Against Me

di Andy Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1 ***
Capitolo 2: *** Chapter 2 ***
Capitolo 3: *** Chapter 3 ***
Capitolo 4: *** Chapter 4 ***
Capitolo 5: *** Chapter 5 ***
Capitolo 6: *** Chapter 6 ***
Capitolo 7: *** Chapter 7 ***
Capitolo 8: *** Chapter 8 ***
Capitolo 9: *** Chapter 9 ***
Capitolo 10: *** Chapter 10 ***



Capitolo 1
*** Chapter 1 ***


Against Me

Quando tutto cade.
 
 
Unima, Austropoli, BW Agency, 18 giugno 20X1
 
Ho caldo. Ho caldo e ho l’ansia.
Ho sete.
Devo bere, il telefono squilla.
Uff… Devo respirare più profondamente. Mi devo fermare.
 
Camminava freneticamente, White, sul tappeto persiano che aveva acquistato durante il viaggio di nozze. Era morbido, e già alla prima occhiata riuscì ad apprezzare la qualità di quelle setole colorate. Generalmente non lo calpestava, né permetteva a qualcuno di sostarci per troppo tempo sopra; trovava qualche pretesto per andare dall’altra parte dell’ufficio o, se parlava con un suo dipendente, gli diceva di levare quei piedi di merda dal suo fottuto tappeto.
 
- Alzalo sul muro.
- Sei un genio, guarda...
I suggerimenti di Black non erano mai troppo brillanti, lui stesso lo sapeva e ridacchiava, quando incontrava lo sguardo allibito di sua moglie.
- Sono serio, eh.
- E questo è preoccupante. Non è mica un arazzo…
- Nessuno lo saprebbe.
- Si vede dal sesto piano del palazzo di fronte che è un tappeto. Penseranno che sia stramba, a tenere un tappeto a mo’ di arazzo appeso al muro. Credi che qui siano tutti ignoranti come te?
- Touché, mon amour... touché...
- E non parlare quella lingua del cazzo. Odio il francese.
- Mhm... Forse il fatto che tu sia cresciuta in questa dannatissima città sta prendendo un po’ troppo il sopravvento sul tuo vocabolario, piccola stella di Broadway...
- Tsk… essere di questa città è un po’ come il passepartout per le parolacce, Black...
Lo ricordava, il sorriso del suo uomo, prima che le baciasse la guancia destra.
- Hai parlato quella lingua del cazzo, mon amour...
- Quando?
- Quando hai detto passepartout.
- Bah! Fottiti anche tu, marito! E non aspettarmi per cena...
- Non ci penserei neppure, tranquilla. Stasera pizza.
- Come tutte le sere, del resto…
 
Sospirò, ritornò al presente.
Il telefono continuava a squillare e il calore aumentava sempre di più. Siccome sudava aprì il secondo bottone della camicetta, e poco le importava che l’orlo merlettato del reggiseno fosse in vista; continuava a camminare senza un senso su quel tappeto dalle frange rosse e blu e dai ghirigori gialli.
Tutte geometrie, tutte linee dritte che tagliavano e cambiavano direzione.
Tutto cambiava direzione.
Sospirò di nuovo. Il telefono non smetteva di squillare.
 
- Devi risolvere questi problemi, White. Solo in questo modo potrai tornare a essere la vera te...
- Belle, spari un mucchio di cazzate...
 
Aveva buttato poi giù il quarto bicchiere di brandy che ormai il sorriso non gli appariva più sul volto. Era fieramente alcolizzata, e se durante la giornata non avesse bevuto così tanto, sarebbero finiti probabilmente per trovarla impiccata sul lampadario di cristallo del corridoio che portava al bagno.
Lo reputava un po’ pacchiano, ma era uno Swarovski. Insomma, certe cose si mostrano e basta, non ci si fa tante domande sul per come e sul per cui.
Pensava che avrebbe dovuto fare in quel modo anche con Black.
Il loro rapporto non era dei migliori, ovviamente, anche perché si vedevano poco: lei lavorava assiduamente durante la giornata, e se l’orologio non accarezzava le ventidue lei non dava le due mandate all'ufficio e non si ritirava. Mezz’ora dopo era a casa, che Black ancora si allenava, oppure non c’era. Quattro minuti di chiacchiere, qualche volta lo tirava per la maglietta fino alla camera da letto, lo mangiava e si addormentava sfinita, senza neppure cenare.
 
- Vivi in maniera troppo irregolare, White...
- Sta' un po' zitto...
- Oh... okay...
 
Risposte sarcastiche a parte, sapeva che in fondo lui ci rimaneva male, ma la voglia di prenderlo e tranquillizzarlo mancava all'appello da mesi. La gran parte delle volte era l’alcool a parlare per lei e la cosa aveva un duplice effetto: il primo era che vedeva tutto tramite un filtro, come se indossasse degli occhiali con una profonda patina di sporco a macchiare le lenti. Il secondo, ovviamente, era il fatto che non ricordasse quasi mai nulla di ciò che succedeva dopo un determinato orario, se non se lo scriveva.
E il suo Blackberry serviva proprio a quello. Il suo fido assistente, il suo mondo, il suo lavoro, le sue relazioni. Tutto in quel pezzo d'inferno un tantino obsoleto.
Sentiva ancora il telefono squillare e lasciò che suonasse. Se fosse stato importante avrebbero richiamato poi, quando avrebbe avuto la voglia di rispondere. Poi però si bloccò, dato che sarebbe potuto essere qualcosa d’importante.
Qualche chiamata di lavoro.
Magari era Ruby, che la chiamava per dirle che fosse tornato in città.
Spalancò gli occhi e si fiondò versò la scrivania, famelica. Raccolse il cellulare e lo guardò.
 

INCOMING CALL

FREDERICK TIPTON

ACCEPT DECLINE
 
Uno che voleva lavorare con lei per un progetto totalmente campato in aria.
Non gli rispondeva da quattro mesi e lui, imperterrito, chiamava almeno due volte al giorno nel tentativo di parlarle.
- Fanculo anche tu, Tipton...
Sbuffò e lanciò nuovamente il telefono sulla scrivania.
Voleva davvero che il nome sullo schermo fosse quello di Ruby Normanson, ma sapeva anche che difficilmente la cosa sarebbe successa. Yvonne gliel’aveva fatta grossa, troppo grossa, con tutta la faccenda di Sapphire, tant’era che non aveva avuto neppure il coraggio di dirgli che aspettava il loro bambino. Quando poi il pensiero si spostò dallo stilista alla modella sentì la rabbia ribollirle nel petto. Odiava il francese, e quella donna maledetta parlava proprio la lingua d’oltralpe.
 
- Siediti. O stenditi sul divano, levati le scarpe... dannazione, fa' quello che ti pare...
- Stai un po’ esagerando...
- Vuoi bere? Acqua, intendo - le aveva detto White. Quella aveva fatto cenno di no, seria, e si era avvicinata alle poltroncine davanti alla scrivania. Si era seduta lentamente, aveva sospirato e poi aveva poggiato delicatamente le mani sul pancione. Pareva stesse per esplodere.
- No, White.
- E allora che sei venuta a fare?
- Voglio tornare a stare un po’ a casa mia...
La Presidentessa aveva fatto spallucce e dopo aveva sospirato, bevendo del liquido ambrato dal suo bicchiere con ghiaccio.
- Fa’ ciò che vuoi, moi Lolita... Tanto non riuscirei comunque a farti sfilare, con quel pancione enorme. Al massimo potrei organizzarti qualche servizio fotografico sulle donne incinte, ma stai esplodendo, in questo stato non puoi calcare le passerelle.
- Comme si je voulais... - aveva sospirato l’altra, stanca.
- Baguette, io non l’ho mai capita, la tua lingua...
- Non avrei partecipato comunque. Mi prendo una pausa finché non partorirò, e poi ancora dopo... Puoi chiedere a qualcuno di trovarmi un aereo per Luminopoli?
White l’aveva guardata profondamente e aveva sospirato, accavallando la gamba destra sulla sinistra e incrociandovi le mani sopra.
-Stiamo perdendo badilate di soldi...
- Non ricominciare...
E poi era esplosa.
- Io lo avevo detto! Lo avevo detto che non era una buona idea! Lo avevo detto! Ma tu, no! Tu dovevi innamorarti del tuo capo! Dell’uomo che stava facendo quel cazzo di miracolo!
White aveva lanciato il bicchiere per aria, che era finito per frantumarsi in mille pezzi a pochi metri da loro. Entrambe lo avevano guardato, poi la Presidentessa aveva sospirato, facendo cenno di no con la testa.
- Dopo faccio pulire…
Yvonne l’aveva fissata e aveva sospirato. Si era alzata a fatica e aveva fatto per voltarsi, quando l’altra l’aveva afferrata delicatamente per la mano.
- Aspetta... - aveva fatto. La modella si era voltata, aggrottando la fronte.
- Che c’è, ancora?
- Lo hai sentito?
Si erano guardate ancora, in silenzio. Yvonne aveva socchiuso gli occhi leggermente, piangendo.
- Non lo sento da mesi. Da quando è andato via... Non ha mai risposto al telefono.
- Ma squilla, quando lo chiamo.
- Sì, squilla anche quando lo chiamo io. Ma non mi ha mai risposto.
White aveva sospirato e chiuso gli occhi.
- Vai pure... resta lì se ritieni che partorire a Kalos sia la cosa più importante ma non dimenticare che hai un contratto con me e che farò comunque ripartire quel maledetto atelier. Con o senza Ruby Normanson.
 
Ora, l’Atelier.
Riempì il bicchiere di scotch e si abbandonò sul divanetto, guardando le impronte che aveva lasciato sul tappeto. Allontanò il pensiero, si focalizzò di nuovo sul progetto che aveva cominciato con lo stilista galeotto e bevve silenziosa.
Complessivamente, il lavoro che avevano svolto assieme in circa un anno era stato strepitoso. I modelli che avevano portato a realizzazione erano stati tra i più venduti dell’intera stagione, e la produzione non aveva minimamente rallentato nel confezionamento dei vestiti che Ruby aveva fatto indossare a Yvonne e alle altre.
Tuttavia c’era chi aspettava i nuovi abiti.
Bevve, buttò giù tutto d’un sorso, poi strinse il cubetto di ghiaccio tra i denti e sospirò.
Doveva trovare un modo.
 
- Non c’è? In che senso?
- Presidentessa... - aveva titubato Whiteley. - Stamattina non si è presentato, in atelier. Eppure dovevamo discutere della nuova collezione.
- Lo so, ragazzina, lo so. La mia domanda però è: per quale fottutissimo motivo non stai consumando il cordless e il tuo orecchio destro nel tentativo di rintracciarlo?
- L-lo-lo faccio subito...
 
Lo aveva chiamato un centinaio di volte, quella mattina.
Non aveva mai risposto.
Che poi quell’uomo era così terribilmente teatrale che quasi se lo aspettava, White, che tutte quelle donne sarebbero finite per morirgli dietro. Già lo facevano quando era lì.
La sua presenza era praticamente necessaria.
Yvonne lo amava in maniera furibonda e la sua assenza, unita allo scompenso ormonale della gravidanza, non avevano fatto altro che farla cadere in una profonda depressione, che all’inizio si era manifestata con isterici attacchi di pianto, intensi e ripetuti, lamentosi e dolorosi. Era poi diventata un’apatica rassegnazione, condita dalla sottile disperazione di aver concepito il bambino di un uomo che non l’amava più e che non sapeva neppure come contattare.
Whiteley era la sua assistente, e da quando se n’era andata non sapeva più cosa fare per tenere calma White, che d’altronde stava smaniando per vedere la sua opera decollare.
E c’era quasi.
Era colpa di Yvonne. Era colpa dell’amore.
Sbuffò, guardò l’orologio sul polso e fece cenno di no con la testa, poi stese le gambe sul tavolino. Continuava a guardare le lancette, il tempo passava e si stava rendendo conto di un fatto sconcertante: stava perdendo soldi e stava invecchiando, contemporaneamente.Si alzò in piedi subito dopo, guardò la sua figura allo specchio e poi abbassò il capo, e quando guardò il bicchiere pensò a Black. Quell’uomo meritava una famiglia, e una donna che lo adorasse.
E lo sapeva.
Non che lei non lo adorasse, anzi, ma c’erano delle volte in cui s'immaginava in casa, con le ciabatte di gomma bianca, una di quelle tute di poliestere calde e comode che le avrebbero risaltato il culone, e davanti aveva il pancione gravido, poi un bambino sul braccio destro e uno sul sinistro, che litigavano e piangevano e sputavano e urlavano. E il suo volto apatico pareva non percepire il rischio di crollo nervoso che di lì a poco quella versione di lei avrebbe dovuto affrontare. E Black sarebbe tornato a casa, avrebbe baciato lei, i suoi figli, avrebbe mangiato qualcosa e si sarebbe rintanato nelle sue stanze. Avrebbero fatto l’amore una volta ogni due settimane, avrebbero vissuto una vita media e lui avrebbe finito per scoparsi la prima cretina più giovane e con meno borse sotto gli occhi.
 
Rabbrividì, quasi le venivano i conati di vomito.
 
Non era fatta per quella vita.
Ammise di aver esagerato la realtà, ma la verità era comunque che White non fosse stata progettata per una vita ordinaria. Rinsavita, si guardò attorno, saggiando con gli occhi ogni mobile pregiato, ogni cristallo delicato, ogni aggeggio elettronico, figlio del demonio. Si avvicinò lenta al tavolino con gli alcolici, e si versò stanca un altro Jägermeister nel bicchiere.
Altro cubetto di ghiaccio, altro sospiro, si spostò verso la scrivania, la superò e andò verso la grossa finestra, che dava proprio al centro della Main. Oltre la strada, c’era il mare, un paio di yacht in lontananza, qualche vela svettava sullo sfondo blu del cielo, accanto ai traghetti che si spostavano verso la zona ovest della città, in direzione del porto civile.
Quella vista era spettacolare, ed era solo sua, non apparteneva a nessun altro.
E i vestiti che indossava in quel momento costavano quanto l’intero guardaroba del suo assistente, e se avesse voluto avrebbe reso ricco un qualsiasi uomo che calpestava i marciapiedi sotto il palazzo donandogli un venticinquesimo del suo patrimonio.
White era dove molti uomini volevano arrivare. Ed era una donna.
Sapeva di avere altre strade, altre possibilità.
Sapeva che il suo corpo avrebbe potuto regalare una gioia a suo marito, col suo volto e il suo cognome, ma lo stesso sentiva la mente che si chiudeva in se stessa quando quel pensiero affiorava.
Eppure era chiaro che Black sognasse una famiglia.
Buttò il liquido ambrato giù tutto d’un colpo e cominciò nuovamente a masticare il ghiaccio.
Era egoista?
Forse sì. O forse era semplicemente realista: lei, una famiglia non la voleva. Non voleva figli, non voleva responsabilità, non voleva che qualcuno dipendesse così tanto da lei da correre il rischio di morire, senza la sua presenza.
Forse era il motivo per cui stava abbastanza bene con suo marito: tra gli allenamenti e le altre cose che faceva, lui aveva poco tempo a disposizione per la famiglia e le altre cose.
Ma lui avrebbe potuto lasciare tutto immediatamente, se soltanto lei glielo avesse chiesto.
Mentre lei no.
La differenza era lì.
 
No.
 
Non c’entravano nulla quelle paranoie. Doveva aggiustare le cose con l’atelier.
Si voltò, dando le spalle all’oceano e sospirò; pensò che forse quello potesse essere il giorno giusto. Forse quello poteva essere il giorno in cui tutto sarebbe ripartito daccapo.
Forse Ruby le avrebbe risposto. Poco convinta, si sporse sulla scrivania e prese il cellulare tra le mani. Selezionò il numero dello stilista dalla rubrica e premette il tasto verde.
Avvicinò la cornetta all’orecchio, pregando l’altissimo che qualcuno rispondesse, anche soltanto per dirle che lui fosse morto da tempo ormai e che dovesse mettersi l’anima in pace.
Ma squillava.
Squillava.
Squillava, squillava, squillava. Squillava e basta. E poi cadeva la linea, lasciando White lì, sola e inutile a guardare il tavolino degli alcolici, e il bicchiere che quasi le urlava di tornare da lei.
- Normanson del cazzo! Rispondi! - esclamò poi, in preda all’ira, scattando verso la finestra e aprendola. Il cellulare esplose in mille pezzi sull’asfalto rovente, pochi secondi e un volo di trecentocinquanta metri dopo.
Il vento caldo gli soffiò sul viso, il cuore batteva, il bicchiere chiamava ancora e la consapevolezza di aver fatto una cosa che non avrebbe dovuto fare le si accese sul volto. Guardava taxi e lunghe berline grigie, blu e nere calpestare i resti di quello che era il punto g del suo lavoro.
Del suo stress.
Distolse lo sguardo, sospirò.
- Merda... – fece, abbassando il volto. - Fanculo anche a te, White... – concluse poi, chiudendo la finestra e abbandonandosi sulla sedia dietro la scrivania.
Doveva solo calmarsi. Sì, le serviva un po’ di calma.
Un altro bicchiere l’avrebbe aiutata, pensò, e quindi si alzò e se lo riempì, per poi tornare lì. Non lo buttò giù immediatamente ma anzi, assaporò lenta quel brandy come se fosse il più pregiato del mondo, socchiuse gli occhi e lasciò che l’aria fresca che usciva dal climatizzatore le rinfrescasse le carni.
 
“Sapphire... Ciao, scusa se ti disturbo, sono White Trebuchet della B&W Agency di Austropoli, a Unima. So che non vuoi avere nulla a che fare con tutta questa storia e mi spiace che tra te e Ruby sia andata com’è andata poi, effettivamente, ma io ho un fottutissimo bisogno di parlare con lui e non mi risponde da un mese al telefono, ed è appena passato un mese dall’ultima volta che l’ho visto. E a prescindere da tutto, io mi sto preoccupando. Dimmi che è lì con te, e se è lì con te digli che è uno stronzo e che mi deve richiamare subito, prima che gli mandi la mafia russa a strappargli la lingua con le mollette del bucato. Grazie, tesoro”.
 
Come si poteva trovare una persona senza sapere dove cercare?
Ma soprattutto: come si poteva sostituire la rotella più importante del meccanismo senza fermarlo?
Sbuffò, mosse il mouse, e lo screensaver che rimbalzava da un angolo all’altro dello schermo si placò. Prese un altro sorso di brandy, aprì la posta elettronica e passò una mano tra i capelli.
- Dannato Ruby Normanson. Dannata Yvonne comecazzosichiama...
Forse fu anche merito del caldo, ma l’alcool cominciò a farle quell’effetto simpatico che tanto le piaceva, quando provava quello strano solletico fin dietro le palpebre e la testa cominciava a essere pesante.
Fu però quando, tra le mail di richieste di assunzione, pubblicità spazzatura e fatture, non lesse il nome di Brad Mayer che i suoi occhi blu si spalancarono con violenza.
- Brad Mayer...
Lei sapeva che quello fosse l’agente delle star di Hollywood, e di ogni altra personalità che vedeva tutti i giorni in tv e sui giornali. Qualunque cosa toccasse quell’uomo si trasformava in vile denaro. La freccetta bianca si avvicinò alla mail, lei cliccò due volte e cominciò a leggerla.
 
 
DA: BRAD MAIER (bradmaier.pwood@starjetset.com)
A: w.trebuchet@bwagency.com
IL: 18/06/20X1 alle 11:28
OGGETTO: Proposta di Collaborazione Atelier Automne/Produzione 246545 Pokéwood.

ALLEGATO: 258kb – Productionsheet96547.pdf
Buongiorno Dott.ssa Trebuchet,
La contatto dagli studi della Starjetset S.P.A., da Hollywood, in riferimento alla produzione 246545, un film di prossima uscita che vedrà come protagonista Sabrina. Apprezzando il lavoro dell’Atelier Automne, in persona del suo stilista principale, Ruby Normanson, vorrei intavolare le trattative per una collaborazione tra le nostre società, intesa per la produzione di capi d’abbigliamento inclusi in particolari scene (le cui descrizioni trova in allegato).
Chiaramente, non serve dirLe che ciò che Le ho inviato è confidenziale e non dovrà essere divulgato a terze parti.
Vorrei poterLa incontrare presso i Suoi uffici, per definire un accordo di massima e contrattualizzare un accordo per la produzione complessiva di n. 7 capi d’abbigliamento.
In attesa di sicuro riscontro Le porgo
 
Distinti saluti,
 
Brad Maier, Starjetset S.P.A.
Southern Avenue – District A, 45,
Pokéwood (UN).
 
 
Le informazioni contenute in questa e-mail e negli eventuali allegati sono riservate alla persona sopraindicata. Si notifica a chi legge il presente avviso che è proibito leggere, copiare, usare o diffondere il contenuto di questa comunicazione senza autorizzazione ai sensi dell’art. 1653 del C.P. e ai sensi del D. Lgs. 4654/20X-15. Se avete ricevuto questo messaggio per errore, siete pregati di rispedirlo al mittente informandoci immediatamente, distruggendone il contenuto (testo e documenti allegati).
 
 
Prese un respiro.
Bello profondo.
Le piaceva l’idea. Avrebbe avuto una visibilità non indifferente, e avrebbe avuto l’opportunità di aprire un rapporto lavorativo con Maier e chiunque altro negli Studios.
 
“Soldi...”
 
Ne avrebbe guadagnati a palate. Forse avrebbe alleggerito la testa da tutti quei pensieri.
Buttò giù l’ultimo sorso di quel dolce veleno e allontanò il bicchiere con una manata, che scivolò sulla superficie liscia della scrivania di legno.
Doveva scendere in campo in prima persona e risolvere il problema una volta per tutte. Certo, avrebbe potuto non trovare Ruby per altri vent’anni, ma aveva poco tempo per far ripartire l’Atelier, e Brad Maier avrebbe ottenuto i suoi sette vestiti. Costasse quel che costasse.
E la cosa principale da fare era una, in quel momento.
Il dito smaltato andò a premere il tasto otto del telefono. Quello rispose con un doppio bip e la mise in contatto con il suo assistente, che rispose, ligio, dopo un solo squillo.
- Presidentessa, Signora White.
- Hugh, vieni qui.
- Sì, Presidentessa. Vengo subito.
La donna sospirò e aprì la borsa, prendendo una Winston e stringendola tra le labbra. Non l’avrebbe mai accesa lì, avrebbe lasciato la puzza di fumo nell’aria e non le piaceva. Ma aveva bisogno di una boccata d’ossigeno che non la costringesse a uscire fuori al caldo.
In qualche modo avrebbe cambiato l’aria che aveva nei polmoni. Si alzò in piedi e si avvicinò al centro della stanza, quando Hugh, il suo assistente, le si parò davanti.
- Presidentessa.
La donna voltò la testa, vedendo il giovane in piedi, dritto accanto alla porta dell’ascensore. Indossava una camicia bianca attillata, e una cravatta rossa, che ben si abbinava al colore corvino dei riccioli neri che gli si annodavano sulla testa. Lo sguardo, di quell’insolita sfumatura vermiglia, pareva concentrato e al contempo preoccupato. Le labbra erano schiuse, la salivazione probabilmente si stava azzerando.
White sorrise. Sapeva che non fosse facile lavorare per lei.
- Allora, Hugh, dovrai fare tre cose per me, molto importanti. La prima è rispondere alla mail di Brad Maier e organizzare un appuntamento con la sua assistente la settimana prossima, quando vuole lui. La prima data proponila tu, lei sicuramente rifiuterà, ne proporrà un’altra, quindi tu accetterai, qualunque essa sia. Semmai avessimo già un impegno sposterai l’appuntamento che avevamo in agenda, anche fosse col papa. Mi segui?
- Sì, Presidentessa.
- Benissimo. Avverti Whiteley che nel pomeriggio dovrà farmi trovare un resoconto sulla scrivania di Ruby, andrò all’Atelier, e voglio che tutto il personale sia presente.
- Va bene.
- E poi procurami un Blackberry.
- U-un Blackberry?!
La donna riguardò la sigaretta tra le dita e sospirò.
- Sì, il mio è volato dalla finestra due minuti fa. Recupera il mio numero e tutti i contatti che avevo salvato, reimposta ogni cosa come l’avevo e, per l’amor di dio, non entrare nel mio cloud... dio solo sa che fotografie potresti trovarci.
- Certo, Presidentessa.
Con la solita classe che la contraddistingueva, White fece per avanzare, passando accanto al divano e avvicinandosi all’assistente, per poi rallentare. Con la sigaretta tra le labbra, ancora spenta, si voltò e guardò il salotto.
- E alza il tappeto a mo’ di arazzo sul muro.
- Sul... sul muro?! - titubò quello, vedendola entrare nell’ascensore.
- Erano quattro cose, Hugh, non tre. Quattro.
Le porte si chiusero, mozzando quella conversazione e lasciando il ragazzo da solo nell’ufficio.

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Capitolo 2
*** Chapter 2 ***


Against Me

Quando tutto cade.

 
Hoenn, Solarosa, 18 giugno 20X1

Quando quel mattino si svegliò, rimase a fissare il soffitto per un paio di minuti buoni: la cornice di stucco che girava attorno al lampadario stava diventano un ricettacolo di polvere. Avrebbe dovuto pulirla, e sapeva pure dove fosse lo straccio, nel mobile del bagno, ripiano in basso.
Era la voglia che mancava.
Erano diventate davvero rare le volte che passava a letto, nel suo letto, e quasi sempre coincidevano coi collassi psicofisici che l’aggredivano ciclicamente. Sospirò, la maglietta sudata le si era attaccata sulla pelle e le zanzare quella notte le avevano aggredito le cosce.
Sospirò e allargò le braccia, e l’altra parte del letto era ancora vuota.

“Ovviamente...”.

Si domandava cosa si aspettasse, del resto: Ruby aveva cominciato una nuova vita, con una nuova donna, un nuovo lavoro, delle nuove responsabilità.
- Cazzo... – sospirò poi, voltandosi verso il suo cuscino e cercando inutilmente qualche scia del suo odore rimasta nascosta tra le pieghe delle federe, ma ormai tutto sapeva di chiuso e stantio; tutto era diventato immancabilmente piatto, eppure era andato via da ormai tanto, troppo tempo. Sospirò, cercando di appigliarsi alla realtà e di trovare la forza di non pensare, ma inciampava fin troppo spesso in quelle pozzanghere di catrame, ricche di malumore e ricordi che faticavano a decollare, a lasciarla andare.
Forse tutto risiedeva ancora lì, tra quelle quattro mura, e la difficoltà di accettare quell’uomo lontano da lei si stava manifestando in quel modo, con la tremenda difficoltà nell’abbandonare la loro casa. I suoi occhi blu si nascosero per qualche secondo dietro le palpebre, difendendola da quella che doveva essere l’ennesima nuova giornata, quella dell’ennesima svolta, che stava aspettando da un anno o giù di lì.
Si chiedeva se era di un altro uomo che avesse bisogno. Insomma, non assomigliava a Yvonne ma di certo non era da buttare. Sospirò e carezzò il suo corpo, saggiandone tutte le curve, tutte le depressioni, tutte quelle che prima erano le sue morbidezze ed erano diventate parti più dure. Ferma con le dita sul seno, sospirò.

“Un tempo forse erano più sode... Insicurezze da donne. Tutte le donne hanno questi complessi sul seno, no?”.

Il fiato fuggiva attraverso le labbra schiuse. Non si guardava allo specchio da troppo, per paura di trovarci le rovine di quello che un tempo reputava se stessa. Rifletté, passando da stesa a seduta, capendo che non avesse bisogno di un uomo per definire la persona che fosse.
Perché per farlo, chiaramente, doveva trovare prima se stessa.

“Trovare me stessa...”.

Lo specchio era davanti a lei, ma i suoi occhi non riuscivano a scorgerne il riflesso.

“Eppure dovrei vedermi. Il mio riflesso dovrebbe essere lì.
E non c’è.
Forse perché è vero che mi sono persa...”.

Il panico l’attanagliò subito dopo, aggredendola feroce e strappandole a morsi il respiro. Sentiva spingere la paura dall’interno del proprio corpo, e i muscoli dell’addome contrarsi. L’aria nei polmoni diventava sempre minore, la stanza attorno a lei si chiudeva sulla sua testa, costringendola ad abbassarsi, e la premeva contro il pavimento.

“Basta!”.

Sempre più stretto, sempre più soffocante, quel luogo la stava divorando. Il calore le bruciava le tempie, le mani, le cosce.

“Basta! Basta, ti prego, dio, basta!
Ho lottato contro cose ben peggiori! Contro avversari più cattivi di me stessa!
Devo riuscire a vincere!”.

Si sforzò di alzarsi, di spingere con le spalle il soffitto e sollevarlo, ma le gambe facevano male, l’ossigeno mancava e tutto ciò che rimaneva era disperazione e impotenza. Fu schiacciata nuovamente, con più forza e veemenza.
- Aiuto! - urlava. - Aiutatemi!
Il cuore batteva sempre più forte, suonava un charleston perpetuo, sfiancante, doloroso.
E la portò a chiudere gli occhi.

Alle sei e quarantasette del mattino, Sapphire fu sconfitta da se stessa.




Poi spalancò le palpebre.
Era tutto un incubo, per fortuna.
*

“Porca puttana...”.

Ansimava, sudata e impanicata. Sentiva la bocca impastata, desiderosa d’acqua, mentre lo stomaco reclamava cibo e il lenzuolo sul quale aveva dormito era finito tutto ai suoi piedi, sgualcito. Era stesa sul materasso. Doveva essersi agitata parecchio.
Non ricordava il sogno che aveva fatto ma era sicura che riguardasse Ruby.
Sbuffò, alzò gli occhi e affondò la testa nel cuscino.
- Non riesci ad andare mai via... vero? - sussurrò, tra i denti.
E la cosa neppure la sconvolse, dato che, dopo quasi un anno, quell’uomo stentava a uscire dalla sua vita. Eppure aveva deciso di dare un taglio netto a quello che era il passato, con le famiglie unite, e gli stessi posti frequentati, i vestiti che aveva fatto per lei, le persone che avevano in comune.
Ogni cosa.

“Ogni fottuta cosa...”.

Aveva persino deciso di lasciare Albanova, spostandosi nella più ridente Solarosa, dando tre mandate alla serratura di casa e lasciando le chiavi a suo padre.

- Te ne vai davvero...
- Sì. Ma sono a cinque minuti di macchina da qui, papà...
- E col lavoro?
- Sono a cinque minuti di macchina da qui, papà...

E in effetti era nella sua nuova camera da letto. La sua nuovissima camera da letto, ancora spoglia e senza personalità, come ogni stanza in cui si è entrati da poco. C’era ancora il cellophan sulle ante dell’armadio, e la moquette era soffice e profumata.
Installata da neppure sei settimane.
Del resto i soldi non erano un problema.

- Ma sei sicura di riuscire a gestire tutto, stando da sola?
- Papà! Ho ventisette anni! E vado a vivere nel paese accanto, se tu urlassi di notte probabilmente riuscirei a sentirti!
- Io mi preoccupo per te...
- E lo so. Ma se mi ami, e so che mi ami, fammi andare via da questa prigione...
- Uhm... e la mamma? Come la metti con la mamma?
- La mamma già sa tutto, papà. Dovevo dirlo solo a te. Ah, ovviamente, nella remotissima eventualità che il mio ex ragazzo si presenti alla tua porta chiedendoti di me, tu non gli dirai nulla e lo colpirai forte sulle palle...
- Come vuoi...
- Ci conto. Soprattutto per quella cosa delle palle.

E così era cominciata la sua nuova vita.
Con l’ansia, gli incubi, il frigorifero perennemente vuoto e un’insana vocazione per la cucina in scatola. Era la regina del tonno sott’olio.
La duchessa dei sottaceti.
Non aveva tanto tempo durante la giornata, e nonostante Solarosa fosse un centro abitato leggermente più grande di quello da cui proveniva, l’unico supermercato aperto oltre l’orario di chiusura del laboratorio era a dieci minuti da casa sua, e spesso non aveva voglia di farsi una scarpinata, per finire a mangiare verdura fresca e un secondo piatto decente. Di tanto in tanto sua madre le portava una doggy-bag piena di avanzi del pranzo, ed era come fosse domenica.
Sapphire non era per niente una cuoca. No.
Era troppo materiale, non capiva la poesia del cibo.
Quello che cucinava, del resto, era quell’altro. Quello coi capelli neri e gli occhi rubini, quello con la cicatrice sulla fronte, l’innata abilità per le attività pseudo-femminili e la carriera di stilista intrapresa da appena un anno.
Quello con la fidanzata col culo alto e abbronzato.
Sapphire invece aveva la cellulite.
- E anche oggi fanculo al mondo... - fece, levando la maglietta e lasciando cadere le mutandine verso il pavimento. Le avrebbe raccolte dopo.
Sfilò verso il bagno e aprì l’acqua della doccia, aspettando che raggiungesse prima la temperatura massima, per poi regolarla fin dove la sua pelle non rischiasse l’ustione. Sospirò e ripensò a Yvonne.
Poi mise le mani sotto al seno e lo sollevò.
Ricadde subito dopo, pesante, mentre gli occhi blu fissavano le imperfezioni della pelle del volto, i capelli spettinati e le labbra screpolate.
- E questa è una donna vera... - disse, come faceva ogni mattina, quasi per convincersi di essere dalla parte giusta della contesa. Inconsciamente non si rendeva conto di mettersi perennemente in competizione con una modella, una donna perfetta anche quando non lo era, che parlava tre lingue e che aveva più seguaci su Instagram che capelli sulla testa.
- Come se contassero qualcosa...
L’acqua continuava a scrosciare alle sue spalle, mentre il pensiero di quei due assieme l’attanagliava e la costringeva a essere forte, più del solito.
Il suo riflesso nello specchio le mostrava una donna smagrita e dal viso stanco.

Sì, belli gli occhi. Belle le lentiggini sul naso.
Ma Ruby ha scelto di meglio.
Bah! Fanculo quel finocchio!

- Fanculo quel finocchio... - sussurrò, prendendo l’asciugamano che avrebbe avvolto poi sulla testa e lanciandolo contro la sua immagine apatica.
Si voltò e si gettò sotto il getto caldo dell’acqua, lavando via l’angoscia notturna e annegandola in una schiuma dal profumo di patchouli. Ma quando la doccia finiva, dopo che il calore aveva sgonfiato quell’ansia con cui conviveva da ormai troppo tempo, rimaneva da sola a fissarsi nello specchio, coi capelli bagnati, forse un po’ più lunghi di come li portava sempre, e sul suo viso non vi era altro che stanchezza.
Stanchezza di tutto, forse anche di ciò che non aveva ancora ma che l’avrebbe aspettata di lì a poco. Perché Sapphire lo sapeva, mentre strofinava i capelli nell’asciugamano, seduta in slip sul letto, che non sarebbe durata per sempre, quella fase.
Sapeva che la vita l’avrebbe trascinata via assieme a quei pensieri, e che si sarebbe probabilmente ritrovata sulla riva di fiumi più limpidi. Tutto stava nell’aspettare che a monte fosse finita la tempesta.
Tutto stava nel sopravvivere, intanto. Nel non buttare tutto.
Usare ogni risorsa a disposizione.
E lei che aveva, per non morire? Che cosa le era rimasto? Quel paio di occhi blu, che avevano visto le persone mentire? O una testa che doveva ricordare cose che non voleva?
No, non poteva fare quel discorso; Sapphire non era il tipo che rimaneva impresso nella mente delle persone. O meglio, era la sua attitudine a colpire la gente, e non il suo portamento elegante.
Non ne aveva, lei, di portamento elegante.
Aveva soltanto sonno, e caldo, e sete, e di lì a poco avrebbe indossato l’armatura e sarebbe andata a lavorare.
Sbuffò e perse i restanti venti minuti ad asciugare e ad acconciare i capelli in quello che pareva essere il suo taglio migliore, forse un po’ spettinato sulle punte. Cominciava a farsi rivedere il segno della ricrescita, e forse avrebbe dovuto usare quella maschera che le aveva regalato Orthilla per levare le impurità sulla pelle.
La pelle. La guardò.
- Grassa.
Capelli.
- Grassi.
Labbra.
- Screpolate. E senza trucco sono ancora più cessa di quello che sono.
Eppure sapeva che non avrebbe dovuto buttarsi a terra in quel modo, e che ogni cosa si sarebbe sistemata. Sì, quella quiete che mitigava dopo la tempesta.
Poi saltò nei vestiti e si ritrovò al piano di sotto, e il silenzio l’aggredì di nuovo. Guardava i muri ballare, i quadri spostarsi, il vento soffiare attorno a lei e la luce scappare via. Era rimasta all’improvviso di nuovo sola, al freddo, mentre grondava sudore congelato e il cuore batteva.
E la voce stronza tornava a farsi sentire.

- Non sei abbastanza. Forse non lo sei mai stata. Forse non lo sarai mai.
- Fottiti!
- Sei stata il suo rincalzo fino a quando non ha trovato quella cavalla. Forse dovresti truccarti con più attenzione, e forse con quella maschera farai meno schifo. Ma farai schifo lo stesso.
- Ma che cazzo vuoi! - urlò lei.
Il vento soffiò più forte, le pareva quasi di perdere l’equilibrio. Doveva andare a lavorare, per spingere quella sensazione di incompiutezza lontana da lei ma ormai non vedeva più la porta.
- Sei una merda. Sei ridicola.
E fu in quel momento che la rabbia caricò il colpo, si riversò attorno ai polmoni e li compresse, e fu quasi sfinente trovare la forza necessaria per riempirli e urlare.
Urlare al mondo.
“LO SO!”

*

Non sapeva quanto tempo fosse passato.
Era stesa per terra, col viso sul parquet polveroso e poggiava la fronte contro il tessuto del retro del divano. Le unghie avevano graffiato il pavimento, il trucco si era sciolto, aveva creato con le lacrime una striscia nera che le attraversava in orizzontale la guancia e le baciava le labbra.
Sbatté le palpebre per qualche secondo, e poi tirò dentro tutta l’aria che era possibile immettere nel corpo.
- Porca troia infame... - biascicò, mentre la testa doleva. Poggiava sul braccio sinistro, il polso era piegato sotto il divano. Doleva, pareva essersi slogato.
Il braccio destro invece era davanti al suo volto. La mano stringeva ancora il cellulare.
Era quello, che faceva tutto quel casino.
- Cazzo... - sospirò, vedendolo squillare. Ed era così impotente che anche la semplice azione di strisciare il dito sullo schermo le pareva del tutto insormontabile. Ed era così complicato stare in pace con se stessa che il semplice rendersene conto le montava in corpo una rabbia senza precedenti.
Lei odiava.
Odiava quell’uomo, odiava quella donna e odiava se stessa per essersi messa in quella situazione, che non poteva fare altro che subire a ogni respiro che emetteva. Il telefono squillava e lei continuava a odiare, a immagazzinare quel dolore che sembrava non avere fine, e che sarebbe uscito prima o poi, rompendo qualcosa.
O qualcuno.
La sentiva, quell’onda nera, mentre si trascinava nel suo corpo e sporcava le sue viscere, insozzava i polmoni, costringeva il cuore, lo spremeva fuori dal loco. Lo sentiva in gola.
Buttò fuori l’aria sporca, respirò con la bocca e le lacrime vennero fuori a loro volta.
E non sapeva perché.
Si morse le labbra e spostò poi i capelli davanti agli occhi, blu e ormai inzaccherati di quello che rimaneva del suo trucco sciolto.
Si sedette lentamente, mentre il pianto squassava il suo petto e la costringeva a prendere grandi boccate d’aria. Sapeva di dover andare avanti, di doversi buttare tutto alle spalle, e lasciò andare la stretta dal telefono, prima di graffiare con le unghie il parquet.
Sentiva che stava costringendo in una sfera quella materia nera e malvagia.
Sentiva che stava per controllarla.
Pensava a Ruby, le lacrime scendevano e lo faceva anche la pioggia, oltre la porta d’ingresso che aveva davanti, ma tutto quello non faceva altro che permetterle di manipolare quel malessere, raggrupparlo tra lo stomaco e polmoni e aspettare il momento adatto per tirarlo fuori.
E successe. Successe quasi subito, e Sapphire urlò come una dannata, disperandosi e perdendo la voce per quanto stesse stressando le sue corde vocali. E il telefono continuava a squillare, e la pioggia s’infittiva oltre le tende polverose del soggiorno buio.

- TI ODIO! TI ODIO, FOTTUTO UOMO DI MERDA! TI ODIO! NON TI PERDONERÒ MAI!

E quello fu il culmine di quel terremoto interiore, di quell’uragano emotivo.
Durò un attimo, ma sentiva che il suo cuore fosse un po’ più libero, in quel momento.
Riprese controllo di sé. Delle sue mani e della sua voce. Respirò, riempiendo i polmoni d’aria pulita, e forse era una buona cosa. Rimase a guardare la superficie delle sue unghie, consumata contro le liste di compensato sui cui era seduta, e pensò che non avesse mai avuto belle mani.
Il telefono squillava e lei fissava le tende, e le sagome degli alberi che risaltavano quando i fulmini fungevano da flash per quel fotografo sadico che era il cielo. Il vento li costringeva a dimenarsi come indemoniati, e le loro fronde parevano strapparsi sotto ognuno di quegli ululati impetuosi.
Aveva paura, nel profondo.
Perché quella era una vera e propria tempesta, il telefono continuava a suonare e lei era da sola in casa sua. Nel suo posto felice, che odiava.
Troppo rumore fuori, poco rumore dentro. Ma nella testa era tutta un’altra storia.

Il telefono squillava.

Decise di voltarsi e di prenderlo. La mano tremava ancora, mentre l’avambraccio detergeva mascara e lacrime, finendo ovviamente per sporcarsi. Sullo schermo, il nome di Petra riluceva candido sullo sfondo nero. Più in basso vi era la foto che Sapphire aveva scelto come predefinita, appariva ogni volta che le due si telefonavano e vedeva le due giovani donne sorridere stanche alle fotocamera, in bikini, all’interno delle terme di Cuordilava. Quel giorno Fiammetta le aveva invitate a volersi un po’ bene, quindi si erano recate nel piccolo paese a valle del Monte Camino, avevano levato i vestiti e indossato l’accappatoio, e subito dopo lo avevano appeso sui sostegni di legno, prima di entrare nell’acqua sulfurea bollente del centro termale.
Fu una giornata molto rilassante, Sapphire la ricordava col sorriso.
Riprese aria nei polmoni, poi un tuono esplose, facendo vibrare i vetri delle due finestre che sostavano alla destra e alla sinistra della porta.
- Sì... - disse, prim’ancora di rispondere, quasi a voler testare la propria voce prima che quella la sentisse. Inspirò nuovamente, espirò e rispose.
La pioggia scendeva fitta, prima che lei mettesse l’orecchio sullo schermo.
- Pronto... Petra...
- Sapph... - fece quella, quasi sconvolta, prendendo un lungo respiro e soppesando le parole. - - Tutto bene?
- Sì, Petra. Sto bene.
- Sono fuori la porta, Sapph... Ho sentito tutto...
 

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Capitolo 3
*** Chapter 3 ***


Against Me

Quando tutto cade.


 
 
Hoenn, Solarosa, 18 giugno 20X1

- Ti ho preparato una tisana...
Gli occhi di Petra, di quell’insolito colore rosato, si poggiarono sulla figura della padrona di casa, piegata a fissare il polso che doleva o forse la superficie graffiata di mogano del tavolo su cui la prima subito dopo poggiò una tazzina, di porcellana bianca, corredata di piattino e cucchiaino in argento.
- Grazie...
- Hai un bel servizio da tè, sai?
- L’ha comprato quel finocchio...
La donna sospirò e inarcò le sopracciglia. Personalmente le dispiaceva che quella chiamasse Ruby in quel modo ma aveva decisamente paura di farglielo presente.
- Beh... non ci pensiamo - sorrise. Le spinse poi davanti la bevanda fumante, invitandola a bere. Quella la guardò e sbuffò, apatica.
- Avrei più voglia di una birra fredda, ora come ora...
Poi l’altra spalancò gli occhi e si alzò. Sapphire la fissò incuriosita.
- Dove vai?
- Ho dimenticato lo zucchero.
- Ah… okay… - ridacchiò poi. - Pensavo stessi per prendermi un’Heineken...
- No – rispose Petra, poggiando una grossa zuccheriera tra di loro. - Sai bene che non mi piace l’alcool...
Sapphire alzò il viso, giusto per quell’attimo che le consentì di fissare Petra negli occhi, per poi fare spallucce.
- E non so spiegarmi come tu sia sopravvissuta fino a oggi...
- Ci vogliono rigore e disciplina, nel caso lo stessi chiedendo...
- No. Non l’ho chiesto.
- Bevi – l’ammonì ancora l’altra, battendo impazientemente davanti a lei la punta dell’indice, perfettamente colorato con smalto color pervinca. - … e intanto dimmi cos’è successo...
Sapphire guardò la zuccheriera, poi rialzò lo sguardo e fissò la figura della donna che aveva di fronte. Sospirò, vedendo come neanche uno dei suoi capelli si trovasse fuori posto ma che, anzi, la sua capigliatura fosse ordinata in quella crocchia alta dietro la testa. Piccoli ciuffetti castani erano ben pettinati e tenuti dietro le orecchie da un paio di forcine scure, che a stento risaltavano. Gli occhi della donna erano finemente truccati, e anche il suo viso lo era, con delicati tocchi di fondotinta a dare tono a un viso che, onestamente, di trucco non aveva bisogno.
- Cosa c’è? - domandò quella, sotto lo sguardo insistente dell’altra, che intanto continuava a pensare al fatto che Petra fosse molto più femminile di lei. Certo, non aveva il fisico di Yvonne, essendo più minuta, sottile, ma probabilmente anche lei sarebbe riuscita a rubarle Ruby, se soltanto ci avesse provato.
- Nulla. Nulla di nulla…

Stupida. Smetti di pensare a ‘ste cazzate. Petra non si sarebbe mai sognata di fotterti il ragazzo.

- Sembri su di un altro pianeta, Sapph... Mi puoi spiegare?
- Nulla, ho detto. Stai tranquilla. Non è successo nulla.
L’altra pronunciò le labbra, per nulla convinta da quelle parole, quindi prese il cucchiaino che la padrona di casa aveva davanti e aprì la zuccheriera.
- Ne metto tre... è un tantino amarognola, ma così sarà sicuramente meglio...
- Allora mettine sei...
Petra alzò gli occhi e sospirò.
- Potremmo esagerare e metterne un quarto. Del resto ti vedo molto sciupata...
- Già. Sei cucchiaini.
- L’ultima volta non eri così magra. Sei sicuro che vada tutto bene? - domandò poi l’altra, mettendo quattro cucchiaini di zucchero e porgendo la tazza a Sapphire. Quella la prese e annuì, distratta, avvicinando il bordo bollente alla bocca e poggiandovi le labbra, per poi cominciare a sorseggiare la tisana.
Non le piaceva ma rimase in silenzio.
- È ancora amara.
- Oh, ma deve essere amara! È per via delle erbe che ho infuso... Ma ti rilasserà, vedrai!
Sapphire ridacchiò.
- Me ne serve un secchio, allora…
- Te ne preparerò anche due, se serviranno... - sospirò, l’altra, ricomponendosi e raddrizzandosi sulla sedia. Unì le mani davanti a lei, poi annuì. - Credo sia arrivato il momento di parlarne, no?
- Di cosa?
Petra la vide bere un altro sorso, lottare contro se stessa per non sputare ciò che aveva sulla lingua e poi prendere il cucchiaino, per aggiungere altro zucchero.
- Erano meglio sei... – bofonchiò, mentre l’altra beveva in silenzio e perdeva lo sguardo limpido nei respiri del vapore che uscivano dalla tazza.
- Di tutta questa storia, Sapph... Sono ormai diversi mesi che hai subito questa... involuzione, chiamiamola così. Sei palesemente depressa.
- Non sono depressa - ribatté la prima, nascondendo lo sguardo dietro la barriera di porcellana candida e fumante. L’altra rimase dritta, col collo allungato e il viso rivolto in avanti.
- Non provare a convincermi del fatto che tu non abbia appena avuto un attacco di panico...
Era seria, tremendamente seria, e a nulla servì ogni tentativo di Sapphire di distogliere l’attenzione da lei. Quella non mollava, la teneva sotto scacco con gli occhi da maestrina.
- Smettila.
Petra sospirò con così tanto garbo che quasi non pareva preoccupata.
- Non sono problemi miei, lo so, ma ti sono amica e non ho notato soltanto oggi che la fine della storia con Ruby ti abbia fatto chiudere in te stessa, in questo stato...
I loro occhi s’incontrarono a metà strada. Solo i loro respiri non cessarono, e le lancette sincronizzate dell’orologio a parete e del piccolo Cartier bagnato in oro rosa dell’ospite.
- Quando vedo che uno dei miei alunni è un po’ giù cerco sempre di far affrontare loro i problemi. So che non farlo è più semplice...
- Non è così - la interruppe l’altra.
- Credi di no?
Un sorriso fuggì tra le labbra screpolate della donna, mentre la testa faceva segno di no.
- Tu invece credi che vivere la vita intera con una domanda nella testa, senza mai poter ottenere la risposta sia più facile che prendere la situazione di petto? Non lo è, Petra.
- E tu la risposta l’hai avuta?
Il cuore della donna saltò un battito.
- Io la risposta l’ho avuta, Petra. Il fatto è che non ho saputo accettarla...
L’altra rimase immobile, ritirò le mani e sistemò il cinturino di pelle dell’orologio, che intanto s’era girato. Ritirò le labbra e annuì. Sapphire la guardò e le chiese con lo sguardo a cosa stesse pensando.
- Ricordi com’era la tua vita, prima di Ruby?
- Era tranquilla... – annuì l’altra. Sospirò, guardò le mani e continuò. - Non che lui m’avesse sconvolto, sai cos’è successo quando ci conoscemmo, non serve che io lo rispieghi per la millesima volta, e io vivevo una vita molto dinamica, prima...
- Quindi cos’è cambiato?
Sapphire si alzò in piedi, portando le mani ai fianchi e sentendo il polso dolere. Stava però ricominciando a sentire l’acqua che la immergeva dal basso, dalle caviglie. E quella sensazione non era nuova: sarebbe finita per annegare in quel mare sporco, fatto d’autocommiserazione e miseria, e diventare poi calda come il fuoco, prima di trasformarsi in lacrime. E Petra la vide piangere lentamente, in silenzio, mentre il suoi occhi lasciavano che parte della sua anima fuoriuscisse incandescente e scavasse vie lucide sul pallore che le spegneva il viso. Dal suo sguardo traspariva perfettamente quanta sofferenza il suo cuore ferito provasse.
- Non... non è cambiato nulla... ma...
Rimase immobile, con le tempie che pulsavano e la pioggia che continuava a battere oltre le finestre. Si sentiva oppressa.
Ancora, quella sensazione d’impotenza.

E urlò.

Lo fece con tutta la forza che il suo corpo riusciva a contenere, afferrando poi la zuccheriera che aveva davanti e lanciandola contro il muro accanto al frigorifero giallo. Lo zucchero volò ovunque, persino addosso a loro due, che rimasero immobili, soggiogate dalle paura.
- Sapphire... – sussurrò Petra, inorridita.
- ODIO QUESTO SILENZIO! IO NON POSSO STARE PIÙ IN SILENZIO!
Batté i pugni con forza sul tavolo e vi si affacciò, come a guardare il progetto importante di una vita futura stampata su carta doppia e ripiegata più volte, stesa sulla tovaglia. E nonostante sapesse di aver raggiunto già il fondo, era del tutto ignara che scavando si arrivasse ancora più in basso, dove il sole non arrivava. Dove tutto ciò che la circondava finiva per schiacciarla, per levarle le forze, costringendola a pensare ai perché, ai se, ai ma.
Alle colpe sue, a quelle di lui.
Ai forse.
A ciò che avrebbe potuto fare.
Petra si alzò in piedi subito dopo, avvicinandosi a lei con in mano un fazzoletto di carta preso dalla penisola della cucina, alle loro spalle.
- Tieni.
Glielo porse, Sapphire lo guardò per un secondo.
- Sono stanca.
- Lo so. Ma domani è un altro giorno.
- Questo me lo dicono tutti. Nessuno aveva però mai parlato di questa notte infinita.
- La notte non è infinita... – sbuffò l’altra, portando le mani ai fianchi e assumendo un’espressione a metà tra il dispiacere e quella difficoltà a comprendere appieno le cose.
- La tua notte forse finirà quando suona la sveglia... – fece Sapphire, prima che l’ennesima lacrima le si tuffasse sul viso. – Ma la mia probabilmente non è neppure arrivata alla metà.
E fu lì che Petra sorrise, incrociando le braccia.
- Credi davvero che una donna bella e forte come te possa essere sconfitta da tutto questo?
Gli occhi blu di Sapphire spaccarono in due la figura perfettamente simmetrica della maestra di Ferrugipoli, vestendola di serietà e timore.
- Io non sarò mai bella come quella donna.
L’altra sorrise a mezza bocca.
- La bellezza è negli occhi di chi guarda. E io vedo una donna dal viso meraviglioso, dal sorriso triste e dal cuore grande. E dal culo alto... – ridacchiò. – Credo che un uomo si accorgerebbe prima dell’ultima cosa, tra l’altro...
- E cosa me ne dovrei fare di un uomo, scusa?
- Ma cosa ti servirebbe, ora?
Sapphire tentennò. Avrebbe risposto “Ruby”, se solo fosse stata la verità. Passò il fazzoletto già umido e sporco di trucco sulle guance e lo gettò via, appallottolandolo malamente e poi abbandonandosi sulla sedia. Un tuono fece vibrare i vetri delle finestre.
- Vuoi che risponda io? Perché, Sapphire, io lo saprei...
E la risposta era così banale che lei non avrebbe neppure dovuto leggere nella mente di Petra per sapere a cosa si riferisse.
- Me stessa...
- Te stessa, Sapph... Ruby è uscito dalla porta di servizio e tu sei andata nel panico. Non devi perderti, tesoro, per nulla al mondo. Perché sei l’unica persona su cui potrai realmente contare. Dopo me – sorrise quella, annuendo dolcemente e lisciandosi il vestitino grigio sullo stomaco piatto. Prese poi per mano Sapphire e la tirò delicatamente, verso l’ingresso, seguendo le orme bagnate dei passi che aveva poggiato la donna dai capelli castani quando era entrata in casa. Fuori, la pioggia continuava a cadere impietosa, come spesso accadeva in quel periodo dell’anno a Hoenn.
Petra la pose davanti all’uscio, aprì la porta e le mostrò il cortile di casa sua, dove piccole pozzanghere cominciavano a formarsi sul vialetto di ghiaia.
- Lo vedi, il mondo?
Sapphire annuì debole, mentre percepiva le mani dell’amica stringerle le spalle ossute.
- Rispondi, Sapph...
- S-sì... – disse quella, asciugandosi il pianto col dorso della mano.
- Lo vedi, come va avanti?
Gli occhi blu dell’altra si concentrarono sul prato umido, sui suoi odori delicati, e poi oltre, sulle case del vicinato. Alle loro spalle vi erano gli alti alberi del bosco e alle spalle la collina sulla quale sorgeva Petalipoli.
- Sì...
- Il mondo va avanti, la pioggia cade e il tuo cuore batte. Sai che significa? – chiese Petra poi, affiancandola. Le strinse delicatamente la mano infortunata e sospirò, riempiendo i polmoni di quell’aria così pulita, molto differente da quella che respirava nella sua città, già grande metropoli rispetto a quel buco di vita dove viveva la ricercatrice.
- Sai che significa? – ripeté.
Sapphire fece cenno di no, facendola sorridere per la sua ingenuità.
- Significa che non sei morta. Hai passato mesi interi a tumularti coi tuoi dubbi, tesoro, e ora è arrivato il momento che viva la cosa in maniera più sana. Datti una possibilità. E sorridi, sciocca...
- Che dovrei fare?
- Vieni con me. Andiamo a Bluruvia, passiamo qualche giorno da Rudi. Magari ti farà conoscere qualche bel surfista, ti leverai qualche sfizio e... beh... – sorrise nuovamente, facendo avvampare Sapphire.
- Cielo... – sbuffò, malcelando la sua voglia di chiudere il libro della sua vita e riaprirlo in una pagina a caso. – Ma... ma come faccio, poi, col lavoro?
Petra la guardò con sufficienza, riportando le mani ai fianchi sottili e piegando gli angoli della bocca a formare la sua classica smorfia da prima della classe, con le sopracciglia arcuate e le labbra appuntite.
- Semplice. Parla con tuo padre e dille che hai bisogno di riposo.
- Ma le ricerche...
- Le ricerche aspetteranno. Ora dobbiamo fare solo due cose, tesoro.
Sapphire spostò quel ciuffo biondo cenere dallo sguardo e riempì i polmoni. Percepì lentamente i colori tornare a riempire la sua vita.
- Ovvero?
Petra le sollevò delicatamente la mano e annuì.
- Per prima cosa, dovremmo fasciare questa. Un paio di giorni di riposo dovrebbero farti stare tranquilla. La seconda cosa sarebbe fare la valigia. Domani si parte.
Unima, Austropoli, Atelier Automne, 18 giugno 20X1

- Chi lo sa se arriveremo mai a quel cazzo di ottavo piano… – aveva domandato a se stessa White, sbuffando. Aveva riempito i polmoni dell’aria viziata di quell’ascensore pieno di specchi, che le mostrava da tutte le direzioni quell’espressione confusa che il suo viso indossava da una settimana, oramai.
Ed era l’ultima cosa che voleva vedere.
Si voltò, fissò le porte, serrate, dove qualcuno vi aveva inciso Kendrick and Cole, probabilmente con una chiave, graffiando via la cromatura. White guardò la scritta passivamente, poi sbuffò. Il cuore scalpitava come un cavallo in corsa e quella sete, ma non d’acqua, pareva aggrapparsi alla sua gola.
Abbassò lo sguardo, sbuffò e affondò la mano nella borsa, la costosissima Birkin che aveva comprato all’asta, frugandovi alla cieca all’interno con le mani. Non fu difficile sentire la fiaschetta sotto i polpastrelli, e quando l’afferrò un soffio d’aria fresca parve rilassarle lo spirito, oppresso in quell’ascensore troppo illuminato. Aprì la boccetta e ingoiò sulla fiducia un paio di sorsi di brandy, il Torres Jaime I che generalmente acquistava con cadenza settimanale e che era di stanza nel mobiletto dei liquori del suo ufficio da qualche anno a quella parte.
E quando la sua testa risuonò come una campanella con l’alcool che faceva da martelletto, riuscì paradossalmente ad allontanare lo spettro delle paranoie che la stavano consumando in quel periodo. Le porte s’aprirono subito dopo, mostrandole la sua creazione, quell’atelier dagli stilisti sfiduciati e molli, quasi liquidi, riversi sui loro tavoli da lavoro pieni di aghi e stracci di tessuto verdi, gialli, blu. Vedeva però la bellezza di quel posto, White, ne riconosceva l’odore, amava le lampade e le luci gialle che inondavano il lato nord, mentre quello a sud ancora viveva della bellezza del tramonto che baciava lo skyline di Austropoli.
Lei era in piedi, le porte dell’ascensore si erano chiuse alle sue spalle e c’era ancora qualcuno che mangiucchiava in silenzio mentre guardava qualche video sul cellulare, senza accorgersi che chi li aveva messi a libro paga stava camminando nel corridoio tra le due sezioni di scrivanie. Una delle stiliste, più minuta delle altre ragazze, più attenta dei ragazzi, dai profondi occhi color nocciola, rimase immobile a fissare la sfilata disinteressata della Presidentessa, la cui unica direzione restava la porta spalancata dell’ufficio di fronte a lei.
Ci vollero tre secondi poi quella entrò, guardandosi attorno: la grande scrivania di Ruby era davanti a lei, la poltroncina dello stilista era vuota ma il suo tavolo manteneva grandi pile ordinate di documenti, ognuno dei quali aveva attaccato un post-it con su scritto qualcosa. Il primo, per esempio, diceva “fatture”, mentre il secondo “documenti di trasporto”.
Alla sua destra c’era una sedia libera, e White la occupò subito, gettandoci la borsa e il leggero soprabito che indossava. Alla sua sinistra, poi, c’era Whitley, stretta nel suo piccolo tavolino dalle gambe sottili, mentre impugnava con la mano ossuta la Bic col tappo blu.
La fissò immediatamente, quella.
- Presidentessa! – esclamò, irrigidendosi e alzandosi in piedi, mentre le mani continuavano a stringere la penna, forse con troppo vigore. – Mi chiedevo a che ora sarebbe passata…
- Sono passata ora, Whitley… - la salutò l’altra, facendo un cenno col capo e guardandosi intorno. – Davvero vorresti farmi credere che in tutto questo tempo non ti sia mai messa a lavorare sulla scrivania più grande?
Gli occhi blu della ragazza si spalancarono, fissi in quelli del suo capo, poi si spostarono verso il basso, mentre il volto candido arrossiva tutto d’un colpo.
- I-io… Io speravo che il signor Normanson tornasse, a dire il vero… Se fosse rientrato e mi avesse trovata lì…
- Beh, ti serve spazio… – sbuffò l’altra, avvicinandosi a lei e squadrandola in un attimo, apprezzando le ballerine e i pantaloni lunghi e sblusati, di quel grigio che tanto le ricordava un viaggio fatto a San Pietroburgo. Lo aveva abbinato a una camicetta bianca, classica, molto semplice. Seguì con gli occhi affascinati la sua pettinatura, che l’aveva sempre incuriosita: aveva così tanti capelli che riusciva a farsi due grosse crocchie ai lati della testa e a lasciar cadere altrettante ciocche, abbastanza lunghe da poggiarlesi sulle spalle. Era minuta e graziosa, col volto sottile e gli occhi celesti più grossi che avesse mai visto.
- Dovrei mettermi lì, secondo lei? – chiese poi
– Ruby non può sperare di fare ciò che vuole e trovarci sempre ben disposte… vero?
Quella rimase immobile, nascose un paio di volte gli occhi ingenui dietro le palpebre e annuì.
- Credo…
- Riposo, soldato… rilassati - la sfotté l’altra, dandole le spalle e portando le mani ai fianchi. – Ho una tonnellata di domande da farti, e tu risponderai a tutto, e che sia in maniera positiva o negativa.
Whitley la guardò spaesata.
- Cioè?
- Ti vieto di rispondere “non lo so”. E mentirmi. Non mentirmi...
Quella tentennò, poi spalancò ancora gli occhi, ancora più rigida. – N-no! Non lo farei mai!
- Qui stiamo cercando di fare soldi, non voglio licenziarti o altro… Anzi. Quei lavativi qui fuori sono impegnati a mangiare e a cazzeggiare, mentre io li pago, e tu sei l’unica che si sta rendendo effettivamente utile…
White guardò per un attimo oltre i vetri opachi delle finestre e sospirò.
- Che vista. A te piace?
Si voltò, poi guardò annuire l’altra.
- Sì, Presidentessa.
- No, davvero... – ribatté l’altra, aggrottando la fronte. – Devi calmarti. Devi stare rilassata... Non rompere le palle con quest’espressione impaurita.
- Ci proverò...
- Bene... Allora... – cominciò, girando attorno alla scrivania di Ruby e sedendosi al suo posto. – Comoda...
Alzò i piedi sul piano e guardò l’assistente.
- Dimmi sinceramente quanto siamo nella merda.
La domanda colpì Whitley nel segno, che titubò, schiudendo lentamente la bocca.
- Immagino... immagino che se non avessimo le spalle coperte da lei... dai suoi soldi, intendo... beh, saremmo nella... nella cacca, ecco, fino al collo.
- Perché? Dov’è il bilancio di quest’anno?
- La prima colonna di fogli partendo da sinistra... ci sono le fatture e un pratico schema di dare avere coi fornitori. E sotto a tutte quelle carte c’è il bilancio dell’anno scorso.
White lasciò sedimentare la voce della più giovane, quindi sospirò e guardò l’alta colonna di fogli.
- Sotto a tutti quei fogli?
- Sì, Presidentessa.
- Perché non siamo passati ancora al digitale?
Whitley avvampò immediatamente. – Ecco... in realtà è il signor Normanson che si occupava della contabilità… io ho continuato ma… mi spiace… Io..
- Ho capito, ho capito. Insomma... – sbuffò White, abbassando i piedi e sfilando rapida il bilancio dalla colonna di carte. Leccò l’indice e sfogliò le pagine che il suo commercialista aveva redatto, addentrandosi sempre con più attenzione nella questione, per diversi minuti, zittendosi quasi totalmente e lasciando Whitley nel panico più che totale. Quella rimase in attesa, si sedette nuovamente al suo tavolino, guardando la sua penna e, dopo, il grande muro di carta che nascondeva parzialmente la Presidentessa, che intanto continuava a sfogliare i documenti.

“Sta vedendo l’attivo di poche migliaia di dollari, e già la sento urlare. Questa donna è un dannatissimo squalo, puoi ammazzarle il cane e non la vedresti battere ciglio, ma rubale un centesimo e ti salta alla giugulare! Cioè! Sono passati quanti?! Sei?! Sette minuti?! Non si muove! Rimane a guardare quei numeri che io a malapena capisco, e si sta facendo un’idea più o meno precisa di quale vetrata sfondare con la mia testa prima di buttarmi giù!”.

- Whitley, per favore. Leva questa montagna di documenti davanti ai miei occhi – esordì, dopo diverso tempo che non parlava.
- S-subito, Presidentessa!
Quella scattò in piedi e lentamente cominciò a spostare sul pavimento tutti fascicoli, fino a quando non fu in grado di vedere di nuovo la superficie di radica di noce della scrivania.
- Bene... – fece White, subito dopo, sospirando e massaggiandosi il collo. Prese una matita dal portapenne e li acconciò, facendo in modo liberare il collo da quel caldo massacrante.
- Vuole che accenda il climatizzatore? – chiese poi Whitley, eseguendo senza neppure ottenere una risposta.
- Mi chiedo per quale motivo non l’avessi già fatto stamattina.
- Scusi.
- Non scusarti per ogni cosa... Allora. Il bilancio dice che non siamo morti, piccola. Dice soltanto che ci stiamo scavando la fossa.
- Siamo in perdita?
- Ma sei matta?! – esclamò l’altra. – Abbiamo venduto vagonate di abiti, l’anno scorso, in sei mesi... La società è solida, ma qui c’è anche la bozza di bilancio di questi sei mesi, e abbiamo praticamente quasi azzerato il vantaggio delle vendite. Abbiamo delle consegne in programma?
Whitley annuì, voltandosi e raccogliendo un piccolo fascicolo di ordini tenuto assieme da una graffetta rossa.
- Sette, per la precisione. Quasi tutti confezionati, ho ordinato le custodie e...
- Non abbiamo custodie in magazzino? – chiese l’altra, aggrottando la fronte. Quella fece spallucce e fece cenno di no, rapprendendo le labbra.
- Beh, no. Ruby aveva autorizzato un grosso ordine prima di sparire, e abbiamo impiegato mesi a smaltirle tutte, e ho pensato che fosse stato meglio ordinare il numero di pezzi esatti, per risparmiare, a discapito di qualche giorno d’attesa in più per il cliente...
- Uhm. Male. Ma non lo sapevi, te la perdono... fece l’altra, guardando il Piaget che aveva al polso. – Sbrighiamoci, dopo devo passare in ufficio. Cioè, dobbiamo, passare in ufficio.
- Cosa?! – esclamò la giovane assistente.
- Dovrai pur darmi una mano, no? C’è un sacco di roba da fare, e tu dovrai vedere per bene cosa succede, altrimenti questo posto cadrà a picco.

“Nessuna pressione, Whitley...”.

- Certo, Presidentessa...
- Ho un piano – sorrise quella, spostandosi sotto al getto diretto del Mitsubishi che soffiava inverno.
- Ah. Ha un piano?
- Sì, Whitley. Immagino Ruby abbia lasciato qui il suo... – disse la donna, voltandosi e cominciando a cercare con lo sguardo a destra e a sinistra, su ogni mobile e scaffale.
- Il suo cosa, scusi?
- Boh? Dove disegnava i modelli?
- Oh, il suo librone rosso! – sorrise quella, quasi correndole contro, sorpassandola e andando dietro la scrivania. Si abbassò sulle ginocchia, davanti alla cassettiera, e sparì oltre la poltroncina, mentre White la sentiva armeggiare.
- È lì?
- Dovrebbe essere qui – rispose quella. – Lo metteva sempre...
E poi si sollevò, qualche secondo dopo, lasciando cadere sulla scrivania il grosso blocco da disegno dello stilista. Aveva la copertina di pelle, rossa e consunta, e parecchi fogli sciolti vi uscivano disordinati, come se fossero stati disegnati su carta di fortuna e inseriti lì, per non essere persi. White si avvicinò a Whitley, che le fece spazio, permettendole di sedersi sulla poltroncina e di piazzarsi davanti ai bozzetti. Carezzò per un attimo la copertina, sentendo come il tempo ne avesse sfilacciato la superficie, regalandogli fascino e personalità. In basso a destra, con scrittura elegante, vi era il nome dello stilista.
- Ruby Normanson... – sussurrò la Presidentessa, toccando con l’indice il nome dell’uomo, prima di aprire il grosso librone e vedere sulla prima pagina una dedica in penna blu, scritta con grafia differente da quella in copertina, più grezza e grossolana.
Ti amo tanto” si leggeva.
- E questa è la povera Sapphire... – disse ancora, più a se stessa che all’altra, che intanto respirava profondamente.
- Credo che sarebbe utile andare direttamente alla fine...
- Sì, credo anche io. Ma nulla ci vieta di dare un’occhiata nella mente di Ruby. Ce lo deve.
E lo fecero, e dopo centinaia di pagine di disegni più o meno accurati, ognuno provvisto di data, le due arrivarono a visionare l’ultima bozza.
- Sei novembre dell’anno scorso – osservò Whitley.
- È il più recente...
- È invernale, però...
- Beh, su questo lascia fare a me.
Whitley la guardò stranita.
- Come si vuole muovere? – domandò, muovendosi e tornando di fronte alla scrivania.
- In un mucchio di modi diversi. La prima cosa da fare sarà chiamare il mio assistente personale, Hugh, e farlo venire qui, per aiutarti con la contabilità e le mille altre piccole cose di cui dovrai occuparti per la consegna di quei sette abiti. Poi chiuderemo la produzione, chiamerò il mio addetto stampa e rilascerò un comunicato a nome di Ruby. Dopodiché procederemo con la nuova collezione...
- Ma manca lo stilista principale, Presidentessa.
- A proposito di questo, corri a preparare le valigie. Domani partiamo.
Whitley spalancò gli occhi.
- E-e dove dovremmo andare?!
Vide White levare la matita dai capelli e rimetterla nel portapenne. Poi sistemò i voluminosi capelli, sciolti sulle spalle, e prese la borsa.
- A Hoenn. A prendere il nuovo stilista. Ti chiamo domani alle sei del mattino. E ora, se puoi scusarmi, devo andare a ricordare a quei quattro stronzi qua fuori che una cosa è rilassarsi e un’altra è prendere per il culo la sottoscritta...
E sparì oltre l’uscio, lasciando la giovane immobile a fissare la parete vuota di fronte a lei.

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Capitolo 4
*** Chapter 4 ***


Against Me

Quando tutto cade.


 
 
Kalos, 19 giugno 20X1


Yvonne era atterrata all’aeroporto di Luminopoli che era quasi l’alba.
Meglio, pensò. Aveva dormito per quasi tutta la tratta, stendendo le gambe e allontanando quell’insensata voglia di bere Champagne. Non che ne fosse un’assidua bevitrice, ma ad averlo davanti per dodici ore le era venuta voglia di un flûte. Aveva quindi deciso di gettare le sue attenzioni sulle tartine al caviale, la sera, mentre al mattino sulla confettura di pesche che la compagnia aerea, nella prima classe, offriva a tutti quelli che avevano la possibilità di permettersela.
Il volo non era gremito di persone, perlopiù uomini d’affari, e qualche vera celebrità seduta a qualche finta celebrità. La differenza, credeva Yvonne, stava nel fatto che le finte celebrità parlassero troppo con tutti. Non che promuovesse quell’atteggiamento rigido e inarrivabile, ma era seduta da dodici ore su di una poltroncina che, seppur comodissima, aveva finito per inglobare lei e il suo bambino, e non aveva voglia di fraternizzare con nessuno che non avesse una soluzione per il dolore alle caviglie che stava patendo. Aveva voglia di uscire a prendere una boccata d’aria, ma quando vedeva l’oceano dal finestrino alla sua sinistra, tornava coi piedi per terra e si ricordava che era una donna adulta, una professionista e soprattutto che vacillava sull’orlo di una crisi depressiva.
Carezzava il ventre rigonfio, sotto il morbido maglioncino di filo intrecciato, nero, e di tanto in tanto sentiva scalciare quella meraviglia che stava incubando. Succedeva quasi sempre qualche ora dopo pranzo, e c’erano volte che premeva così tanto con quelle piccole gambe che s’intravedeva sulla pancia della donna l’orma del suo piedino.
E la cosa, contemporaneamente, la riempiva di tristezza e gioia.
Perché tutto sommato amava l’idea di trasportare una vita, quella vita, ovunque andasse, e donargli la sua forza, e nutrirla, e proteggerla. Ma, profeticamente, sapeva che non appena avesse stretto quel miracolo tra le braccia sarebbe stata male.
Male, male, male, male.
Perché quel miracolo avrebbe avuto solo una madre, e nessun padre accanto.
Aveva intravisto la terraferma qualche minuto dopo essersi svegliata, che il sole era ancora immerso per metà nell’Atlantico, e si chiedeva come fare per trovare quel singolo uomo che pareva non esistere più, che aveva fatto in modo di sparire e di non comparire più davanti a nessuno. Ruby Normanson non era più un uomo, era un ricordo, un’idea, un cellulare che squillava a vuoto.
Il padre di quel bambino.
O bambina.
Rapidamente scese, e non dovette neppure attendere molto al nastro, per recuperare il bagaglio. Qualcuno aveva scattato qualche fotografia di nascosto, dato che ormai era la protagonista su tutte le riviste scandalistiche, da quando il suo pancione entrava nei locali prima di lei.
Aveva rapidamente lasciato scattare qualche selfie a un paio di ragazze, che si erano avvicinate un po’ troppo a lei, e che si erano allontanate urlando merci, merci, merci, felici ed esaltate per aver ottenuto una foto con la top model del momento. Salì immediatamente sul taxi, quando pensò che avrebbe potuto approfittare di quella fama, per avvicinarsi a qualcuno di più famoso, di più influente. Magari cantare, recitare, vivere una vita fatta di salotti tv e ritocchini di bellezza, ma non era quello che voleva.
Yvonne chiedeva alla vita soltanto una cosa, da ormai diversi mesi, e quella pareva essersi voltata dall’altra parte, bambina capricciosa, con le dita a chiudersi le orecchie, per non sentirla.
Le fece un po’ strano che i taxi lì non fossero gialli, come le Yellow Cab di cui abusava dove viveva, ma aveva così tanta fretta di allontanarsi da Luminopoli che non ci diede troppo peso. Quindi sbatté la porta e si ritrovò a pensare a tutte le volte che aveva camminato su quelle strade col sorriso sulle labbra, e lo stupore di vedere cose che nel piccolo buco di mondo dov’era nata non esistevano.
Come i marciapiedi più lunghi di sei metri, o la segnaletica stradale. Borgo Bozzetto non era altro che un agglomerato di case ordinatamente sistemata in una griglia di fiori e prati, attorno ai boschi e alle montagne, tagliata in due da un decumano in asfalto steso da poco, con le persone che vi vivevano che rasentavano la perfezione della bontà umana. E a Yvonne la cosa dava un po’ fastidio, perché anche lì, poggiata con la fronte sul finestrino, mentre si dirigevano verso la stazione ferroviaria, non riusciva a credere all’esistenza di quegli esseri mitologici, con gli artigli ritratti e il sorriso sempreverde sul volto, ricchi di buoni propositi, di buone azioni, di buone parole nei confronti di chiunque. Non riusciva a credere alla sempiterna bontà di quella gente, sempre felice, sempre contenta, sempre lì, a salutare a ogni incrocio, a raccogliere margherite e primule e rose e a offrirle ai passanti e a piangere solo quando i loro figli abbandonavano casa per un lavoro più gratificante nelle città più grandi che c’erano a nord. Il taxi voltò a destra, mentre immaginava il signor Molière, il suo vicino di casa quando viveva con sua madre, che urlava a sua moglie e imprecava con tutto il fiato che aveva in corpo perché l’aveva trovata a letto col fruttivendolo.
La cosa chiaramente non era mai successa, guai anche solo a pensarlo, sarebbe stato uno scandalo. Il sindaco di Borgo Bozzetto sarebbe venuto coi corpi speciali per arrestare la signora Molière e il fruttivendolo, e poi addio alle mele appena colte e alle marmellate, il figlio dell’uomo che le vendeva faceva il ragioniere da sette anni proprio lì a Luminopoli, e non si sarebbe mai sognato di abbandonare il ritmo frenetico della città e i suoi soldi per andare a vendere meravigliosi pomodori e teste d’aglio grandi quanto un pugno.
Lì tutto era bello. Lì tutto era perfetto. Lì niente era fuori posto.
- Tenga il resto... – fece, quando pagò il tassista, e trascinò il trolley nella stazione, dai grossi mosaici di marmo nei pavimenti. Quello su cui si poggiava era la rosa dei venti, e il suo sguardo si fermò sulla scritta MISTRAL, impreziosita da caratteri in ottone incastonati nella pietra nera. Non ci pensò più di tanto e avanzò, tirando la borsa e sentendo l’ennesimo calcio del bambino, che probabilmente, con tutto quello sballottamento, doveva essersi svegliato.
Alzò per un momento i grossi occhiali da sole, più utili a nascondere le occhiaie, figlie della mancanza di sonno, che a proteggere quei pozzi profondi come il mare a largo, e del colore della tempesta. Si guardò attorno, cercava una biglietteria elettronica, ma aveva appurato che la fila per ogni macchinetta superava il minuto d’attesa, e lei era incinta, e le dava fastidio che la facessero passare davanti a causa dello stato interessante. Si avvicinò quindi allo sportello numero tre, mettendosi alle spalle di un uomo attempato, dalle basette canute e folte e dai lunghi peli che uscivano dal naso, grosso e storto. Riabbassò gli occhiali, mise una mano sulla pancia e sospirò, sperando che tutto quello stare in piedi per due avrebbe portato quanto meno a un posto in paradiso con vista panoramica; la schiena doleva, i piedi facevano compagnia e non sapeva se quella che provava in quel momento fosse fame o nausea.
Voleva stendersi e ridare forza al suo corpo, che la traversata dell’Atlantico pareva averla fatta a nuoto, e non seduta su comode poltroncine ergonomiche. Quando fu il suo turno si ritrovò davanti una giovane donna, dai lunghi capelli biondi e gli occhi grandi, di un meraviglioso color nocciola imbastardito da venature smeraldine. Il naso era arcuato ma non lungo, e sulla sua metà una manciata di lentiggini lo sporcavano. Sorrideva gioviale, nella sua divisa blu e bianca.
- Buongiorno, come posso aiutarla?
- Uno per Borgo Bozzetto... – rispose Yvonne, asettica al massimo, mentre vedeva l’altra inarcare le sopracciglia e spalancare la bocca.
- Oddio! Yvonne Gabena! Sei proprio tu! – ribatté di contro quella, che l’aveva riconosciuta in seconda battuta. Il suo viso si addolcì immediatamente, vedendo il grosso pancione premere contro il bordo del banco.
- … Già...
- Sapevo che ti avrei vista, prima o poi! Non molte celebrità fanno la fila per i biglietti, ma oh! Questo dev’essere proprio il mio giorno fortunato, vero?!
- Buon per te... Uno per Borgo Bozzetto...
- Sì, va bene... Non potresti farmi un autografo, mentre la macchina stampa il biglietto? – chiese quella, con la voce che scappava dalle sue grosse labbra e s’infrangeva sul vetro che le divideva.
Lasciò passare un foglio di carta e una penna, e la vide sospirare stanca.
- Certo… – rispose ancora la modella, guardando il nome scritto sulla targhetta dorata sul petto di quella. - Isabelle, uh? - domandò, guardandola annuire e guardarsi il cartellino.
- Sì.
La gente cominciò a lamentarsi, alle loro spalle, mentre l’ennesimo flash le abbagliò lo sguardo e si conficcò nella parte posteriore degli occhi stanchi, come schegge di vetro, sottili e acuminate.

A Isabelle, sperando che non mi faccia perdere il treno
Yvonne


Lasciò passare il foglietto e la penna sotto al vetro e sospirò nuovamente.
- Quant’è?
- Oh, cielo! Grazie mille! Quanto sono felice!
- Sì, va bene...
- Ecco i biglietti... – fece, dopo aver trovato traccia del suo contegno intimata dall’impazienza della fila, che s’ingrandiva secondo dopo secondo. – Sono ventidue.
- Sì. Tieni...
Yvonne lasciò scivolare due banconote da venti, prese il resto e lo gettò in borsa a casaccio, poi si voltò stanca e sconsolata. Si avvicinò rapida alle banchine, vedendo sul biglietto che il treno che l’avrebbe portata a casa la stava aspettando al binario ventotto, non proprio tra i primi, e nello stato interessante, coi piedi che parevano sul punto di non entrare più in nessun paio di scarpe in suo possesso e i conseguenti problemi posturali le parve quasi un miraggio vedere quella vecchia locomotiva del periodo prebellico, prima di prendere posto accanto all’ennesimo finestrino di quella giornata. Qualcun altro l’aveva riconosciuta ma lei non aveva più intenzione di firmare autografi né di fare foto con nessuno, era stremata e aveva deciso che avesse fame.
- Fanculo alla nausea…
Aprì la borsa, tirò fuori un sandwich al tacchino e lo divorò, poi sorso d’acqua e giù il calmante che il medico le aveva consigliato.

- Non farà male al bambino. È del tutto naturale e servirà a stabilizzare il tuo umore e ad aiutarti col sonno. Non sei pazza.
- Tsk… Non ci scommetta.

Ripensò a quando le aveva prese la prima volta, a come si sentiva intontita quando cominciavano a fare effetto e a quanto semplice fosse diventato addormentarsi. Stremata, portò entrambe le mani sulla pancia e cominciò a pensare a quando avrebbe incontrato sua madre, dopo tutti quegli anni passati lontana da casa. Certo, lei avrebbe chiesto del padre del bambino, e lì sarebbero cominciati i problemi. Le avrebbe mentito, forse, oppure le avrebbe detto la verità e si sarebbe sorbita una montagna di rimproveri, che avrebbero soltanto sottolineato il vaffanculo che aveva scritto in fronte, alimentando la voglia più sfrenata di aggrapparsi al primo aereo in volo e tornare a casa, l’altra casa, quella dove il vicino ti guardava male e a chiedere l’ora a qualcuno passavi per un rapinatore.
Le stazioni s’avvicendavano, e i nomi sui cartelli di ogni fermata erano ingialliti dal tempo, ma portavano a galla ricordi e dosi esagerate di malinconia non prescritta. Ripensò a quando quel viaggio in treno lo aveva fatto al contrario, mano nella mano con Shana, mentre sognavano il mondo delle luci puntate addosso e dei grandi nomi, delle riviste patinate e degli agenti sgomitanti.
Solo lei avrebbe avuto il coraggio di prendere quell’aereo, e di rovinarsi la vita con le cattive conoscenze, gli aghi in vena, la cocaina. Solo lei avrebbe preso al volo l’occasione per riprendere le redini di quel sogno, innamorarsi, rovinare tutto e tornare a casa camminando per due.
Erano stati anni impegnativi, quelli, febbricitanti e isterici.
Sospirò, poggiò le mani sulla pancia, delicata, e guardò il ragazzo seduto alla sua destra, nell’altra fila di sediolini. Ascoltava qualcosa di lento e cadenzato dalle cuffie bianche senza filo, appese alle orecchie piene di piercing. Aveva grossi stivaloni neri che premevano contro lo schienale che aveva davanti, vuoto, mentre su quello di fronte a Yvonne c’era una donna dal viso stanco, che nascondeva lo sguardo dietro l’hijab azzurro, probabilmente andava da qualche parte a sud di Kalos, forse per lavoro, forse tornava a casa dalla sua famiglia, poco le importava della sua storia.
Sbuffò composta, rimanendo seduta educatamente, nonostante desiderasse levare scarpe e reggiseno, nonostante volesse un letto comodo su cui abbandonarsi, un cuscino dietro la schiena e uno dietro la testa. Era stanca.
E affamata. Aveva uno snack in borsa, una barretta ai cereali, il piccolo lo avrebbe apprezzato. La prese, la scartò, la mangiò, poi pensò nuovamente a sua madre, che non sentiva dagli auguri di compleanno, il 2 febbraio, quando White aveva deciso di portarla a cena fuori assieme a Black, ed era già così incinta da non poter più bere. Mangiò però un’ottima fetta di torta, fece anche il bis. Sua madre la chiamò poco prima che White strisciasse la Centurion per pagare, e ancora lì, mesi dopo, seduta su quel treno, non riuscì a dimenticare quella conversazione.

- Bonjour; salut. Voeux.
- Oh… mamma, grazie per gli auguri…
- Parle français, je comprends mieux.
- Oui, désolé. merci pour les bons voeux.
- Oui ... quand allais-tu me dire que tu es enceinte?! Vous êtes dans tous les journaux!”.
- Oh… cazzo…
- Je sais ce que ça veut dire “cazzo”, Yvonne. Ne pensiez-vous pas que je devais savoir une telle chose?!
- Sì, hai ragione, hai ragione, è stato un periodo veramente complicato, con la gravidanza e tutto il resto…
- Merci pour la réponse en français.
- Excuse moi…
- Tu t'excuses toujours. Vous devez arrêter de vous mettre en position de le faire.
- D'accord, maman, je suis avec des amis et ce n'est pas le moment de discuter, bonsoir.

Avere a che fare con quella donna non era semplice: aveva un carattere difficile e schivo, e la sua prima impressione rimaneva immutabile nel tempo. Inoltre era una maniaca del controllo, lo era sempre stata, e la poca propensione di Yvonne nello starla a sentire aveva di fatto incrinato i rapporti, nonostante il sangue che scorreva nelle loro vene fosse lo stesso.
Nonostante fossero madre e figlia.
Fosse stato per Grace, Yvonne non avrebbe mai lasciato Borgo Bozzetto per andare oltreoceano, e sarebbe diventata una pilota di Formula 1 come lei. La cosa avrebbe esaltato chiunque. Fin da piccola era stata allenata a non avere paura della velocità; Grace sarebbe stata la donna più fiera del mondo e lei, enfant prodige delle gare in auto, sarebbe stata la seconda generazione di una famiglia di vincitrici sulle quattro ruote.
Ma la cosa non andò come la pilota sperava.
Erano diverse. Ripensava a sua madre e la vedeva con la tuta, il casco e l’auto da corsa, e quando provava a mettersi nei suoi panni il suo primo istinto la spingeva a levarseli, a piegarli ordinatamente e a riporli sulla mensola più in alto dell’armadio.
Il treno rallentò, il ragazzo si alzò, sbadigliò e scese alla stazione di Novartopoli. Mano a mano che si avvicinava a casa sua, gli alti palazzi facevano spazio alla natura e l’aria diventava sempre più pulita. Stanca, poi, chiuse gli occhi per un attimo, prima che un annuncio venisse urlato dagli interfoni.
“LE TRAIN POUR BOURG CROQUIS EST ARRIVÉ AU TERMINUS.
LES VOYAGEURS SONT PRIÉS D’ATTENDRE LE TRAIN PAR LA LIGNE JAUNE ET DE LAISSER LES PASSAGERS DESCENDRE. MERCI.”


Aprì gli occhi, vide la donna che aveva di fronte già in piedi, accanto alla porta, quindi rapida la emulò e afferrò la maniglia del suo trolley, trascinandolo oltre le porte a soffietto del vagone, aiutata proprio da quella con l’hijab, che le sorrise e le disse di non preoccuparsi quando la ringraziò.
- Se non ci si aiuta tra di noi…
- Sì, ha ragione. Buona giornata.
- A te...
E prese a camminare. E una volta scesa a Borgo Bozzetto tutto sembrò immediatamente più candido, senza quella patina di fumo che era abituata ad avere costantemente davanti al volto. Anche la sua situazione, improvvisamente, divenne più tollerabile. Uscì dalla stazione, con gli occhi della gente puntati addosso perché tutti, tutti quanti, ricordavano il suo volto e sapevano chi fosse diventata, e calpestava quei ciottoli che le facevano traballare la valigia, ricordando con malinconia quando sugli stessi ci giocava, assieme ai suoi amici, rincorrendo i treni in partenza. Trovato era il più veloce, arrivava per primo e la staccava di poco, e qualche passo indietro c’erano Shana e infine Tierno, il più lento del gruppo. Xavier restava a guardarli da lontano, parlava poco spesso con loro, e quando usciva dal suo guscio stava prettamente con Yvonne, prima che lei avesse deciso di partire e andare via.
Era un tipo strano, Xavier, e lo aveva appurato nei tre anni in cui i due furono fidanzati. La cosa sembrava seria, poi di punto in bianco si presentò davanti casa sua col volto un po’ più basso del solito e gli occhi bassi, dicendole che le voleva bene ma che non riusciva più a vivere in quel modo così intenso la loro relazione, e non per problemi che aveva causato lei, dato che lui era sempre stato un po’ più triste del normale, per via della sua infanzia.
Storia dura, forse incomprensibile ai più, in cui una madre muore e un padre decide di alzare un muro col mondo, figlio compreso, e di buttare la testa nel lavoro, dimenticando di riprenderla e avvicinarla al cuore del piccolo, per sentirne in battiti.
Strani meccanismi di difesa, pensava Yvonne, mentre usciva dal cortile della stazione. Il sole le baciò il viso. La creatura scalciò, lei sobbalzò poi salì sul marciapiede e vide il vecchio signor Guillaume, ancor più vecchio di quando lo aveva lasciato, che stringeva una vecchia scopa di saggina e spazzava davanti alla sua farmacia. Sua moglie Amelie, anziana come lui, innaffiava le lavande che teneva nelle fioriere davanti alla vetrina e quando Yvonne passò loro accanto entrambi alzarono lo sguardo. Poi, dopo un secondo di perplessità speso nel chiedersi per quale motivo una donna così bella stesse camminando per le loro strade, ricordarono la luce che aveva negli occhi.
- Sei la figlia di Grace? – domandò la signora.
- Yvonne! – ribatté suo marito, con lo sguardo ceruleo forse un po’ più spento, rispetto a quando era partita. – Mi ricordo di te! Sei andata lontano, eh?
La donna si limitò ad annuire, sorridendo e alzando gli occhiali sulla testa, per guardarlo meglio: tante rughe si erano accumulate sul suo volto ossuto, ma i baffi, molto folti, erano rimasti quelli di un tempo.
- Ti ho vista sul giornale – disse invece sua moglie, con i capelli di quella strana tonalità di bordeaux, freschi di permanente. – Fai l’indossatrice?
- No, sono una modella. C’è una leggera differenza e… ma lasci stare.
Quella annuì, spostando poi il viso sul ventre rigonfio, quindi osservò la valigia.
- Che pancione… Il papà dov’è?
Yvonne sentì rumori di vetri infranti nella sua testa, mentre diventava impellente la necessità di stendersi.
- Lavora. Ci raggiungerà appena possibile. Ora, se permettete, scusatemi: queste scarpe mi stanno uccidendo – concluse. Si allontanò rapida, fissando la grande cassetta della posta rossa alla sua sinistra, che guardava l’altra parte della strada, dove c’era l’accogliente Petite Patisserie di Isidore Gadot, il ragazzo che aveva frequentato tutte le scuole con lei. Lo ricordava quando, prima di mettere la testa a posto, aveva imbrattato il muro della chiesetta che c’era poco prima di casa sua con delle bombolette di vernice nera. Ora serviva i croissant migliori di tutto il paese.
Ricordò quella volta quando, sulle panchine del parchetto accanto al bosco, Isidore andò a infastidire Xavier, che leggeva tranquillo il suo fumetto di Spiderman; gli tirò delle pietre sulle scarpe e poi prese a colpirlo col Super Tele giallo, fino a quando Xavier decise di alzarsi in piedi.

- Vuoi smetterla di rompere i coglioni?
- Oh, il muto allora parla… Credevo che saresti corso da mammina…

Yvonne non ricordava cosa stesse facendo in quel momento, sapeva soltanto che qualunque cosa fosse stata smise di farla e corse in loro direzione, tirando un forte schiaffo a Isidore, che si voltò furibondo e umiliato, perché colpito da una ragazza a cui erano appena spuntate le tette. Si permise solo di sollevare il braccio, prima che Xavier lo spintonasse e cominciasse a prenderlo a pugni.
Più per quello che voleva fare a Yvonne che per quello che aveva detto di sua madre.
Classico di Xavier; quelle cose gli scivolavano addosso.
Si chiese come stesse, cosa stesse facendo in quel periodo, come se la passasse. E anche gli altri, Tierno e Trovato, e ovviamente Shana, la sua migliore amica di un tempo.
La pensò, l’ultima volta che l’aveva sentita Yvonne non era ancora apparsa su Vogue; non era successo molto tempo dopo aver cominciato a lavorare come modella e fu soltanto uno scambio di messaggi. Poi Yvonne aveva perso qualche telefonata, aveva perso il cellulare e infine aveva perso Ruby, prima di perdere definitivamente ogni ponte con la vecchia vita. Avrebbe dovuto recuperare i contatti, ma era gente alla mano e avrebbe ricevuto comprensione, ne era sicura.
Arrivò finalmente nella piazza, con la sua grande fontana di marmo bianco, a raffigurare una suonatrice d’arpa dallo sguardo angelicato. Tutt’intorno vi erano le panchine e le fioriere, sempre piene di viole e rose e lavande e lillà. L’attraversò rapida, sentì qualcuno parlare, la riconobbero, qualcun altro scattò anche qualche fotografia ma lei non se ne curò e proseguì, e rapidamente entrò nel suo quartiere, con la linea di case sulla destra e il bosco verde sulla sinistra. Non appena calpestò quell’asfalto, così ruvido e consumato, un senso di malinconia la travolse.
Sospirò, era sicura di aver avuto una perdita di colostro. Avrebbe lo stesso dovuto cambiarsi, lavarsi, mettere qualcosa di pulito addosso, mangiare con voracità e stendersi.
E poi avrebbe litigato con sua madre, per uno dei mille motivi che quella avrebbe trovato.
Intanto però rimaneva col collo fisso a guardare quelle villette a schiera, tutte attaccate l’una all’altra, un unico tetto a spiovente dalle tegole rosse di terracotta, un unico muro di cinta esterno, grigio, di pietre e mattoni vecchi quanto il tempo, interrotto ogni dieci metri da cancelletti di ferro battuto. Il primo, quello del Signor Dubois, era nero, alto, un po’ arrugginito verso l’alto, dove tre spuntoni partivano e cercavano di toccare quel cielo limpido.
Ricordava Alphonse Dubois, Yvonne, perché era rimasto sostanzialmente il suo desiderio erotico per anni. Non lo aveva mai ammesso a nessuno, ma quel professore, che tutte le mattine condivideva con lei il treno per Novartopoli, accendeva in lei la fiamma della passione. Era un bell’uomo, lo ricordava, dai capelli castani, sempre ben pettinati, e gli occhi verdi nascosti dietro un elegante paio di Quay dalla montatura in alluminio. Era alto, snello, ogni mattina lei si svegliava e lui rientrava in casa dopo la sua sessione di jogging.
Ma era piccola, lui non la vedeva nemmeno. Si chiedeva se si fosse mai accorto di lei, sulle riviste o in tv. Si chiedeva se poi si fosse ricordato di lei.
Sospirò, andò oltre, casa di sua madre era la seconda. Le siepi, alte e rigogliose, superavano il profilo della cinta muraria e finivano per piegarsi al di fuori della proprietà. Il cancelletto era stato ricoperto interamente da edera verde e vivida, pianta a cui sua madre teneva moltissimo.
Sì, perché se nulla era cambiato in quegli anni, sua madre voleva che il suo giardino fosse un ambiente perfetto per il suo rilassamento. Ormai aveva superato la cinquantina da un paio di paia d’anni, aveva perso in parte la grinta che la spingeva a premere l’acceleratore della sua macchina da corsa anche quando non avrebbe dovuto, vedendo la ruota posteriore sollevarsi sulla chicane e sorpassare chi aveva davanti, che aveva commesso l’errore di non stringere troppo e proteggere l’interno della curva.
Grace era una donna straordinaria, incredibilmente difficile. Si chiedeva spesso, Yvonne, perché sua madre non avesse mai voluto un uomo accanto a lei, ma col tempo aveva capito che la risposta era che lei non voleva dipendere da nessuno, né voleva mettersi in casa qualcuno che avrebbe potuto farla deragliare dalla sua disciplina malata e dalle sue urla scapestrate quando qualcosa non le piaceva. Non avrebbe mai potuto condividere le idee di qualcun altro senza morire con la collera che le prendeva piede in corpo. Ricordava la lite che le due avevano avuto anni prima, quando lei aveva deciso di prendere treni e aerei per andare via.

- Non ho capito, Yvonne.
- Tra una settimana.
- Una settimana?
- Sì. Tra una settimana. Parto.
- Ah, bene. E non credevi che dovessi essere informata di questa cosa?
- Ti sto informando adesso, mamma...
- Una settimana prima? Tu hai deciso di cambiare totalmente la tua vita, di partire a miliardi di chilometri da me e me lo dici una settimana prima?
- Sapevo che avresti reagito così...
- E come cazzo avrei dovuto reagire?!
- Non avrei dovuto dirti nulla, Shana aveva ragione...
- Ovviamente! Chi altro poteva stare dietro queste stronzate se non quella Shana, la vagabonda! Sempre per strada! Se sua madre ha deciso di vedere sua figlia morta non è un problema mio ma io non ti permetterò di buttare via tutti i piani che abbiamo fatto per te!
- Io non ho fatto nessun piano! TU hai fatto i piani per noi e io non sono neppure stata interpellata!
- Questo perché è evidente che prendi decisioni di merda! Dove hai la testa?! Se non pensassi io al tuo futuro probabilmente finiresti per farti ammazzare da qualche tossico, nel retro di un palco di un concerto di musica punk!
- Oh, fanculo, mamma!
- Yvonne Gabena! Come ti permetti di parlarmi in questo modo?!

Poi aveva deciso di andare in camera sua, chiudere le valigie e andare via. Era rimasta da Shana fino alla partenza del treno per Luminopoli, poi sua madre l’aveva contattata e l’aveva pregata di tornare a casa, facendo finta che nulla di tutto quello che era successo fosse accaduto, ma Yvonne aveva risposto con un secco no. L’ultima volta che aveva visto sua madre, prima di un episodico viaggio da parte di quella l’anno precedente per le vacanze estive, fu alla stazione dei treni, con Grace visibilmente scossa che cercava con lo sguardo il volto di sua figlia oltre i vetri dei finestrini.
E in quel momento, nel presente, Yvonne stringeva la maniglia del cancelletto che da piccola le aveva spaccato la testa, quattro punti di sutura e tutti a casa, e guardava oltre l’edera, cercando di capire se quello fosse il momento giusto per fare il passo successivo, e provare a dare una nonna alla creatura che trascinava assieme a quel trolley.
Sospirò, abbassò la maniglia, il cancelletto cigolò sinistro e tutta la sua infanzia gli si avviluppò con forza addosso. Abbassò lo sguardo, il vialetto di ciottoli era rimasto esattamente lo stesso, come anche la posizione delle due fioriere accanto alla porta d’ingresso. Attraversò quella strada lunga e stretta che tagliava il prato verde in due lentamente, vedendo se stessa mille e mille volte che la percorreva da bambina e poi da ragazza, con Xavier accanto, con gli amici che l’aspettavano fuori, col pallone, le figurine, le trottole, le canzoni, la bellezza dell’infanzia chiusa in uno zainetto con succo di frutta e pane fresco con confettura di fragole fresche. E quando il sole si abbassava, colorando di rosa, arancione e viola il cielo sulle teste degli alberi che c’erano tutt’intorno, la voce di sua madre la richiamava all’ovile, e lei salutava e tornava, e la trovava seduta sul gradino che in quel momento Yvonne stava calpestando, col viso stanco e preoccupato.
Batté le palpebre, davanti alla porta blindata che aveva davanti, chiusa, sigillata dall’interno, dove tutto le diceva che non si era comportata bene con sua madre, che aveva sbagliato ogni mossa con lei, dal momento in cui aveva deciso di diventare donna e indipendente.
Alzò la mano, l’appoggiò al pulsante del campanello e indugiò un secondo di troppo prima di premerlo, ma non ce ne fu il bisogno, perché la porta si spalancò subito dopo. E Grace la guardò, immobile, con lo sguardo inizialmente confuso, poi sorpreso, poi sconvolto, poi leggermente commosso. Il suo viso però era incrinato dalla rabbia e dall’orgoglio.
La donna era la versione di Yvonne coi capelli castani, imbastarditi da qualche filo d’argento, acconciati in un carré molto più pratico, ventiquattro anni più grande e col seno più pesante. Ed era leggermente più bassa. Per il resto, le due erano totalmente identiche, con gli occhi azzurri che si tuffavano nel grigio, le labbra carnose, il naso dritto e l’ovale perfettamente simmetrico, su un fisico snello e longilineo. Il volto di Grace era segnato da rughe appena abbozzate sotto agli occhi e sulla fronte ma, nonostante quello, le due sarebbero potute essere confuse tranquillamente per sorelle.
- Mamma… - sospirò Yvonne, senza riuscire a trattenere le lacrime, che caddero silenziose su entrambe le guance. E a sentire quella parola, Grace non riuscì più a mantenere eretto quel muro che aveva posto inizialmente, sorridendo bonariamente e chiudendo gli occhi. Prese il manico del trolley dalle mani e lo tirò dentro, prima di avvicinarsi all’altra e stringerla delicatamente, facendo attenzione a non comprimerle la pancia.
- Amore… Stai per esplodere…
Yvonne rise felice, continuando a piangere, emozionata e compiaciuta da quella reazione che onestamente non si aspettava, e affondò il viso nel collo della donna, venendo sopraffatta da quel profumo che ammetteva esserle mancato fin troppo, durante quegli anni. Fu un attimo, si rivide sull’aereo che la strappò a Kalos, impaurita per dodici ore, temendo che quell’affare cadesse in mezzo all’oceano, e poi anche dopo quando aveva deciso di spendere i suoi pochi risparmi per affittare una stanza nella comune dove conobbe la persona peggiore della sua vita. Aveva bucato le vene, aveva raggiunto l’anoressia, aveva sentito bruciare gli occhi per il fumo che aveva davanti, e il lavoro per la dose, poi il cartello sul ring, poi l’aiuto inaspettato, poi la fama, il successo, l’amore.
La delusione.
E sua madre era sempre stata lì, ad aprirsi una ferita con un coltello incandescente per la paura e la disperazione che provava. E in quel momento, in quel preciso istante, lei era tornata per due alla base, a riprendere un po’ di quello che aveva perso per strada, a caricare un po' le batterie, a pulire i polmoni.
A parlare la sua lingua.
- Come stai, mamma?
Grace l’allontanò giusto per un secondo, per guardare il suo volto, e poi vide il sorriso esplodere sul suo viso.
- Io sto bene. Ora meglio. E tu?
- Io sono incinta – rise ancora quella, mentre le lacrime continuavano a scendere copiose. – E mi fanno male i piedi…
- Entra dentro, vieni a riposare…
E quando lo fece fu come non essere mai andata via. L’ingresso era rimasto praticamente lo stesso, col divano di pelle bianca a pochi metri dalla porta, la poltrona alla sua sinistra e la grande televisione davanti alla scalinata che portava alle stanze. Oltre, prima dell’arco in pietra viva che dava alla cucina, c’era un caminetto di mattoni rossi. Ricordava che da piccola amava tornare a casa da scuola e rimanere ipnotizzata dal fuoco, seduta sulla poltrona a fissare la danza sinuosa delle fiamme, prima che sua madre mettesse in tavola pane caldo e qualcosa di buono.
- Che aspetti? Siediti – riprese Grace, voltandosi e andando in cucina. – Oppure vai direttamente a riposarti, ora salgo su e ti do delle lenzuola fresche, ti rifaccio il letto e poi esco, vado a comprare il pesce per la bouillabaisse, che non è propriamente un piatto estivo ma so che ti piace tanto. A te serve qualcosa? – domandò poi, con la voce che attraversava le pareti ricoperte dagli stessi parati beige che un mattino d’autunno, quando aveva quattro anni, aveva deciso d’imbrattare col rossetto. Lei sorrise, ripensandoci, e ricordò la strigliata che aveva dovuto subirsi subito dopo.
- No – rispose poi, col sorriso sul volto. – No, va benissimo così. E non è necessario che tu esca, ti aiuterò a cucinare qualsiasi cosa tu abbia in dispensa, più tardi…
Si sentì il rumore delle ante che sbattevano, subito dopo quello del ghiaccio che batteva sul vetro e, pochi secondi dopo, Grace riapparve, con un grosso bicchiere d’acqua fredda.
- Nossignore! Mia figlia torna dopo un sacco di tempo a casa, con creatura al seguito… Come minimo le farò passare qualche sfizio! Non bere velocemente e non perdiamo altro tempo.
Yvonne afferrò il bicchiere e bevve piccoli sorsi, che si fecero strada nel corpo bollente, prima di seguire con lo sguardo sua madre, già al secondo gradino con la valigia tra le mani, che faceva non poca fatica a salire al piano superiore. Salì facendo attenzione, guardando le sei foto incorniciate e perfettamente dritte sul muro accanto a lei, quello che manteneva il corrimano di ferro battuto, che probabilmente era stato riverniciato da poco, per via di quella patina lisciastra che quando era andata via non ricordava. Raggiunse il primo piano, il corridoio le si mostrò gioviale, con tutta la luce che la grossa finestra del balconcino riusciva a buttare dentro, generosa. Guardò a destra, la stanza di sua madre era rimasta pressoché uguale, mentre a sinistra c’era il bagno, il cui ingresso era chiuso, e subito oltre il piccolo ripostiglio, celato anch’esso da una porta di legno di mogano, scura e solida, che quando sbatteva spinta dal vento pareva riuscisse a smontare da sola i cardini su cui poggiava e a rovesciarsi nella camera che aveva di fronte, ovvero la sua.
Rapida, Grace aveva già steso il coprimaterasso e stava rimboccando le lenzuola di cotone bianco.
- Stai ferma – le ordinò, piegata e di spalle. Yvonne guardò la sua valigia, già aperta sulla scrivania, anch’essa in legno, come d’altronde il grosso armadio sulla parete accanto, sulle cui porte erano stati montati tre alti specchi; completavano il colpo d'occhio le tre mensole che mantenevano fotografie e libri e i telai delle due finestre che stavano ai lati del letto, una a destra e una a sinistra.
- Metto le federe – disse la stessa Yvonne, scalzando le Skechers e poggiando i piedi stanchi e gonfi sul fresco delle mattonelle candide. Mise poi il bicchiere d’acqua sul piccolo comodino destro.
- Sono sulla testiera del letto – ribatté Grace, girando dall’altra parte e continuando a infilare i lembi del lenzuolo sotto al materasso. Vide Yvonne muoversi pesante verso i cuscini, sbatterli e poi poggiarli uno alla volta sul grosso pancione, per aiutarsi nel tentativo d’infilare la fodera a quel guanciale che ancora profumava di lei.
Un po’ come tutta quella camera. Era bello e rassicurante.
Quando ebbe finito, Grace aiutò la donna a svestirsi, le diede dei vestiti puliti e fece in modo che li indossasse subito, prima di abbandonarsi sullo stesso materasso su cui aveva riposato e dov'era diventata così bella.
- A che ora ti devo svegliare? – domandò quella, grattandosi il mento.
- Beh, ho bisogno di riposare, mamma. Sarebbe un problema se mi svegliassi per… diciamo, mezzogiorno?
- Va bene. Io finisco di fare alcune cose in casa e poi esco. Ho il cellulare sempre con me e qualsiasi cosa succeda puoi chiamarmi. Allerterò anche la zia Marie, di fronte, nel caso urla più che puoi e…
- Mamma. Voglio solo riposare.
- Hai bisogno di qualcosa? Lo dico per quando sarò in paese.
- Riposare. Chiudere gli occhi e dormire, bestiolina permettendo.
Grace poi annuì, sorridendo. Si avvicinò a lei e le baciò la fronte, poi chiuse le napoletane e le avvicinò il bicchiere d’acqua.
- Bevi un altro po’…
Yvonne ruotò gli occhi, stremata, l’accontentò e si lasciò cadere pesante sul materasso. La testa affondò tra i due guanciali profumati di pulito e, quando la porta della camera si chiuse, il buio che la rassicurava cominciò a cullarla, rapendola poco a poco, fino a quando le mani strette nei pugni persero forza e rimasero poggiate sulle lenzuola candide.

E sognò.
Sognò di passeggiare tra prati in fiori e lunghi fili d’erba profumata, pettinata a destra dal vento di ponente. Lo stesso spingeva nuvole morbide nel cielo del tramonto. Ma la luce era tanta, lei stava bene, e sentiva l’abito bianco che indossava svolazzare alle sue spalle. Aveva legato i capelli e aveva deciso, a piedi nudi, di virare a destra, nel prato, raggiungendo una piccola altura, sulla quale vi era costruito un piccolo pozzo in mattoni rossi. Una tovaglia a quadroni bianchi e blu era stata stesa per terra accanto a una cesta da cui spuntava una baguette fumante, e albicocche e pesche.
- Mamma! – l’aveva chiamata qualcuno, con una voce piccola e delicata. Yvonne si era voltata e aveva visto un bambino di poco più di tre anni, piccolo, dai capelli biondi e lunghi fin sulle spalle, raccolti in lunghi boccoli ricci, mossi dal vento. Lei sorrideva, felice, avvicinandosi a lui e inginocchiandosi nell’erba, per poi stringerlo tra le braccia.
Profumava di buono.
- Mamma! Sei arrivata!
Lei aveva risposto di sì, gli aveva baciato la fronte e si era specchiata nei suoi occhi, rossi come due rubini, incastonati nel volto diafano.
- Papà! – aveva urlato ancora, mentre il vento tiepido ancora baciava la loro pelle. – Papà! È tornata mamma!
Il piccolo si era poi voltato, divincolandosi dalla stretta e correndo in direzione di un uomo, alto, magro e con la camicia bianca aperta fino al quarto bottone. Sorrideva, ed era bellissimo.
Si era avvicinato a lei, aveva messo tra i suoi capelli una gerbera appena raccolta e le aveva sorriso di nuovo. Era più alto di lei di qualche centimetro.
E aveva dato il colore del fuoco agli occhi di quel bambino, e sulla fronte una vecchia cicatrice deturpava la pelle diafana. Proprio come Ruby.
Lei gli aveva sorriso, cingendogli il collo con entrambe le braccia, quindi si era alzata sulle punte e lo aveva baciato, proprio mentre il sole dava l’ultimo saluto a quel giorno meraviglioso.
*

- Yvonne...
- Mhm...
- Yvonne... Sveglia, Yvonne.
*

La modella sentì una mano calda accarezzarle il volto, prima che le palpebre si schiudessero leggermente, a mostrare quelle iridi grigie e preziose come perle.
- Yvonne.
Grace era seduta accanto a lei, affondava le mani nelle lenzuola sgualcite e pareva non riuscire a smettere di sorridere: avere sua figlia di nuovo a casa le pareva uno scenario così remoto da renderle impossibile abituarsi alla vista di quella versione della sua bambina, diventata prima una donna meravigliosa, poi a sua volta una madre.
- Mamma... che succede?
- Mi avevi detto di svegliarti a ora di pranzo, ed è ora di pranzo.
Yvonne sbadigliò profondamente, stringendo gli occhi e i pugni e allungando le braccia in alto, stiracchiando ogni suo muscolo.
- Ho fame... Andiamo a cucinare...
- La zuppa è già pronta, tesoro. Devi solamente scendere giù. Ah, ti ho comprato delle scarpe di un numero più grande. Dovrebbero essere più comode...
Yvonne sorrise, annuendo, e poi sua madre le porse un paio di ciabatte morbide, in gomma.
- Stai esagerando – fece, prendendole e lasciandole cadere per terra. Si fece aiutare a mettersi seduta, le calzò e si mise in piedi.
- Non dirmi che non sei abituata ad avere l’attenzione di tutti addosso, figlia mia…
- Non è questo… - fece, muovendo qualche passo stentato, con le mani puntellate dietro la schiena, dolorante. – Devo fare pipì…
Grace ridacchiò e annuì.
- Ce la fai a scendere da sola?
- Sono arrivata qui dall’altra parte del mondo, mamma… - rispose, uscendo dalla stanza. – Sarò capace di scendere dodici gradini, tranquilla…
- Certo – annuì ancora, sistemando coperte e cuscini e scendendo al piano inferiore, puntando gli occhi oltre la finestra del salone, che dava al giardino, e oltre ancora, sulla strada, dove chiunque passasse gettava l’occhio all’interno, per cercare di vedere la famosa piccola Yvonne, diventata una grande superstar. Si fermò al centro del tappeto blu, quello morbido che adorava calpestare a piedi scalzi, e portò le mani ai fianchi.
Doveva mentalizzare quel concetto, farlo suo e smettere di trattare quella donna come la ragazzina che era stata, piena di sogni inespressi, esperienze nella lista delle cose da fare e rifiuto costante verso ciò che le diceva. Yvonne era cresciuta, si era tracciata una strada del tutto differente dalla sua, perpendicolare solo in certi punti, come un sasso lanciato sulla superficie del lago che incontrava l’acqua solo quando vi rimbalzava, ma che avanzava all’infinito, e Grace era il lago e, anche se non l’avrebbe mai ammesso a se stessa, non era riuscita a lasciarla andare.
E averla lì era magico, come una macchina del tempo che la riportava venticinque anni indietro.
La tavola era apparecchiata e le mille domande che erano nate nella sua testa forse avrebbero trovato finalmente risposta. Quando sentì la più giovane avvicinarsi alla cucina prese il grosso mestolo di rame e mise sulla tovaglia il pentolone con la bouillabaisse, tolse il coperchio e tutta la cucina fu investita da caldo vapore e profumo di verdure e pesce fresco.
Yvonne entrò e si sedette, contenta.
- Che odore meraviglioso…
- Sentirai che sapore...
Servì le ciotole e si sedette, l’altra fece lo stesso e, felice, affondò il cucchiaio nel brodetto, avvicinandolo poi alla bocca e gustandolo in maniera quasi plateale, chiudendo gli occhi e accompagnando il tutto con un verso.br /> - È deliziosa, mamma…
- Vero? Gli scampi erano vivi, stamattina, quando Romain me li ha venduti. Si muovevano ancora…
- Ugh… che schifo… - ribatté l’altra.
- Beh, ti tocca fare poco la schizzinosa, dato che tra poco diventerai madre. A proposito… quando diventerò nonna?
Yvonne, annuì, spostò il ciuffo dal volto e mise un altro cucchiaio di zuppa in bocca. Alzò la mano, aspettando di gustare il boccone e buttarlo giù. Poi rispose.
- Da un momento all’altro. Siamo proprio agli sgoccioli. Volevo che mio figlio nascesse dove sono nata io…
Grace annuì, come se avesse sentito la cosa più ovvia del mondo.
- Austropoli è una grande città, è normale che qui le cose siano più semplici. E poi?
- E poi, quando sarò pronta a ripartire prenderò un aereo e torneremo lì. Magari potresti seguirci, almeno per i primi tempi… Ho comunque il lavoro, tra i set e le sfilate, e non sarebbe un problema trovare una bambinaia o qualcos’altro, per quei momenti specifici in cui non ci sarei, ma, ecco, se penso a una madre penso a te, non alla madre di qualcun altro…
- Non ti permetterò di mettere il mio nipotino tra le mani di una sconosciuta, tesoro – ribatté tranquilla l’altra, mangiando un pezzo di pesce San Pietro e abbassando il capo, spostando col cucchiaio uno scampo, che avrebbe mangiato per ultimo. – In ogni caso preferirei che per i primi tempi il bambino stesse qui.
- Mamma… non cominciamo.
Grace alzò le mani al cielo.
- Sì, hai ragione, è tuo figlio, dopotutto. Maschietto? – chiese poi.
Yvonne fece spallucce.
- Non lo so. Non l’ho voluto sapere.
- E come faremo a organizzare la cameretta?
L’altra ridacchiò. – Basterà evitare rosa e azzurro, tra i colori da scegliere per tutine e simili. Abbiamo ancora parecchio tempo per capire se porterà assorbenti o sospensori…
- Oh. Va bene, tesoro. Del resto è tuo figlio. O figlia. Dimmi cosa posso fare.
- Ospitami per un po’, fino a quando non partorirò questo vitello. Ovviamente contribuirò con le spese e tutto il resto, e già nel pomeriggio vorrei andare a Luminopoli per fare scorta di pannolini, salviettine e altra roba.
- Ho ancora il tuo fasciatoio, in cantina. E la culla. E il port enfant.
- E il carrozzino? E tutto il resto?
Grace alzò gli occhi al cielo, sorridendo silenziosa.
- Cosa? – domandò l’altra.
- Nulla. Stanno cominciando le tue ansie da mamma. Non finiranno più.
- Oh, ti sbagli. Sono cominciate nove mesi fa ma… - bevve poi un bicchiere d’acqua e continuò. – Ma mi sono resa conto che fosse sempre con me solo dopo il primo calcetto.
A Grace invece l’acqua non bastava, e riempì un calice di vino rosso, guardando male sua figlia. – Tu no. Sai quante volte avrai esagerato…
- Neppure una, cara mamma! – esclamò. – Ti sembrerà strano, ma sono diventata una persona responsabile…
- Oh, spero che sia così – ridacchiò l’altra.
- Ci puoi giurare! Ho fatto i miei errori, ma ho anche saputo raccogliere le mie opportunità.
Grace rimase ferma a fissarla.
- Hai ragione. Mi chiedo però dove sia l’uomo che ti ha lasciato venire fin qui da sola senza neppure portarti la valigia.
E fu lì che il cuore di Yvonne saltò un battito. Abbassò la testa, guardando il cibo e sentendo improvvisamente lo stomaco chiudersi.
- Beh. Questa situazione è un po’ problematica, a dire il vero…
- Tsk. Lo sapevo – ribatté Grace, facendo prolungatamente cenno di no con la testa e bevendo ancora. – Lo sapevo. Sei rimasta il solito casino.
E forse saranno stati gli ormoni impazziti, come anche il ricordo dei vecchi asti dissotterrati dopo anni di torpore, ma Yvonne decise di non lasciar passare inosservata quella frase.
- No, mamma. Sono meglio. Mio figlio nascerà sano e forte e sarò una madre giusta.
Grace inclinò leggermente la testa, poggiando delicatamente il cucchiaio sul fazzoletto di cotone bianco.
- Cosa stai cercando di dire? Io sono stata una madre fin troppo giusta, per i miei gusti. Mia madre, invece, non mi avrebbe mai permesso di prendermi tutte le libertà che ti sei presa tu, nella vita.
- Sì, ma è la mia vita! All’inizio ero convinta d’inseguire un sogno, quando sono andata via, ma ora non so se in realtà io sia semplicemente scappata di casa! – urlò Yvonne, spostando lo sguardo, turbata. - Non dovrei stare così… Del resto anche tu mi hai cresciuta senza un uomo accanto.
Grace era rimasta immobile, con le braccia lunghe sul tavolo, alla destra e alla sinistra della ciotola di zuppa di pesce fumante.
- Proprio perché sei cresciuta senza un padre dovresti sapere bene cosa significhi l’assenza di una figura paterna, Yvonne.
La voce della donna sbatté con forza contro sua figlia, che strinse gli occhi e l’allontanò, per scacciarla via. Spostò gli occhi per un attimo verso destra, cercando di allontanare le lacrime e fissando le tendine beige della piccola finestre dietro ai fornelli di ghisa, sporchi per via del pranzo appena preparato. Grace la guardava immobile, ricevendo di contro un’ondata incandescente, carica del carattere polemico dell’altra.
- Secondo te non vorrei che mio figlio crescesse con suo padre?
Una lacrima tagliò di netto la guancia paonazza della donna, fermandosi sul lembo del labbro superiore. Il suo sguardo vagava confuso, evitava d’incontrare quello della più grande, che la fissava col volto contrito.
- Non lo so. – aveva risposto. – Io non so più niente di te. Immagina che colpo averti vista su Vogue e Cosmopolitan, dopo che non avevo più tue notizie da anni.
- Certo che voglio che mio figlio cresca con suo padre! – urlò rabbiosa, sbattendo entrambi i pugni sul tavolo. – Ma che razza di dubbi ti vengono! Io amo quell’uomo!
- E quell’uomo non ti ama? – domandò calma Grace, rimanendo sempre composta. Forse era quella posatezza a far imbestialire la figlia.
- Non lo so! Non ne ho idea! Non lo vedo da quando mi ha messo questo bambino in corpo!
- Cioè... – ridacchiò sua madre, alzandosi. – Tu mi stai dicendo che sei innamorata di un uomo che non ti vede neppure? Che non vuole prendersi la responsabilità di ciò che ha fatto?
- No! Non è così! Siamo stati assieme ed era tutto perfetto! E non sa che aspetto suo figlio!
- E cosa cazzo aspetti, a dirglielo?
- È sparito! È sparito nel nulla, non riesco più a rintracciarlo da nessuna parte! Non risponde al telefono, non è dai suoi genitori, non è tornato con la sua ex! Ha lasciato il lavoro! Come cazzo dovrei fare?! Potrebbe tranquillamente essere morto, per quel che so!
Ci fu poi un secondo di silenzio, in cui le lacrime d’Yvonne continuavano a scendere copiose, a deturpare quel volto perfetto, senza però scalfire la corazza di sua madre, con quello sguardo accusatorio che non aveva mai cessato di farla sentire sbagliata.
- Io non so che dirti, guarda. No, davvero, Yvonne. Sei... inqualificabile! – aveva esclamato Grace, col sorriso esterrefatto di chi non sapeva più cosa dire. – Io sono... sconvolta, dal modo in cui vivi certe cose!
- Come usciresti da questa merda, eh?! Dimmelo, ti prego! Illuminami, come hai sempre fatto! Dimmelo! E non dimenticarti di metterti quella maschera da saccente sul volto! Altrimenti non riuscirai a farmi sentire più sbagliata di quello che sono!
- Yvonne! Dannazione, ma cosa dovrei dirti?! Brava! Ti sei fatta mettere incinta da uno sconosciuto e ora sei tornata a casa perché sei rimasta da sola?! Come dovrei reagire?!
E poi esplose, era troppo.
- Vaffanculo! A me serviva una guida! Non un fottuto sergente! I tuoi giudizi pieni di veleno te li puoi tenere per te! Perché diamine non riesci mai a dire la cosa giusta per farmi stare un po’ meglio?! Avevo solo bisogno della tua comprensione!
Si alzò, a fatica, e lasciò la cucina. Grace la vide salire al piano superiore e poi scendere di nuovo, qualche minuto dopo, con dei vestiti differenti e le stesse scarpe strette di quando era arrivata. Poi sbatté la porta, lasciandola lì, stanca, con la cucina da fare e una zuppa di pesce fin troppo calda per quel giugno.

Yvonne piangeva ancora, mentre per le strade di Borgo Bozzetto le persone rientravano in casa, pronte a pranzare. Il sole batteva, meno rovente di quello che pensava, mentre il suo viso cercava di ricomporre i pezzi di quel mosaico per tornare l’opera d’arte che era.
Uscì dal quartiere residenziale, con la fame sparita e la paura che questo avrebbe potuto portare problemi al bambino. Forse avrebbe dovuto voltarsi indietro e rientrare in casa ma non era pronta a subire di nuovo sua madre e quei rimproveri.
Non era più una ragazzina.
Aveva commesso un errore ma non era più una ragazzina.
Aveva amato quell’uomo fino a raggiungere la follia, aveva accolto il seme del loro amore ed era diventato un bambino, ma questo solo dopo aver preso delle pessime decisioni. Non era più una ragazzina, e comprendere di essere l’unica ad essersene accorta la faceva soffrire.
Era come urlare a squarciagola e non riuscire a emettere suono. La sfiancava la difficoltà di far capire qualcosa che era davanti ai suoi occhi tutti i giorni, una cosa così ovvia da non possedere definizione.
E mano a mano che camminava, che calpestava sampietrini e asfalto, ripensava alle parole che avrebbe dovuto dire a sua madre, alle risposte più che brillanti che avrebbero potuto spiazzarla.

“Io sono adulta, ora.”
“Io sono una donna.”
“Io sono cresciuta, nonostante la solitudine e le difficoltà.”
“Io ho creato quello che sono ora.”
“Io ti usata come rampa di lancio, ma se ora sono qui non è per litigare con te o per sentirmi rinfacciare gli errori che ho fatto quando tu non eri con me. Gli errori li commettiamo tutti.”


Era sua madre, e nonostante quella ruggine di superficie sapeva che il suo amore per lei era solido come il ferro di cui era rivestito il suo spirito. Perché lo sapeva che quella donna, oltre a manifestare preoccupazione e tutto il resto del ventaglio di emozioni che una donna si trascinava appresso quando diventava una madre, non aveva alcun torto.
Yvonne si era resa conto per l’ennesima volta di aver fatto degli errori.
E quella reazione, forse smodata, nei confronti della madre che amava alla follia, non era altro che un modo per non ricordare a se stessa che lei non era la sola vittima delle sue pessime scelte.
Il volto di Ruby pareva essere indossato da tutti i passanti di Borgo Bozzetto, che attraversavano con calma le vie del paesino, e che la fissavano maleducatamente, perché l’avevano riconosciuta.
E poi sì fermò quando qualcuno le mise una mano sulla spalla.
Spalancò gli occhi, non voleva che qualcuno la vedesse col volto pieno di lacrime, in quel modo, ma quando si sentì chiamare da quella persona, quando riconobbe quella voce, non poté far altro che irrigidire ogni muscolo del corpo. Il cuore prese a battere, si voltò e vide il sorriso bonario di Xavier cominciare ad accendere un fuoco per riscaldare il gelo che si era fatto strada dentro di lei.
- Yvonne...
Sorrise, lei, quasi come se non fosse mai stata lontana da lì, con le lacrime che non accennavano a fermarsi, e quella che era una disperazione sostenuta divenne vero e proprio pianto di liberazione.
- Xav! – esclamò, affondando il volto nel collo dell’uomo e avvinghiandosi a lui.

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Capitolo 5
*** Chapter 5 ***


Against Me

Quando tutto cade.





 
 
 
Kalos, Borgo Bozzetto, 19 giugno 20X1


Xavier rimase immobile, con le pesanti buste di plastica nelle mani. Contenevano carne, pesche e un paio di baguette. Sentiva il grosso pancione della donna premergli contro l’addome, e le sue braccia cingergli il collo, con delicato vigore. Il suo respiro era caldo, le sue lacrime pure.
- Yvonne… - aveva detto poi, aggrottando le sopracciglia sottili, cercando di spostare il volto invano, bloccato dalla testa di quella, premuta con forza nell’incavo del suo collo.
- Xav… Xavier!
- Attenta alla pancia… - aveva risposto subito l’altro.
- Sono felice di vederti!
- S-sì, okay, Yvy… ma… diamine, almeno mettiamoci all’ombra.
Quella si staccò e sorrise.
- Scusa… sono stanca e mi fanno male i piedi.
Il suo sorriso esplose nuovamente, le lacrime le rigavano il viso e un soffio di vento spostò la chioma dorata indietro, a mostrare all’altro quanto il suo sguardo fosse cambiata.
- Tranquilla. Sediamoci. – sorrise quello, gentile, passando entrambe le buste sulla mano destra e usando quella libera per aiutare la donna. Trovarono una panchina all’ombra poco lontano da una fontanella d’acqua fresca, che sgorgava dritta dalla vicina sorgente. Xavier riempì una bottiglina vuota e la diede alla ragazza, che bevve e sospirò.
- Com’è fresca… - sorrise ancora.
- Non c’è acqua fresca, lì?
- Sì. Ma questa è meglio.
La porse al ragazzo, quello le fece cenno di tenerla e sorrise dolcemente, come da ragazzino, sedendosi accanto a lei e inclinando leggermente la testa. Yvonne lo guardava, in lacrime ma con il sorriso.
- Sei rimasto totalmente identico.
Ed era vero, anche se il suo viso non era più lo stesso che soffriva dei primi pruriti di barba ma anzi, era più ruvido, segnato dal tempo. Gli occhi sottili, sempre un po’ socchiusi e di quel colore grigio che si tuffava nel blu erano quelli di sempre, ed erano coperti dai soliti ciuffi maleducati, corvini, lunghi, ma meravigliosi.
Ricordò immediatamente ogni bacio che i due si erano scambiati.
- E tu sei… beh… - sorrise quello, bonariamente.
- Incinta? – chiese l’altra, ridendo.
- Non avrei potuto essere più preciso, Yvonne. Ma perché stai piangendo?
L’altra poggiò la schiena sulle doghe di legno di quella panchina attorniata da grosse fioriere, piene di papaveri e lavande. Sospirò, rilasciò un po’ di quell’ansia che stentava ad abbandonare il suo corpo.
- È una storia così lunga che se te la raccontassi probabilmente domattina non avremmo ancora finito. Poi, mia madre…
- Oh, dai, non parliamo di Grace – ridacchiò lui, piegandosi in avanti e puntellando i gomiti sulle ginocchia. Lasciò passare il volto tra le mani, lisciando i capelli e tirandoli indietro, come faceva sempre da ragazzino. - Si parlava sempre di lei, quando ti vedevo triste.
- Ha un carattere odioso…
- Difficile. Diciamo che il suo è un carattere difficile...
- Non mi vede da due secoli e la prima cosa che pensa di farmi è una morale.
- Invece di cucinarti la bouillabaisse? – chiese, aggrottando la fronte.
Yvonne appuntì il muso e guardò altrove.
- L’ha fatta…
- Perché ti ama – annuì Xavier. – Ma non andate d’accordo, e questo lo sapevo già da diverso tempo… E com’era?
- Cosa? – chiese poi l’altra, scuotendo via la distrazione e posando gli occhi su di lui e sulla sua camicia azzurra, aderente. Ripensò a quando quelle braccia erano molto più esili, ed erano attaccate a un corpo sottile, molto differente da quello tonico che aveva in quel momento.
- La bouillabaisse.
- Cosa, la bouillabaisse.
- Era buona, la bouillabaisse?
Batté le palpebre, Yvonne. Si stava distraendo.
- Sì... quell’unica cucchiaiata che sono riuscita a mandare giù era buona. Ma mia madre è una stronza.
Xavier sorrise, calmo e posato, poi inclinò ancora il capo, come aveva sempre fatto.
- Ti sei calmata? Vuoi ancora un po’ d’acqua?
- No, ho… questa… - ribatté, confusa, alzando la bottiglina che ormai era interamente ricoperta di condensa. – Vivi ancora qui?
- Sì. Non sono mai andato via da questi posti. Ma… beh, visto che ancora devi mangiare, perché non vieni a pranzo da noi?
- Noi?
- Sì – sorrise l’altro, stringendo lo sguardo e annuendo gioviale. Gli occhi della donna si spostarono rapidi sull’anulare dell’uomo, cinto da una sobria fede nuziale.
- Beh… non vorrei disturbare… - disse l’altra, abbassando lo sguardo.
- Macché disturbare. Shana sarà felicissima di vederti. Lascia solo che l’avverta.
Gli occhi di Yvonne si spalancarono.
- Shana?
Hoenn, Percorso 105, 19 Giugno 20X1


Le nuvole pesanti erano rimaste sul piccolo molo poco oltre Petalipoli, lasciando al mare aperto il cielo limpido, il sole d’un’estate che si preannunciava bollente e la brezza leggera. Il piccolo Tranmere, così si chiamava il traghetto, tagliava placido le acque profonde dell’oceano, lasciandosi alle spalle la costa e raggiungendo lento e inesorabile l’isola di Bluruvia.
Sarebbe durata un paio d’ore, la traversata, così Petra s’era organizzata nel migliore dei modi, indossando un paio d’occhiali da sole molto grossi, e un cappellone a tesa larga color crema, abbinata a un prendisole sobrio. Leggeva L’amore ai tempi del colera, seduta educatamente su di una delle panche sul ponte di prua, mentre i gabbiani le volavano accanto con sempre meno frequenza, mano a mano che all’orizzonte, il cielo e il mare diventavano un tutt’uno.
Sapphire, invece, aveva allungato le gambe sulla panchina di fronte. Indossava dei pantaloncini bianchi, che avrebbero finito sicuramente per sporcarsi di polvere e fuliggine, che scappava scura dal grosso fumaiolo bianco, quattro metri o poco più sulle loro teste. Aveva levato quasi subito la canottiera, rimanendo soltanto con la parte di sopra del bikini color blu marino, che tanto spiccava sulla sua pelle perlacea.
- Il vento è fresco… - aveva detto, con gli occhi chiusi e le braccia larghe. Petra la guardò per un secondo, annunedo senza che l’altra potesse vederla. Fissò la sua figura, chiudendo lentamente il libro e lasciando l’indice tra pagina quarantadue e quarantatré.
- Sì. Mettiti composta. Ci guardano tutti.
Sapphire aprì gli occhi, abbassò i piedi dai sedili della panca che aveva di fronte e rimase a volto basso. Petra annuì, sorridendo soddisfatta, poi ritornò a pagina quarantadue e sentì l’altra sospirare.
- Qui ci siamo solo io e te. E una coppia di vecchi con la cataratta.
- Potrebbero guarire da un momento all’altro, tesoro. Piuttosto smettila di sospirare così tanto, stiamo andando in vacanza, non in guerra. Dovresti esserne felice.
Sapphire annuì lentamente, perdendo lo sguardo oltre le balaustre. Pensò che Petra avesse ragione, tuttavia sentiva quella cosa come una forzatura. Guardò di nuovo quegli anziani, lui indossava grossi occhialoni dalle doppie lenti, manteneva un cruciverba con la mano destra e una Bic con la sinistra, senza tappo, mentre sua moglie si sporgeva un po’ troppo verso di lui, perché non vedeva, e faceva caldo, e lui lei diceva di stare un po’ più lontana perché stava cominciando a sudare. Di contro, l’altra lo rimproverava di tenersi il cruciverba tutto dalla sua parte.
L’uomo consegnò penna e cruciverba e sbuffò.
Qualcuno doveva cedere, pensò. Poi il volto di Ruby apparve rapido davanti a sé, come un flash, e fu costretta quasi subito a distogliere lo sguardo. Si chiese perché non fosse a casa sua, a crogiolarsi nella vergogna e nell’autocommiserazione, ma nella domanda riuscì a trovare la risposta.
Lei doveva migliorare.
Lei doveva riuscire a mettersi tutto alle spalle.
Sbuffò nuovamente, e Petra prese ad annuire.
- Va bene, va bene, ho capito. Non posso lasciarti in silenzio.
Chiuse il libro, lo sistemò ordinatamente nella grossa borsa bianca e accavallò la gamba destra, unendo le mani sulle gambe.
- Mi spiace, ma non riesco a godermela come fai tu. – ribatté seria Sapphire, distogliendo ancora lo sguardo e piegando il collo indietro. Lo sentì scricchiolare, aveva bisogno di un massaggio.
- Lo so, lo so. – annuì ancora la maestra. – Io e te stiamo vivendo due fasi differenti. E in più non sono depressa.
L’altra si voltò in sua direzione.
- Sono depressa?
- Facevo per dire. Lavoro alle elementari, non in reparto psichiatrico, non lo so.
- Oh. Okay.
Abbassò ancora il volto, Sapphire. Sapeva che tutto non andasse per il verso giusto, ma si era sempre vista come una donna forte e indipendente, con un lavoro che amava, la battuta pronta e il sorriso sempre vivo sul suo viso. Come aveva finito per deprimersi.
- Facevo per dire… - ripeté Petra, poggiandole una mano sulla spalla. Poi la ritrasse e tirò fuori dalla borsa un flaconcino di crema solare. – Sei bollente. – aggiunse, tirandola in avanti e cominciando a spalmargliela sulla pelle. – Poi sei bianchissima. Ricordavo fossi più abbronzata.
- Credo sia il mio primo sole, questo. Generalmente ad aprile sono già nei boschi e sui campi.
- Uhm. Interessante. – ripeté quella, passando le mani tra le sue scapole, facendo attenzione a non sporcarle il filo del reggiseno. – Che stai studiando in questo periodo?
- Da aprile a fine giugno sono nella zona a nord di Solarosa. Quello è il periodo della fioritura, quando i coleotteri hanno più cibo.
- Diventeranno bozzoli, giusto?
- Sì. – rispose. - A fine giugno i bozzoli si schiuderanno, le larve diventeranno crisalidi e si sposteranno più a ovest, e io con loro. Studierò le loro fasi d’accoppiamento e, successivamente la loro morte. Quindi quali saranno le loro abitudini alimentari, prede, predatori, nidificazione… cose così.
Petra annuiva, impressionata. – Ecco perché da ragazzina salivi sempre sugli alberi.
- Ci salgo ancora. Mi guadagno da vivere, salendo sugli alberi.
L’altra ridacchiò.
- Pensa un po’, io ho una classe di quindici ragazzini e tu sali sugli alberi.
- Quando hanno distribuito i mestieri cosa facevi? Stavi leggendo Il Signore Degli Anelli?
Petra rise ancora, voltandola e passando a cospargerle le braccia di crema.
- Non è proprio il mio genere, Sapph…
- Questo perché non capisci niente, di letteratura.
Si guardarono, la maestra aveva il volto serio, mentre l’altra sorrideva divertita. La prima prese il flaconcino di crema e rilasciò uno spruzzo proprio sui seni della donna.
- Lì fai tu.
Sapphire ridacchiò ancora.
- Il vecchio con la cataratta sarebbe colpito da infarto qui, in mezzo al mare, altrimenti.
- Non vorrei mai – rise gentile l’altra, prendendo una salviettina dalla borsa e pulendosi le mani. – Rudi non vorrebbe stare con un assassina.
- Già… - ribatteva Sapphire, tornata seria, mentre si spalmava la crema. Petra le offrì un fazzoletto, lei lo accettò e si pulì le mani. – Dai molto peso, alla cosa…
- Sì. Lui mi piace molto.
Si alzò, Sapphire, camminando lentamente sulle doghe di legno consunto di quel ponte, gettò i rifiuti e si risedette.
- Non mi sembra per niente il tuo tipo, sai?
Petra si voltò e la guardò.
- E quale sarebbe, il mio tipo?
- Mah, non lo so. Una persona meno… palestrata? Più…
- Più cosa, scusa?
- Ma non lo so… forbita? Rudi è un bravissimo ragazzo, fisico assurdo e tutto il resto, ma tu vieni da un altro pianeta. Secondo me dovresti cercare qualcuno che…

Che le assomigli di più? Davvero?
Tu e Ruby non eravate proprio due gocce d’acqua…

- Qualcuno che?
- Nulla. Se ti fa stare bene allora dovresti provarci.
Petra aggrottò la fronte e levò gli occhiali.
- Tutto bene?
Sapphire sorrise. – Sì.
- Non stai per buttarti dai parapetti, vero?
- No, sto bene! – esclamò l’altra. – Userò questa vacanza per rilassarmi e svagare la testa.
L’altra annuì.
- Ecco. Bravissima.
- Bravissima, sì…
Kalos, Borgo Bozzetto


- E così sei diventata una top model? – sorrideva Xavier, con la sua solita flemma. – Pare incredibile che tu sia qui a parlarmi, sai?
Avevano preso la strada che portava alla stazione, camminando sul marciapiede destro, mentre i negozianti chiudevano per la pausa pranzo. Il caldo era forte e a Yvonne serviva bere e, fortunatamente, a ogni settanta metri era stata installata una fontana da cui sgorgava acqua freschissima.
Lei lo guardava sorridere ai passanti e agli anziani, salutarli con un cenno del capo mentre qualcuno, che probabilmente lo conosceva, li guardava con una smorfia strana sul volto.
Ma lui non era cambiato: a Xavier, degli altri, non era mai interessato nulla. Lo guardava, e s’era resa conto che quel ragazzino debole e fragile, col volto triste, era diventato un uomo dall’espressione serena.
Chiuse leggermente gli occhi, lei.
- Mi spiace essermi persa il resto della tua vita, Xav. Io ti ho voluto bene, tantissimo. E non mi sono proprio fatta sentire, sono stata una stronza… mi spiace.
- Ma figurati. Avrai avuto molto da fare, con le sfilate e il resto. E la dieta. A te piaceva mangiare… - sorrise ancora, stringendo gli occhi. – Come hai fatto a non ingrassare. Almeno fino ad ora…
Le carezzò la pancia, quella rabbrividì, poi annuì.
- La verità è che sono stata soltanto molto fortunata. Ho fatto una scelta ignobile, ad andare via…
- Come se poi questo posto non fosse adatto per il lavoro che fai…
- Il lavoro che faccio adesso non è ciò per cui sono partita. Tutto… - disse poi, distogliendo lo sguardo. – Beh, tutto era differente. Ma ciò che conta è come è finita, no? E tu, invece? Hai davvero aspettato che me ne andassi via, per metterti con la mia migliore amica?! – esclamò, suscitando nell’altro la risata. Prese poi un mazzo di chiavi e tirando delicatamente per il braccio l’altra voltò l’angolo. Un grosso cancello nero, di ferro battuto e dall’apice composto da una strana composizione, si parò loro davanti.
- Non ho aspettato che andassi via. È successo tutto pochi anni fa. Lei è sempre rimasta qui e io invece ho trovato lavoro come programmatore, su a Luminopoli.
- Quindi hai lasciato Borgo Bozzetto. Non me lo sarei mai aspettato.
Infilò le chiavi nella serratura, Xavier, proprio mentre un aereo passava sulle loro teste. Il cancello si aprì, lui entrò e la lasciò passare.
- Sì, è stato tutto molto affrettato, in realtà. È stato Trovato a consigliarmi quel posto.
- Infatti non ricordavo che fossi bravo coi computer.
- Oh, non lo ero. Ma lo sai, imparo in fretta.
- E tutte le mattine vai a Luminopoli?
Lui annuì, chiudendo il cancello, che rispose con un debole cigolio.
- Devo mettere un po’ d’olio nei cardini. Comunque sì. La stazione è qui vicino e il lavoro non è pesante. A parte le ore di sonno che perdo, per il resto va benone…
Entrò, la fece passare, chiuse il cancelletto e la guardò camminare per qualche metro lungo il viale asfaltato, che lei non ricordava, prima di fermarsi accanto a una fioriera che conteneva lavande e aspettarlo.
- Non so la casa… - ridacchiò.
- Sì, arrivo. Come ti senti?
- Sto bene, sto bene! Sto solo camminando…
Xavier sorrise dolcemente, annuendo. – Sei molto incinta, Yvy… per questo, lo dico. Ma… - e poi sorrise di nuovo. – Che cosa strana, vederti incinta. E pensare che avresti dovuto essere mia moglie, secondo l’opinione di tutti, qui…
Yvonne annuì.
- Mi lasciasti come una cretina… - rispose, portando i capelli dietro alla nuca e legandoli in una coda alta.
- Non sapevo quello che volevo. Sai che intendo…
- No, in realtà non so proprio niente.
Xavier si fermò, poi si voltò. La fissò, con gli occhi seri e profondi, sospirando.
- Non sapevo più se mi piacevano le donne.
Quella spalancò lo sguardo, schiudendo anche le labbra. Sorrise di riflesso, senza accorgersene.
- Cosa?!
L’altro ridacchiò, poi si voltò, tornando a farle strada.
- Sì. – fece, annuendo. – In quel momento della mia vita non sapevo se… - poi alzò il volto al cielo. – Non so come spiegarmi... – sorrise.
Yvonne era rimasta immobile, sorridente ma leggermente inorridita da quelle parole. Ripensò a se stessa appena ventenne, che cercava di capire per quale assurdo motivo il ragazzo che amava da tanti anni e che conosceva da tutta la vita l’avesse abbandonata, e poi fece un rapido ritorno alla realtà.
- Ti ho fatto davvero dubitare della tua sessualità? – chiese, aggrottando le sopracciglia.
Xavier rise.
Ma forte.
- E smettila! – urlò l’altra, avvicinandosi a lui e spintonandolo.
- Ma sei impazzita?! – ribatté quello, facendo qualche passo indietro e sospirando. – Come puoi pensare che una ragazza bella come te possa far dubitare un uomo su una cosa del genere? No…
Gli occhi del ragazzo si chiusero delicati, le lunghe ciglia si strinsero tra di loro e si separarono.
- No. – continuò. – Era una cosa che pensavo già da tempo. Con te sono stato molto bene…
- Non hai idea di quanto sia difficile per una donna convivere con una verità del genere.
- Posso immaginarlo.
- E perché stai ridendo, allora?
- Pensare che abbia lasciato una top model per mettermi con Tierno è esilarante, Yvy.
La voce rimbalzò sul viso della bella, che sbatté le palpebre esterrefatta e fece cenno di no con la testa.
- Mi dovrete raccontare un po’ di cose, tu e Shana…
Lui era silenzioso, si limitò ad annuire, quindi tornò a camminare. Il vialetto era lungo, una bicicletta era appesa a un grosso gancio poco prima di un portoncino, sulla destra, dalle vetrate opache. Inserì rapido la chiave nella toppa e dopo lo scatto della serratura fece strada a Yvonne. Quella entrò nell’androne di quella che sembrava essere una villa bifamiliare, molto fresco, dai gradini di marmo e le ringhiere in ferro.
- Vuoi una mano?
- No. Ce la faccio, grazie.
Sospirò, Yvonne, si fece forza sulle gambe e si ritrovò davanti al portone. Xavier suonò al campanello, strinse le buste della spesa e abbassò lo sguardo.
Entrambi sentirono i passi di Shana provenire dall’interno, e quando aprì indossava già un sorriso dolce e sorpreso.
- Ma ciao. – disse, inclinando dolcemente la testa. I capelli, legati in una coda di cavallo che avrebbe dovuto allietarla un po’ dal calore di quel giorno, le ballarono accanto alla spalla in basso. Strinse gli occhi verdi, che tanto risaltavano sulla pelle olivastra del volto. – Cielo... – riprese, inarcando le sopracciglia. – Stai esplodendo.
- Già... – sorrise l’altra. Accanto a Xavier, sua moglie si avvicinò e strinse delicatamente l’amica di vecchia data, baciandole la guancia e carezzandole il grosso pancione.
- Dannazione! – esclamò energica. Si voltò poi verso Xavier, raggiante, e spalancò gli occhi. – Ma l’hai vista?! Yvonne è dannatamente incinta!
- Certo, che l’ho vista, amore. Entriamo, facciamole vedere casa.
- Ma ovvio! – esclamò la padrona di casa, facendo entrare Xavier e anticipando l’ospite, chiudendole la porta alle spalle. – Mettiti comoda, levati le scarpe, se vuoi ti posso dare un paio delle mie pantofole. – aveva fatto quella, energica, sorpassandola e immettendosi nel lungo corridoio che aveva davanti. Due porte a sinistra, tre porte a destra, una di fronte, che lei aprì per raccogliere dal pavimento polveroso un paio di pantofole blu. Lei stessa le guardò, sorrise e annuì, per poi tornare indietro da lei.
- Sono di Xavier. Anche coi piedi gonfi dovrebbero entrarti.
- Grazie... – sospirò lei, scalzando le sneakers e poggiando le piante incandescenti sulle mattonelle.
- Di niente! – esclamò ancora quella, entrando in cucina, proprio alla destra di Yvonne. Quella si affacciò, vedendo l’uomo riporre la spesa e piegare la busta. Era in piedi, davanti al tavolo, tra due sedie di legno, pesanti già allo sguardo, mentre diceva qualcosa a sua moglie riguardo la necessità effettiva di acquistare una nuova padella antiaderente. E lei rimase in silenzio, con le pantofole dell’uomo ai piedi, pensando che anche le persone del suo passato si fossero fatte strada attraverso i labirinti di quella vita, mentre parlavano di vita quotidiana e si guardavano dolcemente, con quella flemma che soltanto chi viveva un matrimonio riusciva ad avere negli occhi.
E lei invece cercava ancora di capire i perché della sua esistenza, che le erano rovinati addosso, lasciandola sola e gravida.
Si chiedeva cosa diamine ci facesse lì.
Xavier si voltò e la guardò, che aveva la notte negli occhi. Le si avvicinò, poi le sussurrò all’orecchio.
- Va tutto bene?
- Sì.
- Problemi con Shana?
Yvonne fece cenno di no. Poi distolse lo sguardo, non vide la mezza smorfia che produsse l’uomo con le labbra, poco convinto di quelle parole.
- Ti stanno bene le mie pantofole. – concluse, prima di voltarsi e aprire il cassetto di una credenza, in legno come le sedie. Ne estrasse una tovaglia a quadri e le fece cenno di accomodarsi.
Il pranzo sarebbe stato servito di lì a breve.

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Capitolo 6
*** Chapter 6 ***


Against Me

Quando tutto cade.






 
Hoenn Bluruvia, 19 giugno 20X1


Sentirono la voce della civiltà qualche ora dopo. Avevano raccolto le proprie cose, si erano risistemate, rivestite, ripulite dalla crema in eccesso perché “non è esteticamente accettabile presentarsi in pubblico con la protezione sul viso, non siamo più ragazzine”, e avevano buttato la plastica dei cracker e la buccia delle mele che avevano consumato durante la traversata. Si erano poi spostate verso l’interno della nave e avevano sceso le scalette che le avrebbero portate sulla piattaforma inferiore. Lì c’erano poche persone, molti erano autotrasportatori che facevano ritorno sui loro camion, fissando con occhi interessati Petra e Sapphire.
- Non li guardare. Andranno via. – disse la prima, categorica, fissando dritto davanti a lei, mentre la rampa d’attracco si abbassava e lentamente inondava di luce dorata i loro visi. Sapphire si voltò verso l’amica, così seria e compunta, mentre allungava il collo e inarcava le sopracciglia.
- Perché non dovrei guardarli, scusa? Io sono qui e loro sono lì.
- Perché sono camionisti. Quella gente non porta mai a niente di buono... – aveva ribattuto l’altra, repentina. – E poi puzzano, e sono sudati. E sono abituati a... diciamo, compagnia femminile del tutto differente da quella che potresti offrire tu. Sei una donna elegante e raffinata, tu.
- Non proprio... – ridacchiò l’altra, mentre la rampa d’attracco si abbassava. Il sole s’inseriva lento in quel garage buio, andando a colorare i volti delle due ragazze. Sapphire strinse gli occhi, sentì poi Petra rispondere.
- Sei una donna. Quindi sei elegante e raffinata... hai questo potenziale già dentro di te. Dobbiamo un po’ lavorare su quest’aspetto.
- Fanculo ogni aspetto, Petra. Non mi ha cambiata quel finocchio e non lo farai di certo tu...
- Ti prego... – sbuffò l’altra, piegando le labbra in una smorfia. – Non lo chiamare in questo modo. Mi infastidisce che parli male di lui... Non dovresti parlare male della gente.
- Tu non ti sei fatta problemi a paragonare i camionisti agli uomini di Neanderthal, tesoro...
- Non ho mai detto una cosa del genere.
- Il mio ex aveva movenze e comportamenti da drag queen, con quei profumi puzzolenti e...
- Ora invece stai parlando male delle drag queen.
- Fanculo, Petra.

Pochi secondi dopo misero piede a Bluruvia. La zona del porto era stata ristrutturata cinque anni prima, dopo che un violento maremoto aveva distrutto gran parte delle ultime banchine, le più vecchie; era stato tutto sistemato e il pontile di cemento aveva sostituito la debole piattaforma galleggiante in plastica, ormai ingrigita dal tempo.
Rudi ci teneva alla sicurezza.
- Non lo vedo... – diceva Sapphire, alzandosi sulle punte e riparando la visuale dal sole con la mano. – Hai detto che sarebbe venuto Rudi? Cioè, proprio Rudi?
Petra sospirò, incrociando le braccia e rimanendo col collo allungato. L’espressione senza emozioni che portava sul viso non tradiva in alcun modo la sua confusione.
- Sì, aveva detto che sarebbe venuto lui. Forse avrà mandato qualcun altro, o forse... non so.
- Perché non lo chiami un attimo?
- Perché non voglio fare la figura della cretina, nel caso fosse venuto a prenderci e io non lo vedessi.
Sapphire la guardò con sufficienza, mentre l’altra aguzzava la vista, alzandosi sulle punte e lanciando gli occhi più lontano che potesse. Cercò Rudi sulla sinistra, lungo la stradina che portava alla meravigliosa chiesetta costruita interamente in pietra bianca, senza trovarlo, e poi guardò anche a destra, oltre la grossa statua al centro del porto, dov’erano parcheggiati diversi minitaxi, che non erano altro che fatiscenti veicoli a tre ruote, più stretti delle automobili, sicuramente più agili, a rappresentare gli unici mezzi di trasporto in grado di passare attraverso gli stretti vicoletti della città.
- Non lo vedo. Ora lo chiamo io... - rispose Sapphire, cercando con la mano il cellulare nella borsa, perdendo forse troppo tempo nel farlo e pensando che invece di buttarlo a casaccio in quel fossato profondo quanto l’oceano avrebbe potuto cominciare a infilarlo nel taschino interno di quella hobo di pelle bianca, un po’ sdrucita, sgualcita dal tempo.
- Va bene. Va bene, chiamalo tu.
Poi un clacson le fece sobbalzare entrambe, che erano davanti alla passerella di sbarco e uno di quei camionisti dalla fronte sudata urlava loro di levarsi dalle palle.
- Vedi come sono, i camionisti?! – sbraitò Petra, camminando un paio di metri avanti, tirandosi l’altra per il braccio, che intanto aveva lo sguardo perso nel vuoto e l’orecchio sul telefono.
- Rudi. Sono Sapphire. Sapphire Birch. Siamo al porto, Petra aveva detto che saresti venuto a prenderci...
- No! – esclamò l’altra, spalancando gli occhi e poi portando una mano davanti alla bocca. – non dirgli che sono stata io! – continuò, a bassa voce.
- Sì, va bene, è che abbiamo le valigie e... ah, siamo state anche fortunate, quindi... perfetto. Dov’è? Destra, destra, sinistra, dritto. Chiedo a Serge. Va bene. Va bene, sì. Sì, la traversata è andata bene, nessun problema, non abbiamo trovato mare grosso. Va bene. Va bene. Sì, va bene... va... va bene, a dopo.
Petra la guardava confusa. La vide gettare di nuovo il telefono in borsa e sospirare.
- Va bene? – le chiese. – Che ha detto?
- Voleva che andassimo in spiaggia.
- Direttamente?! Ma abbiamo le valigie e dobbiamo fare il check-in e...
- Mi hai sentita, no?
- Sì, hai detto mille volte che andasse bene qualcosa...
- Sì, e lui mi ha detto di avviarci all’albergo vicino alla Palestra, il...
- Golden Sand, sì. L’ho visto su Trip Advisor e non mi sembra niente male, ha addirittura una discesa privata sulla spiaggia, e lì la sabbia è bianca e il mare è cristallino e...
- Doveva chiamarsi White Sand, allora. – ribatté Sapphire. – Voglio andare a fare un bagno, sbrighiamoci.
- ... e dicono che sia un posto perfetto per raccogliere le conchiglie.
- E muoviti!

Camminarono per quei vicoletti stretti e caratteristici, accarezzando le pareti delle case, tutte rivestite in porosissimo tufo, che lasciava sulle dita polvere giallastra destinata a volare via, quando si pulirono le mani. Sapphire lo fece sul pantaloncino, Petra su di un fazzoletto. Di tanto in tanto i loro sandali scivolavano sulla superficie liscia dei vecchi sampietrini, levigati dal tempo e dalla pioggia che, in quelle strade tutte in pendenza, scendeva a valle.
Le persone sembravano felici, lontane dalla frenesia che popolava le strade di Ferrugipoli, metropoli in cui viveva Petra. Lei stessa non riusciva a capacitarsi della rilassatezza dipinta sul volto di quelle persone.
- Qual era la strada? – domandò poi quella, nascondendo il viso sotto la tesa del cappello.
Un treruote dal parabrezza opaco e dalla carrozzeria color ocra si avvicinò frontalmente alle due, che furono costrette a salire un piccolo gradino che portava all’ingresso di casa di qualcuno, scavato interamente nella pietra. Si strinsero l’una all’altra col calore che le avvolgeva, guardarono l’uomo nel veicolo che sorrideva e si portarono di nuovo sulla strada.
- Cosa hai detto? – aveva chiesto Sapphire, sbuffando.
- Ti ho chiesto quale fosse la strada.
- Destra, destra, sinistra e poi dritto. L’albergo si chiamava...
- Goldsand. Sabbia d’oro, con discesa su spiaggia...
- Con sabbia bianca.
- Lo hai già detto, Sapph. – rispose Petra. Poi si fermarono in uno slargo, mentre una coppia di anziani pescatori discuteva sul perché un certo Omar avesse effettivamente dovuto fare quello che aveva fatto. La Capopalestra si guardò attorno, poi si voltò e poggiò gli occhi sull’amica.
- A destra c’è questa scalinata. Ma è una discesa...
- Beh, qui siamo più in alto... Considerato che l’albergo ha una discesa su di una spiaggia di sabbia bianca, e ci tengo a rimarcare questo particolare, immagino che dobbiamo scendere. Più saliamo più andiamo sulla montagna.
- Credo anche io.
- Cazzo... – sbuffò Sapphire, detergendosi il volto dal sudore. – Ho fame...
- È un buon segno... - sorrise l’altra. – Vuol dire che sei viva.
- Non sei per niente divertente. Anzi... - sbuffò. Petra la guardò avanzare rapida, tirandosi il trolley fino all’ombra di un grande platano dal tronco venoso, alto più di dieci metri. La Capopalestra la vide appoggiare la mano sulla corteccia intagliata da qualche coppia d’innamorati. Levò il sandalo, lasciò che una grossa pietra cadesse e lo infilò nuovamente.
- Mi faceva male... non ce la facevo più... - aveva detto, col volto paonazzo e sudaticcio. Raccolse i capelli castani tra le mani e li legò, in un codino alto, seppur leggermente più lungo di quelli a cui era abituata. Deterse la fronte col polso, sgranò gli occhi blu come il cielo che avevano sulle teste e si guardò attorno.
- Non ricordo più la strada. – aveva ribattuto Petra, raggiungendola.
- Destra, destra, sinistra e poi dritto. Abbiamo già voltato una volta e destra e quindi... - fissarono entrambe l’incrocio, quindi si rimisero in marcia, guardando dritto e riuscendo a scorgere una grande costruzione a forma di vela, interamente in vetro e acciaio, che imperava maestosa sulle acque splendenti della costa di Bluruvia.
- Eccolo!
- Ha scelto proprio un due stelle... – osservò sarcastica Sapphire, beccandosi la successiva occhiataccia di Petra.
- Ti chiedo solo di rilassarti. Smettila con questi atteggiamenti da strega, ti prego...
La prima fissò l’altra negli occhi rosati e annuì, storcendo le labbra.
- Hai ragione, ma non mi sento più me stessa da troppo tempo. E ciò che stiamo facendo mi sta destabilizzando.
La maestra si bloccò, levando gli occhiali da sole e stringendoli tra le dita, con una mano stretta contro il petto, e l’altra lunga e pesante accanto al fianco. Un soffio di vento le spinse il vestitino contro il corpo sottile.
- Che intendi? – domandò, battendo leggera le palpebre.
Sapphire si limitò a sbuffare e a guardare in basso. Era stanca di aprire la porta verso l’interno di se stessa.
- Intendo che la mia quotidianità è cambiata fin troppe volte, durante questi due anni. Prima avevo un uomo accanto, e lo amavo, poi l’ho visto andare via... e poi ho cominciato una relazione a distanza, e tutti che mi dicevano che non funzionano mai, e sapevo pure che avessero ragione ma non volevo che fosse così...
- Lo amavi, è normale che tu ti senta così.
- Ma non è così! Non è normale che io stia così! – ribatté ad alta voce. Un uomo su di uno scooter rimase a guardarle per un rapido attimo, prima di procedere oltre. – E tu che cazzo guardi...
- Vediamo di non finire sui giornali...
Sapphire sospirò, passando una mano sudaticcia nei capelli, di quel castano chiaro che tendeva a tuffarsi nel biondo, con l’estate.
- A me da fastidio... - fece, riprendendo a camminare.
- Cosa?
- Che una persona abbia tutto questo potere su di me. Che finisca per decidere come io debba stare senza fare neppure più parte della mia vita. È assurdo!
Si era arrabbiata, Petra invece sorrideva. Stava tornando a galla quella parte di lei.
- Hai ragione.
- Lo so, che ho ragione, cazzo!
- Devi imbrigliare questa situazione e gestirla al meglio.
- Devo andare ad ammazzarlo di botte! – urlò furibonda, con le lacrime che involontariamente erano scese. L’altra la guardò, afferrandole il braccio e sospirando.
- Stai ferma e smettila di fare queste scenate in pubblico. Tieni... - fece, scavando nella grossa borsa e tirando fuori un pacchetto di Kleenex. – Tienilo, possono sempre servire.

Non impiegarono molto tempo a raggiungere l’albergo. La struttura era sopraelevata rispetto alla spiaggia, i cui ombrelloni dorati spiccavano sulla sabbia totalmente candida. Sapphire vedeva Petra allungare l’occhio verso i bagnanti, e avrebbe giurato di vedere le sue labbra pronunciare un “eccolo”, se non fosse stata troppo distratta dalla sfarzosità dell’ingresso: una serie di gradoni lunghi e bassi, ricoperti di marmo nero e inserti in oro, veniva accompagnata ai lati da schiere di ibischi, passiflore e plumerie, dal profumo morbido e dai colori vivissimi. Arrivarono in cima alla scalinata e un facchino dal volto devastato dai buchi dell’acne ma dal sorriso meraviglioso le accolse. Indossava una divisa verde petrolio, con piccoli particolari dei taschini e del colletto dorati. Risaltavano in maniera eccessiva i guanti bianchi, che stringevano un carrello portavaligie.
- Buongiorno, signore. Posso aiutarvi con i bagagli?
Sapphire fece cenno di no e avanzò, mentre Petra gli sorrise gentilmente e lo congedò con un no, grazie. Entrarono nella hall, con l’aria condizionata che soffiava sulle pelli accaldate delle ragazze e su quelle lucide e marroni dei divanetti e delle poltroncine poco prima del bancone degli alcolici, dove un bartender col papillon rosso faceva volteggiare uno shaker davanti a due ragazze dai capelli rossi e dai pareo fin troppo trasparenti.
- Un po’ di buon gusto, per l’amor del cielo... - sbraitò Petra, seguendo l’amica, indirizzata in conciergerie. Ad attenderle c’era un uomo che indossava un sorriso bonario e compiaciuto, con lo stesso papillon del bartender ma almeno trent’anni in più. Serge, c’era scritto sulla targhetta dorata.
- Buongiorno. Come posso aiutarvi?
- Faccio io. – s’inserì rapida la Capopalestra di Ferrugipoli, scivolandole davanti. Sapphire sbuffò, e mentre la sentiva parlare riuscì a darsi uno sguardo attorno. Pensò che il bartender fosse davvero carino, ma continuava a sorridere a quelle due rosse mezze nude. Aveva messo il cervello a folle e aveva cominciato a guardare meglio l’uomo, dalla barba ispida e bionda e dai profondi occhi azzurri. Nonostante la divisa fosse elegante e il papillon aumentasse la superficie coperta, riuscì a vedere parte di un tatuaggio che sarebbe dovuto essere assai esteso fuoriuscire da colletto della camicia. Prese a immaginarlo senza divisa, senza quel gilet attillato, soprattutto senza papillon: doveva essere bello accarezzare quel tatuaggio, che magari scendeva lungo il collo, e più giù, sul petto.
Lo riguardò, bello e abbronzato, e appena i loro sguardi s’incontrarono, appena i loro occhi si unirono, come il cielo faceva col mare, d’improvviso quella che era barba dorata divenne pelle liscia e levigata, e i lineamenti nordici e solidi dell’uomo s’ammorbidirono subito.
Stentava a crederci ma anche le iridi di quello, dapprima dello stesso colore delle sue, mutarono e diventarono rosse, come rubini illuminati dal sole, e una cicatrice, poco al di sopra, deturpava la fronte candida, coperta da ciuffi corvini.
E rideva e scherzava con quelle due donne con le natiche al vento.
- Dammi un documento. – la interruppe poi Petra.
Sapphire sbatté le palpebre, il biondo continuava a guardarla, la vedeva confusa e spaesata.
- Sì... - aveva risposto lei, gettando le mani nella borsa senza però mai staccare gli occhi dall’uomo.
- Sì, un attimo... è un po’ confusa... – sorrise ancora la Capopalestra, spintonando delicatamente l’amica. – Forza! Ti serve una mano?!
Sapphire rinvenne.
“Devo rilassarmi. Devo seriamente rilassarmi”, pensò abbassando poi gli occhi verso la borsa. La mano affondò tra i fazzoletti usati di prima e qualche carta di caramelle, il cellulare, e una quantità oscena di monetine da dieci centesimi, che a contarli avrebbe recuperato almeno tre dollari. Trovò quel grosso portafogli di pelle bordeaux, prese la carta d’identità e la mise sul bancone. Il concierge le sorrise cordiale e la prese, poggiandola sul banco e sedendosi poi alla postazione computer accanto a lui.
- Birch... Sapphire, Albanova. E... ecco, perfetto. Registrate...
- La prenotazione dovrebbe essere stata effettuata da Rudi in persona.
- Sì, ha chiesto di riservarvi la migliore suite disponibile, anche se attualmente è occupata da qualcun altro... - fece, stirandosi il gilet addosso.
- Chi? – domandò poi Petra, molto incuriosita. Vide l’uomo chiudere gli occhi lentamente e sospirare.
- Non posso dirvelo. Ma ho comunicato personalmente a chi di dovere di preparare la stanza numero la cento.
- Proprio la cento?
- Proprio la cento.
- Hai sentito! – esclamò Petra, in direzione di Sapphire. – Ci ha riservato la stanza numero cento!
La donna annuì, non riuscendo a carpire neppure in maniera minima parte di quell’entusiasmo.
Serge si voltò verso la grande bacheca di legno che aveva alle spalle e poi prese la chiave magnetica. Questa aveva un piccolo portachiavi semisferico di quello che sembrava ottone, consumato dalle mille mani che l’avevano toccato. La poggiò sul banco e sorrise nuovamente.
- Micheal, che avete avuto già modo d’incontrare alla porta, vi accompagnerà alla stanza.
- Molte grazie. – annuì Petra, vedendo poi il ragazzo afferrare i trolley per le maniglie e depositarli sul carrello. Attese che entrambe fossero pronte ad andare, prima di annuire e d’inclinare leggermente la testa.
- Se avete terminato, potete seguirmi verso l’ascensore.
Non se lo fecero ripetere due volte; camminarono sul parquet dell’ingresso e raggiunsero l’ascensore, già aperto. Il ragazzo attese silenzioso che le due salissero, quindi schiacciò il pulsante 10 sulla tastiera e, non appena si chiusero le porte, una versione MIDI di Come Get To This prese a suonare dagli altoparlanti. Sapphire rimase in silenzio, ancora turbata per ciò che era successo precedentemente. Combatté l’istinto di prendere una delle Marlboro che aveva nascosto in borsa e accenderla proprio lì, in quel momento, avvelenandosi il fegato nel dover chiedere a se stessa di aspettare.
Sapphire odiava aspettare.
Odiava profondamente l’attesa. Non serviva ad aumentare il desiderio, snervava e basta, e aveva capito da qualche settimana a quella parte che i suoi nervi avevano bisogno di una tregua, perché stavano sventolando bandiera bianca.
E insomma, li stava ascoltando: vacanza, spiaggia, era lì per quello.
Le porte si aprirono, il giovane spinse il carrello in avanti e le ruote cigolarono fino a quando la moquette bordeaux non attutì il rumore. Tutt’intorno l’aria era fresca e il profumo di pulito aleggiava prepotente. Le luci calde illuminavano eleganti il corridoio ogni paio di metri tramite elegantissimi applique in acciaio, fissati alle parete candide. Tra le porte vi erano appesi quadri minimalisti, che Sapphire non riusciva ad apprezzare allo stesso modo di Petra, la quale li fissava sorridente.
- È un luogo di classe, questo, vero? – chiese.
- Già.
- Adesso che ti prende? No, aspetta, me lo dirai in stanza.
- Voglio solamente andare a fare un bagno e addormentarmi al sole, Petra. Di tutto il resto non m’interessa.
L’altra storse le labbra e sospirò.
Micheal si fermò davanti alla penultima porta sulla sinistra, strisciò la card nel lettore e la serratura diede loro il benvenuto con uno scatto, dopodiché lasciò che Petra abbassasse la maniglia ed entrasse. Furono inondati dalla luce esterna, in quella suite che pareva più un appartamento di un grattacielo di Ciclamipoli.
Ma non aveva quella vista. La Capopalestra si avvicinò lentamente al grosso finestrone che aveva di fronte, stringendo con una mano la borsa e levando il cappello con l’altra.
- In... incredibile. Vero, Sapph? – chiese, sorridente, voltandosi.
Quella si limitò ad annuire alcalina, prendendo il trolley dal carrello e gettandolo sul letto.
- Sarà un piacere passare il tempo con te... – rispose quella, mentre Micheal poggiò per terra il suo bagaglio, facendo un passo indietro.
- Prima o poi mi passa... – sbuffò la ragazza, aprendo la zip della valigia, per poi cominciare a scavare tra i vestiti e tirare fuori un bikini celeste, poi sbottonò i pantaloni e li abbassò, rimanendo in costume davanti al facchino, che la fissava interdetto.
Petra sbatteva le palpebre, confusa, mentre Sapphire si voltò verso l’uomo, aggrottando la fronte.
- Beh? Vuoi davvero vedermi nuda? Puoi andare.
Micheal voleva la mancia, Petra l’aveva capito ma Sapphire non sembrava aver colto.
- Il fatto che mi sia levata i pantaloncini significa che sto per spogliarmi, quindi prendi il tuo carrellino fatto di merda e sparisci.
Quello spalancò gli occhi e arrossì immediatamente, balbettando qualche scusa, prima che l’altra gli si avvicinasse e gli posasse venti dollari tra le mani.
- Scusala, non riesce ancora a gestire bene la distanza da casa...
- Grazie, signora. Buona permanenza...
Si chiuse la porta alle spalle e Sapphire trovò finalmente il momento per levare slip e reggiseno, rimanendo totalmente nuda davanti all’altra, che la fissava, profondamente contrariata.
- Ti sembra il modo?
- Il modo di cosa? Dovevo spogliarmi davanti a lui, scusa?
- Siamo in un posto di classe! I facchini si aspettano delle mance per ciò che fanno!
- Non glielo pagano, lo stipendio?
- Sì! Ma è così che funziona ed è così che faremo!
Rimase col costume tra le mani, mentre l’altra s’impegnava a non guardarla, non riuscendo a nascondere il disagio che provava.
– E vestiti... – fece.

Venti minuti dopo affondavano i piedi nella sabbia candida e bollente della spiaggia dell’albergo. Il profumo del mare veniva trasportato dalla brezza che baciava i loro visi, portando fresco e salsedine. Sapphire camminava alle spalle di una Petra perfetta e sorridente, con indosso il suo bikini bianco, lo stesso cappello e gli stessi occhiali che indossava precedentemente e una lunga camicia bianca.
- Rudi! Siamo qui! – urlò, agitando la mano e voltandosi verso l’altra, che cominciò a sistemare le proprie cose su di uno dei lettini liberi. Il mare quel giorno era calmissimo e il Capopalestra di Bluruvia dovette limitare la propria voglia di surfare, sfruttando quel tempo libero per fare un po’ di manutenzione della tavola a riva, inginocchiato sul bagnasciuga. Sentendosi chiamare si voltò subito, sorridendo e alzandosi in piedi.
- Ci ha viste... smetti di agitare quella mano...
- Oh, mamma...
L’uomo prese ad avvicinarsi sorridente, affondando i piedi nella sabbia e tirando i capelli celesti all’indietro. Questi, ricci com’erano, ricadevano lunghi sulle spalle abbronzate.
- Ragazze. Ce l’avete fatta, alla fine. – fece, mostrando un sorriso smagliante.
- Sì, siamo qui... – disse Petra, cercando di nascondere dietro agli occhiali scuri lo sguardo che stava dando ai pettorali e all’addome tonico del collega dal bermuda blu.
- Spero non vi siate perse tra i vicoli...
- Non è stato difficile, no. – rispose ancora quella, aderendo col corpo sul suo in quello che doveva essere un abbraccio di saluto. Sapphire vide le mani di Rudi cingere la vita stretta dell’altra, quindi sbuffò.
- Sei bagnato! – esclamò quella, ridendo. – L’acqua è fredda.
- Oggi è meravigliosa. E c’è anche Sapphire! Mi fa piacere vederti! – disse poi quello, avvicinandosi e salutandola con lo stesso abbraccio. La donna fu meno affettuosa e si staccò subito dalla stretta.
- Anche a me. Vado direttamente in acqua.
E lasciò entrambi lì, camminando inesorabile fino a quando l’acqua non le raggiunse il collo. Quelli si guardarono confusi.
- Ancora non l’ha superata, eh? – domandò l’uomo.
- No. È il motivo per cui siamo qui: rilassarci e dimenticare Ruby.
- È molto più strana del solito.
Petra levò gli occhiali e li poggiò sulla sua sdraio.
- Se non sbraita e urla volgarità a casaccio è più strana del solito, sì.
Rudi ridacchiò.
- Beh... spero riesca a trovare un po’ di pace, qui...
– Lo spero anche io...

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Capitolo 7
*** Chapter 7 ***


Against Me

Quando tutto cade.


 
 
 
Hoenn, cielo di Hoenn, 20 giugno 20X1
 
White aveva viaggiato per il mondo più e più volte, nel corso della sua vita.
O meglio, della sua carriera. Anche perché la gran parte delle volte che aveva deciso di acquistare un biglietto aereo in prima classe lo aveva fatto per questioni di lavoro. Poche volte aveva preso un aereo senza una ventiquattrore stretta nella mano destra, e quando era successo aveva Black accanto, che sorrideva in maniera forse eccessiva.
Faceva parte di quelle cose che affascinava terribilmente White, quando pensava a suo marito. Così fuori dal mondo, così quieto e ignaro dei problemi.
Disincantato.
Le piaceva quella fanciullezza che lei, ormai, non aveva più. E guai a pensare che fosse un problema d’età, che del resto lei aveva superato la trentina da pochi anni; era più una questione d’attitudine. White era abituata a preoccuparsi tanto per ottenere il meglio: minimizzare la probabilità di incappare nei problemi era meglio che risolverli.
Pensava poco spesso a cose come quella. Più generalmente non ne aveva il tempo, ma le piaceva elencare mentalmente i pregi di suo marito. Guardò oltre l’oblò, lo strato denso di nuvole celava Hoenn in tutta la sua solitaria bellezza. Quell’isola spuntava florida al centro del mare blu del sud del Giappone, dove le temperature rigide non arrivavano mai. White pensò che l’umidità le avrebbe rovinato quella pettinatura da duecento dollari, ma poi tornò a concentrarsi sul diritto di guardare oltre l’oblò del Boeing 747 che aveva acquistato pagando più duemila dollari di biglietto, e visualizzò nuovamente il volto di suo marito.
Si chiedeva se anche a lui fossero sorti i primi dubbi, in quella relazione.
- Siamo quasi arrivati… - sussurrò Whiteley, accanto a lei. La Presidentessa si voltò con lo sguardo assente, quindi annuì e si chiese quanto ancora il suo uomo avrebbe mantenuto con forza le cinghie di quel matrimonio. Accavallò le gambe, in prima classe c’era lo spazio per farlo, sospirò e sentì ancora forte il richiamo di uno scotch & soda a pulirle la gola dal sapore del whiskey che aveva sorseggiato, forse tre volte, forse quattro, durante quel volo infinito.
Però s’impose di rimanere lucida. Poche ore dopo avrebbe dovuto fare la sua solita magia e non poteva assolutamente distrarsi.
- Non manca molto all’atterraggio… - aveva continuato Whiteley, ma intanto l’altra fissava dritta davanti a sé, e ripensava a poche ore prima, mentre chiudeva le valige: Black era in piedi davanti alla porta, con le braccia conserte, appoggiato allo stipite con la spalla sinistra. La guardava immobile, a piedi scalzi e senza maglietta, mentre quella stipava ordinatamente i vestiti nella Samsonite poggiata sul letto. Lei non se n’era accorta, ma quello stava con lo sguardo basso, stringendo pugni e denti e riempiendo i polmoni con rabbia e risentimento.
- Adesso dove andrai? – aveva domandato quello, con un filo di voce.
- Hoenn. Ho degli affari da sbrigare lì.
Quello aveva sorriso a mezza bocca, poi aveva alzato lo sguardo e sospirato.
- Bella, Hoenn…
- Ci sei stato?
- Sì, sono stato ovunque, quando non eravamo sposati.
White si era fermata, lo aveva guardato per un secondo e aveva inarcato le sopracciglia.
- C’era bisogno di sottolineare l’ultima frase?
- Quando tornerai?
La donna era poi tornata china a piegare panni e a sistemarli nella valigia.
- Quando avrò finito.
- Che significa, scusa? Che vai a fare?
White sbuffò e si sollevò, portando le mani ai fianchi. Aveva caldo e davvero pochissima voglia di discutere con suo marito.
- È lavoro, Black... – aveva detto, alzando gli occhi verso il soffitto e lasciando che cadessero nuovamente sullo sguardo dell’uomo. - Che dovrei andare a fare? Ho un atelier senza stilista, devo risolvere questo problema, poi ritornerò a casa…
- Quindi se non risolverai il problema non tornerai.
- Senti, cerchi rogne?! – aveva ribattuto quella, allargando le braccia e avvicinandosi a lui.
Quello, che reagiva sempre con una risatina quando White assumeva il suo atteggiamento newyorchese, era rimasto immobile.
- Vuoi mettermi le mani addosso, White?
- Non devi rompere i coglioni! Lo sai! Il lavoro è lavoro! Ci sono delle priorità!
- Già. – aveva annuito Black, lasciando cadere le mani accanto ai fianchi e mostrando il torace nudo. Gli occhi di White si erano poggiati per un attimo sul tatuaggio che rappresentava un uroboro stilizzato, per poi tornare a fissarlo negli occhi.
- Mi spieghi cosa cavolo stai passando, per favore? All’improvviso ti dà fastidio ogni cosa!
Black era rimasto immobile, aveva passato le mani nei capelli castani e li aveva tirati indietro. Poi aveva riempito i polmoni e spalancato le narici, quasi stesse caricando il sale nella spingarda, pronto per spararle.
- Forse dovresti cominciare a renderti conto che non esisti solo tu. Sarebbe la prima volta che qualcuno te lo fa notare senza paura di essere licenziato, vero?
White aveva aggrottato la fronte.
- Prego?
- O vorresti licenziarmi? - si mosse, lui, avanzando e andandole incontro. - Vuoi licenziare tuo marito?
- No. Non voglio licenziarti, voglio solo fare il mio lavoro.
E a quelle parole, Black era scoppiato.
- Ma certo! Lavoro! Lavoro, lavoro, lavoro! L’importante è che ci sia il lavoro!
- Sì! – aveva esclamato l’altra, affrontandolo muso a muso. Aveva alzato l’indice smaltato e aveva mosso un passo avanti. – Perché io lavoro! Non sono io, qui, quello che cazzeggia tutta la giornata, nella palestra che IO ho pagato! Però complimenti! Begli addominali! – aveva detto, spingendolo proprio in corrispondenza dell’ombelico. – Io invece ho il culo flaccido, ma tanto che cazzo te ne importa?! Sicuramente scoperai con qualcun’altra, no?
L’uomo, disarmato, pronunciò le labbra, incredulo.
- Alla fine di questa settimana, quindi, avrò visto mia moglie giusto il tempo di questa chiacchierata infelice, giusto?
- Possibile. aveva risposto. Ricordò di aver digrignato i denti e di essersi voltata, tornando alla sua valigia.
- Bene. Non senti ragione. Meglio buttare la testa nell’alcool. Ti puzza ancora l’alito…
- Oh, falla finita… - aveva sbuffato.
- O forse è meglio lavorare e basta? Così non hai più il tempo per risolvere i problemi della vita, no?
- Io non ho problemi. – aveva risposto subito, disinteressata.
- MA IO SÌ!

Black aveva alzato la voce, e non lo faceva mai; rimaneva sempre calmo e tranquillo, sorrideva anche quando non c’era molto da ridere, perché era fatto in quel modo e, seduta su quell’aereo diretto a Ciclamipoli, White aveva capito di avergli aperto le porte del cuore proprio per quel motivo.
Abbassò lo sguardo, guardò le mani, si concentrò sulla fede.
Dorata. Riluceva sotto i faretti della cabina dell’aereo.

Gli stava stretta.

E non per i piaceri della carne, che l’unico uomo con cui sentiva determinate pulsioni le dormiva accanto. Il matrimonio era nemico della libertà, della scelta; era il tripudio del compromesso, e lei non era abituata al sacrificio per la vittoria di squadra. La sua vita era un one man show.
No.
Anzi.

Un one woman show.

Era arrivata ovunque i suoi occhi si poggiassero, le mani smaltate avevano afferrato tutto ciò che le servisse per essere sempre in una posizione di vantaggio su chiunque.
White era una donna potente.
E in quanto donna potente non avrebbe mai avuto l’opportunità di avere una vita mediocre, con un uomo mediocre dal lavoro massacrante, due o tre figli a cui badare e una casa da tirare a lucido tutti i giorni. Non avrebbe dovuto pensare per ore a cosa cucinare per cena, non avrebbe dovuto ricordarsi degli allenamenti di basket di suo figlio, del saggio di danza della bambina, dell’appuntamento dal pediatra, di quello dal dentista, della dieta, perché dopo l’ultima gravidanza non era riuscita più a trovare quella linea più o meno dritta che le avrebbe ricordato dell’adolescenza, di quando aveva dei sogni per il futuro in cui non era una madre vessata dalla vita e una casalinga senza prospettiva.
Quella sceneggiatura scomparve quando incrociò lo sguardo di Whiteley. Non le sorrise neppure, la guardò soltanto, con una domanda nello sguardo, trasformato poi in parole.
- Che succede?

Succede che mi sento in colpa di non essere un’impiegata di Starbucks. Ecco che succede.

- Hai tutto pronto?
- Sì… il biglietto del pullman ce l’ho proprio qui e… Ma se lo trovassi?
- Chi?! Ruby?! Non lo troverai mai, non metterci il pensiero. Quel figlio di puttana sapeva che lo avremo cercato. Ma vale la pena provare, no?
Whiteley inarcò le sopracciglia. – Va bene. Lei invece cosa farà?
- Cercherò di mettere un punto a questa telenovela.
Subito dopo, la voce del pilota le avvertì metallica che la discesa stesse cominciando. White vide l’altra spalancare gli occhi e allargare il colletto della camicetta celeste che indossava, cercando di mantenere la calma. Gli occhi della Presidentessa si poggiarono sulla cintura, mai staccata dall’inizio del viaggio. Subito dopo capì che Whiteley non fosse un’habitué dei viaggi in alta quota. Gli occhi le si rimpicciolirono, le gote divennero paonazze e riuscì a rapprendere le labbra con così tanta forza che da rosee che erano divennero violacee.
- Hey, calmati… - la redarguì l’altra, attaccando disinteressatamente la cintura di sicurezza. – Se l’aereo si schiantasse a un metro dal suolo non moriremmo di certo…
Quella la guardò, respirando a pieni polmoni, con gli occhi spalancati e pieni di paura.
- Scusi!
- Non scusarti per cose inutili.
- Ho paura. – ribatté subito. – Non sono abituata. In vita mia ho fatto solo un viaggio in aereo, ero piccola e…
- Ecco, ora tocchiamo terra…
- Cazzo! – esclamò l’altra, chiudendo gli occhi e stringendo la mano della vicina con un vigore che non credeva di avere. Le ruote striderono sull’asfalto cocente dell’aeroporto internazionale di Ciclamipoli poco dopo. Whiteley contò sette lunghissimi secondi, in cui aveva riscoperto una sorta di devozione per un dio fin troppo poco presente nelle sue giornate, poi aprì gli occhi e vide White col volto appuntito.
- Per il ritorno ti faccio fittare una barca a remi, ma devi lasciarmi la mano… - replicò l’altra. Quella annuì, vide l’altra sbuffare e slacciare la cintura di sicurezza, prima ancora che il segnale luminoso si spegnesse.
- C’è tanto da fare e c’è poco tempo.
- Okay… - sospirò Whiteley, cercando di tirar fuori un po’ di quell’ansia ruvida dal ventre e dai polmoni. – Quindi, ora?
- Quindi ora tu prendi un taxi e raggiungi lo stazionamento del bus. Cerca Ruby, o almeno qualche notizia… - disse quella, prendendo un flaconcino di profumo spray dalla borsa e spruzzandolo sotto al collo e sui polsi. Aprì poi il tailleur quel tanto che bastava per poter attaccare sul braccio un cerotto alla nicotina.
- E lei?
- E io prenderò un elicottero e raggiungerò Ceneride. Lì mi aspetta Adriano. Era il mentore di Ruby, quando stava qui.
- Capisco… - annuì quella, alzandosi in piedi e lisciandosi la gonna grigia addosso. Fece lo stesso con la camicetta, poi strinse meglio le crocchie che aveva attorno alla testa e raccolse la borsa. Scesero poi dall’aereo, col vento caldo che le colpì entrambe con un pugno nello stomaco e il rumore dei tacchi alti che batteva sul cemento della pista.
Si divisero pochi minuti dopo.
- Faccia buon viaggio! – aveva esclamato Whiteley, prendendo fiato e alzando gli occhi al cielo.

Non era semplice essere l’assistente di una donna come White.
Lavorava sempre.
E assistere sul lavoro qualcuno che non smetteva di lavorare significava non smettere di lavorare. Il passaggio di mano da Ruby a White era stato tremendo; Ruby era un leader: si assicurava che tutti i processi venissero eseguiti con la massima efficienza possibile, e figurava quasi sempre all’interno di ogni operazione. Doveva mettere bocca su ogni azione, e aveva diritto di veto su tutto. Non c’era singolo abito dell’atelier che non venisse approvato dallo stilista, e anche il minimo difetto lo relegava alla pila degli stracci da riutilizzare. White invece era tutta un’altra cosa. Ti diceva per sommi capi cosa volesse, durante incontri o telefonate che duravano al massimo quindici secondi, per poi andare via, e rivederla o risentirla soltanto a lavoro compiuto.
E lì il margine d’errore era molto più alto, perché si aspettava, la donna, che chiunque lavorasse con lei le leggesse nella mente.
Fermò un taxi agitando delicatamente la mano, proprio davanti all’aeroporto. Il sole batteva impetuoso e pareva divorare dall’alto l’asfalto rovente e tutto ciò che vi fosse poggiato sopra, mentre una Toyota accostava lentamente accanto a lei. Vide riflessa la sua figura sottile sui finestrini scuri dell’automobile verde, fissò i suoi enormi occhi blu e sistemò il colletto della camicetta, quindi aprì la porta posteriore destra, entrando. Alla radio una giovane ragazza cantava intonata una melodia molto pop, che le faceva venir voglia di agitare la testa e mantenere il tempo. Gl’interni del taxi erano profumati, il proprietario doveva aver lavato la tappezzeria da poco dato che un pungente odore di lavanda aleggiava per tutto l’abitacolo.
Il tassista non si voltò, rimase immobile al suo posto fissando Whiteley dal retrovisore, e la ragazza riuscì giusto a vedere dei profondi occhi color nocciola dietro uno spesso paio di lenti. Valutò la sua età intorno alla cinquantina, per via delle rughe d’espressione che aveva accanto alle palpebre e della nuca, in cui l’argento stava sostituendo l’oro.
- Buongiorno. – aveva detto Whiteley, dopo aver chiuso la porta. Si era sistemata sul sediolino e aveva cominciato a prendere il portafogli dalla borsetta.
- Dove andiamo? – aveva chiesto quello, compassato.
- Stazionamento degli autobus. Devo raggiungere Albanova.
Quello la fissò per un attimo, prima di voltarsi, mostrando un sorriso gioviale ed educato. I tassisti di Austropoli, per la gran parte pakistani o indiani, rimanevano compassati e si giravano infastiditi, se venivano poste loro delle domande.
- Posso dirle una cosa, in tutta franchezza?
Whiteley s’irrigidì. Pensò che lo spray al peperoncino fosse nella tasca interna della borsetta e lo visualizzò mentalmente.
- Prego.
- Ci metterà almeno sette ore, con l’autobus. La tangenziale tra Mentania e Ferrugipoli è interrotta a causa di una frana e quindi dovrà attraversare il Tunnel Menferro a piedi e poi aspettare un altro pullman lì. Poi dovrà raggiungere Petalipoli, scendere a Solarosa e aspettare il trenino che la porterà ad Albanova.
Whiteley credeva che in sette ore avrebbe avuto tutte le cattive notizie che avrebbe dovuto avere e che sarebbe stata sul volo di ritorno per Austropoli, casa sua, con le sue comodità e una temperatura sì calda, ma meno umida, che non le increspava i capelli in quel modo.
- Sette ore?
- Minuto più, minuto meno. Oppure...
- Oppure?
- Oppure arriviamo in mezz’ora a Porto Selcepoli e mio nipote la porterà a Solarosa attraverso il mare. Dieci minuti di navigazione e sarà lì. Poi le toccherà solo aspettare il treno, o farsela a piedi, insomma, fino ad Albanova. Ma ci metterà al massimo venti minuti. Un’ora e dieci complessiva. Meglio, no?
- Decisamente... – sbuffò quella, stringendo ancora il portafogli. – Beh... andiamo. Spero solo che non mi si rovini la camicetta.
Pareva felice, quello. Si voltò, abbassò la frizione e girò la chiave nel quadro d’avviamento ma il motore rispose sbuffando e tossendo stanco.
- No… non di nuovo... – aveva detto quello, detergendosi la fronte con la camicia a quadri bianca e rossa.
- Ehm... di nuovo cosa, di preciso?
- Non parte! Ho… problemi col motorino d’avviamento.
Whiteley cercò mentalmente una soluzione al problema ma poi si bloccò, perché si rese conto di non capirne nulla. – E quindi?
- E quindi prenda un altro taxi oppure vada verso il Centro Pokémon e affitti una bicicletta. Tramite la pista ciclabile sarà a Porto Selcepoli in un niente.

Otto minuti dopo era all’ombra di un’alta palma, poggiata a un muretto di mattoni rossi che sperava non le sporcasse la gonna nera, al ginocchio, che era riuscita ad abbinare sapientemente al paio di decolleté, ma nessun taxi era ancora passato.
- Ma che succede? – domandò al tassista, che ancora imprecava, con la testa nel cofano.
- E che dovrebbe mai succedere, signorina? Non parte! Non va!
- No, dico... perché non passano altri taxi?
- Ah, i tassì oggi saranno tutti bloccati nella zona dell’arena a Porto Selcepoli. Orthilla si sta esibendo lì, quindi, a meno che non sappia volare...
- La bicicletta…
- Esatto... – annuì quello, anche Whiteley non poté vederlo.
- È impossibile che io salga su di una bicicletta con una gonna così corta... – fece, vedendo poi l’uomo affacciarsi dal cofano e osservarla attentamente. La ragazza avvampò immediatamente.
- Oh, boh. Tu intanto vai a fittare una bicicletta. Da Clelio. Vedi, c’è scritto ovunque, sull’insegna, Clelio, Clelio, Clelio, Clelio, Clelio, Clelio. Io intanto chiamo mio nipote. Volerà rapidamente fin qui e… oh, ma che sciocco... forse potreste volare sui suoi Pokémon.
Whiteley lo guardò torvo. Aveva paura di cadere dall’aereo, con le cinture e tutto il resto. Volare su di un Pokémon l’avrebbe portata nel primo reparto di terapia intensiva disponibile.
- Ehm... Ha detto Clelio? Si chiama proprio così?
- Ma se volaste non avresti bisogno della bicicletta.
- Io non volo sui Pokémon, signor tassista! – aveva ribattuto quella, leggermente inacidita.

Mezz’ora dopo era ritornata, spingendo una bicicletta che sapeva non riuscire a portare bene.
Il tassista era poggiato alla portiera, proprio accanto a un grande Altaria dal piumaggio voluminoso e a un ragazzo della sua età, dall’insolita capigliatura verde, arruffata sulla fronte, dal corpo sottile avvolto in una camicia bianca. La guardò e le sorrise.
- È lei? – chiese poi il giovane al tassista, che annuì.
- Non so come si chiami, mai puoi sempre presentarti e te lo dirà lei... – aveva detto quello, poggiato al portabagagli dell’auto, mentre prendeva un tiro dalla sua Winston.
- Sono Whiteley... – ribatté l’altra, stringendo la mano a entrambi.
- Non sembri vestita in maniera adatta per la bicicletta. – aveva detto Lino
Quella sorrise, mostrando il caschetto giallo che aveva avuto in dotazione. – L’importante è avere questo, no?
- Ti si vedranno tutte le gioie, con quella gonna, tesoro, Lino ha ragione. – ribatté il più grande.
- Lino sono io.
- Sì, avevo capito. Ma non salirò mai su questo... coso...
Altaria si voltò verso di lei.
- In realtà è molto dolce. Non ci farà del male... – ribatté il ragazzo.
- Ma non lo metto in dubbio! È che ho paura dell’altezza.
Poi sentì vibrare il cellulare nella borsetta. Lo prese.
 

INCOMING CALL

WHITE PRESIDENTESSA


ACCEPT                       DECLINE


- Oh, fantastico...
Si voltò, facendo qualche passo per allontanarsi.
- Pronto. Presidentessa?
Hoenn, Ceneride

Le pale dell’elicottero ormai non roteavano più. White si allontanava dall’eliporto battendo i tacchi sulla superficie liscia della piattaforma in cima al più alto edificio di tutta l’isola di Ceneride.
Dovette ammettere a se stessa che la visuale da lì fosse davvero suggestiva.
Le sembrava uno di quei luoghi che aveva visto durante uno dei suoi viaggi in Europa, come Santorini o Panarea, con tutte quelle casette di roccia bianca che spuntavano come funghi dalle terrazzate, posizionate come anelli di un’arena dove la Palestra di Adriano faceva da parterre e la baia d’acqua splendente era palco e protagonista della scena. Lei si mosse fino ai bordi della piattaforma, rimanendo a un metro dallo strapiombo, e assaggiò il vento marino, carico di salsedine, che le soffiava tra i capelli.
- Whiteley. Io sono appena atterrata. Sei arrivata ad Albanova?
- No, Presidentessa. A dire il vero ho avuto un paio di problemi.
- Che tipo di problemi? – chiese quella, aggrottando la fronte e portando la mano con la borsa al fianco.
- Nessuno ci aveva avvertite che oggi, a Porto Selcepoli, vi fosse un’esibizione di Orthilla... i taxi sono tutti bloccati lì, per la tratta e l’unico che ero riuscito a prendere ha problemi col motorino d’avviamento, credo.
White portò la mano alla fronte.
- Non c’è un singolo taxi in tutta Ciclamipoli?
- A quanto pare no.
- Ti rendi conto dell’incredibile puttanata che sto ascoltando, Whiteley? Tu dovevi soltanto raggiungere lo stazionamento dei pullman e andare ad Albanova.
- ... per cui ci vorrebbero circa sette ore, Presidentessa... ecco perché ho fittato una bicicletta, in modo da raggiungere Porto Selcepoli e navigare su di un Pokémon per trovarmi direttamente a Solarosa.
- ...
- Presidentessa?
- Tu sai andare in bicicletta?
- Sì, Presidentessa. Più o meno.
- Con quella gonna?
- Ho anche il caschetto.
- Bah... – sbuffò l’altra, allontanando quei pensieri con un movimento della mano. – Non m’importa come tu ci riesca, basta che porti a casa il risultato. Cerca di non farti male. Da adesso in poi non sarò più reperibile.
- Senz’altro, Presidentessa. Stia attenta.
- Nata attenta, io... – fece, per poi chiudere la conversazione e gettare il Blackberry sul fondo della sua Birkin di Hermes Si voltò e seguì il pilota dell’elicottero, scendendo delle scalette esterne d’acciaio bugnato per poi ritrovarsi sulla terrazza più alta di Ceneride. Non aveva appuntamento con Adriano, pertanto sapeva che il suo raid alla Palestra avrebbe potuto ottenere l’effetto opposto.
Puntellava i tacchi delle Loboutin sulle mattonelle di pietra, e non scivolava perché aveva imparato a guidare quelle trappole anche su di una lastra di ghiaccio, ma rimpiangeva i giorni in cui indossava le Converse con disinvoltura; purtroppo il suo lavoro consisteva anche nell’apparire, e lei non avrebbe dato troppo valore a chi si sarebbe presentato da lei con un progetto e delle Converse al piede. Impiegò circa mezz’ora di cammino verso la parte bassa dell’isola, e ci arrivò sudata e coi piedi doloranti, ma entrò in un Centro Pokémon e si diede una rinfrescata, per poi uscire con un paio di Chanel dalle lenti scure sul naso e un Lavottino tra le mani; lo addentò rapida, si ripromise di comprarne un altro prima di partire e si presentò davanti alla porta della Palestra di Adriano. Quella si spalancò silenziosa, e un soffio d’aria gelida le raggiunse il volto, mitigando l’effetto di quel caldo umido che le aveva arrossato le gote.
All’ingresso vi era ragazza molto bella, dai lunghi capelli biondi e il sorriso di chi doveva mostrare gli incisivi per lavoro. Era seduta dietro a una scrivania con su scritto ACCETTAZIONE, e salutò White con un cenno della testa.
- Salve, benvenuta alla Palestra di Ceneride, dove potrà sfidare il grande Adriano.
- Il grande Adriano... – ripeté White, tra i denti. – Salve.
- È qui per la medaglia? Dovrà compilare questi moduli... – disse, indicandoli con la punta della Parker nera che teneva tra le mani.
- No, in realtà sono qui per affari di altra natura, ho bisogno di parlare con Adriano.
La donna batté le palpebre un paio di volte e annuì. Abbassò poi gli occhi sulla lista che aveva davanti e inclinò la testa, mostrando un orecchio pieno di piercing.
- Dovrà attendere un bel po’, allora. Oggi l’agenda è abbastanza fitta, e Adriano dovrà lottare contro diversi avversari.
White odiava aspettare, ma era a Hoenn apposta, pertanto rimase in silenzio.
- Beh, avrò tempo per sistemare delle cosucce.
- Se vuole, può seguirmi nella sala con vista sull’arena.
- Come le pare.
La bionda annuì, un po’ infastidita dall’ultima risposta, e si alzò in piedi.
- Da questa parte, prego.
Le fece strada attraverso quei corridoi che odoravano di pulito, coi pavimenti lucidi di marmo intarsiati con lunghe strisce d’ottone, che ricreavano ghirigori arzigogolati, e intanto la segretaria si muoveva proprio come avrebbe fatto una modella, mettendo un passo davanti all’altro e ondeggiando sinuosamente col bacino.
White notò quella cosa e ne rimase piacevolmente sorpresa. Le fu fatto strada sulla destra, dove una sala con una ventina di comode poltroncine in pelle dava direttamente sull’arena. Adriano era in piedi su di una piattaforma d’acciaio azzurra, mentre l’avversario si trovava molto più in basso, quasi a livello dei Pokémon che lottavano.
- Si può accomodare. – aveva detto la donna. – Mi occuperò personalmente di riferire al signor Adriano della sua presenza. Può già anticiparmi i motivi della sua visita?
- Lavoro. Motivi di lavoro.
- Benissimo. Le auguro buona permanenza.
White annuì, quindi le fece un cenno con la mano, poggiò su di una delle poltroncine dall’alto schienale la borsa e si sedette su quella accanto, sprofondandovi e sospirando.
- Aspettiamo...
Hoenn, cielo di Hoenn

In quei cinque minuti, Whiteley aveva rivalutato diverse cose:
  1. Non credeva che le piume di Altaria fossero così morbide.
  2. Non credeva neppure che riuscisse a volare così velocemente, o così in alto.
  3. Non credeva di riuscire a urlare così forte.
  4. Non credeva di riuscire a stringere il petto di Lino con così tanto vigore.

- TI PREGO! TI PREGO! SCENDIAMO! TI PREGO!
Lino era piegato in basso, stringeva le dita nel piumaggio del suo Pokémon e sentiva solo la metà delle parole della ragazza, le cui braccia gli cingevano il petto. Non sapeva come, ma era riuscito a convincerla a evitare la bicicletta e la pista ciclabile, e in quel modo sarebbero arrivati praticamente subito. Tutt’intorno non c’era altro che una cupola blu, molto profonda, che si poggiava sulle loro teste. Al di sotto invece il mare di nuvole, vaporose come le ali di Altaria, si stagliava immobile e placido, rendendo quella traversata ancora più piacevole.
Dal suo canto, ovviamente. Whiteley, alle sue spalle, piangeva terrorizzata.
- TI PREGO! HO PAURA!
- VA BENE! – aveva urlato. – NON APPENA SUPEREREMO QUESTE NUVOLE ANDREMO PIÙ IN BASSO! MA NON AVERE PAURA! NESSUNO È MAI CADUTO DA ALTARIA!
- A ME NON INTERESSANO LE TUE STATISTICHE! VOGLIO SOLO TORNARE A CAMMINARE SULLA TERRAFERMA!

Pochi minuti dopo si ritrovarono diversi metri sopra i tetti di Solarosa. Avevano rallentato e anche il sibilo nelle orecchie, dovuto all’alta velocità che prima avevano sostenuto, era svanito.
- Ora calmati... – aveva sorriso Lino. – Andrà tutto bene...
- So che andrà tutto bene, è che ho paura dell’altezza! – aveva ribattuto quella, coi lunghi capelli ormai sciolti che ondeggiavano al vento.
- Hai detto che vieni da Austropoli, giusto? – chiese quello, voltandosi giusto un po’, per guardare i penetranti occhi blu che le accendevano il viso. - Ho sempre voluto visitare Unima, da ragazzino... poi, ho scoperto che un biglietto aereo costa tantissimo... – ridacchiò.
- Sì. Nata e vissuta lì.
- I palazzi sono alti ad Austropoli, vero?
- Sì. – aveva annuito l’altra, cosciente del fatto che l’altro non avrebbe potuto vederla.
- E come mai vai ad Albanova? È un paesino davvero piccolo.
Quella abbassò gli occhi, vedendo i piedi penzolare dal dorso del Pokémon.
- Cerco una persona. Anzi, magari la conosci. Ruby Normanson.
Lino s’irrigidì. La stessa Whiteley sentì una vibrazione attraversare il corpo del ragazzo.
- Certo che lo conosco. Qui tutti conoscono Ruby. È una vera e propria star. Anche se è da un bel po’ che non si fa vivo.
- Era il mio capo... – ribatté l’altra, con un filo di voce. – E ha lasciato l’atelier prima di un importante evento. Devo trovarlo, o perlomeno sincerarmi che non si trovi qui ad Albanova.
- Secondo me non lo troverai, ad Albanova. – ribatté l’altro.
La sua voce fu così fredda e rapida da giungere alle orecchie della giovane come una sentenza.
- Perché... perché dici così?
- Perché ad Albanova vive la famiglia di Sapphire. Ciò che ha fatto con lei... beh, non... non è bello.
Whiteley avrebbe voluto guardarlo negli occhi, in quel momento, e invece doveva accontentarsi soltanto della sua nuca.
- In realtà la storia è molto più lunga e complicata di quello che credi.
- Io sono cresciuto con Ruby... – ridacchiò quello, col vento che gli spingeva i capelli indietro. – Lo conobbi nel peggior periodo della mia vita, credo. La mia asma aveva reso impossibile praticamente i primi quindici anni della mia vita, e ho vissuto in una bolla di vetro fino a quel momento. I miei genitori erano davvero molto apprensivi, e Ruby, e anche suo padre, Norman, mi hanno... mi hanno sempre stimolato a spingermi oltre. Sapphire entrò nella sua vita quasi contemporaneamente a quando lo feci io... sembravano dovessero finire la propria vita assieme, mano nella mano, l’una con l’altro.
Whiteley si limitò ad annuire, ma sapeva che certe volte le differenze non le si superava con così tanta semplicità. Forse era l’amore, all’inizio, a mitigare le acque di due fiumi che s’incontravano a metà strada.
Ma poi, c’era poco da fare, uno sarebbe stato più impetuoso e avrebbe finito per soffocare l’altro. L’amore non bastava mai; bisognava assomigliarsi.
- Erano diversi, loro due.
- Ma gli opposti si attraggono. – ribatté prontamente l’altro.
- Gli opposti si sopportano. No, lasciamo perdere questo discorso, non conosco troppo bene Sapphire per parlare... – disse l’altra, dimenticando quasi totalmente di essere a più di cinquanta metri dalla terraferma. – Però posso dirti che l’intesa che aveva Yvonne è rara da trovare...
- A me sembra solamente la donna più bella del mondo, lei. Non la conosco, ma avrà i problemi che hanno le donne come lei. Non è una donna vera come Sapphire...
- È una donna più vera di ciò che pensi... Ruby è sparito e ha fatto soffrire anche lei.
E pochi secondi dopo Albanova era davanti ai loro occhi.
Hoenn, Ceneride, Palestra di Adriano

Adriano aveva già sconfitto un paio di avversari da quando White si era seduta sulle comode poltroncine nella sala d’aspetto della Palestra. Aveva passato, la Presidentessa, diversi minuti a fissarsi le unghie delle mani, prima di ricordarsi di controllare le mail per la sesta volta. Aveva rinviato l’appuntamento con la commissione per l’approvazione del bilancio dell’agenzia, quindi aveva deciso di lasciarsi tentare e di aprire la notifica di WhatsApp che aveva ignorato per oltre dodici ore.



avvertimi quando atterri
02.15


sei arrivata? non farmi preoccupare
06.58

per favore metti da parte le armi, sono spaventato
07.42

WHITE
TI PREGO.
10.16
 

Delle volte si chiedeva perché si comportasse in quel modo, lei. Non c’era un motivo ben preciso per cui sostenesse quelle prove di forza con l’uomo che amava, fatto stava che le vinceva sempre. E la cosa la inorgogliva, la faceva sentire la più forte dei due.
Ma aveva paura.
Sì, perché si figurava la scena in cui lei gli sbatteva la porta in faccia mille volte, e all’improvviso, riaprendola, lui non si facesse più trovare lì davanti.
Il perché, lei lo sapeva.
Quante volte avrebbe dovuto accettare di stare con una persona che non sentiva ragioni?
Lei era una donna con carattere; ne aveva tanto fino a riempirla, e Black, credeva, era innamorato proprio di quel suo lato ingestibile, perché la prendeva come una sfida, come un cavallo pazzo da domare.

Oppure no?

Non lo sapeva più.
Guardava il Blackberry e si chiedeva per quanto tempo quell’uomo, che amava, che amava tanto, avrebbe potuto giustificare i suoi difetti di fabbrica dando per assodato che lei fosse fatta in quel modo, che avesse un bel caratterino e che non fosse gestibile ai più.
Pensò che fosse folle, la quantità di pazienza che delle volte le persone hanno, quando sono innamorate di qualcuno. Perché, e lo avrebbe sottoscritto più e più volte, ove mai si fosse ritrovata davanti a una persona come lei, non avrebbe impiegato neppure due minuti prima di mostrargli la porta.
Rileggeva quei tre messaggi, in cui lui metteva a nudo una fragilità che, durante la lite che avevano avuto, non credeva potesse avere, e che forse lei non avrebbe mai mostrato.
Non ci sarebbe mai riuscita, lei, a mostrare il fianco in quel modo, a mostrarsi debole.
E poi, l’illuminazione: Black doveva essere il suo porto felice. Il cantuccio caldo durante le giornate di neve, il riparo dalla pioggia. Un luogo dove non era la Presidentessa ma una donna, speciale e unica come tutte le altre, ma un po’ di più, perché a tenerle riservato il posto c’era il suo uomo.
Con lui non avrebbe dovuto mostrarsi forte a tutti i costi, e cedere qualche volta, quando c’era un alterco, forse avrebbe rimpolpato un po’ il morale. Black aveva rinunciato a tanto, per lei, e lei non era neppure in grado di mandarle un messaggio con su scritto sono arrivata, sto bene, ci sentiamo dopo senza sentirsi sconfitta con se stessa.
Donna potente, sola contro il mondo. Ma non era vero.
White non era sola contro il mondo, e la fede che le brillava al dito lo dimostrava.
Abbassò lo sguardo, sospirò e strinse i denti.
- Dannato Black...


White
TI PREGO.
10.16
Sono atterrata un paio di ore fa.
13.10

Ho perso letteralmente la cognizione del tempo,
mi spiace molto. Sono in Palestra da Adriano
e forse ho risolto il mio problema con l’Atelier.
13.11

Magari sarebbe bastato scrivergli, per mettere un punto a quella tiritera.
Affondò lentamente nella poltroncina, stringendo il palmare tra le mani e guardando la vetrata di fronte a lui come se non fosse trasparente, come se oltre non vi fossero due persone intente a lottare. Non le interessavano quelle cose.
Non le interessavano tantissime cose.
Però non demordeva.
Mantenne la classe e l’eleganza, si risistemò, accavallò le gambe come avrebbe fatto una signora che si rispettasse e poi decise di andare in bagno a controllare il cerotto alla nicotina, perché ormai non faceva più effetto e aveva una voglia tremenda di prendere una sigaretta e masticarla. Lo avrebbe fatto lì ma c’erano troppe telecamere, e a differenza dei passeggeri dell’aereo, di Adriano le importava l’opinione. Raccolse quindi la borsa, si alzò in piedi e tornò nel corridoio, guardando a destra e a sinistra; la segretaria batteva freneticamente qualcosa al computer, come una stenografa professionista, mentre la luce che entrava dalla grande vetrata che aveva alla sua destra inondava quasi tutto l’ambiente.
- Mi scusi. – la chiamò White, avvicinandosi poi lentamente. Quella smise di scrivere e girò la testa verso di lei. I tacchi della Presidentessa batterono rumorosi sui pavimenti di marmo.
- Prego?
- Mi può indicare il bagno?
Il cellulare vibrò nella borsa, lei lo sentì e attese che quella annuisse e si alzasse in piedi. Alzò il lungo braccio e indicò dritto.
- È l’ultima porta. Sulla destra.
- La ringrazio.
Quando la raggiunse, aprì la porta e la luce si accese in automatico. Tanto cristallo, tanto acciaio, pavimenti bianchi, luci fredde. Il lavandino usciva direttamente dalla pietra viva in cui la Palestra era stata scavata.
Quel luogo odorava di pulito. Sbuffò, la donna, si chiese per quanto tempo ancora avrebbe dovuto aspettare che il suo appuntamento avvenisse, poi levò la giacca del tailleur, sbottonò la camicetta e mostrò allo specchio il reggiseno di pizzo bianco. Guardò il neo che aveva sul seno, pensò che fosse lo stesso che aveva lì sua madre, e quindi staccò il cerotto che aveva sul braccio, lo gettò e poi ne prese uno nuovo dalla borsa.
- Che, secondo me, non funzionano neanche... – aveva sussurrato, tra sé e sé.
Un minuto dopo era di nuovo vestita, con la nicotina che lentamente veniva rilasciata nel suo corpo e quella sensazione di mancanza di ossigeno che diventava sempre minore.
- Black... – sussurrò poi, prendendo il cellulare. Sbloccò lo schermo e cliccò sulla notifica in alto.
Ho perso letteralmente la cognizione del tempo,
mi spiace molto. Sono in Palestra da Adriano
e forse ho risolto il mio problema con l’Atelier.
13.11
 
Ok.
13.16
 
Freddo.
Glaciale.
Come non era mai stato.

Ok.
13.16
 

Ripeto, mi spiace molto. Un po’ per tutto, non
volevo litigare con te... tu sei importante per
me e certe volte sono una persona davvero
ingestibile. Quando torniamo andiamo a
farci un viaggetto solo io e te. Promesso.
13.21
 
Era stata conciliante.
Sapeva che forse era l’atteggiamento che avrebbe dovuto avere dall’inizio, ma meglio rendersi conto di aver commesso un errore che non rendersene conto affatto. Pensò che non aveva mai avuto tanta paura come in quel momento di rimanere da sola.
Forse perché non aveva mai visto Black così distaccato.
Aspettò per qualche minuto che quello rispondesse al messaggio con un Va bene, oppure con qualche frase un po’ più lunga che avrebbe portato al disgelo, ma invano.
Fece prima Adriano, che agile scese dalla sua piattaforma, mantello al seguito. Non le sembrava così alto, in fotografia. Lo vide avvicinarsi con passi decisi allo sfidante, una ragazzina minuta dalla pelle scura e dalla folta chioma afro, le consegnò tra le mani una medaglia e le sorrise con una grazia che aveva visto poche volte in un uomo. Non sentì le parole che scambiò con quell’altra, ma lei parve apprezzare molto ciò che le fu detto, quindi lui le sorrise nuovamente e la vide andare via. Sul suo viso si stampò un’espressione granitica, giusto per un secondo, prima che la bella segretaria coi piercing all’orecchio aprisse la porta dell’arena e indicasse in direzione della sala dove proprio White lo stava aspettando.
Si alzò in piedi, lei, guardando annuire prima Adriano e poi la ragazza, che si congedò e sculettò fuori. Adriano sembrò un attimo spiazzato; guardò in direzione di White, distante e senza poterla vedere, spostò lentamente il volto verso la piscina in cui i Pokémon acquatici avevano lottato e solo infine seguì la segretaria.
White non pensava più a Black; indossò nuovamente l’armatura scintillante e mai scalfita della Presidentessa e vi nascose all’interno il corpo infragilito dalle paure, poi incrociò le braccia sotto al seno, pronta, non appena sentì il rumore di tacchi rimbombare nel corridoio all’esterno della sala, a incontrare lo sguardo della donna alla reception. Quella sorrise cordialmente e lisciò una ciocca di capelli sulla spalla.
- Il Signor Adriano la sta aspettando. Mi segua.
White si limitò ad annuire in silenzio e a camminare alle sue spalle, seguendola lungo lo stesso tragitto che aveva percorso per recarsi in bagno, ma fermandosi qualche stanza prima.
La porta con su scritto UFFICIO era più alta delle altre, ma nello stesso stile, di quel legno scuro e massiccio che aveva visto anche nella sala con le poltroncine. La bionda bussò, poi infilò la testa nella stanza e dopo poco uscì, con indosso il suo sorriso cordiale.
- Il signor Adriano la sta aspettando. Posso portarle qualcosa?
 

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Capitolo 8
*** Chapter 8 ***


Against Me

Quando tutto cade.

 
 

 

 
 
Hoenn, Ceneride,20 giugno 20X1


Quando la segretaria entrò nell’ufficio di Adriano, un aroma intenso di caffè si espanse ovunque. La stanza dove il Capopalestra gestiva la parte documentale della propria attività era arredata in stile minimale: non c’erano molti elementi colorati, poco si allontanava dall’abbinamento acciaio/nero, se non i cuscini del divanetto, celesti come il tappeto, come il lampadario e come gli occhi dell’uomo seduto oltre la scrivana, di freddo e lucido metallo grigio. Una cascata sgorgava dalla parete alla sua destra, rinchiusa in una teca di cristallo grande quanto un armadio di un paio di ante.
- Grazie, Jessica. – fece lui, indossando un sorriso genuino e riconoscente. Quella annuì.
- Sono entrambi amari. – ribatté, poggiando due tazzine di porcellana bianca e due piattini del medesimo colore tra i due. White rimase immobile, guardando l’espresso che fumava davanti ai suoi occhi.
- Puoi andare.
La segretaria sorrise cordiale s’incamminò verso l’uscita, lasciandoli da soli.
Adriano mantenne sul volto l’espressione gioviale. Pareva rilassato.
- Lo prendo amaro, io. – disse. – Lei gradisce dello zucchero?
- No. Mi va bene così.
- Perfetto.
Il bell’uomo allora tirò a sé la tazzina. Guardava il piattino, non si accorgeva degli occhi della donna che lo scrutavano, che notavano come fosse perfettamente rasato in viso. La pelle candida di Adriano pareva riflettere la luce emessa dai meravigliosi lampadari di vetro di Murano e i suoi capelli, pettinati ordinatamente, toccavano quell’insolita tonalità verde acqua ed erano acconciati in modo che un paio di ciuffi, più lunghi del resto della pettinatura, gli cadessero davanti agli occhi, dandogli un’aria più misteriosa. Pareva molto a suo agio, lì dentro, mentre girava il caffè col cucchiaino che entrambi avevano accanto alla tazza.
- Non lasci che si posi. L’espresso italiano è diverso dai caffè a cui siamo abituati noi.
White sorrise, sistemandosi meglio sulla sedia e accavallando la gamba destra.
- Infatti mi aspettavo il bicchiere da un litro di Starbucks, quando mi ha parlato di caffè.
Adriano fece un cenno con la testa, come a dire che possiamo farci, poi poggiò il cucchiaino e avvicinò la tazzina alle labbra. White cominciò a girare il suo, concentrata, quindi percepì l’altro sospirare e alzare gli occhi al cielo, sorridente.
- Lo amo. Amo il caffè. Ha un sapore così forte e pungente...
Riavvicinò la tazzina alla bocca, ingoiò l’ultimo sorso e posò tutto sul piattino. Inalò il profumo aromatico rimasto nell’aria e rimase in silenzio. Guardò l’altra fare altrettanto, trattenere la smorfia di disgusto, stringendo giusto un attimo gli occhi.
L’uomo sorrise.
-Le prime volte è così, poi lo apprezzerà.
La donna sorrise cordiale poi fece spallucce, appoggiandosi allo schienale della poltroncina. Adriano fece lo stesso, quindi incrociò le mani sul ginocchio in alto.
- Allora… a cosa devo la sua splendida presenza?
White non arrossì né sussultò, annuì e rimase a fissarlo negli occhi. Lo scroscio della cascata alla sua sinistra continuava imperterrito, riempiendo gli spazi creati dal silenzio che i due tessevano. Adriano la fissava incuriosito, lei rimaneva solida e concentrata.
- Marilyn Monroe lavorava in fabbrica, prima di diventare una stella. In realtà non si chiamava neppure Marilyn Monroe…
Adriano annuì.
- Lo sapevo.
White sorrise leggermente, trapassando con lo sguardo gli occhi dell’uomo e andando oltre, come se sul muro alle sue spalle stessero proiettando Casablanca e lei non l’avesse mai visto.
- Quella donna si è rivelata essere una delle figure più iconiche della cultura popolare. Al pari di… Babbo Natale… - ridacchiò, poi batté leggermente le palpebre e infine sospirò. – Tre mariti, tredici film, migliaia d’interviste, una vita piena d’amore, dato e ricevuto. Mani strette, persone incontrate, gioie, dolori… Tanto bene… tanto male.
- La vita di una star.
- Era la regina di un’epoca d’oro
Adriano alzò gli occhi verso l’alto, portando la mano al mento e carezzandolo con delicatezza.
- Avrei voluto assaggiare un po’ degli anni cinquanta, sa’? – fece. - Doveva essere strano, nel dopoguerra, ergersi come modello per tutte le giovani donne. Ed era anche l’oggetto del desiderio di ogni uomo. Tutti volevano un pezzo di Marilyn… - sorrise. La mano si staccò dal mento e salì verso i capelli lucidi. White si accorse che sulle dita da pianista dell’uomo mancasse la fede nuziale.
- Nonostante tutto, non è stata una vita semplice, la sua… - riprese la donna. Vide Adriano annuire e inarcare le spalle.
- Certo. Ma credo che l’avrebbe preferita mille volte rispetto a ciò che le sarebbe spettato: neppure settant’anni fa, una donna bella come lei avrebbe dovuto lavorare in una fabbrica. Né sposare un uomo anonimo. Non sarebbe stata giusta, la sua esistenza, se fosse morta nell’anonimato. In ogni caso… - ridacchiò, portando nuovamente una mano tra i capelli. – Credo di aver già capito per quale motivo lei è venuta qui da me fin da Unima… – ribatté, inclinando leggermente la testa.
White sorrise, sorpresa, e inarcò il sopracciglio destro. - Ah sì?
- Ovvio... Come se fosse la prima volta che qualcuno interessato al talento di mia nipote si presenti qui davanti a me …
White non lasciò passare neppure un secondo, da quella frase.
- Prego?
Adriano la guardò con sufficienza.
- Sì, Orthilla. Mia nipote.
Quella non poté nascondere il sorriso che conquistò metà delle sue labbra, su cui il suo nude Lancôme aveva già fatto un giro. Si limitò ad abbassare lo sguardo, inclinando leggermente la testa.
- Forse avrei dovuto fare meglio i compiti a casa...
Adriano s’accigliò; la sua espressione si appuntì a tal punto da rendere solido e roccioso quel viso, generalmente armonioso.
- Non è qui per mia nipote? – chiese.
L’altra fece rapida cenno di no e vide Adriano sistemarsi meglio sulla poltroncina, con un grosso punto interrogativo stampato sul volto.
- Uhm. Va bene. E tutto quel discorso su Marilyn Monroe, e la vita differente, a cosa serviva di preciso?
White annuì nuovamente, quasi divertita.
- Sarei potuta entrare qui dicendo piacere, mi chiamo White e rappresento la B&W Agency di Austropoli, ma mi sembrava meno incisivo di un bel discorso sulle prospettive di vita.
- Oh, decisamente... – ridacchiò lui. Lo fece subito dopo pure lei.
- Il fatto è che tutto dipende dai punti di vista. Quando vediamo Marilyn pensiamo alla grandezza di questa donna ma io, che lavoro in questo mondo, vado a guardare anche alla lungimiranza dell’uomo della FOX che un giorno, mentre visitava la fabbrica dove lavorava Norma Jean Baker, ebbe l’audacia di immaginare quell’operaia dal grosso tutone di jeans, il caschetto protettivo e il volto sporco di grasso mentre cantava happy birthday al presidente Kennedy.
Adriano batté gli occhi due volte, poi rimase immobile.
- Io non capisco cosa vuole da me.
- E presto detto: io sono l’uomo della FOX, e di Marilyn Monroe ne ho trovate due, nella mia vita. La prima si chiama Yvonne Gabena, ed è con tutta probabilità la prima donna che Google ti restituirà se gli chiederai di mostrarti una top model. Mentre la mia seconda Marilyn dovrebbe conoscerla abbastanza bene…
L’altro aveva capito. Aveva abbassato gli occhi, poi aveva sussurrato quel nome e quel cognome tra i denti.
- Ruby Normanson…
E lo disse lentamente, come se fosse troppo doloroso pure da pronunciare.
- Ruby. Ruby Normanson. Il talento di quel ragazzo e la sua dedizione mi hanno convinta dalla prima volta che ho visto il suo volto, ad Austropoli.
A quelle parole, Adriano sorrise dolcemente. Alzò gli occhi e guardò la donna elegante seduta davanti a lui.
- Come andò?
- Aveva ancora la valigia con sé… - rispose White, fissandolo seria. – Entrò nel mio ufficio trascinando un grande trolley e si guardava attorno come se fosse appena entrato nel paese dei balocchi.
Adriano rise, accoratamente, forse in maniera esagerata considerata la serietà dell’altra.
- Già… tipico di Ruby. Non sognava altro che scappare da questo posto.
- Beh, Unima è molto differente da Hoenn…
- Comprensibile. Continui.
- Mentii, la prima volta che lo vidi. Gli feci credere di aver seguito per diverso tempo i suoi lavori, mentre in realtà lo avevo visto soltanto una volta, in televisione, alle quattro del mattino, su uno di quei canali di moda che propongono sfilate da ogni parte del mondo… avevo notato un bellissimo abito bianco indossato da una ragazza molto giovane, dagli occhi blu e i capelli lunghi. E Ruby, alla fine della sfilata, è uscito fuori e si è preso gli applausi delle poche persone che stavano in sala… ricordo che rimasi impressionata dall’abito, e anche dalla modella, anche se era decisamente un po’ troppo esile… aveva… sì, questi capelli azzurri, un po’ come i suoi
Adriano la guardò per un secondo di troppo, con le sopracciglia inarcate e un leggero sorriso sul volto.
- Sto parlando di sua nipote, vero? – fece, prima di ridere divertita. – Ma certo che sto parlando di sua nipote...
- Sì, parla di lei. Orthilla.
- Complimenti, allora. Noto la somiglianza, già che me lo fa notare…
- Mi assomiglia, è vero. Ma continui, stava parlando di Ruby.
White sentì il cellulare vibrare nella sua borsetta ma si guardò bene dal prenderlo. Lasciò sedimentare le parole dell’uomo e dopo un secondo di troppo rispose.
- Sì, dicevo, Ruby fu comunque una scommessa: ho finanziato il suo lavoro, ho preso i suoi vestiti e li ho fatti indossare alle mie modelle, e non ho investito il patrimonio dell’azienda ma il mio, quello personale, perché ho visto nei suoi occhi qualcosa di cui mi sono accorta poche volte.
Adriano rimase serio.
- A cosa si riferisce, di preciso?
L’altra sentì forte la voglia di alcool premerle sotto la lingua. Sospirò, ripetendosi che avrebbe dovuto mantenere la lucidità. Annuì di nuovo, abbassò lo sguardo e fissò per un secondo le sue mani, giunte sulle ginocchia. Come potevano quei pensieri bussare alle sue porte in momenti del genere? Sbuffò e a poi resettò tutto, imponendosi la concentrazione che quella situazione meritava. Si rifocalizzò, guardò Adriano e si umettò le labbra con la lingua.
- Beh, parlo della delicatezza della sua passione… A prescindere dalla sua determinazione, nei suoi occhi non c’è mai stata rabbia, né paura, né risentimento. Non ha mai fatto ciò che doveva fare con lo spirito di rivalsa… Ruby non ha mai odiato nessuno.
Adriano rimase colpito piacevolmente da quell’affermazione e si dipinse un delicato sorriso sul volto, ricco di fierezza.
- Non è cambiato, allora…
- Disegna e cuce i suoi vestiti con l’amore di chi crea qualcosa di meraviglioso. Ruby ama ciò che fa... Il fatto è che ora non lo fa più.
Adriano batté le palpebre due volte, poi il suo sorriso sfiorì, lasciandogli un’espressione seria e spigolosa.
- Non mi sta portando brutte notizie, vero?
- Assolutamente no. – ribatté White. Poi abbassò lo sguardo e sospirò. – Sta bene. Credo, almeno.
- Ma…
- Sono qui per parlare di affari, e lo faccio con la persona che più ha influenzato Ruby Normanson negli scorsi quindici anni.
L’altro la guardava in attesa, senza riuscire effettivamente a capire dove volesse andare a parare. In cuor suo viveva ancora la paura che Ruby stesse male, e il timore che quella donna potesse dirgli qualcosa di terribile lo stava spezzando dentro. Però rimase calmo e composto, batté lentamente le palpebre e cercò di tirare dentro ai polmoni aria buona, viziata dall’odore del caffè che ancora aleggiava nella stanza.
- Quindi Ruby sta bene.
- Ecco, questo non lo so. Ruby ha, per motivi che non vengo adesso a spiegarle, abbandonato l’Atelier e la cosa mi andrebbe anche bene se non fosse per questo…
Abbassò poi la testa e infilò la mano nella Birkin. Qualche secondo dopo tirò fuori dalla borsa la foto di Sabrina, la Capopalestra di Zafferanopoli, e la poggiò sul tavolo.
Adriano la raccolse e la guardò.
- Meravigliosa, lei… - poi alzò gli occhi. – Quindi?
White ridacchiò elegantemente, estraendo in secondo luogo un piccolo modello 3D della donna, in tutto e per tutto assomigliante alla donna, star del Pokéwood. Era perfetta in ogni minimo dettaglio, dalle forme del suo corpo al colore degli occhi e dei capelli.
Adriano la fissò, confuso.
- Sabrina. – ribatté l’altra.
- No, questo è chiaro. Ha appena recitato in quel film con Silvestro, non ricordo come si chiama…
- Non ne ho idea ma Ruby doveva vestirla e questa cosa non è possibile dal momento in cui Ruby non è in Atelier.
Adriano la guardò confuso e White cominciò a sentire delle vibrazioni nello stomaco, figlie della smania di concludere, di vincere e cannibalizzare, di stringergli la mano col risultato in tasca e uscire da quel posto, salire sull’aereo fresco d’aria condizionata e lasciare Hoenn e il suo caldo umido, che ancora si stava sorprendendo di come i capelli non le si fossero increspati. Voleva tornare a tutti i costi a casa da suo marito, urlargli che lo amava con tutta se stessa e che era stata una stronza insensibile, spogliarlo e conservare un po’ di lui per qualche minuto.
Ma rimase immobile.
Schiuse le labbra, che risposero con un lieve schiocco.
- Sto cercando di cambiare le cose da Ruby avrebbe dovuto vestirla a l’Atelier Automne la vestirà.
Adriano rimase immobile. Spostò lo sguardo lentamente sulla statuina e la prese tra le mani.
- E lei vorrebbe che io disegni i vestiti di Sabrina? – domandò, con un filo di voce.
- No.
L’uomo continuava a fissare la statuina, poi sorrise, tradendo il suo spaesamento.
- Cosa vuole da me, allora?
Voglio che lei mi aiuti a scegliere tra gli abiti di Ruby, quelli che ha disegnato lui, dal suo grande librone. Si trasferirà ad Austropoli, le fornirò un meraviglioso appartamento e la coprirò di soldi…
E fu lì che l’uomo si alzò in piedi, caricando i polmoni d’aria e lasciando che rinfrescassero un po’ i suoi pensieri dall’interno. Si voltò, dando le spalle a White, che rimaneva immobile, con le gambe accavallate. Adriano guardava la cascata alla sua sinistra, in silenzio, aspettando che le parole della donna si sedimentassero.
- Le dico di no, White.
Si voltò e la guardò. Era fredda, immobile, glaciale. Annuiva, senza mai mostrare il minimo sussulto.
- Mi dia un motivo.
- Gliene posso dare almeno tre. Il primo è la mia responsabilità qui, a Ceneride: io sono il Capopalestra di questa città e sono legato a questi posti e a queste tradizioni. Anche mia nipote conta su di me per la sua carriera e non potrei mai andare via lasciandola qui da sola… non ha neppure vent’anni e la sua attitudine a fare stupidaggini è preoccupante…
Risero entrambi sommessamente.
- È molto giovane.
- E molto bella. E insieme, queste due cose sono un problema.
- Io però so che il suo caro amico Rodolfo qualche volta l’ha sostituito, e ciò che le chiedo io non è di trasferirsi in maniera permanente a Unima… - ribatté White. Si alzò in piedi anche lei, poggiando l’Hermes sulla scrivania dell’uomo e gli si avvicinò, lentamente. - Una volta che il lavoro sarà finito e la produzione del film sarà soddisfatta impacchetterà quello che si è portato nelle sue bellissime valigie firmate, pretenderà il bonifico che le spetta e girerà il muso dell’aereo che l’ha portata fin qui. Tornerà alla sua vita.
Adriano la guardava in silenzio.
- Il secondo punto è che io non sono uno stilista. – fece. - Sono sempre stato un Capopalestra e il fatto che abbia fatto da mentore a un ragazzo come Ruby non significa che io abbia le qualità per fare ciò che mi richiede. Non so come trattare con certe personalità…
- Ed ecco che scendo in campo io, che mando a fanculo certe personalità da quasi quindici anni, tutti i giorni.
Adriano annuì, ridacchiando.
- Buono a sapersi.
- E il terzo motivo?
Gli occhi profondi del Capopalestra si poggiarono su di lei.
- Io…
- Lei? Cosa?
- Io non posso fare questo a Ruby. Non voglio che possa pensare che abbia rubato i suoi sogni o che lo abbia in qualche modo… sostituito… Questo è il suo lavoro, il suo Atelier, la sua vita…
- Se permette cominciamo a darci del tu, Adriano.
- Certo.
- Anche perché Ruby ha deciso di mandare a puttane la sua vita già qualche mese fa, buttando al vento tutti i nostri sacrifici, i miei e i suoi, uccidendo i sentimenti di più persone e finendo per perdere se stesso. Ci diamo del tu perché, anche se sono venuta qui a ingaggiarla, oltre a essere un’amica di Ruby io sono anche la sua socia. E so bene quali siano gli sforzi che ha compiuto per arrivare dov’è arrivato… e mi brucia ma…
- Vederlo cadere non dev’essere stato bello…
- Non so come si sia comportato in passato, onestamente, - riprese White, incrociando le braccia sotto al seno. – ma credo che certe occasioni non accadano sempre.
Adriano abbassò lo sguardo.
- Quel ragazzo…
- Quell’uomo. – lo corresse lei.
- Già. Ha combattuto le sue guerre. Non sempre è stato semplice supportarlo, perché è dotato di una... sensibilità, sì, al di fuori dalla norma. Quando era più giovane gli è servita la mia vicinanza per riuscire a mettere ordine nella sua vita... con suo padre, e con Sapphire. Ma non è stato per nulla semplice, anzi...
- Mi posso rendere conto di tutto ciò che dici, Adriano. E lo so, delle volte la vita non è semplice. Ma tu continui a vederlo come un ragazzino indifeso, mentre io lo reputo un uomo dal talento smisurato che non ha più dato sue notizie.
Annuì, lui, guardandola dritta negli occhi. Lasciò lo sguardo su di lei un secondo di troppo, per guardare la linea morbida del suo volto che si scontrava con la serietà della sua espressione, dura come l'acciaio. I suoi occhi, di quell'azzurro profondo e penetrante, erano rimasti fissi su di lui mentre le labbra erano rapprese. Riuscì a comprendere alla perfezione quanto nervosa quella fosse.
- Sono venuta a chiederle aiuto, senza elemosinare nulla.” disse White. “Come già anticipato, sarà ben pagato. Ma venire qui da lei...
- Ci davamo del tu.
- Sì, dicevo... venire da te è stata la decisione più giusta, secondo me, perché io voglio tutelare il suo lavoro e la sua persona.
L'espressione di White mutò all'improvviso, si vestì di confusione e riempì i suoi occhi di spaesamento. Abbassò il volto e guardò altrove, prima di proseguire.
- So che tornerà... E non voglio che quando succederà trovi altre macerie, a ricordargli quanto debole sia stato.
Il tono della sua voce era sceso. Adriano le poggiò una mano sulla spalla, cercando di catturare il suo sguardo.
- White... Capisco ciò che dici. Tieni ai tuoi affari quanto tieni a lui.
Lei rimase in silenzio, tuffandosi nel suo sguardo.
- Lasciami valutare per qualche giorno la situazione. Spediscimi tutto l'incartamento e fammi capire che margini di manovra ci sono per... includere Orthilla in qualcuno dei tuoi progetti... come hai potuto vedere è una ragazza molto talentuosa, bella, e avvezza allo show business... potrebbe essere un'occasione, per lei...
White annuì e sospirò, sentendo le mani che le stringevano lo stomaco rilasciare lentamente la presa.
- Va bene... In giornata arriverà tutto sul tuo indirizzo mail...
Si voltò, poi, tornando alla sua borsetta e estraendo un bigliettino da visita. Lo poggiò sulla sua scrivania. Infilò poi il braccio sinistro nei manici della Birkin e si avvicinò nuovamente all'uomo, tendendogli la mano.
- Spero davvero che tu possa prendere la decisione giusta.
Adriano annuì e la strinse, silenzioso. La vide poi voltarsi e sfilare lentamente verso la porta, prima di fermarsi. Voltò solo parzialmente la testa e lo guardò nuovamente, estraendo gli occhiali da sole dalla borsa.
- Ti chiamerò esattamente tra tre giorni, ma il mio numero è lì, sulla tua scrivania. Grazie per il caffè e complimenti per l'ufficio. Hai buon gusto...
Chiuse la porta alle sue spalle, lo scatto della serratura produsse un rumore meccanico che rimbombò nel lungo corridoio esterno, riempito poi dai tacchi della Presidentessa, che si avvicendavano verso l'uscita.

 
Hoenn, Albanova, 20 giugno 20X1


Atterrarono dolcemente.
Whiteley stringeva vigorosamente il petto ossuto di Lino attraverso la sua camicia di cotone bianco. Le mani della ragazza erano intrecciate con forza e tremavano ancora, nonostante Altaria avesse poggiato per terra le zampe e si fosse accucciato, per permettere ai due di scendere.
Lui si voltò lentamente, che aveva il volto dell'altra a pochi centimetri dall'orecchio.
- Siamo arrivati. Questa... questa è Albanova...
La vide aprire i grandi occhi azzurri, sempre serrati durante la traversata. Percepì il suo respiro, spezzettato e nervoso, mentre lentamente riprendeva confidenza con la terraferma. Allungò un piede e poggiò la ballerina destra sul prato, seguita poi da quella sinistra. Lino l'aiutò a scendere, poi le saltò accanto e sorrise.
- Oggi è una bella giornata. Niente male... generalmente piove.
L’altra non aprì bocca, si limitò a lisciare con le mani la camicetta azzurra e la gonna, che ricordava il colore delle scarpe. Lino la guardava in silenzio.
- Cosa devi fare qui, ad Albanova?
Quella lo guardò e inarcò entrambe le sopracciglia.
- In realtà starei cercando una persona... Non so se la conosci... cioè, la conosci, o meglio, lo conosci, è un uomo.
- Dimmi di chi si tratta e ti risponderò. - rispose l'altro, col solito sorriso cordiale sul volto. Vide poi Whiteley annuire.
- Ruby. Normanson. Ruby Normanson.
Gli occhi verdi di Lino si spalancarono e una maschera di sorpresa gli ricoprì il volto.
- Ruby! Certo che conosco Ruby! La domanda è come lo conosci tu.
Whiteley sorrise, stupita. - Mi stai dicendo che ho chiesto alla prima persona che passava dall'altra parte del mondo se conoscesse Ruby e sono stata fortunata?!
Lino fece spallucce.
- Qui a Hoenn Ruby è una persona nota. È andato spesso in televisione. Ma pochi sanno che lui ha vissuto in questo paesino tra i boschi...
Si guardarono poi intorno: Albanova era composta da un piccolo nucleo di casette, ordinatamente disposte su di una via principale e sulle sue diramazioni. Accanto all'asfalto della strada vi era direttamente il prato, ben curato dalla comunità, che arrivava a perdersi fin dentro ai boschi, che circondavano il paese. Tutte le abitazioni si assomigliavano, sia perché erano tutte rivolte verso sud, sia per il colore dei tetti, le cui tegole erano categoricamente di laterizio rosso.
- Io... - disse poi, a bassa voce, mentre delle nuvole d'ovatta s’accingevano a coprire lente il sole, passeggiando nel cielo.
- Sì? - rispose Lino.
- Devo trovarlo... Devo trovare il signor Ruby.
Quello spalancò gli occhi, poi sorrise incredulo.
- Uao... addirittura il signor Ruby... Ma tu chi sei? - fece poi, incominciando a incamminarsi e facendole un cenno con la testa. Whiteley prese a seguirlo, stringendo i manici della sua shopper di pelle bianca.
- Io sono la sua assistente.
- Assistente? So che è andato a Unima per lavoro ma non so bene di che si occupi...
- Moda. Lavoro in un Atelier, nel suo Atelier. Lo sto cercando, e so che lui è originario di qui, quindi...
- Ottimo. Anche se non è del tutto esatto... - ridacchiò l'altro.
- Come?
- Lui ha vissuto qui, ma non è originario di Albanova.
- Ah no?
L'altro fece segno di no con la testa.
- No. Lui è nato a Johto, a Olivinopoli.
Whiteley impallidì, pensando al fatto che avrebbe potuto doverlo cercare ancora più lontano. E quindi avrebbe dovuto prendere un altro aereo e avrebbe passato altro tempo lontana da casa. Per un attimo ripensò al suo appartamento, caldo in estate e freddo in inverno, alla moquette infeltrita davanti alla porta del bagno e alla macchia d’umidità dovuta alla perdita della doccia della signora Robinson al piano di sopra. Era un appartamento minuscolo, il suo, ma era il suo. Già si vedeva lì, sul divano di pelle consumata, mentre riguardava l'ennesima volta I Ponti di Madison County.
- E tu? Non l'hai visto, vero? - domandò poi.
Lino fece di nuovo cenno di no, fermandosi poi proprio in corrispondenza di un vialetto laterale, che portava a una delle poche casette che spuntavano come meravigliosi girasoli dal prato verde.
- Questa è la casa in cui ha vissuto con Sapphire fino a qualche tempo fa... - fece, spingendo con la mano il cancelletto dell'abitazione, che cigolò rumorosamente. Assunse un'espressione infastidita, lui, propria di chi non amasse i suoni forti, poi sospirò.
- Si vede che è disabitata da un po' di tempo, eh? - chiese, mettendo piede sul vialetto che tagliava in due il giardino. L'altra guardava l'erba incolta, alta fino a quasi settanta centimetri, che si proiettava disordinata verso l'alto.
- Viveva qui?
- Sì. Con Sapphire, la sua ragazza.
E Whiteley ricordava bene la donna di cui parlava Lino. Ricordava i suoi profondi occhi blu, la pelle diafana e i capelli corti, disordinati ma con un senso specifico globale. Sapphire era la donna differente, quella che urlava e sbraitava, la selvaggia, così come la chiamava Ruby per telefono, non troppo alta, non troppo magra, non troppo adatta al mondo in cui l’uomo che stavano cercando era entrato a far parte.
La loro casa doveva essere con ogni probabilità una delle più carine di tutto l’isolato, se non dell’intero agglomerato di abitazioni che sorgeva ad Albanova, se non fosse risultata inevitabilmente abbandonata; le napoletane erano ben serrate, lo zerbino era stato sbalzato nel prato per via di qualche forte folata di vento, che lo stesso Lino aveva ammesso fossero abbastanza frequenti. Whiteley aveva poi voltato la testa, fissando con lucidità la cassetta della posta che avevano sorpassato pochi secondi prima. Questa, era piena di comunicazioni cartacee, lettere e multe da pagare. Si avvicinò e vide che tutte, ma proprio tutte, fossero indirizzate a Sapphire Birch e non risalivano a più di una settimana prima.
- Loro… - fece Whiteley, rileggendo più volte il cognome di Sapphire e poi spostando lo sguardo sugli occhi di Lino, verdi e ingenui. - … vivevano qui assieme?
Quello si limitò a fare spallucce e a sospirare.
- Sì. Due anni fa erano qui… Sai… - fece, alzando gli occhi al cielo e sospirando. – Al compleanno di Ruby, il due luglio, diedero una grande festa ed eravamo tutti qui, in questo giardino. E c’erano festoni, tende, un bel buffet, la musica, e tanta gente. Lui qui è una sorta di superstar, te l’ho detto…
Whiteley storse le labbra e sospirò.
- Anche da me…
Si voltò per scrupolo e mosse qualche passo con le sue ballerine blu verso la porta, limitandosi a premere con l’unghia ben curata sul campanello, che trillò per pochi secondi. Sognava, lei, che ad aprirla ci fosse un Ruby con lo sguardo spento, magari coi capelli in disordine e la barba sfatta, i vestiti sporchi e di qualche taglia più grandi. Ma immaginarlo come se fosse stato appena salvato da un’isola di un atollo tropicale faceva a cazzotti con la realtà dei fatti e la porta che aveva davanti, che rimaneva chiusa.
- Non c’è nessuno… - ribatté Lino, mentre Whiteley sentiva l’insofferenza montare dentro di lei. Il respiro cominciò a diventare più pesante e quel caldo non aiutava a lucidare i pensieri.
Lei voleva soltanto tornare a casa sua.
E allora si gettò contro la porta, battendo i pugni con moderato vigore, aderendovi contro col corpo e stringendo gli occhi del colore del cielo.
- Signor Normanson! Ruby! Signore! – esclamò, alzando la voce e continuando a colpire la superfice di legno dell’ingresso di quella casa ormai abbandonata. Ripensò alla Presidentessa, alla sua espressione poco sorpresa sul volto e a tutte le conseguenze che quel fallimento avrebbe potuto portare.
- Ruby! Sono Whiteley, la sua assistente! La prego, mi apra!
E continuava a battere sulla porta, lei, mentre Lino rimaneva immobile. Quello guardava la giovane donna e sospirò, prima che percepisse la presenza di qualcuno alle sue spalle.
- Lino… - sentirono entrambi, e si voltarono, lei più repentina dell’altro. Videro una donna sottile e posata, dai capelli castani, corti e acconciati in un elegante Demi, con indosso una canottiera bianca e un pantaloncino dello stesso colore. Anche i sandali che indossava erano bianchi e facevano risaltare in maniera eccezionale il colore dei suoi occhi, che erano rossi come rubini. Teneva tra le mani due pesanti buste della spesa, da cui fuoriuscivano tre gambi di cipollotto.
Whiteley vide l’espressione sul volto di Lino, dapprima sorpresa, addolcirsi. Sorrise delicatamente, com’era solito fare, e chinò leggermente il capo.
- Caroline… Ciao. Scusa per… ecco, il trambusto qui fuori…
Quella spalancò gli occhi, sorpresa, quindi li strinse e fece cenno di no col capo.
- No! Figuratevi! Qui non succede mai nulla! Ero solo stupita, tutto qui! – aveva risposto, con la voce squillante e un sorriso inconfondibile che Whiteley aveva già riconosciuto. Si voltò, che aveva ancora le lacrime agli occhi, portò un po’ di quell’aria pulita nei polmoni e si avvicinò all’altro. Fece un piccolo inchino, unendo le mani sulle cosce.
- Buongiorno… mi scusi se possa averla in qualche modo impressionata. Io sono Whiteley, l’assistente di Ruby Normanson all’Atelier Automne…
Caroline sorrise ancora, stringendo gli occhi come aveva fatto prima e fece nuovamente cenno di no con la testa.
- Oh, non preoccuparti! E così tu sei la sua assistente! Sei una ragazza meravigliosa e hai degli occhi stupendi!
Lino sorrise genuinamente e scambiò uno sguardo con la più giovane.
- Caroline… Whiteley sta cercando Ruby. – fece, e l’espressione della donna mutò; inarcò le sopracciglia e sospirò, confermando l’effettiva complicatezza della situazione, e inavvertitamente lasciò cadere un cipollotto, che scivolò oltre il bordo della busta di carta; entrambi, Whiteley e Lino, accorsero in suo aiuto, con lei che raccolse l’ortaggio e lui che le prese una delle due buste dalle mani.
- Oh. Grazie! – sorrise gioviale. Whiteley la guardava di sottecchi, non riuscendo a non sovrapporre la sua immagine a quella di Ruby. Si assomigliavano moltissimo, per le espressioni del viso, il sorriso, gli occhi. Aveva capito che, se Ruby fosse stata la mela, l’albero da cui non era caduto lontano doveva essere per forza Caroline. Quella aveva raccolto il cipollotto dalle mani della giovane e l’aveva infilato nella busta che aveva preso Lino.
- Posso offrirvi una tazza di tè freddo? – domandò.

Insieme, i tre s’incamminarono verso la casa della donna, superando la piazza centrale di Albanova, con la grande fontana in cui nuotavano carpe di varie forme e dimensioni e voltando nel penultimo viale sulla destra, dove quattro villette si spartivano i pochi metri prima che l’inizio del bosco si appropriasse dell’asfalto con la sua mano verde. Seguirono tutti e due la donna fino alla terza villetta, non delimitata da steccati e recinzioni, e di cui il gran giardino, ben curato e pieno di fiori e palme, veniva condiviso coi vicini, una classica e felice famigliola composta da genitori e due figli.
- Salve Caroline! – aveva salutato lui, il capofamiglia, mentre approfittava della giornata di sole per potare le rose. Martin, così si chiamava, indossava maglioncini a quadri da settembre ad aprile e polo Ralph Lauren da maggio a settembre, pettinava i capelli tutti da una parte, verso destra, per nascondere un accenno di calvizie e aveva il sorriso più bianco che chiunque avesse mai visto. Stringeva tra i guanti da giardinaggio verdi un grosso paio di cesoie d’acciaio.
- Salve! Ne approfitti per potare le rose? – domandò Caroline, raggiante. Whiteley la vide di nuovo sorridere, mentre stringeva quanto più poteva lo sguardo.
- Certo! Avevo un po’ di tempo libero e questo cielo meraviglioso mi ha convinto!
Sorrideva.
Sorrideva troppo e Whiteley ne era infastidita.
- Allora io entro! – squillò Caroline, ancora sorridente, cercando nella borsa le chiavi.
- Dia qui. – disse poi Lino, prendendo l’altro sacchetto della spesa, permettendo alla donna di aprire la porta e farli accomodare in salotto, che a Whiteley ricordava tanto quello di casa sua, con un lungo divano a tre posti di pelle marrone e dai cuscini bordeaux, davanti a un tavolino in arte povera su cui, qualche minuto dopo, la padrona di casa poggiò un piattino con grossi bicchieroni di cristallo e una grossa brocca di tè ghiacciato, aromatizzato alla menta.
- È molto dolce, ma se preferite potete aggiungere dello zucchero. – aveva detto quella, cominciando a versare la bibita fresca e a porgerla a Lino, il più vicino a lei. Sorrideva ancora, posata in ogni suo gesto, in ogni suo movimento, mentre guardava con occhi interessati l’ospite dai lunghi capelli castani.
- Hai detto di chiamarti Whiteley, vero?
Quella annuì, rapprendendo le labbra involontariamente. – Mi scusi... per prima.
- Oh, ma tranquilla! Il calore dà parecchio alla testa, a volte! – rise ancora, stringendo per l’ennesima volta gli occhi. – Cercavi mio figlio?
Whiteley annuì nuovamente.
- Sì. Sono venuta qui per lavoro, in realtà.
- Lavori con mio figlio?
- Sì. Sarei la sua assistente... o almeno... lo ero... – sorrise nervosamente, aggiustando l’orlo della gonna mentre guardava il tè versato da Caroline che veniva versato nel bicchiere che pochi secondi dopo aveva stretto tra le mani. L’altra si era limitata a passarglielo, spalancando gli occhi, sorpresa.
- Vieni da Unima?
- Sì. Mi chiedevo se sapesse dove si trovi... Ci sono delle... – bevette un sorso di tè, battendo un paio di volte le palpebre e sorridendo per un attimo. – Buonissimo! Comunque, ci sono delle... delle cose che dovrebbe fare, e mettere a posto, con la Presidentessa e... e poi, gli altri vestiti. E l’atelier.
Lino la guardò, poi guardò Caroline.
- È un po’ agitata... – cercò di giustificarla, grattandosi la guancia e bevendo a sua volta. – Ma nella confusione delle sue parole mi è parso di capire che cercasse Ruby...
Caroline si limitò ad annuire.
- Sì, avevo capito... più o meno. Volete dei pasticcini?
- No, grazie. – replicò Whiteley, continuando a bere.
- In ogni caso... ho sentito Ruby un paio di settimane fa, l’ultima volta... Mi ha telefonata...
Whiteley spalancò i grossi occhi azzurri.
- Quindi è vivo?!
Caroline sorrise.
- Sì! Certo che è vivo! Non starei così tranquilla se sapessi che mio figlio fosse morto!
Anche Lino sorrise. Guardò Whiteley allentare il colletto della camicetta azzurra e umettarsi le labbra.
- Ehm… Credo che a questo punto debba chiederle di darmi il suo numero… Vorrei mettermi in contatto con lui e capire se e quando tornerà al lavoro…
L’espressione di Caroline mutò rapidamente, come se il cielo più azzurro di sempre fosse stato improvvisamente coperto da nuvole nere di tempesta.
- A dire il vero è lui che chiama me, sempre con un numero privato… quindi non saprei come aiutarvi. Ma, dimmi Whiteley… Si è messo nei guai?
- Uh… no. È che abbiamo bisogno di lui… e…
Stava per dire a quella donna di Yvonne, poi si bloccò. Serrò le labbra e sospirò; non voleva essere lei a dire a quella donna così solare che sarebbe diventata nonna e che suo figlio stava scappando chissà dove, chissà per quale motivo.
- E? – domandò Caroline. Lino continuò a guardare l’espressione impanicata sul volto di Whiteley.
- Quindi Ruby non è qui?
- No. Da almeno otto anni… - ridacchiò quella. – Ha convissuto con Sapphire fino a quando non è partito per Austropoli, e poi… beh, si sono lasciati. Ma lo saprai.
- Per sommi capi, sì…
La giovane portò nuovamente il tè alle labbra, finendo il bicchiere con un’ultima grande sorsata. Strinse gli occhi, il suo nervosismo era palese, tanto che Lino le mise una mano dietro la schiena, sudatissima, per cercare di calmarla.
- Forse Norman potrà dirvi di più… - continuò la padrona di casa. -Non vive più qui, da quando abbiamo divorziato… ma è pur sempre il padre di Ruby. A Petalipoli forse troverete le vostre risposte.
Whiteley storse le labbra e si alzò in piedi.
- Grazie. Posso usare un attimo il bagno?

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Capitolo 9
*** Chapter 9 ***


Against Me

Quando tutto cade.

 

 

 
Hoenn, Petalipoli,20 giugno 20X1


- Lino. Non ti aspettavo.
La voce di Norman era profonda e calda. Aveva sollevato lo sguardo distrattamente per poi tornare a guardare in basso, concentrandosi sulle pile di fogli che aveva davanti. Queste erano disposte sulla sua scrivania di palissandro, in maniera ordinata dalla più alta alla più bassa.
Il più giovane anticipò Whiteley e le tenne la porta aperta, distratto, mentre continuava a guardare il Capopalestra.
- Lo so. Mi scusi per il disturbo, è che avevo bisogno di incontrarla... - aveva detto, esibendosi in un lieve inchino. Fece spazio a quell’altra e chiuse la porta, poi si girò nuovamente verso il padrone di casa, avanzando fino a raggiungere il fianco della ragazza. Vedeva le mani di Whiteley stringere con delicato vigore la borsetta di pelle.
Erano lì da una ventina di secondi ma Norman non li aveva mai guardati. Erano rimasti in religioso silenzio, mentre aspettavano che quello finisse di scrivere qualcosa sui suoi fogli, con la testa inclinata leggermente verso destra e gli occhiali sulla punta del naso, che di lì a poco sarebbero caduti se non li avesse sistemati. E lo fece, poco dopo aver poggiato la penna a sfera nel suo astuccio. Alzò poi lo sguardo.
- Accomodatevi.
Indicò loro le poltroncine che aveva davanti, rivestite di prezioso velluto blu. A Whiteley sembrò immediatamente un uomo molto rigido, poco propenso a condividere le proprie parole con gli altri. Si sedette prima di Lino, poggiò la borsetta sulle ginocchia e cercò di rimanere quanto più dritta possibile con spalle e schiena, che aveva sempre avuto la pessima abitudine di curvarsi, anche se stava cercando di lavorarci sopra. Intanto gettò uno sguardo nell’ufficio e apprezzò un po’ più distintamente i particolari dell’arredamento: nel complesso lo stile era classico. C’erano molti elementi in legno e la finestra laterale a fare da grosso punto luce. Più di tutto, però, Whiteley era totalmente deliziata dalla boiserie in noce che rivestiva le pareti, e la grande libreria alle spalle della scrivania, su cui erano sistemati decine e decine di tomi, di ogni genere e dimensione.
- Non la vedo da parecchio tempo. – fece Lino, che intanto s’era accomodato accanto a lei.
- Non passi di qui da un po’, hai ragione. – ribatté l’altro, con lo stesso tono di voce.
L’uomo non aveva avuto alcun cenno di reazione e neppure il sorriso gioviale di quello che un tempo fu il suo migliore allievo aveva addolcito l’espressione severa sul suo viso.
- Mi spiace molto... sarei dovuto venire a trovarla già qualche tempo fa. – aveva risposto Lino, sorridendo gioviale come sempre, stringendo le palpebre. – Lei è Whiteley, una mia amica.
La indicò, inclinando leggermente la testa in sua direzione. Quella avvampò quasi subito; annuì e abbassò il volto, stringendo nervosamente la cinghia della borsetta tra le mani.
- P-piacere, Signor Normanson.
Il padrone di casa lasciò sedimentare le sue parole e poi sospirò.
- C’è qualcosa che non va?
- N-no, tutto bene!
L’uomo annuì, guardò Lino e inarcò le sopracciglia, che a sua volta sorrise e fece spallucce, quasi come a voler dire è fatta così. Non alzò gli occhi, Whiteley, fino a quando non lo vide riprendere la Parker tra le mani.
- Solo un momento.
Levò il cappuccio della penna e scrisse con la mano sinistra una nota sul taccuino che aveva accanto. Poi, metodico, ripose nuovamente la penna nell’astuccio.
- Altrimenti dimentico. – disse, quasi a giustificarsi, vedendo poi Lino accavallare le gambe, incrociando entrambe le mani con una grazia quasi innaturale. Whiteley era immobile, oltremodo nervosa, mentre continuava a straziare il manico della borsetta che stringeva avara. Guardò Lino, che sembrava più a suo agio col padre di Ruby; li sentiva parlare di una certa Stacey, che entrambi parevano conoscere e che a quanto pareva aveva appena deciso di prendere la patente nautica per spostarsi più rapidamente via mare, e pensò che non vi fosse occasione migliore per cercare in giro qualche fotografia di Norman da giovane, che lo ritraesse magari con suo figlio, ma alle pareti erano appesi soltanto attestati e diplomi, tutti perfettamente paralleli, alla stessa distanza l’uno dall’altro, senza neppure un alone di sporco sui vetri.
La sua attenzione si focalizzò però su di una piccola fotografia che l’uomo aveva sulla scrivania, accanto a un Macbook, splendente come argento appena lucidato, dove un Ruby a cui non avrebbe dato più di quattro anni, dal volto sorridente, stava sulle spalle di suo padre; a quei tempi, Norman era molto differente dall’uomo che aveva di fronte.
Dapprima pensò che Ruby gli somigliasse davvero poco: certo, i colori erano i suoi, ma il più giovane aveva rubato a sua madre fisionomia e dettagli, con la forma delicata del volto e il corpo più sottile e slanciato, oltre che per il sorriso smagliante.
Guardò Norman, poi, così serioso e austero e pensò che quello non passasse molto tempo a sorridere. Lo fissò forse con troppa insistenza, Whiteley. Sovrappose il ricordo di Ruby all’immagine di suo padre e si rese conto che, dell’uomo che aveva davanti, lo stilista avesse preso soltanto il cognome: stretto nella sua camicia bianca dal colletto e i polsini inamidati, ben stirata e chiusa fino al penultimo bottone, Norman era un uomo talmente posato da dare di se stesso l'immagine di una persona che nel silenzio avesse costruito il proprio maniero; probabilmente respirava a tempo col ticchettio delle lancette del Sector che portava sul polso, per godersi al meglio quel segmento di nulla, di vuoto. Ordinata era la sua scrivania e curata era la sua figura: non un capello rovinava l’armonia della sua pettinatura, né si poteva avvertire il sentore di un pelo di barba scampato alla rasatura quotidiana del suo volto.
Lo fissava con così tanta insistenza che Norman si sentì quasi costretto a guardarla, inarcando le sopracciglia folte. La donna distolse subito lo sguardo, e allora lui si focalizzò sull’ex allievo.
- Come posso aiutarvi? – domandò.
Lino si voltò a guardare Whiteley, che stava con la testa bassa e le dita ancora strette attorno al manico di pelle della borsetta. – Può dirglielo lei stessa.
Quella sentì un fremito investirla e poi la lingua le si attaccò involontariamente al palato. Norman la guardò e poi annuì leggermente, come per farle capire che fosse in ascolto.
Toccava a lei.
- Sì, ecco... io vengo da Unima. E sono... cioè, ero...
Tanta era l’incertezza nelle sue parole che il Capopalestra sentì forte l’impulso di spostare per un attimo gli occhi su Lino, che si limitò ad annuire e sorridere a mezza bocca.
- Che cos’era a Unima, questa ragazza? – domandò Norman, proprio a lui.
- Lei era l’assistente di Ruby.
L'altro la guardò per un attimo, quindi quella annuì, come a confermare le parole che aveva appena sentito.
- E perché sei qui?
- I-io… - tentennò, battendo le sopracciglia più e più volte, cercando di riprendere il controllo di se stessa. Norman tornò a guardare Lino.
- Perché è così nervosa? – chiese.
- Io non saprei dirglielo… Whiteley. – la chiamò, affacciandosi verso di lei, che continuava a guardare imperterrita le proprie ginocchia.
- C’è qualcosa che dovrei sapere? – ribatté l’uomo, con quella voce grossa, mentre aggrottava la fronte. E mentre a Lino non restava altro che fare spallucce, la ragazza annuì.
- E cosa dovrei sapere?
Passarono alcuni secondi, dove i tre respiri si accavallarono disordinati. Lei però ancora non riusciva a parlare, immobile.
- Whiteley… - la chiamò Lino, mettendole poi una mano sulla spalla.
- S-sì. Lei magari può... dirmi dov’è suo… dov’è suo figlio... Ecco, io lo starei cercando.
L’uomo rimase impassibile per qualche secondo, poi portò entrambe le mani al volto, raccogliendo il mento tra i palmi e coprendo le labbra con entrambi gli indici.
- Stai cercando mio figlio?
Annuì nuovamente, e dopo qualche secondo fu Lino a incoraggiarla, stringendole nuovamente la spalla.
- Spiega, dai… - fece.
- Sì, ecco… lui doveva tornare al lavoro diverso tempo fa… ha ancora un... ancora un contratto. Ma è sparito.
L’espressione di Norman non mutò: con la bocca nascosta dalle mani, restò una ventina di secondi in silenzio, a scrutare impassibile gli occhi sfuggenti della ragazza che aveva di fronte. Poi distolse lo sguardo, inarcò le sopracciglia e sospirò. Non passarono molti secondi prima che alzasse l’interfono e portasse la cornetta all’orecchio.
Dal ricevitore si sentì forte e chiaro la voce della segretaria.
- Portaci del tè verde. Con ghiaccio. – le disse quello, abbassando poco dopo il ricevitore.
- Non ce n’è bisogno… - ribatté Lino, sorridendo ancora gioviale, cercando di stemperare un po’ la situazione.
- I-io vorrei sapere solo se stia bene… se l’ha visto… - riprese Whiteley, che ancora non guardava l’uomo negli occhi. Si grattò la fronte con l’unghia smaltata e rimase in attesa di una risposta, che arrivò poco dopo.
- Quindi staresti cercando mio figlio.
- S-sì, è così. Doveva ripresentarsi ma… beh, io non so dove sia.
Norman si riservò qualche secondo di silenzio, poi riprese.
- Ed era il tuo capo.
- Sì, signore.
- E che capo era?
Lo sguardo di Whiteley si levò verso il soffitto, e la sua espressione si rasserenò.
- Molto bravo. Era un perfezionista… voleva che tutto fosse fatto nel modo giusto, e controllava che ognuno facesse la propria parte.
- Un po’ come lei. – aggiunse Lino.
La ragazza fece spallucce. - Ma non è severo. Anzi, è sempre molto gentile.
- E dove lavorava? – chiese nuovamente l’uomo.
- A… a Unima, gliel’ho detto. In un atelier. Abbiamo organizzato eventi… e sfilate! Suo figlio è bravissimo!
- Uhm…
Norman pareva pensieroso. Grattò la guancia sinistra e sospirò.
- E gli piaceva, il suo lavoro?
- C-certo! – esclamò l’altra. – Curava ogni dettaglio! Con dedizione e amore!
- E nonostante questo non ha rispettato il contratto ed è andato via.
Whiteley annuì, ma rimase interdetta; guardò in basso e si esibì in una timida risposta.
- Beh… sì.
- Come hai detto di chiamarti? – chiese ancora Norman.
- W-Whiteley, signore.
- Whiteley… ciò che mi dici non mi sembra una cosa che Ruby farebbe, onestamente. Mio figlio non è un bugiardo.
Gli occhi della bella, azzurri come il cielo, si spalancarono stupiti. – Ma io non intendevo minimamente accusarlo!
- E cosa intendevi fare?
- Nulla! È che noi abbiamo bisogno di lui e… e vorremmo capire dove sia.
Grattò di nuovo la stessa guancia, Norman, sospirando e continuando a fissare la ragazza, proprio come aveva fatto lei qualche minuto prima.
- Questo non lo so.
Whiteley abbassò il volto, fissando il fermacarte semisferico d’ottone, dalla superficie lucidata dagli anni di usura. Gli rispose, continuando tenere la testa basta.
- La questione è... - fece. - ... è che non ho molto tempo. Ruby deve portare a termine un grosso lavoro e… e a me non piace più andare in atelier senza di lui.
La sua voce era sottile e docile e gli enormi occhi cerulei dribblavano quelli di Norman, che rimaneva in ascolto e la scrutava, attento.
- Di che lavoro parli?
- La Presidentessa ha… ha ricevuto una mail dagli Studios, per un film, e…
- Presidentessa? – chiese ancora quello, aggrottando la fronte. – Chi è?
Whiteley strinse ancora il manico della borsa. - È la socia di Ruby… - rispose. In cuor suo si chiedeva però per quale motivo dovesse subire quell'interrogatorio.
- Ruby ha una socia?
- Sì. La signorina White… Cioè, signora. Ora è sposata.
- Ed è anche lei una stilista?
- No, no… - ribatté l’altra, scuotendo la testa. – Lei si occupa di tutta la questione finanziaria, e delle sponsorizzazioni… e delle modelle.
- Le modelle?
- Sì. – annuì quella. – Le ragazze che sfilano coi nostri abiti.
- E lui… - fece, spostando per un attimo gli occhi oltre la finestra alla sua sinistra, dove qualche uccello aveva preso il volo. – … lui veste delle modelle, quindi…
Non fu una domanda. Fu più una presa di coscienza.
- Sì…
- Ed è bravo?
- Molto. Abbiamo venduto tanti abiti, la scorsa stagione…
- In effetti… - s’intromise Lino, che fino a quel momento non aveva avuto l’occasione di aprire bocca per più di qualche attimo. – Ho visto più volte Ruby su internet… ho letto che l’Atelier… - guardò poi Whiteley, dopo qualche secondo. – Com’è che si chiama?
- Automne.
- ... l’Atelier Automne, sì, ho letto che è una giovane realtà e che molte star di Unima hanno indossato i suoi vestiti…
Norman annuì.
- Quindi è diventato uno stilista importante.
- Certamente! – rispose Whiteley. – Il nostro lavoro è stato enorme! In pochissimo tempo abbiamo dovuto produrre tantissimi abiti e…
- Ma ora lui non c’è più.
L’entusiasmo negli occhi di Whiteley, che prima aveva spinto rapido quel timore reverenziale che la ragazza aveva nei confronti dell’uomo che aveva di fronte, si spense immediatamente. Lui non pareva particolarmente turbato da quella situazione e continuava a fare le sue domande, come se avesse potuto risolvere qualcosa.
Tuttavia non sembrava così interessato a farlo. A Whiteley sembrava che lui li guardasse dall’alto, come dalla cima di un’altura, mentre loro cercavano di capire qualcosa. E allora anche Lino si rese conto che quell’impasse non sarebbe stata superata se lei non avesse parlato chiaramente, e se Norman non avesse deciso di scendere dal suo trono di diffidenza.
Perché era di quello, che si trattava: Norman non la conosceva. E non era il tipo d’uomo che si apriva a chiunque. Riconobbe, il ragazzo, che nonostante i tanti anni passati come suo allievo, non conoscesse appieno il suo maestro e il bagaglio che si trascinava dietro.
- Lei… lei non può aiutarla in alcun modo? – chiese, infrangendo la parete di silenzio che tutti si erano impegnati a costruire. L’altro si voltò nuovamente verso la finestra, mantenendo sempre solido lo sguardo.
- Lino… non vedo Ruby da più di un anno. Venne a Hoenn per poco tempo.
- Era marzo… - s’inserì Whiteley.
- Già. Probabilmente era marzo… - annuì l’altro, pensieroso.
– Oh… - disse poi la ragazza, col volto ancora basso. - Fu quando lui e Sapphire si lasciarono...
- Lo sai? – domandò quello, voltandosi verso di lei.
Whiteley annuì, rapida e concisa, guardando per la prima volta Norman negli occhi.
- Sì. Quello fu il suo periodo più difficile. Non fu semplice per noi aiutarlo… è stato così sfuggente, in quei giorni…
- Che successe?
- Successe che…
E poi si fermò. Gli occhi del Capopalestra continuavano a scrutarla ma fu lì che quella cominciò a chiedersi se dare tutte quelle informazioni al padre di Ruby fosse poi così giusto.
- Sì? – domandò lui, dopo quello che reputò un fastidiosissimo silenzio
- Beh, non sapevamo neppure che fosse tornato ad Austropoli. Lui viveva ancora in albergo, a quel tempo… per fortuna…
- Perché, per fortuna? – interruppe Norman, accigliato.
- Perché Yvonne viveva proprio lì, accanto a lui.
L’uomo parve aver capito, dato che prese ad annuire.
- Parli di Yvonne Gabena, vero?
- Sì. È praticamente la donna più famosa del mondo…
- E ha salvato Ruby.
- Sì… lo ha… lo ha trovato incosciente, accanto a un blister vuoto di Xanax… è stato portato all’ospedale, per via di un’overdose… ansiolitici… ci è rimasto per… non so, boh, qualche giorno. Ma poi è stato meglio…
Gli occhi di Norman si spalancarono, e Whiteley riuscì a vedere per la prima volta la preoccupazione sul volto dell’uomo. Poi, come se fosse stato tutto organizzato, qualcuno bussò alla porta. Lino si voltò, vedendo una donna di mezz’età con un vassoio tra le mani. Indossava un sorriso di plastica e una camicetta forse un po’ troppo stretta per i bicipiti tonici che aveva. Anche il petto, di una forma innaturalmente tonda, esplodeva all’interno delle coppe del reggiseno; fece slalom tra le sedie dei due ospiti sui suoi tacchi di dieci centimetri e poggiò il vassoio al centro della scrivania, e non si levò quel ghigno dalla faccia neppure guardando il turbatissimo Norman, che non aveva mai spostato gli occhi da quelli della giovane di Unima, le fece cenno di uscire.
- Vado… - disse, dopo qualche secondo, voltandosi e sfilando via e, nonostante non avesse sbattuto la porta, nella stanza rimase il fragore di un tuono e la confusione di chi si risvegliava dopo un uragano.
Quello stesso uragano imperversava oltre gli occhi neri dell’uomo che aveva davanti, ancora immobile, ancora bloccato da quelle parole che non sapeva come gestire.
Poi, come d’improvviso, abbassò lo sguardo.
- Servitevi… - fece, con voce sommessa, indicando il tè freddo. Lino si alzò e prese due dei tre grossi bicchieroni di cristallo, ottagonali, poi ne porse uno alla ragazza e uno al Capopalestra. Lui pareva guardargli attraverso, concentrato su Whiteley e sulle parole che ancora sembravano uscire dalla sua bocca.
- Il bicchiere… - fece Lino. - … glielo poggio qui…
Tornò a sedersi, tornò il silenzio. Norman incrociò le braccia davanti al petto e abbassò lo sguardo sul bicchiere di tè verde, mentre la condensa colava impietosa verso il piano della scrivania. La ragazza invece tracannò in tre sorsi tutta la bevanda, tenendo un cubetto di ghiaccio tra i denti e il bicchiere freddo tra le mani.
- Mi spiace averle detto questa cosa… - disse poi, senza riuscire a guardare Norman. Quello muoveva solo gli occhi, prima a destra, poi al centro, poi a sinistra, poi di nuovo al centro, poi ancora a destra e così via, come se fosse un computer in elaborazione di dati. Si alzò in piedi, senza risponderle, offrendo poi loro le spalle. Whiteley non sapeva se stesse guardando qualcuno dei tomi nella grande libreria o un quadro, sulla destra, dalla cornice in legno scuro, che raffigurava Perseo durante l’uccisione di Medusa in uno stile quasi caravaggesco. Rimaneva fermo, come se fosse spento. Pareva che la stanza fosse stata divisa in due e il tempo scorresse solo dove Whiteley e Lino erano seduti.
L’uomo percepiva forte la voglia di nicotina attraversargli il palato molle, e aveva promesso di non cedere a quella debolezza, quindi ritirò i remi in barca e urlò a se stesso di rimanere dove riuscisse a mantenere il controllo di ogni cosa. Ma poi, quando si voltò, sul suo viso era chiaro il sentimento di spaesamento.
Era chiara la paura.
- Norman… - disse Lino, che mai aveva visto il suo maestro in quel modo. Cercò di richiamare la sua attenzione, riuscendovi solo in parte.
- Io… - fece, abbassando poi lo sguardo. - … io non lo sapevo.
Whiteley restò in silenzio, così come l’altro. In piedi di fronte a loro, Norman riuscì solo ad accendere il proiettore dei ricordi, addolcendo lo sguardo quando visualizzava le immagini di suo figlio, da bambino, prima di raggiungere per la prima volta Hoenn, quando tutto sembrava ancora lontano dall’essere qualcosa di stucchevole e non necessario. Fece qualche passo in avanti, spostò la poltroncina e vi si sedette.
- Le cose però sono andate bene… - volle aggiungere inutilmente Whiteley, prima che quello unisse le mani sulla scrivania, davanti a sé.
Un attimo di silenzio, continuava a muovere gli occhi in maniera quasi meccanica, lui.
Cercava le parole, e i due interlocutori non parlarono, quasi a volerlo aiutare.
- Lui… - cominciò Norman. Le labbra si erano separate producendo un leggero schiocco.
- … lui era un bambino iperattivo. Oh, per l’amor del cielo, era davvero ingestibile… - fece, sorridendo in maniera quasi impercettibile. Si grattò la guancia con la mano sinistra, poi inarcò le sopracciglia, per un istante soltanto, e tornò a guardare Whiteley, che lo fissava stupita.
- Non l’avrei mai detto… - disse, sorridendo a sua volta.
- L’amore per la moda e quell’atteggiamento più… posato, ecco, sono sopraggiunti durante l’adolescenza, poco prima che ci trasferissimo ad Albanova. Lui era così… diverso…
Lino lo guardava in apprensione, accorgendosi che nei suoi occhi ci fosse di più: Norman stava pensando a qualcosa che non aveva mai avuto il coraggio di sviscerare, e Whiteley, col suo sguardo ingenuo, stava spalancando quei portoni che per anni si era impegnato a serrare con tutta la disciplina che aveva a disposizione.
- Non sono stato il migliore dei padri. Non ci sono andato neppure vicino, a dire il vero… - fece, alzando gli occhi al cielo e sospirando. -… poi, quando si ha a che fare con mio figlio tutto diventa complicato. Sapete… - fece, spostando nuovamente la sedia e rimettendosi in piedi.
Era irrequieto.
Si voltò. Diede loro le spalle, poi guardò verso sinistra, oltre la finestra.
Vi si avvicinò.
- All’inizio, Ruby e Caroline sono stati un ostacolo, per me. Sono cresciuto con la consapevolezza di me stesso e di ciò che volevo fare e…
Poi si fermò. Alzò una mano sul vetro fresco.
- … forse non volevo così ardentemente una famiglia. Non sono stato presente con mio figlio. Mia moglie ha sempre avuto ragione, quando diceva che io pensavo soltanto al lavoro…
E lì Whiteley pensò al suo papà. Si chiese cosa stesse facendo in quel momento, prima che Norman continuasse.
- Fu una bravata di Ruby… dell’ingestibile, piccolo Ruby, a costarmi la promozione che stavo cercando di raggiungere.
- Che fece? – domandò lei.
- Distrusse un macchinario di ricerca molto importante… ma, beh, lui aveva sei anni, io trentadue, ovviamente mi presi la responsabilità di ogni cosa.
Lino era più sorpreso di Whiteley.
- Era davvero così vivace? – chiese.
L’altro rimase immobile, ancora con la mano sulla finestra.
- Era tremendo… Io e Carol non riuscivamo a tenerlo tranquillo per più di dieci minuti… lui saltava ovunque, correva, urlava. Rompeva. Una volta… - disse, grattandosi nuovamente la guancia sinistra. – … riuscì a distruggere un armadio di legno massiccio, prendendolo soltanto a calci.
Lino e Whiteley spalancarono gli occhi, entrambi più che perplessi.
- Parliamo della stessa persona? – domandò il primo.
- Sì, te l’ho detto.
- A… calci.
- Un armadio, sì. A calci. – rispose. Alzò poi gli occhi al cielo, sospirando. – E io ero lì, fermo, mentre vedevo mio figlio ridere sotto a una montagna di vestiti di mia moglie.
Whiteley rapprese le labbra e si guardò le mani. Pensò che forse fu quell’evento a scatenare in Ruby l’amore per gli abiti, per poi ritrattare e cominciare a pensare che stesse facendo dei pensieri altamente fuori luogo.
- Non l’avrei mai detto… - si limitò a dire.
Lino manteneva sul volto candido quell’espressione perplessa. Stentava a credere a quelle parole, ripensando alla delicatezza degli atteggiamenti dell’uomo.
- Quando vi trasferiste qui lui però era già più calmo e posato… - fece, sistemando l'orologio sul polso.
- Come adesso. – aveva invece aggiunto l’altra, voltandosi prima verso di lui e cercando poi negli occhi di Norman una conferma, che arrivò con un cenno del capo.
- Sì. Non so di preciso cosa possa essergli successo, fatto sta che ora è quel che è… anche se nessuno sa dove sia.
Si voltò nuovamente, tornò verso la scrivania e vi si sedette dietro. Le mani stringevano i braccioli di pelle nera della sedia, dai bordi leggermente consunti.
- Mi costa ammetterlo… forse mi costa più di ogni altra cosa…. – continuò, vagando ancora con lo sguardo, fuggiasco e imbarazzato. Sentiva il cuore battere nel petto.
Odiava quella consapevolezza.
- Cosa? - domandò Lino.
– Io sarei dovuto essere più presente. Sarei dovuto essere una figura importante per mio figlio, ma è solo adesso che mi rendo conto che io, che sono suo padre, tra noi tre, forse sono quello che lo conosce di meno…
Whiteley lo vide abbassare gli occhi, colpevole. Lino, invece, era sbalordito da quella scena: Norman, l’irreprensibile Capopalestra di Petalipoli, aveva deciso di mostrare le proprie debolezze.
Una cosa che, in tutti gli anni in cui l’uomo era stato il suo sensei, non era mai successa.
- Mi spiace molto… - ripeté Whiteley, che in fondo si sentiva responsabile di quel tracollo emotivo. Grattava con le unghie lunghe il dorso della mano mentre l’uomo che aveva davanti batteva le palpebre lentamente.
Lo si leggeva dal suo sguardo, che stava lottando con se stesso per non crollare, per rimanere il pilastro di marmo che toccava contemporaneamente terra e cielo, al centro della buriana, com’era sempre stato, ma gli occhi di quei ragazzi, così impietositi e preoccupati, parevano quasi invitarlo a cedere all’umanità che aveva sempre celato dietro la sua disciplina; Lino lo leggeva nei suoi occhi di tempesta, che avrebbe voluto inginocchiarsi e chiedere scusa al mondo per non essere stato il padre che suo figlio aveva meritato e il marito che sua moglie aveva immaginato.
Avrebbe voluto camminare sui tizzoni ardenti piuttosto che ammettere a quei perfetti sconosciuti che lui avrebbe dovuto alzare il telefono più spesso e telefonare a suo figlio, interessarsi a lui, prendersi qualche giorno di ferie e andare a trovarlo dall’altra parte del mondo, che magari avrebbe avuto bisogno della sua presenza, i primi giorni, nonostante nel corso del tempo Ruby ne avesse fatto sempre a meno.
Forse perché non c’era mai.
Forse perché era sempre al lavoro. Sempre a migliorare la propria posizione, sempre a ricoprirsi d’oro e cemento, per diventare forte e prezioso, ma inarrivabile, irraggiungibile per chiunque altro.
Dietro i suoi occhi, che avrebbero dovuto piangere lacrime salate come il mare che si vedeva qualche passo oltre la porta di casa sua, Lino riusciva a vedere il fallimento di un uomo infallibile, di quell’uomo che non poteva permettersi di essere debole, diventando pertanto un uomo debole.
Gli faceva strano interpretare il suo sguardo, il suo silenzio. Per la prima volta si rese conto che Norman non fosse soltanto il suo lavoro, un Capopalestra burbero e roccioso, ma anche il padre di Ruby.
E la cosa strana fu che non gli era mai capitato di rendersene conto.
Si mise nei panni di Ruby, indossando le sue scarpette da corsa e quel cappellino bianco di qualche taglia di troppo, la grande tracolla verde, che si chiudeva sul petto ossuto.
Guardava il mondo senza la maschera dell’ossigeno legata alla faccia e tutto ciò che chiedeva era che suo padre si accorgesse di lui. Ripensò anche al suo, di papà, così apprensivo e fece un paragone.
Tutto sembrava così paradossale.
Norman, grande e grosso, dal volto ben rasato e dal colletto della camicia inamidato, sempre ordinato, sempre regolare, sempre disciplinato, non era altro che un uomo in piedi sul ciglio del baratro che stava tirando dal vuoto ciò che aveva di più prezioso, stringendo una fune che gli stava segnando le mani. E aveva paura di perdere tutto.
E aveva paura di cadere.
- Signor Norman, signore… - disse Lino, ormai stanco di quell’apprensione. – Credo che ci sarà tempo e luogo per sistemare le cose, se ce ne sarà volontà. E lei ne è il campione. Ora però c’è… c’è Whiteley che…
- Sì! Signor Normanson! - s’inserì. – Ruby è stato male, è vero! E lei non lo sapeva! Ma poi è stato subito meglio! Lui, lui… - alzò poi di nuovo gli occhi al soffitto, a leggere un copione che sapeva essere scritto tra le due plafoniere di vetro spesso che illuminavano l’intero ufficio. - … beh, Ruby è semplicemente Ruby! È una persona! Eccezionale, certo, ma pur sempre una persona! Lui ha fatto tanto per noi dell’Atelier Automne, ha creato dal nulla qualcosa di meraviglioso e ci ha resi speciali…
- Lei potrà dire tante cose, sul suo rapporto con Ruby… - aggiunse Lino, mentre un confuso Norman rimbalzava lo sguardo a destra e a sinistra. – Ma quello che le invito a pensare è che, nonostante tutto, suo figlio è un uomo adulto, che ha deciso di prendere la sua strada. E conoscendolo, avrebbe fatto lo stesso anche se lei avesse vissuto tutto il tempo sulle sue spalle.
- Stiamo parlando di un’overdose da ansiolitici, Lino… - rispose quello.
- Lo so. Ma non tutti reagiscono allo stesso modo. Suo figlio è sempre stato serio e disciplinato… Basti fare un paragone con Sapphire! Lei dieci anni fa si arrampicava sugli alberi e si cacciava nei guai, e Ruby l’ha tolta dai casini ben più di una volta! Quindi non stiamo parlando di un disadattato…
- Anche ad Austropoli non ha mai fatto nulla di male! Era sempre elegante e puntuale! – disse l’altra, annuendo energicamente. – E in poco tempo è diventato una figura di riferimento per la signora White! E lei è… - e poi un sorriso s’espanse sul suo volto diafano. - … lei è difficile…
Norman rimase in silenzio, poi abbassò lo sguardo.
- E poi dopo quella breve parentesi in ospedale si è ripreso alla grande… - continuò la donna. – Ha traslocato dall’albergo dove viveva e ha preso casa, e poi ha cominciato la sua relazione con… con Yvonne… - fece, e mentre pronunciava il suo nome abbassò lo sguardo nuovamente sulla borsetta, mutando totalmente espressione.
Il Capopalestra s’accigliò.
- Cosa c’è, adesso?
- Il fatto è che non ho molto tempo, devo tornare a casa mia… c’è un grosso lavoro che ci aspetta e come le ho già detto sono venuta qui per cercare Ruby, ma la produzione deve andare avanti lo stesso…
- Giusto così.
- La signora White troverà sicuramente un modo. Però dovevo provare…
Norman dipinse una smorfia sul suo volto, quindi sospirò. – Beh. Lui non c’è.
- C’è dell’altro… - continuò. Lino la vide stringere i pugni forte e schiudere le labbra.
- Di cosa parli?
- Prima… abbiamo parlato di Yvonne…
- La modella. So che frequentava mio figlio, li ho visti su di una rivista.
- Sì. I due sono stati assieme per un po’ di tempo ma poi hanno litigato e lui è andato via solo dio sa dove…
Lino guardava la scena dall’esterno, senza sapere.
Senza immaginare.
- Va bene. – chiuse Whiteley. Si alzò in piedi, stringendo ancora la borsa tra le mani e assumendo un’espressione corrucciata. – Ruby deve assolutamente tornare perché…
- Perché?
- Ruby… - sospirò l’altra. – Lui, ecco, non sa che Yvonne è incinta.
Fu un attimo, e gli occhi di Norman si spalancarono. Batté le palpebre un paio di volte e schiuse le labbra, cercando di trovare le parole giuste per poter ribattere in qualche modo a quella frase.
La verità, però, era che non esistesse nulla da poter dire.
- Incinta. – si limitò a ripetere. Non era neppure una domanda.
- Sì. A breve Yvonne partorirà.
- E lui non sa nulla?
- Nulla. – rispose l’altra, facendo cenno di no con la testa.
- Nulla…
- Nulla.
Il respiro dell’uomo si stoppò, anche se soltanto per un secondo.
- Lo avvertirò non appena mi telefonerà. – Spostò poi lo sguardo verso destra, fissando il cellulare, sperando quasi che Ruby potesse chiamarlo in quel momento.
- Mi scusi, ma ora devo proprio andare. – disse poi Whiteley, esibendosi in un piccolo inchino del capo.
- Vai, vai. – annuì Norman, che poco dopo rimase da solo in quell’ufficio, pronto ad affrontare il peggiore avversario che potesse mai ritrovarsi davanti.

Se stesso.

Kalos, Borgo Bozzetto, 20 giugno 20X1


Ormai, la notte era scesa da un paio d’ore.
Di tanto in tanto, qualche sera d’estate si rivelava un po’ troppo umida anche in quel gioiello nascosto tra le valli alpine del sud; l’aria si permeava di quell’odore che proveniva dai boschi, che Yvonne amava, anche se era tardi e lei era ormai stesa sopra le coperte, senza riuscire ad acciuffare il sonno, neppure una volta.
Pensava. Forse pensava troppo. Si rigirava tra le lenzuola, come se percepisse che il riposo meritato fosse sempre alle sue spalle, ma poi, quando si voltava, non riusciva a trovare nulla.
Sbuffò, rovesciò il cuscino dal lato più fresco e alzò i capelli verso l’alto.
Parve trarne beneficio.
Guardò il soffitto, sentiva i dolori alla schiena e la pesante, la nausea, poi la fame, e un insieme di emozioni e sensazioni che, istantaneamente, avrebbe barattato col contenuto dell'enorme pancione, che incombeva su di lei e le dava quella forma così poco aggraziata.
Nonostante tutto, Yvonne non era ancora abituata a vedersi in quel modo.
Ma poco poteva farci, lo sapeva.
Pensò alla sua giornata, a come fosse cominciata male, con sua madre, e a come poi era continuata, con quel pranzo da Xavier.
E Shana. Ancora non se ne era capacitata.
Batteva le palpebre, come fossero tergicristalli su quei due parabrezza grigi come l'acciaio, che nonostante il buio splendevano alla luce della luna, che finì poi per guardare, attraverso i vetri un po' troppo doppi delle finestre della sua stanza.
Pensò che quella sera, la luna fosse davvero grande.
Divagava, si rimproverò di non farlo più, poi tornò a visualizzare Shana e Xavier che si tenevano per mano, che cucinavano assieme, che parlavano, che si baciavano e vivevano la loro vita come dei perfetti novelli sposi.
Avevano messo in tavola un flan di zucca molto saporito, farcito con del formaggio ben stagionato, e s'erano impegnati a non sembrare quelli strani, quando Yvonne chiese loro per quale motivo vivessero ancora in quel posto dimenticato da dio o da chiunque ne facesse le veci.
- Vuoi mettere la vista che abbiamo ogni mattina? - aveva risposto Shana, prendendo poi a elencare tutti i benefici di non vivere in una città grande come Luminopoli, che non distava molto lontana da Borgo Bozzetto.
- Punto primo, l'aria è pulitissima! Punto secondo... qui conosciamo tutti e tutti ci conoscono! C'è fiducia reciproca, perché siamo una comunità che ha a cuore il bene del prossimo... Non c'è criminalità, punto quarto e, punto quinto, è il posto dove siamo cresciuti.
Finita quella frase, entrambi si scambiarono un sorriso, entrambi annuirono. Yvonne avrebbe voluto ribattere che anche lei era cresciuta lì, ma paragonare Austropoli a Borgo Bozzetto era del tutto fuori luogo. Pensò che, ovviamente, le metropoli avevano degli svantaggi rispetto ai piccoli centri rurali come quello, ma si rese conto poi che i lati positivi superavano di gran lunga le mancanze. Lo stesso Xavier, da sempre più moderato nelle sue esternazioni, regolò un po' il tiro della moglie.
- So bene che vivere in città possa sembrare più affascinante ma la realtà è che dipende dalle esigenze personali, e da come una persona vuole vivere la propria vita... Io lavoro a Luminopoli, te l'ho detto, e dieci minuti di passeggio tra le strade sono intensi, a livello di traffico, persone che t'infastidiscono, che cercano di farti comprare qualcosa... Però hai tutto a portata di mano. Alla fine abbiamo tirato le somme e...
- E abbiamo deciso di rimanere qui! - concluse Shana, sempre energica, sovrapponendosi all'uomo che aveva accanto e poggiando la mano sulla sua.
Yvonne ripensava al suo sorriso energico, alle loro dita che s'intrecciavano sulla tovaglia di cotone bianco, davanti allo sformato fumante e alle posate d'argento che probabilmente, pensò, appartenevano alla nonna dell'amica. Le guardò meglio, coi rebbi larghi e lucidi.
Argento buono.
Roba di altri tempi.
Stava divagando di nuovo, stesa lì, nel suo letto. Poi sbuffò e un soffio d'aria le accarezzò il collo. Si limitò a chiudere gli occhi, per godersi quel bacio fresco, prima di ritornare ancora una volta lì, a casa di Xavier e Shana che si tenevano per mano.
E ne era infastidita.
Sbuffò, evase da quel ricordo e capì che non avrebbe dormito di lì a breve quindi decise di alzarsi dal letto, facendo forza sulle braccia per sedersi.
Non ne capiva il motivo ma una sensazione d’ansia incandescente le rimestava bile e pensieri. Guardò nuovamente oltre la finestra, verso il firmamento, mai così bello e prepotente negli ultimi otto anni, quando la sera si riempiva di riflettori e anche la più luminosa delle stelle faticava a risaltare, in mezzo alla luce sporca dei lampioni sui marciapiedi.
- Che bello... - disse tra sé e sé, con un filo sottile di voce. Pensò che quello spettacolo meritasse di essere apprezzato meglio; si alzò e infilò le ciabattine rosa, quindi le strusciò in avanti fino alla porta, e poi ancora oltre, verso il corridoio, fino a raggiungere le scale.
Sperava di non svegliare sua madre, scendendole. Erano le quattro e un quarto del mattino e ricordava che sua mamma non riusciva a connettersi col mondo se non riposava otto ore filate, quindi scese senza far alcun rumore, e fu bravissima, pensò, prima di sentire forte la voglia di fragole grattarle il palato duro. Andò in cucina, aprì il frigorifero e le trovò in una ciotola di terracotta beige, già tagliate a tocchetti, insaporite con zucchero e succo di limone.
Sorrise, sua madre le preparava sempre, quando era bambina. Prese l’intera ciotola e un cucchiaio da portata, forse un po’ troppo grande per la sua bocca, e dopo ritornò sui suoi passi. Aprì la porta di casa, girando un paio di volte la chiave nella serratura.

Quando mise piede fuori si sentì immediatamente più leggera. Un velo sottile d'aria più umida e fresca le si poggiò addosso. Sorrise, lei, immobile, con la ciotola tra le mani, come se avesse ricevuto qualcosa di meraviglioso. Respirò profondamente, tirò fuori dal corpo quell’ansia, sempre inopportuna, e lasciò le ciabatte davanti alla porta, dato che voleva affondare i piedi nell’erba, come faceva sempre, prima che andasse via da Kalos.
Si avvicinò al piccolo dondolo accanto alla profumatissima siepe di alloro che divideva il loro giardino da quello dei vicini e vi si sedette.
Prese a cullarsi, prese a mangiare. Pareva più spensierata, mentre i piedi venivano solleticati dai fili d'erba un po' troppo cresciuti. E forse era davvero così.

Forse lei stava bene, lì.

Ingoiò un paio di cucchiaiate di fragole e poggiò la testa sul montante del dondolo.
Ricordava scene di lei da piccola, quando quel giardino le pareva davvero immenso e il mondo era un po' meno infame.
Carezzò il pancione e pensò che fosse proprio quello il mondo in cui suo figlio sarebbe dovuto nascere.
Forse era una femmina, anche se sperava non fosse così.
- Che amarezza... - fece, abbassando il capo e sospirando.
Non sapeva neppure se avrebbero avuto un bambino o una bambina, lei e Ruby.
Ruby.
Ripensò al volto di quell'uomo, ai suoi occhi pieni di luce, alle sue labbra che la baciavano.
Alle parole che aveva sempre rivolto verso di lei.
Inutile negarlo, amava ancora quell'uomo, nonostante fosse sparito vigliaccamente dalla sua vita e da quella di tutte le persone che conosceva.
Lo immaginava con un'altra donna, con in braccio un bambino, o forse una bambina. E insieme, tutti e tre, vivevano una vita felice, come quella che non avrebbe mai sognato di volere quando infilò quattro pantaloni e sei magliette in un trolley e volò via da Kalos.
Com'erano cambiate, le cose.
Aveva sognato il successo ed era arrivato quando meno lo aveva cercato.
E poi, in quella notte d'estate che poi tanto calda non era, si era resa conto di volere qualcosa che avrebbe potuto avere anche senz'andare così lontano.
Un uomo, una famiglia, magari un lavoretto part-time. La cucina, l'orto, le faccende assieme al marito, il sesso coniugale e poi ancora, i problemi, le liti.
I ricongiungimenti.
Era sola, su quel dondolo, e le fragole forse erano troppe.
Sbuffò, le poggiò accanto e si fermò a pensare.

Forse Ruby preferirebbe una femmina...
Ovviamente, preferirebbe proprio una femmina... Si sveglierebbe di notte per cucirle i vestitini addosso, la porterebbe sulle spalle fino a... fino ai quattordici anni, forse.

Ed era sicura, Yvonne, che sarebbe stato il migliore dei padri.
Quella bambina sarebbe diventata una principessa, e lo sapeva lei, che per mano sua era diventata una regina.
Che era ciò che facevano i re. Elevano tutto.
Ruby era un re e lei provava un sentimento strano nei suoi confronti, che poco si discostava dall'odi et amo con cui già conviveva da tempo.
Sì, perché si sentiva contemporaneamente vittima e carnefice; sapeva che quel bambino sarebbe nato senza un padre, strega com'era lo sentiva fin nelle viscere, e sapeva pure che la colpa non sarebbe stata di nessuno se non la sua, se Ruby aveva deciso di scappare via.
Riusciva ancora a rivederla, quella scena, mentre lui la sottoponeva alla giuria del suo sguardo impietoso, con la lettera che aveva lasciato Sapphire in una mano e le chiavi di casa nell'altra.
Fu il boia di due amori, quel gesto, il suo e quello di Ruby, entrambi.
Pensò che Ruby e Sapphire non si sarebbero mai lasciati, se lei non si fosse mai comportata in quel modo.
La luce della luna la rendeva ancora più bella, anche se sul volto affranto la preoccupazione e l'ansia stavano cominciando a disegnare l'espressione di chi aveva solo una domanda, da porre all'universo.

Ho davvero sbagliato, a fare ciò che ho fatto?

Il dondolo cigolava sotto il peso suo e della sua creatura, mentre continuava a guardare le stelle nel cielo. Batteva gli occhi e non le parevano più le stesse. Ma le stelle erano così, furenti e capricciose. Mai dome, mai ferme.
Sbuffò, pesante, mentre davanti ai suoi occhi si presentarono due demoni. Si avvicinavano sinuosi come cobra, col loro sguardo ipnotico. Erano orribili e spaventosi, longilinei e magrissimi, dalla pellaccia olivastra, dura, e gli occhi rossi come il sangue, scavati da milioni di notti insonni. Brutti, coi capelli radi, ma alti sulla testa, come setole infeltrite di uno spazzolone, avevano finito per sedersi lì accanto a lei, uno a destra e uno a sinistra. Si erano avvicinati alle orecchie della donna, che sentiva il loro fiato pestilente, incandescente, sulla pelle candida del collo.
Era impaurita, lei, immobile, e lasciò che avvicinassero le loro dita puntute alle sue guance.
La graffiavano.
- È lei, la stronza? - chiese quello di destra a quello di sinistra.
- Già. Sapphire ci ha mandati da lei...
Il cuore di Yvonne saltò un paio di battiti e la bocca si asciugò subito, quasi le pareva di percepire la sabbia del deserto sulla lingua.
- Dovremmo farle capire che si è comportata come una stronza... - aveva ripreso quello di sinistra, con la voce più stridula che si potesse avere.
L'altro si limitò solo a sorridere, graffiando con più forza la guancia della donna, che rimaneva con gli occhi spalancati, immobile.
- Ma lei lo sa già...
- Che puttana! - rise di contro, l'altro.
Entrambi le carezzarono le braccia, poi poggiarono le mani rugose sulla pancia. Yvonne era ferma, paralizzata dalla paura che facessero del male al suo bambino. Percepiva lento il sudore congelato scenderle dietro la schiena, attraversando la linea che si snodava tra le scapola.
- E questo è il figlio di quell'uomo... - disse quello di destra.
- Ma tu l'hai rubato quell'uomo... Non te lo meritavi!
- Come i codardi che non sanno affrontare la realtà...
Le labbra della donna cominciarono a tremare. Non si accorse che le lacrime le avevano percorso l'intera lunghezza del volto, incontrandosi sul mento delicato e cadendo sulla vestaglia, ormai madida per via del calore che aveva percepito fino a quel momento.
- Che c'è? - chiese quello a sinistra. - Hai paura?
- Ma noi non ti vogliamo fare nulla!
- Già! - rise ancora il primo. - Noi vogliamo solo sbatterti in faccia la verità!
- E la verità è che sei una puttana!
E le risate fragorose si alzarono al cielo. Urlavano loro, Yvonne pensò che i vicini avrebbero sentito tutto, e si sentiva così tremendamente violata e imbarazzata da voler scavare con le mani un fosso tra i trifogli di sua madre e infilarsi lì dentro per sempre.
- Ma Ruby ora lo sa... - aveva detto quello di destra.
- Sì?
- Certo! È scappato, non torna più... lui si meritava una donna vera...
Le unghie di questo cominciarono grattare sul tessuto ruvido della veste, proprio in corrispondenza della pancia.
- Invece ha posato un bambino nella pancia di questa qui! Ma guardala! - rideva l'altro, a perdifiato, mentre Yvonne rimaneva rigida e paralizzata, a fissare gli artigli affilati che premevano sempre di più sul ventre; avrebbe voluto gridare con tutta la sua forza, sbattere quei due mostri lontano da lei, ma l'unica cosa che riusciva a fare era piangere.
Tremava.
Guardava le sue mani, la testa le scoppiava. Il cuore batteva come se fosse impazzito.
- Che donna inutile...
- Ma che esistenza credi di poter dare, a questa creatura?
- Sarà letteralmente un figlio di puttana...
Risero entrambi.
- Già! E appena saprà ciò che hai fatto finirà per odiarti anche lui!
- Avresti dovuto abortire quando potevi!
- Un bambino senza padre!
- In un mondo come questo!
- E tu sei impotente!
- Tu sei inutile!
- Non potrai mai dargli tutto ciò che chiederà! Ma t'immagini la scena, quando le chiederà chi è suo padre?!
E ancora, le risate si levarono fragorose in quella notte. Gli occhi di Yvonne si spostarono, mentre il cuore le faceva male in petto e i denti finivano per massacrare il labbro inferiore. Aprì la bocca, per urlare, ma dai polmoni stanchi non usciva più nulla. Tremava e piangeva.
- Non hai un padre, piccolo bambino! Ho pensato che non ti servisse! - aveva risposto l'altro demone, scimmiottando la voce di Yvonne. - Ti basterà una madre!
- Se sarà una donna spero non prenda da lei, altrimenti finirai per fare delle scelte di merda!
E ancora, le risate più malvagie e violente che potessero emettere, quei due corpi deformi, si levavano in alto. Gli occhi della bionda si spostavano nervosi sulle finestre del vicinato, sperando che nessuna luce le riempisse.
- E se sarà un uomo non saprà mai cosa fare!
- Ciò che è certo è che finirà per odiare questo mondo!
- Io non vedo l'ora che nasca! - disse, quello a sinistra. - Torneremo qui e lo divoreremo, ancora in fasce!
Le lacrime ormai le cadevano sul petto, impietose e bollenti come sangue. Le mani continuavano a tremare ma tanto era il senso di protezione per quella piccola creatura che riuscì a muoverle e poggiarle proprio sul grosso pancione, spostando quelle dei due mostri osceni.
Avrebbe voluto urlare loro che si sbagliavano, che sarebbe stata una grande madre, che quel bambino avesse o meno un padre, e che l'avrebbe inondato di tutto l'amore possibile.
Ma nel profondo dell'anima, nella parte più buia e polverosa, Yvonne sentiva che ognuna delle parole di quei mostri fosse così vera da risultare come un marchio a fuoco sulla carne viva.
E l'odore, quell'odore nauseabondo, non era altro che la verità.
L'aria vibrava tra gl'incisivi, quando inspirava, si fermava per un attimo nei polmoni e tornava fuori, e anche se le labbra tremavano lei doveva trovare la forza per parlare.
- ... io... - cominciò a sussurrare, ansimando, mentre le lacrime continuavano a scendere copiose. - N-no.. io non... non vo...
E i mostri continuarono a ridere.
- ...le... vole... io non...
- Cosa sta dicendo?
- I...io...
Tossì Yvonne, piangeva ancora, ma riuscì a muovere i palmi delle mani per asciugare le lacrime sul volto.
- Guardala... - disse quello di destra, assumendo immediatamente un'espressione schifata.
- Sì...
- Sta provando a giustificarsi... Brutta stronza, ma lo sai che hai fatto?
- C... cosa... - chiese l'altra, senza neppure porre la domanda, parlando con immensa fatica.
- Lo vuoi sapere?
- I-io non ho... fatto...
- Lui non ti apparteneva!
- No! Lui non era tuo!
- Lo hai rubato alla donna della sua vita!
- E lo hai sedotto! Perché sei una puttana!
- Sì! Solo una puttana!
Ascoltava le loro voci. Quella parola la feriva al pari di un fendente di sciabola affilata. E la riempiva di una rabbia rossa e densa, che nasceva dal centro dello stomaco e risaliva acida verso la bocca, dando energia.
Dando forza.
- Zitti!

La sua voce rimbombò forte lungo tutta la valle. - Io non sono una puttana!
- Hai rubato quell'uomo!
- Non ho rubato nulla! - replicò, con la voce roca. Umettò le labbra e riempì i polmoni d'aria, mentre il cuore pompava sangue nelle arterie. Il viso della donna si fece paonazzo e i pugni si strinsero con così tanto vigore da darle dolore alle dita.
- Ruby ha deciso di stare con me! E... e io ne ero innamorata! Mi trattate come un'assassina m-ma... i-io non ho ucciso nessuno! E poi, questo bambino! Questo miracolo è il frutto dell'amore più puro che c'è!
E le luci del vicinato cominciarono ad accendersi. Il panico negli occhi della donna era ormai visibile, dato che li aveva resi opachi, accecandola e nascondendole la realtà.
- Tu lo hai rubato!
- Come fa una ladra!
- Lui non era di nessuno! Non è un oggetto! - urlò. Fece poi per muoversi, sbracciando e spostandoli. Quelli ricaddero entrambi ai suoi piedi. Non accennavano però a smettere di ridere, divertiti.
- Era di Sapphire. - aveva detto il primo.
- Tu hai preso l'uomo di Sapphire!
- Sì! Okay?! Ho preso l'uomo di Sapphire e poi l'ho fatto diventare il mio uomo! - ribatté furibonda Yvonne, con le lacrime agli occhi e i denti stretti. - Ma questo non mi renderà una donna peggiore! E voi non riuscirete a farmi sentire peggio di quanto non mi senta già!
- Questo perché sei colpevole!
- Colpevole!
- Colpevole!
I demoni si alzarono in piedi e si avvicinarono a lei, famelici, allungando ancor di più gli artigli e mostrando le fauci affilate. I quattro occhi spiritati di sangue la fissavano, come facevano gli occhi del predatore sull'umile preda,
- Tu soffrirai!
- Sì! Noi ti faremo soffrire!
- Lo faremo ora!
- Lo faremo per sempre!
Le loro voci diventavano sempre più forti, e si abbassarono entrambi, pronti per scattare e saltarle addosso.
Yvonne lo sapeva; portò le mani sul volto, disperata, mentre il piccolo scalciava. E anche se attorno a lei c'era il giardino, il prato di trifogli e le alte siepi, e gli occhi delle persone che ormai s'erano affacciate alla finestra potevano testimoniarlo, tutto ciò che percepiva lei era il vuoto, e il caldo dell'infermo di chi aveva il diavolo a inseguirlo, pronto per portarlo giù con se.
Non li vide, ma gli artigli freddi di quelli cominciarono dilaniare il suo corpo.
E il dolore era così forte da non farla muovere più.
E morì.

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Capitolo 10
*** Chapter 10 ***


Against Me

Quando tutto cade.

 

 

 
 
Kalos, Borgo Bozzetto, 21 giugno 20X1


- Yvy… sveglia…
La voce di Grace era leggera e soffice, come la spuma delle onde.
Riusciva quasi a percepire il dolore di sua figlia, che continuava a dormire supina, con la pancia gonfia stretta tra le mani e il volto rigato dal pianto; le lacrime, come linee incandescenti sul suo volto opalescente, scendevano laterali baciandole gli zigomi e impregnando la federa del cuscino di cotone candido e profumato, ai lati della testa.
Aveva avuto il tempo per sistemare i capelli dorati in una lunga treccia, prima di andare a dormire, proprio come le aveva insegnato quand’era bambina.
Grace poggiò poi una mano sul volto di sua figlia, incandescente.
Sospirò.
Guardò quel pancione, sommò l’espressione che aveva sul volto e fu colta come da un’ondata di gelo, che le attraversò il corpo e la raggiunse fin nelle ossa.
- Yvonne… - aveva ripetuto, cercando di destarla da quel sonno disturbato. Pensò che fosse stata troppo dura, con lei: era un bambino, quello che portava in grembo, non l’anticristo. Non era la prima donna sulla faccia della terra a partorire un figlio che non avrebbe avuto entrambi i genitori. Di certo non era una cosa impossibile.
Yvonne era una donna forte, aveva sfidato le avversità per seguire i propri sogni, scappando via da quella valle sonnecchiante e prendendo più di un autobus, più di un treno, un aereo e solo dio sapeva cos'altro, una volta atterrata oltreoceano.
Grace sospirò, guardando oltre la finestra. Carezzò nuovamente il viso di sua figlia, spostando poi la mano sul grosso pancione, sentendo la creatura agitarsi. Non riuscì a trattenere un piccolo sorriso, la donna, gettando i pensieri in avanti, a quando quel bambino, quella bambina, sarebbe stata tra le sue braccia, e magari le sarebbe somigliata, con quegli occhi grigi che le davano l’espressione fredda come l'acciaio, ammorbidita da quel paio di labbra gonfie e rosee.
Ricordava, Grace, quando i denti di Yvonne spingevano per uscire dalle gengive, e la piccola urlava con tutta la forza che aveva nei polmoni. Aveva cominciato a perdere le speranze quando, dopo diciannove ore ininterrotte di pianto e di sonno mancato niente cambiava.
Aveva chiamato sua madre, quella era corsa da lei in poche ore, con un mazzo di lavande tra le mani, che aveva messo in un vaso accanto all'ingresso, e un pezzo di pane caldo. Le aveva detto di guardare come si faceva, per la volta successiva, poi le aveva strappato Yvonne dalle mani e aveva cominciato a cantarle la berceuse des reves, la stessa nenia che le veniva cantata a sua volta da sua madre.
Forse le cose dovevano andare così.
Forse tutto doveva ripetersi, e Yvonne avrebbe dovuto rivivere il suo dramma, la sua tragedia, e ritrovarsi giovane e bella con una figlia problematica e sognatrice.
Una perla, rinchiusa tra le valve di quell’ostrica tra le montagne.
- Yvonne… sveglia… - la chiamò di nuovo, prima di rendersi conto che non sarebbe stato proprio così.
Lei aveva lottato ed era riuscita a conquistarsi un posto importante all’interno del mondo che aveva sognato. Determinata, lei. Sognatrice, lei.
Coraggiosa.
Proprio quel coraggio che Grace riconobbe non avrebbe mai avuto, assieme all’incoscienza di vivere una vita come aveva fatto Yvonne; sua figlia, la donna che le giaceva davanti col volto graffiato dagli incubi, meritava rispetto.
Si abbassò su di lei e le baciò la guancia destra. Il suo profumo era dolce e penetrante.
- Amore… svegliati…
E quella aprì gli occhi, dopo aver battuto le palpebre qualche secondo di troppo, con l’espressione di chi non era riuscito a fuggire dai propri incubi.
- Mamma…
La sua voce era compressa e parzialmente rotta dal pianto. La paura era trasmessa sul suo volto, come se al posto di sua madre ci fosse stato un vecchio proiettore Prevost dalle bobine polverose.
La più grande sospirò e storse le labbra.
- Sei qui da così poco tempo e già ti ho vista piangere troppe volte…
Yvonne si sedette accanto a lei.
- Era un sogno…
- Già. Ti ho sentita urlare…
Sua figlia abbassò lo sguardo. Automaticamente portò la mano bollente sul ventre.
- Non vedo l’ora che tu esca fuori… - sussurrò alla sua creatura.
- Sei tutta sudata. Hai bisogno di una doccia.
Yvonne annuì. Si alzò in piedi e sbuffò. Il seno stava per esplodere e la schiena le si stava per spezzare. Non avrebbe resistito ancora molto.
- Scusami… - disse. – Ti ho svegliata.
Grace inarcò spalle e sopracciglia, poi poggiò le mani sulle ginocchia e sospirò. La guardò, forse per un minuto, forse per l'eternità intera, mentre lo sguardo della figlia rimbalzava fugace sulle pareti della sua cameretta.
- Torna qui… - le disse, facendole spazio sulle lenzuola sgualcite. Yvonne annuì, afferrò il bicchiere ottagonale con l’acqua e lo buttò giù. Non era più fresca e le gocce di condensa si erano accumulate sul comodino. Dopodiché, si accomodò accanto a sua madre, che le strinse con vigore le mani.
Lo sguardo di sua figlia era basso, fisso sulle ginocchia di Grace.
- Guardami… - l’ammonì quella, prendendole poi il mento tra le dita e girandola verso di lei. Tuttavia gli occhi di Yvonne ancora non volevano farsi catturare.
- Mamma... - ribatté, come fosse quasi un moto di ribellione
- Guardami. - ripeté.
E quando si connesse a quei pozzi d’argento, Grace riuscì a leggerne appieno paure, tristezze e speranze. E a nulla servì il successivo tentativo della più giovane di riavvolgere lo sguardo e gettarlo oltre la finestra che aveva davanti, perché ormai sua madre l'aveva predata.
Tanto valeva farsi sbranare.
- Allora? – chiese la più grande, dopo aver atteso pochi secondi che il cuore di sua figlia riprendesse i giri. Quella sospirò, poi annuì.
- Sono una stupida, vero? - domandò, abbassando gli occhi. Sua madre le lasciò il viso e incrociò le braccia.
- Sicuramente. Ma non per le scelte che hai fatto da quando sei diventata madre.
- Io non sono ancora una madre.
- Sei una madre non appena non controlli più la pipì, tesoro...
E lì Yvonne, bella come la luna di quella notte, nonostante non avesse ancora smesso di lacrimare, aveva sorriso. E anche sua madre lo fece.
Stinse di nuovo le sue mani, incandescenti.
- Vuoi che indovini io o, per una buona volta, parlerai tu?
- Andiamo… indovina...
Grace annuì e rimase a contare per qualche secondo i frammenti del respiro di sua figlia. Quando ne ebbe abbastanza, alzò gli occhi al soffitto.
- Oggi sono stata dura, con te. Oh cielo, lo sono stata spesso... Nessuno mi ha insegnato come essere una madre…
Lasciò le mani dell’altra e, con un piccolo sforzo, si alzò in piedi. Le diede le spalle solo per qualche secondo, poi si voltò e lasciò cadere le mani ai fianchi.
- Con te non è stato semplice. Da quando ti ho concepita fino a oggi… Sono stata spesso sola nelle mie decisioni importanti…
- Mi spiace molto…
- Di cosa? Di esser nata?! Non dire assurdità! È che non sapevo dove mettere le mani, con te e tutta questa storia della maternità… volevo il meglio per te ma finivo soltanto per creare altri problemi. Il mio corpo a un certo punto mi chiese una tregua…
- Lo sto capendo.
- Tu piangevi in continuazione… - sospirò quella. – Avevo bisogno di dormire, ma ero sola, in questa casa. Lavoravo… di tanto in tanto mia madre mi dava una mano, con le cose più difficili… forse se ci fosse stato tuo padre sarebbe andato tutto in un altro modo…
- In che senso? – domandò Yvonne, asciugandosi le lacrime col polso. Batté poi le palpebre, fissando la donna coi grandi occhi spalancati.
- Nel senso che, crescendo, non mi avresti vista come il nemico.
Yvonne fece cenno di no con la testa, abbassando lo sguardo.
- Tu non eri il nemico…
- Forse non saresti andata così lontana da me, per cercare la tua strada… - continuò Grace. – Magari non sarei stata l’unico bersaglio della tua ira. Forse non te la saresti presa solo con me…
- Eri una stronza, mamma…
Grace spalancò lo sguardo e schiuse le labbra, indossando una maschera d'incredulità.
- Yvonne!
- Sono incinta, lasciami stare...
- Va bene... Ma poi ne riparliamo!
Annuì, l’altra, facendo spallucce. Riportò le mani sul pancione e batté gli occhi stanchi.
- La questione è che... - riprese la più piccola delle due. - Non sono mai riuscita a farmi capire da te.
- Eppure abbiamo una quantità di cose in comune da far impallidire... Anche io mi presentai a casa di mia madre con una pancia enorme, forse più grande e...
- Ovviamente...
- E la nonna non sapeva nulla. Sai... - continuò, incrociando le braccia sul petto. - ... a mia madre non andava a genio che io gareggiassi sulle auto da corsa. Ma era la mia passione...
- E a mia madre non è andata giù la mia idea di partire per Unima...
- Il mio era un ambiente maschile. Erano davvero poche le donne nei vari box, e spesso le uniche erano le pilote stesse. E io venivo dalla periferia della periferia, e avevo talento e voglia di fare... Ed ero bella.
- E ancora, viva la tua modestia...
Grace appuntì lo sguardo, quindi assunse una smorfia di disappunto sul volto.
- Tu che sei meravigliosa, sai a chi assomigli?
- Mio padre, no? – provocò l’altra, col sorriso sulle labbra.
- Di tuo padre non hai nulla... neanche il cognome... - ridacchiò quella, a mezza bocca. - Era il mio allenatore. Sempre vicini, sempre insieme. Una sera, dopo l'ennesimo campionato vinto...
- Di nuovo...
- … Siamo stati una notte assieme. E nove mesi dopo sei nata tu... non c’è mai stato nulla tra noi, né lui ha mai voluto avere tanto a che fare con te... ci spediva di tanto in tanto dei soldi, che io non gli chiedevo...
- E in questo non siamo così simili...
- Perché?
Yvonne cercò di raccogliere tutta l’ansia che aveva in corpo, per canalizzarla verso l’alto, fino a catturarla tra le corde vocali, dove avrebbe potuto cacciarla fuori.
- Questa creatura… - disse, carezzando ancora il pancione. - … questo bambino è frutto del più grande amore della mia vita...
Grace appuntì il viso.
- Ho voglia di fragole... - fece. – Dovrebbero essercene in frigo, ieri, sapendo che fossi qui, te le ho preparate. Dopo, però. Ora puoi spiegarmi che cos'è successo?
Yvonne non piangeva più, ormai. Batté le palpebre stanche e sospirò.
- È lunga, la storia...
- A meno che non ti si rompano le acque adesso, abbiamo tempo... - fece, avvicinandosi nuovamente a lei.
- Bene…
Respirò profondamente. Sapeva che sarebbe stato problematico, raccontarle quella storia: avrebbe dovuto combattere contro il giudizio negli occhi di sua madre, mentre le diceva che si era sentita spaesata un secondo dopo aver messo piede ad Austropoli, e che si era resa conto della propria irresponsabilità non appena scesa dall’aereo. Avrebbe dovuto ammettere che senza Shana si sentiva libera e sola, e che si era assicurata un tetto sulla testa grazie alla comune da cui lo stesso Ruby l’aveva tirata fuori.
Avrebbe dovuto dirle del fatto che aveva fatto i lavori più disparati, senza conoscere quella nuova lingua, e rassicurarla che no, non si era spogliata per soldi, ma che aveva provato a tirare avanti facendo la commessa in un 7/11 al mattino e la lavapiatti in una cucina di un ristorante di sera.
Dormiva quattro ore, e aveva conosciuto Sergej per puro caso, prima che tutto le crollasse addosso.
- Era uno spacciatore… - le disse.
- Cosa?!
- Ero depressa e debole… Spesso saltavo i pasti perché non avevo soldi. A malapena riuscivo a mantenere quel fragile equilibrio.
- E lui? – domandò Grace, inarcando un sopracciglio.
- Lui all’inizio era comprensivo… Era un bell’uomo, protettivo…
- Non sapevi che lavoro facesse?
Yvonne abbassò lo sguardo, colpevole.
- Sì. Ma in quel momento non me ne importava…
Grace sbuffò, nascondendo il volto tra le mani. Cercava di mantenere il controllo.
- Yvonne… - fece.
- Mamma, ora sto bene… sono qui…
- Non dirmi che questo spacciatore è il padre di mia nipote… - ribatté, col terrore negli occhi.
- Mamma! No! Cosa diamine ti viene in mente?! No!
- Scusa… - alzò lo sguardo verso l’alto, Grace.
- E poi non conosco ancora il sesso. Non so se è femmina o maschio…
- Probabilmente sarà un maschio…
- Ma io voglio una femmina!
Grace ridacchiò. – Allora avrai una femmina… Continua…
Yvonne annuì.
- Beh… Cominciai una relazione con Sergej… Di giorno contavamo soldi e dividevamo le dosi… e di notte… beh…
Grace alzò lo sguardo verso l’alto, cercando di trattenere lacrime di rabbia. Era delusa, Yvonne lo percepiva. Sospirò, socchiuse gli occhi e annuì.
- Mi drogavo.
- Dannata… - ribatté l’altra.
- Lo so. Ma in quel periodo non mi sembrava esserci altra soluzione… ero diventata anoressica, non avevo un lavoro e capivo a malapena ciò che mi veniva detto...
Forse furono quelle parole oppure il potere dell’immaginazione di Grace, che aveva posto sua figlia Yvonne sola e in mezzo a un branco di lupi in una notte d’inverno, a porle sulle spalle un mantello d’empatia lungo e caldo. La sua espressione mutò, gli occhi si addolcirono e le labbra si schiusero leggermente, come petali di rosa.
- Non dev'esser stato semplice… - fece.
- No, mamma… - rispose l’altra. – È stata la cosa più difficile della mia vita. E quando stavo per toccare il fondo, quando stavo per non capire più nulla, Sergej mi ha fatto riaprire gli occhi…
Grace aggrottò la fronte, sorpresa.
- In che modo?
- Mi ha ammazzato di botte, mamma… mi ha preso a calci nella pancia…
Involontariamente, il cuore della donna saltò un battito. Il volto, cereo, pareva paralizzato. Solo una singola lacrima, calda come metallo fuso, le rigò la guancia sinistra, fino a raggiungere il mento. Rimasero solo le cicale, a stonare quel quarantacinque giri in loop, oltre le finestre.
E Yvonne, vedendo sua madre soffrire in quel dignitoso silenzio, non poté fare altro che emularla.
- Non voglio vederti piangere… Poi le cose sono andate meglio… - disse, sorridendo. La sua creatura prese a scalciare, facendola sobbalzare. – Uff… l’ho lasciato.
Grace cercava nel più profondo del suo corpo la forza per continuare ad ascoltare.
- Hai lasciato quell’uomo di merda?
- Sì, mamma. L’ho lasciato.
Fu come se il volto di Grace, congelato dalla peggiore delle tempeste siberiane, fosse colto da una calda corrente del deserto. Sospirò sollevata, riprese a respirare, asciugò le lacrime.
- E… e quella roba… non l’hai più toccata, vero?
Yvonne fece cenno di no.
- Fu drastico, netto… la crisi d’astinenza fu breve… ma per niente semplice. Ero senza soldi e non potevo andarmene dalla comune, Sergej continuava a vivere lì, anche se non mi considerava più…
- E non hai mai pensato di ritornare qui? Di chiedere aiuto?
Yvonne sorrise, facendo cenno di no.
- Dopo il modo in cui sono scappata? Oggi ero sorpresa del fatto che non mi avessi sbattuto la porta in faccia… Col tempo, telefonicamente, ci siamo riavvicinate un po’…
- Tu rimani sempre mia figlia, Yvy… sapere che hai passato certe cose… mi fa male.
- Lo so. Ma tutto è andato meglio. Mi ripresi, misi qualche chilo, cominciai a fare esercizio e trovai lavoro come ring-girl, in un’associazione di boxe professionistico.
- E che facevi? - domandò sua madre.
Yvonne fece spallucce e sorrise. - Passeggiavo sul ring tra un round e l'altro con un cartello tra le mani…
- Ti pagavano per camminare?
- Lo fanno anche adesso… – ridacchiò, mentre raccoglieva i lunghi capelli d’oro in una coda alta, dietro la testa.
- E poi?
- E poi White e Ruby mi hanno trovata. E tutto è andato per il meglio. E ora sono qui…
Grace sospirò.
- Ti vanno due fragole?
L’altra annuì, sorridendo. Scesero, Yvonne un po’ più lentamente, mentre la creatura continuava a tirare calci. Uscirono fuori, affondarono entrambe i piedi nell’erba e raggiunsero il dondolo. La seduta era fredda e un po’ d’umidità s’era stesa sulla valle. Grace rimaneva con le gambe strette, la ciotola di terracotta sulle ginocchia e l’espressione un po’ provata sul volto.
Vide Yvonne prendere una grande fragola e morderla, sorridendo subito dopo.
- Qui è tutto più buono.
Grace annuì.
- Il bambino dovrebbe crescere qui. L’aria è pulita e fresca e tu avresti me ad aiutarti.
Yvonne annuì, spostando lo sguardo di lato, verso lo steccato che sua madre doveva aver ripassato con la vernice qualche settimana prima.
- Hai ragione. Sarebbe la cosa migliore ma…
- Ci risiamo. – sorrise l’altra.
- Senti, è complicato... – ribatté l’altra, prendendo una nuova fragola, stavolta più piccola, e infilandola interamente in bocca. Masticò e fece cenno con le mani a sua madre di aspettare.
- Cosa?
Ingoiò e annuì, poi continuò.
- Intendo… ho un contratto. Il mio lavoro è difficile da “spostare”. Austropoli è una piazza importante e io devo essere presente per tutti i set e le sfilate.
- Certo, ma stai pur sempre diventando madre.
Grace prese a sua volta uno dei frutti nella ciotola e fece un cenno con la testa. – Come credi di farti entrare i vestiti con quelle due cose…
Sorrisero entrambe, guardando i seni della ragazza.
- Infatti ho prestato il volto a un brand di reggiseni… White non si è lasciata sfuggire l’occasione…
Sua madre annuì.
- White è il tuo capo?
Yvonne annuì.
- Parlami di lui.
- Lei. Beh… che dire. Forse è la donna più forte che conosca. Lavora venti ore al giorno, si è costruita da sola, ha un uomo che la ama a casa e più responsabilità che capelli in testa.
Grace appuntì lo sguardo e annuì. – Come si comporta, con te?
- Come un’amica, anche se sappiamo entrambe chi è lei e chi sono io. È stata lei a scoprirmi e a salvarmi.
- Già… raccontami anche questo.
- Ero sul ring, col cartello in mano… - rispose quella, alzando lo sguardo al cielo. Le stelle le guardavano. – Ricordo ancora la serata, perché c’era parecchia umidità e prima di uscire di casa temevo mi si rovinasse l’acconciatura. Lei e Ruby erano lì per parlare di lavoro ma mi videro mentre ero sul ring e per qualche strano motivo la impressionai. Mi aspettarono fuori al palazzetto, io ancora non parlavo benissimo la lingua… Ruby mi ha aiutato molto, traducendo.
- Ruby parla francese? – domandò sua madre, inarcando un sopracciglio.
- È un uomo pieno di sorprese.
- Questo è poco ma sicuro… - ribatté Grace, carezzandole la pancia. – Poi?
- Poi mi offrirono il mio lavoro. Dovevo sostituire Camelia in una sfilata.
L’altra appuntì il viso, stranita.
- Camelia? La top-model? Per la tua prima sfilata?
Yvonne annuì. – Stavo letteralmente morendo di paura, mamma. Lo stilista era un tale stronzo, poi… non aveva neppure adattato l’abito per il mio corpo… Quella sera cominciò a darmi addosso, era palese che lui volesse lavorare con Camelia e non con me…
- E poi?
- E poi Ruby… - sorrise l’altra ricordando la cosa più bella del mondo. – Venne in mio aiuto, mi sistemò l’abito e mi calmò.
- E poi vi innamoraste… - concluse Grace, precipitosa. Difatti, Yvonne rapprese le labbra e fece cenno di no con la testa.
- Non è proprio così. Lui aveva una… cazzo, una relazione, all’epoca…
Sua madre spalancò gli occhi.
- Yvonne!
- No! Aspetta! Non giudicarmi anche tu! Probabilmente non ho fatto ciò che si può definire “giusto”, ma ero innamorata di lui e…
La ragazza alzò nuovamente gli occhi al cielo, mentre un debole sorriso le si dipinse sul volto.
- Era bellissimo stare con lui. Mi sentivo apprezzata e protetta, ascoltata… capita. Era la prima volta, dopo anni, che un uomo mi faceva sentire speciale senza che io dovessi fare nulla in cambio.
Grace abbassò nuovamente lo sguardo. Non era felice di quelle parole ma dovette contestualizzare: la vita di sua figlia non era stata semplice, lei non aveva preso delle decisioni popolari e alla fine si era ritrovata per subire il peso dell’immaturità e della frenesia.
- Ruby… lui, invece?
- L’uomo della mia vita, mamma. L’uomo che continuerei a cercare negli occhi di chiunque, come se avesse detto alla mia mente e al mio cuore che non esiste nient’altro… Io… - sorrideva ancora, addolcita dai ricordi, così vividi, così reali, da poter quasi essere toccati.
- Cosa?
- Mi ha coltivata come un fiore. Mi ha fatta sentire una donna, a prescindere dal mio lavoro, dal mio corpo. Non ero più un bel viso, ma qualcosa di unico, tra le sue mani. E lui riusciva a farmi sentire sempre speciale.
Grace allargò il sorriso, a mezza bocca. Si rese conto del fatto che sua figlia fosse ancora innamorata.
– E ora?
- Ho fatto qualcosa di brutto, mamma. Si è accorto che sono stata io a separarlo dalla donna con cui stava prima.
L’altra era interdetta. Rimase in silenzio, mentre vedeva sua figlia prendere un’altra fragola.
- Sono pentitissima di questa cosa… Ho sbagliato ma…
- Non è ciò che ti ho insegnato. Ma non ti ho insegnato tantissime cose…
- Ho commesso questo errore ma lo rifarei subito…
Grace annuì.
- Forse lo avrei fatto anche io.
Yvonne spalancò gli occhi. – Cosa?! Davvero?!
Era incredula. La sempre corretta e rigida Grace Gabena, la disciplina in persona, l’etica a comando, era d’accordo con lei.
La vide annuire, inaspettatamente.
- Ho vissuto una vita da sola e non ho mai trovato quello che hai assaggiato tu. Il vero amore…
Si guardarono profondamente per un secondo, fin quando a Yvonne non saltò un battito.
- Il vero amore… - ripeté.
- Sei una guerriera. Hai combattuto per ottenere ciò che volevi e lo hai fatto a discapito di un’altra donna. Non è giusto, dal suo punto di vista ma… Forse lo avrei fatto anche io.
Yvonne si umettò le labbra con la lingua. Respirò profondamente.
- Ora che si fa? – chiese.
- Ora questo bambino probabilmente non avrà due genitori deboli ma uno molto forte. E non è giusto, ma per certi versi è meglio così. Se posso permettermi di darti un consiglio…
Yvonne la guardò, spalancò gli occhi d’argento e batté le ciglia due volte.
- Sì?
- Cerca di esserci sempre. Parlagli, diventa sua amica. Non farlo sentire solo. Non fargli sentire la mancanza di nulla e asseconda i suoi desideri, i suoi sogni. Se…
Parlava, Grace, ma non riusciva a sostenere lo sguardo di Yvonne.
- Se?
- Se avessi avuto un po’ più di lungimiranza oggi potresti fare ciò che fai ma qui, a Luminopoli… avevo tante conoscenze ma ero stupida. Volevo che seguissi le mie orme.
Yvonne sorrise amaramente, facendo cenno di no con la testa.
- Ho sempre odiato le auto.
Risero entrambe.
Mangiarono entrambe una fragola, si abbracciarono. I loro cuori fecero pace.
Poi andarono a dormire, un po’ più fresche, un po’ più calme.

 
Unima, Austropoli, sede della B&W Agency, 23 giugno 20X1

Le pale dell’elicottero ruotavano frenetiche nel cielo della sera.
Adriano non era abituato a quello spettacolo di luci e se non fosse stato così stanco probabilmente avrebbe avuto maggior entusiasmo. Invece si limitava a guardare con distacco lo skyline di Austropoli, coi suoi mille grattacieli che facevano a gara a chi raggiungesse per primo le nuvole nere.
Era parecchio in alto, seduto su di una poltroncina piuttosto scomoda, le cuffie antirumore gli ammaccavano i capelli e il Rolex continuava a ballargli sul polso, che da circa sei mesi avrebbe dovuto far levare una maglia dal cinturino d’acciaio ma, per qualche motivo, non lo aveva fatto ancora. Guardò l’orario, specchiò poi il volto nel finestrino del Bell sul quale volava e vide un ritratto di sé col volto provato, figlio delle molte ore di viaggio.
Poche ore prima era tornato a casa con in mano la copia del contratto che aveva firmato. L’aveva letto e riletto, cercando di capire dove fosse l’inghippo, prima di arrendersi alla palese evidenza: White aveva bisogno di lui per il suo Atelier.
O meglio, per l’Atelier di Ruby e tutto suonava molto strano.
Tutto era molto stimolante.
Aveva preso un borsone, messo un paio di cambi, per un paio di giorni, e affidato a Noelle, la sua domestica, il compito di spedire successivamente il resto della roba. Quella notte non era stato affatto semplice prender sonno, dato che un misto di eccitazione e preoccupazione gli si erano rimestati tra lo stomaco e i polmoni.
Era adulto. Forse un po’ troppo, aveva ridacchiato sotto ai baffi, ripensandoci. Ricominciare con qualcosa di così forte, di così potente, alla sua età, era proprio come ricominciare la sua vita da un punto di salvataggio.
Se avesse avuto vent’anni in meno, probabilmente avrebbe fatto sua quella città; forse avrebbe avuto un po’ più d’ingenuità, negli occhi del colore dell’acqua dei Caraibi.
Si era fatta rapidamente l’ora di prendere quell’aereo. Sul volo che lo aveva portato a Ponentopoli aveva disegnato dei modelli e si era informato meglio sul lavoro del suo allievo migliore, tramite internet. Il risultato fu che amava i vestiti di Ruby.
Aveva ripensato per un po’ alla situazione, in generale, e gli era sembrato davvero strano che quello fosse scappato via, dopo aver costruito qualcosa di così meraviglioso. Aveva letto qualche notizia in più su di lui, e i rotocalchi online non facevano altro che affiancare al suo nome quello della top model Yvonne Gabena.
E aveva letto per minuti interi di loro, della loro storia, di come avevano costruito qualcosa di così magico assieme. Vide anche una foto, risalente a pochi giorni prima, della modella presso la stazione di Luminopoli, mentre indossava dei vistosi occhiali neri, piuttosto larghi per il suo viso. Cercava di nascondere il grosso ventre, senza riuscirci.
In mente aveva cercato di allontanare il pensiero che in quella donna stesse nascendo il figlio di Ruby, ma un timore freddo come il buio lo aveva costretto a contare i mesi.
Capì che quel bambino avrebbe potuto tranquillamente essere dello stilista.
Pensò a Sapphire, un’ombra nera gli si poggiò addosso.
- Che bella, vero?aveva chiesto Orthilla, che fissava l’IPad proprio accanto a lui. Adriano si era limitato ad annuire, spostando il voluminoso ciuffo dall’occhio sinistro. – È proprio vero che le donne col pancione diventano ancora più belle!
- Quando la base è questa… - aveva ribattuto suo zio, scrollando in basso lo schermo, puntando gli occhi sulla figura della modella. Aveva sospirato, si era chiesto se fosse proprio quella donna, la chiave della sparizione di Ruby.
Avrebbe indagato, forse. Avrebbe fatto qualche domanda. Poco dopo aveva riposto il tablet ed era rimasto in silenzio, a fissare il profilo delicato di sua nipote, mentre lentamente prendeva sonno.

L’elicottero era atterrato. Adriano camminava sicuro e stranito sul tetto del Times Building, proprio al centro di Austropoli. Tutto era buio attorno a lui e quattro fari di luce gialla, ben piazzati agli angoli della piattaforma, emettevano fasci luminosi che raggiungevano le parti più alte del cielo. Stringeva il suo borsone di pelle, lungo accanto alla coscia sinistra, mentre il rumore assordante intimoriva Orthilla, a pochi passi da lui, bassa, come se l’elica avesse potuto in qualche modo tranciarle di netto il collo. Trascinava il trolley celeste sugli alti tacchi, cercando di raggiungere l’impassibile zio, che intanto raggiungeva una zona coperta. Quello si voltò, attese che la nipote lo sorpassasse e la seguì, in un’antisala asettica con un grosso ascensore, una macchinetta per il caffè e un distributore automatico di merendine, in cui era rimasto soltanto un Twinkie e un paio di Gatorade. Un uomo dalla pelle scura e dagli occhi azzurri, grosso ed elegante, stava con le mani incrociate dietro la schiena, proprio davanti a loro. Indossava un completo nero, un paio di scarpe lucide, nere, una camicia nera e una cravatta del medesimo colore.
- Lei è il Signor Adriano, vero? – domandò, con voce baritonale. Orthilla vide lo zio annuire in silenzio. Quello che aveva di fronte increspò le labbra e sospirò.
- Posso vedere i vostri documenti?
- I nostri documenti? – domandò la ragazza, in direzione di Adriano. Lo vide annuire di nuovo, poi si voltò verso di lei e umettò leggermente le labbra.
- Fai come dice.
- Oh… che roba… - sbuffò l’altra, che era abituata ad essere riconosciuta ovunque. Eseguirono celeri, poi l’uomo si fece da parte e aprì la porta che aveva alle spalle, che i due neppure erano riusciti a vedere, tanta era la mole dell’uomo.
Entrarono in un ambiente decisamente meno spartano, più moderno. In sottofondo risuonava Smooth Operator di Sade. Era rilassante, e le luci erano soffuse quanto bastava per far capire che quello non fosse un posto come gli altri. Una scrivania di cristallo era stata piazzata davanti a una grande parete di vetro satinato, che non lasciava intravedere nient’altro che le luci nella stanza alle spalle. Seduto al tavolo vi era un giovanotto dai capelli ricci, scuri come la notte. Col volto assonnato, cliccava apatico sui pulsanti del mouse. Hugh, c’era scritto sulla targhetta di plastica che aveva davanti.
Spalancò gli occhi, quando si ritrovò Orthilla e Adriano davanti.
- Oh. Siete arrivati. – disse, facendo un leggero cenno col capo. – Avverto la Dottoressa Trebuchet. Nell’attesa gradite un succo di guava?
Adriano rimase immobile, fissando la porta che aveva davanti.
- Certo, grazie! – rispose Orthilla, gioviale, sorridendo in quel modo tutto particolare che aveva, stringendo forte gli occhi. Hugh annuì, trascinando con difficoltà lo sguardo dal corpo della giovane donna.
- Accomodatevi lì… - ribatté, indicando delle poltroncine rivestite di pelle blu. Alzò poi la cornetta, premette il tasto 1 e avvicinò il ricevitore all’orecchio. Pochi secondi dopo ebbe un sussulto.
- Sì, Dottoressa Trebuchet, c’è qui il signor Adriano con la signorina Orthilla… certo, come desidera. Già fatto, sono seduti e l’aspettano.
Attaccò, poi alzò gli occhi.
- Qualche minuto. Arrivo subito col succo.
Si alzò, snello e scattante, e sparì oltre il muro, in quello che sembrava un piccolo locale di servizio illuminato da un neon bianco.
Orthilla guardò suo zio; era profondamente concentrato, mentre guardava il vuoto davanti a sé.
- Hey… - fece lei, toccandogli la spalla con la mano sottile.
Fu come risvegliare qualcuno da un coma lungo e profondo, Adriano trasalì quasi spaventato.
- Sì, tesoro… che c’è?
- Zio… - inarcò il sopracciglio l’altra. – Calmati. Non ti ho mai visto tanto agitato in vita mia… è così importante per te, questo lavoro?
L’uomo passò una mano nei lunghi capelli e abbassò il volto. Gli occhi di Ruby parevano fissarlo da quando aveva messo piede in quella città.
- Non è una cosa piccola, Orthilla… anzi.
- Spiegami di nuovo, per cortesia.
- Cosa?
- Che dobbiamo fare qui.
- Probabilmente tu dovrai fare qualche sfilata, ma potresti anche riuscire a entrare in qualche produzione cinematografica. Siamo nella più grande città del mondo, del resto…
La ragazza spalancò gli occhi sognanti. – Sì, me l’hai detto già… sarebbe meraviglioso…
- Io invece dovrò produrre degli abiti per un film, in un atelier che appartiene a Ruby e alla persona che ci aspetta dietro questa porta.
Orthilla sembrava decisamente stupita.
- Ma tu sai davvero produrre abiti del genere?
- Sì. Non disegno solo abiti per idol…
Quello abbassò il volto e la giovane aggrottò la fronte.
- Non mi sembri molto sicuro di te, ed è strano… - ribatté, con voce squillante. Quelle parole penetrarono nella sua testa e rimbombarono forti, mentre la stanchezza cominciava a far sentire il proprio peso specifico. Forse furono le ore di volo, la tensione e la mancanza di quel caffè che forse avrebbe dovuto chiedere al giovane Hugh, che in quel momento poggiava le sue Lanciotti sul pavimento dell’antisala dove si trovavano, stringendo un bicchiere tra le mani, colorato di verde.
- A lei. – disse, porgendolo a Orthilla, che sorrise di nuovo stringendo gli occhi.
- Grazie mille.
- Prego.
Orthilla poggiò le labbra sul bordo del bicchiere e buttò giù un po’ di quel succo. Era molto dolce, le piaceva. Tornata a Hoenn avrebbe dovuto fare in modo di procurarsene ancora.
- Comunque? – domandò allo zio, tornando concentrata sul suo sguardo perso.
- Comunque cosa?
- Non sembri molto felice…
Adriano sospirò.
- No. È che… sono confuso.
Orthilla aggrottò la fronte.
- In che senso?
- Nel senso che...
Non aveva molta voglia di spiegarsi, lui, che piuttosto che parlare preferiva mostrare.
Ma non a Orthilla. Non a sua nipote.

E quasi come se il caso avesse avvertito nel suo tergiversare quel disagio, un rumore di tacchi prese a esplodere oltre la vetrata alla loro sinistra. Si voltarono entrambi, Orthilla prese un altro sorso di succo di frutta, forse un po’ più lungo del precedente, e rimase accanto a suo zio ad aspettare, mentre la figura di una donna, alta ed elegante, diventava sempre più nitida nella satinatura della parete di cristallo.
E poi la porta si aprì.
- Non mi interessa, Frank, della disponibilità del tuo personale. – aveva detto, col telefono attaccato all’orecchio destro. Indossava un tailleur beige con lunghi pantaloni e decolleté Louboutin, che aveva acquistato diversi mesi prima, in un pomeriggio d’inverno. Ricordava che quel giorno ci fosse una gara importante della Major League di baseball, e tutta la città sembrava gravitare attorno allo Yankee Stadium per via della sfida contro Chicago. Guardava Adriano, concentrata, e nonostante fosse chissà da che ora sulle batterie la sua capigliatura risultava perfetta, con quella coda alta legata dietro alla testa e i due ciuffi, soliti, che le cadevano sulle orecchie. I grossi occhi azzurri erano truccati perfettamente e risaltavano come pietre preziose illuminate sul volto diafano.
Pareva una ragazzina ma era arrabbiata come una iena. Ascoltava ciò che l’interlocutore le diceva e sul viso cominciò a montarle una quantità di rabbia inusuale. Prese un gran respiro e cercò di calmare i bollenti spiriti, poi umettò le labbra, batté le palpebre due volte e riempì i polmoni d’aria.
Aveva caricato le palle di cannone nell’obice.
- Io e te abbiamo un contratto, Frank. Io ti pago fior di quattrini, Frank. In virtù di ciò, se voglio che i tuoi ragazzi ballino su di una gamba sola vestiti come Marilyn Monroe, loro lo faranno. E sarà meglio che la permanente bionda sia la migliore della loro vita, e che facciano gli auguri al presidente con tutta la convinzione di cui sono disposti altrimenti vi insegnerò la differenza tra uno studio legale pagato migliaia di dollari l’anno e un avvocato ingaggiato per portare a termine una singola causa, che non vi conosce e che pregherà di non vedermi mai più in vita sua.
Orthilla guardò Adriano, leggermente intimorita. Lo sguardo del Capopalestra di Ceneride invece non sembrava sorpreso.
- Questa è una stronza… - aveva sussurrato la nipote.
- Non più di un qualsiasi imprenditore a questi livelli, tesoro.
- E se facesse così anche con noi?
Adriano batté le palpebre due volte e mostrò la cartellina che aveva tra le mani.
- Questo è ancora in bianco. Ma immagino che scopriremo ciò che succede solo vivendo...
White stava continuando a parlare ma fissava i due dell’appuntamento di mezzanotte, con insistenza, quasi come se chiedesse loro una mano per concludere quella telefonata. E dopo venti secondi, e avere intimato Frank di fare il proprio lavoro, abbassò il cellulare dall’orecchio.
Continuò a guardare Orthilla e Adriano, indugiando sulla ragazza e riempiendo lo sguardo di una luce meravigliosa.
- Lei è tua nipote? – fece.
Adriano si limitò ad annuire e si alzò in piedi. Lo stesso fece l’altra.
- È stupenda. Ti assomiglia molto.
- È tutta sua madre, te lo assicuro.
La voce dell’uomo era calda e penetrante. White allargò il sorriso, ma solo sulla metà destra della bocca, e fece cenno loro di entrare. Si voltò, attese accanto alla porta fino a quando i due non sfilarono all’interno dell’ufficio.


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