è che uno sterminio su larga scala genera forte resistenza. Se anche riuscissimo a distruggere la Terra nel passato, gli Agenti Temporali interverrebbero per fermarci. Per questo stavo valutando un approccio alternativo».
   «E sarebbe?» chiese Juri, un po’ sorpreso.
   «Se impedissimo la nascita della Federazione senza distruggere la Terra, creeremmo un nuovo status quo che molti avrebbero interesse a difendere» spiegò Vosk. «Magari gli Agenti Temporali stessi! Senza la Federazione, la Galassia potrebbe essere un posto migliore per tutti» suggerì. «Saremmo liberi di espanderci e all’occorrenza anche di scontrarci, ma senza questo macigno che grava sulle nostre spalle».
   «La Federazione è stata la nostra miglior difesa militare» obiettò Juri. «Senza di quella, divorereste i popoli del Quadrante uno ad uno. Prima o poi arrivereste anche alla Terra».
   «La Federazione, una difesa?!». La risata di Vosk era fredda come il ghiaccio. «Lei stesso ammette che i frequenti attacchi alla Terra dipendono proprio dal fatto che è la capitale federale. Prima la Federazione vi trasforma in bersaglio. Poi vi salva per il rotto della cuffia, magari dopo che c’è stato qualche milione di morti. Infine si vanta d’essere indispensabile per la vostra protezione. Me lo lasci dire... chi baratta la propria sovranità per un’illusione di sicurezza le perde entrambe e non ne merita nessuna».
   «Probabilmente è così» ammise Juri di malavoglia. «Ma la storia della civiltà è sempre stata un aggregarsi di popoli, che confluiscono in governi sempre più ampi».
   «E quando i governi sono ampi abbastanza, si disgregano per le lotte intestine» aggiunse Vosk. «Quanto crede che resti all’Unione, prima che crolli sotto il proprio peso?».
   «Non ne sono sicuro... ci sono molte variabili» rispose prudentemente lo storico.
   «I nostri esperti dicono che potrebbero volerci ancora secoli» rivelò il Leader Supremo. «Ma per allora il danno sarà fatto. La specie umana sarà estinta».
   «Estinta?» si accigliò Juri. «Che intende?».
   «Parlo della vostra disgustosa tendenza a mescolare il vostro sangue con altre specie» sibilò il Na’kuhl. Strinse gli occhi rosso fuoco e digrignò i denti affilati. «Ogni giorno che passa v’imbastardite sempre più. E al contempo rinunciate alle vostre leggi... alle vostre usanze... a tutta la vostra cultura. Tra pochissimi anni gli Umani saranno una minoranza, sul pianeta Terra. Fino a poco tempo fa, i vostri leader dicevano che era impossibile e che non dovevate preoccuparvi. Ora dicono che è inevitabile e che dovete esserne contenti. Ma già adesso siete disprezzati in casa vostra. Le altre specie si accaniscono su di voi, con quell’odio implacabile che nasce dall’invidia per i vostri successi. Cosa crede che succederà, quando sarete la minoranza?».
   «Perché mi dice questo? Che cosa vuole da me?!» chiese Juri con rabbia. «Qualcosa deve volere, altrimenti mi avrebbe già ucciso».
   «Voglio la sua collaborazione, dottor Smirnov» rispose Vosk, fissandolo con gli occhi da vampiro. «Le sue conoscenze ci permetteranno di alterare la Storia terrestre nel modo più vantaggioso per ambo le parti. Noi potremo espanderci nella Galassia senza essere accerchiati dall’Unione. E voi vi salverete dall’estinzione».
   «Non c’è alcuna estinzione in corso» corresse Juri. «Se le cose restano come sono, i nostri discendenti vivranno».
   «Ma non saranno più Umani!» ringhiò Vosk, alzandosi in piedi di scatto. «Non apparterranno alla specie Homo sapiens. Saranno un miscuglio di razze diverse, senza radici, senza un’identità per cui lottare, e quindi facilmente manipolabili. Non avranno un briciolo di riconoscenza per voi. Non gl’importerà nulla della Terra. Già adesso ai vostri giovani viene insegnato a disprezzare la loro storia! Gli insegnate a vergognarsi d’essere Umani! Lo ammetta, professore! Ammetta che le cose stanno così!».
   Juri sostenne lo sguardo infuocato di Vosk, ma le sue labbra non si mossero.
   «Se ha problemi di memoria, ci penserò io a rinfrescargliela» disse Vosk, schioccando le dita per richiamare le guardie. «Non si preoccupi, non altererò la sua mente. Stimolerò solo i centri della memoria, per richiamare quello che già conosce, ma rifiuta di ammettere».
 
   Di lì a poco, Juri era di nuovo avvinto alla sedia degli interrogatori, sotto gli occhi di Vosk e dei medici. La sonda mentale si posizionò e il raggio viola gli colpì nuovamente la fronte, provocandogli dolori lancinanti. Una ridda di ricordi lo sommerse. Invece d’essere interi episodi del suo passato, stavolta si trattava di discorsi che si accavallavano. Erano frasi d’odio, di disprezzo, di umiliazione. Alcune le aveva udite con le sue orecchie, altre le aveva lette. Appartenevano a politici, giornalisti, intellettuali, scienziati, psicologi, ma anche a tanta gente comune.
   «Cari Umani, ecco una lista di cose che dovete smettere di rovinare».
   «Il nuovo studio genetico del dottor Vash’Tot ha dimostrato che il virus del Suprematismo Umano giace dormiente nel subconscio d’ogni Homo sapiens, in attesa di risvegliarsi. Di conseguenza, per migliorare la società dobbiamo insegnare ai loro giovani ad essere meno Umani possibile. Inoltre dobbiamo togliere agli adulti ogni potere decisionale, così che non possano nuocere né a se stessi, né agli altri. Se faremo questo, alla fine ci ringrazieranno».
   «Non m’interessa l’opinione di qualche vecchio, stupido Umano. Il mio discorso non è destinato a loro».
   «Mi dispiace d’essere nata Umana e privilegiata. È una cosa che mi disgusta. Provo tanta vergogna».
   «L’umanità è un’ideologia di odio, che si può sconfiggere con l’istruzione».
   «Il futuro appartiene alle specie non umane. Questa realtà rende gli Umani ancora più instabili, violenti e pericolosi».
   «Gli Umani creano problemi che le altre specie sono costrette a risolvere. Se fossero più intelligenti, capirebbero che devono solo chiudere la bocca e morire».
   «Tutti noi ci siamo spesso chiesti se gli Umani siano ancora necessari alla società, o se non staremmo meglio senza. Ebbene, ora abbiamo finalmente la risposta scientifica. Questa nuova ricerca interdisciplinare ha individuato 72 motivi per cui la società progredirebbe se la specie umana si estinguesse».
   «La nostra società ha raggiunto un tale livello di progresso e raffinatezza che gli Umani, lungi dal contribuire, sono divenuti un fardello insostenibile. Questo problema necessita con estrema urgenza di una soluzione definitiva».
   «L’idea che gli Umani siano in qualche modo discriminati nella società odierna è illogica, nociva, facilmente smentita dai fatti, nonché offensiva verso le vere vittime di discriminazione. Tutte le persone oneste e di buona volontà devono impegnarsi a contrastare questa pericolosa menzogna».
 
   Le frasi si accavallarono sempre più, fino a diventare un ruggito che echeggiò nella scatola cranica di Juri, come se dovesse fargliela esplodere. L’Umano gridò, in preda al dolore e all’umiliazione.
   «Basta così» ordinò Vosk.
   La sonda mentale fu disattivata e Juri ebbe di nuovo respiro. La sua fronte era sudata ed egli ansimava, tremando da capo a piedi. Quando il Leader Supremo gli si avvicinò, lo fissò con odio.
   «Perché quello sguardo?» chiese Vosk quietamente. «Non ho creato io questi ricordi. Li ho solo riportati a galla. Se la prenda con i suoi “amici” alieni, piuttosto. A conti fatti, credo di rispettare più io gli Umani, rispetto a molti vostri “alleati” dell’Unione».
   «Tu... hai bombardato la Terra! E la Luna, e Marte!» ringhiò Juri, con la bava alla bocca. «Hai cercato di sterminare la nostra gente!».
   «E ora cerco di salvarla» ribatté Vosk. «Si unisca a me in questo sforzo, dottor Smirnov. Lei non deve niente all’Unione traditrice, che sfrutta gli Umani e poi li lascia morire, com’è accaduto a Svetlana».
   «Non osare nominarla!» gridò Juri, scuotendosi come un ossesso. «Sarebbe viva, se non fosse per il virus che hai diffuso!».
   «Dopo tutto questo tempo, la ama ancora così tanto» disse Vosk, meditabondo. «Che ne direbbe se gliela restituissi?».
   Juri impallidì. «Adesso vuoi farmi credere che puoi resuscitare i morti?!» chiese sprezzante.
   «Ovviamente no» rispose Vosk. «Altrimenti richiamerei quelli che io ho perso. Ma come vede, ora disponiamo di condotti temporali. Perciò le faccio un’offerta» disse, avvicinandosi finché furono faccia a faccia. «Noi andremo sulla Luna di trentatré anni fa e preleveremo sua sorella. Una volta qui, la cureremo dal virus. E quando lei ci avrà aiutati a cambiare la Storia, la libereremo. Sarete finalmente riuniti... e liberi dal servirci. Non è un’offerta generosa? Certo meglio di qualunque cosa possa offrirle l’Unione».
   Juri lo fissò smarrito. Si era aspettato minacce e ricatti, ma non un’offerta del genere. Riavere Svetlana... ridarle la vita che le era stata negata! Era una prospettiva miracolosa. E avendone l’occasione, non doveva accettare? Non era forse la sua responsabilità di fratello vegliare su di lei, fare tutto il possibile per restituirle la vita? «Io... non so che dire» mormorò con voce fioca. «Devo pensarci su».
   «Forse vorrà farlo in condizioni più agevoli» suggerì Vosk. «Liberatelo. E rimandateci nel salone» ordinò ai suoi.
   Detto fatto, Juri fu svincolato dalla sedia. Si alzò ancora con le proprie forze, ma stavolta aveva perso il distacco. Fissava il Leader Supremo con un misto d’odio, speranza e sospetto. Un attimo dopo, lui e Vosk furono teletrasportati nel salone delle cene diplomatiche.
 
   Vosk si riaccomodò a tavola, come se nulla fosse accaduto. Si avvicinò una ciotola e ne sollevò il coperchio. «Ah, bene. Il dessert non si è freddato» disse, annusando soddisfatto il profumo tiepido.
   Juri diede un’occhiata: la ciotola conteneva una zuppa rossastra, nella quale galleggiavano dei bulbi oculari. L’Umano si augurò che appartenessero ad animali. Si lasciò cadere sulla sedia, ancora frastornato.
   Vosk prese il cucchiaio, pescò un occhio dalla zuppa e lo ingurgitò con soddisfazione. «Lei continua a stupirmi, dottor Smirnov» disse poi. «Da quanti anni vive sulla Keter?».
   «Quattro» mormorò lo storico, con voce roca.
   «Quattro anni! Per la vostra specie dalla vita breve non sono pochi» notò il Leader Supremo, ingollando un altro occhio. «In tutto questo tempo lei è vissuto su una nave temporale, che dispone anche di una crono-navetta. E non se n’è mai servito per salvare sua sorella, malgrado sia così presente nei suoi pensieri».
   «Gli Agenti Temporali non me lo avrebbero permesso» ammise Juri.
   «Ovviamente. Gli Accordi Temporali impongono di viaggiare nel tempo solo per ragioni di studio o per impedire le alterazioni» sottolineò Vosk. «Mai per riparare i torti. Ecco perché io ho rifiutato di firmarli! Eppure mi risulta che qualche volta sia stata proprio la Flotta Stellare a viaggiare nel tempo per trarne profitto. Nel 2286 il Capitano Kirk tornò indietro di tre secoli per recuperare due balene, perché comunicassero con una sonda aliena che minacciava la Terra. Nel 2404 l’Ammiraglio Janeway tornò sulla Voyager del passato per affrettare il suo ritorno nel Quadrante Alfa. Così facendo alterò massicciamente la linea temporale... e tutto per salvare un paio di amici!» disse, scuotendo la testa. «Sono solo due esempi, ma potrei farne molti altri».
   «All’epoca gli Accordi Temporali non esistevano ancora» mormorò Juri.
   «Ma c’era già la Prima Direttiva Temporale, che in sintesi dice la stessa cosa» insisté Vosk. «Se quegli ufficiali hanno potuto fare come gli pareva, perché lei non può? Dev’essere un tormento vivere su un’astronave temporale e non poterla usare per raddrizzare i propri torti!».
   «Cerco di non pensarci... ma a volte è difficile, sì» confessò Juri, girando il cucchiaio nella zuppa, senza mai decidersi a pescare un occhio. «Leader Supremo, io... devo farle una domanda personale».
   «Chieda pure» disse Vosk. «Mi riservo di non rispondere, ma le prometto che non la punirò per questo».
   «Poco fa ha detto che anche lei ha perso i suoi cari. È la verità?».
   Vosk restò interdetto. «Mi sono lasciato trascinare... mi capita raramente» mormorò. Per la prima volta sembrava aver perso la sicumera. Esitò un attimo prima di proseguire. «È una cosa di cui non amo parlare neanche coi miei simili. Figurarsi con gli alieni» aggiunse, lanciando uno sguardo tagliente all’Umano. «Ma sì, è vero. Quand’ero molto giovane... un ragazzino... persi la mia intera famiglia».
   «Com’è successo?» insisté Juri.
   Il Leader Supremo si alzò in piedi e misurò a grandi passi il salone. «Come forse sa, le nostre città si sviluppano nel sottosuolo. Per un milione di anni abbiamo scavato livelli sempre più profondi, inseguendo il calore in esaurimento del nucleo. Quando un nuovo livello è completato, la popolazione vi si trasferisce, abbandonando quello superiore. Ciò, purtroppo, ha causato una grave instabilità geologica. I nostri scienziati prevedono che Na’kuhl Primo si disgregherà fra trecento anni al massimo». Il Leader Supremo chinò il capo, affranto. «Data la nostra longevità, per allora potrei essere ancora vivo. In tal caso sarò ricordato come il Leader Supremo che assistette alla fine della nostra patria. Ma non voglio essere anche quello che si arrese all’Unione... che si presentò mendicante, implorando un po’ di spazio vitale!» aggiunse, digrignando i denti.
   Alzatosi a sua volta, Juri lo ascoltava con la massima attenzione. Ora capiva da dove veniva la ferrea determinazione dei Na’kuhl. Erano troppo orgogliosi per chiedere un pianeta all’Unione: lo avrebbero conquistato, oppure si sarebbero estinti.
   «Alcuni crolli si sono già verificati» riprese Vosk, più calmo. «Quand’ero ragazzo, il settore in cui vivevo franò all’improvviso, senza che gli esperti avessero captato segni premonitori. Centomila Na’kuhl morirono sul colpo, schiacciati da roccia e metallo. Altre migliaia restarono intrappolati nelle intercapedini, dove rischiavano di morire presto, se le squadre di soccorso non li avessero recuperati. Io ero tra quelli». Il volto del Leader Supremo pareva scolpito nella roccia; il suo sguardo era remoto.
   «Il nostro appartamento era franato. Tutti i miei parenti erano morti sul colpo... tranne mia madre. Quando la raggiunsi, trascinandomi da un’intercapedine all’altra, respirava ancora. Ci mise un paio d’ore a morire» proseguì Vosk. «Io invece ero miracolosamente illeso. Ma non avevo un comunicatore, né altro modo per far sapere ai soccorritori che ero vivo. Così mi distesi e stetti immobile, per risparmiare l’ossigeno. Attesi al buio, per quella che mi parve un’eternità... anche se in realtà fu solo una settimana. Fui uno degli ultimi superstiti che vennero tratti vivi dalle macerie. Molti erano morti asfissiati o di sete. Io fui fortunato. Nella mia intercapedine c’era abbastanza aria. E per quanto riguarda il nutrimento... beh... avevo anche quello».
   Ciò detto, il Leader Supremo tacque. Non occorreva aggiungere altro. Si passò la lingua sulle labbra, come se sentisse ancora il sapore di quel pasto cannibale. «Amo pensare che quanto accadutomi sia servito a uno scopo» disse, tornando a fissare Juri. «Dare al mio popolo un leader disposto a fare tutto il necessario per garantirci la sopravvivenza. Per questo mi sono unito al Fronte Temporale nella guerra contro l’Unione. Speravo di conquistare abbastanza mondi da creare un Impero Na’kuhl saldo e duraturo. Invece ho perso milioni di soldati. E Ifrit... la mia adorata Ifrit. Una brillante stratega e una fedele compagna di vita» confessò, di nuovo con lo sguardo lontano. «Al termine della Battaglia di Procyon V, quando tutto era perduto, Ifrit abbordò l’Enterprise per darmi il tempo di fuggire. L’Ufficiale Tattico – che in passato lei aveva risparmiato per mio ordine! – duellò con lei e la uccise. Le tagliò la testa» disse, tormentato.
   Juri deglutì. Sapeva qual era l’ufficiale in questione: Lantora, il padre di Vrel. Era stato il timoniere stesso a raccontargli la storia. Suo padre aveva ucciso Ifrit dopo che lei aveva assassinato l’indifeso dottor Korris Vrel, lo scopritore della cura contro il virus. In seguito Lantora aveva dato il nome del buon dottore al suo primogenito. Juri si augurò che Vosk non sapesse che il figlio del suo nemico prestava servizio sulla Keter.
   «E così, fine della storia» disse Vosk, riscuotendosi. «Ho sempre sperato che, una volta messo a punto il viaggio nel tempo, avrei potuto salvare Ifrit. Penso che Svetlana sarebbe un buon banco di prova. Se riusciremo a salvarla senza creare paradossi temporali, allora potrò fare lo stesso con Ifrit. Vede che possiamo rimediare entrambi ai nostri torti? Deve solo dirmi di sì!».
   «Promette che non farà alcun male a mia sorella?» chiese Juri. «Promette che al termine del lavoro ci lascerà andare incolumi? Che non ci cercherà e non ci chiederà mai più nulla?».
   «Sì, lo prometto» disse Vosk solennemente. «Vi darò anche abbastanza ricchezze da permettervi di rifarvi una vita ovunque vorrete».
   Juri respirò a fondo. La sonda mentale gli aveva rammentato ciò che, in fondo, già sapeva: che la vita per gli Umani stava diventando impossibile. L’odio cresceva anno dopo anno e presto sarebbe sfociato in aperta persecuzione. Persino i colleghi della Keter mostravano una certa indifferenza nei confronti della Terra. Non potevano capire... non era un problema loro. E adesso la scelta di rimediare o meno ricadeva su di lui. Ma come poteva lui, Juri Smirnov, ergersi a giudice del destino dell’umanità? Non poteva, ovviamente. Non ne era degno. Non aveva la conoscenza, la lungimiranza, né l’autorità necessarie a prendere una decisione così drastica per il destino della sua specie. Eppure, fra tutti gli Umani, Vosk aveva trovato lui. Lo stava chiedendo a lui. Se avesse rifiutato, il Leader Supremo lo avrebbe ucciso per rimpiazzarlo con qualcun altro. Oppure lo avrebbe fatto senza consulenti, combinando chissà quali disastri. O peggio ancora, si sarebbe spazientito e sarebbe tornato al piano originale: distruggere la Terra.
   «Ebbene?» chiese Vosk, tamburellando il piede. Stava per perdere la pazienza, Juri glielo leggeva negli occhi.
   L’Umano stava per rifiutare l’offerta, pur temendo le conseguenze, ma il ricordo di Svetlana gli trafisse il cuore. Salvare l’umanità era troppo, per lui. Ma salvare una sola persona... sì, quello poteva farlo. No, doveva. Era la sua responsabilità. Che il resto della Galassia si sbranasse pure, come accadeva in tutte le linee temporali. Tanto, che la Federazione esistesse o meno, le varie specie si sarebbero comunque amate e odiate a loro capriccio. Ma almeno gli Umani sarebbero rimasti padroni del loro pianeta.
   «Accetto la sua offerta, Leader Supremo». Era stata la sua voce? Sì... era stato davvero lui a scandire quelle parole.
   «Ne sono lieto, dottor Smirnov» ghignò Vosk. «Io e lei faremo grandi cose! Forse stupende, forse tremende... ma grandi! Suggelliamo il patto alla maniera degli Umani» propose, porgendogli la mano. Juri gliela strinse con forza, fino a provare dolore.
   «E ora suggelliamolo alla maniera dei Na’kuhl» proseguì il Leader Supremo, tornando al tavolo. Prese una sanguisuga gonfia di sangue e la diede a Juri. Poi ne raccolse una per sé e la tenne alta.
   L’Umano comprese che quello era l’equivalente Na’kuhl di un brindisi. Così sollevò la propria sanguisuga, toccando quella di Vosk. E quando il Leader Supremo se la svuotò in bocca, fece altrettanto. Il sapore del sangue caldo era intossicante. Juri pensò che era giusto brindare col sangue, dato che si accingevano a versarne molto. Ma se doveva fare un patto con il diavolo... se doveva dannarsi l’anima... ebbene, era disposto anche a questo, pur di salvare Svetta. Lo aveva detto bene l’antico Virgilio: flectere si nequeo superos, acheronta movebo. “Se non potrò smuovere le potenze celesti, solleverò quelle degli inferi”. 
 

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Capitolo 5
*** Apocalisse ***


-Capitolo 4: Apocalisse

 

   «È pronto?» chiese il Na’kuhl.

   «Non si può essere pronti a una cosa del genere» rispose l’Umano.

   I due erano faccia a faccia, davanti alla porta dell’ufficio di Vosk. Il Na’kuhl fissò con attenzione l’Umano e gli sfiorò la spalla in segno d’incoraggiamento. «Non si preoccupi, dottor Smirnov. Noi abbiamo fatto il nostro lavoro. Questo anno che abbiamo passato gomito a gomito è stato decisamente produttivo. Ora tocca a lui scegliere l’opzione che preferirà».

   «Lo spero» disse Juri. «Anche per me è stato un anno interessante, Direttore Kravik. Ma diciamo che lui accetti una delle proposte. Se la mette in pratica e qualcosa va storto...».

   «Se il Leader Supremo avalla una nostra proposta, allora si assume anche la responsabilità di compierla. Se sorgeranno problemi, non se la prenderà con noi» assicurò lo scienziato Na’kuhl.

   «Speriamo» sospirò lo storico. «Non per offendere, ma... voi Na’kuhl non siete famosi per la vostra clemenza».

   «Questo è un complimento, non un’offesa» sorrise Kravik, mostrando i denti acuminati. «Dopo di lei, amico mio» aggiunse, facendogli segno di entrare.

   Juri inspirò a fondo e si fece avanti. Più che interessante, era stato un anno allucinante. Un anno speso fra i Na’kuhl, durante il quale aveva collaborato con i loro storici, sociologi, politologi. E naturalmente con scienziati come Kravik, il massimo esperto di meccanica temporale del suo popolo. Era stato Kravik a mettere a punto il condotto temporale con cui i Na’kuhl avevano raggiunto l’antico Suliban. Juri aveva trascorso lunghe giornate a discutere con lo scienziato sui dettagli del loro grande piano. A volte si trattenevano fino a tarda sera. Dapprima questo avveniva nei laboratori, visto che Juri era tenuto in ostaggio e non poteva uscire dal complesso militare. Ma col passare del tempo le maglie della sicurezza si erano allentate. Forse Kravik aveva messo una buona parola per lui. Fatto sta che negli ultimi mesi Juri aveva goduto molta più libertà di movimento e in alcune occasioni era stato persino invitato dallo scienziato a cenare a casa sua. Kravik era la cosa più simile a un amico che Juri avesse in quel mondo buio; ma non per questo si fidava di lui.

   Quando l’Umano avanzò, la Materia Degenere che formava la porta assunse una consistenza viscosa e defluì, liberando l’ingresso. Juri e Kravik entrarono nell’ufficio del Leader Supremo. Dietro di loro la materia ultradensa fluì di nuovo, andando a riformare il battente. Le prime volte, Juri era sempre affascinato dal controllo che i Na’kuhl avevano della Materia Degenere. L’Unione Galattica, con le sue centinaia di specie, se la sognava una tecnologia del genere. Ma poco alla volta l’abitudine aveva preso il sopravvento; ora Juri non faceva più caso a questi prodigi tecnologici.

   «Benvenuti» li accolse Vosk, disattivando un oloschermo rosso che aleggiava sulla sua scrivania. «Mi hanno detto che i vostri calcoli sono completi. Che finalmente avete una proposta da sottopormi».

   «In realtà ne abbiamo due, Leader Supremo» disse Kravik, inchinandosi rispettosamente. Di fianco a lui, Juri mantenne la schiena dritta. «Eravamo partiti con dieci opzioni d’intervento, che spaziavano dalla Rivoluzione Industriale terrestre fino alla nascita della Federazione. Poco alla volta abbiamo scremato i piani più difficili a realizzarsi e dagli esiti più dubbi. Volevamo presentarvene uno solo, ma ci siamo ritrovati con due opzioni che hanno le stesse probabilità di successo, quindi...».

   «Sì, sì» disse Vosk, impaziente. «Ho seguito i vostri progressi e so quali erano le dieci proposte iniziali. Parlatemi di quelle che avete selezionato».

   Kravik fece un cenno a Juri, invitandolo a prendere la parola. L’Umano si accostò alla scrivania del Leader Supremo.

   «La prima opzione prevede d’intervenire nell’anno 1908, secondo il vecchio calendario terrestre» esordì lo storico. «L’evento da evitare, la Rivoluzione Bolscevica, risale al 1918, ma ritengo che agire in quella data sarebbe troppo tardi. Se uccidiamo Lenin un decennio prima della Rivoluzione, impediremo l’affermazione del comunismo in Russia, l’ascesa di Stalin, i gulag sovietici, tutto! Alla lunga, impediremo anche la diffusione del comunismo in Cina e nel sud-est asiatico, salvando altri milioni di vite. Senza il terrore del contagio comunista, c’è un’alta probabilità che anche i regimi di estrema destra – fascismo e nazismo – non si affermino in Europa. In un colpo solo eviteremo la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda.

   Le simulazioni computerizzate indicano che la situazione internazionale sarà molto più stabile. L’energia atomica sarà scoperta con vent’anni di ritardo e anche la tecnologia aerospaziale progredirà più lentamente, senza la spinta bellica. Ma entro il XXII secolo l’umanità dovrebbe scoprire ugualmente la propulsione a curvatura. La Terza Guerra Mondiale non ci sarà, anche se non mancheranno conflitti minori. La mia specie inizierà a colonizzare lo spazio pur essendo ancora divisa in nazioni. Col tempo, la minaccia delle specie aggressive – come Klingon e Romulani – indurrà gli Stati a confluire in un solo governo mondiale. Ma la collaborazione con Vulcaniani, Andoriani, Tellariti e compagnia bella sarà ridotta allo stretto necessario. La Federazione non sorgerà mai e la Terra resterà proprietà dei terrestri».

   «Sembra ottimo» disse Vosk, unendo le punte delle dita. «Controindicazioni?».

   «Passato il 2000, l’affidabilità delle previsioni crolla sotto il 70%» rispose Kravik, un po’ imbarazzato. «Ci sono così tante rivoluzioni tecnologiche e culturali da considerare che non possiamo essere più precisi. Inoltre non è da escludere che i Vulcaniani o qualcun altro decidano comunque di farsi vivi, influenzando lo sviluppo terrestre».

   «Il 70% non è molto» considerò Vosk. «Io, comunque, mi fido dei computer solo fino a un certo punto. Dottor Smirnov... cosa le dice il suo intuito di storico?».

   Chiamato in causa, Juri si prese qualche secondo per riflettere. «La mia specie è estremamente imprevedibile» si cautelò. «Studiando il processo che ha portato alla nascita della Federazione, ho constatato come molti eventi decisivi siano accaduti quasi per caso, o per l’ostinazione di pochi individui. Ma se vogliamo assicurarci il successo, dobbiamo agire con un ampio margine di tempo. Intervenire all’epoca di Archer, per intenderci, sarebbe già troppo tardi. Credo che la proposta del 1908 sia la più affidabile, perché evitando i maggiori conflitti mondiali elimina anche la molla che spinse poi l’umanità ad allearsi con altre specie».

   «Tuttavia non è detto che questo scenario sia così idilliaco» intervenne Kravik. «Se anche eliminiamo una ragione ideologica di scontro, i terrestri ne troveranno altre. In fondo, le ideologie sono spesso il paravento per interessi molto più pratici, come il controllo delle risorse».

   «Capisco» disse Vosk, con una smorfia. «Qual è l’altra opzione?».

   «Anno 2053, Terza Guerra Mondiale» rispose sinteticamente Juri.

   «Ah, questo m’ispira!» si animò Vosk, con un bagliore negli occhi. «Voglio i dettagli!».

   «È presto detto» fece Juri, camminando avanti e indietro. «In quell’anno la Terra era sull’orlo del collasso per i cambiamenti climatici e l’esaurimento dei combustibili fossili, che avevano esasperato i conflitti tra le nazioni. Alla NATO, l’alleanza militare occidentale, si contrapponeva una nuova entità politica: l’ECON, la Coalizione Orientale formata dalle maggiori potenze asiatiche. Tutta la prima metà del XXI secolo fu un crescendo di conflitti, soprattutto in Medio Oriente. Intere popolazioni migrarono nella speranza – spesso delusa – di un futuro migliore, mettendo sotto pressione i Paesi accoglienti.

   Nel 2053 si giunse al punto di rottura. La NATO e l’ECON erano ai ferri corti, per il controllo degli ultimi giacimenti petroliferi e per cento altre ragioni geopolitiche. In tutto questo s’inserì il Colonnello Green, uno dei “falchi” dell’Occidente, che inaspettatamente si fece promotore di una conferenza di pace a Dubai. Era l’ultima speranza di evitare il conflitto nucleare, perciò i capi di Stato vi parteciparono numerosi. Ma durante la cerimonia d’apertura del summit ci fu un attentato, in cui quasi tutti i leader rimasero uccisi. Molti accusarono Green d’essere il responsabile, anche se questo non è mai stato provato».

   Vedendo l’occhiata interrogativa di Vosk, Juri precisò: «Molto di ciò che accadde in quei giorni rimase segreto e i pochi informati si portarono la verità nella tomba. Così anche fra noi storici non c’è accordo sulle responsabilità. Fatto sta che la strage gettò il mondo nel caos, con le nazioni che s’incolpavano reciprocamente e dislocavano le truppe sui fronti di guerra.

   Il 1º maggio, oggi detto il Giorno dell’Orrore, l’ECON sferrò un assalto nucleare contro l’Occidente. Si servì di missili balistici lanciati da terra, dai sottomarini e da bombardieri in volo. Altre testate atomiche, già collocate di nascosto nelle capitali occidentali, furono fatte esplodere simultaneamente. Al tempo stesso l’ECON sferrò l’assalto di terra, invadendo l’Europa da est e sud, e l’America attraverso l’Alaska».

   «Come contava di sfuggire alla rappresaglia atomica?» volle sapere Vosk, che seguiva il discorso con la massima attenzione.

   «Con un assalto informatico alle basi NATO, per impedire il lancio delle testate, combinato con l’uso di armi EMP. Si trattava d’impulsi elettromagnetici capaci di generare il black-out in vaste aree del globo, disattivando le basi di lancio e i missili nucleari stessi» spiegò Juri. «Questa parte del piano però fallì: la NATO reagì con un devastante bombardamento atomico contro la Coalizione. È stato calcolato che, di tutte le testate nucleari lanciare quel giorno, solo una su cinque andò effettivamente a bersaglio: le altre furono bloccate dagli impulsi EMP. Anche così, il bilancio fu apocalittico. Molte delle città più popolose del mondo furono rase al suolo. Nubi di polveri radioattive salirono nell’atmosfera, oscurando il sole e provocando dieci anni d’inverno nucleare. Aria, acqua e suolo furono contaminati dalle radiazioni. Caduto internet e gli altri strumenti di telecomunicazione, vaste aree del globo restarono isolate, in preda al terrore e ai saccheggi. Milioni di persone, colpite dalle radiazioni, furono uccise per evitare che pesassero sui sopravvissuti e che trasmettessero mutazioni ai discendenti. Il Colonnello Green ne fece uccidere almeno 37 milioni, durante il suo regno post-apocalittico».

   «Doveva essere un grande leader» commentò Vosk, con sguardo assorto.

   «La maggior parte degli storici odierni lo considera un maniaco genocida» disse Juri in tono neutro. «Dopo lo scambio di atomiche, la guerra proseguì con “bombe sporche”, tossine e armi biologiche. Per motivare i soldati a combattere in quelle condizioni infernali, spesso gli si fornivano droghe. Le forze d’invasione orientali s’impadronirono di parte dell’Europa, mentre furono respinte dall’America dopo aspri scontri, come l’assedio di Las Vegas. Intanto le forze occidentali si fecero strada in Asia, fino a distruggere il palazzo-fortezza di Lee Kuan, leader dell’ECON, che rimase ucciso. A quel punto, però, molti battaglioni furono abbandonati a se stessi. Fra questi c’era il battaglione di Green, che si fece strada in Asia, raccogliendo i resti di entrambe le armate sotto una nuova bandiera, la sua».

   Lo storico fece una smorfia, poi proseguì. «Il Movimento Ottimale – così si chiamava – divenne un’immane carovana che risalì l’Asia e tornò in America per conquistarne le briciole. Green s’impadronì del nord-ovest del continente, governando col terrore, finché venne assassinato. Sebbene fosse stato dichiarato un cessate il fuoco, gran parte dei governi non esisteva più. Al loro posto c’erano staterelli barbarici in lotta per la sopravvivenza, nella totale assenza di leggi e diritti umani. Dopo il Primo Contatto coi Vulcaniani le cose migliorarono, ma fu solo nel XXII secolo che l’umanità risorse dalle ceneri, impegnandosi a non ripetere gli errori del passato».

   «Infatti ne commise altri!» notò Vosk. «Questa pagina di storia terrestre è affascinante, dottor Smirnov. Il suo pianeta era pieno di fermenti, prima che l’ideologia federale piallasse tutto. Lei come suggerisce d’intervenire?».

   «Tanto per cominciare, dovremmo impedire l’attentato di Dubai» rispose lo storico. «L’ideale sarebbe acciuffare il colpevole – Green o altri – e consegnarlo alla giustizia. Così le nazioni saprebbero quanto sono state vicine alla catastrofe».

   «Naturalmente questo non basta a scongiurare il conflitto atomico, che potrebbe cominciare in mille altri modi» intervenne Kravik. «Forse la cosa migliore, Leader Supremo, sarebbe che vi presentaste ai leader Umani, rivelando l’esistenza delle civiltà extraterrestri. Potreste ammonirli a non legarsi strettamente ad altre specie, per non farsi colonizzare».

   «Questa proposta mi affascina» disse Vosk. «Il mio istinto mi dice che è quella giusta. Dunque faremo così. Andremo nel 2053 e salveremo l’umanità sia dal conflitto atomico, sia dalla schiavitù federale».

   «Però c’è una controindicazione» avvertì Juri, levando l’indice. «Essendo così a ridosso dell’escalation atomica, potrebbe essere troppo tardi per scongiurarla. Gli eventi storici hanno una loro inerzia: quando ne accumulano troppa, è difficile fermarli».

   «Ci proveremo» disse Vosk. «In caso di fallimento, torneremo indietro di qualche anno. Oppure passeremo alla sua prima proposta... avremo tempo per pensarci. Ma quest’operazione partirà subito e la guiderò personalmente. Per troppo tempo sono rimasto chiuso fra queste mura».

   «E terrete fede al nostro accordo?» chiese Juri. «Salverete mia sorella, prima di stravolgere la Storia?». L’Umano era in ansia su questo punto. Sapeva che i Na’kuhl non avevano il senso d’onore dei Klingon e perciò non si sentivano obbligati a rispettare un accordo, se non lo trovavano più conveniente. Ma sapeva pure che, se non avesse collaborato con loro, avrebbero tentato ugualmente di cambiare la Storia. Tanto valeva collaborare, quindi, e limitare i danni. Se poi gli Agenti Temporali fossero riusciti a fermarli, poteva sempre tornare dalla loro. L’importante era che i Na’kuhl gli rendessero Svetlana; cosa che gli Agenti, vincolati agli Accordi Temporali, non potevano fare.

   Vosk fissò Juri, come se indovinasse gran parte di quel che gli passava per la mente. «Fin qui si è dimostrato leale, dottor Smirnov» riconobbe. «Sì, credo che meriti la ricompensa pattuita. Così vedrà che mente chi afferma che non rispetto gli accordi». Il Leader Supremo premette il comunicatore da polso. «Generale Kraul, raduni i suoi incursori temporali. Abbiamo un obiettivo».

   «La Terra?» chiese Kraul con impazienza.

   «No, la Luna. Data Stellare 2556.031» lo sorprese Vosk. «La nostra è una missione umanitaria. Abbiamo una famiglia da riunire».

 

   La bambina bionda giaceva nella capsula di stasi, con gli occhi chiusi, immobile come lo era stata negli ultimi tre anni. Numerosi sensori medici monitoravano le sue condizioni. I dati erano leggibili su un’interfaccia parietale: battito cardiaco, respirazione, attività cerebrale. Tutti questi parametri erano estremamente rallentati, data la sua condizione di stasi. La sua capsula era allineata con altre, lungo uno stanzone grigio e spoglio. Solo delle tendine divisorie davano un minimo di privacy alle famiglie che visitavano i loro cari. In fondo alla sala, una grande finestra mostrava il desolato paesaggio lunare, con i crateri e le colline ammantati di regolite grigia.

   Di norma in quella sala regnava il silenzio, rotto solo dai mormorii e dai singhiozzi di chi visitava i propri cari. Ma quel giorno non era così. Da un ufficio adiacente giungevano grida che presto si sarebbero tramutate in suoni di colluttazione. Dopo aver tentato inutilmente molte cure, i medici avevano stabilito che la piccola Svetlana Smirnova era irrecuperabile. Perciò stavano per avviare il protocollo di eutanasia, contro la volontà dei genitori.

   D’un tratto una luce azzurra inondò la sala. Il bagliore assunse forma conica, poi a tunnel. E da quel tunnel emersero gli incursori Na’kuhl. Juri era con loro, con lo sguardo febbricitante e il cuore che batteva all’impazzata. Il solo fatto di ritrovarsi in quell’orribile stanzone gli mozzò il respiro. Era lì che finiva, nei suoi incubi notturni; ma stavolta c’era tornato davvero, per aggiustare le cose.

   «Dov’è la piccola?» chiese Kraul, venendogli a fianco.

   «Da questa parte» disse Juri, dirigendosi a colpo sicuro verso una capsula. Dopo tutti quegli anni, non aveva scordato la sua posizione. Scostò la tendina e finalmente la vide: sua sorella, chiusa nella capsula dell’animazione sospesa, che somigliava tanto a una bara di cristallo. Il suo visetto angelico era sereno, nel sonno criogenico; non immaginava il tradimento che stava per subire da chi l’aveva in cura. Con le gambe tremanti, Juri si accostò alla capsula. Ne sfiorò la superficie di alluminio trasparente, incredulo d’essere arrivato fino a quel punto. «Sì, è lei» mormorò, con gli occhi appannati dalle lacrime. «Fate presto; da un momento all’altro le toglieranno il supporto vitale».

   «Un momento è tutto quel che ci occorre» assicurò Kraul, segnalando ai suoi di procedere.

   I sabotatori entrarono in azione. Mentre alcuni violavano il computer dell’ospedale, immettendo false letture, altri sganciarono la capsula di Svetlana dal suo basamento. Subito le agganciarono un’unità di alimentazione, per mantenere il supporto vitale. Nel frattempo altri Na’kuhl portavano dal tunnel una capsula identica, contenente un simulacro della piccola paziente. Era stato assemblato con un sofisticato replicatore: solo un’analisi micro-cellulare avrebbe rivelato che questa Svetlana non era mai stata viva. Ma l’ospedale non intendeva procedere a inutili analisi, prima di cremarla.

   La capsula col simulacro fu rapidamente agganciata al basamento, mentre quella con la vera Svetlana veniva spinta nel tunnel temporale. I tecnici Na’kuhl si ritirarono dal computer, assicurandosi di aver coperto ogni traccia dell’intervento. Pochi attimi dopo la nuova capsula si spense: i medici le avevano tolto l’alimentazione. Svetlana sarebbe morta nel sonno, senza accorgersene... se fosse stata lì dentro. Invece era in viaggio verso un altro tempo e un altro luogo.

   «È fatta. Andiamo, professore» disse Kraul, invitandolo a rientrare con loro.

   «Arrivo» disse Juri, che aveva seguito con trepidazione le mosse dei Na’kuhl. Aveva temuto un tradimento dell’ultimo minuto: invece gli alieni avevano mantenuto la parola. Tutto sommato, erano più affidabili dell’Unione. Lo storico prese il d-pad con le fiabe, che il suo alter-ego più giovane aveva dimenticato poco prima sulla sedia. E seguì senza esitazione i Na’kuhl nel condotto temporale. Appena in tempo. Spente le macchine che lo creavano, il tunnel collassò in un lampo bluastro.

   L’attimo dopo la porta del salone si aprì e un bambino di quasi undici anni – il giovane Juri – entrò di corsa. Si precipitò alla capsula della sorella, per difenderla a qualunque costo. E la trovò spenta. Al suo interno giaceva un corpicino senza vita. Mentre il bambino lo fissava, muto e scioccato, il medico federale lo raggiunse, per spiegargli che aveva agito nel miglior interesse della paziente.

 

   «Ebbene?» chiese Vosk, che attendeva dall’altra parte del tunnel, con le braccia incrociate dietro la schiena. Intorno a lui era un viavai di tecnici, che tenevano sotto controllo l’energia e le radiazioni del dispositivo. Kravik dirigeva la squadra come un direttore d’orchestra, dando precise istruzioni ai suoi sottoposti.

   «Missione compiuta, Leader Supremo» annunciò Kraul con soddisfazione. «Abbiamo la piccola Umana».

   «Voglio vederla» disse Vosk. Il Leader Supremo, artefice di genocidi, si accostò alla capsula di stasi e scrutò attentamente la bambina addormentata. Non aveva figli, lui. E non progettava di averne, perché lo avrebbero distratto dai suoi doveri. Ma nell’osservare Svetlana, per un attimo ebbe un’ombra di rimpianto. «Sei fortunata, piccola» commentò. «Se mai un fratello ha voluto bene a una sorella... quello è il tuo». Poi alzò il capo verso Juri. «È soddisfatto, professor Smirnov?».

   «Sì» rispose Juri. «Grazie di tutto. Le inietterete la cura, adesso?».

   «Certo» confermò Vosk. «Ma mi duole informarla che non la farò uscire subito dalla stasi. Prima lei deve aiutarci a completare la missione. Quando la linea temporale sarà cambiata in modo soddisfacente, allora sveglieremo sua sorella. E vi permetteremo di andarvene dove volete, senza più chiedervi alcunché. Questo era l’accordo; e intendo rispettarlo».

   «Anch’io farò la mia parte» promise Juri.

   «Lo spero per lei» disse Vosk, accostandosi con fare lievemente minaccioso. «Fin qui è stato leale, professore. Non rovini tutto proprio adesso che siamo così vicini al successo. Non cerchi di contattare la Keter» ammonì.

   «Ormai non penso molto a quella nave» ammise Juri. «L’ho lasciata da un anno. Chissà se qualcuno dell’equipaggio mi ricorda ancora».

   «Penso di sì» rispose inaspettatamente Vosk. «Devo informarla di un dettaglio. In quale data stellare crede che siamo?».

   «Beh, fatti un po’ di conti... direi 2590.102» rispose Juri, un po’ stupito.

   «Sbagliato. Siamo in data 2589.89» corresse il Leader Supremo.

   «Vuol farmi credere che sono stato con voi per pochi giorni? Assurdo!» esclamò l’Umano. «È da un anno che collaboriamo».

   «Un anno da quando lei è tornato dall’antica Suliban» puntualizzò Kravik, accostandosi. Ora che le macchine erano spente, lo scienziato poteva unirsi alla conversazione. «Ma le nostre truppe sono partite per quella missione un anno prima di lei e degli Agenti Temporali. Il fatto che vi siate incontrati nel passato non implica che foste partiti contemporaneamente, le pare?».

   «Ma certo... quindi ho vissuto due volte lo stesso anno!» comprese Juri. «I miei colleghi della Keter mi hanno perso da poco. Mi staranno ancora cercando. Perché me l’avete detto?».

   «Solo una prova di fiducia» rispose Vosk, laconico. Fatto dietrofront, si allontanò a passo svelto.

   «Congratulazioni, amico mio. Tutto procede nel migliore dei modi» disse Kravik, facendogli l’occhiolino. Dopo di che tornò a occuparsi dei suoi strumenti. Il condotto temporale era ancora in fase sperimentale. Ogni volta che ne facevano uso, ottenevano grandi quantità di dati che andavano analizzati, per cogliere eventuali difetti e perfezionarlo sempre più.

   Alcuni medici Na’kuhl presero in custodia la capsula di Svetlana e la portarono via, per collocarla in una saletta vigilata. Juri li seguì, per osservare ancora la sorellina che aveva salvato... a caro prezzo per l’Unione.

   Osservata la scena con perplessità, Kraul seguì Vosk, finché si affiancò a lui. «Se posso sapere, Leader Supremo... in caso di successo, rispetteremo l’accordo con l’Umano?» chiese.

   Vosk si fermò un attimo, obbligandolo a fare altrettanto, e lo fissò con occhi imperscrutabili. «Perché no?» rispose. «Ora prepara la mia nave. Abbiamo un ultimo appuntamento, prima di cancellare questa linea temporale».

   «Il piano B?» sussurrò Kraul, con gli occhi ridotti a fessure.

   «Certo» annuì Vosk. «Se le cose andassero male, e non riuscissimo a correggere la Terra del passato, non ci resterà che distruggerla».

 

   A due giorni dalla missione degli Agenti Temporali, la Keter indugiava ancora nell’orbita di Suliban. Tra l’equipaggio serpeggiavano incertezza e nervosismo, dato che il Capitano non aveva voluto motivare la permanenza. La notizia del ritorno in scena dei Na’kuhl, inoltre, faceva temere che il peggio dovesse ancora venire.

   Convocato in sala tattica, Selmak trovò gli ufficiali superiori già seduti intorno al tavolo ovale. C’era anche Jaylah, con alcuni dei suoi Agenti.

   «Bene, ci siamo tutti» disse Hod, che aveva l’aria corrucciata.

   «Capitano, vorrei una spiegazione» disse Selmak, accomodandosi al tavolo. «Sono due giorni che io e la mia squadra siamo trattenuti su questa nave. Eppure la missione è compiuta. Perché non ci permettete di tornare a terra?».

   «Perché la missione è stata sabotata» rispose senza mezzi termini Norrin. «La velocità con cui i Na’kuhl hanno assunto il controllo dei droni ci aveva insospettiti, così abbiamo esaminato i diari dei sensori dell’Excalibur. Dopo aver filtrato il rumore di fondo, è stato chiaro. Qualcuno della squadra ha trasmesso ai Na’kuhl i codici di sicurezza dei droni, così ve li hanno rivoltati contro».

   «Non sospetterete di noi Sulibani!» s’inalberò Selmak. «Abbiamo combattuto per salvare la nostra specie dall’annientamento. Noi meno di tutti possiamo essere sospettati. Controllate in casa vostra, piuttosto!» consigliò, scrutando torvo gli Agenti Temporali.

   «La trasmissione è partita da un comunicatore sulibano» precisò Norrin, suscitando l’incredulità di Selmak. «Ovviamente questo non vuol dir niente. Alcuni Sulibani sono caduti nei primi minuti di scontro, quindi il traditore può aver raccolto un loro comunicatore. Sfortunatamente il dispositivo incriminato è rimasto nel passato, dov’è stato senz’altro distrutto dall’esplosione. La Commissione per l’Integrità Temporale non autorizza una seconda missione, solo per raccogliere prove. Così non abbiamo elementi. Ma sia la nostra squadra, sia la vostra, sono sotto inchiesta. Ciò significa che non potete lasciare la nave».

   «È assurdo... pretendo di parlare coi miei superiori!» esclamò Selmak, fremente di sdegno.

   «Si calmi, Maggiore» ammonì l’Hirogeno. «Potrà chiamare chi vuole. Questo diritto è esteso ai membri della sua squadra».

   «E le nostre comunicazioni saranno spiate?» chiese il Sulibano, per nulla soddisfatto.

   «Maggiore, deve capire che la situazione è grave» intervenne il Capitano. «Se la Squadra Temporale è compromessa, tutte le prossime missioni saranno annullate. Dovremo tornare nel sistema solare, mentre le indagini proseguono».

   «E come contate di proseguirle? Avete ammesso di non avere prove!» obiettò Selmak. «Stando così le cose, il mio governo chiederà l’immediato rilascio per me e la mia squadra».

   Il Capitano e l’Ufficiale Tattico si scambiarono un’occhiata inquieta. «In realtà c’è un’altra pista» rivelò Hod. «Abbiamo scoperto che una trasmissione subspaziale è stata effettuata di nascosto dalla sala sensori ausiliaria, il giorno prima della missione. Il sabotatore potrebbe aver fatto rapporto o aver ricevuto ordini. Purtroppo il messaggio è irrecuperabile. Ma i nostri dottori stanno esaminando la sala, in cerca di DNA. Se troveremo tracce di qualcuno che non sia addetto a quelle postazioni, avremo una prova».

   «O forse beccherete il marinaio che è andato a fare due chiacchiere coi colleghi di quella sala e si è appoggiato a una consolle» ironizzò Selmak. «Anche se trovaste qualcosa, non la definirei una prova».

   «Se il DNA appartenesse a qualcuno dei suoi, lo sarebbe» ammonì Norrin, squadrando il Sulibano. «Comunque non dovremo aspettare a lungo per sapere se c’è qualcosa».

   «Non troverete proprio niente di nostro» disse il Maggiore, ancora offeso. «Queste accuse sono ridicole... state montando un processo-farsa. Mi aspettavo più serietà dalla Flotta Stellare». Ciò detto, il Sulibano lasciò la sala tattica.

 

   «Ancora nulla?» chiese la dottoressa Mol, intenta a scannerizzare le consolle della sala sensori ausiliaria.

   «Macché!» fece il dottor Portillus, il suo principale collaboratore. In quel momento il Kreetassano era in piedi davanti a una parete fitta di comandi, sul lato opposto della sala. «Le uniche tracce sono degli addetti. Eh, forse il sabotatore è uno di loro!».

   «Impossibile. Era su Suliban, quando ha trasmesso i codici ai Na’kuhl» obiettò Ladya. «In quel momento là c’erano solo i nostri Agenti Temporali e i rinforzi sulibani, quindi il colpevole dev’essere fra loro».

   «Io scommetterei sui Sulibani» borbottò Portillus, continuando a sondare. «Non avrebbero mai dovuto accompagnare i nostri Agenti. Che senso ha mettere su una squadra speciale super addestrata, se poi la facciamo accompagnare da milizie locali poco fidate?».

   «Non so, sarà stato un compromesso diplomatico...» disse la Vidiiana, un po’ distratta.

   All’insaputa dei due dottori, qualcuno li stava osservando. Qualcuno d’invisibile, che era entrato assieme a loro, approfittando dell’attimo in cui la porta si apriva. Per il momento, però, non faceva nulla. Aspettava di vedere se avrebbero trovato qualcosa.

   «Compromesso diplomatico!» borbottò Portillus fra sé, continuando a passare il tricorder medico sulle superfici. «Stiamo parlando di viaggi nel tempo. Fai una mossa sbagliata e puff! Hai cancellato una civiltà. Ci vorrebbero meno compromessi e più controlli». Come tutti i Kreetassani, Portillus era molto suscettibile e aveva l’abitudine di lamentarsi di ogni problema. Fu anche per via del suo continuo borbottio che non udì i passi dell’intruso alle sue spalle.

   «Uhm... guarda, guarda...» mormorò il dottore, trovando finalmente del DNA estraneo sull’interfaccia parietale. Era solo una minuscola traccia di saliva, dovuta probabilmente a uno starnuto, ma era più che sufficiente. Prima di chiamare Ladya ripeté l’analisi, per essere certo di non sbagliarsi. Lo strumento gli confermò la prima valutazione. Portillus stava per informare la dottoressa, quando due mani invisibili gli afferrarono la testa da dietro e gliela girarono di 180º. Con uno scatto secco, le vertebre del Kreetassano si ruppero. La vittima si accasciò senza un gemito tra le braccia del suo assassino, che l’adagiò dolcemente a terra. La morte era stata istantanea e così silenziosa che Ladya, pochi metri più in là, non si era accorta di nulla. China sull’interfaccia LCARS, la dottoressa continuava a cercare tracce. A un certo punto, però, si accorse che il borbottio di Portillus era cessato.

   «Sei ancora con me?» chiese in tono leggero, senza voltarsi. Non immaginava l’accaduto, né il pericolo che lei stessa correva. Muovendosi in completo silenzio, l’assassino le si accostò da dietro. Quando le fu appresso si preparò a ucciderla con la stessa tecnica.

   «Ehi, Portillus, dico a te! Hai trovato qualcosa?» chiese Ladya, stupita dal prolungato silenzio. Stava per voltarsi quando due robuste mani le afferrarono la testa. Prima che la dottoressa potesse dire o fare alcunché, gliela girarono brutalmente. Ci fu uno scatto e Ladya si trovò a fissare non l’assassino, che era invisibile, ma la sala alle sue spalle. Sul pavimento giaceva il cadavere ancora caldo di Portillus, con la testa stroncata.

   «Addio» disse una voce che non riconobbe.

   Se la dottoressa Mol fosse stata come la maggior parte degli umanoidi, quel movimento l’avrebbe uccisa all’istante. Ma Ladya era una Vidiiana, per giunta in ottime condizioni di salute. Le vertebre extra ruotarono e la sua testa girò di 180º, senza subirne danno. Nelle ore successive avrebbe avuto il collo indolenzito, a causa del movimento brusco, ma per il resto sarebbe stata bene. A patto di sopravvivere allo scontro con un killer invisibile.

   Scorgendo il corpo del collega, la dottoressa gridò. Non poteva vedere l’aggressore, ma sentiva le sue mani guantate attorno alla testa. Si rigirò anche con il corpo e gli afferrò i polsi, cercando convulsamente di liberarsi.

   «Ma cosa sei?!» esclamò l’assassino, preso in contropiede. L’idea che la dottoressa potesse sopravvivere all’attacco non lo aveva sfiorato. Questo gli provocò qualche attimo d’incertezza.

   «Una Vidiiana. Non ci conosci, eh?!» fece Ladya. Stringendogli i polsi, sentì che il nemico indossava una sorta di tuta; evidentemente una di quelle occultanti. Ce n’erano poche sulla Keter ed era difficile impadronirsene senza farsi scoprire. Chiunque fosse l’avversario non era uno sprovveduto, sebbene avesse commesso l’errore di non documentarsi a fondo sulla sua fisiologia.

   «Ci sono tanti modi per ucciderti!» ringhiò l’aggressore, aggiustando la presa per strangolarla.

   Sapendo di avere pochi secondi a disposizione, la dottoressa ricorse a una tecnica d’autodifesa che le avevano insegnato all’Accademia. Andando a tentoni, perché l’avversario era invisibile, infilò le braccia tra le sue e le aprì di scatto, costringendolo a lasciare la presa. Si gettò di lato per sfuggirgli, sperando di raggiungere la porta, ma l’assassino riuscì a trattenerla per un braccio. La trascinò per un metro e poi la scagliò contro la parete opposta, mandandola a schiantarsi contro una sedia. La dottoressa cadde a terra, dolorante, e capì che non avrebbe resistito a lungo. Si portò la mano al comunicatore, per chiedere aiuto, ma scoprì che l’aggressore glielo aveva strappato durante la breve colluttazione. Ora il congegno galleggiava a mezz’aria, in mano al nemico invisibile.

   «Tsk-tsk... non vai da nessuna parte, ficcanaso» disse lo sconosciuto, gettandosi il dispositivo alle spalle. Finalmente si rese visibile. Come Ladya aveva intuito, indossava una tuta occultante. Il casco aveva la visiera riflettente, per celarne i lineamenti. Poteva essere chiunque, fra gli Agenti Temporali o anche fra i Sulibani.

   Vedendo che l’avversario si frapponeva fra lei e l’uscita, Ladya adocchiò il corpo di Portillus, a pochi metri da lei. Aveva ancora il comunicatore appuntato sull’uniforme. Rialzatasi, la dottoressa prese la sedia e la gettò contro il killer, come diversivo. Poi si tuffò verso il cadavere del collega. Gli strappò il comunicatore e lo premette, portandoselo alla bocca. Dietro di lei, l’assassino si riprese dal colpo ed estrasse il phaser.

   «Mol a computer, protocollo epsilon!» gridò la Vidiiana, rotolandosi a terra. Il raggio letale la mancò per un soffio. L’attimo dopo il bagliore azzurro del teletrasporto l’avvolse. Il protocollo invocato dalla dottoressa serviva a proteggere un ufficiale in immediato pericolo di vita, trasferendolo in una zona sicura della nave.

   «Frell!» gridò l’assassino, sparando di nuovo. Stavolta colpì con precisione, ma con mezzo secondo di ritardo: la dottoressa era già svanita. «Questa non ci voleva!». Sapendo di avere poco tempo, il sabotatore sparò al tricorder di Portillus, distruggendolo. Poi regolò il phaser su ampia dispersione e irraggiò la consolle parietale su cui il Kreetassano aveva trovato il suo DNA. Questo avrebbe cancellato le prove. Infine il sabotatore tornò invisibile e si diede alla fuga. Non sarebbe stato facile sbarazzarsi della tuta senza farsi rilevare, ma sperava ancora di cavarsela.

 

   «Attenzione, fuoco di phaser sul ponte 15. Attivato protocollo epsilon» riferì il computer, mentre Ladya si materializzava sulla pedana di plancia.

   «Che ti è successo? Sei ferita?!» si allarmò Norrin, correndo da lei.

   «Credo di no... ma sono stata assalita» rivelò la dottoressa, ancora dolorante e col cuore che batteva a mille. «L’aggressore indossava una tuta occultante. Ha ucciso Portillus, probabilmente perché aveva trovato qualcosa, e poi ha cercato di uccidere anche me».

   «L’hai riconosciuto?» chiese Jaylah, che dopo la riunione si era attardata in sala tattica per discutere con Norrin sulle indagini.

   «No. Prima era invisibile e poi, quando si è mostrato, aveva il casco chiuso e riflettente» spiegò la Vidiiana, cominciando a calmarsi. Accettò l’aiuto di Norrin per tornare in piedi. «Ha detto qualche parola, ma nulla di utile per identificarlo. La tuta gli alterava la voce, quindi non credo che lo riconoscerei dal timbro vocale». Così dicendo la dottoressa si massaggiò il collo indolenzito. Anche se si stava riprendendo, stavolta se l’era vista molto brutta. E aveva perso un collega che era stato al suo fianco fin dal varo.

   «Adam a plancia, sono sul luogo dello scontro a fuoco» giunse la voce dell’androide. «Il dottor Portillus è...».

   «Lo sappiamo» tagliò corto il Capitano, accorsa con gli altri accanto alla dottoressa. «L’assassino indossa una tuta occultante. Voglio i sensori interni al massimo e la Sicurezza su ogni ponte. Piantonate le sale teletrasporto, le navette e le capsule di salvataggio. Non deve sfuggirci!» disse, osservando il pianeta Suliban inquadrato sullo schermo. Se il colpevole fosse sceso a terra, rischiavano di non trovarlo più.

   In quella risuonò un allarme. «Capitano, riceviamo una chiamata d’emergenza di priorità 1» avvertì Zafreen. «Viene da una base della Flotta che è stata attaccata dai Na’kuhl».

   «Quale base?» chiese Hod. Il fatto in sé era gravissimo, ma che accadesse proprio in quel momento era una doppia disgrazia, perché li distraeva dal cercare l’assassino.

   «Si chiama... Base Apocalisse» rispose l’Orioniana. «Strano, non sapevo che esistesse. Ci hanno inviato le coordinate: sono nello spazio aperto, a 200 anni luce da qui».

   «Nemmeno io conoscevo questa base» ammise il Capitano, inquieta. «Dev’essere segreta. Allarme Rosso, tutti ai posti di combattimento!». L’illuminazione scese di un’ottava, cambiando tonalità, mentre l’allarme risuonava per tutta la nave. L’equipaggio corse ai propri posti.

   «E la caccia al killer?» chiese Norrin. L’Hirogeno non voleva soprassedervi, tanto più che Ladya – che gli stava molto a cuore – aveva rischiato la vita.

   «Dispiace anche a me, ma ora non possiamo occuparcene» disse il Capitano controvoglia. «Spesso nelle basi segrete si testano tecnologie pericolose, come nuove armi. Qualunque cosa si trovi in quell’installazione, non possiamo permettere che i Na’kuhl se ne impadroniscano».

   «Radek a sala macchine, preparate il propulsore cronografico» ordinò intanto il Comandante. «Dobbiamo raggiungere subito una base sotto attacco. Zafreen, gli mandi le coordinate».

   Mentre gli ufficiali si preparavano allo scontro, il Capitano si accostò a Ladya. «In infermeria potrebbero aver bisogno di lei, fra poco. Se la sente di riprendere servizio?» le chiese.

   «Sì, mandatemi direttamente lì» annuì la dottoressa. Risalì sulla pedana e subito l’addetto la trasferì.

   «Hai sentito, l’aggressore indossava una tuta occultante» sussurrò Norrin a Jaylah. «I Sulibani non ne hanno bisogno, per rendersi invisibili. Stai ancora più attenta alla tua squadra».

   «Non sono ancora pronta a escludere i Sulibani dai sospetti» obiettò la mezza Andoriana. «L’assassino potrebbe aver indossato la tuta proprio per sviarci. Ma sì, per gli Agenti Temporali è più facile procurarsene una, visto che hanno più familiarità con le armerie» ammise. «Vuoi che vada da loro?».

   «No, resta in plancia» ordinò l’Hirogeno, accennandole la postazione tattica ausiliaria. «La tua esperienza coi Na’kuhl potrebbe tornarci utile».

   «Ho affrontato una squadra, non un’astronave» obiettò Jaylah, ma si recò ugualmente alla consolle.

   Nel frattempo gli ufficiali avevano terminato i preparativi. «Dib a plancia, sono pronto al balzo» avvertì l’Ingegnere Capo, assiso sulla sedia di controllo del propulsore cronografico. Essendo un Penumbrano, era tra i pochi a bordo ad avere la forza mentale necessaria ad attivarlo. Ricevute le coordinate di destinazione, si concentrò profondamente, entrando in sintonia con il congegno. L’interfaccia conica, che incombeva come una spada di Damocle sopra di lui, si caricò al massimo e tutta l’astronave vibrò per lo sforzo. Il propulsore cronografico si attivò, traslando istantaneamente la Keter a destinazione.

 

   Base Apocalisse si componeva di un anello abitativo con quattro attracchi, costruito attorno a un modulo centrale più massiccio. La superficie era irta di armi: banchi phaser e polaronici, lanciasiluri per testate di vario tipo. Due astronavi di classe Horus, la Bennu e la Garuda, pattugliavano incessantemente lo spazio circostante. La posizione della base era uno dei segreti meglio custoditi della Flotta Stellare, ma era solo questione di tempo prima che i Na’kuhl la scoprissero. E una volta scoperta, non poteva che cadere.

   Quando la Keter apparve, la battaglia divampava. La stazione sparava all’impazzata con tutte le armi, cercando di colpire le piccole e agili Navi Vampiro dei Na’kuhl che le ronzavano attorno. Le navicelle attaccanti erano solo sei, ma non ne occorrevano di più. I loro scafi di Materia Degenere le proteggevano bene, mentre i disgregatori sub-nucleonici perforavano gli scudi ormai indeboliti e tagliavano come burro lo scafo in yiterium della stazione.

   Una delle astronavi di pattuglia, la Bennu, era già stata tranciata in due: gli spezzoni andavano alla deriva nello spazio. L’altra, la Garuda, colpiva selvaggiamente due Navi Vampiro, che rispondevano colpo su colpo.

   «Gli scudi della stazione sono compromessi; rilevo 47 segni vitali Na’kuhl all’interno» avvertì Zafreen. «Vanno verso il centro della base».

   «Cercano qualcosa» disse fra sé il Capitano. «Fuoco contro le Navi Vampiro. Dobbiamo togliere agli invasori ogni possibilità di fuga».

   La Keter irruppe nella battaglia come un ariete, sparando coi cannoni a impulso e i lanciasiluri anteriori. Riuscì a danneggiare gravemente una Nave Vampiro, mentre le altre si allontanarono, assumendo un nuovo vettore d’attacco. La navicella danneggiata, però, puntò contro la stazione. A nulla valse il fuoco di sbarramento: la nave in fiamme si schiantò contro l’anello abitativo, facendone esplodere un tratto. Intanto tre Navi Vampiro avevano manovrato e ora puntavano in formazione contro la Keter. Le altre due tenevano impegnata la Garuda.

   «Vrel, manovre evasive» ordinò il Capitano. «Norrin, fuoco a volontà. Dobbiamo disabilitare quelle navi».

   Vrel si concentrò totalmente sui comandi, tanto che le voci concitate attorno a lui gli parvero ovattate. Per quattro anni aveva pilotato la Keter e ormai ne conosceva le capacità meglio di chiunque altro. L’aveva guidata in battaglia contro nemici di ogni sorta; ma non si era mai scontrato coi Na’kuhl. Le tre Navi Vampiro tallonarono la Keter, così agili e veloci che non c’era modo di staccarle. Al tempo stesso la colpirono coi disgregatori, indebolendone gli scudi. La plancia vibrò e il Capitano si resse ai braccioli della poltroncina, mentre Vrel sentiva la fronte bagnarsi di sudore. «Posso fare slalom tra il modulo centrale e l’anello abitativo, per scollarci quelle navi» suggerì.

   «No, dobbiamo tenerle lontane dalla stazione» intervenne il Comandante Radek. «Abbiamo più armi a prua; approfittiamone» consigliò.

   «Ricevuto» disse Vrel, dirigendo la Keter lontano dalla base. Senza cambiare direzione né velocità, attivò i propulsori laterali, imprimendo una rotazione di 180º alla nave. Ora rivolgevano la prua ai vascelli inseguitori: un giochetto possibile solo nello spazio aperto, dove non c’era attrito né gravità.

   «Chi è la preda, ora?» fece Norrin con un sorriso sardonico. Sparò con tutte le armi anteriori, concentrando il fuoco sulla navicella centrale. La Nave Vampiro rallentò e cercò di disimpegnarsi, ma Vrel corresse velocità e rotta di conseguenza. Il fuoco intensissimo della Keter abbatté gli scudi nemici e schiantò persino lo scafo ultradenso, facendo esplodere la navicella. Le altre due però si erano allontanate.

   «Come se la cavano gli altri?» chiese il Capitano.

   «I Na’kuhl avanzano nella base» avvertì Zafreen. «Ma la Garuda ha danneggiato due Navi Vampiro».

   A poche centinaia di chilometri da lì, l’agile nave a forma di sparviero stava prendendo il sopravvento sugli avversari. Ma i Na’kuhl intendevano vincere ad ogni costo. La navicella più danneggiata tracciò una rotta di collisione. Accortosi del pericolo, il timoniere della Garuda fece una manovra evasiva, evitando l’impatto per un soffio. Aveva appena tirato un sospiro di sollievo che l’altra Nave Vampiro gli venne addosso, colpendo la sezione motori. L’impatto distrusse entrambi i vascelli.

   La battaglia proseguì, con due Navi Vampiro che tenevano impegnata la Keter. La terza attaccò la stazione. Fece un passaggio ravvicinato, cercando di eliminare le ultime difese, ma fu distrutta da una salva di siluri. Di lì a poco la Keter, che si era concentrata su una delle navicelle avversarie, riuscì a distruggerla.

   «Ci siamo quasi» disse Hod. «Distruggiamo l’ultima nave. Così i Na’kuhl che sono sbarcati non potranno fuggire».

   «Scudi al 20%» avvertì Norrin.

   Rimasta sola, l’ultima Nave Vampiro sfrecciò verso la stazione, attaccandone il corpo centrale. Presa tra le difese della base e la Keter che la tallonava, riuscì a fare solo due passaggi prima di essere distrutta.

   «È finita?» chiese Vrel, scosso dall’abilità dei piloti avversari e dalla loro disponibilità a immolarsi.

   «Così sembra» disse Radek, osservando la stazione in fiamme, circondata dai detriti. Alcuni colpi l’avevano trapassata da parte a parte.

   «Ci sono ancora ventidue segni vitali Na’kuhl a bordo» avvertì Zafreen. «Hanno raggiunto la sezione centrale».

   «Norrin, prepari la sua squadra» ordinò il Capitano. «Ripuliremo quella base, a costo di lottare stanza per stanza».

   «I miei sono già pronti in sala teletrasporto» disse l’Hirogeno. Affidò la postazione tattica a Jaylah, che fino a quel momento lo aveva coadiuvato da una consolle ausiliaria. Poi imbracciò un fucile phaser e salì sulla pedana di teletrasporto, pronto a guidare la sua squadra.

   «Aspettate, rilevo teletrasporti multipli in corso sulla stazione» avvertì Zafreen. Aveva appena parlato che la struttura fu dilaniata da immani esplosioni. L’anello abitativo si spezzò in due tronconi, che si sganciarono dal corpo centrale, pieno di squarci.

   «Fermo, Norrin!» ordinò il Capitano, impallidita. «Cos’è successo?».

   «I Na’kuhl devono aver teletrasportato cariche esplosive direttamente nella stazione» comprese Radek.

   «Ma da dove?!» volle sapere Hod. «Tutte le loro navi sono...».

   «Non tutte» mormorò Vrel.

   Qualcosa di nero e spaventoso uscì dall’occultamento, a poppa della Keter. L’attaccò con un potentissimo disgregatore sub-nucleonico, colpendola sul dorso.

   «Abbiamo perso gli scudi dorsali!» avvertì Jaylah, mentre la nave rollava e alcune consolle sprizzavano scintille. Norrin lasciò la pedana e riprese subito la postazione tattica.

   Quando Zafreen visualizzò l’inquadratura di poppa, tutti gli occhi ne furono calamitati. Lunga oltre un chilometro, la nuova ammiraglia di Vosk era un ammasso di aculei ricurvi, riuniti attorno a un informe corpo centrale. Un’indicibile malvagità promanava da quella cosa, che pareva uscita da un girone infernale. A Jaylah rammentò il Reaper, l’astronave con cui si era confrontata nelle simulazioni d’Accademia. Il suo disgregatore anteriore si ricaricò, obbligando Vrel ad allontanarsi mentre eseguiva una manovra evasiva dopo l’altra.

   «I Na’kuhl sulla stazione stanno tornando a bordo» disse Zafreen. «Sono rimasti in sette».

   «Devono aver preso ciò che volevano» comprese Hod, pallida come un cencio. «Norrin, riesce a mettergli fuori uso i motori?».

   «Ci sto provando, ma hanno rialzato gli scudi» avvertì l’Hirogeno. «E noi abbiamo perso i nostri».

   «Vrel, continui con le manovre evasive» ordinò il Capitano. «E se ci sono superstiti sulla stazione, portiamoli a bordo».

   Il teletrasporto di plancia entrò in funzione, materializzando un ufficiale. Era un Lukari, col cranio calvo dalla pelle violetta e gli occhi rosati. La sua uniforme era bruciacchiata, come anche un lato del viso. Impugnava una strana arma a raggi, nera e levigata, più grossa di un phaser manuale. L’alieno si guardò attorno, riconoscendo d’essere su una nave federale, e si accasciò a terra. Jaylah gli s’inginocchiò subito a fianco, cercando di capire le sue condizioni. Anche il Capitano Hod gli si accostò.

   «Sono il Comandante Ho’kuun» disse il Lukari con voce rauca. «I Na’kuhl ci hanno sconfitti... hanno preso il cristallo!» rantolò, con gli occhi colmi d’orrore.

   «Quale cristallo? Perché è così importante?» chiese il Capitano.

   «È un’arma... tra le più pericolose che si conoscano» rivelò Ho’kuun. Poi si rivolse a Jaylah. «Agente Chase... che coincidenza trovarla qui. Lei conosce quell’arma... furono proprio i suoi genitori a trovarla, tanti anni fa».

   La mezza Andoriana spalancò gli occhi, sentendo un brivido da capo a piedi. «Il Tox Uthat» comprese. «L’arma del futuro che può far esplodere le stelle. Per questo la base si trova nello spazio aperto».

   «Ci credevamo al sicuro... ma i Na’kuhl l’hanno preso!» annuì il Lukari, con occhi spiritati. «Un potere illimitato... in mano a quei mostri. Dovete fermarli...» ansimò, tossendo sangue.

   «Ci stiamo provando» assicurò Jaylah, anche se la Keter tremava sotto il martellante fuoco nemico. «Riprenderemo l’Uthat, vedrà».

   «No, è troppo pericoloso. Dovete distruggerlo, come voleva il suo artefice!» rantolò Ho’kuun.

   «Kal Dano» disse Jaylah, ricordando che sua madre le aveva parlato di lui. «Mi dica, come distruggiamo l’Uthat?».

   «Non è facile» avvertì il Lukari, con voce sempre più fievole. «Noi lo abbiamo studiato per anni, senza carpirne tutti i segreti. Ma questa... dovrebbe de-cristallizzarlo». Così dicendo le porse la sua arma, costringendola a impugnarla. «Codifica genetica, autorizzazione Ho’kuun 942» disse. L’arma emise un bip, segnalando che riconosceva la nuova proprietaria.

   «Attenta, può sparare solo tre colpi» sussurrò il Comandante. «Non fallisca! Distrugga l’Uthat, come voleva... il suo... creatore...». La voce di Ho’kuun si spense ed egli spirò.

   Jaylah si rialzò e indietreggiò in fretta, lasciando la pedana di teletrasporto. «Plancia a infermeria, emergenza medica» disse. «Necessita un Codice Bianco di Rianimazione».

   Il Comandante fu subito teletrasportato in infermeria, dove i medici avrebbero tentato di rianimarlo prima che sopraggiungesse la morte cerebrale. La mezza Andoriana fissò l’arma de-cristallizzante che il Lukari le aveva messo in mano. Le sue ultime parole le risuonavano nelle orecchie. Tre colpi... e non doveva fallire. «Ci proverò, te lo prometto» sussurrò.

 

   Sulla plancia della sua ammiraglia, Vosk dirigeva lo scontro con collaudata esperienza. Aveva riconosciuto la Keter fin dall’inizio, ma aveva voluto restare nascosto, per coglierla di sorpresa. Ora era nelle condizioni migliori per annientarla.

   «La squadra è tornata a bordo» riferì Ghrath. «Abbiamo l’Uthat».

   «Siamo certi che sia quello vero?» chiese Vosk. «Non voglio che un duplicato ci faccia sprecare la nostra grande occasione».

   «Rilevo un’enorme quantità d’energia al suo interno» rispose Kravik, dalla consolle sensori. «Non conosciamo nient’altro che possa creare quell’effetto».

   Vosk gli si accostò, osservando lui stesso le letture. «Dunque la vittoria ci arride» commentò.

   «Possiamo ritirarci, Leader Supremo?» chiese lo scienziato, ansioso di esaminare il bottino.

   «Non ancora» disse Vosk. «La Keter è una nave temporale; potrebbe inseguirci nel passato. Ecco perché deve essere distrutta. Continuate l’attacco!» ordinò agli artiglieri. Poi tornò davanti allo schermo, ansioso di vedere annientati gli avversari.

 

   «Non so più che inventarmi per tenere quella cosa a distanza» disse Vrel, chino sui comandi del timone. Ogni pochi attimi la Keter sussultava per l’ennesimo colpo. «È agile quanto noi e molto più potente».

   «Lo scafo in neutronio ci proteggerà» confidò Hod. In tante battaglie, mai nessun nemico era riuscito a scalfirlo.

   «Ci colpiscono i punti vulnerabili» avvertì Norrin. «Banchi anti-polaronici, tubi lanciasiluri, ugelli dei motori a impulso. Presto saremo senz’armi e immobilizzati».

   «Dobbiamo ritirarci, finché possiamo» consigliò Radek.

   «Non possiamo lasciargli l’Uthat!» obiettò Hod, girandosi verso di lui.

   «Le circostanze sono a nostro sfavore» insisté il Comandante. «Se ci facciamo ammazzare, Vosk terrà l’Uthat, mentre l’arma per distruggerlo sarà perduta con noi» disse, accennando alla strana pistola di Jaylah. Come a confermare la gravità della situazione, ci fu un altro scossone e squillò un allarme.

   «Abbiamo perso le armi dorsali» riferì Norrin. «Danni all’ugello 5 dei motori a impulso. Due feriti sul ponte 2».

   Il Capitano Hod si guardò attorno. La Keter era una delle navi più potenti della Flotta, ma stavolta era soverchiata. I danni si accumulavano a ogni momento. Radek aveva ragione: attardarsi era un suicidio. «Plancia a sala macchine, attivate il propulsore cronografico. Portateci via» ordinò.

   «Spiacente, Capitano, ma non abbiamo abbastanza energia». La voce di Dib era calma in modo surreale.

   «Allora entriamo in cavitazione» ordinò il Capitano, rivolgendosi al timoniere.

   «Volentieri». Mentre la nave di Vosk continuava a martellarli, Vrel attivò il deflettore, aprendo il tunnel di cavitazione. La Keter vi guizzò dentro, anche se il timoniere si accorse che i danni ai propulsori gli rendevano difficile mantenere l’assetto. Il tunnel era instabile e la nave rischiava di sbandare a ogni momento. Il mezzo Xindi si sentì venire la pelle d’oca: non aveva mai pilotato in quelle condizioni.

   «Perché siamo così instabili?» chiese Radek, sentendo le vibrazioni.

   «Sono i danni ai propulsori» spiegò il timoniere. «Non so quanto riuscirò a mantenere l’assetto. Rischiamo d’essere sbattuti fuori dalla cavitazione».

   «Se usciamo a questa velocità, saremo ridotti in poltiglia» avvertì Radek.

   «In poltiglia?! Usciamo da qui!» strillò Zafreen, rattrappendosi sulla sua poltroncina.

   «Così avremo di nuovo il Reaper addosso» obiettò Jaylah, che aveva ripreso la consolle tattica ausiliaria.

   «Il Reaper?» chiese Norrin.

   «Chiamavamo così l’ammiraglia di Vosk, nei test d’Accademia» spiegò Jaylah.

   «Mi sembra un nome adeguato» decise il Capitano. «Ora dov’è? L’abbiamo distanz...».

   La risposta venne con un altro sussulto, segno che avevano subito l’ennesimo duro colpo. L’inquadratura di poppa mostrò il Reaper che li inseguiva nel tunnel di cavitazione, sparando a tutto spiano.

   «Frell, li abbiamo alle costole!» imprecò il timoniere. «Ci faranno uscire dalla cavitazione». Sapeva quanto fosse difficile, per una nave, inseguirne un’altra che viaggiava nel tunnel. Bisognava uniformare i campi quantici, cosa particolarmente difficile ora che il campo della Keter era instabile e cambiava ogni microsecondo. Il mezzo Xindi non aveva idea di come facessero i Na’kuhl a stargli dietro. Ma in qualche modo ci riuscivano. E i campi erano così perfettamente collimati che il Reaper poteva colpirli con le armi normali. Al primo grosso sbalzo d’energia del deflettore sarebbero usciti dalla cavitazione, diventando poltiglia. Ma i Na’kuhl, con la loro evoluta tecnologia, probabilmente se la sarebbero cavata.

   «Zafreen, mi trovi un buon posto per nascondere la Keter» ordinò il Capitano. «In fretta, possibilmente».

   «Un momento...!» ansimò l’Orioniana, digitando freneticamente sulla sua consolle. «I sensori a lungo raggio sono danneggiati, dovrò basarmi sulle mappe stellari. Non ci sono nebulose nelle vicinanze. Nessuna anomalia capace di nasconderci. Solo un paio di comete... niente che possa ingannare i Na’kuhl».

   «Aumenti il raggio della ricerca. Dipende tutto da lei, Zafreen» disse Norrin con invidiabile calma.

   Il bel volto dell’Orioniana era così contratto che pareva sul punto di frantumarsi. La poveretta esaminò le mappe stellari, cercando qualunque cosa potesse offrire rifugio. Finalmente ne trovò uno. «Il sistema Pyris è a soli tre anni luce da qui» disse. «Il sesto pianeta è un gigante gassoso di classe I. Potremmo nasconderci al suo interno» suggerì, mentre inviava le coordinate al timone.

   «Dopo Osiris, speravo di non entrare più in un pianeta gassoso» mugugnò Vrel. «Ma a questo punto m’infilerei in una stella, pur di staccarci dal Reaper. Capitano?».

   «Non possiamo fare gli schizzinosi» disse Hod. «Procediamo verso Pyris VI».

   «Se ci arriviamo» pensò Vrel, correggendo la rotta. Avevano sempre il Reaper alle calcagna, che li colpiva con incredibile precisione. Norrin rispondeva con le armi di poppa, ma il Reaper le colpì una dopo l’altra, finché furono tutte fuori uso.

   «Abbiamo perso l’ultimo tubo lanciasiluri» disse l’Hirogeno, col suo tono controllato che faceva sembrare accettabili anche le notizie peggiori.

   «Radunate i siluri nell’hangar posteriore» ordinò il Capitano, meditando una mossa estrema.

   Nel frattempo il Reaper aveva preso di mira i motori a impulso. Vrel compì qualche manovra evasiva, che rese ancora più difficile restare nel tunnel quantico. Non sapeva se qualcuno avesse mai compiuto acrobazie del genere in cavitazione. Il disgregatore nemico colpì più volte lo scafo. Se non fosse stato per la corazza in neutronio, la Keter sarebbe stata vaporizzata.

   «L’arma nemica sta intaccando lo scafo» avvertì Norrin, incredulo. «I livelli di radiazione aumentano».

   «Vrel?» chiese il Capitano.

   «Ci siamo quasi» disse il timoniere. Il sudore gli appiccicava i capelli alla fronte. «Stiamo entrando nel sistema Pyris. Dirigo verso il gigante gassoso».

   Pochi attimi dopo l’ennesimo raggio sub-nucleonico centrò uno dei propulsori posteriori, mettendolo fuori uso. Privata di un motore a impulso, la Keter sbandò bruscamente a dritta, sfiorando l’orlo del tunnel quantico. Vrel attivò la procedura d’emergenza e portò al massimo gli smorzatori inerziali. Appena in tempo. Sbattuta fuori dalla cavitazione, la Keter tornò nello spazio normale. Anche con gli smorzatori al massimo, tutti quelli che si trovavano all’interno furono scaraventati di lato. In plancia, il Capitano Hod ebbe la fortuna di finire contro Radek, che la prese al volo, frapponendosi fra lei e il muro. Con la sua salute precaria, l’Elaysiana avrebbe potuto non sopravvivere all’impatto con la paratia. Dopo averle fatto da scudo, il Rigeliano l’aiutò a tornare in piedi.

   «Grazie» mormorò Hod. «State tutti bene?» chiese, guardandosi attorno.

   Norrin, Vrel e Jaylah erano già tornati ai loro posti. Zafreen sembrava più malconcia, ma riuscì a rialzarsi. Anche gran parte del personale ausiliario stava bene, salvo per due ufficiali che avevano delle fratture. Siccome il teletrasporto non funzionava più, presero il turboascensore per andare in infermeria.

   «Cerco di raggiungere Pyris VI col propulsore che ci resta» disse Vrel. Il pianeta gassoso era un puntino blu, che s’ingrandiva lentamente sullo schermo.

   «Dov’è il Reaper?» chiese Hod, risedendosi sulla poltroncina.

   «Deve averci oltrepassati quando siamo usciti dal tunnel. Tornerà indietro» rispose il timoniere.

   «Zafreen, mandi un segnale di soccorso a banda larga. La Flotta deve sapere cos’è successo» ordinò il Capitano.

   «Non ci resta molta energia» avvertì l’Orioniana. «La prendo dal supporto vitale e dalle piastre di gravità, okay?».

   «Ma sì, a che serve respirare?» borbottò Vrel, anche se in realtà sarebbero trascorse ore prima di consumare tutto l’ossigeno di bordo.

   «Grazie» mormorò invece Hod, sentendosi più leggera. Malconcia com’era, aveva un gran bisogno della bassa gravità del suo mondo natale. Le parve di respirare meglio, ma la situazione restava critica.

   «Segnale di soccorso inviato» disse Zafreen. «Ancora nessuna traccia del Reaper».

   Il globo di Pyris VI s’ingrandiva a vista d’occhio sullo schermo. Era blu scuro, con striature quasi nere: un Gigante Freddo o Uranico, circondato da imponenti anelli. I federali cominciavano a sperare di raggiungerlo.

   In quella il Reaper uscì dalla cavitazione proprio accanto alla Keter, colpendola selvaggiamente. Anche le armi sulla fiancata furono messe fuori uso.

   «Yotz!». Vrel sterzò e si abbassò, entrando nello spessore degli anelli. Particelle di ghiaccio e roccia tamburellarono lo scafo come grandine. A quella velocità, un frammento di ghiaccio aveva il potere perforante di un proiettile. Fortunatamente lo scafo in neutronio proteggeva ancora la nave, sebbene i colpi nemici lo avessero messo a dura prova. Ma qua e là c’erano macigni molto più grossi.

   Vedendo la mossa della Keter, il Reaper la seguì senza esitazione tra gli asteroidi. Le due navi compirono uno spericolato slalom tra i frammenti rocciosi. Il disgregatore balenò ancora, mancando d’un soffio la nave federale. Colpì un grosso blocco di ghiaccio più avanti, vaporizzandolo. La Keter attraversò la nube di vapore acqueo e il Reaper le tenne dietro.

   «Niente da fare, non riesco a scrollarmelo di dosso» ammise Vrel. Si era sempre vantato d’essere un pilota provetto, ma contro i Na’kuhl non c’era trucco che funzionasse.

   «Ci porti fuori dagli anelli» decise Hod. Per quanto si fidasse del timoniere, la vista degli asteroidi che sfrecciavano intorno alla Keter la inquietava. «Diriga verso il pianeta. Plancia ad hangar, preparatevi a decomprimere» aggiunse.

   Vrel diresse la Keter verso l’alto, per uscire dagli anelli, che per quanto ampi erano spessi pochi chilometri. In quella la nave ricevette un altro colpo, che spinse gli occupanti in avanti.

   «Collisione ventrale. Una delle rocce ci ha colpiti» constatò Norrin.

   «Maledizione!» imprecò Vrel. Ce la stava mettendo tutta, ma non bastava. Si chiese come stava sua sorella Lyra che, tra un’emergenza e l’altra, non era ancora riuscita a lasciare la Keter. Immaginò che fosse spaventata per tutti quegli urti e gli allarmi. Forse sperava che lui li traesse d’impaccio. Con questo pensiero il timoniere diresse la nave verso Pyris VI, anche se i comandi gli rispondevano sempre meno. Sentiva gli sguardi dei colleghi sulla nuca, perché tutto dipendeva da lui. Dietro di loro, il Reaper sgusciò agilmente fra gli asteroidi e uscì a sua volta dal campo, tallonandoli.

   «Decomprimere... ora!» ordinò il Capitano.

   Il portello dell’hangar era già aperto. Quando anche il campo di forza fu disattivato, la decompressione trascinò fuori tutto ciò che non era stato agganciato o magnetizzato. Una navetta e un gran numero di container finirono nello spazio, assieme a parecchi siluri, accatastati negli ultimi minuti. Quasi tutti gli oggetti entrarono in collisione col Reaper. I siluri esplosero, così come il nucleo di curvatura della navicella. Anche alcuni container, che contenevano materiali esplosivi, detonarono. La colossale esplosione avvolse il Reaper.

   «Ah! Ben vi sta, brutti pipistrelli!» esclamò Vrel, trascinato dall’emozione. Tra gli ufficiali corsero sguardi speranzosi. Ma il Capitano, il Comandante e l’Ufficiale Tattico non staccavano gli occhi dallo schermo. E Jaylah, dalla sua postazione, sentì che non era finita.

   Come un drago infuriato, il Reaper uscì dalla fiammata. Aveva perso gli scudi, ma il suo scafo di Materia Degenere era intatto. I federali sentirono morire ogni speranza. Sotto i loro occhi il Reaper accelerò, fino a urtare la Keter. Ancora una volta l’equipaggio fu gettato sul pavimento. La nave di Vosk continuò ad accelerare con i motori a impulso, trascinando l’astronave federale, finché entrambe precipitarono come stelle cadenti nell’atmosfera bluastra del pianeta. Nubi d’idrogeno ed elio le avvolsero, turbinanti. Immani fulmini squarciarono l’oscurità, illuminando le due navi che precipitavano avvinghiate, come guerrieri decisi a morire assieme. Superati gli strati di gas più leggeri, le astronavi sprofondarono in un oceano sempre più denso di metano e altri idrocarburi. Le sostanze, ormai allo stato liquido, si fecero strada nelle brecce della Keter, in corrispondenza dei tubi lanciasiluri e degli ugelli dei propulsori. Inondarono alcune stanze, uccidendo gli occupanti. In plancia Norrin attivò il protocollo d’emergenza. Paratie scorrevoli e campi di forza entrarono in funzione, impedendo al metano liquido d’inondare il resto della nave.

   Fu allora che il Reaper rallentò, fino a sganciarsi dalla Keter. Aleggiò nella zuppa di metano, colpendo un’ultima volta la nave nemica col disgregatore sub-nucleonico. Con tutti i propulsori fuori uso, la Keter sprofondò in strati sempre più densi. I suoi livelli d’energia diminuirono, finché anche i sensori Na’kuhl stentarono a distinguerla. Allora, per ordine di Vosk, il Reaper risalì dagli abissi del gigante gassoso, superando indenne le tempeste di fulmini. Lasciata l’atmosfera tempestosa, entrò in orbita sopra il punto in cui era sprofondata la Keter.

 

   «Rapporto danni» ordinò Vosk in tono misurato.

   «Abbiamo alcuni feriti lievi, ma tutti i sistemi sono ancora operativi» riferì Ghrath. «La prima battaglia del Reaper è una vittoria!» sogghignò.

   «Una vittoria mutilata» corresse Vosk. «Dovevamo distruggere la Keter, non perderla in quell’oceano. Ora se ne staranno nascosti, a leccarsi le ferite. E quando si saranno ripresi, sgusceranno fuori dall’altro lato del pianeta».

   «Possiamo disporre una rete di sonde, per non farceli scappare» suggerì Ghrath.

   Il Leader Supremo non rispose subito. Si accostò all’oloschermo e fissò le profondità nebbiose del mondo uranico, come se potesse scorgere la nave rivale che vi sprofondava. «I federali hanno inviato una richiesta di soccorso» rammentò. «Voglio una scansione coi sensori a lungo raggio. Ci sono rinforzi in arrivo?».

   «Affermativo» rispose di lì a poco un addetto. «Tre navi in avvicinamento. Una è di classe Celestial. Le altre sono più piccole... classi Theseus e Paladin, credo».

   «Una forza non da poco» ammise Vosk. «Stato degli scudi?».

   «Al 10%. Ci vorrà tempo per rigenerarli» riferì un ufficiale.

   «Permettete una parola, Leader Supremo?» fece Kravik, avvicinandosi con aria umile. Al cenno di Vosk proseguì. «Affrontare un’altra battaglia contro i federali sarebbe superfluo. Il nostro nucleo temporale è pronto a entrare in azione. Gli emettitori tachionici che abbiamo comprato da Vul-Isar hanno superato tutti i test. Possiamo andare nel passato e riscriverlo».

   «Avrei preferito disfarmi della Keter» disse Vosk, sempre fissando l’atmosfera turbinosa.

   «Hanno perso gli scudi cronofasici: non sopravvivranno all’alterazione temporale» obiettò Kravik. «E se anche fosse, non capiranno come ritrovarci».

   «Uhm... ho appreso a mie spese che i federali sono pieni di risorse» ammise Vosk, non del tutto convinto.

   «Mio signore, abbiamo appena sconfitto la Keter. Se mai dovessimo rincontrarla, la batteremo con la stessa facilità» insisté lo scienziato.

   «I rinforzi federali si avvicinano a massima cavitazione» avvertì l’addetto ai sensori. «Fra un minuto saranno qui».

   «Ebbene, diamo energia al nucleo temporale!» decise Vosk, levando il braccio in un gesto imperioso. «Lasciamo questa realtà condannata e rechiamoci nel passato. La destinazione è la Terza Guerra Mondiale».

   A queste parole Kravik si recò alla sua postazione, da cui impartì ordini alla sala macchine. La potenza del Reaper fu dirottata al nucleo temporale. L’astronave tremò, preparandosi al balzo. «Che vi dicevo, mio signore? Gli emettitori tachionici funzionano alla perfezione» disse lo scienziato, controllando i dati. «Ci siamo, la breccia si sta aprendo».

 

   Migliaia di chilometri più in basso, dove la luce solare non giungeva, l’equipaggio della Keter lottava per tenere insieme la nave. Le luci in plancia erano spente, salvo qualche faretto dell’Allarme Rosso, che gettava un bagliore sanguigno sui volti disperati.

   «Il metano ha invaso le sezioni 2, 6, 9, 14 e 18» avvertì Norrin. «I campi di forza non hanno energia; possiamo contare solo sulle paratie d’emergenza. Alcune si stanno già deformando per la pressione».

   «I propulsori sono tutti fuori uso, quindi non possiamo risalire per diminuirla» aggiunse Vrel. «Continuiamo ad affondare, anche se più lentamente di prima».

   «Ci sono venti vittime accertate e una trentina di feriti, molti dei quali gravi» disse Radek, consultando l’oloschermo dal bracciolo della poltroncina. «I medici ci avvertono che alcuni dei loro strumenti sono stati danneggiati dagli urti. Il Comandante Ho’kuun è morto, non sono riusciti a rianimarlo».

   «Sensori e comunicazioni fuori uso. Non so nemmeno a che profondità siamo» disse Zafreen, la cui consolle era bruciata e spenta. L’Orioniana aveva i capelli scarmigliati e un livido sulla fronte, là dove aveva sbattuto contro la consolle, quando erano usciti dalla cavitazione.

   In mezzo alla baraonda, il Capitano Hod sedeva immobile sulla poltroncina. Aveva la sensazione che la nave le si sfilacciasse attorno, come un vestito che si disfaceva. Mai prima d’ora si era trovata in una situazione tanto grave. «Energia d’emergenza al supporto vitale. Evacuate le sezioni che rischiano d’inondarsi» ordinò, mantenendo in qualche modo la calma. «E lanciate una sonda nello spazio. Voglio sapere che fanno i Na’kuhl».

   «Sonda lanciata» disse l’addetto. «Impiegherà qualche minuto a uscire dall’atmosfera».

   «Sala macchine a plancia, devo avvertirvi che abbiamo una perdita al nucleo temporale» riferì Dib, con la sua calma surreale. «Stiamo cercando di arginarla, ma i cronotoni sono già oltre i livelli di guardia, in tutta la nave».

   «Assicuratevi che il contenimento dell’antimateria regga. Vi stiamo inviando personale ausiliario» disse il Capitano, sapendo che i danni al nucleo erano i più pericolosi.

   Di lì a poco giunsero le telemetrie della sonda. Il Reaper era ancora in orbita, ma a poche decine di chilometri si stava formando una distorsione luminosa. L’anomalia crebbe, assumendo una forma a vortice. Ora era grande abbastanza da far passare l’astronave.

   «La sonda rileva intense radiazioni tachioniche» avvertì Zafreen. «Potrebbe essere una breccia temporale».

   «Il Reaper non deve varcarla!» gemette Hod. «I nostri scudi cronofasici sono...?».

   «Ancora inattivi» confermò Norrin. Ciò significava che la Keter non sarebbe sopravvissuta a un’alterazione della linea temporale.

   «Dove sono i rinforzi?!» chiese il Capitano, angosciata.

   «Stanno arrivando» disse Zafreen.

   Mentre i colleghi fissavano lo schermo, aggrappandosi all’ultima speranza, Jaylah aprì un canale con la sala macchine. Temeva che i rinforzi non avrebbero fermato il Reaper, anche se fossero giunti in tempo. «Jaylah a Dib, non fermare la perdita di cronotoni» disse. «Anzi, cerca d’aggravarla!».

   «Capisco, Tenente» disse l’Ingegnere Capo, che conosceva bene la tecnologia temporale.

   In quella tre navi federali uscirono dalla cavitazione e attaccarono il Reaper. C’erano una classe Celestial, una Paladin e una Theseus. La nave di Vosk non provò nemmeno a rispondere al fuoco. Data massima energia agli scudi, si proiettò in avanti, dentro la breccia temporale. Gli inseguitori esitarono, perché il varco aveva già cominciato a richiudersi. Solo la nave di classe Theseus, più piccola e svelta, schizzò in avanti, per inseguire il Reaper nel passato. Nel momento in cui attraversava la breccia questa si richiuse del tutto, distruggendola.

   Gli ufficiali di plancia distolsero lo sguardo dall’esplosione. Per un terribile attimo si aspettarono d’essere cancellati dalla linea temporale. Ma l’attimo passò e quando riaprirono gli occhi erano ancora lì. Solo il collegamento con la sonda si era interrotto.

   «Cos’è successo?» chiese Vrel, disorientato.

   «Vosk ha vinto» comprese Jaylah. «La linea temporale è cambiata. Noi siamo rimasti perché la perdita del nucleo ha fatto lo stesso effetto degli scudi cronofasici. Ma potremmo essere tutto ciò che resta dell’Unione».

   «Non è possibile!» gemette il timoniere con voce strozzata. «Non ci credo!».

   «Lanciate un’altra sonda» ordinò il Capitano. «Dobbiamo sapere che succede là fuori».

   L’addetto eseguì con mani tremanti. La sonda schizzò verso l’alto, uscendo dalla zona irradiata di cronotoni senza per questo scomparire. Era un buon segno, perché voleva dire che anche loro potevano lasciare la nave. In pochi minuti la sonda risalì fino agli strati alti dell’atmosfera e iniziò a trasmettere. Lo spazio era deserto: non c’era traccia delle navi federali, nemmeno i frammenti di quella distrutta. Qua e là, però, lo spazio era attraversato da ampie chiazze rossastre.

   «E quella che roba è?!» chiese Vrel, pur intuendo l’orribile verità.

   «Anomalie» disse Zafreen con voce tremante. «Quelle create dai Tuteriani per trasformare lo spazio. In questa nuova linea temporale non c’era l’Unione a fermarli. Così hanno vinto».

 

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Capitolo 6
*** Dispersi ***


-Capitolo 5: Dispersi
 
   Un silenzio di morte scese in plancia. Il peggiore degli incubi si era concretizzato. Erano soli, con la nave in avaria, in una linea temporale ostile. Tutto ciò che conoscevano, tutti coloro che avevano amato, erano stati cancellati dalla Storia. Erano peggio che morti: non erano mai esistiti. La Via Lattea aveva altri padroni, ora.
   «Rilevo...» mormorò Zafreen, ma la voce le venne meno. Quando il Capitano si girò verso di lei, l’Orioniana si riscosse e tornò a leggere i rapporti della sonda. «Rilevo una nave in avvicinamento. È una Dreadnought dei Tuteriani».
   «Non abbiamo scudi né armi. Nessuna possibilità di difesa» mormorò Norrin. Chinò il capo e mosse le labbra, recitando in silenzio il mantra dei Cacciatori che si preparavano alla morte.
   «Abbiamo ancora una navetta temporale» ricordò il Capitano. «Norrin, Jaylah, radunate i vostri ufficiali. Salite sull’Excalibur e mettetevi in salvo, finché potete. Siete gli unici che possano fermare Vosk nel passato».
   «Questo è un lavoro da Agenti Temporali» disse Norrin. «Io resterò qui, per vedere se c’è modo di salvare la nave. Conosco qualche trucco per nasconderci».
   «Come vuole» disse il Capitano. «Si muova, Jaylah! E se c’è un briciolo di giustizia nell’Universo, che possa accompagnarla».
   La mezza Andoriana comprese che il Capitano non si aspettava di rivederla. Quello era un addio. Passò lo sguardo da un collega all’altro, indugiando su Norrin e infine su Vrel. «Troverò Vosk, ve lo prometto. E non lascerò nulla d’intentato per fermarlo» promise, impugnando l’arma datale per distruggere l’Uthat. «Ma voi tenete duro! Così mi raggiungerete sul più bello, per togliermi dai pasticci in cui mi caccerò senz’altro» disse, con le lacrime agli occhi. «A presto» concluse, e infilò il turboascensore.
 
   Percorrendo la nave da un’estremità all’altra, Jaylah constatò che i danni erano davvero catastrofici. Dovette scavalcare corpi privi di sensi e anche un paio di feriti che le tendevano le mani, implorando aiuto. Nel frattempo contattò la Squadra Temporale, ordinando a tutti di presentarsi nell’hangar, che era di nuovo pressurizzato. Molti Agenti diedero l’okay, ma altri erano bloccati in sezioni danneggiate e dubitavano di potersi liberare in tempo.
   «Hakon a Chase, sono rimasto bloccato in un turboascensore che è precipitato per diversi piani. Cerco di liberarmi col phaser» la informò l’Illyriano.
   Jaylah si sentì con l’acqua alla gola. Tra i caduti dell’ultima missione e quelli che erano bloccati, la sua squadra era gravemente sotto organico. Le dispiaceva che Norrin non fosse con lei: l’Hirogeno era stato il suo mentore per anni. Quando giunse nell’hangar, la mezza Andoriana ci trovò appena quindici Agenti. Attese qualche minuto, sperando che ne venissero altri. Ma ad arrivare fu Selmak.
   «Conosco la situazione e voglio aiutarvi» disse il Maggiore. «Qui sulla Keter non posso fare la differenza, ma nel passato forse sì. Mi lasci venire!».
   Jaylah ebbe un attimo d’esitazione. Prima che scoppiasse l’emergenza erano alle prese con il sabotatore della Squadra Temporale. Selmak era ancora tra i principali sospettati. Ma sondando la sua mente, Jaylah non percepì inganni né ostilità. Peccato che la telepatia non fosse una scienza esatta: una mente ben addestrata poteva celare le proprie emozioni.
   «D’accordo, salga a bordo» cedette la mezza Andoriana. Accostatasi all’Excalibur, posò la mano sul lettore di DNA, facendo aprire l’ingresso. Lasciò salire tutti, poi entrò a sua volta e richiuse la porta. Per quanto spaziosa, la sezione di poppa della navicella era affollata. Jaylah ripose l’arma de-cristallizzante nell’armadietto di sicurezza e corse in cabina. Adam era già ai comandi. «Situazione?» gli chiese.
   «La Dreadnought è entrata in orbita» riferì l’androide. «Dobbiamo andare, ma sfortunatamente non conosciamo la destinazione del Reaper».
   «Se è successo qualcosa all’Unione, avremo le risposte sulla Terra» ragionò Jaylah. «Quanto alla data, per adesso ci basta andare a prima delle anomalie. Facciamo il 2500, per essere sicuri. Una volta lì, cercheremo di capire quando si è verificata la deviazione».
   «Bene, Tenente» disse Adam, attivando il nucleo temporale. L’Excalibur vibrò, raccogliendo energia per il balzo. Non c’era bisogno di lasciare l’hangar, perché il trasferimento era analogo al teletrasporto, a differenza del Reaper, che doveva aprire una breccia temporale e poi attraversarla.
   «No, aspettate!» gridò Hakon, entrando in quel momento nell’hangar. Si precipitò verso l’Excalibur, ma questa svanì, senza che gli occupanti lo avessero notato.
   «Yotz, oggi va tutto in malora!» imprecò l’Illyriano. Cadde in ginocchio e diede un gran pugno sul pavimento per sfogarsi. Poco alla volta si calmò. Si rialzò e lasciò l’hangar, dicendosi che anche lì sulla Keter c’era molto da fare.
 
   «L’Excalibur è partita» riferì Zafreen.
   «Bene» disse Hod, leggermente sollevata. «Ora cerchiamo di sopravvivere anche noi. Come si comporta la Dreadnought?».
   «È sempre in... no, ha lasciato l’orbita in questo momento» si corresse l’Orioniana. «Rilevo un condotto di transcurvatura in avvicinamento».
   «Transcurvatura?» si allarmò il Capitano, girandosi verso di lei. Pochissime specie possedevano quella tecnologia, affine alla cavitazione quantica, ma ancor più sofisticata. «Di chi si tratta?».
   «Sto cercando di capirlo. La traccia energetica sembra... no!» gemette l’Orioniana, facendosi di un verde pallido.
   «Allora?!» chiese Hod, impaziente. Ma si accorse che tutti gli ufficiali fissavano inorriditi lo schermo alle sue spalle. Preparandosi al peggio, l’Elaysiana si volse lentamente. Ciò che vide le fece quasi perdere il lume della ragione.
   Un cubo Borg era uscito dalla transcurvatura e si avvicinava, oscurando le stelle con la sua mole. Anziché mostrare il reticolo di tubi e travi dei vecchi modelli, questo cubo aveva le pareti lisce, rivestite di una corazza grigia. Si avventò sulla Dreadnought, colpendola con raggi trancianti e siluri. L’astronave fusiforme rispose con raggi a particelle. Erano armi potenti, ma gli scudi Borg le bloccarono subito, senza bisogno d’incassare i primi colpi per poi adattarsi. Significava che quello non era il primo scontro fra le due potenze.
   La battaglia durò parecchi minuti, con le due grandi astronavi che si giravano attorno, bombardandosi con tutte le armi. Gradualmente divenne chiaro che i Borg erano in vantaggio. Il cubo ruotava astutamente sul proprio asse, rivolgendo facce diverse alla Dreadnought, per ricaricare gli scudi quando s’indebolivano. I Tuteriani non avevano lo stesso vantaggio. I loro scudi iniziarono a cedere e alcuni siluri Borg andarono a bersaglio, aprendo brecce nello scafo. Vista la mala parata, i Tuteriani volsero la prua e cercarono di fuggire. Ma i Borg agganciarono lo scafo con un raggio traente così forte che la Dreadnought si spezzò all’altezza della strozzatura centrale. I due tronconi indifesi furono bombardati ancora, finché esplosero uno dopo l’altro. Senza perdere tempo, i Borg rientrarono in transcurvatura, lasciandosi dietro i rottami fiammeggianti.
   «È così che funziona» comprese Hod. «In questa linea temporale la Via Lattea è contesa fra Borg e Tuteriani. Le altre specie saranno ridotte al lumicino... se esistono ancora». Cercò di non pensare a cosa fosse successo al suo pianeta, la pacifica Elaysia; non poteva permettersi distrazioni.
   «Bene; se qualcuno pensava ancora di lanciare richieste di soccorso, ora se lo può scordare» disse il Capitano. «Resteremo qui finché la nave non sarà nuovamente in grado di volare, ci volessero mesi. Poi andremo ad aiutare i nostri Agenti. Sarà la sfida più difficile, ma dobbiamo vincerla. Siamo i soli che possono ripristinare la linea temporale».
   «Ne siamo certi?» chiese Radek. «Ormai sappiamo che la Flotta, nei secoli a venire, avrà navi ed equipaggi più preparati di noi contro queste catastrofi. Non potrebbero intervenire loro?».
   «Possiamo augurarcelo. Ma finché non avremo prove certe, dobbiamo comportarci come se fossimo l’ultima linea di difesa» disse Hod. «Al lavoro, adesso. Abbiamo una nave da riparare».
 
   Sulla plancia del Reaper, Vosk osservava l’atmosfera turbinosa di Pyris VI, mentre i suoi ufficiali eseguivano analisi.
   «Nessuna traccia dei federali» disse l’addetto ai sensori. «Nemmeno i frammenti della nave distrutta».
   «Il nucleo temporale ha funzionato a dovere!» gongolò Kravik. «Siamo nel passato, nell’anno che volevamo. E il fatto che i federali non ci abbiano inseguiti dimostra che ignorano la nostra destinazione».
   «In tal caso, rotta verso la Terra» ordinò Vosk. Il pianeta blu uscì dallo schermo, man mano che il Reaper manovrava. Quando furono in posizione entrarono nel condotto di transcurvatura.
   «Arriveremo tra un’ora, Leader Supremo» riferì il timoniere.
   «Bene... e congratulazioni a lei, Tenente» disse Vosk. «Con le sue manovre ha stracciato i federali. Ho particolarmente apprezzato lo slalom fra gli asteroidi».
   «Lieto di servire, mio signore» disse il timoniere, inorgoglito dai complimenti.
   «Sì, congratulazioni a tutti» disse Vosk, andando verso il centro della plancia. «Ma ci resta molto da fare. Abbiamo la Storia da riscrivere. E se la Storia opporrà resistenza... allora passeremo a metodi più diretti. Portatemi l’Uthat!».
   Ghrath entrò in plancia, reggendo con ambo le mani una cassetta di sicurezza federale. La parte superiore era stata scoperchiata, mettendo a nudo il contenuto. Nella luce bassa della plancia, il Tox Uthat sfavillava di luce propria. Sembrava una gemma, magari un grosso diamante, sagomato a forma di uovo, ma con la superficie sfaccettata. I Na’kuhl dovettero socchiudere gli occhi per non esserne abbagliati.
   «Eccola, finalmente» mormorò Vosk, con insolita reverenza. «L’arma che ci ha sconfitti a Procyon V ora è al nostro servizio. Il potere di estinguere le stelle... di frantumare i pianeti... è finalmente in mano mia!». Afferrò l’Uthat e lo tenne alto, così che tutti lo vedessero bene. «Che ironia... un potere smisurato in un oggetto così piccolo» mormorò.
   «Un potere che deve essere compreso, mio signore» intervenne Kravik. «Non sappiamo ancora come usarlo. Ma su questa nave abbiamo sofisticati laboratori. Se mi affidate l’Uthat, sono certo che ne capirò il funzionamento. Così potrete usarlo quando vorrete».
   «Ci conto, Kravik» disse Vosk, riponendo il cristallo nel recipiente. «Inizi subito le analisi».
   Lo scienziato s’inchinò profondamente, prima di ricevere da Ghrath la cassetta col cristallo. La prese con reverenza, come se contenesse una reliquia, e mosse in fretta verso l’uscita. Era già alla porta quando Vosk lo richiamò. «Ah, Direttore...».
   «Sì?» fece Kravik, voltandosi di nuovo.
   «A volte lei è troppo loquace» notò il Leader Supremo. «Stia attento a non parlare dell’Uthat al dottor Smirnov. Il nostro consulente storico non approverebbe. Potrebbe persino sabotarci, se sapesse per cosa ci stiamo attrezzando».
   «Sarò una tomba, mio signore» promise lo scienziato. Ciò detto lasciò la plancia, diretto ai suoi laboratori.
 
   «Sala macchine a plancia, abbiamo di nuovo i sensori. Solo a corto raggio». La voce di Zafreen veniva dal comunicatore, dato che l’Orioniana aveva lasciato la sua postazione guasta per raggiungere gli ingegneri.
   «Bene, ci dia una visuale» disse Hod. Era la prima buona notizia, dopo ore di lavoro febbrile. Il nucleo temporale perdeva ancora e, per ammissione dell’Ingegnere Capo, rischiava di esplodere. Molte sezioni erano inondate dal metano liquido, con le paratie d’emergenza sul punto di sfondarsi. E una trentina di ufficiali erano ancora in infermeria, gravemente feriti e quindi impossibilitati a contribuire ai lavori. Alcuni avevano addirittura perso degli arti. Il Capitano avrebbe voluto far loro visita, ma non ne aveva il tempo.
   Lo schermo s’illuminò, ma l’immagine era confusa. Poco alla volta si precisò, man mano che i sensori tornavano in linea. Il Capitano riconobbe gli anelli del pianeta e i frammenti della Dreadnought che si stavano ancora disperdendo. A un tratto notò un bagliore in mezzo ai detriti. Qualcosa si muoveva in modo autonomo. Un’astronave.
   «Lo vede anche lei, Zafreen? Lì, in mezzo ai resti della Dreadnought. Aumenti il dettaglio» ordinò.
   L’inquadratura si amplificò. Non c’erano dubbi: era davvero una piccola nave, che si muoveva fra i detriti. Hod notò il fascio azzurro di un raggio traente.
   «Ladri di rottami» disse Radek. «Con la Galassia devastata è il solo modo di sopravvivere. Ogni campo di battaglia diventa meta dei razziatori».
   «Riconosce la configurazione dello scafo?» chiese Hod. «Sarà senz’altro un modello diverso da quelli della nostra linea temporale. Ma già riconoscere la specie sarebbe un passo avanti».
   «Perché, pensa di contattarli? Di chiedere aiuto, magari?» volle sapere Radek.
   «L’idea non le piace» indovinò il Capitano.
   «Nelle nostre condizioni, rischiamo di diventare il prossimo bersaglio» confermò il Comandante. «Sarà gente disperata, che ha perso tutto... e quindi pronta a tutto».
   «Abbiamo un nucleo che può esplodere in ogni momento» gli sussurrò Hod all’orecchio. «Non c’è nemmeno energia per replicare i pezzi di ricambio che ci servono. Senza un po’ d’aiuto, non usciremo da questo pianeta».
   «Io credo di riconoscere quella nave» disse inaspettatamente Vrel, che l’aveva osservata con attenzione.
   «Sì?» fece il Capitano.
   «Somiglia a un vecchissimo modello degli Xindi Primati. Il popolo di mio padre» rivelò il timoniere.
   «Chissà cos’è successo agli Xindi, in questa realtà» commentò Radek. «Non sappiamo se siano alleati dei Tuteriani».
   «Anche se lo erano, penso che a quest’ora siano stati traditi» disse il Capitano. «Quantomeno non esitano a saccheggiare i loro resti. Zafreen, apra un canale». Si rassettò l’uniforme, cercando di apparire presentabile.
   Uno Xindi Primate apparve sullo schermo. Il suo volto magro era sfigurato da una lunga cicatrice, che gli attraversava un occhio. «Sono il Comandante Tierna, degli Xindi Primati» esordì. «Non ci eravamo accorti che foste là sotto. Chi siete? Che ci fate laggiù? Aspettate... questi rottami sono nostri! Li abbiamo raggiunti per primi!». Dietro di lui si aggiravano altri Xindi, ma la telecamera li teneva volutamente sfocati.
   «Si calmi, Comandante. Non vogliamo contestare il vostro diritto al recupero» disse Hod, accorgendosi che erano davvero dei disperati. «Sono il Capitano Hod, della nave stellare Keter» si presentò.
   «Mai sentita» disse Tierna, arcigno. «Lei è un’Elaysiana, dico bene? Vi credevo estinti. Ma quello accanto a lei è un Rigeliano. E quello laggiù non ho idea di cosa sia» disse, accennando a Norrin.
   «Su questa nave collaborano molte specie» confermò il Capitano.
   «Siete fuggiti dai vostri mondi, eh? Vi capisco» disse lo Xindi Primate. «Prima i Borg, poi i Tuteriani con le loro maledette anomalie. Ormai non c’è un porto sicuro in tutto il Quadrante. Ma non mi avete ancora detto che ci fate laggiù. Vi siete nascosti durante la battaglia?».
   «Sì, ma la nostra nave è danneggiata e abbiamo problemi a risalire» ammise Hod. Non specificò la gravità dei danni e si guardò bene dall’informarlo che provenivano da un’altra linea temporale. «Non è che potreste agganciarci col raggio traente?».
   «Uhm... la nostra nave è piccola, il raggio ha una potenza limitata» disse Tierna. «E non possiamo scendere troppo in quell’atmosfera. Mi spiace, Capitano. Capisco che siete nei guai, ma non rischierò la mia gente per degli alieni».
   «Abbiamo anche degli Xindi a bordo» disse Hod, sperando di smuoverlo.
   «Xindi Primati?» inquisì Tierna. «Perché delle altre specie non c’interessa. Ci hanno causato solo guai».
   «Sì, anche Primati» confermò Hod. «Come il mio timoniere, Vrel» disse, invitandolo ad alzarsi. Non rivelò che Vrel era Xindi solo per metà, temendo che lo avrebbero disprezzato. Per lo stesso motivo non disse il suo cognome, ereditato dalla madre: gli Xindi avevano solo il nome proprio.
   «Uhm... sei davvero uno di noi?» chiese Tierna, sospettoso. I tratti Xindi erano poco pronunciati sul volto del timoniere, a causa del suo sangue misto.
   «Certo» rispose lui. «Ho anche la medaglietta d’iniziazione, se volete vederla. E su questa nave ci sono altri Primati». La medaglietta aveva il valore di un documento d’identità. Tutti i Primati ne ricevevano una, al compimento della maggiore età. Falsificarla era considerato un atto estremamente vile.
   «Sarei lieto di accogliere lei e gli altri Primati sulla mia nave» disse Tierna. «Così potremo discutere e trovare il modo d’aiutarci a vicenda. Vi teletrasporterei subito, ma abbiamo... ehm... un problema col teletrasporto» ammise.
   «Anche il nostro è fuori uso» disse Hod. «Verrò in navetta, portando alcuni dei miei ufficiali Xindi, come prova della nostra sincerità». Dette un’occhiata a Radek, notando il suo sguardo di disapprovazione. Il Comandante era molto protettivo e cercava sempre di andare in missione al suo posto.
   «Molto bene, siamo pronti a ricevervi. Venite al più presto. Tierna, chiudo». La nave dei Primati tornò sullo schermo, ancora intenta a razziare i rottami.
   «È stata incauta. Quelli sono dei disperati pronti a tutto» disse Radek. «Ma ormai la conosco abbastanza da sapere che non tornerà sui suoi passi. Quindi le chiedo solo di prendersi una buona scorta».
   «Mi conosce davvero» sorrise Hod. «Le affido il comando fino al mio ritorno. Norrin, raduni tutti gli Xindi Primati della Sicurezza. Vrel, venga con noi».
   «Sono pronto» annuì il timoniere, venendole accanto.
   «Vorrei portare anche sua sorella, se sarà d’accordo» disse inaspettatamente il Capitano.
   Vrel impallidì. «Che c’entra Lyra in tutto questo?!» protestò.
   «Ci sono pochissimi Primati a bordo. Una in più farà buona impressione» rispose Hod. «Ma soprattutto... sua sorella è una buona telepate. Migliore di lei, se posso dirlo. E io devo sapere cosa passa per la testa di quella gente» disse, accennando alla navicella dei razziatori.
   «Mia sorella è sempre stata brava a spiare le faccende altrui. E a cacciarsi nei guai» disse Vrel, contrariato. «Sono certo che le dirà di sì. Ma io la prego di non coinvolgerla, Capitano. È una civile e, anche se si dà tante arie, non è mai stata in situazioni pericolose. Non è addestrata».
   «Anche a me spiace coinvolgerla, ma la situazione è grave» si giustificò il Capitano. «Chiunque sia a bordo deve contribuire secondo le sue capacità».
   Vrel si morse la lingua. Avrebbe voluto insistere, ma vedeva con i suoi occhi quanto fossero disperate le circostanze. «L’ultima volta che abbiamo portato un civile in missione, lo abbiamo perso» disse, riferendosi a Juri. «Spero che non accada di nuovo. Parlerò io a Lyra».
 
   «Certo che vengo!» disse subito Lyra.
   «Bada che non è una missione qualunque» avvertì Vrel. «Non abbiamo mai affrontato una situazione del genere».
   «Proprio per questo non posso starmene qui, a non far niente!» disse Lyra con foga. I due discutevano in un angolo dell’hangar, mentre intorno a loro c’era un gran viavai d’ingegneri, intenti alle riparazioni. Alcuni ufficiali della Sicurezza stavano già salendo sulla navetta di classe Gryphon che li avrebbe portati dagli Xindi.
   «Okay, ora stammi a sentire. Il Capitano ti vuole per le tue facoltà telepatiche, quindi concentrati sulle percezioni» raccomandò Vrel. «Se avverti pericolo mentre siamo dagli Xindi, faccelo capire con discrezione. Lascia parlare il Capitano... e per l’amor dello Spazio, non metterti a interrogare quella gente».
   «Mi prendi per sprovveduta?» chiese Lyra.
   L’espressione di Vrel diceva di sì, ma il timoniere non rispose. Invece le porse un piccolo phaser manuale. «È un modello 1, il più piccolo che abbiamo» disse. «Anche noi li porteremo, perché danno poco nell’occhio. Ricordi come si usa?».
   «Non sono così arrugginita» disse Lyra, impugnando il phaser. Tolse la sicura, si accertò che l’arma fosse tarata su massimo stordimento e puntò il bersaglio: una macchiolina scura sulla parete, a dieci metri di distanza. Socchiuse gli occhi e fece fuoco, centrandola al primo colpo. Molte teste si voltarono, ma Vrel fece segno che andava tutto bene e il viavai riprese. Lyra lo guardò, aspettandosi un riconoscimento.
   «Vedo che ricordi le lezioni di papà» disse Vrel. «Ma non cominciare una sparatoria, se non sei assolutamente certa che vogliono colpirci».
   «Lo so!» esclamò Lyra. «Smetti di trattarmi come se fossi una bambina!».
   «Siete pronti?» chiese il Capitano, arrivando di buon passo. Vrel notò con preoccupazione che aveva ancora l’esoscheletro di sostegno. Qualunque segno di debolezza era un rischio, quando si aveva a che fare con dei saccheggiatori.
   «Ci sono, Capitano» disse Lyra, seguendola a passo svelto. Vrel le venne dietro con molto meno entusiasmo. Quando furono tutti a bordo, diresse la navetta oltre il campo di forza dell’hangar, nell’oceano d’idrocarburi.
   «Temperatura -160º, pressione 8.000 bar» lesse, consultando gli strumenti. «Siamo in un mare di metano, con tracce d’ammoniaca. Dib si sentirà a casa».
   Dietro di lui, Lyra entrò in cabina. Sedette a terra, con le gambe incrociate, e s’immerse in una meditazione profondissima, per espandere al massimo le sue percezioni telepatiche. Vrel la percepì ma non disse niente, per non distrarla. Diresse la navetta verso l’alto, fuori dall’oceano di metano e attraverso strati sempre più rarefatti d’idrogeno ed elio gassosi. Alcuni fulmini li colpirono, indebolendo gli scudi ma senza perforarli. Finalmente furono nello spazio. Si accostarono alla nave Xindi, che aveva smesso di fare incetta di rottami e li aspettava con l’hangar aperto.
   D’un tratto Lyra inspirò a fondo e spalancò gli occhi, che erano vacui e distanti. «Avverto un senso di pericolo» disse. «Facevate bene a dubitare. Credo che gli Xindi vogliano prenderci in ostaggio, per ricattare la Keter».
   «Me lo può confermare?» chiese il Capitano, rivolta a Vrel.
   «Non percepisco nulla» rispose il timoniere. «Ma mia sorella ha un livello ESP più alto del mio. Se avverte un pericolo, dovremmo darle retta».
   Inquieta, il Capitano eseguì una scansione con i sensori. «Hanno un cannone al plasma» notò. «E questo cosa...». Fece analisi più approfondite. «Trasportano tossine, bandite dagli Accordi di Khitomer. Ho visto abbastanza. Vrel, faccia inversione di rotta».
   «Volentieri» disse lo Xindi. Aveva appena iniziato la manovra, quando un raggio traente agganciò la navicella. «Dren, ci hanno presi!» imprecò.
   «Manovre evasive. Rimodulo gli scudi per liberarci» disse il Capitano. La navetta si scosse e per un attimo si liberò, ma gli Xindi adattarono prontamente il raggio traente.
   «Ci chiamano» disse Lyra, che aveva preso la postazione delle comunicazioni.
   «Apra un canale» ordinò il Capitano.
   Il volto di Tierna apparve sullo schermo. «Beh, che vi prende?» domandò, fissandoli corrucciato con l’unico occhio sano. «Eravamo pronti a ricevervi».
   «Abbiamo cambiato idea» disse Hod. «Non vogliamo interferire nel vostro piano di volo».
   «Sciocchezze! Voi verrete a bordo come pattuito!» si scaldò il Primate.
   «Abbiamo ragione di credere che ci vogliate in ostaggio. Lasciateci andare... sarà meglio per voi» affermò il Capitano, senza più fingere cordialità.
   «Ve ne andrete solo quando io lo deciderò!» berciò Tierna, e chiuse la comunicazione. La navetta si scosse bruscamente, strattonata tra l’impulso dei motori e quello contrario del raggio traente.
   «Non riesco a liberarci» disse Hod. «Pensa di farcela con una manovra?».
   «Dipende da quanto sono coraggiosi» rispose Vrel, scuro in volto.
   «Proceda» l’autorizzò il Capitano.
   «Ehi, non vorrete mica...» fece Lyra, ma non ebbe bisogno di terminare. Vrel aveva invertito nuovamente la rotta e ora dirigeva a tutta birra contro la nave Xindi. Invece di opporsi al raggio traente, lo sfruttava per accelerare ancora di più.
   «Vediamo quanto ci tenete a noi» mormorò il timoniere. Mancavano pochi secondi all’impatto. La navicella federale si sarebbe disintegrata, ma anche il vascello Xindi avrebbe riportato gravi danni.
   All’ultimo istante i Primati disattivarono il raggio. Vrel cabrò immediatamente, passando a pochi metri dalla loro nave. La oltrepassarono, ma così gli Xindi si frapponevano fra loro e la Keter, ancora inabissata.
   «Caricano il cannone al plasma» avvertì Lyra, consultando i sensori.
   «Mi sa che li ho fatti arrabbiare» disse Vrel. «Cerco di tenerli a distanza». Il primo colpo al plasma mancò la Gryphon di poco. Il secondo la sfiorò, indebolendo gli scudi. «Sono cocciuti» commentò Vrel. «Provo a seminarli fra gli anelli».
   «No, diriga verso Pyris VII» ordinò il Capitano. «Giri intorno al pianeta e poi torni verso la Keter».
   Vrel stava per chiedere perché andare tanto lontano, quando poteva eseguire la stessa mossa lì negli anelli, con un asteroide abbastanza grande. Ma pensò che forse, dopo la prova non eccelsa data coi Na’kuhl, Hod non si fidava tanto delle sue abilità di pilota. «Sì, Capitano» disse a denti stretti.
   La Gryphon si diresse verso il pianeta, sempre inseguita dalla nave Xindi, che la bersagliava con il cannone al plasma. Poco alla volta Pyris VII s’ingrandì sullo schermo. Era un mondo roccioso, poco più grande della Terra. Le rocce basaltiche gli conferivano un colorito nerastro, venato di verde scuro là dove cresceva una stentata vegetazione. Gli oceani erano grigi e tristi. Un’aura spettrale ammantava quel mondo di classe L, che nessuno aveva mai voluto colonizzare.
   D’un tratto la Gryphon ebbe uno scossone violentissimo. Gli occupanti dovettero aggrapparsi a seggiole e consolle per non essere scaraventati a terra.
   «Ci hanno presi» disse Hod. «Abbiamo perso la gondola di dritta».
   Incredula, Lyra visualizzò sulla sua consolle l’inquadratura di poppa. Era proprio così: la gondola tranciata di netto si allontanava nello spazio, mentre gli inseguitori accorciavano le distanze, sparando come forsennati. Dal pilone troncato usciva una scia di plasma, come sangue da una ferita. La mezza Xindi fissò il fratello, concentrato sul timone, e per la prima volta dubitò seriamente di uscirne viva.
   «Ho interrotto l’afflusso di plasma alla gondola distaccata» disse il Capitano. «Sto dirottando tutta l’energia residua agli scudi posteriori, ma non so se reggeranno un altro colpo. Quanto manca al pianeta?».
   «Ci siamo quasi» disse Vrel. «Farò un giro stretto, attraversando l’atmosfera. Non credo che quella nave sia tanto agile da starci dietro».
   La Gryphon calò sempre più di quota. Il paesaggio tormentato del pianeta scorreva sotto gli occhi dei federali: deserti, catene montuose, canyon disseccati. Qua è là c’era qualche bosco, scuro e ammantato di nebbie. La nave Xindi continuò testardamente l’inseguimento, ma poco alla volta rimase indietro. I Primati non osavano scendere nell’atmosfera con un angolo così stretto.
   «Non avete il fegato di seguirci, eh?!» fece Vrel, convinto di averli battuti. In quell’attimo un ultimo colpo al plasma centrò la navetta. Gli scudi furono perforati, come anche la fiancata. Il plasma incandescente inondò la sezione di poppa, carbonizzando le guardie che si trovavano lì. La porta della cabina si sigillò, per proteggere gli occupanti; ma l’intenso calore la fece arrossare.
   Lyra gridò e si buttò in avanti, avvertendo la vampa attraverso la porta. Vrel e Hod furono sbattuti contro la consolle principale, che sfrigolò. Alcuni pannelli si disattivarono. La navetta prese a ruotare vorticosamente su se stessa, mentre continuava a scendere. Non era più un sorvolo radente: stavano precipitando.
   «Vrel! Ci schianteremo!» strillò Lyra, terrorizzata. Si aggrappò al suo sedile per non essere sbatacchiata nella cabina, mentre la Gryphon continuava ad avvitarsi.
   «Cerco di riprendere l’assetto» disse Vrel, manovrando i pochi comandi che ancora rispondevano. Con i propulsori laterali riuscì a fermare il movimento a vite. Ma stavano ancora precipitando, con un angolo così stretto che la navetta si lasciava dietro una scia infuocata. Attraversarono uno strato di nuvole: la superficie rocciosa era sempre più vicina. «Possiamo scordarci di tornare nello spazio» disse il timoniere. «Tenterò un atterraggio di fortuna. Mettetevi le cinture!».
   Lui e Lyra attivarono i comandi sulle seggiole: sofisticate fasce imbottite li avvolsero all’istante, per proteggerli dall’impatto. Il Capitano però si stava sporgendo verso un pannello laterale, per disattivare il nucleo di curvatura. Non fece in tempo ad attivare le cinture.
 
   Quattrocento chilometri più in alto, la nave Xindi tornò in un’orbita stabile. I motori a impulso erano surriscaldati e lo scafo scricchiolava per l’eccessiva tensione a cui era stato sottoposto.
   «Integrità strutturale ai livelli di guardia» avvertì un ufficiale.
   «Un iniettore del plasma è saltato» disse un altro.
   «Maledizione!» ringhiò Tierna. «Come hanno capito le nostre intenzioni?!».
   «Forse hanno un telepate» suggerì il Primo Ufficiale. «Ma questo non li salverà dallo schianto».
   «Uhm...». Tierna osservò la navetta dallo schermo principale. La Gryphon precipitava come una stella cadente, lasciandosi dietro una scia di plasma. Scomparve tra le nebbie che ammantavano la superficie. «Peccato. Potevano valerci un buon riscatto. Almeno avrei saputo chi erano» mugugnò lo Xindi Primate.
   «Mandiamo giù una squadra?» chiese il Primo Ufficiale. «Possiamo recuperare i resti della navetta. La sua tecnologia sembra molto sofisticata».
   «No» disse Tierna con decisione. «Nessuno di noi scenderà su quel pianeta. Andiamocene. Torniamo al rifugio, prima che la Keter esca dal gigante gassoso. O che tornino i Borg».
   Un brivido corse fra la ciurma. L’inseguimento della navetta aveva quasi fatto scordare agli Xindi i rischi che correvano, ogni volta che uscivano dal loro asteroide-rifugio. Ma le parole del Capitano rammentarono a tutti che ogni minuto nello spazio aperto accresceva il pericolo. L’astronave volse la prua lontano da Pyris VII e svanì nel vortice Xindi, un sistema propulsivo simile alla cavitazione.
   «Signore, perché non è voluto scendere?» chiese il Primo Ufficiale a bassa voce. «Ci avremmo messo pochi minuti. Gli occupanti saranno morti, dopo un impatto del genere».
   «Non è di loro che mi preoccupo» disse Tierna. «Non ha mai sentito le storie che corrono su Pyris VII? Quel pianeta è infestato».
 
   La sala macchine era l’epicentro dei lavori con cui gli ingegneri si sforzavano di tenere insieme la Keter. Gravemente danneggiata nella battaglia, risuonava di allarmi, ordini concitati, rumore di saldatori e altri strumenti. Alcuni componenti del nucleo quantico si erano fusi, rendendo ancora più difficili le riparazioni. Un condotto del plasma era esploso e anche se la valvola era scattata, bloccando immediatamente l’afflusso, l’aria era ancora impregnata dell’odore. Un serbatoio di liquido refrigerante si era incrinato e stava venendo svuotato in fretta, nel caso cedesse. I tecnici cercavano di riattivare almeno le consolle, per avere un’idea di quanto fossero gravi i danni. Le maggiori preoccupazioni venivano dal campo di contenimento del nucleo. Se avesse ceduto, provocando l’annichilazione di tutta l’antimateria, la Keter sarebbe esplosa. In questi casi la procedura prevedeva l’immediata riconversione dell’antimateria in energia, in modo controllato, ma stavolta i danni erano così gravi che si temeva di non poter gestire il processo.
   In quella baraonda, l’unica figura del tutto calma era Dib, l’Ingegnere Capo. La sua specie aveva le capacità mentali di un sofisticato computer, unite a un’imperturbabilità superiore a quella dei Vulcaniani. Perché i Vulcaniani acquisivano l’autocontrollo con anni di duro addestramento, mentre i Penumbrani ce l’avevano innato. Così Dib impartiva gli ordini – da cui dipendevano le sorti della nave – con lo stesso tono calmo di tutti i giorni. Al tempo stesso eseguiva i compiti più complessi, con tale rapidità che i colleghi potevano a malapena seguirne i movimenti.
   In una nicchia della parete, bordata di consolle, Zafreen cercava di ripristinare i sensori a lungo raggio. Era un compito laborioso, anche perché l’energia continuava a fluttuare in modo esasperante.
   «Dove siete?» mormorò l’Orioniana, mordendosi il labbro. La Gryphon e la nave Xindi erano sparite dai sensori. Le letture si erano interrotte per uno sbalzo d’energia mentre la navetta era in avvicinamento e quando i sensori erano tornati in linea entrambi i vascelli erano svaniti. Dovevano essersi allontanati, ma perché? Forse gli Xindi avevano aperto il fuoco?
   «Zafreen, ci servono i sensori a lungo raggio per capire che succede là fuori» ordinò Radek dalla plancia.
   «Sì, ma l’energia continua a...».
   «Niente scuse, faccia come ho detto!» tagliò corto il Comandante. Era in pensiero per i dispersi, come lei; ma Zafreen non sapeva proprio che inventarsi per avere letture decenti.
   «Dib, mi serve più energia!» strillò l’Orioniana, per farsi udire in quel bailamme.
   «Il nostro consumo energetico è calibrato fino all’ultimo ampere» rispose Dib con la solita calma.
«Se scendessimo sotto il limite di sicurezza, il contenimento dell’antimateria cederebbe».
   «Beh, inventati qualcosa! Io devo sapere che succede là fuori!» protestò Zafreen.
   «Quando potrò destinarle più energia, la informerò» disse il Penumbrano. «Nel frattempo le consiglio di ricalibrare lo spettrometro, sostituire i giunti depolarizzati del sensore subspaziale e reinserire le equazioni di campo linearizzate nel rilevatore di onde gravitazionali».
   «Ehi, piano!» annaspò Zafreen, sopraffatta da quel gergo tecnico. «Parlo molte lingue, ma non quella degli ingegneri! Che dicevi delle – ehm – equazioni di campo?» chiese, prendendo appunti sul d-pad.
   «Deve considerare il tensore metrico dello spazio-tempo. Calcoli il tensore di Ricci per ottenere lo scalare di curvatura. Sostituisca il valore nelle equazioni di Cochrane, sfruttando l’invarianza di Gauge per determinare il fronte d’onda» snocciolò Dib, senza distrarsi dalle altre incombenze.
   «Ho capito solo Ricci, Cochrane e Gauge» ammise Zafreen.
   «Resti lì ferma, finché non le mando un tecnico» consigliò Dib, prima di allontanarsi.
   «Mannaggia! Non potevo restare in quel locale di striptease, invece di arruolarmi nella Flotta? Avevo uno stuolo di ammiratori, le altre ragazze erano simpatiche, e non dovevo combattere contro dittatori alieni e formule matematiche!» si disse l’Orioniana, imbronciata. Poi ricordò che, se la linea temporale era cambiata, anche lo strip club di Rio doveva essere svanito.
   In quella Hakon entrò in sala macchine. Si guardò attorno, un po’ frastornato dalla confusione. Poco alla volta capì che i danni erano ancora più gravi di quanto pensasse. D’un tratto vide Zafreen nella sua nicchia. Le venne incontro quasi correndo. «Eccoti!» esclamò.
   Zafreen alzò il viso dallo schermo, su cui scorrevano incomprensibili equazioni. «Hakon! Che ci fai qui?! Ti credevo partito con Jaylah» disse.
   «Avrei dovuto, infatti!» ammise l’Illyriano, serrando i pugni per la stizza. «Ma ero rimasto bloccato in un turboascensore e gli altri sono partiti senza aspettarmi. Spero che stiano bene... spero che gli ingegneri rimettano in sesto la Keter, così potremo andare ad aiutarli». Si girò un attimo, perché aveva sentito le urla di un tecnico. Altri accorsero ad aiutarlo, finché l’emergenza parve superata.
   «Speriamo» disse Zafreen, dubbiosa. «Ma perché sei venuto qui?».
   «Sono preoccupato per te» spiegò Hakon. «Il nucleo temporale perde come un colabrodo e tu stai qui in sala macchine! Perché non sei in plancia?».
   «La mia postazione è guasta. Non c’è tempo di sostituirla».
   «E la sala ausiliaria?».
   «È invasa dal metano».
   «Capisco... però sono ancora in ansia» disse Hakon. «Non puoi allontanarti, finché la situazione si sarà stabilizzata?».
   «Sei molto dolce a preoccuparti per me» sorrise Zafreen. «Ma proprio non posso. La navetta del Capitano è sparita, forse sono stati gli Xindi. Mi servono i sensori a lungo raggio per capire che succede. Ma è tutto scassato, accidenti!» esclamò, dando un colpo alla consolle.
   «Posso aiutarti?».
   «Come te la cavi con le equazioni di campo?» chiese subito Zafreen. Ma in quella l’Illyriano fu richiamato altrove. Bisognava rinforzare una paratia sul ponte 2, per evitare che il metano dilagasse in un corridoio.
   «Devo andare» disse Hakon. «Tu sta’ attenta, mi raccomando. Esci di qui appena puoi. Ti amo» disse, dandole un rapido bacio.
   «Ti amo anch’io» disse Zafreen.
   L’Illyriano si allontanò di corsa. L’Orioniana stava per rituffarsi nel lavoro, quando udì un’esplosione molto preoccupante alle sue spalle.
   «Perdita di cronotoni! Evacuate la sala!» gridò un tecnico. Tutti gli ingegneri interruppero le loro attività.
   Atterrita, Zafreen scattò in piedi e guardò il nucleo, che emetteva un’inquietante luce violetta. Non l’aveva mai visto comportarsi così. Si chiese se era il segno che stava per esplodere.
   «Posso contenere la perdita» disse Dib, correndo verso una consolle posta davanti al nucleo. Inserì una sequenza di spegnimento, mentre i colleghi fuggivano in preda al panico.
   «Che fai lì, testone?!» lo chiamò Zafreen. «Non vedi che se ne vanno tutti?».
   «Si allontani, Guardia...» cominciò Dib, ma in quella la luce crebbe d’intensità e si tinse di bianco. Un fascio luminoso uscì dal nucleo, attraversando sia Dib che Zafreen, per continuare alle loro spalle.
   L’Orioniana strillò, rattrappendosi. Aveva la sensazione che ogni atomo del suo corpo si stesse strappando. Si disse che quella luce doveva essere un fascio di radiazioni letali. Non avrebbe rivisto Hakon... né si sarebbe scusata con Vrel, per come aveva rovinato le cose fra loro. Fu il suo ultimo pensiero, prima di perdere i sensi.
 
   «Cessato pericolo, la perdita si è fermata» disse un ingegnere, facendo capolino in sala macchine. Era un Rhaandarite, dall’ampia fronte bulbosa che accoglieva un cervello super-sviluppato. «Dib ha spento il collettore triciclico. Ehi, ma... dov’è?!» si stupì, osservando il salone da un capo all’altro. Era deserto. Non c’era traccia dell’Ingegnere Capo e nemmeno di Zafreen.
   «Plancia a sala macchine, abbiamo rilevato un picco di radiazioni cronotoniche» giunse la voce di Radek. «La situazione è sotto controllo?».
   «Sembra di sì» mormorò il Rhaandarite.
   «Senza offesa, ma vorrei sentirlo dire da Dib» precisò il Comandante.
   «È questo il problema» disse l’ingegnere, ridacchiando nervosamente. «Il capo è disperso. Come anche Zafreen. Sono stati presi in quel raggio e sono spariti».
   «Come, spariti?!» si stupì Radek.
   «Non ci sono più» confermò il Rhaandarite. «Non dovrebbero essere morti. Ma non sappiamo dove siano. Ci dia qualche minuto per capirlo, okay? La richiamo io».
 
   Juri Smirnov percorreva i corridoi ormai familiari del Reaper. Ogni volta che incrociava un Na’kuhl lo salutava con un lieve cenno del capo e lui rispondeva allo stesso modo. Nessuno sorrideva, né apriva bocca; non erano lì per fare amicizia.
   Lo storico giunse in infermeria. Salutò i medici col solito cenno e si recò alle salette di lunga degenza, fino a un ingresso vigilato da due guardie. Quando tentò di varcarlo, una delle due gli puntò un disgregatore al petto. «Autorizzazione?» chiese.
   «Eccola» disse Juri, mostrando il palmo della mano. Alcuni caratteri Na’kuhl brillarono rossi sulla pelle. Juri non conosceva i dettagli, ma sapeva che era un qualche genere di nanotecnologia. Gli permetteva di usare i computer della nave e ora anche di entrare in quell’area riservata.
   «È firmata da Vosk in persona» mormorò il sorvegliante con reverenza. Lui e il collega si scostarono immediatamente, permettendo al visitatore di entrare nella saletta.
   La capsula di Svetlana era lì, agganciata a una presa d’energia. Tutt’intorno alcuni oloschermi indicavano i segni vitali della bambina. Le sue condizioni erano stabili. Era ancora in stasi e lo sarebbe rimasta fino al termine della missione, come garanzia della lealtà di Juri.
   «Allora, Svetta, come stai oggi?» chiese l’Umano, posando una mano sul freddo coperchio della capsula. «Io non tanto bene. Sto aiutando i Na’kuhl a cambiare la Storia. Se andrà come pensiamo, l’Unione non esisterà mai. Sono il Giuda della nostra civiltà» mormorò, chinando il capo.
   «No, mi correggo... non sono Giuda» disse, rialzandolo di scatto. «È stata l’Unione a tradirci per prima. Ogni giorno che passa diventa più dittatoriale. Sarà meglio per tutti se non esisterà mai». L’Umano fissò il volto angelico della sorellina, così vicina, eppure ancora irraggiungibile. Era un tormento non poterla svegliare subito, per dirle che era guarita.
   «Quando tutto sarà finito, non so ancora come farò con te. Tu non sei cresciuta di un giorno, mentre io...» sospirò, sentendo molto più dei suoi quarantacinque anni. «Di certo non mi riconoscerai. E non posso neanche dirti la verità... sei troppo piccola per capire. Col tempo, forse. Potrei andare in un pianeta di frontiera e fingermi tuo padre. Ma tu vorrai la famiglia che conoscevi. E non potendo ridartela, forse sarò costretto a darti in adozione. Così, dopo tutti questi sforzi, ti perderò ancora. Ma almeno vivrai. Sì, questo è l’importante» disse, con le lacrime agli occhi.
   Asciugatosi il volto, Juri prese una sedia e l’accostò alla capsula. Sedette in modo da poter guardare il viso di Svetlana e trasse di tasca il d-pad che aveva recuperato dal passato. C’erano ancora le fiabe che aveva caricato da bambino, prima di andare all’ospedale.
   «Beh, finché sei qui voglio levarmi questa soddisfazione. Anche se non puoi sentirmi» disse l’Umano, scorrendo l’elenco delle storie. «Ah, eccola qui: Caschetto Rosso. Era questa che ti stavo leggendo. Ricordo il punto preciso in cui m’interruppero». Juri fremette e il suo viso si riempì di disgusto, nel ricordare quel tragico momento.
   «Ma stavolta non c’interromperà nessuno!» disse soddisfatto. Sedette più comodamente sulla sedia e fece un respiro profondo. «Dunque, stavo dicendo: trovata la nonna, il Mutaforma cattivo riuscì a sopraffarla e la imprigionò nel buffer degli schemi del teletrasporto. Poi assunse le sue sembianze e si mise a letto, aspettando l’arrivo di Caschetto Rosso.
   Di lì a poco, la vera Caschetto Rosso giunse alla stazione della nonna e attraccò all’hangar. Poiché la vecchietta non rispondeva alle sue chiamate, la bambina era un po’ preoccupata. Così, senza nemmeno togliersi la tuta spaziale rossa, corse all’alloggio della nonna. Qui la trovò a letto, che si fingeva malata: non immaginava che quello fosse il Mutaforma! Ma quando la scansionò col tricorder medico, notò dei valori molto strani.
   “Nonnina, che livelli di neurotrasmettitori alti che hai!” disse.
   “È perché sono tanto felice di vederti, bambina mia!” rispose il Mutaforma, contraffacendo anche la voce della nonna.
   “Ma nonnina, che livelli di tiamina e acido ascorbico alti che hai!”.
   “Sono le vitamine che prendo, tesoro mio!”.
   “Ma nonnina, che metabolismo rapido hai!” disse Caschetto Rosso, sempre più preoccupata.
   “È per digerirti meglio!” ruggì il Mutaforma, trasformandosi in un predatore vorace. Si avventò su di lei, deciso a mangiarla in un sol boccone.
   Ma Caschetto Rosso era stata addestrata dai Cacciatori Hirogeni e sapeva cosa fare in questi casi. Arretrando rapidamente, estrasse un fucile phaser di tipo 3 che teneva ripiegato nello zaino della tuta spaziale. Raddrizzata la canna, la bambina sparò al Mutaforma, vaporizzandolo prima che la toccasse. Poi accedette al computer ed eseguì una scansione di livello 5, accertandosi che non ci fossero altri mutaforma nascosti. Quando fu certa che la stazione era bonificata, alzò gli scudi e attivò le difese automatiche. Infine poté cercare la nonna.
   Dopo aver setacciato la stazione, quando ormai cominciava a temere il peggio, Caschetto Rosso scoprì gli schemi di una persona sospesi nel teletrasporto. Con mani tremanti per l’emozione, inserì la sequenza di materializzazione. Ed ecco, la nonna apparve sulla pedana, sana e salva!
   “Stai bene, tesoro mio?” chiese, correndo da Caschetto Rosso.
   “Sì, nonna” assicurò la bambina. “D’ora in poi non dovremo temere il Mutaforma, perché l’ho vaporizzato col mio phaser”.
   “Oh, bambina mia!” singhiozzò la nonna, stringendola forte. “Hai avuto paura?”.
   “Un pochino” rispose Caschetto Rosso. “Temevo che il Mutaforma ti avesse già mangiata. Ma per fortuna non era così. Perché non vieni a casa da noi, finché ti sarai rimessa in salute?” suggerì. “Il nostro Medico Olografico è molto bravo”.
   “Verrò volentieri” sorrise la nonna. “Ma se piloti tu la navetta, ricorda di mantenere sempre la giusta rotta! Così non faremo altri cattivi incontri”.
   “Sì, nonnina” promise Caschetto Rosso, prendendola per mano. Tornate sulla navetta, le due attraversarono la nebulosa, stando attente a non deviare dal percorso. Giunsero così al piccolo pianeta e alla casa di Caschetto Rosso, dove la mamma le accolse con gioia. La nonna fu ospitata con molte attenzioni, finché guarì. E così vissero tutti felici e contenti».
   Conclusa la fiaba, Juri sospirò appagato e spense il d-pad. «Vedi la morale, sorellina? Quando vai in una nebulosa infestata dai mutaforma, porta sempre il phaser con te. E soprattutto, non deviare mai dalla giusta rotta». L’Umano rimuginò sulle parole che aveva appena pronunciato. «Non deviare mai dalla giusta rotta...» ripeté, più a se stesso che a Svetlana.
 
   L’Excalibur orbitava attorno alla Luna. Dallo schermo di prua, la Terra appariva come una falce grigiastra. Intensi bombardamenti avevano riempito l’atmosfera di polveri, oltre a far evaporare parte degli oceani. In tal modo l’aria si era saturata di vapore acqueo, anidride carbonica e gas tossici, oltre che di particelle radioattive. Sotto quella cappa plumbea si stendevano città diroccate, all’apparenza da secoli. In tutto il pianeta non si registrava un solo segno di vita umano. Anche animali e piante erano estinti; solo i batteri estremofili prosperavano nella densa atmosfera.
   A confronto con quello spettacolo desolante, la Luna sembrava quasi in buono stato. O per meglio dire, non era molto diversa dal passato. Era sempre un piccolo mondo grigio, crivellato di crateri, senza atmosfera né masse d’acqua. Qua e là c’erano delle colonie. Alcune erano primitive cupole gonfiabili. Altre invece erano vere città, quasi del tutto sotterranee. Anch’esse mostravano segni di bombardamenti, che le avevano depressurizzate. I sensori non registravano segni vitali.
   Dalla cabina dell’Excalibur, Jaylah contemplò quello spettacolo desolante. Stentava ancora a credere quanto fosse disperata la situazione. «Sono un Agente Temporale... questa è la mia battaglia» si disse. Forse era per questo che si era addestrata così duramente, che aveva superato tante avversità. Aveva sempre avuto la sensazione di doversi preparare per qualcosa di grave che sarebbe accaduto a un certo punto della sua vita. Ora quel momento era arrivato. Ma ripristinare la linea temporale era un compito immane. Il destino di popoli e pianeti, forse dell’intera Galassia poteva dipendere da lei. No, era troppo. Preferì concentrarsi sulle persone che le stavano davvero a cuore. I suoi genitori, i colleghi della Keter... e naturalmente Jack. Doveva farlo per loro.
   «Potete darmi un momento? Vorrei registrare il diario di bordo» disse la mezza Andoriana. «Così, se qualcosa andasse storto... beh, non so chi potrebbe leggerlo» ammise sconfortata.
   «Certo, Tenente» disse Adam. Lui e gli altri lasciarono la cabina, dandole un po’ di privacy.
   Jaylah sedette stancamente sulla poltroncina del pilota e attivò la registrazione. «Diario del Tenente Chase, data stellare... 2500.01» disse, leggendo i dati di navigazione. «Abbiamo raggiunto il sistema solare, solo per scoprire che la Terra è devastata e senza vita. Idem per la Luna, Marte e le altre colonie. Le città sembrano in rovina già da secoli. L’atmosfera terrestre è radioattiva, quindi è rischioso scendere; comunque non c’è rimasto molto. Sulla Luna invece i resti sono ben conservati. Quando le colonie sono state bombardate e l’aria è sfuggita, l’interno è rimasto congelato. Io e la mia squadra abbiamo esplorato diverse città. Sono spettrali... anche perché qua e là ci sono i corpi delle vittime, conservati dallo spazio.
   Ma la ricerca è andata a buon fine. Nell’ultima ispezione abbiamo trovato il processore centrale di una colonia, ancora in buono stato. Lo abbiamo portato a bordo e Adam è riuscito ad accedere al database storico. Abbiamo appurato che la divergenza si è verificata nel 2053, l’anno della Terza Guerra Mondiale. Nella nuova linea temporale il conflitto non c’è stato. Sulle prime fu un bene, ovviamente. L’umanità si risparmiò enormi sofferenze e iniziò a colonizzare lo spazio ancora più in fretta. Il problema è che, stando bene, non dovette mai allearsi con altre specie. Quindi niente Federazione. E quando iniziarono i conflitti con Klingon e Romulani, era troppo tardi. La distruzione delle colonie lunari risale al 2190; immagino che la Terra sia stata bombardata subito dopo. Non so se alcuni Umani siano sopravvissuti... molti saranno fuggiti. Se c’erano sacche di superstiti, si sono estinte negli ultimi tre secoli. Fatto sta che adesso il sistema solare è del tutto abbandonato».
   La mezza Andoriana s’interruppe, per raccogliere le idee. Non sapeva se Andoria fosse nello stesso stato. Sperava ardentemente di no. Ma anche la sua seconda patria era a rischio, in questa linea temporale da incubo. Tutti lo erano.
   «Così il nostro compito è... semplice» riprese Jaylah, sarcastica. «Dobbiamo andare nel 2053 e impedire ai Na’kuhl di alterare la Storia. Loro hanno ancora il Reaper, noi solo l’Excalibur. E se qualche abitante del 2053 ci chiedesse che stiamo facendo, gli diremo: “Tranquillo! Dobbiamo solo far scoppiare la Terza Guerra Mondiale. È per il bene dei vostri discendenti!”».
   Dopo questo sfogo, la mezza Andoriana si prese il volto tra le mani, cercando di calmarsi. Si sentiva in trappola, perché ogni futuro conteneva tragedie. Si chiese che ne avrebbe pensato Juri: lo storico l’aveva spesso consigliata nei momenti difficili.
   «Se qualche ufficiale della Keter o qualche Agente Temporale troverà mai questo diario, vorrà dire che noi abbiamo fallito. In tal caso, lo supplico di portare a termine la missione. Ne va delle sorti di tutta la Galassia. Tenente Chase, chiudo».
   Terminata la registrazione, Jaylah si massaggiò le tempie. Aveva volutamente tralasciato di dire che forse tra loro si annidava un traditore. Non voleva parlarne nemmeno con i suoi Agenti, per non creare un clima di sospetto fra loro. Ma quelli che avevano partecipato all’ultima riunione tattica ne erano informati e gli altri probabilmente avevano dei timori. Forse si aspettavano che lei chiarisse la situazione. La mezza Andoriana fu sul punto di farlo, ma alla fine si trattenne. Voleva che i suoi Agenti si concentrassero sulla missione. A sorvegliarli ci avrebbe pensato lei.
   Presa questa decisione, Jaylah riaccolse i colleghi in cabina. «Pronti al balzo temporale» disse. «Ricordate che ci aspetta il XXI secolo terrestre. Era un’epoca di grandi innovazioni tecnologiche, ma culturalmente barbara. Ci troveremo in una società sull’orlo del collasso, in preda alla paranoia.
Quindi state in guardia! Dobbiamo assolutamente evitare che i nativi ci scoprano. Non devono nemmeno vederci coi telescopi» disse, attivando l’occultamento.
   «E quando troveremo i Na’kuhl, che faremo? Loro hanno ancora l’astronave!» notò Selmak.
   «Un problema alla volta» disse Jaylah, inserendo le coordinate temporali nel sistema di guida. «Il nucleo è carico. Raggiungeremo la Vecchia Terra fra tre... due... uno...». Chiuse gli occhi, mentre la cabina sbiancava intorno a lei. La grande battaglia della sua vita era appena cominciata. 
 

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Capitolo 7
*** Il mondo infestato ***


-Capitolo 6: Il mondo infestato

 

   Fu il dolore a svegliarla. Per un attimo il Capitano Hod non capì perché soffrisse tanto. Poi vennero i ricordi: la battaglia con il Reaper, l’alterazione temporale, l’inseguimento e il naufragio su Pyris VII. Le più sonore sconfitte della sua vita. Prima ancora di aprire gli occhi, cercò di capire dov’era ferita. Alla spalla destra, certamente. E alle costole. Ogni respiro le costava fatica, come se qualcuno si fosse divertito a impilarle dei mattoni sul petto. Sotto di sé, l’Elaysiana avvertì una dura superficie metallica. Non era certo un letto d’infermeria. Dunque la Keter non li aveva ancora soccorsi.

   Fatto un respiro profondo, che le costò doppia fatica, il Capitano aprì gli occhi. Scoprì di essere ancora nella navetta, o in ciò che ne restava. Era nella sezione di poppa, dalle pareti annerite per via del plasma che aveva perforato lo scafo. La falla, precariamente tappata, aveva pressappoco le dimensioni di una finestra. Da lì si era incanalato il plasma rovente, uccidendo quelli della Sicurezza. Altre vittime sulla sua coscienza. Ma non poteva essere l’unica superstite. Al momento dello schianto c’erano Vrel e Lyra in cabina con lei. L’Elaysiana cercò di rialzarsi, ma provò una fitta così lancinante da strapparle un lamento, quasi un singhiozzo.

   «Capitano?». C’era qualcuno, accucciato in un angolo, che trafficava con dei componenti scassati. Lasciato perdere il lavoro, la sagoma si mise in piedi, si avvicinò e si chinò su di lei. Nella luce incerta, Hod riconobbe la loro passeggera, Lyra Shil. Il suo volto era annerito dal fumo. «Come sta? Mi riconosce?» chiese la cronista, analizzandola con un tricorder medico.

   «Certo» mormorò il Capitano. «Ci sono altri...?».

   «Superstiti? Solo Vrel» disse Lyra con amarezza. «Tutti gli altri erano qui dietro, quando si è aperta la falla. Anche se fossero sopravvissuti al plasma, sono stati risucchiati nello spazio. Mi dispiace».

   «Quanto tempo...?».

   «Ha dormito per cinque ore» rispose Lyra. «No, non provi a rialzarsi. É conciata male. Non aveva la cintura, quando ci siamo schiantati. È fortunata a essere viva».

   «Dov’è Vrel?» chiese Hod, guardandosi attorno.

   «Fuori, ora lo chiamo. Ehi, Vrel... Vrel! Il Capitano s’è svegliata!» strillò la mezza Xindi.

   Pochi attimi dopo il timoniere entrò di corsa nella navetta. Anche lui era malmesso, ma quando vide che il Capitano era cosciente s’illuminò di gioia. «Capitano! Come si sente?» chiese, accucciandosi accanto a lei.

   «Meglio, ora che la vedo» disse l’Elaysiana. Gli tese la mano, che Vrel strinse con delicatezza. Quel contatto con uno dei suoi ufficiali più leali la rinvigorì. «Rapporto, Tenente Shil» ordinò con voce più salda.

   «Siamo atterrati su Pyris VII, se si può chiamarlo atterraggio» disse il timoniere. «Siamo qui da cinque ore e non c’è traccia degli Xindi, quindi è probabile che abbiano rinunciato a inseguirci. Non c’è segno nemmeno della Keter, ma non me ne stupisco, viste le condizioni in cui l’abbiamo lasciata. Ora si tratta di sopravvivere finché i nostri verranno a prenderci».

   «Com’è l’ambiente?» chiese Hod.

   «Ostile, anche se ho visto di peggio» disse il timoniere, scostandosi per consentire al Capitano di guardare fuori dal portello. Erano atterrati in una foresta di alberi scuri e contorti. I tronchi e i rami erano induriti dagli agenti atmosferici. Non vi crescevano foglie, ma solo spine e aghi taglienti. Tutto era duro e immobile, avvolto in una nebbiolina spettrale. Non c’erano nemmeno animali in vista, né se ne udivano i richiami. Era sera; una brezza gelida entrò nella navetta, tanto che Vrel richiuse in fretta il portello.

   «Nella nostra linea temporale Pyris VII è disabitato» disse il mezzo Xindi. «In questa le cose potrebbero essere diverse, ma venendo qui non abbiamo rilevato segni di tecnologia o di vita senziente. Anche se non so quanto possiamo fidarci dei sensori, con tutte le anomalie che avvolgono il sistema» notò. «In ogni caso dobbiamo attrezzarci per sopravvivere. Qui sulla navetta abbiamo razioni d’emergenza per due settimane, ma acqua per una sola. In realtà possiamo farla durare di più, perché io e Lyra siamo in parte Vulcaniani e quindi beviamo poco. Diciamo che, razionando l’acqua al massimo, possiamo farla durare due settimane. Per allora i nostri colleghi avranno riparato la Keter. Mal che vada ci manderanno una navetta» disse speranzoso.

   «Non ci sono sorgenti o corsi d’acqua nei dintorni?» chiese il Capitano. «Quegli alberi ne avranno pur bisogno».

   «I sensori non rilevano acqua in un raggio di 50 chilometri, ma resta il fatto che funzionano poco» disse Vrel. «Gli alberi probabilmente se la cavano con le piogge».

   «Uhm... forse dovremo allontanarci, per trovare condizioni più propizie. Qual è lo stato della navetta?» volle sapere il Capitano.

   «Beh, come può vedere... pessimo» rispose Vrel, guardandosi attorno sconsolato. «Abbiamo perso una gondola, quindi niente curvatura. Abbiamo una falla nello scafo, quindi non si va nemmeno in orbita. Gran parte di ciò che si trova in questa sezione è stato fuso dal plasma. Stavo controllando lo scafo, quando lei ha ripreso i sensi. I motori a impulso non sono del tutto scassati, quindi forse potremmo volare nell’atmosfera. Ma non so se riuscirò a ripararli... servirebbe un ingegnere» ammise.

   «Eccone uno» disse Hod, alzando la mano.

   «Capitano?! Ma...» fece Vrel, temendo che l’Elaysiana non fosse ancora lucida.

   «Mio padre era ingegnere di seconda classe sull’Enterprise-J» spiegò Hod. «Sono cresciuta a pane e motori. All’inizio volevo diventare un tecnico, proprio come lui. Una volta in Accademia i test attitudinali m’indirizzarono alla sezione Comando, ma non ho mai smesso d’interessarmi all’ingegneria. Se c’è da sistemare l’impulso, credo di potercela fare».

   Vrel la osservò incerto. L’idea di riparare i motori lo allettava, ma l’Elaysiana aveva una brutta cera. Non gli sembrava in grado di lavorare, o anche solo di alzarsi in piedi. «Non dubito delle sue abilità, Capitano... ma credo che ora dovrebbe riposarsi» disse con tatto. «Non è nelle condizioni di fare sforzi».

   «Perché, in che condizioni sono?» volle sapere Hod, che aveva ancora male in più punti.

   «Si è incrinata alcune costole» rispose Lyra. «La spalla destra è parzialmente lussata. Quando l’abbiamo soccorsa, subito dopo lo schianto, aveva delle emorragie interne. Quelle le abbiamo arrestate. Le abbiamo anche somministrato inaprovalina e antibiotici ad ampio spettro».

   «Vorrei un antidolorifico» mormorò l’Elaysiana, che soffriva a ogni respiro.

   «Le abbiamo dato anche quello» disse Lyra. «Ma l’effetto sta svanendo. Non le abbiamo ancora accomodato la spalla perché era priva di sensi e volevamo che lo restasse un po’, per riprendersi. Ma ora che è sveglia, credo sia arrivato il momento».

   «D’accordo, sono pronta» disse Hod, anche se non lo era del tutto. «Procedete».

   Vrel era un po’ titubante, ma vide che il Capitano era irremovibile. «Come vuole» borbottò, aiutandola a mettersi seduta.

   Le costole protestarono. «Aspettate... prima vorrei... un altro analgesico» ansimò Hod. Non voleva strillare di dolore davanti a loro.

   «L’abbiamo già imbottita di farmaci» le ricordò Lyra. «Sarebbe meglio evitare un’altra dose. Fortunatamente il cervello può proteggersi da solo, se debitamente istruito. Io ho l’abilitazione a eseguire Fusioni Mentali. Se me lo consente, vorrei fondermi con lei, per aiutarla a escludere la sensazione di dolore. L’aiuterò anche a produrre endorfine naturali, con effetto analgesico».

   Il Capitano esitò. La Fusione Mentale non le era mai piaciuta: la considerava una violazione della privacy. In un modo o nell’altro, era sempre riuscita a evitarla. «Lei può eseguire la Fusione, pur essendo Vulcaniana solo per un quarto?» chiese.

   «E Betazoide per un altro quarto» le ricordò Lyra. «Ho un livello ESP 9, più che sufficiente per eseguire la Fusione. È stata mia madre a insegnarmi... non è un’esperienza nuova» la rassicurò.

   «Non se ne abbia a male, ma preferirei se fosse Vrel a eseguirla» disse chiaro e tondo il Capitano.

   «Ah, certo... non vuole avere una giornalista nella sua testa» disse Lyra, rialzandosi con aria contrariata. «Le assicuro che in questo momento la mia priorità non è scrivere un articolo. Siamo tutti in pericolo di vita. Se posso fare qualcosa per accrescere le sue probabilità di sopravvivenza, la farò».

   Visto che il Capitano lo guardava ancora, Vrel capì di dover dire la sua. Si schiarì la voce, imbarazzato. «Il mio livello ESP è 7. Significa che ho difficoltà a eseguire la Fusione con individui non telepatici, come lei. Certo, ho fatto anch’io qualche lezione... ma non ho mai conseguito l’abilitazione ufficiale. Sono spiacente, ma non credo di poterla aiutare».

   «Come temevo» si disse Hod, fissando il pavimento. Sapeva che Vrel non era in buoni rapporti con la sorella. Non avrebbe perorato la sua causa, se avesse pensato di poterla sostituire. «Va bene, lasciamo perdere la Fusione» decise. «Accomodatemi la spalla, così comincerò le riparazioni».

   «Scherza?!» protestò Lyra, sentendosi ancora una volta messa da parte. «Il mio aiuto le serve. Non finga altrimenti!».

   «Signorina Shil, il fatto d’essere una civile non l’autorizza a insistere!» l’avvertì Hod in tono tagliente. «Tenente Shil, proceda».

   Esterrefatta, Lyra si allontanò di qualche passo. Vrel invece si accostò ancora di più all’Elaysiana. «So perché l’ha fatto» le sussurrò all’orecchio. C’erano molti segreti che il Capitano conosceva e molti altri che intuiva o sospettava. Cose che una cronista a caccia di scoop non doveva sapere. «Questo però le farà male. Mi dispiace» disse, afferrandole il braccio e la spalla slogata. Posizionò cautamente le dita per far rientrare l’osso nell’articolazione.

   «Lo faccia» mormorò Hod, chiudendo gli occhi.

   Vrel aveva la fronte imperlata di sudore, ma la sua presa restò salda. Inspirò a fondo ed eseguì il movimento con grande precisione. Con uno scatto, la testa dell’omero rientrò nell’articolazione scapolare. Per il Capitano fu un’esplosione di dolore: malgrado la sua determinazione, non riuscì a trattenere un grido acuto. Calde lacrime le bagnarono le guance. Poco alla volta però il dolore si attenuò, pur non svanendo del tutto.

   «Mi spiace tanto, Capitano» disse il timoniere, pallido quanto lei.

   «Va tutto bene, Vrel. Ha fatto quanto le ho chiesto» lo rassicurò Hod, ancora un po’ ansimante per il dolore.

   Lyra tornò a esaminarla col tricorder medico. «L’osso è tornato a posto» disse in tono distaccato. «Le consiglio di riposare. Dorma, se ci riesce». Aprì la cuccetta incassata nella parete. Il meccanismo era inceppato, ma facendo forza riuscì a sbloccarlo. All’interno il giaciglio non era bruciato, dato che lo sportello metallico lo aveva protetto dalla vampata di plasma. Hod cercò di alzarsi per raggiungerlo, ma riuscì appena a mettersi in ginocchio.

   «Si appoggi a me» la invitò Vrel. L’aiutò a sollevarsi e poi la sostenne mentre era in piedi.

   «Mi sento tanto pesante» confessò l’Elaysiana.

   «Questo pianeta ha una gravità di 1,2 g, purtroppo» rivelò il mezzo Xindi. «Siamo tutti più pesanti del normale».

   «Dov’è il mio esoscheletro?» chiese il Capitano, guardandosi attorno. Senza di quello, non pensava di poter camminare.

   «È da buttare» disse Lyra, accennando ai rottami nell’angolo. Ne prese un pezzo, mostrandolo al Capitano: la stringa metallica era deformata e l’articolazione si era spezzata. «È una fortuna che prima lo indossasse, perché ha assorbito quasi tutto l’urto. Senza di questo sarebbe morta. Ma non può chiedergli altro» concluse, gettando il frammento in mezzo agli altri rottami.

   Hod emise un sospiro, in parte di dolore e in parte di rassegnazione. Con l’aiuto di Vrel raggiunse la cuccetta e vi si adagiò. Malediceva la sua decisione di posticipare l’adattamento neuro-muscolare e la terapia ossea che Ladya le aveva proposto. Con quegli interventi avrebbe avuto la stessa forza e resistenza fisica degli altri. Non sarebbe pesata su di loro, in quel momento critico. «Se ne esco viva, non perderò altro tempo. Appena possibile farò le terapie» giurò a se stessa. Perdere Elaysia non le sembrava più tanto grave, considerando che aveva il resto della Galassia da guadagnare.

 

   La mattina dopo, al risveglio, Hod si sentì meglio. Le costole le dolevano ancora, ma non così tanto. Con un certo sforzo riuscì a tirarsi in piedi. Vrel e Lyra non erano a bordo, nemmeno in cabina; immaginò che fossero indaffarati fuori. Il Capitano fece colazione con una barretta proteica e bevve con parsimonia dalla borraccia. Poi aprì il portello e si avventurò all’esterno.

   Faceva sempre freddo e c’era ancora la nebbia lattiginosa. In quel biancore, gli alberi si ergevano come giganti torturati. L’Elaysiana girò intorno alla navetta. Come si aspettava, trovò Vrel e Lyra al lavoro sui motori a impulso. Avevano aperto un vano dello scafo e ci trafficavano, mentre attorno a loro erano disseminati i componenti già estratti.

   «Capitano! Come si sente oggi?» chiese Vrel, alzando il capo di scatto.

   «Meglio, grazie» disse Hod. «Allora, come stanno questi motori?».

   «Piuttosto male» disse il timoniere. Quando il Capitano le fu accanto, le indicò i danni che aveva riscontrato. «Il giunto di potenza sull’asse mediano si è rotto...» disse fra le altre cose.

   «Questo è facile da sistemare. Abbiamo il pezzo di ricambio» notò Lyra, che voleva rendersi utile. Infilò la mano nel vano, per estrarre il componente guasto.

   «Ferma!» esclamò Vrel, agguantandole il polso. «Non ho ancora tolto la corrente. Ci sono un milione di volt, là dentro».

   «Oh» fece la reporter, imbarazzata. Ritirò subito la mano.

   «Lyra, forse è meglio che lei si occupi di altro, mentre noi pensiamo ai motori» suggerì Hod.

   «Per esempio?».

   «Potrebbe inviare un segnale di soccorso alla Keter».

   «Già fatto, ma con tutte queste anomalie non credo che il segnale passi» spiegò Lyra. «E poi adesso dovrete togliere l’energia, per fare le riparazioni».

   «Allora controlli il territorio circostante. Cerchi sorgenti d’acqua» disse il Capitano.

   «Sta’ attenta a non perderti» raccomandò Vrel, un po’ apprensivo.

   «Lascerò una traccia ionica col tricorder» promise la sorella.

   «Fai anche attenzione agli animali. Se ben ricordo, su questo pianeta ci sono serpenti e ragni velenosi» l’avvertì Vrel.

   «So badare a me stessa, okay?!» sbottò Lyra, infastidita da quell’atteggiamento. Prese lo zainetto con il kit di sopravvivenza, si agganciò il phaser in cintura e partì all’esplorazione.

   «Scusi, Capitano» borbottò Vrel quando si fu allontanata. «Non so se sono io che sbaglio, o se è Lyra, o entrambi. Ma da quando ci siamo ritrovati non facciamo che scontrarci».

   «Ho un fratello... anche fra noi i rapporti non sono sempre sereni» disse Hod, ricordando come i suoi familiari non vedessero di buon occhio la sua carriera nella Flotta. Un po’ li capiva: temevano che fosse uccisa in servizio, com’era accaduto a suo padre. Ma dopo che aveva trascorso vent’anni nello spazio, avrebbero fatto meglio a mettersi il cuore in pace. «Comunque, se fossi stata sua madre, le avrei dato qualche scapaccione in più» aggiunse fra sé, osservando Lyra che si addentrava nella selva.

 

   La mezza Xindi camminò a lungo nel bosco, col tricorder puntato a terra, cercando acqua come un rabdomante. Doveva stare attenta, perché ovunque c’erano cespugli spinosi. Sebbene procedesse con cautela e indossasse abiti resistenti, presto ricevette i primi graffi. Proseguì senza medicarsi. A un certo punto, passando accanto a un tronco cavo, percepì un movimento al suo interno. Si portò la mano in cintura, pronta a estrarre il phaser. Ma l’essere nascosto all’interno uscì prima che potesse impugnarlo. Era un pipistrello blu, con grandi ali grinzose e quattro zampine posteriori. Le volò attorno, stridendo lugubremente, e dopo aver completato due giri sfrecciò via.

   Colta alla sprovvista, Lyra gridò e si rattrappì. Quando l’animaletto si allontanò, tuttavia, si vergognò della propria reazione. Quello era un pipistrello pyritiano, una creatura innocua che si nutriva d’insetti. Non certo un mostro da affrontare con il phaser. E tuttavia l’aveva colta alla sprovvista. La cronista si promise di stare con i sensi ancora più all’erta e riprese il cammino.

   I suoi passi la portarono al letto di un torrente prosciugato, ridotto a un’arida pietraia. Scese lungo le sponde, fino alla parte più bassa del greto, cercando un rigagnolo o almeno qualche pozza residua. Invano. Probabilmente era un torrente stagionale, che scorreva solo nel periodo delle piogge, prosciugandosi nel resto dell’anno. E loro erano capitati nella stagione secca.

   La mezza Xindi risalì sull’altro versante, ma si rese conto che ormai si era allontanata parecchio dalla navetta. Anche se la traccia ionica le garantiva di non perdersi, cominciò a chiedersi se fosse il caso di tornare. Quanto meno avrebbe dovuto girare attorno al campo base, prima di spingersi più lontano. Stava per fare dietro-front quando percepì qualcosa. Era come un respiro, lento e lugubre, che le fece accapponare la pelle. Stranamente non riusciva a capire se lo udiva con le orecchie o lo percepiva con la mente. Una componente telepatica doveva esserci, perché la testa aveva iniziato a ronzarle. Qualcosa l’attirava in una direzione precisa, anche se il suo istinto di conservazione le diceva di allontanarsi. Combattuta fra le due pulsioni, Lyra decise di dare un’occhiata. Se i suoi parenti non avevano grande stima di lei, ebbene, avrebbe dimostrato almeno a se stessa che sapeva essere coraggiosa. Tuttavia impugnò il phaser, pronta a colpire al minimo segno di pericolo. Più avanzava, più le pareva di avvertire dei bisbigli.

   Le sue percezioni la portarono a quella che sembrava la tana di un animale. Era una caverna circondata da cespugli spinosissimi, con due alberi morti ai lati. Ne usciva un’aria densa e greve, un fetore di cose morte e decomposte. La mezza Xindi estrasse la torcia e diresse il fascio luminoso all’interno, ma riuscì a distinguere solo una galleria che sprofondava nel sottosuolo. Dove non arrivavano gli occhi, però, altri sensi potevano esserle più utili. Amplificando le sue percezioni extrasensoriali, avvertì una sensazione di pericolo. Un vero e proprio terrore s’impadronì di lei. Non sapeva cosa lo provocasse... ma c’era. Senza perdere altro tempo, Lyra fuggì per la strada da cui era venuta. La traccia ionica che si era lasciata alle spalle la guidò verso il campo base. Alle sue spalle, la caverna bisbigliante conservava il proprio mistero.

 

   Con l’alzarsi del sole di Pyris, anche la temperatura era salita considerevolmente. In mancanza di grandi oceani, il pianeta aveva una forte escursione termica tra il giorno e la notte. Così Hod si era tolta la giacca rosso-nera dell’uniforme, restando con la canottiera grigia. L’Elaysiana si portò una mano alla fronte, asciugandosi il sudore. Bevve un piccolo sorso dalla borraccia, quel tanto che bastava a inumidirsi le labbra. E tornò al lavoro, distendendosi sotto la porzione scoperchiata dello scafo. Da lì poteva raggiungere i meccanismi del motore a impulso, posti sopra di lei. Si trattava di una tecnologia collaudata, che non cambiava da molto tempo.

   L’Elaysiana cercò di estrarre una valvola termoionica deformata. Avrebbe potuto chiederlo a Vrel, che in quel momento stava facendo altre riparazioni dentro la navetta. Ma non voleva chiamarlo ogni volta che c’era da fare un piccolo sforzo. Perciò strinse i denti e tese al massimo i muscoli delle braccia. Presto li sentì dolere per lo sforzo, ma tenne duro, perché sentiva che la valvola iniziava a cedere. Finalmente venne via di scatto. Il Capitano ricadde con la schiena a terra e la valvola stretta nel pugno. Aveva le braccia indolenzite, ma si sentiva orgogliosa di quella piccola vittoria. In quella uno schizzo d’olio lubrificante la centrò in faccia. Hod rise, sentendo l’odore acre, e si pulì alla meno peggio col dorso della mano. Quell’esperienza la faceva tornare indietro nel tempo di trent’anni.

 

   Era un giorno come tanti sull’Enterprise-J, intenta a esplorare la galassia di Andromeda. La giovane Elaysiana entrò nell’hangar in punta di piedi. Riconobbe suo padre, intento a riparare una navetta, danneggiata nell’ultima missione. Gli si avvicinò silenziosamente, finché gli fu quasi accanto, e stette a osservarlo. Pensava che non ci fosse ingegnere migliore di lui, anche se era solo un tecnico di seconda classe.

   «Bina!» esclamò lui, accorgendosi della sua presenza. «Non dovresti studiare, a quest’ora?».

   «Infatti sto studiando» rispose lei, accostandosi ancora di più. «Imparo osservandoti. Così da grande farò l’ingegnere, proprio come te».

   «L’ingegnere?!» rise l’Elaysiano. «Tutti quelli della tua età sognano di fare il Capitano».

   «Ti sbagli, solo i poppanti sognano di fare il Capitano. Io ho quattordici anni» disse solennemente la ragazzina.

   «Scusa, continuo a dimenticare che sei grande!» rise il padre, guardandola con affetto. «Allora, vediamo se hai imparato davvero qualcosa. Cos’è questa?» chiese, mostrandole un componente.

   «Facile, una valvola termoionica».

   «E a cosa serve?».

   «A regolare il flusso di ioni prodotti dalla matrice d’impulso, prima che siano espulsi».

   «Che si fa, se si rompe?».

   «Se... ne mette una nuova?» chiese Bina, un po’ incerta.

   «Beh, sì, io sto per sostituirla» ammise l’ingegnere, mostrandole la valvola nuova. «Ma immagina d’essere in missione: sei naufragata su un pianeta desolato e non hai pezzi di ricambio. Come fai?».

   «Faccio... faccio senza?». La ragazza era in difficoltà, ora.

   «Così precipiterai alla prima turbolenza. No, figliola... su una navetta non ci sono componenti superflui. Le valvole termoioniche si possono riparare, anche se al giorno d’oggi quasi nessuno si prende la briga di farlo» spiegò l’Elaysiano. «Vuoi vedere come si ripara?».

   «Oh, sì!» esclamò Bina, fissando la valvola annerita come se fosse un tesoro.

   «Brava la mia quattordicenne!» sorrise il padre, carezzandole la testa bionda prima di partire con le spiegazioni.

 

   «Grazie, papà» mormorò il Capitano Hod, trafficando con la valvola. Corresse la deformazione, riportandola più o meno alla forma originale. Poi estrasse le componenti interne, usando un micro-saldatore per riparare i pezzi rotti. Infine li rimise dentro e ricollocò la valvola al suo posto.

   «Hod a Shil, ho sistemato la valvola del motore 2» disse, premendosi il comunicatore. «Faccia una prova, spinta minima». L’Elaysiana si rotolò a terra, uscendo in fretta da sotto la navicella. Si rimise in piedi con un certo sforzo.

   «Prova iniziata» disse Vrel, rimessosi ai comandi. Il motore 2 si accese al minimo della potenza. La navetta vibrò, sollevandosi di qualche palmo. Uno sbuffo di polvere investì in pieno il Capitano, incollandosi sul volto e sulle braccia sudate. L’Elaysiana chiuse gli occhi e tossì. L’attimo dopo Vrel fece riadagiare la navetta e spense il motore. «Prova riuscita, direi» disse. «Il flusso ionico è costante. Tutto bene, là fuori?».

   Non ottenendo risposta, il timoniere lasciò i comandi e uscì in fretta dalla navicella. Trovò Hod che tossiva ancora. Così sporca di sudore, d’olio lubrificante e di polvere, il Capitano era irriconoscibile. Eppure, quando lo vide, fece un segno di vittoria e sorrise.

   «È certa di stare bene?» chiese Vrel, preoccupato nel vederla in quello stato.

   «Non mi sentivo così bene da anni» assicurò l’Elaysiana, e tornò al lavoro.

 

   Di lì a poco Lyra fece ritorno. Vedendo il Capitano in versione meccanico, che trafficava con uno stabilizzatore, la mezza Xindi sgranò gli occhi. Sporca e sudata, con una chiave isolineare infilata dietro l’orecchio e altri strumenti che le riempivano le tasche, l’Elaysiana era china sullo strumento danneggiato. Al suo arrivo, alzò gli occhi e fece un rapido cenno di saluto. «Bentornata. Trovato nulla?» chiese.

   «Niente acqua» rispose Lyra, chiedendosi se dopotutto il Capitano sapesse il fatto suo. «Però ho trovato una specie di grotta, o tana...».

   «Sì?».

   «Ecco, ho percepito una sensazione di pericolo. Penso che dobbiamo stare in guardia».

   «Hai fatto qualche analisi, per capire di che si tratta?» chiese Vrel, che stava sigillando la falla nello scafo.

   «Non c’era nulla di preciso da analizzare, solo quella galleria che porta sottoterra» spiegò Lyra.

   «Io non sento niente. Forse ti sei lasciata suggestionare» ipotizzò il timoniere, interrompendo il suo lavoro.

   «Non senti niente perché le tue facoltà telepatiche sono inferiori alle mie» puntualizzò la sorella. «E comunque anch’io non lo percepisco, da qui. È stato solo avvicinandomi che ho avvertito una specie di... brivido. E di mormorio».

   «Un mormorio? Intendi delle voci?» chiese il fratello, aggrottando la fronte.

   «Non c’erano parole riconoscibili. Era più un brusio. Forse se fossi scesa in quel tunnel avrei sentito meglio» spiegò Lyra. «Comunque penso che non siamo soli».

   «Sai, non è insolito per i naufraghi avere la sensazione d’essere osservati, o scambiare suoni naturali per voci» notò Vrel. «Questo pianeta, poi, è inquietante. C’è chi dice che sia infestato».

   «Infestato da cosa?!» si allarmò Lyra.

   «Fantasmi, vampiri... i soliti mostri da leggenda» disse il timoniere, facendo spallucce. «Il Capitano Kirk disse d’averci trovato un castello con una strega, ma nessuno lo prese sul serio».

   «Io non m’invento le cose!» protestò la reporter, temendo di non essere creduta. «Mi avete presa con voi perché vi servono le mie percezioni» aggiunse, rivolgendosi a entrambi. «Ho avuto ragione con gli Xindi e sono certa di avercela anche ora. Tu, piuttosto... hai fatto fiasco durante il combattimento col Reaper. E hai fallito di nuovo quando gli Xindi ci hanno inseguiti» aggiunse, di nuovo rivolta al fratello. «É colpa tua se siamo naufragati qui, se il Capitano è ferita, se siamo tutti in pericolo!».

   «Ho fatto il possibile, ma eravamo svantaggiati in entrambi i casi!» ribatté Vrel, punto sul vivo da quell’accusa. «Almeno sto aiutando il Capitano a riparare la navetta. Tu che hai fatto di utile, finora? Un bel niente! Sai solo vagabondare, lanciando accuse».

   «Ora basta!» gridò Hod, infastidita da quel battibecco, che le impediva di concentrarsi sulle riparazioni. «Ne ho abbastanza dei vostri bisticci infantili. Fatela finita!» intimò.

   Vrel e Lyra tacquero, imbarazzati. Anche col suo aspetto malmesso, il Capitano irradiava autorità. Il fatto che si reggesse in piedi in un ambiente ad alta gravità, pur con tutte le sue ferite, senza il sostegno dell’esoscheletro, dimostrava la sua forza di volontà.

   «Non m’interessa perché ce l’avete l’uno con l’altra. Non m’interessa chi ha ragione e chi ha torto. Finché saremo dispersi su questo pianeta, ciascuno di noi deve dare il massimo» dichiarò Hod. «Vrel, torni al lavoro. Voglio che quella falla sia tappata entro sera. E intendo tappata così bene da poter tornare nello spazio, se necessario. Lyra, faccia funzionare i sensori. Quanto alle sue percezioni, ne terremo conto. Prima che cali la notte, creeremo un perimetro difensivo attorno alla navetta. Neanche una formica deve avvicinarsi a nostra insaputa. E adesso al lavoro!» ordinò, tornando a concentrarsi sullo stabilizzatore.

   In preda alla vergogna, Vrel e Lyra si guardarono di sottecchi e si affrettarono a eseguire i comandi. Per il resto della giornata parlarono pochissimo e solo di cose inerenti al lavoro. Lentamente il sole compì il proprio arco sopra le loro teste. Per fortuna la loro tempra vulcaniana li proteggeva dal calore e dalla disidratazione. A sera i compiti assegnati erano ultimati. I sensori funzionavano solo a corto raggio, ma questo era dovuto alle anomalie, per cui non c’era rimedio.

 

   Mentre il sole calava a occidente, imporporando il cielo, i federali approntarono il perimetro difensivo attorno alla navetta. Gli alberi più vicini furono disintegrati coi phaser, creando una radura in cui nessun nemico potesse avvicinarsi di nascosto. I sensori furono tarati per rilevare segni vitali o emissioni energetiche. La bolla degli scudi fu estesa a parecchi metri dalla navetta e il phaser anteriore fu caricato. La Gryphon poteva alzarsi a qualche metro da terra, girare su se stessa e sparare agli eventuali nemici nell’arco di pochi secondi. Infine i naufraghi rientrarono nella navetta, sigillando l’ingresso con un codice di sicurezza.

   Pur con tutte quelle precauzioni, Lyra non sembrava ancora tranquilla. «Vorrei che io e te facessimo dei turni di guardia» disse al fratello. «Comincio io. Starò in cabina, mentre voi riposate qui dietro» aggiunse, rivolgendosi anche al Capitano.

   «D’accordo» acconsentì Hod.

   Lyra andò in cabina, lasciando gli altri due nella sezione posteriore della navicella, dove c’erano le cuccette. Chiuse la porta dietro di sé e sedette sulla poltroncina del pilota, da dove poteva controllare i sensori. Osservò le ultime luci del tramonto, promettendosi di non cedere al sonno, finché fosse durato il suo turno.

   Intanto, nella sezione posteriore, il Capitano e il timoniere cenarono con le barrette proteiche. «Ha bevuto?» chiese Vrel.

   «Sì» disse l’Elaysiana, umettandosi le labbra screpolate.

   «Quando? Non l’ho vista bere da un pezzo» notò il mezzo Xindi. «Prenda un sorso» la invitò, porgendole la borraccia.

   «Non ne ho bisogno» insisté l’Elaysiana, rifiutando di prenderla. Fece per adagiarsi nella cuccetta. Dopo la lunga giornata di lavoro aveva le gambe e la schiena a pezzi.

   «Sì che le serve» insisté Vrel. «È stata fuori tutto il giorno, al solleone. Ed è ancora convalescente».

   «Dobbiamo razionare le scorte, l’ha detto anche lei».

   «Non tanto da peggiorare le sue condizioni. La prego... se rifiuta di bere la sua parte, la butterò via» minacciò il mezzo Xindi.

   «Che fa, mi ricatta?» chiese Hod, sorpresa ma anche commossa dalla lealtà del giovane.

   «Lei è il mio Capitano. Devo tenerla in vita» disse Vrel, cocciuto. «Quando torneremo sulla Keter, potrà punirmi per la mia insubordinazione».

   Vedendo che non c’era nulla da fare, l’Elaysiana prese la borraccia e ingerì un sorso d’acqua. Chiuse gli occhi e sospirò, sentendosi meglio. Il timoniere aveva ragione: ne aveva davvero bisogno. «Non la punirei mai, Vrel. Questa situazione non è colpa sua» disse, adagiandosi finalmente nella cuccetta. «Non credo che Lyra lo pensasse davvero, quando l’ha detto. Di certo non lo credo io».

   «Però se avessi evitato più colpi nemici... se avessi seminato gli inseguitori...» mormorò Vrel, afflitto.

   «Se, se...! Abbiamo fatto tutti del nostro meglio. Perciò è inutile recriminare» disse il Capitano. Vedendo che il timoniere aveva impugnato il tricorder medico, si lasciò esaminare. Quelle premure la commuovevano, perché era evidente quanto il mezzo Xindi tenesse a lei. «Allora, sopravvivrò?» chiese in tono tragicomico.

   «Le fratture si stanno saldando, ma il suo organismo è debilitato per gli sforzi cui si sottopone» rispose Vrel, leggendo i dati. «Deve tornare sulla Keter quanto prima».

   «Tornare alla nave è la parte facile» sospirò Hod. «Il difficile sarà ripristinare la linea temporale. Se la squadra di Jaylah non scopre dove e quando intervenire, non avremo neanche un bersaglio. E anche supponendo di averlo... il Reaper è più forte di noi». Non avrebbe voluto essere così pessimista, mentre parlava col suo ufficiale, ma in quel momento si sentiva davvero affranta.

   «Sì, ci stavo pensando» annuì Vrel, cupo. Sedette accanto alla cuccetta del Capitano, poggiando la schiena contro la paratia. «La nostra prossima battaglia potrebbe essere l’ultima. Vorrei affrontarla con meno rimpianti».

   «Ne ha molti?» chiese Hod. «Se ha voglia di sfogarsi, ne può parlare. Le prometto che resterà tutto fra noi».

   Vrel la osservò per un poco, rimuginando. «Vorrei che Lyra sapesse quanto tengo a lei, anche se non approvo tutto ciò che fa» confessò, a bassa voce per non farsi sentire dalla sorella che vegliava in cabina. «Inoltre vorrei che fra me e Zafreen non fosse finita così male. Continuo a chiedermi dove ho sbagliato. Le Orioniane chiedono molte attenzioni... forse negli ultimi tempi l’ho trascurata».

   «Le Orioniane sono anche volubili. Non stia a colpevolizzarsi» suggerì Hod. Aveva sempre pensato che la passione di Vrel per Zafreen fosse superficiale, basata più sull’aspetto che sulla personalità, ma ora si accorgeva di quanto tenesse a lei.

   «E per finire, vorrei che non avessimo perso Juri» concluse Vrel. «Sono certo che le sue conoscenze storiche ci sarebbero utilissime per rimediare a questo disastro temporale. Poveretto! Non l’ho mai trattato bene. A volte lo prendevo in giro, solo perché non gli piaceva lavorare sul campo. Ma quando s’è trattato di salvare i Sulibani, non ha esitato a sacrificarsi».

   «A volte non ci accorgiamo del valore di chi abbiamo davanti» ammise il Capitano.

   «E lei, ha qualche rimpianto?» chiese Vrel, dandole un’altra occhiata. «Scusi, so che non dovrei chiedere...».

   «Ma siccome l’ha fatto, le risponderò» disse Hod. «Vorrei aver fatto l’intervento per sopportare la gravità standard, così non avrei tutti questi problemi. La dottoressa Mol aveva ragione a dirmi che dovevo decidere. In più, vorrei aver dimostrato alcuni dei crimini di Rangda, a partire dai suoi legami coi Breen. Se avessi trovato le prove, non sarebbe diventata Presidente... e non avrebbe mezzo smantellato la Flotta Stellare. Sono certa che, con la Flotta al massimo dell’efficienza, Vosk non si sarebbe impadronito dell’Uthat».

   «Come ha detto lei, inutile recriminare» commentò Vrel. Si alzò e raggiunse la sua cuccetta. «Grazie della chiacchierata, ora la lascio dormire. Buon riposo, Capitano» disse, distendendosi sul giaciglio.

   «Buon riposo a lei». L’Elaysiana era così stanca che le bastarono pochi minuti per addormentarsi. Fu un sonno inquieto, agitato da incubi che però al risveglio non riuscì a ricordare.

 

   Trascorsero così altri due giorni, nei quali i naufraghi proseguirono le riparazioni. Grazie soprattutto al Capitano, i motori a impulso tornarono in linea. In teoria era possibile decollare e persino raggiungere lo spazio, anche se sarebbe stato pericoloso immergersi nell’atmosfera di Pyris VI, il gigante gassoso, per riunirsi alla Keter. In realtà i naufraghi speravano che fosse la nave a soccorrerli. Ma sul finire del quarto giorno di permanenza, non c’era ancora traccia dei loro colleghi. Non una navetta, una squadra e nemmeno un messaggio per informarli della situazione. Questo accresceva i loro timori per la sorte della nave. D’altra parte, in quella linea temporale da incubo, anche inviare una trasmissione poteva essere pericoloso, per il rischio d’intercettazioni.

   «Domani decolleremo» disse Hod, chiudendo lo scomparto dei motori a impulso sullo scafo esterno della navetta. «Il ciclo di ricarica sarà completo entro l’alba, perciò questa è l’ultima notte che passeremo su Pyris VII. Prima di coricarci, vorrei chiederle di smaltire il plasma che abbiamo drenato dal nucleo di curvatura» disse a Vrel.

   «Certo, me ne occupo subito» annuì il mezzo Xindi. Per ragioni di sicurezza, l’operazione andava eseguita a una certa distanza dalla navetta. Il timoniere prese il serbatoio cilindrico, nel quale vorticava il plasma verdastro, e fece per allontanarsi.

   «Vengo con te» disse Lyra. «Nessuno dovrebbe avventurarsi da solo nel bosco».

   Nei giorni trascorsi da quando la giornalista aveva percepito il pericolo, tutti e tre erano sempre rimasti vicini alla navetta. Ogni notte si erano barricati dentro, attivando le difese. Tuttavia non c’era stato alcun attacco, né i sensori avevano rilevato alcunché di anomalo. Vrel cominciava a pensare che non ci fosse alcun pericolo. «Preferirei se restassi col Capitano» disse.

   «Non serve. Mi barricherò dentro la navetta, come facciamo ogni notte» assicurò Hod, rientrando a bordo. «Affrettatevi! Dovete tornare prima che faccia buio» raccomandò, e chiuse il portello.

   Vrel guardò il sole che calava all’orizzonte. Dopo il caldo pomeriggio, l’aria aveva già cominciato a raffreddarsi. Il vento ululava fra i tronchi, annunciando una notte ancor più rigida delle precedenti. «Okay, muoviamoci» disse, avanzando di buon passo.

   Lyra gli si affiancò, con il phaser in mano e i sensi all’erta. «Cerchiamo di passare inosservati» disse.

   I due lasciarono la radura con la navetta e procedettero per un po’ tra gli alberi. Invece di scendere verso il letto del torrente, salirono su un colle che sorgeva a un chilometro di distanza. Nessuno di loro lo aveva mai esplorato, ma sembrava un buon posto da cui tenere d’occhio la Gryphon. Quando furono in sommità, Vrel posò il serbatoio del plasma, calcandolo nel terreno per accertarsi che stesse dritto. Dopo una giornata d’intenso lavoro, portarsi dietro quel peso lo aveva stancato. «Per fortuna è l’ultima fatica» si disse. Attivò i comandi sul dispositivo, iniziando a neutralizzare il plasma.

   Servivano parecchi minuti per completare l’operazione. Vrel e Lyra arretrarono di qualche metro, come precauzione se si fosse verificata una fuga di plasma, e aspettarono. Il timoniere guardò la navetta, accertandosi che fosse tutto a posto. La Gryphon era sempre lì, al centro della radura. Le ombre del crepuscolo cominciavano ad avvolgerla. In lontananza alcuni pipistrelli pyritiani uscirono dalle loro tane, per cominciare la caccia notturna. Una volta che ci si abituava, Pyris VII non sembrava più così inquietante. Alla fine era un pianeta come gli altri, si disse Vrel. Il suo cruccio era un altro. Il timoniere alzò gli occhi verso il cielo sempre più scuro, in cui apparivano le prime stelle, cercando di trovare il puntino di luce che era Pyris VI.

   «Tutto bene?» chiese Lyra. Oltre a vedere il suo gesto, percepiva l’ansia crescente in lui.

   «Sì» disse Vrel. «Mi stavo solo chiedendo che fanno quelli della Keter. Francamente speravo che ci avrebbero soccorsi prima che ripartissimo. Ma in effetti la nave era messa male, quando l’abbiamo lasciata. Si vede che la stanno ancora riparando. Però che darei, per esserne sicuro!» sospirò, osservando il firmamento.

   «Ora lo capisci, eh?» fece Lyra, in tono un po’ maligno.

   «Capisco cosa?» chiese Vrel, abbassando lo sguardo su di lei.

   «Che significa levare lo sguardo al cielo, pregando che qualcuno risponda alle tue chiamate. Forse, la prossima volta che qualcuno violerà la Prima Direttiva, non lo giudicherai così colpevole» disse la cronista.

   «Ancora questa storia?!» fece il timoniere, esasperato. «Non voglio più parlarne».

   «Ma io sì!» insisté Lyra con foga. «Lo voglio, perché solo le persone egoiste e crudeli possono credere alla Prima Direttiva. E tu non lo sei. Non lo sei!» gridò, dimenticando il proposito di passare inosservata. Uno sciame di pipistrelli si levò in volo da una vicina macchia d’alberi, spaventato dalla sua voce. «Purtroppo tu, come molti altri, sei stato condizionato a credere che la Direttiva serva a proteggere i popoli pre-curvatura... quando invece fa solo gli interessi dei più benestanti. Ammettilo: è comodo tenere a distanza le culture che ci porterebbero nuove idee e usanze. Che ci obbligherebbero a rivedere i nostri concetti di giusto e sbagliato».

   «Certo che è comodo» ammise Vrel. «Ciò non significa che sia un male. L’Unione ha i suoi difetti, ma almeno le specie che la compongono hanno smesso di farsi la guerra tra loro. Se ci buttiamo dentro società arcaiche, che praticano ancora le peggiori discriminazioni... quanto tempo passerà, prima che crolli?».

   «Se rinunciamo ai nostri valori per paura di annacquarli, allora li abbiamo già persi» obiettò Lyra.

«Noi Abolizionisti non siamo gli scriteriati che pensi. Lo sappiamo che la Galassia è piena di pericoli. Ma pensiamo sia meglio affrontarli insieme, piuttosto che arroccati dietro i nostri privilegi».

   «Noi Abolizionisti!» le fece il verso Vrel. «Vedo che sei super partes, cara la mia giornalista». Diede un’occhiata al cilindro col plasma: ce n’erano ancora tre quarti da smaltire. Quindi dovevano attendere ancora parecchi minuti.

   «Il mio dovere di giornalista è informare il pubblico di quanto accade» rivendicò Lyra. «Così ciascuno può farsi la propria idea. Sai che, statisticamente, le persone più istruite e informate sono anche le più favorevoli ad abolire la Prima Direttiva? Per contro, i più ignoranti... e quelli dal quoziente intellettivo più basso... sono inclini a mantenerla» insinuò.

   «Ho seri dubbi sull’affidabilità di queste statistiche. Ma se anche fosse, non è questo il punto» affermò Vrel. «Quel che dovresti capire, sorellina, è che “voi Abolizionisti” non avete la superiorità morale».

   «Cosa?!» si stupì Lyra.

   «Hai sentito bene. Voi Abolizionisti pensate sempre d’incarnare la bontà, e che chiunque dissenta da voi sia il male assoluto, da sconfiggere a ogni costo. Non è così!» insisté il timoniere. «Questi anni nello spazio mi hanno insegnato che è arrogante credere di poter risolvere tutti i problemi della Galassia. Quando s’interviene in una situazione che si conosce poco, agendo d’istinto anziché in modo razionale, s’innescano conseguenze imprevedibili. A volte la “cosa giusta” non esiste proprio: si può solo scegliere fra mali diversi. Invece voi pensate di aver capito tutto e pretendete che tutti vi vadano dietro. Se qualcuno si oppone... se non si dimostra abbastanza “empatico”... allora è il cattivo. Volete imporre non solo la vostra logica, ma anche le vostre emozioni. Beh, io credo che non si possa imporre un’emozione».

   Erano di nuovo ai ferri corti, Vrel lo sapeva. Potevano discuterne all’infinito, ma non sarebbero mai arrivati a un compromesso. La pensavano troppo diversamente. Considerando che persone cresciute nella stessa casa potevano essere così in conflitto, il timoniere si chiese come facesse l’Unione ad aggregare specie tanto diverse.

   Fu allora che sentì il respiro. Era lento, raschiante e faceva accapponare la pelle. Un brivido lo attraversò da capo a piedi. C’era anche un odore sgradevole... come se fossero vicini a una carcassa in decomposizione. Eppure fino a poco prima non sentiva niente. Questi segnali combaciavano con la descrizione che Lyra aveva fatto della misteriosa caverna oltre il fiume secco. Ma al momento sua sorella era troppo distratta per farci caso. Continuava a perorare la sua causa, senza rendersi conto che qualcosa non andava. Il sole era tramontato, ormai, e le tenebre dilagavano nella selva rinsecchita. Man mano che il plasma di curvatura veniva smaltito, il cerchio di luce in cima alla collina si riduceva. E con le tenebre avanzava qualcosa di più denso e pesante. Vrel intuì, alle spalle di Lyra, una sagoma ancor più nera del buio circostante. La figura levò un braccio e qualcosa sibilò nel buio.

   «Attenta!» gridò Vrel, gettandosi su Lyra. La buttò a terra, appena in tempo: il raggio d’energia passò sulle loro teste, facendo crepitare i capelli. In quella luce livida, l’aggressore divenne visibile. Era una creatura alta e scheletrica, dagli arti lunghissimi, vestita di stracci neri. Non c’erano lineamenti sulla testa informe, salvo un orifizio al centro della fronte. Nel pugno reggeva una creatura simile a un serpente, la sua arma. Era detto “ofide”, anche se non aveva nulla a che fare con i serpenti terrestri e forse non era neanche un animale in senso stretto.

   «Che sono?!» chiese Lyra, terrorizzata.

   «Devidiani» riconobbe Vrel. «Sono parassiti che attraversano spazio e tempo per risucchiare l’energia neurale degli umanoidi... il loro unico cibo. Non si può ragionare con loro». Il timoniere si era già rimesso in piedi e aveva estratto il phaser. Aiutò la sorella a rialzarsi e la trasse indietro, nel cerchio di luce creato dal plasma. Con un piede toccò un comando del serbatoio, per interrompere il processo di neutralizzazione. Non voleva che la loro fonte di luce si esaurisse.

   «Ce ne sono altri, riesco a percepirli» mormorò Lyra, sfiorandosi la tempia. «Erano in quella tana... dev’essere il loro rifugio». Mentre parlava, il Devidiano fece un passo in avanti e aggiustò la mira.

   «Indietro, maledetto!» gridò Vrel, sparandogli con il phaser. Sapeva che Jaylah e la sua squadra avevano affrontato un gruppo di Devidiani, riuscendo a sconfiggerli. Ma erano ben equipaggiati e avevano il supporto della Keter. Loro, invece, erano soli.

   Il phaser colpì in pieno la creatura. Forò gli stracci che la ricoprivano, ma non la sua epidermide. Il Devidiano emise un verso stridulo e si trasformò, rinunciando a mimetizzarsi nell’oscurità. Adesso il suo corpo emetteva una luce bianco-azzurra. Altri bagliori simili apparvero tra gli alberi, tutt’intorno alla collina, e si fecero avanti. Vrel e Lyra si avvidero che gli alieni li avevano circondati.

   «Questi mostri sono difficili da uccidere» disse Vrel. «Vivono leggermente sfasati dal nostro continuum temporale. Per distruggerli servirebbero i siluri cronotonici, regolati sulla loro varianza esatta».

   «E senza di quelli?» chiese Lyra, sparando a un altro Devidiano. Il colpo non sembrò danneggiarlo.

   «Se entrano del tutto nel nostro continuum diventano vulnerabili, ma ce ne vuole per abbatterli» spiegò Vrel. «Attenta all’ofide! Se ti colpisce col suo raggio, ti risucchierà il katra» disse, usando il termine vulcaniano che indicava l’anima. Siccome il Devidiano aveva sollevato la creatura e gliela puntava contro, il mezzo Xindi sparò nuovamente. Il colpo fu così preciso da centrare l’ofide, facendolo schizzar via di mano al proprietario.

   «Non potete fermarci» disse il Devidiano, con voce sepolcrale. «Siete nel nostro mondo. Diverrete parte di noi. La vostra energia neurale placherà la nostra fame per un altro giorno». Così dicendo si avventò su Lyra, incurante dei suoi colpi di phaser. Le afferrò i polsi, cercando d’immobilizzarla. Vrel avrebbe voluto intervenire, ma si avvide che l’ofide, ora a terra, stava per emettere un altro raggio. Lo precedette, sparandogli in testa. Colpita a morte, la creatura si dissolse in un’onda triolica che gettò il timoniere a terra. Quando si rialzò, Vrel vide che gli altri Devidiani stavano chiudendo il cerchio attorno a loro. Non sembravano armati, ma questa non era una garanzia che fossero innocui. I poteri di quella specie erano ancora largamente ignoti.

   «Lasciami!» gridò Lyra, dibattendosi contro il Devidiano che l’aveva afferrata. Lo colpì con una testata, rimbalzando contro la sua faccia senza lineamenti. Allora si rigirò, ricorrendo a una mossa d’autodifesa per gettare a terra l’avversario. La manovra ebbe parzialmente effetto, perché il mostro cadde in ginocchio, pur non venendo del tutto atterrato. Lyra si liberò la mano sinistra e subito eseguì la Presa al Collo vulcaniana. Lungi dal risentirne, il Devidiano si rialzò e l’afferrò per la gola, iniziando a strangolarla. Era troppo alieno per risentire di quella mossa, studiata contro il sistema nervoso degli umanoidi. Lyra boccheggiò: la presa del mostro era così forte che rischiava di spezzarle il collo. Ma se Vrel aveva ragione, il Devidiano doveva uniformarsi al loro continuum temporale per tenerla stretta, il che lo rendeva più vulnerabile. Con le ultime forze, Lyra gli puntò il phaser contro l’orifizio al centro della fronte e fece fuoco.

   Stavolta il Devidiano accusò il colpo. Mollò la presa e indietreggiò, emettendo un rantolo. Gli altri alieni, che stavano stringendo il cerchio, si bloccarono. Lyra cadde a terra, boccheggiante; c’era mancato poco.

   «Lascia stare mia sorella!» gridò Vrel, scagliandosi a tutta velocità contro l’alieno. Aveva visto che alle sue spalle c’era un albero morto rovesciato, con i rami che puntavano in avanti. Il legno durissimo formava come una selva di pugnali. Urtando il Devidiano con tutto il suo peso, Vrel riuscì a farlo cadere all’indietro, impalandolo sui rami. L’alieno emise un lamento ancor più straziante e afferrò i legni scheggiati che gli fuoriuscivano dal petto, tentando di liberarsi. Vrel si ritrasse, incredulo nel vederlo ancora vivo. Ma il Devidiano non ne aveva per molto. Poco alla volta i suoi sussulti s’indebolirono, finché ricadde senza vita. Il bagliore azzurrino che emanava dal suo corpo si spense ed egli si sgretolò in polvere. Sui rami, nuovamente esposti, non c’era traccia di sangue.

   «Vrel!» chiamò Lyra. Il timoniere le fu accanto, accorgendosi che gli altri Devidiani avevano ricominciato ad avanzare, sia pur lentamente. Erano tanti... almeno una ventina. Troppi per sconfiggerli tutti.

   «La pagherete cara» sibilò uno di loro. «Tutti e tre».

   «Tre?!» gemette Vrel. Era così impegnato a proteggere sua sorella che aveva dimenticato il Capitano! Volgendo lo sguardo verso la navetta, vide che era sotto attacco. Raggi d’energia triolica colpivano la bolla degli scudi, facendola brillare. La navetta sparava col phaser anteriore, abbattendo interi tratti di foresta. Ma col ciclo di ricarica dei motori ancora incompleto, non aveva l’energia per decollare. Quindi il Capitano non poteva fuggire.

   «No!» disse Vrel in un soffio, immaginando Hod chiusa lì dentro, tutta sola, circondata dai mostri. Doveva raggiungerla, ma come? Sparò contro il Devidiano che aveva parlato, senza riuscire ad abbatterlo.

   «Andate via!» strillò Lyra, vedendoli sempre più vicini. In preda alla frenesia, afferrò il serbatoio del plasma – ancora pieno a metà – e lo scagliò contro gli alieni. Ci fu uno schianto e il serbatoio si ruppe, liberando il plasma rovente. Vrel e Lyra si gettarono a terra, mentre la vampata verdastra passava sopra di loro, strinandogli i capelli. Quando osarono rialzare la testa, videro i Devidiani che correvano da tutte le parti, avvolti dalle fiamme verdastre. A giudicare dalle loro strida stavano soffrendo parecchio. Uno dopo l’altro si dissolsero, tornando al loro piano d’esistenza sfasato, per sottrarsi al tormento delle fiamme. I bagliori azzurrini si estinsero e la collina tornò buia, a parte qualche focolaio creato dal plasma. Per fortuna l’erba era poca. Vrel e Lyra calpestarono i focherelli per spegnerli, scongiurando il rischio d’incendio. Il timoniere guardò ancora la navetta: i suoi scudi non erano più attivi. Pessimo segno.

   «Vieni, presto!» gridò Vrel, precipitandosi giù dalla collina. Lyra fu costretta a seguirlo, per non restare sola nel bosco infestato, pur sapendo che andavano a cacciarsi in un’altra battaglia. I due corsero a perdifiato per la foresta, saltando sopra fossi e cespugli spinosi, abbassandosi per non urtare i rami contorti. Lyra ce la metteva tutta per non restare indietro, ma non riusciva a raggiungere il fratello, tanto era veloce. Anche così, ci volle qualche minuto per raggiungere la Gryphon. E quando finalmente la raggiunsero, era tardi.

   Il portello sulla fiancata era aperto e i Devidiani ne stavano uscendo. Uno di loro impugnava un altro ofide. Come vide i nuovi arrivati che sbucavano nella radura, lo rivolse contro di loro. Vrel e Lyra scattarono uno a destra e l’altra a sinistra, mentre il raggio triolico passava nel mezzo. L’attimo dopo furono loro a sparare. I loro phaser, regolati al massimo, presero il Devidiano in pieno petto. Invece di emettere un breve raggio, i due tennero premuto il grilletto, continuando a colpirlo. L’alieno stridette e si dissolse, per sottrarsi al fuoco. Gli altri Devidiani lo imitarono. Le loro sagome bianco-azzurre svanirono e anche i federali smisero di sparare, così che la radura piombò nell’oscurità.

   «Capitano! Capitano Hod!» gridò Vrel, per nulla rassicurato. Si precipitò dentro la navetta, che aveva ancora il portello aperto.

   Lyra esitò un attimo prima di seguirlo. Aveva visto i Devidiani che uscivano, quindi aveva pochi dubbi su cosa avrebbe trovato all’interno. Da un lato non voleva intromettersi in quel momento tragico, dall’altro pensava che forse Vrel avrebbe tratto conforto dalla sua vicinanza, nonostante i loro dissapori. Il modo in cui si era gettato contro il Devidiano, sulla collina, indicava che dopotutto teneva molto a lei. Così Lyra si fece forza ed entrò, chiudendosi il portello alle spalle.

   Il Capitano Hod giaceva a terra, con il phaser ancora stretto nel pugno. Si era difesa fino all’ultimo, ma aveva dovuto soccombere al raggio triolico, che l’aveva prosciugata delle energie neurali. Inginocchiato accanto a lei, Vrel le sfiorava la fronte, scosso da profondi singhiozzi.

   «No, Capitano... la prego... non se ne vada. Siamo qui – vede? – per proteggerla. Non ci abbandoni... no...» mormorò con voce rotta. Non riuscendo a percepire la sua mente, il mezzo Xindi chinò il capo, singhiozzando in modo incontrollabile.

 

   Lyra restò immobile per qualche momento, colpita al cuore da quella scena. Percepiva il dolore straziante di suo fratello e non sapeva che dire per confortarlo. A disagio, gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. «Vrel, è andata... non c’è più nulla da fare» mormorò.

   «È andata, sì» disse il timoniere, alzando il viso rigato di lacrime. «E io la riporterò indietro» aggiunse, con una strana luce negli occhi.

   «Vrel, ma che dici?!» si sgomentò Lyra. «Nessuno può tornare dalla morte». Temeva che il dolore lo facesse sragionare.

   «Il Capitano non è morta» obiettò Vrel. «Presto, aiutami a stabilizzarla!». Corse alla cassetta medica, la portò accanto all’Elaysiana e ne trasse alcuni strumenti. «Aiutami, ho detto!» urlò, in tono così imperioso che Lyra non osò rifiutarsi. La sorella non capiva cosa si aspettasse di fare, ma non voleva contrariarlo, finché era in quello stato. Con il tempo sperava di farlo ragionare.

   «La sua corteccia superiore è inattiva, ma le funzioni base del tronco encefalico e del cervelletto ci sono ancora» rilevò Vrel, esaminandola col tricorder medico. «Stimolatore corticale, ora!».

   Lyra gli passò il congegno, che egli applicò alla fronte dell’Elaysiana.

   «Primo impulso» disse Vrel, attivandolo. Il congegno inviò un segnale elettrico al cervello, per stimolare le sinapsi a riprendere l’attività elettrochimica. Il Capitano voltò la testa dall’altra parte, ma esaurito l’impulso restò immobile. Consultando il tricorder, Vrel rilevò una reazione minima nella corteccia. «Ancora!» disse, inviando un secondo impulso. Ci fu di nuovo uno scatto del capo, seguito dall’immobilità.

   «Ancora! Ancora!» insisté Vrel, inviando altri impulsi. Lo stimolatore continuò a irradiare il cervello dell’Elaysiana, con effetti minimi.

   «Vrel, basta» disse Lyra, sfiorandogli il braccio. «Se lo stimolatore non funziona con due o tre impulsi, è inutile continuare».

   «No, non capisci... c’è ancora speranza!» s’incaponì Vrel. «Ho stabilizzato le sue funzioni base: respiro, battito cardiaco. Il suo corpo resterà in vita per ore, forse giorni». Così dicendo, la prese delicatamente tra le braccia e la sollevò, deponendola nella cuccetta.

   «Ma la sua energia neurale è stata prosciugata... il suo katra se n’è andato» gli ricordò mestamente Lyra. «Tutto ciò che faceva di lei il tuo Capitano e la tua amica non c’è più. Lasciala andare in pace. La piangeremo insieme».

   «La sua energia neurale non si è dispersa» insisté Vrel. «I Devidiani l’hanno immagazzinata da qualche parte, in attesa di consumarla. La troverò e gliela restituirò» disse.

   «Ma sei pazzo?!» inorridì Lyra. «Non possiamo neanche stanarli...».

   «Come no? Il loro covo l’hai trovato tu, giorni fa. La caverna nel bosco» le ricordò Vrel.

   «Intendevo dire che se vivono davvero sfasati, come hai detto, non possiamo interagire con loro» precisò la giornalista.

   «Se il Capitano ha registrato la loro varianza, durante l’attacco...» fece Vrel, fiondandosi al timone. «Sì!» gioì, consultando il diario dei sensori. «Varianza temporale 0,039 microsecondi. Posso farcela!».

   Il timoniere tornò nel comparto posteriore, aprì lo sportello sul pavimento e mise a nudo i meccanismi del nucleo di curvatura. Cominciò a levare dei pezzi, in modo così sbrigativo che Lyra temette il peggio. «Tranquilla, abbiamo neutralizzato l’antimateria e ci siamo disfatti anche del plasma» le ricordò lui. «E poi, avendo perso una gondola, non potremmo comunque andare a curvatura. Non ci serve il nucleo... ma a me servono certi componenti. I generatori di campo subspaziale... i regolatori quantistici...».

   Presi i pezzi che gli interessavano, Vrel cominciò ad assemblarli in fretta e furia. «Per regolare la distorsione sincronica mi servono dei discriminatori di fase molto sensibili... dove posso trovarli?». Guardandosi attorno, notò la pedana del teletrasporto. «Ah, certo! Il teletrasporto ha una memoria autonoma. Questa è una pedana per due, quindi dovrebbero esserci due discriminatori di fase. Speriamo che siano compatibili...». Sotto lo sguardo perplesso della sorella, il timoniere sventrò anche il teletrasporto. Ci volle mezz’ora d’imprecazioni e di soluzioni improvvisate per adattare i discriminatori.

   «Vediamo, c’è tutto? No! Manca l’alimentazione! Userò le batterie dei phaser. Tanto ne abbiamo di riserva». Fatto anche questo, Vrel osservò le sue creazioni. Erano due dispositivi da agganciare in cintura, che creavano un campo di distorsione capace di traslare lui e Lyra nel continuum sfasato dei Devidiani. «Beccati questa, Dib! Neanche tu avresti fatto di meglio» gongolò Vrel. Si assicurò uno sfasatore in cintura e porse l’altro alla sorella. «Svelta, non c’è un secondo da perdere. Indossalo!».

   «Allora fai sul serio» disse Lyra, restando immobile.

   «Certo che sono serio. Su, prendilo!» insisté Vrel, agitandoglielo sotto il naso.

   «Supponiamo, per amore di conversazione, che questi arnesi non ci uccidano appena li attiviamo» disse Lyra. «Supponiamo che ci trasportino davvero in quel piano etereo. Spingiamoci ancora oltre, e supponiamo di arrivare nel covo dei Devidiani, dove tengono la dispensa. A quel punto che facciamo?! Noi siamo in due, loro magari in duecento. Gli offriremo lo snack che si sono persi sulla collina».

   «Sarà un attacco mordi e fuggi» spiegò Vrel. «Prenderemo il katra del Capitano e ce la fileremo. Tranquilla... saremo già sulla via del ritorno, quando si accorgeranno che manca».

   «Non credo proprio! Quelli non sembrano sprovveduti» obiettò Lyra. «Li abbiamo già sfidati, quindi saranno all’erta. Combatteranno sul loro terreno... chissà che diavolerie hanno per proteggersi! E poi scusa, ma come distinguerai il katra del Capitano dagli altri? E come conti di portarlo via? Non è qualcosa che si può afferrare!».

   «Ho trascorso parecchio tempo a fianco del Capitano. Riconoscerò i suoi pensieri» sostenne il timoniere. «Per trasportarlo uno di noi dovrà assorbirlo in sé. Una volta tornati, glielo restituirà con una Fusione Mentale. Visto che sei la più telepatica, toccherà a te» la informò.

   «Levatelo dalla testa! Non ti seguirò in questa missione suicida!» protestò Lyra.

   «Se non lo fai, il Capitano morirà» ammonì Vrel, aggrottando la fronte.

   «Per quanto mi riguarda è già morta. Mi dispiace, perché era una brava persona, ed è chiaro che ti stava molto a cuore» disse Lyra. «Ma non getterò la mia vita in questo piano illogico, che non ha la minima probabilità di riuscita. E non dovresti farlo neanche tu» affermò con decisione.

   «Non si tratta solo di salvare Hod» spiegò Vrel, spazientito. «Con lei al comando della Keter, abbiamo più speranze di sconfiggere i Na’kuhl. Non dico che Radek sia un cattivo Comandante. Ma l’equipaggio ha bisogno del suo Capitano, in questo momento terribile. Lei ispira fiducia e spinge tutti a dare il massimo. Radek è più distaccato... e non vorrei che sorgessero conflitti fra lui e Norrin».

   «Senti, capisco le tue considerazioni» disse Lyra, con voce bassa e sincera. «Ma ormai il Capitano è irrecuperabile. Probabilmente i Devidiani hanno già consumato la sua energia neurale. Se c’intrufoliamo nella loro tana, divoreranno anche noi. L’unica mossa sensata è andarcene».

   «Mai, senza il Capitano» dichiarò Vrel. «Se non vuoi accompagnarmi, andrò da solo». Agganciò il phaser in cintura, imbracciò il fucile phaser e prese anche alcune granate al plasma.

   «Ma allora vuoi proprio suicidarti!» sbottò Lyra. «Cos’è, cerchi di fare l’eroe? Sei solo un folle! Ti farai ammazzare per niente».

   «Tu invece sai sempre cos’è meglio, eh?!» esplose Vrel. «Parli tanto di aiutare gli altri, ma quando c’è da rischiare sul serio, per un’amica, ti tiri indietro! Sei un’ipocrita, sì, un’ipocrita e una vigliacca! I rischi devono correrli sempre gli altri. Tu sei troppo occupata a sbracciarti e a dire che non fanno bene, o non fanno abbastanza. Ma stavolta non c’è nessuno da mandare avanti; siamo solo io e te. Io parto seduta stante. Tu resta qui, se vuoi, e aspetta la ricarica dei motori; ci vorranno poche ore. Se non torno entro l’alba, fa’ conto che sia morto. In tal caso sentiti libera di tornare sulla Keter. Ai miei colleghi potrai raccontare quello che preferisci».

   Ciò detto, Vrel prese il tricorder di Lyra, su cui era memorizzato il percorso per raggiungere il covo degli alieni. Uscì dalla navetta senza voltarsi indietro.

   «Vrel, ma che fai?! Vrel! Aspetta!» gridò Lyra, indugiando sulla soglia. Avrebbe voluto inseguirlo, ma non osò lasciare la relativa sicurezza della navetta. Restò lì, a osservare il fratello che si allontanava di buon passo, finché lo vide svanire tra gli alberi. Il vento gelido fischiò, facendo rabbrividire la cronista, che si tirò indietro e chiuse il portello.

 

   Scioccata dall’accaduto, la mezza Xindi tornò al capezzale del Capitano Hod. La sondò di nuovo, accertandosi che fosse in coma stabile. D’un tratto provò un odio intenso per l’Elaysiana. Era a causa sua che Vrel, il suo unico fratello, era andato incontro a morte certa. La lealtà per il Capitano lo accecava... ma che avrebbe fatto, se fosse deceduta? Di certo non avrebbe gettato la sua vita per niente.

   La logica era ineccepibile; non restava che metterla in pratica. Frugando nell’armadietto medico, Lyra trovò un ipospray e lo caricò con un farmaco. La neurazina era un sedativo, ma nelle condizioni dell’Elaysiana avrebbe fatto crollare la sua attività cerebrale, già al minimo. Hod sarebbe morta nel coma, senza soffrire. A quel punto Lyra avrebbe contattato il fratello, tramite il comunicatore, avvisandolo dell’accaduto. Al ritorno Vrel l’avrebbe trovata in lacrime al capezzale del Capitano. E anche avendo dei sospetti non avrebbe potuto confermarli, perché la neurazina si degradava in proteine più semplici nell’arco di pochi minuti, rendendo impossibile rilevarla a chiunque non fosse un medico esperto. Sì, pensò Lyra, accostando l’ipospray al collo del Capitano: questo era l’unico modo per salvare suo fratello.

 

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Capitolo 8
*** Trenta secondi a mezzanotte ***


-Capitolo 7: Trenta secondi a mezzanotte
 
   Le bandiere sventolavano davanti al Palazzo di Vetro, sede delle Nazioni Unite. Era una mattina calda a New York, sebbene si fosse appena ad aprile; solo la brezza rendeva tollerabile la temperatura. Jaylah osservò le bandiere variopinte, soffermandosi su alcune, e poi lo scintillante grattacielo in vetro e acciaio dietro di esse. Bilanciare le molteplici identità con la necessità di un ordine condiviso era sempre stato un arduo compito. L’Agente Temporale sapeva che, di lì a poco, l’umanità lo avrebbe fallito. Era questione di giorni prima che le testate nucleari radessero al suolo le maggiori città terrestri, sterminando milioni di persone e portando la civiltà umana sull’orlo del collasso. L’Orrore Post-Atomico sarebbe durato oltre mezzo secolo, prima che il mondo si risollevasse.
   La mezza Andoriana osservò i passanti attorno a lei. Andavano tutti di fretta, assorbiti da mille pensieri e incombenze: il lavoro, la famiglia, i soldi, la salute. Quanti di loro sarebbero stati ancora vivi, di lì a un mese? E quanti sarebbero sopravvissuti un decennio, fino al Primo Contatto con i Vulcaniani? Non molti, si disse Jaylah. Una parte di lei avrebbe voluto gridar loro che niente di ciò che stavano facendo aveva senso, perché il mondo – come lo conoscevano – stava per finire. Ma oltre a essere una violazione degli Accordi Temporali sarebbe stato inutile, perché l’avrebbero presa per matta. O forse no: alle soglie del Giorno dell’Orrore, la tensione internazionale era alle stelle. Molti passanti avevano gli occhi incollati a smartphone e tablet, per aggiornarsi sulle ultime notizie. Forse intuivano che questa non era una crisi come le altre.
   Percorrendo il piazzale davanti al Palazzo di Vetro, Jaylah notò una strana opera d’arte. Si trattava di una grande sfera bronzea dall’involucro liscio, lucidato a specchio. Alla perfezione dell’esterno si contrapponeva l’interno, osservabile attraverso la superficie fratturata come quella di una melagrana matura. Lì tra le ombre s’indovinavano ruote dentate e altri taglienti meccanismi. Non serviva essere critici d’arte per leggervi una metafora dell’animo umano, che dietro l’apparente serenità cela i peggiori tormenti, e più ancora della politica, che nasconde le sue macchinazioni dietro una facciata rassicurante.
   «È diverso da come l’immaginavo» disse Selmak, che accompagnava Jaylah in quel giro di perlustrazione. «Non sembra esserci un conflitto mondiale in corso». Il Sulibano aveva assunto sembianze umane per passare inosservato. Di regola la sua specie non aveva capacità metamorfiche, ma alcuni militari si sottoponevano a estesi potenziamenti, per acquisire questo e altri talenti. Così Selmak aveva preso l’aspetto del primo abitante del luogo che aveva incontrato: un tassista indiano dai lunghi baffi.
   «I teatri di guerra sono lontani da qui... per il momento» spiegò Jaylah, che si era documentata su quel periodo. «È difficile dire quando sia cominciato il conflitto, visto che da mezzo secolo c’è una continua escalation. Ma più che una guerra diretta tra nazioni è una guerra per procura. Gruppi di guerriglieri sono usati per strappare lembi di territorio, diminuendo la sfera d’influenza delle nazioni rivali. Stati canaglia hanno sviluppato armi nucleari e minacciano di usarle, se le Nazioni Unite non soddisfano le loro richieste. E ci sono gruppi terroristici che fanno stragi per incutere terrore e diffidenza, o cercano persino di farsi Stato. Alcuni hanno sterminato o costretto alla fuga interi gruppi etnici e minoranze religiose. Così ci sono fiumi di profughi, in fuga dalle zone di guerra, che mettono sotto pressione le nazioni che li accolgono.
   Molti altri migrano a causa dei cambiamenti climatici. La temperatura sale, i ghiacci polari si sciolgono e di conseguenza il livello dei mari si alza, sommergendo le coste. La desertificazione e l’abbattimento delle foreste fa sì che ogni giorno si estinguano piante e animali. Malgrado decenni di sforzi, le energie rinnovabili soddisfano solo una frazione del fabbisogno globale. Così le nazioni si sfidano per il controllo degli ultimi giacimenti di petrolio e gas naturale, in Medio Oriente e nell’Artico. È una catastrofe prevista da tempo, ma a cui nessuno ha saputo rimediare».
   «Se gli Umani hanno previsto tutto questo, perché non hanno intrapreso azioni correttive quando c’era ancora tempo?» chiese Adam. L’androide si era “mimetizzato” con un look da rapper di strada, che contrastava con il suo atteggiamento calmo e posato.
   «Juri me ne ha parlato, una volta» spiegò Jaylah, la più normale del terzetto. Aveva un look da turista, con jeans strappati, t-shirt e giacca sbottonata, occhiali da sole e un cappellino che nascondeva le antenne andoriane. «Gli interessi economici che ruotavano intorno ai combustibili fossili erano fortissimi. E le alternative non erano poi così appetibili. L’energia nucleare era ancora pericolosa, come dimostrarono alcuni orribili incidenti. Quanto alle fonti rinnovabili, il loro rendimento era ancora scarso. Una nazione che avesse cessato di usare combustibili fossili sarebbe finita immediatamente sul lastrico, incapace di mantenere la sua popolazione. Così era giocoforza restare legati a carbone, petrolio e metano. Juri diceva che non dobbiamo giudicare severamente gli abitanti di quest’epoca... ah, quanto vorrei che fosse con noi! Lui saprebbe come muoversi» ammise, assalita dai rimorsi.
   «Devo esortarla a concentrarsi sulla missione, Tenente» disse l’androide, nel suo tono tranquillo.
   «Ormai è da un po’ che ci aggiriamo qui attorno» notò Selmak. «I tricorder non rilevano traccia dei Na’kuhl. Forse dovremmo rientrare».
   «Negativo» disse Jaylah. «Voglio ridurre al minimo i teletrasporti e anche le comunicazioni con l’Excalibur. Se i Na’kuhl la scovano, siamo finiti». Alzò gli occhi, come se potesse vedere la crono-navetta occultata, in orbita sopra di loro.
   «Venendo qui non abbiamo trovato traccia del Reaper» ricordò Selmak. «Forse abbiamo sbagliato tempo».
   «È qui, invece» disse Jaylah. «Si sarà occultato come noi, per non farsi individuare. Ma i Na’kuhl sono già sbarcati».
   «Come può dirlo?» chiese Adam.
   «Sappiamo che l’alterazione temporale si è verificata in questo periodo. Vosk deve aver mandato i suoi agenti a saggiare il terreno, proprio come stiamo facendo noi. Tutto sta nel trovarli» rispose la mezza Andoriana, guardandosi attorno furtivamente. «Se non li scoviamo qui, presso le Nazioni Unite, dovremo andare al summit di Dubai. Ma prima ci occorrono più informazioni. Le fonti storiche sulla Terza Guerra Mondiale sono confuse e frammentarie. Molto è andato perduto e molto altro è stato manipolato. La nostra banca dati non basta, voglio notizie di prima mano».
   «Potremmo comprare un... come si chiama? Un giornale» suggerì Selmak.
   «È da quando siamo scesi che cerco un’edicola, ma ancora non ne ho viste» disse Jaylah, guardandosi attorno. «Forse dovremmo andare in un quartiere più popolare».
   «In questi anni la concorrenza delle testate online ha già messo in crisi la carta stampata» spiegò Adam. «Suggerisco di connetterci alla rete informatica mondiale».
   «Ci sono accessi pubblici?» chiese il Sulibano.
   «Dovrebbero» rispose l’androide, esaminando i dintorni con i sensori interni. «Ecco» disse, indicando quello che sembrava uno snack bar. L’insegna diceva Flint’s Cyber Café.
   «Cyber caffè?» fece Selmak, sorpreso.
   «È un bar che funge anche da internet point, con computer connessi alla rete» chiarì l’androide.
   «Ah, allora questa gente non è poi così barbara!» esclamò il Sulibano, avviandosi tutto contento.
   «Penso che per l’uso dei computer ci sia da pagare una tariffa, proporzionale al tempo di fruizione» aggiunse Adam.
   «Come non detto» fece Selmak, bloccandosi a pochi passi dall’entrata. «Come funziona qui, c’è la moneta elettronica?».
   «Sì, ma per le spese spicciole si usa ancora il contante» rispose Jaylah, prevenendo l’androide. «E poi le transazioni elettroniche sono tracciabili, mentre noi dobbiamo passare inosservati. Non attiriamoci la polizia! Anche perché i poliziotti di New York avevano il grilletto facile».
   «Di bene in meglio» mugugnò Selmak. «Allora ci serve un po’ di grana. Il replicatore dell’Excalibur può fornircela?».
   «È programmato per cinque milioni di prodotti, ma la valuta americana del XXI secolo non è tra queste» informò Adam.
   «Se pesco chi l’ha progettato...! Le valute locali dovrebbero essere la prima fornitura dei replicatori delle crono-navette» borbottò Jaylah. «Okay, faremo alla vecchia maniera».
   «Che, rapiniamo una banca?!» si preoccupò Selmak.
   «Niente di così drammatico. Vede quello? Si chiama “bancomat”» spiegò Jaylah, indicandogli uno sportello automatico all’ingresso di un istituto di credito. «Il cliente inserisce una tessera e preleva la somma necessaria... a patto di averla sul conto corrente, ovvio. Il nostro passepartout dovrebbe essere in grado di hackerarlo» disse, porgendogli un dispositivo informatico che teneva nella borsa da turista.
   «Perché io? Sono quello che conosce meno l’antica tecnologia terrestre!» si lamentò il Sulibano.
   «Ma dopo aver prelevato può cambiare aspetto» puntualizzò Jaylah. «Anche in quest’epoca c’è la sorveglianza... e come dicevo, non dobbiamo tirarci dietro la polizia» aggiunse, accennando alla telecamera di sicurezza che inquadrava il bancomat.
 
   Di lì a poco Selmak tornò con alcune centinaia di dollari in contanti, che distribuì ai colleghi. Il terzetto svoltò in un vicolo, dove il Sulibano cambiò fisionomia per rendersi irriconoscibile. Gettò anche la giacca, restando in camicia. Tornati nella strada affollata, i federali poterono finalmente entrare nel Cyber Cafè.
   «Benvenuti; io sono Flint» li accolse il proprietario, un uomo dai lineamenti aristocratici e i capelli grigio argento. «Siete turisti, vero? Ditemi cosa posso servirvi. Abbiamo un vasto assortimento di alcolici, ma forse a quest’ora della giornata volete qualcosa di più frizzante».
   «La ringrazio, ma al momento non necessitiamo di supplementi nutritivi. Vorremmo invece usufruire di un collegamento alla rete informatica globale» rispose Adam. Flint lo fissò un po’ sorpreso da quel linguaggio formale, che stonava con il look da rapper. Jaylah gli diede una discreta gomitata nel fianco. «Linguaggio» mormorò.
   «Ah ah, che faccia, fratello! Su, dacci un accesso, che mi tuffo in rete!» ridacchiò Adam, entrando in modalità recitativa.
   «Certo, da questa parte. Abbiamo connessioni moderne e veloci» disse Flint, conducendoli a una fila di monitor, separati da divisori in legno. «Le tariffe sono modiche» aggiunse, accennando al listino prezzi sulla parete.
   «Grazie» disse Jaylah, accomodandosi sulla sedia.
   «Non volete bere proprio nulla? Abbiamo degli ottimi espressi all’italiana» insisté Flint.
   «D’accordo, ce ne porti tre» disse Jaylah, per dargli soddisfazione ed evitare che le ronzasse intorno più avanti. Pagata la connessione e i tre espressi, poté finalmente consultare i giornali online. Trovò diversi articoli di geopolitica, che lesse assieme ai colleghi. Dopo di che cercò dei video di notiziari recenti, per farsi un quadro più ampio della situazione. Sorseggiando il suo espresso, la mezza Andoriana ascoltò un giornale radio di tre giorni prima, il cui titolo l’aveva incuriosita.
   «Ultime notizie. Il deterioramento delle relazioni fra l’Occidente e la Coalizione Orientale, unito al surriscaldamento climatico, ha indotto il Bulletin of the Atomic Scientists ad aggiornare l’Orologio dell’Apocalisse. Questo cronometro virtuale, ideato nel 1947, segna idealmente il tempo che ci separa dal conflitto atomico. Settato inizialmente a 7 minuti dalla mezzanotte, l’Orologio raggiunse la distanza massima di 17 minuti nel 1991, col termine della Guerra Fredda e il trattato sulla riduzione delle armi strategiche. Da allora, salvo brevi periodi, non ha fatto che riavvicinarsi. Quest’ultimo spostamento, di mezzo minuto, porta l’Orologio più vicino che mai all’Apocalisse. Mancano infatti solo trenta secondi a mezzanotte».
   Jaylah fermò il video e deglutì. Trenta secondi a mezzanotte. Era una metafora per indicare la probabilità del conflitto, ma era efficacissima nel mostrare quanto si era vicini alla catastrofe. Occidente e Oriente, NATO ed ECON, erano in procinto di trasformare la guerra per procura in conflitto aperto.
   «Sorprendente» commentò Adam. «L’umanità è conscia della rovina incombente, ma non riesce a fermare il suo cammino autodistruttivo».
   «L’umanità non ha una sola testa» mormorò Jaylah, e fece ripartire il video.
   «Tra le cause dello spostamento di lancetta, la rivista dell’Università di Chicago ha addotto le recenti dichiarazioni del Colonnello Green, il “falco” del Pentagono. Ricordiamo che, da quando ha perso le elezioni, Green ha costantemente criticato il Presidente Mendoza per la politica “troppo accomodante” nei confronti della Coalizione Orientale. Sebbene non abbia seggi in Congresso, il Movimento Ottimale di Green – da molti considerato una forza eversiva – continua la propaganda nelle piazze e sui social media. Giusto la settimana scorsa, Green ha dichiarato che l’ECON non avrà mai accesso ai giacimenti petroliferi nell’Artico. Si è anche detto favorevole alle applicazioni militari della ricerca eugenetica, sostenendo che gli errori del passato non devono ostacolare il progresso scientifico.
   Alle dichiarazioni di Green fanno da contraltare quelle di Lee Kuan. Il leader della Coalizione Orientale ha infatti dichiarato che se non ritireremo le nostre truppe dal Medio Oriente entro la fine del mese, sarà costretto a intervenire militarmente. Questo venerdì, nelle maggiori città dell’ECON, grandi folle hanno manifestato in piazza al grido di “Morte all’America!”, bruciando le nostre bandiere. Il segretario di Stato dell’ECON, la neo-eletta Kamala Singh, è attualmente in visita al Palazzo di Vetro col difficile compito di trovare un accordo.
   Sul versante climatico, infine, il Bulletin cita i devastanti effetti del surriscaldamento globale, che ha provocato innalzamento dei mari e desertificazione. Questi due fattori sono oggi la principale causa delle migrazioni, oltre che della perdita di biodiversità. È ancora fresco, nella nostra memoria, il triste comunicato dell’Istituto Oceanografico di San Francisco. L’ultima coppia di balene megattere nota agli scienziati è stata trovata morta a inizio anno, spiaggiata sulle coste californiane. Si ritiene che la causa del decesso sia l’intossicazione da rifiuti plastici. Il Bulletin conclude con questa nota: ciò che iniziò un secolo fa come esercizio intellettuale è divenuto oggi un autentico conto alla rovescia per l’Apocalisse. Se i leader mondiali non adotteranno contromisure drastiche e immediate, potrebbe non sopravvivere nessuno per spostare le lancette oltre la mezzanotte».
   «Gli piacerebbe sapere che il Capitano Kirk riporterà due megattere dal passato» mormorò Jaylah. «Beh, finora sembra tutto a posto. Cioè, è un macello, ma è così che deve andare. Ricordate che i Na’kuhl vogliono impedire la guerra. E non lo fanno per altruismo. Senza la Federazione potranno schiacciare i nostri popoli uno dopo l’altro. Quindi dobbiamo assicurarci che la Storia faccia il suo corso... per quanto orribile».
   «Non l’ho dimenticato» disse Selmak.
   Jaylah si morse la lingua. Era a se stessa che lo ripeteva in continuazione. Ma per quanto lo facesse, non riusciva a convincersi che consentire lo scoppio della guerra fosse giusto. «Voglio notizie aggiornate» disse, cercando video più recenti. Ne trovò uno di argomento scientifico che attirò la sua attenzione per il nome che vi compariva.
   «Il Congresso Internazionale di Astrofisica è stato scosso dall’intervento di un giovane fisico del Montana, Zefram Cochrane. Il dottor Cochrane, esperto in fisica teorica, ha presentato le sue “equazioni di curvatura”, che dimostrerebbero la possibilità di viaggiare a velocità pari o anche superiore alla luce. Il segreto starebbe nel creare un “campo di curvatura” che pieghi il tessuto spazio-temporale attorno a un’ipotetica nave stellare. Le sue equazioni, tuttavia, sono state accolte con scetticismo dalla comunità scientifica. Mentre la loro validità è ancora al vaglio degli esperti, la sfida ingegneristica di costruire la navicella teorizzata da Cochrane appare insormontabile. Le energie necessarie sarebbero tali che solo una reazione controllata materia-antimateria potrebbe fornirle. Ma la produzione di antimateria è comunque più dispendiosa, dal punto di vista energetico, della resa finale. Dunque le astronavi come quelle cui ci ha abituati la fantascienza resteranno una fantasia...».
   «A volte la realtà supera la fantasia» si disse Jaylah, abbozzando un sorriso. L’umanità aveva speranza, dopotutto. I semi della rinascita erano già lì, pronti a germogliare dopo l’inverno nucleare. Ma la mezza Andoriana tornò subito seria. Era lì per comprendere la situazione politica, non per cercare le tracce della prossima rivoluzione scientifica. Così tornò a cercare notiziari di attualità politica, finché ne trovò uno che era stato postato da pochi minuti.
   «Ultime notizie! Clamorosa svolta nelle trattative all’ONU. Con una mossa inaspettata, il Colonnello Green – uno dei più strenui oppositori all’accordo – si è fatto promotore di una nuova conferenza di pace. Tutti i capi di Stato delle nazioni coinvolte nel braccio di ferro politico-economico sono stati invitati. Per evitare le tensioni derivanti dal decidere le sorti mondiali sul suolo americano, la nuova conferenza si terrà all’estero. Fonti non confermate sostengono che avverrà a Dubai, entro la fine del mese».
   Il servizio mostrò Green che teneva il suo discorso infervorato al Palazzo di Vetro. Era un uomo alto e magro, dai capelli neri e le sopracciglia folte, sotto cui scintillavano due occhi infidi. Jaylah ricordò che era passato alla Storia proprio per aver colpito gli avversari durante le trattative, oltre che per il genocidio post-atomico. Eppure in quel momento i delegati di quasi duecento nazioni lo applaudivano, sperando che la sua proposta li avrebbe salvati.
   «Il segretario di Stato dell’ECON, Kamala Singh, ha immediatamente accettato l’offerta, definendola l’ultima occasione per scongiurare il reciproco annientamento. Ha promesso che, se Mendoza sarà presente, anche Kuan parteciperà al summit. C’è grande attesa all’ONU: si spera in un incontro fra i due leader e magari in una stretta di mano che stemperi la tensione. Proprio ora la diplomazia è al lavoro per realizzare questo evento. Tra le nazioni che hanno già confermato la loro partecipazione vi sono...».
   Il resto del servizio era un elenco delle nazioni partecipanti, di cui si mostravano i leader. Oltre all’Unione Europea e ai colossi asiatici, anche molti Paesi islamici e sudamericani avrebbero partecipato. Alcune presenze erano incerte, specialmente nell’intricato scacchiere mediorientale, ma Jaylah sapeva che alla fine avrebbero accettato. L’Agente Temporale osservò attentamente i vari leader, man mano che erano inquadrati, memorizzandone nomi e fisionomie. Poi riavvolse il video, soffermandosi su alcune figure chiave dei prossimi eventi: Mendoza, Kuan, Green. Li conosceva come personaggi storici, ma vederli quasi in diretta faceva un certo effetto. C’era una sola figura che la lasciava interdetta: Kamala Singh. Di lei sapeva poco o nulla.
   Incuriosita, Jaylah fermò il video nel momento in cui il segretario di Stato era inquadrata, durante il discorso all’ONU. Era una donna molto giovane, considerata l’altissima carica che ricopriva. Bella di lineamenti, aveva grandi occhi neri e pelle ambrata. Il viso era incorniciato da un velo islamico rosso scuro, del tipo a hijab, che copriva gola e capelli. Parlava un inglese così perfetto che non si coglieva neppure l’accento, sebbene non fosse la sua lingua madre.
   «Che sta pensando?» chiese Selmak, notando l’aria assorta di Jaylah.
   «Quella donna... è una figura chiave di questo periodo, ma non la conosco» confessò Jaylah.
   «Il mio database storico contiene pochissime informazioni su di lei» disse Adam. «È salita alla ribalta della scena politica pochi anni fa, ma ignoro le sue origini. Sembra tuttavia che non sia sopravvissuta al Giorno dell’Orrore, che avrà luogo tra meno di un mese».
   «Uhm...» fece Jaylah, continuando a studiarla. Aveva la sensazione che fosse importante saperne di più, perciò fece una ricerca su internet. Ma scoprì con sgomento che anche i contemporanei sapevano poco di Kamala. La sua biografia si riduceva a poche righe e molte informazioni erano segnalate come incerte.
   «Mezza indiana – di etnia sikh – e mezza pakistana... non dev’essere un retaggio facile da amalgamare» mormorò Jaylah, conoscendo l’ostilità tra le due nazioni. «Nata probabilmente nel 2020... frell, ha poco più di trent’anni!» imprecò. Per avere una carriera così fulminante nella Coalizione Orientale servivano un quoziente intellettivo da genio e pochi scrupoli.
   «Non si conosce nulla dei suoi primi dieci anni di vita. A venti era già laureata in economia, giurisprudenza e scienze politiche. Parla fluentemente otto lingue: inglese, russo, cinese, hindi, persiano, arabo, punjabi e pashtu. Inizialmente si è fatta un nome come avvocato, difendendo le donne vittime di abusi. Poi è passata alla carriera politica, bruciando le tappe, finché a inizio anno è diventata segretario di Stato dell’ECON. È considerata una delle figure più vicine al Presidente Kuan, ma s’ignora quanto effettivamente ne influenzi la politica. In ambito diplomatico è nota per le sue posizioni moderate, inclini al dialogo con l’Occidente, tanto che è candidata al Nobel per la Pace. Tuttavia in alcune questioni si è rivelata così inflessibile che i detrattori la chiamano Miss Uranio Arricchito. Niente marito, niente figli, nessuna relazione sentimentale conosciuta. Nel corso della sua carriera è sopravvissuta a quattro attentati».
   Jaylah smise di leggere, essendo giunta in fondo al trafiletto. Di tutte le notizie sorprendenti sul suo conto, solo l’ultima le faceva intuire qualcosa sul suo carattere. Una sopravvissuta: questo era Kamala Singh. Ed essendo scampata lei stessa a molte avversità, Jaylah sapeva che i sopravvissuti possono fare grandi cose, nel bene o nel male.
   «Una personalità interessante, vero?» commentò Flint, il gestore del Cyber Café, apparendo alle spalle di Jaylah. Aveva visto l’immagine di Kamala sullo schermo. «Tipi così non si vedono spesso, in politica».
   «Eh? Ah, già» fece la mezza Andoriana, imbarazzata dall’intrusione. «Ha sentito dell’incontro a Dubai?».
   «Ho letto adesso la notizia» annuì Flint. «Chissà... forse è la volta in cui le cose cominciano a sistemarsi. Certo che il Colonnello Green... chi se l’aspettava!».
   «Non si fida di lui, eh?» chiese Jaylah, interessata a sapere l’opinione dei comuni cittadini.
   «Neanche un po’. Quella è una mela marcia, ve lo dico io! Non avrete mica votato per lui alle presidenziali, vero?!» s’insospettì, osservando i tre strani clienti.
   «Posso dirle, in tutta onestà, che nessuno di noi ha mai votato per Green» lo rassicurò Jaylah. «E di lei invece che pensa?» chiese, additando l’immagine di Kamala.
   «Uhm... credo che non abbia ancora scoperto le sue carte» disse Flint, meditabondo. «Molti hanno fiducia in lei... sperano che raffreni Kuan. Io però credo che non si arrivi così in alto, e così in fretta, con la prudenza. Ma ditemi... volete un’altra ora di connessione?» chiese.
   Jaylah si accorse che avevano sforato il tempo per cui si erano prenotati. «No, penso che siamo a posto. Grazie mille, buona giornata. E complimenti per l’espresso, era ottimo» disse, alzandosi. Adam e Selmak la imitarono.
   «Buona giornata a voi» rispose Flint. «Godetevi le vacanze a New York, finché il tempo si mantiene».
 
   I tre Agenti in borghese lasciarono il locale, prima che la loro presenza attirasse troppo l’attenzione. Per il resto della giornata gironzolarono attorno al Palazzo di Vetro e ad altre strutture dell’ONU, facendo analisi. Non rilevarono la presenza di Na’kuhl nella zona, né di tecnologie riconducibili a loro. A sera Jaylah decise di rientrare sulla navetta. Il terzetto lasciò Manhattan, recandosi in un quartiere popolare e svoltando in viuzze sempre più strette. Quando furono al riparo da sguardi indiscreti, Jaylah levò di tasca il comunicatore. «Chase a Excalibur, teletrasporto per tre» ordinò. Il raggio azzurro li riportò sulla navetta temporale, nell’orbita terrestre.
   «Novità?» chiese subito la mezza Andoriana.
   «Abbiamo dovuto effettuare parecchie variazioni orbitali, per non urtare i rottami spaziali» rispose il pilota. «Gli Umani sono riusciti a inquinare anche lo spazio, oltre al loro pianeta».
   «Ma l’analisi dei satelliti artificiali ha dato risultati interessanti» disse un altro Agente, un Malcoriano di nome Lavin. «Abbiamo rilevato ben 72 satelliti EMP, capaci di generare impulsi elettromagnetici così forti da creare il black-out globale. Di questi, 35 sono della NATO e 37 dell’ECON».
   «Li useranno per fermare i missili balistici» riconobbe Jaylah. «Purtroppo non li bloccheranno tutti. E riguardo a Vosk?».
   «Abbiamo analizzato tutto il pianeta, ma non c’è traccia né dei Na’kuhl, né della loro tecnologia» rispose il Malcoriano.
   «Eppure, se vogliono modificare gli eventi, devono essere da qualche parte» borbottò Jaylah.
   «Siamo solo diciassette: troppo pochi per sparpagliarci nel mondo» notò Selmak, che aveva ripreso le sembianze normali. «Dobbiamo selezionare uno o due punti chiave e focalizzarci su quelli. Io starei appiccicato ai due Presidenti, Mendoza e Kuan. Abbiamo le tute occultanti, quindi possiamo infiltrarci nelle loro sedi senza essere rilevati».
   «I due Presidenti s’incontreranno a Dubai fra pochi giorni, assieme agli altri leader mondiali» notò Adam. «A quel punto ci sarà l’attentato che, a detta degli storici, scatenò... cioè scatenerà... il conflitto atomico. Se i Na’kuhl conoscono la Storia, sapranno che non c’è momento più cruciale di questo».
   Gli Agenti fissarono la caposquadra, in attesa del verdetto.
   «Concordo con Adam» disse Jaylah dopo una breve riflessione. «Li troveremo al summit. Nel frattempo continueremo a cercarli coi sensori. Studieremo il luogo dell’incontro ed elaboreremo un piano per pattugliarlo. Così, quando i Na’kuhl si faranno avanti, li bloccheremo».
   «Sono più numerosi di noi» notò Selmak. «Non dovremmo attivare il faro temporale e chiamare la Keter? Supponendo che si sia salvata».
   Sguardi preoccupati corsero fra gli Agenti. Senza il supporto della Keter, la loro missione appariva impossibile.
   «Conosco Dib e gli altri. Se c’è la minima possibilità di rimettere in sesto la nave, lo faranno» disse Jaylah con convinzione. «Ma il faro temporale potrebbe farci scoprire dai Na’kuhl. Non lo accenderò prima di averli individuati con certezza».
   «E se ci scovassero loro per primi?» chiese il Sulibano, fissandola con gli occhi gialli, dalle pupille ad asterisco.
   «È un rischio che dobbiamo correre» rispose la mezza Andoriana. Andò a una consolle e richiamò i dati sull’attentato di Dubai. «Dobbiamo calcolare bene i tempi d’intervento. Se tutto va come previsto, il summit si aprirà a mezzogiorno del 21 aprile. Mendoza e Kuan si stringeranno la mano, poi ciascuno dei due farà un discorso. A seguire parleranno gli altri capi di Stato. All’una meno cinque, mentre il presidente brasiliano prende la parola, il Colonnello Green lascerà la sala. Cinque minuti dopo esploderà la bomba».
   «Che tempismo» commentò Selmak, con un sorriso ironico.
   «Gli storici non sono unanimi nell’incolparlo. Ma sì, sarebbe nel suo stile» convenne Jaylah, continuando a leggere i dettagli. «Gran parte dei leader mondiali resterà uccisa, creando panico e accuse reciproche tra le nazioni. Tra i pochi superstiti ci saranno Mendoza e Kuan, i leader delle superpotenze che tra poco si combatteranno. Uhm, vediamo un po’... la bomba sarà nascosta in una valigetta. Se i Na’kuhl si sono informati, cercheranno d’intercettarla prima che entri in sala. Noi invece dobbiamo far sì che arrivi a destinazione... e che esploda» disse con un certo sforzo.
 
   Quella sera, mentre i suoi Agenti riposavano nella sezione mediana della navicella, Jaylah si recò in cabina. Trovò Adam al timone. L’androide non aveva bisogno di dormire, perciò stava sempre ai comandi nel turno di notte. All’arrivo di Jaylah si girò parzialmente verso di lei.
   «Riposo» disse la caposquadra, accomodandosi a una consolle secondaria. «Voglio consultare il database storico».
   «Le raccomando di non privarsi di troppo sonno» disse Adam. «L’attendono giorni impegnativi».
   «Sì, mammina» rimbeccò Jaylah. Non le piaceva quando l’androide si mostrava così puntiglioso, anche se lo faceva a fin di bene. Avendo compreso il sarcasmo, Adam si rigirò verso i comandi e non la disturbò più.
   La mezza Andoriana si documentò sugli eventi che stavano per verificarsi, dall’attentato di Dubai fino al Giorno dell’Orrore. Cercò di approfondire gli aspetti su cui era meno ferrata, mettendo in relazione quanto leggeva con ciò che aveva appreso nella ricognizione. Ricontrollò anche la biografia di alcune figure chiave, per farsi un’idea della loro personalità. Visto che le informazioni su Kamala Singh erano scarse, si concentrò su Philip Green.
   Il famigerato Colonnello si era formato sui peggiori campi di battaglia del Medio Oriente. Aveva passato tre mesi ostaggio di un gruppo armato, prima d’essere liberato con un’operazione di commando. Era noto per l’ascendente sulle truppe, ma anche per le decisioni imprevedibili, al limite del voltafaccia. Ed era notoriamente oltranzista nei confronti della Coalizione Orientale. Tutto ciò non lo aveva aiutato durante le elezioni presidenziali, perse contro Mendoza. Ma le sue ambizioni politiche erano tutt’altro che sepolte. Il Movimento Ottimale, accusato di fomentare l’eco-terrorismo e l’eugenetica, trovava ascolto presso le fasce più impoverite e disilluse della popolazione. Jaylah lesse alcuni estratti dei suoi discorsi. C’era molto populismo, ma questo era tipico della politica del periodo, sia di destra che di sinistra.
   A un certo punto la mezza Andoriana interruppe la lettura. Ne aveva abbastanza del Green pre-guerra atomica. Voleva vederlo dopo il bombardamento nucleare. Trovò un filmato d’epoca: uno stralcio di discorso che il Colonnello aveva pronunciato nel 2056, quando il mondo era ancora a pezzi e l’armistizio fra le nazioni era precario. Jaylah lo visualizzò su un piccolo oloschermo.
   Il Colonnello – a quell’epoca dittatore del nord-ovest americano – parlava in una sala conferenze dal soffitto alto, gremita di folla. Dietro di lui, una grande vetrata lasciava trasparire la luce gialla e malata dell’inverno nucleare. C’era anche una bandiera con un rapace nero in atteggiamento torvo, più simile all’aquila nazista che a quella americana. Vestito con l’uniforme nera del Movimento Ottimale, Green parlava in tono incalzante, interrompendosi solo per consentire alla folla di applaudire. E gli applausi scrosciavano quasi a ogni sua frase.
   «All’ombra di questa incalcolabile devastazione, dobbiamo quindi affrontare una sfida colossale. Abbiamo qui tutto un mondo da ricostruire. E non parlo solo di città e case, ma dell’umanità stessa! Non c’è più tempo per le incertezze e i ripensamenti. Non possiamo permetterci di dubitare di noi stessi. Se non agiremo con forza e decisione, alle future generazioni tramanderemo solamente mutazioni e decadimento. Per la salvezza dei nostri figli, e per quella dei figli dei figli» Green si portò una mano al cuore «dobbiamo individuare tutto quello che c’è d’impuro, e dobbiamo gettarlo via!».
   Sentendo il pubblico che applaudiva ancora, Jaylah spense il video. Non era la distanza dal presente a disgustarla, ma la vicinanza. Anche nella civilissima Unione i portatori di difetti genetici erano spesso eliminati, “nel loro migliore interesse”, anche se non si aspettava la nascita per farlo. E c’erano fior di personalità convinte che fosse legittimo sbarazzarsi degli imperfetti anche dopo che erano venuti al mondo. I loro discorsi erano applauditi quanto quello di Green; l’unica differenza era il linguaggio politicamente corretto.
   Jaylah sospirò, stropicciandosi gli occhi. A spaventarla non era l’eventualità di trovarsi faccia a faccia con Green. No, era la prospettiva d’incontrarlo e di dovergli salvare la vita, per consentire alla Storia di compiere il suo corso luttuoso.
 
   Dopo due settimane di osservazioni e preparativi, venne il giorno del summit mondiale. Gli Agenti Temporali avevano studiato la planimetria della sede dell’incontro, uno dei più alti grattacieli di Dubai. Per muoversi liberamente alcuni di loro indossarono le tute occultanti. Altri si travestirono, per sostituirsi a giornalisti e sorveglianti. Selmak invece non aveva bisogno di mascherarsi, date le sue capacità metamorfiche.
   Avendo forze limitate, Jaylah non voleva privarsi di nessun elemento. Ma sapeva che forse tra loro si celava un traditore. Portarselo in missione era pericoloso; ma affidargli l’Excalibur lo era ancora di più. Eppure qualcuno doveva rimanere, per teletrasportare gli altri e non lasciare incustodita la navicella. Jaylah pensò per giorni a chi lasciare. Cercò di sondare discretamente i pensieri dei suoi Agenti, per individuare il traditore, ma non ottenne risultati conclusivi. Tutti gli Agenti Temporali erano addestrati a schermare i propri pensieri. E anche se avessero abbassato la guardia, i poteri di Jaylah erano tutt’altro che infallibili. Le era già capitato di prendere delle cantonate, per cui non si fidava troppo delle sue capacità. Alla fine, quando gli Agenti le chiesero chi sarebbe rimasto, la sua scelta cadde su Adam. L’androide le pareva il più incorruttibile, sempre che nessuno avesse manomesso il suo cervello positronico.
   «Bene, signori... ci aspetta la missione più importante delle nostre vite» disse Jaylah quando furono tutti pronti e radunati. «Non esagero a dire che il destino dell’Unione dipende da noi. Dobbiamo fermare i Na’kuhl senza farci riconoscere dai terrestri. E possibilmente senza trovarci nel salone delle conferenze, quando esploderà la bomba. Non è la missione che immaginavamo... ma è quella di cui l’Unione ha bisogno. Quindi portiamola a termine».
   Ciò detto, la caposquadra si rivolse all’androide: «Adam, il suo compito sarà il più importante. Appena saremo sbarcati attivi il faro temporale. Con un po’ di fortuna la Keter ci raggiungerà all’istante. La informi della situazione. E stia in guardia se, come temo, il faro attirerà anche il Reaper. Ci servirà il suo teletrasporto per andarcene».
   «Terrò costantemente monitorati i vostri segni vitali» promise l’androide. «Buona fortuna, Tenente».
   Augurandosi di aver fatto la scelta giusta, Jaylah accompagnò i colleghi nella sezione di poppa della navicella, dove c’era il teletrasporto. Dopo essersi accertati che l’occultamento e i travestimenti fossero in ordine, salirono a coppie sulla piccola pedana. E furono trasferiti sulla Terra.
 
   Il primo impatto con Dubai fu notevole. I grattacieli erano così fitti e avveniristici che per un attimo Jaylah si sentì a casa, come se fosse tornata in una metropoli federale. Ma girando per le strade la differenza saltò subito all’occhio. Gli abitanti erano – ovviamente – tutti Umani. Le loro automobili a combustione, inquinanti e rumorose, erano assai diverse dai veicoli silenziosi ed ecologici del XXVI secolo. Anche le regole sociali erano ben altre, come testimoniava l’alta percentuale di donne velate, in modo più o meno pronunciato.
   Jaylah aveva optato per travestirsi da giornalista occidentale, contando di avere un certo margine di manovra. Le sue antenne andoriane (molto esili in quanto era mezza Umana) stavano nascoste sotto i capelli biondo platino. Per celarle meglio avrebbe potuto indossare un velo poco invadente, come facevano quasi tutte le occidentali invitate al summit, ma non volle farlo per una questione di principio. Accanto a lei, anche Selmak era in tenuta da giornalista. Mentre la mezza Andoriana impersonava la speaker col microfono, il Sulibano – riprese sembianze umane – faceva il cameraman. Jaylah l’aveva voluto con sé per tenerlo d’occhio. Selmak era in cima alla sua lista dei sospetti, per l’atteggiamento provocatore che aveva avuto fin dalla prima missione congiunta.
   I due visitatori del futuro procedettero nella città blindata per il summit. Il traffico era deviato dall’intero quartiere; a ogni incrocio c’erano poliziotti che facevano passare solo le persone autorizzate. Erano armati di taser, ma anche di pistole e fucili della polizia. E c’erano soldati veri e propri, in tuta mimetica e con armi da guerra, che si muovevano sulle loro camionette. Il cielo era pattugliato da elicotteri militari, gli unici ammessi nella no-fly zone che copriva l’intera città. Persino i tombini erano sigillati, per impedire che qualcuno vi nascondesse sotto delle bombe. Nel complesso la gestione della sicurezza sembrava efficiente.
   Certo, con il mondo sull’orlo del collasso bisognava aspettarsi contestazioni da parte dei civili. Ne erano giunti migliaia, da ogni angolo del pianeta, e il loro numero continuava ad aumentare. Molti erano lì per ragioni legittime. Ma come sempre accade in questi casi, c’erano anche i facinorosi. Jaylah sentì esplodere delle molotov e intravide nuvole di gas lacrimogeni, lanciati dalla polizia per disperdere le cariche di manifestanti. Agenti in tenuta antisommossa trascinarono alcuni scalmanati in una camionetta, che partì a sirene spiegate.
   Ma il peggio doveva ancora venire. Un giovane manifestante si versò addosso della benzina, che aveva portato in una tanica. Dopo aver perorato la sua causa, cavò di tasca un accendino e si dette fuoco per protesta. Avvampò come una torcia, mentre gli spettatori filmavano la scena con gli smartphone, anziché intervenire per salvarlo. Scioccata, Jaylah si fece avanti per soccorrerlo, anche se non aveva di che spegnere le fiamme. Ma Selmak l’afferrò per un polso e la tirò bruscamente indietro. «Basso profilo, ricorda?» le sussurrò all’orecchio. «Se si mette in mostra, la porteranno in centrale per interrogarla! Una sola vita non può eguagliare le sorti della Galassia».
   A malincuore la caposquadra si allontanò dal luogo dell’immolazione. La vittima era a terra, mentre alcuni poliziotti cercavano di spegnere le fiamme con una coperta. Una sirena squillante annunciò l’arrivo di un’ambulanza della Mezzaluna Rossa. Il dimostrante si sarebbe salvato? Jaylah non lo seppe mai.
 
   Superati i controlli di sicurezza all’ingresso, i due Agenti entrarono nel grattacielo che fungeva da sede degli incontri. Era tra i più alti della città e del mondo, un prodigio d’ingegneria. Le forze dell’ordine presidiavano ogni piano, smistando diplomatici e giornalisti. Jaylah e Selmak restarono imbottigliati nella calca, man mano che salivano, il che impedì loro di contattare i colleghi. Cercarono di districarsi, finché riuscirono ad appartarsi in un bagno.
   «Chase a squadra, rapporto» ordinò la mezza Andoriana, parlando nel comunicatore nascosto nel microfono. Uno dopo l’altro gli Agenti confermarono d’essere in posizione o in procinto di occuparla. «Chase ad Adam, ci mandi l’equipaggiamento alle nostre coordinate» disse poi Jaylah. L’androide teletrasportò i tricorder, i phaser e altri strumenti che gli Agenti non avevano potuto portarsi dietro, dovendo superare i controlli di sicurezza. Certo, avrebbero potuto teletrasportarsi direttamente all’interno del palazzo, risparmiando tempo. Ma preferivano farsi vedere dalla sicurezza all’ingresso, per evitare d’essere poi segnalati come facce sconosciute. «Okay, c’è tutto» disse Jaylah, nascondendo l’equipaggiamento nella borsetta. «Ha attivato il faro temporale?».
   «Affermativo, ma non c’è traccia della Keter» rispose l’androide.
   «Forse i nostri si tengono a distanza, mentre studiano la situazione» ipotizzò Jaylah. Doveva essere così, o tutto era perduto. «Resti in attesa, Adam. E non si esponga per cercare la Keter. Chase, chiudo».
   «O magari i suoi colleghi non ce l’hanno fatta e noi siamo soli» commentò Selmak.
   «Sì, può darsi. Ma le consiglio... no, le ordino di non parlare in questi termini ai miei Agenti. Il loro morale è già appeso a un filo» disse la mezza Andoriana.
   «Certo, il capo è lei» fece il Sulibano, in un tono che non le piacque.
   «Che ore sono... le dieci e tre quarti. Siamo in orario» mormorò Jaylah, consultando l’orologio da polso. Ripassò mentalmente il piano per l’ennesima volta. «Individuare la valigetta esplosiva. Riconoscere e bloccare i Na’kuhl prima che la intercettino. Lasciare la sala prima dell’esplosione». Detto così sembrava facile, ma c’erano un’infinità di cose che potevano andare storte. Specialmente se la Keter non si faceva viva.
   Sbrigate queste faccende, i federali stavano per uscire dal bagno, quando la porta fu aperta dall’esterno. Si trovarono di fronte un alto diplomatico di un Paese arabo. Il funzionario aggrottò la fronte nel vedere Jaylah e Selmak che uscivano entrambi dal bagno degli uomini.
   «Eh, eh... il mio collega deve ancora completare la transizione» ridacchiò Selmak, inventandosi una scusa lì per lì.
   «Occidentali!» borbottò il diplomatico, scuotendo la testa. Entrò nel bagno, mentre i federali si allontanavano più svelti che potevano.
 
   Riunitisi al gruppo dei giornalisti, Jaylah e Selmak cercarono di analizzare le persone che avevano intorno, senza dar troppo nell’occhio. La mezza Andoriana aveva indossato degli occhiali a realtà aumentata, che le permettevano di penetrare il mascheramento olografico e alcuni tipi di occultamento. Sperava così d’individuare i Na’kuhl infiltrati.
   Le forze di sicurezza scortarono i giornalisti in un’anticamera che non doveva trovarsi lontana dal salone delle conferenze. «Un momento d’attenzione, prego» disse un incaricato, battendo un paio di volte le mani. «Sono le undici, il summit comincerà tra un’ora. Fra quaranta minuti vi scorteremo nell’aula del summit. Vi ricordo di tenere pronto il tesserino col numero di posto che vi è stato assegnato. Vi rammento inoltre che nella giornata odierna sono vietate le domande. Solo nei prossimi giorni ci saranno momenti in cui potrete porre quesiti ai capi di Stato e al loro staff».
   Mentre l’addetto continuava a fornire istruzioni, Jaylah si accostò a Selmak. «Ci siamo, nemico a ore tre» bisbigliò.
   «Dove?!» chiese il Sulibano, che non aveva familiarità con quel modo d’esprimersi.
   «Di là. L’uomo della sicurezza col pizzetto» sussurrò la mezza Andoriana, accennando a uno dei sorveglianti. «È un Na’kuhl con un travestimento olografico». Vista attraverso le lenti speciali, la sua inquietante fisionomia aliena emergeva dalla sagoma grigiastra del mascheramento.
   «Allora aveva ragione» riconobbe Selmak.
   «Dividiamoci per qualche minuto. Allerti la squadra, mentre io cerco altri infiltrati» ordinò Jaylah.
   Il Sulibano annuì e si allontanò. La mezza Andoriana arretrò verso una parete, con l’idea di costeggiarla mentre si guardava attorno.
   «Guarda, guarda... chi non muore si rivede» disse una voce alle sue spalle. Sembrava... no, impossibile! Il cuore di Jaylah sussultò mentre lei si voltava, quasi sbattendo contro Juri Smirnov. Gli occhiali anti-mascheramento le assicurarono che non si trattava di un Na’kuhl sotto mentite spoglie.
   «Juri! Ti credevo morto!» sussurrò l’Agente Temporale, divisa tra gioia e incredulità.
   «Tu e gli altri non ci avete messo molto a seppellirmi» ribatté l’Umano con amarezza. «Eppure avrete rilevato il picco di tachioni, prima che la base esplodesse».
   «Sì, ma...».
   «Dunque sapevate che ero vivo. Ostaggio dei peggiori nemici dell’Unione. E non avete fatto nulla per salvarmi, dopo che mi ero sacrificato per voi» disse Juri in tono asciutto. I due viaggiatori del tempo uscirono su una balconata, per essere più liberi nella conversazione.
   «Non è così semplice. Non avevamo idea di dove e quando ti avessero portato» si giustificò Jaylah. «E poi di lì a poco c’è stata la catastrofe. I Na’kuhl ci hanno attaccati in forze. Ci hanno sconfitti... e hanno alterato la linea temporale».
   «Lo so» disse Juri seccamente.
   «Come l’hai saputo? E che ci fai nel passato?!» chiese Jaylah, sempre più confusa. «Aspetta... non può essere un caso se ti trovi proprio qui, dove la Storia sta per cambiare. Non sei venuto con noi, quindi...».
   «Brillante intuizione, Agente Chase. Sono con l’altra squadra» disse Juri, applaudendo sommessamente.
   «Perché i Na’kuhl ti hanno portato con loro?» incalzò Jaylah, assalita dal terrore. L’atteggiamento freddo di Juri la spaventava, ma non quanto le ipotesi che le si affacciavano alla mente.
   «Sono uno storico. Mi lasciano fare il mio lavoro, a differenza di voi, che mi avete costretto a fare il vostro» fu la secca risposta.
   «Dimmi che ti hanno obbligato in qualche modo» mormorò Jaylah, intuendo l’orribile verità. «Ti supplico... non dirmi che li aiuti spontaneamente».
   «Mi supplichi? Ah ah!». La risata di Juri era fredda come il ghiaccio. «Puoi farlo in modo più convincente. Di che ti stupisci, esattamente? Del fatto che voglio dare un futuro migliore alla mia specie?».
   «Quale futuro?! Nella linea temporale che avete creato, la Galassia è in rovina!» sibilò Jaylah.
   «Noi Umani eravamo già in rovina» rimbeccò lo storico. «Prima l’Unione ci sfrutta come carne da macello nelle sue guerre. Poi, quando non ha più bisogno di noi, ci opprime in modi sempre più rivoltanti. Siamo diventati stranieri in casa nostra... una specie in via d’estinzione. A questo punto non ci resta che l’insurrezione. Un Umano lo capirebbe... ma forse tu non sei umana abbastanza».
   I capelli di Jaylah fremettero per una contrazione involontaria delle antenne sottostanti. La meticcia aveva sempre cercato di bilanciare la sua metà andoriana con la metà umana. Ora però si chiese se sapesse che significa essere Umani e quanto soffrissero quelli del suo tempo. «So che il governo di Rangda vi sta rendendo la vita difficile» disse a bassa voce. «Ogni giorno patite nuove ingiustizie. Ma ti credevo un uomo responsabile! Uno che crede nel dialogo e che non risponde al male con un male peggiore. Invece che fai?! Aiuti il nostro peggior nemico a...».
   «... a impedire la Terza Guerra Mondiale, sì» confermò Juri, annuendo vigorosamente. «Sai quante persone moriranno? Seicento milioni. Di queste, centocinquanta milioni sono minorenni. Impedendo il conflitto atomico li salveremo. Io lo definisco il miglior servigio che si possa rendere alla specie umana. Ma tu no... hai giurato di far rispettare gli Accordi Temporali! E pazienza se seicento milioni di persone saranno incenerite o morranno di cancro negli anni a venire. Per te sono solo storia! Ma per me sono vive... guardati attorno, se non ci credi! Guardale, ho detto!».
   Lo storico afferrò Jaylah per le spalle e la costrinse a guardare l’immensa, industriosa, popolosissima metropoli di Dubai. Anche con il coprifuoco imposto dal summit c’erano persone e veicoli autorizzati che si muovevano lungo le strade. I grattacieli avveniristici si estendevano a perdita d’occhio, ospitando milioni di persone affaccendate. Jaylah fu attanagliata dall’angoscia al pensiero delle metropoli che stavano per essere rase al suolo in tutto il mondo. «Non possiamo arrogarci il diritto di cancellare intere generazioni dalla Storia e di sostituirle con altre» mormorò, cercando di razionalizzare. «Non siamo dèi!».
   «Ma inventando il viaggio nel tempo ne abbiamo acquisito il potere» obiettò Juri. «E il potere trova sempre chi lo usa. Ricordi Valora e i volontari della Star Sentinel? Loro violano la Prima Direttiva per aiutare chi soffre su mondi lontani. Si definiscono obiettori di coscienza. E il nostro governo sta per legittimarli. Io faccio lo stesso con chi soffre in altre epoche. Sono obiettore anch’io. Se Valora l’ha fatta franca, perché io invece devo essere fermato?».
   «Valora è ancora sotto processo... ma non importa, perché sono cose completamente diverse!» protestò Jaylah. «E poi scusa, ma da quando hai l’ossessione di cambiare la Storia? Non ti ho mai sentito fare questi discorsi, prima d’ora. C’è qualcosa che non vuoi dirmi. Sputa il rospo... cosa ti ha offerto Vosk, in cambio del tuo aiuto?!».
   «Non “cosa”. Chi» rispose Juri con una smorfia.
   Jaylah spalancò gli occhi. Poi li socchiuse, cercando di carpire l’informazione dalla mente evasiva dello storico. Si chiese quale fosse il perduto affetto di Juri. D’un tratto la risposta la folgorò. Aveva visto spesso la foto di Svetlana sulla sua scrivania; in un paio d’occasioni lo storico le aveva fatto capire che era morta da bambina. A quel punto i pezzi del rompicapo andarono a posto. «Tua sorella» mormorò, con le lacrime agli occhi. «Stai facendo questo per lei». Essendo figlia unica, aveva difficoltà a capire quanto fosse profondo l’affetto che legava un fratello maggiore alla sorellina. Ma immaginava che la sua perdita fosse stata straziante.
   «Non ti ho mai detto tutta la storia» sussurrò Juri, implacabile. «Mia sorella fu contagiata dall’Agente 47 durante la Guerra delle Anomalie. I medici dell’Unione la tennero in stasi per tre anni, mentre cercavano la cura. Andavo spesso al suo capezzale a leggerle le fiabe, pur sapendo che non poteva sentirmi. Un giorno – non avevo neanche undici anni – i dottori dissero che le cure erano fallite e il male progrediva, per cui le avrebbero staccato la spina. I miei genitori protestarono... dissero che volevano trasferirla in un altro ospedale. Non ebbero il permesso. Quando cercarono di fermare i medici, questi chiamarono i sorveglianti, che reagirono con violenza. Mio padre fu stordito con un phaser davanti ai miei occhi. Mia madre fu agguantata dagli infermieri e sedata, mentre gridava e piangeva disperatamente. Io sfuggii a tutti e mi precipitai alla capsula di Svetta... ma lei era già morta! Non mi avevano neanche permesso di dirle addio». Juri si mantenne composto, mentre parlava; ma nel suo sguardo c’era l’Inferno.
   «C’erano milioni d’infetti... non sempre i medici potevano giudicarli con tutte le attenzioni dovute» mormorò Jaylah, ma queste parole parvero vuote anche a lei. In verità non esisteva logica capace di lenire un dolore così profondo. Ecco cos’era quell’indefinibile malinconia che aleggiava sempre su Juri. Dolore... la vita di quell’uomo era un incessante dolore. E lei, così orgogliosa del suo intuito e della sua telepatia, non l’aveva mai capito. Si sentì una completa idiota.
   «E sai qual è la cosa peggiore? Non il fatto che mio padre fu incarcerato per sei mesi in seguito alla colluttazione col sorvegliante. Né il fatto che mia madre sviluppò una dipendenza da psicofarmaci che le rovinò la salute fisica e mentale» proseguì Juri, inesorabile. «No, il peggio è che tre settimane dopo l’esecuzione di mia sorella, la Flotta Stellare scoprì la cura! Sì, una dannatissima cura per la sua malattia! Se i medici avessero pazientato qualche settimana... se avessero ascoltato le nostre suppliche... lei sarebbe sopravvissuta. Ma sai com’è: l’Unione ha esaurito la pazienza con noi sporchi Umani» aggiunse sarcastico.
   «Crescendo, mi ero rassegnato alla situazione. Mi ero anche guadagnato un posto d’insegnante all’Università di Nuova Berlino. Ma quando ho osato dire la mia su alcuni temi d’attualità, sono stato cacciato» proseguì lo storico. «Ho dovuto accettare l’incarico sulla Keter... quello che tutti avevano rifiutato, perché era pericoloso. Le mie domande per tornare all’Università sono state respinte, perché è sconveniente avere un Umano che dà voti agli alieni. Perciò il mio “incarico temporaneo” è durato anni. Sai che tortura è vivere su una nave temporale, senza poterla usare per raddrizzare i miei torti?!» chiese l’Umano, digrignando i denti.
   Jaylah vacillò e si prese la testa fra le mani. Avrebbe voluto contestare quell’arringa, carica di sofferenza e livore, ma non ci riusciva. Juri aveva subito torti così grandi che non poteva chiedergli di metterci una pietra sopra. «E così ti sei rivolto a Vosk» riuscì a dire. «È stato lui a proporti l’accordo? Non puoi credere che lo rispetterà!».
   «L’ha già fatto» la sorprese Juri. «Prima di venire qui, i Na’kuhl hanno prelevato Svetta dal passato e l’hanno portata sulla loro astronave. Le hanno anche iniettato la cura dal virus. Per adesso la tengono in stasi, ma la libereranno a fine missione. Saremo liberi di andare dove vogliamo. Liberi di vivere, finalmente!».
   «E credi che Vosk manterrà l’accordo fino in fondo?».
   «È un rischio che devo correre» disse l’Umano, facendo spallucce. «Certo, può darsi che si rimangi la parola e ci uccida entrambi. Ma per Svetta non farà differenza rispetto a prima. E il nostro sacrificio salverà la specie umana».
   «Non salverete nessuno!» avvertì Jaylah. «Ho visto la nuova linea temporale. Ci sono anomalie ovunque. Borg e Tuteriani imperversano nella Galassia. La Terra è un pianeta morto! E sai perché? Perché senza la Federazione gli Umani non sono sopravvissuti».
   Juri rimuginò brevemente, fissando il pavimento. «È un’eventualità che abbiamo previsto» disse, rialzando il capo. «Vosk non permetterà che altri beneficino del suo lavoro. Farà altri viaggi nel tempo e modificherà ancora la Storia, finché quelle minacce saranno scongiurate. Grazie al Tox Uthat può respingere i Tuteriani nella loro dimensione e distruggere i pianeti Borg».
   «Non credi che lo userà anche contro di noi?» incalzò la mezza Andoriana.
   «No, se ci accontentiamo della Terra e del suo circondario» rispose lo storico con uno strano sorriso. «Vedi, i Na’kuhl sono sempre stati pochi. E il loro mondo d’origine è assai lontano dal sistema solare. Anche se creeranno un loro Impero, non possono controllare tutto il Quadrante».
   «Non lo sai con certezza! Non puoi affidare le sorti della Via Lattea alle tue ipotesi!» protestò Jaylah.
   «Non ho chiesto io di finire in questa situazione, ma è successo» si difese Juri. «Se mi fossi rifiutato di assecondarlo, Vosk mi avrebbe ucciso, rimpiazzandomi con un altro consulente storico. Oppure avrebbe fatto questa cosa da solo. In ogni caso non si sarebbe fermato. Almeno, standogli a fianco, posso indirizzare il cambiamento nel modo più vantaggioso».
   «Cioè impedendo la nascita della Federazione... perché è questo che Vosk vuole in realtà» puntualizzò la mezza Andoriana. «Non gl’importa niente di salvare gli Umani dalla guerra atomica. Lui vuole un Quadrante in cui le specie sono divise e in lotta fra loro, così potrà mangiarsele una dopo l’altra».
   «E tu ne vuoi uno in cui tutte le uova stanno nello stesso paniere. Mossa rischiosa!» rimbeccò l’Umano.
   «Che intendi?».
   «Dico che se ci sono trecento specie, e dieci o venti sviluppano regimi dittatoriali, è certo un guaio, ma le altre restano comunque in maggioranza e possono contenerle» spiegò lo storico. «Ora immagina che quelle stesse trecento specie si uniscano in un unico governo federale, e che sia quello a farsi dittatoriale. Ecco che non c’è più scampo per nessuno» disse, accompagnandosi con un gesto secco. «È esattamente quel che succede nella nostra epoca. L’Unione sta diventando un regime totalitario e non c’è nessuno che possa fermarla. Ecco perché preferisco una Galassia in cui ogni civiltà sia libera di darsi le leggi che vuole. Pensi che fallirò? Può darsi. Ma ci devo provare. Lo devo a me stesso, alla mia famiglia e a tutta l’umanità».
   «Sai che devo fermarti» avvertì Jaylah, fissandolo con sguardo duro.
   «Ci proverai» corresse Juri con un sorriso amaro. «Perché sei ancora giovane e idealista. Ma ti avverto» disse chinandosi in avanti, finché le bisbigliò all’orecchio. «Se ti metterai sulla mia strada, ti riserverò la stessa pietà che l’Unione ha avuto per mia sorella: nessuna».
   Ciò detto lo storico lasciò la balconata, scomparendo nella folla di giornalisti e inservienti. L’Agente Temporale restò appoggiata al parapetto, cercando di raccapezzarsi. Ciò che più l’atterriva era la lucidità di Juri. Lo storico aveva fatto i suoi conti, concludendo che l’umanità avesse maggiori speranze in un Quadrante diviso, anziché in uno governato dall’Unione. Doveva sbagliarsi, si disse Jaylah. Doveva. Perché altrimenti, tutto ciò per cui lei aveva sempre lottato non meritava di esistere.
 
   Il salone delle conferenze era gremito all’inverosimile. Inviati da tutte le nazioni del mondo scattavano fotografie e registravano filmati che andavano direttamente in mondovisione. Imponenti misure di sicurezza erano state prese per l’evento. Un cordone di guardie del corpo divideva gli spettatori dal palco.
   A mezzogiorno in punto, un cambiamento d’illuminazione e un segnale degli altoparlanti avvisò i presenti che era il momento. Uno dopo l’altro, i capi di Stato salirono sul palco da un ingresso laterale. Quella non era la sede del dibattito vero e proprio, che doveva tenersi a porte chiuse, prolungandosi per molti giorni. Era solo la presentazione d’inizio summit. I leader mondiali erano riuniti per farsi fotografare assieme, scambiarsi sorrisi e strette di mano, dando l’impressione che un accordo fosse possibile. Se poi lo avrebbero raggiunto, nessuno lo sapeva. Ma anche i più biechi ed esaltati avevano timore di ciò che sarebbe accaduto, se non si allontanavano le dita dai bottoni atomici. In quei giorni cupi, nessuno era immune dalla paura. Così, a maggior ragione, sorrisero al pubblico e ostentarono sicurezza.
   Finalmente anche il Presidente americano e il leader della Coalizione Orientale si fecero avanti. Mendoza e Kuan avanzarono l’uno verso l’altro, studiandosi attentamente. Per anni si erano sfidati a distanza, con toni sempre più accesi. Ora, finalmente, erano faccia a faccia. Il primo a porgere la mano fu Mendoza. Per tre interminabili secondi, il mondo restò col fiato sospeso. Dopo di che Kuan levò a sua volta la mano e strinse quella del rivale. Lo spettro del conflitto atomico arretrò leggermente. Ripresa dalle telecamere, la scena fu visualizzata su innumerevoli televisori, computer, tablet e smartphone. Miliardi di persone ripresero a respirare e molte si scambiarono timidi sorrisi di speranza.
   «Sono molto felice d’essere qui oggi, in questa splendida città, insieme a voi» esordì Mendoza, rivolto agli altri capi di Stato. «Desidero ringraziare ciascuno di voi, e specialmente il Presidente Kuan, per avere accettato quest’incontro. Un grazie speciale va anche alle autorità degli Emirati, che ci hanno offerto questa sede d’incontro». Ci fu un lungo scroscio di applausi.
   «Prima di cominciare, vorrei dare la parola all’uomo che ha proposto il summit» riprese Mendoza. «Molti di voi lo conoscono come un militare inflessibile, nonché un mio sfidante politico. Eppure, in quest’ora drammatica, egli ha anteposto il bene dell’umanità a ogni particolarismo. Signore e signori, cittadini della Terra, ecco a voi il Colonnello Green!».
   Un nuovo boato accolse l’ingresso di Philip Green sul podio delle autorità. Il Colonnello, che indossava l’uniforme coi gradi, levò il braccio in un gesto di saluto alla folla. A giudicare dalla sua espressione sorniona, si stava godendo il momento. Dopo di che raggiunse a passo svelto il microfono.
   «La ringrazio di quest’onore, signor Presidente» esordì. «In realtà il mio modesto contributo a quest’evento è in linea con le aspirazioni che mi hanno guidato per tutta la vita. Io ambisco, signore e signori, a un mondo libero dal terrore del conflitto atomico. Un mondo nel quale i nostri figli possano crescere in pace. In questi anni sono stato chiamato guerrafondaio, radicale, estremista. Ma posso assicurarvi che sono irriducibile solo nel perseguire giustizia e sicurezza! Perciò vi dico che non c’è più tempo per tergiversare. Non possiamo permetterci di dubitare di noi stessi...».
 
   In un’altra zona del grattacielo, tre soldati di Green raggiunsero una finestra. Pur essendo militari, erano vestiti come guardie del corpo, con tanto di auricolare e microfono a lato della bocca. Il caposquadra, un uomo massiccio dai capelli rasati, disinserì l’allarme e aprì la finestra. Gli altri controllarono che non si avvicinasse nessuno.
   «Mezzogiorno e dieci» mormorò l’uomo dai capelli rasati. «Vediamo se il pacchetto è in orario». Di lì a pochi secondi si udì un ronzio. Un drone militare, che volava con due eliche, s’innalzò oltre il livello della finestra, a molte centinaia di metri da terra. Assicurata sotto di esso c’era una valigetta di sicurezza nera. Un lieve sorriso storse le labbra del militare, ma i suoi occhi rimasero freddi. «Perfetto» disse. Mentre gli aiutanti lo reggevano da dietro affinché non cadesse, egli si sporse in avanti, uscendo quasi dalla finestra. Agguantò la valigetta e la staccò da sotto il drone. I soldati lo tirarono indietro, al sicuro. Subito dopo il drone si allontanò, iniziando anche a perdere quota. Sarebbe volato fino al mare, dove si sarebbe inabissato, per non essere più ritrovato.
   Appena ebbe di nuovo i piedi a terra, il caposquadra si chinò e posò la valigetta, con estrema attenzione.
   «Non la portiamo subito in sala?» chiese un soldato, mentre l’altro chiudeva la finestra e reinseriva l’allarme.
   «Prima un controllo» rispose il superiore, frugandosi in tasca. Ne estrasse una piccola chiave, con cui aprì la valigetta. Dentro c’era un potente esplosivo al plastico, collegato a un detonatore. L’uomo si accertò che i fili fossero al loro posto. Poi controllò il timer: era settato alle 13:00. «Tutto okay» disse. Richiuse la valigetta e la inchiavò con cura. Poi attivò il microfono e l’auricolare. «Maggiore Schmidt a Colonnello, il pacchetto è in casa» informò.
   «Bene, portatelo in soggiorno» rispose la voce di Green.
   «Subito. Schmidt, chiudo». Presa la valigetta, il Maggiore si rialzò e si diede una rassettata. «Calmi, ragazzi. Non dobbiamo dare nell’occhio» raccomandò. Postosi in testa al terzetto, infilò il corridoio con passo spedito, ma senza correre. I soldati gli tennero dietro, pronti a sfoderare le pistole al minimo intralcio.
 
   Nel salone delle conferenze, il Colonnello Green si era appena seduto. Al suo posto parlava ora Lee Kuan. Contattato dal Maggiore, il Colonnello girò appena la testa e gli rispose a bassa voce. Poi tornò a osservare il palco. Con il passare dei minuti, un velo di sudore gli bagnò la fronte. Erano le 12:20 e i tempi dell’attentato erano calcolati al secondo. Alle 12:45 Schmidt sarebbe entrato in sala, deponendo la valigetta esplosiva. Alle 12:55 Green e i suoi complici avrebbero lasciato il salone. E alle 13:00 il mondo sarebbe cambiato per sempre. Nel nuovo ordine che Green aveva in mente, non c’era posto per quei corrotti che erano lì in vetrina.
   Il Colonnello non si rese conto che uno dei giornalisti lo fissava. Da un angolo della sala, Selmak studiava ogni sua mossa. Lo vide piegare la testa e muovere le labbra, segno che aveva risposto a una chiamata. «Selmak a Chase, è cominciato» bisbigliò il Sulibano nel comunicatore.
   «Ricevuto, entriamo in azione» rispose Jaylah. «Tu resta lì e non staccare gli occhi da Green».
 
   Alle 12:25 Schmidt e i suoi uomini si trovarono il cammino bloccato da uno sconosciuto, che stava fermo al centro del corridoio.
   «Chi è lei? Si faccia da parte!» ordinò seccamente il Maggiore.
   «Temo di non poterlo fare» rispose Juri con voce strascicata. «Se quella valigetta giungerà a destinazione, nulla potrà fermare la catastrofe nucleare».
   Gli uomini di Green portarono le mani alle fondine, ma prima che potessero estrarre le pistole furono colpiti alle spalle dai Na’kuhl. Gli alieni erano una mezza dozzina, tutti travestiti da sorveglianti. Su richiesta di Juri avevano stordito gli Umani, anziché ucciderli. Al risveglio i tre avrebbero pensato di essere stati neutralizzati con i taser.
   Accertatisi che gli uomini di Green fossero fuori combattimento, i Na’kuhl disattivarono le maschere olografiche, mettendo a nudo i lineamenti vampireschi. «Tutto qui? È fin troppo facile» commentò Kraul, facendosi avanti.
   «Aspetti a cantar vittoria» lo avvertì lo storico. «Controlliamo che non sia un diversivo». Frugò il corpo di Schmidt, trovando le chiavi, e con quelle aprì la valigetta di sicurezza. Lui e Kraul ne osservarono il contenuto, mentre gli altri Na’kuhl facevano la guardia. «Questo è l’esplosivo al plastico. Qui c’è il detonatore e qua il timer... anche l’orario è esatto» mormorò Juri. «Sì, è la bomba che cercavamo».
   «Allora possiamo andare» concluse Kraul. Si premette il comunicatore da polso. «Kraul a nave, abbiamo la valigia-bomba. Teletrasporto per tutta la squadra» ordinò. Passarono alcuni secondi, ma non accadde nulla.
   «Beh?» fece Juri, inquieto.
   «Vosk a squadra, restate in attesa» ordinò il Leader Supremo, che dirigeva personalmente l’operazione. «C’è un campo di smorzamento che ostacola il teletrasporto. Stiamo cercando di compensare».
   «Quant’è grande?» chiese Kraul.
   «Avvolge tutto il grattacielo; chi l’ha piazzato vuole intrappolarvi» rispose Kravik. Lo scienziato era in plancia accanto a Vosk, per fornire consulenza.
   «Agenti Temporali!» sibilò Kraul, guardandosi attorno con gli occhi vermigli.
   «E chi altri? Non muovetevi!» ordinò un Agente, disattivando la tuta occultante. Altri colleghi si resero visibili accanto a lui. Avevano tutti i fucili phaser spianati.
   I Na’kuhl ringhiarono, puntandogli contro le loro armi, regolate non più per stordire, ma per uccidere. Juri prese la valigia-bomba e se ne fece scudo, scivolando dietro agli alieni. Si trovò davanti Jaylah, che veniva dal lato opposto del corridoio.
   «Pensavate che vi lasciassimo andare così facilmente?» chiese la mezza Andoriana, minacciandolo con il phaser. «Giù le armi! E tu, Juri, posa la valigetta. La tua insurrezione finisce qui».
 
   Alle 12:30 Lee Kuan lasciò il microfono. Al suo posto si fece avanti Kamala Singh, accolta da un boato di applausi. Ora che la vedeva accanto ad altre persone, Selmak notò che era molto alta. Più alta di tutte le altre donne sul palco e anche di molti uomini. Il segretario dell’ECON volse da una parte e dall’altra il viso incorniciato dal velo rosso scuro, sorridendo alla folla. Quando prese la parola, tuttavia, il suo tono era serissimo.
   «Onorevoli capi di Stato, oggi mi rivolgo a voi non in veste politica, ma come cittadina di un mondo sull’orlo del collasso» esordì. «Là fuori la gente sta morendo. Miliardi di persone ci osservano ed esigono risposte immediate. Abbiamo il dovere di non deluderle!» disse con passione. «Da questo incontro non possiamo uscire con vuote promesse, né con tregue che durino un’effimera stagione politica. No, questo è il momento d’essere coraggiosi e lungimiranti. Dobbiamo ripensare in modo radicale i nostri modelli di sviluppo. Dobbiamo lavorare con il pianeta, non contro di esso. E soprattutto gli uni con gli altri. Come disse il Mahatma Gandhi, “non si può servire la nazione facendo torto al mondo”. Ecco perché non possiamo accontentarci di risultati parziali. Al termine di questi negoziati, dovrà esserci un nuovo ordine mondiale...».
 
   Nel corridoio Juri fronteggiò Jaylah, sempre usando la valigetta esplosiva come scudo. «Se ti consegno la bomba, tu la porterai nel salone delle conferenze» disse. «Così i capi di Stato moriranno. Sapevo che non ti piacciono i politici... ma non è eccessivo massacrarli?».
   «L’attentato è opera di Green. Fa parte della Storia. Può non piacerci, ma è così» ribatté l’Agente Temporale.
   «A causa dell’attentato, fra dieci giorni Oriente e Occidente lanceranno le atomiche» insisté lo storico. «Seicento milioni di morti! Decenni di miseria, dolore e disperazione. Oh certo, l’umanità si riprenderà... svendendo la sua libertà a chi ora la disprezza. Ma tutto questo può essere evitato, se ci lasci andare».
   «Sai che non posso. La valigia, avanti!» ordinò Jaylah, puntando il phaser alla testa di Juri e tendendo l’altra mano. «Se non me la dai al tre, giuro che sparo! Uno...».
   «Kravik a squadra. Non possiamo trasportare esseri viventi, ma cerchiamo di agganciare la valigia» avvertì lo scienziato dal comunicatore.
   «Due... non costringermi a farlo...» proseguì la mezza Andoriana.
   «Essere Agenti Temporali significa fare scelte crudeli» ribatté freddamente Juri. «Fa’ la tua».
   «... tre!» disse Jaylah con voce rotta. Se si fosse trattato di uccidere Juri per impedire una carneficina, non avrebbe esitato a sparare. Ma ucciderlo per provocare un conflitto atomico... era troppo. Aveva visto foto d’epoca che mostravano i cadaveri carbonizzati, così fragili che bastava toccarli per ridurli in polvere. I superstiti ustionati, con la pelle che veniva via a lembi. E gli altri... quelli che avevano respirato le polveri radioattive... che si spegnevano negli anni a seguire. No, si disse l’Agente; non poteva sconfiggere i mostri, diventando un mostro a sua volta. Abbassò il phaser, sconfitta.
   «Ma che fa?! Li abbiamo in pugno!» protestò un collega, il Malcoriano.
   «Hai scelto bene, Jaylah» disse Juri con voce pacata. «Se la guerra è inevitabile, le nazioni troveranno un’altra scusa per lanciare le atomiche e niente di quanto è accaduto oggi avrà peso. Ma se l’umanità è migliore di quanto dice Rangda, abbiamo un futuro».
   «Voi forse sì... ma io no» mormorò Jaylah. Senza la Federazione, i suoi genitori – un Umano e un’Andoriana – non si sarebbero mai incontrati e lei non sarebbe mai nata. Qualunque scelta facesse, ne pagava il prezzo.
   In quella si udì il ronzio del teletrasporto. La valigetta-bomba svanì in un bagliore cremisi. Come aveva detto Kravik, il campo di smorzamento impediva di teletrasportare in sicurezza gli esseri viventi. Ma i Na’kuhl potevano compensare, prelevando almeno gli oggetti inanimati.
   «Abbiamo la bomba» disse Vosk. «Ben fatto, miei prodi. Ora uscite dal campo, così potremo prelevarvi. Vosk, chiudo».
   «Cos’ha fatto?!» inveì Lavin all’indirizzo della caposquadra. «Ora tutto è perduto, a causa dei suoi stupidi sentimenti!».
   «Sono i sentimenti che ci rendono umani» ribatté Juri. «Forse tu lo sei, dopotutto» si rivolse a Jaylah. «Mi spiace di averti messo in questa situazione».
   «Dispiace anche a me... ma non è ancora finita!» disse Jaylah, rialzando il phaser. «Deponete le armi e venite con noi. Ci rivelerete il vostro piano, i vostri spostamenti. Ogni alterazione temporale può essere corretta, se s’interviene al momento giusto».
   «Per questo non ci arrenderemo» ringhiò Kraul. «Ci uccida pure. Non le servirà a niente!».
   In quella un sorvegliante sbucò da un ingresso laterale, trovandosi di fronte i due gruppetti armati che si sfidavano. Da un lato c’erano gli Agenti Temporali con le futuristiche tute corazzate e i fucili phaser. Dall’altro vi erano i Na’kuhl, coi volti vampireschi dagli occhi scarlatti. A terra giacevano gli uomini di Green, ancora storditi.
   «Ma che...?!» fece il custode, estraendo la pistola. «Allarme al 147º piano, settore 4!» gridò nel microfono della sicurezza, per avvertire i colleghi. «Ci sono degli armati... sono mostri!» gemette. Non potendo tenerli tutti sotto tiro, puntò l’arma prima contro i Na’kuhl e poi contro i federali. Ma Kraul, che impugnava ancora il disgregatore, fece fuoco. Il sorvegliante cadde all’indietro contro il muro e poi scivolò a terra, lasciando una scia vermiglia sulla parete.
   Versato il primo sangue, seguì la sparatoria. I federali erano avvantaggiati dal fatto d’indossare le tute corazzate e impugnare armi di grosso calibro, mentre i Na’kuhl, per via del travestimento, avevano armi piccole e nessuna protezione. Perciò furono gli Agenti a prevalere. Uno di loro fu ucciso e altri due vennero feriti gravemente, mentre i Na’kuhl ebbero tre vittime. Ma Kraul, Juri e due soldati infilarono l’ingresso laterale e fuggirono.
   «Inseguiamoli!» gridò Lavin. Un colpo lo aveva preso di striscio, danneggiandogli la tuta occultante, ma non era ferito. Altri due Agenti, invece, erano a terra in fin di vita.
   «No, dareste troppo nell’occhio» lo bloccò Jaylah, notando il danno alla tuta. «La bomba non c’è più e l’allarme è stato lanciato. Ripulite la zona e portate via i feriti, prima che arrivi la sicurezza. Penso io a loro» ordinò, e scattò all’inseguimento dei Na’kuhl.
 
   Alle 12:45 Green fu allertato di una breccia nella sicurezza. C’erano intrusi armati... “mostri” li aveva definiti il custode, prima che gli spari risuonassero attraverso il canale aperto. «Controllate ogni ascensore e scala. Mettete guardie agli ingressi. Nessuno deve uscire da qui!» ordinò il Colonnello, a voce bassa per non farsi sentire dagli altri. «No, niente allarmi... l’incontro deve continuare!» aggiunse, fissando il palco. Kamala Singh era scesa, prendendo posto fra le autorità dell’ECON. Uno dopo l’altro i capi di Stato prendevano la parola. Mai più ce ne sarebbero stati così tanti nello stesso luogo. Se voleva fare piazza pulita, doveva colpire adesso.
   «Green a Schmidt... rispondi, Maggiore!» sibilò nel microfono che aveva a lato della bocca. «Insomma, dove sei?!». Il Colonnello si guardò attorno, madido di sudore. Forse gli armati di cui l’avevano avvertito erano proprio i suoi uomini, che per qualche motivo avevano estratto le pistole. Strano... non era da Schmidt dare di matto. Forse un’altra minaccia lo aveva costretto a scoprire le carte.
   «Green a Leland, prepari il mio elicottero» ordinò, per cautelarsi se le cose gli fossero completamente sfuggite di mano. Guardò l’orologio: erano le 12:50 e ancora non c’era traccia di Schmidt. Qualcosa era senz’altro andato storto, ma non c’era tempo di setacciare il grattacielo. La bomba sarebbe scoppiata in ogni caso all’una in punto. Era abbastanza potente da compromettere la stabilità dell’edificio, se fosse esplosa vicino a un elemento di sostegno.
   «Green a Mal, dobbiamo rinunciare a tutto. Schmidt è sparito con la valigetta e ci sono intrusi armati al 147º piano» sussurrò il Colonnello. «C’è già stata una sparatoria. Da un momento all’altro squilleranno gli allarmi!».
   «Nessun allarme squillerà» rispose una fredda voce femminile. «I miei uomini occupano i punti chiave. E non preoccuparti per la valigetta... mi sono assicurata che nessuno esca vivo da qui. A parte te, tesoro. Ti consiglio di filare, finché hai ossigeno nei polmoni».
   «Merda!» borbottò Green, chiudendo il canale. Pallido come un cencio, lasciò il suo seggio, suscitando lo stupore di quanti lo attorniavano. «Scusate... un contrattempo. Tornerò al più presto» si giustificò, incespicando fra le sedie occupate. I suoi movimenti non sfuggirono a Selmak, che dall’inizio dell’evento non lo perdeva di vista.
   «Selmak a Chase, Green sta lasciando la sala. Significa che la valigetta è arrivata?» chiese il Sulibano, allarmato sebbene non avesse visto entrare nessuno. Se stava per scoppiare la bomba, doveva andarsene alla svelta.
   «Negativo, i Na’kuhl l’hanno presa» gli rispose Jaylah, che in quel momento correva trafelata due piani più in alto. «Li sto inseguendo, tu resta lì» ordinò.
   «Frell» imprecò Selmak, conscio che la missione stava fallendo.
   In quel momento il Colonnello Green raggiunse l’uscita. Erano le 12:55 e il presidente brasiliano aveva appena preso la parola. «Posso assicurarvi che la tutela dell’ambiente è al centro del mio programma di governo...» disse, poco convincente. Green scosse la testa e lasciò il salone. «Perché le cose devono sempre complicarsi?» si chiese.
 
   Jaylah sfrecciava per i corridoi e le scale del grattacielo, decisa a non farsi scappare Juri e i Na’kuhl. Per fortuna, anche se non erano in vista, il tricorder le diceva dov’erano. Alla sua velocità stava rapidamente accorciando le distanze. A un tratto si accorse di un segno vitale umano nelle vicinanze: un altro sorvegliante. Cercò di rallentare, ma svoltando l’angolo gli finì quasi addosso.
   «Chi sei? Ferma!» ordinò l’uomo, estraendo la pistola. Jaylah reagì schiacciandogli la mano armata contro il muro. Poi lo colpì alla nuca con il calcio del phaser, stordendolo. Non voleva usare il raggio, per evitare che l’uomo se lo ricordasse al risveglio. La linea temporale era già fin troppo inquinata.
   L’Agente prese la pistola al sorvegliante, pensando che potesse tornarle utile, e tornò all’inseguimento. Ma quel breve scontro le aveva fatto perdere secondi preziosi. Consultando il tricorder, si accorse che i Na’kuhl avevano raggiunto una piattaforma panoramica. Accelerò ancora la corsa, temendo il peggio. Fece una scala salendo i gradini quattro a quattro, svoltò a destra e finalmente raggiunse la grande balconata.
   Juri e i Na’kuhl erano lì, in procinto di salire su qualcosa d’invisibile. Solo il portello aperto nell’aria rivelava la presenza di una navicella occultata. Date le piccole dimensioni, doveva essere un Caccia Ombra inviato dal Reaper. «Fermi!» gridò Jaylah, levando il phaser. Abbatté uno dei Na’kuhl e si riparò dietro lo stipite, sfuggendo ai colpi degli altri due.
   «Sei tenace, mezzosangue» riconobbe Kraul. «Ma è inutile: abbiamo vinto».
   «Possono succedere ancora tante cose» disse Jaylah, sporgendosi solo un istante per dare un’occhiata. «Dico a te, Juri... lascia questi mostri. Non manterranno la parola!».
   «È tardi per i ripensamenti» rispose lo storico, scoccandole un’occhiata di ghiaccio. «Dasvidania, Agente Chase. Riguardati e cerca di non finire fuori tempo!». Con queste parole s’infilò nel Caccia Ombra.
   «No!» strillò la mezza Andoriana, sporgendosi per sparare ancora. Colpì l’ultimo soldato Na’kuhl, ma vide Kraul che scompariva nella navicella. Avrebbe giurato che i suoi occhi rossi erano beffardi. Sparò ancora, mirando all’interno del caccia. Troppo tardi: il portello si richiuse. Serviva un’arma ben più potente di un phaser manuale per scalfirlo. Ora che era sigillato, il Caccia Ombra poté ripristinare l’occultamento totale.
   Jaylah lasciò il riparo e corse in avanti, pur senza sapere che avrebbe fatto. Sentì il ronzio della navicella che prendeva quota e per un attimo vide il bagliore dei motori accesi, simili a due grandi occhi vermigli. L’aria surriscaldata la investì in pieno, scaraventandola indietro di tre metri. L’impatto con il pavimento di marmo fu così duro che per un attimo Jaylah rimase stordita. Quando rialzò la testa, ansante e sputacchiante, comprese che il Caccia Ombra era lontano. I Na’kuhl l’avevano sconfitta di nuovo. In compenso dalle scale in basso venivano rumore di passi e ordini in arabo. La sicurezza locale stava arrivando. E non c’erano teletrasporto né navette con cui fuggire.
 
   Nel salone delle conferenze, il presidente brasiliano lasciò il palco. «Salutiamo ora l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea...» annunciò lo speaker. Ancora una volta ci furono applausi, sebbene ogni scroscio fosse meno energico del precedente. I capi di Stato erano moltissimi, ma non tutti avrebbero tenuto un discorso.
   Ora che il Colonnello Green se n’era andato, Selmak rivolse la sua attenzione ai politici. Mendoza era sempre al suo posto, come anche Kuan. Avrebbero dovuto essere tra i pochi superstiti, se l’attentato si fosse verificato... cosa ormai molto dubbia. Kamala Singh, invece, era stranamente scomparsa. Selmak non l’aveva vista lasciare il palco: doveva averlo fatto in fretta.
   In quella il Sulibano si sentì pizzicare gli occhi e la pelle. Si sfregò gli occhi, sperando che la sensazione svanisse, ma si accorse che peggiorava a ogni istante. Anche i giornalisti attorno a lui accusavano gli stessi sintomi, così come le autorità sul palco. Molti politici si sfregavano gli occhi e alcuni ansimavano vistosamente. Il rappresentante dell’Unione Europea dovette interrompere il suo discorso per riprendere fiato, ma anziché trarre giovamento dai respiri cominciò a boccheggiare.
   In un lampo d’intuizione, Selmak guardò le grate dei condizionatori vicino al soffitto. Stavano buttando aria fresca per contrastare il clima torrido di Dubai, peggiorato dall’ammassarsi di così tante persone in uno spazio chiuso. Ma in quell’aria non c’erano solo azoto e ossigeno. Il Sulibano trasse il tricorder di tasca e fece una rapida analisi. Come temeva, trovò gas nervino. Per la precisione era sarin: un composto inodore e incolore, estremamente volatile. In alte dosi penetrava attraverso i pori della pelle, vanificando l’uso delle maschere antigas. Colpiva direttamente i neuroni, impedendo la trasmissione degli impulsi sinaptici. Questo bloccava tutti i muscoli, compreso il diaframma: le vittime soffocavano, incapaci di respirare. I superstiti subivano danni neurologici irreversibili.
   Guardandosi attorno, Selmak vide che il processo era già cominciato. Le persone cadevano a terra, boccheggianti e con le pupille contratte. Alcune ebbero conati di vomito. Sentendo gli effetti anche su di sé, il Sulibano trasse un mini-respiratore di tasca e se lo inserì nelle narici. Non bastava a metterlo al sicuro, ma gli avrebbe dato qualche minuto in più.
   Conscio di avere poco tempo, Selmak scattò in piedi. Dalle riunioni con gli Agenti Temporali sapeva che Mendoza e Kuan dovevano sopravvivere, perciò corse sul palco, per metterli in salvo. Vide Lee Kuan attorniato dalle sue guardie, che gli avevano messo una mascherina sul viso. Spintonando via tutti quelli che li intralciavano, lo fecero uscire dalla sala, tramite uno degli ingressi laterali.
   Qualche metro più in là, Mendoza non era così fortunato. I suoi bodyguard non avevano maschere sottomano o forse nessuno aveva avuto la prontezza di porgergliela, prima di cadere a terra. Il Presidente arrancava verso l’uscita, premendosi un fazzoletto sul naso.
   «Tenga! Sono un agente in borghese» disse Selmak, dandogli il suo mini-respiratore.
   Sapendo che gli restavano pochi secondi di lucidità, Mendoza decise di fidarsi. Gettò il fazzoletto e s’infilò il dispositivo nelle narici. Subito si sentì meglio, anche se gli occhi e persino la pelle continuavano a bruciare terribilmente. Ma ormai l’uscita era davanti a lui. Selmak lo cinse con un braccio e lo trascinò in avanti, facendogli varcare la porta.
   «Non è ancora al sicuro! Allontaniamoci» disse il Sulibano, sentendosi formicolare la pelle. Sperò che il sarin non stesse compromettendo le sue capacità mimetiche. Il Presidente era già fuori di sé per l’attentato. Se avesse anche visto il suo soccorritore trasformarsi in un alieno, sarebbe diventato folle o paranoico. «Riesce a camminare?» gli domandò.
   Mendoza annuì, ma poi sgranò gli occhi. La pelle del suo soccorritore stava diventando stranamente gialla e granulosa. Pensò che fosse una reazione abnorme al gas nervino. «O forse sono io che sto ammattendo» si disse il Presidente, terrorizzato dalla prospettiva. «Sì... via!» boccheggiò.
   Selmak lo cinse di nuovo col braccio e lo trascinò in avanti. Fatta una decina di metri, furono raggiunti da un nugolo di guardie presidenziali, giunte da fuori. Il Presidente fu sorretto da due uomini, mentre un altro gli controllava la reazione pupillare e un altro ancora gli faceva qualche domanda.
   «È gas sarin» rivelò il Sulibano. «Fategli le analisi necessarie. E portatelo via! Io devo andare... sono dei servizi segreti» s’inventò lì per lì.
   «Quale agenzia? Ci dia nome e grado!» ordinò uno dei bodyguard.
   «Non c’è tempo; fate come ho detto!» ribatté Selmak. Sfilò il respiratore dal naso del Presidente e si dileguò. I bodyguard lo lasciarono andare, sia perché portar via Mendoza aveva la precedenza su tutto, sia perché loro stessi non erano attrezzati contro il sarin.
   «Selmak a Chase, ci hanno attaccati col gas nervino! Mendoza è salvo e credo anche Kuan, ma gli altri sono morti quasi tutti» avvertì il Sulibano, levatosi di tasca il comunicatore. Aveva appena parlato che vide venirsi incontro alcuni colleghi della Squadra Temporale, appostati fuori dal salone.
   «C’è qualche altro pezzo grosso che doveva salvarsi» rispose Jaylah, che in quel momento fuggiva inseguita dalle guardie locali, qualche piano più in alto. «Sapete chi sono; controllate che siano vivi! E riportateli alle loro delegazioni. Io vi raggiungo appena riesco a scrollarmi di dosso la sorveglianza».
   Gli Agenti diedero l’okay e scattarono alcuni verso la sala, altri verso i superstiti che erano riusciti a trascinarsi fuori. Ciascuno dichiarò il proprio obiettivo, per evitare che due Agenti cercassero la stessa persona, dimenticandone magari un’altra. Tra i superstiti dell’attentato esplosivo c’erano figure molto importanti nei tempi a venire, quindi bisognava accertarsi che fossero sopravvissuti anche al gas.
   «Io cerco Kamala Singh; se n’è andata poco fa» disse Selmak. Seguendo i suoi segni vitali la trovò in una zona isolata del grattacielo, lontana dai dirigenti e dalle guardie dell’ECON. Era davanti a una grande finestra e parlava fittamente nel suo smartphone. «Sta bene?» le chiese, avvicinandosi.
   «Eh?» fece la donna, distraendosi dalla telefonata. «Io sì... ho avuto fortuna, perché mi hanno chiamata fuori poco fa. Ma le altre persone lì dentro... è orribile! Si tratta di gas, vero?».
   «Sì, un tipo di gas nervino» confermò Selmak. «Ascolti, io sono un agente in borghese. Mi hanno incaricato di riaccompagnarla alla sua delegazione. Venga con me, i suoi colleghi non sono lontani».
   «Un attimo, sto già parlando con chi di dovere» spiegò Kamala, accennando allo smartphone. «Lei può andare. Io sto bene, si occupi di chi ha bisogno!».
   «Ho i miei ordini, signora segretario» disse Selmak, in tono rispettoso ma deciso. «La scorterò finché non sarà al sicuro».
   «Se insiste...» sospirò Kamala, rassegnata. «Ma attenda qualche minuto». La donna proseguì la telefonata, stando discosta e parlando a voce molto bassa. Quando ebbe finito alzò gli occhi verso Selmak. «Devo fare un’altra chiamata. Si tratta di cose importanti, lei capisce... ehi, ma che ha in faccia?» chiese, guardandolo con orrore.
   Il Sulibano osservò il proprio viso, riflesso nella finestra. Anche dopo qualche minuto dalla fine dell’esposizione, il sarin gli rendeva difficile mantenere sembianze umane. La sua pelle era un poco gialla e granulosa, anche se non tanto da rivelarlo come un alieno. «Oh... sarà una reazione al gas» disse, tastandosi il volto.
   «Si faccia visitare» raccomandò Kamala. La spiegazione le sembrava strana, ma non riusciva a immaginare un’alternativa. Compose un altro numero e tornò a parlottare nello smartphone.
   Mentre aspettava, Selmak si discostò un poco e le girò le spalle. Non voleva mostrarle il suo volto ingiallito. Respirò a fondo, cercando di calmarsi e di riassumere il controllo dell’epidermide. Mutare aspetto era difficile: richiedeva un’enorme concentrazione. Poco alla volta gli parve di stare meglio. Tastandosi il volto, sentì che la pelle era meno granulosa. «Bene... gli effetti del gas stanno svanendo» si disse.
   Essendo così distratto, il Sulibano non si accorse che alle sue spalle Kamala aveva smesso di telefonare. La donna ripose lo smartphone in tasca. Poi disfece l’hijab, il velo allacciato sotto la gola che le copriva capelli e spalle. Le sue chiome, nere e brillanti, ricaddero dietro la schiena. Kamala piegò più volte il velo rosso cupo, facendone una sorta di laccio. Se lo avvolse attorno alle dita e si avvicinò di soppiatto a Selmak. Quando gli fu proprio alle spalle, gli passò il laccio attorno alla gola con mossa repentina. E cominciò a stringere.
   «Ehi, ma...!» fece il Sulibano, sentendosi strangolare. Si passò le dita fra il tessuto e la gola, cercando di allentare la stretta. Inutilmente. Il federale si accorse con orrore che la donna alle sue spalle era più forte di lui. Molto più forte di quanto un’Umana potesse mai essere. Doveva esserci una spiegazione... e doveva essere orrenda.
   «Stupido, dovevi andartene quando te ne ho data la possibilità» gli sussurrò Kamala all’orecchio. «Invece morirai, come quegli idioti in sala. Chi credi abbia diffuso il gas?! Conoscendo l’incapacità di Green, mi serviva un piano di riserva!».
   Selmak sgranò gli occhi per l’orrore. Si scosse selvaggiamente da una parte e dall’altra, cercando di liberarsi. Dette una gomitata nello stomaco dell’avversaria. Fece scattare la testa all’indietro, nel tentativo di schiacciarle il naso. Poi si piegò in avanti, sperando di sollevarla da terra e di rovesciarsela sopra la schiena. Tutto fu inutile. La stretta di Kamala era d’acciaio e nessun colpo sembrava farle male.
   Impossibilitato a respirare, Selmak cominciò a indebolirsi. I suoi colpi s’infiacchirono, le ginocchia cedettero e anche la vista si oscurò. Il Sulibano comprese che la sua storia finiva lì, senza che gli fosse dato sapere da dove veniva la forza innaturale dell’avversaria, né come si sarebbe conclusa la missione. Eppure fece un ultimo sforzo disperato: ricorse ai potenziamenti genetici per appiattire il suo corpo e persino la testa, nel tentativo di divincolarsi. Kamala ne fu sorpresa, ma la sua stretta non vacillò, anzi divenne ancora più salda. Schiacciò completamente la trachea di Selmak e strinse a tal punto da spezzargli le vertebre. Sentito lo scrocchio, lasciò cadere la vittima. Poi restò a osservarla, disfacendosi lentamente il laccio dalle mani. «Che cosa sei?» mormorò, osservando il cadavere.
   Sotto i suoi occhi il corpo si trasformò. La pelle divenne gialla e picchettata di scuro, oltre a farsi molto granulosa. Anche gli occhi s’ingiallirono, mentre le iridi scomparvero e le pupille assunsero forma di asterisco. I capelli svanirono del tutto. Sul pavimento c’era adesso un vero alieno, senza vita e con un filo di bava mista a sangue che gli usciva dalla bocca.
   «Sono davvero fra noi!» si disse Kamala, divisa tra lo sconcerto e la brama di saperne di più. Levò di tasca lo smartphone e compose un altro numero. «Zheng, ascoltami bene. Lascia perdere quel che stavi facendo e vieni subito qui» ordinò, parlando in cinese mandarino senza accento. «Quei rapporti sugli avvistamenti alieni erano veri. Sì, Zheng, mi hai sentito bene... ho detto alieni! Ne ho uno davanti a me in questo momento. No, è morto... ho dovuto ucciderlo. Ma anche così ci sarà preziosissimo. Sì, prendi i ragazzi più fidati. Questo affare va gestito con la massima discrezione. Neanche Green deve saperlo. E, Zheng... prendi l’arma. Sì, quella di San Francisco, 1986. Potremmo averne bisogno».
   Conclusa la chiamata, Kamala ripose lo smartphone. Poi, notando che c’era movimento nel corridoio più avanti, prese il corpo dell’alieno per toglierlo alla vista. Lo sollevò facilmente, sebbene fosse più pesante di lei, e lo nascose in un ufficio, in quel momento vuoto.
   «Sapevo che c’eravate» pensò, osservando il cadavere. «Là fuori nello spazio... e anche sulla Terra. Gli avvistamenti sono troppi per dubitarne. Mi chiedo solo cosa volete da noi. Certo non le nostre risorse! Ci abbiamo già pensato noi a depredare il pianeta. Forse volete controllarci. Pensate che siamo dei primitivi, solo perché non abbiamo astronavi. Beh, vi sbagliate. La tecnologia si fa presto a inventarla o a copiarla. Ma se potenzi la specie... se crei una stirpe geneticamente superiore... allora tutto diventa possibile!».
   Kamala Singh sorrise: aveva sempre sognato di eguagliare suo nonno, il grande Khan, ma con quella scoperta era certa che lo avrebbe superato. Con questo proposito cominciò a frugare il cadavere, impadronendosi dei congegni che si portava appresso. Al termine dell’ispezione le venne un’altra idea. Si levò di tasca un coltellino svizzero e ne fece scattare la lama. La vista del sangue non le aveva mai dato fastidio, ma era curiosa di vederne il colore, mentre tagliuzzava l’alieno per prelevare dei campioni.
 
   Dalla plancia del Reaper, che orbitava occultato, Vosk seguiva assiduamente l’evolversi della situazione. Ogni novità gli veniva riferita all’istante dagli ufficiali.
   «Il Caccia Ombra sta rientrando, Leader Supremo» disse l’addetto ai sensori. «Abbiamo perso i soldati, ma il Generale Kraul è a bordo. Come anche il dottor Smirnov».
   «I soldati sono caduti in battaglia; non li dimenticheremo» disse Vosk, che passeggiava avanti e indietro, con le braccia incrociate dietro la schiena. «E la bomba?».
   «Sta per esplodere, quindi l’abbiamo teletrasportata nello spazio».
   «Voglio vederla».
   Lo schermo olografico si attivò, mostrando la valigetta che roteava nel vuoto. Pochi attimi dopo esplose con grande violenza. Ma ovviamente non c’era nessuno, nei paraggi, che potesse risentirne.
   «Il piano funziona!» disse Kravik, sfregandosi le mani soddisfatto.
   In quella dalla consolle sensori partì un allarme. L’addetto verificò subito di che si trattava. «C’è un problema alla conferenza» disse. «Stanno evacuando la sala».
   «Perché? Abbiamo eliminato la bomba» si stupì Vosk, venendogli accanto.
   «I sensori rilevano che è stato diffuso un gas nervino. Si tratta di sarin, uno dei composti più letali per gli Umani» rispose l’addetto. «Quasi tutti i partecipanti al summit sono morti o moribondi».
   «Incredibile!» fece Vosk, scuotendo la testa. «Quando credi di aver capito gli Umani, continuano a stupirti».
   «Gli Umani di quest’epoca sono profondamente diversi da quelli che conosciamo» spiegò Kravik. «La loro volontà d’indipendenza è ancora molto forte. Non tollerano di coalizzarsi nemmeno fra loro; figurarsi con gli alieni».
   «Lo vedo» disse Vosk, consultando lui stesso le letture dei sensori. «Dunque la nostra missione è fallita».
   «Ehm, così pare» ammise Kravik, indietreggiando imbarazzato.
   Di lì a poco Kraul e Juri si presentarono in plancia. «Leader Supremo, vi porgo le mie scuse» disse il gerarca, facendosi avanti a testa bassa. «Non ho potuto impedire l’attentato... questi Umani del passato sono più determinati del previsto».
   «Non è colpa vostra» riconobbe Vosk, rivolgendosi sia a lui che a Juri. «Avete svolto con successo la missione che vi era stata assegnata, quindi non sarete puniti. Dovevo prevedere che, con interessi così forti, gli attentatori avessero un piano di riserva. Ora, però, mi chiedo se sia possibile prevenire il conflitto. Forse la spinta storica è così forte che non c’è modo di evitarlo».
   «Ci servono più informazioni sulle parti in causa» suggerì Juri. «Sapete chi è stato a ordire l’attentato col sarin? Il Colonnello Green o qualcun altro?».
   «Abbiamo intercettato alcune telefonate molto interessanti fra Green e un’altra figura di spicco che ha partecipato alla conferenza» riferì l’addetto ai sensori.
   «Sentiamole» disse Vosk.
   L’ufficiale inserì il viva voce. Juri e i Na’kuhl tesero le orecchie. C’era qualche interferenza, ma il senso del discorso era chiaro. Per ordine di Vosk, l’ufficiale ripulì le registrazioni dal rumore di fondo e le fece ascoltare ancora.
   «Con chi parlava Green?» chiese Juri.
   «Un momento, procedo all’identificazione dell’apparecchio» disse l’addetto. «È Kamala Singh, il segretario di Stato dell’ECON».
   «In combutta col Colonnello! Questa poi!» esclamò Juri. «I nostri libri di storia sono tutti sbagliati. Credevamo che quei due fossero acerrimi nemici. Invece complottavano assieme... e sono stati così abili che nessuno li ha mai scoperti».
   «Finora» corresse Vosk. «Ora che lo sappiamo, abbiamo un vantaggio. Dobbiamo pianificare attentamente la prossima mossa. Se il piano originale non funziona... lo correggeremo» disse, stringendo gli occhi vermigli.
 
   Trasformatasi da inseguitrice a fuggitiva, Jaylah si nascondeva in uno dei piani più alti del grattacielo. Superata la zona degli uffici, lì c’erano grandi macchinari, necessari a mantenere le forniture di acqua, gas ed elettricità ai piani sottostanti. Quelle erano le arterie dell’edificio, che lo mantenevano efficiente e consentivano a migliaia di persone di vivere al suo interno. C’erano molti anfratti in cui nascondersi. L’Agente Temporale restò lì, in un angolo buio tra gli ingranaggi, mentre le guardie passavano oltre. Quando sentì che le voci si erano allontanate contattò la sua squadra, chiedendo un rapporto. Gli Agenti la informarono che il sarin aveva ucciso quasi tutti i partecipanti al summit, ma le figure chiave destinate a sopravvivere nei giorni o anche negli anni a venire si erano salvate.
   «Allora la vittoria dei Na’kuhl è stata inutile» commentò Jaylah, non sapendo se esserne sollevata o preoccupata. Di certo gli attentatori erano più agguerriti del previsto.
   «C’è solo un problema» l’avvertì Adam, che dall’Excalibur sorvegliava gli spostamenti e i segni vitali di tutti gli Agenti. «Selmak era andato a cercare Kamala Singh, che era uscita di sala poco prima dell’attentato. Ci ha segnalato di averla trovata, ma poi ho perso i suoi segni vitali. Ho mandato Lavin a investigare...».
   «Lavin a Chase, ho trovato Selmak» disse l’Agente Temporale, inserendosi nella conversazione. «L’hanno assassinato. Strangolato, per la precisione. Devono aver usato un laccio o qualcosa di simile, perché non c’è traccia di DNA. Gli hanno anche preso il phaser e gli altri strumenti. E gli hanno tagliuzzato le dita, forse per prelevare campioni di tessuto».
   «Frell!» imprecò Jaylah. Le contaminazioni temporali si accumulavano. E l’uccisione di Selmak, sommata al fatto che Kamala era uscita subito prima dell’attentato, le faceva sorgere orribili sospetti su quella donna. «Disintegra il corpo, prima che vengano a portarlo via» ordinò.
   Il Malcoriano regolò l’arma ed eseguì senza esitazione. «Fatto» disse. «Lei dov’è, Tenente? Sarebbe il caso di riunirci».
   «Sono nei piani alti... ancora braccata dalla sicurezza locale» ammise Jaylah.
   «Veniamo ad aiutarla» si offrì Lavin.
   «No, ci sono già stati troppi avvistamenti» decise la caposquadra. «Andatevene senza interagire più coi terrestri. Io me la caverò».
   «Come vuole» fece il Malcoriano, un po’ dubbioso. «Lavin, chiudo».
   «Adam, chiudo».
   Jaylah respirò a fondo e si preparò a lasciare il rifugio. Ma in quella alcuni uomini entrarono nello stanzone. Dalle uniformi sembravano soldati dell’ECON. Avevano persino caschi con visori a infrarossi. La mezza Andoriana si rattrappì nel suo cantuccio.
   «Sappiamo che sei qui, intrusa!» avvertì il caposquadra. «Le telecamere ti hanno ripresa mentre salivi. Non puoi scappare e nemmeno nasconderti a lungo. Vieni avanti con le mani in alto!».
   Approfittando del buio, Jaylah cercò di allontanarsi, scivolando fra i macchinari e le ruote dentate. Ma la sua segnatura termica la rese visibile agli infrarossi. Uno dei soldati sparò; Jaylah sentì la pallottola passarle accanto. Accorgendosi d’essere troppo scoperta, dovette rispondere al fuoco. Al posto del phaser usò la pistola che aveva preso al sorvegliante, durante la breve colluttazione. Non volendo uccidere nessuno, mancò volutamente i soldati. Sperava che arretrassero; invece risposero con una gragnola di colpi. Ma il peggio fu quando il caposquadra rispose al fuoco... con un phaser. Il raggio passò a un centimetro dal collo di Jaylah, che non sapeva se era tarato su stordimento o uccisione.
   «Dren!» imprecò la mezza Andoriana. Visto che si giocava a carte scoperte, gettò la pistola e impugnò a sua volta il phaser. Correndo e saltando da un macchinario all’altro, cercò di stordire gli avversari. Aveva un certo vantaggio, perché si trovava più in alto di loro e gli ingranaggi le fornivano riparo. Ma l’aggressività di quei soldati era incredibile. Invece di mettersi al riparo si fecero avanti, continuando a sparare.
   «Te la sei cercata» pensò Jaylah, colpendo il caposquadra in pieno petto. Anziché cadere stordito l’uomo vacillò appena. Si riprese subito e corse in avanti, spiccando un balzo prodigioso, che lo portò al livello di Jaylah. Gli altri soldati fecero lo stesso.
   Atterrita da quel vigore innaturale, la mezza Andoriana batté in ritirata. Sgusciò fra gli ingranaggi in movimento, sfuggendo di poco alle pallottole e ai raggi phaser. I soldati la inseguirono e, pur avendo un equipaggiamento più pesante e ingombrante, accorciarono le distanze. Jaylah si accorse che non riusciva a seminarli. Anzi, si erano aperti a ventaglio per intrappolarla nel mezzo.
   Visto che lo stordimento non funzionava, l’Agente Temporale dovette regolare il phaser su uccisione. Riuscì ad abbattere un inseguitore. Un altro le balzò addosso con un salto portentoso. La mezza Andoriana lo intercettò con un calcio, scaraventandolo nella tromba di un ascensore. Pensava di essersene sbarazzata. Ma l’uomo afferrò i cavi, interrompendo la sua caduta, e risalì velocissimo. C’era una sola spiegazione per quelle capacità. «Potenziati!» sibilò Jaylah, vedendo che il caposquadra le era quasi addosso. «Credevo vi avessero sterminati nelle Guerre Eugenetiche».
   «Quelli di prima generazione, sì» sorrise l’uomo. «Noi siamo i loro discendenti. Io sono il Maggiore Zheng... e tu sei in un mare di guai».
   Jaylah lasciò la zona dei macchinari e infilò una scala a chiocciola, sempre tallonata dai Potenziati. Giunta in cima trovò una porta chiusa. Senza nemmeno rallentare, sparò alla serratura e aprì l’uscio con una spallata.
   Si trovò all’aperto, nella parte più alta del grattacielo. Lì c’erano grandi antenne e parabole satellitari, necessarie per garantire i collegamenti telefonici e informatici. A ottocento metri d’altezza il vento era sostenuto. La vista spaziava sulla metropoli di Dubai e sul Golfo Persico. Le strade sembravano nastri sottili e gli altri edifici, compresi i grattacieli, parevano dei nani in confronto al colosso su cui si trovavano. Era una vista così vertiginosa che Jaylah dovette distogliere lo sguardo. Si allontanò dall’orlo del tetto, cercando un posto in cui nascondersi. L’attimo dopo i Potenziati sbucarono dalla scala a chiocciola. Uno di loro restò a presidiarla, mentre gli altri si divisero, andando in caccia.
 
   L’Agente Temporale riuscì a nascondersi per qualche minuto fra le antenne e le travature affastellate sulla sommità del grattacielo. Ma i Potenziati erano implacabili. Riuscivano a cogliere il minimo suono di passi, forse anche il respiro della loro preda. Dopo averla localizzata balzarono sugli spalti per raggiungerla.
   Inseguita da due soldati, Jaylah fu colpita alla gamba da un proiettile. Il dolore la fece incespicare e le annebbiò la vista. Non poteva più nascondersi, ora che si lasciava dietro una traccia di sangue. Sangue viola, per di più, che la rivelava come un’aliena. Vedendo le macchie a terra, il Maggiore Zheng s’inginocchiò e prelevò un campione. «Che cosa sei?» mormorò assorto. Poi contattò la sua principale. «Zheng a Singh, abbiamo inseguito l’intrusa sul tetto. C’è una complicazione... anche lei sembra aliena».
   «Allora la voglio viva» ordinò Kamala.
   Messa alle strette, Jaylah si nascose dietro una grande parabola satellitare. Prese una granata stordente – l’unica che aveva con sé – e se la lanciò alle spalle. L’esplosione investì in pieno i due Potenziati, ma l’Agente non sapeva quanto fosse efficace contro di loro. Si sporse dal rifugio e fece fuoco, con il phaser tarato su massimo stordimento. Colpiti in pieno, i due Potenziati si accasciarono. Jaylah si avvicinò zoppicando. Le nanosonde nel suo flusso sanguigno stavano già rimarginando la ferita, ma non potevano dissolvere il proiettile, che era ancora nella gamba. Per quello serviva un intervento chirurgico, o al limite un teletrasporto di precisione. La mezza Andoriana pensò che aveva fatto male a travestirsi da civile. Sarebbe dovuta venire con la tuta corazzata, come la maggior parte dei suoi Agenti.
   «Jack ha capito tutto, quando si è fatto l’armatura da Spettro» pensò Jaylah. «Se sopravvivo, devo procurarmi qualcosa di simile!». Avvicinatasi cautamente ai due Potenziati, li ritenne fuori combattimento. Si stava guardando intorno in cerca degli altri, quando uno dei due riaprì gli occhi e le diede un calcio, proprio nella gamba ferita. La mezza Andoriana gridò di dolore e cadde in ginocchio. Il Potenziato si rialzò, estrasse il pugnale e le sferrò un colpo alla gola. Jaylah tirò indietro la testa, sfuggendo per un soffio alla lama, e sparò di nuovo. Lo colse in pieno petto, riuscendo finalmente a stordirlo.
   «Niente male» disse Zheng, comparendole a fianco. Le puntò il phaser alla tempia, così da impedirle ogni contromossa. «Ma la partita finisce qui. Getta l’arma!».
   Jaylah fu costretta a obbedire. Rialzatasi con un certo sforzo, osservò il phaser dell’avversario. Non era quello preso a Selmak, la cui codifica genetica impediva agli estranei di usarlo. No, era un modello molto vecchio. All’Agente servì qualche secondo per riconoscerlo: risaliva al XXIII secolo. «Dove ti sei procurato quell’arnese?» domandò.
   «Non fai tu le domande» rispose il Potenziato. «Vieni!» ordinò, afferrandola per un braccio. Jaylah si scosse e le antenne fecero capolino dai capelli arruffati. «Eh?!» fece Zheng, distraendosi per un attimo.
   Conscia di dover tentare il tutto per tutto, Jaylah si mosse. Sferrò un colpo rapidissimo al Potenziato, facendogli schizzare via l’arma di mano. Poi lo colpì al collo con il taglio della mano. Un colpo del genere avrebbe rotto la trachea a un uomo normale. Il Potenziato boccheggiò, ma resistette e le afferrò il braccio. La scaraventò a cinque metri di distanza, contro la parabola. L’impatto fu così violento che il disco bianco ruppe i sostegni e si ribaltò su un fianco, come una scodella.
   Jaylah si era appena rialzata che Zheng le saltò addosso, armato di pugnale. La mezza Andoriana estrasse la sua ultima arma, il coltellino multiuso che Vrel le aveva regalato l’anno prima, dopo la missione contro i Devidiani. Tra le varie funzioni c’era anche una vibro-lama. L’attivò e parò il colpo. I due lottarono così, tra le antenne e le tubature, cadendo e rialzandosi. Lo scontro li portò sugli spalti del grattacielo, dove soffiava il vento e le pareti scendevano lisce per centinaia di metri: una caduta che non lasciava scampo neanche ai Potenziati.
   La mezza Andoriana era spossata e sanguinante: sapeva di non poter tenere testa all’avversario. Si lasciò cadere verso un’antenna, che sorgeva in un pianerottolo qualche metro più in basso, e l’afferrò a mezz’aria. L’asta metallica cigolò ma non si ruppe. Flettendosi rallentò la sua caduta, permettendole di arrivare sul pianerottolo illesa, anche se con la gamba dolorante. Jaylah la trattenne per qualche secondo. Quando vide l’avversario che si affacciava dal cornicione la lasciò andare. La grossa antenna si rialzò e poi si fletté dall’altra parte, arrivando dritta in faccia a Zheng. Lo colpì con tale forza che il Potenziato fu scagliato all’indietro. Nell’atterrare urtò un tubo metallico con la nuca, restando finalmente stordito. Sarebbe morto, se il casco militare non avesse attutito gli impatti.
   Jaylah vacillò, stremata. L’inseguimento e la lotta con i Potenziati avevano esaurito tutte le sue forze. Ma non era ancora finita: c’era un Potenziato che presidiava l’ingresso al tetto e probabilmente altri in arrivo. Oltre alla sicurezza ordinaria. Ma lei non poteva sostenere altri scontri. «Chase ad Adam... devi portar giù l’Excalibur, per permettermi di salire» farfugliò, premendosi il comunicatore.
   «Arrivo, Tenente. Sarò lì fra dieci minuti» promise l’androide.
   Jaylah aveva appena cominciato a guardarsi intorno, per cercare un altro nascondiglio, quando fu colpita alla schiena da un raggio phaser. Cadde con la faccia in avanti. Non era morta, ragionò, quindi il phaser doveva essere tarato su stordimento. I suoi potenziamenti la mantenevano cosciente, ma non riusciva a muoversi. Il prossimo colpo l’avrebbe messa definitivamente KO. Sentì dei passi che si avvicinavano.
   «Guarda, guarda!» disse una voce femminile, tutta contenta. «Cos’abbiamo qui?». La nuova arrivata infilò un piede sotto al corpo di Jaylah e la rivoltò sulla schiena.
   Mezza svenuta, l’Agente si trovò a fissare il cielo. Per un attimo fu abbagliata dal sole pomeridiano. Poi una figura si stagliò in controluce. Era una donna molto alta, con la testa e le spalle avvolte dall’hijab. Impugnava il phaser del XXIII secolo perso poco prima da Zheng.
   «Tu non sei come l’altro alieno» notò Kamala Singh. «Appartieni a una specie diversa. Hai lottato in modo impressionante... ce ne sono molti come te?».
   «Nessuno è come me» borbottò la mezza Andoriana, dolorante e paralizzata. «Sono unica».
   «Allora abbiamo qualcosa in comune!» trillò Kamala. «Sono certa che diventeremo ottime amiche» aggiunse, mirando accuratamente al cuore di Jaylah. «Non temere... io e te passeremo taaanto tempo insieme!» promise, e premette il grilletto. 
 

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Capitolo 9
*** Tempus fugit ***


-Capitolo 8: Tempus fugit

 

   Man mano che riacquistava consapevolezza, Zafreen si accorse d’essere tutta indolenzita. Non era propriamente una sensazione di dolore. Somigliava più alla stanchezza, ma le arrivava fin nelle ossa. L’Orioniana si stiracchiò e sbatté gli occhi, cercando di mettere a fuoco la visione. Si accorse d’essere ancora in sala macchine.

   «Strano... pensavo che mi avrebbero portata in infermeria. Forse sono svenuta solo per qualche secondo».

   Però c’era qualcosa di anomalo. Le luci erano stranamente virate verso il rosso. Non era solo l’effetto dell’Allarme Rosso: ogni pannello luminoso, consolle e spia aveva una tonalità alterata. I tasti blu erano diventati verdi, quello verdi erano gialli, mentre i gialli si erano arrossati. Quanto ai comandi arancioni o rossi, avevano assunto una tonalità purpurea molto fioca. Confusa e intorpidita, Zafreen avrebbe voluto che qualcuno l’aiutasse a rialzarsi, ma a quel punto notò la seconda stranezza.

   La sala macchine era completamente vuota.

   Non c’era un solo ingegnere in vista, sebbene le consolle indicassero che la situazione era ancora critica. I livelli energetici del nucleo erano ben oltre i limiti di sicurezza. In realtà c’era un’altra stranezza: le consolle erano come congelate. Invece di scorrere, man mano che venivano aggiornati, i dati erano sempre gli stessi. Inoltre molti comandi, che avrebbero dovuto lampeggiare, non lo facevano. Non si udivano nemmeno gli allarmi che, in quelle circostanze, avrebbero dovuto squillare. Zafreen pensò che forse i comandi erano danneggiati, anche se era molto strano che il problema colpisse tutte le consolle e persino gli altoparlanti. Ma soprattutto, dov’erano finiti gli ingegneri? Avrebbero dovuto essere lì, indaffarati a salvare la nave.

   «Forse le radiazioni sono così alte che nessuno si azzarda a entrare. Ma in tal caso dovrei essere morta. O lo sarò entro un minuto».

   Eppure Zafreen non si sentiva così male. Anzi, l’indolenzimento stava passando. Visto che non c’era nessuno ad aiutarla, l’Orioniana si alzò da sola. Per un attimo la testa le girò, ma poi i pensieri si schiarirono. Si guardò attorno, prima in direzione del nucleo, poi verso l’estremità opposta della sala. E finalmente li scorse. Gli ingegneri erano lì, nascosti ai lati dell’ingresso, che sbirciavano all’interno come bambini curiosi. Nessuno si muoveva.

   «Beh, che fate lì impalati?!» li richiamò Zafreen. «Il nucleo può esplodere da un momento all’altro! Venite a fare il vostro lavoro!».

   Gli ingegneri non ebbero alcuna reazione. Rimasero tutti a fissarla, immobili e silenziosi.

   «Ehi, dico a voi, screanzati! Almeno siate contenti di vedermi viva! E ditemi cos’è successo a Dib. Stava davanti a me, quando quel raggio ci ha investiti. A proposito, che cos’era?» chiese l’Orioniana, avvicinandosi.

   Anche stavolta non ottenne la minima reazione. Gli ingegneri rimasero fissi come statue. Zafreen si accorse che fissavano l’interno della sala, ma non lei in particolare, perché quando si muoveva non la seguivano con lo sguardo. Non sbattevano nemmeno gli occhi.

   Un’orribile sensazione si fece strada in lei. Era come un brivido che le risaliva il corpo, penetrando fin nel midollo. Corse verso gli ingegneri, che non si mossero nemmeno quando fu loro addosso. Sventagliò la mano davanti agli occhi di un Rhaandarite, mentre lo chiamava a squarciagola. «Ehi, dico a te, testone! Rispondimi, frell! Non sono una che passa inosservata!».

   Ma non c’era niente da fare. Vedendo gli ingegneri così paralizzati, Zafreen ebbe paura e si ritrasse. «Zafreen a plancia... rispondete, vi prego» disse con voce tremante, premendosi il comunicatore. Nessuna risposta. L’Orioniana pensò di uscire da lì, per setacciare la nave in cerca di qualcuno attivo come lei. Ma aveva paura a sgusciare tra i tecnici paralizzati. Così decise di restare in sala macchine, per il momento. Si girò con l’idea di andare a una consolle per farsi un quadro della situazione. E si trovò di fronte Dib. O per meglio dire, il pettorale della sua tuta termica, visto che il Penumbrano era molto più alto di lei.

   «EEEEK!!!» strillò l’Orioniana, quasi cascando all’indietro.

   «Ben svegliata, Guardiamarina» l’accolse l’Ingegnere Capo, con la sua voce un po’ sommessa. «Scusi se non mi sono mostrato subito, ma ero nella sala ausiliaria per verificare la situazione. Sono lieto di vederla nuovamente cosciente. Ha dormito a lungo».

   Ripresasi dallo spavento, Zafreen apprezzò di non essere sola. «Dib! Sei vivo... e non sei bloccato come gli altri!» gioì, abbracciandolo stretto.

   «È vero che sono vivo... ma lei sbaglia nel pensare che i miei colleghi siano bloccati» corresse il Penumbrano, staccandosela garbatamente di dosso.

   «E allora che gli prende?!» volle sapere Zafreen, agitando la mano davanti al Rhaandarite, senza suscitare la minima reazione.

   «Guardiamarina, lei ricorda il raggio che ci ha investiti?» chiese Dib, volendo introdurla per gradi alla situazione.

   «Certo... cos’era?».

   «Un fascio di cronotoni ad altissima energia. Quelle particelle sono state assorbite dai nostri organismi» spiegò il Penumbrano. «Non dovrebbe esserci pericolo per la nostra salute... però c’è un effetto inaspettato. Quando ho detto che lei ha dormito “a lungo”, mi riferivo al nostro quadro percettivo. Dal nostro punto di vista sono trascorsi 47 minuti dall’incidente. Ma per il resto della nave, e dell’Universo, sono passati appena 2820 microsecondi».

   Zafreen non reagì subito. Per un attimo rimase immobile, processando l’informazione. «Cioè, stai dicendo che ci muoviamo alla velocità della luce?!».

   «Assolutamente no» rispose Dib. «La luce si muove molto più in fretta di noi. Altrimenti non potremmo vedere nulla. Ma come avrà notato, l’illuminazione è sensibilmente virata verso il rosso, cioè verso le frequenze basse dello spettro elettromagnetico. Ciò accade perché i fotoni perdono energia, dovendo seguire i nostri movimenti rapidissimi. Ho determinato che attualmente ci muoviamo a circa un trentesimo della velocità della luce».

   «Roba da matti... non avevo mai sentito di un incidente del genere. È la prima volta che accade?» chiese Zafreen.

   «C’è un solo precedente, verificatosi sull’Enterprise di Kirk nel 2268, mentre esplorava il pianeta Scalos» rivelò il Penumbrano. «Gli Scalosiani vivevano accelerati nel tempo e fecero in modo di accelerare anche alcuni membri dell’equipaggio, tra cui il Capitano Kirk. Ma il modo in cui lo ottennero non è mai stato pienamente compreso».

   «Aspetta... tu puoi farci tornare normali, vero?!» chiese Zafreen. L’idea di restare bloccata sulla nave, con tutti i colleghi immobili e la sola compagnia del Penumbrano, le faceva accapponare la pelle.

   «Posso studiare quanto ci è accaduto e, se ne comprendo il meccanismo, cercare d’invertirne gli effetti» rispose Dib, senza sbilanciarsi. «Ma non lo farò subito» aggiunse.

   «Perché no?» si stupì Zafreen.

   «La Keter ha subito danni catastrofici» spiegò l’Ingegnere Capo. «Il nucleo perde, gran parte dei sistemi è offline e abbiamo falle da cui entra il metano liquido. Inoltre la nave continua a sprofondare nell’oceano, così che la pressione aumenta e il metano entra con sempre più forza, minacciando di sfondare le paratie d’emergenza. La nostra sopravvivenza non è mai stata così a rischio. Perciò intendo approfittare della nostra condizione accelerata per riparare i sistemi chiave in breve tempo. Possiamo mettere in sicurezza la nave nell’arco di pochi secondi, dal loro punto di vista» disse, accennando ai colleghi.

   «Ah... hai ragione» ammise Zafreen. «Se la metti così, è una fortuna che ci sia capitato quest’incidente. Ma quanto tempo ci servirà, dal nostro punto di vista?».

   «Dipende» rispose l’Ingegnere Capo. «Se volessimo riparare ogni minimo danno alla nave impiegheremmo mesi, se non anni, dato che siamo in due e che lei è scarsamente qualificata».

   «Grazie tante!» fece Zafreen, che trovava irritante la brutale onestà del Penumbrano. «E se ci limitassimo ad assicurarci che la Keter non esploda?».

   «In quel caso basteranno una decina di giorni».

   «Dieci giorni!» esclamò l’Orioniana, contrariata. «E per tutto questo tempo saremo io e te, su una nave di stoccafissi. Nessun altro con cui parlare!».

   «Le riparazioni ci occuperanno a tempo pieno» ammonì Dib. «Non avremo tempo per indulgere in attività sociali irrilevanti».

   «Saranno irrilevanti per te, ma non per me» puntualizzò Zafreen. «Noi Orioniani abbiamo bisogno di stare in compagnia. L’isolamento sociale è il nostro peggiore incubo!».

   «Ritiene che dieci giorni in mia compagnia possano compromettere la sua sanità mentale?» indagò Dib. Il protoplasma azzurro che lo componeva ruotò nel casco, dando l’impressione che fissasse Zafreen, mentre rimuginava fra sé.

   «Beh, no... detto così è brutto...» annaspò Zafreen, in difficoltà. «Cioè, non intendevo offenderti».

   «Non sono offeso» assicurò il Penumbrano. «Risponda alla domanda, prego».

   «Ascolta, io... sono felice di non essere sola in questa situazione» spiegò Zafreen. «Se avessi potuto scegliere chi altri accelerare, sta’ certo che avrei scelto proprio te. Sei l’unico che possa rianimare questa carcassa» disse, sfiorando una paratia della Keter. «E se soffrirò la solitudine, pazienza. Se fosse un anno darei di matto, ma dieci giorni li posso reggere».

   «Ne è certa?» inquisì Dib. Anche se non aveva volto, non sembrava del tutto convinto.

   «Più che certa» garantì Zafreen, sfoggiando il suo miglior sorriso. «Allora... mettiamoci al lavoro! La salvezza della nave dipende da noi!» disse, galvanizzandosi. «Da dove cominciamo?».

   «Per prima cosa dobbiamo assicurarci che il campo di contenimento sia stabile» disse Dib. «Se non riusciamo a stabilizzarlo, allora dobbiamo convertire l’antimateria in energia, in modo controllato. Se fossimo nello spazio potremmo espellerla, ma trovandoci in un oceano altamente denso non possiamo farlo. Si annichilirebbe all’istante».

   «È tutto chiaro» annuì Zafreen. «Ora com’è messo il campo?».

   Dib le mostrò una consolle. «È al 40% in diminuzione» disse, indicando il valore. «Se scende sotto il 15% l’antimateria entrerà in contatto con la materia, distruggendoci. Nel tempo normale ciò avverrà tra quindici minuti. Ma dal nostro punto di vista passeranno 28,5 anni, perciò abbiamo tutto il tempo necessario per stabilizzare il campo. C’è solo un problema».

   «E sarebbe?».

   «Provi a fare una diagnostica del nucleo. O a premere qualunque comando» la invitò Dib.

   Incerta, Zafreen premette un tasto per visualizzare altri dati. Non successe nulla. La consolle continuava a mostrarle le informazioni precedenti. «Non funz...?» cominciò l’Orioniana, ma poi si bloccò, restando a bocca aperta. «Ma sì che funziona... però è troppo lenta!» comprese.

   «Esatto» confermò l’Ingegnere Capo. «Il tempo di risposta delle interfacce LCARS è di un ventesimo di secondo, che equivale a 13,88 ore del nostro tempo. Se poi provassimo a fare una diagnostica del nucleo, della durata di dieci minuti, dovremmo attendere quasi vent’anni per il responso».

   «E allora che facciamo?» chiese Zafreen, angosciata.

   «Fortunatamente so già quali sono i guasti meccanici della nave e quindi i punti in cui intervenire» spiegò Dib. «Per quanto riguarda le operazioni che necessitano del computer – ad esempio tutti i re-indirizzamenti dell’energia – cercherò di condurle simultaneamente, dedicando una consolle a ciascuna. Ed eseguirò il maggior numero possibile di calcoli a mente».

   «A mente?!» si stupì Zafreen. «Ma sono teraquad di dati!».

   «Noi Penumbrani possiamo devolvere gran parte della nostra massa corporea alle funzioni cognitive, se le circostanze lo richiedono» spiegò tranquillamente Dib. «È ciò che intendo fare ora. Non si preoccupi... non corro alcun rischio».

   «Non rischi nemmeno di sbagliare?» indagò Zafreen. «Scusa, non volevo criticarti. È solo che basta confondere un più con un meno per far esplodere la baracca...».

   «Non deve scusarsi. I suoi timori sono giustificati, data la quantità di operazioni da eseguire» disse Dib.

   «Ah, bene... cioè, no! Malissimo!» gemette l’Orioniana.

   «Per questo motivo eseguirò i calcoli due volte, prima di procedere» promise l’Ingegnere Capo.

   «Rintraccerò tutti i d-pad che posso, così faremo qualche operazione anche lì» suggerì Zafreen. «Ma la soluzione migliore non sarebbe accelerare anche i suoi colleghi ingegneri? Così avremo un po’ d’aiuto».

   «Non sono ancora certo di come sia avvenuta l’accelerazione. Né sono sicuro di poter replicare il fenomeno in sicurezza» spiegò Dib. «Se non avessimo alternative, potrei provare. Ma nelle circostanze attuali trovo più sensato lasciare i miei colleghi nel tempo normale».

   «Okay, sei tu il capo» disse Zafreen, un po’ dubbiosa. «Allora, che facciamo per il campo di contenimento?».

   «Neutralizzare l’antimateria ci toglierebbe gran parte dell’energia, quindi tenteremo di stabilizzarlo» rispose Dib. «Sa come reindirizzare l’energia al campo tramite i collettori EPS secondari?».

   «Certo!» assicurò Zafreen. «Basta scollegare le bobine di cavitazione, fermare gli iniettori del plasma, chiudere i collettori EPS primari e aprire i secondari al 70%, scaricando i picchi d’energia tramite il deflettore» disse tutto d’un fiato, aspettandosi elogi per la sua competenza.

   «La procedura che lei ha appena descritto non esiste» disse invece Dib. «Con gli iniettori del plasma fermi, la griglia si sovraccaricherebbe fino a esplodere. Senza i dovuti accorgimenti, anche il deflettore brucerebbe».

   «Ah» si sgonfiò l’Orioniana. «Ma il plasma in eccesso va espulso tramite i collettori Bussard, vero?».

   «Negativo» disse l’Ingegnere Capo. «Sembra che lei non possieda le competenze necessarie ad assistermi» constatò. Non c’erano particolari emozioni nella sua voce, ma Zafreen si vergognò ugualmente da morire.

   «Sono l’addetta ai sensori e alle comunicazioni!» si giustificò. «Finché i sistemi funzionano me la cavo, ma se entriamo nei dettagli tecnici...».

   «Facciamo così: io mi occuperò delle riparazioni principali, mentre lei svolgerà incarichi semplici e parcellizzati, che le comunicherò di volta in volta» propose Dib. «Che ne dice?».

   «Va bene» mormorò l’Orioniana, con lo sguardo basso e il viso verde scuro per la vergogna.

 

   Cominciò così una delle esperienze più strane che Zafreen avesse mai vissuto. Erano quattro anni che viveva sulla Keter, ma l’astronave le sembrava un’altra, con l’equipaggio così congelato. Ogni volta che vedeva i colleghi immobili doveva ripetersi che stavano bene, perché era lei a essere accelerata. Eppure la loro vista continuava a turbarla. Con le luci virate verso il rosso, i danni ovunque, gli ufficiali bloccati in atteggiamenti concitati, la Keter aveva un’aria spettrale. A Zafreen ricordò un’antica leggenda di Orione, secondo cui l’Inferno consisteva nel rivedere costantemente i luoghi e le persone familiari, senza poter interagire con loro.

   La cosa peggiore era passare da un ponte all’altro. Non potendo usare i turboascensori, troppo lenti per lei, Zafreen doveva servirsi dei tubi di Jefferies. Il problema era che in molti di quei tubi c’erano dei colleghi intenti alle riparazioni. Perciò l’Orioniana doveva districarsi tra loro, stando attenta a non urtarli e soprattutto a non cascar loro addosso. Dib l’aveva avvertita: un impatto a quella velocità poteva disintegrarli.

   Per levarsi di mente i cattivi pensieri, l’Orioniana ricorse all’umorismo. Dopo aver sigillato una perdita di gas in sala macchine osservò la nuvola bianca, che si stava disperdendo in fretta nel tempo normale, ma che dal suo punto di vista avrebbe mantenuto quella forma per giorni. Si accostò a quella parte dello sbuffo che ricordava vagamente un volto, immerse il dito nel gas – che opponeva una resistenza pastosa – e vi disegnò una faccina sorridente. Quando Dib passò da lì, qualche minuto dopo, restò molto sorpreso.

   Con il passare delle ore, gli scherzi di Zafreen ebbero un’escalation. Cominciò a giocare dei tiri mancini a tutti i colleghi che le stavano antipatici, spostando i loro oggetti, macchiandogli l’uniforme o scompigliandogli i capelli. Tuttavia non aveva molto tempo per escogitare le sue ripicche, perché Dib la chiamava in continuazione, assegnandole altri compiti in giro per la nave. Fortunatamente i comunicatori, irradiati con loro, erano stati accelerati e quindi permettevano di tenersi in contatto per tutta la nave.

   A sera, Zafreen si sentiva esausta. Per dieci ore era corsa da una parte all’altra della Keter, eseguendo sotto dettatura compiti delicati, che spesso non sapeva nemmeno a cosa servissero. All’inizio chiedeva sempre spiegazioni a Dib, ma poi s’era stancata e aveva iniziato a eseguire meccanicamente. Quando la sveglia del comunicatore l’avvertì dell’ora, Zafreen decise che per quel giorno aveva dato.

   «Dib, è tardi e non ne posso più. Vado nel mio alloggio a riposare» disse. «Vai anche tu?».

   «Posso lavorare per molti giorni senza interruzione» le ripose il Penumbrano dal comunicatore. «Continuerò la mia attività. Buonanotte, Guardiamarina».

   «’notte» sbadigliò Zafreen. Si recò al suo alloggio, portandosi un dispositivo di sblocco, perché la porta avrebbe impiegato più di un giorno ad aprirsi. Anche così fu una faticaccia, perché l’anta scorrevole opponeva resistenza al tentativo di aprirla in un microsecondo.

   Quando finalmente riuscì a espugnare il suo alloggio, Zafreen era sudata ed esausta. Si consolò pensando che non avrebbe dovuto ripetere lo sforzo: l’ingresso sarebbe rimasto aperto per molti dei suoi giorni. Dovendo scegliere se cominciare dalla doccia o dalla cena, optò per quest’ultima. Aveva saltato il pranzo e il suo stomaco protestava. Si lasciò cadere sul divano, duro come il ferro, perché il cuscino avrebbe impiegato ore a modellarsi secondo le sue forme.

   «Computer, una zuppa xiqai e un filetto demma con contorno di spezie...» cominciò, per poi arrestarsi di botto. Ovviamente il computer non poteva recepire un ordine impartito a quella velocità. E il replicatore avrebbe impiegato giorni a sintetizzare il cibo richiesto.

   «Oh, no». Zafreen sentì il terrore stringerle la gola come un artiglio. Era condannata a morire di fame, nell’attesa che il replicatore eseguisse le istruzioni o che Dib scoprisse come riportarla alla normalità? No, c’erano le razioni d’emergenza, si disse con sollievo.

   L’Orioniana corse all’armadietto, lo frugò e finalmente ne trasse le scorte. C’erano barrette proteiche e pillole vitaminiche. Abbastanza da sostentarla per qualche giorno. E se fossero finite prima che loro tornassero normali, avrebbe saccheggiato altri alloggi. La Keter aveva un equipaggio di 710 elementi, quindi il cibo non mancava. Il problema era l’acqua. Nel cibo concentrato ce n’era pochissima, quindi doveva bere. Ma anche in questo il replicatore non poteva soddisfarla e il rubinetto del bagno avrebbe impiegato giorni a far uscire il getto. Per fortuna assieme alle razioni d’emergenza c’era una borraccia: ma le sarebbe durata assai meno del cibo. Zafreen bevve con parsimonia, sebbene avesse la gola secca. Nei giorni a venire avrebbe dovuto razziare le borracce degli altri alloggi, sperando che fossero al loro posto.

   Dopo la misera cena Zafreen andò in bagno, ma constatò che anche la doccia sonica avrebbe impiegato giorni a ripulirla. E con la penuria d’acqua che si ritrovava, non era neanche pensabile usarla per lavarsi. Così non le restò che passarsi un asciugamano sul corpo, per togliere il sudore. A quel punto il lato comico dell’accelerazione le era passato di mente. I prossimi giorni si prospettavano una tortura. E ancora non sapeva, in realtà, se Dib sarebbe riuscito a invertire il processo. Con questi tetri pensieri, l’Orioniana si buttò sul letto, anch’esso duro come il marmo, trascorrendo qualche ora di sonno agitato.

 

   «Buongiorno, Guardiamarina. Come si sente oggi?» l’accolse Dib, quando s’incontrarono in sala macchine.

   «Uno schifo» disse Zafreen. Informò rapidamente l’Ingegnere Capo dei suoi problemi. «Posso fare incetta di borracce e razioni d’emergenza, ma tra qualche giorno puzzerò come una Klingon» si lamentò, tormentandosi i capelli non lavati. «Tu come stai?».

   «Fisiologicamente, bene» rispose il Penumbrano. «Ma la mia tuta refrigerante ha un’autonomia limitata. Il vecchio modello poteva funzionare per sole 72 ore senza ricarica. Quello che indosso ora, dotato di batterie di riserva, mi sosterrà per nove giorni. Dieci, se porto la temperatura al limite di tolleranza».

   «Oh, Dib!» esclamò Zafreen, accostandosi. «Mi spiace... io mi lamento di queste inezie, mentre tu rischi la vita. Ma dimmi la verità: riuscirai a invertire l’accelerazione? Perché se impieghiamo questo tempo per riparare la nave, non ce ne resterà per scoprire come tornare normali».

   «Credo di poter compattare le riparazioni in una settimana, o anche meno, se mi concentro sulle cose essenziali» rivelò il Penumbrano. «Ma è indispensabile che lei faccia la sua parte».

   «Certo» annuì Zafreen. «Allora, qual è il programma?».

   «Nella giornata di ieri abbiamo stabilizzato il contenimento dell’antimateria e messo in sicurezza le armerie. Oggi ripareremo il motore a cavitazione, assicurandoci che non perda più radiazioni. Domani metteremo in sicurezza il deflettore» spiegò Dib. «Nei giorni successivi ripristineremo il supporto vitale e cercheremo di arginare le infiltrazioni di metano».

   «Tutto chiaro, capo!» disse l’Orioniana, facendo una parodia di saluto militare. «Allora oggi ci tocca la bestia, eh?» fece, accennando al nucleo quantico.

   «Ci aspettano operazioni di grande complessità» avvertì Dib. «Ricordi che le radiazioni si muovono alla velocità della luce, cioè molto più in fretta di noi. Quindi in caso di perdite...».

   «Siamo spacciati» sospirò Zafreen. Non ne poteva più di essere troppo veloce per godersi la vita, ma troppo lenta per sfuggire ai pericoli.

 

   La giornata trascorse lentamente, tra lavori rischiosi e delicatissimi. Zafreen era impressionata nel vedere il nucleo quantico così sventrato, con i suoi sofisticati componenti messi a nudo. Si accorse che stavano lavorando in un modo che sarebbe stato impossibile nel tempo normale. Certe operazioni avrebbero provocato sovraccarichi ed esplosioni; ma loro le terminavano in pochi microsecondi, evitando conseguenze. Ancora più impressionante era vedere Dib eseguire a mente le operazioni di un computer, spesso mentre eseguiva altri compiti. Fino ad allora Zafreen non si era mai interessata granché al Penumbrano, giudicandolo troppo alieno e incomprensibile; ma ora sentiva un crescente rispetto.

   A fine giornata il nucleo era a posto. C’erano ancora piccole riparazioni da eseguire, ma erano interventi di routine, che gli altri ingegneri potevano eseguire senza problemi. La perdita di radiazioni era cessata e anche il rischio d’esplosioni era scongiurato.

   «Dobbiamo festeggiare!» disse Zafreen, levandosi una ciocca di capelli sporchi e sudati dalla faccia. «Perché non vieni in sala mensa? Non mi va di cenare ancora da sola».

   «Non mi occorrono supplementi nutritivi» spiegò Dib.

   «Ma qualcosa dovrai pur mangiare!» obiettò l’Orioniana. «Sei un essere organico, non una macchina».

   «La mia specie si nutre di ammoniaca e composti idrocarburi allo stato liquido» spiegò Dib. «Ma possiamo sopravvivere per lunghi periodi senza alimentarci».

   «Beh, allora vieni a fare due chiacchiere!» lo esortò Zafreen, che non voleva restare sola su quella nave spettrale. Sarà stata una sua impressione, ma le luci sembravano sempre più rosse e fioche.

   «Abbiamo parlato per tutto il giorno» notò Dib.

   «Sì, ma solo per dire “passami una chiave isolineare di tipo C” o “c’è il 64% di probabilità che questo esploda”. Mai per dire, che so, “per divertirmi faccio questo e quest’altro” o “la mia famiglia è così e cosà”» insisté l’Orioniana, gesticolando animata.

   «Ah, capisco. Lei ha bisogno di una conversazione irrilevante per soddisfare il suo istinto sociale di animale da branco» comprese Dib. «In tal caso, l’accompagnerò. Siamo in anticipo sulla tabella di marcia, inoltre anch’io trarrò giovamento dal sospendere per un poco l’uso delle mie facoltà mentali superiori».

   «Sarebbe a dire che non serve il cervello, per parlare con me?» fece Zafreen, un po’ delusa. «Pazienza, vecchio mio! Eviterò gli argomenti filosofici» disse in tono gioviale, prendendolo a braccetto.

   Dib osservò il gesto, vagamente sorpreso, ma poi accettò la cosa e accompagnò l’Orioniana in sala mensa, dove Zafreen aveva già sistemato la borraccia e le razioni d’emergenza.

 

   «Insomma, Risa è sempre favoloso, ma ormai sono altri i pianeti-vacanza più ambiti. Argelius, Angel One, Pacifica... ci sei mai stato?» chiese Zafreen. Durante la cena aveva parlato quasi ininterrottamente, a differenza del Penumbrano, che era rimasto in silenzio.

   «Negativo» rispose Dib, e non aggiunse altro.

   «Certo che sei un gran chiacchierone!» notò Zafreen. «Non voglio costringerti a parlare... ma è possibile che fra tutte le cose che ho detto non ce ne sia una che t’interessa?».

   Dib considerò brevemente la questione. «Ciò che più m’incuriosisce sono i suoi commenti sul cibo. Sembra che le dispiaccia doversi nutrire con le razioni d’emergenza... eppure contengono tutto il necessario per sostentare il suo organismo. Perché voi Solidi date tanta importanza all’aspetto esteriore degli alimenti? Perché spendete così tanto tempo ed energie per realizzare ricette elaborate, che non rappresentano un guadagno in termini nutritivi?».

   «Perché anche l’occhio vuole la sua parte. E il gusto, e l’olfatto. Cucinare è un’arte, per molti umanoidi» spiegò l’Orioniana. «La mia gente, per esempio, gradisce cibi molto speziati. Ecco perché non sopporto queste razioni insipide» disse, fissando con disgusto i resti della cena. Al posto delle barrette proteiche si era presa un tubetto di pasta nutritiva, di consistenza simile al dentifricio. Lo aveva spremuto tutto in una ciotola, per farlo sembrare cibo normale, ma questo non bastava certo a insaporirlo. «Noi Orioniani siamo anche esperti nella preparazione di piatti afrodisiaci...» aggiunse sognante.

   «Sembra che una parte consistente della vostra cultura ruoti attorno ai rituali di accoppiamento» notò il Penumbrano.

   «Chiamaci scemi!» ridacchiò Zafreen.

   «Come vuole, scema» disse Dib.

   «Era un modo di dire» sospirò l’Orioniana. Ce la stava mettendo tutta, ma era difficile conversare con quell’alieno privo di umorismo e impermeabile alle metafore. «Però levami una curiosità. Mi sono sempre chiesta come faccia la tua specie... sì, insomma...» fece, gesticolando con le mani.

   «Sì? Continui, prego» la invitò Dib, tranquillissimo.

   Zafreen si sentiva sciocca, ma poi decise che era meglio porre la domanda nella forma più semplice e diretta, senza giri di parole. «Come nascono i piccoli Penumbrani?» chiese.

   «Noi ci riproduciamo per distillazione» rispose Dib con la massima calma.

   «Distillazione? Sarebbe a dire come il vino?» chiese Zafreen, aggrottando la fronte.

   «No, è più una miscela e una condensazione di composti idrocarburi» spiegò il Penumbrano. «Tali composti sono diffusi nel mio mondo d’origine, che somiglia al pianeta in cui ci troviamo ora. La nostra popolazione è costante, non aumentiamo né diminuiamo nel corso del tempo. Quando giunge l’ora, cioè a due terzi del suo ciclo vitale, ogni Penumbrano raccoglie i composti necessari e li miscela per creare un successore. Io, ad esempio, sono la 76ª Distillazione di Blu. Il mio predecessore era la 75ª Distillazione. Il mio successore, quando lo miscelerò, sarà la 77ª Distillazione. Ciascuno di noi istruisce il successore nelle proprie mansioni, affinché a tempo debito possa subentrargli».

   «Quindi i vostri figli sono identici a voi? Come dei cloni?» chiese Zafreen. Quel modo di fare le sembrava arido e senz’amore, anche se si astenne dal dirlo.

   «Ciascuno di noi somiglia al proprio predecessore quanto a composizione interna, anche se poi gli eventi della vita ne fanno un individuo a sé stante. Io, per esempio, sono il primo della mia specie a prestare servizio su una nave della Flotta Stellare. Nessun altro Penumbrano ha vissuto le mie esperienze» precisò Dib.

   «Beh, congratulazioni» disse Zafreen. «Quindi non sei ancora padre? E quanto ti manca?».

   «Molti anni; la nostra specie è longeva» rivelò Dib. «Tuttavia, se perissi in questa missione, non potrei tornare su Penumbra per distillare il mio successore» aggiunse. Per la prima volta Zafreen avvertì una vena di tristezza in lui. «In tal caso, un altro Penumbrano cercherà di distillare – oltre al proprio successore – un individuo che mi somigli il più possibile, per far sì che la nostra popolazione resti costante. Questo è l’unico caso in cui un Penumbrano ha due “figli”, come dite voi. E va detto che, pur creando successori simili a noi, non li facciamo del tutto identici. A volte ci sono minime variazioni di pressione e temperatura che, pur se non intenzionali, sono accettate. In altri casi cerchiamo volutamente d’introdurre piccoli miglioramenti, per assicurare l’evoluzione della nostra specie».

   «Affascinante, ma come avete fatto a evolvervi? Voglio dire, chi ha miscelato il primo Penumbrano?» chiese Zafreen.

   «Non lo sappiamo» ammise Dib. «Alcuni pensano che sia stato un evento spontaneo, come la nascita della vita nel brodo primordiale dei pianeti rocciosi. Secondo altri fu un intervento esterno, forse l’esperimento di qualche specie progredita. In ogni caso, riteniamo che tutti i Penumbrani discendano da un unico antenato. Lui e i suoi successori crearono numerosi discendenti, e così via, finché giunse il momento in cui decidemmo di stabilizzare la nostra popolazione. Nel frattempo le variazioni individuali si erano sommate a ogni generazione, così che oggi tra un Penumbrano e l’altro può esserci una notevole differenza».

   «E avete tutti nomi come il tuo?».

   «Non identici, se è questo che intende. Tra i miei collaboratori, prima che lasciassi Penumbra, c’erano la 93ª Condensazione di Fucsia e la 114ª Flocculazione di Amaranto».

   «Wow, non si finisce mai d’imparare» fece Zafreen, cercando di figurarsi come potevano essere i Penumbrani nel loro ambiente naturale. Non ci riuscì. «Beh, spero che tornerai sul tuo pianeta sano e salvo. Così potrai fare una bellissima Distillazione di Blu. E le racconterai dei vecchi tempi sulla Keter, quand’eri in mezzo a quegli strani Solidi, tra cui un’Orioniana squinternata...» disse, scherzando ma non troppo.

   «Non la considero squinternata» disse Dib. «Al contrario, penso che lei stia dimostrando una notevole capacità di adattarsi agli imprevisti. Cosa che ci sarà utile per trarci d’impiccio».

   «Dici sul serio? Non stai scherzando?» chiese Zafreen, rincuorata dal complimento.

   «Non è mia abitudine scherzare».

   «Sei un tesoro!» disse l’Orioniana, abbracciandolo brevemente. «A domani; non vedo l’ora di sistemare anche il deflettore».

 

   Il mattino dopo Zafreen si svegliò con la schiena a pezzi per via del letto rigido, ma con un po’ più di speranza per il futuro. Sarà stato che conosceva meglio Dib, ma sperava davvero che il Penumbrano trovasse il modo di riportarli alla normalità, dopo aver riparato la nave.

   Per prima cosa l’Orioniana andò in mensa, per mangiare un boccone prima di affrontare la lunga giornata di lavoro. E qui l’aspettava la prima sorpresa. Perché la ciotola con la pasta nutritiva era vuota, mentre lei era certa che ne fosse avanzata un po’ la sera prima.

   «Non è possibile. Dib non mangia questa roba. Devo essermi sbagliata. Forse ero così stanca che non mi sono accorta di averla finita» pensò. Siccome aveva fame, spremette un altro tubetto, promettendosi di stare più attenta alle razioni che consumava. Fatta colazione si presentò in sala macchine.

   «Buongiorno!» trillò, vedendo che Dib era lì. «Allora, oggi affrontiamo il deflettore?».

   «Affermativo» disse l’Ingegnere Capo. «Ha la cassetta degli attrezzi?».

   «Certo, l’ho lasciata proprio... qui...» fece Zafreen, fissando un angolo. Era vuoto. «Come non detto. Forse l’ho portata nel mio alloggio, ieri sera».

   «Negativo» disse Dib. «La mia memoria è precisa. Le posso assicurare che non aveva con sé la valigetta, quando siamo andati in sala mensa. Quindi, a meno che non sia tornata qui prima di andare nel suo alloggio...».

   «Assolutamente no» disse l’Orioniana. «Ero stanca morta. Sono andata dritta filata a dormire».

   «... ne consegue che qualcuno l’ha spostata» concluse il Penumbrano.

   «Ma chi? Se non sono stata io e neppure tu...».

   «L’unica ipotesi logica è che qualcun altro sia stato accelerato» completò Dib. «Non siamo soli».

   «E dov’è questo tipo? Perché non si è fatto vedere, in due giorni?».

   «La nave è piuttosto grande. Potremmo non averlo incrociato per puro caso» rispose l’Ingegnere Capo. «L’alternativa è che si nasconda volutamente».

   «E perché mai qualcuno dell’equipaggio si nasconderebbe da noi? Dovrebbe aiutarci, piuttosto!» obiettò Zafreen.

   «Non ho detto che sia qualcuno dell’equipaggio» avvertì Dib. «Ho detto semplicemente che non siamo soli».

   A queste parole l’Orioniana rabbrividì fin nel midollo. Finora aveva temuto l’isolamento sociale. Ma avrebbe preferito cento volte essere sola in quella nave spettrale, piuttosto che male accompagnata.

 

   Procuratisi altri attrezzi, Dib e Zafreen affrontarono il problema del deflettore. Il congegno, posto a prua della Keter, era uno dei pezzi di tecnologia più complessi e delicati dell’astronave. Ma a differenza del nucleo non era facilmente accessibile. La parabola del deflettore si affacciava direttamente sullo spazio – ora sull’oceano di metano – per svolgere la sua funzione. Nelle astronavi di vecchio tipo, che viaggiavano con la curvatura, il deflettore deviava il pulviscolo spaziale e i piccoli asteroidi che avrebbero potuto colpire lo scafo. Occasionalmente era usato per inviare segnali subspaziali a grande distanza, studiare anomalie o anche come arma. Ma nelle astronavi moderne, dotate di cavitazione quantica, il deflettore era ancora più essenziale, poiché proiettava il condotto in cui la nave viaggiava. Nella sua ultima cavitazione la Keter era uscita malamente dal tunnel, quindi il deflettore andava riparato. E poiché uscire sullo scafo era difficile in quelle condizioni, bisognava agire da dentro, grazie a tubi di Jefferies che venivano usati raramente. Molti comandi si trovavano nella sala controllo deflettore, sfortunatamente allagata dal metano liquido.

   «Per questo incarico dobbiamo dividerci, perché lei deve sbloccare alcuni controlli mentre io eseguo le riparazioni» spiegò Dib. «Vada nel tubo 74, giunzione 9, e apra il pannello. Troverà la valvola che regola il flusso ionico. La chiuda, stando attenta a non romperla per via dell’accelerazione» raccomandò. «Poi mi chiami, così le darò altre istruzioni».

   «Okay» disse Zafreen, deglutendo. «Ma preferirei che non ci dividessimo. Se è vero che c’è un estraneo...».

   «Non sappiamo se sia ostile, ma in quel caso lei dovrà difendersi» disse Dib, porgendole un phaser manuale. «Ricordi che il raggio si muove alla velocità della luce, cioè trenta volte più veloce di noi. Quindi la sua arma sarà efficace contro il nemico...».

   «... e la sua sarà efficace contro di me» completò Zafreen. «È tutto chiaro».

   «Terremo le comunicazioni aperte. Così se uno sarà in difficoltà potrà chiedere aiuto» aggiunse Dib, spalancando l’ingresso del tubo di Jefferies.

   «A presto» disse Zafreen, un po’ tremante. Entrò nel condotto semibuio.

 

   Dopo quattro anni sulla Keter, Zafreen non pensava che avrebbe rischiato ancora di perdersi, né che avrebbe provato tanta paura ad aggirarsi sulla nave. Eppure eccola lì, a farsi strada nei tubi di Jefferies, col phaser in cintura e il cuore che batteva all’impazzata. L’illuminazione rossastra rendeva l’esperienza ancora più inquietante. Ogni volta che apriva un portello, per passare a un altro tubo o alla scaletta per cambiare livello, l’Orioniana temeva di trovarsi di fronte un alieno ostile, magari un Na’kuhl infiltratosi a bordo quando avevano perso gli scudi. Tuttavia raggiunse la giunzione 9 senza aver incontrato nessuno. Trovato il pannello, vi s’inginocchiò davanti e lo aprì, scoprendo la valvola ionica. Attenendosi alle istruzioni la chiuse, con esasperante lentezza per non romperla.

   Fu allora che udì il rumore. Veniva di lato e leggermente dal basso: qualcuno si aggirava nei tubi, nella zona che lei stessa aveva percorso per venire lì. Col cuore in gola, l’Orioniana si premette il comunicatore. «Zafreen a Dib. Stai salendo da me?».

   «Negativo» rispose il Penumbrano. «Sono nell’anticamera del controllo deflettore. Perché lo chiede?».

   «Perché ho sentito un rumore. Credo che stia arrivando qualcuno» bisbigliò l’addetta ai sensori.

   «È certa di non averlo immaginato? Voi Solidi siete facilmente suggestionabili...».

   «Non ci provare! So quel che ho sentito» sussurrò Zafreen. «C’è un invasore. Forse è qui per sabotarci. Ma non glielo permetterò».

   «Se c’è un estraneo, si allontani immediatamente» l’avvertì Dib.

   «Non posso giocare a nascondino su questa nave. Non per una settimana» obiettò l’Orioniana.

   «Si allontani subito, Guardiamarina. È un ordine» disse l’Ingegnere Capo.

   «Mio padre diceva che ogni nemico va affrontato, prima o poi. Era un boss del Sindacato di Orione, ma credo che in questo avesse ragione» mormorò Zafreen, staccandosi il comunicatore. «Quindi scusa, ma non posso obbedire. Ti richiamo dopo».

   Chiuse il comunicatore nello scomparto della valvola, perché i richiami di Dib non attirassero il sabotatore. Poi estrasse il phaser e lasciò la giunzione, avventurandosi nel tubo di Jefferies semibuio. Aveva la fronte imperlata di sudore e il cuore le martellava nel petto, ma era certa di fare la cosa giusta.

   Raggiunto uno snodo, poté alzarsi in piedi. Osservò cautamente i tubi laterali. Le parvero vuoti, anche se in lontananza c’erano molti angoli bui, in cui era possibile acquattarsi. Poi guardò la scaletta, verso il basso: vuota anche quella. Fu allora che udì un fruscio sopra di sé. Mentre alzava lo sguardo, qualcuno le piombò addosso dall’alto.

   Zafreen strillò e cercò di sparare, ma una mano robusta le afferrò il polso, deviandolo. L’Orioniana fu premuta contro la paratia e immobilizzata. Riuscì a premere il grilletto ma, avendo la mano bloccata contro la parete, colpì solo il soffitto. In quel lampo rossastro, però, vide il volto dell’aggressore.

   «Hakon!».

   «Zafreen!».

   L’Illyriano la lasciò andare all’istante. «Che ci fai qui?!» volle sapere.

   «Che ci fai tu, piuttosto!» protestò l’Orioniana, massaggiandosi il polso indolenzito. «Credevo fossi bloccato come tutti gli altri... anche se in effetti non ero riuscita a trovarti».

   «Ero ancora vicino alla sala macchine quando ho sentito le urla degli ingegneri» spiegò l’Agente Temporale. «Vedendo che non uscivi sono tornato indietro. Ero davanti alla soglia quando quel raggio bianco mi ha colpito. Dopo sono stato il primo a risvegliarmi. All’inizio non capivo perché fossero tutti paralizzati... poi ho compreso che ero io a essere accelerato. Tu e Dib eravate a terra; ho creduto che il vostro tempo scorresse ancora normalmente. Avrei voluto portarti in infermeria, ma non osavo nemmeno toccarti, per timore di ferirti coi miei movimenti accelerati. E siccome non sono un ingegnere, temevo che non avrei mai capito come tornare alla normalità.

   Così ho deciso di approfittare della disgrazia per riparare alcuni sistemi della nave. Ma in molte cose non so dove mettere le mani. Non osavo cominciare dal nucleo quantico per timore di combinare disastri, così sono partito dai sistemi più semplici. Speravo di prendere confidenza, passando poi a quelli più complessi... anche se ovviamente non si diventa ingegneri in pochi giorni» ammise sconsolato. «Dib è accelerato come noi? Dimmi di sì!» esclamò, con gli occhi febbricitanti.

   «Lo è» lo rassicurò Zafreen. «Ha già stabilizzato il campo di contenimento e riparato il nucleo. Ora sta sistemando il deflettore».

   «Benedetto il suo corpo di metano!» esclamò Hakon. Trascinato dall’emozione, baciò Zafreen. «Tu invece come stai?».

   «Un po’ sconvolta... ma meglio, ora che sei qui» ammise l’Orioniana. «Scusa, non volevo dirlo. Sarebbe meglio per te se fossi rimasto nel tempo normale».

   «Ormai è andata così» disse l’Illyriano, facendo spallucce. «Ma Dib ci riporterà alla normalità, vero?» chiese con ansia.

   «Non ha ancora studiato il problema» rivelò Zafreen. «Prima vuol fare le riparazioni più urgenti. Ma è la persona più qualificata per capire cos’è successo. Vieni, torniamo da lui».

 

   Recuperato il comunicatore, Zafreen guidò Hakon lungo il percorso che aveva fatto all’andata. I due gattonarono per parecchi tubi di Jefferies e scesero di due livelli, prima di tornare nei corridoi. Erano passaggi di servizio molto stretti, ma almeno vi si poteva camminare a schiena dritta. Fatta poca strada, trovarono Dib.

   «Non so dirle quanto sono felice che sia con noi» disse Hakon, stringendogli la mano. «Lei è l’unico che possa invertire quest’accelerazione. L’aiuterò a riparare il deflettore, per quanto posso, ma dopo la pregherei di studiare il modo per tornare normali».

   «Ci sono altre riparazioni urgenti che vorrei fare» spiegò Dib. «Ma non la farò attendere troppo. Anch’io devo tornare nel tempo normale, per ricaricare la mia tuta refrigerante».

   «Mettiamoci al lavoro, dunque» disse Hakon. «Mi dica cosa fare».

   «Per intervenire sul deflettore, dobbiamo per prima cosa disattivarlo» spiegò Dib, aprendo un pannello. «Ho iniziato le procedure già il primo giorno, per farmi avanti col lavoro. Ora, dopo 48 ore del nostro tempo accelerato, il deflettore è completamente...». Il Penumbrano tacque. Tolto il pannello, aveva messo a nudo una giunzione d’energia ancora attiva. Il raggio era virato verso il rosso, ma continuava a scorrere.

   «Magari si è dimenticato qualcosa? O ha fatto male i conti?» suggerì Hakon.

   «Impossibile» disse l’Ingegnere Capo. «La mia memoria non sbaglia e il calcolo dei tempi era elementare».

   «Ma allora...» cominciò Zafreen.

   «C’è una sola spiegazione» disse Dib, fissando il flusso energetico. «E la mia sensibilità cromatica lo conferma. Questo flusso è assai più virato verso il rosso di quanto dovrebbe». Il Penumbrano si rivolse ai compagni con una strana solennità. «L’effetto delle radiazioni cronotoniche nei nostri corpi è cumulativo. Ciò significa che l’accelerazione è sempre più rapida».

   «Vuol dire che fra poco saremo veloci come la luce?» chiese Hakon, sbalordito.

   «Negativo» disse il Penumbrano. «La materia non può raggiungere velocità così elevate e mantenere le sue proprietà. Quando raggiungeremo la velocità della luce, tutte le particelle dei nostri corpi si convertiranno in fotoni».

   «Quindi moriremo?!» gemette Zafreen.

   «Sì, e non è tutto» rivelò Dib. «Secondo l’equazione E=mc2, l’energia liberata sarà pari alla nostra massa, moltiplicata per il quadrato della velocità della luce. Ciò significa che esploderemo con la potenza di tre siluri fotonici. E poiché ci troviamo dentro la Keter, la distruggeremo».

   «No! Non voglio esplodere come un siluro fotonico!» si disperò Zafreen. «Facci tornare normali prima che accada!».

   «Torniamo in sala macchine» disse Dib, avviandosi con passo svelto. «Devo studiare immediatamente il problema. Le riparazioni possono aspettare».

 

   Qualche ora dopo i tre erano ancora raccolti in sala macchine. Il lavoro era ostacolato dal fatto che le consolle e i tricorder erano troppo lenti per svolgere le loro funzioni. Perciò Dib faticava anche solo a capire di quanto fosse aumentata la loro accelerazione. Osservando le reazioni energetiche del nucleo, tuttavia, riuscì a fare una stima.

   «Ci muoviamo a un decimo della velocità della luce» disse. «Nel nostro tempo soggettivo, la raggiungeremo tra una settimana al massimo. A quel punto esploderemo».

   «C’è modo d’invertire il processo?» chiese Hakon, scuro in volto.

   «Dobbiamo neutralizzare le particelle cronotoniche nei nostri corpi» spiegò l’Ingegnere Capo. «L’unico modo per farlo senza disintegrarci è esporci a una dose massiccia di anti-cronotoni».

   «Ci sono rischi?» volle sapere l’Illyriano.

   «Un dosaggio sbagliato, anche di poco, non ci riporterà alla velocità normale» spiegò Dib. «Inoltre c’è l’eventualità di finire in uno stato di flusso bio-temporale. Significa che la nostra consapevolezza compirà balzi casuali nel tempo, facendoci sperimentare vari momenti della vita. Nel caso più grave, le diverse parti dei nostri corpi potrebbero invecchiare o ringiovanire in modo casuale».

   «Questo rimedio sembra peggiore del male» commentò Hakon, stringendo a sé Zafreen. «Può prendere delle contromisure contro i rischi?».

   «Posso provarci» disse Dib. «Ma quasi tutta l’attrezzatura è così lenta, dal nostro punto di vista, da essere inutilizzabile. Non vi nascondo che questo è il problema più complesso che mi sia mai capitato di affrontare».

   Hakon e Zafreen si scambiarono un’occhiata sconfortata.

 

   Nei giorni successivi Dib lavorò incessantemente al problema, senza fermarsi né per riposare, né per nutrirsi. La sua fisiologia aliena glielo permetteva, ma Zafreen aveva l’impressione che anche lui si stesse avvicinando al limite. A volte era così distratto che bisognava ripetergli le domande, un comportamento che l’Ingegnere Capo non aveva mai manifestato prima. Procuratosi un pennarello, cominciò persino ad appuntarsi alcuni calcoli sulle pareti e il pavimento. Erano operazioni così complesse che i colleghi non ne avevano mai visto l’eguale.

   Nel frattempo Hakon e Zafreen cercavano di aiutarlo come possibile, ma non c’era molto che potessero fare, quando si trattava di matematica e fisica quantistica. Nemmeno l’Illyriano, pur essendo un Agente Temporale, poteva avventurarsi in quel livello di complessità. Di conseguenza Dib diede loro alcune istruzioni per riparare il deflettore e il supporto vitale; erano i compiti più importanti che restavano. I due lavorarono per giorni nei tubi di Jefferies e nei condotti di servizio, subito dietro alla parabola del deflettore. Anche il loro compito però era ostacolato, poiché la sala controllo era invasa dal metano liquido. Andò meglio con il supporto vitale, che fu ripristinato in una sola giornata.

   Ogni giorno che passava, Zafreen notava che l’illuminazione si faceva più rossa e fioca, segno che i fotoni perdevano energia nel tentativo di seguire i loro movimenti fulminei. La disintegrazione era sempre più vicina. Ormai l’Orioniana non faceva più caso alle cene insipide, al giaciglio duro come pietra, ai capelli stopposi e arruffati. Tra sé cominciava a meditare una soluzione estrema. Se Dib non fosse riuscito a invertire l’accelerazione, avrebbero dovuto raggiungere una camera stagna o una delle brecce e da lì gettarsi nell’oceano di metano, per esplodere fuori dalla nave. Così non l’avrebbero distrutta.

   Prima che arrivasse quell’ora estrema, Zafreen andò in plancia, per rivedere un’ultima volta i colleghi. Radek e Norrin erano lì. Nel loro tempo normale stavano ancora contattando la sala macchine, per informarsi sul picco di cronotoni. L’Orioniana li guardò con affetto, augurandosi che superassero l’emergenza. Poi andò in infermeria, per rivedere la dottoressa Mol. Le luci bianche della sala erano talmente virate verso il rosso da farle capire che le restava poco tempo.

   «Addio, dottoressa» mormorò Zafreen, osservando malinconicamente la Vidiiana immobile. Stava pensando di lasciare un messaggio scritto da qualche parte, per informare i colleghi dell’accaduto, quando ricevette una chiamata.

   «Dib a Zafreen,si presenti subito in sala macchine» disse l’Ingegnere Capo.

   «Perché?».

   «Credo di avere la soluzione».

 

   «La chiave di tutto è il deflettore» spiegò Dib, quando furono riuniti tutti e tre. «Solo quello può emettere un fascio concentrato di anti-cronotoni. Questo fascio dovrà essere calibrato con assoluta precisione, per liberarci dai cronotoni senza mandarci in flusso bio-temporale. Per esporci dovremo accedere alla sala controllo del deflettore, che è ancora inondata. Le tute ambientali vi proteggeranno».

   «Uhm, speravo di risparmiarmi il bagno» borbottò Hakon. «Ma se è l’unica soluzione, ci sto».

   «Anch’io» disse Zafreen.

   «Allora seguitemi nel deflettore. Dobbiamo apportare alcune modifiche e regolazioni, per assicurarci che il fascio abbia la potenza e la durata necessarie» disse Dib.

   I tre si precipitarono nei tubi di Jefferies. Per parecchie ore lavorarono alacremente, sotto le direttive dell’Ingegnere Capo. Collegarono sistemi che normalmente erano separati, aggirarono procedure di sicurezza, smontarono e rimontarono componenti delicatissimi. Finalmente diedero energia al sistema.

   «Abbiamo raggiunto la metà della velocità della luce» informò Dib. «Di conseguenza l’impulso partirà fra 24 ore del nostro tempo soggettivo».

   «E tra quanto esploderemo?» chiese Hakon.

   «Ventiquattro ore e mezza» rispose Dib.

   «Grandioso» fece l’Illyriano, massaggiandosi le tempie. «O la va o la spacca».

   «C’è ancora un comando da attivare» aggiunse Dib, accennando a un trasformatore energetico. «Questo circuito va aperto fra 25 minuti».

   «Me ne occupo io» si offrì Zafreen. Regolò il comunicatore perché l’avvertisse al momento giusto. Intanto Hakon si accostò a Dib, con atteggiamento pensieroso.

   «Uhm... visto che abbiamo un po’ di tempo, vorrei farle vedere una cosa» disse l’Illyriano. «Non gliene ho ancora parlato perché non volevo distrarla, ma ormai siamo in dirittura d’arrivo».

   «Di che si tratta?».

   «Prima d’incontrarvi ho controllato i motori a impulso» spiegò Hakon. «Uno di essi ha una strana ostruzione. Potrebbe essere un frammento roccioso, un pezzo d’idrocarburi ghiacciato... ma non vorrei che fosse una mina o un drone nemico. Dopotutto i Na’kuhl sono determinati a distruggerci. Sarebbe un peccato salvare la nave da tutti questi disastri, solo per saltare in aria appena attiviamo l’impulso».

   «Vengo subito a controllare» disse Dib.

   «Mi segua» fece Hakon, precedendolo nel tubo di Jefferies. «Non è molto lontano».

 

   Strisciando nei condotti, i due raggiunsero un motore a impulso localizzato nella parte ventrale della Keter. Era un piccolo propulsore di manovra, usato per farla impennare. I federali s’introdussero in una piccola intercapedine tra i meccanismi. Hakon scoperchiò il condotto del plasma, che portava direttamente all’esterno della nave e perciò si era riempito di metano. Non doveva temere infiltrazioni, perché ben poche molecole avrebbero fatto in tempo a entrare, mentre loro erano al lavoro.

   «Ecco, l’ostruzione è poco più avanti» disse, indicando il condotto in direzione dell’ugello. «Col tricorder rallentato posso basarmi solo sulla vista. Quell’affare è un po’ troppo liscio e simmetrico per essere un pezzo di roccia o ghiaccio, non trova?».

   «Mi faccia vedere» disse l’Ingegnere Capo. Hakon si ritirò, permettendogli di prendere il suo posto nella stretta intercapedine. Il Penumbrano osservò l’interno del condotto, illuminandolo con una torcia. «Non vedo nulla» disse.

   «Come? Non vede che è lì avanti?» insisté Hakon, aprendo la cassetta degli attrezzi.

   Dib si sporse ancora di più all’interno. «Insisto nel dire che questo condotto è vuoto. Se qualcosa lo ostruiva, deve essersi ritirata a gran veloci...».

   In quell’attimo il phaser lo colpì alla schiena, vaporizzando il sistema refrigerante della tuta. Il raggio ad alta energia perforò tutti gli strati protettivi, raggiungendo il corpo gelatinoso dell’alieno. Parte dei tessuti sfrigolarono e morirono.

   «Buffo, vero?» disse Hakon in tono leggero. «Lei è veloce quasi come la luce, ma è troppo lento per me. È uno dei maggiori geni della Galassia, ma è troppo ottuso per capire il mio gioco».

   «Lei... è il sabotatore della Squadra Temporale...» comprese Dib, avvertendo i suoi tessuti che sfrigolavano per l’eccessiva temperatura. Senza la tuta termica a proteggerlo, era come immergersi nel fuoco.

   «Tra le altre cose» sorrise Hakon. Agguantò Dib per le spalle e lo scaraventò dentro il condotto del plasma. Poi richiuse la conduttura, accertandosi che fosse ben sigillata e impossibile da aprire dall’interno. «Bene... un altro problema risolto» disse fra sé, mentre risaliva nel tubo di Jefferies. «E ora torniamo dalla mia pollastrella».

 

   Mentre aspettava i colleghi, Zafreen si guardò intorno. A forza di lavorare al deflettore, cominciava a capirci qualcosa. Quello accanto a lei, per esempio, era un convertitore d’energia. E là sulla parete di fondo c’era lo stabilizzatore d’induzione, che garantiva la stabilità dei fasci di particelle emessi dal deflettore. Un leggero disallineamento avrebbe provocato un catastrofico effetto a cascata. Se la Keter fosse entrata in cavitazione con un danno del genere, sarebbe stata distrutta. Zafreen sapeva che era stato Hakon a occuparsi di quella particolare riparazione. Anche se non dubitava delle sue capacità e delle istruzioni di Dib, volle comunque darci un’occhiata.

   L’Orioniana rimosse il pannello sulla parete, per accedere a un segmento dell’apparecchio e accertarsi che fosse in ordine. Con sommo stupore, si accorse che i magneti erano del tutto disallineati. Peggio ancora, il sensore che avrebbe dovuto rilevare il problema era inattivo. Non era un incidente o un errore: un cavo era stato tagliato di netto. Quello era un sabotaggio in piena regola. E l’ultimo a ficcare le mani nello stabilizzatore era stato...

   «Hakon». Il pensiero le riverberò nella scatola cranica. Uno dopo l’altro, i pezzi andarono a posto. Hakon era salito sulla Keter da poco tempo. Aveva fatto esplicita domanda per quella nave e appena salito a bordo aveva iniziato a farle la corte. Essere in confidenza con l’addetta a sensori e comunicazioni poteva tornare utile a un sabotatore, che a volte doveva contattare i suoi capi per dare aggiornamenti e ricevere istruzioni. Zafreen ricordò che in un paio d’occasioni Hakon era presente, quando lei inseriva i suoi codici di sicurezza. E poi c’era la missione su Suliban. Qualcuno, nella Squadra Temporale, aveva fornito ai Na’kuhl i codici d’accesso dei droni. Era quasi riuscito a rovinare la missione e a far uccidere Jaylah, tanto che per rimediare Juri aveva dovuto sacrificarsi. In seguito aveva ucciso Portillus per coprire le sue tracce. E ora che era rimasto bloccato sulla nave danneggiata, Hakon stava ancora cercando di distruggerli. Ecco perché si era tenuto alla larga da loro nei primi due giorni. Ecco cosa ci faceva nella zona del deflettore quando l’aveva incontrato. In seguito aveva aspettato che Dib scoprisse come riportarli alla normalità. A quel punto il Penumbrano non gli serviva più...

   «Zafreen a Dib, rispondi» mormorò l’Orioniana, premendosi il comunicatore con mano tremante. «Zafreen a Dib, mi senti? Rispondi, maledizione!».

   Silenzio di tomba. Anche se non poteva usare i sensori interni, Zafreen non dubitò che una scansione sui segni vitali Penumbrani avrebbe dato esito negativo. Hakon aveva allontanato Dib con una scusa per ucciderlo. Ora stava tornando indietro... per uccidere anche lei. Probabilmente avrebbe espulso i loro corpi dalla nave, affinché non la facessero esplodere una volta raggiunta la velocità della luce. Era chiaro che Hakon voleva distruggere la Keter solo dopo essersi messo in salvo. La sua lealtà ai Na’kuhl non si spingeva al punto d’immolarsi per loro.

   Quando il comunicatore l’avvertì che era tempo di aprire il circuito del trasformatore, Zafreen esitò. Completare la procedura avrebbe permesso a Hakon di tornare nel tempo normale. Ma non era peggio lasciarlo accelerato, senza prospettive di salvezza e quindi più disposto a sacrificarsi per la causa? Pensando a questo, Zafreen aprì il circuito. Subito dopo sentì un suono proveniente dai livelli inferiori. Hakon stava tornando.

 

   Decisa a non farsi intrappolare, l’Orioniana corse al pozzo della scaletta e iniziò a salirla. Appena raggiunse il livello superiore infilò il tubo di Jefferies. Aveva ancora con sé la cassetta degli attrezzi, nell’eventualità che le servisse.

   «Ehi, dove vai?!» chiese Hakon, sbucando da sotto.

   «Assassino! Traditore!» singhiozzò Zafreen, scomparendo nel condotto. Si chiuse il portello alle spalle e lo bloccò con uno strumento preso dalla cassetta. Poi gattonò in avanti, più svelta che poteva.

   I richiami di Hakon si spensero in lontananza, ma subito dopo l’Illyriano si fece sentire al comunicatore: «Hakon a Zafreen, rispondi! Mi spieghi che ti è preso?!».

   «Non fingere; so tutto!» gridò Zafreen, asciugandosi le lacrime. «Sei il traditore della Squadra Temporale. Hai sabotato lo stabilizzatore d’induzione per distruggere la Keter. E hai ucciso Dib, per questo non risponde alle mie chiamate».

   Un ponte più sotto, Hakon dette un pugno alla paratia, trattenendo un’imprecazione. Quando parlò, tuttavia, aveva la voce dolce: «Amore, c’è un terribile equivoco. Io non ti farei mai del male. Non so perché Dib non ti risponda, ma ti assicuro che sta bene...».

   «E allora fammi parlare con lui! Voglio sentire la sua voce!» urlò Zafreen. Passarono diversi secondi di silenzio. «Non puoi passarmelo, vero? Scommetto che gli hai sparato alla schiena, da traditore quale sei» disse l’Orioniana. Lasciato il tubo di Jefferies, sbucò in un passaggio di servizio. Era ancora dietro al deflettore, troppo vicina a Hakon per sentirsi al sicuro.

   «Traditore?! No, io sono un liberatore» affermò l’Illyriano. «Voglio salvare il mio popolo dalla dittatura dell’Unione. Ogni anno i nostri giovani migliori vanno sulla Terra, mettendo i loro cervelli al servizio degli Umani. Gli Umani! Sai come ci trattarono, la prima volta che li incontrammo? Saccheggiarono una nostra astronave! Le rubarono la bobina di curvatura, costringendo l’equipaggio a viaggiare per anni a velocità sub-luce. Quando quei poveretti tornarono a casa, metà di loro erano morti di fame. Ma ehi, gli Umani sono nostri amici! Siamo tutti una grande famiglia, ora! E pazienza se noi Illyriani abbiamo perso ogni briciolo d’identità, di sovranità, di cultura. I demagoghi dell’Unione ci dicono che dobbiamo essere tutti uguali, cioè tutti al loro servizio. E ora, con gli Accordi Temporali, l’Unione si è arrogata pure l’esclusiva del viaggio nel tempo! Un po’ troppo potere per una sola organizzazione, non trovi? La Commissione per l’Integrità Temporale non è nemmeno eletta! Eppure decide le sorti di tutti!».

   «Credi che i Na’kuhl siano più magnanimi?» chiese Zafreen.

   «Credo che almeno non assimileranno mezzo Quadrante, come ha fatto l’Unione» rispose Hakon. «Tu sei Orioniana, dovresti capirlo! Cos’hanno fatto i federali, per fermare la vostra tratta delle schiave? Ogni tanto pizzicano qualche trafficante, ma poi lo rimettono subito in libertà. E mentre loro giocano a guardie e ladri, voi continuate a soffrire. Io però tengo molto a te. Quel che c’è fra noi è speciale, non permetterei mai che ti capiti qualcosa di male. Ecco perché ti chiedo di tornare indietro. Possiamo salvarci entrambi da questa brutta situazione».

   «Come?» chiese Zafreen, ansiosa di scoprire il suo piano di fuga.

   Hakon esitò un attimo, ma poi decise di vuotare il sacco. «Useremo il piano di Dib per rientrare nel tempo normale. A quel punto posso contattare Vosk, anche se ha cambiato epoca, perché ci apra un condotto temporale. Ti porterò in salvo con me» promise.

   «E che succederà alla Keter?» insisté l’Orioniana.

   Hakon tacque ancora per qualche istante. «La mia missione prevedeva di sabotare gli Agenti Temporali, se avessero inseguito Vosk nel passato. Ho fallito. Ma se distruggerò la Keter – cosa che Vosk desidera sommamente – sono certo che mi perdonerà. Saremo ricchi e liberi, tutti e due».

   «Col sangue dei nostri amici sulla coscienza» obiettò Zafreen.

   «Perché, tu li consideri amici? Io li trovo insopportabili» ribatté Hakon.

   «Sai cos’è che mi dispiace di più? Non il fatto che probabilmente morirò qui. No, mi spiace aver lasciato Vrel per un verme come te!» sibilò Zafreen.

   «Eppure sembrava che ti piacesse stare con me!» ridacchiò l’Illyriano. «Se fingevi, eri molto convincente. Sciocca volubile... stammi a sentire, adesso. Fra ventitré ore io entrerò nella sala controllo deflettore e tornerò nel tempo normale. Tu puoi nasconderti e continuare ad accelerare, finché esploderai, uccidendoci tutti. Oppure puoi venire con me e salvarti. Ricorda che c’è una sola occasione! Se la perdi non ne avrai altre».

   «Che garanzie ho che non mi ucciderai?» chiese Zafreen.

   «Potrei farti la stessa domanda. Temo che dovremo fidarci uno dell’altra» disse Hakon.

   L’Orioniana stava per chiedergli come pensava di cavarsela, quando lei l’avrebbe denunciato agli ufficiali, ma si trattenne. Era chiaro che, per salvarsi, il traditore doveva ucciderla prima di tornare al tempo normale. Ma saperlo non le era d’aiuto, perché se gli restava lontana sarebbe morta comunque e in più avrebbe distrutto la Keter. Così non le restava che presentarsi all’appuntamento. «Ci penserò» disse.

   «Brava... ma non pensarci troppo a lungo!» l’ammonì Hakon. «Il tempo fugge anche per noi».

 

   Le ore successive furono tra le più tormentose della vita di Zafreen. Solo la sua fuga da Orione, quand’era ragazza, le aveva dato un’angoscia simile. Attorno a lei l’illuminazione si faceva sempre più bassa e rossa, segno che si stava avvicinando pericolosamente alla velocità della luce, il limite estremo che l’avrebbe disintegrata. In quel crepuscolo sanguigno le figure dei colleghi, paralizzati in atteggiamenti concitati, apparivano spaventose. Ogni volta che ne incontrava uno, Zafreen temeva che fosse Hakon in agguato. L’Orioniana si procurò un phaser in armeria, ma sapeva di non poter tenere testa a un Agente Temporale. Per ore intere si aggirò nei corridoi, con i sensi all’erta. Non osava entrare in alcuna sala, per timore che Hakon la mettesse con le spalle al muro. Ma l’Illyriano non si faceva vedere. Zafreen sapeva perché. Il suo ex fidanzato non aveva bisogno di cercarla; le bastava aspettare presso il controllo deflettore.

   L’Orioniana sapeva che le sue possibilità di cavarsela erano scarse, ma voleva assicurarsi che, se Hakon fosse uscito vittorioso, i colleghi della Keter sapessero la verità. Quindi doveva lasciar loro un messaggio. Qualcosa che non passasse inosservato.

 

   All’avvicinarsi dell’ora X, Zafreen si procurò una tuta spaziale e la indossò. Poi, col phaser in pugno, si avventurò nei corridoi di servizio, dirigendosi al controllo deflettore. Ad ogni istante si aspettava lo scontro con Hakon. Invece arrivò a destinazione senza averlo incontrato. L’Orioniana entrò nella sala invasa dal metano e si richiuse la porta alle spalle, senza che il liquido traboccasse, data l’estrema accelerazione. Lungi dal confortarla, l’assenza di Hakon la preoccupava ancora di più.

   «Se non l’ho incontrato strada facendo, significa che mi sta aspettando qui» pensò Zafreen, guardandosi nervosamente attorno.

   La sala controllo era un ambiente stretto, incassato tra le massicce apparecchiature del deflettore. Per quanto angusta ai lati, era sviluppata su due piani, con passerelle collegate da scalette che permettevano di accedere ai comandi. La parete frontale, libera da passerelle, era affacciata direttamente sullo spazio. In quel momento nella parte più bassa c’era una grossa falla, dovuta alla battaglia col Reaper. Da lì erano entrati il metano e l’ammoniaca, prima gassosi, poi allo stato liquido, man mano che la Keter s’inabissava nel pianeta uranico.

   Data una rapida occhiata al suo livello, Zafreen controllò quello superiore, per non farsi sorprendere dall’alto. Guardò attraverso il pavimento forato della passerella: anche lì non c’era nessuno.

   In quella Hakon, che si era nascosto dietro alcuni condotti al livello inferiore, si sporse e sparò con un fucile phaser. Il casco della sua tuta riluceva come un globo rossastro nell’oscurità. Zafreen lo vide con la coda dell’occhio. E vide il fascio di particelle venirle contro alla velocità della luce, cioè abbastanza lentamente da seguirlo con lo sguardo. C’erano alcuni metri fra loro: il raggio mortale li coprì in tre secondi, abbastanza da permetterle di scostarsi. L’Orioniana stava per rispondere al fuoco, ma si trattenne. Hakon era acquattato dietro a un fascio di condotti che trasportavano grandi quantità d’energia. Non voleva rischiare di colpirli, perché un’esplosione così vicina al deflettore poteva avere effetti catastrofici. Approfittando della sua esitazione, Hakon sparò di nuovo. Anche stavolta Zafreen si scansò prima che il raggio la colpisse. «Non c’è niente da fare» disse l’Orioniana. «Siamo troppo rapidi per le armi a raggi».

   «Per questo ho portato la vibro-lama» sogghignò l’Illyriano. Gettò il fucile phaser e al suo posto brandì l’arma simile a una sciabola. La lama di nano-polimeri era del tutto estroflessa, segno che l’aveva attivata già da prima che l’accelerazione diventasse così estrema, prevedendo di averne bisogno.

   Zafreen si sentì perduta. Anche se i loro movimenti erano rallentati dall’oceano super-denso in cui si muovevano, degli affondi alle parti vulnerabili della tuta l’avrebbero danneggiata gravemente. Forse l’avrebbero forata.

   Quando Hakon lasciò il riparo dei condotti per attaccarla, Zafreen osò sparargli. L’Illyriano evitò il raggio phaser con uno scarto. Proiettatosi in avanti, sferrò una sciabolata con cui disarmò l’Orioniana. Zafreen arretrò precipitosamente, ma si trovò con le spalle al muro.

   «Addio, tesoro» disse Hakon. Brandì la vibro-lama a due mani e gliela puntò alla gola. «È stato bello fra noi... ma non mi porto mai il lavoro a casa».

   In quella l’Orioniana notò una strana massa fluttuante alle spalle dell’avversario. Era un agglomerato di consistenza gelatinosa e di colore azzurro, che cambiava continuamente forma. Somigliava a un’ameba o a un macrofago sul punto di fagocitare un batterio invasore. Ma era più grosso sia di lei che di Hakon. L’essere si deformò per passare dalla falla nello scafo. Una volta dentro, mosse con decisione verso l’Illyriano, che dandogli le spalle non poteva vederlo.

   «Aspetta!» disse Zafreen, levando le braccia per proteggersi da un eventuale fendente diretto alla visiera del casco. «Prima devi dirmi una cosa riguardo a Dib».

   «Il tuo amico blu? Non ti sarai fatta anche lui, spero!» ridacchiò Hakon.

   «Dovresti avere più rispetto per il nostro Ingegnere Capo. È stato lui a trovare il modo di riportarci alla normalità» gli ricordò Zafreen, per prendere tempo.

   «Se hai una domanda, falla alla svelta!» intimò Hakon.

   «Sì... volevo solo sapere come lo hai ucciso. Lo hai disintegrato completamente o l’hai espulso dalla nave?».

   «Gli ho sparato con un settaggio alto, ma quella tuta termica deve averlo protetto, perché era ancora tutto d’un pezzo. Così l’ho buttato fuori. Sapevo che poteva essere necessario, per questo l’ho attirato nel condotto del plasma» spiegò Hakon. «Perché t’interessa?». Alle sue spalle, la creatura allungò numerosi pseudopodi verso di lui.

   «Oh, niente... mi chiedevo se ti sei preso la briga di studiare la fisiologia dei Penumbrani» rispose Zafreen, con un sorriso perfido. «Ad esempio, sapevi che si sono evoluti su un pianeta molto simile a questo? Loro vivono nel metano e nell’ammoniaca liquidi, senza bisogno di tute. Li mangiano, persino. Così credo che tu gli abbia offerto un bagno e un pasto rinvigorente allo stesso tempo» concluse, accennando alle sue spalle.

   L’orrore si dipinse sul volto di Hakon, mentre afferrava la situazione. Il traditore si voltò e cercò di menare un fendente, ma gli pseudopodi si erano allungati in tentacoli fortissimi. In pochi attimi lo avvilupparono, immobilizzandogli tutti gli arti. L’Illyriano si dibatté vanamente, sputacchiando imprecazioni. Non aveva mai visto Dib nel suo vero aspetto, senza la tuta che gli dava forma umanoide, e ne era terrificato.

   Anche Zafreen lo vedeva per la prima volta in quella forma, ma non ne era spaventata; sapeva che non le avrebbe fatto del male. Però non poteva comunicare con lui. Raccattò le armi a raggi e si rifugiò in un angolo, osservando l’epilogo di quello scontro mortale.

   Hakon non voleva arrendersi, sapendo che lo attendeva la corte marziale, perciò continuò a dibattersi, cercando di colpire il Penumbrano con la vibro-lama. Ma l’alieno informe serrò la presa a tal punto da incrinargli il casco e alcune parti della tuta.

   «Un minuto all’impulso anti-cronotonico» avvertirono i comunicatori di Hakon e Zafreen.

   «No, basta!» gridò l’Illyriano, sentendo cedere la tuta. La grossa ameba blu lo avvolse ancora di più e si proiettò fuori dalla sala controllo, attraverso la fenditura nello scafo. In un attimo si erano volatilizzati.

   «Dib!» gridò Zafreen, pur sapendo che non poteva sentirla. Corse presso lo squarcio, ma fuori dall’astronave c’era solo oscurità. Non osò uscire, per timore di perdersi nello sterminato oceano d’idrocarburi. Tornò quindi verso la parete di fondo, mentre l’energia cresceva nei condotti e la parabola del deflettore s’illuminava, gettando un fascio di luce nelle tenebre. L’impulso anti-cronotonico stava per partire. Il comunicatore l’avvertì del tempo residuo: trenta secondi... venti... dieci...

   Il Penumbrano riapparve presso la falla. Aveva assunto forma compatta, mentre di Hakon non c’era traccia. Zafreen gli fece segno di affrettarsi, perché mancavano pochi secondi. Dib sgusciò nuovamente nella sala controllo, proprio mentre gli anti-cronotoni la inondavano.

   L’Orioniana cadde in ginocchio, sentendo di nuovo una sensazione dolorosa in tutto il corpo. Stavolta le pareva di congelare, anche se la sua tuta era integra: era l’effetto delle sue cellule che rallentavano il metabolismo. Per un poco la sua consapevolezza non fu in piena sincronia con il corpo: sentì il respiro e il battito cardiaco che rallentavano fino a cessare. Dopo di che perse conoscenza.

 

   Molto più in basso, Hakon affondava nell’oceano di metano. Cercò di risalire a nuoto, ma la tuta danneggiata lo appesantiva e lo impacciava. Inoltre, ora che si trovava fuori dalla Keter, il gigante gassoso lo attirava con una gravità enorme. Perciò l’Illyriano continuò ad affondare. Sopra di lui l’astronave era una sagoma scura, appena intuibile nel bagliore del deflettore.

   Poco alla volta il deflettore s’illuminò sempre più, finché ne scaturì un intensissimo raggio bianco, che rese pienamente visibile la Keter. Riconoscendo l’impulso anti-cronotonico, Hakon comprese di aver perso. La sua accelerazione cresceva sempre più e presto l’avrebbe fatto esplodere come un siluro fotonico. La Keter, invece, aveva discrete possibilità di uscire dal pianeta. Ma ciò non significava che avrebbe vinto la guerra. Vosk aveva ancora il Reaper e il Tox Uthat: tutto il necessario per completare la sua missione. L’Illyriano si augurò che ci riuscisse, liberando il Quadrante dalla dittatura federale.

 

   Da quando la Keter era precipitata in quel mondo uranico, dopo averle prese dal Reaper, Radek aveva affrontato un’emergenza dopo l’altra. Perciò il Comandante non si stupì più di tanto quando i sensori interni rilevarono una fuoriuscita di radiazioni dal nucleo. «Plancia a sala macchine, abbiamo rilevato un picco di radiazioni cronotoniche» disse, premendosi il comunicatore. «La situazione è sotto controllo?» volle sapere.

   «Sembra di sì» rispose un ingegnere, un po’ esitante.

   «Senza offesa, ma vorrei sentirlo dire da Dib» precisò il Comandante.

   «È questo il problema» disse il Rhaandarite, ridacchiando nervosamente. «Il capo è disperso. Come anche Zafreen. Sono stati presi in quel raggio e sono spariti».

   «Come, spariti?!» si stupì Radek.

   «Non ci sono più» confermò l’ingegnere. «Non dovrebbero essere morti. Ma non sappiamo dove siano. Ci dia qualche minuto per capirlo, okay? La richiamo io».

   Il Comandante stava per pretendere qualche spiegazione in più, quando lo schermo s’illuminò di bianco e la Keter si scosse. «Che succede? Qualcuno ci attacca?» chiese, ben sapendo che non potevano sostenere un’altra battaglia.

   «C’è stata un’esplosione alcuni chilometri sotto di noi» riferì Norrin.

   «Sotto?» si stupì Radek. Una nave attaccante li avrebbe colpiti da sopra, a meno che si annidasse nelle profondità del gigante gassoso.

   «Già, è strano... si direbbe l’esplosione di un siluro fotonico» disse Norrin, leggendo i dati dei sensori.

   «C’è dell’altro» riferì l’addetto ai sensori interni. «Abbiamo appena emesso un impulso anti-cronotonico dal deflettore. Strano... servono ore per apportare quelle modifiche».

   «Sala macchine a plancia, abbiamo notizie su Dib e Zafreen» giunse la voce del Rhaandarite.

   «Che genere di notizie? Sia più preciso!» ordinò Radek, seccato. Le cose si stavano accavallando troppo in fretta.

   «Il genere dei murales» rispose l’ingegnere, leggendo le frasi che Zafreen aveva tracciato con la vernice sul nucleo quantico.

 

HAKON È IL SABOTATORE

IO E LUI SIAMO ANCORA SULLA KETER

ACCELERATI QUASI A VELOCITÁ LUCE

PER RALLENTARE SERVE UN IMPULSO DEL DEFLETTORE

SE UNO DI NOI CE LA FA, LO TROVERETE IN SALA CONTROLLO

SE È HAKON, SBATTETELO IN CELLA E GETTATE LA CHIAVE

 

 

   Mentre riacquistava consapevolezza, Zafreen sentì il familiare indolenzimento che s’irradiava da ogni cellula. Era come aver corso la maratona... alla velocità della luce, si disse. Quando aprì gli occhi riconobbe l’infermeria. Le luci erano bianche, un ottimo segno. Provò a muoversi, ma si accorse d’essere collegata a una flebo. «C’è qualcuno?» chiese debolmente.

   «Sono qui» disse la dottoressa Mol, entrando nel suo campo visivo. «Tranquilla, è tutto finito. Sei tornata nel nostro quadro temporale. Quella serve solo perché eri un po’ disidratata» spiegò, accennando alla flebo.

   «Dib sta bene?» chiese Zafreen, guardandosi attorno. L’Ingegnere Capo non era in vista. In compenso l’infermeria traboccava di feriti, a causa della battaglia col Reaper. Per l’Orioniana erano passati giorni, ma per gli altri lo scontro era finito da poco. Molti feriti aspettavano ancora di essere medicati. Parecchi di loro erano stesi a terra, non essendoci abbastanza lettini per tutti. I dottori correvano da un paziente all’altro, affannandosi per curare i più gravi.

   «Sta più che bene» la tranquillizzò la dottoressa. «Ci ha spiegato l’accaduto ed è già tornato al lavoro. Abbiamo anche letto il messaggio che hai scritto sul nucleo. Ottima idea... senza di quello ci avremmo messo ore a trovarvi. La sala controllo deflettore è ancora inondata dal metano. Però le riparazioni che avete fatto mentre eravate accelerati ci sono di grandissimo aiuto. La Keter è in sicurezza, ora, e tornerà a volare fra pochi giorni».

   «Allora ne è valsa la pena» mormorò Zafreen. «Vorrei sapere se avete rilevato un’esplosione fuori dalla nave, come quella di un siluro».

   «Sì» mormorò Ladya. «Mi dispiace... l’amore a volte ci delude».

   «Non voglio più pensare ad Hakon» disse Zafreen, cercando di scacciare i terribili ricordi delle ultime ore. «Dimmi di Vrel, piuttosto! Avete rintracciato la sua navetta?».

   La Vidiiana ebbe un attimo d’esitazione. «Non ancora» rivelò. «Ma sono certa che il Comandante non lascerà nulla d’intentato per trovare i dispersi».

   «Devo andare» disse subito Zafreen. Balzò giù dal lettino e si staccò la flebo. «Col nucleo riparato abbiamo energia per i sensori a lungo raggio. Così posso cercare i nostri».

   «Ehi, dove credi di andare? Sei ancora convalescente!» la trattenne Ladya. Non aveva mai avuto pazienti reduci da un’esperienza di tempo accelerato. C’erano molte analisi che voleva farle, per accertarsi che stesse bene.

   «Hai detto che è solo una lieve disidratazione. Mi ricorderò di bere» ribatté Zafreen. «Qui c’è gente che ha molto più bisogno di un bio-letto» aggiunse, accennando ai feriti stesi a terra. «Lo dia a uno di loro. Arrivederci, dottoressa». Senza aspettare il permesso, l’Orioniana lasciò l’infermeria.

 

   Zafreen riprese servizio in plancia, dato che la sua postazione era stata riparata. Al suo ingresso, gli ufficiali le fecero un breve applauso e Radek si complimentò per come aveva agito nel tempo accelerato. Subito dopo tornarono al lavoro, perché la situazione era ancora critica. Bisognava sigillare le falle, espellere il metano, ripristinare numerosi sistemi. L’assenza del Capitano pesava sul morale, anche se non sull’efficienza, poiché Radek era un Comandante esperto, che sapeva collocare ogni membro dell’equipaggio là dove dava il massimo.

   Dopo parecchie ore di ricerche, Radek ordinò a Zafreen di prendersi un po’ di riposo. Anche nell’emergenza il Rigeliano si assicurava che i suoi ufficiali fossero abbastanza lucidi da svolgere i loro incarichi. Lui però era in plancia da chissà quanto, a coordinare tutti gli sforzi.

   Zafreen andò quindi in sala mensa. Alcuni replicatori erano fuori uso, ma ce n’erano un paio ancora funzionanti, davanti a cui si erano formate brevi code. Quando fu il suo turno, l’Orioniana ordinò un pasto consistente. Dopo dieci giorni di razioni d’emergenza ne aveva bisogno. Sedette a un tavolino e prese a mangiare in fretta. Sarebbe andata a riposare perché così le aveva ordinato il Comandante, ma non intendeva sprecare un solo minuto del suo tempo. Non finché Vrel e il Capitano erano dispersi.

   «Salve, Guardiamarina» disse un ufficiale alto e magro, accostandosi al suo tavolo.

   «Dib!» esclamò Zafreen, riconoscendo il Penumbrano. «Stai bene?».

   «Affermativo. L’immersione nell’oceano di questo pianeta mi ha rigenerato» rispose l’Ingegnere Capo, sedendole davanti. «E lei?».

   «L’immersione in questa cena mi sta rigenerando» rispose Zafreen, facendogli il verso. «Senti, volevo ringraziarti per avermi salvata da Hakon» aggiunse, facendosi seria.

   «Non occorre. Avrei fatto lo stesso per qualunque altro membro dell’equipaggio» rispose Dib, senza emozione.

   «Certo che sei bravo ad accettare i ringraziamenti!» rise Zafreen, ma poi si lasciò sfuggire un sospiro e tornò a concentrarsi sul pasto. «Allora, come va giù in sala macchine?» chiese tra un boccone e l’altro.

   «Le riparazioni procedono» rispose Dib. «Stiamo liberando gli ambienti dal metano, man mano che ripariamo le falle. Stiamo anche cercando altri sabotaggi di Hakon. Se tutto procede regolarmente, fra quattro giorni la Keter potrà lasciare questo pianeta. E lei, Guardiamarina? Ha rintracciato i dispersi?».

   «Sì e no» sospirò Zafreen, deponendo la forchetta. «Anche se i sensori hanno di nuovo energia, quelle dannate anomalie li disturbano. Ho individuato una traccia energetica che porta a Pyris VII, il pianeta più esterno del sistema. Ma non rilevo la navetta. Il Comandante ha inviato una sonda a cercarla; speriamo che salti fuori qualcosa».

   «Sono dolente, Guardiamarina. Ma lei non ha nulla da rimproverarsi» affermò Dib.

   «Zafreen» disse l’Orioniana. «Quando siamo fuori servizio, puoi darmi del tu». Aveva parlato in tono duro, ma poi si addolcì. «Scusa, Dib, non ce l’ho con te. Ma ho la sensazione che tutti i nostri sforzi non bastino. Che faremo, se non riusciremo a trovare i dispersi?».

   «Procederemo senza di loro, naturalmente» rispose il Penumbrano. «Il Comandante Radek subentrerà al Capitano Hod. Ma credo che tu stia pensando soprattutto al signor Shil» aggiunse.

   «Sì, beh... non pretendo che tu capisca le stranezze dell’amore tra Solidi. Tutto questo fare coppia, lasciarsi e poi tornare assieme deve sembrarti assurdo» disse Zafreen con malinconia. «Ma siamo fatti così».

   «In tal caso, non credo che dovreste andare contro la vostra natura» ragionò Dib. «Anch’io, dopo questa esperienza, ho riflettuto sulle mie priorità. L’incarico che svolgo su questa nave mi soddisfa, ma quando verrà il momento tornerò su Penumbra, per distillare il mio successore».

   «Sarà un bambino bellissimo» sorrise Zafreen. «Scommetto che avrà i tuoi occhi!».

   «Noi Penumbrani non abbiamo occhi» corresse Dib, sorpreso dall’errore.

   «Era solo una battuta» spiegò l’Orioniana. «Ma per realizzare i nostri sogni, dobbiamo prima ripristinare la linea temporale. Credi che ce la faremo?».

   «Non riesco a fattorizzare le nostre probabilità di successo. Ci sono troppe incognite» ammise l’Ingegnere Capo.

   «Dobbiamo farcela» disse Zafreen con intensità, fissando il protoplasma azzurro che il Penumbrano aveva al posto della faccia. «A qualunque costo».

 

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Capitolo 10
*** Vigilanza eterna ***


-Capitolo 9: Vigilanza eterna

 

   «Avanti» disse Vosk, quando il segnale della porta gli annunciò una visita. Il Leader Supremo sedeva alla scrivania nel suo ufficio, semibuio e spartano come il resto della nave.

   La Materia Degenere che formava la porta defluì ai lati, permettendo al visitatore di entrare. Era Kravik, che si fece avanti esitante. «Mio signore... spero di non disturbarla» mormorò.

   «L’ho convocata io, Direttore» disse Vosk con voce dura. «Ha avuto tempo per inserire i nuovi dati nei suoi calcoli. Perciò mi dica... ora che l’attentato ha avuto luogo, che possibilità abbiamo d’impedire lo scoppio della guerra?».

   Lo scienziato deglutì. «Minime, Leader Supremo. I nostri calcoli indicano una probabilità del 97% che i terrestri lancino l’offensiva atomica entro le prossime due settimane. Non è detto che siano per forza le superpotenze a premere il bottone; potrebbero anche essere fazioni minori. In ogni caso la prima esplosione atomica creerà un inarrestabile effetto a cascata. Le nazioni si bombarderanno a vicenda, secondo il gioco delle alleanze».

   «Una volta che le testate nucleari saranno in volo, non potremmo abbatterle noi?» suggerì Vosk.

   «Saranno centinaia di missili che voleranno simultaneamente in tutto il globo» spiegò Kravik. «Con una sola nave a disposizione non potremo eliminarle tutte. Al limite potremmo piazzarci sopra un continente e proteggere quello... ma non tutto il pianeta».

   «Uhm... e se rivelassi la nostra esistenza ai terrestri?» chiese il Leader Supremo. «È una possibilità cui lei e il dottor Smirnov avete accennato più volte. Dicevate che questo indurrebbe gli Umani a unirsi non nel segno della ricostruzione post-bellica, ma nel timore d’invasioni, così che resterebbero isolazionisti. Siete sempre di questo parere?».

   «Ehm, il dottor Smirnov la pensa ancora così» disse Kravik, che spostava il peso da un piede all’altro, imbarazzato.

   «Mi sembra di capire che lei invece abbia cambiato idea» indovinò Vosk.

   «Ecco, considerata la situazione temo che sarebbe arduo persuadere tutte le nazioni terrestri della nostra identità» spiegò lo scienziato. «Molte penserebbero a una montatura, ordita per distrarle. Altre diverrebbero così paranoiche da intensificare ancora la corsa agli armamenti. Per convincere tutti dovremmo star qui anni interi, facendo una dimostrazione dopo l’altra. E anche se avessimo successo, non faremmo che compattare gli Umani contro di noi. Potrebbero diventare un grattacapo anche senza la Federazione».

   «Messa così, sembra che non abbiamo speranze» borbottò Vosk. «Ma non tollero di aver viaggiato nel tempo per nulla. Ci dev’essere qualcosa che possiamo fare contro la minaccia umana».

   «Certo che puoi fare qualcosa!» disse una voce femminile, carica di rabbia.

   Il Leader Supremo scattò in piedi. Non c’era nessun altro di autorizzato nei suoi quartieri e comunque nessuno si sarebbe rivolto a lui in quel tono. Eppure la voce era stranamente familiare. «Chi sei? Fatti avanti!» ordinò in tono secco. Aprì un comparto della sua scrivania e ne trasse un disgregatore.

   «Come, non mi riconosci?» chiese la donna Na’kuhl, uscendo dalle ombre. «Sono la tua miglior stratega. La tua collaboratrice più fidata. E di tanto in tanto... la tua amante» aggiunse, sfiorandosi i lunghi capelli bianchi.

   «Ifrit» mormorò Vosk, colpito al cuore da quella vista. «La mia Ifrit». Si volse verso Kravik, per ordinargli di andarsene, ma lo scienziato era già sparito. Tornò subito a concentrarsi sulla nuova arrivata. «Com’è possibile?» chiese, deponendo il disgregatore. «Sei morta da più di trent’anni!». Per quanto i Na’kuhl vivessero molti secoli, tre decadi erano un tempo lungo da trascorrere, senza la persona amata.

   «Eppure eccomi di nuovo da te, nell’ora del bisogno» sorrise Ifrit, avvicinandosi. «Conosco la ragione delle tue angosce. Volevi alterare il passato, per eliminare la minaccia federale... ma non ci riesci. La Storia umana continua a seguire il suo corso».

   «Kravik mi aveva avvertito che poteva succedere» confermò Vosk, ancora incredulo di rivederla. «Dice che le forze storiche hanno una grande inerzia. Perciò sono difficili da arrestare». Mentre parlavano, i due continuavano ad avvicinarsi. Ormai erano faccia a faccia. «Oh, Ifrit... quanto mi sei mancata» sussurrò Vosk. Le prese una ciocca e se la passò sul volto, inalandone il profumo.

   «Eppure la soluzione è semplice» bisbigliò Ifrit. «Distruggi la Terra! Ora che il Tox Uthat è nelle tue mani, puoi farlo in un attimo. Non è per questo che te ne sei impadronito?».

   «L’ho preso per usarlo contro altri avversari, come i Costruttori di Sfere» spiegò Vosk, risalendole i capelli. «Se lo usassi per distruggere la Terra, mi attirerei contro altri Agenti Temporali. Se invece creo una nuova linea temporale in cui la Terra esiste... allora creerò anche degli interessi a mantenerla».

   «Ma se non riesci ad alterare la Storia in modo vantaggioso, allora non hai scelta» insisté Ifrit. «Devi rischiare!».

   «Sì, forse lo farò» annuì Vosk, baciandole il collo. «Ma basta parlare di questo. Dimmi come sei sopravvissuta in questi anni».

   «Non sono sopravvissuta» disse Ifrit, facendosi triste.

   «Come sarebbe?!». Il Leader Supremo interruppe le sue effusioni e arretrò un poco, per guardarla. Si accorse con orrore che c’era una sottile linea gialla sul collo di Ifrit. Una ferita da cui sgorgava il suo sangue a base d’iridio.

   «Sono morta nella Battaglia di Procyon V» spiegò Ifrit, con voce grave. «Ho duellato contro un ufficiale dell’Enterprise... e lui mi ha decapitata». Il sangue colò più abbondante. Ifrit si afferrò i capelli e, con orrore di Vosk, si staccò la testa dal collo. La tese in avanti, come un trofeo. E la testa mozzata parlò, in tono sempre più rabbioso: «Dicevi che mi avresti vendicata. Eppure sono passati più di trent’anni, e cos’hai fatto? La tua unica iniziativa verso gli Umani consiste nel salvarli da una guerra mondiale! Dovresti distruggerli, invece! Come loro hanno distrutto il nostro amore e i nostri progetti! Annientali! Annientali subito... così sarò finalmente vendicata!».

   Con la voce di Ifrit che gli echeggiava nella testa, Vosk cercò di liberarsi dall’orrenda visione. La colpì con un manrovescio, cercando di scaraventare via la testa mozzata. La scena si dissolse e il Leader Supremo si trovò ad annaspare tra le coperte. Un incubo... di questo si era trattato. Nient’altro che un incubo.

   Incapace di riprendere sonno, Vosk si alzò e si rivestì. I Na’kuhl sognavano raramente; ed era ancor più raro che facessero sogni così dettagliati. Ma non credevano neanche nel sovrannaturale. Perciò Vosk non pensò nemmeno per un istante che quella fosse Ifrit, apparsagli dall’Aldilà. No, era solo un frutto della sua mente stanca e preoccupata. Infatti Ifrit non gli aveva detto nulla che lui già non sapesse, comprese le circostanze della sua morte. La conversazione con Kravik, invece, era un ricordo autentico: risaliva al giorno prima.

   «Vosk a Kravik. Si presenti nel mio ufficio» ordinò il Leader Supremo, tramite il comunicatore da polso.

   «M-mio signore?» farfugliò lo scienziato, strappato al sonno.

   «Nel mio ufficio. Ora» ripeté Vosk, glaciale.

 

   Di lì a poco Kravik si presentò al Leader Supremo, che lo attendeva già seduto alla scrivania. Lo scienziato era preoccupato, sapendo che quella convocazione notturna doveva avere un motivo grave.

   «A che punto sono gli studi sul Tox Uthat?» chiese Vosk senza preamboli.

   «Il Tox...?» fece Kravik, ancora un po’ intontito. «Procedono, mio signore. Si tratta di una tecnologia incredibile. Più cose scopriamo, più ci accorgiamo di aver appena grattato la superficie. Quel cristallo è... vivo, in un certo senso. È una porta sul mondo subatomico e un’arma così potente da ridisegnare la Galassia. Ma è alquanto difficile da usare, per chi non possiede capacità telepatiche. Perciò stiamo progettando un’interfaccia per controllarlo. Perché, vuol farne uso?».

   «Se il prossimo tentativo di alterare la Storia terrestre fallirà... sì, lo userò per spazzare via questo sistema» confermò Vosk.

   «Vuol provare con l’altra data, il 1908? Ho già impostato le coordinate sul computer di navigazione temporale...» disse Kravik, ansioso di compiacere.

   «No, restiamo qui» decise il Leader Supremo. «Se la guerra è inevitabile, cercheremo d’indirizzarla verso un esito a noi più favorevole. Tenga d’occhio gli spostamenti di Green e dei Potenziati. L’istinto mi dice che il loro attentato fa parte di un piano più ampio. Uno che dobbiamo conoscere, perché potrebbe tornarci utile».

   «Come desidera, mio signore. C’è altro?».

   «No, può andare».

   Lo scienziato si ritirò, inquietato da quella breve conversazione. Fino ad allora aveva diviso il suo tempo fra lo studio dell’Uthat e la missione principale. Ma se il Leader Supremo voleva usare l’arma, doveva approntare in fretta l’interfaccia.

   Rimasto solo, Vosk rimuginò sulle sue mosse. Non era da lui prendere decisioni avventate, ma l’incubo di quella notte gli aveva rinfocolato il desiderio di vendicare Ifrit. E di cancellare la Terra dalla faccia della Galassia.

 

   Passando dal sonno profondo al dormiveglia, Jaylah si rese conto di essere stesa su una superficie dura. Poco alla volta le tornarono i ricordi degli ultimi momenti. L’attentato di Dubai... la fuga dei Na’kuhl... lo scontro con i Potenziati. Era stata sconfitta non una, ma due volte. E a peggiorare le cose era stata catturata. Non era la prima volta che le capitava. Mai però si era trovata in circostanze così avverse, con così poche speranze di ricevere aiuto dall’esterno. Non sapeva nemmeno se i suoi Agenti erano sopravvissuti.

   Ormai sveglia, Jaylah provò a muoversi. Si accorse di non poterlo fare: polsi e caviglie erano serrati in ceppi metallici. Finalmente aprì gli occhi, pronta al peggio. E il peggio ebbe l’aspetto di Kamala Singh, tranquillamente seduta accanto al suo lettino. Stavolta indossava un velo rosa, anziché rosso cupo. Jaylah se ne stupì, perché a Dubai aveva avuto l’impressione che lo portasse per pura formalità e pensava che in privato se lo sarebbe tolto. Erano in una stanza dalle pareti metalliche, che sembrava l’infermeria di una nave. Anche il leggero beccheggio confermò alla prigioniera che si trovavano su un’imbarcazione.

   «Buongiorno!» la salutò Kamala, con aria cordiale. «Hai dormito a lungo; sarai affamata. Che ne dici di un bel caffè caldo? È forte, come lo fanno da queste parti. Insaporito con bacche di cardamomo, cannella in polvere, chiodi di garofano e un pizzico di zafferano. Adoro cominciare così la giornata! È un tocco di civiltà che mi mette di buon’umore». La donna le porse una tazzina di caffè, tenendone un’altra per sé.

   «È difficile bere in modo civile, quando si è legati come un animale» rispose Jaylah, tendendo i muscoli per saggiare la resistenza dei ceppi. Scoprì che erano molto resistenti.

   «Ah, sì... ci sono Umani a bordo che ti considerano pericolosa. È una precauzione che tengo per loro» si giustificò Kamala.

   «Perché, non sei Umana anche tu?» chiese Jaylah.

   «Io? No, ma che dici?» rise Kamala, mettendosi educatamente la mano davanti alla bocca. «Io sono una Potenziata. Significa che appartengo al successivo stadio dell’evoluzione. È un po’ come confrontare l’Homo erectus con l’Homo sapiens sapiens. Però, visto che quasi tutti gli Umani sono ancora del vecchio tipo, cerco di farne buon uso. Sei proprio sicura di non voler assaggiare quest’ottimo caffè?» insisté, mentre sorbiva la sua tazza.

   Jaylah tese le antenne. Percepiva una tremenda minaccia in quella donna, ma non era immediata. Capì che, quando avesse deciso d’interrogarla, Kamala avrebbe usato metodi meno soft di un caffè drogato. Così alzò la testa, per quanto possibile, e bevette dalla tazzina che la Potenziata le porgeva. Il sapore era molto speziato, più di quanto le piacesse, ma almeno la caffeina la svegliò del tutto.

   «Le muovi a comando?» chiese Kamala, accennando alle antenne. «Scusa se ti sembro invadente... ma è la prima volta che chiacchiero con un’extraterrestre. Anche se devo dire che, per essere un’aliena, sei fin troppo umana. Gli esami dicono che il 50% del tuo organismo è identico al nostro. E la metà aliena non è poi così diversa. Cosa sei, un ibrido? Suppongo ti abbiano creata in laboratorio... non riesco a credere che tu sia frutto di un accoppiamento».

   Jaylah si sentì insultata dai modi di Kamala, ma non cadde nella trappola di fornirle informazioni solo per lenire il suo ego ferito. E poi il modo in cui era nata era affar suo. «Quanto tempo ho dormito?» chiese.

   «Un giorno e mezzo» rivelò Kamala. «Ti abbiamo tenuta sotto sedativi, mentre ti curavamo».

   Ricordando la sua ferita, Jaylah si guardò la gamba. Il pantalone era stato tagliato all’altezza del ginocchio, per consentire ai chirurghi di rimuovere il proiettile. La federale rabbrividì al pensiero che era stata sotto i ferri del XXI secolo. «Usano ancora i bisturi di metallo... che barbarie». Osservandosi la gamba, però, vide che della ferita non c’era traccia. Le sue nanosonde l’avevano già curata.

   «Sì, questo è ancora più affascinante delle tue prodezze in cima al grattacielo» annuì Kamala. «A dodici ore dall’intervento la ferita è completamente guarita. Non c’è nemmeno la cicatrice. Mi sono detta che forse voi alieni siete tutti così. O forse c’è di mezzo la nanotecnologia. Così ti ho prelevato un campione di sangue e l’ho analizzato». La Potenziata spinse all’indietro la sua seggiola, che aveva le rotelline, e allungò il braccio verso una mensola. Prese una provetta con il sangue violaceo di Jaylah.

   «Il tuo sangue è incredibile!» sorrise Kamala, con infantile allegria. «Globuli rossi e azzurri... emoglobina a base di ferro ed emocianina a base di rame. Sulla Terra solo alcuni artropodi e molluschi usano il rame. Ma la cosa più interessante del tuo sangue sono le nanosonde!» s’illuminò. «Da noi se ne parla da decenni, ma finora i risultati sono scarsi. Le tue, invece... sono la Nona Sinfonia nanotecnologica. Ti hanno guarita da tagli e lividi in pochi minuti. E io, come puoi immaginare, m’interesso a ogni forma di potenziamento». Kamala lasciò la sedia e si recò alla mensola. Ripose la provetta con il sangue e ne prese una che conteneva una polverina finissima. Dovevano essere le nanosonde, raccolte con un filtro molto sottile.

   «Hai preso le mie nanosonde?!» s’indignò Jaylah. Già la cosa in sé era un furto, se non peggio. Ma se i Potenziati se le fossero iniettate, acquisendo il suo fattore rigenerante, sarebbe stata una catastrofe. Già adesso erano quasi invincibili. Che avrebbero fatto, una volta ottenuto anche quel vantaggio?

   «Ne ho prese ben poche, rispetto a quelle che hai ancora in corpo» puntualizzò Kamala. «Ho notato che dopo la diminuzione si sono replicate, per tornare alla quantità precedente. Quindi, se me ne inietto alcune, anche quelle si replicheranno, dandomi una copertura totale. Molto ingegnoso... complimenti al progettista!».

   «Non vorresti mai trovarti davanti ai progettisti. Credimi» disse Jaylah in tono minaccioso. Anche se le nanosonde erano state riprogrammate da sua madre, mantenevano l’impronta dei loro creatori Borg.

   Kamala la fissò brevemente, perplessa e un po’ inquieta. Ma si riprese subito. Versò le nanosonde in una provetta contenente plasma sanguigno. Dopo averla agitata energicamente, ci riempì una siringa. Infine si sollevò la manica e si praticò lei stessa l’iniezione. Per un attimo le vene del braccio divennero più scure, man mano che le nanosonde entravano in circolo. Poi l’effetto svanì. Ma quelle macchine ingegnose avevano già cominciato a replicarsi.

   «Povera svitata... stai giocando con tecnologie che non comprendi» l’avvertì Jaylah. La facilità con cui Kamala aveva sperimentato su se stessa una tecnologia aliena, appena scoperta, la inquietava più di tutto il resto.

   «Risparmiami la predica su “ciò che gli umani non dovrebbero fare”!» ringhiò Kamala, improvvisamente aggressiva. «Io li conosco... e dico che si può fare di meglio». Così dicendo, la donna estrasse un pugnale nascosto nello stivale e si avvicinò al lettino. Era un pugnale dalla lama sottile come uno stiletto e l’impugnatura ricurva in avanti. Jaylah lo riconobbe come un sai, il famigerato pugnale diffuso nel sud-est asiatico. Temette che Kamala, gettata la maschera di cordialità, lo avrebbe usato per torturarla.

   Invece la Potenziata distese il palmo della mano sinistra e vi passò sopra la lama affilatissima. Il taglio era lungo e abbastanza profondo; doveva essere molto doloroso. Eppure Kamala non si lamentò e il suo volto non ebbe alcuna contrazione, anzi tornò disteso e sorridente. «Bene... vediamo quanto ci vuole» disse, osservandosi l’orologio da polso.

   Nel giro di un minuto l’emorragia si arrestò. La ferita cominciò subito a cicatrizzarsi. Entro dieci minuti era rimasta una lieve cicatrice, che continuava a impallidire. Di lì a poco sarebbe svanita del tutto. «Eccellente!» disse Kamala, smettendo di cronometrare. «Sono certa che impareremo ancora molto da te».

   «Se vuoi imparare da me potresti parlarmi, invece di rubare pezzi del mio corpo» sibilò Jaylah. Provò ancora a liberarsi, ma i ceppi dovevano essere di titanio, perché non ebbero il minimo cedimento.

   «Oh sì, volentieri» annuì Kamala, sedendo di nuovo accanto a lei. «Da che pianeta provieni? Dev’essere di tipo terrestre, data la tua somiglianza con noi. Probabilmente più freddo, visto che sei adatta alle basse temperature. Il tuo sangue, ad esempio, contiene un antigelo naturale, come i pesci artici. Quindi vivete tra i ghiacci?».

   «Facciamo così: tu mi racconti qualcosa di te e io vedrò di ricambiare» propose Jaylah, anche se in cuor suo non intendeva dire la verità a quell’esaltata.

   «Ti sfugge un dettaglio: non siamo in condizioni di parità» sorrise Kamala.

   «E tu che ne sai?» la sfidò Jaylah, fingendo sicurezza. «La mia specie può viaggiare tra le stelle. La nostra tecnologia è di molti secoli avanti alla vostra. Come puoi stabilire che non mi sono lasciata catturare apposta? Che non ho un esercito pronto a liberarmi? Che le tue mosse non sono sorvegliate anche ora?».

   Quelle domande incalzanti incrinarono la sicurezza della Potenziata, che si guardò attorno innervosita. «Se ti fossi lasciata catturare, credo che a quest’ora avresti già chiesto ai tuoi di liberarti» disse, ma il suo atteggiamento tradiva l’incertezza. «E va bene, faremo a modo tuo. Cosa vuoi conoscere di me? Oltre alla mia smodata passione per il caffè, s’intende» aggiunse con un ghigno.

   «Sono molte le cose che vorrei sapere, Miss Uranio Arricchito» disse Jaylah, usando il nomignolo affibbiatole dai detrattori. Sentendosi apostrofare così, Kamala smise subito di sorridere. «Com’è che una candidata al Nobel per la Pace ha sterminato i partecipanti di un summit internazionale?» chiese la mezza Andoriana. «Non fingerti sorpresa! Sei uscita dalla sala prima che arrivasse il gas nervino... e credo che tu abbia strangolato personalmente un mio collega. È chiaro che sei in combutta con Green per provocare l’escalation atomica. Quel che mi chiedo è: cosa conti di ottenere, una volta che il mondo sarà in rovina?».

   «Questi non sono argomenti di cui parlo al primo incontro» rispose Kamala, piegando le labbra in una smorfia.

   «Almeno spiegami perché odi così tanto il genere umano. E risparmiami la commedia del “sono il prossimo stadio dell’evoluzione”. Devi aver sofferto proprio tanto, per volerti vendicare su milioni d’innocenti» la provocò Jaylah.

   «Innocenti è una parola grossa!» sibilò Kamala, con sguardo omicida. «Non so come funzionano le cose da voi, ma qui sulla Terra ogni giorno è una battaglia. E io ho imparato a combattere molto presto». La Potenziata si appoggiò allo schienale della sedia. I suoi occhi si fecero distanti e le parole uscirono lente, mentre ricordava il passato.

   «Mio nonno, Khan Noonien Singh, era il più formidabile dei Potenziati... un principe che governava su milioni di persone! Avrebbe potuto dare ordine al mondo. Ma le potenze occidentali non glielo permisero. Piuttosto che accordarsi con lui, lo attaccarono a tradimento. Sterminarono i suoi fedeli, rasero al suolo il suo palazzo e le sue basi. Alla fine lo costrinsero a fuggire nello spazio, su una navicella sperimentale, prima ancora che sapesse di avere una figlia. Se non fosse stato per loro, sarei cresciuta come una principessa, nella reggia di Chandigarh». I suoi occhi si appannarono mentre evocava quei sogni da tempo perduti.

   «Invece ho trascorso i primi anni della mia vita sempre braccata, attraverso il Medio Oriente. I miei genitori erano entrambi Potenziati, perciò erano nel mirino dell’AEV» riprese Kamala, indurendosi. «La conosci? Significa Armata dell’Eterna Vigilanza. È una milizia internazionale, creata durante le Guerre Eugenetiche per individuare e uccidere quelli come me».

   Jaylah frugò nella memoria. Sì, da qualche parte aveva letto dell’AEV. Si riteneva che al termine delle Guerre Eugenetiche fosse stata smantellata, anche se nessuno conosceva i dettagli. Da come parlava Kamala, però, era chiaro che l’organizzazione era rimasta attiva molto più a lungo.

   «Avevo sei anni quando i militari ci scovarono» proseguì la Potenziata. «Ammazzarono mamma e papà davanti ai miei occhi, sparandogli in testa. Riuscii a fuggire, solo per trascorrere i tre anni successivi in un’oscura vallata di un’area tribale. Sai cosa fanno laggiù, alle ragazzine che vogliono studiare? Ne ho vista più d’una venire lapidata. A nove anni, gli anziani del villaggio decisero che ero pronta per le nozze. Così mi dettero in pasto a un miliziano. La prima notte fui disobbediente... e mio marito decise di punirmi».

   Così dicendo Kamala si disfece il velo che le incorniciava il viso, scoprendo i capelli corvini. Poi si scostò una ciocca sul lato destro, mettendo a nudo l’orecchio. O meglio, la sua mancanza. Il padiglione auricolare era stato mozzato: c’era solo il foro del condotto uditivo, che portava al timpano. Jaylah rabbrividì, non tanto per la mutilazione, ma al pensiero che era stata inferta a una bambina di nove anni... e per quale motivo. Adesso capiva perché la Potenziata si copriva sempre con il velo. La sua mutilazione doveva essere ignota al grande pubblico, dato che non ne aveva trovato cenno nelle biografie.

   «Siccome piangevo, e il rumore lo disturbava, disse che mi avrebbe tagliato anche la lingua» riprese Kamala, drappeggiandosi di nuovo l’hijab. «L’idiota riprese il coltello... e io afferrai il suo kalashnikov. Quella notte appresi che l’unica giustizia è quella che ci facciamo da soli. Ancora imbrattata di sangue, giurai che avrei trattato il mondo esattamente come il mondo aveva trattato me. Così presi le taniche di benzina, incendiai il villaggio e me ne andai, mentre quei miserabili si affannavano a spegnere le fiamme». La Potenziata sorrise e si leccò le labbra a quel ricordo.

   «Raggiunta la capitale, riuscii finalmente a studiare e cominciai a fare carriera. Scoprii subito che il mio intelletto superiore mi apriva tutte le porte. E se qualcuna restava chiusa, sapevo come sfondarla. Ho avuto la carriera politica più fulminante mai toccata a una donna in Medio Oriente. Sono anche sopravvissuta a quattro tentativi d’omicidio. Ma non avrei sprecato la vita nel vano tentativo d’indurre i contadini a non coltivare più oppio. Così, quando si è presentata l’occasione, sono entrata nell’amministrazione dell’ECON. Ora sono segretario di Stato, tra i collaboratori più stretti del Presidente Kuan. Niente male, per un’orfanella con un orecchio solo!» gongolò, orgogliosa dei traguardi raggiunti. «Ma veniamo a te, Miss Antenne. Da che pianeta vieni? Quanti dei tuoi si trovano sulla Terra? E soprattutto che intenzioni avete?» inquisì.

   «Se è un’invasione che temi, puoi metterti il cuore in pace» rispose Jaylah. «Non vogliamo conquistarvi... siamo solo osservatori» mentì. Aveva rivelato più del dovuto, ammettendo la sua origine extraterrestre, ma non aveva scelta. Kamala sapeva già che era un’aliena. Negarlo a oltranza o fare scena muta sarebbe servito solo a farsi torturare e a convincere la Potenziata che lei era l’avanguardia di un’invasione.

   «Osservatori?» s’insospettì Kamala. «Tu non me la racconti giusta. A Dubai avete cercato d’impedire l’attentato! Alcuni di voi hanno steso gli uomini di Green e hanno portato via la bomba. Significa che siete coinvolti nel conflitto. Con chi siete schierati? Se fosse l’ECON, lo saprei. L’America, forse? O qualche Stato non allineato?».

   «Non siamo schierati con nessuno» rispose pazientemente Jaylah. «Ad alcuni di noi, però, dispiace vedere che siete in procinto di autodistruggervi. Così hanno cercato d’impedire l’attentato... fallendo, dato che avevi un piano B».

   «E tu sei fra questi... benefattori?» volle sapere Kamala.

   «No. Se volete annientarvi con le vostre mani, penso che nessuna forza nell’Universo potrà impedirvelo» sospirò l’Agente Temporale.

   «Ma che simpatica!» fece la Potenziata, anche se dall’espressione sembrava volerla strangolare. «Io però voglio sapere se i tuoi amici dal cuore d’oro mi metteranno ancora i bastoni tra le ruote».

   «Ho parlato abbastanza. Non ti permetterò di dormire sonni tranquilli finché sarò legata a questo tavolaccio» ribatté Jaylah, cercando ancora di liberarsi.

   «Ti legherò a una graticola, se non mi rispondi subito!». Kamala accompagnò la minaccia con un sonoro ceffone. «Ti taglierò altro che un orecchio!». Brandito di nuovo il sai, la Potenziata lo puntò alla gola della prigioniera.

 

   Nel momento in cui le cose volgevano al peggio, il soccorso venne nel modo più inaspettato. Ci fu trambusto nel corridoio adiacente e alcuni ordini furono gridati da una voce autoritaria. Kamala, che aveva il viso a pochi centimetri da quello di Jaylah, sbiancò e si ritrasse come un serpente. Nascose il pugnale nello stivale, subito prima che la porta dell’infermeria si spalancasse. Ed ecco giungere il salvatore involontario: il Colonnello Green.

   «Ciao, Mal» disse in tono freddo. «Sai che il tuo nome è su tutti i notiziari? Nessuno conosce la tua sorte dopo l’attentato. Dovresti farti vedere in pubblico, rassicurare la gente... invece ti nascondi qui, a interrogare l’aliena. Illudendoti che non ti avrei trovata».

   «Philip!» esclamò Kamala in tono lezioso, ma Jaylah percepì un pizzico di paura in lei. «Non temere, all’ECON sanno che sono viva. Cerca di capire... ho sottomano una vera aliena, non potevo delegare a qualcun altro».

   «Devi esserti scordata di chiamarmi» notò Green, carezzandole la testa sul lato dell’orecchio mozzato: una cosa che lei odiava. «Ma come vedi, non posso starti lontano» aggiunse sarcastico. «Allora, non mi presenti la tua nuova amica?».

   «Ma certo» disse Kamala a denti stretti, accompagnandolo al lettino. Il fatto che la Potenziata sembrasse intimorita rammentò alla prigioniera che anche il Colonnello era pericolosissimo.

   «Ah, ecco la nostra star!» fece Green, mimando un applauso. «Tu e i tuoi compari mi avete quasi rubato lo show, a Dubai. Ma penso d’essere riuscito a insabbiare le indagini sul vostro conto. Certo che, se continuate a intromettervi nelle nostre faccende, sarà dura mantenere il segreto».

   «Come sarebbe, “continuate”?» chiese Jaylah. «Questa è la nostra prima visita alla Terra».

   «Non cercare di gabbarmi!» ammonì il Colonnello, chinandosi minacciosamente su di lei. «Sappiamo che voi alieni siete fra noi da oltre un secolo. Il mio dipartimento è a conoscenza di numerosi incontri con specie extraterrestri. Roswell, 1947. Cape Canaveral, 1968. San Francisco, 1986. Los Angeles, 1996. Detroit, 2004. Potrei continuare... ma credo che ci siamo capiti». La sua bocca si storse in una specie di sorriso, ma gli occhi rimasero gelidi. «Non farti ingannare dal fatto che gran parte dell’umanità resti beatamente ignara della situazione. Noi militari sappiamo dell’esistenza di parecchie specie aliene... anche se ammetto che la tua mi è nuova. Quanti del tuo popolo sono sulla Terra? Siete spie, teste di ponte per un’invasione o che altro?».

   «Semplici turisti. Questo pianeta ha un potenziale alberghiero enorme, non lo sfruttate abbastanza» rispose Jaylah.

   «Ma guarda, l’aliena ha il senso dell’umorismo» mormorò Green. «E io che speravo fosse un difetto umano. Okay, ho capito che qui le cose andranno per le lunghe. Mia cara, ti spiacerebbe darci un po’ di privacy?» si rivolse a Kamala.

   «Pensavo non ci fossero segreti fra noi» rispose la Potenziata, un po’ imbronciata.

   «Era prima che ti trovassi con questo segreto sulla tua nave» ghignò il Colonnello, accennando a Jaylah. «Visto che l’hai avuta tutta per te per un giorno e mezzo, non ti dispiacerà se mi prendo qualche minuto con lei».

   «Ma figurati... fa’ con comodo» disse Kamala, trattenendo la collera. «Quando hai finito, sai dove trovarmi». Lasciò l’infermeria, chiudendosi dietro il portone cigolante.

   «Bene, eccoci qui» disse Green, passando uno sguardo compiaciuto su Jaylah. «Che te ne pare di Mal? Lo so, di prim’acchito sembra una rompicoglioni... ma quando la conosci, scopri che è molto peggio».

   «So che è una Potenziata» disse Jaylah, sperando di seminare zizzania fra loro. «Di terza generazione, mi ha detto. A me pare instabile».

   «Lo credo bene!» rise Green. «I Potenziati furono creati negli anni Sessanta del secolo scorso, in un laboratorio segreto, dove un team autonomo di scienziati aveva deciso di raddrizzare quel legno storto che è la specie umana» spiegò, tra l’ironico e il melodrammatico. «Il guaio è che li hanno progettati male. Cerca di capire... il DNA era stato scoperto da appena un decennio. Quel che i genetisti avevano in mano, per cominciare, erano gli esperimenti dei lager nazisti. Perciò hanno pompato le loro creature. Le hanno fatte più forti, più veloci... sotto certi aspetti anche più intelligenti» ammise. «Così, visti da fuori, sembrano tanti Veneri e Adoni. Ma dentro... sono orrendi!». La voce di Green si fece rauca e i suoi occhi scuri si spalancarono. «Il peggio è che si considerano perfetti. Gli eredi dell’umanità. E come bambini col complesso di Edipo, vogliono uccidere i genitori... cioè noi Umani normali».

   «Da un potere superiore derivano superiori ambizioni» commentò Jaylah.

   «Allora sai!» esclamò Green. «Lo scrisse uno dei genetisti, prima di morire per mano loro. Negli anni Novanta, la prima generazione di Potenziati scatenò guerriglie e insurrezioni in mezzo mondo. Arrivarono a controllare quaranta nazioni, alcune direttamente, altre tramite governanti prestanome. Sai come furono sconfitti, alla fine? Fu colpa loro... erano più impegnati a eliminarsi a vicenda che non a combattere noi. Una coalizione internazionale li spazzò via, salvo pochi che fuggirono in angoli remoti del mondo o persino nello spazio».

   «Così ora ci sono i loro figli e nipoti» annuì Jaylah. «Come la tua amichetta Mal».

   «Già... se ti racconto questo, è per metterti in guardia» chiarì l’Umano. «Qualunque accordo ti abbia offerto, non lo manterrà. Ottenuto ciò che vuole, ti eliminerà all’istante».

   «Tu invece sei più magnanimo, Colonnello?» chiese ironicamente Jaylah.

   «Sono un soldato. Il mio codice d’onore si è forgiato sui campi di battaglia. Uccido solo quando è necessario e mai se posso farne a meno» sostenne Green, levando l’indice. «Kamala, invece... lei lo fa per piacere. Dico davvero: non ho mai conosciuto qualcun altro che odi così intensamente il genere umano».

   «Però sei in affari con lei» notò Jaylah. «Non temi di fare una brutta fine?».

   «Quando ci si fa carico delle sorti del mondo, bisogna correre dei rischi» rispose il Colonnello.

   «Parli come se voleste salvare la Terra. Invece volete trascinarla in un conflitto atomico!» accusò Jaylah. «Cos’è, sperate di approfittarne per imporre la vostra dittatura?».

   «Dittatura!» fece Green, urtato da quel termine. «Che sai tu di dittatura? Non sei di questo mondo. Come si governa la tua civiltà? Avrete leggi, suppongo; e qualcuno che le fa rispettare».

   «Anche noi non siamo sempre all’altezza dei nostri ideali» riconobbe la federale. «Ma per secoli la mia società è stata democratica. Come la tua nazione, del resto. È questo che servirebbe a tutti voi terrestri: un po’ di sana democrazia, per risolvere i vostri problemi».

   «Ho già sentito questo ritornello!» sbottò Green. «Come se la democrazia risolvesse tutto magicamente. Vuoi sapere quand’è che la democrazia non funziona? Non funziona quando la tua gente è senza lavoro e muore di fame. Non funziona quando le tue città sono divise in ghetti etnici che si auto-governano e scacciano i poliziotti a sassate. Non funziona quando la tua nazione è sull’orlo dell’annientamento, perché Stati canaglia e gruppi terroristici usano le atomiche per ricattarti!». Il Colonnello si era alzato e aveva preso a camminare avanti e indietro, parlando a voce alta, come se tenesse un comizio. Accortosi di aver esagerato, abbassò il tono e si riavvicinò al lettino di Jaylah.

   «Come vedi, mia cara, questo mondo è pieno di problemi» sospirò, accomodandosi sulla sedia. «Ma ciò non significa che siamo dei primitivi. Infatti siamo molto bravi a imparare. Guarda quest’arma, ad esempio. Appartiene al mio dipartimento da molto tempo». Così dicendo, Green trasse dalla fondina il phaser del XXIII secolo che aveva stordito Jaylah. Mentre parlava, lo lucidò con un fazzolettino. «Era il 1986 quando un intruso fu sorpreso sulla portaerei nucleare USS Enterprise, attraccata alla baia di San Francisco. Interrogato, affermò d’essere il Comandante Pavel Chekov, della Federazione Unita dei Pianeti. Ti dice niente tutto questo?». Green smise di lucidare e scrutò attentamente la prigioniera.

   «Eccome! Mi dice che non tutti possono improvvisarsi Agenti Temporali» pensò Jaylah, seccata dal fatto che Chekov avesse vuotato il sacco. La mezza Andoriana rifletté un attimo prima di rispondere. «Magari era solo un buontempone» suggerì.

   «Sì, un buontempone equipaggiato con quest’arma a raggi!» ribatté Green. «Eppure i rapporti dicono che sembrava umano, a vederlo. Cos’è, rapite i nostri cittadini e li rimandate indietro, dopo averli condizionati? O alcuni di voi assumono forma umana per passare inosservati?!».

   «Niente di tutto questo. La specie umana non è sotto attacco. L’unica minaccia per la vostra sopravvivenza siete voi stessi» rispose Jaylah, restituendogli uno sguardo di ghiaccio.

   «Sigh... speravo di cavare qualcosa da te, senza bisogno delle maniere forti» sospirò il Colonnello, puntandole il phaser alla fronte. «Potevamo discutere civilmente e trovare un accordo. Ma se continui a fare l’indiana, dovrò usare un altro linguaggio».

   «Farmi saltare le cervella non mi renderà più loquace» notò l’Agente.

   «Infatti userò altri sistemi» promise Green, ritirando l’arma. «Ma prima ti darò un’ora per riflettere. Pensaci bene... e non fare stronzate. Le guardie qui hanno l’ordine di spararti, se provi a scappare». Ciò detto, il Colonnello lasciò l’infermeria, portandosi via il phaser. Al suo posto entrarono due soldati, un uomo e una donna, con l’ordine di non perdere di vista la prigioniera.

 

   Era una notte chiara, nel Golfo Persico. La luna argentea si specchiava nelle acque tiepide, appena mosse da un filo di vento. La Sun Tzu, la nave di Kamala, procedeva spedita verso l’Oceano Indiano. Su di essa era posato l’elicottero del Colonnello Green, nero e angoloso, in quanto rivestito di materiale stealth. Numerose sentinelle armate di mitra pattugliavano la tolda.

   Nel silenzio più completo, un sottomarino emerse parzialmente dalle onde, poche centinaia di metri dietro alla nave. Due canotti furono rapidamente gonfiati e messi in mare. Vi salirono dei commando armati con fucili a guida laser, pistole con silenziatore, granate e coltelli. Tutti quanti avevano caschi con visori notturni e apparecchi radio per tenersi in contatto; ma per adesso mantenevano il silenzio. A gesti, il caposquadra segnalò di procedere. I canotti mossero rapidamente verso la nave, mantenendosi nella sua scia, mentre il sottomarino tornò in immersione e la seguì a una certa distanza.

 

   «Allora, per quanto pensate di tenermi legata qui?» chiese Jaylah, rivolgendosi alle guardie. Non ebbe risposta. «Beh, il gatto vi ha mangiato la lingua? Non sapete che è maleducato ignorare chi vi rivolge la parola?!» li provocò la mezza Andoriana. Ancora nulla.

   «Okay, non volevo dirlo così brutalmente, ma... devo andare in bagno» tentò la mezza Andoriana, pronta a tutto pur di schiodarsi da quel dannato lettino. E poi incidentalmente era vero. Finalmente ci fu una reazione: le guardie la fissarono.

   «Beh, che sono quelle facce? Credete d’essere l’unica specie della Galassia con certe necessità? Sono legata qui sopra da un’intera giornata!» si lamentò Jaylah. «Se non mi portate subito a uno dei vostri servizi igienici, questo contatto alieno diverrà molto indecoroso. Non sto scherzando».

   Il soldato si avvicinò, fissandola con sospetto. «Io e la mia collega non siamo novellini» avvertì. «Ti accompagneremo, ma non ti perderemo di vista un istante. Hai sentito il Colonnello... non fare stronzate, perché finirebbe male per te».

   «Non oserei mai» disse l’Agente Temporale, squadrando lui e la collega. «Ho capito dal primo istante che voi ragazzi siete troppo tosti per me».

   Con molte precauzioni, i sorveglianti liberarono Jaylah e la scortarono ai servizi igienici della nave. Durante la camminata restarono sempre alle sue spalle, con le pistole spianate. La mezza Andoriana ne approfittò per guardarsi attorno, familiarizzando con la nave. Finalmente giunsero a destinazione.

   «Okay, ragazzi... non so come funzioni qui, ma da noi questi momenti richiedono una certa privacy» disse la prigioniera, girandosi verso le guardie. «Non è che potreste voltarvi? Almeno lei, buon uomo. Se uno di voi deve proprio fare il guardone, lasciamo che sia la sua collega». I soldati si scambiarono un’occhiata. L’uomo si voltò, sempre con la mano sul calcio della pistola, mentre la donna proseguiva la sorveglianza. «Grazie» fece Jaylah, concedendosi un lievissimo sorriso.

 

   Le pareti metalliche della Sun Tzu erano spesse, ragion per cui i suoni della colluttazione furono così attutiti che nessuno li udì. A ciò contribuì  la breve durata dello scontro: in pochi attimi fu tutto finito.

   Cinque minuti dopo l’ingresso, una singola persona uscì dal bagno. Vestita con gli abiti della soldatessa, un po’ grandi per lei, Jaylah cercò di evitare le pattuglie. Sapeva di avere pochi minuti, prima che la sua fuga venisse notata. Se fosse stata sulla terraferma avrebbe avuto buone speranze, ma su un’imbarcazione era molto più difficile dileguarsi. Se la costa non era in vista avrebbe dovuto rubare una scialuppa, moltiplicando le probabilità di farsi scoprire. La cosa migliore era recuperare il comunicatore e chiedere aiuto ai colleghi, sperando che l’Excalibur fosse ancora in orbita.

   «La cosa migliore sarebbe recuperare tutto il mio equipaggiamento» si corresse l’Agente. Aveva visto che impatto poteva avere un singolo phaser dimenticato nel passato. Non voleva lasciare la sua attrezzatura in mano a quegli esaltati, che l’avrebbero analizzata finché, forse, ci avrebbero capito qualcosa.

   Il suo girovagare la portò a un corridoio con molte porte. Per la maggior parte erano serrate, ma ce n’era una socchiusa, da cui venivano due voci che discutevano animatamente. Jaylah le riconobbe: erano Green e Kamala. Accostatasi al portello, la mezza Andoriana si abbassò e arrischiò una rapida occhiata all’interno. C’era un tavolo colmo di strani congegni fra cui, senza dubbio, il suo equipaggiamento. La maggior parte degli oggetti era parzialmente smontata. Il Colonnello e il segretario di Stato erano in fondo alla stanza. L’Agente Temporale si ritrasse subito e restò in ascolto.

   «Sono stanca di questo interrogatorio, Philip» stava dicendo Kamala, passeggiando avanti e indietro. «Ti ho già dato tutte le spiegazioni. Tu, invece, non mi hai ancora detto niente».

   «E che dovrei dirti? Sei tu ad avere l’aliena!» obiettò Green.

   «Parlo del nostro piano» ribatté la Potenziata. Non aggiunse: «idiota!», ma era nell’aria.

   «Il piano procede regolarmente» assicurò il Colonnello. «I sottomarini e i bombardieri nucleari stanno prendendo posizione. Saranno dove li vogliamo entro il 1º maggio».

   «Il Giorno dell’Orrore» ricordò Jaylah con un brivido. Quei due controllavano le sorti dell’umanità in un modo mai sospettato dagli storici.

   «Per allora anche i nostri mezzi saranno al loro posto» promise Kamala. «E le truppe?».

   «Pronte all’invasione... come le vostre» disse Green. «Ho fatto passare la strategia di contrattacco che abbiamo pianificato. Ovviamente tutti sperano di non metterla mai in pratica. Ma dovranno farlo, se la Coalizione Orientale attaccherà».

   «Sigh... temo che il nostro Presidente sia diventato molto paranoico, dopo l’attentato» disse Kamala, con finto dispiacere. «Naturalmente se ordinasse un attacco nucleare contro l’Occidente sarei costretta a deporlo, assumendo il controllo dell’ECON» aggiunse in tono fatalista.

   «E se un’atomica colpirà Washington al momento giusto, eliminando le vecchie cariatidi, non mi resterà che riempire il terribile vuoto, guidando la nazione alla riscossa!» gongolò Green.

   «Non troppo alla riscossa» lo ammonì Kamala. «Quando le polveri radioattive si saranno depositate, saremo padroni di un mondo da ricostruire a nostro piacimento. Ma perché questo accada, amore mio, dobbiamo tenerci nei binari prestabiliti. Se uno di noi devia, cercando di ottenere di più... perderà ogni cosa».

   «Il vero equilibrio del terrore!» ridacchiò il Colonnello. Recatosi a un armadietto, ne estrasse una bottiglia di champagne. «A noi due, allora... i misconosciuti artefici del Nuovo Ordine Mondiale!» disse, riempiendo due coppe. Ne porse una a Kamala.

   «Aspetta» fece lei, respingendola.

   «Che c’è, ti è venuto il tabù dell’alcool? Serbalo per quando sei negli “stan”!» fece Green, sprezzante. Posò le coppe sul tavolo.

   «Non mi hai ancora detto la cosa più importante» avvertì la Potenziata. «Hai i codici di controllo dei satelliti EMP?».

   «Per chi mi prendi?» fece il Colonnello, guardandola di traverso. «Certo che li ho, l’intera griglia della NATO. E mi aspetto che tu abbia quelli dell’ECON... o questa crociera non avrebbe il minimo senso».

   «Sai che li ho da tempo».

   «Sì, ma ti sei assicurata che non siano cambiati dopo l’attentato? Ricorda la posta in gioco!» esclamò Green, dando segni di nervosismo. «Tutto il nostro piano si basa sul fatto di scegliere quali testate arriveranno a destinazione e quali no. Se non controlliamo tutti i satelliti EMP, non potremo disattivare i missili in volo. Così, invece di una ventina d’esplosioni atomiche nei punti che vogliamo, ne avremo centinaia in tutto il globo. Sarebbe la fine... non ci resterebbero neanche le briciole». Il Colonnello cercava di dominarsi, ma stava sudando freddo al pensiero di ciò che erano in procinto di compiere.

   «Ehi, calmati» fece Kamala in tono carezzevole. «Non sono una sprovveduta. Se anche i codici cambiassero all’ultimo istante, ne sarò informata. Avremo sempre il controllo della situazione. Vedrai, le uniche testate che andranno a bersaglio saranno quelle che ci faranno comodo. Tutte le altre finiranno in mare o in zone disabitate».

   «Chissà!» fece Green, d’un tratto sospettoso. «A volte ho l’impressione che potresti sabotare il piano, solo per il gusto di veder bruciare il mondo».

   «Un mondo in cenere sarebbe difficile da governare, non trovi?» obiettò la nipote di Khan. «È il destino manifesto che la mia stirpe torni al potere. Credevano di averci sterminati... ma saremo noi Potenziati a scrivere le prossime pagine di Storia!» proclamò, allargando le braccia con gesto teatrale.

   «Io non sono un Potenziato» le ricordò il Colonnello. «Devo pensare che, per questo, ti sbarazzerai anche di me?».

   «Non tutti gli esseri superiori sono stati progettati in laboratorio» lo lusingò Kamala. «Alcuni nascono così e basta». Prese finalmente una coppa di champagne, inducendo Green a fare lo stesso. «Alla vittoria» brindò.

   «E al Nuovo Ordine che verrà» aggiunse il Colonnello.

   I complici bevvero lo champagne. Poi Green prese il volto di Kamala tra le mani, l’accostò al proprio e la baciò. La Potenziata si piegò all’indietro, fino a ricadere con la schiena sul tavolo. L’eccitazione tra i due cresceva a ogni istante. A manate, gettarono a terra gli oggetti che ingombravano il ripiano, facendo posto per se stessi.

   Fuori da lì, Jaylah era sotto shock. Ecco dunque il loro piano! Ciascuno dei due aveva assunto il controllo dei satelliti EMP del proprio blocco. Green gestiva il sistema difensivo della NATO, Kamala quello dell’ECON. Unendo le forze, i due controllavano tutti i satelliti, il che gli permetteva di decidere grossomodo quali nazioni sarebbero state colpite e quali risparmiate dalle atomiche. «Potranno ridisegnare il mondo a loro piacimento» comprese, allibita dalla loro ambizione.

   Ma naturalmente la Storia non era andata così, si disse l’Agente, quindi doveva esserci un difetto nel loro piano. I satelliti EMP non erano infallibili come credevano; alcuni missili nucleari sarebbero giunti ugualmente a bersaglio. Altri ordigni, appartenenti a fazioni minori, erano stati collocati segretamente nelle città. E la guerra sarebbe proseguita con bombe sporche, armi chimiche e batteriologiche. Nessuno, neanche Green e i Potenziati, avrebbe dominato il caos.

   Con questi pensieri, Jaylah si ritrasse dalla soglia. Ora che conosceva i loro piani era ancora più urgente lasciare la nave. Ma nel voltarsi, la mezza Andoriana si trovò di fronte la canna di un mitra. Alzando gli occhi, riconobbe lo sguardo pungente di Zheng. Ora che non aveva l’elmetto, il Potenziato sfoggiava un taglio militare, con i capelli rasati sulle tempie e più lunghi solo in cima alla testa.

   «Tsk-tsk. Sei sulla Sun Tzu e non conosci l’Arte della guerra?» chiese il Potenziato.

   «La conosco, invece» mugugnò Jaylah. «Mai lasciare che sia il nemico a decidere su che terreno combattere. Ma scegliere il terreno di scontro è un lusso che mi capita raramente».

 

   Sentendo bussare sull’uscio semiaperto, Green e Kamala si rialzarono e si ricomposero frettolosamente. «Avanti!» ordinò il Colonnello, seccato d’essere stato interrotto sul più bello.

   «Scusate» disse Zheng, «ma l’ho trovata che curiosava». Così dicendo il Potenziato scaraventò Jaylah nella stanza, con tale forza da farla rotolare sul pavimento. Le aveva già ammanettato le mani dietro la schiena, per cui la mezza Andoriana ebbe difficoltà a rialzarsi.

   «Ancora tu!». Green era impallidito. «Da quanto eri là fuori ad ascoltarci?».

   «Non importa; avevo già deciso di eliminarti» disse Kamala, fissando Jaylah con rabbia. «E non è che questo incidente mi renda più bendisposta nei tuoi confronti».

   «Il vostro piano non funzionerà» avvertì la mezza Andoriana. «Ci sono troppi ordigni nucleari, non riuscirete a fermarli tutti. Provocherete l’apocalisse nucleare che v’illudete di scongiurare».

   «Certo che, per essere un’aliena, sei piuttosto informata sulle faccende terrestri!» si stizzì Green. «Ora tocca a noi apprendere qualcosa di te!». Al suo cenno, i soldati tirarono su Jaylah e la legarono a una sedia, usando catene d’acciaio. La mezza Andoriana cercò di opporsi, ma i Potenziati erano troppo forti. Rassegnata, si guardò intorno, cercando almeno di capire in che posto era finita.

   Era una sorta di officina, con tavoli ingombri di ciarpame, perlopiù metallico. La maggior parte della roba sembrava razziata dai campi di battaglia di mezzo mondo. Ma c’erano anche attrezzi fuori posto per quell’epoca: comunicatori, phaser, tricorder. La tipica attrezzatura della Flotta Stellare, secondo il design del XXIII e XXIV secolo. Jaylah notò che il suo equipaggiamento era allineato con il resto. Se solo fosse riuscita a prendere il phaser! C’era anche un inibitore di teletrasporto – uno di quelli usati a Dubai – ancora acceso. Ecco perché la sua squadra non l’aveva tratta in salvo.

   «È facile, sai, far parlare qualcuno» disse Green, chiudendo la porta dell’officina. «Io poi ho un talento naturale. No, niente siero della verità e trucchi psicologici. Non c’è niente di meglio dei vecchi metodi» spiegò, recandosi a un armadietto. «Sai che ho lavorato per anni in Medio Oriente, nelle aree tribali? In quei posti la tecnologia è sempre obsoleta. Ma agli insorti non serve chissà che, per far parlare gli ostaggi. Gli bastano strumenti come questi e tanta creatività».

   Mentre parlava, Green estrasse una serie d’oggetti e li posò sul vicino tavolaccio. Jaylah rabbrividì, man mano che li vedeva. C’erano un martello, un cacciavite, un paio di forbici e una tenaglia. In quel contesto erano gli oggetti più spaventosi che avesse mai visto. L’Agente Temporale pensò disperatamente a come liberarsi, ma non c’erano strategie che potessero funzionare contro così tanti avversari, quasi tutti Potenziati. Fino a quel momento si era detta che c’era sempre speranza, che ogni situazione poteva essere ribaltata. Ma quando Kamala prese la tenaglia e la saggiò, Jaylah si rese conto che non c’era via di fuga. L’attendeva un interrogatorio condito da tutte le torture che due tra gli individui più crudeli della Storia potevano concepire.

   «Sai cos’è che mi è sempre dispiaciuto, di questi momenti?» chiese la Potenziata. «Il fatto che, se non si sta attenti, la vittima può morire dissanguata. Ma con te, amica mia, è tutto diverso!» sorrise. «Le tue nanosonde ripareranno i tessuti man mano che noi li laceriamo. Così avrò tutto il tempo che voglio per esplorare il tuo corpo. Sarà un’esperienza intima, non trovi?».

   «Diciamo un supplizio di Prometeo» corresse Green, che aveva preso il cacciavite.

   «Naturalmente prenderò dei campioni» aggiunse Kamala, sempre concentrata su Jaylah. «Il tuo magnifico genoma mi aiuterà a progettare la prossima generazione di Potenziati».

   «Sei una squilibrata» mormorò la mezza Andoriana, sconvolta da questa prospettiva.

   «Sono il futuro dell’umanità» corresse la Potenziata. «E tu, beh... sei solo un campione biologico».

   «Bene, cominciamo con le domande» disse il Colonnello, accomodandosi su una sedia accanto alla prigioniera. Prese a stuzzicarle la guancia con la punta del cacciavite. «Chi ti ha mandato qui, e perché?».

   «Tua madre» rispose Jaylah, fissandolo con disprezzo. «Mi manda a dirti che le dispiace di non averti affogato da piccolo».

   «Sarà una lunga notte» sospirò Green, iniziando a farle pressione sul collo. «Non del tipo che avevo in mente, ma pur sempre stimolante».

 

   Fu in quel momento – il più nero nella vita di Jaylah – che i commando fecero irruzione. La porta saltò in aria con un’esplosione assordante, che scagliò a terra quanti erano più vicini. Una dozzina di soldati con fucili a guida laser e volti nascosti da maschere antigas invasero il laboratorio, sparando in testa ai Potenziati. Molti scagnozzi di Kamala caddero nei primi secondi; le loro cervella imbrattarono le pareti. Gli altri rovesciarono i tavoli in avanti, per farsi scudo, e risposero al fuoco. Alcuni, che non avevano armi di grosso calibro sottomano, afferrarono sedie o apparecchi mezzi smontati e li scagliarono contro gli attaccanti. Lungi dal farsi intimidire, i commando proseguirono l’attacco. Uno di loro scagliò un gas lacrimogeno per mettere in difficoltà i Potenziati, che non avevano i respiratori.

   All’arrivo dei soldati, Kamala emise un ringhio disumano. Il suo bel viso fu stravolto da un odio viscerale, che le scoprì i denti e le iniettò gli occhi di sangue. Scagliò la tenaglia che aveva in mano contro il nemico più vicino, così forte da gettarlo all’indietro contro la paratia. Poiché gli altri commando la prendevano di mira, la Potenziata fuggì verso la porta sul lato opposto dell’officina. Senza esitare, afferrò uno dei suoi uomini che era stato ferito e lo usò come scudo umano, mentre arretrava verso l’uscita. «Via!» gridò, sovrastando il frastuono della sparatoria.

   Green le venne dietro. Gettato il cacciavite con cui stava torturando Jaylah, il Colonnello estrasse il vecchio phaser di Chekov e rispose al fuoco. Sebbene il lacrimogeno gli offuscasse la vista, riuscì a uccidere uno dei commando. Poi notò Jaylah, che tossiva legata alla sedia, e la prese di mira. Se non poteva interrogarla, almeno si sarebbe accertato che non lo facessero neanche gli avversari.

   Vedendolo, la mezza Andoriana si sentì perduta. Ma in quella uno dei commando le si gettò contro, ribaltandola a terra con tutta la sedia. Il raggio phaser sibilò appena sopra le loro teste. Green avrebbe voluto sparare ancora, ma era allo scoperto, con i proiettili che gli fischiavano attorno. Dovette fuggire a sua volta.

   «Grazie, ma vi sarò più utile se mi liberate!» disse Jaylah all’ignoto salvatore.

   «Vedremo» rispose lui. Estrasse una piccola sega circolare, che si era portato dietro, e prese a tagliare le catene. Allora l’Agente Temporale notò la mostrina sulla sua mimetica nera. Vi apparivano le lettere AEV, scritte in argento con una grafia continua, sormontate da due spade incrociate. AEV... come l’Armata dell’Eterna Vigilanza, la milizia internazionale creata contro i Potenziati. D’un tratto le cose iniziavano ad avere senso. Jaylah si sentì di nuovo speranzosa, pur sapendo che doveva stare molto attenta a giocare le sue carte.

   Intanto la battaglia proseguiva a favore dei commando. I Potenziati erano stati uccisi quasi tutti. Solo tre di loro erano ancora asserragliati dietro un tavolo metallico e resistevano con un intenso fuoco di copertura. Intanto Kamala era giunta alla porta. Lasciato cadere il suo scudo umano, crivellato di colpi, la Potenziata si mise in salvo dietro lo stipite. «Non lasciategli la tecnologia!» gridò, prima di dileguarsi. Anche il Colonnello Green la seguì.

   Ricevuto l’ordine, il Maggiore Zheng lasciò il riparo e si avvicinò al tavolo su cui erano allineati gli strumenti federali. Fra le altre cose, Jaylah riconobbe il suo phaser. Era un modello con codifica genetica, che nessun altro poteva usare, ma con i Potenziati non si poteva mai sapere. Dopo aver visto di cos’erano capaci, l’Agente Temporale non avrebbe lasciato loro neanche una spilla del XXVI secolo.

   «Libera!» disse l’uomo dell’AEV, appena finito di tagliare la catena. La mezza Andoriana schizzò in piedi. Quando si muoveva a quella velocità, il tempo attorno a lei pareva rallentare. Vide Zheng che allungava la mano verso il suo phaser, mentre i proiettili gli fischiavano attorno. Non avrebbe fatto in tempo a raggiungerlo e del resto non voleva mettersi sulla linea di tiro. Ma poteva fare un’altra cosa. Fulminea, Jaylah raccattò le forbici prese per torturarla e le scagliò contro il Potenziato. Gli trafisse la mano proprio mentre sfiorava il phaser.

   Zheng gridò per il dolore inaspettato e mancò il phaser, che cadde a terra. Il Maggiore arretrò verso la porta, con le forbici che gli trapassavano la mano sanguinante. Mentre era allo scoperto una pallottola lo colse alla spalla. Il Potenziato scoccò un’occhiata omicida a Jaylah, ma dovette fuggire per non prendersi altri colpi. Gli ultimi due Potenziati cercarono a loro volta di agguantare gli strumenti federali, ma caddero con altrettante pallottole in fronte. Terminata la sparatoria, si fece silenzio.

 

   Mentre i commando sorvegliavano le uscite, il loro capo – l’uomo che aveva salvato Jaylah – fece rapporto. «Nowak a Generale. Abbiamo l’ostaggio, ma Singh è fuggita» disse tramite la radio.

   «Rientrate immediatamente» fu la risposta.

   Queste parole attirarono l’attenzione di Jaylah. Sulle prime aveva creduto che la missione dell’AEV fosse uccidere Kamala e i suoi Potenziati. Invece cercavano proprio lei: era una missione di salvataggio. In quella la mezza Andoriana si rese conto che le sue antenne avevano fatto capolino dai capelli. Molti soldati dell’AEV l’avevano vista, anche se nessuno faceva commenti. Jaylah scartò subito l’idea d’imbastire una scusa: quelli non erano sprovveduti. Si rivolse a Nowak. «Grazie dell’intervento... Sergente» disse, notando il grado sulla spalla. «Vi spiegherò dopo».

   «Ci conto» disse il militare. Poi si rivolse ai suoi uomini: «Muoviamoci! Singh e Green ci manderanno contro una squadra dopo l’altra».

   «Questa roba viene con noi» disse però Jaylah, raccattando gli oggetti provenienti dal futuro. Li mise in un sacchetto che uno dei commando le porgeva, ma poi dovette lasciare che fosse lui a trasportarlo. Per il momento accantonò il problema, non volendo inimicarsi anche l’AEV.

   «Via, via!» ordinò il Sergente, dopo aver controllato che nessuno dei caduti nella sua squadra respirasse ancora. C’era un ferito, che egli sostenne personalmente durante la ritirata. Questo però rallentò la squadra. E i nemici, più numerosi, li accerchiarono. Una nuova sparatoria si accese nei corridoi.

   «Sono troppi, ci tagliano la via di fuga!» avvertì un soldato dell’AEV.

   «Resistete» ordinò Nowak, che reggeva ancora il ferito. «Tra poco avranno altri pensieri». Aveva ragione: di lì a pochi secondi ci furono tre boati, seguiti da altrettanti scossoni. Jaylah comprese che quelli dell’AEV avevano piazzato delle cariche per affondare la nave.

   «Non fraintendete... vi sono grata per il salvataggio e mi diverte vedervi distruggere la roba di Kamala» disse la mezza Andoriana. «Ma qual è la vostra strategia di fuga?».

   «Ci apriremo un varco combattendo» dichiarò il Sergente.

   «Allora lasciatemi contribuire. È il minimo, per sdebitarmi» si offrì Jaylah. Vedendo che i suoi uomini erano in difficoltà, il caposquadra annuì. Fece un cenno al soldato col sacchetto e questi le restituì il phaser. «Grazie. Come siete arrivati qui, in motoscafo?» chiese l’Agente Temporale, alzando la regolazione dell’arma.

   «Abbiamo un sottomarino» rivelò Nowak.

   «Wow!» fischiò Jaylah. «In che direzione è, più o meno?». Mentre parlavano la sparatoria continuava. Un soldato dell’AEV cadde, come anche un Potenziato.

   «A poppa. Pressappoco da quella parte» rispose il Sergente, indicando la paratia metallica accanto a loro.

   «Allora ci andremo dritto per dritto» promise la mezza Andoriana. Sparò con il phaser a piena potenza, ritagliando un varco rettangolare sulla parete. Poi vi si gettò contro, cercando di far cadere il segmento di paratia. Un soldato l’aiutò: insieme riuscirono a ribaltare la lastra metallica. Accertatasi che non ci fossero nemici dall’altra parte, Jaylah sparò ancora, ritagliando un altro passaggio. E così via. Con questo stratagemma la squadra si mosse in linea retta dentro la nave, precedendo le imboscate nemiche. L’unico problema era il ferito, che li rallentava. A un certo punto l’uomo si lasciò cadere a terra. Si tolse la maschera, per respirare meglio; era molto giovane.

   «Alzati, soldato» ordinò Nowak. «Ti aiuto io».

   «Mi spiace, signore... vi rallenterei» rispose l’uomo, pallido per l’emorragia. «Andate; io li trattengo».

   «Vieni, ho detto!» insisté il superiore.

   «Vigilanza eterna!» ribatté il soldato, battendosi la mostrina. «Questo è il motto. Lasciatemi qui... farò buona guardia».

   «Così sia» disse il Sergente, scambiando uno sguardo d’intesa. «Non ti scorderemo».

   Commossa e addolorata da quel gesto, Jaylah stava per chiedere ai soldati di non abbandonare il commilitone, ma si trattenne. Era stata una sua scelta e il caposquadra l’aveva accettata; non stava a lei interferire. Quel gesto estremo di dedizione, però, rinfocolò il suo desiderio di uscire da lì, così che il sacrificio non fosse vano. Riprese a tagliare le paratie, più in fretta che poteva, aprendo la via di fuga per tutto il gruppo. Alle loro spalle, il soldato ferito si nascose dietro un angolo. Da lì rallentò gli inseguitori con un fitto fuoco di copertura. Quando vide che non poteva più trattenerli, gli lanciò contro una granata. Due avversari furono uccisi e altri vennero feriti dall’esplosione, ma anche il soldato dell’AEV fu scagliato all’indietro, tramortito.

   Sentendo il boato, Jaylah chiuse gli occhi per un attimo, intuendo l’accaduto. Finalmente l’ultima paratia, quella esterna, cadde in mare. La mezza Andoriana sentì una ventata d’aria fresca e vide le acque del Golfo Persico, ancora scure nella luce incerta prima dell’alba. «Il vostro sottomarino?» chiese, scrutando le onde con apprensione.

   «Arriva» promise Nowak. «Eccolo là» disse, indicando una forma scura che iniziava ad affiorare.

 

   «Rapporto, Capitano Jiang» ordinò Kamala, attivando l’auricolare. «Cos’erano quelle esplosioni?».

   «Cariche di C-4, posizionate poco sotto la linea di galleggiamento. Stiamo imbarcando acqua» rispose il Capitano della nave. Attorno a lui, la plancia risuonava di allarmi e grida concitate.

   «Potete riparare le falle?» chiese la Potenziata.

   «Non credo, signora Segretario» rispose il Capitano. «Dobbiamo abbandonare la nave».

   «Li do io gli ordini!» ringhiò Kamala. «Resistete il più possibile». Chiusa la comunicazione, la donna alzò lo sguardo su Green.

   «Ti rendi conto che se il tuo equipaggio naufraga su queste coste ci sarà una fuga di notizie, vero?» chiese il Colonnello.

   La Potenziata annuì. «Suppongo che sul tuo elicottero non ci sia posto per un centinaio di persone» ironizzò. «Okay, prenderemo solo i Potenziati». Trasse di tasca una trasmittente e inserì un codice. Nella stiva più riposta dell’imbarcazione, il timer di una bomba iniziò a scorrere verso lo zero. Intanto lei e Green si erano avvicinati al luogo in cui era esplosa la granata. Zheng andò in perlustrazione, pur sanguinando ancora dalla mano e dalla spalla.

   «Che roba... gli alieni devono aver migliorato le loro armi» commentò il Colonnello, notando le paratie tagliate di netto dal phaser di Jaylah.

   «Forse la nostra evasa appartiene a una specie più progredita delle altre» ipotizzò Kamala.

   «Signora, questo intruso è ancora vivo» avvertì Zheng, che aveva scovato il soldato ferito. Con l’aiuto di un collega, lo perquisì e lo trascinò al cospetto di Kamala. Il ferito, che aveva ancora un proiettile in corpo, emise un lamento quando fu gettato a terra.

   «AEV!» sibilò la Potenziata, scorgendo la mostrina. «Avete scelto un pessimo momento per farvi avanti. Ma pagherete anche voi». Così dicendo, afferrò il disgraziato per il bavero e lo sollevò da terra. «Dov’è lui?» sussurrò. «Dov’è l’Immortale?».

   «Sempre un passo avanti a te» rispose il soldato. «Dev’essere frustrante, per il tuo “intelletto superiore”. Forse non sei furba come credi».

   «Ma sono paziente» ribatté Kamala. «Tanto paziente da passare giorni a interrogarti. Quando avrò finito, mi bacerai i piedi purché ti uccida».

   «Troppo tardi» sogghignò l’uomo. Una bava schiumosa gli uscì dalle labbra. «Vigilanza eterna!» rantolò, battendosi il distintivo dell’AEV. Poi qualcosa si spense nei suoi occhi e il suo corpo ricadde inanimato. La bava schiumosa continuò a colare, diffondendo un odore di mandorle amare.

   «Cianuro» riconobbe Zheng. «Questi killer dell’AEV sono fanatici».

   «Andiamo, la bagnarola sta affondando» ricordò Green, prendendo la strada per il ponte.

   «La pagherete» sussurrò Kamala, reggendo ancora il corpo senza vita del soldato. «Fino all’ultima goccia di sangue». Scaraventò il cadavere contro una paratia, con tale forza che si udì lo scricchiolio delle ossa frantumate. Poi si ricompose e seguì gli altri verso l’elicottero.

 

   Dopo essere saltati in acqua, Jaylah e i soldati dell’AEV raggiunsero a nuoto il sottomarino, che era parzialmente emerso. Dal ponte superiore della nave, alcuni avversari li presero di mira con fucili e mitra. Quelli dell’AEV risposero al fuoco, mentre rientravano in fretta dal boccaporto. L’ultimo a entrare, il Sergente Nowak, si chiuse il portello sopra la testa. Subito il sottomarino tornò in immersione.

   «La tua arma, per cortesia» disse il caposquadra, rivolto a Jaylah.

   La mezza Andoriana ebbe un attimo d’esitazione, ma poi gli consegnò il phaser. «Vorrei parlare con i suoi superiori» disse.

   «Ci andiamo subito» annuì il Sergente, levandosi finalmente la maschera antigas. Gli altri soldati lo imitarono. Erano uomini e donne, di varie nazionalità.

   Jaylah fu scortata attraverso gli stretti corridoi del sottomarino, fino alla plancia di comando. Qui erano affaccendati molti ufficiali dell’AEV. Il logo e il motto dell’organizzazione campeggiavano su una parete. La mezza Andoriana individuò subito il comandante: sedeva al centro della sala, su una poltroncina, e in quel momento le dava le spalle. Era un uomo dalla corporatura imponente, con i capelli grigio argento. I gradi sulla sua uniforme lo qualificavano come Generale.

   «Siamo venti piedi sott’acqua. Velocità quindici nodi» riferì un ufficiale, leggendo i dati sul suo schermo.

   «Ci porti a venticinque nodi» ordinò il Generale, con voce profonda. «Rotta verso il mare aperto».

   «Squadra a rapporto, signore» disse il Sergente, mettendosi sull’attenti. «Abbiamo l’aliena».

   «Vittime?» chiese il superiore, senza voltarsi.

   «Sei, signore. Ma abbiamo ucciso il doppio dei Potenziati» rivendicò Nowak.

   «Vi siete fatti sfuggire Singh, l’unica che conta» lo rimproverò il Generale, tamburellando sul bracciolo.

   Il caposquadra si rabbuiò. «Era ben difesa» cercò di giustificarsi. «Ma non indovinerete chi c’era con lei».

   A quelle parole il Generale si girò con tutta la poltroncina. Aveva un volto nobile, anche se incupito da troppi ricordi tristi. I suoi occhi penetranti indugiarono su Jaylah, ma poi si rivolsero a Nowak. La mezza Andoriana ebbe una strana sensazione. Avrebbe giurato di averlo già visto, ma con tutti gli eventi degli ultimi giorni non ricordava dove.

   «Ebbene, Sergente?» chiese il Generale, col tono di chi non ama gli indovinelli.

   «Il Colonnello Green. Non posso sbagliarmi, era lui» rivelò Nowak. «Del resto, quello sul ponte è il suo elicottero».

   «Uhm... sullo schermo» ordinò il Generale, voltandosi di nuovo.

   Quell’ordine, pur così familiare, sorprese Jaylah. L’Agente Temporale credeva che i sottomarini dell’epoca richiedessero ai marinai di guardare nel periscopio per osservare l’esterno. Quello lì, invece, aveva un periscopio con fotocamere ad alta definizione che proiettavano le immagini su uno schermo piatto. L’effetto era molto simile allo schermo visore di una nave stellare.

   Non appena la Sun Tzu fu inquadrata, tutti notarono che era inclinata su un lato, segno che stava imbarcando acqua. La linea di galleggiamento era bassa: non le restava molto prima di affondare. In quella l’elicottero sul ponte prese il volo. La sua forma angolosa e il colore nero ne rivelavano la tecnologia stealth. Jaylah fu certa che Green e Singh erano a bordo. Sebbene ignorasse la loro autonomia di volo, non dubitò che se la sarebbero cavata. «Al prossimo incontro» si disse.

   In quella la nave dei Potenziati esplose. Ci fu un’immane fiammata, seguita da un’onda così violenta che il sottomarino tremò. Jaylah e i militari dell’AEV dovettero reggersi alle paratie. Passata la prima vampa dell’esplosione, l’Agente Temporale vide i frammenti dell’imbarcazione che ricadevano per un ampio raggio. Denso fumo nero saliva dallo scafo principale, ridotto a un ammasso contorto di lamiere che affondavano rapidamente.

   «Tipico dei Potenziati» commentò il Generale. «Tengono più ai propri segreti che alla vita dei loro uomini. Vedete? Anche stavolta Kamala Singh fugge, dopo aver eliminato le prove dei suoi crimini!» disse, indicando l’elicottero che si allontanava. «Ma stavolta le è costato caro. Le staremo sempre alle costole, finché non le resterà più niente e nessuno da sacrificare. Vigilanza eterna!» esclamò.

   «Vigilanza eterna!» risposero a una voce gli ufficiali di plancia e i commando.

   Osservando l’elicottero che rimpiccioliva in lontananza, nell’aria scurita dal fumo, Jaylah sentì che quel motto valeva anche per lei. Ma non era a Vosk e ai Na’kuhl che pensava in quel momento. Né al tradimento di Juri. E nemmeno al Colonnello Green. No, l’Agente Temporale sentì che la sua nemesi era Kamala Singh. Forse perché, sotto certi aspetti, si somigliavano. Erano entrambe meticcie e geneticamente potenziate. Tutte e due discendevano da uomini famosi e discussi – l’Ammiraglio Chase e Khan Singh – che aspiravano a eguagliare o persino superare. Ambedue conducevano una doppia vita, presentando al pubblico una facciata irreprensibile, mentre in privato s’intrattenevano col nemico: lo Spettro, il Colonnello Green. L’una e l’altra sapevano di non poter andare avanti così per sempre, ma contavano di cavarsela... in qualche modo.

   «È il come che cambia» si disse la mezza Andoriana, sforzandosi di trovare qualche differenza tra loro. Kamala mirava alla vendetta e al potere assoluto, da ottenere con un colpo di Stato e un conflitto atomico. Lei, invece, si sforzava di proteggere la linea temporale. «Questo varrà pure a qualcosa» pensò. Ma era proprio la diversità d’intenti che le avrebbe portate a scontrarsi di nuovo.

 

   «Dobbiamo parlare» disse il Generale, distogliendola dai suoi pensieri.

   «Possiamo farlo in privato?» chiese Jaylah.

   «Nel mio ufficio» annuì l’uomo. Si chinò su un ufficiale, mormorandogli qualcosa all’orecchio. Doveva avergli affidato il comando, oltre probabilmente a indicargli la destinazione. Dopo di che condusse la mezza Andoriana in una saletta attigua, evidentemente il suo ufficio. C’erano una scrivania con un computer portatile e due sedie per gli ospiti. Al muro erano appesi uno spartito musicale, firmato da Brahms, e il ritratto di una splendida donna bionda. Lo stile del disegno ricordava i bozzetti leonardeschi, anche se la carta sembrava moderna. Jaylah si chiese se era stato il Generale a realizzarlo e chi rappresentava. Forse un perduto amore? L’Umano era difficile da leggere, ma la mezza Andoriana aveva la sensazione che portasse il fardello di una vita lunga e sofferta. Ora, però, doveva trattare con lui. Quando il Generale prese posto dietro la scrivania, anche Jaylah si accomodò su una sedia. Per qualche momento si studiarono in silenzio.

   «Ringrazio lei e la sua squadra per il salvataggio» cominciò l’Agente. «Senza di voi, sarei peggio che morta. Ma sono un po’ sorpresa. Mi sembra di capire che stavate cercando proprio me, e che non mi abbiate trovata per caso, affrontando i Potenziati».

   «Noi non lasciamo nulla al caso» confermò l’uomo. «Abbiamo assistito alla sua cattura, a Dubai, e abbiamo pianificato il salvataggio prima che la portassero troppo lontano».

   «Allora vi sono doppiamente grata» disse Jaylah. «E mi dolgo che alcuni dei vostri siano caduti in azione».

   «Erano professionisti, consapevoli dei rischi» disse il Generale. «Ma apprezzo le sue parole, signorina. A proposito, come posso chiamarla?».

   «Jaylah Chase» rispose la mezza Andoriana. Non avrebbe dovuto rispondere, ma le circostanze erano fuori dal comune. Sentiva che, per il successo della missione, era essenziale restare in buoni rapporti con l’AEV.

   «Chase» rimuginò l’uomo. «Sembra un cognome terrestre. Anglosassone, direi».

   «Lo è... ma non posso spiegare» disse Jaylah. «E lei, invece? Ha un nome che io possa conoscere?».

   «Può chiamarmi Flint» rispose l’uomo con semplicità. «Alcuni mi chiamano anche l’Immortale, visto che sono sopravvissuto a un cospicuo numero di attentati e battaglie. Questo non è il nostro primo incontro, se ricorda. L’altra volta c’erano più computer e meno armi».

   «Ma certo... sapevo di averla già vista da qualche parte. Flint’s Cyber Café, a New York» ricordò Jaylah. «Mi disse che Green era una mela marcia e che Kamala non aveva ancora scoperto le sue carte. Aveva già dei sospetti su di me?».

   «Nulla di particolare... anche se lei e i suoi amici davate nell’occhio».

   «E lei passa molto tempo in quel locale? Voglio dire, avrà ben altro da fare».

   «In effetti ci vado raramente» ammise il Generale. «Ma quando ci sono summit internazionali, è buona prassi tenere d’occhio il traffico internet».

   «Avrete come minimo una stazione di rilevamento nel retrobottega» sorrise l’Agente. «E così, all’insaputa del mondo, i Potenziati esistono ancora. E voi continuate a dargli la caccia» aggiunse, facendosi seria.

   «Cosa sa di noi?» chiese Flint.

   «Siete l’Armata dell’Eterna Vigilanza, fondata durante le Guerre Eugenetiche degli anni Novanta» rispose Jaylah. «In pratica siete una milizia internazionale che ha il compito d’individuare ed eliminare i Potenziati. Non mi è sfuggito che, durante lo scontro, i vostri uomini miravano alla testa» aggiunse, ricordando quelle scene truculente. «Avevate minima supervisione quando si sapeva della vostra esistenza. Ora che vi credono sciolti, suppongo non ne abbiate alcuna».

   «Ed è un problema?» chiese Flint.

   «Lo è se fate da giudice, giuria e boia» si accigliò la mezza Andoriana. «Kamala mi ha detto che i vostri agenti uccisero i suoi genitori, davanti ai suoi occhi, quando aveva sei anni. È vero?».

   «Non sapevamo di lei» si giustificò Flint. «E i suoi genitori non erano agnellini innocenti. Stavano pianificando un attentato in una scuola elementare; avrebbero ucciso decine di bimbi, se non li avessimo fermati. Ma veniamo a lei, signorina Chase. Cosa ci fa una donna con le antenne a New York, a Dubai e infine sulla nave di Singh, tutto nell’arco di due settimane?».

   «La incuriosiscono di più le antenne o la mia condotta?» sogghignò Jaylah, sebbene in realtà ci fosse poco da ridere. Flint l’aveva salvata, ma non ci avrebbe pensato due volte a eliminarla, se avesse deciso che costituiva un pericolo per l’umanità.

   «Non saprei» ammise il Generale, meditabondo. «Naturalmente sappiamo degli alieni: sono secoli che venite a combinare pasticci sulla Terra. Ma finora siamo riusciti a mantenere il segreto. L’umanità è troppo divisa per entrare nell’arena galattica».

   «Non potete nascondere la verità in eterno» notò la mezza Andoriana. «Prima o poi... forse prima di quanto pensate... ci sarà un contatto ufficiale».

   «È questa la sua missione?» si accigliò Flint. «Preparare il contatto?».

   «Magari!». La risata di Jaylah fu breve e senza gioia. «No, la situazione è molto più complessa. Vede, anch’io sono una sorta di agente. E il mio incarico prevede di vegliare su specie come la vostra, senza rivelare nulla sul mio conto».

   «In tal caso ha fatto un pessimo lavoro!» sbottò il Generale. «Senza di noi sarebbe ancora prigioniera su quella nave. Green e Singh sanno che lei è aliena e hanno potuto esaminare i suoi attrezzi, prima che li recuperassimo. Quindi le consiglio di scegliersi gli alleati, se non può chiamare rinforzi dallo spazio. Perché se si ostina a non dirmi nulla, non gioverà alla sua causa; e metterà me in una situazione difficile. Sarò costretto a confinarla, per intenderci, e a requisire i suoi strumenti. Non le infliggerò il trattamento crudele che stava per subire su quella nave. Ma non posso neanche rimetterla in libertà, se non mi dimostra che è la cosa migliore».

   «Sì, è logico» convenne Jaylah, ragionando tra sé. Tutto il suo addestramento d’Accademia verteva sull’obbligo di rispettare gli Accordi Temporali. Ma l’esperienza degli ultimi giorni le diceva che questa strategia non era più sostenibile. «Vede, signor Flint, le persone con cui lavoro si arrabbierebbero molto se sapessero di questa conversazione» disse, accostandosi al bozzetto appeso alla parete. «Ma qui non ci sono i miei superiori. Ci sono solo io... e ho pochissime risorse. Quindi le dirò l’indispensabile. L’avverto che ogni informazione le susciterà altre cento domande, ma non potrò rispondere a tutte».

   «Uhm... vedremo» borbottò Flint. «L’ascolto, Agente Chase».

   «Il mio popolo osserva l’umanità da tempo» disse Jaylah, tralasciando il fatto che “il suo popolo” fosse un’unione di specie diverse, e che si trovasse nel futuro. «Un giorno potrete unirvi a noi in pace, ma prima di allora dovrete superare prove tremende. Non farò la misteriosa, perché sa di cosa parlo: la guerra atomica è imminente».

   «Pensa che sia inevitabile?» chiese Flint, intrecciando le dita.

   «Non vorrei dire che il futuro è già scritto, ma... sarò franca: le vostre probabilità di sfuggire al conflitto sono pressoché nulle» rivelò Jaylah, tornando a fronteggiarlo. «E qui sta il problema. Alcuni alieni, di un’altra specie, vogliono impedire la guerra. Ma non lo fanno per generosità. Se prenderanno contatto con voi, si fingeranno benefattori; ma non dovete credergli. Quello che vogliono, in realtà, è avere dei vantaggi più avanti. Questi alieni – chiamati Na’kuhl – hanno cercato d’impedire l’attentato a Dubai. Io sono intervenuta per fermarli, perché voi Umani siate artefici del vostro destino, senza interferenze esterne. Ma i Potenziati erano così attrezzati contro gli imprevisti che ci hanno messi tutti nel sacco. Hanno compiuto ugualmente l’attentato, con altre modalità, e mi hanno catturata. Ora temo che i Na’kuhl possano contattarli, interferendo ancora di più nelle faccende terrestri. Ricordi che la loro generosità è un inganno: in realtà sono spietati».

   «E lei può provare tutto questo?» chiese Flint, circospetto. «Perché credo che, se interrogassi i Na’kuhl, mi direbbero che volevano solo salvarci dal conflitto atomico. E che lei ha interferito perché il suo popolo ci vuole in ginocchio».

   «Il suo punto di vista è comprensibile» ammise Jaylah. «Che prove le servirebbero per fidarsi di me?».

   «Tanto per cominciare, mi piacerebbe vedere qualcuno dei suoi colleghi. E magari la vostra astronave... perché suppongo ne abbiate una» rispose Flint.

   «Uhm... sì e no» ammise Jaylah controvoglia. «Purtroppo siamo rimasti separati dalla nave madre e non sappiamo cosa le sia accaduto. Avrebbe dovuto raggiungerci per darci aiuto, ma ancora non si è vista. Comincio a temere il peggio». La mezza Andoriana si lasciò sfuggire un sospiro. «Tra i miei strumenti c’è un comunicatore. Se me lo restituisce, potrò contattare almeno la navicella con la mia squadra».

   «E non ne approfitterà per evadere?» chiese il Generale. «Abbiamo rapporti su una tecnologia di trasporto istantaneo, usata a volte dagli alieni per non farsi catturare».

   Le antenne di Jaylah fremettero. Flint era ancora più informato di quanto pensasse e la sua richiesta la metteva in difficoltà. D’altra parte, con l’inibitore di teletrasporto attivo, non avrebbe potuto andarsene neanche volendo. «Prometto che non le sfuggirò» disse infine. «Voglio che ci lasciamo in buoni rapporti, perché potremmo aver bisogno di collaborare, nell’immediato futuro».

   Flint la studiò a lungo, con i suoi occhi che sembravano averne viste di tutti i colori. Poi premette un tasto sulla scrivania. «Nowak, mi porti il materiale che avete sequestrato sulla nave» ordinò. «Venga con una scorta».

   Di lì a mezzo minuto, il Sergente arrivò con il sacchetto contenente i congegni federali requisiti. Due soldati lo accompagnavano. Per ordine del Generale, Nowak sistemò tutto sulla scrivania. In mezzo ai vecchi tricorder e comunicatori, l’Agente Temporale riconobbe la sua attrezzatura. Allungò la mano per prendere il comunicatore, ma si trovò le pistole puntate contro e dovette arretrare verso la paratia.

   «È questo?» chiese Flint, impugnando il congegno a forma di mostrina. Jaylah annuì. L’uomo si rigirò il dispositivo tra le mani, ma non trovò alcun tasto. Così si limitò a premerlo. «Flint a... come si chiama la sua navetta?».

   «Excalibur» rispose Jaylah.

   «Un altro nome terrestre» mormorò il Generale, fissandola con sospetto. «Flint a Excalibur, rispondete prego».

   «Qui Excalibur» rispose Adam, l’androide ora al comando della squadra. «Devo chiederle di fornire le sue generalità. Il comunicatore che sta usando appartiene a una dei nostri».

   «Io rappresento l’AEV, una forza di sicurezza che combatte i Potenziati. Siamo consapevoli della vostra esistenza, ma non intendiamo combattervi, se non siete una minaccia» chiarì Flint. «L’Agente Chase è in mia custodia. Sono disposto a considerare il suo rilascio, ma mi occorrono prove riguardo le vostre intenzioni».

   «Spiacente, ma non siamo autorizzati a fornirvi informazioni» rispose l’androide. «Se sta trattenendo la nostra collega, lo interpreteremo come un atto ostile».

   «No!» gridò Jaylah, per farsi sentire da Adam. «La prego, Generale, mi faccia parlare con loro. È l’unico modo per evitare uno scontro che gioverebbe solo ai nostri nemici».

   Flint ebbe un attimo d’esitazione, ma poi le consegnò il comunicatore. Jaylah approfittò del momento per avvicinarsi alla scrivania, dov’erano accatastati gli altri dispositivi, compreso l’inibitore di teletrasporto. «State tutti bene?» chiese.

   «Affermativo, abbiamo curato i feriti» disse Adam. «Dopo la sua cattura abbiamo rintracciato i suoi segni vitali. Stavamo cercando di agganciarla, ma...».

   «Lo so, ci sono complicazioni» lo interruppe la mezza Andoriana. «Ora, però, spero che le cose miglioreranno. Mi dica se ci sono tracce della Keter».

   «Negativo» rispose l’androide. Non aggiunse nulla, sapendo che la loro conversazione era ascoltata.

   Jaylah sentì crescere lo sconforto. Sperava che la Keter fosse in zona, occultata per nascondersi al Reaper e pronta a intervenire non appena le circostanze l’avessero favorita. Ma quel prolungato silenzio la inquietava. «Mi ascolti bene. Poco fa un elicottero ha lasciato la nave su cui ero prigioniera. Credo che usi tecnologia stealth, ma non dovrebbe ingannare i nostri sensori. Lo rilevate?» chiese. Approfittando della distrazione di quanti aveva intorno si accostò all’inibitore di teletrasporto. Lo tastò con la mano sinistra, che teneva dietro la schiena, cercando d’individuare il comando di spegnimento.

   «Affermativo» disse Adam.

   «Seguite i suoi spostamenti. Anzi, agganciate i segni vitali all’interno e seguite quelli, anche se cambiassero mezzo di trasporto» ordinò Jaylah. «Sono il Colonnello Green e Kamala Singh. Dobbiamo sapere dove sono, in ogni momento».

   «Se siete in grado di tracciarli, dovete tenerci aggiornati sui loro spostamenti!» intervenne Flint, strappandole il comunicatore di mano. «Questa loro alleanza va approfondita. Ma torniamo a voi. Voglio sapere quanti siete e dove si trova la vostra navicella. Ricordate che ho qui il vostro agente» ammonì.

   In quell’attimo Jaylah, che trafficava con la mano dietro la schiena, riuscì a disattivare l’inibitore di teletrasporto. Ci fu un click chiaramente udibile, che attirò l’attenzione dei militari.

   «Che ha fatto?» si allarmò il Generale.

   «Adam, protocollo lambda per noi due!» ordinò la mezza Andoriana, afferrandolo per il polso. I soldati levarono subito le pistole.

   «Lo lasci immediatamente o apriremo il fuoco» ordinò Nowak.

   «Non gli farò del male» promise Jaylah. «Ma sono stanca di fare l’ostaggio. Adesso si gioca a modo mio».

   «Lo lasci, ho detto. Meno tre... due... uno...» contò il Sergente.

   In quella il teletrasporto dell’Excalibur prelevò sia Jaylah che Flint. Ma non li portò sulla navicella. Il protocollo lambda serviva a isolare un Agente e uno o più nativi, senza esporre alla vista la tecnologia federale. Di conseguenza i due furono trasferiti in un altro luogo della Terra. Uno in cui non rischiassero di essere disturbati.

   «M-ma dove siamo?!» rabbrividì Flint, guardandosi attorno. Ovunque spaziasse il suo sguardo, c’erano solo vette innevate. Un vento gelido lo frustava, trasportando nevischio. Aveva difficoltà a respirare e le orecchie gli dolevano per il brusco sbalzo di pressione.

   «Himalaya» informò Adam al comunicatore. «Ho pensato che il clima le desse un vantaggio, Tenente».

   «Ha pensato bene. Ora ci dia qualche minuto» disse Jaylah, poco infastidita dal freddo intenso, grazie al suo sangue Andoriano. Strappò il comunicatore a Flint, che si era piegato in due e si massaggiava le braccia per conservare il calore.

   «A-aveva detto che non sarebbe fuggita!» le ricordò il Generale.

   «Ho promesso che non le sarei sfuggita» puntualizzò l’Agente Temporale. «Infatti siamo ancora assieme. Se il clima non le piace, non so che farci».

   «Questi trucchetti non le fanno onore» avvertì Flint. «I miei uomini l’hanno salvata e per tutto ringraziamento lei attenta alla mia vita. Come posso crederle, quando dice che ha a cuore l’umanità?».

   «Perché sono mezza Umana» rivelò Jaylah. «È difficile da credere, ma è la verità. Tengo tantissimo a questo pianeta. Mi addolora che la guerra incomba su di voi, ma non posso evitarla. Ciò che posso fare è battermi contro ogni interferenza aliena. Purtroppo, senza l’appoggio della Keter, le mie forze sono limitate. Inoltre la situazione è complessa e in continua evoluzione; sto ancora cercando di capire qual è il modo giusto d’intervenire».

   «Quando lo c-capirà, forse sarà t-troppo tardi!» balbettò il Generale, sempre più intirizzito. Si lasciò cadere in ginocchio nella neve, rattrappendosi per conservare il calore corporeo.

   «Sì, è anche il mio timore» convenne Jaylah, inginocchiandosi davanti a lui. L’ululato del vento salì di tono, così che dovette alzare la voce per farsi sentire. «Ascolti, ho ragione di credere che l’alleanza fra Green e Singh impatterà fortemente sui prossimi eventi. Se i Na’kuhl lo scoprono, potrebbero schierarsi con loro. In quel caso dovrò colpirli con tutto quello che ho... ma non basterà. Mi serve il suo aiuto, l’aiuto dell’AEV».

   «Ha uno s-strano modo di c-chiedere aiuto!» ribatté Flint, sull’orlo dell’ipotermia.

   «Non così strano. Potrei tornare sulla mia navicella... invece mi metto nelle sue mani, Generale» disse la mezza Andoriana. «Chase ad Adam, ci riporti dov’eravamo prima. Tutti e due».

   «Non vuole tornare con noi?» si stupì l’androide.

   «Certo che lo voglio. Ma devo farlo nel modo giusto» spiegò Jaylah. «Ora faccia come ho detto, per favore».

   Il bagliore azzurro li avvolse di nuovo, riportandoli nell’ufficio di Flint, sul sottomarino. I soldati, che erano ancora lì, sobbalzarono. «Generale! È davvero lei?!» esclamò Nowak. «Ma che le è successo?» chiese, notando che l’uniforme e i capelli del superiore erano coperti di nevischio.

   «Lasci stare... sto bene» mormorò Flint, smettendo di tremare. Jaylah lo aiutò a rialzarsi. Per un attimo si fissarono da vicino. Poi i soldati agguantarono l’Agente Temporale e la sbatterono contro la paratia, tenendola sotto tiro.

   «Che facciamo di lei?» chiese il Sergente.

   «Come ho detto, sono nelle sue mani» disse Jaylah, continuando a fissare il Generale. «Mi fido di lei, nella speranza che anche lei possa fidarsi di me».

   Ci fu un lungo silenzio. Flint osservava l’aliena, rimuginando su ciò che gli aveva detto e su ciò che aveva solo accennato. «Nella mia vita, ho visto il peggio dell’umanità» disse infine. «Ho imparato a non fidarmi di nessuno. Se anche lei è un agente, avrà avuto esperienze simili. Eppure fa questo» notò, con una certa ammirazione. «Potrebbe essere un inganno, ma... correrò il rischio. Ha il permesso di andare».

   «Ma signore! Ha cercato di rapirla!» obiettò Nowak.

   «Poteva abbandonarmi a morte certa. Invece mi ha riportato qui, esponendosi al mio verdetto» spiegò il Generale. «È stato un gesto coraggioso. E i criminali, di solito, sono tutt’altro che coraggiosi. Ma come ci terremo in contatto?» chiese a Jaylah.

   «Le lascerò il comunicatore» decise l’Agente Temporale. «La prego però di chiamarmi solo se avesse sentore di un’interferenza aliena. Da parte mia la contatterò solo in quel caso. Nel frattempo le suggerisco di radunare le forze dell’AEV. Tutte quelle che può mettere insieme. Sta per succedere qualcosa di grave, e accadrà presto». Non gli disse del Giorno dell’Orrore, ma non ce n’era bisogno: il Generale sapeva che il conflitto atomico era imminente.

   «Sembra stranamente sicura di questo» notò Flint. «Come se conoscesse il futuro».

   «A volte vorrei conoscere meno cose» confessò Jaylah. «Chase a Excalibur, preparatevi a farmi risalire» disse poi. «Prendete anche i dispositivi che sono accanto a me, ma lasciate il comunicatore. Finché durerà questa crisi, ci terremo in contatto con l’AEV».

   «Ne è sicura?» chiese Adam, disturbato da quella palese violazione del regolamento.

   «Affermativo. Energia» ordinò la mezza Andoriana, posando la mostrina sul tavolo. Il raggio azzurro la riportò sull’Excalibur, assieme agli strumenti federali. Mentre svaniva fece un cenno di ringraziamento a Flint.

   «Andata!» mormorò Nowak, allibito da quel continuo sparire e riapparire. «E i suoi segreti sono svaniti con lei».

   «Non del tutto» notò Flint, raccogliendo il comunicatore che era rimasto sul tavolo. «Mi ha detto che le circostanze la obbligano a collaborare con noi. E tutto considerato... penso che sia sincera».

   L’espressione di Nowak tradiva la sua incertezza, ma il Sergente non volle contestare il superiore. «Quindi che facciamo?» chiese.

   «Quello che ci ha detto» rispose il Generale, riscuotendosi. «Raduniamo tutte le forze disponibili e prepariamoci alla battaglia».

 

   L’elicottero di Green sfrecciò verso l’isola verde smeraldo che spiccava sulle acque cristalline del Pacifico meridionale. Erano serviti due giorni di viaggio, interrotto solo da brevi soste per rifornire i serbatoi, per giungere a destinazione.

   «L’Isola Crisalide» disse Kamala con soddisfazione. «È qui che il destino dell’umanità è stato forgiato, quasi un secolo fa. E qui di nuovo si decideranno le sorti del pianeta».

   «Sarebbe a dire che qui tuo nonno è stato coltivato in laboratorio, come un fungo» corresse Green, sarcastico.

   «Non osare!» sibilò la Potenziata, scoccandogli un’occhiata assassina. «Il Progetto Crisalide ha saputo vedere oltre le miserie umane. La dottoressa Sarina Kaur e il suo staff sapevano che perfezionando la specie umana anche il mondo sarebbe migliorato. Niente più guerre, povertà, malattie e ignoranza. Ma per fare questo, una nuova umanità doveva prendere possesso della Terra. Ecco perché fu creata la mia stirpe. Quando atterreremo, ti mostrerò una cosa».

   L’elicottero stealth sorvolò la spiaggia bianca, la giungla verdeggiante nell’entroterra e infine lo scuro cono vulcanico. Lì si fermò e cominciò ad abbassarsi. In quel momento c’erano centinaia di persone sull’isola, ma la loro presenza era ben nascosta. I segni antropici più evidenti erano i resti di una recinzione metallica, che correva a poca distanza dalla spiaggia. Il cancello arrugginito era aperto. Li accanto un cartello, così corroso da essere appena leggibile, riportava il primo nome del sito: Centre d’Experimentation du Pacifique. L’isola, infatti, era stata una base di sperimentazione atomica francese, prima che i genetisti se ne impadronissero. Posta vicino all’atollo di Mururoa, nella Polinesia francese, era stata ampiamente irradiata dai test nucleari. Sapendolo, il Colonnello Green cavò di tasca un contatore geiger e lo attivò discretamente. Il contatore crepitò un poco, ma le radiazioni erano sotto il livello di guardia.

   «Che c’è, Colonnello? Non avrai paura!» lo canzonò Kamala.

   «Dovrei averne?» ribatté Green, notando che le radiazioni crescevano man mano che l’elicottero perdeva quota.

   «Dipende; vuoi avere figli?» ridacchiò la Potenziata. Mentre parlavano, l’elicottero si calò nel cono vulcanico. Green notò delle impalcature di metallo che correvano lungo le pareti interne. Finalmente l’elicottero si posò sul “fondo”, ossia sul tappo di lava solidificata che aveva chiuso il condotto magmatico. Qui, al riparo dallo sguardo dei satelliti, sorgeva una complessa installazione fatta di prefabbricati, cisterne e condotti. Alcune scale a chiocciola e montacarichi permettevano di salire sulle impalcature, in cui si trovavano altri strumenti, soprattutto grandi antenne. Ma gran parte della base era scavata nella roccia vulcanica: scendeva nel sottosuolo come un formicaio, ben al di sotto della zona radioattiva. Era lì che i genetisti avevano installato i loro laboratori.

   All’arrivo dell’elicottero, una delegazione di tecnici venne a ricevere i visitatori. C’erano anche guardie armate. Kamala scese per prima, con la sicurezza e l’entusiasmo di chi torna a casa. Green invece si attardò. Rivolse un’occhiata d’intesa ai suoi uomini, mentre si sfiorava il phaser in fondina. «Occhi aperti» avvertì. «Qui è pieno di fottuti Potenziati». Ciò detto, scese anche lui. Si guardò intorno con finta tranquillità, notando il viavai di tecnici. Vedendo che Kamala parlottava con i capireparto, le si affiancò.

   «Stiamo eseguendo i controlli finali» annunciò uno di loro. «Finora non sono emerse irregolarità. I computer, le antenne, gli apparati difensivi... tutto opera al 100% dell’efficienza».

   «Ultimate i controlli al più presto. L’ECON potrebbe attaccare in qualunque momento» ordinò Kamala. «Come stiamo a energia?».

   «I pannelli solari ci rendono del tutto autosufficienti» la rassicurò lo scienziato. «Ci vorrebbe un esercito per stanarci. Ma tutti gli eserciti del mondo sono impegnati a fronteggiarsi» ridacchiò.

   «Non tutti» corresse Kamala. «L’AEV ci ha attaccati, infliggendoci gravi danni, e potrebbe farlo ancora. Voglio una sorveglianza radar per un raggio di almeno cento chilometri. Niente deve avvicinarsi senza che ce ne accorgiamo all’istante. E chiudete l’iride!».

   Gli scienziati e i militari promisero di elevare al massimo la sorveglianza. Uno scudo metallico a forma di diaframma, il cosiddetto iride, si chiuse dentro il cono vulcanico, isolando la base posta sul fondo. Per continuare i lavori in mancanza del sole furono accesi grandi riflettori, posti sulle impalcature.

   «Seguimi» disse Kamala, precedendo Green in un ascensore. Il Colonnello si guardò ancora attorno, un po’ apprensivo. Nei mesi passati aveva inviato molti dei suoi fedeli in quella base, ma il loro numero restava inferiore a quello dei seguaci di Kamala. Quindi doveva stare molto attento. Seguì la complice nell’ascensore, che li portò di molti livelli nel sottosuolo. Percorsero corridoi e superarono porte blindate, fino a raggiungere i vecchi laboratori di ricerca genetica. Erano saloni bianchi e asettici, pieni di sofisticati strumenti.

   «È qui che la dottoressa Kaur e la sua equipe progettarono il futuro» disse la Potenziata con orgoglio. «Selezionarono i gameti degli individui più forti, più veloci, più intelligenti dell’epoca. Nel caso degli ovuli, avendone a disposizione pochi, dovettero spesso clonarli. La scienza tradizionale asseriva che fosse possibile clonare un ovocita solo due volte, prima che diventasse inutilizzabile. Ma con le sue tecniche genetiche innovative, la dottoressa Kaur riuscì a clonare molte volte uno stesso ovocita».

   «È vero che usò anche gli ovuli delle scienziate che lavoravano al progetto... inclusi i propri?» sogghignò il Colonnello.

   «Certo; erano tra i migliori disponibili» confermò Kamala. «Dopo averli clonati li fecondava artificialmente e usava tecniche di ritaglio genetico per inserire le sequenze volute. Poi li faceva crescere in incubatrice, esaminandoli attentamente per scoprire eventuali difetti o anomalie genetiche. Gli embrioni imperfetti venivano scartati» aggiunse con indifferenza.

   «E voilà, ecco la razza superiore» commentò Green, sempre un po’ sarcastico. «Fin lì è andato tutto bene. È quando si è trattato di conquistare il mondo che avete deluso le aspettative».

   «Avremmo potuto farcela, se le spie occidentali non avessero colpito questa base, assassinando la dottoressa Kaur prima che i Potenziati fossero divenuti adulti» sostenne Kamala. «I superstiti dell’eccidio furono costretti a sparpagliarsi. Essendo così giovani e pochi, dispersi in un mondo che li odiava, non riuscirono mai a far fronte comune».

   «Diciamo che si massacrarono a vicenda» corresse il Colonnello.

   «Abbiamo imparato la lezione. Oggi quasi tutti i Potenziati rimanenti sono ai miei ordini» disse Kamala. «Ci siamo radunati qui, nel luogo in cui il sogno ebbe inizio, per farlo rivivere. La dottoressa Kaur sarebbe orgogliosa di noi» affermò, osservando le strumentazioni del laboratorio. Per un po’ procedettero in silenzio. Green osservava distrattamente, ma Kamala era sempre più commossa. «Ci pensi? È proprio qui che Sarina ha lavorato. Alcuni di questi oggetti fanno parte del suo equipaggiamento originale, sono stati maneggiati da lei» sussurrò, ammirandoli come se fossero reliquie.

   «Non tutti, però» commentò Green, accennando ai computer a schermo piatto e ai microscopi ultimo modello.

   «Certo, ho rimodernato l’attrezzatura» confermò Kamala. «Quando controllerò la Coalizione Orientale, riprenderò gli esperimenti della mia antenata. È tempo di creare nuovi Potenziati... i campioni di sangue che ho preso all’aliena mi saranno utilissimi».

   «Quindi non vi basta essere super-umani. Adesso volete incrociarvi con gli alieni?» chiese il Colonnello, arricciando il naso.

   «Perché no? Noi aspiriamo al costante miglioramento» rispose la Potenziata, passando in una sala attigua. Alle sue spalle, Green la fissò come se fosse completamente folle; ma poi le venne dietro, volendo continuare la visita.

   Nel nuovo salone le luci erano basse. C’erano numerose incubatrici, alcune delle quali ospitavano degli embrioni congelati. «Uhm... non penso che siano qui da allora» commentò il Colonnello, osservando la complice.

   «Alcuni sì» rivelò Kamala. «Sono stati ibernati per ottant’anni. Altri sono stati creati più di recente, prima che io radunassi i Potenziati sotto la mia guida. Pensavo di farli nascere, appena fossi riuscita a procurarmi le madri surrogate. Ma ora che ho il DNA alieno, probabilmente mi sbarazzerò di loro».

   «Sei davvero ambiziosa» disse una terza voce, proveniente da un angolo buio. «Ma forse guardi troppo avanti e non ti avvedi degli ostacoli più vicini».

   «Chi è là? Fatti vedere!» si allarmò Kamala, estraendo il sai. Accanto a lei, Green impugnò il vecchio phaser federale.

   «Calmi... non avete bisogno di combattermi. Io sono vostro amico» disse Vosk, emergendo dalle ombre con le mani alzate. Vedendo i suoi occhi rossi e i lineamenti vampireschi, l’Umano e la Potenziata arretrarono inorriditi.

   «Merda... un’altra specie! Ma quante sono?!» imprecò il Colonnello.

   «Più di quante immagini» rispose Vosk, abbassando le mani. «Ci sono migliaia di civiltà umanoidi nella Via Lattea. Molte sono più antiche, e di conseguenza più progredite, della vostra. Vi userebbero volentieri come schiavi, o come cibo, se solo si accorgessero del vostro piccolo mondo».

   «E quali sono le tue intenzioni?!» chiese Green, madido di sudore.

   «Sono qui per aiutarvi» dichiarò il Leader Supremo, passando lo sguardo rosso da lui a Kamala. «Vi ho osservati e ho intuito il vostro grande potenziale. Mirate alla grandezza, al perfezionamento... sono ideali in cui noi Na’kuhl ci riconosciamo. Ecco perché, fra tutte le fazioni in cui è diviso il vostro mondo, ho deciso di appoggiare proprio voi. Il vostro piano mi ha colpito per la sua audacia; ma avrete bisogno di me per farlo funzionare».

   «Come conosci il nostro piano? L’hai appreso dalla tizia con le antenne?» domandò Kamala, sospettosa.

   «Ti riferisci all’Agente Chase? No... io e lei siamo nemici mortali» assicurò Vosk, avvicinandosi di qualche passo. «Dovete capire che la nostra tecnologia è molto superiore alla vostra. Quando avete attirato la mia attenzione, a Dubai, ho deciso di controllare i vostri spostamenti e comunicazioni. Avevo capito che eravate diretti a quest’isola, così mi sono preso la libertà di analizzarla. Ho notato che è piena di antenne e apparati di comunicazione. I miei scienziati hanno stabilito che questi strumenti possono essere usati per controllare i satelliti militari che le grandi potenze hanno posto in orbita. A quel punto il vostro piano è diventato chiaro. Avete compreso l’inevitabilità del conflitto atomico e pertanto cercate di controllarlo. Vi siete assicurati che, dopo il fuoco, la vostra specie rinasca più forte» aggiunse, osservando gli embrioni nelle incubatrici. «Apprezzo quest’idea. Pochi oserebbero metterla in pratica, ma... allo stato attuale, è la miglior speranza per l’umanità».

   «Hai detto che ci segui da Dubai» notò Kamala. «Che ci facevi là?».

   «Stavo solo osservando il summit» mentì Vosk. «Ho notato che Jaylah e i suoi complici hanno cercato di ostacolarvi. Ma voi avevate un piano di riserva e così avete prevalso. Questo mi ha favorevolmente impressionato, tanto da spingermi a prendere contatto».

   «E dovremmo crederti sulla parola? Avremo anche una tecnologia inferiore, ma non siamo ingenui!» obiettò Green, tenendolo sotto tiro.

   «Se vi servono prove, posso darvele facilmente» disse il Na’kuhl, premendosi il comunicatore da polso. Tutti e tre furono teletrasportati in un luogo buio. Green sobbalzò e cercò di sparare, ma scoprì che il phaser non era più in mano sua. Anche il pugnale di Kamala era svanito.

   «Dove siamo?!» chiese il Colonnello con voce strozzata.

   «Sulla mia astronave, nell’orbita terrestre» rispose tranquillamente Vosk, accostandosi a una parete.

   «Assurdo. I nostri telescopi l’avrebbero individuata!» obiettò Green.

   «La mia nave possiede un dispositivo di occultamento» spiegò il Leader Supremo. «Non mi credete? Guardate voi  stessi». Azionò un comando sulla parete, che divenne semiliquida. La Materia Degenere defluì, scoprendo una finestra panoramica.

   Green e Kamala trattennero il fiato, osservando lo sfavillante globo terrestre sotto di loro. Stavano sorvolando il Pacifico meridionale, picchettato qua e là dalle isole Tuamotu. «Ci avete trasferiti all’istante nello spazio» mormorò Kamala. «Questo significa che nessun luogo è al sicuro da voi. Potete andare dove volete. Rapire chi volete».

   «Siete miei graditi ospiti, non miei ostaggi» assicurò Vosk. «Se vi ho portati qui, è solo per mostrarvi le mie possibilità. Immaginate di avere a disposizione tecnologie come queste. Non dovrete più temere alcun nemico».

   «Conosci i nostri nemici?» chiese la Potenziata.

   «Ne avete molti, ma pochi che possano rintracciarvi sulla vostra isola» rispose il Leader Supremo. «Gli unici che dovete temere sono i federali. Ne avete catturata una, l’Agente Chase, ma poi vi è sfuggita. Una vera disdetta, perché tornerà alla carica, assieme ai suoi colleghi. Anche loro possiedono il teletrasporto, quindi potrebbero rapirvi e uccidervi in ogni momento... a meno che non accettiate il mio aiuto. Posso fornirvi uno scudo energetico che proteggerà la vostra isola dagli attacchi e al tempo stesso bloccherà il teletrasporto».

   «Sembra che non abbiamo scelta» borbottò Green, ancora incredulo di essere nello spazio. «Ma ci sono molte cose che devi ancora spiegarci. Perché questi federali ce l’hanno con noi? Non gli abbiamo fatto niente! Almeno, ehm, non prima che interferissero col nostro piano» si corresse, ricordando lo spiacevole trattamento che stavano per riservare a Jaylah.

   «I federali non tollerano che gli altri popoli siano liberi di governarsi» affermò Vosk, scoprendo i denti affilati. «Cercano sempre di manipolarli, per poi assorbirli nella loro organizzazione. In tal modo li privano dell’indipendenza, della cultura... persino dell’identità genetica. Noi Na’kuhl vogliamo sottrarci a questa sorte spaventosa; e ci piacerebbe che anche voi Umani ne foste risparmiati. Voi due mi piacete, perché volete dare alla Terra un governo saldo; uno che non s’inginocchierà davanti a nessuno». Il Leader Supremo non rivelò che il governo federale esisteva solo nel futuro, e che non sarebbe sorto affatto, se i suoi ospiti avessero imposto all’umanità il loro regime.

   «Tu che cosa ci guadagni?» chiese Kamala, ancora sospettosa.

   «Ogni volta che una specie si sottrae alla trappola federale io gioisco, perché significa che non me la ritroverò contro» rispose Vosk, socchiudendo gli occhi cremisi. «Ebbene? Se volete pensarci su, vi riporterò alla vostra base. Ma non attendete troppo, perché il conflitto atomico è imminente e i federali cercheranno di fermarvi».

   «Sì, è meglio se ci riporti a terra» disse Green, osservando a disagio le pareti nere, che gli ricordavano un bunker.

   «Io ho già deciso. Accetto il tuo aiuto» disse però Kamala. Il Colonnello la fissò scioccato.

   «Eccellente!» approvò Vosk. «Avrete uno scudo difensivo e disgregatori. Anche se i federali ottenessero rinforzi, non infrangeranno il vostro sogno». Così dicendo il Leader Supremo tese la mano a Kamala, che la strinse con forza. Per non essere messo da parte, anche Green gliela strinse. Ma quando Vosk chiamò i suoi sottoposti e prese a discutere con loro di come fortificare l’Isola Crisalide, il Colonnello si accostò alla complice.

   «Sei impazzita?!» le bisbigliò all’orecchio. «Non sappiamo niente di questi alieni, e tu li vuoi nella nostra base? Potrebbero massacrarci!».

   «Se ci volessero uccidere, l’avrebbero già fatto» obiettò Kamala. «Con la loro tecnologia possono fare tutto ciò che vogliono. Certo, potrebbero ingannarci... ma lavorando a stretto contatto capiremo meglio le loro intenzioni. E nel frattempo il loro aiuto ci fa comodo».

   «Sempre che vogliano davvero aiutarci. Stiamo correndo un rischio enorme» brontolò Green.

   «È tutta la vita che corro rischi enormi» ribatté Kamala. «Non c’è altro modo per vincere».

 

   Il giorno dopo, il 26 aprile, gli Agenti Temporali tennero consiglio sull’Excalibur. Si riunirono nella sezione mediana, attorno al tavolino. «Bene, abbiamo passato gli ultimi tre giorni a raccogliere dati» disse Jaylah. «Ora è il momento di decidere cosa fare. Prima farò un piccolo riassunto della situazione, visto che molti di voi si sono concentrati su singoli aspetti della ricerca e quindi non hanno una visione d’insieme».

   La mezza Andoriana azionò un ologramma che mostrava la Terra, circondata da una costellazione di satelliti. «Questi sono gli emettitori d’impulsi elettromagnetici, messi in orbita dai due blocchi nella speranza di abbattere i missili nucleari in volo. Il Colonnello Green si è impadronito dei codici di controllo della NATO e Kamala Singh di quelli dell’ECON. Hanno attrezzato la loro base, nell’Isola Crisalide, per controllare tutti i satelliti, di ambo le parti. Così, quando inizierà il conflitto, potranno decidere quali nazioni proteggere e quali lasciar bruciare. Salveranno le proprie, nelle quali sono pronti al colpo di Stato. Una volta preso il potere firmeranno l’armistizio, restando padroni di un mondo da ricostruire a loro piacimento... o così se la raccontano. Personalmente credo che cominceranno subito a lottare per il potere assoluto».

   «Ma la Storia non è andata così» obiettò Lavin, il Malcoriano. «Kamala morirà nel Giorno dell’Orrore. Green riuscirà a farsi dittatore per qualche anno, ma alla fine sarà eliminato. Non dovremmo lasciare che gli eventi seguano il loro corso?».

   «Ma gli eventi sono già cambiati, per le interferenze dei Na’kuhl» obiettò Adam. «Dunque non possiamo prevedere i prossimi sviluppi. E a peggiorare le cose, i Na’kuhl continuano a interferire. Hanno sbarcato truppe sull’Isola Crisalide e la stanno fortificando, segno che si sono accordati con gli occupanti. Hanno persino alzato un campo di forza che blocca il nostro teletrasporto e c’impedisce di sapere con esattezza cosa stanno facendo».

   «E allora che ci resta da fare?!» chiese Lavin, prossimo alla disperazione. «Della Keter non c’è traccia. Siamo troppo pochi per affrontare Green, i Potenziati e i Na’kuhl!».

   «Noi siamo pochi» convenne Jaylah. «Ma l’AEV ha un esercito a disposizione. Ho già avuto a che fare col Generale Flint e credo di poterlo convincere ad aiutarci».

   «Sarebbe una violazione degli Accordi Temporali» notò Adam.

   «Che alternative abbiamo?! Se non c’è traccia dei nostri, dobbiamo cercare ogni aiuto possibile!» ribatté Jaylah, dando un pugno sul tavolo. «So che non è regolare... ma è l’unica speranza che ci resta».

   «Stiamo parlando di assaltare l’Isola Crisalide» chiarì Lavin. «Era una fortezza già da prima. Ora che i Na’kuhl la stanno fortificando, sarà imprendibile. Anche supponendo di avere l’AEV dalla nostra, come conta di distruggerla?».

   «Non c’è bisogno di distruggerla completamente. Basta arrivare in sala controllo, o in alternativa eliminare le antenne» rispose Jaylah. «Non possiamo colpire direttamente i satelliti, perché quelli devono tornare sotto il controllo dei loro governi, così da eliminare parte dei missili nucleari».

   «Che è lo scopo di Green e Singh» obiettò Lavin. «Che differenza fa se sono loro ad abbattere le testate o è qualcun altro?».

   «Se il loro piano va in porto, gran parte del mondo sarà devastata» spiegò Jaylah. «Si salveranno solo le loro nazioni, che a quel punto saranno sotto il loro controllo e potranno conquistare le altre. La Terra diventerà un regime totalitario, che non creerà mai la Federazione; questo è il piano di Vosk. Se invece sconfiggiamo Green e Singh, la Storia dovrebbe rientrare nei binari. Ci saranno comunque orribili distruzioni, ma alla fine l’umanità risorgerà dalle ceneri. Lo so... non è una cosa che mi sentirei di dire alle vittime delle radiazioni» ammise, chinando il capo avvilita.

   «Ci sono molte incognite» notò Adam. «Ad esempio ignoriamo il ruolo del dottor Smirnov in tutto questo. Cosa faremo, se ce lo troveremo ancora davanti?».

   «Juri era mio amico... ma si è schierato coi nostri peggiori avversari» rispose Jaylah con amarezza. «Gli ho offerto la possibilità di tornare con noi e ha rifiutato. Non l’ha fatto per cattiveria... vuole salvare sua sorella e pensa che nella nostra linea temporale l’umanità sia oppressa. Ma a questo punto non c’è margine per le trattative. Se lo incontreremo di nuovo, siete autorizzati a stordirlo e anche a ucciderlo, se necessario».

   Gli Agenti Temporali si scambiarono occhiate cupe. «Lei ha avuto parole critiche nei confronti dell’AEV» notò Adam. «I metodi brutali di quella milizia sono in contrasto con i nostri. Eppure adesso vuole imitarli».

   «È vero, non mi piacciono i sistemi dell’AEV, che prima spara e poi fa domande» confermò Jaylah. «Ma sono gli unici alleati su cui possiamo contare. E sì, dovremo essere brutali anche noi, per vincere questa battaglia. L’alternativa è nasconderci qui, mentre la linea temporale viene alterata in modo irreversibile. Ma ricordate com’era la Galassia, prima che tornassimo indietro nel tempo. Senza il governo federale, la vittoria è andata ai Borg e ai Tuteriani. È un futuro che voglio disfare, costi quel che costi. Qualcuno la pensa diversamente?».

   Gli Agenti Temporali restarono in silenzio. Per quanto li attendesse una battaglia disperata, non potevano darsi per vinti, conoscendo le orribili conseguenze della vittoria di Vosk.

   «Allora è deciso: attaccheremo l’Isola Crisalide» dichiarò Jaylah. «Affronteremo le truppe di Green, i Potenziati, i Na’kuhl... chiunque ci si pari davanti. Può darsi che ci sia richiesto l’estremo sacrificio e che non vivremo per rivedere il futuro che conosciamo. Ma è il nostro compito di Agenti Temporali. Siamo i soli che possano farlo». La mezza Andoriana deglutì, mentre i colleghi ponderavano le sue parole. «Ora scusatemi, devo trattare con l’AEV» aggiunse.

   Volendo parlare in tranquillità, Jaylah si recò nella cabina, che in quel momento era vuota. Sedette alla postazione sensori e comunicazioni e aprì un canale. «Agente Chase a Generale Flint, risponda prego. Chase a Flint, risponda».

   Dopo alcuni secondi da cardiopalma, il Generale rispose. «Qui Flint, che succede? Ha trovato i Na’kuhl?».

   Jaylah controllò dove si trovava il Generale in quel momento. Il segnale veniva da Cochise County, in Arizona. Forse aveva scovato una base dell’AEV. «Affermativo» rispose. «E ho le prove che si sono alleati con Green e Singh. Se il loro piano ha successo, distruggeranno gran parte della Terra e trasformeranno il resto in una dittatura».

   «Mi dica tutto» ordinò Flint, con l’urgenza nella voce.

   Jaylah trascorse mezz’ora a spiegare dettagliatamente il piano nemico. Spesso dovette interrompersi, per rispondere alle domande del Generale. Alcune la misero in difficoltà, perché la costringevano a spiegare le tecnologie e le procedure degli Agenti Temporali. Ma alla fine dell’esposizione ritenne di aver dato un quadro completo al Generale. «Ora capisce perché non possiamo fare questa cosa da soli» concluse. «Il vostro aiuto ci è indispensabile».

   «Uhm... siamo alle soglie del conflitto atomico e lei mi chiede d’impiegare tutte le mie forze in questo attacco disperato, anziché dividerle sui vari fronti» obiettò Flint. «E anche se vinciamo, molte atomiche andranno ugualmente a bersaglio. Non mi sembra un buon affare».

   «L’alternativa sono distruzioni ancora maggiori, seguite dall’instaurazione di una dittatura planetaria influenzata dai Na’kuhl» gli ricordò la mezza Andoriana. «So che, dal suo punto di vista, è un azzardo tremendo. Ma deve fidarsi di me».

   «È questo il problema» disse il Generale. «Devo fidarmi di un’aliena, o mezza aliena, che conosco appena. Non so nemmeno se sono i Na’kuhl a minacciare la Terra o se siete voi federali. In fondo loro hanno cercato d’impedire l’attentato di Dubai, mentre voi eravate lì per favorirlo».

   Jaylah si tormentò una ciocca, disperando di riuscire a convincerlo. Senza il suo aiuto, la battaglia era già persa. «Ascolti, lei comanda l’AEV. La vostra missione è sconfiggere i Potenziati. Vigilanza eterna, no? È il vostro motto. Bene, sull’Isola Crisalide c’è la maggior concentrazione di Potenziati che si sia vista dalle Guerre Eugenetiche. Questo lo sapete anche voi, avete tracciato i loro spostamenti negli ultimi mesi».

   «Uhm, sì» ammise Flint.

   «Non è un motivo sufficiente per attaccare? Se eliminate Kamala Singh con i suoi seguaci e distruggete una volta per tutte i laboratori da cui sono usciti, raggiungerete il vostro obiettivo» suggerì la mezza Andoriana. «Vi prego... non avrete mai più un’occasione come questa».

   «Devo rifletterci» rispose il Generale dopo qualche secondo. «Non mi richiami, lo farò io».

   «Resta poco tempo» avvertì Jaylah, in tono supplichevole.

   «Quanto tempo? Ha una data precisa?» volle sapere Flint.

   L’Agente Temporale esitò, ma comprese di dover vuotare il sacco. «È molto probabile che l’attacco atomico sarà sferrato il 1º maggio» rivelò. «Prima di allora dobbiamo mettere fuori uso i trasmettitori dell’isola».

   «Cinque giorni!» esclamò il Generale. Dal suo tono di voce, Jaylah ebbe l’impressione che fosse sobbalzato sulla sedia. «Mi ha proprio avvisato all’ultimo momento».

   «L’ho avvertita quando ho avuto conferma della situazione» spiegò la mezza Andoriana. «Ora posso solo sperare nel suo aiuto. Con le nazioni sul piede di guerra e la mia nave che non risponde alle chiamate, non ho altri a cui rivolgermi. Se lei non accoglierà il mio appello, attaccherò ugualmente, anche se ciò significa andare incontro alla morte. Se invece mi concederà il suo aiuto... allora c’è speranza. Il suo discernimento, Generale, deciderà le sorti dell’umanità. E non solo di quella... perché tutte le specie sono legate nel destino». Ciò detto, l’Agente Temporale tacque, in attesa della risposta.

 

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Capitolo 11
*** Se camminassi in una valle oscura... ***


-Capitolo 10: Se camminassi in una valle oscura...

 

   Le tenebre erano fitte, nella selva di Pyris VII. Gli alberi scheletrici emergevano dalla nebbiolina bianca, mentre gli arbusti spinosi ne erano celati, così che più si addentrava nel folto, più Vrel ne era graffiato. Il vento gelido ululava sinistramente tra i rami senza foglie, portando a volte il fruscio di un pipistrello. Ogni volta che coglieva un movimento o udiva un rumore, il mezzo Xindi si girava puntando il fucile phaser, ma non osava rallentare. Ogni secondo era prezioso per salvare il Capitano, la cui energia neurale era stata rubata dai Devidiani. Se non li avesse stanati in tempo l’avrebbero consumata e allora ogni speranza di riavere Bina Hod sarebbe svanita.

   Il timoniere sentiva già l’affanno per la lunga corsa, resa ancor più faticosa dalla gravità un poco superiore al normale. Gambe e braccia erano piene di graffi e il freddo gli arrivava fin nelle ossa; ogni respiro condensava in uno sbuffo bianco. Ma peggio di tutto era l’angoscia che gli attanagliava il cuore. Ad ogni passo, Vrel si rendeva conto che sua sorella aveva ragione: quella era una missione suicida. Non poteva affrontare da solo un intero nido di Devidiani, capaci di estraniarsi dal continuum temporale e di risucchiargli l’energia neurale. E con le sue modeste facoltà telepatiche, probabilmente non avrebbe riconosciuto il katra del Capitano, né sarebbe riuscito a trasportarlo. Se fosse tornato da Lyra e avesse fatto ritorno alla Keter con lei, nessuno lo avrebbe biasimato. Salvo lui stesso. Vrel scosse il capo: non voleva vivere con quel rimorso. E ormai era tardi per tornare indietro. Aveva preso la decisione e doveva metterla in pratica. Almeno non rischiava di perdersi: il tricorder di Lyra lo guidava dritto alla tana dei Devidiani.

   Uscito dal folto della foresta, il mezzo Xindi sdrucciolò giù per il letto del fiume prosciugato. La pietraia era un poco inargentata dalla luce delle due lune. Anche così, Vrel mise un piede in fallo e scivolò in avanti. Si rialzò dolorante, chiedendosi come avrebbe affrontato i Devidiani se non riusciva neanche a raggiungerli. Risalì il greto e si addentrò nuovamente tra gli alberi. Ormai era vicino.

   L’imboccatura della grotta gli si parò infine davanti, avvolta da cespugli spinosi. Ne esalava un’aria densa e maleodorante. Vrel puntò all’interno la torcia del fucile. C’era una galleria sgrossata nella roccia, che portava sempre più giù. Ricordando la descrizione di Lyra, il timoniere cercò di captare segnali telepatici. Poco alla volta percepì il mormorio. Era come un brusio di sottofondo che saliva e scendeva di tono, ma non si arrestava mai. Vrel non percepiva i singoli pensieri, ma riconobbe l’emozione dominante: terrore. Quelli erano i katra raccolti dai Devidiani, impregnati della loro ultima emozione.

   Lo stesso terrore s’impadronì di Vrel, mentre si accingeva a varcare la soglia incorniciata di spine. Sentì, con assoluta certezza, che se fosse sceso in quel regno di morte non ne sarebbe riemerso. Non con le sue sole forze. Per un attimo fu sul punto di voltarsi e fuggire. Sentiva più chiara che mai la propria fragilità: ogni respiro poteva essere l’ultimo.

   «Sono un ufficiale della Flotta Stellare» si disse il timoniere, sfiorandosi la mostrina sul petto, per darsi coraggio. Alzò gli occhi al cielo stellato, ammirandolo un’ultima volta. Cercò di appellarsi alla sua parte vulcaniana, per quanto esigua, per cacciare l’angoscia che gli schiacciava il cuore. In qualche modo riuscì a schiarirsi la mente. Fatto un respiro profondo, azionò lo sfasatore improvvisato, entrando nel mondo liminale dei Devidiani. Provò una strana sensazione, vagamente simile al tuffarsi in acqua. Anche il paesaggio attorno a lui cambiò tonalità, facendosi più azzurrino. Pensando al Capitano che lo attendeva, tra la vita e la morte, Vrel varcò l’ingresso cinto di spine, addentrandosi nell’oscurità.

 

   Sulla Keter fervevano le riparazioni. L’astronave non aveva ancora lasciato l’atmosfera del gigante gassoso, che offriva un buon nascondiglio, ma aveva attivato i motori a impulso, così da non sprofondare più. Anzi era risalita di un buon tratto, abbandonando l’oceano di metano e ammoniaca per raggiungere gli strati più esterni d’idrogeno ed elio gassosi. Questo facilitava molto le operazioni per liberare i comparti inondati. Gran parte del liquido era defluita per semplice gravità e le pozze residue venivano svuotate dalle squadre di riparazione. Ora dopo ora, in plancia giungevano notizie incoraggianti.

   «La sala controllo deflettore è stata svuotata» riferì Zafreen. «Gli ingegneri stanno sigillando la falla. Dib dice che ci vorranno tre ore, dopo di che potremo andare in cavitazione».

   «Bene» disse Radek. «Le cose iniziano a sistemarsi. Ma dobbiamo tornare al pieno dell’efficienza per affrontare il Reaper». Il Comandante occupava la sedia del Capitano, come aveva fatto fin dalla partenza di Hod.

   «Signore, la sonda che abbiamo inviato a Pyris VII ha trovato qualcosa!» si animò d’un tratto Zafreen. Emozionata, lesse il rapporto dei sensori. Man mano che scorreva i dati, tuttavia, la speranza abbandonò il suo volto. Infine l’Orioniana ricadde sul sedile, affranta.

   «Ebbene?» chiese il Comandante, preparandosi al peggio.

   «La sonda ha rilevato una singola gondola di curvatura in orbita» rispose Zafreen in un soffio. «Corrisponde a quella della nostra navetta. E ci sono anche...».

   «Sì? Continui» la incalzò Radek.

   «Ci sono... tre...». L’Orioniana non riuscì a terminare la frase. Si coprì il volto con le mani e prese a piangere sommessamente.

   Intuendo il motivo, Norrin venne alla sua postazione e lesse al suo posto: «Ci sono tre corpi in orbita, tutti di Xindi Primati. Sono talmente carbonizzati che la sonda non legge il loro DNA». Raramente l’Ufficiale Tattico lasciava trasparire le emozioni, ma in quel momento fu chiaro a tutti il suo sconforto. Era stato a fianco di Hod fin dalla prima missione della Keter, quando l’Elaysiana era ancora Comandante. Non si era mai arreso di fronte alle avversità. Ma il rapporto della sonda lasciava pochi dubbi sull’accaduto.

   «Il nostro peggior timore si è avverato» disse Radek, chinando il capo affranto. «Abbiamo perso il Capitano e gli altri. Non avrei dovuto lasciarla andare... toccava a me».

   «Non è detto che sia morta» obiettò Norrin. «Certo, la gondola distaccata e i corpi carbonizzati fanno pensare che la navetta sia esplosa. Ma può darsi che prima di allora gli altri occupanti si siano teletrasportati sul pianeta».

   «Rileva i loro segni vitali?» chiese Radek.

   «No, ma... continuo le analisi» disse Zafreen, un po’ rianimata.

   «I segni sono chiari, purtroppo. Non aggrappiamoci a false speranze» disse il Comandante, rivolto a tutti i presenti. «Fra tre ore questa nave potrà entrare in cavitazione. Se per allora non avremo rilevato tracce dei nostri, dovrò dichiararli deceduti. E assumere il grado di Capitano».

   Tutti i presenti si girarono verso il Comandante. Lo fissavano con atteggiamenti che andavano dall’incredulo all’ostile, ma non osavano protestare contro quello che, in fondo, era il regolamento. Solo Zafreen perse il controllo. «Alcuni dei nostri potrebbero essere ancora vivi! Non possiamo abbandonarli!» protestò.

   «Infatti ho detto che proseguiremo le analisi» rispose Radek con tranquillità. «Capisco che lei era molto legata al signor Shil. E so che le esperienze degli ultimi giorni l’hanno segnata. Ma questo non l’autorizza a dare in escandescenze. Stia nei ranghi, o dovrò dispensarla dall’incarico».

   L’addetta ai sensori ammutolì. Non voleva lasciare la postazione, perché temeva che il suo sostituto non fosse abbastanza meticoloso nel cercare i dispersi. Ma scoccò al Comandante uno sguardo assassino, più degno del Sindacato di Orione che di un ufficiale di Flotta.

   «Posso parlarle in privato?» chiese Norrin, in tono discreto.

   «Certo, mi segua» disse Radek, immaginando il motivo. Andarono in sala tattica; il Comandante sedette, mentre l’Ufficiale Tattico restò in piedi.

   «Credo che lei sia stato un po’ frettoloso nel dare per spacciati il Capitano e gli altri» disse l’Hirogeno senza preamboli.

   «Abbiamo trovato un pezzo della navetta e tre corpi carbonizzati. La sonda non rileva segni vitali in superficie. Non so che altre prove servano» obiettò Radek. «Certo, piacerebbe anche a me trovare i dispersi sani e salvi, come in una fiaba... ma questa è l’amara realtà. Hod era un brillante Capitano e una cara amica. Vorrei fosse al comando, la prossima volta che affronteremo i Na’kuhl...».

   «Però ci sarà lei» sottolineò Norrin in tono asciutto. «È il suo primo comando, mi pare».

   «Poiché conosce la mia scheda personale, non occorre che le risponda» disse Radek. «Spero non crederà che stia approfittando di questa tragedia per far carriera. Sarebbe un insulto non a me, ma alla sua intelligenza».

   Norrin rifletté un momento. «Se allo scadere delle tre ore non troveremo niente, lasceremo questo sistema?» chiese.

   «Se proprio insiste possiamo aspettare di più. Ma se arriveranno altre navi ostili, dovrò allontanare la Keter per proteggerla» rispose Radek. «È inutile consumarci contro gli avversari di questa linea temporale. Piuttosto conserviamo le forze per Vosk. Se gli Agenti Temporali lo scovano, dovremo attaccarlo con tutto quello che abbiamo. In tal caso, potrò contare sul suo appoggio e la sua professionalità?» chiese, fissandolo con sguardo indagatore.

   Norrin ricambiò l’occhiata, senza rispondere subito. Il Rigeliano e l’Hirogeno si somigliavano sotto molti aspetti: erano ufficiali ligi al dovere, di poche parole, un poco distaccati salvo che con gli amici più intimi. Nei quattro anni di servizio sulla Keter non si erano mai scontrati, anche se non avevano nemmeno legato granché; svolgevano il loro lavoro con mutuo rispetto. Tuttavia, a ben vedere, c’era una possibile fonte d’attrito fra loro. Dopo la prima missione, conclusasi con la morte del Capitano Garm, Hod gli era subentrata nel comando, liberando il posto di Primo Ufficiale. Dato il ruolo fondamentale svolto in quella missione, Norrin poteva legittimamente aspirare alla promozione. Invece la Flotta Stellare aveva inviato Radek e l’Hirogeno era rimasto Tenente. In realtà Norrin non se ne crucciava, essendo soddisfatto del suo ruolo. Ma Radek, di tanto in tanto, si chiedeva se provasse risentimento nei suoi confronti.

   «Capisco la sua linea d’azione, signore» disse Norrin in tono tranquillo. «Ma crederò alla morte del Capitano Hod solo quando vedrò il suo cadavere. Con permesso, Comandante» disse, e si ritirò senza aver risposto alla domanda.

 

   Vrel non sapeva da quanto stesse vagando nel sottosuolo, ma aveva l’impressione che fossero ore. La galleria era diventata più ampia, man mano che scendeva, e si era incrociata con numerosi altri cunicoli. Così Vrel aveva dovuto scegliere da che parte andare. In mancanza di una mappa cercava di procedere verso il basso, evitando i percorsi in risalita. Seguiva il costante brusio, cercando di non pensare che a produrlo erano katra senza corpo.

   Qua e là le gallerie si aprivano in vere e proprie sale; le più grandi erano sorrette da colonne di roccia. Il mezzo Xindi percorreva ormai un labirinto fatto di tunnel, saloni e pericolosi pozzi che si aprivano nel pavimento. Alcuni di questi inghiottitoi fu costretto a saltarli, per procedere. Pensò che con ogni probabilità era il primo federale a metter piede in quei luoghi. Il primo vivente, beninteso. Man mano che scendeva, le pareti delle gallerie mostrarono incrostazioni minerali. C’era ferro, rame... e quel metallo giallo che luccicava poteva essere oro. Vrel non si fermò per accertarsene. Passò oltre, con i sensi all’erta.

   D’un tratto lo vide: un bagliore azzurrognolo dietro l’angolo, segno della presenza di Devidiani. Il bagliore aumentava, quindi gli alieni si stavano avvicinando. Potevano svoltare in ogni momento. Vrel alzò il fucile phaser e si preparò a colpire. In realtà sperava di non iniziare lo scontro prima di aver raggiunto il loro sancta sanctorum. Per questo aveva regolato lo sfasatore su una varianza lievemente diversa da quella captata dai sensori. Sperava di ricreare la situazione degli ufficiali dell’Enterprise-D durante il primo contatto, quando avevano osservato i Devidiani senza essere visti a loro volta.

   Gli alieni svoltarono l’angolo: erano due e procedevano di buon passo. Non diedero segno di aver scorto Vrel. Il timoniere si schiacciò contro la parete rocciosa e restò immobile, trattenendo persino il respiro. I Devidiani gli passarono accanto senza fermarsi.

   «Funziona» si disse Vrel, con il cuore che batteva a mille. Forse aveva una piccola speranza di riuscire, dopotutto. Quando i Devidiani si furono allontanati riprese la discesa. Il suo tricorder, sempre acceso, mappava il percorso fatto, così da non smarrirsi al momento di risalire. Il timoniere prevedeva un ritorno assai più movimentato dell’andata.

   La discesa fu ancora lunga e costellata di difficoltà, ma infine il mezzo Xindi raggiunse una caverna molto più vasta delle precedenti. Era un luogo antico, lavorato dal tempo: goccia dopo goccia, le infiltrazioni d’acqua avevano creato imponenti concrezioni minerali. C’erano stalattiti che pendevano dalla volta e stalagmiti che si levavano dal suolo come una foresta senza rami; talvolta si fondevano in colonne calcaree. Ma c’erano anche formazioni a ciotola o a conchiglia e veli di roccia simili a drappi. Di acqua però ce n’era pochissima, perché il timoniere era capitato lì durante la stagione secca.

   Vrel procedette cautamente in mezzo alla foresta di roccia. C’erano Devidiani in quella grotta, ed erano tantissimi. Per la maggior parte se ne stavano seduti, con le braccia posate sulle ginocchia, come se fossero lì per riposarsi. Il timoniere non capiva se stessero comunicando tra loro. Però percepiva il suono dei katra, assai più forte di prima. Il mormorio si era trasformato in un vociare angosciante; Vrel dovette chiudere la mente per non essere sopraffatto da quelle emozioni.

   Un bagliore fluttuante attirò la sua attenzione. Era una piccola fonte di luce bianco-azzurra, che volava come una lucciola. Il mezzo Xindi aguzzò la vista, ma non scorse alcun oggetto che la emetteva: era luce e basta. Volò verso un Devidiano che l’attendeva seduto. No, si corresse Vrel, non gli andava incontro. Era trascinata a forza. Terrore e disperazione ne promanavano. La scintilla di luce fu risucchiata dall’orifizio sulla fronte dell’alieno. Vrel non la percepì più, ma notò che il bagliore dell’alieno, prima fioco, si era intensificato.

   Dunque era quello il pasto dei Devidiani. Il timoniere l’aveva letto nei rapporti della Flotta Stellare, ma vederlo con i suoi occhi fu scioccante. Attorno a sé vide altre particelle luminose che venivano risucchiate dagli alieni: ciascuna era l’energia neurale di un umanoide. Vrel non sapeva neanche come definirla: consapevolezza, katra, anima? Tecnicamente i proprietari erano già morti, ma la loro interiorità esisteva ancora... finché veniva consumata. Il mezzo Xindi non aveva idea di come quelle essenze potessero mantenersi una volta separate dal corpo e non voleva immaginare cosa gli accadesse quand’erano ingerite. Sapeva solo che quell’orrore doveva cessare. Ma da solo non poteva distruggere il nido Devidiano; era già tanto salvare Hod. Già, ma come distinguerla dalle altre essenze? Ce n’erano molte che fluttuavano nella caverna; ciascuna poteva essere il Capitano. Nel vederne un’altra che veniva divorata, Vrel fremette dall’orrore. Non doveva perdere tempo. Corse al centro della caverna, perché era da lì che venivano i katra.

   Nel mezzo della grotta sorgeva un monolite nero, di forma cilindrica, con una vasca sbozzata in sommità. La poca acqua residua cadeva dal soffitto, goccia dopo goccia, nel recipiente. Da lì debordava, scivolando lungo i lati finché si perdeva a terra. Ma la roccia aveva anche degli opercoli sui lati, che sembravano scavati manualmente. Vrel sentì il lamento dei katra salire ancora d’intensità: non dubitò che fossero rinchiusi lì. Si avvicinò al monolite e lo esaminò con il tricorder. C’era una cavità al centro, ma nulla più. Il timoniere non capiva come mai le energie neurali restassero intrappolate all’interno. Lasciato perdere il tricorder, posò una mano sulla roccia e aprì la mente. Un torrente di dolore e terrore lo investì, facendolo barcollare. C’erano centinaia di katra intrappolati lì dentro, in attesa della fine. Vrel cercò di distinguere quello del Capitano, ma non ci riuscì. Erano troppi, le loro voci si sovrapponevano. Temette che il Capitano fosse già stata consumata dai Devidiani. Se era arrivato tardi, che gli restava da fare?

   Un intenso bagliore lo distolse da queste considerazioni. A pochi metri da lì si era aperto un portale luminoso, da cui uscirono due Devidiani. Il primo impugnava un ofide, mentre l’altro reggeva un contenitore simile a una fiasca. Il passaggio si richiuse alle loro spalle. Gli alieni si accostarono al monolito e quello con la fiasca ne svuotò il contenuto all’interno.

   «La vostra caccia è stata scarsa» commentò uno dei Devidiani seduti.

   «È inevitabile. Da quando la linea temporale è cambiata, non ci sono più molti luoghi in cui trovare umanoidi» rispose il cacciatore che impugnava l’ofide. «La galassia è in mano a pochi contendenti, che lottano per la supremazia. La maggior parte degli umanoidi si è estinta o si nasconde in luoghi così remoti che fatichiamo a scovarli. Perciò siamo costretti a viaggiare sempre più nel passato, per trovare di che sfamarci».

   «Ma questo ci costa sempre più energia» aggiunse il collega con la fiasca. «Verrà il giorno in cui consumeremo più energia per viaggiare di quella che otteniamo dalla caccia. Allora che sarà di noi?».

   «Quel giorno è ancora lontano» disse il primo Devidiano che aveva parlato, alzandosi in piedi. «Sonderemo lo spazio e il tempo, in cerca di pianeti che sono sfuggiti alla nostra attenzione. Ogni colonia e avamposto... ogni astronave può placare la nostra...». Il Devidiano tacque e fissò un punto al di là dei suoi interlocutori. Con un tuffo al cuore, Vrel si accorse che fissava proprio lui.

   «Stolti ciechi!» ringhiò l’alieno, probabilmente il capo dei Devidiani. «L’intruso è tra noi, e non lo vedete?! Aguzzate i sensi, percepite i suoi pensieri! È lì, davanti a voi!» gridò, indicando il mezzo Xindi.

   Tutti i Devidiani si volsero immediatamente verso di lui. Quelli che erano seduti si alzarono e gli vennero incontro. Dei nuovi arrivati, quello con l’ofide levò la creatura-arma. «Mai un vivente aveva osato seguirci qui» disse.

   «Sei uno di quelli che ci hanno sfidati in superficie» riconobbe il leader Devidiano. «La tua navetta è riparata, potevi andartene. Invece ti sei calato nel nostro dominio. Che speravi di fare?».

   Da quando era stato scoperto, Vrel lo teneva sotto tiro col fucile. Ma sapeva che i Devidiani erano troppo resistenti per abbatterlo al primo colpo. E anche se avesse ucciso il capo, gli altri lo avrebbero travolto. Così decise di rispondere. «Vi siete impadroniti dell’energia neurale del mio Capitano» disse. «Rendetela, se non volete che faccia saltare questo posto!».

   «Noi non rendiamo le spoglie della nostra caccia» ribatté il Devidiano. «Sei stato un folle a seguirci qui. Ora condividerai la sorte del tuo Capitano. Prosciugatelo!» ordinò ai suoi.

   Il Devidiano armato aprì il fuoco. Vrel evitò il colpo per un soffio e si nascose dietro il monolite. Sbucò dall’altro lato, sporgendosi un attimo per colpire l’alieno con un raggio phaser. Il Devidiano stridette e la sua luce diminuì, ma rimase in piedi. Si mosse per aggirare la roccia, così da avere Vrel nuovamente sotto tiro. Il mezzo Xindi mosse in direzione opposta, per mantenere il monolite fra loro, ma vide che gli altri Devidiani gli si avventavano contro. Stavano per agguantarlo quando disattivò lo sfasatore, scomparendo ai loro sensi.

 

   Il ritorno nel tempo normale dette a Vrel una lieve sensazione di stordimento, ma il timoniere si riprese subito. Sapeva di avere pochi secondi prima che i Devidiani lo raggiungessero. Posò la mano sul monolite, cercando disperatamente di percepire il Capitano. Per un attimo ebbe l’impressione di riconoscerla. Ma non riusciva a isolarla; c’era troppa ressa. Altri katra terrorizzati cercavano di fluire in lui per salvarsi, ma non poteva accoglierli tutti. Con riluttanza dovette respingerli. Stava ancora cercando d’isolare il Capitano quando i Devidiani gli ricomparvero tutt’intorno.

   «Hai sprecato la tua ultima occasione» disse il capo. «Ora morirai per la tua temerarietà. Lascia stare... non puoi ucciderci tutti» aggiunse, poiché il timoniere aveva rialzato il fucile.

   «Però potrei concentrare il fuoco su di te» disse Vrel. «Oppure sulla vostra dispensa!» minacciò, prendendo di mira il monolite. «Ho sentito che ultimamente faticate a riempirla. Quante cacce inutili... quanta energia sprecata, se ora la mandassi in fumo! Tutto perché non avete voluto cedere un unico spuntino. Sarebbe illogico da parte vostra».

   «Questa non è una trattativa» sibilò il leader Devidiano. «Se il tuo scopo è salvare il Capitano, allora lo renderò impossibile. Consumerò lei per prima, e tu per secondo. Guarda!».

   Richiamata da una forza invisibile, una scintilla luminosa uscì dall’opercolo nel monolite. Vrel non dubitò che fosse il katra del Capitano. Si slanciò in avanti, ma i Devidiani gli sbarrarono il passo. Disperato, vide l’essenza di Hod aleggiare verso il mostro famelico. Stava per svanire nell’orifizio sulla sua fronte quando fu intercettata da un’altra persona, apparsa dal nulla.

   «Mettetevi a dieta!» esclamò Lyra, la mano ancora sullo sfasatore che aveva disattivato per rendersi visibile. Il katra del Capitano, attirato in avanti, le entrò in fronte. E lì si fermò. Ricorrendo alle sue facoltà telepatiche, Lyra lo aveva ancorato al proprio cervello, impedendo al Devidiano di attirarlo.

   «Lyra!» gridò Vrel, fulminato. «Non credevo...».

   «... che ti avrei seguito? Sarò sempre dalla tua, fratellone» sorrise la mezza Xindi. «Allora, che si fa adesso?».

   «Adesso si balla» disse Vrel, rialzando il fucile.

 

   La lotta fu cruenta. Soverchiati per numero, Vrel e Lyra giocarono d’astuzia, nascondendosi dietro le stalagmiti e le altre concrezioni calcaree. Non stavano mai fermi: passavano sempre da un riparo all’altro, sparando a tutto spiano nei momenti in cui erano allo scoperto. Vrel usava il fucile, mentre Lyra aveva un phaser manuale. Anni di esperienza avevano affinato le capacità del timoniere, dandogli un’ottima mira; ma anche i colpi di Lyra andavano sempre a segno. Vrel si chiese se il katra del Capitano influisse sulle sue capacità, dandole l’esperienza di Hod. Ma anche così i nemici erano troppi. I federali se li vedevano venire addosso da tutte le parti. Alcuni erano muniti di ofidi, con i quali cercavano di assorbire la loro energia neurale. Fortunatamente i raggi triolici non attraversavano le rocce dietro cui Lyra e Vrel si nascondevano.

   Vedendosi attaccato da un folto gruppo di Devidiani, Vrel gli scagliò contro una granata al plasma e si nascose dietro un blocco calcareo. L’esplosione scosse la caverna, facendo crollare alcune stalattiti addosso agli alieni. Quelli che non furono schiacciati vennero avvolti dal plasma incandescente e corsero via, lanciando strida lamentose. Dietro il suo rifugio, Vrel vide le fiamme verdastre ardergli intorno e avvertì un calore intenso. Passata la vampa, si sporse e sparò al monolite in cui erano conservati i katra, disintegrandolo. Un’onda d’urto triolica attraversò la caverna a un metro d’altezza, mozzando le stalagmiti più sottili e gettando a terra i Devidiani. Centinaia di energie neurali fuoriuscirono dalla roccia infranta. Aleggiarono in tutte le direzioni, svanendo lentamente alla vista. Vrel ne ignorava la sorte, ma sapeva che almeno non sarebbero andate in pasto ai mostri. Vedendo le loro scorte di cibo che si volatilizzavano, i Devidiani emisero lamenti di scorno. Si rialzarono e tornarono all’attacco, doppiamente incolleriti.

   Nel frattempo Lyra si stava scontrando con altri dei loro in mezzo a un dedalo di stalagmiti. Cercò di seminarli, ma a un certo punto fu intrappolata contro una barriera di concrezioni.

   «Sei nostra» disse un Devidiano, venendole contro.

   «Non ancora» ribatté Lyra. Balzò su una sporgenza rocciosa, poi su un’altra e così via, salendo sempre più d’altezza. Raggi triolici la sfiorarono. Raggiunta un’altezza di tre metri, la mezza Xindi saltò oltre la barriera rocciosa. La gravità superiore al normale rese duro l’atterraggio, ma piegando le ginocchia Lyra riuscì ad assorbire la forza dell’impatto. Corse in avanti, cercando di riunirsi a Vrel. Dal rumore degli spari capiva grossomodo dove si trovasse. Svoltò di corsa un angolo... e quasi sbatté contro il leader dei Devidiani.

   «Ma guarda... un doppio spuntino» disse il mostro, levando l’ofide.

   Lyra reagì d’istinto, colpendolo con un calcio che gli fece volar via di mano la creatura. Cercò di sparargli, ma l’alieno le afferrò il polso e glielo piegò di lato. Lottarono brevemente, con furia animalesca. Oltre a volere il phaser, ciascuno dei due cercava di sbattere l’altro contro le rocce. Fu il Devidiano a prevalere: grazie alla maggior forza schiacciò Lyra contro le concrezioni. La mezza Xindi sentì dolore alla schiena, ma non ritenne d’essere ferita gravemente. Riuscì a liberarsi una mano. Sapeva che la Presa al Collo era inefficace, perciò fece un’altra cosa: sganciò una granata al plasma dalla cintura, la innescò e gliela ficcò nell’orifizio frontale.

   «Tic tac» disse, con un ghigno sadico.

   Il Devidiano la mollò immediatamente e cercò di estrarsi la bomba. Lyra ne approfittò per fuggire a gambe levate. Aveva appena svoltato dietro le rocce quando ci fu l’esplosione. L’alieno non era riuscito a levarsi la granata: la sua testa fu sbriciolata. Il resto del corpo rimase in piedi qualche secondo, mentre il bagliore azzurrino si estingueva; poi divenne polvere. Accorgendosi di aver perso il loro capo, gli altri Devidiani emisero strida luttuose.

   «Lyra!» gridò Vrel, che aveva raggiunto l’imboccatura della galleria. Avrebbe potuto fuggire verso la superficie, ma non voleva farlo senza la sorella. Finalmente la vide. Sbucata da un affollamento di stalagmiti, Lyra correva verso di lui, inseguita dai Devidiani furiosi. Ogni tanto si voltava per sparare, senza rallentare la corsa. Vrel le diede ulteriore copertura, finché la sorella gli sfrecciò accanto, entrando nella galleria. Allora le corse dietro. Percorsa una decina di metri, si girò e vide che i Devidiani li inseguivano ancora.

   Restava una sola cosa da fare. Il mezzo Xindi mise un ginocchio a terra, mirò alla volta della galleria e fece fuoco. Ci fu uno schianto assordante e tonnellate di roccia precipitarono, sollevando un gran polverone. Il crollo travolse un gran numero di Devidiani e intrappolò gli altri nella caverna. Vrel non dubitava che si sarebbero liberati, ma sperava che ci mettessero un po’. Si rialzò e riprese la corsa, con il cuore che martellava nel petto.

 

   I federali incrociarono qualche altro Devidiano nelle gallerie, man mano che salivano, ma riuscirono sempre a cavarsela. Si trattava perlopiù di creature isolate, che non erano neppure armate. Solo una volta Vrel rischiò grosso, quando un Devidiano riuscì ad abbrancarlo. Ma Lyra gli venne in soccorso: colpì l’alieno con una serie di calci, che lo fecero cadere in uno dei tanti inghiottitoi che si aprivano nel pavimento. I due ripresero la corsa, affidandosi ai tricorder per ritrovare la strada che portava in superficie.

   Finalmente sbucarono all’aperto, laceri ed esausti, ma vivi. Dopo le tenebre del sottosuolo il doppio plenilunio sembrò luminosissimo. L’aria gelida li colpì con forza, facendoli rabbrividire, ma aiutandoli anche a schiarirsi la mente, in vista della prossima mossa.

   «La navetta è lontana» disse Vrel, ansimando. «Ce la fai a correre ancora?».

   «Penso di sì» disse Lyra. «Certo che se non avessi smontato il teletrasporto...».

   I due attraversarono la foresta, alternando momenti di corsa ad altri di passo sostenuto. Superarono il fiume secco e la zona dei rovi, fino a raggiungere la navetta. Solo quando si furono chiusi dentro tirarono il fiato. Piegati in avanti dalla fatica, si scambiarono un’occhiata: non riuscivano a credere di avercela fatta.

   «Bene... ora cerchiamo di decollare» disse Vrel, appena ebbe ripreso fiato. Passando accanto alla cuccetta del Capitano le diede una rapida occhiata. L’Elaysiana era sempre in coma, ma il sensore corticale indicava che le sue funzioni primarie erano stabili.

   Lyra restò un passo dietro di lui, perché non vedesse la sua espressione. Non intendeva dire al fratello quanto fosse stata vicina a sopprimere Hod, mentre lui era via, nella speranza di farlo desistere dall’impresa. Aveva l’ipospray letale a un centimetro dal suo collo quando aveva cambiato idea. Vrel l’aveva accusata di essere un’ipocrita e una vigliacca: doveva dimostrargli che si sbagliava. Questo l’aveva indotta a seguirlo; non la speranza di salvare Hod, che le pareva irrecuperabile. E invece... se chiudeva gli occhi, Lyra percepiva il katra del Capitano nella sua mente. Non era propriamente una voce che pronunciava frasi compiute. Somigliava più a una memoria, un bagaglio di esperienze a cui attingere per decidere la mossa migliore.

   «Vieni, non è ancora finita!» la esortò Vrel, andando in cabina. Sedette al posto del pilota e avviò la sequenza di riscaldamento motori. Lyra gli venne accanto, come copilota.

   «I sistemi rispondono bene» notò Vrel, speranzoso. «Il ciclo di ricarica è quasi completo, possiamo decollare. Dai energia all’integrità strutturale».

   «Fatto» disse subito Lyra. Le sue mani si erano mosse più svelte del pensiero. C’era davvero lo zampino del Capitano, si disse.

   La navetta vibrò e per un terribile attimo restò posata al suolo. Ma con l’aumento di energia ai motori, finalmente si levò in volo. «Yu-huuuu!» gioì Vrel, sentendola rispondere ai comandi. «Lo sapevo che il Capitano ti aveva riportata in vita!». Scambiò un’occhiata di trionfo con Lyra e batté il cinque sulla sua mano. Poi tornò a concentrarsi sulla guida.

   La navicella prese quota, mentre cominciava ad albeggiare. I Devidiani che uscivano a frotte dalla loro caverna la videro sfrecciare nel cielo che si rischiarava. Sempre più rapida, la Gryphon s’innalzò nell’atmosfera, finché nessuna turbolenza la fece più vibrare.

 

   «Siamo nello spazio» annunciò Vrel. «Entro nell’orbita. Ecco... così dovremmo essere stabili» disse, inserendo i comandi. Poi si girò verso la sorella. «Grazie per avermi aiutato, laggiù» disse. «Senza di te non ne sarei uscito vivo. E scusa per quanto ti ho detto, prima di lasciarti».

   «No, avevi ragione» ammise Lyra. «Io parlo tanto, ma prima d’oggi non avevo mai lottato per la vita. Tu, invece... la tua vita sulla Keter è sempre così?».

   «A volte» riconobbe Vrel. «Ma non ero mai andato così vicino a perdere il Capitano. È ancora nella tua testa, vero?» chiese con ansia.

   «Sì, e siccome siamo un po’ affollate vorrei rimetterla a posto» disse Lyra. Ora che i livelli d’adrenalina stavano diminuendo, cominciava ad avere l’emicrania. Probabilmente non sarebbe riuscita a ospitare a lungo il katra di Hod.

   «Pensi di farcela?» chiese Vrel, ancora non del tutto tranquillo. Restituire un katra al suo corpo era una faccenda complessa.

   «Per farlo bene servirebbe un sacerdote Vulcaniano che compia il rituale del fal-tor-pan» spiegò Lyra. «Ma Vulcano è lontano... non sappiamo nemmeno se esista ancora, in questa linea temporale. Proverò con una Fusione Mentale. Prima però devo meditare, per raccogliere le forze».

   La mezza Xindi si ritirò nella sezione posteriore della navetta. Vrel restò in cabina ancora un poco, per accertarsi che lo spazio attorno a loro fosse tranquillo. Poi seguì la sorella nella sezione di poppa, per assisterla nell’ultimo atto di quell’incredibile salvataggio.

 

   «Sala macchine a plancia, controlli finali ultimati» disse Dib. «I motori a impulso operano nei normali parametri».

   «Eccellente» disse Radek. «È tempo di lasciare questo pianeta. Prendiamo quota, un quarto d’impulso».

   La Keter s’innalzò maestosamente oltre le nubi d’idrogeno, abbandonando il pianeta uranico. Il sole brillò sul suo scafo per la prima volta da giorni. Rivedendo le stelle, l’equipaggio si rianimò e molti applaudirono. Era il segno che, malgrado tutto, non erano vinti.

   «I motori a impulso rispondono bene» riferì il timoniere.

   «E i sensori come vanno?» chiese Radek.

   «Meglio, ora riesco a sondare tutto il sistema» disse Zafreen. «Oh, no...».

   «Che c’è, cosa rileva?» la incalzò il Comandante.

   «C’è un condotto di transcurvatura in avvicinamento. Sono di nuovo i Borg!» disse l’Orioniana, con disgusto e paura.

   «Entriamo in occultamento» ordinò subito Radek. «E distruggiamo la nostra sonda. I Borg non devono sospettare che siamo qui».

   «Occultamento attivato» disse Norrin. L’Ufficiale Tattico azionò la sequenza autodistruttiva della sonda, che pochi attimi dopo esplose nell’orbita di Pyris VII.

   «Il cubo è uscito dalla transcurvatura» avvertì Zafreen. «Per adesso resta ai margini del sistema».

   «Speriamo che non veda oltre il nostro occultamento» si augurò Radek. «Non sappiamo quanto siano progrediti i Borg in questa linea temporale. In ogni caso non ci resta molto tempo. La falla al controllo deflettore è stata riparata?».

   «Sì» rispose il timoniere.

   «E i sensori temporali?».

   «Stanno tornando in linea» disse Zafreen.

   «Li attivi» ordinò il Comandante. «Se i nostri Agenti hanno trovato qualcosa, accenderanno il faro temporale per chiamarci».

   L’addetta ai sensori eseguì. Di lì a poco una spia si accese sulla sua consolle. «Ho un riscontro... è il faro dell’Excalibur» confermò.

   «Da dove viene il segnale? E soprattutto da quando?» chiese Radek, sulle spine.

   «Terra» lesse Zafreen. «La data è... il 21 aprile 2053. Controllo cos’è accaduto agli Umani in quel periodo» disse, scorrendo il database storico. «Oh... è l’anno della loro Terza Guerra Mondiale» mormorò.

   «Ha senso... se Vosk vuole alterare la Storia umana, deve influenzare uno dei momenti chiave» commentò Radek. «Non possiamo lasciar soli i nostri Agenti. Plancia a sala macchine, fra quanto potremo viaggiare nel tempo?».

   «Tre giorni, signore» rispose l’Ingegnere Capo.

   «Non possiamo attendere tanto: un cubo Borg è entrato nel sistema» avvertì Radek. «Inoltre gli Agenti Temporali ci hanno chiamati. Abbiamo almeno la cavitazione quantica?».

   «Sì, signore. Anche il propulsore cronografico è di nuovo in linea» riferì Dib. «Se vuole sfuggire ai Borg le suggerisco di usare quello, così non potranno inseguirci».

   «Avvii la sequenza del propulsore. Ci porti ad almeno dieci parsec da qui» ordinò il Comandante. «Ma aspetti a effettuare il balzo. Le dirò io quando farlo» aggiunse, notando l’espressione di Norrin.

   «Capisco, signore. Sala macchine, chiudo».

   L’Ufficiale Tattico lasciò la sua postazione e si accostò al Comandante. «Devo parlarle di nuovo, signore» disse con freddezza.

   Radek si alzò. Anziché in sala tattica, stavolta andò nell’ufficio di Hod. Aggirò la scrivania e sedette senza esitazione sulla poltroncina del Capitano. Norrin invece restò in piedi, anziché accomodarsi su una sedia degli ospiti.

   Il Rigeliano studiò l’Hirogeno per qualche secondo. Ma quando parlò, non si rivolse a lui. «Radek a Mol, si presenti nell’ufficio del Capitano» ordinò, premendosi il comunicatore.

   «Arrivo» rispose Ladya.

   «Vuole rivendicare il grado di Capitano» comprese Norrin. «Per accedere ai codici di comando e alle informazioni riservate, le serve l’autorizzazione di altri due ufficiali superiori».

   «È esatto» annuì il Rigeliano. «E questo non le piace».

   «Ritengo che il Capitano e gli altri potrebbero essere ancora vivi» confermò l’Hirogeno. «Fatta eccezione per i tre corpi che abbiamo trovato nello spazio, ne ignoriamo la sorte».

   «La sonda non ha rilevato segni di vita» ricordò il Comandante.

   «Come ha detto Zafreen, le anomalie che circondano il sistema interferiscono coi sensori. Le letture non sono affidabili» rispose l’Ufficiale Tattico.

   «Ho spiegato molto chiaramente perché dobbiamo andare» disse Radek. «Ogni momento che passiamo in questa linea temporale ci mette in pericolo. Dobbiamo evitare di logorarci in scontri inutili e andare al più presto nel passato, per aggiustare le cose».

   «Se i dispersi sono vivi, e noi li abbandoniamo in una linea temporale che poi cancelliamo, li spazzeremo via dall’esistenza» sottolineò Norrin.

   «Come dicono i Vulcaniani, le esigenze dei molti contano più di quelle dei pochi» sospirò il Rigeliano. «Ascolti, Hod era anche mia amica. Ma questo è un piccolo prezzo da pagare, per la salvezza della Galassia».

   «E se le parti fossero invertite?» lo provocò l’Hirogeno, posando le mani sulla scrivania e chinandosi leggermente in avanti. «Se lei fosse naufragato su quel pianeta e Hod fosse qui?».

   «In quel caso, non vorrei che Hod rischiasse tutto per salvarmi» rispose il Comandante con fermezza. «Lei lo farebbe?».

   «Probabilmente no» ammise l’Ufficiale Tattico, tirandosi indietro. «Ma nel nostro caso, ritengo che avere il Capitano incrementerebbe le probabilità di successo nel prossimo scontro coi Na’kuhl» aggiunse.

   «Prendo nota della sua scarsa stima nei miei confronti» disse Radek, con un sorriso sarcastico. «Credevo d’essermi guadagnato maggior rispetto da parte sua. Ma in fondo la sua tendenza all’insubordinazione non dovrebbe stupirmi. Già una volta si è ammutinato contro il suo Capitano».

   «Il Capitano Garm era colluso coi Breen» rispose prontamente Norrin. «Ha cercato di eliminare l’Agente Chase, oltre a un migliaio di prigionieri federali, per evitare che testimoniassero contro di lui. Hod e io non abbiamo avuto altra scelta che prendere il comando».

   «Uhm, sì, quello fu un brutto affare» concesse il Rigeliano, carezzandosi il mento. «Ma nulla di paragonabile a questa situazione. Se bisticciamo fra noi, i Na’kuhl vincono. Perciò devo sapere se posso contare su di lei».

   Prima che l’Ufficiale Tattico potesse rispondere, Ladya entrò nell’ufficio. «A rapporto, Comandante» disse. Vedendo Radek seduto al posto del Capitano, si accigliò. «Che succede?» chiese, con un brutto presentimento.

   «I Borg sono tornati» la informò il Rigeliano. «Dobbiamo ritirarci prima che ci trovino. Datemi le vostre autorizzazioni, così prenderò formalmente il comando».

   «Ma, e i dispersi...?» fece Ladya smarrita, passando lo sguardo da lui a Norrin. «Dopo torneremo a cercarli, vero?».

   «Io lo farei» disse l’Hirogeno. «Ma sembra che il Comandante sia d’altro avviso».

   «Abbiamo prove sufficienti per considerarli deceduti» disse il Rigeliano. «Pertanto, in base al regolamento della Flotta Stellare, prendo formalmente il comando di questa nave». Così dicendo attivò l’oloschermo della scrivania e digitò le istruzioni.

   «Trasferimento codici di comando al Primo Ufficiale, causa decesso del Capitano e impossibilità di contattare il Comando di Flotta. Autorizzazione Radek 2748 theta-9» disse con voce alta e chiara.

   «Richiesta conferma genetica» disse il computer. Una porzione della scrivania s’illuminò di giallo, indicando l’area del sensore. C’era anche la sagoma di una mano disegnata all’interno. Il Rigeliano vi posò la destra e attese il completamento della scansione.

   «Codice genetico confermato» disse il computer dopo pochi attimi. «Si richiede il consenso di due ufficiali superiori».

   Norrin e Ladya si fissarono. La dottoressa fece un cenno di diniego. L’Ufficiale Tattico la prese da parte, in un angolo dell’ufficio. «Non piace neanche a me» le sussurrò. «Ma coi nemici che ci circondano da ogni parte e la Galassia in gioco, non me la sento di ammutinarmi un’altra volta».

   Sembrò che Ladya volesse dir molto, ma poi guardò di sbieco Radek e scosse la testa, in preda alla frustrazione. «Ce ne pentiremo» mormorò.

   «È probabile». Con estrema riluttanza, l’Hirogeno si accostò alla scrivania e posò la mano sul sensore. «Norrin, Ufficiale Tattico: dichiaro il mio consenso. Autorizzazione Norrin 2432 psi-4». Lanciata un’occhiata penetrante a Radek, si ritirò.

   «Manca solo lei» disse il Rigeliano all’indirizzo della dottoressa.

   La Vidiiana sembrò sul punto di andarsene. Ma pensò che, in mancanza del suo assenso, Radek avrebbe potuto chiederlo a Dib o a qualche altro ufficiale superiore. Alla fine avrebbe ottenuto ciò che voleva. Opponendogli un rifiuto, Ladya avrebbe solo aumentato la tensione a bordo. Così la dottoressa si fece avanti e mise la mano sul sensore. Fino a quel giorno aveva avuto una buona opinione del Comandante, ma ora gli scoccò un’occhiata tagliente come un bisturi. «Ladya Mol, Ufficiale Medico Capo: dichiaro il mio consenso» disse con voce strascicata, come se le parole non volessero uscirle dalle labbra. «Autorizzazione Mol 9931 phi-3».

   «Le autorizzazioni sono riconosciute» disse il computer. «Da questo momento Radek è il Capitano della USS Keter». Il replicatore incassato nella parete dietro la scrivania si attivò, fabbricando all’istante una nuova mostrina da appuntarsi sul colletto.

   «Non avrei mai voluto che accadesse in questo modo» disse il Rigeliano, levandosi i gradi da Comandante e appuntandosi al loro posto quelli da Capitano. «Confido di avere il vostro appoggio. Le vostre competenze saranno essenziali per sconfiggere i Na’kuhl».

   «Sarò con lei fino al termine di questa crisi» disse Norrin. «Poi si vedrà».

   Radek lasciò la scrivania con un sospiro. Passò accanto agli ufficiali senza guardarli e tornò in plancia. Norrin lo seguì. Per ultima venne Ladya, dopo aver dato un’occhiata malinconica all’ufficio, che le sembrava ancora impregnato della personalità di Hod.

   «Capitano sul ponte» disse Norrin senza allegria, e tornò alla propria postazione. Zafreen fissò il Rigeliano con ostilità, ma Ladya le posò la mano sulla spalla, per indurla a controllarsi.

   Il nuovo Capitano sedette sulla poltrona che era stata di Garm e poi di Hod. Premette un comando sul bracciolo, aprendo un canale con tutta la nave. «Radek a equipaggio. V’informo che, in seguito alla scomparsa del Capitano, ho formalmente assunto il comando di questa nave» disse. «M’impegno a esercitarlo con la stessa diligenza del Capitano Hod, che continuerà a ispirarci nelle sfide che ci attendono. Verrà il momento di commemorarla, ma non è questo. Ora dobbiamo completare le riparazioni e andare in soccorso dei nostri Agenti Temporali».

   «I Borg vengono verso di noi» disse Zafreen con voce secca. «Forse ci hanno rilevati».

   «Troppo tardi. Signor Dib, azioni il propulsore cronografico» ordinò Radek.

   «Come vuole, Capitano» rispose l’Ingegnere Capo dalla sala del propulsore. Il Penumbrano era già seduto sulla sedia del pilota. Sopra di lui, il complesso meccanismo conico si era attivato ed emetteva raggi a intermittenza che colpivano la sua testa. Dib si concentrò al massimo, visualizzando le coordinate di destinazione, e attivò il dispositivo.

   La Keter svanì all’istante dal sistema Pyris. Il propulsore cronografico l’aveva traslata ad anni luce di distanza. Nemmeno i Borg potevano stabilire di quanto si fosse allontanata e in che direzione. I loro sensori dicevano solo che era svanita. Informata la Collettività dello strano episodio, il cubo invertì la rotta. Aprì un condotto di transcurvatura e vi entrò, abbandonando il sistema. La guerra contro i Costruttori di Sfere procedeva senza tregua e il suo intervento era richiesto altrove.

 

   La navetta Gryphon uscì dal cono d’ombra di Pyris VII. Nella sezione di poppa, Lyra sedeva a gambe incrociate, immersa nella meditazione. D’un tratto inspirò a fondo e aprì gli occhi.

   «Sei pronta?» chiese Vrel, notando il cambiamento. Il timoniere sedeva poco lontano, su una cuccetta. Aveva approfittato della pausa per passarsi il rigeneratore dermico sui graffi e le contusioni che si era procurato durante il salvataggio.

   «Credo di sì» rispose Lyra. «Ma è la prima volta che restituisco un katra al suo corpo. Ti confesso che ho un po’ d’ansia».

   «Andrà bene» la incoraggiò Vrel, alzandosi. Porse la mano alla sorella, aiutandola a tornare in piedi. «Hai già assorbito il katra quando era incorporeo. Restituirlo alla sua dimora sarà facile, in confronto».

   I due si volsero verso la cuccetta del Capitano. Il corpo di Hod era ancora lì, in stato comatoso. Respirava autonomamente, ma il sensore corticale indicava che le sue energie cerebrali erano al minimo.

   «D’accordo, ci provo» disse Lyra. S’inginocchiò accanto alla cuccetta e pose le dita sul volto di Hod, nei punti adatti a facilitare la Fusione Mentale. Chiuse gli occhi e radunò le energie. «La mia mente nella tua mente. I tuoi pensieri nei miei pensieri. Le nostre menti si fondono... le nostre menti sono una sola» disse con lentezza. La sua fronte si corrugò. Non percepiva alcun pensiero, dato che la mente del Capitano era svuotata. Ma doveva comunque stabilire un legame tra i loro cervelli. Pronunciò la formula del fal-tor-pan, nell’antica lingua vulcaniana, sforzandosi di restituire il katra al suo corpo.

   Accanto a lei, Vrel osservava con ansia. Percepiva lo sforzo mentale della sorella, ma aveva l’impressione che non ci fosse alcun trasferimento. Poco alla volta si chinò in avanti, finché fu a un soffio da lei. «Beh?» chiese, dopo parecchi minuti.

   «È inutile, non ci riesco!» sbottò Lyra, interrompendo il legame. «Non so come fare. Nella caverna è successo tutto in un attimo, non ho neanche pensato a quel che facevo. Ma qui è tutto diverso. Sento il katra nella mia testa, ma non riesco a liberarmene. Ci serve un Maestro vulcaniano».

   «Qui su due piedi, faccio fatica a trovartene uno» ammise Vrel. «Se vuoi aspetteremo di tornare sulla Keter, così la dottoressa Mol ti darà un’occhiata. Mal che vada allestiremo una cerimonia sul ponte ologrammi, con l’aiuto dei Vulcaniani e degli altri telepati di bordo. Posso anche suonare il gong e recitare le antiche formule, se ti fa piacere» ironizzò. «Ma personalmente credo che tutti questi rituali non siano necessari. Come direbbe Juri, sono incrostazioni storiche. Servono a creare la cornice, l’assetto mentale giusto... ma non sono essenziali. Tutto quel che devi fare è scaricare il katra da qui a qui» disse, additando la tempia di Lyra e poi quella di Hod.

   «Fosse facile!» sospirò la sorella. «Il prossimo katra fuori posto lo pigli tu. E va bene, ci provo ancora. Se ci riesco, mi offri da bere» avvisò. Posizionò di nuovo le dita sul volto del Capitano, chiuse gli occhi e si concentrò al massimo.

   «Il tuo esilio è finito. Ritorna nella tua dimora. È lì che ci servi, per sconfiggere Vosk!» pensò Lyra, sforzandosi d’infondere l’essenza dell’Elaysiana nel suo corpo. Sentì un brivido attraversarla, come una corrente elettrica, che dalla base del cranio scendeva lungo il braccio, fino alla mano e ai polpastrelli delle dita. I suoi occhi si arrovesciarono all’indietro, la testa ciondolò sulle spalle e tutto il suo corpo tremò, sul punto di cadere. Sentì vagamente che il fratello la sorreggeva. Una tremenda spossatezza s’impadronì di lei, ma la mezza Xindi resistette fino allo stremo, per completare il trasferimento. Infine perse conoscenza, accasciandosi tra le braccia di Vrel.

 

   Quando i sensi le tornarono, poco alla volta, Lyra si accorse di essere stesa in un’altra cuccetta. Era ancora stanca, tanto che trascorse parecchi minuti immobile, fissando la paratia sopra di sé. Il cervello le doleva, ma al tempo stesso le pareva più leggero, come se il katra del Capitano l’avesse abbandonata. Girò la testa di lato e vide l’Elaysiana: giaceva ancora nella sua cuccetta, sul lato opposto della navicella.

   «Vrel?» chiamò debolmente, cercando di alzarsi.

   «Eccomi!» rispose il fratello, uscendo dalla cabina. «Stavo controllando la situazione fuori. Come ti senti?».

   «Stanca... ma a parte questo, direi bene» rispose Lyra, mettendosi seduta. «Quanto ho dormito?».

   «Otto ore. La notte di sonno che ti eri persa» spiegò Vrel. «Mentre riposavi ti ho curato i graffi della battaglia e ti ho dato un antibiotico. Ho anche diretto la navetta verso Pyris VI. Con i motori in questo stato non mi sono azzardato ad andare oltre un quarto d’impulso. Arriveremo tra poco».

   «E il Capitano?» chiese Lyra, accennando all’Elaysiana priva di sensi.

   «È stabile, ma non si è ancora svegliata. Il sensore corticale dice che la sua energia neurale è ripristinata, quindi...».

   Il timoniere tacque, perché proprio in quella Hod aveva cominciato a muoversi. Che fossero state le loro voci a svegliarla, o che si fosse destata da sola, l’Elaysiana aprì gli occhi. C’era una strana fissità nel suo sguardo. Dapprima si limitò a guardare la paratia sopra di sé, respirando così a fondo che il lenzuolo con cui l’avevano coperta si alzava e abbassava visibilmente. Poi, senza una parola, si tirò a sedere e infine in piedi. Il lenzuolo cadde a terra, dimenticato. Il Capitano si guardò le mani e il resto del corpo, come se li vedesse per la prima volta. Indossava ancora l’uniforme lisa e macchiata dopo il lavoro di meccanico. Sfiorò il comunicatore, sagomato nel simbolo della Flotta Stellare. Deglutì e sembrò che cercasse di parlare, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono.

   Vrel e Lyra si scambiarono un’occhiata terrorizzata. Sapevano che recuperare il katra del Capitano e restituirglielo sarebbe stato difficile. Ma non si erano soffermati a pensare che, anche riuscendoci, Hod poteva riportare danni cerebrali. In fondo il suo cervello era stato in coma profondo per alcune ore. Il katra, poi, era stato sbatacchiato qua e là. Se avesse perso dei pezzi? Vrel ricordò che una conseguenza del fal-tor-pan erano i vuoti di memoria. A volte l’effetto era temporaneo, ma talvolta l’amnesia era definitiva. Anche se i casi clinici documentati erano così pochi che non avevano un gran valore statistico. Che beffa, se avessero salvato il Capitano solo per trovarsela priva di memoria! E che tragedia se Hod avesse riportato danni cerebrali, tali da affliggerla per il resto della vita.

   «Capitano, mi riconosce?» chiese il mezzo Xindi, accostandosi lentamente. «Sono Vrel, il suo timoniere. E questa è mia sorella Lyra... si ricorda di lei? L’abbiamo salvata dalle grinfie dei Devidiani. Ora siamo di nuovo sulla navetta, al sicuro. La navetta – è stata lei a ripararla, ricorda? – funziona di nuovo bene. Fra poco ci riuniremo alla Keter».

   L’Elaysiana lo fissò sbattendo appena gli occhi, in completo silenzio.

   «Cerca di non frastornarla» gli bisbigliò Lyra. «Sarà ancora confusa, dopo quel che ha passato».

   «Devo sapere se è ancora lei» mormorò Vrel. Si avvicinò ulteriormente. «Capitano Hod... se mi riconosce, dica qualcosa. Almeno mi prenda la mano. La prego!» supplicò, tendendole la destra.

   L’Elaysiana fissò la mano tesa per lunghi, dolorosi secondi. Poco alla volta i suoi occhi s’inumidirono e il suo labbro tremò. «Sapevo di poter contare su di te, Vrel» disse con un filo di voce. «Grazie di tutto». Invece di prendergli la mano, lo abbracciò. Il mezzo Xindi ricambiò delicatamente l’abbraccio, sentendo il suo corpo esile che tremava. La vide piangere, per la gioia e l’incredulità di essere tornata; e lui stesso pianse di commozione.

   «E grazie anche a te, Lyra» disse Hod, passando ad abbracciare la cronista. «Mi hai ospitata nella tua mente... hai rischiato tutto per un’estranea».

   «Lei non è un’estranea. Chi è importante per Vrel lo è anche per me» sorrise Lyra. Si sciolsero dall’abbraccio, ancora tremanti per l’emozione.

   «Ricorda quanto è accaduto?» chiese Vrel, ancora un po’ in ansia. «Lo scontro coi Na’kuhl... l’alterazione storica... il naufragio su Pyris VII?».

   «Ricordo tutto» confermò il Capitano. «Solo i momenti che ho trascorso fuori dal mio corpo sono confusi, ma il resto è chiaro. Dobbiamo tornare sulla Keter, inseguire Vosk nel passato e ripristinare il corso degli eventi». L’Elaysiana rifletté un attimo. «Abbiamo trascorso quattro giorni lontano dalla Keter. Era malridotta, ma se conosco gli ingegneri, avranno quasi terminato le riparazioni».

   «Saremo a Pyris VI entro pochi minuti» assicurò Vrel. «Nel frattempo le serve qualcosa? Non so... vuol mangiare un boccone?». Non sapeva quali fossero i bisogni di chi era sopravvissuto a un’esperienza extra-corporea.

   «Quelle insipide razioni d’emergenza?» fece Hod. «Ah... che avrei dato per assaggiarne ancora una, quand’ero nella dispensa dei Devidiani!».

 

   Il Capitano mangiò due intere barrette e svuotò la borraccia. Ora che stavano per tornare, non si preoccupava più di razionare le scorte. Vrel la teneva ancora d’occhio, ma col passare dei minuti era sempre più rassicurato sulle sue condizioni. Se non l’avesse saputo, non avrebbe mai immaginato che l’Elaysiana davanti a lui era tornata da un’esperienza di quasi morte.

   «Ormai dovremmo essere arrivati. Inserisco la navetta nell’orbita» disse il timoniere, avviandosi verso la cabina.

   «E io chiamo la Keter» disse Lyra, andandogli dietro.

   «Ti dispiace aspettare un attimo?» la trattenne Hod.

   Lyra parve a disagio, ma si fermò. A Vrel non sfuggì che il Capitano voleva parlarle in privato. Rispettando la sua volontà, andò in cabina. Quando la porta si fu chiusa dietro di lui, Hod si schiarì la voce. «Non so cosa fossi diventata, mentre ero fuori dal mio corpo» cominciò. «Qualcuno direbbe che ero un fantasma, o un’anima in pena».

   «I suoi schemi neurali erano conservati dal campo triolico...» cominciò Lyra, ma il Capitano la interruppe alzando una mano.

   «Non importa. Voglio dire che i miei ricordi sono nebulosi, ma quando sono stata nella tua testa credo di aver percepito alcune tue memorie. Alcune, le più recenti, erano assai vivide. Sbaglio nel rammentare che inizialmente hai lasciato andare Vrel da solo? E che quando sei rimasta nella navetta, assieme al mio corpo inanimato, stavi per uccidermi con un dosaggio letale di neurazina?».

   «Io non...» cominciò Lyra, ma si  avvide che era inutile mentire. «Non avrei mai voluto arrivare a tanto. Ma pensavo che fosse l’unico modo logico di riportare indietro Vrel. Di farlo desistere da quella missione suicida» spiegò. «Ma alla fine ho cambiato idea. L’ho seguito e ho rischiato la vita per salvarla!» rivendicò.

   «Sì, l’hai fatto» disse Hod, meditabonda. Aveva l’impressione che fosse stato l’orgoglio a spingerla, più che la compassione. «Per questo non dirò nulla a Vrel. Non voglio suscitare nuove animosità fra voi, ora che avete ritrovato la concordia. Ma mi chiedo se hai percepito qualcuna delle mie memorie, mentre custodivi la mia essenza. Vedi, un Capitano della Flotta Stellare custodisce molti segreti. E la sicurezza di un gran numero di persone dipende dal fatto che questi segreti restino tali».

   «Non mi sarei permessa...» cominciò la giornalista, ma il Capitano la zittì di nuovo.

   «Non voglio sapere se hai scoperto qualcosa. Ti chiedo però di non divulgare nulla. Ne va della salvezza... e della felicità... di persone a cui io e tuo fratello teniamo profondamente» disse, calcando bene le parole.

   «Se lei terrà la bocca chiusa con Vrel, io la terrò con la Galassia» promise Lyra. L’accordo fu suggellato con una stretta di mano.

   «Vrel a Capitano, dovrebbe venire in cabina». La voce del timoniere, proveniente dal comunicatore, tradiva una profonda preoccupazione.

   Hod e Lyra lo raggiunsero subito. «Che succede?» chiese l’Elaysiana, osservando Pyris VI. Il gigante gassoso, striato di blu scuro, riempiva quasi tutto lo schermo.

   «Ho chiamato la Keter, ma non c’è risposta» spiegò Vrel. «E il peggio è che non la rilevo nemmeno. Lo so che con queste anomalie i sensori non sono affidabili. Ma se i nostri colleghi sono qui, perché non si fanno vedere? In questi giorni non ci hanno mandato una navetta, un messaggio... niente di niente».

   Il Capitano eseguì una lunga serie di scansioni e Lyra la aiutò, ma quando ebbero terminato constatarono che Vrel aveva ragione. Non c’era alcun segno dell’astronave. In compenso rilevarono una traccia di transcurvatura.

   «La traccia è ancora fresca... sono i Borg» comprese il Capitano. «Sono stati qui poche ore fa».

   «Crede che abbiano...?» chiese Vrel, inorridito.

   «Assimilato la Keter? Non credo, non c’è traccia di scontro. Niente detriti, né tracce energetiche delle armi» rispose Hod. «Secondo me i nostri colleghi se ne sono andati».

   «Abbandonandoci qui? Impossibile!» esclamò Vrel, ma in cuor suo si chiedeva se invece fosse possibile.

   «Potrebbero averci dato per morti» spiegò l’Elaysiana. «Nell’orbita di Pyris VII ci sono ancora la nostra gondola di curvatura... e i corpi delle guardie. Se hanno rilevato quei resti, ma non la nostra presenza a terra, ne avranno dedotto che siamo stati distrutti. A quel punto se ne saranno andati, per sfuggire ai Borg».

   «Non ci credo! Non può finire così!» gridò Vrel, assalito dall’angoscia. «Lyra, tu riesci a percepire le emozioni a distanza. Dimmi che i nostri sono nascosti da qualche parte... nelle profondità del pianeta, o in mezzo agli anelli!». L’afferrò per le spalle, quasi sbatacchiandola.

   «Non a-avverto niente» balbettò la sorella, pallida come un cencio. «Non un’emozione, una sensazione... niente di niente. Il Capitano ha ragione: siamo soli». Si lasciò cadere su una poltroncina e si coprì il volto con le mani, soffocando i singhiozzi. Dopo tutta la fatica e i pericoli corsi, era una somma ingiustizia finire così.

   «Torniamo di là» disse Hod. «Dobbiamo pianificare le prossime mosse».

 

   Seduti ai bordi delle loro cuccette, nella sezione posteriore della navicella, i tre naufraghi discussero il da farsi.

   «Se la Keter ci ha abbandonati, non abbiamo scampo» disse Vrel con amarezza. «Senza una gondola non avremo mai la curvatura. Quindi non possiamo lasciare questo dannato sistema. Se torniamo su Pyris VII, i Devidiani ci attaccheranno in forze per vendicarsi. Se restiamo nello spazio, finiremo l’acqua e il cibo fra dieci giorni al massimo. E se lanciamo una richiesta di soccorso via subspazio ci attireremo i Borg, i Tuteriani e chissà chi altro» concluse con un’alzata di spalle. «In ogni caso siamo spacciati».

   Accanto a lui, Lyra restò in silenzio. La mezza Xindi si era asciugata le lacrime, ma sembrava caduta in uno stato di apatia, nel quale non le importava più di niente.

   «Non sono tornata dall’anticamera della morte per finire così» mormorò Hod, più a se stessa che agli altri. «Quando eravate nella tana dei Devidiani, avete notato qualche tecnologia? Mezzi di trasporto?».

   «Macché. Quelli fanno tutto con gli ofidi» rispose Vrel. «Li agitano nell’aria, e puff! Vanno dove e quando vogliono» disse, mimando il gesto.

   «Dove e quando vogliono...» ripeté l’Elaysiana, assorta. Certo, i Devidiani erano capaci di viaggiare nel tempo e nello spazio con estrema precisione.

   «Ehi, non penserà mica di soffiargli uno di quegli aggeggi?!» s’inquietò il mezzo Xindi. «Ne saranno ancor più gelosi che della loro dispensa. E poi il nostro raid li ha messi in allarme. Non si faranno sorprendere ancora».

   «No di certo» convenne Hod. «Ma forse questa linea temporale non piace neanche a loro».

   «Io li ho sentiti lamentarsi, mentre ero nella grotta» confermò il timoniere. «Sanno dell’alterazione temporale. Questa situazione è un grosso problema per loro, perché una Galassia povera di umanoidi è una Galassia in cui soffrono la fame. Dicevano che sono costretti ad andare sempre più indietro nel tempo per trovare vittime, consumando sempre più energia».

   «Quindi temono di andare in perdita!» s’illuminò l’Elaysiana. «Temono di sprecare più energia nel viaggio di quella che guadagnano dalla caccia. Non è così?».

   «Direi di sì» ammise Vrel, spaventato dal suo atteggiamento. «Che pensa di fare? Non vorrà mica...».

   «Quei mostri sono i nostri unici interlocutori, al momento» disse il Capitano, con una strana luce negli occhi. «Certo, ce l’hanno con noi dopo lo scontro. Ma se hanno un istinto di sopravvivenza, dovranno starci a sentire. Darci un passaggio non sarà un prezzo troppo salato, in cambio del ripristino della linea temporale. Rotta verso Pyris VII!» ordinò, alzandosi in piedi.

   «È la cosa più folle che abbia mai sentito. Ci uccideranno tutti» disse Lyra, scuotendo la testa.

   «Con le poche scorte che ci restano, moriremo comunque entro dieci giorni» le ricordò Hod. «Se ha un’idea migliore, ce la dica. Altrimenti ci lasci tentare la sorte».

   Lyra avrebbe voluto ribattere, ma non seppe che dire. Non c’erano alternative logiche per uscire da quella situazione. Scosse la testa ed emise un lamento sconfortato.

   «Su, sorellina. Non è finita, finché non è finita!» la incoraggiò Vrel, un po’ rianimato. Gli pareva che il Capitano, da quando era tornata, avesse un carisma e una determinazione superiori a prima. Se qualcuno poteva salvarli da quella situazione disperata, era lei. «E io la seguirò fino all’ultimo» si disse il timoniere, recandosi in cabina. Presi i comandi, portò la navetta fuori dall’orbita del gigante gassoso. Sorvolò gli anelli di roccia e ghiaccio. E si diresse a un quarto d’impulso verso Pyris VII, il mondo infestato da cui erano fuggiti poche ore prima.

 

   Tre giorni dopo, la Keter stazionava a poca distanza dalla Terra. La casa dell’umanità era irriconoscibile per via delle anomalie che l’avevano devastata. Anche le colonie sugli altri pianeti e satelliti del sistema solare erano state abbandonate da tempo. In tutto il sistema non c’era traccia di vita umana. In compenso i sensori rilevavano vascelli Borg e Tuteriani che si davano battaglia a pochi anni luce.

   «Sala macchine a plancia, il nucleo temporale è operativo» disse Dib.

   «Inizializzare la sequenza d’avvio» ordinò Radek. «La destinazione è quella indicataci dal faro temporale: 21 aprile 2053, pochi giorni prima del bombardamento atomico. Timoniere, ci allontani dalla Terra. All’epoca gli Umani avevano già satelliti e telescopi, non vorrei che c’individuassero. Inoltre dobbiamo aspettarci che anche il Reaper sia in zona».

   «Vado nello spazio aperto o vuole appostarsi da qualche parte?» chiese il timoniere.

   «Avviciniamoci a Saturno. I suoi anelli e l’atmosfera saranno un buon posto in cui nasconderci dal Reaper, mentre studiamo la situazione» decise il Rigeliano.

   «Agli ordini, Capitano».

   Il timoniere allontanò la Keter dal globo grigiastro della Terra. Ben presto il grande Saturno apparve sullo schermo, circondato dai brillanti anelli e dai molti satelliti. La Keter si avvicinò al polo nord, dove campeggiava una grande tempesta di forma esagonale. L’astronave vibrò, mentre il nucleo temporale raccoglieva l’energia per il balzo. Molti dell’equipaggio si guardarono attorno innervositi, sperando che le riparazioni eseguite in fretta nell’ultima settimana reggessero.

   «Se volessimo tornare al sistema Pyris per un ultimo controllo, questo è il momento» disse Norrin. Negli ultimi tre giorni non aveva più questionato gli ordini del nuovo Capitano, ma quella era l’ultima occasione per cercare i dispersi.

   Radek tentennò. In cuor suo era convinto che Hod e gli altri fossero morti, e che fosse inutile attardarsi nel vano tentativo di rintracciarli. Ma vedeva che gli ufficiali e gran parte dell’equipaggio non si davano per vinti. Forse era un errore costringerli ad affrontare i Na’kuhl con questo dubbio che li distraeva, oltre a minare la fiducia nei suoi confronti. Stava per ordinare di tornare a Pyris VII, quando tre astronavi uscirono dalla curvatura. Zafreen le inquadrò sullo schermo: erano Dreadnought dei Tuteriani e si avvicinavano a gran velocità.

   «Navi nemiche in avvicinamento. Devono aver mascherato la traccia di curvatura» disse l’Orioniana. «Hanno gli scudi alzati e danno energia alle armi».

   Radek le osservò corrucciato. Tre Dreadnought costituivano un serio pericolo, considerato che la Keter non era ancora tornata al massimo dell’efficienza. «Allora è destino» sospirò. «Plancia a sala macchine: dobbiamo andare subito nel passato».

   «Il nucleo temporale ha raggiunto il potenziale di cascata» disse Dib, mentre gli allarmi squillavano. «Balzo fra tre... due... uno...».

   Zafreen si piantò le unghie nei palmi, vedendo sfumare l’ultima speranza di riavere Vrel. Anche Norrin chinò il capo, affranto. Aveva sperato fino all’ultimo di ritrovare il Capitano. Nello spazio, le Dreadnought aprirono il fuoco contro la Keter. Ma in quell’attimo la nave federale svanì, diretta al passato, dove si giocava la sfida per il destino della Via Lattea.

 

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Capitolo 12
*** Ora zero ***


-Capitolo 11: Ora zero

 

   L’elicottero militare a doppio rotore diresse il muso squadrato verso l’Isola Crisalide, trasmettendo il segnale di riconoscimento. Era notte e le tenebre avvolgevano l’isola, il cui cono vulcanico si stagliava come una massa nera che nascondeva le stelle. Ma non appena il segnale radio fu inviato, a terra si accesero i riflettori e squillò una sirena. Da un ingresso nascosto sul fianco della montagna uscirono camionette piene di soldati, che si diressero verso la spiaggia, dove c’era un’area di atterraggio.

   «Qui Barghest, vi abbiamo trasmesso il codice ma non ci avete autorizzati ad atterrare. Chiediamo conferma atterraggio, ripeto, chiediamo conferma atterraggio» disse il pilota.

   «Barghest, restate in attesa» rispose il controllore dall’isola. «Vi stiamo scansionando come misura cautelare. Non avvicinatevi a meno di 500 metri dalla costa, o impatterete contro la barriera elettromagnetica».

   «Barriera elettromagnetica?! Ma che state dicendo? Volete farci credere che avete uno scudo da fantascienza?» chiese il pilota. Malgrado lo scetticismo delle sue parole, l’elicottero cominciò immediatamente a rallentare.

   «La situazione è cambiata, abbiamo acquisito nuove tecnologie» rispose il controllore.

   «Come sarebbe, acquisito? E perché non ci avete informati?!».

   «Lo stiamo facendo adesso. V’informo che tutto ciò ricade sotto il segreto militare. Attenetevi agli ordini e non fate domande. Le nuove direttive vengono dal Colonnello Green e chiunque vi trasgredisca ne risponderà a lui in persona» avvertì il controllore.

   «R-ricevuto» balbettò il pilota. L’elicottero era adesso fermo a mezz’aria, a meno di un chilometro dalla costa.

   «Scansione completata, potete passare. La barriera elettromagnetica sarà abbassata fra trenta secondi e rialzata fra sessanta. Per allora dovrete essere a meno di 500 metri dalla costa, perciò sbrigatevi» ordinò il controllore.

   «Ricevuto. Per il Nuovo Ordine!» salutò il pilota.

   «Per il Nuovo Ordine» ripeté il controllore.

   Un fuggevole bagliore rossastro disegnò la forma di una cupola che avvolgeva l’Isola Crisalide. Lo scudo Na’kuhl si era disattivato, ma sarebbe tornato in linea entro trenta secondi. Perciò l’elicottero partì in avanti alla massima velocità. Era appena entrato nel raggio di sicurezza quando lo scudo si riattivò. Il velivolo raggiunse la spiaggia e si posò sulla piattaforma di atterraggio, illuminata da molti riflettori. Le pale non avevano ancora cessato di muoversi quando il portello posteriore si abbassò. Ne uscirono soldati con uniformi di varie nazionalità, accomunate però dalle mostrine del Movimento Ottimale di Green.

   I sorveglianti dell’isola scesero dalle camionette e vennero loro incontro. Erano perlopiù del Movimento Ottimale, sebbene ci fossero anche alcuni soldati dell’ECON, fedeli a Kamala. «Benvenuti sull’Isola Crisalide; sono il Maggiore Schmidt» salutò l’uomo in testa al gruppo. «Scusate l’imprevisto, ma qui sono cambiate molte cose» disse con uno strano sorriso. Alle sue spalle i soldati tenevano le armi pronte. Al posto dei fucili e delle pistole erano equipaggiati con disgregatori Na’kuhl.

   «I nostri ordini di consegna però sono sempre gli stessi» rispose il pilota dell’elicottero, piuttosto rigido. «Venti soldati di rinforzo alla guarnigione, parti di ricambio per le attrezzature, oltre a provviste e medicinali».

   «Avete portato l’erba?» chiese Schmidt, serissimo.

   «No, che erba?» si stupì l’altro. «Se intendete droghe, non ne abbiamo. Perché, qui da voi...?».

   «Ah ah, stavo scherzando!» rise Schmidt, dandogli una pacca sulla spalla. Anche i soldati alle sue spalle si rilassarono. «No, niente droghe qui. Quelle serviranno alle truppe che andranno in Asia. Su, ragazzi! Venite a scaricare!» ordinò ai suoi soldati. Questi si fecero subito avanti, aiutando i colleghi dell’elicottero a portar giù le casse con i materiali. Ogni cassa aveva una targhetta che ne indicava il contenuto. In pochi minuti furono tutte caricate sulle camionette. Anche i venti soldati di rinforzo vi presero posto, così come il pilota dell’elicottero. Il convoglio si diresse a velocità spedita verso la base nel cuore della montagna.

   «Sono felice d’essere qui, in mezzo al Pacifico» disse il pilota, guardandosi attorno. «Nel resto del mondo sta per scatenarsi l’Inferno. Sappiamo quanto manca all’Ora Zero?».

   «Poco» rispose Schmidt, che guidava accanto a lui. «È questione di ore, ormai». Sulla fronte del Maggiore si disegnarono profonde rughe di preoccupazione. Persino lui, uno dei più fedeli collaboratori di Green, sentiva crescere l’ansia ora che i loro piani stavano per concretizzarsi.

 

   Tra la vegetazione che circondava il cono vulcanico, qualcosa si mosse. L’erba era calpestata e le grandi foglie di palma venivano spostate, ma né occhi umani, né telecamere a infrarossi potevano scorgere i responsabili. In testa al gruppo, Jaylah Chase si apriva un varco nel sottobosco. Lei e i colleghi indossavano le tute occultanti per non essere rilevati. Erano dodici in tutto; gli altri tre attendevano sull’Excalibur. La navetta aveva sfruttato il momento in cui lo scudo era stato abbassato, consentendo l’ingresso dell’elicottero, per infilarsi a sua volta. Ora restava occultata, pronta a intervenire non appena lo scontro fosse divampato. Ma la grave inferiorità numerica degli Agenti li obbligava a mantenere più a lungo possibile l’approccio stealth. Sapendo che i Na’kuhl avevano rifornito la guarnigione con le loro tecnologie, non osavano nemmeno parlare tra loro con le trasmittenti subspaziali, per timore d’essere intercettati. Così Jaylah usava i segni per dare ordini alla squadra. Fortunatamente i visori delle tute permettevano di vedere i colleghi, sia pure come sagome spettrali, essendo regolati sulla loro frequenza di occultamento.

   Sentendo il rumore delle camionette e vedendone i fari, Jaylah segnalò ai colleghi di arrestarsi. Gli Agenti restarono appostati nella boscaglia mentre i veicoli li superavano. Se si fosse trattato solo degli Umani, avrebbero confidato nell’occultamento. Ma essendo coinvolta la tecnologia dei Na’kuhl, non potevano essere sicuri di niente. Solo quando i veicoli furono lontani Jaylah osò rialzarsi e segnalò ai suoi di riprendere la marcia.

 

   «Sì, signor Presidente... in questo momento sono in volo verso la capitale. No, nessun problema coi nostri alleati mediorientali. Le trattative sono durate un po’ più a lungo, tutto qui, ma garantisco la loro piena collaborazione». Parlando al telefono, Kamala Singh camminava avanti e indietro nel suo ufficio. Al posto degli abiti diplomatici, la Potenziata indossava una tenuta militare che non l’avrebbe impacciata in caso di scontro. In cintura portava una coppia di pugnali sai. Per nascondere l’orecchio mutilato indossava ancora il velo, stavolta di un bianco immacolato.

   «Sì, signore... le truppe sono schierate e pronte a varcare il confine» proseguì Kamala in tono pratico. «Attaccheremo l’Europa da sud e da est; quell’Unione da operetta non potrà fermarci. Specialmente se le sue difese saranno ammorbidite dalle nostre atomiche. E coi satelliti EMP a creare il black-out informatico, non sapranno nemmeno che sta succedendo. I miei esperti militari confermano che le nostre truppe possono conquistare l’Europa in un mese e il Nord America in quaranta giorni. Come dice? No, io non ho fatto altro che seguire le sue istruzioni. Se siamo arrivati a un passo dall’egemonia mondiale, lo dobbiamo solo alla sua guida illuminata» disse con voce leziosa. «Sì, sarò da lei appena possibile... ma non deve aspettarmi, non sono così importante. Se ritiene che sia giunta l’ora, ordini l’attacco! Siamo tutti con lei. Sì, molto bene... ai suoi ordini... sarà fatto, signor Presidente. Che la prossima alba sorga su un nuovo ordine». Ciò detto, Kamala ripose in tasca lo smartphone.

   «Allora?!» chiese Green, ansioso. Il Colonnello aveva osservato la complice durante tutta la telefonata, cercando d’indovinare gli ordini che riceveva. La sua ultima frase lo faceva ben sperare.

   «È fatta» disse Kamala, con un lampo di trionfo negli occhi scuri. «Il vecchio scimunito ha dato l’ordine. Fra un’ora i satelliti EMP creeranno il black-out nei paesi NATO. Nello stesso momento partirà l’attacco informatico contro le vostre basi. Subito dopo saranno lanciati i missili balistici».

   «Bene... il grande momento è arrivato» disse Green, levando di tasca lo smartphone. «Io informo il Pentagono; tu allerta la nostra base».

   «Subito, tesoro» fece Kamala, con lo stesso tono lezioso che aveva riservato a Kuan. Indugiò sulla soglia, mandando un bacio a distanza al Colonnello, che però era troppo preso per accorgersene.

   «Pronto, Generale? Sono il Colonnello Green e la chiamo per un’assoluta emergenza. No, sono ancora sulla portaerei, nel Golfo Persico» mentì. «Ascolti, ho prove certe dal nostro spionaggio che la Coalizione Orientale sta per attaccarci. No, la prego, mi faccia parlare: l’attacco è imminente! Comincerà con un bombardamento elettromagnetico, per creare il black-out, e con l’attacco informatico alle nostre basi militari. Subito dopo lanceranno le atomiche; poi comincerà l’invasione di terra su più fronti. Dobbiamo avvertire il NORAD e portare l’allerta a DEFCON 2, oltre ad avvisare gli alleati. Sì, è indispensabile proteggere i nostri sistemi informatici, per conservare la capacità di offensiva nucleare. Controffensiva, certo... sarebbe una controffensiva» si corresse. «Signore, non le parlerei mai in questi termini se non fossi più che certo delle mie fonti. In caso d’errore darò immediatamente le dimissioni» promise. «Molto bene... sì, arriverò il prima possibile. This we’ll defend» promise, citando il motto delle forze armate.

   Conclusa la telefonata, Green alzò lo sguardo verso Kamala, che era ancora sulla soglia. «Tutto come previsto» la rassicurò.

   «Ti amo» disse la Potenziata, scoccandogli un sorriso smagliante, e lasciò di corsa l’ufficio per allertare la base.

 

   Sopra il polo nord di Saturno, la Keter attendeva occultata. In plancia si respirava un’aria sempre più tesa, man mano che passava il tempo. Tutti attendevano un ordine da Radek; ordine che però non arrivava.

   «Signore, manca appena un’ora al lancio delle atomiche» disse Zafreen, incapace di trattenersi. «Non dovremmo soccorrere i nostri Agenti?».

   «È quello che si aspetta Vosk» rispose il Rigeliano. «Sa di non averci distrutti e sospetta che lo abbiamo inseguito nel passato. Quindi se ne sta occultato, aspettando che noi ci palesiamo. A quel punto ci attaccherà alle spalle. No... se vogliamo sconfiggere il Reaper, dobbiamo essere noi a coglierlo di sorpresa».

   «Potremmo almeno inviare un messaggio agli Agenti, per fargli sapere che siamo qui» borbottò l’Orioniana. «Altrimenti cadranno nella disperazione».

   «I Na’kuhl potrebbero intercettare la trasmissione» obiettò Radek. «Anche se non riuscissero a decrittarla, avrebbero comunque la conferma che siamo arrivati. Non perderò il nostro unico vantaggio solo per fare un saluto agli Agenti».

   «Ma così non sappiamo neanche dove sono e che stanno facendo. Non possiamo coordinarci con loro e questo riduce di molto la nostra efficacia» intervenne Norrin.

   «Se noi abbiamo rilevato lo scudo Na’kuhl sull’Isola Crisalide, lo avranno fatto anche loro» rispose il Rigeliano con calma. «Perciò sarà quello il loro obiettivo. Noi interverremo al momento opportuno, cioè quando il Reaper si renderà visibile».

   «E se non lo facesse?» insisté l’Hirogeno, preoccupato da quell’atteggiamento attendista. «La presenza di tecnologia Na’kuhl a terra indica che il nemico sta già alterando la Storia. Quindi potrebbe già essere troppo tardi».

   «Questa è una ragione in più per evitare lo scontro» rispose Radek. «Se è tardi, dobbiamo osservare ciò che accade per dedurne la natura esatta dell’alterazione. A quel punto potremo tornare indietro nel tempo di qualche altra settimana, sapendo dove intervenire. Per adesso restiamo in attesa. Quanto a lei» disse rivolgendosi di nuovo a Zafreen «continui a tenere d’occhio le trasmissioni radio terrestri, in cerca di anomalie. E cerchi trasmissioni subspaziali che possano rivelarci dov’è il Reaper. Se riusciamo a localizzarlo, lo attaccheremo con tutta la nostra forza, approfittando del fattore sorpresa» promise ai suoi ufficiali. «Fino ad allora... temo che i nostri Agenti dovranno cavarsela da soli» sospirò.

 

   Protetti dalle tute occultanti, gli Agenti Temporali si facevano strada nell’installazione scavata nella montagna. Entrare non era stato difficile, grazie agli Sfasatori Dimensionali che permettevano di attraversare gli oggetti solidi, come il portone d’ingresso. Il problema era orientarsi una volta dentro. I federali non avevano una mappa della base ed esitavano a sondarla, per timore d’essere individuati dai Na’kuhl.

   «Ci resta poco tempo» avvertì Adam, sempre consapevole dell’orario, grazie al suo cronometro interno. «Se la Storia segue il suo corso, manca un’ora al lancio delle prime atomiche».

   Jaylah fremette. Dovevano raggiungere il centro di comando e possibilmente abbassare il campo di forza che avvolgeva la base. «Acceleriamo il passo» ordinò. «E sondiamo la base; dobbiamo correre il rischio».

   Gli Agenti estrassero i tricorder e altri sensori. «Rilevo un’enorme fonte energetica due piani sotto di noi» riferì Adam. «Si tratta di un reattore a energia del vuoto, del tipo usato dai Na’kuhl. Credo sia il generatore del campo di forza che protegge l’isola. Dovremmo distruggerlo».

   «Ma l’obiettivo più importante è la sala controllo» obiettò un altro Agente. «Se colpiamo il generatore, allarmeremo la guarnigione. Perderemo il fattore sorpresa».

   «Quali sono i suoi ordini, Tenente?» chiese l’androide, rivolto a Jaylah. Tutti gli Agenti la fissarono. Era una decisione critica, da cui dipendeva il successo della missione.

   «Dividiamoci» ordinò la mezza Andoriana dopo una breve riflessione. «Metà di voi mi seguiranno verso la sala controllo, mentre gli altri andranno con Adam a occuparsi del reattore. Il gruppo del reattore però dovrà entrare in azione solo dopo che noi avremo raggiunto l’obiettivo, o che saremo stati scoperti».

   «Forse ci hanno già scoperti» avvertì Adam, accennando al corridoio più avanti.

   Il Maggiore Schmidt era lì, con un Visore di fattura Na’kuhl, e sembrava osservarli. Sulle prime gli Agenti non osarono reagire, perché non sapevano se l’uomo li vedeva. Ma le sue azioni fugarono subito i dubbi. Il Maggiore estrasse una strana arma, sempre Na’kuhl, con la quale irradiò il corridoio, investendo l’intera Squadra Temporale. «Schmidt a Green, li ho trovati! Li rendo visibili per voi» disse alla radio.

   Colpiti dal raggio diffuso, gli Agenti sentirono una scossa elettrica. Gli indicatori all’interno del casco li avvertirono che l’occultamento era in avaria. Fortunatamente l’impulso energetico non era così potente da trapassare le tute, ma la loro superficie si chiazzò di nero.

   Volendo verificare l’efficacia dell’arma, Schmidt si levò il Visore. Davanti a lui c’era una scena impressionante: dodici Agenti in tuta corazzata apparivano e sparivano, avvolti da fulmini bluastri. «Schifosi mostri... non uscirete vivi da qui!» minacciò il Maggiore, nascondendosi dietro l’angolo.

   «Neanche tu» rispose Jaylah, estraendo il phaser. Lo regolò al massimo e fece fuoco. Il raggio intensissimo perforò la parete in cemento armato e trapassò Schmidt all’altezza del petto. Il Maggiore abbassò lo sguardo, esterrefatto: aveva un foro di dieci centimetri in corrispondenza del cuore. Anche se i Na’kuhl gli avevano dato i loro strumenti, l’Umano non era pronto a sostenere uno scontro con quelle armi. Non si aspettava che forassero le pareti così facilmente. «Troppo... tardi...» mormorò, e cadde a terra morto.

   In quel momento squillarono gli allarmi. La base era stata allertata e i federali non potevano più contare sull’occultamento per nascondersi.

 

   «Okay, scordatevi l’approccio stealth» disse Jaylah, avvolta dagli ultimi lampi azzurrini. «Eliminiamo chiunque ci si pari davanti. Tutti con me!». Così dicendo sparò al pavimento, ritagliando un’apertura tutt’intorno a sé. Quando il cerchio fu completato, il peso la fece cadere al piano inferiore, assieme alla sezione circolare di pavimento. Gli altri Agenti la imitarono: alcuni ritagliarono aperture sotto di sé, altri saltarono nei fori aperti dai colleghi. In questo modo, in pochi secondi furono tutti al piano inferiore. Si trovarono in una sala controllo, con cavi dell’alta tensione e tubature dell’acqua. I pochi addetti presenti in quel momento furono storditi all’istante.

   «Ancora un livello» ricordò Jaylah. Fatto qualche passo in avanti, ritagliò un’altra sezione di pavimento attorno a sé. Stavolta la caduta fu più traumatica, perché la sala sottostante aveva il soffitto alto. Il disco di cemento armato schiacciò un controllore che aveva la sfortuna di trovarsi proprio in quel punto. Nel far questo s’inclinò su un lato, così che Jaylah fu gettata a terra. La mezza Andoriana rotolò due volte e si rialzò, sparando per stordire gli altri controllori. Attorno a lei, gli Agenti Temporali piovevano dal soffitto. Per alcuni l’atterraggio fu duro, data la maggiore altezza. Quello che se la cavò meglio fu Adam, le cui articolazioni in duranio potevano sopportare cadute ben peggiori.

   «Da questa parte!» disse l’androide, correndo in avanti. La stanza in cui si trovavano si affacciava su un salone ancora più grande, forse in origine un deposito, visto che c’erano ancora dei container. Qui sorgeva il generatore dello scudo, costruito dai Na’kuhl in pochissimi giorni. Era un reattore energetico, simile nell’aspetto a un nucleo di curvatura. Alcune consolle lo contornavano, anche se non c’erano tecnici in vista, né umani né alieni. In compenso c’erano parecchi soldati di guardia. Per la maggior parte erano appostati su una passerella che correva intorno al salone, a metà altezza. Quella posizione soprelevata dava loro un certo vantaggio sui federali, sebbene fosse esposta. Alcuni soldati avevano fucili e mitra, ma parecchi altri erano muniti di disgregatori Na’kuhl. Jaylah e Adam si nascosero dietro un container, urlandosi per sovrastare il fragore della battaglia.

   «Pensi che distruggendo quello salterebbe tutta l’isola?» chiese la mezza Andoriana, accennando al generatore.

   «No, non credo» rispose l’androide, analizzandolo col tricorder mentre con l’altra mano rispondeva al fuoco. «I reattori Na’kuhl a energia del vuoto tendono a implodere, anziché esplodere. Penso che la distruzione resterebbe confinata a questo ambiente, o poco più».

   «Allora piazziamo le cariche e via!» disse Jaylah, traendo un detonatore dallo zainetto. Era un dispositivo sferico, non più grande di un pugno. «Tre minuti basteranno» disse, regolando il timer. Dopo di che si sporse brevemente dal riparo e gettò la granata verso il generatore, facendola rotolare sul pavimento. Giunta a due metri dalla base, la sferetta rimbalzò contro un campo di forza.

   «Frell, anche il generatore è schermato!» imprecò Jaylah, maledicendo l’astuzia dei Na’kuhl e soprattutto se stessa, per non avere controllato prima. Ora c’era una bomba sul pavimento, a metà strada fra lei e il generatore. Una bomba tanto potente da uccidere chiunque si trovasse nel salone, ma non abbastanza da perforare il campo di forza. La caposquadra fece per andare a riprenderla, ma un raggio disgregante a due centimetri dal suo casco la dissuase, inducendola a tornare al riparo.

   «La recupero io» si offrì Adam. «Sono il più resistente, è la scelta più logica».

   «Se avessero solo armi a proiettili, ma... no, fermo!» gridò Jaylah, vedendo che l’androide si era gettato allo scoperto e correva in avanti. I difensori appostati sul camminamento concentrarono subito il fuoco su di lui. I proiettili non perforarono nemmeno la tuta corazzata che Adam indossava ancora. Ma i disgregatori Na’kuhl erano molto più potenti. Uno di essi colpì l’androide alla spalla sinistra, staccandogli di netto il braccio e danneggiando i meccanismi nel suo petto. Non per questo Adam si fermò. Deviando le funzioni interne ai sistemi ancora integri, l’androide proseguì la corsa, raccattò la granata con la mano superstite e tornò al riparo. Un intenso fuoco di copertura da parte dei colleghi impedì che fosse colpito ancora. Appena fu al sicuro, Adam posò a terra il detonatore e lo disattivò. Mancavano trenta secondi all’esplosione.

   In preda alla rabbia, Jaylah sparò alcuni colpi contro il campo di forza, per renderlo visibile. Aveva forma a campana e circondava completamente il generatore, senza toccare né le pareti, né il soffitto. Però aderiva al pavimento in cemento armato. «Ci sono altre stanze sotto di noi?» chiese.

   «Negativo, solo cemento e poi roccia» rispose un Agente, esaminando il suolo con il tricorder. «Però c’è una tubatura dell’acqua che passa vicinissima al generatore... sì, oltre la barriera!» si animò. «Passa in quel punto» disse, indicando una zona del pavimento. «È abbastanza ampia da permettere a uno di noi di risalirla».

   «Okay, ci vado» disse Jaylah, deglutendo. La tuta occultante non funzionava più, ma sperava che fosse ancora a tenuta stagna. Quando controllò l’aggancio del casco, però, quello si staccò. La mezza Andoriana imprecò e cercò di fissarlo nuovamente.

   «No, vado io» corresse Adam. «Non potendo affogare, sono ancora la scelta più logica». Così dicendo estrasse il phaser e colpì il pavimento, scavando una fossa. Pochi secondi di fuoco intenso bastarono a raggiungere la tubatura. Ci fu uno schianto e un forte getto d’acqua zampillò dal pavimento, come un geyser.

   «Non se ne parla. Sei danneggiato!» obiettò Jaylah.

   «Funziono abbastanza da portare a termine quest’incarico» ribatté l’androide. «Lei e gli altri però dovete andare. Mancano solo quaranta minuti al lancio delle atomiche».

   «Adam...».

   «La missione ha la precedenza. Vada, Tenente. Qui basto io» insisté l’Agente, guardandola negli occhi. Era lo stesso sguardo del soldato dell’AEV che si era sacrificato per coprire la ritirata degli altri, sulla nave di Kamala.

   «D’accordo» cedette la mezza Andoriana. «Ti prometto che fermerò Green e Singh, fosse l’ultima cosa che faccio».

   «Ci conto» annuì Adam. Presa la bomba con la mano superstite, si tuffò nella fossa, lottando contro la spinta poderosa dell’acqua. Raggiunse la conduttura e la imboccò, gattonando come se fosse in un tubo di Jefferies. Pur con tutta la sua forza avanzava lentamente e a volte scivolava indietro. Tuttavia, nel complesso, riusciva a procedere. I suoi sensori interni indicavano che era sempre più vicino all’obiettivo.

   «Fuori, presto!» ordinò Jaylah. Uno dopo l’altro gli Agenti si ritirarono, scambiando qualche colpo con i difensori appostati sulla passerella. Infine se ne andò anche lei. Mentre si ritirava, diede un’ultima occhiata alla conduttura spaccata, certa che non avrebbe più rivisto Adam. «La pagherai anche per questo, Kamala» si promise.

 

   Molti piani più in alto, nel centro di comando della base, un gran numero di soldati e tecnici controllava l’evolversi della situazione attraverso le telecamere di sicurezza.

   «Rapporto» ordinò il Colonnello Green, passeggiando davanti ai monitor.

   «Abbiamo contato dodici infiltrati» rispose un addetto alla sorveglianza. «Non sappiamo come siano entrati, né se ce ne siano altri occultati. Dopo aver ucciso Schmidt hanno attaccato la sala del generatore, ma ora si stanno ritirando. Sì, hanno ripreso a salire. Vengono verso di noi» confermò l’uomo, tradendo il nervosismo.

   «Isolate questo livello» ordinò Green. «Voglio plotoni armati coi disgregatori a ogni piano. E squadre di sorveglianza a ogni ingresso della base. Voglio sapere come hanno fatto i federali a oltrepassare lo scudo; Vosk aveva detto che era impossibile».

   «In un paio d’occasioni abbiamo dovuto abbassarlo, per accogliere i rifornimenti» ricordò Kamala. «Saranno entrati allora. Ma devono farne di strada, per raggiungerci. Sono pochi e senza più occultamento... vedrai, li schiacceremo» lo rassicurò.

   «Se non hanno altri assi nella manica» mugugnò il Colonnello, inquieto.

   «Maggiore Zheng, raduni la sua squadra e risolva il problema» ordinò Kamala.

   «Sarà fatto» promise il Potenziato, che in pochi giorni si era completamente ripreso dalle ferite ricevute sulla Sun Tzu. Lasciò subito la sala, con metà dei suoi soldati. Gli altri rimasero lì, come ultima linea di difesa.

   «Signora Segretario, l’ECON ha iniziato l’attacco» avvertì un tecnico. «I satelliti EMP sono entrati in azione».

   «Voglio vedere!» esclamò Kamala con sguardo famelico. Lo schermo principale del centro di comando si attivò, mostrando un’immagine satellitare del Nord America. Stava albeggiando sulla costa est – la mattina del 1º maggio – ma gran parte dell’illuminazione urbana era ancora accesa. Città e strade disegnavano fitte ragnatele di luce bianco-dorata da una costa all’altra del continente.

   D’un tratto le luci si oscurarono. Chiazze buie comparvero laddove gli impulsi elettromagnetici avevano colpito. Le macchie si allargarono a vista d’occhio, fino a entrare in contatto, schiacciando i pochi filamenti luminosi che le separavano. Metropoli, villaggi, fattorie isolate: tutto piombò nelle tenebre. I pochi veicoli in circolazione a quell’ora si bloccarono in mezzo alle strade, con le batterie fuori uso. Alcuni aerei ed elicotteri in volo precipitarono, uccidendo gli occupanti. Negli ospedali i medici si affannarono ad attivare i generatori d’emergenza, per tenere in vita i pazienti attaccati alle macchine. Ma anche quelli, per la maggior parte, erano in corto circuito.

   «Magnifico!» sussurrò Kamala, rapita alla vista di ciò che, per milioni di persone, era terrore e disperazione. «Vediamo la vecchia Europa!».

   L’inquadratura cambiò, mostrando il continente europeo. Lì era già giorno fatto, per cui l’effetto degli impulsi EMP non era immediatamente riconoscibile. Ma i tecnici fornirono i dati che ricevevano dai loro strumenti: «Il black-out in Europa è completo. L’ECON ha colpito tutti i principali nodi internet, come ha fatto in America. Lo stesso avviene in India, Giappone e negli altri Paesi alleati».

   «E ora arriva la risposta della NATO» disse un altro tecnico. «I suoi satelliti EMP colpiscono la Coalizione Orientale. L’Asia e il Medio Oriente si oscurano. La rete internet sta collassando».

   «Che c’è, bimbi? Avete paura del buio?» mormorò Kamala, muovendo appena le labbra. Solo Green, al suo fianco, la udì.

   «Da un momento all’altro partiranno le atomiche» disse il Colonnello. «È tempo di assumere il controllo dei satelliti. Prego... prima le signore» aggiunse, invitando Kamala a recarsi ai comandi.

   «Il momento tanto atteso!» gioì la Potenziata. Inserì una scheda di memoria nell’apposita presa, girò una chiavetta di sicurezza e digitò sulla tastiera i codici finali. Le sue dita si muovevano a velocità incredibile, man mano che completava le stringhe di codici; ma non ebbe bisogno di correggersi neanche una volta. Dietro di lei, Green aggrottò leggermente la fronte. Giochetti come quello gli ricordavano quanto la Potenziata fosse diversa da un normale essere umano. In pochi secondi le istruzioni furono complete. Sui computer del centro di comando si aprirono nuove schermate, con il logo rosso e oro della Coalizione Orientale.

   «Siamo dentro!» esclamò un tecnico. «Abbiamo il controllo totale dei satelliti ECON».

   «Ora ci occorrono quelli NATO» disse Kamala, discostandosi dai comandi. «Fa’ la tua parte, Colonnello».

   «Con piacere» disse Green, scrocchiandosi le dita. Recatosi a un quadro comandi del tutto simile all’altro, posto ad alcuni metri di distanza, inserì la scheda di memoria e girò la chiavetta di sicurezza. All’aprirsi della schermata digitò i codici di comando, più lentamente rispetto alla complice, per essere certo di non sbagliarsi. A un certo punto esitò, cancellò una stringa e la riscrisse, mentre Kamala lo squadrava con sufficienza. «Che c’è? Non tutti abbiamo la memoria fotografica» si difese il Colonnello, notando la sua espressione. Completati i codici, Green indietreggiò con aria teatrale, mentre nuove schermate si aprivano sui monitor. Stavolta vi campeggiava il simbolo bianco e azzurro della NATO.

   «È fatta!» esultò un altro tecnico informatico. «Adesso controlliamo tutti i satelliti EMP».

   «Presto, deviateli sulle posizioni che sapete» ordinò Kamala. «Ah... dopo oggi, il mondo non sarà più lo stesso!» esclamò, col respiro un po’ affannoso per l’emozione.

   «Che ti dicevo? I miei codici sono validi!» rivendicò Green, gonfio d’orgoglio. «Tutto il mio piano è un successo! Mi spiace solo che il mondo non saprà mai a chi deve il Nuovo Ordine».

   «Noi lo sappiamo, e tanto basta» disse la Potenziata. «Vuoi brindare?».

   «Dopo, dopo» fece Green, che non voleva distrarsi in quell’ora decisiva. Passeggiò davanti agli schermi dei computer, accertandosi che i tecnici posizionassero correttamente i satelliti. «Ehi, un momento... che diavolo fate?» si rabbuiò. «State sguarnendo il Nord America! E anche l’Europa! Ma che vi prende, branco d’idioti?!» gridò, afferrandone uno per un braccio.

   In quell’attimo risuonarono gli spari. Il Colonnello non dovette neanche alzare gli occhi per capire cos’era successo. I Potenziati avevano estratto le armi e avevano freddato i suoi fedeli. Tutti quanti, nel giro di un secondo. Se non avevano ucciso anche lui, era solo perché Kamala voleva divertirsi. Capito questo, Green mollò il tecnico e indietreggiò cautamente, evitando movimenti bruschi. «Perché?!» chiese con voce strozzata.

   «Perché ora che ho i tuoi codici, non mi servi più» rispose Kamala, nel tono di chi dice un’ovvietà.

   «Intendo perché sterminare mezzo mondo, visto che avrai comunque ciò che volevi» disse il Colonnello, pur intuendo la risposta.

   «Avrò la Coalizione Orientale, ma ti sembro una che si accontenta?» chiese la Potenziata. «Oh, Philip... non tenermi il broncio. Davvero ti aspettavi che condividessi il potere con te? Con un ominide che ha metà del mio intelletto?».

   Green aveva lo sguardo basso, ma avvertì che Kamala gli si stava avvicinando. Lui, d’altro canto, teneva ancora il phaser di Chekov in fondina. Ed era un eccellente tiratore, cosa di cui si era sempre vantato. Con gesto fulmineo, estrasse l’arma e la puntò in faccia alla traditrice: era a trenta centimetri, non poteva sbagliare. Premette il grilletto... e non accadde nulla.

   «Oh, amore... sei così romantico, a portarti le armi a letto» sorrise Kamala, col phaser ancora puntato alla fronte. «Ma al risveglio dovresti accertarti che funzionino» aggiunse, levandosi di tasca la cella energetica dell’arma.

   «Schifosa baldracca!» ringhiò il Colonnello, rosso d’ira.

   «Sì, ho fatto anche quello, quand’ero minorenne e dovevo pagarmi gli studi» sibilò la Potenziata. «Ora ripagherò il mondo con gli interessi». Con queste parole estrasse un sai e pugnalò Green allo stomaco.

   Il Colonnello si piegò in due, comprimendosi la ferita, e cadde in ginocchio. Il sangue gli macchiò l’uniforme, colò tra le dita e gocciolò sul pavimento.

   «Tranquillo, non morirai... ancora» disse Kamala, pulendo accuratamente la lama sulla sua manica. «Ho affondato solo di due centimetri: poco per raggiungere gli organi vitali. Voglio che tu viva, per vedere il mio ordine mondiale». Così dicendo infoderò il pugnale e volse le spalle a Green. Si avvicinò allo schermo, su cui ora campeggiava il planisfero. Decine di puntini gialli – 72 in tutto – indicavano la posizione dei satelliti EMP. La maggior parte si trovava su Asia, Medio Oriente e Africa. Quelli in corrispondenza del mondo occidentale si stavano allontanando, oppure andavano in stand-by.

   «Ci siamo; l’ECON sta lanciando le atomiche» avvertì un tecnico. «Rilevo lanci di missili balistici contro le capitali e le installazioni militari dell’Occidente. La maggior parte andrà a bersaglio fra i trenta e i novanta minuti da ora».

   A quelle parole Green divenne ancora più pallido. Ogni speranza di ribaltare la situazione svaniva, ora che i missili nucleari erano in volo.

   «Se li rileviamo noi, l’avrà fatto anche la NATO» commentò Kamala, osservando il planisfero. «Cercheranno di fermarli coi satelliti EMP... ma scopriranno che ne hanno perso il controllo. Perché qualcuno – non faccio nomi – ha dato a me i codici» infierì, girandosi parzialmente verso Green. «Oh, quanti bei funghetti atomici stanno per spuntare nelle vostre città! Ma quando scatenerete la rappresaglia nucleare, allora i satelliti usciranno dal letargo... per proteggere il mio dominio».

   «Non vincerai!» ringhiò il Colonnello, comprimendosi la ferita per arrestare l’emorragia. Si augurò che i federali li raggiungessero prima che il grosso delle atomiche arrivasse a bersaglio.

   «L’ho già fatto, non vedi?» chiese Kamala, tornando a studiare il planisfero. Si aggiustò il velo bianco, per coprirsi bene l’orecchio mancante. «Presto l’Occidente sarà carne morta. Il mondo sarà dominato dall’Oriente, e l’Oriente sarà dominato da me. Finalmente noi Potenziati avremo ciò che ci spetta. Il sogno della dottoressa Kaur sta diventando realtà».

 

   Lottando contro la corrente impetuosa, Adam si trascinava in avanti nella conduttura dell’acqua. Il fatto di aver perso un braccio lo impacciava non poco. Ma l’androide riuscì ad avanzare, centimetro dopo centimetro, finché calcolò di aver superato il campo di forza che proteggeva il generatore. Non gli restava che uscire in superficie. Trasse il phaser di cintura, lo puntò verso l’alto e fece fuoco. Pochi secondi di esposizione bastarono a perforare il condotto d’acciaio e il pavimento in cemento armato. Visto da fuori ci fu un’esplosione seguita da un getto d’acqua, come se si fosse aperta una fontana. Dallo sbuffo uscì l’androide, che gettò il phaser e impugnò al suo posto la granata. I soldati nemici, appostati tutt’intorno, aprirono il fuoco. Ma adesso Adam si trovava dentro il campo di forza, che lo protesse da tutti i colpi, compresi i raggi disgreganti.

   «Non puoi cavartela!» lo avvertì il caposquadra. «Nel momento in cui uscirai da lì, ti abbatteremo».

   «Non ho intenzione di uscire» rispose l’androide con calma. Alzò il braccio, così che tutti potessero vedere la bomba, e l’attivò nuovamente. «V’informo che fra trenta secondi questo generatore sarà distrutto. Per la vostra incolumità, vi consiglio di evacuare la sala» disse.

   I soldati si scambiarono sguardi spaventati. La maggior parte di loro aveva già avuto a che fare con le tattiche kamikaze. Sapevano che, arrivato a quel punto, difficilmente un avversario cambiava idea. «Leland a Green, abbiamo un problema» disse il caposquadra, attivando la radio. «Risponda, signore! È urgente!». Ma il Colonnello non fece udire la sua voce. In quel momento era tenuto sotto tiro dai Potenziati, che gli avevano requisito la ricetrasmittente.

   «Maledizione» fece il caposquadra, conscio che mancavano pochi secondi all’esplosione. «Tutti fuori! Via, via!» ordinò, precipitandosi lui stesso fuori dalla porta. A quella vista, i soldati batterono in ritirata.

   Dentro il campo di forza, Adam li vide fuggire, ma non provò a seguirli. Aveva calcolato che nei pochi secondi rimanenti non avrebbe fatto in tempo a percorrere nuovamente la conduttura. Così restò dov’era, ma si premette il comunicatore. «Adam a squadra... è stato un onore lavorare con voi» disse.

   L’attimo dopo la bomba esplose, disintegrando l’androide e tutto il generatore. Il campo di forza si dissolse e l’esplosione dilagò nel salone, risalendo i corridoi circostanti. La maggior parte dei soldati che stavano fuggendo fu avvolta dalle fiamme. I pochi che erano abbastanza lontani furono scaraventati in avanti dall’onda d’urto. L’attimo dopo ci fu uno strano risucchio, che li trascinò indietro di molti metri. Anche le fiamme dell’esplosione si ritirarono nella sala da cui erano scaturite, lasciando i corpi carbonizzati delle vittime.

   I pochi superstiti si rialzarono, doloranti e ustionati. Alcuni di loro avevano l’uniforme che bruciacchiava; dovettero levarsela o spegnere in fretta le fiammelle, prima che prendessero vigore. Si guardarono indietro terrorizzati, chiedendosi cos’era accaduto. Quando osarono sbirciare nel salone, lo trovarono completamente vuoto. Non c’erano detriti, né del generatore alieno, né delle altre apparecchiature; nemmeno le schegge di cemento staccatesi dalle pareti. Come previsto da Adam, il generatore a energia del vuoto era imploso. L’Isola Crisalide era ancora integra, ma lo scudo energetico si era dissolto, lasciandola esposta agli attacchi.

 

   Pochi piani più in alto, gli Agenti Temporali udirono l’ultimo messaggio di Adam e avvertirono la vibrazione, accompagnata da un boato. Nessuno dubitò che il generatore fosse stato distrutto. Era un risultato importante, ma non decisivo: la strada per il centro di comando era ancora lunga. In quel momento i federali erano bloccati nei laboratori di genetica, circondati da un numero soverchiante di avversari, molti dei quali Potenziati. Le luci erano basse e in certe stanze del tutto spente, il che accentuava il senso di claustrofobia. Inquietanti resti umani giacevano sui tavolini o dentro le vasche-incubatrici: molti erano embrioni, talora con strane deformazioni.

   Sporgendosi brevemente da un angolo, Jaylah riconobbe il Maggiore Zheng, con cui aveva un conto aperto. «Il vostro prezioso scudo non c’è più!» lo avvertì, per metterlo sotto pressione. «E non credo che i Na’kuhl verseranno il loro sangue per proteggervi».

   «Non ne abbiamo bisogno» rispose il Maggiore. «Siamo Potenziati e bastiamo a noi stessi. Siete pochi, siete circondati... non avete scampo».

   In quella si udirono spari e grida alle sue spalle. Alcuni soldati avevano improvvisamente cambiato schieramento e si erano messi a colpire i Potenziati. Zheng si rese conto che erano quelli arrivati con l’ultimo elicottero. «Vigilanza eterna!» gridò uno di loro, il pilota, sparando in testa al Potenziato che gli stava accanto. Subito dopo si strappò la mostrina del Movimento Ottimale.

   «Ehilà, Nowak!» lo salutò Jaylah, sporgendosi dal suo nascondiglio per sparare a un altro Potenziato. «Mi chiedevo dove foste finiti tu e i ragazzi. Lo vedi, Zheng, che non siamo poi così pochi?».

   Presi tra due fuochi, i Potenziati dovettero fuggire per riorganizzarsi. «Zheng a Singh, abbiamo un problema!» disse il Maggiore, attivando la ricetrasmittente. «Quelli dell’AEV si sono sostituiti all’equipaggio del Barghest. Ci hanno colpiti alle spalle e ora aiutano i federali!».

   «È il minore dei nostri problemi» rispose Kamala. «L’AEV ci sta attaccando in forze. A tutti i soldati, recatevi ai posti di combattimento. Fate decollare gli elicotteri e attivate le batterie difensive. Finché le atomiche non saranno andate a bersaglio, dobbiamo resistere».

 

   Col primo raggio di sole che appariva a oriente, gli elicotteri dell’AEV si resero visibili. Erano dodici, tutti pesantemente armati e corazzati. Fino a quel momento erano rimasti invisibili, grazie ai dispositivi d’occultamento che i federali avevano installato a bordo. Ma era giunto il momento di attaccare. Approfittando della caduta dello scudo, gli elicotteri bersagliarono l’Isola Crisalide con bombe al napalm, che incendiarono la vegetazione.

   «Ah... mi piace l’odore del napalm al mattino!» commentò il Generale Flint, che dirigeva personalmente l’attacco da uno dei velivoli. Il portello sulla fiancata era aperto, per permettere agli artiglieri di colpire. «Localizzate le antenne!» ordinò ai suoi uomini. «Sarà tutto inutile, se non le distruggiamo. I Potenziati non devono mantenere il controllo dei satelliti».

   Gli elicotteri dell’AEV non erano gli unici a colpire dall’alto: anche l’Excalibur era uscita dall’occultamento. La navicella temporale, assai più agile e veloce, fece un volo radente sulla pista d’atterraggio, sparando con il phaser anteriore. Gli elicotteri nemici che vi erano allineati furono distrutti prima di decollare, incluso il Barghest, che fu tagliato in due. I velivoli esplosero uno dopo l’altro, facendo strage di piloti e artiglieri che stavano salendo a bordo.

   Fatto questo, l’Excalibur prese quota e puntò verso il cono vulcanico. Ne colpì le pendici, mirando alle postazioni difensive. Ad ogni attacco le pareti basaltiche si schiantavano e tonnellate di roccia nera franavano lungo le pendici. La base dei Potenziati vibrava per la violenza dell’attacco, inclusi i livelli sotterranei. In alcuni punti si verificarono dei crolli. Altre zone furono evacuate per timore che il crollo fosse imminente.

   Ben presto ci fu panico fra le truppe di Green, che da un pezzo non ricevevano più ordini dal Colonnello. Ma i Potenziati continuarono a combattere, sotto le direttive di Kamala. All’interno della base contendevano il terreno ai federali e all’AEV, con feroci sparatorie per sale e corridoi. All’esterno colpivano gli attaccanti con disgregatori di grosso calibro, forniti dai Na’kuhl. Appostati sulle pendici del vulcano, presero di mira gli elicotteri dell’AEV, abbattendone tre con tiri precisi.

   «Cribbio!» imprecò Flint, vedendo i suoi mezzi che esplodevano in fiamme. Per quanto fossero corazzati contro i proiettili, non potevano resistere ai disgregatori alieni. Vedendo che bisognava cambiare strategia, il Generale attivò la radio. «Mettetevi fuori tiro» ordinò agli elicotteri rimanenti. «Atterrate sulla spiaggia e sbarcate le truppe. Dobbiamo aiutare i nostri ragazzi che sono là dentro».

   I piloti diedero conferma. Cessato il bombardamento, diressero gli elicotteri verso la spiaggia. Qui atterrarono, permettendo ai soldati di sbarcare. Anche il Generale scese con un plotone. «Non ho più l’età per queste cose» pensò, calcando la sabbia bianca e finissima. Ma quello era il giorno che dava senso ad anni di lotte contro i Potenziati. Non poteva gestire tutto da lontano. Doveva stare lì sul campo, pronto a impartire nuovi ordini, man mano che la situazione evolveva. Alzando gli occhi al vulcano, vide che l’Excalibur continuava l’attacco, forte degli scudi che per il momento la proteggevano.

 

   Sulla plancia del Reaper, i Na’kuhl seguivano l’evolversi dello scontro. Ad ogni minuto le notizie peggioravano. Prima l’infiltrazione nemica, poi la caduta dello scudo; infine l’attacco in forze dell’AEV. Vosk camminava avanti e indietro, con le braccia incrociate dietro la schiena, sempre più corrucciato.

   «I difensori cominciano a cedere» avvertì l’addetto ai sensori. «Anche se i federali all’interno della base fossero sconfitti, la loro navicella ha abbastanza potenza di fuoco da abbattere la montagna».

   «Allora è tempo d’intervenire» decise Vosk, smettendo di aggirarsi. «Usciamo dall’occultamento e avviciniamoci alla Terra. Invieremo i Caccia Ombra a distruggere la navicella e sbarcheremo truppe per occuparci dei nemici a terra. Cento soldati saranno più che sufficienti».

   Il Reaper si rese visibile. In quel momento era nascosto dietro la Luna, come ulteriore protezione, ma una volta azionati i motori a impulso avrebbe raggiunto l’orbita terrestre in pochi secondi. Prima di uscire dal riparo, tuttavia, l’astronave si scosse con violenza.

   «Che succede?!» chiese il Leader Supremo, perdendo per un attimo la compostezza.

   «Siamo stati colpiti» rispose l’addetto ai sensori. «Forse era una navetta occultata. Ma doveva essere piena di antimateria, per esplodere con quella potenza. Scudi al 95%». In quella ci fu un’altra esplosione. E un’altra ancora. I Na’kuhl dovettero reggersi alle consolle. Quelli che erano in piedi incespicarono e lo stesso Vosk cadde in avanti, finendo con un ginocchio a terra.

   «Sì, sono navette piene di siluri. E ci vengono addosso di proposito» disse Kravik. Lo scienziato si era recato a una postazione sensori e stava esaminando lo spazio circostante, in cerca degli attaccanti.

   «Ma siamo ancora nel passato!» obiettò Ghrath, aiutando il Leader Supremo a tornare in piedi. «Chi può prenderci di mira, in questo periodo?».

   «Chi, se non loro?!» ringhiò Vosk, indicando lo schermo principale, dove la Keter si era resa visibile. Lanciata nel suo attacco più selvaggio, la nave federale martellava il Reaper coi cannoni a impulso e i siluri, mentre le sue navette lo colpivano, indebolendo gli scudi. A quella vista, i Na’kuhl digrignarono i denti. «Avremmo dovuto distruggerli... sapevo che gettarli in quel pianeta gassoso non li avrebbe fermati. Ma stavolta li annienteremo!» promise il Leader Supremo, avvicinandosi allo schermo. «Smettiamola di far da bersaglio. Rispondete al fuoco! E inseguite la Keter... non la molleremo finché non sarà a pezzi».

   Con la Luna a nasconderle dai telescopi terrestri, le due astronavi si diedero battaglia. Il Reaper sgusciò agilmente di lato, evitando alcuni colpi, e rispose con il potentissimo disgregatore anteriore. Malgrado l’agilità, la Keter fu colpita di striscio; i suoi scudi s’indebolirono. Il Reaper stava per colpirla di nuovo, ma un’altra navetta esplosiva lo centrò, facendolo beccheggiare. Stavolta il raggio mancò il bersaglio. La Keter scagliò una salva di siluri e poi fuggì verso lo spazio aperto.

   Il Reaper tornò rapidamente in assetto e si lanciò all’inseguimento. Il suo raggio disgregante balenò nel buio, come una rasoiata. I siluri federali non erano che punture d’insetto per la nave di Materia Degenere, capace di riparare all’istante le falle. Ma dal momento che erano impegnati a combattere la Keter, i Na’kuhl non potevano più soccorrere gli alleati sull’Isola Crisalide.

 

   «Gli scudi posteriori reggono» riferì Norrin. C’era tensione sulla plancia della Keter, ma l’Hirogeno manteneva la calma e questo aiutava i sottoposti a restare concentrati.

   «E il Reaper?» chiese Radek.

   «Accorcia le distanze. I suoi scudi sono ancora al 70%» riferì Norrin.

   «Mandategli contro le ultime navette» ordinò il Rigeliano. Era una mossa disperata, ma in fondo l’unica possibile, considerando la superiorità tattica nemica. Quando Radek l’aveva proposta giorni prima, gli ufficiali erano rimasti interdetti, ma poi Norrin si era detto favorevole. Non potendo competere con il Reaper, dovevano indebolirlo. Così avevano replicato grandi quantità di siluri, riempiendo tutte le navette disponibili. Poi le avevano spedite nello spazio, occultate e col pilota automatico. Appena il Reaper si era reso visibile, le navette avevano tracciato la rotta di collisione. Ogni impatto era una massiccia esplosione di antimateria, equivalente a decine di siluri.

   «L’ultima navetta ha impattato» riferì Norrin. «Gli scudi nemici sono ancora al 40%».

   Gli ufficiali sentirono crescere la preoccupazione. Nessuna nave federale avrebbe retto a un simile attacco, eppure il vascello di Vosk era illeso. La Keter vibrò, mentre i suoi scudi assorbivano un altro colpo.

   «Cerchiamo di tenerci a distanza» disse Radek, mantenendo la calma. «Ricordate che questo è solo un diversivo. Dobbiamo tenere impegnati i Na’kuhl, per impedirgli d’interferire con la battaglia a terra. Così i nostri Agenti avranno una speranza di vittoria. Zafreen, ora può contattarli».

   «Ci ho provato, ma i Na’kuhl disturbano il segnale» ribatté l’Orioniana, che aveva temuto qualcosa del genere.

   «Continui a tentare. Dobbiamo coordinarci con loro, per sapere come aiutarli».

   «Mettiamo che vincano» disse Zafreen, che non aveva mai perdonato il nuovo Capitano per l’abbandono dei dispersi. «Dovremo comunque sconfiggere il Reaper prima che cambi epoca, o sarà stato tutto inutile. Anche perché non abbiamo altri Agenti Temporali da mandargli dietro».

   «Ne convengo» annuì il Rigeliano. «Se riusciamo ad abbattere gli scudi del Reaper, dovremo abbordarlo per distruggerlo dall’interno. Tenga pronta la sua squadra, Norrin. Non importa quanto sia resistente quella cosa... la distruggeremo. Lo dobbiamo al Capitano Hod e a tutte le vittime di questo conflitto».

   Al pensiero del Capitano e dei colleghi perduti, gli ufficiali di plancia raddoppiarono gli sforzi. La Keter si mosse con grande agilità, evitando la maggior parte dei colpi nemici. Continuò a bersagliare il Reaper, variando costantemente il tipo di armi e la frequenza dei phaser, così da metterne in difficoltà gli scudi. La battaglia portò le due navi sempre più lontano dalla Terra, come auspicavano i federali.

 

   Sull’Isola Crisalide, gli Agenti Temporali e i soldati dell’AEV erano ancora nella zona dei laboratori. Avevano conquistato qualche stanza, ma continuavano a scontrarsi con la tenace resistenza dei Potenziati. A un certo punto gli spari cessarono. Entrambe le parti si erano trincerate nelle loro zone, approfittando della pausa per leccarsi le ferite e decidere le prossime mosse.

   «Chase a Lavin, come vanno le cose?» chiese Jaylah, premendosi il comunicatore. «Ha distrutto le antenne?».

   «Ne ho distrutte alcune» rispose il Malcoriano, che in quel momento pilotava l’Excalibur in mezzo a una gragnola di colpi. «Ma non credo sia tutto lì. È probabile che abbiano dei trasmettitori all’interno della montagna».

   «Come temevo» disse Jaylah. «Dovremo raggiungere il centro di comando».

   «Con un fuoco intenso potrei abbattere tutto il vulcano» suggerì Lavin. «Ovviamente prima dovrei tirarvi fuori da lì. Ci sono un po’ d’interferenze, ma se restringo il raggio di confinamento del teletrasporto...».

   «Negativo, cerca di localizzare il centro di comando. Se lo trovi, trasportaci lì» ordinò Jaylah.

   «Ricevuto. Lavin, chiudo».

   La mezza Andoriana lanciò un’occhiata ai colleghi. «Dobbiamo essere certi di bloccare ogni segnale» si giustificò.

   «E poi ci trasporterete via?» chiese Nowak, appostato poco lontano. Come tutti gli Umani del suo tempo, trovava disturbante l’idea di essere scomposto in atomi.

   «Sì, ma non temete, il teletrasporto è innocuo. Io l’ho usato centinaia di volte» assicurò Jaylah.

   Il Sergente non sembrava convinto, ma si astenne dal manifestare i suoi timori, per non danneggiare il morale della squadra. Lui e i suoi uomini ricaricarono le armi.

   In quella si udì la voce di Kamala, proveniente da dietro di loro. «Ma guardatevi... ancora pensate di combinare qualcosa» disse in tono fatalista.

   Federali e terrestri si girarono all’istante, con le armi in pugno, ma videro che la Potenziata parlava loro dallo schermo di un computer, in fondo alla sala. «Pace!» disse lei, alzando una mano. «Jaylah, mia cara, verresti a parlarmi un attimo? Ti prometto che non sarete attaccati, nel frattempo».

   «Le tue promesse sono aria fritta» ribatté la mezza Andoriana. «Ma ti darò un minuto. Dov’è Green? Pensavo che non sapesse stare lontano dagli schermi» aggiunse, avvicinandosi al monitor.

   «Ah, il nostro Colonnello preferito sta facendo un bagno d’umiltà» spiegò Kamala, mentre l’inquadratura si allargava. Jaylah vide Green, con l’uniforme macchiata di sangue, che veniva torturato da un Potenziato col metodo del waterboarding. La sua testa veniva ficcata in un catino pieno d’acqua e tenuta sotto, per quanto egli si dibattesse, fino a un passo dall’annegamento. «Questa tecnica dovrebbe esserti familiare, eh, Philip? Voi yankee l’avete usata spesso contro gli insorti dei nostri Paesi» rinfacciò Kamala, nel momento in cui la testa gli veniva sollevata, per consentirgli di riprendere fiato. Green la fissò con un odio bestiale, ma prima di poter ribattere fu nuovamente ficcato sott’acqua.

   «Dovrebbe farmi ridere?» chiese la mezza Andoriana.

   «Beh, se ti va... ma soprattutto dovrebbe farti capire che la mia collaborazione con lui è finita» spiegò la Potenziata. «Ora siamo libere di sistemare le cose fra noi. Sai, Jaylah, ero certa che ci saremmo riviste. Certo non mi aspettavo così presto... né che ti presentassi con un esercito. Devo ammettere che sei piena di risorse. Ma sei certa di combattere dalla parte giusta? In fondo io sto cercando di ordinare il mondo. Noi Potenziati siamo più intelligenti delle persone comuni, quindi abbiamo il diritto di governarle».

   «Non avete il diritto di sterminare milioni d’innocenti» ribatté Jaylah.

   «Sarebbero morti comunque; il conflitto era inevitabile» affermò Kamala. «Io cerco solo d’indirizzarlo nel modo migliore. Dovresti aiutarmi, non ostacolarmi. Pensaci! Tu e io siamo simili.

Entrambe geneticamente potenziate, entrambe dotate di un intelletto superiore. Per tutta la vita ho cercato qualcuno che fosse al mio livello... che potesse capirmi. Tu sei la prima che trovo. Buffo, vero? Dovevo incontrare un’aliena per trovare qualcuno in cui rispecchiarmi. Se collaborassimo, faremmo faville!».

   «Finché mi tradirai come hai fatto con Green» obiettò la mezza Andoriana.

   «Lui è solo uno strumento usa e getta» spiegò Kamala con indifferenza. «Tu sei diversa... le tue conoscenze scientifiche mi daranno un vantaggio enorme sulle altre nazioni. Ti rendi conto che, se restassi al mio fianco, io e te controlleremmo la Coalizione Orientale? Avresti molto più rispetto e più soddisfazioni che se continuassi a fare la poliziotta tra le stelle».

   Jaylah ponderò queste parole, non perché le trovasse allettanti, ma solo perché l’aiutavano a capire come ragionava l’avversaria. «È vero, in parte ci somigliamo» ammise. «Ma siamo anche lontane anni luce, Kamala. I tuoi obiettivi non potranno mai essere i miei, anzi ti fermerò a ogni costo. Perché sei una psicopatica e vuoi devastare il mondo solo per la tua meschina vendetta».

   Il viso della Potenziata avvampò d’ira. «Se è così che la pensi, preparati alle conseguenze! Ti ammazzerò, come ho fatto con tutti quelli che hanno cercato d’impormi il loro volere». Ciò detto, chiuse la comunicazione.

   Jaylah scosse la testa; quella conversazione le aveva confermato che non c’erano margini di trattativa con Kamala. Avrebbe dovuto ucciderla per arrivare ai comandi dei satelliti. «Okay, la pausa è finita» disse ai suoi Agenti, tornando fra loro. «Riprendiamo ad avanzare. Ci fermeremo solo quando saremo nel centro di comando».

 

   L’Excalibur sfrecciava intorno al vulcano, colpendo le postazioni difensive sulle sue pendici. Fino a pochi giorni prima quelle postazioni ospitavano mitragliatori, mortai e batterie di missili terra-aria. Alcune di queste armi c’erano ancora. Ma da quando i Na’kuhl avevano rifornito i Potenziati, ogni postazione ospitava un cannone disgregatore, facilmente direzionabile. Molti raggi avevano già colpito la navicella, mettendone a dura prova gli scudi.

   «Quella è l’ultima postazione» disse Lavin all’artigliere, accennando a una cengia della montagna da cui proveniva un intenso fuoco di sbarramento. «Eliminiamola e potremo scendere nel vulca...». In quella un raggio disgregante colpì l’Excalibur. In cabina suonarono gli allarmi e una consolle sprizzò scintille.

   «Frell!» imprecò il Malcoriano, cercando di mantenere l’assetto. «Hanno colpito il motore 2, perdiamo potenza».

   «Non riesco a tenerci in quota. Dobbiamo atterrare» disse il copilota, attivando i controlli d’emergenza.

   «Siamo in mezzo ai nemici... ehi, attenti!» gridò l’artigliere, indicando lo schermo. Davanti a loro la parete rocciosa era sempre più vicina. «Cabra, cabra!».

   «Non ho energia... proviamo di lato» disse Lavin, deviando bruscamente a destra. La navicella, che sfrecciava ancora a gran velocità, sfiorò le rocce basaltiche. Il pilota era quasi convinto di avercela fatta, quando si vide venir contro un pinnacolo roccioso. In una frazione di secondo l’Excalibur lo colpì, mandandolo in frantumi. Lo scafo in lega molecolare resistette all’urto, ma alcuni circuiti interni saltarono. I tre occupanti furono scagliati in avanti dall’inerzia. Si riebbero subito, ma alzando gli occhi allo schermo videro che la navicella precipitava a gran velocità verso la giungla.

   «Excalibur a squadra, may day! Ci hanno colpiti, precipitiamo» avvertì Lavin. «Impatto imminente».

   Dalla loro postazione sul fianco della montagna, i Potenziati videro la navicella che perdeva quota, lasciandosi dietro una scia di fumo nero. «Zheng a Singh... l’ho abbattuta!» si gloriò il Maggiore.

   «Splendido» gli rispose Kamala dalla ricetrasmittente. «Ora prendine possesso».

   La navicella continuò ad abbassarsi. Non stava precipitando a peso morto, ma non riusciva neanche a planare in modo normale; era più una caduta controllata. I soldati dell’AEV che si facevano strada nella giungla se la videro passare sopra la testa. Subito dopo l’Excalibur colpì il suolo con violenza e scivolò per un lungo tratto, schiantando le palme che si trovavano sul suo tragitto. Poco alla volta l’attrito del suolo, sommato ai continui urti, la rallentarono, finché lo scafo surriscaldato si arrestò. Si era lasciato dietro un profondo solco nel terreno; qua e là c’erano piccoli incendi tra la vegetazione. Lo scafo, un tempo perlaceo, era annerito in più punti, anche se si trattava perlopiù di sporco. L’unico punto veramente danneggiato era quello colpito dal disgregatore.

   All’interno della cabina i tre Agenti Temporali si rialzarono doloranti. «State tutti bene?» chiese Lavin, l’ufficiale più anziano. Gli altri due mugolarono un assenso. La gravità dell’accaduto era sotto gli occhi di tutti. Con la nave danneggiata non potevano aiutare il resto della squadra, in quel momento critico della battaglia. E se il danno si estendeva ai delicatissimi componenti del nucleo temporale, sarebbero rimasti bloccati in quell’epoca barbara.

   «Chase a Excalibur, rapporto!» giunse la voce di Jaylah, carica di preoccupazione.

   «Non siamo feriti» rispose Lavin, eseguendo un rapido check-up dei sistemi.

   «E la navetta? È danneggiata gravemente?» chiese la caposquadra, conscia del pericolo.

   «Sembra di no» disse il Malcoriano, sollevato. «Abbiamo avuto un calo d’energia, che ci ha fatti precipitare, ma i sistemi chiave sono intatti. Incluso il nucleo temporale».

   I colleghi sospirarono di sollievo e anche Jaylah, che in quel momento si faceva strada nella base, ne fu rincuorata. Avevano sfiorato il disastro, ma potevano ancora salvarsi.

   «Lo scafo ha retto bene agli urti» proseguì Lavin. «Se reindirizziamo l’energia attraverso i condotti ausiliari e sostituiamo qualche giunto di potenza, torneremo a volare. Basteranno pochi minuti. Potremo anche riattivare gli scudi».

   «Fatelo!» ordinò Jaylah.

   Gli Agenti Temporali si misero immediatamente al lavoro. Parte del loro addestramento includeva le conoscenze necessarie a effettuare riparazioni come quelle. Era una necessità imprescindibile, dato che non c’erano ingegneri specializzati fra loro e che il minimo guasto poteva bloccarli nel passato, senza possibilità di ricevere aiuto. Perciò i tre si divisero i compiti, lavorando più in fretta che potevano per rimettere in sesto l’Excalibur.

 

   La jeep dei Potenziati sobbalzava nel terreno sconnesso che la navicella si era lasciata dietro. Qua e là le palme abbattute che ostruivano il percorso costrinsero i militari a fare dei giri, oppure a premere sull’acceleratore, confidando nella robustezza del veicolo. Un impatto particolarmente duro fece saltare via il paraurti e un altro accartocciò il cofano. Quando la jeep raggiunse l’Excalibur era ridotta a un rottame fumigante. I Potenziati l’abbandonarono e si accostarono alla navicella, tenendo i disgregatori spianati.

   «Dove sarà la porta? Lo scafo è del tutto uniforme» si stupì uno di loro.

   «Uhm... i Na’kuhl mi hanno detto che la maggior parte delle navette federali ha l’ingresso sul retro» ricordò Zheng, girando intorno allo scafo. «Dicono pure che spesso la tecnologia federale sfrutta lettori di DNA per riconoscere chi la usa. Così i phaser funzionano solo in mano ai proprietari e le navette si aprono solo al personale abilitato».

   «Quindi non abbiamo speranza» notò l’altro.

   «Sì, invece» disse Zheng, sorridendo sinistramente. «Dieci giorni fa, Singh ha ucciso uno dei federali. Purtroppo il corpo è stato trafugato, o forse distrutto, così non abbiamo potuto studiarlo a fondo. Ma Singh è stata previdente. Prima di allontanarsi dal corpo, gli ha preso qualcosa di molto utile».

   Così dicendo il Maggiore si cavò di tasca un piccolo contenitore per campioni. Lo aprì, mostrando cinque dischetti giallastri. Erano sottili come carta velina e si piegavano altrettanto facilmente. Con pinzette e un po’ di colla, che si era portato dietro, il Potenziato se li applicò ai polpastrelli della mano destra.

   «Quella è...?» chiese un soldato, dando segni di nausea.

   «La pelle dell’alieno, esatto» confermò Zheng. «Per la precisione, la pelle dei suoi polpastrelli. Spero che basti. Tenetevi pronti».

   I Potenziati alzarono i disgregatori, pronti a colpire. Il Maggiore si accostò allo scafo perlaceo, chiazzato di nero, e vi passò sopra la mano col suo macabro addobbo. Non accadde nulla. Senza perdersi d’animo, Zheng tastò altre zone dello scafo, cercando di capire dove poteva aprirsi l’ingresso. Se la nave era costruita simmetricamente, doveva essere al centro. Quindi il lettore di DNA doveva trovarsi di lato, dove effettivamente c’era un bordo rialzato.

   «State pronti... ricordate di mirare alla testa» raccomandò il Maggiore, sentendo di esserci vicino. D’un tratto sotto le sue dita comparve una griglia azzurra. Il sensore gli scansionò la mano ed emise un suono elettronico di riconoscimento.

   «Maggiore Selmak abilitato a entrare» disse la voce impersonale del computer. Un ingresso apparve dal nulla. All’interno, un Agente Temporale che stava riparando dei circuiti alzò la testa dal lavoro. Fu freddato prima di poter lanciare un avvertimento o mettere mano alle armi.

   «Dentro! La navetta è nostra!» gridò Zheng, precipitandosi all’interno.

 

   In cabina, Lavin notò una spia sul quadro comandi. «Non è possibile... l’ingresso si è aperto!» gemette. Una rapida occhiata ai sensori gli confermò che c’erano umani attorno alla navicella. E ora anche dentro. Il Malcoriano estrasse immediatamente il phaser e si premette il comunicatore. «Lavin a squadra, emergenza! Il nemico è...».

   Non poté finire la frase. La porta della cabina si aprì e il Maggiore Zheng balzò all’interno. Il Potenziato si rotolò a terra, sfuggendo al phaser di Lavin e del copilota. Senza nemmeno rialzarsi, li colpì al petto col disgregatore. Il Malcoriano cadde all’indietro sulla consolle di guida, imbrattandola di sangue. Il suo collega scivolò a terra.

   «È stato più facile di quanto pensavo. Voi alieni non siete difficili da battere» commentò Zheng, rialzandosi soddisfatto. I suoi soldati lo seguirono in cabina. Si avvicinarono ai corpi dei federali, per osservarli.

   «Chase a Lavin, rapporto! Che succede?» chiese Jaylah dal comunicatore.

   Inaspettatamente il Malcoriano si mosse. Era stato colpito in pieno petto, ma come tutti quelli della sua specie aveva il cuore molto più in basso, per cui non era morto all’istante, pur essendo in agonia. Il suo phaser era caduto a terra e non poteva raccoglierlo, mentre era sotto tiro dei Potenziati. «È finita... hanno preso la navicella...» mormorò, perdendo sangue dalla bocca.

   «L’abbiamo presa facilmente» corresse Zheng, parlando a voce alta per farsi udire da Jaylah. «Mi sente, Chase? Questo è il suono della sua nave che cambia proprietario». Così dicendo sparò di nuovo a Lavin. Stavolta lo colpì a bruciapelo, al basso ventre, uccidendolo sul colpo. I suoi uomini presero il cadavere e lo gettarono fuori, assieme agli altri due. Il Maggiore tenne però il comunicatore, appuntandoselo sull’uniforme.

   Lontano da lì, nei meandri della base, Jaylah chiuse gli occhi, sentendosi come se quel colpo fosse arrivato a lei. «È inutile» disse con un certo sforzo. «La navetta è danneggiata, non può volare».

   «Lei dice?» fece Zheng, accomodandosi al timone. «Eppure qui sulla consolle leggo che i motori sono di nuovo operativi. L’energia è stata reindirizzata... i giunti di potenza sostituiti... complimenti, lei ha un equipaggio efficiente. Hanno riparato la navicella per noi».

   «Non sapete pilotarla; vi schianterete» avvertì Jaylah. Una parte di lei avrebbe voluto assistere alla scena. Il problema era che in tal modo l’Excalibur sarebbe stata distrutta, intrappolandola in quell’epoca orribile.

   «Uhm... i comandi sembrano intuitivi» obiettò il Potenziato, scorrendo l’interfaccia LCARS. Capì subito com’erano distribuite le funzioni. «Decollo, accelerazione, cabrata... somiglia a un caccia, solo che è tutto più semplice».

   «Qui ci sono le armi» disse uno dei soldati, accomodatosi alla postazione tattica. «Si chiamano phaser, hanno parecchie regolazioni. Ehi, ci sono anche gli scudi! Li attivo subito».

   «Bene, inizio la procedura di decollo» disse il Maggiore. «Ha visto, Chase? La vostra tecnologia non è difficile da padroneggiare, per noi Potenziati. Adesso mi sbarazzerò dell’AEV. Cerchi di non farsi uccidere, nel frattempo, perché poi verrò a cercarla. Zheng, chiudo».

   I Potenziati, sei in tutto, si spartirono i compiti. Quattro di loro restarono in cabina, per occuparsi del timone, delle armi e dei sensori. Gli altri due andarono nella sezione mediana e in quella posteriore, dove c’erano dei pannelli aperti, per accertarsi che le riparazioni reggessero. Seduto al posto del pilota, Zheng diede energia ai motori.

   L’Excalibur schizzò in avanti, abbattendo altre palme. Il Maggiore diminuì subito la velocità e cabrò, per sovrastare la vegetazione. L’Isola Crisalide rimpicciolì sotto di lui; poteva vederne il cono vulcanico, la giungla e la spiaggia candida. Fiamme ed esplosioni indicavano che la battaglia era in pieno svolgimento. I Potenziati volevano prendervi parte, ma la navicella vibrava così forte che sulle prime temettero altri guasti. Poi il copilota trovò gli smorzatori inerziali e li attivò. Il volo si stabilizzò subito. Ogni tanto c’era qualche scossone, ma nel complesso l’Excalibur era in buone condizioni. Sufficienti a occuparsi di velivoli del XXI secolo. «Bene... adesso ci divertiamo» sogghignò Zheng, prendendo di mira gli elicotteri dell’AEV.

 

   Sbarcate le truppe sulla spiaggia, la maggior parte degli elicotteri rimanenti aveva ripreso il volo. Sulle prime si erano tenuti lontani dalla montagna, per timore della contraerea. Ma poi l’Excalibur aveva distrutto quasi tutte le postazioni, per cui gli elicotteri tornarono all’attacco.

   Vedendo cadere la navicella federale, il Generale Flint inviò un distaccamento di truppe sul luogo dello schianto. Ma all’arrivo, i soldati videro l’Excalibur che riprendeva il volo. Poco lontano trovarono una jeep abbandonata, che riconobbero come un veicolo militare dell’ECON. Immediatamente avvertirono gli elicotteri di allontanarsi. Ma era troppo tardi. Per quanto danneggiata e pilotata da mani inesperte, la navicella federale aveva un immenso vantaggio tecnologico sugli elicotteri. Era più veloce, più maneggevole e molto più resistente, oltre ad avere armi più potenti. Armi che i Potenziati erano impazienti di usare.

   Il primo elicottero fu abbattuto ancor prima che il pilota localizzasse la minaccia. Un singolo raggio phaser lo colpì dal basso, facendolo esplodere. L’Excalibur sfrecciò attraverso la fiammata e si perse nel cielo azzurro, impedendo agli altri velivoli di colpirla. I piloti si scambiarono frasi concitate sul canale criptato dell’AEV.

   «Ma dov’è? Il radar non la segnala!».

   «È schizzata verso l’alto, a quest’ora sarà in orbita».

   «Se non torna indietro. Quelli ci vogliono tutti morti».

   «Attenti, Brahms, viene verso di voi! In picchiata!».

   «Dove, non la ve...».

   Colpito dall’alto, l’elicottero Brahms andò in mille pezzi. L’Excalibur fece una brusca virata e si mise a inseguirne un altro.

   «Attenti, Leonardo, ce l’avete a ore 6!».

   «La vedo... è troppo agile, non riesco a scrollarmela!». Il pilota del Leonardo fece ondeggiare il suo velivolo, per sfuggire ai raggi phaser della navicella inseguitrice. Parecchi colpi andarono a vuoto, dato che i Potenziati non erano ancora pratici dei sistemi di puntamento.

   «Tranquillo, Leonardo, ora ci penso io» disse il pilota di un altro elicottero, l’Alexander. Il velivolo si mise in coda all’Excalibur e l’agganciò con i missili aria-aria. Ne lanciò due, che raggiunsero la navicella in pochi secondi. Ci fu una grande esplosione a mezz’aria.

   «Yu-huuu!» esultò il pilota dell’Alexander, ma il sorriso gli morì in volto quando vide l’Excalibur uscire illesa dalla fiammata.

   «Generale Flint a elicotteri, disimpegnatevi e ritiratevi. Quella navicella è dotata di scudi che non possiamo penetrare. Ripeto, ritiratevi subito». Il Generale parlava in tono controllato, ma quelli che lo conoscevano meglio ne avvertirono la preoccupazione.

   «Fosse facile!» si lamentò il pilota del Leonardo, che faceva di tutto per sfuggire ai colpi. Deviò a sinistra e si abbassò, ma un raggio phaser centrò l’elica posteriore. L’elicottero prese ad avvitarsi su se stesso, continuando a perdere quota, finché si schiantò sulla giungla.

   «Ora tocca a quelli dietro» ridacchiò Zheng, che stava prendendo familiarità con i comandi. Eseguì un cerchio della morte, innalzandosi e rovesciando la navicella all’indietro, tanto da volare per un attimo capovolto, per poi ridiscendere e cabrare, riprendendo l’assetto di volo. Adesso l’elicottero Alexander gli stava davanti. L’artigliere lo centrò al primo colpo, facendolo esplodere. Inorgoglito dal successo, il Maggiore prese velocità, avventandosi sugli ultimi sei elicotteri. «Bene... chi è il prossimo?».

 

   In piedi davanti a una finestra panoramica della base di Kamala, a metà altezza della montagna, una figura solitaria seguiva la battaglia aerea. Jaylah osservava l’Excalibur, la navetta che l’aveva portata fin lì, venire usata contro i suoi alleati dell’AEV. Anche se i soldati erano sbarcati, ogni elicottero distrutto significava la morte di piloti e artiglieri. Non poteva permettere ai Potenziati di continuare. Sulle prime aveva pensato che non sarebbero riusciti a pilotare la navicella. Si aspettava che si schiantassero sull’isola o s’inabissassero nel mare. Ma si era sbagliata. Zheng e i suoi avevano fatto l’impossibile, riuscendo a usare un velivolo di mezzo millennio più sofisticato dei loro. Ad ogni momento s’impratichivano e scoprivano nuove funzioni. Presto sarebbero diventati inarrestabili... se non li arrestava lei. Il modo c’era: ma esigeva un sacrificio.

   «Chase a computer navicella Excalibur. Inizio procedura di autodistruzione» ordinò Jaylah, premendosi il comunicatore.

   «Impronta vocale confermata» rispose il computer. «Prego fornire codice di autorizzazione».

   La mezza Andoriana aprì la bocca, ma aveva un tal groppo in gola che non riuscì a parlare. Ancora non sapeva nulla della Keter. In mancanza di segnali, doveva presumere che l’astronave non li avrebbe soccorsi. L’Excalibur era il solo modo che lei e i colleghi avevano per tornare nel loro tempo. Distruggendola, si condannavano a trascorrere il resto della vita nel XXI secolo. Prigionieri di un mondo pre-curvatura, che stava piombando nell’orrore post-atomico. Poteva fare questo a se stessa e ai colleghi che l’avevano seguita con tanta lealtà? E che ne sarebbe stato, poi, della caccia a Vosk? Chi sarebbe rimasto per affrontarlo?

   In quel momento l’Excalibur aprì ancora il fuoco. Un altro elicottero dell’AEV fu disintegrato con il suo equipaggio. Altri soldati che non sarebbero tornati dalle loro famiglie. Jaylah inghiottì il groppo che la soffocava. Ora sapeva cosa doveva fare. «Codice di autorizzazione Chase 8472-sigma» disse con voce chiara.

   «Codice riconosciuto».

   «Conto alla rovescia silenzioso di venti secondi. Neutralizzare l’antimateria del nucleo» ordinò l’Agente Temporale. Non voleva provocare un’esplosione così potente da uccidere tutti, amici e nemici.

   «Neutralizzazione dell’antimateria in corso. Richiesto codice finale per confermare l’autodistruzione».

   Jaylah pensò a tutte le persone che le stavano a cuore e che non avrebbe mai più rivisto. I suoi genitori. Gli amici della Keter, specialmente Vrel e Norrin. E Jack, il suo amato furfante. Quel pensiero le spezzò il cuore. La sua unica consolazione era che probabilmente non sarebbe sopravvissuta a lungo nel mondo post-apocalittico. «Codice di autorizzazione Chase 2585-omega» mormorò, fissando la battaglia aerea senza realmente vederla.

   «Codice riconosciuto. Comando di autodistruzione confermato. Inizio conto alla rovescia silenzioso. Non ci saranno altri avvertimenti». Furono le ultime parole che Jaylah udì dal computer dell’Excalibur.

   In quel momento i cinque elicotteri restanti stavano battendo in ritirata verso il mare aperto. La navicella poteva inseguirli e distruggerli facilmente, invece si diresse verso la montagna. Tramite i sensori di bordo, i Potenziati avevano localizzato i federali. Una di essi era davanti alla finestra panoramica, dove potevano colpirla facilmente. Zheng portò la navicella alla giusta altezza e ridusse la velocità, mentre si avvicinava al ripido cono vulcanico. Con la sua vista acuta riuscì a distinguere la finestra. «Excalibur a Chase... dimmi che ci sei tu, dietro la finestra panoramica» disse.

   «Sono io» confermò Jaylah.

   «Bene... mi vedi?».

   «Perfettamente».

   «E io vedo te» disse il Potenziato, aumentando l’ingrandimento sullo schermo. Fermò la navicella a mezz’aria, a poche centinaia di metri dalla montagna, per fronteggiare l’avversaria. Da quella distanza non poteva mancarla. «Immaginavi che sarebbe finita così?» chiese, godendosi il momento.

   «Non proprio» ammise la mezza Andoriana. «Speravo di trovare un altro modo per farti saltare in aria».

   «Che cosa?!». Zheng scorse velocemente i comandi sull’interfaccia LCARS, finché vide un conto alla rovescia. Mancavano tre secondi allo zero. «Crepa!» ringhiò.

   «Dopo di te» disse Jaylah, fissando dritta la navetta. Fissando l’avversario negli occhi. L’attimo dopo si girò e si buttò a terra, mentre l’Excalibur esplodeva a mezz’aria. Sebbene l’antimateria fosse stata neutralizzata, l’esplosione del nucleo temporale fu così violenta da piegare le palme dell’isola, rovesciare i veicoli e frantumare ogni oggetto di vetro. I soldati che si trovavano all’esterno furono gettati a terra, semistorditi. Quelli dentro la base udirono il boato e sentirono la montagna tremare. Gli elicotteri dell’AEV furono investiti dall’onda d’urto, ma erano abbastanza lontani da reggerla. Dopo qualche secondo di sbandamento riuscirono a tornare in assetto.

   Jaylah si rialzò cautamente. La vetrata accanto a lei era andata in frantumi, ma l’Agente indossava ancora la tuta corazzata e aveva avuto la prontezza di richiudere il casco, per cui le schegge non l’avevano ferita. Osservò l’ultima fiammata dell’Excalibur che si disperdeva nell’aria. Zheng e i suoi soldati erano morti, ma a carissimo prezzo. «Che cosa ho fatto?» mormorò, messa di fronte all’amara realtà dell’esilio nel passato.

   «Quel che andava fatto» disse il Maggiore Nowak, facendosi avanti. «Non dimenticheremo il vostro sacrificio. Qualunque cosa ci aspetti, potete contare sul nostro appoggio» promise, sfiorandole la spalla in segno di conforto.

   «Grazie... ne avremo bisogno» disse la mezza Andoriana. «Ma prima mi resta una cosa da fare» aggiunse, riscuotendosi.

   «Certo, fermare le atomiche» annuì Nowak.

   «No, è tardi per quello» disse Jaylah, marciando verso i suoi Agenti che attendevano più avanti. «Quel che farò è inseguire Kamala, andasse in capo al mondo. La stanerò e poi la ucciderò con le mie mani!». Si portò la mano in cintura ed estrasse un pugnale serpentino, dalla lama istoriata. Era l’antico pugnale del clan di Norrin, passato di padre in figlio per generazioni di Cacciatori. L’Hirogeno glielo aveva donato, in segno di affetto e stima, dopo che lei gli aveva salvato la vita, qualche anno prima. Molti giuramenti di vendetta erano stati fatti su quel pugnale, e alla fine la lama serpeggiante si era sempre bagnata del sangue nemico.

 

   Nel centro di comando si respirava aria di trionfo, sebbene i federali e l’AEV fossero sempre più vicini. Le prime atomiche scagliate dalla Coalizione Orientale erano giunte a bersaglio e ogni pochi minuti c’erano nuove esplosioni. Kamala seguiva l’olocausto dallo schermo principale, che mostrava il planisfero. A ogni nuova esplosione faceva udire i suoi commenti caustici, per tormentare ulteriormente Green, trattenuto dai Potenziati. Dopo essere diventato ostaggio, il Colonnello era stato quasi affogato e poi picchiato a sangue. Il dolore fisico, però, era niente in confronto alla vista di quanto accadeva.

   «Ah, ecco un’altra che se ne va!» commentò Kamala, vedendo l’ennesima esplosione atomica che colpiva una grande città. «Qual è, stavolta? Dallas! Finalmente se ne parlerà per qualcosa che non sia l’omicidio Kennedy. Vengono giù che è un piacere, vero? New York, Boston, Chicago... e tra poco toccherà a Washington DC. Sai, stavo pensando che tra qualche anno, quando l’ECON controllerà ciò che resta dell’America, potrei far scolpire il mio ritratto sul Monte Rushmore. Come mi vedi accanto a Washington, Jefferson, Lincoln e Roosevelt?» chiese mettendosi in posa, con le mani sui fianchi e l’espressione austera.

   «L’unica cosa che scolpiranno per te sarà il nome sulla lapide... e forse nemmeno quello!» ringhiò Green.

   «Uh, siamo ancora combattivi!» fischiò Kamala, osservando il volto tumefatto dell’uomo. «Ma la giornata è appena cominciata. Guarda un po’ l’Europa. Niente più Londra, Berlino... tra poco toccherà a Parigi, Roma e Madrid. Peccato, mi piacevano la Torre Eiffel e il Colosseo... invece a Madrid che c’è d’interessante? Boh!».

   «Stai uccidendo anche un bel po’ di tuoi compatrioti, che vivono in quelle città» notò Green, per vedere la sua reazione.

   «Tanto meglio; li ho sempre detestati» rispose Kamala, facendo spallucce. «Ma vediamo come vanno le cose in Oriente. Niente più Gerusalemme... bene, questo risolve l’annosa disputa. Perbacco, hanno distrutto Samarcanda e Singapore! Che avevano fatto di male? Dovrò chiederlo a Kuan, prima di eliminarlo. E naturalmente New Delhi... così imparano a incaponirsi sul Kashmir. Tanto sono così numerosi che non noteranno qualche milione di persone in meno».

   «Sai, Kamala, il tuo atteggiamento nei confronti dell’umanità mi ricorda un vecchio proverbio» disse Green. «L’atrocità della vendetta non è proporzionale all’atrocità dell’offesa, ma all’atrocità di chi si vendica».

   «Che fai, mi diventi filosofo?» fece la Potenziata, voltandosi a mezzo. «Ti ricordo che questo era il nostro piano. Io ho solo fatto qualche aggiustamento. Oh, guarda... hanno beccato Toronto! Sai che quasi tutti credono ancora che sia la capitale del Canada? Anch’io l’ho creduto per anni, prima di scoprire che è Ottawa. Buffo, vero?».

   «Fra quindici minuti Washington sarà cancellata» avvertì un tecnico. «Ma la reazione della NATO è già in corso. Rilevo lanci di atomiche contro le nostre capitali».

   «Allora è tempo di attivare i satelliti» disse Kamala, rivolgendosi agli incaricati.

   «Devo ricordarle, signora Segretario, che la copertura non è perfetta. Alcune bombe arriveranno comunque a bersaglio» disse il caporeparto.

   «Me lo auguro» ribatté Kamala. «Così la gente odierà così tanto Kuan che sarà felicissima quando lo soppianterò. Sarò la salvatrice, colei che restituisce la pace al mondo e guarisce le ferite di una guerra insensata. Penso proprio che mi daranno quel Nobel per la Pace... se ci sarà ancora Stoccolma!».

   La Potenziata scoccò un’occhiata trionfante a Green, che chinò il capo, sconfitto. Sorridendo ancora di più, Kamala tornò a fissare il planisfero. Finalmente era riuscita là dove suo nonno Khan aveva fallito: ridisegnare il mondo, porsi a capo della più potente coalizione internazionale. Il suo nome sarebbe stato ricordato per sempre, con devozione e gratitudine, da persone del tutto ignare del suo vero operato. Era il momento più felice della sua vita.

 

   Nello spazio, la Keter e il Reaper si sfidavano in una girandola di attacchi, contromosse e finte fughe. L’attacco con le navette esplosive aveva fortemente indebolito gli scudi della nave di Vosk, eppure questa manteneva ancora la superiorità tattica. La sua agilità le permetteva di evitare molti siluri e la capacità di rigenerare lo scafo impediva ai federali di mettere a segno colpi decisivi. Poco alla volta, il Reaper stava acquisendo il vantaggio.

   «Rilevo esplosioni atomiche sulla Terra. Il Giorno dell’Orrore è cominciato» avvertì Zafreen.

   «È riuscita a contattare i nostri Agenti?» chiese Radek.

   «Negativo, i Na’kuhl continuano a disturbare le comunicazioni» rispose l’Orioniana, affranta.

   «Rotta verso la Terra. Abbatteremo le atomiche in eccesso, se necessario» decise il Comandante.

   La Keter si volse verso il pianeta azzurro, ma il Reaper l’agganciò con un raggio traente e la trattenne. Neanche a pieno impulso la nave federale riusciva a liberarsi, sebbene vomitasse colpi di phaser e siluri sul muso del vascello nemico. Il Reaper rispose con la sua arma primaria, il disgregatore sub-nucleonico. La Keter cercò di evitarlo, ma era ancora impacciata dal raggio traente; la manovra evasiva fallì e lo scafo fu colpito.

   «Oh, no!» gemette il timoniere, mentre la nave sussultava. «Abbiamo perso la cavitazione. Ci resta solo l’impulso per raggiungere la Terra... non faremo in tempo a fermare le atomiche».

   «Continuate a colpire il Reaper» ordinò Radek, in mancanza di alternative. Il nuovo Capitano aveva fatto tutto il possibile per ribaltare i rapporti di forza, ma non era bastato. Anche se la nave e l’equipaggio davano il massimo, i Na’kuhl restavano invincibili. E così tutto era perduto.

 

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Capitolo 13
*** Il Giorno dell'Orrore ***


-Capitolo 12: Il Giorno dell’Orrore

 

   Nel momento del loro trionfo, la sala di controllo dei Potenziati fu invasa da uno strano fischio. Non sembrava venire da un luogo in particolare, ma era sempre più intenso e acuto. Kamala e i suoi seguaci si guardarono attorno, inquieti.

   «Cos’è? Qualche sporco trucco degli alieni?!» chiese la nipote di Khan, guardandosi nervosamente attorno, in cerca di un bersaglio. Prese un tricorder, uno dei pochi cimeli del futuro che non erano stati sottratti dall’AEV, ed eseguì una scansione ad ampio spettro. «Qui dice che ci sono radiazioni trioliche in aumento... che roba è?!» chiese ai tecnici e agli scienziati presenti in sala. Ottenne solo un silenzio imbarazzato.

   Scandalizzata dall’ignoranza dei suoi, Kamala cercò almeno di capire in che punto si concentravano le radiazioni. Scoprì che venivano proprio dalla zona in cui si trovava, davanti allo schermo col planisfero. Si allontanò in fretta, mentre il fischio diveniva ultrasonico. In quella comparve un bagliore azzurro, che crebbe rapidamente, assumendo la forma di un portale. E da quel portale emerse una figura umanoide, alta e magra. Si stagliò contro la luce accecante, così che i presenti la videro solo come una sagoma nera sullo sfondo azzurrino.

   «Chi sei? Identificati!» ordinò Kamala, indietreggiando verso il fondo della sala, dove si trovava l’uscita. Quell’apparizione la inquietava, perché confermava che con la caduta dello scudo Na’kuhl il centro di comando non era più sicuro. I suoi Potenziati le vennero davanti con le armi spianate, per proteggerla.

   «Sono solo una viaggiatrice» rispose la sconosciuta, guardandosi attorno. «E voi?».

   «Sono complici di Vosk!» gridò il Colonnello Green, sperando che la nuova arrivata fosse di un’altra fazione. «Hanno lanciato atomiche sulle nostre città!».

   «Taci!» berciò un Potenziato, dandogli una botta in testa.

   «Sei nel mezzo di un’operazione militare» avvertì Kamala. «La cosa non ti riguarda, perciò torna da dove sei venuta, o apriremo il fuoco!» minacciò.

   A queste parole la nuova arrivata si scostò leggermente. Non essendo più davanti al portale luminoso, i suoi lineamenti cominciarono a farsi visibili. Tutti i presenti aguzzarono la vista, cercando di distinguerne la fisionomia.

   Fu allora che l’impulso triolico attraversò il portale. Non era un raggio concentrato, come quelli emessi dagli ofidi dei Devidiani, bensì un’emissione più ampia e diffusa. Colpì gran parte dei Potenziati e dei tecnici alle loro spalle. Le vittime vacillarono e crollarono al suolo, private delle energie neurali. Solo chi si trovava più lontano, come Green e Kamala, fu risparmiato. La nipote di Khan strillò e si nascose dietro alcune apparecchiature, finché l’impulso azzurrognolo si estinse. I pochi soldati ancora in vita arretrarono precipitosamente e aprirono il fuoco.

   La sconosciuta si gettò di lato, rivelando la sua fisionomia. Era il Capitano Hod, anche se nessuno in quel salone poteva riconoscerla. Estratto il phaser, si nascose dietro una postazione e ingaggiò lo scontro a fuoco con i sorveglianti.

   «Uccidetela, è solo una!» sbraitò Kamala, ma si sbagliava. In quell’attimo Vrel uscì dal portale col phaser in pugno e abbatté un Potenziato. Poi emerse Lyra, anche lei armata, che ne colpì un altro. La sala controllo si era trasformata in un campo di battaglia. Raggi phaser e disgregatori balenavano ovunque, i feriti gridavano, i tecnici cercavano di fuggire. I pochi soldati rimasti erano così sorpresi da quell’attacco, feroce e inaspettato, che cominciavano a cedere. Il portale azzurrino svanì, ma i tre federali non se ne preoccuparono e continuarono a battersi.

   In quel pandemonio, Green riaprì gli occhi. Per quanto forte, il colpo in testa non lo aveva stordito che per pochi secondi. Il Colonnello strisciò verso uno dei soldati caduti e gli prese la pistola che stringeva ancora in pugno. Sorrise come se ritrovasse una cara amica. Rialzatosi, attaccò alle spalle i soldati dell’ECON. Sparò otto volte, in rapida successione, e per otto volte il proiettile colpì la vittima al cranio. Green sorrise, rincuorato dalla propria abilità, e mirò Kamala; ma la pistola aveva esaurito i colpi.

   Vedendo cadere i suoi ultimi difensori, la Potenziata aprì la porta blindata e fuggì. Aveva contato gli spari di Green e sapeva che il Colonnello era rimasto senza munizioni, ma stavolta non gli rifilò occhiate beffarde, né battute sarcastiche. Era furiosa per come la situazione si era ribaltata e terrorizzata all’idea che quegli alieni spuntati da chissà dove la catturassero. Ma il peggio era che, abbandonando la sala controllo nelle loro mani, gli consegnava i satelliti EMP e con essi il futuro del mondo. I suoi sogni di egemonia si stavano sgretolando; poteva solo lasciare l’isola e riunirsi all’ECON. A questo pensiero gridò di rabbia e frustrazione. Corse verso la grande caverna, sapendo che lì c’erano ancora molti soldati fedeli. Risalendo i ponteggi avrebbe raggiunto la sommità del vulcano, dove si trovava l’elicottero stealth: la via di fuga più rapida e sicura.

 

   Caduti gli ultimi avversari, i tre federali si trovarono padroni del centro di comando. Gli effetti dello scontro erano pesanti. I colpi andati a vuoto avevano distrutto molte postazioni di computer, riducendole ad ammassi di componenti liquefatti, da cui uscivano fumo e scintille. Il pavimento era ingombro di corpi, perlopiù di soldati. I tecnici superstiti erano fuggiti dietro a Kamala, per cui restava solo Green da interrogare.

   «Non ti muovere!» ordinò Vrel, parandosi davanti a lui col phaser spianato. Anche Hod e Lyra lo presero di mira.

   «Mi arrendo» disse il Colonnello, che non aveva ancora potuto ricaricare la pistola. Depose l’arma e la calciò via.

   «Chi è lei?» chiese Hod, squadrandolo con sospetto.

   «Solo un ostaggio di questi fanatici...» cominciò l’uomo.

   «Vediamo» disse Vrel, perquisendolo. Trovato il portafoglio ne estrasse i documenti, tra cui la tessera militare. «Guarda, guarda... il Colonnello Green».

   «Ne ho sentito parlare; di lui non possiamo fidarci» avvertì Lyra, portandosi una mano alla tempia. Le sue facoltà telepatiche le confermavano che si trattava di un pessimo soggetto.

   «Fidatevi se vi dico che tra pochi minuti il mondo sarà in cenere, se non fermiamo le atomiche!» avvertì Green, indicando il planisfero ancora intatto in fondo al salone. Diversi punti rossi segnavano le città distrutte e molti altri, di colore giallo, indicavano le testate in volo. «Posso abbatterle coi satelliti EMP, se me lo permettete» insisté il Colonnello.

   I tre federali si accostarono allo schermo, parlottando fra loro. «I Devidiani avevano ragione; questa è la discontinuità temporale» sussurrò Hod.

   «Se tutte quelle atomiche vanno a bersaglio, l’umanità sarà spacciata» convenne Lyra.

   «Quindi dobbiamo fare come dice Green?» chiese Vrel, fissando incerto la sorella. Una decisione sbagliata fatta in quel momento avrebbe condannato non solo la Terra, ma tutta l’Unione. Ed era stata Lyra a dire che non ci si poteva fidare del Colonnello.

   «Penso di sì» disse la cronista. «Credo che Green fosse coinvolto nel piano, ma guardatelo: è stato appena torturato. Quale che fosse il suo ruolo, le cose gli sono sfuggite di mano».

   «D’accordo, allora. Attiviamo i satelliti» decise il Capitano.

   I federali si recarono alle postazioni di controllo gemelle, che per fortuna erano ancora intatte. Si trovarono di fronte a pannelli fitti di tasti, levette e indicatori. Sui monitor comparivano le stringhe di codici.

   «Non ho familiarità con questa tecnologia» ammise Vrel.

   «Nemmeno io» confessò Hod, mordendosi il labbro.

   «Non guardate me» disse Lyra.

   «Ehm... scusate il disturbo, ma penso di potervi aiutare» disse Green, facendosi avanti con l’aria più amichevole che riuscì a darsi. «Dopotutto sono Colonnello... ho una certa familiarità con questi apparecchi».

   «Allora li usi, presto!» lo esortò Vrel.

   «Un momento» lo fermò Hod. «Quelli come lei non fanno niente per niente. Che ci guadagna, aiutandoci?».

   «Che domande, voglio salvare il mondo libero dall’annientamento!» disse Green, dandosi un contegno. «Oltre a questo, vi chiedo un piccolissimo favore. Qualunque cosa sentiate sul mio conto, voglio la vostra promessa che mi risparmierete la vita. Anzi, promettete di lasciarmi andar via da quest’isola, incolume. Posso ancora essere utile alla mia nazione».

   «Uhm... non ci scommetterei» disse Lyra, squadrandolo con diffidenza.

   «D’accordo, ha la mia parola» s’impegnò il Capitano, vedendo che parecchie atomiche stavano per giungere a bersaglio. «Ora si sbrighi!».

   «Certo, certo» fece Green, recandosi alla consolle NATO. Lyra gli stette a fianco, per sorvegliarlo. «Voi andate là, presto!» disse l’uomo, indicando agli altri la consolle ECON.

   «Ci penso io; lei chiuda l’ingresso» ordinò Hod.

   Vrel annuì e corse al portone blindato, che i fuggitivi avevano lasciato aperto. Dette una rapida occhiata all’esterno, ma non vide nemici nel corridoio. Ne fu stupito, perché si aspettava che le truppe di Kamala cercassero di riconquistare il centro di comando. Ma tendendo l’orecchio sentì grida e spari in lontananza. C’era già una battaglia in corso.

   «Qui c’è lo zampino degli Agenti Temporali. E se conosco Jaylah, sarà in testa alla squadra» si disse. Con questa speranza, il timoniere richiuse il pesante portone, assicurandosi che la serratura scattasse. Restò di guardia lì accanto, col phaser in pugno. «Shil a Chase, mi senti?» chiese, premendosi il comunicatore.

   «Vrel... sei davvero tu?!» gli rispose la mezza Andoriana, con voce rotta dall’emozione. Sentire l’amico era la cosa migliore che le capitasse da un bel pezzo.

   «In carne e ossa. Ascolta, siamo arrivati al centro di comando e stiamo cercando di fermare le atomiche» spiegò il timoniere. «Cerca di raggiungerci, perché siamo un po’ scoperti».

   «Mi restano pochissimi Agenti; voi dovreste essere di più!» obiettò Jaylah.

   «No, purtroppo. Qui siamo solo io, il Capitano e Lyra. Siamo stati separati dagli altri... è una lunga storia» spiegò Vrel.

   «Quindi non sapete se la Keter è qui?!».

   «Speravo fossi tu a dirmelo».

   «Non abbiamo contatti con la nave da quando siamo partiti» rivelò l’Agente Temporale, di nuovo angustiata.

   «Allora lascia stare, non venire qui» disse il timoniere. «Piuttosto cerca di acchiappare la responsabile, che ci è sfuggita. È una donna sui trentacinque anni, che indossa un velo bianco e ha la faccia di chi è caduto in un mare di dren...».

   «Kamala Singh» riconobbe subito Jaylah. «La prendo... oh, se la prendo!».

 

   «Giri quella chiavetta di sicurezza» disse Green a Hod, mentre girava la sua. A pochi passi di distanza, Lyra lo teneva sotto tiro col phaser, giusto per accertarsi che non facesse strane mosse.

   «Fatto» disse il Capitano.

   «Bene... i codici sono già inseriti, quindi non resta che fissare le coordinate» disse il Colonnello.

   I due continuarono a lavorare all’unisono, con Green che manovrava la consolle NATO e al tempo stesso istruiva Hod su come usare quella ECON. Bastò un minuto per attivare i satelliti, già dispiegati nello spazio. I potenti impulsi elettromagnetici colpirono tutti i continenti, eccetto il desolato Antartide. Le onde si allargarono dall’epicentro, come increspature nell’acqua, fino a toccarsi fra loro, lasciando ben poche zone scoperte. La maggior parte delle persone non se ne accorse neppure, dato che la precedente scarica aveva già mandato in corto circuito gli apparecchi elettronici. Ma le decine di missili nucleari in volo furono in gran parte abbattuti. Caddero perlopiù in mare o in zone disabitate. Alcuni tuttavia precipitarono sui centri urbani o nelle loro vicinanze. Non esplosero, ma rimasero lì, come una minaccia che avrebbe insidiato l’umanità per decenni.

   Ma i satelliti EMP non erano infallibili. Alcune testate atomiche – un quinto del totale – resistette agli impulsi elettromagnetici e giunse ugualmente a bersaglio. Molte grandi città, dell’Oriente e dell’Occidente, arsero nel fuoco atomico. Le polveri radioattive si diffusero su vastissime aree e i venti le portarono ancora più in alto, nella stratosfera, da cui ricaddero su tutto il globo. L’interruzione delle comunicazioni impedì alle autorità di avvertire la gente affinché prendesse le più elementari precauzioni, come restare in casa qualche giorno e non bere acqua contaminata. Poco alla volta, però, si diffuse la consapevolezza che qualcosa di orribile era accaduto. Chi aveva visto il fungo atomico fuggì, diffondendo la notizia della tragedia. Chi viveva più lontano dalle aree colpite intuì comunque, dal protrarsi del black-out, che la situazione era grave. Le conseguenze più orribili avvennero nelle città, dove non c’era più un’autorità costituita che potesse occuparsi dei feriti, dei senzatetto e dei bambini orfani. Fin da subito cominciarono gli sciacallaggi, che divennero guerriglie, che divennero guerra per la sopravvivenza.

   Il mondo del XXI secolo era altamente interconnesso. Nelle grandi città vivevano milioni di persone che contavano su una rete di trasporti efficiente per ricevere acqua e viveri dalle campagne, oltre alle forniture di elettricità e gas. Il crollo delle comunicazioni e dei trasporti inceppò questo meccanismo. In tutto il mondo, miliardi di persone compresero di doversi procacciare cibo e generi di prima necessità con le maniere forti. In pochi giorni la società si disintegrò in fazioni tribali, che presero a razziare supermercati, negozi e ospedali. Conclusi i saccheggi, le nuove tribù si attaccarono fra loro. Masse di disperati si affrontarono per le strade con coltelli da cucina, molotov, spranghe, mazze da baseball e ogni genere d’arma improvvisata. Folle sterminate assaltarono quelli che si erano trincerati in luoghi difendibili, come carceri, stazioni di polizia e basi militari. Incuranti delle perdite, gli assalitori superarono recinzioni e barricate, calpestando i cadaveri di quelli caduti prima di loro. Soldati e poliziotti dovettero scegliere da che parte stare: unirsi ai rivoltosi o resistere a oltranza con quel poco che restava dell’apparato statale. Nelle comunità post-atomiche emersero i primi capi, con i loro metodi di giustizia sommaria. Molte città, che erano sfuggite al bombardamento nucleare, furono incendiate dai loro stessi abitanti durante le guerriglie urbane. Gli incendi si propagarono indisturbati, non essendoci più i pompieri per spegnerli.

   Ma tutto questo sarebbe accaduto nell’arco delle settimane. Per adesso c’era solo gente che si nascondeva in sotterranei e bunker, o che fuggiva dalle città colpite, portandosi dietro poco niente, perché i mezzi di trasporto non funzionavano. In ciò che restava di Chicago, un redattore del Bulletin of the Atomic Scientists portò a zero le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse, prima di accasciarsi per le radiazioni. Era la mezzanotte del genere umano.

 

   «Washington è salva» disse Green, osservando il planisfero. Questo andava contro il suo piano, che prevedeva di sbarazzarsi dei superiori. Ma ora che i tre alieni sbucati dal nulla lo tenevano sotto tiro, non poteva lasciare zone scoperte. Era costretto a salvare tutti. «Anche Denver e San Francisco ce l’hanno fatta. Vediamo l’Europa... bene, Parigi è incolume. Anche Roma e Madrid si sono salvate. Fiuuu... c’è mancato poco!» fischiò.

   Accanto a lui, il Capitano Hod restava in silenzio. Per quanto ogni città salvata fosse una buona notizia, le era chiaro che le distruzioni erano immani. L’Elaysiana conosceva a grandi linee la storia terrestre, inclusa la Terza Guerra Mondiale, ma trovarcisi nel mezzo era sconvolgente. Non riusciva a immaginare quanta sofferenza e disperazione attanagliassero l’umanità in quel momento... e per cosa, poi? Tutti quelli che speravano di guadagnarci qualcosa avevano sbagliato i calcoli. Non ci sarebbero stati vincitori in quel conflitto.

   «Almeno gli abbiamo reso pan per focaccia!» disse il Colonnello, osservando l’Asia con truce soddisfazione. «Le capitali dell’ECON sono state colpite, in barba ai satelliti. Chissà se Kuan è ancora vivo... vorrei proprio vedere la faccia di quel gran bastardo».

   «Okay, basta così!» ordinò Hod, interrompendo i suoi commenti. «Coi vostri maneggi, voi militari e politici avete mandato in rovina il pianeta. Ora vi aspettano decenni di miseria e orrore. Quanto a lei, le ho dato la mia parola che l’avrei risparmiata, quindi se ne vada. Sparisca dalla mia vista e non mi compaia mai più davanti!».

   Così forte era l’autorità di Hod in quel momento, così vibrante la sua voce, così sdegnato il suo volto, che Green non osò replicare. Vedendo che Lyra lo teneva ancora sotto tiro, mosse rassegnato verso l’uscita. Si era bendato alla meno peggio l’addome, dove Kamala lo aveva pugnalato, così che non sanguinava più. Ma era stato anche torturato dai Potenziati. Nelle sue condizioni precarie non poteva sfidare i tre federali armati che lo circondavano.

   «Un momento!» disse Vrel, quando il Colonnello gli passò accanto. Il timoniere gli calò una mano sulla spalla, costringendolo a fermarsi.

   «Che altro c’è?» fece Green, temendo guai.

   «In questa base si combatte ancora» disse il mezzo Xindi. «I nostri Agenti stentano ad avanzare, perché i suoi soldati aiutano ancora quelli ECON».

   «Purtroppo è così» annuì il Colonnello, con una smorfia. «Non ho potuto avvisarli del tradimento di Kamala. Aspetti... ho capito cosa vuole da me» sogghignò, osservando il microfono della sala controllo.

   «Allora lo farà?» incalzò Vrel.

   «Con immenso piacere» assicurò Green, sorridendo diabolicamente.

 

   Nella grande caverna, all’interno del camino vulcanico, la tensione si tagliava col coltello. Gli ultimi difensori dell’Isola Crisalide erano asserragliati lì, dopo essere stati respinti da un piano all’altro, lasciando cadaveri in ogni sala e corridoio. Sopra le loro teste l’iride era serrato, per proteggerli dal bombardamento dell’AEV, ma questo significava che erano in trappola. Poiché il cielo era coperto dalla lastra metallica, l’illuminazione veniva solo dai riflettori. In quella luce cruda, i volti dei militari erano esangui. C’erano soldati del Movimento Ottimale, sempre più inquieti, dato che da un pezzo non sentivano la voce del Colonnello. E c’erano soldati dell’ECON, tra cui alcuni Potenziati, gli unici che mantenevano ancora la calma. Tutti questi difensori si nascondevano dietro rifugi improvvisati, come casse di materiali e veicoli blindati. Molti di loro stavano appostati sulle impalcature che risalivano il cono vulcanico, fino all’altezza dell’iride. Da quella posizione vantaggiosa tenevano sotto tiro la porta corazzata, l’ultima barriera che li separava dagli attaccanti. Una barriera che stava rapidamente crollando.

   Il portone era in titanio spesso trenta centimetri, ma i fucili phaser degli Agenti Temporali lo tagliarono come burro. La lastra metallica cadde in avanti con frastuono assordante. Subito i difensori concentrarono il fuoco nel corridoio, che però era invaso da un fumogeno. Dopo parecchi secondi di gragnola dovettero fermarsi, non sapendo se stavano colpendo qualcuno. Fu allora che la voce di Green risuonò dall’altoparlante.

   «Attenzione, è il Colonnello Green che vi parla. Mi rivolgo ai bravi soldati del Movimento Ottimale, che mi hanno seguito fin qui con coraggio e lealtà. È con profondo cordoglio che v’informo che siamo stati traditi. Per ordine diretto di Kamala Singh, le truppe dell’ECON hanno assassinato i vostri commilitoni nel centro di comando e hanno assunto il controllo dei satelliti EMP. Io stesso sono stato pugnalato e torturato selvaggiamente. La traditrice Kamala ha deciso di non fermare le atomiche in volo contro l’Occidente. Voleva che le nostre città bruciassero, che i nostri figli fossero avvelenati dalle radiazioni, mentre la Coalizione Orientale giaceva sotto l’ombrello protettivo dei satelliti! Così avrebbe potuto marciare alla conquista delle nostre nazioni, schiavizzando i superstiti del genocidio!».

   Il Colonnello aveva iniziato il discorso in tono sommesso, ma a ogni frase la sua voce si era alzata, facendosi più drammatica. Le ultime parole furono urlate con rabbia. Dopo di che fece una breve pausa, per consentire alle sue truppe di assorbire la rivelazione. In tutta la caverna, i soldati del Movimento Ottimale si scambiarono sguardi inorriditi. I più scioccati erano quelli che stavano al fianco di militari ECON.

   «Ma il suo folle piano è stato sventato» riprese il Colonnello, in tono vibrante e appassionato. «Con un audace colpo di mano, ho ripreso il controllo dei comandi e ho attivato i satelliti. Quattro quinti delle testate sono state neutralizzate in volo. Ma ahimè, mi duole informarvi che le altre erano già giunte a destinazione. L’America e i suoi alleati sono stati martoriati da decine di esplosioni atomiche. Molte delle maggiori città sono ridotte in cenere. Le vittime si contano a milioni e molti altri periranno per le radiazioni. Quest’Apocalisse è da imputare al tradimento di Kamala Singh e delle sue truppe. Perciò ordino ai miei soldati di aprire il fuoco contro di loro. Colpite il nemico!» ordinò con voce stentorea. «Vendicate New York, Chicago, Boston, Dallas, Toronto! Vendicate Londra e Berlino, Città del Messico e Rio de Janeiro, Gerusalemme e New Delhi! Uccidete i traditori ECON su quest’isola, così poi li sconfiggeremo nel resto del mondo!» gridò come un forsennato.

   A queste parole, i soldati del Movimento Ottimale rivolsero le armi contro quelli della Coalizione Orientale, mischiati fra loro, e aprirono il fuoco. Vedendosi attaccati da tutte le parti, questi ultimi spararono a loro volta. La caverna divenne un campo di battaglia, dove ai colpi di fucile e mitra si sommavano i lampi violacei dei disgregatori Na’kuhl. Molto più in alto, vicino all’iride metallico che chiudeva il camino vulcanico, Kamala Singh osservava la scena. Il suo volto era marmoreo. Le mani, però, afferrarono la balaustra e la strinsero tanto da deformarla.

   Fu allora che gli Agenti Temporali e i soldati dell’AEV irruppero nella caverna, unendosi alla battaglia. Lo scontro divenne ancor più caotico, perché adesso c’erano tre fazioni che cercavano di annientarsi l’un l’altra. I più odiati di tutti erano però i Potenziati, colpiti sia dall’AEV che dal Movimento Ottimale. Persino alcuni soldati dell’ECON si rivoltarono contro di loro, accusandoli di essere la causa della catastrofe. E non avevano tutti i torti.

   In quel marasma, Jaylah si fece avanti, con la tuta corazzata sporca e piena di crepe. Si guardò attorno, riconoscendo le fazioni in lotta, ma senza unirsi a nessuno scontro in particolare. Aveva un solo obiettivo e non si sarebbe distratta per nient’altro. Finalmente la vide. In alto sui ponteggi, Kamala la fissava, immobile come una statua.

   La mezza Andoriana non perse tempo. Raggiunte le impalcature, salì su un montacarichi e lo azionò. Tra quelli che combattevano al suo fianco, solo Nowak fece in tempo a seguirla. I due salirono rapidamente verso l’alto, ma così si trovarono a far da bersaglio per i nemici appostati sull’altro lato del camino vulcanico. Risposero al fuoco, impossibilitati a nascondersi finché erano sull’elevatore. Alcuni proiettili colpirono Jaylah, danneggiandole ulteriormente la tuta, ma senza arrivare alla carne. D’un tratto balenò il raggio viola di un disgregatore. La mezza Andoriana si rattrappì, conscia che la tuta non poteva proteggerla da quell’arma. Passato il raggio, si accorse d’essere illesa e sospirò di sollievo.

   «Jaylah...». Era stato Nowak a parlare, anzi a rantolare. L’arma Na’kuhl lo aveva colpito al fianco. Il Sergente si accasciò sul montacarichi, mentre il fucile gli cadeva di mano.

   «No!». Un altro amico che se ne andava... ma questo sarebbe stato l’ultimo. Fulminea, la mezza Andoriana individuò il Potenziato che gli aveva sparato e rispose al fuoco. Lo colse in pieno petto, col phaser tarato su uccisione, ma il Potenziato aveva una tale tempra che non morì sul colpo. Tuttavia vacillò in avanti, perse l’equilibrio e cadde oltre la balaustra. Precipitò urlando per venti metri, prima di sfracellarsi al suolo.

   Quando il montacarichi giunse alla massima altezza, l’Agente Temporale lo lasciò subito, trascinando Nowak. «No, lascia stare» disse l’uomo, mortalmente pallido. «Per me è finita... ma tu puoi finirla con Kamala. Sistemala anche da parte mia».

   «Lo farò, lo giuro» disse Jaylah, adagiandolo sulla passerella metallica. «Grazie per avermi salvata, su quella nave».

   «È stato un piacere... collega» sussurrò Nowak. Anche se erano separati da mezzo millennio e servivano organizzazioni diverse, quel giorno erano affratellati dalla stessa missione. «Vigilanza eterna» mormorò l’uomo, e chiuse gli occhi per sempre.

 

   Jaylah si rialzò, più risoluta che mai a chiudere i conti con Kamala. Grazie all’elevatore era arrivata più in alto rispetto ai soldati che si davano battaglia, ma non era ancora al livello della Potenziata. Per raggiungerla doveva salire le scale a chiocciola delle impalcature, che però non erano disposte in sequenza. Avrebbe dovuto zigzagare sui ponteggi, perdendo tempo prezioso. Tuttavia era abbastanza vicina all’avversaria da poterle rivolgere la parola. Dalla sua posizione la vedeva bene, affacciata alla balaustra. Era cinque o sei metri più in alto di lei, non proprio sull’altro lato della caverna, ma a un terzo di circonferenza.

   «Jaylah Chase» l’accolse Kamala, guardandola con sdegno. Per avere più libertà di movimento si disfece il velo bianco, scoprendo i capelli corvini.

   «Kamala Singh» rispose Jaylah, restituendole uno sguardo bieco. Accortasi che il casco danneggiato le limitava la visuale, decise di levarselo. Con un certo sforzo, dovuto al fatto che la giunzione era rotta, si sganciò il casco nero, scoprendo i capelli biondo platino.

   Le avversarie si fissarono per qualche secondo, specchiandosi l’una nell’altra. La corrente d’odio fra loro era palpabile.

   «Il tuo piano è fallito; i satelliti EMP sono entrati in funzione» disse la mezza Andoriana.

   «Una bomba su cinque colpirà ugualmente. Abbastanza da mettere in ginocchio l’Occidente» obiettò la Potenziata.

   «Anche l’Oriente» puntualizzò Jaylah. «Hai devastato il mondo per vendetta, ma non ci guadagnerai nulla. E il tuo tentativo di rubare l’Excalibur è fallito. Rassegnati: non andrai mai nello spazio».

   «Non ci tornerai neanche tu» ribatté Kamala. «Dev’essere una tortura, per una veterana dello spazio, restare bloccata su un mondo senza astronavi. È qui che passerai il resto della tua miserabile vita. Dovrai trascinarti giorno dopo giorno, lottando per sopravvivere nel mondo post-atomico, tutto perché hai osato sfidarmi. Io, d’altro canto, dominerò ciò che resta dell’ECON. Sarò felice e contenta sapendo che, negli angoli bui del mondo, le nullità come te mi maledicono nella loro impotenza!».

   Così dicendo Kamala esplose in una risata maniacale, che risuonò all’interno del camino vulcanico. Molti metri più in basso, Jaylah ne percepì la gioia malefica. Fu quella a spingerla oltre il punto di rottura. Una furia incontenibile travolse la mezza Andoriana. Le sue antenne s’irrigidirono, mentre le sue facoltà telepatiche si scatenavano come mai prima d’ora.

   «KAMALA!».

   Quell’urlo di rabbia, che sgorgava come sangue da una ferita, fu il più alto che Jaylah avesse mai lanciato. Colpì l’avversaria come una stilettata e riempì tutta la caverna, echeggiando più volte tra le rocce. Tutti, amici e nemici, si paralizzarono per qualche secondo, sentendosi tremare fino al midollo. Anche quelli che combattevano in altre zone dell’isola, e che non avevano udito il grido, si sentirono accapponare la pelle. Pur non sapendo esattamente cos’era accaduto, percepirono l’ondata di collera e seppero che stava per scorrere il sangue.

   «Vengo da te, vengo ad ammazzarti!» promise Jaylah, puntando il dito contro l’avversaria.

   «Non sei alla mia altezza» rispose freddamente Kamala. La Potenziata si era ripresa in fretta, ma non voleva rischiare lo scontro, quindi optò per la fuga. Estrasse un telecomando di tasca e premette il pulsante principale. Con uno stridio di pesanti ingranaggi, l’iride sopra la sua testa iniziò ad aprirsi. Sopra di esso c’era una scaletta metallica abbarbicata alle rocce, che portava in cima al vulcano. Il primo a salire avrebbe potuto andarsene con l’elicottero stealth.

   All’apertura dell’iride, tutti quelli che combattevano nella caverna alzarono gli occhi al cielo. Era ormai giorno fatto e la luce scendeva a fiotti. I soldati dell’ECON compresero che la loro leader intendeva abbandonare l’isola, senza curarsi della loro sorte. Avrebbero voluto seguirla, ma da terra gli Agenti Temporali spararono a tutti i montacarichi e le scale a chiocciola, per isolare Jaylah nella parte più alta delle impalcature, impedendo che fosse assalita alle spalle.

   Quando la luce del giorno la colpì, la mezza Andoriana socchiuse gli occhi, per distinguere la Potenziata che si dava alla fuga. Davanti a quella prova di vigliaccheria, Jaylah sfrigolò ancor più di rabbia. Si strappò la corazza ormai a brandelli, restando con la tuta nera da Agente Temporale, per essere più agile e veloce. E partì all’inseguimento, su per i ponteggi e le scale a chiocciola. Doveva salire di tre livelli per arrivare all’altezza di Kamala, ma per allora lei sarebbe salita a sua volta. La mezza Andoriana cominciò a contare, con il cuore che le martellava in petto. Avrebbe raggiunto l’avversaria e poi l’avrebbe ammazzata. Tutto il resto non le importava più.

 

   Kamala salì di corsa le scale, decisa a lasciare l’isola prima che Jaylah la raggiungesse. Una parte di lei avrebbe voluto affrontarla, per dimostrare che era la migliore; ma la prudenza prevalse. I maggiori successi li aveva sempre avuti con l’astuzia, evitando gli scontri frontali. Così salì una rampa dopo l’altra, trafelata... finché su un pianerottolo si trovò di fronte cinque uomini dell’AEV. Dovevano essersi calati dalla cima del vulcano, mentre il grosso della squadra attaccava dal basso, così da intrappolarla nel mezzo. Quattro di loro erano soldati armati di fucile. Il quinto era un uomo più in là con gli anni, munito di pistola. I gradi sull’uniforme lo qualificavano come Generale.

   «Kamala Singh, la dichiaro in arresto per crimini contro l’umanità» disse l’uomo con voce ferma, puntandole la pistola al cuore.

   «Generale Flint!» riconobbe la Potenziata. «Di solito manda i suoi killer a fare il lavoro sporco... ma stavolta è venuto di persona. Sarà la demenza senile».

   «È stata una lunga partita, la nostra, ma è finita. Lei è sconfitta» disse Flint, fissandola con durezza.

   «Non può uccidermi... solo io posso mediare un accordo di pace tra le superpotenze» disse Kamala in tono angelico. «Viviamo in tempi terribilmente bisognosi di pace, non trova?».

   «Per i suoi crimini, la condanno a morte» disse il Generale, senza neanche degnarsi di risponderle. «La sentenza ha effetto immediato. Fuoco!» ordinò ai suoi soldati.

   Con un ringhio animalesco la Potenziata balzò di lato, contro la parete rocciosa, sfuggendo alle fucilate. Da lì si diede la spinta per piombare addosso ai soldati dell’AEV. Mentre era a mezz’aria sfoderò i due sai, i pugnali a stiletto che portava in cintura. Atterrò fra i nemici come una furia, trafiggendone due alla gola. Un terzo fu colpito con un calcio, che lo fece precipitare giù dal ponteggio. Il quarto militare arretrò a precipizio, prendendo di nuovo la mira col fucile, ma Kamala gli scagliò contro uno dei sai, colpendolo alla gola. Erano passati cinque secondi da quando Flint aveva ordinato il fuoco e tutta la sua scorta giaceva cadavere.

   Il Generale indietreggiò, sparando con la pistola. La Potenziata gli balzò contro, eseguendo dei salti acrobatici con cui sfuggì prodigiosamente a tutti i proiettili. Con un calcio disarmò Flint, con un altro lo colse al petto e lo scagliò indietro di tre metri, contro la roccia. Il Generale si lasciò sfuggire un lamento e sembrò accasciarsi, mentre Kamala si avvicinava trionfante. Ma inaspettatamente l’uomo si rialzò, estraendo a sua volta un pugnale, e le sferrò un colpo alla gola.

   Solo i riflessi sovrumani di Kamala le permisero di salvarsi. La Potenziata arretrò, sfuggendo appena alla coltellata, e tornò subito all’attacco. Afferrò Flint per il polso, bloccandogli il pugnale, e al tempo stesso lo spinse indietro, fino a schiacciarlo contro la parete rocciosa. Continuò a stringergli il polso, finché l’arma gli cadde. Kamala la calciò giù dal ponteggio. «Sembra che tu sia a corto di risorse, Generale. Ma ti ringrazio per lo spasso» gli sussurrò, puntandogli il sai alla gola.

   Per tutta risposta, Flint le diede una testata in faccia. Kamala gridò di dolore e arretrò, lasciando l’avversario. Sentì il sapore del sangue, che le colava dal naso rotto. «Sai, volevo spacciarti in fretta» mugugnò. «Ma ora penso che ti farò a brandelli e li getterò ai tuoi soldati là sotto. Così sapranno che succede quando un Umano affronta un Potenziato».

   Così dicendo la nipote di Khan tornò all’attacco. Afferrò Flint e, sebbene fosse un uomo massiccio, lo gettò a terra con una mossa di judo. Poi gli si avventò sopra, afferrandogli la testa con ambo le mani. Come tutti i suoi soldati, Flint indossava un casco protettivo di titanio. Sentendolo scricchiolare, il Generale capì che l’avversaria voleva schiacciargli il cranio a mani nude. Le afferrò le mani, cercando di contrastare la sua stretta, ma sapeva di non poter resistere a lungo.

   «Adesso vedremo se sei davvero immortale!» sibilò Kamala. Si leccò le labbra, ripulendole dal sangue. L’emorragia era già cessata, segno che le nanosonde sottratte a Jaylah stavano facendo il loro lavoro. «La vita è bella» si disse, serrando al massimo la stretta. Il titanio dell’elmetto scricchiolò e cominciò a deformarsi tra le sue dita. Il Generale gridò, sentendo crescere la pressione intorno al cranio. Kamala sorrise, aspettandosi di vedere la sua testa che le si spappolava tra le mani, come un frutto maturo...

   In quella Jaylah sbucò dalla vicina scala a chiocciola. Vide i corpi dei soldati AEV sparpagliati sul ponteggio e Kamala che incombeva su Flint, intenta a schiacciargli il cranio, col sorriso sulle labbra. Con un urlo belluino, la mezza Andoriana saltò addosso alla Potenziata e l’abbrancò da dietro. La nipote di Khan mollò immediatamente la vittima e si rigirò per affrontare l’assalitrice. Le due donne rotolarono sulla passerella traforata, avvinghiate, finendo oltre l’orlo. A quell’altezza i ponteggi erano incompiuti e mancavano delle balaustre. Così, senza niente a fermarle, le avversarie precipitarono di sotto.

 

   Mentre cadevano, Jaylah e Kamala si separarono. Estratti i pugnali, si scambiarono qualche rapida coltellata. Al tempo stesso si raddrizzarono, per atterrare sul livello sottostante. I ponteggi infatti erano aggettanti, data la forma a imbuto del camino vulcanico. In quel caso il primo livello aggettante era due piani più in basso. Le combattenti riuscirono ad atterrare in piedi, flettendo le gambe per assorbire la violenza dell’impatto.

   «Sono felice che tu mi abbia raggiunta. Così ti ucciderò e mi porterò via il tuo corpo» disse Kamala. «Col tuo DNA creerò nuovi Potenziati. Ho sempre sognato di diventare madre!» ammiccò.

   «La tua stirpe finisce con te» annunciò la mezza Andoriana, e partì all’attacco. Brandiva il pugnale di Norrin, dalla lama serpentina, mentre la Potenziata lottava col sai che le rimaneva, avendo perso l’altro nello scontro con l’AEV. Le lame si scontrarono, sprizzando scintille.

   Nella sua carriera, breve ma intensa, Jaylah aveva affrontato nemici di ogni genere: pirati spaziali, Breen, Orioniani, Devidiani e naturalmente i Na’kuhl. Ma nessuna delle sue esperienze poteva paragonarsi alla lotta con Kamala. Stavolta l’avversaria la eguagliava in tutto e per tutto: forza, agilità, resistenza, facoltà rigenerative. La nipote di Khan mancava solo della telepatia, che però non serviva in duello. Entrambe combattevano per uccidere, dando fondo a tutte le loro capacità, in quella che ormai era una sfida personale.

   Lo scontro le portò da una passerella all’altra, su e giù per le scale, in precario equilibrio sui camminamenti affacciati sul vuoto, mentre dal basso veniva il frastuono della battaglia. Ogni tanto fischiavano i proiettili o balenava un raggio disgregatore; ma Jaylah e Kamala avevano occhi solo una per l’altra. I pugnali si scontravano, passavano a un soffio dalla gola o dal cuore, erano deviati contro le rocce o le impalcature. Quando non erano coltellate, erano calci e pugni. Più volte una delle due cadde a terra, o rotolò persino giù dalle scale, e l’altra le balzò addosso per chiudere i conti. Ma ogni volta quella in difficoltà riuscì a riprendersi, con una parata all’ultimo momento o uno sgambetto, e tornò in piedi. Saltarono da una passerella all’altra, balzarono su e giù dalle balaustre, schivarono colpi con repentini movimenti del corpo. I capelli turbinavano intorno a loro per la rapidità degli spostamenti. Più volte Jaylah vide l’orecchio mozzato di Kamala, messo a nudo quando le sue chiome si sollevavano.

   Dopo parecchi minuti di lotta – ma a loro erano sembrate ore – si avvicinò la fine. Nemmeno i loro organismi potenziati potevano reggere a lungo quello sforzo. Fatalmente i colpi s’indebolirono e i riflessi si appannarono. I muscoli dolevano per la fatica, il sudore colava dai volti. Pressata contro l’abisso, Kamala tentò il tutto per tutto: scagliò il pugnale contro l’avversaria. Jaylah se ne avvide e, per caso o per abilità, riuscì a intercettarlo con la propria lama. Il sai rimbalzò di lato e cadde nel vuoto.

   «È finita!» ansimò la mezza Andoriana, puntando la propria lama alla gola della Potenziata. Con la voragine dietro di lei, la nipote di Khan era in trappola. Non poteva nemmeno balzare al livello sottostante, perché in quel punto c’erano molti piani non aggettanti: l’altezza era eccessiva anche per lei.

   «E allora finiscimi» boccheggiò Kamala, accasciandosi al suolo. «Così proverai la mia tesi: che dobbiamo farci giustizia da soli. È la vita, no?» disse alzandosi i capelli, per mostrare l’orecchio mozzato.

   «Sono cresciuta in un ambiente più civile del tuo» rispose Jaylah. «Abbiamo altri valori. Valori minacciati da quelli come te».

   «Lo vedi? Alla fine ci si sbrana sempre!» disse Kamala, trionfante. «Oggi le nazioni si sono bombardate con le atomiche. Invece delle basi militari, hanno colpito le città. Credi che sia stata tutta opera mia? Sciocchezze! Non ho scelto io i bersagli. Ammetto di aver favorito l’escalation... ma solo perché la guerra era inevitabile. È la natura umana».

   «Dicevi d’essere migliore degli Umani. Invece sembra proprio che incarni i loro lati peggiori» notò Jaylah.

   «Gli Umani hanno creato noi Potenziati. Forse non volevano un mondo migliore... forse volevano solo delle armi in più» ammise Kamala. «Ma questo non ha importanza. Ci siamo battute, mi hai sconfitta... ora uccidimi. Ti chiedo solo di farlo alla svelta» disse tendendo il collo, per facilitare lo sgozzamento.

   «Ne avrei certamente voglia!» ringhiò Jaylah, stringendo convulsamente il pugnale Hirogeno. «Ma non farei che provare la tua tesi. Invece voglio confutarla. Gli Umani possono fare cose stupende. Anche ora, nel momento più tragico della loro storia, hanno il potenziale per ricostruire tutto. Possono creare un mondo bellissimo, se ci si mettono d’impegno».

   «Quindi mi lasci andare?!» chiese la Potenziata, fingendosi sorpresa. In realtà era proprio a questo che mirava.

   «Certo che no» la gelò la mezza Andoriana. «Sei troppo pericolosa per rimetterti in libertà. Ti consegnerò all’AEV; saranno loro a decidere la tua sorte».

   «Ipocrita!» gridò Kamala, di nuovo rabbiosa. «Non vuoi sporcarti le mani, così lasci che lo facciano loro. Sai benissimo che mi uccideranno. Una pallottola in fronte, ecco la loro idea di giustizia!».

   «Oggi hai assassinato milioni di persone» le ricordò Jaylah. «Non è così strano se vogliono giustiziarti. Ma ci sarà un minimo di processo; nessuno farà giustizia sommaria».

   «Per quanto mi riguarda, preferirei finirla qui e ora» disse la Potenziata. «Ma sei tu che hai il coltello dalla parte del manico».

   «In piedi, svelta» ordinò l’Agente, sempre tenendola sotto tiro.

   Kamala fece un gesto con la mano, come a dire di aspettare un attimo. Fece un gran respiro e si rimise faticosamente in piedi. Non vista, estrasse un terzo stiletto, che fino a quel momento aveva tenuto nascosto nello stivale. Lo tenne dietro la schiena, per colpire non appena fosse passata accanto all’avversaria.

   «Muoviti, ho detto!» la spronò Jaylah.

   «Sì, vado» disse Kamala, fingendosi ancora debole per lo scontro. In realtà strinse con forza lo stiletto, pronta a colpire. «La pietà... che pecca fatale: ti rende stupida e facile da uccidere».

   Mentre la Potenziata le passava accanto, la mezza Andoriana percepì una sensazione di pericolo. Avvertiva l’odio ribollente, l’aggressività pronta a scatenarsi a tradimento. Poteva quasi vedere il movimento del suo braccio. Reagì d’istinto.

   Kamala sferrò il colpo, mirando alla gola. Sapendo di non poter bloccare un attacco così fulmineo e ravvicinato, Jaylah sollevò la mano aperta, usandola come scudo. Lasciò che lo stiletto le perforasse il palmo. Al tempo stesso colpì con la destra, armata di pugnale. La lama degli Hirogeni trafisse l’avversaria allo stomaco, entrando in profondità nella carne.

   La Potenziata spalancò la bocca, ma non emise alcun suono. Sul suo volto era dipinto un immenso stupore, superiore persino al dolore. Lei e Jaylah si fissarono, faccia a faccia. «Bel colpo» disse infine. «Come hai...?».

   «Spera per il meglio, preparati al peggio» rispose la mezza Andoriana. «La tua cattiveria ti rende prevedibile, Kamala».

   Il dolore comparve finalmente sul volto della Potenziata, che per un attimo sembrò sul punto di piangere. Jaylah le estrasse il pugnale dal ventre: dalla ferita sgorgò un fiotto di sangue. Kamala vacillò e parve sul punto di dire qualcos’altro. Ma la vista le si annebbiò, le braccia ricaddero e dalle labbra uscì solo un mormorio incoerente. L’attimo dopo la nipote di Khan si accasciò in un lago di sangue.

 

   Il Colonnello Green arrancava su per le pareti scoscese del vulcano. Dopo che aveva esortato i suoi soldati alla rivolta, i tre federali lo avevano lasciato andare come pattuito. Ma Green era solo e ferito, in una base ormai preda dell’AEV. Se avesse incontrato gli attaccanti, non poteva escludere che lo avrebbero catturato o anche ucciso a vista. Così il Colonnello si era tenuto lontano dallo scontro. Invece di scendere, per riunirsi ai suoi uomini, era salito in cerca del suo elicottero. Era sbucato all’esterno del vulcano tramite un passaggio segreto e ora ne risaliva faticosamente le pendici. Ogni respiro gli dava una fitta di dolore allo stomaco, dove Kamala lo aveva pugnalato.

   Ma Philip Green era attaccato alla vita. Ignorò il dolore e continuò ad arrancare. Per fortuna c’era un sentiero, tracciato tempo prima, che portava in cima alla montagna. Non vi erano pareti rocciose da scalare, anche se in certi punti la pendenza era notevole. Nei passaggi più difficili ci si poteva aggrappare a funi che passavano per anelli metallici infissi nella roccia. Con quell’aiuto, il Colonnello riuscì a superare l’ultimo e più difficile tratto di salita.

   Giunse così sulla sommità del vulcano, da dove poteva osservare tutta l’isola. I segni della battaglia con l’AEV erano evidenti. Le bombe al napalm avevano incendiato la giungla; il fumo acre saliva fino alla sua altezza. Una lunga scia di alberi abbattuti segnava il punto in cui era caduta l’Excalibur, mentre alcune carcasse metalliche erano ciò che restava degli elicotteri abbattuti. Il grosso della battaglia avveniva dentro la montagna, anche se qua e là c’erano ancora piccoli gruppi di soldati che si affrontavano all’esterno. Era chiaro, però, che lo scontro volgeva a favore dell’AEV.

   Consapevole di avere poco tempo, Green zoppicò verso l’elicottero, posato su uno spiazzo in cima al monte, non lontano dall’imboccatura vulcanica. Dal basso venivano urla e spari. Il Colonnello notò che il motore dell’elicottero era acceso e le pale avevano già cominciato a muoversi. Ma non aveva dato lui l’ordine, non avendo uomini a bordo. Doveva essere stata Kamala. Forse la traditrice era già dentro, in procinto di andarsene sul suo elicottero. A quel pensiero, Green digrignò i denti per la rabbia ed estrasse la pistola, che aveva ricaricato. Si avvicinò di soppiatto, da dietro, tenendosi più basso possibile. Quando fu accanto allo sportello prese fiato, stringendo forte l’arma, e lo spalancò.

   All’interno c’era solo il pilota, un soldato dell’ECON. «Ehi, ma...!» gemette, vedendosi aggredito. La sua mano corse alla pistola che aveva in fondina, ma Green fu più svelto. Bastò uno sparo. Il proiettile colse il pilota in fronte, imbrattando di rosso il vetro dell’abitacolo dietro di lui.

   «Visto? Non serve essere Potenziati» sogghignò il Colonnello. In realtà aveva ancora paura. Se Kamala non era lì, poteva arrivare da un momento all’altro. Anche se gli sarebbe piaciuto regolare i conti, non avrebbe rischiato lo scontro diretto, considerato che l’avversaria poteva avere una scorta. Era meglio andarsene con l’elicottero, lasciandola senza via di fuga. Ci avrebbero pensato l’AEV e i federali a fare pulizia. Con questo proposito, Green spinse il cadavere del pilota fuori dall’abitacolo e richiuse il portello. Si accomodò sul sedile ancora caldo e attivò gli ultimi comandi. «Ah, Kamala... quanto pagherei per vedere la tua faccia!» ridacchiò, impugnando la cloche.

   L’elicottero stealth si alzò rapidamente in volo. Il Colonnello lo diresse verso il mare aperto, in direzione nord-ovest. Un’occhiata alla spia del carburante gli confermò che ne aveva a sufficienza per raggiungere la più vicina base americana. Una volta là, avrebbe deciso il da farsi. Non sarebbe stato facile spiegare il suo arrivo, considerando che ufficialmente si trovava su una portaerei nel Golfo Persico. Sperò che la confusione provocata dal bombardamento nucleare avrebbe impedito alle autorità d’indagare sui suoi spostamenti. In fondo era sempre stato bravo a nascondere le tracce. Sì... con un po’ di fortuna sarebbe tornato in patria, per riprendere il suo ruolo di Colonnello. Sempre che ci fossero ancora un esercito e un governo a cui rispondere.

   A questo pensiero, Green permise a un sorriso sinistro d’increspargli le labbra. Ora che le atomiche erano esplose, il mondo non era più lo stesso. C’erano un sacco di opportunità per un uomo ambizioso e senza scrupoli come lui. Forse non era troppo tardi per ritagliarsi un ruolo di potere. Ma davanti a quelle immani distruzioni, s’imponevano decisioni drastiche. Milioni di persone erano state colpite dalle radiazioni. Bisognava spegnere le loro sofferenze, prima che tramandassero mutazioni ai loro discendenti. «Farò quello che devo... non quello che voglio» si ripeté, allontanandosi sempre più dall’Isola Crisalide.

 

   Le ultime raffiche di mitra e raggi letali echeggiarono nella grande caverna. Dopo l’annuncio del Colonnello, i soldati di Green e quelli di Kamala si erano in gran parte massacrati a vicenda. I pochi superstiti vennero finiti dall’AEV nel modo più spiccio. Anche gli attaccanti avevano subito gravi perdite, ma si erano ormai assicurati il controllo della base. I pochi Agenti Temporali rimasti corsero al centro di comando, per difendere il Capitano e gli altri, nel caso qualche nemico fosse ancora in circolazione. Jaylah però era isolata nella parte più alta dei ponteggi, oltre ad essere stremata per la lotta, per cui rimase lì.

   La mezza Andoriana si osservò la mano sinistra, trafitta dal pugnale di Kamala. Il sangue gocciolava abbondante, anche se le nanosonde cercavano di suturare lo squarcio. C’era una sola cosa da fare. Stringendo i denti, Jaylah impugnò lo stiletto con l’altra mano e se lo estrasse dal palmo, con un solo movimento rapido. Il dolore le strappò un lamento, ma dopo si sentì meglio. Raccattato il velo di Kamala, lo usò per bendarsi la mano ferita. Il tessuto bianco divenne viola, prima che il sangue si raggrumasse.

   «Ehi, stai bene?!» le chiese Flint, affacciato da un ponteggio più alto.

   Jaylah alzò il capo a quel richiamo. Si era quasi scordata del Generale, ma era lieta di vederlo vivo. «Sì, abbastanza» rispose. «Resti lì, salgo io». Arrancò stancamente su per la scala a chiocciola, fino a raggiungere il ponteggio su cui si trovava Flint. Lì sedette, con la schiena contro la parete rocciosa. Ora che la battaglia era finita, si sentiva svuotata di ogni energia. Il Generale le si sedette accanto, anche lui dolorante per lo scontro.

   «Allora, che farai adesso?» chiese Flint.

   «Non lo so» ammise Jaylah. «A lungo ho sperato che la Keter ci contattasse, invece niente. Pensavo che a fine missione saremmo andati a cercarla con l’Excalibur... ma abbiamo perso anche quella. Quando i Potenziati se ne sono impadroniti, ho dovuto distruggerla».

   «Quindi siete bloccati qui? Senza modo di riunirvi alla vostra gente?» chiese il Generale, commosso.

   La mezza Andoriana annuì, chiudendo gli occhi. «Di tutti i luoghi in cui potevo restare bloccata, la Terra post-atomica non era in cima alla mia lista. Servirà un secolo per ricostruire» sospirò.

   «Sei stranamente edotta sul nostro futuro» notò Flint. «Da dove hai detto che vieni?».

   «Non l’ho detto» rispose Jaylah. «Ma io e i miei colleghi diamo abbastanza nell’occhio su questo pianeta. Non so proprio come faremo a nasconderci».

   «Potrete sempre contare sull’AEV... o ciò che ne rimane» disse il Generale, sebbene il futuro lo preoccupasse. Non aveva una stima dei danni del bombardamento atomico, ma era certo che fossero immani. E la guerra non era affatto finita. Li aspettavano tempi duri.

   «Grazie» disse Jaylah, tornando a fissarlo. In qualche modo, la mezza Andoriana riuscì a sorridere. Sarà stato che Flint in quel momento le ricordava un po’ suo padre, l’Ammiraglio Chase.

   «Come va la mano?» chiese il Generale, accennando alla fasciatura.

   «Guarirà. Io guarisco molto in fretta» lo rassicurò l’Agente Temporale.

   «Uhm...» mormorò Flint, osservandola attentamente. «Sai che più ti guardo e più ho la sensazione di averti già incontrata? Prima di tutto questo, intendo. Prima di New York».

   «Impossibile» disse Jaylah. «È la prima volta che visito questo pianeta» mentì.

   «Eppure giurerei di averti già vista» insisté il Generale, continuando a studiarla. «Ma è stato molto tempo fa».

   «Dove vuole arrivare?» chiese la mezza Andoriana, stupita da quell’atteggiamento.

   «Ci sono!» esclamò Flint, schioccando le dita. «Firenze, 1480. Ti sei aggirata per giorni intorno alla mia bottega, facendo strane domande su tipi alti e ammantati di nero. Con la pestilenza in corso, alcuni ti avevano presa per un’untrice».

   «Ma che sta dicendo?!» trasecolò Jaylah. «È stato secoli fa... nessuno di noi era ancora nato!».

   «Davvero?» chiese l’uomo, fissandola con sguardo profondissimo. «Sai perché mi chiamano l’Immortale? Non è solo un nomignolo dovuto alla vita pericolosa che ho fatto nelle ultime decadi. Beh, molti credono che sia per quello. Ma alcuni sospettano la verità. Io non sono un uomo come gli altri, figliola» sospirò, tradendo una profonda stanchezza e un’incolmabile solitudine.

   «Quando è nato?» chiese Jaylah in un sussurro.

   «Difficile dirlo... all’epoca calcolavamo gli anni in modo diverso» rispose Flint, abbozzando un sorriso. «Ad ogni cambio di sovrano o di dinastia, era il caos. Ma fatti i dovuti conti, credo d’essere nato nel 3.834 a.C., in Mesopotamia, nella città di Uruk... che all’epoca era l’unica degna di questo nome» disse, lo sguardo perso in quel passato abissale. «Ho visto l’umanità passare dagli utensili di rame agli ordigni atomici e dai carri alle navicelle spaziali. Ho vissuto molte vite... a volte prendendo l’iniziativa e facendomi un nome, in altri casi vivendo come un uomo ordinario. Molte volte ho sperato che l’umanità imboccasse il giusto cammino e altrettante volte sono stato deluso» sospirò. «Dopo le Guerre Eugenetiche, con molti Potenziati ancora in circolazione, decisi che era di nuovo tempo di attivarmi. Così ho fatto carriera nell’AEV, fino a diventarne il capo».

   Detto questo, il Generale si concentrò di nuovo sulla mezza Andoriana. «Ecco, ora conosci il mio segreto... un segreto per il quale, in passato, sono arrivato a uccidere. E tu, proprio non vuoi dirmi il tuo?».

   «No, un momento» disse Jaylah, cercando di raccapezzarsi. «Non mi ha spiegato perché vive così a lungo. Cos’è, un alieno? Un mezzo alieno?».

   «Non che io sappia» rispose Flint con semplicità. «Per molti millenni non ho saputo pensare ad altro che al miracolo o alla maledizione. Ma nell’ultimo secolo, coi progressi della genetica, mi sono fatto l’idea che si tratti di una mutazione casuale. In un certo senso sono un Potenziato anch’io. So quanto può dare alla testa l’idea di essere un individuo superiore. Perciò mi sono opposto ai Potenziati usciti da quest’isola».

   Jaylah cercò di digerire l’incredibile rivelazione. «Quindi come devo chiamarla? Qual è il suo vero nome?» chiese.

   «Oh, erano secoli che non ci pensavo!» disse il Generale, frugando nella memoria. «Ziusudra, così mi chiamavano gli altri Sumeri. «Gli Akkadi mi chiamarono Atrahasis, i Babilonesi Utnapishtim. In seguito portai a lungo il nome Matusalemme. Ma tu puoi chiamarmi Flint».

   «D’accordo... Flint» disse la mezza Andoriana. «Supponiamo che tu mi abbia davvero vista a Firenze nel 1480. Che cosa penseresti di me?».

   «Che la tua specie è molto longeva» rispose il Generale. «Oppure che vivi in modo non lineare. Non mi è sfuggita la tua strana conoscenza del futuro... a volte superiore a quella del presente. Sbaglio a pensare che la tua vigilanza si estende al tempo, oltre che allo spazio? Ciò potrebbe anche spiegare come mai sei mezza umana e mezza aliena. È questo il nostro destino?».

   L’Agente Temporale stava per negare, ma si rese conto che ormai era inutile. «Sì, l’umanità è destinata a questo» confermò. «Ma l’avverto... è un segreto per il quale anch’io sono pronta a uccidere».

   «Allora lo terrò per me» promise Flint. «Sono bravo a custodire i segreti... sapessi quanti me ne sono stati affidati! Dimmi solo una cosa: nel tuo tempo io sono ancora vivo?».

   Jaylah frugò nella memoria, ma non ricordò di aver mai sentito parlare di un Umano con la prerogativa di Flint. «Se lei esiste ancora, si nasconde» disse. «La Galassia è grande... forse ha trovato un angolo tutto suo».

   «O forse la morte ha raggiunto anche me» ipotizzò il Generale, massaggiandosi il polso indolenzito. «Non addolorarti, figliola. Quando si sono vissute così tante vite, non si può temere seriamente la fine. Sarà un lieto riposo, dopo tanta veglia» disse con filosofia. «E tu? Avrai avuto molti volti e molti nomi, nelle tue missioni».

   «Beh, sì» ammise l’Agente Temporale, confortata da quella chiacchierata. «Sapevo che poteva esserci un incidente, tale da bloccarmi nel passato. Almeno ho visto tante meraviglie, prima che accadesse» disse, persa nei ricordi. «Rammento bene Firenze... ero nel mezzo di una missione contro degli alieni parassitici, che ho stanato in seguito. Era il 1480, sì. Lorenzo il Magnifico era diventato l’ago della bilancia della politica italiana e aveva raccolto attorno a sé i più grandi artisti, letterati e filosofi dell’epoca. Leon Battista Alberti aveva da poco terminato la facciata di Santa Maria Novella. Il Verrocchio stava fondendo il suo bronzo equestre sotto gli occhi del giovane Leonardo. Botticelli, Ghirlandaio, Perugino erano tutti lì, a pochi isolati di distanza, a sfornare un capolavoro dopo l’altro. Poliziano riscopriva e commentava i testi classici presso lo Studio Fiorentino. Era incredibile aggirarsi tra quelle persone... era bellissimo» disse, con gli occhi lucidi di commozione.

   «Ma è finito... tutto finito. Non tornerò più dai miei cari» aggiunse Jaylah, cominciando a piangere. «Non so nemmeno se i miei sforzi siano bastati ad aggiustare la Storia. Forse è stato tutto vano... forse i Na’kuhl avranno quello che vogliono e la Galassia brucerà». Il pianto si trasformò in un singhiozzo dirotto.

   Vedendola in quello stato Flint non disse nulla, ma la cinse paternamente con un braccio e lasciò che si sfogasse contro il suo petto. Aveva visto molti dolori, nella sua lunga vita, e riconosceva quelli davvero strazianti. Per qualche minuto restarono così, mentre più in basso la battaglia era finita e i soldati dell’AEV si assicuravano di avere il pieno controllo della base.

 

   «Bzzzz... Chase, rispondi. Frshhhh... Jaylah, mi senti?». Il fruscio elettronico veniva dal comunicatore, frammisto a una voce femminile. Poco alla volta le interferenze diminuirono, permettendo di distinguere più chiaramente le parole.

   «Sono i tuoi colleghi?» chiese Flint.

   «Non la mia squadra» mormorò Jaylah, rialzando il capo. «Si direbbe...». Non voleva concedersi la speranza, prima di esserne certa, perché un’altra delusione sarebbe stata troppo.

   «Per lo spazio, Jaylah, rispondi! Qui è il finimondo!» strillò la voce inconfondibile di Zafreen. L’Orioniana diventava un po’ stridula, quando aveva paura, ma in quel momento la sua voce era una musica celestiale per la mezza Andoriana.

   «Qui Chase, vi sento forte e chiaro!» esclamò Jaylah, premendosi il comunicatore con la mano sana. «Dove siete stati tutto questo tempo?! Non importa... dove siete, ora?».

   «Jaylah! Lo sapevo che non bastava qualche esplosione nucleare per fermarti!» gioì Zafreen. «Siamo nello spazio, no? Veniamo a rotta di collo verso la Terra, ma il Reaper ci sta alle calcagna. Per adesso lo abbiamo distanziato un po’. Tu e gli Agenti preparatevi al teletrasporto. Vi prendiamo su appena entrate nel raggio utile».

   «No, aspettate!» gridò la mezza Andoriana, scattando in piedi. «Dovete prendere anche i tre che si trovano nel centro di comando di questa base. Mi hanno detto che li avete persi per strada». Cercò di asciugarsi le lacrime, ma si accorse che ne stava versando altre, stavolta di gioia.

   «Come? Okay, ci fidiamo» tagliò corto l’Orioniana. «Per prendervi dovremo abbassare gli scudi, esponendoci al Reaper. Speriamo di averlo distanziato abbastanza. Quell’obbrobrio ci sta dando grossi problemi. Keter, chiudo».

   «Buone notizie, eh?» commentò Flint, alzandosi a sua volta. «La tua nave è arrivata, torni a casa. Mi spiace solo di non poter incontrare i tuoi colleghi. Certo che quella al comunicatore non sembra molto professionale!» notò.

   «Lei è Zafreen... è fatta così» spiegò Jaylah, raggiante di gioia. «In realtà la nostra missione non è finita. Dobbiamo affrontare i Na’kuhl, i responsabili di tutto questo» spiegò, tornando serissima.

   «Allora buona fortuna, Agente Chase» disse Flint, porgendole la mano. «Può darsi che non ci rivedremo, ma ti ricorderò. E manterrò il tuo segreto» promise.

   «Grazie, lo stesso vale per me» disse Jaylah, ricambiando la stretta. «Ma c’è ancora una cosa che devo sapere. Chase a Hod, che ne è del Colonnello Green?» chiese, premendosi di nuovo il comunicatore.

   «Dopo aver ottenuto la sua collaborazione, l’ho lasciato andare» rispose il Capitano. «So che è riprovevole, ma dobbiamo rimettere la Storia nei binari».

   «Capisco... v’informo che la Keter sta arrivando. Preparatevi al teletrasporto» disse Jaylah, con l’aria di chi sta macchinando qualcosa. «Chase, chiudo».

   «Cos’è quell’espressione?» chiese Flint.

   La mezza Andoriana ripassò mentalmente la Storia terrestre. Green era destinato a farsi dittatore del nord-ovest americano per qualche anno. Ma il suo regno di terrore si sarebbe concluso nel Montana, alla vigilia del Primo Contatto con i Vulcaniani. «Generale, ha sentito che Green è sopravvissuto» disse.

   «Perché il tuo Capitano l’ha lasciato andare, sì» borbottò Flint, contrariato.

   «Provocherà ancora molti lutti, ma infine sarà sconfitto» disse Jaylah, parlando in fretta. Il teletrasporto poteva prelevarla in ogni momento e lei doveva finire il discorso. «Mi ascolti attentamente. A dieci anni da ora, nel Montana, accadrà qualcosa di fondamentale per l’umanità. L’inizio di una nuova era» rivelò, pensando al viaggio di Cochrane e al Primo Contatto. «Per allora, bisogna che il Colonnello Green esca di scena. Definitivamente» chiarì.

   «D’accordo, me ne occuperò io» s’impegnò il Generale. «Dieci anni sono niente, per me. Anche se ci attendono tempi duri, cercherò di tenere in piedi l’AEV fino a quella data. Green non avrà parte in... quel che deve accadere».

   «Grazie infinite» disse Jaylah, sentendo che poteva fidarsi della sua parola. «Addio!» esclamò, mentre il teletrasporto l’avvolgeva. L’attimo dopo Flint era solo. L’uomo scosse la testa, stentando a credere all’accaduto. Di una cosa però era certo: l’Agente Temporale gli sarebbe mancata. Si augurò che, ovunque andasse, riuscisse a cavarsela.

   «Signore, l’area è bonificata!» lo avvertì un soldato, dal fondo della caverna. «Purtroppo Green ci è sfuggito. Dev’essere scappato col suo elicottero, che purtroppo è più veloce dei nostri. Non lo prenderemo».

   «Lo prenderemo... prima o poi» disse il Generale, affacciandosi alla balaustra. «Di questo non ho dubbi. Ora piazziamo gli esplosivi. Voglio che di questo posto non resti neanche la recinzione».

 

   Quando ricomparve sulla plancia della Keter e vide i colleghi attorno a lei, Jaylah si sentì finalmente a casa. Sapendo che il tempo era prezioso liberò subito la pedana, assieme agli altri Agenti Temporali. La plancia mostrava i segni di grossi danni. Quelli risalenti al primo scontro col Reaper erano stati riparati, anche se qua e là restavano crepe e chiazze nere. Gli altri erano il risultato della battaglia in corso. La situazione restava seria, ma essersi ritrovati era già molto.

   «Bentornati, Agenti» li accolse Radek, seduto sulla poltrona del Capitano. «Mi spiace che siate rimasti così in pochi. Cos’è accaduto?». Dei diciassette Agenti partiti con l’Excalibur, infatti, ne erano rimasti solo cinque, compresa Jaylah.

   «Sarebbe troppo lungo da spiegare» disse la mezza Andoriana. «Anch’io ho molte domande, ma... forse è meglio che ve le faccia il Capitano». Così dicendo accennò alla pedana, dove si stavano materializzando altre tre figure.

   «Voi?!» fece Radek, sbigottito. Il Rigeliano lasciò la poltrona del Capitano come se fosse divenuta incandescente. Perché sulla pedana c’erano Hod, Vrel e Lyra. Erano tutti sporchi in viso, con i capelli scarmigliati e gli abiti logori. Ma avevano lo sguardo di chi è sceso agli inferi ed è tornato per raccontarlo. Il Capitano Hod, in particolare, sembrava cambiata. Una nuova sicurezza le scintillava negli occhi. Lasciò la pedana e venne verso Radek, camminando in gravità standard senza l’esoscheletro di sostegno.

   «Vedo che mi ha tenuto in caldo la poltrona» esordì, suscitando sguardi maliziosi da parte degli ufficiali che non avevano gradito le iniziative del Rigeliano. «Rapporto, Comandante!» ordinò, riprendendo il suo posto.

   «Io... ehm... non rilevando i vostri segni vitali, ho presunto che foste morti nello schianto» si giustificò Radek. «La Keter era minacciata da molti nemici, per cui l’ho portata nel passato, per soccorrere gli Agenti Temporali» disse, osservando di sottecchi Norrin, il più strenuo oppositore di quella scelta.

   «Va bene. Ha agito in modo logico, anteponendo la missione» lo perdonò Hod. «Come va col Reaper?».

   «C’insegue, Capitano» ammise il Comandante. «L’abbiamo colpito con navette piene di siluri, ma non è bastato a neutralizzarlo». Mentre parlava la Keter sussultò, colpita dal raggio disgregante.

   «Vrel, prenda il timone» ordinò il Capitano.

   «Ne è sicura?» chiese il mezzo Xindi, memore della sconfitta subita l’ultima volta.

   «Assolutamente» confermò Hod.

   «Lo siamo tutti» disse Lyra, sorridendogli incoraggiante.

   Rincuorato dalle manifestazioni di fiducia, Vrel prese il timone, subentrando al collega. Si scrocchiò le dita e si mise all’opera, manovrando l’interfaccia tattile con la rapidità e l’esperienza di un pianista.

   «Devo chiederle di lasciare la plancia, Lyra» disse il Capitano. «Anche lei, Jaylah: vada a farsi medicare» aggiunse, notando che aveva la mano sinistra avvolta in un panno zuppo di sangue.

   «Un momento!» disse l’Agente Temporale, notando la Terra che s’ingrandiva sullo schermo. I continenti erano offuscati dalle polveri radioattive, una scena orrenda. Presto la cappa grigia avrebbe avvolto l’intero pianeta, facendolo sprofondare nell’inverno nucleare. «Non siamo riusciti a nascondere le nostre tracce» spiegò. «Nell’Isola Crisalide i Potenziati hanno accumulato armi e tecnologie aliene, molte delle quali vengono dai Na’kuhl. Ci sono anche i nostri compagni caduti e campioni del mio DNA. Dobbiamo distruggere tutto, prima di andarcene».

   «Posso colpire l’isola con un siluro» propose Norrin.

   «Forse non ce ne sarà bisogno» avvertì Zafreen, leggendo il rapporto dei sensori. «Guarda cos’è in arrivo!».

   Jaylah affiancò l’Orioniana e vide di che si trattava. «Oh, perfetto» mormorò. «Capitano, ci sono molti uomini dell’AEV sull’isola. Credo che abbiano ancora un ruolo da svolgere nei prossimi anni, quindi le chiedo di salvarli. Suggerisco il protocollo lambda per evitare contaminazioni temporali. Trasportiamoli direttamente sul loro sottomarino, che si trova nelle vicinanze. Vi prego!» implorò, rivolta a tutti gli ufficiali.

   «Non dovremmo...» cominciò Radek, con poca convinzione, ma vedendo l’ostilità dei colleghi non finì nemmeno la frase. Con quello che era appena successo, non era in condizione d’imporre il suo punto di vista.

   «Mi fido del suo fiuto, Agente» disse il Capitano, tamburellando sul bracciolo della poltroncina. «Abbassate gli scudi, teletrasporto diretto».

   «Ah, un’ultima cosa» disse Jaylah. «Prima di gettare l’Excalibur in battaglia, ho lasciato l’arma de-cristallizzante sul sottomarino dell’AEV. Dobbiamo recuperarla».

   «Trovata» disse l’addetto, dopo aver fatto una scansione. «La prelevo subito». Ci fu un ronzio e l’arma apparve sulla pedana. Jaylah la prese, accertandosi che fosse in ordine. Non aveva scordato la promessa fatta al Comandante Ho’kuun.

 

   I soldati dell’AEV stavano ancora piazzando le cariche esplosive quando avvertirono una strana sensazione, mai provata prima. Si videro avvolti da bagliori azzurri e per un attimo parve loro di trovarsi in due posti simultaneamente. Finito lo spaesamento, scoprirono d’essere sul loro sottomarino, a parecchi chilometri dall’isola. Nessuno aveva idea di come ci fossero finiti, salvo Flint, che aveva già provato quell’esperienza.

   «Signore... non può essere!» disse un sergente, esprimendo lo sconcerto generale. «Un attimo fa eravamo sull’isola. Ci hanno narcotizzati?!».

   «Non penso» disse il Generale, accomodandosi sulla poltroncina di comando. «Però credo che qualcuno ci abbia voluto levare il prima possibile da lì. Sarebbe incauto tornarci».

   «E le cariche?» chiese il Sergente.

   «Qualcosa mi dice che non serviranno» rispose Flint, osservando l’isola sullo schermo. «Okay, avete nuovi ordini. Rotta a nord-est, verso la costa americana. Andiamo in immersione, massima velocità. E aprite un canale con gli elicotteri». Fatto questo, il Generale ordinò anche ai piloti di ritirarsi.

   I cinque elicotteri dell’AEV scampati alla battaglia si diressero verso il mare aperto. Intanto anche il sottomarino, sceso in immersione, si allontanava a tutta velocità. Un rapido conteggio dei presenti indicò che, tra i superstiti, nessuno era stato lasciato indietro.

   «Che cosa scriveremo nei nostri rapporti?» chiese il Sergente.

   «Non scriverete proprio nulla» lo ammonì Flint. «Questi eventi non hanno mai avuto luogo».

   «Ma... era la nostra ragion d’essere, no?» obiettò il sottoposto, accennando allo stemma dell’AEV sulla parete. «Sconfiggere i Potenziati. E ora ce l’abbiamo fatta. Si erano radunati sulla loro isola e noi li abbiamo spazzati via. Questo chiude la storia, giusto?».

   «Lo spero, Sergente Reed» disse il Generale, intrecciando le dita. «Lo spero proprio tanto».

 

   «Quelli dell’AEV sono in salvo» riferì Zafreen, leggendo i segni vitali.

   «Scudi riattivati» disse Norrin. Appena in tempo: la Keter sussultò per un altro colpo. «Capitano, gli scudi sono al 20%. Ci serve un’idea».

   «Allontaniamoci dalla Terra» ordinò Hod. «Rotta verso la fascia degli asteroidi, massimo impulso».

   «Rotta inserita» confermò Vrel. La Keter eseguì un’inversione a U, sfuggendo di poco a un altro raggio disgregante. Passò accanto al Reaper, che la inseguiva, e sfrecciò verso l’esterno del sistema solare. La nave di Vosk eseguì la stessa manovra e le tenne dietro. Negli ultimi minuti, quando si era avvicinata alla Terra per usare il teletrasporto, la Keter aveva dovuto ridurre la velocità e questo aveva permesso al Reaper di accorciare le distanze. Ora i Na’kuhl tallonavano i federali, decisi a non farseli più scappare.

   «Vada in infermeria, Jaylah» ribadì il Capitano. «Anche lei, Lyra. Il vostro compito è terminato».

   La solita curiosità della cronista la tratteneva, ma l’Agente le fece segno di seguirla nel turboascensore. Avevano fatto tutto il possibile; adesso toccava agli ufficiali di plancia. Data un’ultima occhiata al fratello, seduto al timone, Lyra seguì Jaylah nell’ascensore. «Ce la faranno, vero?» chiese, preoccupata dalle condizioni della nave.

   «Devono farcela» rispose la mezza Andoriana. «Se è vero che hanno sacrificato le navette per indebolire il Reaper, significa che in caso di sconfitta non potremo abbandonare la nave».

 

   Sulla sua plancia, Vosk non perdeva un solo istante dello scontro. L’addetto ai sensori lo informò della situazione sulla Terra, sia nell’Isola Crisalide che nel resto del pianeta.

   «Dunque Green e i Potenziati sono stati sconfitti» comprese il Leader Supremo. «Davvero deludente. È chiaro che la Storia terrestre non accetta di farsi imbrigliare. Ci serve una soluzione più drastica. Come procede col Tox Uthat?» chiese agli scienziati.

   «L’interfaccia è quasi completa» assicurò Kravik.

   «La completi subito, allora» ordinò Vosk. «Sono impaziente di annientare questo molesto pianeta».

   «E come ci regoliamo col dottor Smirnov?» chiese lo scienziato.

   «La sua consulenza storica non è più richiesta» rispose il Leader Supremo.

   «Quindi lo eliminiamo?» domandò Ghrath, impaziente.

   «Uhm... non ancora» rimuginò Vosk. «Potrebbe tornarci utile come merce di scambio, se avessimo problemi con la Keter. Ma è vostro dovere far sì che questa necessità non si presenti. Quella nave ci ha resistito fin troppo. Voglio che sia distrutta quanto prima».

   «Sarà fatto, Leader Supremo» dissero in coro gli ufficiali. Il Reaper proseguì l’inseguimento, sparando a tutto spiano contro la nave fuggiasca. Intanto, nel suo laboratorio più riposto, Kravik si apprestava a ultimare l’interfaccia che gli avrebbe permesso di usare l’Uthat. Tutto era pronto per l’ultimo atto.

 

   Dopo le esplosioni e gli spari, sull’Isola Crisalide era sceso il silenzio. Nella giungla, sulle pendici del vulcano e soprattutto all’interno della base giacevano i corpi dei caduti. Alcuni di loro erano ancora avvinghiati nell’ultima lotta. Nella grande caverna, dove si era consumato lo scontro finale, il suolo era ingombro di cadaveri. I crateri costellavano le pareti rocciose, dove i disgregatori Na’kuhl avevano colpito, e i ponteggi erano parzialmente crollati. Il sole, ormai alto, entrava a fiotti dall’imboccatura del vulcano, gettando una luce vivida su quella scena truculenta.

   D’un tratto ci fu un suono. Un respiro affannoso, seguito da altri. Kamala Singh aprì gli occhi e si sollevò sui gomiti. Una fitta lancinante al ventre la costrinse a fermarsi. Rammentando di essere stata pugnalata, la Potenziata si osservò. Aveva perso una quantità impressionante di sangue: i suoi abiti erano zuppi e a terra si allargava una macchia raggrumata. Eppure era ancora viva. Merito del suo organismo superiore... e delle nanosonde di Jaylah. Quelle fantastiche macchinette avevano rimarginato la ferita, anche se le restava un dolore sordo e pulsante.

   Con grande lentezza, facendo un movimento alla volta, Kamala si alzò in ginocchio e infine tornò in piedi. Subito ebbe un giramento di testa, che la costrinse a poggiarsi alla balaustra. La Potenziata tremò da capo a piedi e fu sul punto di accasciarsi nuovamente. Ma raccogliendo tutta la forza di volontà riuscì a sorreggersi. Poco alla volta la testa smise di girarle. «Sto bene... sono viva» si disse. L’umiliazione della sconfitta le bruciava, ma l’importante era sopravvivere.

   Ora che si sentiva meglio, Kamala osservò la caverna. C’era un gran numero di corpi, ma nessun soldato in vita. Tendendo l’orecchio, non sentì alcun suono in lontananza. Quel silenzio spettrale la inquietava più che se fossero risuonati ancora gli spari. «Per quanto sono stata priva di sensi? E cos’è successo nel frattempo?!» si chiese, sempre più ansiosa. Alla prima domanda era facile rispondere: secondo l’orologio da polso era trascorsa meno di mezz’ora. Quello che non si spiegava era la scomparsa dei vincitori. Anche supponendo che l’avessero creduta morta, perché si erano ritirati?

   La risposta le balenò in mente: forse avevano piazzato delle cariche esplosive per demolire la base. Di sicuro volevano distruggere i laboratori di ricerca genetica. Ma forse avevano piazzato le cariche anche in altri ambienti, inclusa la caverna. Il terrore l’attanagliò: doveva fuggire subito! Ma le scale che portavano in basso erano crollate. Non restava che salire in cima al vulcano, dove l’attendeva l’elicottero di Green. Il mezzo perfetto per scappare.

   Passo dopo passo, mugolando per il dolore, Kamala risalì i ponteggi. In alcuni momenti dovette fermarsi, ansante, ma col passare dei minuti riuscì a mantenere un’andatura più regolare. Finalmente giunse in cima al vulcano, dove la vista spaziava sull’isola e sull’oceano sconfinato. I mezzi dell’AEV non erano in vista. La Potenziata cercò affannosamente l’elicottero di Green... e non lo trovò. C’era lo spiazzo, ma dell’elicottero nessuna traccia. In mezzo all’erba alta, però, giaceva qualcosa. Kamala si avvicinò col cuore in gola. Come temeva, era il cadavere del pilota. Qualcuno gli aveva sparato in fronte, un tiro molto preciso. Il tiro che poteva aspettarsi da Philip.

   «Sì... è nel suo stile fuggire e lasciarmi qui!» si disse, aggirandosi rabbiosa e impotente. Con l’elicottero stealth fuori portata e gli altri velivoli distrutti dall’AEV, lasciare l’isola diventava un problema. Però non doveva disperarsi. C’erano abbondanti scorte d’acqua e viveri nei sotterranei. E apparecchi radio per chiamare aiuto sulle frequenze militari dell’ECON. No... tutto considerato non era in trappola. Forse le conveniva aspettare un po’, mentre le polveri radioattive si depositavano, ma poi sarebbe tornata sul continente. Non aveva ancora perso la speranza di soppiantare Kuan, ponendosi a capo dell’ECON. E sebbene l’AEV avesse ucciso quasi tutti i Potenziati che conosceva, privandola dei suoi migliori collaboratori, su quell’isola erano rimaste così tante tecnologie aliene da darle un netto vantaggio sulle altre nazioni.

   A questo punto delle sue riflessioni, Kamala notò un puntino che ingrandiva all’orizzonte, proveniente da nord. Un elicottero? No, era troppo veloce e si lasciava dietro la scia. Un jet, magari? Nemmeno; era troppo compatto. Aveva forma... a missile.

   Con un tuffo al cuore, la Potenziata si rese conto che era proprio un missile. ICBM era il termine tecnico: Intercontinental Ballistic Missile. Il genere di vettore che trasportava le testate nucleari. Ne erano stati lanciati a decine quel giorno, ciascuno col suo carico di morte. Avevano colpito l’America, l’Europa, l’Asia, l’Africa... qualcuno anche l’Oceania. E a quanto pareva, un missile era stato diretto verso l’Isola Crisalide. Kamala non sapeva neanche da quale dei due schieramenti venisse, ma non le importava. Qualche militare pignolo, memore delle Guerre Eugenetiche, aveva approfittato dell’Apocalisse nucleare per accertarsi che l’isola fosse distrutta una volta per tutte. Qualcosa che lei non aveva considerato, nel suo piano così ben congegnato.

   Dalla velocità con cui il missile si avvicinava, la Potenziata valutò che le restassero un paio di minuti. Troppo poco per cercare riparo. Adesso capiva perché l’AEV se n’era andato così in fretta. Era la fine... nessuna nanosonda l’avrebbe salvata da parecchi megatoni di potenza nucleare. I suoi piani di vendetta e le sue ambizioni politiche s’infrangevano lì, dove il sogno dei Potenziati era cominciato novant’anni prima. Qualcuno l’avrebbe chiamata giustizia poetica.

   Per un attimo Kamala si chiese se quel misterioso alieno che li aveva riforniti d’armi, Vosk, l’avrebbe salvata. Scartò subito l’idea. Vosk non aveva l’aria di perdonare gli errori, e lei lo aveva appena deluso. L’avrebbe abbandonata al suo destino... come lei aveva sempre fatto con i servitori inadempienti e gli alleati non più utili.

   Il missile nucleare era sempre più vicino. Mancavano pochi secondi. Kamala chiuse gli occhi, preparandosi alla morte. Come suo nonno Khan, anche lei aveva fallito. Ma almeno non era fuggita. Nella sua breve carriera, aveva lasciato un marchio indelebile sul mondo. Milioni di morti... distruzioni incalcolabili... quella era la sua eredità. Ma forse Jaylah aveva ragione e l’umanità si sarebbe rialzata, migliore di prima. Si augurò che fosse vero.

   In quella il missile colpì il fianco del vulcano, poco sotto di lei. Era una bomba all’idrogeno da trenta megatoni, uno degli ordigni più potenti esplosi in quel giorno luttuoso. La montagna fu abbattuta e tutta l’isola sprofondò nell’oceano ribollente. Un immenso fungo atomico s’innalzò fino alla stratosfera, più abbagliante del sole. L’onda di maremoto si allargò come un muro d’acqua, scuotendo anche il sottomarino dell’AEV che si allontanava. L’Isola Crisalide fu annientata con tutti i suoi segreti: i laboratori di ricerca genetica, i controlli dei satelliti EMP, le armi e i resti alieni. Tutto si dissolse nel plasma surriscaldato a milioni di gradi.

   In un giorno normale, quell’esplosione non sarebbe passata inosservata alle varie nazioni. Ma quello non era un giorno come gli altri. Decine di esplosioni simili avevano flagellato il mondo; i governi e la comunità scientifica avevano ben altro a cui pensare. Era la fine di un’epoca. Era il Giorno dell’Orrore.

 

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Capitolo 14
*** All'ultimo sangue ***


-Capitolo 13: All’ultimo sangue
 
   Inseguita dal Reaper che sparava a tutto spiano, la Keter si addentrò nella fascia degli asteroidi. Lì, tra Marte e Giove, gli avanzi della nebulosa primordiale non si erano mai conglomerati in un unico pianeta, ma continuavano a sfrecciare nell’oscurità. Alcuni non erano che sassolini, ma altri – come Cerere – raggiungevano la stazza di pianeti nani. Attraversare la fascia era sempre stato pericoloso per le astronavi. Anche la Keter e il Reaper, con i loro scafi quasi invulnerabili, rischiavano grosso. Le corazze esterne potevano sopportare un impatto ad alta velocità, ma gli occupanti si sarebbero spappolati contro le pareti per la brusca frenata.
   Le astronavi zigzagarono fra asteroidi d’ogni forma e misura, colpendosi selvaggiamente. Più ancora degli armamenti, a fare la differenza era l’abilità dei piloti, che dovevano evitare il maggior numero possibile di colpi nemici e d’impatti asteroidali. Per sopravvivere agli impatti bisognava uniformare la velocità a quella degli asteroidi, cosa difficile da fare in una manciata di secondi.
   Sulla plancia della Keter, Vrel era interamente assorbito dal suo incarico. Le telemetrie dei sensori arrivavano direttamente alla sua postazione, così che potesse scegliere subito a quali asteroidi avvicinarsi per le sue manovre. Norrin e gli altri ufficiali conducevano quindi lo scontro in base alle decisioni di Vrel, colpendo il Reaper nei momenti utili e ricaricando gli scudi quando una roccia si frapponeva. Era un’ulteriore responsabilità per il timoniere, che doveva pianificare i prossimi minuti di battaglia. Certo, il Capitano e gli altri davano istruzioni, se avevano qualche idea; ma nella maggior parte dei casi era lui a decidere. Era un compito arduo, ma il mezzo Xindi era il più qualificato a svolgerlo. Per quattro anni aveva pilotato la Keter, conducendola nei luoghi più ostili. Nessuno meglio di lui conosceva ciò che l’astronave poteva fare, il modo in cui rispondeva ai comandi, i sottili segni premonitori che sconsigliavano una manovra.
   Con tutto questo, il Reaper restava un osso duro. Più volte la nave di Vosk vanificò le manovre di Vrel, con imprevisti cambi di rotta e brusche accelerazioni o frenate. Ma ancora più spesso fu Vrel a sorprendere gli avversari con le sue evoluzioni, colpendoli per poi nascondersi dietro qualche asteroide. L’arma primaria del Reaper era il raggio disgregante, che colpiva in linea retta: una volta azionato non poteva inseguire la Keter dietro gli ostacoli. La nave federale invece non aveva problemi a lanciare siluri teleguidati anche mentre era nascosta. Con il protrarsi dello scontro, questo vantaggio divenne sempre più evidente.
   Quando la Keter si nascose per l’ennesima volta dietro un grosso asteroide, i Na’kuhl persero la pazienza. Attivato al massimo il disgregatore, frantumarono il corpo celeste. I frammenti avevano appena cominciato a disperdersi che il Reaper vi passò in mezzo. Piombò sulla Keter e la speronò. L’urto fu così violento che la maggior parte degli ufficiali fu scagliata a terra. Lo stesso Vrel cadde giù dal sedile, perdendo il controllo del timone. In pochi attimi gli spuntoni anteriori del Reaper si curvarono, abbrancando la Keter come chele.
   «Ci hanno afferrati!» strillò Zafreen, mentre gli ufficiali si rialzavano sconvolti.
   «Mossa sbagliata» disse Vrel, balzando di nuovo ai comandi. «Plancia a sala macchine, dirottate tutta l’energia ai propulsori. Scudi, armi... tutta l’energia che c’è!».
   «Fate come dice» ordinò il Capitano, intuendo la sua idea.
   «Sto dirottando l’energia» avvertì Dib. «Propulsori al 150%».
   «Sì, sì!» gridò Vrel, sentendone il ruggito. Il violento rilascio d’energia permise alla Keter di schizzare in avanti, trascinando il Reaper che le stava aggrappato a prua. Il timoniere puntò dritto contro un altro asteroide, che secondo i sensori era in gran parte ferroso. I Na’kuhl cercarono di deviare la rotta con i propulsori laterali, ma Vrel compensò ogni loro tentativo.
   L’impatto fu violentissimo. La Keter sbatté il Reaper contro l’asteroide e poi lo trascinò, sfregandolo contro la superficie irta di asperità. La nave di Vosk si scosse come una cosa viva, cercando di liberarsi, ma la Keter continuò a schiacciarla. La sollecitazione crebbe a tal punto che l’asteroide si spaccò in due. A questo punto il Reaper aprì le chele, sganciandosi finalmente dalla nave federale. I Na’kuhl volevano allontanarsi per organizzare una nuova strategia. Ma non fecero in tempo.
   Sulla Keter, Vrel sorrise cupamente. Il Reaper era proprio dove lo voleva, in mezzo alle due fette dell’asteroide. «Raggio traente, doppio aggancio» ordinò il timoniere. «Facciamo un hamburger». Due raggi traenti scaturirono dalla prua. Agganciarono le masse ferrose – entrambe assai più grosse del Reaper – e le diressero di nuovo in collisione. Solo che stavolta la nave di Vosk stava proprio nel mezzo. Le due metà dell’asteroide si richiusero, serrando il Reaper.
   Approfittando del momento, Vrel spostò la Keter, per toglierla dal campo di tiro del disgregatore nemico. Il raggio traente però continuava a tenere unite le due metà dell’asteroide, intrappolando il Reaper al suo interno.
   «Norrin, prepari una salva di siluri transfasici» ordinò il Capitano. Quei siluri erano i più potenti in dotazione alla Flotta Stellare. Si erano mostrati efficacissimi contro i Borg e quasi tutti gli altri avversari. «Al mio ordine cerchi di colpirgli il disgregatore primario».
   «Sono pronto» disse l’Hirogeno.
   L’asteroide vibrò, come se il mostro al suo interno cercasse di liberarsi. D’un tratto la massa ferrosa fu liquefatta da un colpo di disgregatore. Il metallo fuso schizzò in tutte le direzioni, mentre il Reaper si liberava. Fu allora che i siluri transfasici lo colpirono, proprio sull’emettitore del raggio. L’energia liberata fu così violenta che le navi furono scagliate in direzioni opposte dall’onda d’urto subspaziale. Sulla Keter, gli ufficiali di plancia videro le stelle vorticare prima che Vrel rimettesse la nave in assetto.
   «Dov’è il Reaper?!» chiese Hod.
   «A 5.000 km, in rapido allontanamento» disse Zafreen, inquadrandolo sullo schermo. Il vascello di Vosk era conciato male. I siluri transfasici avevano messo fuori uso il disgregatore e tracciato un grosso squarcio a prua. Ma come al solito la tecnologia dei Na’kuhl si riparava in fretta. La Materia Degenere che componeva lo scafo fluì per riparare la falla. In pochi attimi il Reaper sembrò accomodato.
   «Non fatevi ingannare, è ancora messo male» avvertì l’Orioniana. «Non ha più scudi. Per riparare lo scafo ha perso il 15% della sua massa. E il disgregatore è sempre fuori uso, non possono aggiustarlo così in fretta».
   «É il momento di chiudere la partita» disse il Capitano. «Vrel, gli stia dietro. Norrin, fuoco a volontà!».
   La Keter si lanciò all’inseguimento, martellando il vascello in fuga. Il Reaper aveva ancora qualche disgregatore secondario, ma non li usò nemmeno. Deviata l’energia ad altri sistemi, continuò a fuggire.
   «Hanno anche problemi ai propulsori... vanno a metà impulso» notò Vrel. «Così non possono scapparci».
   «E allora perché ci provano?» chiese Hod, tamburellando inquieta sul bracciolo. «Vosk non è uno stupido. Se sa che non può sfuggirci, qual è il suo piano?».
   «Rilevo una sorgente di radiazioni tachioniche» avvertì Zafreen. «I Na’kuhl le stanno proiettando davanti a loro. Credo che vogliano aprire una breccia temporale!» si allarmò.
   «Certo» mormorò Hod, pallidissima. «Se cambiano epoca, ricomincerà tutto daccapo. Norrin, gli colpisca i propulsori! Vrel, non li molli. Se attraversano la breccia dovremo farlo anche noi, prima che si richiuda».
   Sotto una gragnola di colpi, il Reaper proiettò l’impulso tachionico dal deflettore. Il raggio colpì un punto dello spazio più avanti e lì si arrestò, iniziando a fare breccia. Apparve una distorsione luminosa che crebbe rapidamente, assumendo forma a vortice. Malgrado il fuoco implacabile della Keter, il Reaper procedette sulla sua rotta, riuscendo a mantenere stabile il raggio tachionico. Quest’ultima prodezza era incredibile, considerando che la minima fluttuazione d’energia avrebbe fatto collassare la distorsione.
   Raggiunto il diametro previsto, la breccia temporale si stabilizzò. Subito il Reaper spense il deflettore e deviò tutta l’energia ai propulsori. Sotto lo sguardo sconfortato dei federali, s’infilò dritto nella breccia. Il suo passaggio la destabilizzò, avviando il collasso.
   «Vrel!» gridò il Capitano.
   Il timoniere era così concentrato sui comandi che da un pezzo non sbatteva più gli occhi. Dirottò ogni joule d’energia disponibile ai propulsori. Mirò al centro della breccia, che si riduceva a vista d’occhio. Un secondo di ritardo e questa, chiudendosi, avrebbe tranciato in due la Keter. Era questione di momenti. Con i motori a impulso spinti ben oltre i limiti di sicurezza, l’astronave infilò la breccia temporale, abbandonando il XXI secolo.
 
   L’arrivo fu istantaneo. La Keter uscì dall’anomalia un attimo prima che questa si richiudesse e subito Vrel ridusse la velocità. Consultando i sensori, Zafreen vide quant’erano andati vicini al disastro: 0,47 secondi. Decise di non comunicarlo agli altri. Cercò invece di capire dov’erano. «Siamo ancora nel sistema solare» disse dopo una rapida analisi. «Dev’essere sempre l’epoca pre-federale, perché non rilevo colonie su Marte, né astronavi in transito».
   «Analizzi la Terra per determinare il periodo» ordinò Hod. «Ricordate che i Na’kuhl speravano di seminarci. Non avranno scelto un anno a caso... se sono qui, è per interferire ancora con la Storia» si rivolse a tutti i presenti.
   «Il Reaper va verso la Terra» avvertì Vrel. «Gli sto dietro».
   «E io continuo a colpirlo» aggiunse Norrin, sparando ancora con il cannone a impulso.
   L’inseguimento durò parecchi minuti, con il Reaper sempre sulla difensiva. Poco alla volta la Terra s’ingrandì sullo schermo, anche se i federali ne vedevano solo l’emisfero notturno, dato che venivano dalla direzione opposta al Sole. Sul disco in ombra c’erano segni d’illuminazione artificiale, ma erano pochi. Le uniche città rischiarate elettricamente si trovavano negli Stati Uniti e in Europa.
   «Non rilevo satelliti artificiali» disse Zafreen. «A giudicare dal livello d’inquinamento atmosferico, direi che siamo al principio del XX secolo».
   «Uhm... un altro periodo convulso per gli Umani» ragionò Hod. «Dobbiamo fermare i Na’kuhl prima che scendano in superficie».
   In quella il Reaper si volse per affrontare nuovamente la Keter. Sparò con i disgregatori minori, che però erano ben poca cosa rispetto a quello distrutto.
   «Stia attento, Norrin» raccomandò il Capitano. «Si sono messi con la Terra alle spalle. Se li manchiamo con le armi a raggi, colpiremo il pianeta».
   «Userò solo i siluri» promise l’Ufficiale Tattico. Questi infatti seguivano il bersaglio, e anche se qualcuno l’avesse mancato si poteva farlo esplodere prima che colpisse la Terra.
   Lo scontro proseguì, col Reaper che usava i disgregatori secondari e la Keter costretta a usare solo i siluri. Vrel avrebbe potuto girare attorno alla nave nemica, ma non lo fece, perché così sarebbero stati i Na’kuhl a sparare verso la Terra. In ogni caso lo svantaggio non era grave, dato che i siluri erano le armi più potenti. Il Reaper fu colpito da una raffica dopo l’altra, subendo gravi danni allo scafo. Ogni volta la Materia Degenere fluiva per ripararli, ma in tal modo l’astronave sacrificava la propria massa. Ormai era molto più piccola della Keter e continuava a ridursi. I federali speravano di metterla presto fuori uso, ma si scontrarono con una nuova mossa imprevista.
   «C’è un nuovo aumento di radiazioni dal loro deflettore» avvertì Zafreen. «Questi sono polaroni. Credo li stiano usando come arma!».
   «Plancia a sala macchine. Potete emettere un raggio anti-polaronico dal deflettore?» chiese subito Hod.
   «Tecnicamente sì, anche se coi danni subiti è vivamente sconsigliabile...» rispose Dib.
   «Fatelo» ordinò il Capitano. «Mirate al deflettore nemico. Se lo mandiamo in sovraccarico, distruggeremo il Reaper».
   «E se fossero loro a sovraccaricare il nostro?» chiese Radek, che avrebbe preferito portare la Keter fuori tiro.
   «Attivate i protocolli per isolare il nucleo. Pronti allo spegnimento d’emergenza del deflettore, se andrà in sovraccarico» disse il Capitano, pur sapendo che era una mossa rischiosa.
   «Il raggio nemico cresce d’intensità» avvertì Norrin. «I nostri scudi hanno ceduto».
   «Inizio emissione di anti-polaroni» informò l’Ingegnere Capo. «Cerco di adeguare la potenza a quella avversaria. Dirotto l’energia da tutti i sistemi non essenziali».
   Le due astronavi si fronteggiarono, ciascuna col deflettore a piena potenza che emetteva un raggio di particelle concentrate. Gli impulsi si scontrarono a metà strada. Quando le particelle incontrarono il loro opposto si annichilirono, emettendo grandi quantità d’energia. Una lama di luce bianca parve unire i vascelli. Sottoposti a quello sforzo eccessivo, i deflettori andarono in sovraccarico. Su entrambe le astronavi gli ingegneri fecero di tutto per dissipare l’energia in eccesso, ma a ogni secondo il pericolo aumentava. In certi momenti sembrò che la Keter dovesse andare in pezzi; in altri che fosse il Reaper a soccombere.
   «Dobbiamo scollegare tutto, prima che esploda il deflettore!» esclamò Radek, leggendo la lista dei danni sul suo oloschermo.
   «Il Reaper non sta meglio di noi» obiettò Norrin. «Ogni secondo avvicina la sua fine».
   «Teniamo duro» ordinò il Capitano, sperando che fosse la decisione giusta. Sentiva la nave tremare attorno a sé per lo sforzo. Ma sapeva che il duello col Reaper doveva concludersi lì, prima che i Na’kuhl fuggissero in un’altra epoca. L’unico modo per impedirgli di andarsene era mettere fuori uso la loro griglia energetica. Quindi dovevano vincere quel braccio di ferro.
   Spinte allo stremo, entrambe le navi espulsero plasma rovente dagli ugelli. L’energia fra loro crebbe, fino a provocare un’esplosione che le proiettò in direzioni opposte. La Keter fu scaraventata nello spazio aperto, mentre il Reaper fu scagliato contro la Terra.
   «Rapporto danni!» esclamò Hod, reggendosi alla poltroncina mentre la nave girava come una trottola. Prima che qualcuno potesse risponderle, le consolle e gli oloschermi si disattivarono, impedendo di comandare la nave. Le luci si spensero, tranne pochi faretti d’emergenza.
   «Direi che siamo messi male» borbottò Radek.
   «Sala macchine a plancia, v’informo che il disco del deflettore è bruciato». La voce di Dib giungeva frammista ad allarmi e grida. «Ho interrotto il feed-back energetico prima che giungesse al nucleo, tuttavia la griglia EPS è fusa al 70%. Gli iniettori di plasma sono disattivati e ci sono danni alle gelatine bio-neurali».
   «Ci servono i sensori. Devo sapere cos’è successo al Reaper» disse il Capitano.
   «Per quelli dovrà aspettare cinque giorni, il tempo di riparare il sistema energetico» rispose l’Ingegnere Capo.
   «Oppure cinque minuti, se usiamo i sensori della mia navetta» obiettò Hod. «Non avrà distrutto anche quella, vero?» chiese a Radek.
   «No... sono troppo sentimentale» rispose il Comandante, tra il serio e l’ironico.
 
   La Keter vorticava fuori controllo, allontanandosi dalla Terra. Fortunatamente in mancanza di traffico spaziale non c’erano rischi di collisione. Gli ingegneri attivarono manualmente alcuni propulsori di manovra, per rimetterla in assetto, ma per il momento non poterono fermarla. Tuttavia aprirono l’hangar, permettendo all’Ascension di uscire. Lo yacht del Capitano era una bella navetta cromata, dalle linee affusolate. Aveva pressappoco le dimensioni dell’Excalibur e come la navicella temporale era divisa in tre comparti. Seduto al timone, Vrel la diresse verso la Terra, dato che il Reaper era stato spinto in quella direzione. Accanto a lui sedeva Zafreen, che si occupava dei sensori. Tra i due c’era un silenzio imbarazzato.
   «Sono felice che tu sia tornato» disse a un tratto l’Orioniana. «Quando Radek ci ha costretti a lasciare il sistema Pyris, ho temuto di non rivederti. Mi devi spiegare come avete fatto tu, Lyra e il Capitano a raggiungerci».
   «Ci siamo fatti aprire un portale dai Devidiani» rivelò il timoniere.
   «I Devidiani?! Erano su Pyris?» trasalì Zafreen.
   «Sì, ce n’erano parecchi» confermò Vrel. «Ci hanno attaccati, rubando l’energia neurale del Capitano. Io e Lyra ce la siamo vista brutta, ma alla fine abbiamo recuperato il katra e glielo abbiamo restituito». L’Orioniana lo fissò allibita, ma lui restò concentrato sui comandi e continuò a narrare. «Hod è stata fantastica, ha riparato i motori a impulso della navetta praticamente da sola. Ma anche così non potevamo lasciare il sistema, senza la Keter» aggiunse con una punta di rimprovero.
   «Te lo giuro, io e gli altri abbiamo fatto di tutto per opporci al Comandante» disse Zafreen. «Eravamo a un passo dall’ammutinamento...».
   «Beh, comunque ce la siamo cavata» tagliò corto Vrel. «Il Capitano ha trattato coi Devidiani – credo sia la prima a esserci riuscita – e ha stretto un accordo. Loro ci hanno portati nel luogo e nel momento dell’alterazione temporale. Non chiedermi come lo conoscessero... evidentemente hanno una comprensione del tempo superiore alla nostra. Noi, in cambio, dobbiamo rimettere le cose a posto. Così la Galassia tornerà piena di vita... con cui loro potranno banchettare. Sai, nell’altra linea temporale avevano difficoltà a sfamarsi» disse cupo.
   «Che accordo» rabbrividì l’Orioniana.
   «Già... e dobbiamo ancora fare la nostra parte» disse Vrel, inquadrando il Reaper sullo schermo. La nave di Vosk andava alla deriva, proprio come la Keter. Il problema era che si dirigeva verso la Terra. Aveva già percorso parecchia strada e non c’erano ostacoli che potessero fermarla.
   «Ascension a Keter, rileviamo il Reaper» disse Zafreen. «Sembra inerte, ma va dritto contro la Terra. Considerato l’angolo e la velocità, non credo che entrerà in orbita».
   «Quindi cadrà» disse Radek. «È fatto in gran parte di materia ultradensa... sarebbe una catastrofe. Ci dica dove colpirà e quanto tempo abbiamo per impedirlo». Al suo fianco il Capitano era stranamente silenziosa, come se stesse rimuginando su qualcos’altro.
   «Resti in attesa» disse l’Orioniana. Lei e Vrel inserirono i dati nel computer, ottenendo una simulazione computerizzata che non lasciava dubbi. «Il Reaper precipiterà fra un’ora, nel nord della Cina» riferì Zafreen con un filo di voce. «Ucciderà milioni di persone e cambierà la Storia in modo irreversibile».
   «Dobbiamo impedirlo a ogni costo» disse Radek. «Riuscite a deviarlo col raggio traente?».
   «Gli scafi Na’kuhl sono difficili da agganciare e il raggio dell’Ascension non è molto potente, ma ci provo» disse Vrel.
   «Negativo, non attirate la loro attenzione» disse inaspettatamente Hod.
   «Ma, Capitano!» protestò Radek.
   «C’è una minaccia ancora più grave» avvertì l’Elaysiana. «I Na’kuhl hanno il Tox Uthat, l’ha dimenticato? Ora che sono in avaria, lo useranno per distruggere il sistema solare, se non glielo impediamo. E siccome anche la Keter è fuori uso, non ci resta che abbordarli».
   Ciò detto, il Capitano si rivolse all’Ufficiale Tattico. «Norrin, raduni i suoi e vada sul Reaper. Dividetevi in due squadre. Una recupererà l’Uthat, o altrimenti lo distruggerà. L’altra andrà in plancia e cercherà Vosk. Da lì, inoltre, avrete il controllo del timone. Se il Reaper ha ancora capacità di manovra, deviatelo verso il mare o in un’area disabitata» ordinò. «Visto che il nostro teletrasporto è fuori uso, sfruttate quello dell’Ascension per inviare le squadre».
   «Sì, Capitano» disse Norrin, allertando i suoi ufficiali. «Convoco anche gli Agenti Temporali rimasti: sono gli unici che abbiano già affrontato i Na’kuhl». L’Hirogeno sapeva che gli Agenti erano reduci da un’altra feroce battaglia, ma non vedeva alternative.
   «Norrin ad Ascension, stiamo radunando le squadre. Appena vi diamo l’okay, trasferiteci sul Reaper. Avete sentito il Capitano: un team andrà in plancia...».
   «Non si può, è troppo schermata» avvertì Zafreen. «Però possiamo mandarvi lì vicino».
   «D’accordo» fece Norrin. «L’altra squadra è per l’Uthat, quindi dovete localizzarlo. Cercate la sua traccia quantica».
   «Trovata» disse l’Orioniana, dopo una rapida analisi. «È sempre nella zona centrale della nave. Anche lì c’è troppa schermatura, quindi dovrete camminare un po’».
   «Uhm, tenetevi pronti a trasferirci» disse Norrin, presagendo uno scontro durissimo. «Keter, chiudo».
   «Dannati Na’kuhl» mugugnò Vrel, osservando cupamente il Reaper. «Ogni volta che li mettiamo all’angolo, ne escono più pericolosi di prima».
   «Le nostre squadre li sconfiggeranno una volta per tutte» disse Zafreen, più speranzosa.
   «Speriamo. Sarà un lavoro per il tuo nuovo fidanzato, eh?» fece il timoniere, dandole un’occhiataccia.
   «Parli di Hakon? È morto» rivelò l’Orioniana. Il distacco con cui lo disse era ancor più spiazzante della notizia in sé.
   «Oh, mi... mi dispiace» disse Vrel. In realtà non provava un gran rammarico, ma si disse che doveva mantenere un po’ di rispetto per il collega, a prescindere dalle rivalità personali. «Com’è successo?».
   «È stato mentre la Keter sprofondava in quel gigante gassoso» spiegò Zafreen, emozionandosi al ricordo. «Ero in sala macchine a dare una mano... insomma, ci provavo... quando boom! Il nucleo è esploso. Cioè, non esploso» si corresse, vedendo l’espressione sconcertata di Vrel. «C’è stata una perdita. Di tachioni, o cronotoni, o qualcosa del genere. Particelle, comunque. E io sono svenuta. Al risveglio, indovina un po’? Tutti erano paralizzati! Ma non lo erano sul serio... ero io che andavo velocissima. Milioni di volte più veloce del normale!» esclamò, gesticolando animata. «Sai che non potevo neanche replicarmi un pasto, o farmi la doccia, perché i comandi erano troppo lenti a rispondere? Sono stati giorni schifosi. Per fortuna c’era Dib... le particelle avevano accelerato anche lui. È un tipo simpatico, quando lo conosci. Sapevi che i Penumbrani si riproducono per distillazione? E che lui deve ancora distillare suo figlio?!».
   «Ah, è di questo che avete parlato?» fece Vrel, confuso da quel saltare di palo in frasca. «Senti, potresti arrivare alla parte in cui è morto Hakon?».
   «Sì, sì... a un certo punto è saltato fuori anche lui» riprese Zafreen, parlando velocissima. «Diceva di volerci aiutare, il mascalzone! A riparare la nave e a tornare normali. Invece ci ha attaccati, perché era il traditore. Sì, quello che ha sabotato gli Agenti Temporali su Suliban!» rivelò.
   «Che?!» sobbalzò Vrel. «Quasi mi dispiace che sia morto. Vorrei che fosse vivo, così gli torcerei io il collo!» ringhiò, stringendo convulsamente le mani. «Non ti avrà fatto del male, quel pezzo di dren?».
   «No... cioè, ci ha provato» spiegò Zafreen, mangiandosi le parole per l’emozione. «Ha ucciso Dib, o così credevo, e poi ha cercato di uccidere me. Ma il nostro Ingegnere Capo era ancora vivo! É uscito dalla tuta – eravamo nel metano – diventando una specie di ameba. Ha agguantato Hakon e l’ha scagliato fuori dalla Keter. Così quel traditore è esploso».
   «Così, di punto in bianco?» fece Vrel, sempre più frastornato.
   «Sì!» esclamò l’Orioniana. «Cioè no, è esploso perché stavamo accelerando a velocità luce. E quando le tue particelle si muovono a quella velocità, esplodi. O così dice Dib. Però ha ragione, perché Hakon è esploso. Io e Dib no, perché abbiamo modificato il deflettore per tornare normali. Così eccoci qui. Tutto chiaro?!» domandò, fissandolo con gli occhioni spalancati.
   «Uhm, insomma...» rispose Vrel, grattandosi la testa. «Chiederò a Dib i dettagli tecnici. Per adesso mi basta sapere che tu stai bene, mentre quel marpione ha avuto il fatto suo».
   «Sì, sono di nuovo single» confermò Zafreen, fingendo di concentrarsi sui sensori.
   Vrel la guardò di sbieco, ma non raccolse l’invito. Finché i Na’kuhl avevano l’Uthat non voleva distrarsi. Se fossero riusciti a sconfiggerli, allora avrebbe avuto tempo per pensarci. «Il Reaper entrerà nella ionosfera fra tre quarti d’ora» mormorò, consultando i sensori. «Speriamo che i nostri ragazzi riescano a fermarlo. Non vedo l’ora di tornare a casa... questa missione è durata fin troppo».
 
   Il laboratorio di Kravik era allestito in una delle sale più interne e protette del Reaper, dietro strati di Materia Degenere e sentinelle armate. Si trattava di una vasta sala circolare, ingombra dei più disparati strumenti scientifici. A metà altezza il salone si allargava in un piano rialzato, raggiungibile da scale, in cui si trovavano altre postazioni di lavoro. In quel momento il laboratorio era ingombro di tecnici che andavano su e giù per le scale, apportando le ultime finiture al complesso meccanismo che avevano costruito al centro.
   Il congegno aveva forma a clessidra e arrivava fino al soffitto. Alcuni cavi di alimentazione gli fornivano il supporto energetico di cui aveva bisogno. Al centro della “clessidra”, sospeso a mezz’aria da un campo di forza, c’era il Tox Uthat. Era un cristallo multisfaccettato, simile a un grosso diamante. In condizione di riposo non aveva nulla di eclatante, ma quando i suoi livelli d’energia salivano brillava di luce propria. Creato sul finire del XXVII secolo dallo scienziato federale Kal Dano, l’Uthat era passato più volte di mano, finendo disperso in varie epoche. Molte fazioni della Guerra Temporale avevano cercato d’impadronirsene, ma l’arma era difficile da usare, anche perché Kal Dano era morto, portandosi con sé i suoi segreti.
   «Allora, come procede?» chiese Vosk, entrando nel laboratorio.
   «L’interfaccia è pronta, Leader Supremo» disse Kravik, venendogli incontro. «Posso entrare in contatto con l’Uthat... è una sorta di fusione mentale fra me e il congegno. Ma devo prenderci dimestichezza, prima di usarlo. E serve un’alimentazione costante. Coi danni al sistema energetico, abbiamo difficoltà a mantenerla stabile» spiegò, accennando ai condotti che s’illuminavano a singhiozzo.
   «Niente scuse, Direttore... faccia funzionare quell’arma» ordinò Vosk. «Distrugga il sole terrestre. Avremmo dovuto farlo subito, invece di perdere tempo con gli Umani del passato».
   «Mio signore... se facciamo esplodere il Sole, avremo pochi minuti prima che l’onda d’urto ci raggiunga» si azzardò a dire lo scienziato. «I motori sono fuori uso, non abbiamo scudi e anche l’integrità strutturale è al minimo. Noi, ecco... potremmo non sopravvivere all’urto. Posto di non precipitare prima sulla Terra».
   «Dirottate tutta l’energia disponibile al condotto temporale che abbiamo qui sulla nave» ordinò il Leader Supremo. «Aprite un passaggio per Na’kuhl Primo, nel nostro tempo. Cominciamo subito l’evacuazione».
   «S-sì... ma in tal modo avremo ancora meno energia per l’Uthat» balbettò Kravik, ben sapendo quanta ne serviva per mantenere stabile il condotto.
   «Trovate un punto d’equilibrio. È il vostro lavoro!» sbottò Vosk, infastidito da tutti quei problemi. «Se proprio non fosse possibile... distruggere la Terra ha la priorità rispetto al ritorno. Mi sono spiegato?».
   «Perfettamente, Leader Supremo» disse Kravik, deglutendo nervosamente. Appena il superiore se ne fu andato, lo scienziato si rivolse ai suoi tecnici, che lo osservavano preoccupati. «Avete sentito? Attivate il condotto temporale!» ordinò. «Deviate l’energia dalle armi, dai motori, dal teletrasporto. Anche dal sistema di controllo della Materia Degenere... tanto la nave è perduta. Impostate le coordinate per tornare a casa».
   «Non viene con noi?» chiese un tecnico, sul punto di avviarsi con altri alla sala del condotto.
   «No, resto qui con l’Uthat» disse Kravik, tornando ai controlli dell’interfaccia. «Più lo esamino, più cose apprendo sul mondo subatomico. Kal Dano era un genio, mi dispiace di non averlo mai incontrato. Se c’è qualcuno che può usare la sua arma – che può apprezzare il suo genio – quello sono io. Non permetterò a nessun altro di farlo».
 
   «Cerca di non muoverti» raccomandò la dottoressa Mol, mentre il rigeneratore di tessuti curava la mano ferita di Jaylah. Era un grosso macchinario, pieno di regolatori, e l’Agente doveva tenere la mano dentro una fessura. A bordo la chiamavano scherzosamente “la bocca della verità”.
   «Non basta il rigeneratore dermico?» chiese la mezza Andoriana, infastidita dalla durata della terapia. Anche se gli scossoni erano cessati da un po’, sapeva che la battaglia coi Na’kuhl non era finita. Poco prima c’era stato un grave calo d’energia in tutta la nave, anche se le attrezzature mediche funzionavano ancora, avendo generatori autonomi.
   «Neanche per sogno» rispose la Vidiiana. «La tua ferita non riguarda solo la pelle. Sono stati compromessi i muscoli, i legamenti e le ossa carpali. Quindi, se vuoi recuperare appieno la funzionalità della mano, resta immobile».
   «Norrin ad Agenti Temporali. So che siete reduci da una battaglia durissima, ma devo chiedervi un ultimo sforzo. Stiamo per abbordare il Reaper, prima che i Na’kuhl usino il Tox Uthat per distruggere il sistema solare. Voi li avete già affrontati, quindi il vostro contributo sarà fondamentale. Prendete le armi; il teletrasporto dell’Ascension vi porterà sul luogo, assieme ai colleghi della Sicurezza. Voi sarete col mio gruppo: il nostro obiettivo è l’Uthat. Un secondo team andrà in plancia, per catturare Vosk e deviare l’astronave in caduta».
   Sentendo questi ordini che venivano dal comunicatore, Jaylah scattò in piedi.
   «Dove credi di andare?!» la richiamò Ladya. «Sei ancora in cura. Finché non ti do il permesso, tu non esci dall’infermeria».
   «C’è gente che sta per distruggere il mio pianeta. Capirà se non posso aspettare» disse l’Agente, estraendo la mano dal rigeneratore. Si osservò il palmo: la ferita era scomparsa. Provando a chiudere il pugno, però, sentì ancora dolore. Si accorse che la mano tremava leggermente.
   «Capisco che è inutile insistere» si rassegnò la dottoressa. «Stai molto attenta, laggiù; non ti sei ancora ripresa. E appena torni, vieni subito qui» raccomandò.
   «Promesso» disse Jaylah, infilando la porta.
 
   L’Agente Temporale incontrò i colleghi in armeria, dove si stavano equipaggiando, assieme agli ufficiali tattici. Gli animi erano pesanti; ci si scambiava solo le frasi indispensabili.
   «Ah, eccoti» l’accolse Norrin. «Vuoi una tuta occultante?».
   «No, i Na’kuhl sanno come neutralizzarle» rispose Jaylah, memore di quanto accaduto sull’Isola Crisalide. «E poi devo risparmiare le forze. Sai, riguardo la missione, stavo pensando una cosa...» disse prendendo le armi.
   «Sarebbe?».
   «Il Tox Uthat è già stato in mano a fazioni ostili. Anche se lo recuperiamo, i nostri nemici non smetteranno di bramarlo» spiegò la mezza Andoriana. «Mia madre era con Kal Dano, quando morì. Mi ha detto che il suo ultimo desiderio fu che la Flotta distruggesse l’Uthat, per impedire a chiunque di usarlo. Avremmo dovuto farlo dopo la Battaglia di Procyon V, o non saremmo in questa situazione».
   «Uhm... il Capitano ci ha autorizzati a distruggerlo, se non possiamo recuperarlo» disse Norrin. «L’Uthat è resistente, ma se il Comandante Ho’kuun aveva ragione, questa dovrebbe funzionare». Così dicendo le restituì l’arma de-cristallizzante, simile a un grosso phaser dalle superfici scure e levigate. «L’impugnatura ha una codifica genetica e lui ha autorizzato solo te, prima di morire, quindi tienila. Ricorda che hai solo tre colpi a disposizione».
   «Me li farò bastare» promise la mezza Andoriana, soppesando il congegno. Era molto pesante, un altro problema di cui tener conto. Per il momento lo ripose nello zaino militare e impugnò il phaser. Il pensiero che stava per andare sul Reaper la fece rabbrividire. Il suo ultimo test d’Accademia prevedeva proprio di abbordare la nave di Vosk e fermarla prima che distruggesse la Terra. Ci aveva provato varie volte e infine c’era riuscita, anche se per farlo aveva dovuto sacrificarsi. Ma questa non era una simulazione sul ponte ologrammi, dove tutto era controllato e i protocolli di sicurezza le impedivano di ferirsi. No, questa era la dura realtà, dove non c’erano seconde occasioni. Sul Reaper li attendeva una lotta all’ultimo sangue. E per una delle parti sarebbe stata la fine.
 
   Il Reaper era già nell’orbita bassa e continuava a perdere quota. Le prime molecole atmosferiche, ancora molto rarefatte, ne sfioravano lo scafo nero. Più in basso, il continente asiatico era immerso nell’oscurità, ma stava per giungere l’alba. L’ultima, se i federali non avessero prevalso.
   A piccoli gruppi, gli ufficiali della Sicurezza furono teletrasportati sul vascello nemico. Avevano tutti le armi in pugno ed erano pronti allo scontro. Non potendo trasferirli direttamente in plancia e nel laboratorio, troppo schermati, Vrel e Zafreen li portarono il più vicino possibile.
   La squadra 1, che aveva come obiettivo l’Uthat, fu trasferita per prima. Comandata da Norrin, comprendeva anche i pochi Agenti Temporali rimasti. I federali si trovarono in un corridoio semibuio. Non c’erano avversari in vista e non si udivano neanche allarmi.
   «Sanno che siamo qui» disse Jaylah, guardandosi attorno nella penombra. «Con la loro tecnologia non si fanno sorprendere».
   «L’Uthat è da quella parte» disse Norrin, indicando avanti a sé. L’Hirogeno indossava una tuta corazzata adatta alla sua taglia. I dati raccolti dai sensori erano proiettati all’interno del casco, così che sapesse sempre dove andare. «Muoviamoci. Potrebbero usarlo da un momento all’altro». Corse in avanti, seguito dal resto della squadra, mentre gli Agenti Temporali facevano da retroguardia.
 
   «Squadra 1 sul campo. Inizio trasferimento squadra 2» disse Vrel.
   «Comandante Radek ad Ascension. Guiderò io la squadra 2, quindi mi trasferisca col primo contingente».
   «Agli ordini» confermò Vrel. Si chiese se il Comandante voleva farsi perdonare per quanto fatto in assenza del Capitano. Affrontare i Na’kuhl era un grosso rischio, ma la posta in gioco era più alta che mai. Riflettendo su questo, il timoniere si disse che anche lui poteva dare di più. «Signore, chiedo il permesso di unirmi alla squadra» disse.
   «Come?! No!» gridò Zafreen.
   «Accordato. Si teletrasporti subito dopo di noi» disse Radek, lieto di poter contare su un elemento in più. «Zafreen, lei resti sull’Ascension. A fine missione dovrà riprenderci, prima che il Reaper si schianti».
   «Ricevuto» disse l’Orioniana, con un groppo in gola. «Ascension, chiudo». Si voltò subito verso Vrel, che stava già trasferendo la squadra. «Perché tu? Abbiamo decine di soldati sul campo!».
   «Sono un timoniere. Se vado in plancia, forse riuscirò a deviare il Reaper su una zona disabitata» disse lui, concentrato sui comandi.
   «Devi sempre assumerti le missioni più pericolose, vero?» protestò Zafreen.
   «Un vizio di famiglia» sospirò Vrel. «Starò attento, okay? Ora devo andare. Trasferiscimi tu». Così dicendo si alzò ed estrasse il phaser.
   «Cerca di non farti ammazzare» raccomandò l’Orioniana. Con le mani che tremavano leggermente, attivò il teletrasporto. Il mezzo Xindi svanì nel bagliore azzurro, lasciandola sola sulla navetta. Divorata dall’ansia al pensiero di ciò che andava ad affrontare, Zafreen ricadde sulla poltroncina. «Ascension a Keter, tutti gli ufficiali sono sul campo. Resto in attesa».
 
   Norrin avanzava in testa alla squadra, col fucile phaser spianato. I suoi sensi di Cacciatore erano all’erta, pronti a cogliere la presenza di un avversario. Tuttavia i federali avevano già percorso un lungo tratto e ancora non si vedevano Na’kuhl. «Vogliono indurci a una falsa sicurezza» comprese l’Ufficiale Tattico. «State attenti... ci attaccheranno da un momento all’altro».
   Pochi attimi dopo ci fu del movimento nel corridoio più avanti. La Materia Degenere si sollevò dal pavimento, formando un muro impenetrabile che chiuse il passaggio.
   «Possiamo aggirarlo» suggerì un Guardiamarina, osservando i percorsi alternativi che il computer gli suggeriva dentro il casco.
   «Perderemmo tempo prezioso» obiettò Norrin. «Forse è questo il loro gioco: vogliono farci tardare. Piazzate gli Sfasatori, presto» ordinò a due ufficiali.
   Gli interpellati estrassero i dispositivi dagli zaini e li fissarono alla parete. Erano dei congegni discoidali che mettevano “fuori fase” la materia ordinaria, permettendo di attraversarla. Piazzati come spigoli di una porta, resero la superficie all’interno trasparente come nebbiolina. Norrin v’immerse la punta del fucile, accertandosi che la materia ultradensa fosse divenuta intangibile.
   In quella un folto gruppo di soldati Na’kuhl giunse dal corridoio retrostante e attaccò i federali con precisi colpi di disgregatore. A farne le spese fu la retroguardia; Jaylah vide cadere molti colleghi accanto a sé, inclusi due Agenti Temporali.
   «Dentro, presto!» ordinò Norrin, accennando al passaggio appena aperto. In altre circostanze avrebbe lasciato passare i suoi ufficiali, accertandosi che fossero tutti in salvo prima di attraversare lui stesso. Ma non sapendo se c’erano nemici appostati anche dall’altra parte, passò per primo. Si trovò in un corridoio vuoto. «Okay, campo libero» confermò ai suoi.
   Ma il passaggio creato dagli Sfasatori era stretto e i federali potevano attraversarlo solo uno alla volta. Non volendo fare da bersaglio nel corridoio, alcuni di loro si rifugiarono in una saletta adiacente. Doveva essere una sala controllo, perché era piena di consolle e apparecchi, anche se in quel momento non c’era nessuno. Si appostarono lì, scambiando colpi coi Na’kuhl in fondo al corridoio. Intanto il grosso della squadra attraversò la barriera lattiginosa, mettendosi al sicuro dall’altra parte.
   «Andate, vi copro io!» disse Jaylah, sporgendosi per sparare. Un paio di federali lasciarono la saletta e corsero verso la barriera. Uno riuscì ad attraversarla, ma l’altro cadde, colpito alla schiena da un disgregatore. La mezza Andoriana deglutì. I Na’kuhl erano eccellenti tiratori, ma lei e gli altri non avevano scelta: dovevano uscire allo scoperto. «Tocca a voi» disse, accennando a due giovani Guardiamarina. I due annuirono e corsero nel corridoio, mentre i colleghi facevano fuoco di copertura dalla porta.
   Il primo fuggiasco stava attraversando la barriera quando un raggio disgregante centrò uno Sfasatore, distruggendolo. Il muro tornò immediatamente opaco e solido, inglobando il disgraziato. Solo una gamba e parte della schiena rimasero visibili. Jaylah si ritrasse dietro la porta, coprendosi la bocca con una mano, per soffocare l’orrore. Il Guardiamarina non era semplicemente intrappolato nella Materia Degenere. No, la materia era apparsa dentro il suo organismo, sovrapponendosi alla sua e uccidendolo all’istante. Il collega fece dietrofront e cercò di tornare al riparo, ma fu abbattuto con un colpo al cuore.
   «Chase a Norrin. Se avete altri Sfasatori, cercate di riaprire il passaggio» disse Jaylah, premendosi il comunicatore. Come temeva non ci fu risposta: i Na’kuhl disturbavano il segnale. Era rimasta sola con due colleghi, gli ultimi Agenti Temporali. «Calma, non perdiamo la testa» disse. «Siamo sopravvissuti al XXI secolo; ce la faremo anche qui».
   Aveva appena parlato che le luci si spensero, lasciandoli al buio. Nell’oscurità che avvantaggiava il nemico, Jaylah sentì uno strano suono, come di melassa che viene risucchiata. Era il suono che faceva la Materia Degenere quando si muoveva. La mezza Andoriana capì che i Na’kuhl avevano aperto un altro ingresso nella parete, per far entrare i loro soldati. Un nuovo risucchio indicò che il passaggio si era richiuso. Erano ancora bloccati in quella stanza, ma adesso con loro c’erano dei soldati nemici che si nascondevano nell’oscurità. Jaylah frugò nello zainetto per prendere il Visore a infrarossi, ma si accorse che nella fretta della partenza lo aveva tralasciato, anche perché l’arma de-cristallizzante occupava quasi tutto lo spazio. Così era in una stanza buia, con alcuni Na’kuhl che invece ci vedevano benissimo. Non osava neppure dare ordini ai suoi Agenti, per evitare che il suono tradisse ancor più la loro posizione. La mezza Andoriana si rifugiò dietro una consolle, contando sul fatto che i colleghi si nascondessero a loro volta.
   Trascorsero lunghi momenti di silenzio. Jaylah poteva sentire il battito del suo stesso cuore. Immaginò che i Na’kuhl stessero avanzando nella sala e a un certo punto le parve di udire i loro passi felpati. Strinse forte il phaser, preparandosi a sparare, sebbene non avesse ancora un bersaglio. D’un tratto alcuni raggi disgregatori balenarono nel buio, diretti contro gli altri Agenti, che risposero al fuoco. I federali abbatterono un paio di Na’kuhl, prima che uno di loro fosse ucciso. Sentendosi accerchiato, il collega uscì allo scoperto, sparando a raffica mentre indietreggiava verso l’uscita.
   «No, vieni qui!» gridò Jaylah, ma lui non l’ascoltò. Riuscì ad abbattere altri due avversari prima di cadere, colpito al petto da un raggio disgregante.
   Nel suo cantuccio, la mezza Andoriana si portò una mano alla fronte. Andati... i suoi ultimi colleghi erano stati uccisi. Dell’intera Squadra Temporale restava solo lei. E i Na’kuhl ormai la circondavano: poteva sentirne i passi, anche se non riusciva a vederli. Quella era davvero la fine.
   Nei momenti disperati, il cervello gioca strani scherzi. Di tutti i ricordi che potevano tornarle in mente, Jaylah rammentò l’ultimo incontro con Jack. Pensò al momento in cui le aveva calato in testa il suo casco e poi aveva spento il Visore, lasciandola al buio. Il ricordo era così vivido che le parve d’essere di nuovo con lui, sulla Stella del Polo.
   «Ieri mi hai detto che ti stai esercitando nelle percezioni extrasensoriali. Vediamo come te la cavi. Prova a orientarti senza la vista» le aveva suggerito Jack.
   «Non sono brava nella visione telepatica» si era difesa lei. «I miei avi Aenar potevano vedere al buio, ma io sono mezza Umana».
   «Provaci» l’aveva sfidata lo Spettro. «Cerca di localizzarmi».
   Lei ci aveva provato, senza fortuna. Ma poi Jack l’aveva incoraggiata, con quel suo tono fiducioso che la faceva sentire apprezzata. «Concentrati. Scaccia i pensieri che ti distraggono e trovami». E improvvisamente tutto era cambiato. I suoi geni Aenar si erano risvegliati, permettendole di farsi una mappa mentale della camera. Lo Spettro era diventato visibile e lei l’aveva afferrato. Lì per lì, Jaylah aveva pensato che insistesse solo per gioco o per provocazione. Ma ora comprese che il pirata era in pensiero per lei. Sapeva che, un giorno, quell’abilità le sarebbe servita per sopravvivere. Quindi voleva essere certo che la padroneggiasse.
   «Tranquillo, Jack... ora ci riesco» pensò Jaylah, mentre chiudeva gli occhi e si concentrava. «Io tornerò da te e tu tornerai da me. Lo facciamo sempre». Di colpo le tenebre non furono più tali. Poteva vedere la sala controllo, con i suoi macchinari e le consolle. Riusciva a vedere anche attraverso gli ostacoli. Percepì chiaramente la posizione dei Na’kuhl. Erano cinque e la stavano accerchiando. Nessuno di loro aveva il tiro libero, ma un paio lo avrebbero avuto a momenti. Jaylah strinse i denti: era pronta ad accoglierli.
 
   Posizionati gli Sfasatori Dimensionali di riserva, Norrin riaprì il passaggio. Non aveva potuto farlo subito, perché lui e la sua squadra erano stati assaliti da altri Na’kuhl, provenienti dal lato opposto del corridoio. Per sconfiggerli avevano perso minuti preziosi. Ora l’Hirogeno temeva il peggio per i tre Agenti che erano rimasti bloccati dall’altra parte. Pure, con il destino della Terra appeso a un filo, sarebbe stato costretto a lasciarli indietro se Jaylah non avesse custodito l’arma de-cristallizzante.
   Sapendo che dall’altra parte c’era una squadra nemica, Norrin non varcò subito la barriera, ma vi guardò attraverso. Era come scrutare attraverso una nebbiolina che celava i dettagli, ma era meglio di niente. Vide i Na’kuhl appostati in fondo al corridoio. Alcuni di loro si fecero avanti, accostandosi alla saletta in cui si erano rifugiati gli Agenti. Dalla stanza veniva rumore di spari, raffiche su raffiche. D’un tratto calò il silenzio.
   L’Ufficiale Tattico stava per oltrepassare la barriera, quando una figura dai lunghi capelli chiari si sporse dalla saletta per sbirciare nel corridoio. Fu immediatamente colpita alla testa da un disgregatore e cadde all’indietro, nella stanza buia.
   «Jaylah!» gridò Norrin, certo che la sua pupilla fosse stata uccisa. Il dolore gli fece dimenticare la prudenza. Superò il varco e sparò all’impazzata contro i Na’kuhl, uccidendone molti. I superstiti dovettero arretrare precipitosamente. In quella qualcosa di velocissimo schizzò fuori dalla sala controllo. Norrin se la vide sfrecciare accanto, i capelli biondo platino sollevati dalla corsa. Era lei, non poteva sbagliarsi. L’Hirogeno arretrò, attraversando di nuovo la barriera, e tolse gli Sfasatori prima che i Na’kuhl potessero spararci attraverso.
   «I miei colleghi sono morti» ansimò Jaylah, appoggiandosi alla parete per riprendere fiato. Aveva l’aria provata, ma non era ferita.
   «Credevo lo fossi anche tu» confessò Norrin. «Mi era sembrato che ti avessero colpita in testa».
   «Hanno preso una Na’kuhl» rivelò la mezza Andoriana. «Dopo averla eliminata assieme agli altri, l’ho sollevata e l’ho usata per saggiare la mira di quelli che erano fuori».
   «Vedo che ricordi le mie lezioni» si congratulò l’Hirogeno. La maggior parte dei federali l’avrebbe considerata una mossa barbara. Ma per il codice dei Cacciatori non c’erano strategie “barbare” e “civilizzate”; c’erano solo le strategie efficaci e quelle fallimentari.
   I federali si rimisero in marcia, sperando di non aver perso troppo tempo. Stavolta Jaylah restò accanto a Norrin, per evitare di trovarsi ancora divisa da lui. «Certo che non me la sarei cavata, se...» si lasciò sfuggire.
   «Se?» chiese l’Hirogeno.
   «Ecco, diciamo che ho fatto bene a esercitarmi nelle percezioni extrasensoriali».
 
   Guidata dal Comandante Radek, la squadra 2 si faceva strada verso la plancia del Reaper. Ben presto i federali si videro sbarrare la strada dai soldati Na’kuhl. Tra i due gruppi scoppiò un violentissimo scontro a fuoco. Radek e Vrel combattevano senza risparmiarsi; appostati dietro un angolo, abbatterono molti avversari. Ma per quanti Na’kuhl cadessero, altrettanti ne prendevano il posto. I federali invece non potevano facilmente avere rinforzi. Sulla Keter erano rimasti alcuni ufficiali della Sicurezza, ma il Comandante non voleva chiamare anche loro, lasciando sguarnita la nave. Sarebbe stato troppo pericoloso, se i Na’kuhl l’avessero abbordata a loro volta.
   «Qui stiamo perdendo tempo!» gridò Vrel, per sovrastare il frastuono delle armi.
   «Tenetevi pronti» ordinò Radek. Trasse una granata stordente dallo zaino e la gettò in avanti. Si era sporto solo per un istante, ma un raggio disgregatore gli passò a un centimetro dalla guancia, lasciando un’ustione.
   La granata, di forma sferica, rimbalzò contro la parete, aggirando l’angolo dietro cui si appostavano i nemici. Qui esplose. Alcuni Na’kuhl furono gettati contro la parete e storditi, mentre quelli più lontani restarono abbagliati.
   «Avanti, per l’Unione!» gridò Radek, gettandosi coraggiosamente allo scoperto. Quali che fossero stati i recenti malumori, quel gesto ridiede fiducia alle truppe. I federali gli vennero dietro, sparando a tutto spiano. Alcuni caddero, ma gli altri proseguirono l’assalto, riuscendo a sfondare. Uccisi o messi in fuga i Na’kuhl, giunsero all’ingresso della plancia. La porta era chiusa, ma Vrel sistemò gli Sfasatori Dimensionali, aprendo un varco. Avendo spazio a disposizione lo fece largo, per consentire a più persone di entrare contemporaneamente. Attraverso la nebbia della materia sfasata, i federali intravidero i Na’kuhl all’interno che si preparavano allo scontro.
   «Preparate tutte le granate stordenti che ci restano» ordinò Radek. Ottenuta una mezza dozzina di bombe, le programmò perché esplodessero simultaneamente. Poi le racchiuse tutte nello stesso zaino. «Ricordate che il nostro obiettivo è Vosk» disse agli ufficiali raccolti attorno a lui. «Inoltre dobbiamo dirottare la nave in caduta. Stia pronto, Tenente Shil. Appena sarà dentro, prenda il timone».
   «Intesi» annuì Vrel.
   «Pronti...» disse il Rigeliano, soppesando lo zaino pieno di granate. Quando mancavano pochi secondi allo scoppio lo gettò dentro, per poi ritrarsi subito. La violentissima esplosione rintronò anche i federali, sebbene fossero appostati all’esterno. Dalla plancia venne una luce sfolgorante; gli alieni fotofobici non potevano resistere.
   «Ora!» gridò il Comandante, entrando in testa ai suoi. Si trovarono nella fosca plancia del Reaper, piena di schermi olografici rossastri. Quasi tutti i Na’kuhl erano a terra storditi. Pochi erano ancora in piedi e la loro resistenza fu minima. Caddero uno dopo l’altro, compresi Ghrath e Kraul. Infine gli ufficiali della Keter circondarono una figura alta e magra, che dava loro le spalle, fissando lo schermo. La vista era impressionante: il Reaper stava precipitando verso il continente asiatico, su cui cominciava ad albeggiare. Ma i federali avevano occhi solo per il Na’kuhl ritto davanti a loro, con le braccia incrociate dietro la schiena.
   «Leader Supremo Vosk, la dichiaro in arresto, in nome degli Accordi Temporali» disse il Comandante.
   «Quegli Accordi non hanno valore per me. Non li ho mai firmati» rispose Vosk, senza neanche voltarsi.
   «Ma ora è qui per distruggere la Terra. Non glielo permetteremo!» inveì Vrel, ma Radek gli fece cenno di andare al timone. Il mezzo Xindi fremette: avrebbe volentieri sparato alla schiena al dittatore, ma sapeva che quello non era il comportamento della Flotta Stellare. Così si recò alla postazione di guida. Indossato il Visore, lo regolò affinché traducesse il linguaggio Na’kuhl, permettendogli di capire la funzione dei comandi. Ben presto comprese che il Reaper aveva ancora una certa capacità di manovra. Per non fargli colpire le popolose città cinesi doveva deviarlo a nord, verso le steppe della Mongolia, o meglio ancora verso le sterminate praterie e foreste siberiane.
   Mentre Vrel familiarizzava col timone, Radek e gli altri tennero sotto tiro Vosk. Il Leader Supremo si girò lentamente, fronteggiandoli. «Non avrei lanciato questo attacco, se la Terra non avesse imposto la sua visione oscurantista all’intero Quadrante. Avete nominato gli Accordi Temporali. Beh, quegli Accordi sono frutto dell’ignoranza e della paura. Voi federali vi pregiate di esplorare lo spazio, di civilizzarlo con le vostre leggi. Ma quando si parla del tempo, guai a correggere gli errori e le tragedie del passato! Cianciate di migliorare il futuro, mentre il passato è lì che sanguina dietro di voi. Immaginate quante nuove, inesplorate possibilità ci offre il viaggio nel tempo! Vietarlo è un crimine, è... omissione di soccorso!».
   «Disse quello che cercava di distruggere un pianeta!» rimbeccò Radek.
   «Lotto per la mia causa, come voi lottate per la vostra. Ma non è detto che ci si debba sempre combattere. Se unissimo le forze... immaginate che opportunità avremmo! Immaginate, solo per un istante!».
   «Questa solfa non attacca, Vosk» avvertì il Comandante, avvicinandosi tanto da puntargli il phaser in faccia. «È la seconda volta che prova a distruggere la Terra. Come possiamo prenderla in parola? Tutto ciò che vuole è dare la supremazia alla sua specie».
   «No, maledizione! La faccenda è molto più complessa di così» insisté Vosk. «Se la vostra Unione fosse meno reazionaria, non saremmo in conflitto. Ragioni! Tutti noi influenziamo il futuro con ogni decisione che prendiamo, dalle inezie della vita quotidiana alle grandi decisioni sul destino dei popoli. Se possiamo influenzare il futuro, cioè la vita dei nostri eredi, allora perché non influenzare anche il passato, la vita dei nostri avi?».
   «Perché non spetta a noi manipolare la Storia» rispose Radek, scandendo bene le parole.
   «E a chi, sennò?! Le responsabilità sono di chi se le prende!» sbottò Vosk. «Ma sto parlando al vento. Voi federali siete troppo fanatici per mettervi in discussione. Ecco perché devo eliminarvi».
   «Non è nelle condizioni di farlo» lo avvertì il Comandante.
   «Sono sempre in condizione di farlo» sogghignò Vosk, stringendo gli occhi malvagi.
   In quella la Materia Degenere che componeva il pavimento divenne molle come sabbie mobili. Colti alla sprovvista, i federali vi sprofondarono. I Na’kuhl, invece, restavano ben saldi sul pavimento. Evidentemente il meccanismo difensivo sapeva distinguerli dagli invasori. Accortosi del pericolo, Vrel estrasse il phaser e si rifugiò sulla sedia del timoniere. Ma anche questa affondò, ribaltandosi, e la Materia Degenere salì come un’onda nera. Il mezzo Xindi ne fu avvolto e immobilizzato.
   «La fermi!» ordinò Radek, che pur affondando teneva ancora Vosk sotto tiro. Poiché il Leader Supremo non rispondeva, ma continuava a fissarlo con aria beffarda, il Comandante aprì il fuoco. Colpì Vosk a bruciapelo, in pieno petto, facendolo stramazzare al suolo.
   «Beh... fine della storia?» chiese Vrel, quasi sorpreso di vedere che il dittatore era morto. «Ma stiamo ancora affondando! Non c’è modo di liberarci da questa robaccia?».
   «No, finché sarete sulla mia nave» disse la voce di Vosk, proveniente da chissà dove.
   I federali si guardarono attorno, sconvolti. Il Leader Supremo era morto, non potevano esserci dubbi... o sì? In quella il suo corpo svanì nell’aria, così come svanirono i suoi ufficiali. In plancia non restò neanche un Na’kuhl.
   «Ho un brutto presentimento» mormorò Vrel, guardandosi attorno.
   «Ologrammi» comprese Radek. «Ci hanno ingannati con gli ologrammi». Provò a muovere un passo, ma era sprofondato fino alle caviglie.
   Approfittando della situazione, i Na’kuhl tornarono all’attacco. Una squadra di soldati fece irruzione in plancia, circondando i federali immobilizzati. «Deponete subito le armi, o apriremo il fuoco!» minacciò il comandante.
   «Fate come dicono» ordinò Radek a malincuore. Lasciò cadere il phaser, inducendo i suoi a fare altrettanto. Vrel obbedì per ultimo, con estrema riluttanza.
   Fu allora che un’intera parete della plancia svanì, rivelando Vosk e i suoi ufficiali. Si erano rifugiati lì durante l’attacco, lasciando le loro copie olografiche per ingannare i federali. «Bene, bene» disse il Leader Supremo, facendosi avanti. «Chi abbiamo qui? Lei dev’essere il Comandante Radek. Avrebbe dovuto accettare la mia offerta, perché non la ripeterò. Tenetelo d’occhio» ordinò a Ghrath e Kraul, anche loro sopravvissuti nel nascondiglio. I due gerarchi si accostarono al Comandante, tenendolo sotto il tiro dei disgregatori.
   «E tu invece, giovanotto?» chiese Vosk, accostandosi a Vrel. «Uhm... sembri in parte Xindi. E sei andato al timone, quindi probabilmente sei il pilota della Keter. Ah, ma certo... Vrel Shil, figlio del famoso Lantora! Sai, io e la tua famiglia abbiamo un conto in sospeso» rivelò, digrignando i denti.
   «Non ti ho mai incontrato prima» si difese Vrel.
   «No, certo... ma tuo padre sì» precisò il Leader Supremo. «Durante la guerra s’infiltrò sul mio pianeta, assieme ad altre spie federali. La mia fedele stratega, Ifrit, li scoprì e riuscì a catturarli. Purtroppo l’Enterprise li liberò, durante l’assalto alla Terra. Tre anni dopo, durante la Battaglia di Procyon, si rincontrarono quando Ifrit abbordò l’Enterprise. Isolata dalla squadra, lottò con tuo padre... e lui la uccise. La decapitò con una vibro-lama» sibilò Vosk. Lui e Vrel erano faccia a faccia; gli occhi rossi del Na’kuhl fissavano con odio quelli neri del mezzo Xindi.
   «Conosco la storia» ribatté Vrel. «La tua stratega si era trincerata in infermeria, prendendo in ostaggio il dottor Korris. Attivò un campo di smorzamento, per bloccare le armi a raggi, e decapitò il dottore davanti a mio padre. Allora sì, lui l’affrontò in duello e la uccise. Cosa di cui vado fiero» aggiunse, non avendo nulla da perdere.
   «Dunque capirai se reclamo vendetta» disse Vosk, impugnando la sua vibro-lama. Premette il comando che srotolò la lama nera, percorsa da glifi rossi simili a graffi. «Ti ucciderò allo stesso modo» disse, mentre gli posava la lama gelida sulla gola. «Qualche ultima parola?».
   «Questa bagnarola sta per schiantarsi. Ti consiglio di scappare, come hai fatto a Procyon... ormai sarà un’abitudine» disse Vrel, deciso a morire a testa alta.
   «Me ne andrò senz’altro, prima che il sistema solare sia annientato!» ringhiò Vosk. Confidava in Kravik, il suo grande scienziato, che in quel momento stava maneggiando il Tox Uthat. Levò alta la vibro-lama e si preparò a colpire, assaporando il gusto della vendetta.
 
   Nel suo laboratorio, Kravik indossò dei guanti pieni di sensori e si calò un complesso Visore sugli occhi. Così equipaggiato salì una scaletta che portava al Tox Uthat, sospeso ad alcuni metri da terra, al centro del marchingegno a clessidra. Sfiorò il cristallo, focalizzando i pensieri. Settimane di studi sull’Uthat gli avevano rivelato che solo un potente telepate poteva usarlo. Questo era un grosso problema, perché i Na’kuhl non avevano capacità telepatiche. Ma dove la Natura non aveva provveduto, la tecnologia poteva rimediare. Kravik e la sua equipe avevano costruito quella macchina per amplificare le energie mentali dello scienziato, permettendogli d’interfacciarsi con l’arma. Fatto questo, usare l’Uthat era questione di concentrazione e forza di volontà. «Qualità che non mi difettano» pensò Kravik, ansioso di mostrarsi degno. Afferrò saldamente il cristallo.
   Il mondo attorno a lui si dissolse. I colleghi, il laboratorio... tutto svanito. C’era solo l’Uthat, sempre più grande e luminoso. «Mostrami» sussurrò Kravik. «Mostrami l’infinitamente piccolo». Il laboratorio riapparve, ma era come se lo osservasse dall’alto. Poteva vedere se stesso con le mani chiuse attorno al cristallo. La sua consapevolezza toccò una paratia metallica e vi si tuffò dentro. Guidato dall’Uthat, il suo sguardo divenne sempre più acuto. Lo scienziato vide le molecole, poi gli atomi, infine le singole particelle. Ma anche quelle erano illusioni... tutto era illusione. Protoni e neutroni erano formati dai quark. Materia, energia, radiazione... non erano che stati diversi delle stesse particelle elementari. E cosa c’era di ancora più piccolo? Qual era la vera natura dell’Universo, la realtà dietro tutte le illusioni?
   La sua vista cominciò a sgranarsi. Aveva raggiunto la lunghezza di Planck, la minima distanza possibile. I pixel dell’Universo. Più a fondo non si poteva andare. Ma in quello spazio granuloso e incomprensibile, qualcosa si muoveva. Particelle elementari scaturivano dal nulla e nel nulla tornavano, dopo aver vissuto meno di uno yoctosecondo. Nel vuoto c’era energia... tantissima energia, in attesa d’essere sfruttata.
   «Un potere illimitato... sì... il regno quantico è una fonte inesauribile...» sussurrò Kravik. Avrebbe potuto trascorrere ore e giorni a contemplare quello spettacolo.
   «Signore... il nemico si avvicina. Ci resta poco tempo» lo avvertì un sottoposto.
   «Sì, sì!» fece Kravik, infastidito dall’intrusione. Quella voce lo aveva disturbato, rischiando di riportarlo nella prigione dei sensi corporei, miseramente inadatti a percepire la realtà. Tuttavia non poteva ignorarla. Erano in guerra, dopotutto, e lui aveva la possibilità di vincerla. «Che sia dannato se spreco l’occasione» si disse, radunando tutta la concentrazione.
   La sua nuova vista lo portò fuori dal Reaper, che si abbassava sempre più nell’atmosfera terrestre. A milioni di chilometri da lì, il sole ardeva per i processi nucleari che avvenivano nel suo nucleo. Kravik li conosceva bene, ma osservarli in diretta era emozionante. Vide gli atomi d’idrogeno che si fondevano, formando elio e rilasciando energia. Ogni secondo, quattro milioni di tonnellate di massa si perdevano così. Ma il Tox Uthat non era solo un microscopio. No, quello strumento prodigioso gli permetteva d’intervenire direttamente sulla materia, l’energia e le leggi fisiche che le governavano. Poteva ordinare al Sole di esplodere, e il Sole avrebbe obbedito. Aveva il potere di annientare le stelle... il potere di un dio!
   «Si allontani subito da lì! Questo è l’unico avvertimento» disse una voce stentorea.
   Indignato da quell’interruzione, Kravik permise a parte della sua coscienza di rifluire nel corpo. Vide il suo laboratorio, come attraverso la nebbia. I federali avevano fatto irruzione grazie agli Sfasatori Dimensionali e lo tenevano sotto tiro. Sull’altro lato del salone si erano raccolti i soldati Na’kuhl, anch’essi pronti a sparare. E nel mezzo c’era lui, col Tox Uthat fra le mani. Si profilavano eventi interessanti.
 
   Lanciato l’avvertimento, Norrin tenne sotto tiro lo scienziato. Poteva sparargli, ma sapeva che il vero pericolo era l’Uthat, non il suo possessore. In quella stanza piena di Na’kuhl, l’Ufficiale Tattico comprese che recuperare il cristallo non era fattibile. La loro unica speranza era distruggerlo. «Puoi colpirlo?» sussurrò a Jaylah, che gli stava accanto.
   «Sì» disse la mezza Andoriana, impugnando l’arma de-cristallizzante. In realtà non aveva esperienza di tiro con quello strumento. Non aveva nemmeno potuto esercitarsi, perché l’arma aveva energia per tre soli colpi e sulla Keter non avevano capito come ricaricarla. Jaylah respirò a fondo, sapendo che tutto dipendeva dalla sua mira. Tutte le scelte che aveva fatto, i pericoli corsi, le sfide superate, l’avevano portata a quel punto. Doveva essere lì, in quel momento, per assestare il colpo decisivo.
   Vedendo che Kravik non accennava a lasciare l’Uthat, malgrado l’avvertimento, Jaylah mirò il cristallo. Era un bersaglio piccolo e lontano, difficile da colpire. Inoltre l’arma de-cristallizzante aveva un peso notevole. Provò a sostenerla con la mano sinistra, ma si accorse che le tremava. Era la conseguenza della pugnalata di Kamala, che Ladya non aveva fatto in tempo a curare del tutto. Piuttosto che avere una presa tremolante, la mezza Andoriana preferì reggere l’arma solo con la mano destra. Socchiuse gli occhi, mirando attentamente, e premette il grilletto. Uno sfolgorante raggio bianco scaturì dall’emettitore, accompagnato da un intenso ronzio.
   Jaylah non seppe mai se la sua mira era stata precisa, perché il raggio de-cristallizante fu interrotto a metà strada da un campo di forza. Era una barriera cilindrica che isolava il centro del laboratorio, in cui si trovavano Kravik con l’Uthat, oltre alla maggior parte dei Na’kuhl. Come tutti i loro campi di forza, era troppo sofisticato per attraversarlo con qualche trucco e troppo potente per abbatterlo con le armi manuali. Ancora una volta gli alieni fotofobici si dimostravano un passo avanti.
   «Bene, avete avuto la vostra occasione e l’avete sprecata» disse Kravik con distacco. «Ora tocca a noi». Non c’era particolare accanimento nella sua voce. Parlava come se i federali fossero stati insetti molesti, più che una vera minaccia.
   Al suo cenno, punte acuminate di Materia Degenere uscirono dalle pareti e dal pavimento, trafiggendo i federali. Quelli che indossavano le tute corazzate erano un po’ protetti, perché se colpiti di striscio tendevano a scivolare di lato. Ma se l’aculeo li schiacciava contro una parete o una consolle, non c’era niente da fare. La Materia Degenere perforava facilmente le tute multistrato, impalando le vittime, per poi ritrarsi, lasciando i corpi martoriati. I federali si erano cacciati in una trappola mortale.
   Grazie ai suoi riflessi fulminei, Jaylah riuscì a evitare il primo attacco della Materia Degenere. La punta affilatissima le passò a pochi centimetri dal collo, per poi ritrarsi. Ma subito ne scaturirono altre, da varie direzioni. Le lame che emergevano dal pavimento, in particolare, erano molto insidiose. Non si poteva neanche distruggerle, dato che erano composte di materia ultradensa. Alcuni federali spararono ugualmente, per una reazione istintiva, ma nemmeno i fucili phaser le scalfirono.
   Tra grida disperate e tentativi di fuga, la mattanza continuò. Gli aculei neri scattavano ovunque, veloci come un battito di ciglia e più affilati di una vibro-lama. Alcuni di essi ostruirono il passaggio aperto dagli Sfasatori, per impedire ai federali di scappare. Conscio che stava per perdere tutta la squadra, Norrin pensò disperatamente a come superare il campo di forza. Notò alcuni condotti energetici che correvano lungo il soffitto, per alimentare l’interfaccia dell’Uthat. Dovendo lavorare di fretta, gli scienziati li avevano lasciati a vista. L’Ufficiale Tattico pensò che senza energia l’interfaccia si sarebbe disattivata, impedendo a Kravik di usare il cristallo. Sperando di avere ragione, bersagliò i condotti col fucile phaser. Al primo colpo messo a segno, il ronzio dell’interfaccia scese di tono e alcuni indicatori calarono. Sì, l’intuizione era giusta!
   «Brillante deduzione... ma pessimo tempismo» commentò Kravik.
   Una lama di Materia Degenere scaturì dal pavimento e colpì Norrin, squarciando il pettorale della sua tuta. L’Hirogeno scivolò di lato. Sentì dolore, ma non molto; una rapida occhiata gli confermò che la ferita era superficiale. Sparò a un altro condotto, indebolendo ulteriormente l’interfaccia. Cercò di spostarsi per colpire il terzo e ultimo, ma non riuscì a muoversi. Abbassando lo sguardo, scoprì con orrore che la Materia Degenere del pavimento si era rammollita, facendolo sprofondare. Guardandosi attorno vide che i superstiti della squadra erano bloccati come lui. Anche Jaylah stava affondando, il che vanificava il suo maggior vantaggio, la velocità.
   «Per quanto mi diverta vedervi annaspare, vi chiedo di calmarvi» disse Kravik. «Ormai dovreste aver capito che siete sconfitti. Questo è il nostro ambiente e noi lo dominiamo completamente».
   «E allora perché non ci uccidi?» chiese Norrin, notando che gli attacchi con le lame erano cessati.
   «La morte vi è vicina, non dubitarne» rispose lo scienziato. «Ma voglio che guardiate, mentre trasformo il Sole in una nova. Così vedrete l’inutilità dei vostri sforzi. Dopo di che dovremo dirci addio. Noi disponiamo di un condotto temporale che ci riporterà a casa, mentre voi resterete... impantanati nella situazione» sogghignò. «Se non sarà l’impatto col suolo a uccidervi, ci penserà l’onda d’urto della nova. In ogni caso il vostro viaggio finisce qui. Non doletevi troppo. Ci avete arrecato danni considerevoli... i Klingon direbbero che la vostra è una morte gloriosa. Anche se non sono certo di capire cosa intendano con quest’espressione» aggiunse, facendo spallucce.
   «Ci sono un sacco di cose che non capisci, vecchio mio» disse una voce proveniente dall’alto.
   Tutti, federali e Na’kuhl, alzarono lo sguardo. Il nuovo arrivato si trovava nella parte alta del laboratorio, in cima alla scalinata che collegava i due livelli. Era un uomo alto e magro, vestito di scuro. Il suo volto era pallido, dopo che per un anno era vissuto tra i Na’kuhl. Juri Smirnov – perché di lui si trattava – osservò il campo di battaglia con sguardo disincantato. Si soffermò su Kravik, che stringeva ancora l’Uthat. «Ti ho colto sul fatto, eh? Distruggere la Terra non rientrava nel nostro accordo» commentò con distacco.
   «Abbiamo provato a fare a modo tuo» rispose lo scienziato. «Ma la Storia terrestre è difficile da modificare... voi Umani siete troppo cocciuti. E i tuoi colleghi ci hanno ostacolati, come sempre» aggiunse, accennando a Jaylah.
   «Non m’interessa di chi è la colpa» rispose Juri, con sguardo tagliente. «Non ti permetterò di distruggere il sistema solare».
   «Non sei tu a decidere, sai?» ghignò lo scienziato. «Là fuori sei del tutto impotente, come i tuoi colleghi».
   «Davvero?» chiese Juri, con aria inquietante. Raggiunse una vicina consolle e vi posò la mano. Un glifo Na’kuhl brillò vermiglio sul suo palmo. La nanotecnologia di cui lo avevano fornito, perché aiutasse gli scienziati, gli permetteva di accedere ai sistemi di controllo della nave. Approfittando di questo, l’Umano cercò di togliere energia alla sezione. Questo avrebbe disattivato l’interfaccia, oltre ad abbassare il campo di forza.
   Intuendo cosa stava facendo, Kravik si guardò attorno, innervosito all’idea di perdere lo scudo. Ma si riprese subito. Un sorriso malvagio apparve sul suo viso vampiresco. «Mi costringi a misure drastiche, vecchio mio» disse. Staccò una mano dall’Uthat e si premette il comunicatore da polso. «Direttore Kravik a sala degenza 1. Togliete il supporto vitale alla capsula» ordinò.
   A queste parole lo storico si sentì sprofondare. Il suo peggior timore si era concretizzato: stavano uccidendo Svetta.
   «Sentito? La tua cara sorellina morirà nel sonno, come doveva accadere in quell’ospedale» gli disse lo scienziato. «Puoi correre nella sua stanza, aprire la capsula e rianimarla prima che soffochi. Oppure puoi star qui ad aiutare i federali. Fa’ la tua scelta, Umano, e guarda qual è la ricompensa degli eroi!».
   Ciò detto, Kravik tornò a concentrarsi sull’Uthat. Il laboratorio e i suoi occupanti svanirono attorno a lui. Le sue percezioni, amplificate dal cristallo, si rivolsero nuovamente al nucleo del Sole. Gli bastava poco, ormai, per comprendere come provocarne l’esplosione.
   Pochi metri più in alto, Juri era dilaniato dalla scelta. Per Svetlana aveva fatto di tutto e di più. Aveva tradito l’Unione, trascorrendo un anno intero coi Na’kuhl per aiutarli nei loro piani. Si era persino contrapposto ai colleghi della Keter, mettendoli a repentaglio, e infatti molti di loro erano morti. Dopo tutto questo, lasciare che Svetlana morisse, senza mai essersi risvegliata, vanificava ogni cosa. Ma se fosse andato a salvarla, Kravik avrebbe distrutto la Terra.
   «Juri, ti prego, ascoltami» disse Jaylah, sprofondata fino alle caviglie nel pavimento e impossibilitata a muoversi. «So che è stato l’amore per tua sorella, una bambina innocente, a guidarti. Ti è stata strappata ingiustamente, dalla malattia e da quelli che non l’hanno curata a dovere. Quindi hai cercato di salvarla con ogni mezzo. Lo capisco. Ma Juri, se ora non ci aiuti a fermare i Na’kuhl, tutta l’umanità ne pagherà il prezzo».
   «Se ripristiniamo l’Unione, la mia specie sarà di nuovo oppressa» obiettò Juri.
   «Viviamo in un brutto periodo, è vero, ma c’è anche del buono» insisté Jaylah. «Per quattrocento anni le istituzioni federali hanno aiutato le specie a convivere in pace. Se il tuo piano di isolare l’umanità avesse funzionato, i meticci come me non sarebbero mai nati. È questo che vuoi? Io non credo... sei migliore di così!» disse accorata.
   «Ho fatto quello che ritenevo mio dovere» ribadì Juri, sapendo che in quel momento sua sorella stava soffocando nel sonno. «Ma a quanto pare è destino che gli innocenti come Svetta muoiano dimenticati da tutti».
   Con queste amare parole, l’Umano si dedicò di nuovo alla consolle. Tolse energia all’intera sezione e prese a criptare i comandi, per far sì che i Na’kuhl non potessero ripristinarla in breve tempo. Ogni istante impiegato in quel compito lo faceva soffrire in ogni fibra. Fino all’ultimo aveva sperato di salvare Svetlana... aveva elaborato mille piani per portarla via da lì. Ma ora che era al dunque, non poteva raggiungerla. Ad ogni secondo la stava perdendo; poteva quasi sentirla scivolare via. Avrebbe voluto mollare tutto, correre a salvarla. Ma non lo fece. Infliggendosi un dolore sconfinato, restò alla consolle per finire il lavoro.
 
   «Sì, sì... ora vedo! Un potere illimitato, a mia disposizione!» gridò Kravik, completamente immerso nella fusione mentale col Tox Uthat. Il cristallo brillava tra le sue mani, pulsando come una cosa viva. La sua mente, amplificata oltremisura, aleggiava tra le particelle elementari nel nucleo del Sole. Ora sapeva cosa fare per provocarne l’esplosione. Doveva alterare la costante cosmologica, così da rendere impossibile la conversione materia/energia. A quel punto il nucleo sarebbe collassato, mentre gli strati esterni della stella venivano espulsi. L’onda d’urto avrebbe schiantato tutti i pianeti interni del sistema solare, inclusa la Terra. Certo, alterare una legge fisica sembrava follia... ma a ogni istante che passava collegato al cristallo, la comprensione di Kravik si ampliava. Ora sapeva come influenzare la realtà per renderlo possibile. Si apprestava a farlo, quando si accorse che qualcosa non andava.
   Il potere stava scivolando via. Le particelle svanivano alla sua vista e la sua consapevolezza si rattrappiva, tornando nella prigione corporea. Era di nuovo un piccolo essere di carne e sangue. Fragile. Insignificante. Com’era possibile? Eppure il Tox Uthat era illeso! Con enorme imbarazzo, Kravik comprese che il problema era lui. La sofisticata interfaccia che aveva costruito per amplificare i suoi pensieri e connettersi al cristallo era senza energia. Senza di quella, le sue facoltà mentali erano insufficienti a mantenere il legame.
   «No... maledetto!» gridò lo scienziato con voce strozzata, fissando Juri. «Tua sorella morirà! Per colpa tua!».
   Il campo di forza attorno a lui sfrigolò e si spense. Nello stesso momento anche la Materia Degenere del pavimento tornò alla configurazione standard, liberando i federali. Pertanto questi furono liberi di muoversi, proprio nel momento in cui i soldati Na’kuhl gli sparavano. Si gettarono di lato, sfuggendo ai colpi, e risposero al fuoco.
   Il laboratorio divenne un campo di battaglia. Se lo scontro sull’Isola Crisalide era stato feroce, questo fu raccapricciante. Le numerose nicchie e colonne di Materia Degenere offrivano riparo dalle armi a raggi e la semioscurità aiutava a nascondersi. Molti federali si avvicinarono ai Na’kuhl e alcuni di loro giunsero al corpo a corpo. Pugnali e vibro-lame furono sfoderati; chi non li aveva dovette arrangiarsi. Ogni oggetto acuminato presente in sala divenne un’arma da lanciare contro gli avversari o da piantargli nelle carni. I Na’kuhl, dal canto loro, reagirono con terrificante violenza. I soldati spararono all’impazzata, senza più curarsi di danneggiare le apparecchiature del laboratorio. Scienziati e tecnici, che erano disarmati, si gettarono ugualmente sui federali: gli strapparono gli occhi con le unghie e gli squarciarono la gola a morsi. Quando un Na’kuhl era ferito, continuava a lottare fino alla morte. Vedendo un graduato che lo prendeva di mira, Norrin sparò per primo, staccandogli il braccio che impugnava il disgregatore. Il Na’kuhl urlò e gli si avventò contro. Sfoderò la vibro-lama con la sinistra, mentre usava il troncone per spruzzare sangue in faccia all’Hirogeno. Sfuggito per un pelo al fendente – ma non al fiotto di sangue giallastro – Norrin gli sparò in bocca per finirlo.
   In quel carnaio, Jaylah aveva occhi solo per l’Uthat. Impugnò di nuovo l’arma de-cristallizzante e lo prese di mira, sebbene la mano sinistra le tremasse ancora, obbligandola a usare solo l’altra. Sparò per la seconda volta... e lo mancò. Perché proprio in quel momento Kravik lo tolse dall’interfaccia spenta. Se lo strinse al petto, mentre correva verso la scalinata che portava al livello superiore del laboratorio.
   «Credete di averci sconfitti? Poveri illusi!» gridò lo scienziato, salendo le scale. «Porterò il cristallo sul mio pianeta. Lì costruirò un’altra interfaccia, fuori dalla vostra portata. E annienterò i vostri mondi, lo giuro!».
   «Non giurare» gli consigliò Juri, parandosi davanti a lui in cima alle scale. «Non sai come andrà a finire».
   «Ma certo che lo so. Questa storia finisce con te morto stecchito, come tua sorella!» ringhiò il Na’kuhl, avventandosi a testa bassa contro l’Umano. Lo colpì allo stomaco, gettandolo a terra, e subito gli fu sopra. Mollato temporaneamente l’Uthat, cercò di strappargli gli occhi con le unghie. Juri gli afferrò i polsi, tenendolo faticosamente a distanza.
   «Stolti federali... ancora non capite quanto siamo pericolosi noi Na’kuhl, se provocati!» sibilò Kravik, accostando le unghie brancolanti agli occhi dell’avversario.
   «Lo siamo anche noi Umani» ribatté Juri. Puntellò i piedi contro lo stomaco dell’avversario e fece forza con le gambe, ribaltandolo all’indietro. Nel cadere sul durissimo pavimento di Materia Degenere, Kravik batté la nuca, restando intontito. Juri non gli diede il tempo di riaversi. Rialzatosi in fretta, lo tempestò di calci in faccia. Il sangue giallo dell’alieno gli sprizzò dal naso, macchiando il pavimento. L’Umano continuò a colpire, deciso a sfondargli il cranio. Ma in qualche modo il Na’kuhl si riebbe. Gli afferrò la gamba e gliela spinse all’indietro, facendolo cadere. Poi arrancò verso l’Uthat, che giaceva in terra, accanto alle scale. Lo afferrò e lo sollevò trionfante, girandosi verso Juri.
   «Non sei pericoloso quanto credi» ghignò lo scienziato, perdendo sangue dal naso e dalle altre ferite sul capo.
   «E tu non sei così furbo» ribatté lo storico, rialzandosi.
   Lo sconcerto apparve sul volto di Kravik, che per qualche secondo aveva dimenticato ciò che accadeva alle sue spalle. In quel momento il terzo raggio de-cristallizzante centrò in pieno l’Uthat. Sapendo che le restava un’ultima possibilità, Jaylah si era avvicinata il più possibile al bersaglio. Aveva salito le scale mentre Kravik lottava con Juri, restando prudentemente abbassata e rialzandosi solo quando il Na’kuhl le aveva dato le spalle. A quel punto aveva sparato da un metro di distanza, troppo vicino per fallire.
   Colpito dall’arma sperimentale, il Tox Uthat mandò un lampo accecante e divenne rosso sangue. Kravik, che in quel momento lo fissava, ne rimase abbagliato. Con un lamento pietoso si portò le mani agli occhi, lasciando cadere il cristallo. «No, no...» ripeté, in preda all’angoscia.
   «Oh, sì» disse Juri, avvicinandosi. «Ti dispiace?» chiese a Jaylah, accennando all’arma.
   «Non funziona più» gli ricordò lei.
   «Sì che funziona» rispose l’Umano, brandendola come una mazza da baseball. Raccolte tutte le forze, dette una tremenda sprangata in faccia a Kravik, facendolo cadere all’indietro, oltre il parapetto. Lo scienziato precipitò per tre o quattro metri, atterrando fra i morti e i moribondi della battaglia. Impattò contro il pavimento di Materia Degenere e non si mosse più.
   Soddisfatto, Juri gettò l’arma. «È fuori uso?» ansimò, accennando all’Uthat che era rotolato poco lontano.
   «Non saprei... l’arma doveva distruggerlo» disse la mezza Andoriana, avvicinandosi circospetta al cristallo. «Ah, ecco... ci resta poco tempo» si corresse. Aveva notato che nella struttura cristallina si erano formate delle crepe, che si ramificavano sempre più.
   «Sarà un’esplosione potente?» chiese Norrin, che aveva salito in quel momento le scale. Dietro di lui lo scontro continuava, anche se restavano ben pochi combattenti, da una parte e dall’altra.
   «Non saprei... forse sì» disse la mezza Andoriana. Era assurdo, ma si era talmente concentrata nel distruggere l’Uthat che non aveva riflettuto su quest’aspetto. «Ora che ci penso, il cristallo contiene molta energia. Se la libera tutta in un colpo, sarà un bel botto. Potrebbe distruggere il Reaper» ragionò.
   «Francamente lo spero» disse Juri. Attivò un oloschermo e verificò le condizioni dell’astronave. Il Reaper era entrato nell’atmosfera terrestre e precipitava come una meteora verso la superficie. Ora che ci facevano caso, il vascello aveva cominciato a vibrare.
   «Okay, fuori di qui!» ordinò Norrin ai pochi superstiti della sua squadra. Corse lungo la balaustra, freddando gli ultimi Na’kuhl con precisi colpi dall’alto.
   I federali dovevano uscire da quella zona per consentire all’Ascension di prelevarli, ma Juri sapeva che il loro compito non era finito. Si accostò a Jaylah e le accennò una vicina porta. «Vai in fondo a questo corridoio, poi svolta a destra. Procedi per una ventina di metri e prendi l’ingresso al centro. Troverai il condotto temporale e forse Vosk» disse.
   «Non vieni anche tu?» chiese la mezza Andoriana.
   «No... devo dirle addio» rispose l’Umano, raccogliendo il disgregatore di un Na’kuhl caduto. Senza aggiungere altro, le voltò le spalle e uscì di corsa da un’altra porta.
   Intuendo che parlava di Svetlana, Jaylah non cercò di fermarlo. Seguita da Norrin, infilò di corsa il corridoio, decisa a chiudere i conti con Vosk.
 
   Sulla plancia del Reaper, il Leader Supremo si accingeva a decapitare Vrel con la vibro-lama. Prima di colpire attese qualche secondo, per assaporare la vendetta, oltre che per vedere se negli occhi dell’avversario sarebbe apparsa la paura. Fu un errore.
   Con un suono risucchiante, la Materia Degenere si mosse, liberando i federali. Quelli che erano parzialmente sprofondati nel pavimento, come Radek, si sollevarono di nuovo. Chi come Vrel era anche avvolto e immobilizzato fu lasciato andare. Per i Na’kuhl fu uno shock tremendo vedere la loro maggior difesa che li abbandonava.
   «No!» gridò Vosk, sferrando il colpo.
   Vrel abbassò repentinamente il capo. Sentì la lama che gli sfiorava i capelli, mancandogli di un pelo lo scalpo. Si buttò di lato, fece una capriola e si rialzò, impugnando la sua vibro-lama. Quando la Materia Degenere lo avvolgeva non aveva potuto estrarla, ma questo aveva anche impedito ai Na’kuhl di disarmarlo. Ora il timoniere era pronto ad affrontare il Leader Supremo. «Vediamo chi perde la testa» lo sfidò.
   «Non sarai tu a fermarmi, insulso ragazzo!» ringhiò Vosk. Brandì la vibro-lama con un’insidiosa presa rovesciata e partì all’attacco. Riconoscendo il suo stile, anche Vrel impugnò l’arma allo stesso modo.
   Intanto lo scontro era divampato in tutta la plancia. I federali erano stati disarmati, ma molti di loro erano così vicini ai Na’kuhl che riuscirono ad afferrarli, approfittando del loro attimo di sgomento. Subito gli contesero le armi o cercarono di riprendersi le proprie. Partirono parecchi colpi, la maggior parte dei quali per errore. I raggi mortali saettarono per la plancia, colpendo le consolle e mietendo alcune vittime.
   Approfittando della situazione, Radek si avventò contro Ghrath e Kraul. Gli afferrò i disgregatori, ciascuno con una mano, e glieli puntò verso l’alto. I Na’kuhl aprirono istintivamente il fuoco, colpendo il soffitto. Cercarono di rivolgere nuovamente le armi contro il Rigeliano, ma Radek era molto più grosso e forte della maggior parte dei suoi simili. Una disfunzione genetica gli aveva dato un cromosoma in eccesso, il cromosoma Z, che favoriva lo sviluppo muscolare. I Rigeliani la consideravano una iattura, perché pensavano che rendesse più aggressivi. Radek stesso si era sempre vergognato di questa sua caratteristica, imponendosi fin da piccolo un ferreo autocontrollo. Ma ora era lieto di avere quel cromosoma in più. Da solo, trattenne entrambi i fedelissimi di Vosk.
   Nel frattempo federali e Na’kuhl si affrontavano ferocemente, mentre il Reaper vibrava, entrando nell’atmosfera. Lo schermo principale mostrava la superficie terrestre sempre più vicina. Davanti a quell’immagine vertiginosa si consumava lo scontro decisivo, perché Vrel affrontava Vosk in persona. Gli avversari si studiavano, lanciavano affondi e fendenti, eseguivano parate e schivate. Le vibro-lame cozzavano, sprizzando scintille. Il desiderio di vendetta era grande in Vosk, ma il Leader Supremo non si fece accecare dalla collera. Mantenne il sangue freddo, e così pure Vrel, conscio di affrontare il più grande nemico dell’Unione. Gli avversari si batterono all’apice delle loro capacità, mentre i raggi mortali gli balenavano tutt’intorno. Ogni colpo poteva essere l’ultimo.
   Pochi metri più in là, Radek tese al massimo i muscoli. Con uno sforzo formidabile riuscì a strappare entrambe le armi agli avversari, ricacciandoli indietro. Subito se le rigirò tra le mani e premette i grilletti, ma senza effetto, perché anche i disgregatori Na’kuhl funzionavano solo in mano ai proprietari. Vedendosi disarmati, però, Ghrath e Kraul arretrarono verso l’uscita, scambiandosi un’occhiata incerta. Guardando lo schermo capivano che mancava poco all’impatto e temevano di attardarsi in quella che ormai era una battaglia persa. Ma non si sarebbero ritirati, finché il loro leader non lo ordinava.
   Vedendo che i suoi soldati cedevano, Vosk accorciò le distanze con Vrel. Cercò di colpirlo alla gola, ma il mezzo Xindi si ritrasse e poi reagì con un affondo che gli scalfì la spalla. Il Leader Supremo indietreggiò, incredulo e rabbioso. Mai prima d’allora un nemico era riuscito a ferirlo. Ignorando il dolore, si lanciò in un ultimo assalto. Eseguì una rapidissima serie di attacchi laterali, costringendo Vrel ad arretrare parando, e poi sferrò un diagonale dall’alto. Se fosse andata come sperava, la lama avrebbe colpito il mezzo Xindi fra collo e spalla. Ma Vrel si avvide del pericolo e riuscì a parare anche questo attacco. Al tempo stesso sferrò un calcio che colpì Vosk in pieno viso. Il Leader Supremo perse la spada e ruzzolò a terra, sanguinando dalla bocca. Un dente affilato gli saltò via.
   Senza perdere tempo, Vrel gli si accostò per finirlo. Ma in quella il timoniere del Reaper si avventò sul mezzo Xindi, trascinandolo con sé a terra. Rotolarono uno sull’altro, con la spada fra loro, finendo proprio sotto allo schermo. Qui Vrel riuscì a schiacciare l’avversario contro il pavimento. Gli accostò la lama alla gola, sebbene l’altro cercasse di respingerla, e con un movimento secco gliela tagliò. Subito balzò in piedi, cercando Vosk. Come temeva, il Leader Supremo aveva approfittato della distrazione per darsi alla fuga. Era già davanti alla barriera di materia sfasata e stava per attraversarla.
   «VOSK!» gridò Vrel, scagliandogli contro la vibro-lama. La distanza era grande, ma in quel gesto il timoniere infuse tutte le forze che gli restavano. La spada sfrecciò attraverso la plancia, dritta al cuore del Leader Supremo. Ma un altro Na’kuhl, l’addetto ai sensori, si frappose senza esitazione, ricevendola in pieno petto.
   «Maledetti federali... oggi avete vinto, ma il tempo è dalla mia!» ringhiò Vosk, prima di abbandonare la plancia. Con lui c’erano Ghrath, Kraul e pochi altri fedeli. Appena ebbero attraversato la barriera lattiginosa spararono a uno Sfasatore, distruggendolo. La parete tornò solida. Raccattato un phaser, Radek si precipitò verso la porta vera e propria. Ma questa non si aprì neanche dall’interno, essendo sigillata con qualche codice di sicurezza. Il Rigeliano vi dette un gran pugno, frustrato.
   «Il Leader Supremo vivrà» rantolò l’addetto alle comunicazioni. Dopo aver fatto da scudo a Vosk era caduto in ginocchio, con la vibro-lama che gli trafiggeva il petto, fuoriuscendo dalla schiena. «La sua vendetta sarà implacabile, ma voi non vivrete per vederla. Tra pochi minuti colpiremo la Terra». Il suo volto vampiresco si storse in un ghigno infernale, e cadde a terra morto. Nella plancia devastata restava solo una manciata di federali ancora in vita. I Na’kuhl superstiti erano tutti fuggiti con Vosk.
   «Dobbiamo uscire, inseguirli!» gridò Vrel, raccattando il phaser di un collega caduto.
   «No, Tenente... dobbiamo evitare l’impatto, o almeno deviarlo, o i terrestri morranno a milioni» gli ricordò Radek, di nuovo padrone di sé. «Pensa di riuscirci?».
   «Io... ci proverò» mormorò il mezzo Xindi, vedendo la superficie sempre più vicina. Si fiondò al timone e riprese i comandi. «Il Reaper è troppo danneggiato per riprendere quota» spiegò. «Ma alcuni propulsori di manovra funzionano ancora. Cercherò di portarlo a nord, verso la Siberia. In quest’epoca dovrebbe essere quasi disabitata».
   «Proceda» lo autorizzò Radek. Se proprio dovevano schiantarsi, quello era il male minore. Certo che un’astronave di materia ultradensa come il Reaper avrebbe comunque provocato enormi danni. Poteva devastare l’Asia e gettare il mondo in una breve era glaciale. E c’era il piccolo dettaglio che loro erano ancora a bordo. Pensando a questo, il Comandante si recò alla postazione comunicazioni. Armeggiò con i comandi, finché riuscì a disabilitare il segnale di disturbo che bloccava i comunicatori. «Radek ad Ascension. Mi sente, Zafreen?» chiese col cuore in gola.
   «Forte e chiaro, Comandante» rispose l’Orioniana. «Come state?».
   «Abbiamo conquistato la plancia, ma Vosk è fuggito e manca poco all’impatto. Vrel sta cercando di deviare la caduta» riassunse Radek. «Ora che i livelli energetici sono più bassi e ho eliminato il segnale di disturbo, può prelevarci da qui?».
   «Io... credo di sì» farfugliò Zafreen, armeggiando con i comandi del teletrasporto.
   «Bene, allora porti in salvo ciò che resta della squadra» ordinò il Rigeliano. «Trasferisca me e Vrel per ultimi, quando glielo dirò».
   «Ricevuto» disse l’Orioniana, più preoccupata che mai. Dalla cabina dell’Ascension vedeva il Reaper sfrecciare nell’atmosfera terrestre come una stella cadente, lasciandosi dietro una scia di plasma. Mancava poco all’impatto.
 
   Juri correva lungo un corridoio, con il disgregatore in mano. Non era mai stato un combattente, ma quelle armi non erano difficili da usare. Certo, se avesse incontrato dei soldati Na’kuhl non avrebbe avuto scampo. Ma non si aspettava di trovarne, nel luogo in cui stava andando. I corridoi del Reaper si somigliavano tutti, ma lui aveva fatto quella strada ogni giorno, per quasi un mese. Era certo di non sbagliarsi.
   Alcuni glifi rossi in cima a una porta gli confermarono che aveva raggiunto l’infermeria. Con la battaglia in corso avrebbe dovuto esserci un gran viavai di medici e feriti. Invece il corridoio era deserto. Juri comprese che Vosk aveva già ordinato l’evacuazione. Si fece coraggio e irruppe nell’infermeria, col disgregatore spianato.
   C’erano ancora alcuni dottori con i loro pazienti, ma non erano molti. Al suo ingresso quelli che erano in piedi arretrarono verso le pareti, spaventati. Un soldato ferito, disteso su un lettino, estrasse il disgregatore che portava ancora in cintura. Juri se ne avvide appena in tempo e gli sparò al petto, uccidendolo. «Fuori di qui!» urlò con voce terribile. Si mosse lungo una parete, tenendo sotto tiro i presenti. Una parte di lui avrebbe voluto fare una strage. Ma quelli erano dottori, non soldati. In qualche modo riuscì a dominarsi. «Questa nave sta per essere distrutta, quindi raggiungete il condotto, se vi è cara la vita!» ordinò. Le sue parole furono confermate dall’aumento delle vibrazioni. A ogni istante il Reaper si avvicinava alla superficie terrestre.
   Medici e infermieri si scambiarono occhiate atterrite. L’attimo dopo ci fu il fuggi-fuggi. I dottori abbandonarono i loro pazienti, guadagnando la porta per primi. Tra i feriti, quelli che si reggevano in piedi fuggirono a loro volta. Gli altri erano condannati.
   Juri non si curò di loro. Si addentrò nell’infermeria, imboccando un breve corridoio che lo portò alle sale di lunga degenza. Entrando nella sala 1 si trovò davanti due dottori, gli stessi che avevano curato sua sorella dall’Agente 47. La capsula di Svetlana era dietro di loro, al centro della stanza. I comandi erano spenti e anche il crio-tubo, contenente la bambina, era buio.
   «Dottor Smirnov!» gemette uno dei Na’kuhl. Dette una rapida occhiata alle sue spalle, alla capsula disattivata che lo accusava.
   «Non è come crede... è stato Vosk a costringerci...» farfugliò l’altro.
   Juri li fissò con commiserazione. «Sparite, vermi. Tanto non credo che farete in tempo a salvarvi» disse, tenendoli sotto tiro. I dottori si scambiarono un’occhiata, increduli di essere stati graziati, e fuggirono a gambe levate. Appena fu solo, Juri si avvicinò alla capsula e attivò un comando, aprendo il tubo criogenico.
   Svetlana era lì, identica a come l’aveva vista l’ultima volta, con i capelli biondi a incorniciarle il visetto angelico. Aveva gli occhi chiusi e sembrava ancora immersa nell’ibernazione. Ma la sottile brina sulla sua pelle si era già sciolta, riscaldata dall’ambiente. La bambina non aveva respiro, né battito cardiaco. E Juri sapeva che era troppo tardi per rianimarla. L’aveva persa di nuovo. Per sempre.
   Lasciato cadere il disgregatore, l’uomo cadde in ginocchio accanto alla capsula, fin troppo simile a una bara. Le lacrime gli annebbiarono la vista. Si coprì il volto con le mani e prese a singhiozzare in modo incontrollabile. Tutti i suoi sforzi erano stati vani, tutte le speranze deluse. Nemmeno viaggiando nel tempo era riuscito a strapparla alla morte. Le aveva solo dato qualche settimana in più, ma lei non si era mai risvegliata. Non aveva mai saputo ciò che lui aveva fatto, nel tentativo di salvarla.
   «Forse è meglio così» mormorò Juri, piangendo calde lacrime. «Eri troppo buona per vivere in questa Galassia infame. Almeno non soffrirai com’è toccato a me. Addio, sorellina... grazie per essere esistita. Riposa in pace, piccola Svetta». Così dicendo la baciò in fronte. Poi si accasciò accanto alla capsula, scosso dai singhiozzi. Attorno a lui le vibrazioni erano sempre più forti. Da un momento all’altro il Reaper e tutto il suo contenuto sarebbero stati distrutti, ma non gli importava.
 
   «È fatta!» disse Vrel, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Ho deviato questo mostro. Cadremo nella Siberia centrale, a centinaia di chilometri dal più vicino centro abitato».
   «Ottimo lavoro» si complimentò Radek, dandogli una pacca sulla spalla. «Radek ad Ascension, teletrasporto per due!».
   Il Comandante e il timoniere erano soli, perché Zafreen aveva già trasferito gli altri superstiti della squadra. Attorno a loro il Reaper vibrava come se dovesse andare in pezzi. Sullo schermo, le verdeggianti foreste e praterie siberiane erano sempre più vicine. Con quell’immagine negli occhi, Radek e Vrel furono tratti in salvo dal teletrasporto.
 
   Col cuore in gola, Jaylah seguì le indicazioni di Juri per trovare il condotto temporale. Era esausta, ma non poteva darsi tregua. Doveva fermare Vosk, o la vittoria sarebbe stata inutile, perché quel mostro avrebbe minacciato ancora l’Unione. Con questo in mente, la mezza Andoriana giunse a una sala con tre porte. Juri le aveva detto di prendere quella centrale, che però era vigilata da due guardie. Ne colpì una, ma dovette nascondersi dietro l’angolo quando l’altra rispose al fuoco.
   «Sono qui» disse Norrin, che l’aveva seguita di corsa. L’Hirogeno si sporse e sparò col fucile phaser, uccidendo il secondo Na’kuhl. «Entriamo insieme» disse mentre tagliava la porta, che non era di Materia Degenere, ma d’iridio. Dopo averne ritagliato il contorno, Norrin l’abbatté con una spallata. Lui e Jaylah fecero irruzione.
   Si trovarono in un salone lungo e stretto, che nella parte terminale aveva una zona rialzata, simile a una pedana di teletrasporto. La piattaforma era parzialmente inglobata in una nicchia dalle pareti azzurrine. Il condotto temporale era già aperto e stabile: il suo ingresso a imbuto lo rendeva simile a un tunnel spaziale. Vosk e i suoi gerarchi stavano per varcarlo, mentre alcuni tecnici manovravano i comandi lungo le pareti. Udendo il frastuono della porta che cadeva, il Leader Supremo si fermò e si girò a mezzo.
   «Vosk! Questo è per la Terra!» gridò Jaylah, sparandogli con il phaser. Nello stesso attimo anche Norrin aprì il fuoco col fucile phaser. I due raggi si arrestarono contro un campo di forza posto a metà del salone. Frustrati, i federali si guardarono attorno, ma stavolta non c’era modo di superare la barriera. Non vi erano comandi cui accedere, né condotti di alimentazione da colpire.
   «Jaylah Chase... la figlia del mio grande nemico» la riconobbe Vosk, premendosi la ferita sulla spalla. «Mi hai ostacolato per l’ultima volta. Torno sul mio mondo e ti lascio qui, a morire». Gli scossoni del Reaper divennero fortissimi. L’impatto era imminente. Poiché il Leader Supremo si attardava, Ghrath e Kraul entrarono nel condotto, seguiti da soldati e tecnici.
   «Hai fallito, Vosk» disse Jaylah. «Hai perso l’Uthat e il Reaper. Kravik è morto e Juri è di nuovo dalla nostra. Fuggi pure, codardo. La prossima volta che ci sfiderai, sarà la tua fine».
   «Stolti federali... non capite che ogni vostra vittoria vi si ritorcerà contro!» ringhiò Vosk. «Presto o tardi l’Unione sarà dilaniata dalla guerra civile. Quel giorno riderò, osservando la mia disfatta che si tramuta in vittoria, senza che io debba muovere un dito!».
   A quella minaccia, Jaylah sentì il sangue alla testa. Estrasse il pugnale di Norrin e glielo puntò contro. «Bada a te!» avvertì. «Se continui a manipolare la Storia, un giorno o l’altro creerai un paradosso più grave degli altri. E ci sparirai dentro per sempre. Nessuno sentirà più parlare di te».
   A quelle parole, il Leader Supremo provò un brivido di terrore, forse per l’unica volta nella sua vita. Sapeva che sparire in un paradosso era possibile, per chi come lui interferiva col tempo. Voleva ribattere, ma non seppe che dire. Si accorse però che era rimasto solo; anche i suoi fedelissimi avevano varcato il condotto. E il Reaper poteva schiantarsi da un momento all’altro. Consumato dalla rabbia e dalla vergogna, Vosk girò sui tacchi ed entrò nel tunnel azzurrino, che si chiuse subito dietro di lui. Venuta meno la principale fonte di luce, il salone piombò nell’oscurità.
 
   Jaylah vacillò, svuotata di ogni energia. Essere giunta così vicina a Vosk, solo per farselo scappare, era una beffa crudele. Chiuse gli occhi, in attesa dell’impatto fatale.
   Accanto a lei, l’Hirogeno si premette il comunicatore. «Norrin ad Ascension, teletrasporto per due» disse, riuscendo misteriosamente a mantenere la calma. Non sapeva se in quel momento si trovavano ancora nella zona schermata, ma con l’impatto imminente non c’era tempo di correre altrove. Trascorsero alcuni secondi, senza che dalla navicella giungesse risposta.
   «Addio» mormorò Jaylah. In quel momento il raggio azzurro lì prelevò. La mezza Andoriana riconobbe la sensazione del trasferimento. Quando riaprì gli occhi era sull’Ascension, assieme a Norrin.
   «Non vado da nessuna parte, sai» sorrise l’Hirogeno. Si affrettarono a liberare la pedana.
   «Bentornati» disse Vrel, che manovrava i comandi del teletrasporto. Accanto a lui c’erano Zafreen e il Comandante Radek. Nel compartimento della navetta vi erano anche i superstiti delle due squadre: pochissimi, a paragone di quanti erano partiti. Tuttavia mancava un volto familiare.
   «Grazie... ma dimmi che hai agganciato Juri!» esclamò Jaylah, accostandosi all’amico.
   «È in una zona ancora difficile da raggiungere... ma credo di avere l’aggancio» disse il mezzo Xindi. Restrinse il raggio di confinamento, per accrescere la potenza del raggio.
   Il teletrasporto ronzò e sulla pedana apparve una figura umana inginocchiata. Il trasferimento fu più lungo del solito, ma quando il bagliore azzurro si estinse, Juri era tra loro. Lo storico alzò lo sguardo sui federali: aveva gli occhi arrossati dal pianto. Si asciugò le lacrime con una mano e si rialzò a fatica. «Avreste dovuto lasciarmi lì con lei» disse con voce rauca.
   «Non è il tuo destino» affermò Jaylah con decisione.
   «Il Reaper sta per schiantarsi» avvertì Radek, che era tornato ai comandi della navicella. «L’abbiamo deviato sulla Siberia, ma anche così farà gravi danni al pianeta».
   «Che zona della Siberia?» s’insospettì Juri. «E in che anno siamo?» chiese con urgenza.
   «Siberia centrale, vicino al fiume Tunguska» rispose il Comandante. «Non siamo certi della data, ma dev’essere l’inizio del XX secolo».
   «È il 1908» disse l’Umano, permettendo a uno strano sorriso d’illuminargli il volto.
   «E lei come fa a saperlo?» si stupì il Rigeliano.
   «Sono uno storico... conosco quest’evento» rispose Juri. «Non temete per la Storia: tutto sta andando com’era destino».
 
   Terminata la battaglia, il laboratorio ingombro di cadaveri era immerso nel silenzio. Qua e là, le apparecchiature semidistrutte dai colpi vaganti emettevano ancora fili di fumo o sprizzavano scintille. Le vibrazioni crescevano a ogni momento, man mano che il Reaper precipitava nell’atmosfera. Furono quelle a svegliare Kravik. Lo scienziato spalancò gli occhi e si alzò a sedere di soprassalto. Il suo volto era sporco di sangue giallo, ormai raggrumato, e la testa gli doleva terribilmente per tutti i colpi ricevuti. Ma era vivo, mentre quelli attorno a lui – federali e Na’kuhl – erano morti. Guardandosi attorno non vide traccia di Juri, né di Jaylah, e neppure dell’Hirogeno. Dovevano essersi salvati. Questo era seccante.
   Con un grosso sforzo, Kravik si rimise in piedi. La testa gli pulsava dolorosamente. Lo scienziato temette di avere una commozione cerebrale. Gli ci volle un attimo per raccogliere le idee. Fuggire... doveva fuggire, prima che la nave fosse distrutta. Arrancò tra i cadaveri, talora inciampandovi, e risalì la scalinata.
   Raggiunto il livello superiore del laboratorio, dove si trovavano le uscite, lo scienziato notò un bagliore vermiglio che proveniva da un angolo. Per un attimo pensò di avere le traveggole. Si affrettò verso l’oggetto risplendente e lo raccolse. Non poteva sbagliarsi... quello era il Tox Uthat. I federali se l’erano lasciato dietro. E non l’avevano certo fatto per errore. Il cristallo era rosso sangue e percorso da crepe che si ramificavano a vista d’occhio. Emetteva anche un fischio acutissimo: per gli Umani sarebbe stato ultrasonico, ma il Na’kuhl riusciva ad avvertirlo. Chiaramente la struttura cristallina era stata compromessa. L’Uthat stava per esplodere e non c’era modo d’impedirlo.
   Kravik si guardò attorno come un animale in trappola. Un oloschermo gli indicò che erano ad appena trenta chilometri dalla superficie terrestre. Mancavano pochi secondi all’impatto: un tempo insufficiente per raggiungere il condotto temporale. E anche se lo avesse raggiunto, lo scienziato era certo che Vosk l’avesse chiuso, per evitare che l’esplosione vi s’incanalasse, danneggiando Na’kuhl Primo.
   Tra le sue mani, l’Uthat emise un suono di cristalli infranti. Le crepe si erano moltiplicate fino a riempirlo completamente. Alcune lame di luce intensissima uscirono dalle spaccature più larghe. I bagliori sanguigni illuminarono il laboratorio semidistrutto e pieno di cadaveri. Kravik levò il cristallo, contemplandolo per l’ultima volta. Il capolavoro di Kal Dano, lo strumento che per un breve lasso di tempo gli aveva dato la conoscenza e il potere di un dio... stava per andare in frantumi. Lo scienziato non desiderava sopravvivergli, ora che sapeva quanto fosse misera e insignificante l’esistenza corporea. «Potere infinito...» mormorò, socchiudendo gli occhi per ammirarlo.
   L’attimo dopo il Tox Uthat gli scoppiò in mano, vaporizzandolo. L’esplosione dilagò all’interno del Reaper, annientando tutto ciò che vi si trovava. Quelli dell’equipaggio che non avevano fatto in tempo a raggiungere il condotto temporale – come i dottori in fuga dall’infermeria – perirono. Persino la Materia Degenere fu disintegrata. La nave di Vosk, che sfrecciava come una stella cadente nel cielo siberiano, svanì in un lampo più radioso del sole.
 
   Era la mattina del 30 giugno 1908, secondo il vecchio calendario terrestre. Il sole appena sorto rischiarava i boschi d’abeti e larici del territorio di Krasnojarsk, nella Siberia centrale. Il fiume Tunguska mormorava nel suo greto pietroso. Alcuni uccelli cantavano tra i rami e la selvaggina si aggirava nel sottobosco. I branchi di alci e renne mossero verso il fiume per abbeverarsi. I pochi abitanti umani, perlopiù cacciatori e allevatori di renne, uscirono dalle umili casupole di legno, pronti a un’altra giornata di fatiche. Era un giorno come tanti in quel remoto angolo di mondo, in cui non succedeva mai niente di nuovo.
   D’un tratto gli uccelli si levarono in volo, tutti nello stesso momento, e fuggirono in un fruscio d’ali. I quadrupedi levarono il muso al cielo. Alci e renne bramirono, scalpitarono e infine si dettero alla fuga. Da qualche parte, nel folto della foresta, i lupi ulularono. Allora anche gli esseri umani alzarono gli occhi al cielo, da cui veniva un bagliore sempre più intenso. Lo stupore divenne ben presto paura; ma nessuno immaginava la rovina che stava per abbattersi su di loro.
   Alle 07:14 in punto, un’immane esplosione si verificò a dieci chilometri d’altezza. Per primo apparve il bagliore, così sfolgorante da essere notato fino a 700 chilometri di distanza. Poi venne l’onda d’urto atmosferica. Ottanta milioni di alberi furono abbattuti all’istante, su una superficie di oltre duemila chilometri quadrati. Caddero come stuzzicadenti, o si piegarono come se un gigante avesse improvvisamente deciso di pettinarsi. Chi si trovava a decine di chilometri fu sollevato da terra e scagliato indietro di qualche metro. Il boato fu così violento che quando i superstiti si rialzarono, sconvolti, si accorsero d’essere sordi. Ad alcuni l’udito tornò nelle ore seguenti; altri non furono così fortunati. L’onda d’urto ruppe i finestrini e fece quasi deragliare i convogli della ferrovia transiberiana, a 600 chilometri dall’epicentro. Fortunatamente la vasta area colpita era scarsamente abitata. Non ci furono morti confermati, anche se di tre persone si persero le tracce, facendo presumere che fossero rimaste vittime della catastrofe.
   Nei decenni seguenti, numerose spedizioni furono condotte nella zona dalle autorità russe, per indagare il fenomeno. Si trovarono gli alberi abbattuti, che nella zona più vicina all’epicentro erano anche bruciacchiati. Alcuni carotaggi del terreno rilevarono la presenza di metalli pesanti, come nickel e iridio. Gli scienziati ipotizzarono che all’origine dell’esplosione ci fosse un asteroide, o forse una cometa, precipitato nell’atmosfera. Il fatto più sconcertante era la mancanza del cratere d’impatto. Dai racconti dei testimoni si comprese che l’oggetto era esploso a mezz’aria, il che spiegava l’assenza di un grande cratere. Ma era strano che i frammenti si fossero completamente polverizzati.
   Con l’avvento dei computer, gli scienziati poterono realizzare modelli sempre più dettagliati dell’evento. Ad affermarsi fu l’ipotesi del frammento di cometa, il cui ghiaccio era sublimato prima di giungere al suolo. Ma questo non impedì a molti di formulare ipotesi più esotiche, come il passaggio di un buco nero microscopico o l’esplosione di un’astronave aliena.
 
   Concluso il salvataggio dei superstiti, l’Ascension indugiava nell’orbita bassa. A migliaia di chilometri da lì, la Keter continuava ad allontanarsi dalla Terra, anche se non c’erano pericoli per l’equipaggio e gli ingegneri procedevano con le riparazioni. Sull’Ascension gli ufficiali superiori si erano raccolti in cabina, per osservare la caduta del Reaper. Con loro c’era anche Juri, stranamente calmo dopo quei terribili eventi. D’un tratto ci fu un bagliore accecante, seguito da un’onda d’urto che disperse le rade nuvole.
   «Addio» mormorò Juri, sapendo che il corpo della sorellina era stato vaporizzato con tutto il resto. Non aveva neanche potuto seppellirla. Nella tomba sulla Luna c’erano solo le ceneri del simulacro con cui l’avevano sostituita per non destare sospetti. Per il resto, di lei rimaneva solo qualche vecchia olografia. Oltre ai ricordi di chi le aveva voluto bene.
   «Buone notizie: il Reaper è esploso prima di colpire la superficie» disse Zafreen dalla postazione sensori. «Si è disintegrato a dieci chilometri d’altezza».
   «Dev’essere per via del Tox Uthat» disse Jaylah. «Quando l’ho colpito, ha cominciato a de-cristallizzarsi. Aveva abbastanza energia per distruggere l’astronave».
   «Potenza dell’esplosione?» chiese Radek, osservando l’onda d’urto con apprensione.
   «Quindici megatoni» rispose l’Orioniana. «Distruggerà un bel tratto di foresta. Ma non temete... quei boschi sono praticamente disabitati» aggiunse.
   «Speriamo... l’ho deviato più a nord possibile» mormorò Vrel, augurandosi che non ci fossero vittime.
   «Allora è finita» disse Radek. «Ma lei come sapeva che sarebbe andata così?» chiese a Juri.
   «Dimenticate che sono uno storico... per giunta di origini russe» rispose l’Umano, permettendo a un lieve sorriso d’increspargli le labbra. «L’Evento di Tunguska del 1908 è ben documentato. Tradizionalmente è stato spiegato con la caduta di un frammento cometario che esplose a mezz’aria, senza lasciare crateri. Ma ora sappiamo la verità... sappiamo che è opera nostra».
   «E lei lo aveva previsto? Come sapeva che i Na’kuhl sarebbero fuggiti proprio in quest’anno?» insisté il Comandante.
   «Era la data che avevo caldeggiato con Vosk, in alternativa al 2053» spiegò Juri. «In quel momento speravo ancora che avremmo cambiato la Storia. Ma sapevo che, in caso contrario, i Na’kuhl dovevano essere distrutti. Così ho suggerito, per il prossimo salto temporale, una data compatibile con la distruzione di un’astronave nell’atmosfera terrestre. Sapete, l’Evento di Tunguska ha lasciato tracce d’iridio. Lo stesso elemento che i Na’kuhl usano per le loro astronavi, oltre alla Materia Degenere, e che scorre persino nelle loro vene. Era solo una flebile speranza, certo... ma non avevo altro».
   «Uhm... chissà se ce la racconta giusta» disse Radek, squadrandolo con sospetto. «In ogni caso, al ritorno sulla Keter lei dovrà essere posto agli arresti».
   «Ci ha salvati, sul Reaper» disse subito Jaylah. «È stato lui a togliere l’energia, abbassando il campo di forza che proteggeva l’Uthat. Ha anche disattivato il sistema di controllo della Materia Degenere, prima che ci uccidesse».
   «In tal caso le dobbiamo la vita» riconobbe il Comandante, osservando lo storico. «Ma non possiamo scordare la sua collaborazione coi Na’kuhl. Dovrà comunque essere processato».
   «Fate pure» disse Juri con indifferenza, e lasciò la cabina. Gli ufficiali si scambiarono occhiate dispiaciute. Quelli della squadra 1 informarono i colleghi della sua scelta di sacrificare Svetlana per salvarli. Allora anche i più risentiti provarono pietà per l’Umano.
   «Stai bene?» chiese Norrin, notando che Jaylah era tornata a fissare l’esplosione di Tunguska. L’onda d’urto si era già diffusa per decine di chilometri, lasciando una chiazza nera sulla foresta. Non erano solo gli alberi abbattuti e bruciacchiati, ma soprattutto le polveri che si espandevano.
   «Sì» sospirò Jaylah, sentendo tutta la stanchezza delle due battaglie consecutive. «Mi spiace solo di non aver preso Vosk».
   «Hai salvato la Terra; questo è l’essenziale» la consolò l’Hirogeno.
   «Ma Vosk è ancora libero di tramare contro l’Unione!» si lamentò la mezza Andoriana.
   «Per adesso abbiamo sventato i suoi piani e lo abbiamo messo in fuga» insisté Norrin. «Pochi, nella Galassia, possono vantarsi di aver fatto tanto. Ma soprattutto gli abbiamo dimostrato che gli Agenti Temporali sono pronti a contrastare le sue mosse. Qualcosa mi dice che non si azzarderà più a uscire dal suo mondo in rovina per molto tempo».
   «Speriamo» disse Jaylah, sempre osservando l’onda d’urto che si allargava, disperdendo le nuvole. «Almeno l’ultimo desiderio di Kal Dano è stato esaudito. Il Tox Uthat è distrutto. Nessuno potrà più spegnere le stelle». 
 

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Capitolo 15
*** ...non temerò alcun male ***


-Capitolo 14: ...non temerò alcun male

 

   «Controllo finale ultimato» disse Dib. «Il nucleo temporale è pienamente operativo».

   «Bene, ci riporti nel nostro tempo appena terminato il ciclo di ricarica» ordinò il Capitano Hod, osservando soddisfatta la plancia appena riparata e fervente di attività.

   Dopo la distruzione del Reaper, la Keter si era nascosta nel sistema solare esterno per sfuggire ai telescopi del XX secolo, mentre l’equipaggio procedeva alle riparazioni. I danni erano così estesi che anche lavorando con doppi turni erano servite due settimane per rimettere la nave in grado di viaggiare nel tempo. Durante l’attesa, il Capitano aveva inviato l’Ascension e alcune sonde a esaminare la Terra, per accertarsi che nessun Na’kuhl si fosse teletrasportato in superficie. Fortunatamente le ricerche avevano dato esito negativo.

   L’attesa, inoltre, era servita ai medici per curare i feriti della battaglia, che erano molti. E tutto l’equipaggio aveva amministrato le esequie dei caduti. Redigendo il bilancio delle vittime e dei feriti, la dottoressa Mol si avvide che, tra tutte le missioni della Keter, questa era stata di gran lunga la più costosa in termini di vite. Contando tutti gli scontri, dalla missione su Suliban fino alla resa dei conti col Reaper, c’erano stati 107 morti e 153 feriti, molti dei quali gravi. Erano valori altissimi, considerato che l’equipaggio della Keter ammontava a 710 elementi in tutto. Gli ufficiali della Sicurezza erano stati falcidiati nell’ultima battaglia, mentre della Squadra Temporale non restava che Jaylah. Dopo quell’esperienza tremenda, molti dell’equipaggio volevano chiedere il trasferimento o persino lasciare la Flotta Stellare. Per fortuna gli ufficiali superiori sarebbero rimasti; ma di certo l’astronave sarebbe stata diversa, con un tale rimpasto di personale.

   «Il nucleo temporale ha raggiunto il potenziale di cascata» annunciò Dib dalla sala macchine. In plancia, il Capitano e gli ufficiali trattennero il respiro. Mancavano pochi secondi al balzo nel tempo, ma a preoccuparli era ciò che avrebbero trovato nel XXVI secolo. L’alterazione temporale era ancora fresca nella loro memoria. Avevano lasciato un presente in preda a Borg e Tuteriani e temevano che, nonostante i loro sforzi, l’interferenza dei Na’kuhl non fosse stata del tutto corretta.

   Il lampo bianco del nucleo temporale li avvolse. Ritrovandosi ancora tutti interi, gli ufficiali ripresero a respirare. «Siamo tornati al presente» annunciò Zafreen. «Non rilevo anomalie, né attività Borg».

   «Chiami il Comando di Flotta» ordinò il Capitano, mantenendo la calma. Dopo la sua esperienza di quasi morte su Pyris VII c’era poco che potesse scuoterla. Per il resto dell’equipaggio, però, l’attesa fu una tortura.

   «Ci rispondono!» disse finalmente Zafreen. «È l’Ammiraglio Chase».

   L’Ammiraglio apparve sullo schermo. Era un uomo in là con gli anni, dai capelli e la corta barba grigi. Aveva l’aria stanca, ma quando vide gli ufficiali della Keter – tra cui la figlia Jaylah – il suo viso si rischiarò e alcune rughe svanirono. «Keter... è un sollievo vedervi» esordì. «Il Comando vi aveva dichiarati dispersi dopo la battaglia di Base Apocalisse, ma ero certo che sareste tornati. Dove siete stati, che avete fatto in questo mese?».

   «È una lunga storia» disse Hod. «Potrà leggerla nel mio rapporto. Chiedo il permesso di entrare nell’orbita terrestre».

   «Permesso accordato» disse Chase. «Sapete, il vostro ritorno è una fortuna per tutti noi. Da quando i Na’kuhl sono spariti col Tox Uthat, la Flotta è in allarme. Voi siete gli unici testimoni della battaglia: dovete dirci tutto».

   «Oh, quella... è storia vecchia» spiegò Hod in tono leggero. «Può revocare lo stato d’allerta, perché abbiamo distrutto l’Uthat. Abbiamo anche scongiurato un’alterazione temporale di livello 1, intavolato trattative coi Devidiani e scoperto un sabotatore fra i nostri Agenti. Inoltre abbiamo distrutto la nuova ammiraglia Na’kuhl, il Reaper, anche se mi duole informarla che Vosk ci è sfuggito».

   L’Ammiraglio sbatté gli occhi incredulo, cercando di mettersi al passo con una situazione che si era evoluta ben più in fretta delle aspettative. «Oh, non preoccupatevi per Vosk» riuscì infine a dire. «In questo mese avete fatto più di quanto la maggior parte degli equipaggi faccia in una carriera. Avete parlato di un’alterazione temporale; siete stati nel passato?».

   «Per un mese, sì» confermò il Capitano. «In ottemperanza agli Accordi Temporali ho regolato il ritorno di conseguenza, perché non ci ritrovassimo più vecchi rispetto a voi. Ecco perché è sembrato che fossimo scomparsi».

   «Capisco» annuì Chase. «Non vedo l’ora di leggere il suo rapporto... anzi, voglio vederla di persona. La invito al Comando, così che possa riferire direttamente allo stato maggiore».

   «Verrò quanto prima» promise Hod. «Ma devo anche informarla che abbiamo avuto gravi danni e molte vittime. Questa nave avrà bisogno di una revisione completa e di un rimpasto di personale, per tornare in azione».

   «Certo, vi metterò in cima alla lista» promise l’Ammiraglio. «So cosa significa affrontare i Na’kuhl... dev’essere stata una dura lotta».

   «Lo è stata» ammise Hod, ricordando i momenti peggiori. «Ma posso contare su ufficiali straordinari, come il signor Shil, che si è distinto in battaglia e al quale devo la vita. O sua figlia Jaylah, che ha affrontato una delle missioni temporali più ardue di sempre». A queste parole gli interessati arrossirono. Per quanto non disdegnassero i complimenti, essere lodati davanti a tutti faceva un certo effetto.

   «Sono felice di saperlo» disse Chase, guardando la figlia con affetto e orgoglio. «Mentre la nave è in riparazione, sarete tutti in licenza. Ve lo siete meritato».

 

   Vista dalla Keter, la Terra era uno spettacolo incantevole. L’emisfero in ombra non era semibuio come durante l’Evento di Tunguska, né l’atmosfera era soffocata dalle polveri radioattive, come dopo il Giorno dell’Orrore. No, la Terra del XXVI secolo sfolgorava di luci provenienti dalle grandi metropoli e la sua atmosfera era stata depurata da ogni agente nocivo. Ma dopo la loro ultima missione, gli ufficiali della Keter sapevano quanto fosse costato arrivare a quel risultato, e quanto esso fosse fragile.

   Non appena l’astronave si fu inserita nell’orbita, cominciò il viavai di navette e teletrasporti. Personale ausiliario accorse da altri vascelli per sostituire gli stanchi ufficiali della Keter. Gli ingegneri di Utopia Planitia e di Plutone esaminarono la nave, valutando i danni e stilando una scaletta degli interventi. Intanto il Capitano si recò ad Atlantide, l’isola artificiale su cui sorgeva il Quartier Generale di Flotta, per fare rapporto. A gestire le attività restò il Comandante Radek. Gran parte dell’equipaggio scese a terra, ma alcuni si attardavano.

   Con una piccola esitazione, Jaylah si accostò alla porta dell’alloggio di Juri, che era sorvegliato da una guardia. Da quando lo storico era rientrato a bordo, il Capitano aveva dovuto metterlo agli arresti. L’unica concessione che aveva potuto fargli era stata di confinarlo nel suo alloggio, anziché in una delle scomode prigioni di bordo.

   «Avanti» disse Juri, avendo udito il segnale.

   L’ingresso si aprì e Jaylah entrò cautamente nell’alloggio dell’Umano. Era stata molte volte nel suo laboratorio, per discutere della prossima missione o semplicemente per chiedere consiglio, ma nell’alloggio mai. Era un ambiente piccolo, arredato in modo ordinatissimo. Su una parete sgombra era proiettato un falò olografico, con tanto di effetto sonoro scoppiettante. Lo storico era seduto lì davanti, su un divanetto, e stava leggendo un libro; non un testo scaricato su un d-pad, ma un autentico volume di carta stampata. Vedendo entrare Jaylah, lo depose su un tavolino e si alzò, venendole incontro.

   «Ciao, Juri» esordì la mezza Andoriana.

   «Benvenuta» l’accolse lui. «Posso offrirti qualcosa? A patto di averne il tempo... immagino che stiano venendo a prendermi».

   «La Sicurezza sarà qui fra poco» confermò Jaylah. «Grazie dell’offerta, ma non prendo niente. Volevo solo sapere se posso fare qualcosa per te».

   «Questa è una lettera per i miei parenti» disse Juri. Prese un’unità di memoria dal tavolino e gliela porse. «Se la spedissi dal carcere, non so se la riceverebbero. E comunque non voglio che mezza Flotta la legga, prima di concludere che non contiene nulla di pericoloso. Quindi ti chiedo di consegnargliela personalmente».

   «Lo farò» promise la mezza Andoriana, prendendo l’unità mnemonica. «Sai, io e Norrin abbiamo specificato, nei nostri rapporti, quant’è stato prezioso il tuo contributo nell’ultima battaglia. Saremmo morti senza il tuo aiuto, con quello che ti è costato. Per questo saremo sempre in debito con te».

   «Nessun debito» disse l’Umano, che non pareva curarsi molto della sua sorte. «Ho fatto la mia scelta e convivrò con le conseguenze. Almeno starò lontano dalle navi temporali. A proposito, hai parlato con la Commissione per l’Integrità Temporale?».

   «Sì, dicono che l’Evento di Tunguska era un paradosso di predestinazione» rispose la mezza Andoriana, mordendosi il labbro.

   «Quindi le cose non potevano andare diversamente?» si accigliò Juri. «Detto così, sembra che siamo in una botte di ferro. Perché disturbarsi a combattere Vosk, se tanto le cose devono andare per forza come sono già andate? Se questa storia della predestinazione fosse vera, voi Agenti Temporali potreste andare in pensione» l’additò.

   «Non è così semplice» obiettò Jaylah. «In fondo la linea temporale era cambiata, prima che noi seguissimo il Reaper. Non so... ogni volta che crediamo di aver capito come funziona il tempo, succede qualcosa che rimette tutto in discussione».

   «Sembra che anche a te non piaccia la predestinazione» indovinò lo storico.

   «La odio» ammise l’Agente. «Questi paradossi non dimostrano forse l’inesistenza del libero arbitrio? Perché se le cose non possono andare altrimenti, allora viviamo in un Universo deterministico, dove tutte le nostre scelte sono obbligate. Anche i nostri sentimenti diventano prevedibili» si lamentò, in preda a un’angoscia esistenziale.

   «Mah...» fece Juri, camminando avanti e indietro. «Io sono del parere che anche se questa vicenda ha seguito un corso non lineare, ciò non annulla le nostre decisioni e non ci priva della volontà. Come dici tu, la linea temporale era cambiata, finché non avete deciso di rimetterla a posto. Alla fin fine, sono le nostre scelte che modellano la realtà... anche se spesso non nel modo che vorremmo» aggiunse malinconico.

   Per qualche secondo scese il silenzio, interrotto solo dagli scoppiettii del caminetto olografico. Poi la porta si aprì, senza avviso sonoro, segno che la Sicurezza aveva autorizzato l’ingresso. Entrarono due ufficiali, un Cardassiano e un Romulano. Non erano della Keter; li aveva mandati la Flotta per scortare Juri in prigione.

   «Il dottor Smirnov, suppongo» disse il Romulano.

   «No, sono suo cugino» rispose Juri con una smorfia. «Il dottor Smirnov è uscito cinque minuti fa. Non so quando torna».

   Il Romulano inarcò un sopracciglio. «Il Comandante Radek ci ha riferito che il dottor Smirnov è agli arresti domiciliari. Questo è il suo alloggio, quindi è lei che cerchiamo» disse con voce incolore.

   «Complimenti per l’acume» ironizzò lo storico.

   «Deve venire subito con noi» disse il Cardassiano, impaziente. «La scorteremo al penitenziario di Auckland, dove risiederà in attesa della sentenza».

   «No, grazie, sto bene dove sto» lo punzecchiò Juri, facendo persino il gesto di risedersi.

   Persa la pazienza, il Cardassiano lo colpì alla nuca con il calcio del fucile phaser, facendolo cadere in ginocchio. «Muoviti, brutta feccia umana!» berciò. «E non credere di cavartela con la prigione. Sei un pirata temporale, un collaborazionista... la pena di morte non te la leva nessuno!» gongolò soddisfatto.

   A queste parole, Jaylah si sentì ribollire il sangue. «Stupida testa a cucchiaio! È a causa di quelli come te che gli Umani non si fidano più dell’Unione! Li trattate come feccia e poi vi stupite se ci si rivoltano contro?!» strepitò.

   «Non è il caso di alterarsi, Agente» disse il Romulano in tono misurato. «Il mio collega è stato provocato, anche se ha esagerato nella reazione. E spero di non fraintendere le sue parole. Non starà giustificando il terrorismo e la pirateria temporale con la scusa che gli Umani sono maltrattati? Perché nessun torto, vero o presunto, giustifica questi crimini».

   «No, certo» rispose Jaylah a denti stretti. Come Agente Temporale non poteva certo sostenere il contrario.

   «Vedi?» fece Juri, rialzandosi a fatica mentre si massaggiava la nuca dolorante. «Quelli come me sono “feccia che merita la morte”, anche prima del processo. Come capisco lo Spettro!».

   «Aspettate un momento!» esclamò Jaylah, trattenendo le guardie. Si avvicinò a Juri, ancora sofferente per il colpo. La pirateria temporale era l’unico reato ancora punibile con l’esecuzione, quindi lo storico rischiava sul serio. «Se vuoi salvarti, collabora con la Flotta» gli sussurrò. «Racconta tutto ciò che hai appreso sui Na’kuhl, nell’anno trascorso con loro. Così la tua condanna sarà commutata in ergastolo e noi saremo più preparati, al prossimo scontro».

   «Un buon consiglio» riconobbe Juri, massaggiandosi la nuca. «Lo seguirei senz’altro... se fossi interessato a sopravvivere». Esaurita la pazienza, le guardie lo presero per le spalle e lo trascinarono fuori dall’alloggio.

   «Non gettare la tua vita!» gridò Jaylah, inseguendoli nel corridoio. «Le cose potrebbero cambiare, in futuro».

   «Certe cose non cambiano mai» rispose l’Umano. Si scrollò di dosso le guardie, rialzò la schiena e prese a camminare normalmente. Dietro di lui, il Cardassiano e il Romulano gli puntavano i fucili alla schiena, come un plotone d’esecuzione.

 

   Giunti in sala teletrasporto, li attendeva una piccola sorpresa. Anche se il Capitano Hod era scesa ad Atlantide per conferire con gli Ammiragli, gli altri ufficiali superiori della Keter erano lì, per dire addio a Juri. Radek, Norrin, Dib, Ladya, Vrel e Zafreen si erano allineati lungo la parete, per manifestare la loro vicinanza allo sfortunato Umano. Jaylah si accostò a Zafreen, l’ultima della fila. Osservarono Juri mentre lui e le guardie salivano sulla pedana del teletrasporto. Nessuno parlò, ma la loro semplice presenza valeva più di mille parole.

   Quando fu sulla piattaforma, Juri si girò verso i colleghi e li osservò. «Congratulazioni, avete salvato l’Unione e ora siete tutti eroi» disse. «Ma non siatene troppo lieti, perché le vostre vittorie vanno a vantaggio di Rangda. E quando la vecchia strega riterrà di non avere più bisogno di voi, vi schiaccerà tutti senza pietà. Sapete che è vero» disse, fissando Jaylah. L’attimo dopo lui e le guardie svanirono nel lampo azzurro del teletrasporto.

   Andato Juri, gli ufficiali lasciarono la sala e si separarono in silenzio, tornando alle loro incombenze. Senza lo storico la Keter sembrava più vuota. Ma le sue ultime parole ronzavano nelle loro menti, come un monito impossibile da dimenticare.

 

   Era una giornata tersa ad Atlantide. Una lieve brezza spirava dal mare e il sole illuminava la piazza davanti al Quartier Generale della Flotta Stellare. Migliaia di ufficiali, di ogni grado e sezione, assistevano all’evento. Davanti a loro, su una pedana rialzata, erano allineati il Capitano Hod e gli ufficiali della Keter, tutti in alta uniforme. Gli sguardi si alzarono al cielo quando cinque caccia in formazione a V sorvolarono la zona. Uno di essi lasciò la formazione, nell’antico gesto di onore per i caduti. I federali tennero un minuto di silenzio per commemorare le vittime della missione.

   Trascorso il minuto, l’Ammiraglio Chase si fece avanti. «Grazie d’essere qui riuniti» disse, rivolto alla folla. «Oggi rendiamo onore agli ufficiali della Keter; a quelli che sono qui con noi e a quelli che non ce l’hanno fatta. Il loro coraggio e il loro sacrificio hanno ripristinato la linea temporale nella quale tutti noi viviamo. A nome della Flotta Stellare e dell’Unione Galattica, grazie» disse l’Ammiraglio, rivolto agli interessati. «Ancora una volta i Na’kuhl sono stati respinti. Continueremo a vigilare su di loro e su chiunque minacci il corso della Storia. Perché dalla Storia – anche dai capitoli più bui – abbiamo ancora molto da imparare. Per questo motivo, conferisco la Medaglia al Valore al Capitano Bina Hod della USS Keter. Possa essere d’esempio e d’ispirazione per quanti prestano servizio nella Flotta».

   Così dicendo, Chase appuntò la medaglia sulla spalla di Hod. L’Elaysiana indossava un nuovo esoscheletro, anche se le fascette metalliche erano così sottili che molti spettatori non le notarono. Era ancora convalescente dopo gli strapazzi e comunque in mancanza della terapia genica le serviva un sostegno. Ma forse le cose sarebbero cambiate, ora che aveva davanti a sé una lunga licenza. Lei e la dottoressa Mol ne avevano già parlato a porte chiuse.

   La folla proruppe in applausi, mentre l’Ammiraglio stringeva la mano a Hod. Anche gli ufficiali della Keter applaudirono il loro Capitano, che per quanto non desse troppo valore alle celebrazioni fu commossa da tutte quelle attenzioni.

   Quando tornò il silenzio, l’Elaysiana prese la parola. «Ripristinare la linea temporale non sarebbe stato possibile senza l’ingegno e il valore dei miei ufficiali. Quindi vorrei a mia volta premiare quelli che più si sono adoperati per renderlo possibile. A cominciare dal nostro Ingegnere Capo, la 76ª Distillazione di Blu, che noi chiamiamo Dib. Dopo essere stato accidentalmente accelerato nel tempo, il signor Dib ha riparato la Keter dai danni che stavano per distruggerla, affrontando anche un pericoloso sabotatore». Così dicendo, il Capitano appuntò una medaglia sulla tuta termica del Penumbrano. «In questo arduo compito, il signor Dib è stato assistito dal Guardiamarina Zafreen, che perciò riceve i gradi di Tenente».

   Ci fu una nuova ondata di applausi. Dib li ricevette in silenzio, perfettamente immobile, mentre Zafreen era visibilmente emozionata. Sorrise a Vrel, felice d’essere al centro dell’attenzione.

   «Consegno ora la Medaglia al Valore a Jaylah Chase, della Squadra Temporale» proseguì il Capitano, appuntandole l’onorificenza. «Il Tenente Chase ha condotto la sua squadra contro i peggiori avversari del passato e del presente, correggendo l’alterazione temporale. Poi ha distrutto il Tox Uthat, salvando il sistema solare dall’annientamento. Grazie di tutto» disse, stringendole la mano.

   «Neanch’io ero sola» disse Jaylah. «Vorrei ricordare i miei colleghi della Squadra Temporale, caduti negli scontri. E il Maggiore Selmak della Milizia Sulibana» disse malinconica. Avrebbe voluto nominare anche i soldati dell’AEV, ma i dettagli della missione erano top secret. Quanto a Juri, che li aveva salvati tutti, e a Svetlana, vittima innocente del conflitto, pensò che non era il caso di dargli esposizione mediatica.

   «Infine conferisco lo stesso riconoscimento a Vrel Shil, timoniere della Keter» annunciò il Capitano. «Con la sua guida esperta, il Tenente Shil ci ha permesso di sconfiggere il Reaper. Subito dopo ha partecipato all’abbordaggio, giungendo in plancia, dove ha personalmente messo in fuga Vosk e ha deviato la nave in caduta su un territorio disabitato. Già in precedenza, durante il naufragio su un pianeta ostile, il signor Shil mi aveva salvato la vita, a rischio della propria. Per questo lo ringrazio anche a titolo personale» disse, stringendogli la mano. Fatto questo si rivolse di nuovo alla folla. «Riguardo al naufragio, devo ringraziare anche Lyra Shil, che pur non appartenendo alla Flotta ha rischiato la vita per salvarci, dimostrando che non tutti gli eroi indossano l’uniforme».

   A queste parole ci fu un ultimo, prolungato scroscio di applausi. Lyra, che stava in prima fila giù dal palco, arrossì per l’emozione e scambiò uno sguardo commosso col fratello. Era lieta di vedere che il Capitano riconosceva i loro sforzi. Ma anche senza quella cerimonia sarebbe stata contenta lo stesso, perché sebbene lei e Vrel la pensassero diversamente su molte cose, almeno erano di nuovo in buoni rapporti. E questo contava più di tutte le celebrazioni e le medaglie della Galassia.

 

   «Uno scambio di corpo, davvero?!» rise Lyra. Lei e Vrel passeggiavano negli assolati giardini dell’Accademia, lontano dalla folla che si disperdeva lentamente dopo aver assistito all’evento. Con loro c’erano Jaylah e Zafreen, protagoniste dell’increscioso incidente di due anni prima.

   «Sì, te lo giuro!» rise a sua volta Vrel. «Sono stati giorni pazzeschi. Tutti a bordo sapevamo dello scambio, ma era difficile trovarsi davanti Zafreen e tenere a mente che quella era Jaylah. O viceversa».

   «Cose che capitano, quando si mettono le mani su tecnologie aliene sconosciute» commentò Jaylah, lanciando un’occhiataccia all’Orioniana.

   «Sarebbe potuto succedere a chiunque» si difese lei.

   «E quindi come avete fatto?» s’interessò Lyra.

   «La dottoressa Mol diceva che forse bastava aspettare perché l’effetto s’invertisse» spiegò Vrel. «Ma i giorni passavano e non cambiava nulla...».

   «Nulla? Continuavi a fare strane cose ai miei capelli!» ricordò Jaylah, sempre rivolta a Zafreen. «Mi hai fatta sospendere dal servizio, mentre tu continuavi a fare il tuo lavoro!».

   «Quante volte mi devo scusare?» fece Zafreen, alzando gli occhi al cielo. «Tu piuttosto, mi tenevi sempre il fiato sul collo. Non potevo appartarmi un attimo col mio fidanzato che subito...». A queste parole la sua voce si smorzò. Fino a quel momento avevano avuto tutti un tono leggero e scherzoso, anche quando si rinfacciavano i guai. Ma ricordando che lei e Vrel si erano lasciati, Zafreen s’intristì. «Beh, insomma, alla fine siamo tornate normali. Ci sono stati di mezzo un rapimento, una battaglia e un miracolo, ma abbiamo ripreso i nostri corpi. È questo che conta».

   «Uhm, mi direte un’altra volta i dettagli» disse Lyra, dando un colpetto di gomito a Jaylah. «Mi sono appena ricordata che ho un impegno urgentissimo».

   «Sì, anch’io» annuì la mezza Andoriana. «Ci vediamo al Comando. Ma voi continuate la passeggiata! Sono certa che avete molto di cui parlare». Le due si dileguarono, lasciando soli Vrel e Zafreen.

   «Non ci hanno neanche provato a farlo sembrare naturale, eh?» si accigliò il mezzo Xindi.

   «Credo che anche loro debbano parlare» disse l’Orioniana, guardandolo di sottecchi.

   «E va bene» sospirò Vrel. «Ora che Hakon è morto, posso chiedertelo. Perché?! Perché andare con lui? Non mi pareva che avessimo problemi. O sì?».

   «No, nessun grosso problema» assicurò Zafreen. «È solo che eravamo in una fase di stanca».

   «E tanto basta per darla al primo che capita?!» chiese Vrel, ancora ferito.

   «Che vuoi che ti dica... sono Orioniana, a volte agisco d’impulso» si giustificò Zafreen. «Comunque è stato un errore, e non solo perché lui voleva ucciderci. È stato un errore farlo alle tue spalle, non parlartene prima. Di questo ti chiedo scusa».

   «Uhm... e va bene, scuse accettate» disse il timoniere con un grosso sforzo. Dopo aver visto la morte da vicino, gli sembrava inutile vivere nel risentimento.

   «Splendido!» gioì Zafreen, battendo le mani. «Ora basta parlare del passato. Mettiamoci una pietra sopra e pensiamo al futuro!» si animò. «Riguardo a noi due, stavo pensando che dopo queste esperienze dovremmo... sì, insomma... sono cose che ti fanno crescere... vedere la vita in un’altra prospettiva...» disse, lisciandosi una ciocca di capelli. Moriva dalla voglia di tornare con lui, ma per non fare una figuraccia voleva che fosse Vrel a proporlo.

   «Penso di capire cosa intendi» disse il timoniere, osservandola meditabondo. Avevano smesso di passeggiare e si fronteggiavano, in una zona appartata dei giardini.

   «Sì?!» fece l’Orioniana, pendendo dalle sue labbra. Si aspettava la richiesta di tornare assieme, così avrebbe potuto fingere di pensarci su e infine accettare graziosamente. Si sbagliava di grosso.

   «In questi tre anni ci siamo divertiti, ma l’abbiamo presa in modo adolescenziale» spiegò Vrel. «Credo sia arrivato il momento di crescere e andare avanti con le nostre vite. Ma siccome siamo colleghi e continueremo a lavorare assieme, spero che potremo farlo senza rancori, restando amici. Questo è come la penso. E tu, sei dello stesso parere?».

   «Io...» fece Zafreen, oltremodo delusa. Non si aspettava minimamente un discorso del genere. Pensò che gli avrebbe urlato in faccia, dandogli dell’idiota. O che si sarebbe chiusa nel mutismo finché lui avesse capito l’equivoco. Ma comprese che era inutile fare scenate. Se Vrel non voleva tornare con lei, non l’avrebbe fatto in nessun caso. Dare in escandescenze lo avrebbe solo fatto soffrire. E lei non voleva assolutamente dargli altri dolori. «Certo, la penso allo stesso modo» disse, sentendo male al cuore. «Resteremo amici. Ma quando saremo in servizio non potrai più darmi ordini, Tenente... ora ho il tuo stesso grado!» gli ricordò, accennando alla nuova mostrina che aveva sul colletto.

   «Non che ci sia mai riuscito» disse Vrel, abbozzando un sorriso.

 

   «Vrel mi ha raccontato cos’è successo su Pyris» disse Jaylah. Lei e Lyra camminavano accanto a un ruscelletto, nella zona più interna dei giardini, dove si trovavano grandi alberi. «È una fortuna che tu fossi con lui. Altrimenti sarebbe stato capace di andarci da solo, ad affrontare i Devidiani. E si sarebbe fatto ammazzare. È la persona più leale che conosco».

   «Già, anche troppo» annuì Lyra. Dalle parole di Jaylah era chiaro che Vrel non le aveva raccontato tutti i dettagli. «Vi sarete salvati la vita parecchie volte» suggerì la cronista.

   «Non teniamo il conto, ma credo che mi abbia salvata più volte lui» ammise Jaylah. «Vrel è il cuore della Keter».

   «Sì, ora lo vedo» disse Lyra, osservandola. «Sono felice che vi siate ritrovati sulla stessa nave, così da potervi guardare le spalle a vicenda».

   «Non sembravi tanto felice, quando sei salita a bordo» le ricordò Jaylah, ancora un po’ circospetta. Anche se i loro rapporti erano migliorati, la mezza Andoriana continuava a serrare la mente in presenza della giornalista.

   «Ti devo le mie scuse» disse Lyra. «Non avevo compreso quanto fosse importante il vostro lavoro. E soprattutto quanti rischi correte! Pensavo che i racconti dei miei genitori sui tempi dell’Enterprise fossero esagerati, ma ora ho visto cosa dovete affrontare là fuori. Spero di poter girare qualche servizio al riguardo, per sensibilizzare l’opinione pubblica. La gente deve sapere quanti dei vostri si sacrificano per l’Unione».

   «Se tornerai alla frontiera, stai attenta anche tu» raccomandò Jaylah. «Noi andiamo sempre in squadra e siamo equipaggiati. Tu no, quindi bada ai rischi che corri».

   «Farò attenzione» promise Lyra, guardandola di sottecchi. Per anni aveva invidiato Jaylah, per le sue capacità e per il fatto che sembrasse rubarle l’affetto di Vrel. Ma non le era sfuggito che, dopo questa missione, la mezza Andoriana era l’unica superstite della sua squadra. Quindi avrebbe dovuto addestrare altri Agenti, per poi rituffarsi con loro in pericoli del genere. «No... non t’invidio più» si disse la cronista.

 

   Salutata Jaylah, Lyra lasciò i giardini dell’Accademia, ma restò in zona. Prima di rincasare c’era una cosa che voleva vedere. La mezza Xindi raggiunse una vasta zona museale, dove la Flotta aveva raccolto i suoi reperti storici, raccolti da molti pianeti. Il pubblico poteva così ammirare quattrocento anni di storia, dai primi passi della Flotta Astrale terrestre agli anni eroici delle missioni quinquennali, dalla Guerra del Dominio a quella delle Anomalie. Al centro dell’area, su una grande piazza, era esposto il pezzo forte: l’USS Voyager, la “nave dei miracoli” che due secoli prima aveva esplorato il Quadrante Delta. I piloni di atterraggio erano stati rinforzati, per permetterle di restare stabilmente a terra. Lyra l’ammirò, sentendo la stessa emozione che provava da bambina.

   Fu così che Vrel trovò la sorella, quando uscì a sua volta dai giardini. «Bella, vero?» chiese, accostandosi a lei per osservare la Voyager.

   «Sì... ricordi quando ci salimmo da bambini?» chiese Lyra.

   «Come dimenticarlo? Ci nascondemmo ai custodi per esplorarla a modo nostro» ridacchiò Vrel, rammentando quella marachella. «Alla fine ci beccarono... ma solo dopo averci inseguiti nei tubi di Jefferies».

   «Papà e mamma erano furiosi» ricordò Lyra.

   «Lo erano con me, che dovevo tenerti d’occhio. Tu eri abbastanza piccola da sfuggire ai rimproveri» corresse Vrel.

   «Devo essere stata una palla al piede» ammise la cronista. «Sono ancora così?».

   «Qualche volta» rispose il timoniere. «No, scherzo!» aggiunse, vedendola intristita. «Sono lieto che tu abbia trovato la tua strada, dico davvero».

   Lyra sospirò, osservando di nuovo l’astronave di classe Intrepid. «Ricordo quel giorno come fosse ieri. Salire sulla Voyager, dopo tutte le storie che avevo sentito... è stato da brividi. Ho pensato che un giorno anch’io sarei entrata nella Flotta Stellare, come mamma e papà». La mezza Xindi rise sommessamente fra sé. «Ma crescendo ho cambiato idea. Forse sono state le storie poco lusinghiere che ho sentito. Forse la consapevolezza che non avrei potuto eguagliare i nostri genitori. O forse semplicemente la quantità di cose da studiare. Comunque ho capito che non sarei mai stata nella Flotta. Questo ti dispiace? Pensi che io non sia all’altezza della famiglia?».

   «No, te lo dissi allora e te lo ripeto adesso» rispose Vrel con decisione. «Anzi, in un certo senso mi solleva sapere che non corri i nostri rischi».

   «Quando andavo a scuola, tutti mi chiedevano se avrei seguito le orme dei nostri genitori... poi anche le tue...» mormorò Lyra, tormentata.

   «Non si può vivere per soddisfare le aspettative altrui» ribadì Vrel. «Se ti senti realizzata come giornalista, ben venga! Ti chiedo solo d’essere obiettiva, se ti capita di parlare di noi».

   «Lo sarò» promise Lyra. Per un po’ rimasero a guardare la sagoma affusolata e lucente della Voyager.

   «Ti andrebbe di visitarla ancora?» propose Vrel. «Stavolta però non c’infileremo nei condotti».

   «Mi piacerebbe» sorrise Lyra. «Ma si sta facendo tardi, devo andare». Si levò il comunicatore di tasca – la versione palmare usata dai civili – e vi lesse l’ora. «Sì, devo proprio scappare» confermò.

   «Speravo che ti trattenessi un po’ di più» disse il timoniere, dispiaciuto di doverla lasciare proprio ora che si erano riappacificati.

   «Il mio capufficio aspetta ancora l’articolo sulla missione a Suliban» spiegò la cronista. «Non temere, lo rimaneggerò prima di darglielo. Ci sono alcuni... eccessi polemici da rivedere». Era un eufemismo. Quell’articolo andava cestinato e riscritto daccapo.

   «Okay, non ti trattengo» cedette Vrel. «A presto, sorellina. Ricorda che sono in licenza, finché la Keter è in ristrutturazione. A meno che i lavori si prolunghino di molto. In quel caso potrei essere assegnato temporaneamente a un’altra nave. Comunque ti farò sapere. Teniamoci in contatto».

   «Senz’altro» promise Lyra. «A presto, fratellone. Sono orgogliosa di te». Si abbracciarono con affetto, prima di lasciarsi. Intanto il sole cominciava a calare, riverberando sullo scafo argenteo della Voyager.

 

   Tornare a casa fu una sensazione stranissima per Jaylah. Dopo gli anni nello spazio, era arrivata a considerare “casa” il suo alloggio sulla Keter. Ma quella in cui faceva rientro era la vera casa di famiglia, il luogo in cui era cresciuta e in cui vivevano tuttora i suoi genitori. Avrebbe passato lì almeno qualche giorno, mentre la Flotta sbrigava le lungaggini burocratiche. Erano due anni interi che non ci metteva piede, cioè da quando era cominciata la sua tresca con lo Spettro, visto che da allora spendeva le licenze per incontrarlo, anziché tornare a casa. Al suo ingresso si sentì un’estranea, anche se la casa in sé non era molto cambiata. La sua vecchia camera, poi, era identica a come l’aveva lasciata.

   «Sono io che sono cambiata. Vedo le cose in modo diverso» pensò, passando in rassegna gli oggetti familiari. I suoi genitori comunque fecero di tutto per farla sentire a casa. Cenando con loro, quella sera, Jaylah si sentì di nuovo parte della famiglia. «Ah... era da tanto che non mangiavo così» disse a fine pasto.

   «È da tanto che non venivi qui» disse sua madre Neelah con una punta di rimprovero. «So quanto significa per te l’incarico sulla Keter. Ma le licenze, almeno, potresti passarle a casa... sempre che tu non abbia altri progetti». Le sue antenne si tesero.

   Notando questo, Jaylah chiuse ermeticamente i pensieri a ogni tentativo d’intrusione. Sua madre era una telepate eccezionale, tanto che anni prima aveva usato l’Uthat senza nessuna interfaccia. Non doveva intromettersi nei suoi pensieri, scoprendo ciò che non doveva.

   «La tua chiusura è già di per sé eloquente» le trasmise telepaticamente Neelah. «C’è una parte di te che proprio non possiamo conoscere, vero?».

   «Mamma, ti prego!» rispose lei, sempre col pensiero. «So quello che faccio».

   «Lo spero. Stai molto, molto attenta, piccola mia» rispose Neelah, e Jaylah ne avvertì la tremenda preoccupazione. «Se devi dalla tua rotta, potresti perderti per sempre».

   Accanto a loro, l’Ammiraglio Chase si accorse del muto dialogo tra la moglie e la figlia. Non percepiva i pensieri, non essendo un telepate, ma nel corso degli anni aveva imparato a capire quando le due conversavano a quel modo. Si vedeva dalle antenne tese, dagli sguardi fissi e concentrati. Chase aveva anche imparato a non chiedere spiegazioni, perché non le avrebbe ottenute. Doveva semplicemente lasciarle fare, finché la tensione si allentava e la normale conversazione riprendeva. Anche in quel caso andò così.

 

   Dopo cena, Jaylah si ritirò nella sua vecchia camera. Non era solo nostalgia. Seduta al terminale del computer, si connetté a Memory Alpha, la monumentale enciclopedia dell’Unione. Consultò il database storico, cercando informazioni sul Colonnello Green, i Potenziati, l’AEV e la Terza Guerra Mondiale, per confrontarle con ciò che aveva visto. Poiché alcune notizie erano riservate, usò la sua autorizzazione di Agente Temporale per accedere ai file della Flotta Stellare.

   Come le era capitato in precedenza, trovò pochissime informazioni su Kamala Singh. Le sue responsabilità nello scoppio della guerra atomica non erano mai emerse; non si sapeva neppure che fosse una Potenziata. «Le cose cambieranno» si disse Jaylah. «Il mio rapporto missione rivelerà chi era quella donna».

   La mezza Andoriana rilesse poi la biografia di Green, concentrandosi su ciò che era accaduto dopo il Giorno dell’Orrore. Il Colonnello aveva affrontato la Coalizione Orientale nel Kashmir, finendo disperso col suo battaglione. Man mano che i governi mondiali cadevano a pezzi, aveva raccolto un esercito misto, che comprendeva anche molti sbandati dell’ECON. A quel punto era tornato in America, attraverso l’Alaska, impadronendosi del nord-ovest del continente. Era qui che aveva commesso le peggiori atrocità, sterminando milioni di civili colpiti dalle radiazioni. Per qualche anno aveva regnato come un despota post-industriale, somministrando droghe alle sue truppe per spronarle a battersi in quelle condizioni infernali. Infine si era spinto nel Montana, dove era stato ucciso da un cecchino. Gli scopi del suo ultimo viaggio erano ignoti, come anche l’identità del killer. Certo i nemici non gli mancavano: molti non gli avevano perdonato gli eccidi degli ultimi anni.

   Jaylah si chiese se il viaggio nel Montana avesse a che fare con Cochrane e il suo volo a curvatura. Era un’ipotesi stuzzicante. Lei stessa aveva appurato che Green era ben consapevole dell’esistenza degli alieni. Cochrane e i suoi collaboratori avevano costruito la Phoenix, la prima navicella a curvatura, a partire da un missile balistico mai partito, ma non avevano potuto farlo del tutto in segreto. Qualche notizia era certamente trapelata. Forse il Colonnello aveva intravisto nel Progetto Phoenix l’ultima occasione di lasciare il mondo post-atomico e contattare gli alieni. Ma qualcuno l’aveva fermato per sempre. Jaylah non ne aveva prove, eppure se lo sentì nel cuore: era stato Flint. Lei stessa glielo aveva chiesto e il Generale aveva promesso di occuparsene.

   L’Agente Temporale avrebbe dovuto fermarsi, ma la curiosità prese il sopravvento. Sfruttando la sua autorizzazione cercò notizie su Flint e infine le trovò. Lo schivo Immortale aveva lasciato poche tracce dietro di sé, ma nel 2269 era stato trovato da Kirk su Holberg 917-G, un piccolo pianeta del sistema Omega. Si era ritirato lì da qualche anno, auto-esiliandosi in uno splendido palazzo, costruito chissà come. Ma non era rimasto in ozio. Aveva costruito un sofisticato androide di nome Rayna, modellandolo come la sua donna ideale, nella speranza che s’innamorasse di lui. Ripensando al bozzetto nel suo ufficio, Jaylah si disse che evidentemente era da molto che Flint rimuginava su quel progetto. Ma come al solito, creare l’amore in laboratorio si era rivelato impossibile. Rayna, che non sapeva d’essere una macchina, aveva avuto difficoltà a provare emozioni. E quando alla fine si era innamorata, i suoi sentimenti erano rivolti a Kirk. Ma dopo aver scoperto la verità su se stessa, non voleva neanche ferire Flint, il suo creatore. Alla fine lo stress era stato eccessivo per i suoi circuiti e si era disattivata. I federali, inoltre, avevano scoperto che il processo d’invecchiamento di Flint – fino ad allora lentissimo – aveva ripreso la velocità normale. Quale che fosse il delicato equilibrio che gli aveva donato la straordinaria longevità, era cessato quando aveva lasciato la Terra. Pur consapevole di questo, Flint aveva deciso di non tornare sul suo mondo natio. Dopo di allora non c’erano più stati contatti, ma era logico presumere che fosse morto entro la fine del XXIII secolo.

   «Forse dopo tanti millenni era stanco di vivere» si disse Jaylah. «O forse il mondo era troppo cambiato, dopo il volo di Cochrane e la nascita della Federazione. La delusione con Rayna dev’essere stata la spinta finale. Addio, Generale... non ti dimenticherò». Con questo pensiero la mezza Andoriana eseguì il saluto militare, come si usava nel XXI secolo. Lo aveva visto fare più volte ai soldati dell’AEV, mentre era con loro. «Addio a tutti voi. L’AEV non c’è più, ma ora c’è la Flotta Stellare che vigila».

 

   Le manette tintinnarono mentre Juri veniva scortato nella sala degli interrogatori. Era una stanza spoglia, di un deprimente color grigio. Conteneva solo un tavolo, con tre sedie da un lato e una dall’altro. Le guardie costrinsero l’Umano a sedersi su quest’ultima, che era più massiccia delle altre. Gli tolsero le manette, ma solo per avvincergli i polsi ai braccioli. Dopo di che se ne andarono, chiudendo la porta.

   Trascorse un tempo indefinito. Poi l’ingresso si riaprì, lasciando entrare tre alti ufficiali della Sicurezza. Erano un Coridano, un Mazarita e un Sauriano, che si accomodarono sulle tre seggiole. Per un po’ si limitarono a fissare il prigioniero, senza parlare.

   «Mi prude il naso» disse Juri in tono sardonico. «Qualcuno di voi potrebbe cortesemente grattarmelo?».

   «Dottor Smirnov, le sono stati letti i capi d’accusa» disse il Coridano, che aveva il volto nascosto da una maschera respiratoria. «È consapevole che rischia la pena capitale?».

   «E voi siete consapevoli che nessuno come me conosce i Na’kuhl?» ritorse l’Umano, che aveva riflettuto sul consiglio di Jaylah. «Ho passato un anno in mezzo a loro. Conosco le loro tecnologie... le strategie... come sono organizzati... come ragionano. Potrei tracciarvi il profilo psicologico di Vosk, se lo desiderate. Peccato che tutta questa conoscenza debba morire con me» disse in tono fatalista.

   «Non si atteggi troppo» lo ammonì il Coridano. «Abbiamo strumenti, telepatici e tecnologici, per estrarle tutte le informazioni che vogliamo, anche contro la sua volontà».

   «Sarebbe una violazione del regolamento, mi pare» notò Juri, mantenendo la calma. «Non potete neanche invocare la legge marziale, dato che non siamo in guerra. Oh, a proposito... io sono un privato cittadino. Quindi devo essere giudicato da un tribunale civile, non da voi gallinacci della Flotta».

   «Data la natura estremamente riservata delle informazioni in suo possesso, la Flotta gestirà la cosa» spiegò il Mazarita. «Deve capire che non le restano molte opzioni. Se rifiuta di collaborare, le conseguenze saranno spiacevoli. Dovremo estrarre comunque le informazioni dal suo cervello. Dopo di che sarà condannato a morte».

   «Ma l’Ammiraglio Chase le offre un accordo» intervenne il Sauriano. «Se collabora pienamente con noi, la sua pena sarà commutata in ergastolo. Avrà anche qualche piccola comodità in cella. Ad esempio potrà leggere e ricevere visite».

   «Non me ne aspetto molte» disse lo storico senza emozione. «Fatemi capire: lei è il poliziotto buono, mentre lei è quello cattivo?» chiese, accennando prima al Sauriano e poi al Mazarita. «E lei che ci sta a fare?» aggiunse, rivolto al Coridano.

   «Questo atteggiamento non l’agevola, dottor Smirnov» avvertì quest’ultimo. «La sua scelta è semplice: ergastolo o pena capitale».

   «Era stato più generoso Vosk» borbottò Juri. «Lui almeno mi avrebbe lasciato libero, in cambio della mia collaborazione».

   «Vosk detiene un potere assoluto sul suo popolo. Noi, invece, ci muoviamo entro i limiti del regolamento» ribatté il Coridano. «Le ricorderei che, collaborando con noi, aiuterà l’Unione a difendersi dai prossimi assalti Na’kuhl. Ma è chiaro che a lei non importa nulla degli altri».

   «Oh, si sbaglia. Me ne importa eccome» rispose lo storico, increspando appena le labbra. «Ragion per cui non mi fido dell’Unione. Ma sì, accetto il patteggiamento. A una condizione» avvertì.

   «E sarebbe?» chiese il Mazarita, guardandolo con ostilità.

   «Voglio poter seguire i notiziari» rispose Juri.

   «Perché? Aspetta qualche notizia in particolare?» s’insospettì l’ufficiale.

   «Direi di no. Voglio solo accorgermene, quando l’Unione comincerà a sgretolarsi» spiegò l’Umano, dandogli un’occhiata tagliente.

   «La Federazione è durata quattrocento anni» disse il Coridano, con voce tesa. «L’Unione è ancora giovane, ma durerà almeno altrettanto».

   «Lei dice?» chiese lo storico, con aria scettica. «Eppure io sento molti scricchiolii».

   Per qualche secondo calò il silenzio. Poi il Sauriano si schiarì la voce. «Dunque accetta il patteggiamento?» chiese.

   «Sì, lo accetto» confermò Juri. «A patto di poter leggere e seguire i notiziari».

   «Così sia» disse il Coridano, lapidario.

 

   Lyra indugiò sulla soglia dell’ufficio. Dopo il ritorno sulla Terra, aveva riscritto l’articolo sulla missione a Suliban e l’aveva inviato al Federal News. Ne aveva anche scritto un altro sull’incidente temporale, stando attenta a non divulgare informazioni riservate. Poi si era concessa una buona notte di sonno, perché sapeva che la prossima giornata si annunciava impegnativa. Infatti, appena alzata, era stata convocata dal suo principale. La mezza Xindi si fece coraggio ed entrò nell’ufficio. «Buongiorno, signor Brott» disse in tono rispettoso.

   Il capo l’attendeva alla scrivania. Era un Boliano calvo e un po’ corpulento, come molti della sua specie. Solitamente era affabile, tranne quando qualcuno o qualcosa lo contrariava. E quel giorno il signor Brott era molto contrariato. «Si sieda» disse, senza neanche alzare gli occhi dall’oloschermo su cui stava scrivendo.

   Lyra prese posto sulla sedia degli ospiti, in silenzio. Passò un tempo penosamente lungo prima che il superiore spegnesse lo schermo e si degnasse di parlarle. «Signorina Shil, vorrei che riscrivesse l’ultimo articolo» disse.

   «Quello sulla missione a Suliban?» chiese la cronista con aria innocente.

   «No, quello è accettabile» disse Brott, seccato. «Mi riferisco a ciò che ha scritto sull’incidente temporale. Dal suo resoconto sembra che quelli della Keter abbiano salvato l’Unione».

   «Non “sembra”. È così» puntualizzò Lyra.

   «Oh, andiamo! Questa è troppo grossa da digerire» sbuffò il Boliano. «E poi, come ha ammesso lei stessa, nei momenti chiave non era in plancia, quindi non sa cos’è accaduto davvero. Per quanto ne sappiamo, il Capitano Hod potrebbe essere corresponsabile del pasticcio temporale» suggerì.

   «No, lo escludo categoricamente» rispose la mezza Xindi. «Hod ha guidato il suo equipaggio alla vittoria, in una battaglia difficilissima. Ha sconfitto i Na’kuhl e ripristinato la nostra linea temporale».

   «Tutto da sola?!» fece Brott, incredulo.

   «Certo che no. Come ho scritto nell’articolo, gli ufficiali della Keter hanno contribuito in modo determinante» rispose Lyra. «Per non parlare degli Agenti Temporali, che hanno affrontato sfide tremende e si sono sacrificati quasi tutti per la causa».

   Il capufficio aggrottò la fronte. «Uhm... lei deve capire che, in questo momento, non possiamo pubblicare una storia così» disse.

   «Perché no?» volle sapere la cronista.

   «Perché tra poche settimane il Senato voterà sulla Prima Direttiva» spiegò Brott. «La Flotta Stellare vuole mantenerla e i suoi simpatizzanti voteranno di conseguenza. Quindi è indispensabile esporre al pubblico tutte le colpe e le manchevolezze della Flotta. Dobbiamo far capire all’opinione pubblica che la Flotta è il problema, non la soluzione. Così i cittadini, a loro volta, faranno pressione sui loro rappresentanti in Senato».

   «Posso parlare liberamente, signore?» chiese Lyra, inarcando un sopracciglio alla maniera vulcaniana.

   «Prego».

   «Ho sempre pensato che la nostra etica professionale imponga di riferire le notizie in modo imparziale» spiegò la mezza Xindi. «Certo, si può obiettare che l’oggettività assoluta è un miraggio. Ma da qui a schierarsi apertamente per un partito politico, ce ne passa».

   Il Boliano la studiò per qualche secondo, sempre con la fronte aggrottata. «Lei è molto giovane, quindi le perdonerò questo scivolone» disse. «No, la nostra deontologia impone di educare la popolazione, per favorire i comportamenti virtuosi e in generale il progresso sociale».

   «Chi decide cos’è “virtuoso”?» s’insospettì Lyra. «Chi ha stabilito come si misura il “progresso sociale”? Questi sono criteri arbitrari!».

   «No, per niente» rispose Brott. «Virtuoso è tutto ciò che va in direzione dell’inclusione, mentre il progresso sociale si misura con l’innalzamento della qualità di vita e la diminuzione della conflittualità. Tu hai ancora molto da imparare, giovanotta» sospirò, passando a un tono più confidenziale. «Salendo sulla Keter, avevi un solo compito: trovare le prove di qualche crimine della Flotta e darle a noi. Siccome hai fatto fiasco, la tua carriera non sarà rapida come speravi. Scordati di fare la speaker: prima dovrai riguadagnarti la mia fiducia. Ora levati di torno» disse, e riattivò l’oloschermo, riprendendo il suo lavoro.

   Congedata a quel modo, Lyra lasciò la sedia e si diresse verso l’uscita, con il morale sottoterra. Era già alla porta quando il capufficio la richiamò: «Ah, signorina Shil... se per caso sapessi qualcosa – anche solo un sospetto o una voce di corridoio – che non hai messo nell’articolo, questo è il momento di parlare. In fondo gli ufficiali della Keter sono molto ambigui. L’Ufficiale Tattico è un Hirogeno, la cui famiglia uccide per sport. L’addetta ai sensori viene da un famigerato clan del Sindacato di Orione. E come consulente storico avevano il dottor Smirnov, che sta venendo processato come collaboratore dei Na’kuhl! Una vera galleria degli orrori. Quindi... sei certa di non sapere nulla d’interessante?».

   «Al cento per cento» rispose Lyra con freddezza. «Comunque il Capitano Hod giudica gli ufficiali per le loro azioni individuali, non per le parentele. E nemmeno per ciò che dicono di loro i notiziari».

   Ciò detto, la cronista lasciò l’ufficio di Brott. L’incontro le aveva lasciato l’amaro in bocca e non solo per la minaccia riguardo la sua carriera. Quando aveva preso servizio presso il Federal News, la mezza Xindi sperava di entrare nel tempio della verità. Ma ora si accorgeva che gli avvertimenti dei suoi genitori erano veri: lì dentro c’era una mentalità da regime. Non importava quanto fossero nobili e condivisibili i loro ideali: nel momento in cui facevano propaganda per influenzare le scelte politiche degli spettatori, tradivano la loro missione. E c’era nell’aria un problema ancora più grave. «Prima o poi ci sarà guerra aperta fra l’Unione e la Flotta Stellare» si disse Lyra con un brivido, allontanandosi.

 

   Come tutti gli ambienti di lavoro dei Na’kuhl, anche l’infermeria era avvolta nella penombra. Alcuni strumenti medici ronzavano sommessamente, proiettando gli ologrammi con i risultati delle analisi. Vosk si alzò dal lettino, dove era stato disteso mentre i dottori lo curavano. Per sua richiesta lo avevano fatto senza anestesia.

   «Siete di nuovo in perfette condizioni di salute, Leader Supremo» assicurò il medico capo.

   «Uhm...» fece Vosk, tastandosi la mandibola, là dove il calcio di Vrel lo aveva colpito. Questa volta ci era mancato poco. In vita sua aveva combattuto molte battaglie, ma non era mai stato così vicino a farsi uccidere. Se non fosse stato per il sacrificio dei suoi coraggiosi ufficiali, non sarebbe sopravvissuto.

   «Vi sentite bene?» chiese un’infermiera, premurosa.

   «Sì, sono a posto» rispose seccamente il Leader Supremo, scendendo dal lettino. Almeno lo era nel corpo. Ma il suo orgoglio sanguinava ancora. Aveva passato anni a progettare quell’incursione temporale. Aveva investito le poche risorse che gli restavano nella costruzione del Reaper. Ma alla fine aveva fallito su tutta la linea. Non aveva alterato la Storia in modo favorevole, né distrutto la Terra. Aveva avuto tra le mani l’illimitato potere del Tox Uthat e se l’era fatto sfuggire. Peggio ancora, la morte di Kravik e della sua equipe avrebbe rallentato i progressi nella scienza temporale. E non poteva neanche incolpare gli altri dei suoi fallimenti, visto che quando era toccato a lui non era riuscito a vendicare Ifrit. Quest’ultima cosa gli bruciava più di tutto il resto.

   «Torno allo stato maggiore» disse Vosk, diretto all’uscita. Due guardie del corpo erano lì ad aspettarlo. Prima che potesse allontanarsi, tuttavia, l’infermeria cominciò a tremare. Un sordo boato risuonò tutt’intorno a loro. I macchinari tremarono, alcuni strumenti posati sulle mensole caddero e i medici stessi dovettero reggersi alle pareti o ai lettini. Il Leader Supremo vacillò. Sapeva cosa stava accadendo; aveva già vissuto un’esperienza simile, da ragazzo. Le città Na’kuhl erano costruite migliaia di chilometri nel sottosuolo, per sfruttare il calore sempre più fioco del nucleo. A forza di scavare un livello sotto l’altro, i Na’kuhl avevano provocato una grave instabilità geologica. Così, per quante precauzioni prendessero, a volte c’erano dei crolli. E quando interi quartieri di una città sotterranea erano schiacciati sotto milioni di tonnellate di roccia e metallo, le vittime si contavano a migliaia.

   Dopo quella che parve un’eternità, gli scossoni cessarono. «Rapporto danni» disse Vosk con voce rauca.

   «C’è stato un crollo nella sezione 9 della città» riferì subito un dottore, consultando un terminale del computer. «I livelli 10, 11 e 12 sono stati schiacciati». Mentre parlava partì l’allarme dell’ospedale. Presto sarebbero arrivati i feriti, estratti dalle macerie.

   «Può darmi un bilancio delle vittime?» chiese Vosk, pur sapendo che era prematuro.

   «È troppo presto per le cifre» rispose infatti il medico. «Ma la sezione 9 è densamente abitata, quindi dobbiamo prepararci al peggio. Ci saranno migliaia di vittime e ancora più feriti».

   «Fate tutto il possibile. Vi autorizzo a impiegare tutte le risorse necessarie, anche facendole affluire dalle altre città» disse Vosk.

   «Come dobbiamo regolarci coi feriti gravi?» chiese il medico capo.

   «Se le ferite sono tali da renderli invalidi in modo permanente, terminateli» ordinò il Leader Supremo. «Le nostre risorse sono limitate. Non possiamo accollarci questo peso per la società» spiegò.

   «Come ordinate».

   A Vosk parve di cogliere una certa disapprovazione tra i dottori che lo circondavano. Certo nessuno di loro avrebbe osato contestare un suo ordine diretto. Ma probabilmente cominciavano a dubitare della sua leadership. «E non posso biasimarli» pensò il Na’kuhl, ricordando la cocente sconfitta appena subita. «Devo andare. Tenetemi costantemente aggiornato» disse, lasciando la sala.

 

   Una settimana dopo, Vosk riunì a consiglio il suo stato maggiore. Era stata una settimana infernale: i danni del crollo erano ancora più gravi del previsto. Alcune infrastrutture chiave della capitale, come la centrale energetica e le serre idroponiche, erano seriamente danneggiate. C’erano cinquantamila vittime, più altrettanti feriti gravi da terminare. E le previsioni dei geologi erano sconfortanti: il pianeta aveva oltrepassato il punto di non ritorno. Anche smettendo di scavare, il collasso del mantello era inevitabile. I crolli sarebbero divenuti sempre più frequenti e catastrofici, finché sarebbe venuto giù tutto. I Na’kuhl avrebbero dovuto abbandonare il loro mondo, diventando una specie nomade. Di fronte alla rovina incombente, servivano provvedimenti estremi.

   I gerarchi Na’kuhl si riunirono in un grande salone, illuminato da fioche luci rossastre. Come loro abitudine restarono in piedi. Il Leader Supremo parlò loro da un podio leggermente rialzato. «Benvenuti» esordì. «Siete tutti informati sugli eventi degli ultimi giorni, quindi non entrerò nei dettagli. Vi ho convocati per parlarvi del futuro. Il nostro mondo è sempre più instabile, un giorno dovremo abbandonarlo. E con l’Unione che ci preme da tutte le parti, negandoci lo spazio vitale, il nostro destino è infausto. Solo il viaggio nel tempo potrà salvarci. Ma anche questo non sarà facile, perché dovremo scontrarci con gli Agenti Temporali. Ho constatato personalmente quanto siano ostinati e pericolosi» ammise, digrignando i denti. «Purtroppo la morte dello stimato Direttore Kravik e dei suoi più stretti collaboratori costituisce un duro colpo alla nostra ricerca temporale».

   «Dunque quale sarà la nostra strategia, negli anni a venire?» chiese Ghrath.

   «Risparmieremo le risorse. Eviteremo di esporre le nostre forze armate ad altri scontri e rifiuteremo ogni contatto con l’Unione» decretò Vosk. «Intanto continueremo ad affinare il viaggio nel tempo, per renderlo sempre più rapido e difficile da rintracciare. Quando saremo certi che gli Agenti Temporali non possono seguirci, allora cambieremo di nuovo la Storia. La modelleremo in accordo con la nostra volontà. Fratelli miei... per quanto la nostra situazione appaia difficile, vi prometto che alla fine prevarremo!».

   Così dicendo, il Leader Supremo estrasse la vibro-lama e la tenne alta, in segno di augurio. I suoi gerarchi lo imitarono.

   «Mio signore... anche se entreremo in una fase isolazionista, potremmo comunque inviare le nostre spie nella Galassia» suggerì Kraul. «Così carpiranno gli ultimi progressi nella scienza temporale».

   «Sì, questo si può fare» convenne Vosk. «Ma ve ne occuperete voi. Finché durerà l’isolamento, intendo affidare la responsabilità di governo a una giunta militare. Ci sarete tutti voi, sotto la supervisione di Ghrath. Ma non scordate, nemmeno per un istante, che io resto il Leader Supremo, e tornerò al momento opportuno» ammonì.

   A quell’annuncio, mormorii e sguardi di sorpresa percorsero il salone. Nella lunghissima storia della civiltà Na’kuhl era capitato ben di rado che un Leader Supremo delegasse il comando.

   «Accetto l’onore e l’impegno che mi affidate, mio signore» disse prontamente Ghrath, venendogli a fianco. «Durante l’attesa ricostruirò le nostre forze. Ma posso chiedervi che farete voi, nel frattempo?».

   «Sarò sempre fra voi, anche se non potrete parlarmi» rispose Vosk.

 

   Il sarcofago Na’kuhl si aprì con un suono raschiante. Osservandolo, il Leader Supremo inspirò a fondo. Quel giaciglio somigliava in modo inquietante a una bara. Finché vi avesse riposato, sarebbe stato vulnerabile. Certo, si trovava in un bunker ultra-protetto, con sistemi di sicurezza e guardie scelte. Ma doveva comunque confidare che i suoi sottoposti lo avrebbero risvegliato al momento opportuno, invece di lasciarlo lì per sempre, o addirittura di ucciderlo nel sonno. Questa mancanza di controllo lo inquietava. Ma aveva già preso la decisione; era tardi per tornare sui suoi passi.

   «Siete mai stato ibernato?» domandò il medico capo.

   «No, mai» rispose Vosk. «Ma sono bene informato sulla procedura. Conosco gli effetti fisici che avrà su di me».

   «E quelli psicologici?» chiese il dottore. «Al risveglio potreste essere confuso e subire una temporanea perdita di memoria».

   «Tutti sintomi che svaniscono in poche ore» notò il Leader Supremo.

   «Sì, anche se molto dipende da quanto durerà l’ibernazione» avvertì il medico. «Se fosse qualche anno, non avrete problemi. Ma se vi resterete più a lungo... decenni o persino secoli... vi servirà più tempo per riprendervi. Inoltre subirete lo shock di svegliarvi in una Galassia cambiata».

   «Vincerò i disagi fisici e quelli psicologici» disse Vosk con sicurezza. «Ora date inizio alla procedura».

   «Come desiderate, Leader Supremo». I medici premettero i simboli rossi sul sarcofago, attivandolo. Una gelida nebbiolina bianca si levò dal giaciglio, incorniciando la figura di Vosk. I sarcofagi Na’kuhl somigliavano alle capsule di stasi federali, nel senso che rallentavano il metabolismo, permettendo agli occupanti di sopravvivere per tempi lunghissimi. Ciò era facilitato dalla fisiologia dei Na’kuhl, che avevano la capacità di entrare in una stasi naturale. Il sarcofago non faceva che prolungarla. C’erano stati casi di Na’kuhl risvegliati dopo millenni, che con la riabilitazione avevano recuperato appieno le facoltà psico-fisiche. Per la verità c’era stato anche qualche incidente, in tempi remoti, ma l’affinamento tecnologico aveva ormai reso sicurissima la procedura.

   «Sarcofago pronto. Potete accomodarvi, mio signore» disse il medico capo.

   Vosk fece come detto. Si distese nel sarcofago, fatto su misura per lui, ignorando il freddo pungente che gli entrava nelle ossa. Si chiese quanto avrebbe dormito: anni, decadi... forse interi secoli. «In quel caso, gli avversari che mi hanno umiliato saranno morti e sepolti» si disse. Era una prospettiva confortante, anche se gli rimordeva di non essere riuscito a sconfiggerli lui stesso; quel che stava facendo sapeva troppo di fuga.

   Prima che il coperchio si richiudesse, Ghrath gli venne a fianco. «Buon riposo, mio signore» gli augurò. «Al risveglio troverete le vostre forze apparecchiate. E un viaggio nel tempo così evoluto che nemmeno gli Agenti Temporali potranno rintracciarci».

   «Ci conto» disse Vosk, cominciando già a sentirsi intorpidito. «Svegliami anche in caso di grave calamità. Ad esempio se una forza d’invasione nemica minacciasse il nostro pianeta. O se il mantello iniziasse a collassare». Questo gli dava un tempo massimo: i geologi dicevano che il collasso si sarebbe verificato entro due o tre secoli. «Chissà se dormirò così a lungo. E in quel caso chissà cosa troverò al risveglio» si disse.

   «Avete la mia parola, Leader Supremo» promise Ghrath. «Attendo di rivedervi, per consumare la nostra vendetta contro i federali».

   «Vendetta sarà; e poi la vittoria finale!» promise Vosk, mentre la lastra superiore scorreva per richiudersi. Le tenebre lo avvolsero e un suono metallico lo avvisò che il sarcofago si era sigillato. Ghrath era il suo ufficiale più fidato... non lo avrebbe tradito. Anche perché se gli fosse successo qualcosa mentre era in stasi, il suo braccio destro avrebbe dovuto risponderne alla giunta militare. Il Leader Supremo non doveva nemmeno temere che Ghrath invecchiasse troppo e fosse sostituito da qualcun altro. I Na’kuhl erano una specie longeva e sapevano usare la tecnologia per prolungarsi ulteriormente la vita. Due o tre secoli non bastavano a togliere di mezzo Ghrath, Kraul e gli altri fedeli.

   Con questo pensiero, Vosk rallentò il respiro e il battito cardiaco, entrando nella stasi naturale. Sapeva che, una volta fatto questo, il sarcofago avrebbe reso l’ibernazione ancora più profonda. Una sottile brina si formò sulla sua pelle, mentre l’afflusso di sangue ai tessuti diminuiva. Poco alla volta i pensieri si sfilacciarono, mentre scivolava nel sonno. Il suo ultimo augurio, prima di addormentarsi, fu di sognare Ifrit.

 

   Un mese dopo, la Keter era nell’orbita di Plutone, per terminare le riparazioni. Le Work Bee si affaccendavano intorno al suo scafo, parzialmente avvolto da un bacino di carenaggio. A bordo, le sale teletrasporto erano sempre in funzione. Il personale tecnico faceva la spola fra l’astronave e la base sotterranea, portando pezzi di ricambio e nuovi upgrade. In gran parte erano ingegneri di Plutone, ma c’erano anche Dib e alcuni dei suoi, che avevano esperienza della nave. Sale e corridoi erano pieni di tecnici affaccendati, che talora discutevano animatamente. Le zone più danneggiate, quelle che erano state invase dal metano, venivano smontate e ricostruite di sana pianta. Una nuova dotazione di navette – tra cui una navicella temporale – faceva bella mostra di sé nell’hangar, per rimpiazzare quelle distrutte. Anche la dotazione di sonde e boe spaziali veniva rifornita, e così pure le scorte di siluri, quasi esauriti nell’ultima battaglia. Non c’era dubbio che, a lavori ultimati, la nave avrebbe avuto un aspetto diverso.

   In mezzo a quel fervore ricostruttivo, una navetta affusolata uscì dalla cavitazione e sfrecciò verso la Keter. Trasmise alla base i codici di autorizzazione, che furono accettati. «Navicella Ascension, non potete accedere all’hangar, per via dei lavori in corso» avvertì il controllore. «Attraccate al boccaporto numero 2».

   «Ricevuto».

   La navetta si accostò allo scafo corazzato, color blu-violetto. Chi la pilotava dovette fare molta attenzione a non tagliare la strada a qualche Work Bee. Trovato il boccaporto 2, la navetta girò di 90 gradi, attraccando di poppa. La camera stagna si pressurizzò e il portello si aprì, permettendo all’occupante di mettere piede sulla Keter.

   «Ah... finalmente a casa!».

   Il Capitano Hod si guardò intorno. Il corridoio era mezzo sventrato: su un intero lato mancavano le paratie, così che le componenti del computer e della griglia energetica erano in piena vista. Non c’erano tecnici al lavoro, in quel momento, ma forse erano in pausa. «Uhm... avrei dovuto avvisare del mio arrivo con più anticipo» pensò l’Elaysiana. Era un mese che non metteva piede sulla Keter, ma si era sempre tenuta aggiornata sui lavori, grazie ai rapporti di Radek e Dib. Ora che finalmente era riuscita a tornare lo aveva fatto in sordina, più per guardarsi intorno che per altro, visto che mancavano ancora settimane al varo. A riprova di questo, non indossava nemmeno l’uniforme; era vestita da civile, con un soprabito scuro. Solo il comunicatore la qualificava come un ufficiale di Flotta. A quanto sapeva, tra i suoi ufficiali soltanto il Comandante e l’Ingegnere Capo erano a bordo in quel momento. Per quanto li avesse avvertiti all’ultimo, era strano che non fossero lì a riceverla, e che non avessero nemmeno mandato altri.

   «Hod a Radek, sono a bordo» disse, premendosi il comunicatore. Non ci fu alcuna risposta. «Strano... forse è sceso alla base» pensò. «Hod a sala macchine... mi sente, Dib?». Ancora niente. Per essere una nave piena di lavori, la Keter era stranamente deserta.

   «Il Capitano Hod è attesa in sala mensa» l’avvertì il computer.

   «Attesa da chi?» domandò l’Elaysiana, sempre più perplessa.

   «La sua domanda non è riconosciuta. Prego, riformulare».

   «Va beh, lascia perdere. Lo scoprirò da sola» si rassegnò Hod. Il ritorno sulla Keter non era entusiasmante come se l’era aspettato. «Sarà che ci sono i lavori in corso. Lo sapevo che dovevo far depositare la polvere prima di tornare. Mannaggia alla mia impazienza!».

   Lungo la strada per la mensa, il Capitano incontrò solo tecnici di Plutone che la salutarono distrattamente. Alcuni erano così concentrati sul lavoro, o nei loro battibecchi, che non la videro neppure. Con il morale ormai basso, l’Elaysiana raggiunse l’ingresso della sala. Quando le due ante si aprirono, rientrando nella parete, si accorse che dentro era completamente buio.

   «Beh, che scherzo è questo?!».

   In fondo alla sala c’era un bagliore intermittente, come di un circuito difettoso. Il Capitano pensò che, se fosse riuscita a ripararlo, magari le luci si sarebbero accese. Aveva un gran bisogno di vederci chiaro, in questa faccenda. «Non ho gli strumenti con me... ma se vedo qual è il problema, almeno potrò informare i tecnici» si disse. Con questo proposito varcò l’ingresso, che si richiuse alle sue spalle.

   L’Elaysiana si trovò a vagare nel buio pesto. Camminò piano, a tentoni, per non urtare qualche sedia o tavolo. Man mano che avanzava, si accorse che il bagliore non veniva da una parete, ma dal centro di un tavolo. La luminosità intermittente evidenziò una grossa sagoma umanoide, seduta dall’altra parte. Qualcuno l’aspettava nel buio. «Chi va là?!» chiese, preparandosi al peggio. In quella le luci si accesero, abbagliandola.

   «SORPRESA!» gridarono molte voci. Poco alla volta il Capitano tornò a vederci. Radek, Norrin, Dib, Ladya, Jaylah, Vrel e Zafreen erano tutti lì, in abiti civili. Avevano sgombrato la mensa, accostando i tavoli alle pareti e tenendo solo quello più grande al centro. Lo avevano imbandito di prelibatezze, tra cui una torta con la candelina scoppiettante, che lei aveva scambiato per un circuito guasto. Infine si erano raccolti sul lato opposto della tavola. La figura massiccia che Hod aveva intravisto nell’ombra non era altri che Radek. Ora il Comandante e gli altri si erano alzati per accoglierla.

   «Beh, e questo che significa?!» chiese il Capitano, frastornata.

   «Vi avevo detto che gli Elaysiani non hanno familiarità con le feste a sorpresa» commentò Dib. Il Penumbrano indossava la solita tuta termica bianca. Tuttavia qualcuno – forse Zafreen – gli aveva legato al casco un cappellino da festa, di forma conica e dai colori sgargianti.

   «Una festa... per me?» si commosse Hod.

   «Per chi, sennò?» sorrise Ladya, venendole incontro. «Quando mi ha detto che voleva tornare a bordo, non ho resistito alla tentazione di avvisare gli altri. L’abbiamo preceduta per organizzare questa festicciola. Spero che non le sia troppo dispiaciuta l’iniziale mancanza di accoglienza. Serviva ad accentuare la sorpresa» si scusò.

   «No, è... un’idea bellissima. Proprio non me l’aspettavo» ammise il Capitano, asciugandosi una lacrima di commozione. «Grazie a tutti voi, dal profondo del cuore».

   «Vuole fare l’annuncio?» le sussurrò la dottoressa all’orecchio.

   «Sì... penso che sia l’occasione giusta» convenne l’Elaysiana. Un po’ emozionata, si tolse il soprabito. Tutti poterono vedere che non indossava l’esoscheletro di sostegno. Sebbene fosse ancora longilinea, gambe e braccia non erano più gracili come prima. «Adattamento neuro-muscolare!» spiegò, raggiante di soddisfazione. «Me l’ha fatto la dottoressa Mol, al Comando Medico di Flotta. Assieme alla terapia ossea, mi ha liberata da quel problema che tutti voi conoscete, ma che siete stati così gentili da non farmi mai pesare. Ora posso vivere a gravità standard senza alcun disagio. Potrei anche fare le flessioni, ma vi risparmierò lo spettacolo» scherzò.

   In realtà non era stata una passeggiata. Per quanto collaudate, le due terapie erano state lunghe e stressanti per il suo organismo. Per riprendersi le era servito un mese intero, durante il quale la dottoressa l’aveva assistita; ma avevano risolto il problema una volta per tutte.

   Gli ufficiali applaudirono in segno di stima, facendola un po’ arrossire. Fino ad allora il Capitano aveva cercato di mantenere un certo distacco, concedendosi un pizzico di familiarità solo con Norrin e Ladya. Ma dopo quello che aveva passato con loro, non poteva fingere che fossero un equipaggio come un altro. Ormai erano qualcosa di più. Per quanto Hod sperasse con tutto il cuore che la sua scelta non la estraniasse dalla sua famiglia su Elaysia, la confortava sapere di averne un’altra lì sulla Keter.

 

   Placato l’applauso, gli ufficiali accolsero il Capitano alla loro tavolata. Radek le portò una sedia, facendola accomodare al centro del lato lungo. L’Elaysiana ammirò la gran varietà di cibi e bevande, prima di cominciare a servirsi. C’erano pietanze appartenenti a tutte le culture d’origine dei suoi ufficiali, cioè di ben tre Quadranti, visto che gli avi di Norrin e Ladya venivano dal Delta. Solo Dib non mangiava nulla, ma era comprensibile. I Penumbrani si nutrivano d’idrocarburi supercompressi che era difficile inscatolare senza far esplodere il contenitore. E comunque l’Ingegnere Capo poteva togliersi la tuta solo nel suo alloggio pressurizzato. Però i colleghi fecero di tutto per coinvolgerlo nella conversazione.

   «Devo ancora capire cos’è successo di preciso, quando voi due siete stati accelerati nel tempo» disse Vrel, rivolto a lui e Zafreen. «Me lo potresti spiegare in modo chiaro?».

   «Dipende. Ha familiarità con la meccanica quantistica?» chiese Dib.

   «Groan, insomma... intendevo cos’avete combinato» spiegò il timoniere.

   Il Penumbrano iniziò una lunga dissertazione, che lo fece pentire della domanda. Per fortuna ogni tanto Zafreen inseriva i suoi commenti, vivacizzando la narrazione.

   A un certo punto Vrel fece segno a Dib di arrestarsi un attimo. «Buono questo stufato» disse, e in effetti fino all’attimo prima se l’era masticato a quattro palmenti. «È replicato?».

   «No, l’ho fatto io» disse Zafreen in tono casuale, guardandosi le unghie ben curate.

   «La ragazza sa anche cucinare. Se fossi in te, ci farei un pensierino». Vrel si accorse con sorpresa che l’input telepatico veniva da Jaylah, che gli fece pure l’occhiolino. All’inizio la mezza Andoriana aveva avversato la loro relazione, temendo che l’Orioniana gli spezzasse il cuore, come in effetti era accaduto. Ma conoscendola meglio si era ricreduta sul suo conto, tanto da auspicare che quei due tornassero insieme. Al di là delle battute, comunque, la decisione spettava a loro.

   Dall’altra parte del tavolo, Radek posò sonoramente una bottiglia squadrata davanti a Norrin. Non aveva etichetta, né altri contrassegni, e conteneva un liquore verde brillante. Il Comandante fissò l’Ufficiale Tattico, come sfidandolo ad aprirla.

   «Questo cos’è?» chiese prudentemente l’Hirogeno. «E non mi dica che è verde».

   «Whisky di Aldebaran» rispose Radek, tutto soddisfatto. «È vero distillato, non robaccia replicata. Le va di assaggiarlo?».

   Era la prima volta che il Comandante gli proponeva una bevuta. Norrin immaginò che fosse il suo modo di far pace, dopo il grave scontro che avevano avuto nell’ultima missione. «Perché no?» rispose.

   «Ah, splendido!» fece Radek. Non vedeva l’ora che l’altro accettasse, così da avere una scusa per bere anche lui. Con aria solenne, stappò la bottiglia e riempì fino all’orlo i bicchieri. «Alla salute!» disse levando il proprio. Ingollò una gran sorsata.

   «Guarda, guarda... lo sapevo che il nostro integerrimo Comandante doveva averlo, qualche vizietto!» si disse Norrin, cercando di non sorridere. Bevve a sua volta. Doveva ammettere che il Rigeliano aveva buoni gusti: quel whisky andava giù che era un piacere. Probabilmente ne avrebbe pagato le conseguenze l’indomani, col mal di testa, ma per adesso era un ottimo accompagnamento della serata.

   Vedendo quella scena, Ladya sorrise fra sé. Quando aveva proposto la festicciola, uno dei suoi scopi era proprio riappacificare gli animi. Sapeva che non era facile, per tipi ostinati come Radek e Norrin, ma evidentemente farsi una bevuta assieme aiutava. Rivolgendosi di nuovo al Capitano, tuttavia, la dottoressa notò la malinconia sul suo volto. Hod guardava oltre la tavola imbandita, verso uno dei tavolini più piccoli che erano stati allineati lungo le pareti. Lì sopra era posata una scacchiera, proveniente dalla vicina sala ricreativa. La stessa scacchiera con cui lei e Juri avevano giocato tante partite, specialmente nei primi tempi dopo il varo.

   «Tutto bene?» chiese la Vidiiana.

   «Sì e no» sospirò l’Elaysiana. «Vederci tutti riuniti mi fa rimpiangere ancora di più la sua mancanza. Ero una delle persone che lo conosceva meglio. Avrei dovuto capire che stava soffrendo e fare qualcosa, prima che lui...» lasciò in sospeso.

   «Non disperi, Capitano» disse Jaylah. «Mio padre mi ha informata che Juri ha accettato il patteggiamento. In cambio delle sue conoscenze sui Na’kuhl, sarà risparmiato».

   «Risparmiato!» s’indignò Ladya. «La pena di morte non dovrebbe esistere proprio. A prescindere dalle colpe».

   «Sai anche dove l’hanno portato?» chiese il Capitano. «Perché io non sono riuscita a scoprirlo. La Flotta è incredibilmente abbottonata... credo ci siano di mezzo i servizi segreti».

   «Per adesso dovrebbe trovarsi nel penitenziario di Elba II» rispose Jaylah. «Ma gli interrogatori sono ancora in corso. Quando avranno finito non so se lo sposteranno altrove».

   Vedendo che ormai tutti i commensali stavano ascoltando, Vrel si schiarì la voce. «Vogliamo fargli un brindisi?» suggerì. «Quali che fossero i suoi errori, li ha commessi cercando di salvare una bambina innocente. La sua sorellina. E alla fine l’ha sacrificata per salvare noi. Credo proprio che dovremmo perdonarlo».

   «Sì, dovremmo» disse Hod, più a se stessa che a lui.

   «Molto bene» disse Radek. Uno dopo l’altro riempì i bicchieri col whisky di Aldebaran. Quando ebbe finito, i commensali li presero e li tennero sollevati.

   Vedendo gli sguardi puntati su di sé, il Capitano sentì di dover dire qualcosa. «Al nostro sfortunato amico, Juri Smirnov. Che possa trovar pace, ovunque sia» dichiarò. «E a Svetlana Smirnova, vittima innocente della guerra. Amata figlia, amata sorella» aggiunse. Bevve, imitata dagli altri. Dopo di questo, servì molto tempo prima che qualcuno riuscisse a riprendere la conversazione.

 

   A fine pasto i commensali si trattennero ancora a lungo, discutendo del futuro. Dib spiegò che al ritmo attuale le riparazioni sarebbero terminate in tre settimane. La Keter sarebbe uscita dal cantiere più potente che mai. C’era però la questione dell’equipaggio. Con tutte le vittime e le richieste di trasferimento, il Capitano doveva selezionare molti nuovi elementi. La sezione più colpita era ovviamente la Sicurezza.

   «Ci sarà molto lavoro per lei» disse Hod a Norrin. Per quanto sulla Keter arrivassero solo ufficiali scelti, ci voleva sempre un po’ per ottimizzare le squadre.

   «Non sarà un problema» garantì l’Hirogeno. «La vera sfida tocca ad altri» aggiunse, rivolgendosi a Jaylah. «Avrai una squadra temporale completamente nuova. Un sacco di Agenti da conoscere. Dovrai fare un bel po’ di simulazioni, prima di portarli sul campo».

   «Comincerò appena saranno a bordo» promise la mezza Andoriana. «Quanto manca?».

   «Il personale comincerà ad affluire fra due settimane» disse Radek, che gestiva i ruolini di servizio. «Questo vale anche per la Squadra Temporale. Per allora i ponti ologrammi saranno operativi, quindi se vorrai lanciare delle simulazioni per tastare il polso dei nuovi arrivati potrai farlo subito».

   Poco alla volta le conversazioni languirono. Era tardi, ormai, e Hod stava per alzarsi, per ringraziare un’ultima volta gli ufficiali e dichiarare chiusa la serata. In quella però il comunicatore di Vrel mandò un segnale. Non era il comunicatore della Flotta, bensì la versione palmare usata dai civili, che il mezzo Xindi aveva in tasca. Vrel lo consultò discretamente sotto il tavolo. La sua espressione, fino ad allora serena, s’indurì di colpo.

   «Che succede?» chiese Zafreen, notando il cambiamento.

   «È Lyra» spiegò Vrel. «Aveva promesso di avvisarmi, quando sarebbe successa una certa cosa. Beh... è successa». Dal tono sembrava che parlasse della fine del mondo.

   «Di che si tratta?» chiese Jaylah, pur intuendolo.

   «Uhm... non voglio guastarvi la serata. Tanto lo scoprirete domattina» bofonchiò il timoniere, rivolto un po’ a tutti.

   «Ormai faremo fatica a dormire, se ci tiene così sulle spine» disse il Capitano con garbata ironia. «Avanti, ce lo dica».

   «È meglio se ve lo mostro» disse Vrel, alzandosi di malavoglia. «Se volete seguirmi...».

   Il Capitano e gli ufficiali incuriositi lo seguirono nell’adiacente sala ricreativa. Sedettero sui divanetti, mentre Vrel attivava l’oloschermo. Il mezzo Xindi armeggiò con i comandi, accedendo all’Olonet e in particolare al notiziario del Federal News.

   «Ultime notizie!» proruppe lo speaker. «Con un travolgente rush di voti al Senato, la Presidente Rangda ha finalmente abolito la Prima Direttiva, mantenendo così la più attesa promessa elettorale. La sua coalizione di governo ha votato compatta e anche i partiti di centro, dopo tante incertezze, hanno aderito alla riforma. Né sono mancati i franchi tiratori nell’opposizione conservatrice».

   Mentre lo speaker parlava, il notiziario mostrò uno schema del Senato che evidenziava i voti. Due terzi dei senatori avevano votato a favore della riforma. C’era anche un cospicuo numero di astenuti. I contrari erano davvero pochi.

   «Questo storico risultato è stato salutato con grandi festeggiamenti, sulla Terra e sugli altri mondi» proseguì lo speaker, mentre il servizio mostrava una carrellata d’immagini. Folle sterminate riempivano strade e piazze, esibendo cartelli e striscioni olografici con slogan di vittoria. La gente suonava, cantava e ballava, travolta da una gioia incontenibile. C’erano individui di quasi tutte le specie, le età e le professioni. Molti si abbracciavano, piangendo di gioia. C’era chi lanciava coriandoli, chi suonava trombette. Nelle zone in cui era notte, fuochi d’artificio coloratissimi illuminavano il cielo. Le riprese indugiarono sui bambini, che erano moltissimi. I genitori li avevano portati in piazza e stavano ben attenti a mostrarli, ogni volta che passava un drone-olocamera. Vedendo che c’erano così tanti bimbi, gli attivisti si misero a distribuire caramelle e cioccolatini. Scene come questa si ripetevano in gran parte dell’Unione, comprese le colonie e gli avamposti più remoti. Anche chi viveva in climi artici o deserti, o comunque inospitali, era uscito all’aperto per festeggiare. Per la verità c’erano anche mondi in cui la notizia era stata accolta freddamente, come Vulcano. Su altri ancora c’erano proteste: era il caso di Kronos, Nuovo Romulus, Cardassia e Ferenginar, membri importanti dell’Unione. Ma il notiziario tralasciò di mostrarli e persino di menzionarli.

   «Tutti attendono ora il discorso di Rangda» riprese lo speaker. «La Presidente dovrebbe parlare a momenti dal suo studio, dove ha seguito l’emozionante votazione col suo entourage. Ecco, ci dicono che ha cominciato a trasmettere».

   Le immagini delle celebrazioni lasciarono il posto a un primissimo piano della Zakdorn. La sua faccia cavallina riempiva quasi tutto lo schermo. «Cittadini dell’Unione, questo è un giorno storico» esordì con voce stentorea. «Il giorno in cui abbiamo detto no all’egoismo e alla paura del diverso. Il giorno in cui abbiamo detto alla fratellanza. Onorando la promessa fattavi, ho appena abolito la Prima Direttiva, la legge razzista che finora ci ha impedito di aiutare e accogliere i popoli pre-curvatura. Ci tengo a ricordare che nulla di tutto questo sarebbe stato possibile, senza la vostra passione e il vostro impegno. Questa vittoria non è mia, o del mio partito, ma appartiene a tutti. Tutti insieme, di comune accordo, abbiamo deciso di creare un’Unione migliore. Un’Unione in cui le conoscenze saranno condivise liberamente, in cui chiunque potrà andare dove vuole, essere ciò che vuole. Un’Unione finalmente libera dalle paure, dall’egoismo e dai confini che troppo a lungo ci hanno imprigionati».

   La Presidente fece una pausa, poi riprese. «Il primo effetto di questa riforma consisterà nel contattare i popoli pre-curvatura che vivono entro i confini dell’Unione, a partire da quelli più conosciuti. Li informeremo della nostra esistenza, elargendo aiuti e tecnologie. Un’apposita commissione di mediatori culturali s’incaricherà del delicato compito. Specialmente nel caso delle culture pre-industriali, infatti, occorreranno grande attenzione ed empatia per venire incontro alle loro esigenze. Di conseguenza per questo incarico saranno selezionati soprattutto individui telepatici. Il loro ufficio risponderà direttamente a me».

   A queste parole gli ufficiali della Keter fremettero. «Sarebbe a dire che ci scavalca? Scavalca la Flotta?!» ringhiò Vrel, fuori dai gangheri. Poco lontano, il Capitano Hod era come inebetita. Ecco svelata la ragione dello “spirito umanitario” di Rangda: era l’ennesimo stratagemma per rottamare la Flotta.

   «È chiaro, infatti, che la Flotta Stellare non è adatta a quest’incarico, dato che i suoi vertici sono stati i più strenui oppositori della riforma» proseguì la Presidente. Era un affondo diretto all’Ammiraglio Chase. «Alla luce di questi fatti, dobbiamo riconoscere che la Flotta ha fatto il suo tempo. La sua comprovata inettitudine la rende non solo superflua, ma anche pericolosa per quanti, oggi, s’impegnano per la pace e il progresso. Di conseguenza la Flotta sarà ulteriormente ridimensionata. I nuovi progetti saranno cancellati, le astronavi smobilitate o convertite all’uso civile. I finanziamenti così risparmiati saranno ridiretti a scopi sociali, primo fra tutti l’integrazione dei popoli pre-curvatura. Le iniziative di primo contatto, infatti, non saranno affidate esclusivamente ai mediatori culturali. A loro potranno affiancarsi organizzazioni non governative e gruppi spontanei di volontari. Chiunque voglia spendersi per gli altri sarà bene accetto».

   Incapace di resistere oltre, Vrel tolse il volume, sostituendolo con i sottotitoli. «Gruppi spontanei di volontari! Sarà una carneficina. I popoli pre-industriali non sono famosi per la loro pietà. Quella strega manderà dei ragazzi senza preparazione allo sbaraglio!» inveì.

   «Avete sentito cos’ha detto della Flotta? Vuole mandarci tutti a casa!» aggiunse Zafreen, anche lei furiosa. «Cosa succederà alla Keter? Diventerà una nave-scuola?!».

   «Comprovata inettitudine» mormorò Jaylah, in tono più pacato.

   «Come dici?» le chiese Norrin.

   «È questa l’immagine che Rangda ha tratteggiato di noi. Un’organizzazione di “comprovata inettitudine”» ripeté la mezza Andoriana, fissando la Zakdorn che continuava a imbonire le folle. «Sapete che quando noi Agenti Temporali ripariamo un’alterazione di livello 1, come quella di Vosk, il Presidente in carica viene sempre informato? È passato un mese, quindi Rangda ha avuto tutto il tempo di leggere i rapporti della missione. Lei sa che senza di noi la Galassia sarebbe un inferno. Eppure vuole smantellarci lo stesso. È pronta a rischiare un’altra alterazione temporale che la cancelli, pur di ottenere il potere assoluto. Juri aveva ragione: ci sta schiacciando».

   Un cupo silenzio scese sulla sala. Gli ufficiali rimuginavano fra sé, confrontando gli avvertimenti dello storico con quanto stava accadendo.

   «Non capisco la logica della Presidente. È irrazionale esporsi ai rischi della Guerra Temporale, solo per accrescere la propria autorità» commentò Dib.

   «Ti sembra che Rangda agisca in modo razionale?» chiese Ladya. «No... lei agisce in accordo con le sue ossessioni. Sono certa che ha un grave disturbo della personalità. Di sicuro è una sociopatica; ma probabilmente sta scivolando nella psicosi. Persone così non dovrebbero mai occupare incarichi istituzionali».

   «Però non è diventata Presidente per caso» notò Radek. «Una maggioranza di elettori l’ha votata. E anche ora, non ha fatto passare la riforma per pura fortuna. Avete visto il notiziario: Rangda ha vinto con larga maggioranza. E ci sono folle che festeggiano in tutta l’Unione».

   «Questo che vuol dire? Che ha ragione?!» fece Norrin.

   «No, ma che per il momento ha ancora il consenso popolare» spiegò il Comandante. «È il problema della democrazia. A parole, tutti la vogliamo. Ma quando l’esito delle votazioni va contro i nostri interessi, allora non ci va giù. Io penso che, se crediamo davvero nel sistema democratico, dobbiamo accettarne tutte le conseguenze, anche quando non ci fanno comodo. Su, fatevi coraggio. La Flotta Stellare sarà ridimensionata, ma non credo che sarà smantellata del tutto. Siamo troppo utili; non possono eliminarci».

   «Ma possono toglierci l’anima» mormorò Jaylah, fissando il pavimento.

   «L’hanno già fatto» disse il Capitano, prendendo finalmente la parola. «Questa riforma è stata presentata come una svolta illuminata, ma provocherà stragi a non finire. I popoli pre-curvatura otterranno le nostre tecnologie, comprese quelle pericolose. Si doteranno di armi che oltrepassano la loro comprensione e le useranno senza alcuna remora... anche contro di noi. E con la Flotta mezza smobilitata, non avremo la forza per difenderci. Cominciano tempi bui».

   «No, non è possibile» disse Vrel, raccogliendo i pensieri. «Quando si vedranno gli effetti della riforma, la Prima Direttiva sarà ripristinata e Rangda dovrà dimettersi. Questa mossa sarà la fine della sua carriera politica» si augurò.

   «Può darsi, ma non ha importanza» disse Hod, con aria rassegnata. «Anche se Rangda uscisse definitivamente di scena, sarà troppo tardi. A quel punto il danno sarà fatto. Ci sono decine di popoli federali che hanno già annunciato la loro intenzione di abbandonare l’Unione, in caso di vittoria degli Abolizionisti. Conoscendoli, non credo che stessero bluffando. Perderemo i Klingon, i Romulani, i Cardassiani, i Ferengi... le lancette della Storia torneranno indietro di tre secoli». L’Elaysiana si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «Vada come vada, questa è la fine della Galassia che conosciamo» concluse malinconica.

 

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


-Epilogo:

Data Stellare 2589.147

Luogo: Distesa di Typhon

 

   Jaylah percorreva i corridoi della Stella del Polo, con la disinvoltura di chi è in un luogo familiare. Ogni tanto incontrava qualche pirata della ciurma. Perlopiù li ignorava, come loro ignoravano lei per tacito accordo. Ma con alcuni, che ormai conosceva, scambiava brevi saluti, con la stessa familiarità che riservava ai suoi colleghi della Keter. In quei momenti era più che mai consapevole di non poter continuare a lungo con le sue due vite. Prima o poi, una delle due avrebbe fagocitato l’altra. Nell’attesa doveva premunirsi. Con passo deciso, la mezza Andoriana entrò nel laboratorio cibernetico, superando i due Nausicaani di guardia. Era una delle pochissime persone ammesse in quella stanza.

   «Volevi vedermi?» chiese Jack, che stava revisionando la sua tuta a Occultamento Sfasato. In quel momento l’inquietante corazza, nera come la pece, era sospesa in un campo di forza al centro del laboratorio. Il campo teneva ogni elemento in posizione, come se il proprietario la stesse indossando. Mancava però il casco: Jack lo aveva preso da parte e ci stava armeggiando con vari strumenti.

   «Sì» confermò Jaylah, accostandosi. «Che fai?» chiese in tono leggero.

   «C’è un piccolo difetto al Visore, lo sto correggendo» spiegò l’Umano.

   «Sei un vero scienziato» disse la mezza Andoriana, abbozzando un sorriso.

   «Gli scienziati erano i miei genitori. Certo non si aspettavano che usassi la loro invenzione in questo modo» sospirò il pirata. «Allora, che vuoi dirmi?».

   «Ho pensato molto a noi» disse l’Agente con cautela. «Al nostro futuro. Sai che non potremo continuare così per sempre».

   «Vuoi lasciar perdere?» chiese Jack, addolorato. Depose il casco e le si accostò.

   «No!» disse Jaylah con passione. «Amo ogni secondo che passo con te. Ma prima o poi saranno le circostanze che mi obbligheranno a scegliere».

   «Sì... l’ho sempre saputo» disse lo Spettro con amarezza. «Ma forse è meglio così. Ti ho già messa fin troppo in pericolo, con questi appuntamenti. Il tuo posto è la Keter».

   «Non mi sono spiegata» sussurrò la mezza Andoriana, facendosi ancora più vicina. «Quando le cose si metteranno male... resterò con te».

   «No!» si oppose Jack. «Non posso chiederti questo. Significherebbe tagliare i ponti con la tua famiglia e tutti i tuoi conoscenti. Rinunciare alla tua carriera. Vivere da fuorilegge. No... sarei una carogna se te lo lasciassi fare».

   Jaylah lo guardò con affetto. In passato aveva trascorso con Jack momenti terribili, in cui le loro vite erano appese a un filo, eppure non aveva mai percepito tanta paura in lui come in quel momento. «Tranquillo, non sono l’ingenua Lady Marianna che vuole fuggire con Sandokan. Continuerò a barcamenarmi fra la Keter e la Stella, finché sarà possibile» spiegò. «Ma se Rangda smantellerà completamente la Flotta, non avrò più molto che mi trattenga. E poi, da quando hai questa nave, sei diventato ben più che un pirata. Stai dando speranza a intere comunità abbandonate sul confine. Fai molte cose che spetterebbero alla Flotta, se funzionasse a dovere. Potremmo farle assieme» suggerì.

   Lo Spettro fissò il pavimento, rimuginando. «Non posso negare che sarei felice... molto felice... di averti sempre con me» disse infine. «Ma la vita che faccio non è quell’avventura che molti pensano. Somiglia più a un campo minato. Non posso fidarmi di nessuno e ogni giorno può essere l’ultimo. Insomma, non è la vita che vorrei offrirti».

   Quelle parole la commossero a tal punto che Jaylah lo abbracciò. «Ehi, non ti affliggere» gli sussurrò all’orecchio. «Ti accetto così come sei. E se temi di espormi ai pericoli, ti ricordo che ne corro già. C’è una cosa che non ti ho detto, dell’ultima missione» disse, separandosi. «Durante la battaglia dell’Isola Crisalide, a un certo punto alcuni Potenziati sono riusciti a impadronirsi della nostra crono-navetta. Non potevo lasciarla in mano loro e non avevo speranze di riconquistarla. Così ho fatto l’unica cosa possibile: ho contattato il computer di bordo e ho attivato l’autodistruzione».

   «Prima che arrivasse la Keter?» si allarmò Jack.

   «Prima di sapere che ci aveva raggiunti in quell’epoca, sì» confermò Jaylah. «In quel momento ero sicura che distruggere l’Excalibur significasse restare bloccata sulla Terra post-atomica per il resto dei miei giorni. Pensavo di non rivederti mai più. Ma l’ho fatto, perché la posta in gioco era troppo alta» disse con gravità. Fissò ansiosamente Jack, studiando le sue reazioni.

   «Wow... non dev’essere stato facile» mormorò il pirata, aggrottando la fronte. «Sai, anch’io mi sono trovato in situazioni in cui non pensavo che ti avrei rivista... quindi capisco cos’hai provato. L’importante è che alla fine la Keter ti ha recuperata».

   «Il fatto è che io non voglio più dover prendere decisioni del genere!» si lamentò l’Agente Temporale.

   «Ma se non fossi stata là, al momento giusto, Vosk avrebbe vinto» notò lo Spettro. «Tutti noi saremmo stati cancellati dalla Storia. Quindi è stato provvidenziale che tu fossi lì a fermarlo».

   «Beh, magari ci sarebbe riuscito anche un altro caposquadra» si schermì Jaylah, anche se non riusciva a pensare a un collega a cui avrebbe affidato una missione del genere. Erano troppo ligi al regolamento e ciò non li avrebbe aiutati, in quelle circostanze fuori dal comune.

   «Chissà...» fece Jack, poco convinto. «Comunque è passato. Le tue missioni non sono tutte così, vero?».

   «No, per fortuna» ammise la mezza Andoriana.

   «Lieto di saperlo» fece l’Umano. «Per quanto riguarda la tua proposta... il giorno in cui verrai qui per restare ti accoglierò a braccia aperte. Ma promettimi che non rinuncerai alla tua vita nella Flotta, finché sarà tollerabile».

   «Lo prometto» s’impegnò Jaylah. Percepiva la sincerità in lui e questo la convinceva ancor più di aver scelto bene. «Ma anch’io voglio qualcosa da te».

   «Spara».

   La mezza Andoriana si accostò al tavolo di lavoro e prese il casco dello Spettro. Se lo rigirò fra le mani, apprezzandone la tenebrosa bellezza: la superficie scura e levigata, il Visore cremisi. Per un attimo fissò il proprio riflesso, come ipnotizzata. Qualcosa, in quella maschera, la chiamava in modo irresistibile. «Voglio che tu mi faccia una tuta come la tua» disse tutto d’un fiato.

   Cadde il silenzio. Lo Spettro la osservava meditabondo, cercando di capire cosa le passasse nella mente. «A che ti serve?» le chiese infine.

   «Non è facile da spiegare...».

   «Ho tempo» disse Jack, sedendosi.

   Jaylah sospirò e depose il casco. Poi prese un’altra sedia e gli si accomodò davanti. «Sai che due anni fa ho avuto un’esperienza col Cristallo di Bajor» disse.

   «Quando ti ha riportata nel tuo corpo» annuì Jack.

   «Non solo... in quell’occasione il Cristallo mi diede anche una visione» rivelò la mezza Andoriana. «Ho visto l’Enterprise che veniva distrutta in battaglia, anche se non si capiva chi erano i responsabili. E ho udito il Capitano Sisko confermarmi che la Guerra Civile incombe su di noi. Da Agente Temporale, ho sperato che fosse un futuro evitabile. Mi sono persino augurata che fosse stata un’allucinazione, uno scherzo della mia mente. Ma il tempo passa e l’Unione è sempre più nel caos. Ora che Rangda ha abolito la Prima Direttiva, poi, le cose si metteranno molto male. So che parlare del futuro basandosi su una visione non è esattamente scientifico... mi credi matta?» chiese, titubante.

   «No» disse l’Umano, sempre fissandola attentamente. «Continua».

   «Anche Juri era convinto che una guerra civile fosse alle porte. Persino Vosk ha detto qualcosa del genere, e non credo che mentisse per spaventarmi» proseguì Jaylah, rincuorata dal suo atteggiamento. «Per tutti questi motivi, credo che siamo davvero vicini al conflitto. E quando comincerà voglio essere pronta. So quant’è efficace la tua tuta occultante, l’ho vista in azione. Ora che la rivedo, sento che un giorno indosserò anch’io qualcosa di simile. Credimi, non è un infantile desiderio d’emulazione. No... è la netta sensazione che, volente o nolente, dovrò avere un equipaggiamento del genere per sopravvivere».

   «Ebbene, lo avrai» promise lo Spettro, alzandosi. «Mi fido del tuo giudizio e anche di questa tua sensazione. Mi ci vorrà qualche settimana per costruire un’altra tuta. Non posso semplicemente replicare la mia: devo fartela su misura, o sarà troppo grande e non riuscirai a usarla bene».

   «Prendi pure le mie misure» annuì Jaylah, alzandosi a sua volta. Lasciò che Jack la scannerizzasse da capo a piedi con un sensore ad alta risoluzione, alzando le braccia o allargandole quando lui le diceva di farlo. L’operazione richiese pochi minuti. Dopo di che Jack si recò a una consolle, richiamandovi gli schemi della sua tuta. Proiettò un ologramma con i disegni esplosi delle varie parti e ci armeggiò, rigirandosi i pezzi tra le mani.

   «Hai qualche esigenza particolare?» chiese d’un tratto il pirata. «Già che ci sono, potrei migliorare il progetto».

   «Lo vedi che sei uno scienziato? O forse un artista» sorrise Jaylah. «Sì, un desiderio ce l’ho. Sai che sono addestrata nelle arti marziali. I miei stili di combattimento sono rapidi e acrobatici. Vorrei conservare questo vantaggio, quando indosserò la tuta».

   «Velocità... libertà di movimento... annotate» disse Jack, prendendo appunti su un d-pad. «Stavo già facendo delle simulazioni al computer per migliorare le articolazioni della tuta. Le porterò a termine. E cercherò di ridurre al minimo il peso, anche se non c’è molto che si possa togliere. È tutta una questione di materiali...» mormorò, eseguendo alcuni calcoli. «C’è qualcos’altro che ti serve?» chiese poi, alzando gli occhi dalla consolle. «Ricorda che la tuta è anche un travestimento che protegge la tua identità. Serve a crearti un personaggio, per così dire. Quindi come la vuoi, dal punto di vista estetico?».

   «Non voglio che ci confondano. Falla di un colore diverso dalla tua... magari bianca» suggerì Jaylah. Dopo di che rifletté sul fattore psicologico. Nel corso delle sue missioni si era scontrata con avversari di ogni genere. Alcuni, come i Devidiani e i Na’kuhl, avevano un aspetto così spaventoso che solo vederli faceva rabbrividire. Poteva imparare da loro. «Un’ultima cosa: voglio che la mia tuta intimorisca chi la vede. No, anzi... deve incutere terrore» disse, digrignando i denti.

 

 

FINE

 

 

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