Surprise, surprise

di Ksyl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***
Capitolo 6: *** Sei ***
Capitolo 7: *** Sette ***
Capitolo 8: *** Otto ***
Capitolo 9: *** Nove ***
Capitolo 10: *** Dieci ***
Capitolo 11: *** Undici ***
Capitolo 12: *** Dodici ***
Capitolo 13: *** Tredici ***
Capitolo 14: *** Quattordici ***
Capitolo 15: *** Quindici ***
Capitolo 16: *** Sedici ***
Capitolo 17: *** Diciassette ***
Capitolo 18: *** Diciotto ***
Capitolo 19: *** Diciannove ***
Capitolo 20: *** Venti ***



Capitolo 1
*** Uno ***


1. Beckett

Ho deciso di rivedere e ripubblicare le prime ff scritte, perché erano state create per gioco in un contesto molto più ristretto e in un formato diverso. Non cambierò nulla di sostanziale, controllerò i refusi, rivedrò la divisione dei capitoli e modificherò ciò che non poteva essere comprensibile a un pubblico più ampio, al quale non avevo nemmeno osato sperare, a quei tempi, stiamo parlando del 2015, una vita fa! Sono diverse, semplici, molto più istintive e meno mediate (adesso le scriverei lunghe il doppio :D), ma mi fa tenerezza rileggerle e calarmi di nuovo in quell'atmosfera leggera e spensierata. Questa ff è il seguito di "Un colpo di testa", che verrà rivista successivamente. Silvia

Beckett controllò il cellulare per l'ennesima volta da quando era arrivata quel mattino al distretto. Nessuna telefonata, nessun messaggio.

Castle era via ormai da una settimana per promuovere il suo ultimo romanzo e sarebbe dovuto tornare solo il giorno dopo, ma non era da lui non farsi sentire per ore. Troppe. Appoggiò il telefono capovolto sulla scrivania per non cadere in tentazione e, con uno sforzo di volontà, si impose di tornare al lavoro.
Per qualche minuto le sembrò di riuscire a concentrarsi sui documenti che aveva davanti, ma poi qualcosa la distrasse e fu così che si ricordò di non aver controllato le mail – non negli ultimi cinque minuti. Dicendosi che sarebbe stata l'ultima volta e poi basta, non poteva certo stare a ossessionarsi così, aprì velocemente la sua casella di posta e aspettò speranzosa, fissando l'icona che ruotava. Niente.
Evidentemente Castle era troppo impegnato o non aveva campo. O l'avevano rapito gli alieni, che era l'unico motivo valido per cui avrebbe evitato di fargli una scenata, una volta che fosse riuscita a comunicare con lui.

Si accorse nel frattempo di aver ricevuto un messaggio da parte di Lanie con i risultati che attendeva dal laboratorio, quindi abbandonò il cellulare, compose il numero del suo interno e, finalmente, riuscì a immergersi nel suo lavoro con maggiore presenza mentale.
Sono solo ventiquattro ore, si disse in una pausa, staccando gli occhi dal pc. Non voleva ammetterlo nemmeno a se stessa per tutta una serie infinita di motivi, ma stare una settimana senza di lui si era rivelato più duro del previsto. Era stata colta di sorpresa e spiacevolmente, non era da lei sentire la mancanza di qualcuno, non qualcuno di sesso maschile, non qualcuno con cui aveva un... legame.

All'inizio era stata contenta di avere più tempo per sé, per una volta poteva andare a letto presto e dedicarsi a tutte quelle cose che aveva trascurato da quando era stata travolta a tempo pieno dall'uragano Castle. Con il passare dei giorni era diventata sempre più irrequieta e annoiata.
Era ormai passata qualche settimana da quando avevano ceduto alla follia e avevano deciso di provarci. Provare a far cosa, non l'aveva ancora capito con certezza, ma intanto si erano susseguiti giorni carichi di adrenalina e felicità assolute, da cui era ancora un po' spaventata e frastornata. Ma poi lui arrivava a rassicurarla e a rendere tutto magico come al solito e lei ricominciava a credere che fosse possibile. Lo era.

Non era mai stanca di stare con lui, dormire nello stesso letto, svegliarsi e sorprenderlo a fissarla, fare colazione insieme. Anche mentre risolvevano i casi, nonostante dovessero tenere un contegno serio e rispettoso, avvertiva sempre quel brivido di eccitazione sotterranea che le derivava dal condividere un segreto con lui. Qualcosa che sapevano solo loro due.
Gli altri non si erano accorti di niente e loro si erano guardati dal mettere al corrente qualcuno del loro mutato rapporto. In primo luogo perché, almeno per il momento, era qualcosa di prezioso che intendevano godersi in solitudine. Ufficialmente, inoltre, la politica del dipartimento non lo avrebbe permesso, e quindi avrebbero dovuto smettere di lavorare insieme. Un'eventualità inconcepibile. E, in ultimo, non le spiaceva evitarsi battutine e prese in giro da parte dei colleghi.

Lo sentì ancora prima di vederlo e il suo cuore fece un salto.
"Quanto mi è mancato questo odore di sangue e casa", proclamò Castle ai quattro venti, eccessivo come al solito, mettendo piede fuori dall'ascensore. Lei alzò la testa e il suo viso si aprì istantaneamente in un sorriso, mostrando apertamente la gioia inaspettata di rivederlo, prima di ricomporsi e tornare seria. Era sicura che nessuno a parte lui lo aveva notato. Notava tutto di lei, era insieme inquietante e gratificante.
Lo vide venire nella sua direzione, dopo aver salutato tutti gli altri.
"Ehi, Beckett, qualche caso bizzarro dei tuoi?", le chiese con tono indifferente a beneficio di chi li stava ascoltando, ma rivolgendole uno sguardo così intenso da farla rimescolare.
"Buongiorno a te, Castle. Non dovevi tornare domani?", si informò fingendosi molto occupata a fare altro e dandogli solo una breve occhiata che bastò a emozionarla.
"Mi sono liberato prima e sono riuscito a prendere un volo questa mattina presto, non ho fatto in tempo ad avvisarti. Avvisarvi", si corresse, guardandosi in giro. "Ho quindi pensato di passare di qui per mettere a disposizione il mio brillante acume...", concluse alzando la voce.
"Molto gentile da parte tua. Dì la verità, hai anticipato la partenza solo perché ti mancavamo noi e gli omicidi", lo prese in giro. Era necessario farlo, per non destare sospetti. Tutto doveva essere uguale a prima, sarcasmo e canzonature compresi.
Lui non rispose e questo la indusse a bloccarsi con un foglio in mano per alzare gli occhi su di lui e capire l'origine di quell'insolito silenzio.
"Beh... tecnicamente, sì, è perché mi mancavi tu", le sussurrò a bassa voce, per non farsi sentire da nessuno, prendendo posto sulla sua sedia e sporgendosi verso di lei.
Gli lanciò uno sguardo di muto rimprovero e tornò ostentatamente a fare il suo lavoro, anche se sapeva che lui stava sorridendo e, da qualche parte, non riusciva a smettere di sorridere neanche lei.

"Allora, detective, che cosa abbiamo? Spero che sia qualcosa di interessante, mi sono già annoiato abbastanza negli ultimi giorni...", le fece l'occhiolino.
Lei si voltò per illustrargli il caso alla lavagna, concentrata a dargli tutti i dettagli possibili e amando quel momento speciale in cui le loro menti, così diverse e all'apparenza incompatibili, si connettevano e, d'improvviso, tutti gli elementi che sembravano slegati e insensati, si univano a formare un quadro di senso compiuto.
"Sicuri che non c'entri la CIA?", chiese Castle dopo qualche minuto di silenzio assorto, in cui aveva analizzato attentamente tutti i dati man mano che venivano in suo possesso.
Forse questo non era proprio il tipo di connessione che aveva in mente lei.
"Avevo dimenticato quanto ci è di aiuto il tuo inarrivabile intuito".
"Ehi, sono appena arrivato. E vedrai che prima o poi la CIA farà un passo falso e io sarò lì pronto a... che cosa c'è Beckett? Stai bene?", si informò preoccupato.
D'un tratto una forte nausea arrivata da chissà dove le aveva fatto fare una smorfia, che a Castle non era sfuggita. Qualche volta avrebbe preferito che fosse un uomo meno attento, soprattutto nei suoi confronti.
"Non è niente. Ho solo lo stomaco sottosopra e sono un po' stanca. Deve essere qualcosa che ho mangiato ieri. O forse è influenza", lo mise al corrente senza dar troppo peso alla cosa.
"Che cosa hai mangiato? Ed è estate, non può essere influenza". Si era allarmato, lo capiva dal tono.
"Non lo so esattamente, ieri sera abbiamo lavorato fino a tardi e abbiamo ordinato cibo d'asporto. Io sono arrivata tardi e ho mangiato quello che era rimasto".
"E stai male solo adesso? Mi sembra tardi perché possa trattarsi di intossicazione alimentare, non credi?"
Ci mancava solo tutta quella premura non necessaria. Lui, poi, non era un medico, che cosa ne sapeva?
"Mi stai facendo il terzo grado? In ogni caso non c'è da preoccuparsi, mi è già passato. Quando finalmente riuscirò a dormire un numero di ore decente in buona compagnia, mi riprenderò completamente", concluse abbassando la voce di un'ottava e lanciandogli un'occhiata provocante.
"E io che avevo in mente folli festeggiamenti notturni e, invece, mi toccherà prepararti un brodo di pollo e metterti a letto per le nove", riprese, per nulla dispiaciuto all'idea.
"Mi piacerebbe sentirti cantare la ninnananna, ma temo che anche stasera farò tardi", lo informò un po' rammaricata.
"Questo significa che non ci vediamo?" si allarmò. "Io ho un appuntamento, ma contavo di passare a prenderti, più tardi, e poi fingere di non accompagnarti a casa, fingere di non baciarti e fingere che non stiamo insieme e non dormiamo insieme".
"Hai ragione, anche io avrei molta voglia di fingere di non fare queste cose, ma... sei tu che sei tornato un giorno prima, avresti dovuto avvisarmi. Ho un sacco di lavoro da sbrigare".
Non poteva fare diversamente, se pure a malincuore.
"D'accordo, faremo così", propose Castle dopo qualche riflessione. "Passerò di qui quando avrò finito e starò con te a guardarti riempire le tue scartoffie e poi, se avrai ancora voglia di trascorrere la notte con un uomo molto, molto affascinante, sarò a tua completa disposizione".

Il programma la allettava, ma non era ancora pronta a lasciarlo andare per rivederlo ore più tardi.
"Perché non facciamo un pezzo di strada insieme? Io devo uscire per andare a parlare con una persona", gli propose.
"Ai suoi ordini, detective". Nemmeno il tempo di dirlo che si era già alzato in piedi ed era corso a chiamare l'ascensore.
Non appena le porte si chiusero, Castle ne approfittò per tirarla verso di sé, infilarle le mani nei capelli e baciarla con passione. "Mi sei mancata moltissimo", le disse a fior di labbra.
"Anche tu, Castle", rispose infilandogli una mano sotto la camicia, con il bisogno urgente di sentire la sua pelle dopo giorni di attesa.
"Non avete messo le telecamere in ascensore durante la mia assenza, vero?", si preoccupò lui, mentre le faceva scorrere la lingua sul labbro inferiore, prima di mordicchiarlo.
"No", rispose lei con un mugolio. "Ma dura sempre troppo poco".
Lui si staccò da lei: "Stiamo sempre parlando di ascensori, giusto? Perché finora non ti sei mai lamentata...".
"Castle!", lo rimproverò senza essere credibile, perché le veniva da ridere. Era un uomo impossibile. "Sì, stavo parlando dei quattro piani di ascensore, non era certo una critica alle tue infinite e durevoli capacità amatorie. Non mi permetterei mai", rispose, rassegnata e insieme divertita, di fronte alla sua vanità.
"Ottimo. È sempre meglio chiarire, prima di imbatterci in qualche problema comunicativo", le rispose, rubandole un ultimo bacio, prima che le porte si aprissero, con perfetto tempismo.

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Capitolo 2
*** Due ***


2 Castle

Una volta all'esterno, vennero accolti da una giornata infernale di fine luglio. Il caldo aveva già smesso da diverse ore di essere sopportabile e la luce era così accecante da costringerli a socchiudere gli occhi. Gli fece venire voglia di mare, di sabbia che scotta sotto ai piedi, panorami, ombra, la brezza dell'oceano e non certo scartoffie e impegni lavorativi, a causa dei quali sarebbe stato costretto a separarsi di nuovo da lei, nonostante fosse tornato prima perché sopraffatto dal bisogno di stare in sua compagnia, dopo sette giorni di astinenza.
"Perché sei così lenta, oggi? Di solito non riesco a starti dietro", notò Castle, sconcertato, voltandosi per vedere che fine avesse fatto.
"È la nuova versione del 'Manuale del playboy secondo Richard Castle'"? Ti informo che il risultato che non è proprio lusinghiero".
Lui non riprese a camminare, obbligandola a fermarsi a sua volta. Gli sembrò molto pallida e stranamente a corto di fiato. Qualcosa non andava.
"No. È che non mi sembra che tu ti sia ripresa dal tuo malessere, come invece sostieni. Dovresti riposare, non affannarti in giro per la città". Gli parve un'osservazione ragionevole. Non aggiunse che sarebbe stato felicissimo di mandare al diavolo tutto e chiudersi in casa con lei.
"Sto bene, Castle, te l'ho detto, ho solo un po' di mal di stomaco e sono stanca morta. E odio questo caldo. Dio, mi sembra di essere in una fornace, senza mai un attimo di tregua. Quest'anno è peggio del solito", si lamentò facendosi aria con la mano.
Questo non era da lei. Lamentarsi e non tollerare il caldo. Anzi, di solito volteggiava per la città fresca come una rosa, mentre il resto della città boccheggiava per l'afa. E amava il sole caldo sulla pelle, se lo ricordava molto bene.

Finse di essersi convinto della sua spiegazione, ma dentro di sé iniziava a non sentirsi del tutto tranquillo. Ben presto arrivarono al punto in cui le loro strade si sarebbero dovute separare. Fu tentato di insistere perché fuggissero insieme – in quel modo avrebbe potuto tenerla d'occhio – ma sapeva che lei non avrebbe apprezzato.
"Ci vediamo più tardi. E mi occuperò personalmente di farti tornare in forma", le promise.
"D'accordo", accettò. Gli parve sollevata. "Non vedo l'ora", aggiunse piano.
Lui si chinò per baciarla, un gesto normale per una coppia appena ricongiunta, ma lei fu veloce a ritrarsi. "Che cosa stai facendo? Potrebbero vederci!", si guardò in giro con apprensione.
"Ci sono milioni di turisti intorno a noi, chi vuoi che ci riconosca? Siamo lontani dal distretto", cercò di tranquillizzarla. Il fatto di dover tenere segreta la loro storia era fonte di grande divertimento ed eccitazione per lui, ma qualche volta lei tendeva a diventare paranoica. Rispettò comunque i suoi desideri e si limitò a metterle una mano sulla guancia, che sentì umida sotto le dita. Qualcosa non andava sul serio, ma forse era lui che stava diventando paranoico.

Diverse ore dopo, che gli erano parse eterne, Castle ritrovò finalmente la via del distretto. Sarebbe tornato prima, ma lei lo aveva avvisato che il suo appuntamento con un testimone sarebbe andato per le lunghe. Nonostante fosse calata la sera, il caldo era ancora feroce e lui si trovò a desiderare il refrigerio dell'aria condizionata del suo loft, dove sperava che avrebbero trascorso la notte insieme.
Beckett era seduta alla sua scrivania, nell'identica posizione in cui l'aveva trovata quando era arrivato, nel pomeriggio. Avrebbe dato qualsiasi cosa per sollevarla di peso e portarla via di lì. Era stanco di non poterla avere tutta per sé, era tornato prima apposta per passare un po' di tempo con lei, ma era costretto a dividerla con documenti e scartoffie varie. Forse avrebbe dovuto avvisarla, ma era stato euforico per essere riuscito ad anticipare il rientro e aveva voluto farle una sorpresa.
"Sei sicura di non poter mollare tutto e venire via con me? Ho in mente una cena che ti rimetterà al mondo", le propose, sapendo già in partenza che non avrebbe accettato. Il senso del dovere di Kate Beckett era qualcosa contro cui non si poteva combattere.
"Mi piacerebbe moltissimo, Castle", rispose rammaricata, approfittando del suo arrivo per staccarsi dai fogli che aveva davanti e per stiracchiarsi i muscoli della schiena. "Ma credo di averne ancora per un po'. Perché non vai a casa, inizi a preparare quella cena che mi hai promesso e io ti raggiungo dopo?"
"Sei esausta. Dovresti davvero spegnere tutto e concludere la giornata lavorativa", obiettò lui.
"Castle", lo ammonì con tono severo. "Non ricominciare".

Non ricominciò, sapeva riconoscere quando era il caso di arrendersi.
"Ok, come vuoi. Ti porto una tazza di caffè?".
"Sì, grazie. Oggi sono stata così impegnata da non avere nemmeno avuto il tempo di berlo. E nessuno lo sa preparare come fai tu", accettò, grata.
Gli fece piacere poter essere d'aiuto in qualche modo. Si impegnò a preparare il miglior caffè di sempre, felice che lei ne avesse notato la superiorità, grazie al suo ingrediente segreto.
Si presentò da lei con due tazze e aspettò che facesse spazio tra i documenti prima di depositarne una proprio davanti a lei. Quanto gli erano mancati quei momenti tutti per loro, quelli in cui erano da soli al distretto e la sua scrivania definiva i limiti del loro universo.
Kate chiuse gli occhi, forse pregustando gli effetti della caffeina sul suo sistema nervoso. Lo aveva preparato scuro e forte, per darle un po' di carica in più.
Non appena ne bevve un sorso, fece una smorfia disgustata e si trattenne dallo sputare nella tazza, che appoggiò schifata sulla scrivania, cercando un fazzoletto. Era esterrefatto. Non gli era mai successa una cosa del genere.
"Che razza di caffè mi hai portato?! Hai perso il tuo tocco magico?"
Lui guardò prima lei, poi la propria tazza, accostò le labbra per berne un piccolo sorso e infine, cautamente, le disse: "A me sembra il solito caffè".
Lei respirò a fondo, non sapeva se per reprimere la nausea che aveva fatto ritorno provocata dal suo peggior caffè di sempre o se per soffocare tendenze omicide nei suoi confronti.
"Devi aver bevuto dei caffè davvero orribili durante il tuo viaggio, se questo ti sembra buono. È cambiato qualcosa? Miscela? Fornitore?", esclamò schifata.
Castle non replicò. Terminò il suo caffè, prese anche la tazza di Kate, andò nello stanzino, versò tutto il contenuto dentro al lavandino, le sciacquò e tornò a sedersi lentamente accanto a lei. Aveva intuito che cosa fosse successo e non sarebbe stato semplice comunicarglielo. Avrebbe voluto prepararsi meglio.

"Kate". Lei alzò lo sguardo incuriosita dai suoi modi formali. "Non stai bene. Devi fare un test", le comunicò con un tono che non ammetteva repliche, anche se aveva cercato di essere calmo e di non far trasparire l'urgenza. Troppi dettagli che non tornavano, il caffè era stato solo l'ultima goccia.
Lei sbuffò. "Ancora con questa storia? Sto bene, non devo sottopormi a nessun test. Te l'ho già detto milioni di volte, oggi. E poi ho appena fatto la mia visita annuale della polizia. Sono sana come un pesce".
"Un test di gravidanza", specificò brevemente, sporgendosi verso di lei, per diminuire la distanza tra di loro. Sperava di essere pronto per l'esplosione che ne sarebbe seguita.

Lei lo guardò, dapprima senza capire. "La gravidanza di chi?" era la domanda che le leggeva negli occhi. Poi, quando il significato esatto delle parole sembrò penetrare nella nebbia, si ritrasse da lui, scuotendo la testa, come a voler scacciare il più lontano possibile un'ipotesi inconcepibile.
"È uno dei tuoi soliti scherzi? Lo trovi divertente, Castle?", furono le prime, taglienti, parole che le uscirono dalla bocca. "Io non sono incinta. Assolutamente. Che cosa ti viene in mente?!", insistette.
"Kate...", cercò di intervenire lui per non far degenerare la situazione. Le prese una mano, ma lei si scostò oltraggiata.
"No". Suonò più come un'ultima difesa disperata, che come una risposta. "No. No. No. No", ripeté come un mantra, più a se stessa che a lui. Come se fosse convinta che bastasse questo per poter imporre al suo corpo la propria volontà. "Castle...", riprese con voce tremante di rabbia. "Devi andartene a casa. È tardi. Devo finire ancora un sacco di cose. E sono stanca. E tu vieni qui e mi distrai con le tue solite sciocchezze", gli comunicò con voce seccata, come se il problema fosse lui.

Sapeva riconoscere un atteggiamento di negazione, quando lo vedeva gloriosamente in scena. E la conosceva abbastanza da sapere che la sua richiesta era reale. Non voleva che insistesse per rimanere con lei, voleva proprio rimanere da sola. Non si impose, non la pregò, non cercò di convincerla con la logica.
Le prese una mano tra le sue, appoggiò le labbra delicatamente all'interno del polso, e infine si alzò.
"Chiamami, quando... quando vuoi. Anche stanotte".
Prese la giacca e se ne andò.

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Capitolo 3
*** Tre ***


3

Beckett

Dopo che Castle se ne fu andato, lasciandola sola – si era incredibilmente convinto in fretta, senza insistenze da parte sua - rimase a lungo seduta a fissare il vuoto.
In un ultimo tentativo di fare qualcosa di utile e scacciare dalla sua mente ipotesi moleste che Castle ci aveva cacciato dentro a forza, cercò di concentrarsi su date e numeri che lei stessa aveva scritto sulla lavagna, senza riuscirci. Tutto si dissolveva davanti ai suoi occhi, non era in grado di concentrarsi su niente.

Nel suo lavoro si doveva essere capaci di chiudere le emozioni in un cassetto per mettersi a disposizione dell'altro, delle vittime e delle loro famiglie.
Solo se riusciva a creare il vuoto dentro di sé poteva avvicinarsi a loro e aiutarli concretamente. Avevano bisogno di fatti e di giustizia ed era compito suo fornirglieli. Con il tempo questo modo di agire era diventato automatico: prendere le distanze, anestetizzarsi dalle emozioni, essere lucida anche quando il mondo sembrava andare in frantumi. Ed era qualcosa che funzionava soprattutto nella sua vita personale. Non era sano, ma la faceva andare avanti.

In questo momento di totale disorientamento, niente di quello che aveva imparato era in grado di aiutarla. Non riusciva a spostare quel pensiero ossessivo in un angolo della sua mente, dove non avrebbe potuto farle del male. Non riusciva a neutralizzarlo, come era invece sempre stata capace di fare.
Non voleva cedere alla stanchezza, perché non voleva ammettere nemmeno a se stessa che quello potesse essere un sintomo, ma si sentiva esausta. Non osava nemmeno guardare il proprio corpo per non vedere, improvvisamente, un'estranea.

Passò molto tempo immobile, seduta sul bordo della scrivania, la testa china e le braccia incrociate davanti al petto. I pensieri erano confusi e volavano via prima che riuscisse ad afferrarli.
A un certo punto, però, il buon senso e un po' dell'antica determinazione, che sembravano averla abbandonata, le vennero in soccorso.
Doveva agire. Era sempre stata brava a farlo. Era inutile figurarsi una realtà più spaventosa di quella che, sicuramente, era. Non era da lei rimanere passiva temendo gli eventi. Raccolse tutte le sue cose, prese la borsa, spense le luci e uscì nella notte.

Salì in macchina e, dopo un breve istante di smarrimento in cui tenne le mani sul volante senza riuscire a muoversi, si scostò i capelli dal viso, si fece forza e mise un moto.
Il traffico a quell'ora della notte era scorrevole, e, così, dopo averne impostato la ricerca sul navigatore, raggiunse in fretta un supermercato aperto tutto la notte.
Dicendosi che prima avesse affrontato la situazione e prima si sarebbero potuti mettere quell'assurda storia alle spalle, entrò e vagò tra gli scaffali, insieme ad altri animali notturni come lei.
Trovò quello che stava cercando e, sentendosi come se avesse una grossa freccia sulla testa a indicarla, afferrò qualche scatola a caso, senza neppure leggere le etichette. Del resto non sapeva nemmeno quale marca fosse la migliore o come funzionasse la procedura.
Era presto? Era tardi? Doveva fare le analisi? Doveva chiamare il suo medico?
Calmati, si disse. Stai correndo troppo. Fai questo dannato test il prima possibile e presto tutto sarà finito.
Con la sensazione che tutti la stessero fissando, si avviò verso la cassa, dove depositò il malloppo con una certa apprensione.
Smettila. Ti stai comportando come se stessi comprando droga sottobanco. Lo fanno tutte le donne, almeno una volta nella vita. Lei no, a dire il vero, ma questo perché era una persona responsabile e, come tale, infatti, non poteva essere... non poteva essere quella cosa che diceva Castle.
E del resto lui era un uomo, come poteva saperne più di lei? Di sicuro come donna doveva sentirlo, no? Doveva scendere su di lei una specie di... di consapevolezza superiore, ecco. Non glielo doveva comunicare qualcuno da fuori. Se lei non sentiva niente – perché di fatto era proprio così - era perché non c'era niente da sentire.
Era la natura. Doveva attivarsi qualcosa che le faceva immediatamente venire voglia di piangere davanti a pagliaccetti e biberon, no? Non avrebbe dovuto commuoversi alla vista di neonati nella culla? A lei non stava accadendo niente di tutto questo, quindi era salva. I suoi ormoni erano saldi e gli stessi di sempre.
Castle si sbagliava. Probabilmente si trattava di una sua proiezione, di un desiderio inespresso, ma lei non voleva sapere niente dell'inconscio altrui e della voglia di paternità della gente. Stava bene così com'era.

Arrivò a casa, molto più calma di quando era uscita dal distretto, convinta ormai di aver sbagliato a dar retta alle fantasie sfrenate di Castle, che l'avevano inutilmente spaventata, ma che erano di fatto solo fantasie, pure e semplici. Così tipiche di lui. Anzi, proprio sapendo che venivano da lui, avrebbe dovuto evitare di farsi coinvolgere in questo modo. Lui esagerava, sempre. La CIA, giusto? Ecco, stavamo parlando di una persona del genere.
Allineò i test che aveva comprato sul tavolo della cucina, prima di andare a farsi una doccia senza degnarli di uno sguardo.
Quando si tolse la camicia non poté fare a meno di dare un'occhiata veloce verso il basso.
Era tutto come prima. Era la stessa di sempre. Nessun cambiamento in vista.
Evitò di asciugarsi i capelli, tanto faceva abbastanza caldo da non prendersi un malanno, indossò le prime cose pulite che pescò nel cassetto e infine si lasciò cadere sul divano, decisa a ignorare a tutti i costi le sirene che tentavano di adescarla dal tavolo.
Non avrei dovuto comprarli, si disse. Adesso li metterò in un cassetto e li terrò come monito per la prossima volta in cui Castle tenterà di convincermi di qualche stramba teoria delle sue.
Ma non poteva fare a meno di voltarsi inquieta per dare rapide occhiate dietro di sé.
Che cosa temo che mi facciano? Che mi tendano un agguato?
Aveva voglia di bere qualcosa di forte. E a questo pensiero spalancò gli occhi. Aveva bevuto alcolici nell'ultimo periodo? Preso medicine? Fatto qualcosa di tremendamente sbagliato, senza saperlo?
Smettila, si disse per l'ennesima volta. Puoi bere quanto vuoi, al massimo danneggerai il tuo fegato e nient'altro.

Provò a distrarsi, ma fu impossibile. In preda all'esasperazione, non riuscendo più a fare finta di niente, si alzò grugnendo, li prese in mano, cercò il telefono nella borsa e, adirata con se stessa per essere tanto suggestionabile, richiamò il numero di Castle.
Lui rispose al primo squillo, come se non stesse aspettando altro.
"Sono io", si presentò, come se fosse necessario.
"Kate", rispose preoccupato e insieme sollevato.
"Puoi... venire qui?", chiese passandosi una mano tra i capelli, stringendoli in un nodo che si scompose appena li lasciò andare.
"Arrivo subito", le promise. Lei sentì dei rumori in sottofondo, indovinò che stava prendendo le chiavi e sentì sbattere la porta di ingresso. Il tutto nel giro di qualche secondo, come se fosse pronto da ore.
"Castle... è tardi e magari stavi già dormendo, non so neanche che ore siano. Forse è meglio se ci vediamo domani per... parlarne?", propose improvvisamente pentita di avergli chiesto di raggiungerla.
Lui tagliò corto davanti alle sue scuse e la congedò con un fugace: "Dammi il tempo di arrivare", e di colpo il telefono fu muto. Lo fissò adirata per un istante, prima di lanciarlo sul divano, abbandonandosi contro i cuscini.

Doveva essersi addormentata, perché, quando Castle suonò il campanello pochissimo tempo dopo, si svegliò di soprassalto, disorientata. Si alzò ancora intontita e andò ad aprire la porta. Vederlo le diede un'immediata sensazione di inaspettato sollievo che la indusse a protendersi verso di lui.
Castle allungò le braccia in automatico e lei si abbandonò contro il suo corpo, permettendosi di ricevere il suo sostegno. Era grata di non essere da sola, nonostante fosse stata convinta del contrario.
Lui la baciò tra i capelli, cullandola. Avrebbe voluto rimanere così per sempre, ma presto la realtà fece capolino e lei si scostò per lasciarlo entrare. C'erano cose più importanti da affrontare.

Gli indicò i test che non si erano mossi da dove li aveva abbandonati. Lui li guardò, sorrise, e poi estrasse un sacchetto dalla tasca della giacca e ne allineò il contenuto sul tavolo. Li fissarono entrambi.
"Credi che potremmo vendere al mercato nero quelli che ci avanzano? I tuoi sono più colorati, dove li hai trovati?", commentò ridacchiando e lei, a un tratto, pensò che forse questa situazione non era il dramma che si era convinta sarebbe stato. Era il classico effetto che Castle le faceva sempre.

Lo fece accomodare sul divano. Non ancora pronta a sapere la verità ed era intenzionata, prima, a fargli un discorso.
"Voglio solo precisare che sono più che convinta che la tua ipotesi sia assurda. Ma siccome non ti convinceresti in altro modo, ho deciso di essere molto, molto ragionevole e di fare un unico test che ti dimostri l'insensatezza delle tue insinuazioni. Promettimi che, dopo stasera, non ne parleremo mai più", lo informò in tono solenne.
"Se è negativo", obiettò Castle. "Non ne parleremo più solo se è negativo".
"Lo è senz'altro", lo contraddisse Kate, senza lasciare spazio a nessun'altra possibilità.
"D'accordo", acconsentì Castle diplomaticamente. "Quindi lo farai subito? È il grande momento?"
Lei lo guardò smarrita e frustrata al tempo stesso.
"Castle, non so neanche come funziona!", sbottò con una nota di panico nella voce.
"Dai, Beckett, non dirmi che...".
"No".
"Ma..."
"Non andare neanche avanti con il discorso!"
"Ok. Vuoi che ti... spieghi?"

Ci mancava solo questo.
"No, grazie", rifiutò. "Ho letto le istruzioni e più o meno ho capito. So che sarebbe meglio farlo domani mattina, ma non intendo aspettare per ore, non se ne parla", sentenziò. Si alzò in piedi. "Adesso vado di là, ci leviamo il pensiero e poi andiamo a dormire. Va bene?".
Si mosse per recuperare tutti i test a loro disposizione e si diresse verso il bagno. Castle si alzò per seguirla, ma lei lo fermò sulla soglia.
"Dove credi di andare?", gli chiese sospettosa.
"Vengo con te, facciamo il test insieme", le spiegò come se fosse la cosa più normale del mondo.
"No. Tu non mi guarderai fare pipì sopra un bastoncino", affermò con decisione, prima di chiudergli la porta in faccia.
"Beckett, se questa cosa ha un futuro, dovrai rivedere le tue aspettative sulla privacy", replicò, alzando la voce per farsi sentire.
"Castle! Non sei di aiuto!", gli gridò da dentro.

Castle

Castle si rassegnò a sedersi sul pavimento, appoggiato contro la parete. La sentì muoversi e, dopo un tempo di attesa che gli sembrò infinito, la porta si aprì e lei ricomparve. Si lasciò scivolare esausta accanto a lui, la schiena contro il muro e le loro teste vicine fino a toccarsi.
"Quindi?", chiese Castle al colmo dell'impazienza. Come era possibile che non gli svelasse il responso?
"Non ho guardato. Ho solo... fatto".
"E adesso stiamo qui ad aspettare che mettano radici e diano frutti?".
"C'è bisogno di un po' di tempo, no? Non c'è tutta questa fretta. Non scappano".
Rimasero in silenzio. Si sentiva solo il ticchettio di un orologio, da qualche parte nell'appartamento, che lo stava facendo impazzire.
"Hai mai immaginato che saremmo finiti in una situazione del genere?", gli chiese affranta dopo qualche tempo.
Lui fece una pausa, incerto su come rispondere. Doveva dire la verità? Era meglio tergiversare?
"Castle!", esclamò lei in preda all'orrore, scostandosi da lui. Lo sapeva, avrebbe dovuto mentire. "Era una domanda retorica! Quando avresti pensato a... questo? O forse la domanda giusta è 'Perché'?".
"Scrivo libri su di te. È il mio lavoro... immaginarti", cercò di difendersi. Sì, ci aveva pensato. Non era un crimine.
"E, quindi, immaginandomi, eri arrivato a questo esatto scenario?"
"Sai una cosa? Dovremmo finire qui il discorso, prima che cominci a degenerare", balbettò, perdendo di forza sotto al suo sguardo vitreo.
Ancora silenzio. Ancora attesa.
"Quanti ne hai fatti?", si informò, più per dire qualcosa che per reale interesse.
"Tutti".
"Tutti? Direi allora che il primo è pronto!"

Era agitato. Poteva fare finta di no per non esasperare la situazione prossima al putiferio, ma non poteva nascondere una certa ansia. Sapeva già la risposta. Puro istinto. L'aveva capito non appena le aveva proposto di fare il test, quel pomeriggio.
"Puoi smettere di essere così precipitoso, calmarti un attimo e aspettare... i tempi?".
"Va bene". Sarebbero rimasti in eterno ad aspettare e lei nel frattempo avrebbe partorito, proprio su quel pavimento. Si tenne per sé quelle che lei avrebbe definito farneticazioni.
Un'altra pausa. Di nuovo silenzio. Non riuscì a trattenersi. Era prossimo allo sfinimento, voleva sapere la verità.
"E quanto dovrebbero durare questi tempi?"
"Castle!", lo zittì al colmo dell'esasperazione.
Dopo aver passato qualche altro minuto a fissare le mattonelle del pavimento, anche per lei la misura fu colma. "Basta, non ce la faccio più, devo saperlo!"
"Grazie al cielo, pensavo di dover star qui tutta la notte!", rispose balzando in piedi. Lei non si mosse dalla sua tana.
"Non vai a prenderli?", le chiese sorpreso.
"No, vai tu", rispose faticando a trovare la voce.
"Tu non vieni?"
"No. Ti aspetto qui".
"Per precisare meglio la questione, vuoi che vada dentro a prenderli, o posso anche guardare? Non vorrei che poi, in futuro, io venissi colpevolizzato per...".
"Castle", lo interruppe irata. "Vuoi anche girare un video per immortalare l'evento?!"
"Posso farlo?", volle sapere lui, già rallegrandosi dell'idea e pronto a recuperare il telefono. Non si poteva certo dire che la sua brillantezza fosse al massimo della forma.
"Certo che no! Vai dentro, prendi quei dannati test e facciamola finita", gli ordinò.

Lui entrò, lasciando la porta aperta, si avvicinò al lavabo e, cercando senza successo di soffocare l'ansia, ne prese in mano uno. E poi due. E poi tutti.
Si diede una lunga occhiata allo specchio – stentò quasi a riconoscersi -, si fece forza e uscì, ostentando una certa calma, a suo beneficio.
Si sedette di nuovo al posto di prima, senza dire niente. Il cuore gli batteva all'impazzata, ma da fuori doveva sembrare tutto normale.
"Sei pronta?", le chiese dolcemente, coprendole una mano con la propria.
Lei si stava tenendo la testa tra le ginocchia e il "No" che le uscì fu a malapena udibile.
"Allora mi metto qui e dimmi tu quando..."
"Dimmelo!", gli ringhiò addosso.
"Ok. Kate", iniziò, prima di fermarsi per fare una pausa a effetto. "Avremo un bambino!", le comunicò facendo finalmente esplodere l'entusiasmo che aveva cercato di trattenere davanti a lei. Avrebbero avuto un bambino. Un bambino tutto loro.
Lei lo guardò ammutolita, emise un gemito, si prese la testa tra le mani e infine si pronunciò con un lugubre: "Mi viene da vomitare".
Le scostò i capelli dalla fronte. "È tornata la nausea? Perché non provi le liquirizie? Ho letto in un sito che funzionano... Mi sono fermato a prenderle, prima di venire qui", le comunicò, sollecito. Al loft, incapace di rilassarsi, aveva fatto qualche ricerca. Per portarsi avanti.
"Metaforicamente", puntualizzò Kate con voce tagliente.

Le accarezzò la mano. Doveva solo riprendersi dallo shock. La capiva, anche lui era sconvolto. Felice, certo, ma completamente sottosopra.
"Ma... come?", riuscì soltanto a dire dall'oltretomba. "Come è successo?".
"In quanto a questo, presumo nel modo classico", le rispose con una nota divertita nella voce. Voleva farla ridere, c'era da festeggiare. O no?
"Sì, ma... proprio per questo è impossibile. Saranno falsi positivi. È uscito per tutti lo stesso risultato?"
Cominciò a realizzare che lei non aveva nessuna voglia di scherzare. Forse erano gli ormoni. Sperò che si trattasse di quelli.
Lui li guardò attentamente, uno dopo l'altro, fermandosi solo verso la fine. "Uhm, credo che questo non sia del tutto chiaro".
"Davvero? Quale?". Kate alzò la testa di scatto, aggrappandosi alla minima speranza.
"No, scherzo. Guarda. Tutti positivi". Glieli mostrò pieno di orgoglio.

Da lei non venne la reazione che si aspettava. A quel punto c'era decisamente qualcosa che non tornava. Tornò serio, rendendosi conto che non si trattava solo dello shock per la notizia sconvolgente. C'era qualcosa di più. Kate era fuori di sé e non in senso positivo. Non che lui non si sentisse infilato a forza in una centrifuga di dimensioni notevoli, ma ne era felice. Lui ci credeva, alla magia della vita. Stava solo prendendo una direzione imprevista, o forse solo anticipata, ma era convinto, grazie al suo innato ottimismo, che sarebbe andato tutto bene. Dovevano solo abituarsi all'idea. Si amavano, no? O, almeno, lui l'amava. Lei... era sulla buona strada, ne era convinto.
Ma in quel momento la sentiva così lontana da non riuscire a raggiungerla, e, anzi, aveva la sensazione che si stesse aprendo sotto ai loro piedi un vuoto che non sarebbe stato possibile colmare.

"Kate", la scosse piano per costringerla a tornare alla realtà. Era rimasta immobile, impietrita.
"Andrà tutto bene...", cercò di rincuorarla, con il bisogno di dire qualcosa, qualsiasi cosa, per farla uscire dal torpore.
"Non andrà tutto bene, Castle. Non va tutto bene. Non usare queste frasi fatte con me".
Castle quasi si ritrasse fisicamente, colpito dalla veemenza della sua risposta. Era più grave di quello che pensava. Non era solo sconvolta. Era peggio. Non volle dirsi quanto.
"Ok, non va bene, ma..."
"Niente 'ma'. È la cosa peggiore che mi potesse capitare. Che ci potesse capitare", continuò furente.
"È un bambino, non un drago", provò ad alleggerire la situazione, per venirle incontro.
"Preferirei fosse un drago", fu la replica asciutta.
Forse parlare non era stata una buona idea. Rimase zitto.
"Non pensi alla mia carriera? Non pensi che sia già stato un azzardo iniziare a frequentarci? Non pensi che distruggerà tutto? Me, noi? Come possiamo sopravvivere a un colpo del genere?".
Dire che non l'aveva presa bene era l'eufemismo del secolo, ma gli sembrò che stesse deragliando senza motivo. Non era una condanna a morte. Provò a inserirsi nell'effluvio di previsioni apocalittiche, per fermarle, ma non glielo permise.
"Io non sono pronta, Castle. Non sei pronto nemmeno tu. È una cosa che si deve scegliere, non deve arrivare per caso. Soprattutto a due adulti. I bambini meritano di essere voluti, desiderati".

Lui sentì dei freddi rintocchi che gli gelarono il sangue quando cominciò a intuire quale sarebbe stato l'epilogo di tutte queste lamentele, messe in fila una dopo l'altra, senza spazio per la speranza. Per il futuro.
Decise di farle un favore e tirò fuori l'indicibile. Tremò nel farlo.
"Tu non lo vuoi", disse sconsolato. Lei non voleva il loro bambino. 
"No". Non era una risposta. Era una sentenza.
Si sentì precipitare su un pianeta freddo e ostile, e la sensazione di vuoto si allargò dentro di lui. Era un vuoto così grande che sentiva fischiare il vento.

Fece un respiro profondo. Doveva rimanere lucido a ogni costo o le cose sarebbero peggiorate, se era perfino possibile.
"Lo sai che non sei da sola in questo, vero? Qualsiasi cosa deciderai...", gli cedette la voce per un attimo, ma fu pronto a recuperare. "Sarò dalla tua parte, sempre".
Kate lo guardò negli occhi. Gli sembrò che fosse cambiata nel giro di pochissimo. Non un'estranea, non ancora. Era solo diversa, lontana.
"Sai come finirà se decido di non averlo, vero?", sorrise amaramente."Finirai con l'odiarmi".
"Kate", le passò un braccio sulle spalle, e la fece appoggiare contro di sé, baciandola sulla fronte. Era infinitamente stanco. E triste, per entrambi. Per tutti e tre, anzi.
"Non potrei mai odiarti", le sussurrò a bassa voce, sentendo che questa era la verità, nonostante l'acuta sofferenza che la sua scelta gli stava provocando.
"Tu vuoi il bambino". Non era una domanda. Non poteva negarlo.
"Sì, lo voglio", mormorò al colmo dell'infelicità. "Ma voglio di più te". E, per quanto fosse spaventoso anche per lui ammetterlo, era proprio così.
Non poteva vivere senza di lei. Per nessun motivo. Soprattutto per un motivo che era piombato nelle loro vite senza averlo programmato, su questo aveva ragione. Avrebbe preferito anche lui che fosse andata diversamente. Ormai, non era più importante.

"È tardi. E' stata una lunga giornata. Perché non cerchi di riposare? Andiamo a dormire". Le si approcciò con delicatezza, come se temesse di romperla. Anche se quello rotto era lui.
"No", rispose Beckett, ancora con il viso nascosto nel suo collo. "Non voglio dormire e non voglio pensarci. Voglio rimare qui, con te".
Cambiò posizione, appoggiando la testa sulle gambe di lui, rannicchiata sul pavimento.
Lui le accarezzò i capelli, guardando il soffitto sopra di sé. Rimasero a lungo senza parlare.

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Capitolo 4
*** Quattro ***


4

Castle

Nel corso della notte Castle l'aveva sollevata dal pavimento dove aveva preteso di rimanere, prendendola cautamente tra le braccia, e l'aveva trasferita sul letto. Lei aveva mormorato qualcosa di inintelligibile, aggrappandosi a lui con voce insonnolita, senza nemmeno aprire gli occhi.
Una volta stesa a letto si era raggomitolata contro di lui in posizione fetale, dimostrandosi vulnerabile e in cerca di conforto, come non si permetteva di essere da sveglia. Lui l'aveva stretta tra le braccia, tenendola contro di sé.
Per un istante si era concesso di indugiare sul pensiero che, forse, quella sarebbe stata la loro unica occasione di essere in tre. Non era riuscito ad addormentarsi, incapace di cancellare dalla mente un'immagine troppo dolorosa e già nostalgica.
Era rimasto immobile a lungo, a occhi chiusi, respirando il profumo della sua pelle e la tranquillità che emanava da lei.

Il sonno l'aveva raggiunto, sfinito, solo all'alba, ma si era risvegliato dopo quelli che gli erano sembrati pochissimi minuti, ritrovandosi in un letto vuoto.
La vide uscire dal bagno, pallida e provata, prima ancora di chiedersi dove fosse finita.
"Va tutto bene?"
"Chiedimelo tra un'ora", gli rispose passandosi una mano sulla fronte.
"Perché non mi hai svegliato? Vuoi che ti prepari la colazione?", le propose, alzandosi e dirigendosi verso la sua cucina, che ormai conosceva abbastanza da potervisi muovere a proprio agio.
"Non dire mai più la parola colazione", gemette lei, prima di scomparire di nuovo in bagno.

Quello che seguì fu uno strano inizio di giornata. Non era quello che lui aveva pregustato ogni singolo, infelice giorno della settimana precedente trascorsa lontano da lei.
Si muovevano cauti, senza osare sfiorarsi, senza quasi guardarsi negli occhi, nel timore di dire una parola di troppo. Non avevano più affrontato la questione che incombeva minacciosa sopra le loro teste. Era come se si fossero tacitamente accordati per non accennare all'argomento, stando molto attenti a non arrivarci nemmeno vicini.
Nessuno dei due voleva imporre all'altro la propria opinione, diametralmente opposta. Non volevano ferirsi, pur essendolo, ognuno a modo suo e per motivi diversi.
Questo però si traduceva in gesti studiati e scarni tentativi di conversazione e non il gioioso disordine che aveva caratterizzato la loro vita di coppia fino a quel momento.

"Ci vediamo in ufficio, più tardi? Io devo andare in tribunale", si informò Beckett. Era vestita di tutto punto e già mentalmente molto lontana da lui.
Lui la raggiunse sulla porta. "No, devo passare da casa. Ho delle cose da sbrigare e magari faccio in tempo a vedere Alexis prima che esca per andare a lezione".
Se rimase stupita dal cambio di programma non lo diede a vedere. Si limitò a sfiorarlo con un rapido bacio sulle labbra e uscì, senza voltarsi indietro. Di solito lo faceva. Tornava per un ultimo bacio, ricordandogli i loro accordi di segretezza. Era uno dei suoi momenti preferiti.

Castle prese un taxi e tornò al loft. Aprì la porta e fu accolto dal silenzio. Aveva mentito, non doveva incontrare Alexis – che a quell'ora era già fuori casa - voleva solo avere un po' di tempo per se stesso, per raccogliere le idee, stare da solo. Non aveva voluto confessarlo per non turbarla. Per non farla sentire respinta.
Si diresse nel suo studio, dove si lasciò cadere sulla sedia girevole dietro la scrivania, con un sospiro stanco. Rimase ad ascoltare il traffico molti piani più sotto, sperando che la quiete lo aiutasse a dipanare le emozioni contrastanti.
Dopo qualche minuto trascorso in uno sforzo meditativo che non aveva raggiunto il suo scopo, si abbassò, recuperò il computer dalla borsa appoggiata vicino alla scrivania e lo accese. Forse lavorare lo avrebbe distratto.
Senza rendersene conto, cliccò sulla cartella che racchiudeva tutte le foto di Alexis fin da quando era neonata e le scorse una a una, sorridendo allo scricciolo rosso che lo guardava dallo schermo.

Non poteva farsi questo, lo sapeva. Non era sano, ma non riusciva a smettere. Non ci sarebbe stato nessun bambino, non poteva fargli spazio nella sua mente, era un invito al massacro. Continuava a pensare che non fosse giusto, che lei stesse sbagliando. Non avrebbe mai discusso con lei della sua scelta, né l'avrebbe mai biasimata. Aveva le sue ragioni. Le capiva, era un uomo ragionevole.
Ma lottava continuamente contro il desiderio di scuoterla, implorarla, prometterle che ce l'avrebbero fatta. Che cosa poteva esserci di meglio di loro due, per un bambino? Erano perfetti insieme. E sì, era successo troppo in fretta, ma nessuno era mai veramente pronto e se si fosse aspettato il momento giusto, non sarebbe mai arrivato, non era così che dicevano?
Era certamente un azzardo, ma perché lei era così convinta che non ci fosse nemmeno la remota possibilità di successo?
Non voleva un bambino adesso o... non voleva lui? Era solo una parentesi divertente della sua vita? Non aveva mai pensato al futuro?
Erano pensieri tossici, morbosi. Non avrebbero portato a niente di buono, se non a darsi un inutile tormento e a rovinare quello che avevano. Già, quello che avevano...
La conosceva. Quella non era una Beckett che avrebbe riconsiderato la cosa. E lui sapeva già che l'avrebbe amata a prescindere e che lei era tutto quello che voleva, ma...
E in quel ma, purtroppo, erano racchiusi i semi di qualcosa che avrebbe potuto avvelenarli. Lei lo aveva già capito.

Cercò di dedicarsi ad altro, imponendoselo a forza, ma il suo cervello si rifiutò di smettere di creare pericolose immagini di un bambino con i loro lineamenti fusi insieme, la sua mente creativa e la logica ferrea di lei. E di che colore avrebbe avuto gli occhi? Chi si sarebbe alzato nel cuore della notte? Chi gli avrebbe insegnato ad andare in bicicletta?
Perché tutto questo non le sembrava, se non bello, almeno fattibile?
Si passò una mano sugli occhi pesti, si arrese e spense il computer, girandosi verso la parete, rimanendo così per molto tempo.

Beckett

Passò qualche giorno, faticoso e difficile. Non voleva pensarci. Non c'era niente da pensare. Non aveva ancora fatto niente di concreto, in un senso o nell'altro, si limitava a destreggiarsi tra nausee mattutine sempre meno sopportabili e una stanchezza che le faceva venire voglia di addormentarsi ovunque si trovasse.

Castle le era sempre accanto, gentile, affettuoso, pronto a cercare un modo per alleviare i suoi sintomi, a rendere la situazione un po' meno pesante. Non se la prendeva se, quando lo invitava per un film, rimaneva da solo a guardarlo fino alla fine, perché lei era già crollata contro la sua spalla dopo i primi dieci minuti. La portava a letto. Le rimboccava le coperte. Le preparava la colazione. Le comprava tonnellate di pistacchi, che lei divorava in continuazione. Lo sentiva vicino, pronto a sorreggerla, a farla divertire con qualche stramba teoria, che la faceva sorridere di nascosto, anche se doveva salvare le apparenze.
Solo che... non era lui. Era un estraneo cortese su cui poteva sempre contare, ma non era Castle.
Non era facile nemmeno affrontare il discorso apertamente: di cosa poteva lamentarsi, in fondo? Di niente. Sei troppo gentile? Smettila di comportarti come se fossi di cristallo e ricomincia a trattarmi da persona in carne e ossa? Perché non ne parlavano? Perché lei non si decideva a fare qualcosa? Veniva trascinata avanti da un'apatia che non riconosceva, nonostante il tempo non fosse illimitato, lo sapeva. Fin troppo bene.

Una mattina, mentre guidava verso il distretto, ricevette una chiamata da parte di Lanie, che le fece fare una deviazione in direzione del laboratorio. Castle se ne era appena andato dopo aver messo in scena, di comune accordo e per l'ennesima volta, la loro versione privata di "Noi non abbiamo nessun conflitto".
Aprì le porte con aria distratta e fu accolta dallo sguardo indagatore dell'amica, già in assetto da combattimento.
"Ehi, dove è il tuo fidanzato?", la investì con il suo miglior tono da interrogatorio. Avrebbe dovuto prendere qualche lezione da lei.
Kate fu colta alla sprovvista. Si girò per guardare se stesse parlando con qualcuno alle sue spalle.
"No, amica, sto parlando con te", chiarì Lanie.
"Quale... quale fidanzato?". Ci mancava solo lei a farle perdere tempo con chiacchiere inutili. Non era proprio dell'umore.
"Il tuo fidanzato scrittore. Chi altri?", replicò Lanie come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
"Tu lo sai?!", chiese sbigottita.
Dopo il ritorno di Castle al distretto, a seguito del loro disastroso week end negli Hamptons, la gente si era convinta che qualcosa non avesse funzionato, ma che fossero riusciti a trovare il modo di lavorare insieme, superando i loro conflitti almeno in quell'ambito. Erano stati molto felici di lasciarglielo credere, evitando ogni forma di contatto, se non quando strettamente necessario. Erano civili ed educati e tanto bastava. Credevano ci fossero cascati tutti. Evidentemente, non Lanie.
"Puoi ingannare i tuoi amici detective, di certo non me. Allora, dove è Castle? Come mai non ti gira intorno con l'aria di volerti rinchiudere nel primo stanzino disponibile?"
Kate si sentì arrossire sotto quell'aria inquisitoria.
"Non... mi vuole rinchiudere in nessuno stanzino", contestò.
"Forse tu non te ne accorgi, ma io sì. Non mi è mai sfuggito nulla. E, dimmi... il sesso è come nei romanzi?", indagò con fare malizioso.
"Lanie!". Kate le rivolse un'occhiata ammonitrice. "Noi... noi non faremo questo discorso. Mai. Argomento chiuso".
"Sicura?", ribatté Lanie, delusa.
"Più che sicura. Novità sul caso?", tagliò corto.

Lanie la ragguagliò sugli ultimi risultati, spostandosi nel laboratorio per avvicinarsi al lettino dove era steso il cadavere, continuando a parlarle, finché non si rese conto che Kate non la stava seguendo. Aveva preferito rimanere indietro. Aveva i suoi buoni motivi che non intendeva spiegarle.
Si fermò a guardarla con aria interrogativa. Stava per mostrarle una strana macchia sul corpo e da dov'era non sarebbe certo riuscita a vederla, ma non poteva avvicinarsi.
"Perché te ne stai così lontana?", le chiese senza capire.
"Non sto lontana", ribatté Kate sulla difensiva, senza muoversi di un passo.
"Pensavo avessi visto abbastanza cadaveri da non farti più turbare. Sei tornata improvvisamente sensibile alla decadenza del corpo umano? È perché adesso frequenti l'alta società? Il mio tavolo è troppo per il tuo stomaco delicato?", la stuzzicò, non sapendo di essere vicina alla verità.

Preferì non rispondere. Si predispose a farsi forza e superare la nausea per tornare vicino al corpo e non destare nessun sospetto.
Di colpo Lanie assunse un'espressione turbata, mentre collegava mentalmente i puntini.
"Oh, no..." iniziò a mormorare in preda allo sconcerto. "Oh, no. Oh, no, no, no".
Kate chiuse le palpebre, preparandosi psicologicamente all'assalto che sarebbe sicuramente seguito. Non aveva considerato che le sue nuove condizioni non la rendevano compatibile con una visita in obitorio. Era diventata intollerante alla maggior parte degli odori, soprattutto quelli forti, che lì abbondavano.
"Non dirlo", la implorò vanamente.
"Sei incinta!". Il suo tono non poteva essere più incredulo, neanche se avesse annunciato un'invasione di alieni.
"Ed eccoci finiti nel dramma", mormorò Kate a se stessa, rassegnata a non riuscire a scappare dalle grinfie dell'amica, prima che tutta la questione fosse stata sviscerata in ogni dettaglio, con particolare attenzione a quelli più sordidi. "Se potessimo spostare questa conversazione a un momento più consono, io non ho davvero tempo...", mormorò in un ultimo, infruttuoso tentativo di allontanare la sua condanna.
"No, non possiamo. Voglio sapere tutto. Adesso. Da quanto vi vedete? E per vedervi intendo intrattenervi in attività ricreative che hanno generato questo risultato, non arrestare gli psicopatici".
"Da qualche settimana", ammise Kate a malincuore, anticipando già la scenata.
"E sei già incinta?! Ma che cosa vi viene in mente? Non siete due adolescenti!"
"Lanie...". Kate provò a fermarla con voce stanca, desiderando con tutta se stessa di essere altrove.
"Raccontami tutto", le ordinò.
E Kate, sorprendendo perfino se stessa, si aprì finalmente con qualcuno, iniziando dagli Hamptons e finendo con il test di gravidanza, la sua decisione, e la strana atmosfera che si era creata con Castle. Tirò fuori tutto. Venne fuori da solo in una valanga di parole, frasi smozzicate, qualche espressione rabbiosa. Si sentì meglio, quando ebbe finito.

Lanie l'ascoltò attentamente, senza interromperla.
"Quindi, riassumendo: lui è pazzo di te, da sempre. Tu hai finalmente ammesso a te stessa che sei pazza di lui. Tra parentesi, l'avevamo sempre saputo tutti. State bene insieme. Siete travolti dalla passione..." C'era un modo per morire? Velocemente? "Gettate la prudenza alle ortiche, fate un bambino e adesso tu non lo vuoi. E lui sì".
Era un riassunto conciso ma molto onesto, Kate fu costretta ad ammettere che era proprio così.
"È un bel casino", fu il commento lapidario che ne seguì. "E Castle come si sta comportando? Ti fa pressioni?".
"No, mai. È... gentile e amorevole come sempre". Era la prima volta che lo diceva ad alta voce a qualcuno che non fosse il suo riflesso allo specchio. "Solo che... c'è qualcosa di diverso tra di noi, non è più lo stesso".
"Più che qualcosa, direi che c'è qualcuno", la corresse Lanie, stringata.
"Lanie, dai, non è neanche una persona. Sarà grande qualche millimetro", obiettò Kate, che aveva sempre preferito non porsi certe domande. Non sapeva di quante settimane fosse. Era solo un concetto molto nebuloso che non la riguardava.
"Castle non è d'accordo su questa definizione, vero?".
"Non lo so, immagino di no. Ed è quello il problema. Non parla, non affronta il discorso, non mi dice niente. Lo vedo perso nei suoi pensieri, ma tutto quello che ottengo è 'Va tutto bene. Tu come stai? Hai bisogno di qualcosa? Vuoi qualche liquirizia, cracker, zenzero o qualche altro dannato rimedio antinausea?'"
A proposito di nausea, non le era ancora passata del tutto. Quel giorno non le stava dando tregua.
"Non vuole metterti pressione, non mi sembra una brutta cosa".
"Non lo è, ma così facendo finisce che non comunichiamo più".
"Kate, lui lo vuole e tu no. La decisione è la tua. Che cosa vuoi che faccia di diverso? Che ti implori di tenerlo? Che ti proponga di averlo e di darlo a lui? Che vada a fare i sit-in antiabortisti davanti alle cliniche? Ha già una figlia, sa bene a cosa dovrà rinunciare. Quanto pensi che gli costi starti vicino e non dirti niente? Lo fa solo per rispetto. E perché ti ama".
Kate non aveva mai considerato la cosa da questo punto di vista. Dal punto di vista di Castle. Si sentì mancare. Gli spiacque per lui. Come poteva fargli questo? E come poteva farlo a se stessa, capovolgendo la situazione?

"Ma in fin dei conti, perché non lo vuoi?".
Era questo che odiava. Le domande. Dover spiegare. Erano fatti suoi. Era la sua decisione, la sua vita. Perché gli altri si impicciavano? Non lo voleva perché non lo voleva. Non ne aveva forse il diritto?
"Non... non è il momento giusto. Non così, non adesso. Ho... altri progetti", ribatté Kate, sentendosi improvvisamente più una bambina capricciosa che una donna adulta con il diritto di fare le sue scelte.
"Il padre va bene? Intendo, non è Castle il problema, giusto?"
No, il problema non era decisamente Castle.
"Diciamo che... se proprio doveva capitare, meglio con lui che con chiunque altro".
"Credo che tu abbia la risposta".
"A quale domanda?".
"Perché diavolo non dovresti tenerlo!"
"Lanie! Ti ci metti anche tu, ora?", Kate la guardò sconcertata e offesa. Questo era oltrepassare dei confini chiari e precisi. Non lo avrebbe permesso a nessuno.
"Qualcuno dovrà pur farti ragionare".
A quelle parole, Kate fece per andarsene, esasperata per i modi bruschi, il tono presuntuoso e l'arroganza di sapere che cosa fosse meglio per lei. Le aveva chiesto un consiglio? Non le pareva proprio.

"Kate", la richiamò indietro, quando era già in corridoio. La raggiunse fuori. "Scusami. Ho esagerato. Ma... avete una relazione, una vita stabile. E hai ammesso tu stessa che è la persona giusta. Di cos'altro hai bisogno?".
"Non ho detto che è la persona giusta. Ho detto che, nell'ipotesi, meglio lui di un altro", specificò. Castle sarebbe stato un ottimo padre, ne era più che certa.
"Quindi il problema è che non sei sicura di lui?", le chiese con molta più delicatezza di quanta ne avesse dimostrata fino a quel punto.
"No, non sono sicura di me. Non sono una persona da bambini. A te piacciono, a Castle piacciono, piacciono a tutto il mondo. Siete bravi, sapete cosa fare, vi fanno tenerezza. A me no".
"Quindi stai suggerendo che io e Castle dovremmo avere un bambino?".
Kate si mise a ridere, un po' forzatamente. Lanie le si avvicinò e le mise una mano sul braccio. Rimase rigida sotto il suo tocco.
"Kate, non lo sa nessuno come si fa a fare il genitore. Però, se non ci siamo ancora estinti, evidentemente è una cosa che quasi tutti possono imparare a fare, no? Il punto non è trovare motivi ragionevoli per dire di sì o di no. Il punto è capire se c'è una parte, dentro di te, che lo vuole e basta. A istinto".
Kate fece silenzio per un lungo momento, interrogandosi.
"No", disse alla fine. "Credo che non ci sia".
"E allora perché aspetti? Perché non hai ancora fissato un appuntamento?".
"Hai ragione. Lo farò presto".
E, finalmente, scossa, irritata e molto stanca, fu libera di andarsene.

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Capitolo 5
*** Cinque ***


Beckett

Guidando per tornare al distretto le venne l'improvvisa voglia di sentirlo, parlargli, passare qualche ora con lui come ai vecchi tempi.
Il che aveva dalla sua un certo umorismo. Di quali vecchi tempi si stava parlando? Come era possibile che fossero finiti così nel giro di un mese e mezzo? Potevano già rimpiangere un passato più felice?
Provò a chiamarlo, ma lui non rispose e lei gli mandò un messaggio spiritoso – così sperava, ma dubitava di esserci riuscita -, per invitarlo fuori la sera stessa. Come se fosse un appuntamento. Come facevano nella loro vita precedente.

Ricevette la risposta qualche ora più tardi e si sentì felice e sollevata come se avesse temuto che lui potesse rifiutare. Trascorse tutta la giornata in un'atmosfera carica di aspettativa ed eccitazione, contando le ore finché fu libera di alzarsi dalla sedia e correre a casa a cambiarsi. Sperava che almeno riuscissero, se non a comunicare, almeno a stare vicini in modo autentico. In modo sereno, senza ombre.

Castle la stava aspettando nel locale che lei aveva scelto per la loro serata. Era all'aperto, all'ultimo piano e si godeva di una splendida vista della città. C'era molta gente, e, all'inizio faticò a scorgerlo seduto al bancone del bar, seminascosto da una marea di piante e luci. Si sentiva molto più in forma che nell'ultimo periodo, la stanchezza era svanita. Era felice e frizzante come agli inizi del loro rapporto. Anzi, a essere onesti, si era sentita così fino al minuto prima di fare il test. Era da dopo quel... come lo si poteva chiamare? Contrattempo? Tragedia non annunciata? che la situazione aveva iniziato a scivolarle dalle mani, senza che lei potesse fermarla.
"Buonasera, signore, aspetta qualcuno?", lo salutò sorprendendolo alle spalle e baciandolo davanti a tutti. Non le importava se qualcuno li avesse visti. Non quella sera.
Castle rimase per un attimo sbalordito – aveva sperato in quella reazione - ma non stette a porsi troppe domande. Rispose al bacio con foga, al punto che dovettero sforzarsi di staccarsi, ansanti, prima dare spettacolo pubblicamente, mentre lui le mormorava a un orecchio che tutto quello che desiderava era di trascinarla a casa - una casa qualunque - per continuare il discorso. Lei rise, la testa abbandonata all'indietro e ricominciò a sperare che non tutto fosse perduto.

La serata scorse via lieve, chiacchierarono senza sosta lanciandosi frecciate, ridendo, senza riuscire a smettere di toccarsi. Stavano bene. Erano tornati a essere quelli che erano sempre stati. Lui le sembrava davvero rilassato, non il solito sconosciuto cortese dell'ultimo periodo. La corteggiava e la guardava come era sempre stata abituata a essere guardata da lui. Kate sentì che la tensione allo stomaco, di cui non si era resa conto, cominciava a dissolversi.
C'era pur sempre l'enorme elefante nella stanza che entrambi fingevano di non vedere e di cui non avevano parlato per l'intera serata. E se anche le piaceva l'idea di essersi presa una vacanza dalla sua vita, la realtà, in quel momento, non era quella che stavano facendo finta di vivere.
"Balliamo?", gli propose, cogliendolo di nuovo di sorpresa. Si affrettò ad accettare, forse aveva paura che questa nuova Beckett scomparisse come la carrozza a mezzanotte. La prese per mano e l'accompagnò in pista, dove la tenne stretta tra le braccia, muovendosi lentamente. Si abbandonò contro il suo petto.
"Mi stupisce che tu sia ancora sveglia a quest'ora", la canzonò. Era troppo felice per rimproverarlo.
"Confesso che un sonnellino tra la prima prima e la seconda portata me lo sarei fatta volentieri, ma sto cercando di controllare le mie tendenze narcolettiche", rise.
"Non puoi certo lamentarti se amo guardarti dormire".
"Già. Non credo che ti sia rimasto altro da fare", convenne lei mantenendo lo stesso tono leggero.
Lui la strinse più forte e lei ritrovò la sensazione familiare dei loro corpi vicini, sentì il profumo del suo dopobarba, appoggiò la testa nell'incavo del suo collo, che era rapidamente diventato il suo posto preferito al mondo e pensò, con un sussulto improvviso, che non sarebbe mai più stata in grado di rinunciare a tutto questo.

"Oggi sono stata da Lanie. Sapeva che ci frequentiamo", gli confessò.
"Come è possibile?", lui la costrinse ad alzare la testa e a guardarlo negli occhi, preoccupato dalle implicazioni di quella notizia.
"Dice che possiamo credere di aver ingannato tutti, ma non di certo lei. A quanto pare, sembra che sia colpa del fatto che tu dai sempre l'impressione di volermi portare nello stanzino del distretto".
Lui si mise a ridere forte, fermandosi al centro della pista.
"In effetti, è quello a cui penso per la maggior parte del tempo. Ero convinto però di avere una faccia da poker più credibile", le confessò.
"Sa anche... del resto", proseguì lei un po' intimidita, toccando finalmente l'argomento tabù.
"Glielo hai detto tu?", si stupì Castle. In effetti non lo avevano comunicato a nessuno. Non c'era niente da dire.
"Certo che no", si difese. "L'ha capito da sola grazie alla sue doti medianiche e per il fatto che non riuscivo a stare a meno di due metri dal cadavere. Non credo che sia mai successo. Lei parlava e io avevo solo voglia di vomitare nel cestino", gli spiegò.
"E Lanie come l'ha presa?", si informò Castle.
"Pensa che dovreste avere un bambino voi due".
"Per me va bene", acconsentì con entusiasmo.
"Ehi", protestò Kate. "Ti sto sentendo!"
"Ammetterai che devo essere molto virile per... come dire... essere finiti in questa situazione, battendo le statistiche, non trovi? Perché, quindi, non distribuire questa abbondanza...".
Forse preferiva un po' meno del vecchio Castle.
"Castle, se non la smetti subito, ti spingo personalmente giù dal grattacielo. E ti informo che i cadaveri spiaccicati sull'asfalto tendono a farmi venire molta, molta nausea".
Lui sorrise senza dire niente.
"Come...", riprese lei. "Come hai fatto capirlo? Voglio dire... poteva essere davvero un'intossicazione alimentare, no? Eppure l'hai intuito fin dall'inizio".
"Avevi una taglia in più... sopra", le confessò tranquillamente.
"Castle!", lo redarguì, desiderando di poterlo davvero spingere di sotto con tutte le sue forze.
"È la verità! Vuoi che non me ne accorga, soprattutto dopo una settimana di assenza? Stai parlando con qualcuno che ha sempre voluto chiuderti in uno stanzino, a detta dei tuoi amici!"
"A volte mi chiedo perché io mi ostini a pensare di comunicare con te come se fossi una persona normale", finse di rammaricarsi, sbuffando per sottolineare meglio il concetto. "Domani ho appuntamento dal medico". Cambiò discorso in modo repentino. Le parole le uscirono di bocca prima che le venisse meno il coraggio.
Lo sentì irrigidirsi.
"Non è per quello che pensi. È solo una visita per fare il punto della situazione. Per valutare tutte le opzioni", proseguì, sperando di non aver rovinato la serata. Ma non poteva più fare silenzio.
"Valutare le opzioni", ripeté Castle, soppesando le parole, abbandonando l'aria divertita che l'aveva accompagnato per tutta la sera, improvvisamente serio. "Va bene. Ti accompagno".
"Vuoi venire con me dal mio ginecologo? Vado da sola alle mie visite da che ho memoria".
"Sì, ma io sono il padre".
"Non sei affatto il padre!", si lasciò scappare lei, pentendosene subito.
"Come sarebbe che non sono il padre? C'è qualcosa che mi tieni nascosto, Beckett?", scherzò.
"No, certo che sei tu. È che...". Come era faticoso. Lo era sempre, quando si arrivava a quell'argomento.
"Tecnicamente non sono un padre perché non ci sarà nessun bambino, giusto?"
Lei annuì, troppo codarda per guardarlo in faccia e rendersi conto di avergli spezzato il cuore ancora una volta.
Lui non smise di ballare e di abbracciarla. Ma, di colpo, sembrò che tutte le luci si fossero spente.
"Io ti amo e ti amerò sempre", le sussurrò a voce bassa tra i capelli.
E lei si chiese quanto sarebbe durato, quel sempre.

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Capitolo 6
*** Sei ***


6 Beckett

Kate si svegliò di colpo, dopo solo qualche ora di sonno. A conclusione della serata avevano deciso di trascorrere il resto della notte al loft di Castle, in quei giorni sgombro e stranamente silenzioso.

Si era addormentata subito, ma adesso era completamente lucida e insonne come non le capitava da moltissimo tempo. Sarà colpa del materasso, si disse. Forse invecchiando comincio ad aver bisogno delle mie abitudini.
Castle dormiva profondamente nel suo lato del letto e lei, dopo essersi rigirata invano con l'unico effetto di innervosirsi, decise di alzarsi. Niente la urtava di più che dover rimanere sdraiata, quando era evidente che anche l'ultima traccia di sonno era ormai svanita.

Attraversò lo studio, avvolto nell'oscurità e raggiunse il divano, dove si lasciò cadere con un sospiro. Guardò l'orologio. Le tre. Troppo presto per fare finta di poter iniziare la giornata. Si sedette a gambe incrociate, rassegnandosi a contare qualsiasi cosa di numerabile nel lento scorrere di ore esasperanti.
Vide alcuni libri appoggiati sul tavolo basso di cristallo di fronte a lei, li scorse per vedere se ci fosse qualcosa che potesse attrarre la sua attenzione. Aveva davanti una lunga giornata impegnativa e tutto quello che non desiderava era di doverla affrontare stanca e di cattivo umore fin dal mattino. E pensare che era stata felice di salutare le tendenze letargiche che l'avevano oppressa nell'ultimo periodo.

Ripensò alla serata appena trascorsa. E poi pensò all'appuntamento del giorno seguente. Era il momento della verità e lei, invece di essere sollevata, si sentiva nervosa e con la voglia di infilarsi sotto al lenzuolo e dormire per sempre. Naturalmente questo sarebbe stato possibile se almeno avesse avuto una parvenza di sonno. Che non aveva.
Lasciò scorrere pigramente lo sguardo sull'ampio salotto del loft e, per l'ennesima volta si rammaricò della mancanza di una parete che dividesse la stanza di Castle dal resto della casa.
Martha e Alexis dormivano al piano di sopra, e anzi Martha formalmente non viveva neanche più lì, quindi una certa intimità era, per così dire, preservata. Lei del resto non era mai stata lì contemporaneamente alle altre donne, quindi il problema non si era mai posto.
Ma dove avrebbero messo il bambino? In camera con loro? Di sopra? In balcone? Di sicuro lei non poteva starsene a dormire di sotto, con un intero piano a separarli. Lo voleva vicino. Non necessariamente nella stessa stanza – su questo ci sarebbe stato da discutere -, ma non così lontano. Era assolutamente fuori questione.
Di colpo si rese conto di quello che stava facendo. Stava davvero riflettendo sul futuro in questi termini? Se lo chiese con un misto di incredulità e angoscia.
Era il bambino? Stava comunicando telepaticamente con lei? Facevano così? Si impossessavano della tua mente?
Leggermente inquietata da quello su cui si era trovata suo malgrado a riflettere, si decise, per la prima volta, ad affrontare apertamente la questione.
Per prima cosa si guardò con onestà: era cambiato qualcosa in lei, fisicamente? In apparenza, no. Lei però sentiva che il suo corpo le apparteneva ogni giorno di meno. La differenza sostanziale era nei gusti diametralmente opposti rispetto a prima. Addio caffè. Addio vino. Benvenuto a tutto ciò che era verde. Forse il bambino era fruttariano.

A seguire, l'incontrollabile ipersensibilità agli odori, come era successo in laboratorio da Lanie. Nel caso del profumo naturale della pelle di Castle, di cui era pazza, poteva anche essere un cambiamento apprezzabile, ma quando si trovava di fronte a un cadavere o in un vicolo pieno di spazzatura, la faccenda non era più così divertente. Forse avrebbe potuto partecipare a quei quiz televisivi in cui i concorrenti, bendati, dovevano riconoscere i cibi unicamente in base all'odore. Si immaginò come sarebbe stato felice Castle di vederla fare una cosa del genere. Avrebbe anzi voluto partecipare anche lui. Peccato che non sarebbe finita bene, nella parte con gli odori che la disgustavano.

Terzo, il suo corpo non era in grado di sostenere gli sforzi come aveva sempre fatto. Era sempre stata molto allenata, ma era stata costretta a diminuire i minuti di corsa, perché le veniva presto il fiatone. Non era abituata ad avere un corpo che rispondeva ai voleri di qualcun altro, qualcuno che adesso sembrava anche abitare il suo cervello.
"Ehi, bambino", provò a chiamarlo. "Yuhuu, laggiù, c'è nessuno?".
Si sentiva un po' idiota a farlo e di sicuro non l'avrebbe mai confessato a Castle. Ma cominciava a trovare la cosa un po' buffa.
Come si comportavano le altre persone che avevano delle altre persone più piccole al loro interno? (No, non avrebbe mai usato la parola madri).
Lui la sentiva da fuori o da dentro? In quale momento spuntavano le orecchie? Sapeva, vagamente, che il cuore arrivava a formarsi abbastanza in fretta, ma il resto? Doveva parlare ad alta voce? No, certo che non l'avrebbe fatto, così nel silenzio della notte. L'avrebbero internata.

Si ricordò che uno dei gesti tipici di queste persone- le madri - era quello di accarezzarsi la pancia con espressione assorta. Ovviamente lei non lo faceva e non l'avrebbe fatto.
Sollevò la maglietta di Castle che indossava come pigiama, una tra quelle che prendeva sempre in prestito quando rimaneva a dormire da lui.
La pancia era piatta. Nemmeno il gonfiore di certi giorni del mese. Appoggiò due dita sull'ombelico, dando dei colpetti lievi, non sapendo di preciso che cosa aspettarsi. Che qualcuno battesse cinque da dentro? Forse stava impazzendo. Gli embrioni avrebbero avuto la meglio sugli esseri umani e avrebbero dominato il mondo.
Non sentì niente. Per forza, si disse. Dubito che possiamo discorrere dei massimi sistemi del mondo da dentro e fuori la mia pancia.
Rimase a riflettere sul da farsi. Appoggio solo una mano e basta, decise. La tengo ferma. Ci tiro sopra la maglietta, così non vedo e tutto questo non sarà mai esistito.
Cedette istintivamente al familiare, e al tempo stesso straniante, gesto materno che non sapeva nemmeno di conoscere e che invece le sorse spontaneo. E la cosa non le sembrò affatto ridicola, ma naturale, e le venne da ridere e un po' da piangere.

Dopo un tempo indefinito trascorso in quella posizione, mormorò a voce bassa "Buonanotte, bambino" e tornò felice e confusa a sdraiarsi vicino a Castle, che aveva continuato a dormire profondamente, senza accorgersi di niente.

L'appuntamento medico era fissato nel tardo pomeriggio, cosa che le permise di andare al lavoro e di non pensarci per tutto il giorno. Per quanto era umanamente possibile.
Si era accordata per incontrarsi con Castle direttamente nello studio del ginecologo, visto che era rimasto fermo nel suo proposito di accompagnarla. Aveva però accettato di aspettarla fuori, come da sua specifica richiesta, visto che lei, a dirla tutta, non era esattamente a suo agio a parlare del suo ciclo davanti a qualcuno che non fosse lì per motivi professionali.

La giornata era trascorsa senza scossoni, non velocemente come avrebbe desiderato, ma non era stata attanagliata dall'ansia prevista.
Uscì dal distretto con il sole ancora alto, guidò senza fretta - era piuttosto in anticipo - e parcheggiò davanti allo studio, dove Castle la stava già aspettando.
"Grazie per essere venuto". Non sapeva perché lo stesse ringraziando, quando di fatto avrebbe preferito stare da sola con i suoi pensieri e non essere costretta a fare conversazione.
Entrarono e si sedettero nella sala d'attesa, un po' troppo piena per i suoi gusti. Il dottore era in ritardo? Di quanto sarebbe slittato il suo appuntamento?
Castle sorrise alla segretaria, che fu subito conquistata dal suo fascino, così come le altre donne, che Kate vide raddrizzarsi sulla sedia per lanciargli occhiate furtive - o nemmeno troppo furtive. Lui sembrava bearsi, come sempre, dell'attenzione femminile. Con il solito dispiego di fascino maschile di cui era provvisto in abbondanza, cominciò a interessarsi cortesemente delle loro vite, suscitando sorrisi svenevoli che le fecero venire voglia di fare una strage. Avrebbe dato colpa agli ormoni.
"Castle!", lo richiamò all'ordine, seccata, quando ne ebbe abbastanza.
"Che c'è?", le chiese lui con aria innocente.
"Vedo quello che stai facendo e non è divertente".
"Faccio conversazione. È una sala d'attesa, è così che si fa di solito tra persone civili".
"No, nelle sale d'attesa si fa silenzio. Non si viene per ammaliare le donne".
"Io starei ammaliando le donne? Chi usa la parola 'ammaliare' in questo secolo? Hai ricominciato a leggere Jane Austen?".
Lei grugnì di pura esasperazione, gli girò ostentatamente le spalle, afferrò un giornale a caso e ci nascose la testa dentro.
"Mi pare che qui qualcuno sia geloso", commentò Castle soddisfatto.
"Quanti anni hai? Dieci?", gli rispose piccata, continuando a stare girata dall'altra parte.
Castle smise di intrattenere il pubblico, prese a sua volta un giornale e finse anche lui di leggerlo.

"Come può avere una pancia tanto grossa? Sarà incinta da almeno due anni, come gli elefanti!", commentò lei a bassa voce avvicinando la testa a quella di Castle, senza riuscire a trattenere lo stupore, alla vista di una donna seduta davanti a loro. E dimenticando l'intenzione di ignorarlo per sempre.
"Beckett!", si meravigliò lui. "È una cosa così cattiva che avrei potuto dirla solo io!"
"Sto solo dicendo la verità. Non può essere normale". Cominciava ad avvertire un filo di ansia. Era così che si diventava? Non ci aveva mai fatto caso. Le donne incinte non avevano mai fatto parte del suo universo.
"A me non sembra tanto grossa. Ma magari sono gemelli", concluse Castle, osservando la donna in questione, che gli sorrise dalla sua poltroncina.
Beckett lo fissò interdetta. "In che senso gemelli?". Era così confusa che le sembrava che lui le avesse appena confermato che, sì, in effetti si trattava di una gravidanza da elefanti.
"Nel senso di due bambini che nascono contemporaneamente. Sai che gli esseri umani qualche volta, come i pipistrelli, hanno dei parti gemellari, il che avviene perché...", le illustrò con il suo miglior tono da commentatore di un documentario in onda sul National Geographic.
Lei lo fermò subito nella sua disquisizione scientifica. "Lo so cosa sono i gemelli. È che... non pensavo potessero capitare davvero", confessò. Oddio, ci mancava che fossero due.
"Non è un'eventualità così remota", la informò Castle con aria molto seria.
"Perché? Hai dei casi di gemelli in famiglia?", si allarmò. Quante cose si dovevano sapere quando si univa il proprio corredo genetico a quello di un'altra persona?
"No, perché sono molto virile, non era già stato appurato?", chiosò lui, divertito.
Lei lo guardò disgustata. "Se non la smetti di comportarti in maniera tanto idiota, sarò costretta a cacciarti", riuscì a dire, prima di mettersi a ridere.
Oh, l'effetto che le faceva sempre Richard Castle. Lo sforzo che Richard Castle faceva per farla stare bene quando stava per decidere di rinunciare il bambino che lui voleva così tanto. Si sentì così amata e grata per avere un uomo del genere nella sua vita. E. al contempo, così colpevole.

"E in quella coppia seduta laggiù chi è incinta?", le domandò con voce da cospiratore, continuando a cercare di distrarla. Sapeva che il suo intento era unicamente quello.
"Intendi tra quei due uomini?", si interessò subito lei.
"Uno dei due dovrà essere per forza una donna, non credi? Che cosa ci fanno qui, altrimenti?", ragionò Castle.
"Forse la donna è dentro", congetturò Kate.
"È un triangolo? Marito e amante? Il bambino di chi è?".
"Non deve per forza essere incinta, no? Magari è una visita di controllo. Vedi future partorienti ovunque, Castle. Devi darti una calmata".
"E per una visita di controllo sono dovuti venire tutti? I cugini di secondo grado li hanno lasciati a casa?", commentò sarcastico.
Lei si mise a ridere, di nuovo. "Smettila! Se continui così dovrò tornare in bagno per l'ennesima volta".
"Quindi anche tu lo fai?".
"Andare in bagno? Spesso, da quando la tua virilità ha fatto danni".
"Non pronunciare mai più quella parola con quel tono mentre siamo in pubblico o sarò costretto a cercare uno stanzino. E, comunque, no. Intendevo se immagini anche tu le vite altrui, quando sei in coda da qualche parte"
Lei si raddrizzò sulla sedia e, con un tono di superiorità, gli rispose: "Io non immagino, Castle. Io sospetto, dovresti saperlo. È deformazione professionale".
Lui la colpì sulla gamba con il giornale.
"Sei molto sexy quando ti metti a fare la poliziotta integerrima", la prese in giro.
Lei gli restituì il colpo con il suo giornale.
"Castle, tu ti prendi libertà con me che i ragazzi al lavoro non si permetterebbero mai", gli fece notare impettita.
"È perché io ti rendo molto, molto felice", ribatté, facendole l'occhiolino.
"Fingerò di non aver colto la tua pesante allusione", gli rispose, sprofondando di nuovo nel suo giornale. "Forse avresti dovuto rendermi meno felice, visto dove ci ha portati tutta questa felicità", aggiunse.
"Non mi pareva che ti lamentassi quando..."
"Castle! Ti sembra il momento?!". Gli lanciò un'occhiata di disapprovazione. "E poi che cosa significherebbe? Che ti riservo un trattamento privilegiato in cambio di favori sessuali?", continuò, incapace di fare silenzio.
"Beh, hai sempre voluto mettere le mani su di me, fin dal primo giorno".
"No, affatto. Forse non ti ricordi quanto eri insopportabile all'inizio", ribadì lei decisa.
"Dai, Beckett, lo sappiamo tutti e due qual è la verità. Adesso non hai più bisogno di negarlo".
"Sei tu che hai sempre voluto uscire con me", replicò piccata.
"No, io ho sempre voluto fare il poliziotto, lo sai".
Sospirò. Più di una volta. "Finiamola qui. Con te è impossibile ragionare".
"È solo perché non sei capace di accettare la sconfitta dialettica".
Lei non volle fargli vedere che le veniva da ridere, ancora. Non aveva ancora smesso, quando venne fatta accomodare nello studio del medico.

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Capitolo 7
*** Sette ***


7

Castle

Castle la guardò scomparire dietro la porta e appoggiò il giornale, che non aveva mai iniziato a leggere, dove l'aveva trovato.
E così erano arrivati alla fine, pensò con un pizzico di autocompatimento. Sospirò.

Aveva sperato fino all'ultimo che Kate cambiasse idea. Anzi, non aveva mai davvero creduto che lei potesse davvero avere un'opinione tanto diversa.
Le aveva lasciato tempo e spazio in abbondanza, ma lo aveva fatto convinto che, a un certo punto, lei avrebbe accettato l'idea di un bambino. Il loro bambino. Non un bambino ipotetico e futuro. Uno già reale.
Invece, con sua sorpresa e rammarico, era andata fino in fondo, proprio come aveva sempre sostenuto che avrebbe fatto. Questo che cosa diceva di loro? Molto poco, se qualcuno glielo avesse chiesto.

Era così immerso nelle sue tristi riflessioni che non sentì la segretaria del medico chiamare il suo nome.
"Signor Castle?", ripeté la donna a voce più alta, guardando nella sua direzione. "Adesso può entrare nello studio".
Era così sorpreso di essere stato interpellato da trattenersi a stento dal risponderle che no, grazie, non doveva entrare, era lì solo in veste di accompagnatore. Ovvio, si disse, fermandosi in tempo. Siamo in uno studio ginecologico. È chiaro che la visita non riguarda me.
Non riusciva a capire il motivo di quella richiesta. Non erano quelli i patti stabiliti con Beckett. Lei sarebbe entrata da sola e lui era lì solo in veste di buffone di corte. Non che fosse esattamente questo il loro accordo verbale, ma gli era parso doveroso essere presente per tentare di diminuire la tensione che di certo l'avrebbe attanagliata. Era stato bravo, tutto considerato.

Il medico lo stava pazientemente aspettando alla porta. Era molto giovane e Castle represse l'istinto di chiedergli se il vero dottore fosse in procinto di raggiungerli.
"Buongiorno, signor Castle, piacere di conoscerla. Kate la sta aspettando nell'altra stanza", lo salutò amabile, mostrandogli la direzione con un gesto della mano.
Quale altra stanza? Si chiese Castle, mentre l'uomo lo faceva passare in locale più piccolo, dove scorse un lettino e Beckett distesa sopra a occhi chiusi.
Stava male? Aveva avuto un malore durante la visita? Era per questo che avevano richiesto il suo intervento?
"Va tutto bene?", volle sapere, un po' preoccupato.
"Lo vediamo subito. Kate ha voluto che anche lei assistesse all'ecografia".
Davvero? Abbassò lo sguardo sbalordito, ma lei si era voltata verso lo schermo, così non poté interpretare il significato di quel cambio di programma.

Deciso a fare il meglio che poteva, pur non comprendo ancora che cosa ci si aspettasse da lui, prese posto sull'unico sgabello presente, di dimensioni esigue e molto scomodo, alla sinistra del lettino. Se lo aveva voluto lì con lei, doveva avere le sue motivazioni.
Il medico accese il computer e passò la sonda sull'addome di Kate. Era molto tesa, riusciva a vederlo anche dalla sua posizione arretrata.
Comparvero le prime immagini confuse e, d'istinto, Kate allungò una mano all'indietro a cercare la sua, in una muta richiesta di aiuto che si affrettò a raccogliere. Gliela accarezzò piano.
Il medico, troppo gioviale per i suoi gusti – Kate non lo aveva messo al corrente che non sarebbe stato un momento felice? Doveva per forza far trapelare tutto il suo entusiasmo? - mosse lentamente la sonda in senso orario. "Controlliamo se questo bambino si fa vedere. Forse è ancora un po' presto, ma... no, eccolo qui", annunciò trionfante, voltando lo schermo nella loro direzione. "Riuscite a vederlo?", chiese allegro.
Loro si sporsero in avanti, finsero di guardare attentamente, gli sorrisero con molta cortesia e infine risposero, all'unisono: "No".
Si lanciarono un fuggevole sguardo d'intesa.
"Non preoccupatevi, la prossima volta sarà più grande e quindi più facile anche per voi individuarlo", cercò di confortarli il medico. La prossima volta? Era uno scherzo di cattivo gusto?
" È quella zona tutta nera?", chiese Beckett con una voce che Castle non riconobbe.
"No", rispose il medico pazientemente. "La parte nera è proprio dove non è il bambino".
"Oh", commentò Kate, delusa. Le strinse la mano in segno di comprensione. Nemmeno lui era ferrato in materia.

"In ogni caso direi che va tutto bene e mi sembra in linea con le settimane di gestazione. Adesso vediamo se riusciamo a sentire il cuore", proseguì, gettando l'intera stanza nel panico, anche se non parve accorgersene.
"Si sente... già?", gli domandò Beckett in apprensione.
"Potrebbe, ma se anche non succede non significa niente di brutto", la tranquillizzò. Castle chiuse gli occhi. Era maledettamente difficile. Non era sicuro che avrebbe retto fino alla fine. Perché gli stava facendo questo? Perché aveva specificatamente voluto sottoporlo a una prova del genere?
Di colpo, senza preavviso, nella stanza risuonò un battito molto forte e accelerato, che, a ogni colpo, sembrava rivendicare la propria autonoma, formidabile esistenza.
Kate sbarrò gli occhi e strinse convulsamente la mano di Castle. Le si riempirono gli occhi di lacrime che non tentò di trattenere. A Castle parve che fosse il suo, di cuore, a scomparire per sempre. Non avrebbe mai dimenticato quel suono. Come avrebbero fatto ad andare avanti, dopo?
Fece dei respiri profondi per mascherare la sua emozione, evitando accuratamente di incontrare il suo sguardo o si sarebbe messo in ginocchio a implorarla di fare cose che lei non voleva e che lui non poteva chiederle.
L'ecografia si concluse. Fortunatamente.

Vennero fatte accomodare sulle poltroncine davanti alla scrivania nella stanza più ampia. Il medico sorrise, convinto di trovarsi davanti due futuri genitori orgogliosi.
"Qui ci sono le analisi che dovrà fare al più presto, la prescrizione per le vitamine e l'acido folico che avrebbe già dovuto assumere e che quindi deve iniziare subito. Cerchi di riposare, attività fisica moderata, vita normale, insomma. Ci vediamo tra un mese. Per ogni problema o dubbio, non esiti a chiamarmi. Avete qualche domanda?"
Sì, lui avrebbe avuto delle domande. Molte. Che cosa significava tra un mese? Loro non avevano un mese. Non avevano nemmeno un'altra settimana. Stava per dire qualcosa, ma Kate lo trattenne, posandogli una mano sulla gamba.
Castle non riusciva a capire che cosa stesse succedendo. Perché nessuno aveva parlato di aborto? Perché avevano finto che il bambino sarebbe nato? Era uno scherzo? Se sì, non era divertente. Era mostruoso.

In un attimo furono di nuovo in strada. Era disorientato e un po' arrabbiato. Ma, più di tutto, era indicibilmente triste.

Beckett

Non aveva nessuna voglia di tornare già a casa, sentendosi ancora molto turbata dopo quella prima visita. In silenzio gli indicò l'entrata dei giardini vicino al suo appartamento, in attesa di un suo cenno di conferma. Castle era ancora insolitamente taciturno, camminava vicino a lei con le mani in tasca e lo sguardo fisso a terra, ma le pareva piuttosto cupo e assente.

Si avvicinarono alle altalene di comune accordo, senza averlo deciso. In mezzo a quel silenzio raggelante, lei iniziò a dondolarsi, proprio come quando era piccola. Mosse le gambe avanti e indietro ritmicamente, si diede un'ultima spinta vigorosa, prese velocità e di colpo fu in aria, volteggiando sempre più in alto, sentendosi libera per la prima volta da molto tempo. Felice. E più lasciava spazio a quelle emozioni rinvigorenti e più si sentiva piena di forza e aumentava la spinta delle gambe per volare sempre più su.

Qualcosa dovette riscuoterlo dal torpore, inducendolo a smettere di fissare un punto vago all'orizzonte per concentrarsi su di lei.
"Fermati!", le gridò quando gli sfrecciò vicino. "Beckett, basta, fermati, è pericoloso". Lei rise, convinta che stesse scherzando, ma quando lo vide farsi paonazzo si rese conto che era preoccupato sul serio. Allungò le gambe e frenò, strisciando con i piedi a terra.
"Sei impazzita?", le domandò agitato.
"Qual è il problema?". Perché se la prendeva tanto?
"Potresti cadere e farti male", le spiegò, sforzandosi di stare calmo.
Lei si mise a ridacchiare. Apprezzava la premura, ma stava esagerando.
"Chi vuoi che cada dalle altalene? Sono sicure".
"Sono sicure per dei bambini. Non per degli adulti che pesano il triplo".
Gli lanciò un'occhiata divertita.
"È perché sei caduto da piccolo e non hai ancora superato il trauma?"
"Molto divertente. Ridi pure, intanto io ti ho salvato la vita", le rispose con tono sostenuto.
"Quando ero piccola io e miei cugini trascorrevamo molte ore sulle altalene, in estate. Giravamo su noi stessi seduti sul seggiolino incrociando più volte le catene a cui erano appese, per poi lasciarci andare di colpo. Oppure dondolavamo a pancia in sotto e intanto ci confidavamo i nostri segreti. Non ti dico la nausea. Ah, e facevamo a gara a chi si spingeva più in alto per poi saltare a terra al volo, con buona pace delle nostre gambe". Era la prima volta che si apriva così tanto con lui, con qualcuno in generale, anche se probabilmente tutto quello che stava ottenendo era di terrorizzarlo con le sue passate avventure.

Non ricevendo nessuna reazione e ligia alla promessa che gli aveva fatto di starsene ferma, si mise a guardare oziosamente le persone che popolavano il parchetto a quell'ora della sera.
Proprietari di cani che lanciavano palline, ragazze che ridevano tra loro, giovani uomini in giacca e cravatta che tornavano dal lavoro, gente che correva, che parlava al telefono, che faceva programmi. Anche Castle era assorto a osservare con attenzione qualcosa e lei, seguendo il suo sguardo, vide che stava contemplando un bambino che giocava da solo nel recinto sabbioso.
Inspirò profondamente. Era arrivato il momento.

"Il dottore sostiene che il bambino nascerà in primavera", gli comunicò con la voce un po' tremante. Lui non sembrò accorgersi del suo turbamento. Né di tutto quello che implicava.
Si girò verso di lei con aria assente. "È una bella stagione. Anche io compio gli anni in primavera", convenne. E tornò a voltarsi. Lei si era aspettata fuochi d'artificio e altre manifestazioni di isteria collettiva, ma Castle era impenetrabile ai suoi tentativi di metterlo al corrente delle novità.
"No, intendeva proprio il giorno di inizio della primavera, l'equinozio", insistette.
"Sai che non è fisso, vero? Cambia ogni anno".
Lei lo guardò esterrefatta. Era ubriaco o solo, semplicemente, molto ottuso? Strano, di solito era più perspicace.
"Castle!", sbottò spazientita. "Concentrati!"
Ebbe finalmente la sua attenzione, ma niente si smosse tra i suoi neuroni temporaneamente dormienti.
"Quale parte di 'Il bambino nasce il 21 marzo' non ti è chiara?".
Finalmente la nebbia parve diradarsi. Lui spalancò gli occhi, muovendosi al rallentatore. Abbandonò l'altalena e si alzò in piedi. Aprì e chiuse la bocca, senza riuscire a emettere un suono. Più tardi gli avrebbe descritto la scena e avrebbero riso insieme.
"Ma... come è possibile? Di quale bambino stiamo parlando? Non sei andata dal medico per fissare la data dell'aborto? Che ne hai fatto della vera Beckett?", farfugliò in modo incoerente.
"Una domanda per volta", lo prese in giro, senza riuscire a contenere il sorriso che aveva represso dall'uscita dello studio, per fargli una sorpresa.

Vedendolo avvicinarsi con fare sospetto, lo fermò con una mano, allarmata.
"Castle se hai intenzione di sollevarmi e farmi ruotare come fai sempre quando sei in preda all'entusiasmo, ti avverto che io e tuo figlio ti vomiteremo in testa".
Non era una minaccia infondata, Castle dovette rendersi conto del rischio reale, perché si limitò a prenderla tra le braccia e stringerla forte, quasi soffocandola. Gli ormoni molesti che avevano preso possesso del suo corpo in maniera permanente cominciavano già a insinuarsi nel suo equilibrio mentale, spingendola a piangere senza ritegno. Doveva fermarsi. Ma le era impossibile. Era raggiante, euforica e vederlo tanto entusiasta era più di quello che fosse in grado di sopportare mantenendo un contegno adeguato. Gli singhiozzò sulla spalla, ma con discrezione.
"Quando hai cambiato idea?", le chiese dolcemente, senza smettere di tenerla contro di sé. Non ce la faceva. Castle era così felice che lei avrebbe solo voluto scivolare in un angolo e piangere tutte le sue lacrime. Più lo guardava e più si commuoveva. Lei per prima si stava chiedendo dove fosse finita la vecchia Beckett.
Abbassò gli occhi, improvvisamente timida. Gli doveva una risposta.
"È che... ", inghiottì le lacrime. "Batteva il cuore. Quando l'ho sentito ho capito...", gli confessò con un po' di imbarazzo.
La baciò sulle labbra. "Nemmeno io dimenticherò mai quel suono", ammise lui. Le fece tenerezza. Chissà che cosa doveva aver provato in quei momenti, convinto che presto lei avrebbe messo in atto una decisione definitiva.

"Andrà tutto bene", aggiunse tenendola stretta. Glielo aveva sempre detto, ma questa volta lei gli credette.
"Che cosa dirà la gente? Alexis, tua madre, mio padre?", gemette. Sarebbe presto diventato tutto reale.
"E il ragazzo che ci consegna le pizze? Non pensi a come gli spezzeremo il cuore? Ha sempre avuto un debole per te. E il sindaco? È anche un po' merito suo. Non credi sia il caso di fare una conferenza stampa? A Obama non vogliamo dire niente?". Era tornato il vecchio Castle in una versione potenziata di milioni di volte, sarebbe stato difficile tenerlo a freno.
"È una cosa seria! Non possiamo presentarci dal nulla e informarli che avremo un bambino". Lo aveva detto ad alta voce. Avrebbero avuto un bambino.
"Certo che è una cosa seria! Avrei citato Obama, altrimenti? Kate...", proseguì cambiando atteggiamento prima che lo colpisse con la borsetta. "C'è tutto il tempo che vogliamo".
"Quindi... possiamo aspettare a dirlo agli altri? Possiamo tenerlo per noi ancora per un po'? È che... è ancora presto. Non sono ancora passate le prime settimane, quelle più pericolose". Come erano cambiate le sue priorità. Fino a poco prima aveva temuto lo scorrere del tempo che le avrebbe precluso alcune scelte e adesso non vedeva l'ora di superare il primo trimestre.
"Per me va bene. Sarà bello condividere il segreto tra noi. E per noi intendo io, te e Lanie. In ogni caso mia madre e Alexis sono in Europa. Non si può certo informare qualcuno che avrà un fratello o una sorella per telefono", convenne Castle.
"Un fratello", dichiarò decisa.
"O una sorella", ripeté lui.
"No, è un maschio".
"Come fai a saperlo?", chiese sorridendo, convinto che si stesse prendendo gioco di lui. Non era così. Ne era certa, anche se non avrebbe saputo spiegarne il motivo.
"Lo so e basta. Sono cose che si sentono, non lo dici sempre anche tu?", lo sfidò.
"Quindi adesso tu e il bambino vi siete messi a comunicare? Ti dà anche i numeri della lotteria? Potrebbe essere utile, tienimi aggiornato".
"Castle, perché devi essere tanto superficiale?". Fece per andarsene.
"Hai ragione, scusa. Scusami. È che è strano sentirti dire certe cose. Di che altro avete..." fece gesto vago con la mano. "Parlato?".
"Mi ha chiesto se non ci fosse in giro un candidato migliore come padre. Gli ho risposto di perdonarmi per la scelta, ma non avevo saputo resistere al tuo fascino virile", tentò di fuggire lontano sganciando l'ultima parola, ma lui fu più svelto, la raggiunse e la afferrò sollevandola in aria. "Mettimi giù! Castle! Stai dando spettacolo! E ti ho già detto che il mio stomaco non approva certi movimenti", gli intimò, lasciandosi sfuggire un grido.
Riuscirono a calmarsi solo molto tempo dopo. Probabilmente avevano dato spettacolo. Qualcuno in effetti li aveva guardati con curiosità, ma a loro non era importato.

"Ci sono delle condizioni, però. Insindacabili", gli annunciò compita, quando tornarono a poter comunicare in modo civile, come due adulti.
"Tutte le condizioni che vuoi", accettò precipitosamente in preda all'ansia. Quanto male gli aveva fatto? Sarebbe stato recuperabile? Lo aveva ferito in modo indelebile?
"Punto primo", snocciolò alzando un dito. "Non lo chiameremo fagiolinolenticchia o qualsiasi altro prodotto della terra".
"Ok", annuì. "Niente ortaggi, sono d'accordo. Vai avanti".
"E io non mi trasformerò in un elefante", proseguì decisa.
"Certo che no", convenne lui, bisognoso di compiacerla.
"Ma se lo diventassi...", continuò, come se non l'avesse sentito. "Tu mi aiuterai ad alzarmi dal divano ogni volta che ne avrò bisogno e non mi lascerai mai, in nessun momento e circostanza, a dibattermi come una tartaruga rovesciata sulla schiena".
Lui si mise una mano sul cuore. "Mai. Te lo prometto. Anche se tecnicamente le tartarughe non hanno il guscio davanti", iniziò a spiegare.
"Castle!".
"Ok, niente balena spiaggiata". Che bella immagine. Preferiva l'elefante. E poi come si permetteva? Un po' di rispetto per una futura madre. Madre. Lo stomaco sfarfallò.
"Poi...", continuò, tornando a concentrarsi.
"Beckett, dovevi avvertirmi che l'elenco era così lungo, avrei preso appunti. Si sta facendo buio".
Gli intimò di fare silenzio con una delle sue occhiate.
"Ho quasi finito. Non farò il corso pre-parto, non mi toccherai continuamente la pancia e, soprattutto, non ci sposeremo".
"Perché non possiamo sposarci?", si stupì lui.
"Castle, tu sposi tutti!", gli fece notare con poca diplomazia.
"Sfortunatamente, non hai tutti i torti. Va bene, vivremo nel peccato, se così desideri", accettò. "C'è altro?"
Lei fece un sospiro, improvvisamente stanca per tutte le emozioni di quel pomeriggio, delle ultime settimane. Era esausta. Appoggiò la testa sul suo petto.
"Andrà tutto bene, vero?" chiese con una vocina minuscola che non si era mai permessa di far udire a nessuno.
"Sarà tutto grandioso. Noi saremo grandiosi. E lo sarà anche il nostro futuro erede maschio", la rassicurò, passandole una mano tra i capelli.
"Diventerò enorme", si lagnò, abbandonata contro di lui.
"Diventerai bellissima", le sussurrò emozionato, stringendola.

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Capitolo 8
*** Otto ***


8

Il primo capitolo hot che io abbia mai scritto. Ricordo ancora perfettamente tutta la fatica della stesura. Inizialmente era rimasto addirittura privato, mi ci era voluto un po' per esporlo al pubblico.

Castle era seduto al tavolo della cucina, con il giornale in mano, nell'appartamento di Beckett.
Gli sembrava ormai di trascorrere lì buona parte della sua vita, ma non potevano fare altrimenti, finché non avessero svelato a tutti la notizia della gravidanza. O della loro relazione. Cominciavano a essere un po' troppe le cose da tenere nascoste. E a quale scopo, ormai?
C'era qualcosa di profondamente sbagliato nell'aspettare. Poteva capire che lei non avesse voluto esporsi durante le prime, rischiose, settimane. Era stato d'accordo, era giusto essere cauti.

Adesso però il periodo critico era stato superato. Lei aveva smesso del tutto di avere le nausee e di essere sempre stanca, recuperando energia e vigore. E gli sembrava felice.
Insieme stavano bene, superate le ombre iniziali. Anzi, non erano mai stati meglio.
Quale era il senso di quel continuo rimandare?
Le forme di lei avevano cominciato ad ammorbidirsi, ma lo notava solo grazie al suo occhio esperto. Nessun altro se ne era accorto.
La pancia si era leggermente arrotondata ma, senza vestiti, sembrava soltanto che avesse smesso di allenarsi duramente tutti i giorni.

Era settembre inoltrato. Le varie ondate di calore, che si erano susseguite in un'estate torrida difficile da tollerare, erano finalmente cessate. Di giorno le temperature continuavano a essere sopra la media, ma al mattino e di sera l'aria si era fatta frizzante. I colori stavano gradatamente virando verso i rossi e gialli autunnali e la luce soffusa aveva sostituito quella accecante di qualche settimana prima.
L'atmosfera più intima e, per certi versi malinconica del mondo esterno che si stava avviando verso il letargo, provocava in lui l'unico desiderio di infilarsi a letto con lei e trascorrere lunghe, oziose giornate senza fare altro che dormire, svegliarsi, allungare una mano per accarezzare pigramente la sua pelle lievemente abbronzata, cercare le sue labbra per lunghi baci lenti a occhi chiusi, tornare a sonnecchiare con un braccio abbandonato ovunque sul suo corpo, sentire le sue gambe perfette farsi spazio tra le proprie, senza riuscire a capire dove finissero i loro confini.

Era senza dubbio la sua precisa idea di paradiso, un genere di piacere che era cresciuto gradualmente nel tempo. All'inizio c'era stata solo la passione bruciante, che sembrava non consumarsi mai e che li spingeva a strapparsi i vestiti di dosso non appena varcata la soglia di casa - le volte che si ricordavano di farlo - e che era un groviglio frenetico e confuso di baci, carezze, mani ovunque, nell'urgenza di sentire i loro corpi aderire l'uno all'altro per fondersi, rivivere la simbiosi.
Finivano aggrovigliati sul pavimento, ansimanti, sudati, non del tutto coscienti. Rimanevano incollati a lungo, lui volendo ritrarsi per non schiacciarla e lei tenendolo stretto per non farlo uscire da sé.

Ricominciavano a baciarsi, incapaci di smettere di toccarsi, smaniosi di tornare a sentirsi vicini. Quando lei riprendeva a muoversi sotto di lui in modo ritmico e istintivo, lui perdeva di nuovo il controllo, sopraffatto dalla voglia insaziabile che aveva di lei, perso in un mondo che non sapeva esistesse, in preda a sensazioni inebrianti da cui era ormai dipendente e stupefatto di sentire il corpo di lei aprirsi al suo. Desiderarlo con un impeto che gli faceva girare la testa e lo spingeva a darle tutto quello che gli chiedeva. Amava sentirla gemere, amava sapere di farle quell'effetto. Alla fine la teneva stretta, ascoltandola sussultare, aggrappandosi a lui con forza, completamente abbandonata. E sua.
Potevano andare avanti per intere giornate, ed era quello che facevano quando lei non era al lavoro. Per conto suo, non ricordava più nemmeno che cosa significasse scrivere, compiere azioni normalissime, vivere nella civiltà. Il mondo si riduceva al suo appartamento, a loro due nudi abbracciati, distesi accanto all'altro.

Con il tempo aveva imparato a conoscere meglio il suo corpo. L'aveva esplorato centimetro dopo centimetro e ormai riconosceva a occhi chiusi i punti più sensibili. E gli piaceva indulgere, con calma e maestria, e tutto il tempo del mondo a disposizione – quando ce l'avevano -, per vedere il suo piacere aumentare piano, senza darle retta quando riusciva solo a dire 'Castle, più veloce', rallentare quando iniziava a fremere, sentire i suoi gemiti che diventavano sempre più incontrollati, fino a farla gridare, e ricadere, sfinita. Poi la abbracciava, mentre lei rabbrividiva e gli diceva che le girava la testa e vedeva luci che non esistevano e lui rideva piano, deliziato. Era come se fosse creta liquida tra le sue mani.

Gli piaceva svegliarla baciandola. Stuzzicarla. Accarezzarla quando era ancora insonnolita. Gli piaceva quando passava dal sonno al piacere, mugolando. Lei non si lamentava mai per il sonno interrotto, si abbandonava tra le sue braccia, sporgeva le labbra per rispondere ai suoi baci, gli passava una mano tra i capelli, apriva le gambe arcuando i fianchi contro di lui.
La maggior parte delle volte non riusciva ad attendere, si spingeva dentro di lei accarezzandole le natiche, cercando di muoversi lentamente finché non cedeva al ritmo frenetico che lei gli imponeva stringendolo contro di sé, graffiandogli la schiena.
Se questo era il modo più veloce per diventare pazzo, lui non aveva niente contro la pazzia. Dove doveva firmare?

Questo purtroppo succedeva solo in quelle mattine fortunate in cui non c'erano chiamate all'alba. Lei, abituata da anni di servizio, reagiva al primo squillo del telefono, apriva gli occhi ed era immediatamente operativa. Non sapeva come riuscisse a passare tanto in fretta dal sonno profondo alla lucidità completa. Lui, di solito, voleva morire. Spalancava gli occhi con il cuore che batteva all'impazzata, una reazione istintiva e retaggio di una parte del cervello umano ancora convinta di vivere con i leoni, con la mente posizionata su "Allarme", ma con il corpo che si rifiutava di collaborare. Non riusciva a connettere fin dopo le prime due o tre tazze di caffè, mentre lei stava già salvando il mondo, e di solito con successo e in pantaloni aderenti.

Una delle prime volte in cui si erano svegliati nello stesso letto in un giorno lavorativo, l'aveva fatto alzare senza troppa grazia, snocciolando indirizzi, indicazioni e ordini con tono secco e professionale, mentre lui si era sentito investito da una colonna di tir inferociti.
Adesso, mostrando maggiore comprensione per le sue debolezze, teneva la suoneria del telefono al minimo, cercava di rispondere in modo da non svegliarlo troppo brutalmente, e, quando la scarna comunicazione era terminata, andava ad aprire l'acqua della doccia. Tornava da lui, gli accarezzava il viso delicatamente e, quando si accorgeva che aveva finalmente aperto gli occhi e dava segni di vita, lo abbandonava e tornava verso il bagno, togliendosi con fare indifferente un pezzo di pigiama per volta. Se ce l'aveva. Questo di solito funzionava molto bene. Dopo due minuti, Castle era nella doccia con lei e la stava baciando, umida e scivolosa contro il muro. Erano sempre ottimi inizi di giornata.

Quello che gli era diventato sempre più difficile, era passare tutto il giorno con lei a risolvere i casi. Un tempo era tutto quello che desiderava. Adesso era tormentato dalle immagini di loro due in contesti molto più privati e faticava quindi a concentrarsi su quello di cui lei lo metteva al corrente o a trovare soluzioni creative per le quali era famoso. Aveva sperato che, con il passare delle settimane, sarebbe diminuita questa insopportabile brama che aveva di lei, almeno per qualche ora al giorno. Almeno nei momenti più seri, in pubblico. Almeno per non farsi guardare con un misto di incredulità e divertimento, quando lei si rendeva conto che lui stava valutando se fosse possibile scomparire da qualche parte per cinque minuti, invece che pensare al caso. Oltrepassandolo, gli ricordava che "Questa è una scena del delitto, Castle, mostra un po' di rispetto" e, ridendo di lui, se ne andava.

Lei, nemmeno a dirlo, era sempre professionale e impeccabile. Severa, precisa, inflessibile, non gli permetteva nessun contatto fisico. Non voleva certo sedurla sulla scrivania – non poteva negare di averci pensato -, ma non poteva umanamente chiedergli di stare ore senza sfiorarla, neanche per sbaglio. E invece era costretto a farlo perché lei non cedeva di un millimetro e a nulla erano valse le sue obiezioni di fronte a tanto rigore. Neanche per un pony.
Tranne una volta. Una volta che lui ricordava ancora trionfante e che non mancava di tirar fuori ogni tanto, solo per stuzzicarla. Era l'unica arma che aveva contro di lei.
Erano rimasti al distretto fino a tardi, così immersi nei documenti da non rendersi conto che gli altri se ne erano andati, lasciandoli soli.

A un certo punto uno dei due aveva alzato la testa e si era accorto che era accesa solo la luce sopra la loro scrivania. Avevano potuto rilassarsi, smettere di far finta di evitarsi e si erano stiracchiati per diminuire la tensione dei muscoli irrigiditi. Avevano iniziato a parlare in tono più disteso del più e del meno, della giornata, di quello che non tornava del caso e di come ogni indizio che saltava fuori contribuisse sempre meno a dare un senso agli eventi, rendendo la soluzione sempre più lontana e lei sempre più frustrata.
Lui aveva proposto di rivedere tutti i dettagli da capo, ripercorrere ogni ragionamento che avevano fatto mille altre volte, nonostante fossero esausti. Si erano voltati verso la lavagna e lei aveva riassunto i fatti dall'inizio: ora del decesso, cause della morte, arma del delitto.

Lui le aveva afferrato una mano, mentre l'ascoltava parlare e guardandola con aria innocente, quando lei gli aveva lanciato un'occhiata di rimprovero. Erano da soli, no? Era solo una mano. Poi aveva spostato la sedia per avvicinarla quella di lei, con la scusa di voler vedere meglio la lavagna e facendo sì che le loro gambe si toccassero casualmente. Lei aveva ignorato il gesto. Poi si era allungato per toglierle un capello dal colletto della camicia. Lei, ruotando sulla sedia per girarsi verso di lui e sottolineare quello che gli stava dicendo, gli aveva sfiorato il polpaccio con il collo del piede della gamba accavallata. Lui aveva disteso le gambe fasciate nei jeans, e le aveva accarezzato l'interno del ginocchio per una frazione di secondo. Lei aveva quindi appoggiato una mano sulla sua coscia, molto in alto, con studiata indifferenza e gli aveva mormorato "Scusa, Castle, ripetimi l'ultimo concetto", senza staccare gli occhi dalle sue labbra. Lui aveva diligentemente fatto come gli aveva chiesto, mentre sentiva le sue dita spostarsi vicino all'inguine. Aveva appoggiato la mano sulla sua, bloccando la risalita. Lei aveva abbassato gli occhi mordicchiandosi un labbro, ma aveva ripreso a parlare del caso, entrambi acutamente consapevoli della vicinanza dei loro corpi e del loro crescente desiderio, ed elettrizzati dal gioco che avevano iniziato.
Alla fine era stata lei a non reggere oltre, l'aveva preso per mano e trascinato in uno stanzino di cui lui ignorava l'esistenza. Il famoso stanzino, sempre oggetto dei suoi sogni, che era convinto non si sarebbero mai realizzati. Doveva avere più fiducia nell'universo. Era stata una cosa così rapida ed eccitante che aveva faticato a smettere di tremare, una volta rivestiti.
Da allora lui le ricordava quel singolare cedimento, quando tendeva a mostrarsi troppo irreprensibile. Lei si tormentava per essersi comportata in modo così poco professionale.

...

Assorto nei suoi pensieri, non l'aveva sentita muoversi e raggiungerlo in cucina.
"Perché ti sei alzato?", gli chiese con la voce roca che riservava solo a lui, sfiorandoli il collo con un bacio, mettendosi a cavalcioni su di lui, con un gesto aggraziato delle sue lunghissime gambe, che non smettevano di essere fonte di fascino per lui. Castle preferì saggiamente lasciare la verità: "Perché non vuoi che la gente sappia che stiamo insieme, e che sei anche incinta e tutto questo non è normale", a un altro, più proficuo, momento. Non era certo il caso di fare i pignoli.
Alzò le braccia dietro di sé per non intralciarla mentre si arrampicava su di lui, lasciando cadere a terra il giornale, quando si rese conto delle sue intenzioni meno che pacifiche.
Stava per iniziare un'altra bella giornata di sole.
Le mise le mani sotto le ginocchia e la trascinò in avanti, in modo che fosse esattamente sopra di lui. Lei spalancò gli occhi.
"Qualcuno si è svegliato di buonumore", gli mormorò all'orecchio, premendosi contro di lui e aggrappandoglisi per stare in equilibrio.
Fece scorrere i palmi delle mani sulle gambe di lei con una pressione lenta e decisa, non smettendo per un attimo di fissarla negli occhi, indovinando il cambiamento di emozioni dietro alla palpebre socchiuse, finché toccò il tessuto leggerlo dei pantaloncini corti e lì si fermò. Lei allargò leggermente le gambe e lui lo prese come un invito.
Le infilò le dita sotto all'elastico e proseguì fino a sentire il bordo delle sue mutandine, su cui fece scorrere il pollice.
"Castle", protestò lei, impaziente.
"Non fare la solita prepotente", finse di avvertirla, ma intimamente orgoglioso del fatto che bastasse il suo tocco per accenderla.
"E tu non fare il solito sadico", lo rimbeccò facendolo scoppiare a ridere, mentre le appoggiava le mani aperte sulle natiche perfettamente rotonde, come aveva desiderato fare dal primo giorno in cui l'aveva incontrata.
Risalì con i palmi lungo la colonna vertebrale, sotto il top leggera e si stupì quando non trovò nessun ostacolo.
"Ti ho mai detto quanto mi piace il tuo abbigliamento da notte?", le chiese accarezzandole la pelle morbida della schiena.
"Sì, anche a me piace il tuo", gli rispose sbrigativa, sfilandogli in un unico gesto la maglietta, che finì sul pavimento senza troppe cerimonie, e facendo scorrere le dita sul suo petto, cosa che lo fece rabbrividire.
Le accarezzò i fianchi, che avevano cominciato a riempirsi, passò sulla pancia e le mise le mani a coppa sui seni, strappandole un gemito.
Non poté fare a meno di pensare, fuggevolmente, che erano diventati più pesanti, tra le sue mani. Non si era certo lamentato prima, ma il cambiamento inaspettato non era affatto sgradito.
Lei incrociò le gambe dietro ai suoi reni, e inarcò la testa, quando sentì la sua lingua passare leggera sul suo collo, mentre con una mano lui le faceva scivolare verso il basso il tessuto di seta, esponendo sempre più centimetri di pelle.
Fermò con un gesto il suo tentativo di velocizzare l'operazione, imponendole di arrendersi,
Finì di spogliarla e lanciò il top sul pavimento insieme al resto. Nuda davanti a lui, si prese un momento per ammirarla. Era così bella che gli faceva male guardarla.
Fece scorrere una mano lenta e carezzevole risalendo un braccio, fino alla spalla, affondò nel collo e le passò il pollice sulla guancia e poi avanti e indietro sulle labbra, fino a fargliele dischiudere. Le fece piegare la testa, e la trasse a sé per baciarla. Lei si aggrappò a lui, lasciandosi baciare a lungo, mentre lui la accarezzava con gesti ampi, imprigionando di nuovo i suoi seni e sfiorandole i capezzoli solo per brevi attimi, iniziando a sentirla fremere di impazienza.

Si alzò in piedi tenendola tra le braccia, e come sempre si stupì di quanto fosse leggera, anche adesso, e quanto fosse facile per lui sollevarla, e la riportò a letto.
"Non avremmo mai dovuto alzarci", gli mormorò sorridendo allusiva, mentre lui la guardava con uno sguardo pieno di desiderio, scostandole i capelli dalla fronte.
Si stese sopra di lei, e ricominciò a baciarla rispondendo all'invito delle sue labbra aperte, una delle cose a cui non riusciva a resistere. Affondò la lingua nella sua bocca, lasciando che una mano si facesse strada tra i loro corpi, trovandola già bagnata e pronta per lui.
Gli bastò sfiorarla per farle inarcare i fianchi contro di lui, e capì che non sarebbe stata in grado di trattenersi ancora a lungo e questa era una cosa a cui non si era ancora abituato.
Tutti quei mesi passati a desiderarla, e ancora non ci credeva. Forse non aveva ancora accettato l'idea che lei fosse così attratta da lui tanto quanto lui lo era di lei. Gli sembrava che fosse stata così a lungo irraggiungibile , che vederla abbandonata a occhi chiusi tra le sue braccia, con il solo desiderio di farsi toccare, baciare, accarezzare, farsi possedere da lui all'infinito, era più di quello che gli riusciva possibile credere. O sperare.
Si era immaginato che, a parte i momenti realmente intimi, sarebbe stata poco desiderosa di contatto fisico, piuttosto distaccata, decisamente in guardia e con un senso dei propri confini molto preciso.
Invece si ritrovava con una Beckett che si apriva a lui senza limiti e che gli concedeva di raggiungerla in certi spazi privati di cui non aveva nemmeno mai immaginato l'esistenza.
Scivolò dentro di lei con un gesto deciso e smise di pensare a qualsiasi cosa che non fosse il centro pulsante del loro piacere. Si mosse con spinte vigorose, strappandole gemiti. La sentì raggiungere l'orgasmo con un grido. Alla fine venne anche lui, abbandonandosi su di lei. Si sdraiò dietro di lei, lasciandole una mano tra le gambe.

Tornarono alla realtà solo molto tempo dopo.

Il telefono aveva iniziato a squillare.

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Capitolo 9
*** Nove ***


9 Castle

Il telefono aveva iniziato a squillare, strappandoli brutalmente a tutto quello che era il loro mondo.
"Non rispondere", la pregò, trattenendola per impedirle di alzarsi.
"Castle, devo farlo".
Lui aveva il viso affondato nel suo collo, mentre lei gli accarezzava distrattamente i capelli. Qualcuno poteva biasimarlo se non voleva che la realtà venisse a fare da terzo incomodo?
"È il tuo giorno libero. Non sei nemmeno reperibile. È il nostro giorno", protestò, sapendo già che sarebbe stato inutile.
"Non è il distretto", lo aggiornò dopo aver controllato. "È un numero sconosciuto".
Rispose. Ascoltò in silenzio. Castle la vide irrigidirsi senza capire chi fosse il suo interlocutore o di che cosa stessero parlando. Si concentrò sulle sue reazioni. Beckett poteva non parlare molto, ma non era così brava a nascondere le sue emozioni. Non a lui, almeno.

Beckett continuò a interagire a monosillabi per tutta la durata della chiamata, aumentando morbosamente la sua curiosità. Riattaccò.
Senza dire niente, lo lasciò per andare a sedersi sul divano, dove lui la raggiunse subito. Stava fissando un punto invisibile giocherellando con il telefono. Quando si perdeva nei suoi pensieri significava che c'erano ombre all'orizzonte. Si allarmò.
"Chi era al telefono?", le chiese, teso.
"Era John Raglan", iniziò a spiegargli e, vedendo la sua faccia inespressiva, continuò: "È' il poliziotto che si è occupato, o meglio che non si è occupato, del caso di mia madre. Vuole parlarmi. Sostiene che ci siano delle cose sul suo omicidio che dovrei sapere".
"E perché si fa vivo proprio adesso?". Gli sembrava una cosa priva di senso. E, d'istinto, non si fidava di quell'uomo.
Lei aveva lo sguardo assente di quando stava cercando di dare un senso a qualcosa che ne era sprovvisto.

"Non lo so, Castle", rispose dopo una breve pausa. "Forse ha un rigurgito di coscienza. Vuole che ci incontriamo tra un'ora, da soli. Mi ha mandato l'indirizzo di una caffetteria".
"Credi che sia sicuro andarci?" A lui pareva una pessima idea. Pericolosa. Avventata.
"Castle, sono un poliziotto, non ho paura", gli ricordò, un po' seccata.
"Lo so. E sei la migliore. Ma non ti sembra strano che ti chieda di incontrarti dopo anni, senza testimoni?" Tentò la strada della ragionevolezza. Non poteva impedirle di uscire di casa con la forza.
"Non so che cosa pensare. Ma non posso non presentarmi. Si tratta... di mia madre", aggiunse in tono accorato.
Lui le accarezzò piano un ginocchio, per esprimerle sostegno.
"Vuoi venire con me?". Alzò gli occhi su di lui. Pozze di dolore che avrebbe voluto cancellare, pur sapendo che non sarebbe stato possibile. "Non vuole che ci siano poliziotti, ma tu, tecnicamente, non lo sei".
Fu sollevato che avesse chiesto aiuto. E lo avesse chiesto a lui.
"Certo che ti accompagno. Non ti permetterei mai di andarci da sola", la rassicurò.
"Castle", gli sorrise. "Sono io che ho la pistola".
"E io ho il mio vasto arsenale di arguzie, se necessario".

...

Dire che non era filato tutto liscio sarebbe stato l'eufemismo del secolo.
Raglan non gli era piaciuto, fin dal primo momento, gli sembrava solo un viscido ex poliziotto che fingeva di volere una redenzione per i suoi peccati. Non se l'era bevuta neppure per un momento.
Lo sparo improvviso del cecchino, attraverso la vetrata, li aveva colti di sorpresa e aveva, di fatto, dato inizio al dramma. Non si trattava più quattro chiacchiere senza impegno. Si era trasformato in un omicidio.

Kate aveva reagito d'istinto. Si era buttata a terra, aveva estratto la pistola e aveva iniziato a gridare ordini agli altri avventori del bar, testimoni casuali della tragedia. Lui si era occupato di Raglan, per il quale, purtroppo, non c'era stato niente da fare. Era morto portando con sé i suoi segreti.
Girandosi verso di lei Castle si era accorto di una macchia di sangue che si stava allargando sul suo maglione bianco ed era stato preso dal panico.
"Kate, Kate! Stai bene?". Aveva alzato la voce per farsi sentire sopra al frastuono.
"Sì, sto bene" gli aveva risposto distratta, senza dargli troppa corda.
"Kate!", aveva urlato di nuovo per avere la sua attenzione. "C'è del sangue! Sei ferita? Ti ha colpito?"
Lei non aveva reagito - forse non l'aveva nemmeno sentito. Lui aveva perso tutta la sua lucidità. L'aveva strattonata.
Lei si era scostata con altrettanta violenza. "Castle, che cosa ti salta in mente?! Non è il mio sangue!" Era sorpresa e molto irritata. "Devi stare calmo, non mi sei di nessun aiuto se ti comporti in questo modo", l'aveva redarguito, lanciandogli un'occhiata innervosita.

Lui si era lasciato scivolare sul pavimento della caffetteria, incapace di frenare il tremito delle gambe. Aveva perso il controllo quando aveva temuto che fosse stata colpita. Aveva sbagliato. Non era così che si comportava un partner. Doveva guardarle le spalle, collaborare, aiutare, non essere d'intralcio. L'avrebbe messa in pericolo ed era l'ultima cosa che volesse fare.
Se ne stette in disparte, mentre Beckett parlava con Montgomery – quando arrivò sulla scena del crimine infuriato e molto teso. La ascoltò pregarlo di non toglierle quel caso, che poteva riguardare sua madre. Nessuno lo conosceva meglio di lei, su questo Montgomery si disse d'accordo, ma dubitava che Beckett fosse la persona giusta per indagare, per via del suo coinvolgimento, credette di capire Castle dall'angolo in cui si era esiliato. Alla fine decise di non sollevarla dall'incarico.
"Il caso è tuo, Beckett. Ma non voglio nessuna iniziativa personale. Ci siamo capiti?", l'aveva ammonita.
"Si, signore". Aveva percepito il sollievo nella sua voce. Lui non ne era altrettanto felice. Che cosa avrebbe significato tornare a sfiorare i contorni scivolosi della sua ossessione? Era pronta a farlo? Gli avrebbe permesso di starle accanto?

Una volta rimasti da soli erano tornati all'interno del locale.
"Stai bene?", gli aveva chiesto sollecita. "È sempre diverso, quando un omicidio ti capita davanti agli occhi". Aveva abbandonato il tono autoritario con cui aveva diretto le operazioni e con cui l'aveva rimproverato, poco prima.
"È diverso quando tu sei la madre di mio figlio e ti trovi coinvolta in una sparatoria". Andò dritto al punto.
"Castle, ti sembra il momento?"
"Potevi essere colpita. Non dovresti nemmeno essere qui".
"Nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo. Dovevamo solo vederci per parlare".
"Era una situazione ambigua fin dall'inizio e tu lo sapevi. Non hai pensato al pericolo che tu e il bambino avreste potuto correre?"
Erano accuse ingiuste, d'accordo. Lo sapeva, in qualche parte ragionevole della sua mente. Ma era ancora scosso dal sangue che aveva creduto appartenesse a lei. Per un istante era stato convinto che il bambino non ce l'avesse fatta.
"Ti ricordo che sono una poliziotta e che il mio è un lavoro pericoloso. Posso sempre finire in una situazione del genere, oggi non diversamente da altre migliaia di occasioni. Ma noi poliziotti non smettiamo di avere figli per questo".
La lenzioncina poteva risparmiarsela. Non era ottuso, solo molto in ansia per la situazione.

"No, ma è previsto che vi vengano affidate altre mansioni molto meno rischiose per la durata della gravidanza".
"Ne abbiamo già parlato", sospirò. Era vero, lo avevano fatto molte volte. Infelicemente.
"Non sono io a pretenderlo, Kate. Lo dice il regolamento". Glielo ribadì per l'ennesima volta, sapendo già in partenza che non sarebbe cambiato niente. Ma finora non aveva mai rischiato di essere colpita.
"Conosco il regolamento, grazie", ammise seccata.
"È questo il motivo per cui non vuoi dirle a nessuno della gravidanza? Perché non vuoi che ti obblighino a dedicarti ad altro?".
Kate iniziò a spazientirsi. Non gli importava. Si era comportata in modo irresponsabile e lui glielo aveva permesso. Forse era più arrabbiato con se stesso.
"Te lo chiedo di nuovo, Castle, ti sembra il momento di affrontare questo discorso? Con un caso da risolvere e tutto il resto?" Gli indicò il caos da cui erano circondati.
"E quando sarebbe il momento, Beckett? Abbiamo aspettato che terminasse il primo trimestre, per essere sicuri. Adesso siamo a tredici settimane. Che cosa aspetti? Che nasca? Vuoi correre dietro agli assassini con il pancione? Vuoi mettere in pericolo te stessa e la tua squadra?". Non gli piaceva farle notare quelle cose, più di quanto a lei non piacesse ascoltarle.
"Castle, sto bene. Sto meglio di quanto sia mai stata nelle ultime settimane. Perché dovrei fermarmi? Perché dovrei finire dietro a una scrivania? Non ci penso nemmeno!", replicò con veemenza.

A lui sprofondò il cuore nel petto.
"Quindi è così. Hai solo temporeggiato lasciandomi credere come uno stupido che esistesse un termine temporale. Ecco perché non lo vuoi dire a nessuno, perché non vuoi smettere di fare il tuo lavoro. Non hai mai voluto farlo".
"Non ho nessuna intenzione di finire in un ufficio rinunciando al mio lavoro – lavoro in cui sono maledettamente brava - solo perché una stupida legge mi obbliga a farlo", sbottò. Ecco la verità. Finalmente.
"Non è una stupida legge. Serve a tutelare te e il bambino. Sempre che te ne importi qualcosa".
"Come puoi dire una cosa del genere?", replicò ormai alla sua schiena, visto che lui era uscito, troppo infuriato per continuare a sostenere quella conversazione.

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Capitolo 10
*** Dieci ***


10

Questo capitolo è ispirato alla 3x13. Ai tempi, nel gruppo che leggeva inizialmente le mie ff, l'avevamo appena rivista (e anche io, stamattina), quindi i riferimenti non avevano bisogno di molte spiegazioni

Beckett

Ottimo, pensò. Tempismo perfetto. Adesso non ho più un solo problema, bensì due.

Lo raggiunse all'aperto. Continuava a darle le spalle. Odiava quell'atteggiamento passivo-aggressivo, quelle accuse lanciate solo per provocarla. Quella sua eccessiva premura che si trasformava in inutile apprensione. No, non era vero. Non la odiava, anzi. Era piacevole, quando non le metteva i bastoni tra le ruote.
"Devo tornare al distretto. Vuoi che ti accompagni a casa?", si offrì, mitigando i toni irati che si erano scambiati. Le sembrò giusto fare il primo passo. La tentazione era quella di mandarlo al diavolo, ma avevano convenuto di doversi sforzare di comunicare in maniera più proficua. Provarci, almeno. E lei ci stava provando, moltissimo.
"Non pensarci nemmeno. Vengo in centrale con te", le rispose lapidario.
Kate pensò che avrebbe preferito intrattenere un cobra, ma fece silenzio e aspettò che salisse in auto.

Saltò fuori che le cose stavano prendendo una piega più seria di quanto si fossero aspettati. L'omicidio di sua madre era molto più complesso di quello che aveva sempre ritenuto, con ramificazioni che potevano portarla molto più lontano di dove avrebbe mai immaginato di spingersi.
Ed era su questo che stava riflettendo, quando dovette affrontare Vulcan Simmons, più tardi, nella stanza degli interrogatori.
Castle era seduto accanto a lei, come in molte altre occasioni, con la differenza che questa volta percepiva chiaramente la tensione nel suo corpo. Le pareva pronto a scattare per difenderla, più che desideroso di aiutarla a condurre pacificamente l'interrogatorio. Si augurò che non creasse problemi.

Simmons era il genere di feccia con cui odiava avere a che fare. Stava cercando di metterla in difficoltà, di provocarla, e lei stava facendo ricorso a tutto il suo autocontrollo per non cedere alla rabbia. Era stata addestrata per questo. Si era trovata davanti a qualsiasi tipo di personaggio in quella stanza. Sapeva come trattarli. Sapeva quando fare pressione, quando fingere indulgenza, quando interpretare il poliziotto buono o quello cattivo. Sapeva usare il linguaggio del corpo per intimidirli e non abbassava mai lo sguardo.
Sperò che tutto questo le venisse in aiuto con Simmons, che sembrava trovarsi del tutto a suo agio e convinto di condurre i giochi. Si sbagliava di grosso.

Non era facile mantenersi fredda e distaccata, con la foto di sua madre morta a fissarla dalla cartelletta.
L'aveva scrutata così tante volte, in cerca del minimo indizio, da convincersi di essersi ormai assuefatta, ma non sarebbe stato umano non avvertire una stretta allo stomaco, ogni volta che le ricapitava tra le mani. Era sua madre. Ed era morta assassinata.
Doveva farlo per lei. Per se stessa e per lei. Non poteva lasciare a nessuno la responsabilità di quel caso. Nessuno si era dedicato, impegnato, ossessionato tanto quanto lei.

Cercò di stare calma. Cercò di non reagire alle sue provocazioni. Cercò di condurre l'interrogatorio entro binari che aveva programmato, invece di farsi sviare dalle sue risposte, senza farsi manipolare.
A un certo punto fu troppo anche per lei e i suoi buoni propositi. Senza averlo deciso, dando retta a una scarica di rabbia feroce che le montò dentro, si ritrovò a scagliarlo contro lo specchio della sala, con ancora le sue parole viscide nelle orecchie e le braccia di Castle che la tiravano via, a forza. Non ce l'aveva fatta.
Castle interveniva raramente in questo modo, ma quando lo faceva era perché le cose stavano degenerando, ne era consapevole. Da lucida. In quel momento, però, avrebbe voluto girarsi e sbattere anche lui contro lo specchio. Due al prezzo di uno.

La situazione peggiorò ulteriormente quando, uscendo dalla stanza, trovò Montgomery ad aspettarla. Non aveva la faccia di uno che portava buone notizie.
"Sei troppo coinvolta, Beckett", l'accusò severamente. "Mi costringi a toglierti il caso".
"Signore, non può farlo", protestò, incredula.
"L'ho appena fatto. Vai a casa, qui non servi a nessuno", le ordinò. Non le rimase altro che obbedire.
"Signore...", provò a farsi ascoltare un'ultima volta.
"Ha ragione, Beckett". Castle, a qualche passo da lei, intervenne con pessimo tempismo. Si voltò a guardarlo furibonda.
"E c'è una cosa che deve sapere". Si era rivolto a Montgomery con l'atteggiamento di chi sa qual è la cosa giusta da fare.
"Castle, non è il momento", lo interruppe, gelida. Voleva strozzarlo.
Erano tutti impazziti? Pensavano che avrebbe accettato ordini come se fosse stata una bambina?
Raccolse la giacca con un gesto stizzito e se ne andò, senza incrociare lo sguardo di nessuno e senza dar retta a Castle che chiamava il suo nome a voce sempre più alta. Che andasse al diavolo.

Se stava rintanata nel suo appartamento, inquieta e infelice. Le veniva un po' da piangere, non sapeva se dalla rabbia o per colpa degli ormoni. Odiava questa situazione. Odiava starsene con le mani in mano, mentre altri si occupavano del suo caso.
Bussarono alla porta. Non aveva voglia di vedere nessuno.
Aprì e si trovò davanti Castle. Le porse un pacchetto che teneva nascosto dietro la schiena. Lo prese in mano, incuriosita. "Torta al cioccolato?"
Le venne da sorridere. Funzionava sempre così. Lui era l'unico che riuscisse a far splendere il sole nelle giornate più buie. Dimenticò la rabbia e tutto quello che avrebbe voluto vomitargli addosso.
"Cos'è? Un tentativo di corruzione?", proseguì sarcastica, ma segretamente felice.
"Ho pensato che il bambino avesse bisogno di un po' di zuccheri", le rispose con aria innocente.
"Il bambino, eh? Che casualmente ha i miei stessi gusti".
Lui era ancora sulla soglia, timoroso di entrare. Si spostò, facendogli segno di passare.

Le mise una mano sulla guancia. "Stai bene?", le chiese scrutandola attentamente.
Lei avvertì un moto di pura insofferenza, che cancellò all'istante i miglioramenti del suo stato d'animo indotti dalla torta e dalla sua presenza. Nell'ultimo periodo non si limitava a cambiare semplicemente umore. Viveva su un'imprevedibile, infernale montagna russa emotiva.
"Castle, se sei venuto...", iniziò battagliera.
"No. Voglio solo sapere se stai bene. E voglio scusarmi", le confessò, spegnendo sul nascere le scintille di un eventuale litigio. L'ennesimo.
Era dubbiosa. Nessun'altra predica sul fatto che fosse sconsiderata nel valutare il suo futuro lavorativo?
"Scusarti?", chiese, incerta.
"Sì. È' difficile, per te, e io solo ho complicato le cose, standoti addosso come un cane da guardia".
"Lo dici unicamente perché sono fuori dal caso, vero? Che è proprio l'esito che speravi", qualcosa dentro di lei la spingeva a provocarlo anche se sapeva, almeno in teoria, che non era il modo giusto di incontrarsi a metà strada e costruire ponti, e tutte le altre stronzate che si leggevano sulle riviste.

Le sembrò ferito dalle sue parole, anche se non raccolse la provocazione.
"Anche se ti è difficile crederlo, non sono il tuo nemico. Non voglio importi niente. Voglio solo il bene di tutti".
"Ti sei messo a parlare come un padre spirituale adesso?", gli rispose con il tono più sprezzante che riuscì a trovare.
Non sopportava quando la trattava con quel fare paternalistico.
Castle finse di non aver sentito le sue parole offensive. Riusciva a farla adirare ancora di più, quando la ignorava facendo il superiore.
"Ok", proseguì Castle, con calma simulata. "Ho una proposta per te".
"Una proposta? Rimanere a casa a preparare delle torte?". Sapeva che prima o poi che sarebbe esploso, ma non riusciva a smettere. Le uscivano letteralmente le parole di bocca, prima che potesse fermarle.
"No. Le torte preferisco comprartele io".
La fece sedere di fronte a sé. "Montgomery ti ha tolto il caso di Raglan, giusto? Ma non ha detto niente riguardo a quello di tua madre", iniziò a illustrarle.
"Il caso di Raglan è il caso di mia madre".
"Vero. Ma tecnicamente non coincidono. Perché io e te non rivediamo tutta la storia di tua madre nel frattempo?"
Lei si alzò, senza dire una parola, e lo condusse alla finestra, dove aprì le ante, che rivelarono una rudimentale lavagna, su cui lei, come faceva al distretto, aveva appuntato foto, appunti, ritagli di giornale. L'intera vita della madre. Tutto quello che aveva.

"A volte dimentico che tu devi convivere con questa cosa quotidianamente", mormorò dispiaciuto. "Quindi", sorrise per farle coraggio. "Ricominciamo da capo e vediamo se ti è sfuggito qualcosa".
"Ho già esaminato tutto milioni di volte", protestò.
"Riguardiamo un'altra volta. È passato del tempo. Sono cambiate molte cose da allora".
Poco convinta, recuperò la scatola contenente gli oggetti personali della madre. La tenne tra le mani, guardandolo.
"Castle, non c'è bisogno che ti metta a fare una cosa del genere, anche se apprezzo l'intenzione. Riguarda me. Sono io il poliziotto che si occupa di indagare gli omicidi, non tu".
"Mi sembra un po' tardi per tirare ancora in ballo questa faccenda, no? Sono due anni che risolviamo gli omicidi insieme. Tutti", puntualizzò.
"Sì, ma voglio dire... non devi essere per forza essere coinvolto in questo".
"Io voglio essere coinvolto", ribadì. "Sono o non sono il tuo aiutante impavido?". Mise su una faccia buffa che la fece ridere.
"Gli aiutanti impavidi muoiono", cercò di spaventarlo, ma sperò che lui non ci cascasse.
"Ok, partner allora", annunciò vittorioso.
Kate sentì una sensazione di calore farsi strada dentro di lei.
"Ok, partner", concesse, sorridendo.
"Del resto mi pare che la categoria 'marito' non ti interessi, giusto? Ma sappi che è sempre disponibile", la prese in giro.
"E poi apriremo una nostra agenzia di investigazioni private come in Cuore e Batticuore?", gli rispose con lo stesso tono. Erano tornati alle loro solite schermaglie. Andava tutto bene.
"È un'idea fantastica! Perché non ci avevo mai pensato?"

Sembrava davvero entusiasta dell'idea. Gli lanciò addosso il cuscino e aprì la scatola.

Castle

Per Castle si trattò di uno strano viaggio in una terra straniera, quella del passato di Beckett. Si sforzò di muoversi con discrezione e tatto.
Scorse fotografie di una giovane Beckett che non aveva ancora iniziato a percorrere la via tormentata su cui lui l'aveva trovata. Era stata spensierata. Amata. Leggeva amore e orgoglio negli occhi di sua madre e sentiva di provare lo stesso miscuglio. Se solo lei fosse riuscita a tornare a vedere il mondo come un posto pieno di cose belle da vivere. Un posto magico in cui tutto era possibile.

Nel caso avessero trovato dei nuovi indizi, avevano pattuito di avvisare qualcuno al distretto. Avevano convenuto entrambi che lei non poteva andare ufficialmente avanti nelle indagini, visto che era stata estromessa. E così avevano fatto. Si erano mossi nella maniera corretta.
Me le cose avevano smesso di funzionare bene da subito.
Lei non riusciva a starsene buona e a delegare, aspettandosi che gli altri facessero quello che considerava il suo lavoro. Amava agire, non attendere. Voleva intervenire, voleva andarsene in giro da sola per seguire le nuove piste che avevano trovato insieme.
Lui aveva dovuto fermarla, consapevole di renderla sempre più insofferente.

Erano riusciti ad andare avanti, mantenendosi su un equilibrio stabile se pur precario, finché Montgomery non era venuto di persona a informarla che era stato necessario dotarla di una scorta che vigilasse sul suo appartamento. Si scoprì che era stata seguita, e che avevano trovato foto di lei a casa di Lockwood. Era improvvisamente diventata un bersaglio.

In quell'occasione Kate aveva chiesto a Montgomery di permetterle di tornare. Sarebbe stata più al sicuro al distretto. Ed era il suo caso, sarebbe stata più utile se fosse tornata operativa. L'aveva ripetuto più volte.
"Beckett, i casi sono della squadra, non del singolo. Ce ne stiamo occupando noi. È troppo rischioso farti uscire da qui. Non puoi assolutamente tornare, per ora", le aveva risposto, esercitando di nuovo la sua autorità. D'accordo con lei, Castle l'aveva seguito al distretto, per racimolare informazioni e vedere in prima persona come stessero gestendo le cose. L'aveva lasciata in preda alla furia ed era tornato da lei non appena era riuscito a liberarsi.

Entrò senza troppe cerimonie e la mise al corrente degli ultimi sviluppi, con il timore giustificato che questo l'avrebbe resa sempre più impaziente e difficile da calmare. Ma non poteva certo tenerle nascoste le cose. O così almeno credeva in quel momento.
"Quindi, ricapitoliamo", disse Beckett. "La ricerca si è ridotta a due sole Jolene, Granger e Anders e Ryan ed Esposito stanno andando da una delle due per interrogarla. E chi va dalla seconda?", chiese in tono pratico.
"Manderanno qualcun altro", rispose lui distratto.
"No, Castle, dobbiamo andarci noi".
Era impazzita?
"Beckett, non ti è consentito uscire di casa. Ti hanno messo sotto sorveglianza", le ricordò, cercando di farla ragionare. Il che era sempre un errore e lui lo sapeva. Ma era spaventato e incapace di gestire una situazione potenzialmente sempre più esplosiva, dovendo anche tenere conto delle condizioni di lei.
"Sono stanca di starmene rinchiusa qui dentro. Sto diventando idrofoba. È grazie a noi che hanno fatto passi avanti nel caso. Non possono tenermi fuori".
Lui non si mosse.
"Beckett...", iniziò con voce stanca. Era molto più che esausto per l'intera faccenda. Voleva solo starsene in pace e saperla al sicuro.
"Che cosa? Che cosa c'è ancora, Castle? Non sopporto più il tuo tono condiscendente. Dì quello che devi dire e facciamola finita", esplose.
"Possiamo calmarci, prima?", tentò di rabbonirla.
"Sono calma!", si sentì urlare addosso per tutta risposta.
"Beckett, non possiamo farlo. È pericoloso".
"Smettila di ripetermi che è pericoloso! Non fai altro, da giorni! È un caso come un altro, non puoi impedirmi di lavorare!"
"Non è un caso normale, Kate, e lo sai benissimo. Tu sei uno degli obbiettivi! E in più non stai ragionando freddamente".

La rabbia di lei si sarebbe condensata fino a dare origine a una tempesta di fulmini che l'avrebbero incenerito. Ne era sicuro. Stava correndo sotto le bombe, ormai.
"Stai insinuando che non so fare il mio lavoro?", lo apostrofò, gelida.
"Chiediti il motivo per cui lo stai facendo", le rispose, senza cedere alla propria, di rabbia.
"Che cosa significa?".
"Significa che ti stai ossessionando. Di nuovo".
Lei chiuse gli occhi. Lui si aspettò che prendesse la mira e gli sparasse sul posto. Ma era necessario fermarla.
La sentì fare dei respiri profondi.
"Castle, ci sono passata. Lo so com'è quando mi ossessiono e ti assicuro che, in questo momento, non lo sono. Sto bene. Posso occuparmene", tentò di convincerlo.
"Non stai bene, Kate, e lo sai".
Lei lo trafisse con uno sguardo di puro odio.
"Lo sai qual è il problema, Castle? Che tu vieni qui e pretendi di sapere come sto e di dirmi quello che devo fare. Ma tu non mi conosci, Castle. Credi di sì, ma non è così. Solo perché abbiamo questa...".
"Che cosa, Beckett? Che cosa abbiamo? Dillo una buona volta".
Anche lui era aveva oltrepassato la soglia del venirsi incontro. Erano andati troppo oltre.
"Questa... storia che abbiamo da poco. E che credi che ti dia il diritto di sapere tutto di me. Ma questa è la mia battaglia. Non puoi capirla, e soprattutto non puoi entrarci".
Se gli avesse sparato avrebbe sofferto di meno.
"Quindi è questo che abbiamo? Una storia di nessuna importanza? Non sono nient'altro, per te?". Aveva alzato la voce. Era ferito. E deluso e amareggiato.
"Castle... non è quello che..."
"Sì, invece. È proprio quello che volevi dire ed è quello che significa per te. È meglio che me ne vada prima di...".
Non era mai stato così lontano da lei. Mai così furente.
"Castle..." lo richiamò.
Era già sulla soglia, quando si girò verso di lei.
"Se metti in pericolo il bambino, non te lo perdonerò mai", l'avvertì, freddo e determinato ad andare fino in fondo. Ne aveva abbastanza. Era irresponsabile, cocciuta ed esasperante. Lui l'amava, ma c'era un bambino di mezzo.
Lo guardò come se si fosse trasformato in uno sconosciuto ostile. "Per chi mi hai preso?! Per una pazza incosciente? Certo che non lo metto in pericolo!".
"Lo prometti?"
Non le credeva e non aveva nessuno problema a farglielo capire.
"Castle, non c'è bisogno di prometterlo", gli aveva risposto, abbassando finalmente la voce, mostrandosi più conciliante. Non le andò incontro. Avrebbe voluto, ma non poteva cedere, non questa volta.
"Devi solo azzardarti a farlo", la minacciò, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Castle tornò a casa, avvilito per la situazione, il loro litigio, il modo in cui si erano lasciati. Quello che le aveva detto. Credeva ancora che non si sarebbe comportata in modo avventato, nonostante tutto. Ma era preoccupato. Molto preoccupato. Il loro bambino doveva essere protetto e, in ultimo, solo lei poteva farlo. Lui aveva esaurito tutte le munizioni che aveva a disposizione. Ed era stanco di doversi muovere con circospezione per non farla alterare. Doveva affrontare le cose una volta per tutte. Smettere di essere tanto irragionevole.

Con il trascorrere delle ore iniziò a sentirsi sempre più inquieto. Temeva che fosse uscita di casa e avesse fatto di testa sua. Che si fosse ficcata nei pasticci. Era Beckett. Perché no, dopotutto? Era convinta di avere le competenze necessarie per cavarsela in ogni situazione. Era convinta di essere la migliore e lo era. E questo, unito alla fissazione che aveva nei riguardi del caso della madre – comprensibile – rendeva il tutto una polveriera pronta a saltare per aria. L'inquietudine si trasformò in angoscia. Non sopportando di rimanere impotente, si diresse al distretto, cercando al contempo di chiamarla al cellulare. Non ottenne risposta.

Entrò come una furia nell'ufficio di Montgomery, che non si aspettava di vederlo.
"Dove è Beckett?", chiese senza fiato.
"È fuori. Perché? È successo qualcosa?"
"Non doveva permetterle di uscire di casa. Non deve lasciarla andare in giro", gli rispose in preda al panico.
"È tutto a posto. L'ho riammessa al caso".
"Proprio quello che non doveva accadere. Mi dia l'indirizzo. Non c'è tempo da perdere". Era troppo fuori di sé per curarsi di dare spiegazioni.
"Che cosa mi stai nascondendo, Castle?", gli domandò Montgomery, confuso, dopo avergli fornito l'informazione che gli serviva. Corse via senza rispondere.

Raggiunse il vecchio magazzino situato all'indirizzo in suo possesso, dove sperava di trovare Beckett. Non aveva il suo giubbotto antiproiettile, non aveva ovviamente una pistola. Doveva trovare il modo di entrare e portarla via di lì, anche di peso se fosse stato necessario.
In un momento di distrazione dell'energumeno appostato a fare la guardia, sgusciò all'interno. Si nascose dietro a un pilastro, senza fare rumore. Come aveva sospettato, si trattava di una trappola tesa da Lockwood ai danni di Ryan ed Esposito. Li vide legati e grondanti acqua. Dalla sua posizione isolata sentì degli spari e vide Lockwood spostarsi per evitarli. Guardandosi freneticamente in giro, riuscì a scorgere Beckett, a sua volta seminascosta, che infilava altri proiettili nella sua pistola.
Si pietrificò, quando si rese conto che lei era finita nel mirino del cecchino, ignara di essere esposta. Senza pensarci si avventò su di lui e lo colpì a mani nude, in preda a una furia cieca.
Nel frattempo si sentirono degli spari e delle urla e quando finalmente riuscì a lasciarlo andare, si accorse che tutti gridavano e che Beckett si era accasciata sul pavimento. Con la mano ancora insanguinata e agendo solo d'istinto, corse da lei, scostò gli altri e la prese tra le braccia, scuotendola. Era priva di conoscenza. Qualcosa deflagrò dentro di lui. Implorandola di non morire, Kate, per favore, non morire, corse in strada.

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Capitolo 11
*** Undici ***


11 Castle

Castle era seduto in corridoio, da solo. Aveva consegnato, tremando, una Kate ancora incosciente agli addetti del pronto soccorso, riuscendo solo a informarli, mentre la portavano via, che era incinta, di quante settimane e che era finita in mezzo a una sparatoria.
L'avevano guardato con sospetto, e prima che si precipitassero a far intervenire un agente, aveva aggiunto che la polizia era lei. Non era la cattiva. Così come non lo era lui.
Da allora aveva atteso fissando le proprie scarpe. Si era alzato. Si era seduto di nuovo. La sedia era scomoda, il reparto troppo caldo, la gente rumorosa. Gli tremavano le mani. Non riusciva a recuperare il telefono. Doveva avvisare qualcuno? Avrebbe dovuto? Era una cosa... grave? Voleva che uscissero a dirgli qualcosa. Non voleva che uscissero a dirgli che uno dei due stava male. Entrambi. Beckett. Soprattutto Beckett.

Esposito e Ryan arrivarono di corsa. Non aveva risposto alle loro telefonate. Non ne era stato capace.
"Castle, che cosa è successo? Come sta Beckett?", chiese Esposito, molto agitato.
"Non lo so. Non ho ancora saputo niente".
"Ok, ma che cosa è successo?", insistette l'altro. "Non è stata colpita, gli spari non erano nella sua direzione e tu hai messo Lockwood fuori combattimento", ricostruì.
Castle sembrò tornare lentamente alla vita.
"Quindi... non è ferita?", chiese con uno sguardo allucinato.
"No. Non te ne sei accorto? Non perdeva sangue".
No, non ci aveva fatto caso. Aveva cercato febbrilmente delle ferite, quello sì, per poterle tamponare, ma non era abbastanza in sé per capire la gravità della situazione. Era stato troppo impaurito dal pensiero che potesse perderli entrambi. Lo era ancora. Non voleva concedersi il lusso di convincersi che si fosse trattato di una sciocchezza.
"Ma questo non spiega cosa le è successo", intervenne Ryan. "Ha perso i sensi? Così semplicemente? Deve esserci un motivo".

Castle era troppo provato per tenersi dei segreti. Fingere, sviare la conversazione. Era stanco dei sotterfugi, stanco di tutto. Stanco si sentirsi sempre sull'orlo della fine.
"È incinta. Ecco perché è stata male. Deve aver avuto un mancamento, se è vero che non è stata ferita", ammise per la prima volta ad alta voce a qualcuno che non fosse lei o se stesso allo specchio.
"Che cosa?!", si meravigliarono all'unisono gli altri due. Uno molto più dell'altro.
"Come incinta?!". Esposito si imbizzarrì. Una reazione decisamente sopra le righe.
"Non sapevo che vedesse ancora Demming", si stupì Ryan, che aveva preso la notizia con più tranquillità.
"Non fare l'idiota", si adirò Esposito. "Non sta con Demming. Lui esce con un'altra", lo zittì.
"Ok. Non sta con Demming. Starà con qualcun altro", concluse Ryan, piuttosto indifferente.
"Come fai a non capire?", lo interruppe fuori di sé Esposito.
"Che cosa c'è da capire? È adulta. Sono cose che capitano", provò a calmarlo il collega.
"A lei non capitano. Va bene? Io vorrei proprio incontrare quel coglione che..."
"Sono io. Quel coglione sono io", si inserì Castle, per farli smettere. Potevano fare silenzio? Potevano... andarsene?

Il pugno gli arrivò diritto e deciso sulla tempia, così inaspettato da non fargli provare dolore, almeno all'inizio.
Seguirono momenti concitati, Ryan urlò qualcosa all'indirizzo del suo collega, fermandolo e trattenendolo. Castle lo guardava sbigottito. Non aveva reagito. Non poteva certo mettersi a fare una rissa con quello che credeva un amico, dentro a un pronto soccorso.
"Sei impazzito?", inveì Castle, toccandosi cautamente la parte dolorante. "Che cosa ti salta in mente?!".
"Dimmelo tu. Come hai potuto lasciare che una donna incinta si mettesse in una situazione del genere?!", lo accusò.
"Espo, quale versione di Beckett conosci? Quella che fa di testa sua, sempre e comunque, o quella che accetta di fare quello che le dice qualcun altro, se pure pieno di buone intenzioni? È ovvio che non doveva succedere ed è altrettanto ovvio che ho provato a fermarla. Ma non ci sono riuscito", gli spiegò Castle, cercando di frenarsi, mentre dentro ribolliva di rabbia. Era al colmo dell'esasperazione.
"E che cosa significa? State insieme o è stata la storia di una notte e tu l'hai messa nei guai?". Esposito aveva un tono così aggressivo che stava rischiando davvero di fargli perdere il controllo. Non adesso.
"Non l'ho 'messa nei guai'. E, se permetti, il come e quando sono affari nostri. Adesso, se non ti spiace, non so nemmeno se mio figlio...", scandì bene le ultime due parole, "Stia bene o se sia ancora vivo. Per non parlare di...", della donna che amo, "Beckett", concluse. Argomento chiuso. Chi gli dava il diritto di giudicare una situazione che non conosceva?
Ryan convinse Esposito ad andarsene, nonostante l'altro fosse ancora furente e volesse continuare a discutere. E non con toni civili.
"Ci fai sapere come va? Più tardi, magari?", lo pregò, gentilmente. Castle annuì, grato per la manifestazione di solidarietà.

Ricominciò ad aspettare. Da solo. Malconcio e sofferente.
Quando era ormai convinto che sarebbe morto su quella sedia, lo informarono che l'avevano portata in un altro reparto e che lo stavano aspettando.
Corse sulle scale, nonostante il dolore martellante, con il cuore che gli batteva a mille.
Quando raggiunse il luogo indicato, una porta si aprì davanti a lui.
"Signor Castle, è un piacere rivederla. Venga pure", lo invitò giulivo il giovane ginecologo di Kate. Di nuovo lui? Non potevano far lavorare persone con dei titoli adeguati in un posto serio come quello?
Dietro di lui, intravide Kate seduta sul lettino che si stava rivestendo. Invaso dal sollievo, oltrepassò il medico senza tante cerimonie, andò da lei e la fissò un attimo, prima di prenderla tra le braccia e stringerla forte. Era viva. Almeno lei era viva. E stava bene, da quello che gli sembrava di capire. Non era ferita, non era priva di sensi. Era sveglia e sembrava normale.
Aveva bisogno di sentirla. Di respirarla. Gli serviva un istante in cui ricomporre un mondo in cui lei era viva, di farlo accettare a tutte le cellule del suo corpo, ancora prima che alla sua mente. Doveva convincersi che era dalla parte giusta del bivio, quella in cui in cui lei esisteva ancora nel suo stesso universo fisico. Forse stava esagerando. Ma il continuo timore degli ultimi tempi lo aveva portato a reagire senza filtri o buonsenso. Doveva apparire ridicolo, ma non gli importava.
Lei si lasciò abbracciare, senza muoversi né parlare, forse consapevole del messaggio che trapelava dai suoi gesti.
Castle si riscosse, la lasciò andare e alzò la testa.
"Stai bene?", le chiese concitato, scrutandola attentamente. "State bene?" le ripeté. Plurale. Si rivolse al medico, che aveva preferito rimanere in silenzio: "Stanno bene?" Passava da uno all'altra senza aspettare la risposta, in trance.
"Castle, vuoi fare tutta la coniugazione del verbo?", lo prese in giro Kate, apparentemente tranquilla. Lei.
"Stanno bene", lo rassicurò il medico. "E, se dovesse interessarle, sto bene anche io".
Molto divertente. Lui era quasi morto di paura e loro... che cosa avevano fatto? Dato un party?
Il medico uscì, chiudendosi la porta alle spalle, lasciandoli soli.
Lei lo guardò con attenzione, accorgendosi solo in quel momento del gonfiore intorno all'occhio: "Che cosa hai fatto nel frattempo? Ti sei unito a una gang?", volle sapere, sbalordita. Non reagì al suo tentativo di fare dell'umorismo. "Ne parliamo dopo", tagliò corto.

Il medico tornò presto portando con sé un fascio di fogli, prese uno sgabello di metallo e si accomodò di fronte a loro. Non aveva più l'espressione giuliva che Castle aveva sempre trovato irritante. Il cambiamento non gli piacque.
"Kate, ho i risultati delle analisi", esordì con tono grave. "Assume correttamente le vitamine che le ho prescritto?".
"Sì, certo", rispose precipitosamente Castle al posto suo. "Beckett, diglielo anche tu che le prendi".
"Le prendo", confermò lei asciutta.
"Le darò qualcosa di più specifico", decise laconicamente il giovane medico, scrutandola per un momento e cominciando a scrivere.
Kate si mosse a disagio, cambiando posizione. "C'è qualche problema? Va tutto bene?".
Castle si irrigidì accanto a lei.
"Riesce a riposare abbastanza? Si nutre adeguatamente?", si informò il medico in tono neutro.
Castle cominciò ad agitarsi, in preda a una morsa gelida, che stringeva sempre di più. Perché le faceva tutte quelle domande? Il bambino non stava bene?
"Sì, certo. Ho un lavoro impegnativo, ma è la solita routine", rispose cauta.
"Sei finita in mezzo a una sparatoria", le ricordò Castle con voce seccata, rivolgendosi direttamente a lei e intervenendo dopo un lungo silenzio.
"È uno dei rischi del mio lavoro, niente di straordinario", spiegò lei con calma, senza reagire alla provocazione.
"Forse dovrebbe rivedere le sue mansioni in questo periodo", le consigliò il medico, senza giudicarla. "Quali sono le regole del dipartimento?".
"Perché? C'è qualcosa che non va?". Castle voleva delle risposte. Basta convenevoli. Che dicesse una volta per tutte quello che doveva dire, invece di fare domande basta.
"Niente di grave. Il bambino non ha subito dei danni. Alcuni valori delle analisi però sono alterati. E il bambino non cresce secondo i parametri. È molto stressata?" Tornò a rivolgersi direttamente a Kate. "Il valore del cortisolo sembrerebbe indicare di sì".
"Non so neanche che cosa sia, il cortisolo", sbottò Castle.
"È quello che comunemente chiamiamo 'Ormone dello stress'. Gli studi dimostrano che è direttamente collegato allo sviluppo del feto in gravidanza. In sostanza, deve solo stressarsi di meno".
Castle lo guardò atterrito, mentre Kate era ancora lontana, assente.
"Non c'è niente di cui allarmarsi. Basta che Kate cerchi di rilassarsi e riposare di più e che conduca una vita più tranquilla, se possibile".
"Io...", Kate tornò finalmente alla realtà. "Pensavo di poter fare la mia solita vita. Non è così che mi ha detto durante la prima visita? Che la gravidanza non è una malattia e di non viverla come tale? Dovrei smettere di lavorare?", chiese con voce ansiosa.
"È così, infatti. Ma il corpo subisce delle trasformazioni e bisogna assecondarlo. Non remare contro. Non deve smettere di lavorare, non per il momento. Cerchi di non finire in una sparatoria, almeno", concluse, cercando, senza riuscirci, di alleggerire la tensione.

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Capitolo 12
*** Dodici ***


12 Beckett

Nello studio del medico, Kate cercò lo sguardo di Castle, in cerca di sostegno, ma lui era girato ostinatamente verso la finestra, le labbra chiuse in una linea sottile. Era arrabbiato. Lo capiva dalla rigidità del suo corpo.
Era spaventata. Era colpa sua? Aveva danneggiato il bambino? Era perché non l'aveva voluto? Aveva bisogno di un abbraccio. Si rassegnò a non riceverne.

"La tua macchina è nel parcheggio. L'ha portata qui Ryan", la informò educatamente fuori dallo studio, come se fosse un'estranea che chiedeva indicazioni, mentre lei era divorata dal senso di colpa per quanto successo. Allora era vero. Le madri iniziano a sentirsi colpevoli da subito e non smettono mai più.
"Adesso mi dici che cosa ti è successo?", gli domandò gentilmente, facendolo fermare e indicando l'occhio pesto.
"Qualcuno ha difeso il tuo onore", le rispose freddamente.
"Chi?", chiese Kate allibita.
"Esposito".
"Esposito ti ha dato un pugno in faccia?". Non riusciva a credere alle sue orecchie. "Per quale motivo?".
"Perché gli ho rivelato che sei incinta".
"Era proprio necessario dirglielo?", si lasciò scappare, irritata. Fine delle buone maniere.
"Sì, lo era. Perché? È un segreto di Stato?"
Si ritrasse istintivamente. Era fragile, non aveva voglia di discutere.
"Castle, non iniziare...", lo pregò Kate. Non ce la faceva più.
Avevano ormai raggiunto il parcheggio sotterraneo.
"Inizio, invece. Ti sembra normale quello che sta succedendo? Per colpa tua non ho potuto dirlo a mia figlia! A mia madre. E adesso capisco il perché".
"Era solo troppo presto", ribatté fiaccamente.
"Lo sarà sempre, Kate. Non te ne rendi conto? Non posso tenere nascosta una cosa del genere a mia figlia, solo perché a te non importa del nostro, di figlio, e giochi a far finta di non essere incinta".
"Che cosa significa che a me non importa di nostro figlio?"
Si alterò, preparandosi all'inevitabile discussione, o più probabile litigio, che sapeva sarebbe seguito.
"Mi sembra evidente". Non poteva essere più distante da lei, fisicamente ed emotivamente.
"Castle, parla chiaro, per una volta. Non nasconderti dietro alle solite frasi vaghe".
"Va bene, parlerò chiaro. Non volevi questo bambino. Il nostro bambino. E adesso non stai facendo niente perché la gravidanza prosegua senza intoppi. Forse inconsciamente vuoi che si interrompa da sola", concluse, amareggiato.
Si sentì come se lui l'avesse appena schiaffeggiata. Dove era finito il Castle che conosceva?
"Come puoi pensare una cosa del genere?", gli chiese con voce a malapena udibile, ma piena di dolore.
"Vuoi sapere perché lo penso? Per quello che ci ha appena detto il medico. Perché ti sei messa in pericolo, volontariamente. Avevi promesso di non farlo, Kate. Che cosa pensi che abbia provato quando ti ho visto nel mirino di Lockwood? Potevate morire entrambi". La voce si spezzò.
"Tu... eri lì?", domandò sorpresa. Davvero?
"Sì. Non mi sono fidato della tua parola. E ho fatto bene, a quanto pare".
Lei finse di non cogliere il sarcasmo nelle sue parole, mentre ricostruiva nella sua mente quello che era successo. Ricordava solo di aver ricaricato la sua pistola, poi il vuoto. Adesso capiva anche la mano fasciata. Le aveva salvato la vita, un'altra volta.
"Grazie per..."
"Ti prego. Evita almeno i ringraziamenti. Non essere ridicola".
Ridicola? 
"Castle... Possiamo...?", fece un tentativo. Possiamo cosa? Non lo sapeva nemmeno lei.
"Che cosa, Kate? Continuare a fare finta di niente? Lasciarti fare quello che vuoi? No, non è possibile, non stavolta. Mi spiace molto se sei rimasta intrappolata in questa storia, per giunta incinta, e non è quello che vuoi. Ma potevi scegliere. E hai scelto. Adesso devi comportarti da adulta. Da madre".

Era convinto di quello che diceva, poteva capirlo dal tono perentorio. A le pareva solo un brutto sogno.
"Come ti permetti di affermare una cosa del genere? Credi che non voglia il nostro bambino?", reagì, iniziando a inalberarsi.
"A quanto pare, no". Sparava frasi secche, a raffica.
"Ma sei impazzito?!". Era veramente indignata, adesso.
"Non lo volevi. Fingi che non esista. Vuoi solo continuare la tua vita senza tener conto di lui", la accusò.
"È questo il problema, vero? Non mi hai mai perdonato per non aver fatto i salti di gioia, da subito. Non me lo perdonerai mai". Era lei adesso, ad aver alzato la voce, nel tentativo di difendersi dalle sue parole ingiuste.
"Me ne sono stato zitto per settimane, lasciando che fossi tu a scegliere. Sei sempre stata tu al centro. Adesso basta. Assumiti le tue responsabilità".
"Le mie responsabilità?!", strillò, senza che le importasse se qualcuno li stesse ascoltando. "Sono io che ce l'ho nella pancia. È il mio corpo che cambia. Non il tuo. Ho vomitato io tutti i giorni, ho smesso io di fare quello che facevo prima. Non tu che fai il padre offeso nell'orgoglio. Sono io che sopporto tutti i fastidi. Avrò almeno il diritto di non annullarmi del tutto ? È ancora la mia vita".
"Non è la tua vita!", le gridò Castle in risposta. "È la vita del bambino. È la nostra vita". Rimase un attimo in silenzio, prima di riprendere, all'apparenza più calmo.
"Lo so che per te è difficile, ma non preoccuparti. Quando sarà nato ti toglierò il fastidio". Era irriconoscibile. Il Castle che conosceva non le parlava con tale freddo distacco. Odio, probabilmente.
"Che cosa vorrebbe dire?! Che sono un'incubatrice? Che lo rapirai il giorno del parto?! Che chiederai la custodia esclusiva per sottrarlo a una madre indegna?", gli sbraitò in faccia. Avrebbe voluto graffiarlo. Infilargli una colata di cemento in gola.
"Sì, se sarà il caso", la minacciò.
No. No. No. No. No.
"Non puoi pensarla davvero così", lo implorò, disperata. Era così che si sentiva. Sfinita, addolorata e incapace di reagire alle accuse che venivano dall'uomo che amava, che era diventato improvvisamente un nemico.
"Kate, non vuoi questo bambino. Ammettilo. Non vuoi me. Vuoi la tua vita, quella di prima. Se pensi che sia già stravolta, non hai proprio nessuna idea di quello che succederà una volta nato".

Castle aveva abbassato i toni, ma non aveva fatto nessun passo indietro, a contenuti.
"Come sarebbe che non vi voglio? Ma quale bassa opinione hai di me? Come puoi stare con me, se pensi questo?", gli sussurrò, non riuscendo a capire come fossero finiti in quel baratro.
"Hai ragione. Non posso stare con te". Lo disse tranquillamente, come se non fosse la condanna che era.
Lei si sentì colpita da un macigno che la mandò in mille pezzi.
"Che cosa? Castle... No". Il suo volto era una maschera di sofferenza. La vita che cambia all'improvviso. Non era una frase fatta. Si sentiva mancare il respiro.
"Kate... non funziona. È arrivato il momento di ammetterlo. Per me non è una semplice storia. È molto di più. Speravo potessimo essere una famiglia. Ma tu non la vuoi".

Si sentì bruciare gli occhi di rabbia, lacrime e autocommiserazione. Non se lo meritava di sentirsi dire che non era una brava madre. E di essere piantata in asso, per questo. Ce la stava mettendo tutta, davvero. Forse non bastava, ma era il meglio che aveva saputo fare.
Ci aveva messo più tempo di lui ad accettare la cosa, doveva essere punita per questo?
Cercò disperatamente di calmarsi, per recuperare la situazione. Era arrabbiato. Poteva capirlo. Aveva ragione, in buona parte. Era stata avventata, si era ossessionata, di nuovo, con il caso di sua madre e aveva fatto una cosa sconsiderata. Ma non così grave, secondo lei. Non era irreparabile.
Lui era semigirato di spalle. Gli si avvicinò. Non era brava in queste cose, ma voleva fare almeno un tentativo. Goffo, forse.
"Castle... Possiamo parlare senza essere arrabbiati?". Era una supplica, non una richiesta.
"Non sono arrabbiato. Ho solo aperto gli occhi". Aveva un tono stanco e rassegnato. Kate vedeva rispecchiata in lui la stessa sofferenza. Come potevano stare così male in due? Farsi così male?
Era strano per lei non ricevere sorrisi, risate, sostegno. Non averlo dalla sua parte, e ritrovarsi con uno sconosciuto che la guardava come se non fosse... lei.
"Ti prego... parliamone". Fece un ultimo tentativo.
"Parlare? Noi non parliamo. Io parlo. Imploro. Cerco di ragionare. Tu fai quello che vuoi. È la tua vita. Puoi tenertela", le lanciò addosso, con crudele indifferenza.
"Lo so che non sono un persona facile, Castle, ma lo sapevi...".
"Questa sarebbe una giustificazione per non venirmi incontro? Mai?".
Mai? Stava scherzando?
"Io non ce la faccio più così, Kate", ammise, passandosi una mano sul volto.
"Castle, non può finire così. Qui. In questo modo. Non siamo bravi ad avere una relazione, è vero, ma..."
"Relazione? Non era una storia?". Un'altra sferzata di puro sarcasmo. Non ce la faceva più. Quante poteva sopportarne ancora?
"Basta ripetere quella parola, per favore. L'ho detto in un momento di rabbia. Lo sai che non abbiamo una semplice storia".
"No, Kate, è proprio quando si è arrabbiati che si dice la verità, senza filtri. O pietismi".
"Sei irragionevole in questo momento".
"Io, irragionevole? Sei vuoi una persona irragionevole, guardati allo specchio".

Basta. Qualcuno doveva farlo smettere. Una parte di lei tornò in vita, non voleva più accettare abulicamente i colpi che le stava infliggendo. Voleva reagire.
"E dove sono finiti i grandi discorsi che mi facevi? Ce la faremo. Faremo casino e poi lo risolveremo, perché così funziona nella vita'? Dove sono le nostre promesse? Di impegnarci, parlarci, stare insieme? Di farci funzionare? Di cercare di comunicare? La tua è una sentenza, non lasci spazio per chiarire, per correggere gli errori. La chiudi, così. Mi lasci fuori. E di tutto quello che abbiamo avuto finora che cosa ne facciamo? Lo buttiamo? Quello che abbiamo costruito? I passi avanti che abbiamo fatto? Il nostro amore?". Era sorretta dalla pura disperazione alla prospettiva che se ne andasse per davvero. Se lo sentiva che l'avrebbe abbandonata. Cercava solo di allontanare l'inevitabile. Non c'era modo di avvicinarlo. Era più che deciso.
"Quale amore Kate? Io ti amo. Tu no".
"Dai, Castle, certo che ti amo anche io. Come fai a non capirlo? A non averlo visto? E non puoi far finire tutto così. Non può finire". Kate era a un passo dall'oblio. Dal nulla che era una vita senza di lui. Un'altra parola e l'avrebbe implorato di non lasciarla.
Beckett lo vide avvicinarsi, e contro ogni probabilità, spero che ci stesse ripensando. Doveva ripensarci.
Le mise una mano calda dietro la nuca, accarezzandole la mandibola. Non poteva andare via e intanto fare questo. Non poteva. Chiuse gli occhi assaporando la sensazione familiare di... casa.
"Kate... io ti amo", mormorò con una voce che non gli aveva mai sentito, un insieme di stanchezza, rassegnazione e amore. "Ma amarti mi sfinisce".

Rimase improvvisamente senza fiato, come se l'avessero spinta sott'acqua e non fosse più capace di risalire in superficie. Non riusciva a respirare. Sentì le gambe cedere e si aggrappò all'auto dietro di lei, per non cadere.
Le batteva il cuore all'impazzata e un generale senso di incredulità la pervase, come quando si viene colpiti e, all'inizio, il corpo sembra non registrare il dolore. Non sentiva la sofferenza, solo la sensazione fisica di essere stata investita da qualcosa di enorme. Si era spento il sole. Era finita al gelo. Questa volta davvero.
Rimase istupidita a guardarlo andare via. Non era possibile. Non stava capitando a lei. A loro.
Cercò di fare dei respiri profondi, ma le sembrò di non riuscire a fare entrare abbastanza aria e per un momento le venne il panico. Più lui aumentava la distanza tra di loro, e più il nodo in gola diventava soffocante.
Voleva pregarlo. Implorarlo di non andare via. Aggrapparsi fisicamente a lui per impedirglielo, ma sapeva che si era già giocata tutte le sue carte, e le rimaneva solo la dignità.

Si mosse, gli occhi ostinatamente asciutti, con ancora la sensazione terribile di non introdurre nei polmoni abbastanza aria. Si impose di reagire, tentando di convincersi che, se era ancora viva e in grado di camminare, evidentemente riusciva a respirare a sufficienza, e questo pensiero la calmò, almeno per il momento. Poi realizzò che la mano che le stringeva la gola non se ne sarebbe andata tanto presto.
Doveva guidare. Doveva tornare a casa. Una volta lì avrebbe lasciato uscire il dolore, che cominciava a premere dentro di lei, al punto che si mise una mano sulla bocca, istintivamente, per evitare che straripasse sommergendola.
Non pensarci. Non pensarci. Non pensarci. Entra in macchina, inserisci le chiavi, metti in moto.
Avvertiva l'istinto primitivo di tornare alla sua tana, prima di lasciarsi andare. Chiudersi la porta alle spalle. Raggomitolarsi. Proteggersi.
E ce la fece, per un po'. Riuscì ad anestetizzarsi. Si concentrò sulla guida.
A un certo punto, ferma al semaforo, con lo sguardo perso sul telefono muto e, con la mano già pronta a controllare, come faceva di solito, se ci fossero chiamate, o messaggi di Castle, che aveva l'abitudine di mandarle foto, considerazioni personali, commenti e battute, anche mentre erano nella stessa stanza, come se non potessero smettere di essere in contatto, mai, pensò all'improvviso al loro bambino.
Se ne era dimenticata. Per qualche lunghissimo minuto aveva pensato solo a se stessa, al dramma della sua vita, e non a lui.
"Come faremo, bambino? Cosa faremo io e te da soli?".
Senza nessuna logica, questa le sembrò la più triste delle conseguenze e iniziò a piangere senza riuscire a smettere. Singhiozzava come non faceva da anni. Come non aveva fatto neanche quando era morta sua madre. Non riusciva a vedere nemmeno la strada. Fu costretta ad accostare e cercare di calmarsi. Si passò entrambi i palmi sulla faccia, per asciugare le lacrime in un unico gesto rabbioso.
Lei era Kate Beckett. Voleva pur dire qualcosa. Lei non si lasciava andare così.
Non bastò. Senza nessun senso, le faceva pena il suo bambino che adesso non aveva una famiglia. Lui non lo sapeva e non gli importava, per ora. Ma aveva solo lei. Come poteva bastargli? Non riusciva a smettere di piangere, pensando a quel povero bambino orfano. E più si diceva che era una cosa ridicola, dannazione, ragiona Kate, non era orfano, aveva comunque un padre, Castle non era mica morto, perché si autoinfliggeva queste immagini moleste, più le veniva da piangere. E piangeva. Povero il suo piccolo bambino indifeso.
Forse in verità piangeva per se stessa, abbandonata un'altra volta. Da sola. A rimettere insieme i pezzi.
E poi si arrabbiò. Chi era lui per lasciarla? Lei che non aveva mai più permesso a nessuno di abbandonarla e, che, per la prima volta, si era permessa di sperare. Di lasciarsi andare. Come poteva andare via così? Come poteva non lottare? Amarla lo sfiniva? Le sarebbe piaciuto mostrargli che cosa significava per davvero avere qualcosa nella vita che ti sfiniva quotidianamente, che ti toglieva le energie al punto da rendere necessario uno sforzo sovrumano per alzarsi dal letto la mattina.
Che cosa credeva, che la vita fosse il suo parco giochi? Dove viveva?
Di nuovo le venne da piangere e di nuovo si arrabbiò, in un ciclo ininterrotto.
Riuscì a parcheggiare sotto casa, entrare di corsa nell'androne, chiudersi la porta alle spalle, e finalmente, raggomitolarsi sotto una coperta per scomparire dal mondo.

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Capitolo 13
*** Tredici ***


13 Beckett

S svegliò con gli occhi gonfi, un cerchio alla testa e la bocca secca.
Si guardò intorno, non riuscendo inizialmente a capire perché fosse crollata sul divano, rimanendo lì a dormire fino al mattino.

Passò, quindi, attraverso l'orribile e comune esperienza umana di sapere vagamente che ci fosse qualcosa che non andava, senza ricordare di preciso i dettagli, fino all'inevitabile momento della verità che le piombò addosso come un macigno. La sofferenza tornò a farsi viva, acuita dal fatto di essere riuscita a imprigionarla nell'oblio per qualche ora.
Annaspò. Avrebbe preferito vegliare per sempre, in modo da scendere a patti con la sua angoscia, invece di scordarla per qualche ora pietosa e trovarsela ora raddoppiata.

Non sapeva per quanto tempo avesse dormito, ma di sicuro non aveva cenato e, anche se non aveva fame, era fermamente decisa a mangiare.
"Bambino, da oggi le cose andranno diversamente. Che cosa vuoi per colazione?"
Ignorò il telefono, che la tentava dal pavimento dove era caduto durante la notte e andò in cucina, dove si costrinse a sbocconcellare una mela, di malavoglia. Una mela era cibo sano, pieno di vitamine.
Con indifferenza, quando l'ebbe finita, si concesse di fingere di raccogliere casualmente il cellulare da terra per dare un'occhiata alle chiamate perse. Il cuore saltò un battito quando vide che ce n'era una. Una soltanto.

Non era di Castle, purtroppo. Tutto taceva, su quel fronte. L'avevano cercata dal distretto. Il medico le aveva consigliato qualche giorno di riposo e lei, ligia al dovere, aveva ogni intenzione di seguire le indicazioni. Ne aveva abbastanza di litigare con tutto il mondo per questo motivo.

Richiamò e seppe di essere stata convocata ufficialmente dal suo capitano. La notizia si era sparsa. Si chiese chi altro lo sapesse.
Non aveva voglia di presentarsi. Non avrebbe voluto uscire di casa del tutto. Voleva leccarsi le ferite in santa pace, invece di dover dare spiegazioni, ascoltare prediche, affrontare i suoi colleghi. Ma non poteva fare diversamente.

Era una bella giornata soleggiata e già solo questo riuscì oltremodo a irritarla. Sarebbe stato bellissimo svegliarsi con Castle, la mano sulla sua pancia, ad ascoltarlo inventarsi scuse per il fatto che fosse finita lì inconsapevolmente durante il sonno, quando la verità era che lei non gli consentiva mai di farlo, durante il giorno. Era costretto a farlo di notte. E uscire a fare colazione o farsela portare a letto, usando la scusa del: "Non devi fare sforzi", a cui non credeva nessuno dei due.
Non posso farmi questo. Non voleva ricominciare a piangere. Lo aveva già fatto in abbondanza.
Si trovò a riflettere su quanto fosse stata meschina, per non avergli mai permesso di comportarsi come un padre orgoglioso. Lui sprizzava autentica gioia, mentre lei aveva sempre opposto un fastidio sprezzante a ogni manifestazione di entusiasmo. Non toccarmi la pancia, lo sai che non mi va. No, certo che non voglio decidere il nome, ho da fare, Castle, puoi concentrarti sul presente? No, non andremo a scegliere la culla, è presto e io devo rimanere al lavoro fino a tardi, la gente deve lavorare per vivere.
Perché si era comportata così? Come poteva essere stata tanto odiosa?
Non aveva voluto illudersi, semplicemente. Non voleva credere di essersi costruita una famiglia. Di non essere da sola. "Nasconditi, se vuoi essere felice", dicevano. L'aveva preso un po' troppo alla lettera.

Arrivò al distretto già esausta. Vide nello sguardo di chi la incontrava che era conciata davvero male. Non si era truccata, aveva indossato una vecchia felpa molto ampia e le scarpe da ginnastica. Non erano abituati a vederla così. Probabilmente aveva anche un nido in testa – non si era presa la briga di pettinarsi con cura - ma non le importava.

Non si fermò a parlare con nessuno, ma entrò direttamente nell'ufficio di Montgomery.
"Siediti", le ordinò, senza altri preamboli. Mi aspetta un'altra bella giornata, pensò Kate, accomodandosi di fronte a lui.
"Beckett, che cosa pensavi di fare?", le chiese, severo.
"In quale circostanza?", fece dell'ironia. Era tutto quello che le era rimasto.
"Era un tuo dovere avvertirmi della gravidanza. Hai violato le regole", la redarguì, senza darle corda.
"Non c'è scritto da nessuna parte il momento esatto in cui avrei dovuto comunicarlo". Voleva parlare secondo la legge? A lei andava benissimo. Aveva letto quel dannato regolamento fino a saperlo a memoria.
"Beckett, ricominciamo da capo. Congratulazioni per il lieto evento", disse compunto.
A lei venne un po' da ridere. "Non è proprio credibile, se mi è permesso dirlo".
Rise anche lui. "Non esattamente quello che mi aspettavo di venire a sapere in questo momento".
"Nemmeno io, mi creda".
L'atmosfera si era ammorbidita, cominciavano entrambi a sentirsi a loro agio.
"Avrei preferito saperlo subito, per poterti tutelare. Per sostituirti sul campo e non farti correre nessun rischio. E per far filare tutto liscio quando non ci sarai".
Non aveva mai pensato al dopo. Al congedo. A stare a casa a badare a un bambino.
"Che è il motivo per cui non ho detto niente", ammise. "Non voglio essere obbligata a rimanere dietro a una scrivania. Non fa per me. Ho bisogno di stare dove succedono le cose".
"Non puoi fare diversamente, Beckett. Nemmeno io", concluse più amareggiato di lei.
Non rispose. Aveva ragione. Non aveva niente da aggiungere.
"Quindi... Castle eh?", le domandò a bruciapelo. "Ce ne avete messo di tempo a decidervi".
Lei lo guardo con stupore. "Signore?"

Aveva capito giusto?
"Dai, Beckett. Era evidente a tutti che sarebbe finita così. Hanno anche scommesso su di voi. Io sinceramente mi aspettavo che sarebbe successo un po' prima, ma tu hai resistito parecchio".
Non stava sentendo quello che stava sentendo, vero?
"Sta scherzando?"
"Non scherzo mai sulle scommesse. Però non dire a nessuno che l'hai saputo da me".
"Ma è scorretto!", protestò lei.
"Certo, che lo è. Ci piace per quello. E vi chiamano anche in qualche modo. Tipo Brangelina".
"Perché dovrebbero chiamarci Brangelina?". Era assurdo anche solo continuare il discorso.
"No, certo che non vi chiamano così. Credo sia qualcosa come Caskett. Il che è fantastico, per via della morte e questo genere di cose".
L'avevano rapita? Era finita a Oz e adesso sarebbe comparso l'uomo di latta?
Caskett. Sorrise. Non era male in effetti. Chissà se Castle ne era al corrente. Forse l'aveva inventato lui.
"Andrà tutto bene, vedrai". Il cambio repentino delle modalità discorsive la colse di sorpresa.
"Grazie... Signore", rispose cauta, non aspettandosi questo genere di confidenza e non sapendo come gestirlo.
"E ricorda che una gravidanza non dura all'infinito, lo sembra soltanto. Ci vediamo tra qualche giorno. Riposati, nel frattempo", la congedò.

Nonostante fosse uscita dal distretto più sollevata, con il passare delle ore, attraversò tutti i cambiamenti d'umore possibili. Era esausta, schiacciata da un peso enorme e non faceva che piangere, a intervalli ravvicinati.
Castle le mancava, come se le avessero amputato un arto. E si odiava, per questo. Provava ondate di pura rabbia, che la facevano sentire viva e desiderosa di reagire, ma che, quando passavano, la lasciavano spossata e inerte.
Avrebbe voluto che le fossero concessi almeno cinque minuti di pausa dai tormenti, per tornare a sentirsi di nuovo una persona normale. Pensare al domani, senza di lui, la distruggeva.
Una volta passata la burrasca, quello che si trovava davanti era solo un infinito, piatto, deserto. Non poteva vivere senza Castle. Ma era costretta a farlo.
Non lo avrebbe cercato. Non avrebbe usato la scusa del bambino per parlargli. Desiderava spasmodicamente sentirlo, ma non sarebbe stato corretto.
Si chiese in quale momento avesse abbassato la guardia e perché lo avesse fatto. Se non fosse andata negli Hamptons non sarebbe successo niente di tutto questo. Adesso sarebbero stati al distretto a risolvere un caso, probabilmente.
A che punto le cose avevano smesso di funzionare?
Era consapevole di avere le sue colpe, non era un'irresponsabile come Castle l'aveva accusata di essere. Ma lui era stato irremovibile e questo a lei non sembrava giusto. Non le aveva lasciato nessuna scelta, nessuna possibilità di cambiare. Si era voltato e se ne era andato.

...

Più tardi si trovò seduta in auto, a guardare fuori senza avere il coraggio di scendere. Era da tanto che non tornava nella casa in cui era cresciuta e temeva di non avere il controllo delle sue emozioni. Era sicura di non averlo. Era già un successo che non stesse piangendo.

Prima di insospettire il vicinato, scese e bussò alla porta.
"Katie. Che piacere vederti", la salutò suo padre, sorpreso e felice, quando aprì e se la trovò davanti. Si rifugiò tra le sue braccia, senza dare spiegazioni.

Era bello, per una volta, tornare a essere solo una figlia. Non una donna adulta, non un poliziotto, non una futura madre. Solo una bambina tra le braccia protettive di suo padre. Non era sempre stato così. Per un lungo e buio periodo era stata lei a sostenere e proteggere lui, ma i ricordi della sua infanzia felice rimanevano indelebili.
"Che cosa ci fai qui? Non dovresti essere al lavoro?", le chiese, dopo averla tenuta stretta in silenzio per tutto il tempo necessario.

Provava sempre una strana sensazione, quando tornava nella casa dove era nata e cresciuta.
Le sembrava più piccola, come tutte le cose vissute da bambini e riviste da adulti, ma le bastava mettere un piede oltre la soglia per sentirsi subito al sicuro. Le piaceva il suo appartamento, l'aveva arredato a sua immagine e lo considerava il suo nido. Ma non appena faceva il suo ingresso qui, non vedeva l'ora di andare nella sua stanza, chiudere la porta, e fare finta di non avere nessun problema al mondo. Sì, durante l'adolescenza c'erano state grandi amori finiti in tragedia – così le era parso allora -, litigi con sua madre, le solite cose. Che adesso avrebbe voluto rivivere, magari solo per un giorno. Solo qualche ora di assenza di preoccupazioni e responsabilità.

Si riscosse dai ricordi, per rispondere al padre. "No, ho preso qualche giorno di riposo".
La guardò dubbioso. "Tu non ti riposi mai". Si sorrisero. Si sentì bene. Per un attimo il dolore sordo allo stomaco si era zittito.
Si sedette intorno al tavolo da pranzo, mentre suo padre si dedicò a prepararle una tazza di tè. Aveva rifiutato il caffè. Dopo aver atteso che il bollitore fischiasse, le porse una tazza fumante, che lei si rigirò tra le mani fredde scaldandosi con il suo tepore, senza avere il coraggio, a trent'anni, di confessare a suo padre di essere incinta.
"Papà... devo dirti una cosa", iniziò, nervosa come una ragazzina.
"Sì, immaginavo che non fosse solo una visita di cortesia".
"Mi fa sempre piacere vederti", obiettò, meravigliata. Era così. Si vedevano meno di quanto avrebbe voluto, ma non aveva bisogno di una scusa per stare con lui.
"Lo so. Intendevo dire che non vieni spesso qui".

Era vero. Dopo la morte della madre aveva faticato a tornarci. Non c'erano solo i bei ricordi. C'erano quelli brutti. Quelli che cancellavano la pace che si era faticosamente costruita. Riusciva ancora a vedere sua madre in piedi davanti alla finestra o seduta a leggere un libro sul divano. Erano immagini insopportabili.

Tornò al presente. Come si dava una notizia del genere?
"Aspetto un bambino".

Ecco fatto. L'aveva detto a qualcuno. Era brava, no? Si stava impegnando.
Lui la guardò incredulo, e poi si allungò a stringerle un braccio, commosso.
"Katie, non sai quanto ho temuto che mi dicessi una cosa del genere quando eri adolescente e frequentavi quei ragazzi terribili. Sono felice che sia accaduto adesso", le rispose molto sollevato.
Risero insieme.
"Tua madre si raccomandava di non ostacolarti o ti saresti incaponita ancora di più, ma in cuor mio ho sempre temuto il peggio", ammise.
Dopo quello scoppio di ilarità fecero silenzio, improvvisamente imbarazzati.
"Divento nonno?", le domandò intenerito. Si limitò ad annuire in risposta.
"E chi sarebbe il... fortunato?", chiese con discrezione.
"È Castle".

Non era preparata alla reazione del padre, che batté le mani deliziato.
"Grazie al cielo! L'ho sempre sperato!".

Chi era quest'uomo che si trovava davanti? Era allibita.
"Ma se non lo conosci nemmeno!", gli ricordò.
"Sì, ma non fai altro che parlare di lui. Era ovvio che prima o poi sarebbe finita così. Non saltando tutte le tappe in questo modo, magari...".
"Quindi... sei contento?", gli domandò, quasi non osando sperarlo.
"Ma certo! Come potevi pensare che non lo fossi? È una bellissima notizia!"

Si godette la gratificante sensazione di averlo reso felice. Le piaceva l'idea che questo bambino stesse diventando reale. Non solo nella sua mente, ma anche in quella delle persone che avrebbero fatto parte della sua vita. Non aveva mai riflettuto in questi termini. Aveva preso la notizia come un affronto personale. Una cosa privata tra lei e un estraneo arrivato a rovinarle la vita. Che la costringeva a ridefinire la sua relazione con Castle in senso troppo definitivo, troppo presto.
Ma significava anche famiglia. Relazioni. Radici.

"E quindi tu e Castle... da quando tempo uscite?"
"Noi... è complicato", ammise senza riuscire a trovare le parole giuste, sentendo la sofferenza tornare a chiuderle la gola. Quanto avrebbe preferito poter dire che sì, stavano insieme. E, invece, si presentava da suo padre come una futura madre single.
"Non lo è sempre?", le rispose il padre che aveva intuito il suo turbamento. Lui non faceva pressioni, aspettava che lei fosse pronta a parlare. Anche Castle era così.
Erano persone così diverse, accomunate dallo stesso approccio comprensivo e amorevole nei suo confronti.
"A volte funziona, no? Voglio dire, non deve essere per forza complicato. Le cose possono essere facili". Perché per lei doveva essere così difficile? Perché lei era così difficile?
"Non so in che mondo pensi di vivere, ma, no, gli esseri umani hanno la tendenza a complicare tutto".
Lei non riuscì più a tenersi tutto dentro.
"Credo di aver fatto un casino, papà. Eravamo felici, davvero. E poi... mi sono messa in pericolo, e con me il bambino, e adesso Castle non mi vuole più".

Le uscì di colpo, sorprendendosi lei per prima per quello che aveva confessato al padre e sentendosi allo stesso tempo sollevata per essersi confidata con qualcuno. Non mi vuole più. Banale e tremendo insieme.
La guardò con affetto. "Hai un tuo modo forte di relazionarti con il mondo". Eufemismo. "Ma sono sicuro che, qualsiasi cosa tu abbia fatto, sia recuperabile. A volte basta solo aspettare un po' di tempo, giusto?".
"E se non bastasse? Se lui non mi volesse davvero più?"
"Katie, come fa a non volerti? Guardati".
"Papà, tu sei di parte". Però era bello che qualcuno lo fosse.
"È vero. Non so cosa sia successo e non conosco Castle. Ma se tu l'hai scelto, e lui è arrivato a conoscerti un po' di più di quello che permetti di solito alla gente di fare, sono sicuro che non si arrenderà".
Lei sentì assurdamente rinascere la speranza, anche se erano parole dette solo per confortarla. Forse era vero. Forse le cose potevano aggiustarsi.
"E se alla fine non ti vorrà, ci penseremo noi due ad allevare questo bambino! Dove è il problema? Non sei da sola".

A lei venne da piangere. Era già un successo, era riuscita a trattenersi fino a quel punto. Era abituata a gestire la sua vita in autonomia. Non voleva appoggiarsi a nessuno, per scelta, proprio per il timore di dover tornare da capo a rimettersi in piedi da sola. Sapere di avere qualcuno accanto pronto ad aiutarla era rassicurante. Aveva creduto che anche Castle sarebbe stato con lei. Lo aveva dato per scontato, forse.

Suo padre cambiò discorso, cogliendola senza difese.
"Sai che tua madre ha conservato le tue tutine di quando eri neonata? Vuoi vederle?", le propose di punto in bianco.
No. Certo che non voleva vederle. Sarebbe stato troppo doloroso. No. Assolutamente.
"Davvero?", chiese cercando un modo gentile di declinare l'invito.
"Sì. Man mano che crescevi riponeva in una scatola speciale le cose che non ti andavano più bene. Non tutte, ovvio. Solo qualcosa di simbolico. C'è ancora il primo vestitino che ti ha messo all'ospedale, quando sei nata. Forse lo vorrai per il bambino. Solo se femmina, però. È tutto rosa, lo ricordo bene".

Era troppo. Non poteva figurarsi sua madre impegnata a compiere gesti che, probabilmente, avrebbe fatto anche lei. Con le stesse speranze e le stesse paure. E non potergliene parlare. Era... ingiusto.
"Non riesco a immaginarmi con qualcosa di rosa", si sforzò di mantenere un tono leggero.
"Sì, neanche io, in effetti. Però tua madre ci teneva. Ho la scatola di sopra, vuoi vederla? Posso lasciarla in camera tua", si offrì con tatto.
Non avrebbero sopportato di aprire la scatola insieme. Il loro era un dolore privato. Anche adesso.
Non voleva quella scatola, ma forse per lui era importante. Forse aveva sempre aspettato quel momento. Non ebbe il coraggio di fare quello che avrebbe voluto, ringraziarlo, abbracciarlo, e andarsene. Voleva dire scappare? Ok, voleva dire scappare, benissimo.
Lo seguì sulle scale e si ritrovò seduta sul suo letto, con una scatola bianca davanti. Fece un respiro profondo e la aprì. E chiuse. E riaprì.
Apparvero oggetti che le erano appartenuti e non sapeva nemmeno che esistessero. Facevano parte della sua storia, fin dalle origini. Una mano amorevole le aveva conservate. Forse per se stessa, per altri figli che non erano mai nati. E ora erano lì, per il nuovo bambino in arrivo.
Le sembrò tutto molto triste. Una vita finita, in cambio di una vita che iniziava. Perché non poteva averli entrambi?
Sarebbe diventata una madre anche lei e non sapeva neanche da che parte cominciare. Di certo, finora, non aveva dato grandi prove in quel senso. Del resto, lei che cosa ne sapeva di bambini? Se ne era sempre tenuta lontana. A chi poteva domandare? Chi l'avrebbe incoraggiata?

Trovò il vestitino rosa di cui le aveva parlato suo padre e lo stese sul letto. Accarezzò il tessuto ancora morbido, il ricamo sul davanti, i bottoni minuscoli.
Avrebbe voluto mostrarlo a Castle, si sarebbero messi a ridere e lei se lo sarebbe appoggiato sulla pancia. Avrebbe dato tutto il suo cinismo, in cambio di un momento così tenero.
No, basta, era troppo. Prese solo quella tutina, chiuse la scatola, e, dopo aver velocemente salutato il padre, uscì da quella casa che aveva ricominciato a darle la claustrofobia. Respirò a pieni polmoni l'aria fresca del pomeriggio, mentre risaliva di corsa in macchina.

Era stata una giornata strana. Si sentiva poco centrata, lontana da se stessa. Castle non aveva chiamato neanche una volta e lei iniziava a rendersi conto che era tutto reale. Come avrebbero gestito le cose? Loro due potevano anche non stare insieme, ma come avrebbero fatto con il bambino? Doveva aggiornarlo? Si sarebbe fatto vivo lui? L'avrebbe trattata con distacco?
Prima di tornare verso casa fece un'improvvisa deviazione. Forse non era esattamente un posto sano dove terminare il primo di molti altri giorni infelici, ma sentiva che avrebbe potuto darle conforto.
Era quasi l'orario di chiusura, si augurò di fare in tempo.
Si recò sulla tomba della madre, un percorso che avrebbe potuto ripetere anche a occhi chiusi. Non ne comprendeva il motivo profondo, ma il solo fatto lei che fosse lì, fisicamente - se era possibile usare questo termine -, la faceva sentire meglio. Era sempre stato così.
Si sedette sull'erba appena tagliata, la schiena appoggiata alla lapide.

La persone colpite da un lutto tendevano a convincersi che non non sarebbe mai finita, che sarebbero stati per sempre travolti da una sofferenza impossibile da arginare. Non era così, lo aveva sperimentato sulla sua pelle. Prima era strano il solo fatto di continuare a respirare, ma quei respiri continuavano e tu ti trovavi un giorno ad aver voglia di ridere. Di fare progetti.
Ma nel frattempo lo strazio era continuo, e tornava a pungere soprattutto nelle piccole cose. I verbi al passato. Si era confusa e corretta più volte, quella sera parlando alla polizia, con gli agenti che tacevano con tatto e le offrivano un silenzioso conforto.
Non potevi più chiamare "Mamma" ad alta voce e ricevere risposta. Dicevi: "Mia madre", parlando di lei ad altri. Presto qualcuno avrebbe usato quel nome con lei. Sperava di meritarlo.

Rimase così, in silenzio, aspettando che le tornasse la voglia di alzarsi, più calma di quanto lo fosse stata nelle ultime ventiquattro ore, sentendosi un tramite tra il prima alle sue spalle e il dopo ancora minuscolo, ma tenace dentro di lei.

Il mattino dopo entrò decisa nello studio del dottor Burke, lo psichiatra del distretto, si sedette sul divano di fronte a lui e, raccogliendo tutto il coraggio che aveva, pronunciò le prime parole della sua rinascita. "Credo... credo di avere un problema".

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Capitolo 14
*** Quattordici ***


14 Castle

Tornò a casa stanco e distrutto dopo il loro acceso confronto.

Si era aggirato inebetito a lungo per le vie di New York, sentendosi come l'unico superstite di una battaglia apocalittica che aveva distrutto il pianeta. Non si era accorto delle persone che gli erano passate accanto, non era stato consapevole del traffico, a malapena era riuscito a non barcollare, schiacciato da un peso che faticava a sostenere.

Chiuse la porta, si tolse la giacca e si lasciò andare sfinito sul divano, prendendosi la testa tra le mani.

Girarle le spalle e andarsene era stata la cosa più difficile che avesse mai fatto, a ogni passo sentiva una lama puntata nelle viscere affondare sempre di più.
Aveva ragione Kafka: "Amore è che tu per me sei il coltello con il quale frugo dentro me stesso" (*)
Aveva dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo, imponendosi con violenza di non voltarsi indietro. Tutto quello che avrebbe voluto, tutto quello che il suo corpo gli urlava di fare, era di correre da lei e inginocchiarsi, letteralmente e implorarla di smetterla, smetterla di ossessionarsi e trascinare tutti nella rovina, con lei.
Non lo vedeva quello che avevano davanti? Avevano un futuro, che si stagliava limpido di fronte a loro. Loro tre. E le loro famiglie. I loro amici. Perché buttava via tutto quello che avevano, per tornare ad agitare le acque torbide del dramma che aveva vissuto?
Non era semplice metterselo alle spalle, se ne rendeva conto benissimo. Ma doveva pur esserci un modo sano di andare avanti a vivere, scendendo a patti con quello che era successo. Non poteva rimanere bloccata a quel punto in eterno. Che non significava lasciar perdere l'indagine o non volere che il responsabile, chiunque fosse, finisse in carcere. Ma si doveva pur vivere, nel frattempo. Non poteva congelare la sua vita fino alla risoluzione dell'omicidio. Non era giusto. Meritava di essere felice, non di finire di colpo in un buco nero da cui era impossibile tirarla fuori, perfino per lui.

Come faceva a non scegliere loro, invece che il passato che era, appunto, passato? Come faceva a non vedere come stavano bene insieme e quanto sarebbe stata divertente, piena e meravigliosa, l'esistenza che potevano avere? Doveva solo allungare una mano e afferrarla.
Non poteva stare con una persona che, di punto in bianco, scompariva nelle sabbie mobili della sua ossessione, irraggiungibile.
Si passò una mano tra i capelli.
Chi voleva prendere in giro? Certo che avrebbe potuto farlo, e, anzi, avrebbe dato qualsiasi cosa per passare il resto della sua vita a setacciare qualsiasi metro quadrato di palude emotiva in cui fosse finita.

Il problema era lei. Non li voleva. Non sapeva perché avesse tenuto il bambino, forse non aveva avuto abbastanza coraggio per chiederglielo.
Si era detto che avrebbe lasciato che fosse lei decidere senza farle pressioni, ma era stato davvero solo altruista? A chi voleva mentire? Non era forse vero che non aveva voluto indagare, nel timore di scoprire che il problema non era il bambino, ma lui? Che forse la questione non era che non volesse una famiglia, ma che non volesse costruirne una con lui.
Era stato codardo, altro che altruista, si accusò senza nessuna indulgenza.
Ed era stato felice quando aveva deciso di tenerlo. L'aveva presa come una dichiarazione d'amore per lui. L'aveva accusata di non pensare al bambino, ma di chi stava parlando davvero? Non aveva forse messo i suoi sentimenti davanti a tutto? Non aveva forse voluto amarla tanto da farsi amare a sua volta? Chi aveva mai pensato davvero a quel bambino?
Sì, certo, per lui esisteva. Era un bambino reale, nella sua mente. Se lo immaginava già muovere i primi passi incerti nel loft e non vedeva l'ora di ricominciare tutta la trafila. Voleva un piccolo Beckett, con i suoi stessi occhi, a gironzolare per casa per prenderlo al volo prima che si ficcasse in qualche guaio.
Perché di certo, con due genitori come loro si sarebbe infilato nei pasticci a giorni alterni, incurante del pericolo. Come sua madre. Come lui.
Si divertiva a sognare quanto sarebbe stato creativo, geniale e probabilmente insopportabile qualcuno che condividesse a metà il loro patrimonio genetico.
E si era anche riempito la mente di una serie di immagini di lei in versione materna che non le avrebbe mai confessato.

Fino a quel momento aveva avuto solo la vaga consapevolezza del desiderio di un'altra paternità, sepolto in qualche piega nascosta dentro di lui, ma quando aveva visto il test positivo, aveva sentito, di colpo, che era una cosa che desiderava realmente, senza neppure sapere che la volesse così tanto. Con lei. Solo con lei.

Era l'amore della sua vita. Lo sapeva già. L'aveva sempre saputo, dal primo giorno. Da quando voleva solo uscire a cena con lei e concludere la serata a casa di uno dei due. Dai primi sguardi che gli aveva lanciato, pensando di non essere vista, o sapendo di esserlo, i primi scontri, le prime labbra mordicchiate.
Non poteva non essere anche l'amore della vita di lei. Era impossibile. Non si poteva amare tanto qualcuno, senza che valesse anche il contrario. Era ingiusto. Uno spreco di amore.
Si rese conto, non senza un certo grado di orrore, che è esattamente così che ragionano gli stalker. Si consolò con il fatto di averlo solo pensato, non l'aveva davvero pregata in ginocchio di amarlo e di scegliere lui.
Era andato via, semplicemente, perché aveva capito che lei non lo amava quanto lui amava lei. Si era tolto di mezzo.
Fine della storia.

E adesso avrebbe tanto desiderato sapere come avrebbero gestito questo caos immane e complicato, perché lui non ne aveva assolutamente idea.
Un weekend a testa? E le vacanze? In quale modo dovevano accordarsi? Come diavolo avrebbe mai potuto passare un'intera vita a crescere un bambino con lei, senza stare con lei? E magari, nel tempo, vederla con un altro uomo? Un'altra famiglia?
Per non sentire il dolore e la rabbia in procinto di sopraffarlo, si alzò e si versò un bicchiere della prima bevanda alcolica che trovò, senza neanche guardare l'etichetta. Un po' di oblio. Voleva smettere di sentirsi pungolare dalla sofferenza.

Non ottenne lo scopo desiderato. In un impeto di disperazione lanciò il bicchiere contro il muro. Andò alla sua scrivania e in un colpo solo, fece sparire quello che c'era sopra, i libri, le bozze del nuovo romanzo, i soprammobili, tutto finì in un mucchio senza vita a terra. Voleva che il mondo esterno riflettesse la distruzione che aveva dentro. Le stesse rovine. Non servì.
Si sedette affranto su una delle poltrone. Ai suoi piedi vide un foglietto capovolto e lo raccolse, accorgendosi che era la stampa della prima ecografia. La contemplò per un attimo, poi si lasciò andare sullo schienale a occhi chiusi, sentendosi sconfitto.

Fu così che lo trovò Martha, qualche tempo dopo, entrando in casa e annunciandosi con il suo soliti modi eccentrici.
"Richard!", esclamò stupefatta. "Ti ha preso il blocco dello scrittore catastrofico, questa volta?".
Lui si riscosse con un sussulto, rendendosi conto di essersi addormentato per qualche minuto, o forse di più, e lottando per recuperare il minimo di lucidità che gli serviva per affrontare sua madre, quando era su di giri. Cioè, quasi sempre.

Lei si sedette di fronte a lui e guardò incuriosita il foglio che teneva in grembo.
"Ti sei incamminato nel viale dei ricordi? O dovrei dire il viale del tramonto?", gli chiese, convinta che stesse riguardando le foto di Alexis da piccola, cominciando proprio dalla prima in assoluto.
Lui abbassò la testa per un attimo e poi alzò gli occhi a incontrare quelli della madre.
"Non è Alexis", confessò senza aggiungere altro.
Lei si portò le mani al petto. "Oddio, Richard!". Lo fissò stupefatta. "Che cosa significa? Avrai un altro figlio? E io un altro nipote?", gli chiese prendendo precipitosamente l'ecografia dalle sue mani, cercando una fonte di luce per osservarla meglio.
"Ma qui c'è scritto...", si bloccò subito. Capì che cosa intendeva. Il medico aveva inserito il nome di Kate, non il futuro cognome del bambino.
E, quindi, sua madre aveva letto "Katherine Beckett", togliendo a lui la responsabilità di informarla su chi fosse la madre del suo prossimo nipote.

Lei continuò a fissarlo comunicandogli la chiara intenzione di non muoversi di lì finché non avesse saputo tutto. Non sarebbe mai finita quella giornata infernale?
"Quindi... tu e Beckett...", esordì Martha, cautamente.
"Io e Beckett", si limitò a confermare. Gli costava uno sforzo enorme il solo fatto di scegliere le parole da dire, metterle in fila, dare un senso alle frasi.
"L'ho sempre saputo che non era solo per i libri", commentò soddisfatta del proprio acume.
"Lo era, agli inizi", protestò lui, cercando di recuperare un po' di vivacità.
"Hai sempre avuto un debole per lei, Richard! Le madri certe cose le sanno".
Lui sorrise amaramente, dentro di sé. Chissà se le madri sapevano anche tutto il resto.
"E, quindi, quando nascerà il bambino? Katherine si trasferirà qui? Alexis lo sa? Perché non organizziamo una cena per festeggiare tutti insieme?" Sua madre aveva preso il via piena di brio, e lui non sapeva nemmeno da che parte cominciare a fermarla.
"Non vuoi dirmi che abbiamo fatto tutto troppo in fretta e che siamo degli incoscienti?"
"Per quanto mi riguarda, potevate concepire un bambino già il giorno in cui vi siete incontrati. Siete fatti l'uno per l'altra", gli confessò convinta.
Davvero?
"Non ti avevo mai sentito esprimere un'opinione tanto favorevole sulle donne che ho frequentato".
"Perché non sei mai uscito con donne di sostanza, ecco la verità".
Già. Una donna di sostanza che gli aveva spezzato il cuore più di tutte le altre messe insieme...

Lui si alzò per versarsi un altro bicchiere di liquore e ne preparò uno anche per sua madre. Meglio darle qualcosa di forte. Ne avrebbe avuto bisogno.
"Pensi di darmi qualche altro dettaglio o hai intenzione di girarci intorno ancora a lungo?", gli chiese, prendendo il bicchiere che lui le stava allungando.
Chissà, forse parlare gli avrebbe fatto bene.
"Ok, mamma. Questi sono i fatti. Ci sarà un bambino, in primavera. Ma io e Beckett non stiamo insieme".
Il dolore fu così netto e corposo che gli venne voglia di ricominciare a lanciare oggetti contro il muro.
"Come potete non stare insieme? Come nascono i bambini, altrimenti?".
Lui scoppiò a ridere, suo malgrado.
"No, beh, siamo stati abbastanza insieme per quello, ovvio".

Non aveva mai fatto certi discorsi con lei, era strano iniziare alla sua età.
"Ma poi non ha funzionato", aggiunse, ammettendolo a malincuore. Più lo diceva e meno gli sembrava reale.
Non stiamo insieme. Non ha funzionato. Non era così che doveva andare. Non poteva essere questa, la fine.
"Come è possibile che non abbia funzionato? Non siete nemmeno stati insieme abbastanza per capirlo, se ho fatto bene i conti", ribadì sua madre.
"Lo so, e ti darei ragione, in teoria. Invece è andata proprio così. Non possiamo stare insieme". Lo ripeteva per convincersene, ma ogni volta era peggio di una pugnalata.
"Quando?", gli chiese impaziente.
"Quando cosa?".
"Quando l'avete deciso che non potete stare insieme?".
"Oggi pomeriggio".
"È una cosa fresca, quindi. E ora capisco il tuo stato d'animo", disse guardandosi in giro."Ma, magari, potresti ripensarci, non credi? Se vai a riposare, perché per la cronaca hai un aspetto orribile e non sembri neanche mio figlio, domani le cose ti appariranno sotto una luce diversa e...".
"Non sai di cosa stai parlando!", la interruppe con violenza, mortificandosi subito quando la vide spaventarsi.
"Scusami. È stata una brutta giornata. Orribile, anzi".
"Forse è meglio che mi racconti tutto", lo invitò gentilmente.
"È successo per caso. La gravidanza, intendo. Volevamo solo frequentarci e vedere se avrebbe funzionato. Ma poi tutto si è complicato". Si fermò a raccogliere le idee, mentre lei gli faceva un cenno per invitarlo ad andare avanti.
Proseguì parlandole del caso della madre, di quello che era successo al distretto, delle loro discussioni e della decisione di lei di non dargli retta, fino a quello che era successo dopo, l'ospedale, la paura di scoprire che lei fosse morta. Un po' assurdo, a ripensarci ora, ma in quel momento si era spaventato davvero.

Lei lo ascoltò lasciandolo parlare, fissando un punto di fronte a sé per metabolizzare meglio i fatti che man mano venivano a costituire un quadro più comprensibile.
"Il punto è che lei non voleva il bambino. Non l'ha mai voluto", chiarì, una volta finito il racconto.
Martha dovette convincersi che stesse esagerando.
"Se non lo voleva, come sostieni, come mai... voglio dire... come mai c'è ancora, questo bambino?"
Apprezzò la delicatezza dell'esposizione.
"Perché l'ha tenuto, alla fine. All'inizio voleva abortire, ma poi...", le spiegò, attenendosi ai fatti.
"Gliel'hai chiesto tu?", volle sapere, con tono serio, lasciando da parte ogni stravaganza.
"No, certo che no. Ha deciso da sola", si alterò lui. Come poteva solo insinuare una cosa del genere?
"Quindi se l'ha tenuto, pur avendo ponderato l'alternativa, significa che lo vuole, no?".
Gli sarebbe davvero piaciuto molto condividere la stessa logica stringente.
"È proprio questo il problema. Si comporta come se non esistesse. Non si prende cura di se stessa, si espone a qualsiasi rischio. Probabilmente... spera di liberarsene".
Scoprì del rancore, annidato dentro di lui, per le decisioni che era stato costretto a subire.
"Mi stai descrivendo una donna che stento a riconoscere", commentò neutra "Che cosa ha fatto esattamente per indurti a pensarla così?"
"Non l'ha detto a nessuno, impedendo anche a me di farlo. Ecco perché tu e Alexis non ne sapevate niente. Non vuole rinunciare al suo lavoro, visto che il regolamento prevede che le vengano affidate mansioni d'ufficio per tutto il periodo della gravidanza. Non vuole smettere di fare la vita di prima. Ma deve farlo", replicò con veemenza.
"Deve è una posizione un po' forte, non credi?"
Sua madre in versione saggia e ragionevole era più di quanto potesse sopportare.
"È la verità. Non può trascurarsi e aspettarsi che vada tutto bene. Lo pensa anche il medico, che l'ha costretta a fermarsi perché il bambino non sta crescendo nel modo corretto. Sono fatti. Non si possono contestare".
"Mi stai dicendo che non ha fatto nulla, per questo bambino? Ha solo continuato con la vita di prima sperando di abortire spontaneamente? Lo pensi davvero? Credi questo di lei?"
La voce aveva assunto una sfumatura più severa.
Si fermò a riflettere. No, non era così. Doveva dire le cose per come stavano e riconoscerle dei meriti.
"È stata molto male a causa della nausea i primi tempi e non se ne è mai lamentata. Non riusciva a trattenere nulla nello stomaco, una situazione abbastanza difficile e preoccupante. Ha evitato da subito gli allenamenti più faticosi. Era spesso molto stanca, soprattutto la sera, ma ha sempre stretto i denti".
Sua madre lo interruppe.
"Da quel che mi dici, credo che sia solo una persona che ha difficoltà ad accettare un grosso cambiamento inaspettato. Non che non lo desideri", affermò con tono grave.
"Si è messa volontariamente in pericolo, oggi! Poteva morire!", la contestò Castle con forza.
"Richard, è il suo lavoro!"
Ma da che parte stava? Era lui quello irragionevole, adesso?
"In questo momento non è 'il suo lavoro'. Può evitare le situazioni più rischiose finché il bambino non nasce, ma non vuole", le ripeté, perché il concetto fosse più chiaro. Non era una pretesa insensata la sua. Perché erano in due a pensarlo, adesso?
"E dopo?".
"Dopo cosa?". Cominciava a non riuscire più a seguirla. Voleva solo andare a dormire.
"Una volta nato il bambino ti andrà bene se rischierà di farsi ammazzare dal primo psicopatico? Ci saranno sempre situazioni rischiose, come quella di oggi"

Non aveva abbastanza pazienza per sostenere quel gioco dialettico.
"No, certo che no. Ma almeno ci non andrà di mezzo il bambino, perché me ne occuperò io".
"Che cosa vuol dire che te ne occuperai tu?". Sua madre sgranò gli occhi.
"Che... lo crescerò io, come ho fatto con Alexis. Gliel'ho anche detto, non deve preoccuparsi di niente".
Lei lo guardò esterrefatta. Non c'era niente di sbagliato in quello che aveva appena affermato. Giusto?
"E, di preciso, come ti sei espresso a questo proposito? Sul fatto che crescerai tu vostro figlio".
"Così come lo sto dicendo a te adesso". Lo esasperava. Non capiva o faceva finta solo per farlo alterare più del dovuto?
"Le hai detto che le avresti portato via il bambino?! Sei impazzito?! Ti hanno allevato i predoni del deserto?! ", gli strillò contro. Non si aspettava una reazione del genere. Si schiacciò contro lo schienale della poltrona.

Lo guardava come se fosse un mostro e lui non capiva cosa ci fosse di sbagliato in quello che aveva deciso di fare. Lei non lo voleva, lui sì. Lui l'aveva già fatto, aveva tempo, disponibilità, una certa pratica. Lei poteva riavere la sua vita. Spiegò con molta pazienza questi concetti alla madre.
"Richard Alexander Rodgers! Hai minacciato una madre di sottrarle il suo bambino! Te ne rendi almeno conto? Ti ha dato di volta il cervello?! Spero che ti abbia picchiato con una spranga di metallo".
Non l'aveva mai vista così indignata. Era l'incarnazione stessa della maternità offesa. Buffo, trattandosi di sua madre.
"Ma..." provò a ribattere lui aprendo e chiudendo la bocca, senza sapere cosa dire.
"Niente ma. Le hai dato della pessima madre, in sostanza. Che cosa sei, un caprone insensibile?! Non ti ho cresciuto così!"

Non seppe che cosa rispondere. Era sconvolto.
"Sai qual è il problema?", continuò lei al colmo dello sdegno. "Non le perdoni di non aver fatto subito i salti di gioia, di non aver dato un party comunicandolo al mondo e di non accettato di sposarti su due piedi. Questa è la verità", proclamò come se fosse un assioma indiscutibile.
"Non è affatto così. Stai vaneggiando e non sai di cosa parli".
"Lo so, invece. Pensi che sia facile trovarsi incinta senza averlo programmato Dover rinunciare ai propri progetti, metterli in pausa? Accettare un corpo che si modifica? Non voglio offendere i tuoi delicati sentimenti, ma io per prima non ho esattamente fatto i salti di gioia quando tu sei comparso".
"Sì, me ne sono sempre reso conto", commentò acido. Era una storia passata, ma pur sempre dolorosa, per lui.
"Ma", continuò senza dargli retta. "Non significa che io non ti voglia bene, più di qualsiasi altra persona al mondo. Non cambierei mai quello che è stato".
Sapeva che tendeva a esagerare nelle sue esternazioni emotive, ma gli venne da sorridere, grato.
Lei gli prese la mano.
"Non tutte le donne sono Meredith. Soprattutto, non lo è Beckett. In nessun modo", proseguì con voce più carezzevole.
Lui la guardò senza cogliere il nesso.
"Che cosa c'entra adesso Meredith?". Era sempre stato così difficile seguirla nei suoi salti logici?
"Non lo vedi? Stai sovrapponendo le due situazioni. Temi di avere a che fare, di nuovo, con una madre che abbandona un figlio e di essere costretto a fare da padre e madre a un altro bambino. E per paura di scoprire che è così, lanci la bomba prima del tempo, acchiappi il bambino e scappi via". Sottolineò l'immagine con dei gesti comici.
Lo aveva fatto? Aveva pensato di trovarsi di fronte una nuova Meredith che aveva mollato la figlia senza nemmeno voltarsi indietro? Che se ne fregava, rincorrendo le sue fantasie, ricordandosi solo saltuariamente di essere una madre?
"Non c'è da stupirsi se ti ha piantato in asso inferocita dopo la tua bella sceneggiata", proseguì Martha, che non aveva ancora concluso la sua filippica.
"No, a dire il vero non è andata così. Me ne sono andato io". Cominciò a temere la reazione che ne sarebbe seguita.
"Cioè?". Vide cupe nuvole addensarsi negli occhi della madre.
"Le ho detto che così non funzionava e che era meglio lasciarsi", ammise vergognandosi, cominciando a rendersi conto di quello che aveva fatto.
"Non mi dire. Che uomo pieno di tatto, fuori da un ospedale da cui era appena stata dimessa. E lei? È andata a cercarsene un altro con qualche dita in più di cervello, spero". Era ormai incontenibile.
"No... lei...". Con un po' di imbarazzo le raccontò che Kate aveva insistito perché rimanesse. Perché parlassero. Come mai non ci aveva pensato prima? Non era andata via offesa. Aveva cercato un contatto. E lui...
"Dopo tutto quello che le hai detto, ha comunque cercato di evitare la rottura? Tu non la meriti", sentenziò.
"Mamma, è inutile che provi a cambiare la carte in tavola. Kate non mi vuole. Non mi ama!", si sentì piagnucolare. Un uomo adulto. Davanti sua madre. Mamma Kate non vuole stare con me all'intervallo.
Martha sospirò.

"Richard, per prima cosa devi rivedere il modo in cui ti relazioni alle persone e, in secondo luogo, devi imparare ad ascoltare quello che ti dicono. Hai fatto a pezzi quella poveretta prima di mollarla in un parcheggio. Era svenuta e le era appena stato comunicato che la gravidanza non andava troppo bene. Volevi anche spararle, già che c'eri? Spingerla sui binari della metropolitana? Non hai lasciato nemmeno che si spiegasse!" Sua madre si era alzata in piedi e lo stava sgridando, con le mani appoggiate sui fianchi.
"Sono stanco di aspettare i suoi tempi e le sue spiegazioni. Le sono andato dietro per mesi, senza che nemmeno vedesse che ero lì davanti a lei".
"Questo non è un suo problema, non ti pare? È stata una tua scelta, non puoi rinfacciargliela".

Lui si limitò a fare silenzio, scosso dalla conversazione in corso, se si poteva chiamare così, un po' offeso che sua madre non avesse preso le sue difese e con la crescente consapevolezza di aver fatto qualcosa di imperdonabile.
"Perché ho come l'impressione che tu avessi già deciso in partenza che questa storia non potesse funzionare e hai solo preso in considerazione gli indizi che ti davano ragione? È un caso di profezia autoavverante?".
Era in piedi e già lontana. Lasciò cadere questa ultima considerazione senza fare ulteriori analisi.
"Adesso devo andare", gli annunciò, svuotando il bicchiere. "Non perdere altro tempo. Vai a riprendertela", gli ordinò con burbero affetto.

Si trovò di nuovo da solo, con uno stato d'animo ben diverso.
Sua madre aveva ragione. In parte. Su tutta la linea. Non gli piaceva ammetterlo ma era la verità. Ripensava con raccapriccio a come era andata tutta la vicenda. Ai suoi errori. Lui che si era creduto saggio e superiore e l'aveva critica dall'alto di cosa? Della sua supponenza? Perché lui era già stato padre e allora sapeva che cosa fare?
Doveva essere onesto con se stesso. Era davvero stato convinto che non potesse durare. Era sicuro di non poter continuare a piacerle a lungo. Affascinarla e divertirla, sì. Ma, durare? No. Era impossibile. Lei era troppo per lui.
Aveva quindi continuato a cercare indizi, per essere costantemente rassicurato. Ogni suo comportamento era stato sezionato, e, purtroppo, molto spesso preso come un affronto personale, la dimostrazione che i suoi timori erano reali.

Il rifiuto iniziale di portare avanti la gravidanza poteva non avere niente a che fare con lui. Poteva volerlo nella sua vita e nel frattempo essere spaventata o non essere pronta ad avere un figlio. Lui, invece di incoraggiarla e sostenerla, aveva calato la mannaia sulle sue insicurezze. Gliele aveva sbattute contro. Non si era nemmeno accorto che lei gli aveva confessato di amarlo. Non esplicitamente, certo. Nel solito modo contorto che aveva Beckett di parlare alle persone.
E lui che cosa aveva fatto? Aveva sentenziato di non poter stare con lei, pur amandola. Che razza di persona fa una cosa del genere? Le aveva attribuito tutta la colpa.

Venne preso dalla smania di vederla, sapere come stava, andare a casa sua e buttar giù la porta, se necessario. Ricominciare da capo. Ma prima di tutto voleva accertarsi che stesse bene. E poi lei si sarebbe dovuta trasferire al loft.
O, anzi, no, non poteva decidere sempre lui per tutti. Avrebbe fatto tutto quello che lei gli avrebbe chiesto. Con i suoi tempi. Le sue paure. Avrebbe smesso di convincersi di non meritare l'amore di una donna reale, di sostanza. E le avrebbe confessato tutto. Subito. Doveva uscire di casa in quell'istante.

Guardò l'ora sul monitor del pc. Era troppo tardi e lui era spossato. Era meglio aspettare, prima di muoversi d'impulso e complicare di nuovo tutto. E, prima, c'era un'altra cosa da fare, che non poteva essere posticipata. Si buttò sul letto per cercare di dormire qualche ora di quello che rimaneva del giorno più brutto della sua vita.

Il mattino dopo si alzò presto, in preda a un'energia dirompente. Preparò la colazione preferita di Alexis. Era arrivato il momento di parlare con sua figlia.
Non andò male, solo un po' peggio di come si era immaginato.
Naturalmente Alexis rimase colpita dalla notizia e naturalmente volle sapere perché non era stata messa al corrente della sua relazione con Beckett, anche se aveva indovinato da tempo i suoi sentimenti.
Non fu facile spiegare a sua figlia che avrebbe presto avuto un fratello, o una sorella, rassicurandola che sarebbe andato tutto bene. Era consapevole che una novità del genere potesse causare una frattura nel loro equilibrio che si reggeva immutato da tanti anni.
Erano stati sempre molto uniti, nemmeno Gina era riuscita a far parte del loro circolo ristretto. Era sempre rimasta ai margini, all'inizio ferita e poi indifferente.
Allo stesso tempo, non sapeva neanche da che parte cominciare a spiegarle che, nonostante l'arrivo di un bambino, le cose con la madre del futuro pargolo, e cioè la donna che avrebbe dovuto inserirsi nella loro famiglia e contribuire a ricreare un equilibrio allargato, non potevano andare peggio.
Come poteva infilare sua figlia in un ginepraio del genere? Che stabilità poteva darle?
Mentre parlavano, si rese conto che aveva dato per scontato che ad Alexis piacesse Beckett. Si ricordava che l'aveva sempre ammirata, fin dall'inizio, ma non si erano frequentate abbastanza da creare un legame.
A quanto pare, Beckett come persona andava bene. Un po' meno il fatto che avrebbe, sperabilmente, condiviso la vita con lui. Per molto tempo. Forse per sempre, anche se al momento potevano sembrare solo illusioni.
Si accorse che Alexis si sentiva minacciata dall'arrivo di una donna, che percepiva correttamente come quella giusta, quella destinata a durare, temendo di essere sostituita nel suo cuore. Impossibile, naturalmente.
"Quindi avrai un'altra famiglia", mormorò sconsolata. La vide per quella che era: una ragazzina che amava fare l'adulta, ma che, dentro, aveva ancora bisogno di essere protetta.
"Non avrò un'altra famiglia. È la nostra che si allarga", la rassicurò.
"Ma Beckett..."
"È lei il problema?", chiese con voce piena di comprensione.
"No. Lei mi piace. Ma il nostro mondo..." Lo guardò smarrita.
"Alexis, il nostro mondo ci sarà sempre. Sarai sempre la mia bambina. Anche da sposata. Anche perché non ti sposerai mai, giusto? Oppure sceglierò io il marito per te", scherzò Castle, a cui faceva tenerezza la sua bambina con i capelli rossi, che aveva paura di perdere il suo amore. Sapeva molto bene cosa voleva dire non essere sicuri dell'amore di chi amiamo.
"La prima", sottolineò.
"La prima, cosa?", chiese non avendo seguito il filo del discorso, perso nelle sue considerazioni.
"La prima bambina. Non l'unica", puntualizzò.
"Sarai sempre la mia prima magnifica bambina. E magari anche l'unica. Magari è un maschio".
"Lo porterai a vedere le partite di baseball?", lo punzecchiò.
Lui accusò il colpo.
"Sei cattiva. Ti ho insegnato bene". Si sorrisero, complici.
"E, quindi, state insieme? Sei felice?". Era una domanda da adulta, che non si era aspettato.
"Ci stiamo provando", le confessò con onestà.
"Non è troppo poco?", chiese lei con altrettanta onestà.
"Forse sì. Ma è quello che abbiamo ora. E se anche non funzionerà, tu e... Rosemary's babyavrete la precedenza, sempre, su tutto", le promise.
Lei sgranò gli occhi.
"Non posso credere che tu l'abbia chiamato in quel modo. Stai parlando di mio fratello! Spera che Beckett non venga mai a saperlo".
Beckett avrebbe finto di arrabbiarsi, ma avrebbe riso. Dio, come gli mancava. Quanto era stato idiota. E lei cocciuta. Ma la voleva esattamente così, cocciuta e insopportabile, e frustrante. Purché rimanesse nella sua vita.

Lettere a Milena

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Capitolo 15
*** Quindici ***


15 Castle

Castle fissava il telefono con aria dubbiosa. Era perplesso.
L'aveva chiamata il giorno successivo al disastro, pieno di entusiasmo e piani per riconquistarla, pronto a fare di tutto per ottenere il suo perdono e lei non aveva risposto. Mai.
Dopo il quinto tentativo di contattarla, Kate gli aveva mandato via messaggio una specie di comunicato stampa in cui dichiarava che era disponibile a fornirgli notizie del bambino - in allegato il calendario delle visite mediche programmate -, e lo informava anche che, come cortesia personale, lo avrebbe tenuto aggiornato sulle sue condizioni di salute, se lo riteneva opportuno. Ma che non la chiamasse, grazie.
Lui non aveva nemmeno saputo cosa rispondere. Era rimasto allibito.
"Vorrà scherzare", si era detto. Ingenuamente.

L'aveva richiamata subito – era ancora online - , ma il telefono aveva squillato a lungo, inutilmente. Non stava scherzando.
Come diavolo era possibile? Che cosa pensava di fare? Non poteva tenerlo fuori dalla sua vita. Non poteva pensare di rispondergli per messaggio vita natural durante. Lui aveva anche dei diritti.
Decise di darle un po' di tempo per farla rinsavire. Forse era ancora arrabbiata, ne aveva ogni motivo. Ma se gli avesse concesso di spiegarsi, se fosse stata ad ascoltare... D'accordo, lui per primo non lo aveva fatto e si era comportato in modo ignobile. Le avrebbe dato spazio. Non più di ventiquattro ore, però. Poi avrebbe fatto ricorso a tutta la sua fantasia e lui ne aveva in abbondanza.
Si sarebbe steso sul suo zerbino a tempo indeterminato. Anzi, no, avrebbe preso in affitto l'appartamento di fronte al suo, per seguirne gli spostamenti. Lo zerbino, forse, avrebbe dato troppo nell'occhio. Ed era scomodo, oltre al fatto che qualche volta ci finivano dei cadaveri.
Oppure avrebbe comprato l'intero palazzo, e lei a quel punto avrebbe dovuto parlargli per forza, almeno per l'affitto e le riparazioni.

Ovviamente non avrebbe fatto niente di tutto questo. Non voleva finire in manette, anche se a quel punto avrebbero dovuto comunicare, no?
Ma era rimasto addolorato dal fatto che non gli volesse parlare, e molto. Non prendeva neanche lontanamente in considerazione l'ipotesi che lei avesse creduto che la rottura fosse definitiva. Andiamo, davvero? Era stato un gesto impulsivo, indotto da emozioni che, in quel momento, non era stato in grado di gestire al meglio. Aveva raggiunto il suo punto più basso e non ne andava orgoglioso, ma di certo non aveva mai avuto intenzione di passare il resto della sua vita senza di lei.
Aveva voluto, irrazionalmente, ferirla con le sue stesse armi. Ed era una cosa che gridava disperazione, non mancanza d'amore. Tutto il contrario.
Adesso, invece, si sentiva pieno di ottimismo e di speranza, in tale quantità da bastare per due. Doveva solo riuscire a farglielo sapere.

Iniziò a scriverle messaggi, se era l'unico modo di comunicare con lei. Era quello che voleva? Bene, sarebbe diventato il miglior messaggiatore al mondo. Esisteva una cosa del genere? Avrebbe inventato la categoria.
Come stava? Bene. Quanto bene? Mangiava? Che cosa? Aveva dormito? Lei rispondeva sempre con molto garbo e distacco, come se gli stesse dando informazioni di volo.
Non perdeva un colpo, non cedeva mai e bloccava ogni suo tentativo di andare oltre. Potevano vedersi? No.
Nessuna spiegazione.
Perché no? Aveva scritto, sentendosi sempre più frustrato.
E lei, di nuovo, aveva risposto, con la solita imperturbabilità, che era disposta a inviargli tutte le informazioni che voleva eccetera.
Si divertiva? Lui no, per la cronaca.
Dovevano giocare a scriversi, come se fossero due adolescenti costretti a trascorrere l'estate separati?

Al distretto non andò meglio. Al numero diretto non rispondeva. Non funzionava, anzi. Lo aveva cambiato? Dal centralino non gliela passavano. Aveva ottenuto un'ordinanza restrittiva telefonica e non lo sapeva? C'era un limite temporale o poteva recarsi in tribunale per rivedere la sentenza? Poteva fare qualcosa per aumentare il punteggio e uscire dalla lista degli indesiderati?
Apparentemente, non c'era niente che potesse fare. Dopo una settimana di tentativi infruttuosi e frustranti era al punto di partenza. Non era riuscito a sentire la sua voce, figurarsi vederla. L'unica soluzione era davvero appostarsi sotto casa sua, ma si rifiutava di metterla in atto. Non potevano non parlarsi, era assurdo! Avrebbe assistito alla prossima ecografia via streaming?
Lei aveva continuato a rispondere imperterrita ai suoi messaggi scritti. Stava bene. Stavano bene. Non chiedeva niente di lui. Se provava a dire qualcosa di divertente, non coglieva l'umorismo. Condivideva informazioni come se fosse un dannato ufficio turistico.
Grazie per aver scelto i nostri servizi. Speriamo di riavervi presto con noi su una delle nostre rotte.

Dopo giorni di noia ed esasperazione, decise di invitare fuori a pranzo sua figlia, l'unico essere umano che aveva voglia di vederlo e parlargli. Dal vivo. Non riusciva a credere a una fortuna del genere. E sarebbe stata l'occasione di staccare la testa per qualche ora. Non era quasi uscito di casa, non aveva scritto più di qualche riga e si rendeva conto di aver preso abitudini pericolose. Tipo addormentarsi con il telefono in faccia o progettare il suo rapimento con tutti i dettagli del caso. Sapeva già dove l'avrebbe tenuta nascosta. Meglio prendere una boccata d'aria.

Mentre camminava di fianco ad Alexis, cercando di farsi coinvolgere dai suoi racconti – nonostante le buone intenzioni non le aveva dedicato troppo tempo nell'ultimo periodo - , e fermamente deciso a godersi la giornata con lei, gli parve di scorgere Beckett in lontananza.
No, si disse. Le allucinazioni non le merito. Finirà che la vedrò da tutte le parti e fermerò le sconosciute per strada, come nei film. Mi rinchiuderanno.

Avvicinandosi – la presunta Beckett era sulla loro traiettoria e stava parlando al telefono, semigirata – continuò a tenerla discretamente d'occhio finché non si rese conto che era proprio lei. L'indiscussa protagonista delle sue ininterrotte elucubrazioni e dei suoi incubi. Incubi classici, materiale base per della psicologia spicciola.
Come prima reazione fu sopraffatto da un irrazionale impulso alla fuga. No, si rimproverò, prima di darsela a gambe. Era un adulto, e non aveva commesso nessun crimine - per quel che ne sapeva, anche se non poteva escluderlo del tutto. Inoltre, lei correva più veloce di lui, nel caso in cui avesse voluto inseguirlo. Alexis non si era accorta del trambusto emotivo da lui vissuto in assoluta impassibilità esteriore.

Kate riattaccò quando erano ormai prossimi a raggiungerla e, mentre rimetteva il telefono in tasca con aria concentrata, si voltò inconsapevole nella loro direzione, bloccandosi all'istante.
Lui si sentì crescere all'istante robuste radici che penetrarono l'asfalto, rendendogli impossibile qualsiasi movimento. Lei si guardò intorno freneticamente. Non voleva incontrarlo, era evidente. Stava cercando un modo per smaterializzarsi e non cedere all'ineluttabilità del caso. Alla fine si rassegnò. Non poteva semplicemente voltarsi e scappare, immaginava che lo considerasse scortese nei confronti di Alexis, che era fuori dal circuito restrittivo. Incollò gli occhi ai suoi, con sguardo di sfida. Non diminuì la distanza. Lasciò che lo facessero loro.
"Ehi", fu l'unica cosa che disse, evitando di incontrare il suo sguardo, ma sorridendo a sua figlia, che aveva finalmente capito di trovarsi in mezzo a una situazione imbarazzante, ma senza sapere come tirarsene fuori. E lui non riusciva a far altro che stare in silenzio, fissarla e attendere, in apnea.
"Ciao, Kate", la salutò Alexis, con garbo. "Congratulazioni per...", continuò facendo un gesto con la mano nella sua direzione, senza riuscire a completare la frase.
Kate si mise una mano sopra la lunga giacca che indossava, sorridendo timidamente. Per un fugace momento, gli sembrò che qualcosa la stesse illuminando da dentro, era scomparsa la solita espressione severa, chiusa. Non riusciva a credere a quello a cui stava assistendo.
"Grazie. Sei molto gentile", rispose con gratitudine. Forse si era chiesta come l'avesse presa Alexis, che cosa ne pensasse di tutto quel pasticcio in cui l'avevano coinvolta. Mere supposizioni da parte sua.
"Io... entro a prendere posto", dichiarò Alexis con decisione, indicando il locale alle loro spalle. Non era il luogo che avevano scelto per pranzare. Evidentemente, anche lei aveva pensato che la fuga fosse l'unica soluzione.
Rimasero soli. Beckett tornò a irrigidirsi immediatamente, si voltò nell'altra direzione e cominciò a dare segni di impazienza.
"Sto lavorando", lo mise al corrente, allontanandosi di qualche passo. "Devo andare". Brusca e di poche parole.
Ciao, ti trovo bene, sono contento di vederti.
Fece finta di non aver sentito. Di certo non poteva perdersi questa provvidenziale occasione di intrattenersi personalmente con lei.
"Come stai?", chiese, concedendosi, per iniziare, una domanda banale, come se lei fosse stata un raro uccello esotico che, al primo approccio sbagliato, se ne sarebbe volato via, spaventato.
Lei lo guardò di sfuggita. Lesse del di timore, nei suoi occhi. Era possibile? Le faceva questo effetto?
"Bene. Sto bene", rispose con nervosismo.
"E... il resto?", proseguì senza specificare di cosa stesse parlando, solo fissando una parte del suo corpo.
E vide di nuovo quel sorriso pieno di calore. Di tenerezza. Sembrava felice. Allora non aveva sognato. Era effettivamente diversa. Questo voleva dire che la situazione iniziava a piacerle? E per quale dannato motivo lui non poteva viversi tutto questo?
"Va bene anche il resto", lo informò con dolcezza.
Rimasero zitti. Castle si accorse che lei si stava preparando ad accomiatarsi, senza aver voluto saper niente su lui. Era chiaro che ambiva solo ad andarsene. E l'avrebbe fatto a breve, se lui non si fosse inventato velocemente qualcosa per trattenerla.
"Vuoi unirti a noi? È ora di pranzo e...". Sì, giusto. Poteva metterla sul piano del nutrimento, mangiare per due, eccetera.
"No", tagliò corto. "No, grazie, ho già mangiato", si affrettò a rassicurarlo.
Non era capace di mentire e lo sapevano entrambi.
"Devo andare. Mi ha fatto piacere vedervi. Saluta Alexis da parte mia".
No, non l'avrebbe lasciata andare via così, perdendosi la sua unica possibilità. La vide allontanarsi senza nemmeno aspettare la sua risposta, e non riuscì più a sopportare questa situazione di falsa cortesia in cui lei li aveva condotti.
"Kate", la chiamò alzando la voce, per farsi sentire, e la vide trasalire, prima di voltarsi riluttante di nuovo verso di lui.
"Possiamo prendere un caffè? Cinque minuti? Parlare?", si sentì proporre con voce ansiosa.
"Io non bevo caffè", gli ricordò, fredda. Se prima era un'estranea, adesso era un'estranea in collera con lui. E solo per un invito. Figurarsi tutto il resto.
"Kate. Per favore".
"Devo andare".
"Non devi andare!"
"Castle, io sto lavorando".
"Non mi parli", affermò, semplicemente, lasciando perdere le tattiche e andando al cuore del problema.
"Ti parlo, Castle". Lo chiamava per nome. Era una cosa incoraggiante, no? Patetico da parte sua consolarsi con quello, ma non poteva fare diversamente.
"Non è vero che mi parli. Mi fai la rassegna stampa".
"Anche quello è parlare", gli spiegò puntigliosamente. Come faceva a comunicare con questa donna? Era impossibile.
"Vorrei parlarti a voce". Si sentiva ridicolo e infantile, ma non sapeva che cos'altro fare.
"Castle, io non ho davvero tempo per tutto questo. Hai diritto a essere messo a conoscenza di tutto quello che riguarda il bambino, e infatti ti tengo al corrente. Non ti devo altro. E adesso, se vuoi scusarmi, ho da fare".
"Kate, non possiamo ridurci a questo".
Lei fece un passo nella sua direzione, furente. Almeno aveva provocato una reazione.
"Tu ci hai ridotto a questo. Io sto solo accettando le tue decisioni. Credi che mi diverta?"
"Ho solo bisogno di comunicare con te senza litigare". Sventolò una bandiera bianca immaginaria.
"E io ho solo davvero bisogno che mi lasci in pace".
"Non posso farlo! Non riesco a stare senza di te!" Tutta la verità urlata dal bordo di un marciapiedi affollato in orario di punta.
Lei gli lanciò un'occhiata così gelida che lui si sentì trapassare da parte a parte. L'ira funesta di Beckett stava per abbattersi su di lui.
"Non me ne importa niente di cosa puoi o non puoi fare tu. Mi hai lasciato. Sei andato via. L'hai deciso tu. Ora devi accettare le conseguenze".
Non poteva crederlo davvero. Non l'aveva lasciata.
"Ok. Ho sbagliato. Tutto. Non volevo lasciarti, non è andata così. Possiamo riparlarne? Rivederci?"

Almeno era riuscito a dirglielo.
Lei lo fissò incredula e quasi schifata, come se lui fosse un grosso insetto orribile.
"Castle, non lasci una persona e poi ritratti. Certe parole hanno un effetto sulla realtà. Tu hai voluto chiuderla e io ho dovuto imparare ad andare avanti. Ed è stata dura. Ma adesso sto bene. Non puoi piagnucolare perché vuoi indietro il tuo giocattolo. Ho già un bambino a cui pensare, grazie".
"È anche il mio bambino. Non puoi impedirmi di... parlargli. Deve sentire la mia voce". Andava a ruota libera, ormai.
"Mandami una registrazione. O, ancora meglio, perché non chiedi l'affidamento anche del mio corpo, già che ci sei? Tanto vuoi già portarmi via nostro figlio appena nasce".
"Lo farei, se si potesse", gridò lui ormai alla sua schiena.
Ok, non era stata la sua migliore performance, rifletté entrando a testa china nel locale per recuperare Alexis. Sperò si fosse persa quel patetico spettacolo.

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Capitolo 16
*** Sedici ***


16 Beckett

Era pomeriggio inoltrato, nello studio del dottor Burke. Beckett era seduta di fronte a lui in silenzio, dopo avergli raccontato del suo casuale incontro con Castle.

Le sedute, due volte la settimana, avevano cominciato ad assumere un ritmo abitudinario che lei aspettava sempre con un misto di impazienza e fastidio.
Le odiava, in parte, perché lo psichiatra, con il suo fare pacato e non giudicante, la costringeva a mettersi a nudo e la obbligava ad analizzare parti di sé che avrebbe preferito tenere nascoste.
Allo stesso tempo, le amava perché trovava rilassante e liberatorio parlare a ruota libera proprio con qualcuno di pacato e non giudicante. E che, soprattutto, lei non poteva intimidire in nessun modo. Ci aveva provato, certo. Lei era maestra degli interrogatori, sapeva benissimo che tattiche usava lui e le rispediva al mittente, una dopo l'altra.
Aveva passato i primi incontri volendo dimostrare che, tra loro, lei era quella più brava. Che era brava, in generale. Non era forse una persona con un ferreo controllo sulla sua vita? Che ci provava, almeno. Non era magnifica nel capire le persone e rimetterle al loro posto?
No, in realtà, lui non era affatto né impressionato, né intimorito. Era completamente impermeabile a ogni suo tentativo di trasformarla in una battaglia dialettica. Dopo un'ora la salutava e lei si congedava con le pive nel sacco.
Lui voleva sapere altro rispetto a quello che lei poteva permettersi di confessargli. E i due piani non collimavano. Non voleva un resoconto logico e razionale sulla sua vita. Scavava più a fondo, con quelle domande all'apparenza neutre, ma sempre pericolose. Lei non era pronta a raccontare davvero se stessa.

Un giorno, con sua grande sorpresa, si era trovata seduta sulla solita poltrona a piangere tutte le sue lacrime, mentre lui, in silenzio, le aveva offerto fazzolettini di carta, senza chiederle niente. Un'ora di pianto senza che nessuna parola intercorresse tra di loro.
Era uscita di lì finalmente rilassata, senza il solito macigno sulle spalle. Dall'appuntamento successivo aveva iniziato ad aprirsi. Sul serio, senza filtri. Parlava di Castle, soprattutto. Della sua famiglia, dell'infanzia, l'idea della gravidanza, i suoi timori. Di come si proteggeva, del perché lo faceva. Di come tenesse il fucile puntato contro chiunque comparisse in fondo alla sua proprietà e di come si rifugiasse nelle sue resistenze. Diceva a parole di voler essere felice, ma sempre con il dito pronto sul grilletto, pronta a far fuori le persone prima che la facessero soffrire. Lui pazientemente, districava i suoi grovigli, uno per volta. Era un lavoro lungo e faticoso, che spesso le faceva venire voglia di mandare tutto all'aria, ma la volta dopo era di nuovo lì, pronta a ridursi in pezzi e a rimetterli insieme.

Dopo l'incontro con Castle era andata direttamente da lui. Fortunatamente era il giorno giusto della settimana.

"Perché non lo vuole incontrare?", chiese il dottor Burke con il solito tono imperturbabile, che con il tempo aveva imparato ad apprezzare.
"Perché non è giusto. Ha scelto lui di voltarmi le spalle e adesso deve assumersi la responsabilità delle sue azioni".
"Lo sta punendo per averla lasciata?"
Ehi. Come si permetteva?
"No, non è una punizione", meditò ad alta voce, un po' alterata. "Deve imparare che le azioni hanno delle conseguenze. E questo, anche se non gli piace, è il risultato di quello che ha fatto lui".
Le parve di recitare una lezione che, a furia di venire ripetuta, aveva cominciato a perdere di senso. Eppure ci credeva, fermamente.
"È una sorta di insegnamento morale a cui vuole iniziarlo, quindi?"
Lei ebbe il dubbio che la stesse prendendo garbatamente in giro, ma lui aveva come sempre un contegno molto serio e professionale. Non riuscire a capirlo era una delle cose che le provocavano più frustrazione.
"No, si tratta di logica. Non mi ha voluto, adesso non può vedermi. Non può avere entrambe le cose, solo per capriccio".
"Quando si tratta di relazioni umane, la logica dovrebbe rimanere fuori".

Soppesò le sue parole, prendendosi tutto il tempo di cui aveva bisogno. Ecco un'altra cosa che amava. Qui non si sbagliava, mai. E si poteva riflettere prendendosi il tempo necessario. Senza fretta. Senza fare danni, ferire qualcuno, non essere all'altezza delle aspettative.
"Questo che cosa vorrebbe dire?", le uscì con un tono più arrogante di quello che avrebbe voluto. Ogni tanto la parte di lei sospettosa e chiusa tornava farsi viva per proteggerla. "Che la gente può farci quello che vuole e noi dobbiamo accettare tutto? Mi ha lasciato. Minacciato. È stato orribile. Lo è ancora. Non gli permetterò di farmi del male un'altra volta".
"Non può tenerlo fuori dalla sua vita. Avrete un bambino insieme. Dovrete prendere degli accordi".
Il puro odio che le faceva venire con le sue frasi piene di buonsenso rischiò di soffocarla.
"Lo facciamo. Lo tengo informato su come procede la gravidanza. Non c'è motivo per cui non si possa continuare così anche quando sarà nato".
"È così che vuole vivere? È questo il rapporto che vuole avere con lui?". Era una domanda da cui trapelava genuino interesse, non giudizio. Lo apprezzò.
"No, certo che non è quello che voglio. Io volevo continuare a stare con lui. Ma ha deciso lui per tutti, io non ho avuto nessuna voce in capitolo. Mi ha lasciato lui", ripeté per l'ennesima volta. Da quando lo aveva detto ad alta voce la prima volta, provava una specie di sollievo nel continuare a farlo. Lo rendeva meno brutale. Più accettabile.
"E quindi torniamo alla punizione. Vuole stare con lui, ma quando ne ha l'occasione, non accetta, per non dargliela vinta".
"Non stiamo parlando di vittorie o sconfitte. Non è questo il piano del discorso", rispose piuttosto sgarbata.
"Davvero?".
"Poteva pensarci prima". Ecco il punto. Si stava forse vendicando? Iniziava ad anticipare le obiezioni dello psichiatra.
"Kate, sta lasciando che il suo amor proprio diventi padrone della questione?"
Che uomo insopportabile.
"Non si tratta di amor proprio! Si tratta di me, che sono una persona. Mi vede? Sono qui in carne e ossa. Ho dei sentimenti. Lui li ha calpestati e adesso arriva e mi dice 'Mi sono sbagliato, non posso stare senza di te, parliamo'. Vorrà scherzare. Non può trattarmi così. Se lo scorda".
"A me sembra si tratti di amor proprio".
"Non lo è affatto! È protezione. Lui se va in giro con un coltello con il quale mi pugnala. Io mi sposto dalla traiettoria. Per sempre. È semplice. Non mi sembra così sbagliato".
"Il mondo e le persone non sono sempre nemici da cui difenderci. Lui può aver sbagliato. Può essere stata solo una decisione impulsiva. Ma non lo saprà finché non vi parlate. Non tornerete mai insieme, se non gli dà neanche un'altra occasione".
"Non voglio tornare con lui!"
"Ha appena detto che vuole stare con lui".
Maledetto uomo pieno di logica. Lo odiava.
"Sì, lo vorrei. In un mondo ideale in cui prima non mi ha piantato in asso".
"È una situazione in cui non può vincere nessuno. Non si può tornare indietro e far svolgere le cose in un altro modo. È successo, ne prendiamo atto. È stato doloroso. Lui vuole recuperare la situazione. Lei che cosa vuole fare? Dargli una possibilità o chiudere la porta a doppia mandata? Perché continuare a dire che non doveva fare quello che ha fatto non la fa andare da nessuna parte".
"Non posso lasciarmi ferire di nuovo. Non posso permetterlo. Sono stata troppo male. Sto ancora male. Non posso vivere tutto questo un'altra volta".
La vera Kate era riuscita finalmente a farsi strada, sotto alla Kate che stava martellando i chiodi nella palizzata.
"Sta comunque soffrendo, anche adesso".
"Io non so se lui voglia tornare con me. Magari siamo qui a fare dei ragionamenti che non hanno nessun fondamento", cambiò radicalmente discorso, dopo aver tirato un filo del suo maglione, per evitare di rispondere alla sua affermazione purtroppo vera. Sì, stava soffrendo.
"Ha detto che ha sbagliato e non può stare senza di lei. Mi sembra un'ammissione forte".
"Ma che cosa significa?! Che ogni volta che farò qualcosa che non andrà bene lui mi mollerà su due piedi? Che se ne andrà offeso?! Ho bisogno di una persona che rimanga per sempre".
"Nessuno può darle questa garanzia".
"Quindi cosa si fa, nella vita? Ci si fa ferire? Si danno altre occasioni a persone sbagliate? Non ci proteggiamo in qualche modo?".
"Proteggersi è sano. Barricarsi dietro a una corazza, no".
"Sto bene dietro al mio muro. Non fa male".
"Però non vive".
"Quindi è questa la vita? Farsi spezzare il cuore, di continuo?".
"La vita è trovare un equilibro tra amare e sapere di poter essere amati, ma anche di poter essere feriti, di fare solo un pezzo di strada insieme a qualcun altro, di poter essere abbandonati, di poter essere felici, di cadere e ricominciare e di imparare sempre qualcosa di nuovo e di utile. A volte a pugni in faccia. Ma dietro a un muro, non succede niente di tutto questo, purtroppo. Capisco che sia allettante rimanere in una bolla priva di emozioni. Ma non è vita. Non succede niente. Qualche volta è necessario avere un momento di tregua, concordo. Ma non può essere il modo cui scegliamo di condurre un'esistenza degna di questo nome. Le persone ci lasciano. Muoiono. O sbagliano e cercano di rimediare. O stanno con noi, a modo loro. Che magari è il massimo che possono dare. Oppure sono stronzi e dobbiamo allontanarli. Ma non per principio, non aspettandoci che ci facciano necessariamente del male. Perché, indovini? Poi ce lo fanno davvero, se ci fissiamo solo su quello".
Era un discorso molto lungo, per essere uno che ascoltava e basta. E aveva colpito nel segno.
"Dovrei vederlo, secondo lei? Dargli un'altra chance?".
"Non posso essere io a sceglierle. Io dico che lei deve decidere se vuole tornare nel mondo, e accogliere il rischio di amare e farsi amare e insegnarlo a suo figlio. O rimanere dove è adesso, anestetizzata. Che si tratti di Castle o meno.".
"Io ho voluto anestetizzarmi perché non sarei riuscita ad andare avanti, altrimenti", si giustificò per l'ennesima volta.
"Lo so. Ma si arriva a un certo punto in cui bisogna rituffarsi, dopo aver imparato a nuotare, consapevoli di quello a cui si va incontro. Ma non si può rimanere attaccati alle boe. Può, certo. Ma non è quello che auguro a una donna giovane come lei".
"Non sono pronta". Le costò moltissimo ammetterlo. Si sentiva esposta e vulnerabile e si muoveva su un terreno che non le era familiare.
"È già onesto dirlo".
"Ma non voglio rimanere sempre aggrappata alle boe", puntualizzò, assecondando la metafora nautica. "È solo troppo presto".
"Arriverà il momento giusto. L'importante è decidere quale è il suo traguardo".
"E se lui non mi vorrà più? Se avrò sprecato troppo tempo?".
"Non ha sprecato tempo. L'ha usato per guarire".

Nei giorni successivi Beckett aveva ripensato a lungo alle parole del dottor Burke. Non voleva tuffarsi da una scogliera molto ripida senza vedere il fondale. Era certa che si sarebbe schiantata. Quasi certa. E, infatti, per qualche tempo non aveva fatto niente, aveva continuato la sua vita e non si era mossa dalla sua zona sicura.
Da qualche tempo, però, una parte non così in minoranza dentro di lei, premeva per farsi notare. Aveva voglia di vederlo, era forse un crimine? Dai, Kate, mandagli un messaggio. Che cosa ti costa? Era una voce insistente e fastidiosa, che aveva cercato, senza successo, di soffocare e che adesso la martellava senza interruzione. 
A un certo punto, non aveva più trovato scuse abbastanza convincenti per non farlo. 
Se prima aveva cercato motivi per non contattarlo, adesso gliene servivano di validi per non ammettere che desiderava semplicemente vederlo. Si diceva che era necessario per il bene del bambino: era giusto che avessero dei buoni rapporti, invece di litigare davanti a povere anime innocenti non ancora nate. Del resto, non aveva forse ragione a pensare che quel bambino aveva sentito i suoi genitori discutere, per la maggior parte del tempo? O li aveva visti lontani? Che idea avrebbe mai potuto avere delle relazioni umane?
Una mattina la parte ribelle di lei si svegliò, prese il telefono e, senza nessuna remora, gli mandò un messaggio. Poi le sorrise beffarda. E da allora viveva con le farfalle nello stomaco.

Castle

"Caffè. Cinque minuti".
Questo diceva lo scarno testo del messaggio che Castle aveva appena ricevuto da Beckett e che non riusciva a smettere di rileggere. Quando, dove, come? Subito?

Doveva prepararsi, non poteva arrivare senza aver bene chiaro in mente che cosa le avrebbe detto. Era la sua unica occasione. Si sarebbe spiegato, con toni pacati, ragionevoli e avrebbe dominato le emozioni.
Avrebbe tenuto a freno la sua natura e non l'avrebbe spaventata. Avrebbe fatto tutto con calma. Ecco, la parola chiave era proprio calma. Avrebbe pensato molto bene a ogni frase prima di esprimerla e avrebbe ascoltato attentamente quanto aveva da dire lei. Anzi, avrebbe registrato la conversazione e l'avrebbe riascoltata a casa, prima di fare qualche altro danno. Avrebbe risposto poi, con tutto il tatto del mondo.
Si sarebbe legato a un palo per implorarla di tornare con lui. No, no, no. Doveva tenere sotto controllo la sua mente per evitare che gli suggerisse idee come quella. Che, a ben vedere, era efficace e sintetica. Però forse non era esattamente il modo giusto per non intimorirla. Sospirò. Rispose al messaggio.

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Capitolo 17
*** Diciassette ***


17

Beckett

Si erano dati appuntamento in un caffè qualsiasi, uno scovato per caso durate un'uscita pomeridiana lavorativa. Non era uno dei "loro posti". Era neutro. Nessun ricordo da rovinare, nel caso fosse andata male.
Quando fu sul punto di varcare la soglia del locale, lievemente in anticipo, si tirò indietro. Le veniva da vomitare, ma non per la solita nausea, quella era passata. Era scossa da continue ondate di adrenalina che andavano necessariamente placate o avrebbero certamente fatto nascere un bambino iperagitato. Meglio prevenire.

Si guardò intorno. Vide un muretto che poteva fare al caso suo, davanti a un'aiuola poco distante. Decise di sedersi lì per qualche istante, giusto il tempo di fare qualche respiro profondo, sempre tenendo d'occhio la porta. Così sarebbe rimasta padrona della situazione e avrebbe deciso quando incontrarlo, nel momento in cui fosse arrivato.
Infilò la testa tra le ginocchia, sorreggendola con mani tremanti di agitazione. Non seppe per quanto rimase in quella posizione finché, improvvisamente, non scorse un bicchiere di carta comparire nel suo campo visivo. Insieme a un paio di gambe. Si raddrizzò di colpo, pronta a dirne quattro al malcapitato disturbatore, quando si accorse che era Castle che le sorrideva in quel modo che la faceva sciogliere ogni volta.
"Grazie. Ma io non bevo caffè e... ", balbettò cercando di recuperare un tono dignitoso.
"Non è caffè. Lo so che non lo bevi". Scoprì che non era insensibile nemmeno alla sua voce calda e carezzevole. Che cosa le stava succedendo? Erano gli ormoni? Dubitava di arrivare viva alla fine dell'incontro.

Prese il contenitore che le porgeva, stando molto attenta a non sfiorarlo.
"È frullato al cioccolato", la informò, sedendosi vicino a lei.
"Perché l'hai portato? Dovevamo bere un caffè, cioè lo dovevi bere tu. Voglio dire, si supponeva che entrassimo dentro a un bar e che le cose ce le portassero loro. Non tu". Le sembrava un discorso dotato di una certa logica, anche se espresso da una persona in evidente stato confusionale.
"Ho pensato che magari avresti avuto voglia di fare una delle tue maratone, invece che startene seduta al chiuso, quindi mi sono presentato con i viveri".
"Maratona?". Era lei a non essere molto presente o lui stava straparlando?
"Come quella che mi hai costretto a fare da casa tua a Central Park, qualche mese fa". (*)
Oh. Adesso ricordava. Ripensando a tutta la strada che avevano percorso a piedi, per lo più in silenzio con lei che non smetteva di camminare e lui muto accanto a lei, ma con un'espressione via via sempre più provata e allarmata, le venne da ridere.
Cominciò a ridacchiare nascondendosi dietro a una mano e poi scoppiò in una risata irrefrenabile, che le fece venire le lacrime agli occhi, mentre lui le allungava un fazzoletto di stoffa perché se le asciugasse.
"No. Niente maratona. Te lo prometto", riuscì a dire, mentre cercava di riprendere fiato.
"Preferisci rimanere qui?"
"Se per te va bene".
"Sicura che non sia una proprietà privata e che non ci arresteranno?"
"Tranquillo, Castle, al limite ti tiro fuori io di prigione".
Stava flirtando con lui? E dove erano finite le sue resistenze, le corazze, i tentativi di proteggersi? Questo non era essere cauti. Era infilarsi dritta nei problemi.

"Grazie per avermi voluto incontrare dal vivo". Le sembrò stranamente timoroso, molto trattenuto e controllato.
"Io... vorrei che ci parlassimo, Castle. Ma parlare davvero. Senza litigare. Lo dobbiamo a qualcuno che non siamo noi due. Se però sei venuto fin qui per accusarmi o per minacciarmi di portarmi via il bambino, me ne vado. Fammi mandare una lettera dal tuo avvocato".
"No, nessuna minaccia, te lo prometto. Anche io voglio parlare con calma".
"Ok. Bene. Comincia tu. Dall'inizio".
Lui guardò dritto davanti a sé per un qualche secondo e poi esordì con un "Ti amo" - voltandosi poi a guardarla-, che le fece venire un tuffo al cuore.

"Castle, questo non è iniziare dal principio. È saltare direttamente alla fine", rispose con voce severa.
"Sei d'accordo anche tu che finirà così, vero? Prima però dobbiamo fare quelli che si amano, ma fanno finta di no, giusto? Cioè uno dei nostri classici", le rispose in tono esultante, abbandonando l'aria da cucciolo del canile.
Lei scoppiò a ridere di nuovo. Non ce l'avrebbero mai fatta.
"Non può funzionare così. Smettila di farmi ridere. Sii serio".
"Guarda che io non ti faccio ridere. Sei tu che ridi da sola, da quando sono arrivato, come se fossi sotto l'effetto di qualche sostanza stupefacente. Sprechi così i cinque minuti d'aria che mi hai concesso. Sono molto offeso".
Lei gli fece cenno di proseguire, incapace di parlare, ridendo convulsamente.

Castle

Cercò di radunare i suoi pensieri. Non aveva una strategia. Non sapeva che cosa dire. Non aveva preparato discorsi a cuore aperto. E non sapeva nemmeno se fosse utile chiarirsi, spiegare, parlare allo sfinimento, cercare di ricondurre a immagini verbali sentimenti, emozioni e azioni non spiegabili dalla logica. Era stanco di tutto questo. Lui voleva stare con lei. Punto. A qualsiasi costo e sapendo che, per come erano fatti, sarebbero successe ancora le stesse cose, altre volte, ma non significava che non potessero stare insieme. Lui non poteva immaginare la sua vita senza di lei. Per il resto non voleva avere ragione o mostrarle il suo punto di vista, i motivi che l'avevano spinto a fare quello che aveva fatto. Non perché non avesse senso. Proprio perché ce l'aveva. E perché, alla base, loro erano destinati a stare insieme, con tutte le crisi che potevano starci, in mezzo. Si sarebbero scornati, ma lui non sarebbe andato mai da nessuna parte. Nemmeno per salvarsi. Questa situazione lo aveva dimostrato. Come poteva trasferire tutto questo a parole, soprattutto se lei intendeva dargli battaglia su ogni frase, sfumatura o nesso logico non esattamente rigoroso e ben fondato? Vuoi avere ragione o essere felice? Ecco, lui voleva essere felice. Con lei.

Si girò verso di lei, intenta a bere il suo frullato e guardare la gente passare, e le chiese a bassa voce: "Possiamo rimanere così? In silenzio? Solo stando vicini?"
Lei si mostrò sorpresa, probabilmente si era aspettata di essere sommersa di parole, discorsi. Gli era mancata così tanto che voleva solo godere della sua compagnia. Dopo qualche istante di riflessione Kate appoggiò la testa sulla sua spalla. Non era arrabbiata, quindi. Fu felice di scoprirlo. Aveva temuto si imbarcassero nell'ennesimo round di recriminazioni rabbiose e duelli dialettici.
Rincuorato, le passò un braccio intorno alle spalle, meravigliandosi di quanto gli venisse naturale e quanto fosse facile comunicare senza realmente parlarsi. La sentì abbandonarsi contro di lui.
"Ho pensato che fossi morta quando ti ho vista nel mirino di Lockwood", le confessò bisbigliando, invogliato ad aprirsi dalla loro silente intimità.
"Mi dispiace", mormorò Kate di rimando, con lo stesso tono di voce. "Mi hanno dato della altre mansioni, adesso. Montgomery mi ha convocato nel suo ufficio il giorno successivo al mio incidente. Non corro più nessun rischio", lo informò, ammettendo esplicitamente per la prima volta che sì, il pericolo era stato reale.
"E com'è? Intendo, com'è non stare in mezzo all'azione".
"Terribile. Noioso", confessò. "Ma sono contenta di farlo, non mi pesa", si precipitò ad aggiungere.
Lui la strinse per farle capire che aveva compreso. E che non la stava giudicando. Non c'era bisogno di essere così sulla difensiva. Non era lì per accusare nessuno, questa volta.
"Anche io sono stato convocato da Montgomery".
Lei si meravigliò. "Per quale motivo? Che cosa vi siete detti?".
"Niente che la parola "minaccia" non possa contenere. Io davvero mi chiedo se non facciate tutti Corleone di cognome. Qualche volta mi sembra davvero di aver disonorato la sorella di qualcuno".
"Se ci chiamassimo Corleone non saresti qui vivo a parlarmi".
"Vero. Sarei da qualche parte nell'oceano, con i pesci a banchettare".

Silenzio. Ancora.
Beckett si staccò da lui, incrociando le gambe sul muretto con difficoltà e mantenendosi in precario equilibrio.
Castle capì che era arrivato il momento dei discorsi seri e si preparò ad ascoltarla.
"Sto vedendo... una persona", confessò un po' imbarazzata.
Lui sentì i pesci muoversi affamati sul suo cadavere. Si era aspettato qualsiasi cosa, ma non questo.
"Un terapista", specificò vedendolo boccheggiare.
Castle ricominciò a respirare.
"Beckett, vuoi uccidermi?! Sono cose da dire?! Mi hai fatto prendere un colpo!".
"Scusa, Castle, vuoi che in tutto questo io esca con un altro uomo? E chi si prenderebbe una donna incinta?".
"Primo, non si vede. Secondo, nessun uomo sano di mente non ti vorrebbe, in qualsiasi circostanza. Quindi, vediamo di non far morire di spavento il titolare". Si sventolò tentando di placare i sintomi da infarto in corso.
"Cioè adesso saresti 'Il titolare'?".
"Sì, tra le altre cose". Marito, per esempio.
"Grazie per non aver detto quello che dicono tutti", continuò lei, incerta.
"Cioè?"
"Mettere in discussione la mia scelta di iniziare una psicoterapia".
"Dipende. È dalla mia parte?".
"Sì, spesso. È odioso".
Castle si mise a ridere. Doveva mandare dei fiori a quell'uomo. Forse meglio un accappatoio di lusso?
"E aiuta?", le chiese tornando serio, perché intuiva che Beckett si stesse muovendo su un terreno molto scivoloso, conoscendo la sua natura.
Lei faticò a rispondere, come sempre quando si toccavano argomenti personali che la mettevano in crisi.
"Sì. Penso di sì. Anzi, sicuramente sì".
Castle aspettò che continuasse a parlare, senza incalzarla.
"Ero convinta di averla delusa. Parlo di mia madre. Sono un poliziotto, e in tutti questi anni non ho risolto l'unico caso che mi stava veramente a cuore. Ecco perché... mi butto a capofitto quando compare all'orizzonte", confessò con grande sforzo.
"Non puoi averla delusa, lo sai".
"È come se per tutto questo tempo mi fossi nascosta dietro a un muro, impedendomi di avere il tipo di relazione che desideravo, finché non avessi risolto il caso. Solo che ora...".
"Ora?"
"C'è qualcosa che viene prima. E non parlo del bambino. Che viene, ovviamente, prima. Parlo di noi".
Noi. Il pronome magico che gli apriva le porte della speranza.
"Non voglio mettere in pericolo la nostra relazione, per qualcosa che è successo nel passato", aggiunse con ansia.
Relazione. Non storia.
"E l'hai capito andando da lui?".
"Sì, questo e altre cose".
Altro che accappatoio, gli avrebbe comprato un intero ranch. Sentì che era arrivato il suo momento di mettersi a nudo.
"Ho vissuto male il fatto che tu non volessi il bambino". Finalmente riusciva a confessarglielo.
"Ma... non hai mai detto niente!"
"Lo so. Non pensavo di potermi permettere di dire qualcosa a riguardo. Era una tua scelta". Fece una pausa, prima di continuare. "Ho pensato che significasse che non volevi avere una famiglia con me. O me e basta".
"Ma non ha niente a che vedere con quello che io provavo per te. E provo".
"Lo so. Intendo, lo so adesso. E quando mi è sembrato che ti trascurassi, ho avuto paura che un altro dei miei figli dovesse vivere l'esperienza di non essere amato dalla propria madre. Come credo succeda ad Alexis, anche se non lo dimostra".
"Alexis è felice. Hai fatto un ottimo lavoro con lei", ribatté Kate con forza, prima di capire fino in fondo il significato delle sue parole. "Quindi mi hai paragonato a Meredith?"
Gli parve lievemente offesa.
"No, è stata mia madre".
"Tua madre pensa che io sia Meredith?"
"No, mia madre mi ha aiutato a comprendere che avevo fatto questa associazione inconscia. E, ti assicuro, mi ha fatto ampiamente capire che stavo sbagliando. Non potreste essere più diverse".
Kate meditò sulle sue parole, prima di rispondere.
"È vero che all'inizio non lo volevo. Ero spaventata e per carattere non sopporto di non avere il controllo della situazione. Ma non ho mai fatto niente, consapevolmente, per fargli del male. O perché me ne volevo liberare. E adesso... gli parlo. Lo chiamo 'Bambino'. Con la lettera maiuscola", lo informò orgogliosa.
Lui sorrise al pensiero.
"Non devi giustificarti".
"Non mi sto giustificando. Voglio solo che non ci siano incomprensioni tra noi".
Lo stesso valeva per lui.

"E si vede, adesso, sai? Anche da vestita".
Beckett si alzò in piedi e si slacciò la giacca, entusiasta come una ragazzina, in piedi davanti a lui, sempre seduto su quel muretto da cui temeva che da un momento all'altro qualcuno sarebbe arrivato a scacciarli.
Si tirò i lembi della camicia con le mani, lisciando le grinze, per mettere in mostra la pancia. "Vedi?", gli chiese elettrizzata, guardandosi da sopra e sporgendosi in avanti.
Era euforica come non l'aveva mai vista e dovette trattenersi perché cominciava a emozionarsi, nel vederla così bella e feconda. Lo avrebbe deriso nei secoli.
"Io non vedo niente. Forse dovevi metterti un cuscino", la punzecchiò.
"Dai, Castle, concentrati. Appoggia le mani. Senti".
Non era pronto a fare una cosa del genere. Era troppo... intimo, in strada, poi. Era qualcosa che l'aveva sempre infastidita. Che adesso fosse lei a chiederglielo lo lasciava sgomento e senza sapere bene come reagire.
Ma lei era impaziente, e quindi, con una certa ritrosia, lasciò che gli guidasse le mani dove pensava che si potesse sentire la differenza, verso i fianchi.
Per quanto lo riguardava, non gli sembrava così diversa dall'ultima volta che l'aveva sbirciata senza farsi accorgere, ma era ormai in quello stadio in cui cominciava a vedere un tunnel di luce aprirglisi dinnanzi e dei cori angelici chiamarlo verso un mondo di beatitudine. Avrebbe ammesso qualsiasi cosa, anche di sentilo muoversi, pur sapendo che era ancora troppo presto. Gli andava bene tutto. Anche se avessero rapito la precedente Beckett. Questa di ora gli andava benissimo.

"Ok, adesso basta o sembreremo due attori di una telenovela", gli disse ridendo, tornando a sedersi sul muretto accanto a lui.
Il sole iniziava a tramontare e lui si chiese se dovessero stare per sempre lì in quella terra di nessuno, in cui evidentemente riuscivano a capirsi tanto bene. Vendevano degli appartamenti, in zona?

"Ho paura di morire".
Una confessione inaspettata da parte di lei che lo sbalordì e lo sconvolse.
"Ho paura che il bambino viva la mia stessa esperienza. Forse per quello non volevo affezionarmi all'idea che... ci fosse".
Era commosso dal fatto che lei avesse deciso di aprirsi così tanto, senza che lui si scorticasse vivo per riuscire ad avvicinarsi, come era sempre successo tra di loro. Più di tutto, era sopraffatto dalla sofferenza che l'aveva abitata senza che lui se ne rendesse conto.
"Non morirai. Non morirà nessuno dei due. Vedremo crescere i nostri figli, e avremo così tanti nipoti da comporre una squadra di calcio. Diventeremo un clan potente e uccideremo la gente", le rispose con foga, desiderando solo poter cancellare dalla mente di lei l'immagine che gli aveva appena descritto.
"Castle, non puoi saperlo".
"Invece lo so. Sono veggente. E, se anche non lo fossi, ti giuro che non ti lascerò morire. Mai. Sono il tuo partner. Ti guardo le spalle".
Gli sorrise, ne fu rincuorato. "Non mi dispiacerebbe una squadra di calcio, in effetti. Tranne la parte in cui diventiamo una famiglia mafiosa che ammazza la gente".
Perché no? Sarebbero stati bravi anche in quello.

Era il momento di andare fino in fondo.
"Ho avuto paura di dover crescere questo bambino da solo. È una cosa che mi spaventa e che non voglio più fare, a meno che non sia necessario".
"Castle, non c'è neanche una possibilità al mondo che tu lo cresca da solo. Non che tu non sia bravo, anzi. Ma non lascerò mai mio figlio per andarmene chissà dove. Te lo prometto".
Si voltò verso di lui. "Quindi anche tu eri spaventato, quando l'abbiamo scoperto?"
"Certo che sì. Sono terrorizzato a morte per la maggior parte del tempo. Fin dall'inizio".
"E perché non me lo hai detto? Eri sempre entusiasta e rassicurante".
"Pensavo fosse mio dovere sostenerti".
"A discapito del tuo stato d'animo?"
Annuì.
"Rick, io non voglio un uomo perfetto. Voglio un essere umano con cui confrontarmi. Non uno che soffoca se stesso per il mio bene. Anche perché, direi che il risultato non è stato esaltante. Guarda come ci siamo ridotti".
Non aveva affatto torto.

L'oscurità si fece viva all'improvviso. Le temperature erano scese parecchio. Forse non era il caso che rimassero all'aperto. O si stava di nuovo comportando in modo troppo apprensivo?
Kate si alzò in piedi, allacciandosi la giacca che aveva lasciato aperta, mentre lui l'aiutava a togliersi i capelli dal colletto. Un altro gesto che gli era mancato.
Lei si fermò come le braccia a mezz'aria, come se si fosse dimenticata una cosa importante.
"Castle, promettimi una cosa".
"Tutto quello che vuoi".
"Non ricominciare a voler fare l'uomo perfetto".
"Ok. Prometterò solo cose di nessuna importanza".
"Voglio che il nostro bambino abbia un'infanzia come quella di Alexis. Piena di giochi, misteri e magia. Io non posso farlo. Tu sì. È la cosa che desidero di più per lui".
Castle rimase in silenzio, fingendo di guardarsi attentamente le scarpe perché altrimenti non avrebbe retto all'emozione.

L'aveva riaccompagnata in taxi, più tardi, mentre lei protestava che in fondo casa sua non era così lontana, non voleva farsela a piedi? Lui aveva grugnito e l'aveva infilata di forza sul sedile posteriore, senza nemmeno sfiorarla, nonostante tutte le immagini non esattamente caste, o materne, che gli stavano venendo in mente.
Adesso erano di fronte al portone del suo palazzo e lui non sapeva cosa fare. Si erano detti molte cose, ma a che punto erano? Stavano insieme? Poteva baciarla? Che era poi il punto che gli interessava di più, tra tutti.
Gli sembrava di essere al primo appuntamento, e si stava chiedendo oziosamente se avrebbe baciato subito una Beckett appena conosciuta e che avesse accettato di uscire con lui.
Certo che sì. Neanche da chiederselo.
Anche lei gli sembrava un po' imbarazzata, non sembrava così ansiosa di salutarlo e tornare a casa, ma non lo stava nemmeno invitando da lei.
Quindi, come si superava l' impasse?
Castle decise che avevano recuperato abbastanza terreno perché il loro rinnovato rapporto potesse sopportare un passo falso. E poi la desiderava, non la vedeva da troppo tempo.
Le si avvicinò, le mise un braccio intorno a un fianco e la tirò contro di sé in un unico gesto avido. Lei non si ritrasse e non si ribellò e, anzi, non sembrò affatto disdegnare l'approccio, visto che se la ritrovò tra le braccia sorridente e con gli occhi chiusi, il viso proteso verso di lui e rilassata al punto che dovette spostare il baricentro per sostenerla.
Decise di non abusare di tanta fortuna, e si limitò a passarle una mano tra i capelli, lentamente, godendosi il gesto prima di darle un unico bacio leggero, appoggiando le labbra sulle sue senza muoverle, solo per sentirne la morbidezza e riassaporare finalmente il contatto con lei.

Gli bastava sapere che non lo aveva allontanato per sempre. Il resto sarebbe venuto dopo.
Lei rispose al bacio con molta meno pazienza e alla fine dovettero smettere per non sembrare due dodicenni alla prima cotta.
"Non possiamo ricominciare da dove erano rimasti, vero?", le bisbigliò all'orecchio senza nascondere le sue intenzioni.
"No", rispose prevedibilmente lei, continuando a farsi abbracciare e a farsi sostenere.
"Devo mandarti un foglio con scritto 'Vuoi metterti con me?' seguito dalle due caselle 'Sì' e 'No' da barrare?", scherzò lui, sicuro che avrebbero ritrovato la loro strada verso casa.
Lei si mise a ridere, districandosi dal suo abbraccio. "Potresti provare, Castle. Ma non posso anticiparti la risposta".
Lo guardò con un'espressione che a lui parve davvero innamorata. E, questa volta, ci credette.

Beckett era già ormai sotto le coperte, senza aver ancora smesso di sorridere con fare sognante, quando le arrivò un messaggio.
"Vuoi metterti con me? Sì. No".
Si tirò le coperte sopra la testa, come quando era adolescente e non voleva farsi scoprire dai suoi genitori, desiderando invece rivivere in tranquillità e solitudine un particolare momento di felicità e digitò in risposta: "Ti amo anche io".

* Eventi occorsi nel prequel, che ripubblicherò la prossima settimana

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Capitolo 18
*** Diciotto ***


18

Castle
Castle entrò nella stanza avvolta dall'oscurità. Si mosse a tentoni, andando a memoria e sperando di non inciampare in qualche spigolo, fino a che non trovò l'ampio letto posizionato al centro. Scostò cautamente le lenzuola. Sperò di non averla svegliata.

Avevano deciso di festeggiare negli Hamptons il compleanno di Kate. Era stato un suo preciso desiderio e, dal momento che non aveva mai preteso di mandarlo in giro di notte a cercare improbabili gusti di gelato, era stato più che felice di accontentarla, anche se – dal suo punto di vista - metà novembre non era la stagione più adatta per apprezzare quello che gli Hamptons avevano da offrire.
Lei aveva sostenuto che l'oceano in inverno aveva un certo fascino e lui aveva abbandonato agi e comodità urbane per passare un weekend tra nuvole basse e fredda aria salmastra.

Era passato a prenderla al distretto, la sera precedente. Si erano sentit entrambi straniti ed emozionati all'idea di rivivere le atmosfere dei loro primi momenti insieme.
Non riusciva a credere a tutto quello che era cambiato nel frattempo. Lei, soprattutto.
Alla ragguardevole cifra di venti e passa settimane, non aveva più bisogno di sporgersi per far notare la pancia, che era ben visibile al mondo intero.
Il bambino aveva cominciato a dare chiari e imperiosi segni della sua presenza. Castle temeva che avesse preso un po' dei tratti dispotici della madre, ma si guardava bene dal fare alcun commento a riguardo.

Aveva scoperto che, inaspettatamente e con sgomento, non ricordava niente della sua esperienza con Alexis, nonostante avesse proclamato ai quattro venti che lui era il Sussurratore di Neonati.
Per questo motivo, quando lei, durante una cena a un nuovo ristorante, solo qualche settimana prima, si era bloccata spaventata a metà di una frase, bisbigliando: "Castle, credo di averlo sentito. È stato una specie di battito", e l'aveva guardato in cerca di aiuto, lui non aveva capito di cosa stesse parlando. Pensava avesse avuto un'extrasistole. Stava già chiedendo il conto e trascinandola al pronto soccorso.
Gli era sembrato ancora troppo presto e, invece, i blog a tema maternità che aveva iniziato a seguire in incognito, per non farsi cogliere impreparato su cosa aspettarsi quando si aspetta - gli piaceva moltissimo usare questa citazione -, gli avevano confermato che era il periodo giusto perché il nuovo membro della famiglia cominciasse a dire la sua. E, infatti, non aveva più smesso.

Kate, spesso, non riusciva a dormire perché "il circense", come lo chiamava, aspettava che sua madre si placasse, prima di darsi al suo allenamento quotidiano. Di notte, preferibilmente. O quando mangiava qualcosa di dolce.
Ecco perché, una volta arrivati a destinazione, aveva ignorato le sue proteste e aveva preferito spedirla di sopra a recuperare il sonno perduto la notte precedente, soprattutto in vista delle giornate impegnative che avevano davanti. L'indomani sarebbero arrivati gli invitati, ovvero tutte le persone a cui volevano bene, riunite sotto lo stesso tetto. E senza nemmeno poter andare in spiaggia. Se fosse morto qualcuno avrebbero blindato la villa e sarebbe arrivato un investigatore belga con la testa a forma di uovo a interrogarli uno per uno. Sarebbe stato magnifico. Tranne per il morto, ovviamente.

Le cose al distretto erano tornate gradualmente alla normalità, dopo la loro riappacificazione. Anche se Beckett non poteva più partecipare alla parte più dinamica del caso, chiedeva sempre il suo aiuto quando c'era qualche teoria da elaborare. Il problema era che, dopo aver ricostruito la struttura dell'omicidio, cosa che non mancava di far provare loro una sottile eccitazione, era a Ryan ed Esposito che toccava il compito di uscire ad arrestare il colpevole, mentre loro due rimanevano seduti alla scrivania, un po' dispiaciuti.
Avevano però scoperto che c'era una sorta di rilassante intimità nello stare da soli mentre gli altri erano fuori a fare quello che andava fatto, soddisfatti di aver risolto un altro caso grazie all'unione delle loro menti brillanti.
Se la prendevano con calma e si raccontavano, in sostanza, i fatti loro. Qualche volta, Montgomery aveva letteralmente dovuto toglier loro la sedia da sotto il sedere e spedirli a casa. Era la prima volta che gli capitava. Era convinto che, con il tempo, qualsiasi relazione si sarebbe spenta o che, quantomeno, sarebbero terminate le cose da dirsi. Al contrario, sembravano non riuscire a smettere di parlarsi.

Erano partiti in anticipo, non perché dovessero preparare la casa per l'arrivo degli ospiti, come avevano annunciato ufficialmente. A quello avevano già pensato elfi invisibili.
La verità era che aveva la sensazione di non averla mai abbastanza per sé, nonostante ormai Kate passasse molto tempo al loft e stessero spesso insieme durante il giorno. Oltre alle interruzioni dovute a incombenze lavorative, aveva iniziato a notare qualcosa accadere in lei con sempre maggiore frequenza, qualcosa che non riusciva a spiegarsi.
Improvvisamente sembrava assentarsi e perdersi in un mondo a lui precluso, trasformandosi sotto ai suoi occhi. Una luce sembrava trasfigurarle i lineamenti da dentro, sorrideva a se stessa con occhi dolci, abbassando lo sguardo, come se fosse impegnata in lunghe conversazioni silenziose nella sua testa. Sembrava imbambolata. E lontana.
Lui la richiamava, e lei si riscuoteva e ricominciava a parlare con lui come se non fosse mai andata via.
Le aveva chiesto più volte che cosa succedesse, a che cosa pensasse in quei momenti, voleva essere partecipe. Gli aveva risposto, con grande naturalezza, di avvertire una specie di legame, o sintonia, che le faceva percepire i pensieri del bambino, ai quali lei rispondeva. Non ci trovava niente di strano.
In effetti, era ovvio e scontato che la donna più concreta e scettica al mondo credesse nella comunicazione telepatica con qualcuno che non era ancora nato.
E di che cosa parlavano?, le aveva chiesto molte volte, facendo finta che tutto questo fosse normale.
Di niente, rispondeva vaga. Le venivano in mente filastrocche di quando era piccola, gli raccontava quello che stava facendo, qualche volta gli leggeva i titoli degli articoli di giornale, ma non doveva pensare che parlassero in senso stretto, quanto che si presentassero spontaneamente nella sua mente pensieri già formati, che non le sembrava provenissero da lei e che interpretava come una sorta di comunicazione ancestrale con il bambino, con cui del resto condivideva un corpo.
Come se questa, invece, fosse una spiegazione logica.

Fuori era già calata la notte, rendendo l'atmosfera molto diversa dalla loro prima volta lì, principalmente perché lei non era nella camera degli ospiti ma nel suo letto. Ufficialmente e in pianta stabile. E lui poteva entrare nel suddetto talamo quanto gli pareva, anche di giorno. Soprattutto di giorno.
Finalmente i suoi occhi si erano abituati alla luce quasi assente della stanza. Iniziava a riconoscere la sagoma degli oggetti e quella del corpo di lei, che era distesa immobile sul fianco sinistro.
Sperando di non disturbarla, l'avvolse in un abbraccio da dietro, facendo aderire i loro corpi e nascondendo il volto tra i suoi capelli, stesi a ventaglio sul cuscino.
Non esattamente il modo migliore per non infastidirla, ma, da quando si erano finalmente ritrovati - definitivamente, sperava -, non riusciva a smettere di toccarla. Temeva sempre di arrivare a un punto in cui avrebbe oltrepassato il limite della sua tolleranza e lei lo avrebbe minacciato con una mazza da golf, ma, al momento, sembrava invece apprezzare molto le sue assidue attenzioni che, anzi, ricercava.
A volte, quando credeva che lui dormisse, l'aveva sentita allungare una mano per accertarsi che fosse vicino a lei, un tocco lieve, quasi impercettibile. Non sapeva se fosse un gesto volontario o se le capitasse durante il dormiveglia. O dopo un brutto sogno.
Avevano trascorso un cauto periodo di riavvicinamento, da un lato emozionati come se stessero uscendo insieme per la prima volta, ma, al contempo, timorosi di fare un passo falso e di ferirsi, e farsi ferire, di nuovo.
Lui aveva cercato di evitare di partire con il suo solito entusiasmo che spianava le montagne e lei si era davvero impegnata a non chiudersi in se stessa, ma a farlo partecipe dei suoi sentimenti e stati d'animo. Vedeva ancora il dottor Burke. Erano più che altro chiacchierate "di mantenimento", come le chiamava lei.

"Castle", mormorò con voce stanca e assonnata.
"Scusa. Ti ho svegliato?", le chiese a bassa sfiorandole la nuca con le labbra, vicino all'attaccatura dei capelli.
"Mmh".
"Era un sì o un no?".
"Era un no, perché non sono riuscita a dormire. Tuo figlio trapezista non ha smesso un attimo di muoversi".
"È quel momento... ?".
"Sì, è assolutamente quel momento. Dammi la mano. Forza", gli ordinò arrivata al limite della sopportazione.
Grazie all'aiuto delle sue nuove amiche dei blog, come le chiamava Beckett - via, un uomo in attesa in un forum di future madri come poteva non diventare la mascotte del gruppo?-, aveva scoperto che, qualche volta, le mani dei padri potevano far miracoli per calmare le evoluzioni dei piccoli saltatori. Lui per primo non ci aveva creduto. Dove era finito il buonsenso? Doveva essere una leggenda metropolitana.
Una sera, mentre si preparavano per andare a dormire, glielo aveva raccontato solo per mostrarle un nuovo caso di pazzia collettiva, ma figurati Beckett se questa cosa funziona, dove è finito il rigore scientifico, che differenza ci sarà tra la mia e la tua mano, e, al massimo è la mano della madre che calma il bambino, riconoscendola invero per una certa di continuità fisica, aveva blaterato con tono di superiorità, andando avanti per parecchio tempo. Cogliendolo impreparato, Miss Concretezza gli aveva afferrato la mano e se l'era messa sulla pancia. Con suo sbalordimento e grande soddisfazione di Beckett, aveva davvero funzionato. Il bambino si era calmato.
Da allora, nei momenti di crisi, quando arrivava allo stremo della stanchezza, richiedeva con insistenza i poteri miracolosi della sua mano, facendolo sentire più un dispensatore di sollievo che un uomo che, un tempo, era riuscito ad affascinarla per ben altre caratteristiche.
Anche questa volta seguirono lo stesso copione. Una volta appoggiata la mano sulla pancia, Beckett riuscì finalmente a rilassarsi. Avrebbe fatto un calco della sua mano e l'avrebbe donato alla nazione, casomai servisse ad allietare altre future madri.

Beckett
Si girò sulla schiena, sospirando quando i muscoli indolenziti si rilasciarono al contatto con il materasso.
C'era qualcosa di vagamente decadente nello starsene sdraiata a letto prima di cena, in un giorno settimanale. La vecchia Beckett non lo avrebbe certamente apprezzato, ma ormai le capitava così spesso di sentirsi stanca a metà giornata da considerare un vero lusso poter sonnecchiare insieme a Castle in un posto confortevole e privato dove nessuno li avrebbe disturbati. Era un tipo di vicinanza che aveva iniziato ad apprezzare, soprattutto da quando viveva in una casa piena di gente.
"È tutto pronto?" domandò oziosamente. Era felice di non doversi occupare di niente, per una volta.
"Sì, ho scaricato i bagagli, controllato le stanze, dato la cera, pulito le grondaie, scavato una galleria sotto all'oceano, trovato il petrolio ed è tutto sotto controllo. Inoltre, piove. Ho acceso il caminetto di sotto".
Si era sbagliata. Adesso era veramente perfetto.
"Che peccato. Volevo andare a fare una passeggiata sulla spiaggia", lo punzecchiò.
"A novembre?"
"Ti informo che i luoghi di villeggiatura estivi non smettono di esistere quando arriva l'autunno".
"Fa freddo, è umido e non si può fare il bagno".
"Hai una piscina riscaldata".
"Wow", le sorrise sorpreso, alzando un sopracciglio, ma molto ben disposto al cambio di programma. "Leggo tra le righe un certo invito di natura viziosa?"
Lei ridacchiò: "Non così tra le righe. Ho solo una pancia, non ho subito una lobotomia. Apprezzo ancora i piaceri della vita".
"Allora... più tardi... dopo che avremo raccolto le conchiglie...", la invitò con voce suadente, baciandola sul collo in modo tutt'altro che casto, allontanandole con le labbra lo scollo ampio della maglietta, che le era già scesa su una spalla.
"Io non raccolgo le conchiglie. Non ho cinque anni", ribadì Kate ridendo, mentre lui le aveva già chiuso le labbra in un lungo bacio, a cui lei rispose con entusiasmo. Forse Castle avrebbe capito che, tutto sommato, il mare d'inverno lontani dalla civiltà e senza nessun altro impegno che quello di far passare il tempo, non era così male.
In una casa deserta. E i cellulari al piano di sotto. E sul tetto si sentiva la pioggia cadere in modo regolare.

Qualche tempo dopo, sentendosi decisamente rinvigorita, allungò una mano per accedere la lampada dal suo lato del letto. La luce calda illuminò la stanza. Lanciò un grido soffocato. Vicino alla porta c'era un enorme oggetto non meglio identificato.
"Cosa sarebbe quella mostruosità?!", gli domandò con il tono autoritario che usava negli interrogatori.
Castle si voltò a controllare che cosa avesse attratto la sua attenzione.
"Ah, quello. È il tuo regalo di compleanno".
"Mi hai regalato un serpente? È un'altra delle idee che ti hanno consigliato le tue amiche del forum?"
"In effetti... sì", ammise imbarazzato sotto il suo sguardo implacabile.
"Ok, non voglio sapere altro. La gente, e tu soprattutto, non avete una vita. Dimmi cosa ci fa nella nostra camera quell'animale orrendo, che farà riferimento sicuramente a qualcosa che trovi molto divertente, ma che io non capirò e sono già stanca adesso di tutta la faccenda", concluse con un gemito di frustrazione.
"È un cuscino", le spiegò quando si fu finalmente zittita.
"Il serpente è un cuscino?". Aprì un solo occhio a guardarlo.
"Non è un serpente! Ok, ricominciamo. È un cuscino per dormire molto utile, dicono, in gravidanza. Non sto scherzando, vai a leggere le recensioni su Amazon, se non ti fidi".
Lei si tirò su, incerta. Castle era andato a recuperare il serpente e lo aveva appoggiato in mezzo a loro. Era perfino più ingombrante di quello che aveva immaginato.
"E a che cosa dovrebbe servire?"
"Adesso è ancora presto, ma, a quanto pare, andando avanti con le settimane, la pancia comincerà a pesare e tu potresti avere mal di schiena".
"Ho già mal di schiena", gli ricordò.
"Ecco, in sintesi questo cuscino ti aiuterà a trovare la posizione adatta per sostenere la schiena, la pancia e tutto il resto. Contenta? Nella scatola ci sono le istruzioni".
Lei non era ancora del tutto convinta, ma poi fece qualche prova e si accorse che non era una una delle solite stramberie di Castle. Al contrario, era qualcosa di realmente funzionante nel mondo delle persone dotate di senno.
"Grazie. Sei stato molto dolce", mormorò ammorbidendo il tono. "Ma mi auguro che non sia il regalo per il mio compleanno".
"Non è ancora il tuo compleanno", precisò lui. "Ti ricordo però che hai insistito perché non ti facessi nessun regalo, perché eri contenta di quello che avevi, il sole, il mare, le stelle sopra di noi, e l'imperativo morale dentro di noi, eccetera. Ti sto citando".
"Sai, Castle? Comincio a capire perché tu abbia divorziato due volte".
Ricevette in cambio una smorfia che la fece scoppiare a ridere.

Tenne tra le braccia il cuscino, riflettendo in silenzio. "È il primo oggetto che compri che abbia per tema la mia gravidanza. Lo so che finora ti sei sempre trattenuto, andando contro la tua natura".
"Certo, mi hai vietato di fare qualsiasi cosa. Questo bambino verrà al mondo in una mangiatoia e non avremo nemmeno di che vestirlo".
Sorrise, ma rimase saggiamente in silenzio. Le lanciò un'occhiata severa.
"Che cosa mi stai nascondendo, Beckett? Hai svaligiato i negozi dimenticandoti di avvisarmi? Ti giuro che se è così vado in città e compro tutto quello che ho sulla mia lista. Ora".
"Tu hai una lista?", si incuriosì.
"Certo. Sono un uomo ordinato e previdente. E poi ci sono aggeggi elettronici che non vedo l'ora di provare. Hanno inventato cose meravigliose per neonati, mi sono documentato", si infervorò.
"Ok, non voglio sapere niente". Lo fermò prima che partisse in quarta. "E no, non ho comprato niente nemmeno io. Ho solo...", si fermò, titubante.
"Solo?"
"Niente di importante. Un vestitino di quando ero piccola. Il primo che ho indossato. Me lo ha dato mio padre quando sono passata a trovarlo per... informarlo", concluse un po' imbarazzata.
Le strinse una mano. "È una cosa bellissima! Glielo metteremo quando lo porteremo a casa dall'ospedale. Gli faremo un sacco di foto. Un poster, anzi. Metteremo te neonata insieme a lui, vestiti allo stesso modo. Sei d'accordo per una gigantografia?".
No, non esagerava proprio mai.
"Castle, è tutto rosa".
"Quindi?"
"Avremo un maschio".
"Beckett, non credevo che proprio tu facessi discriminazioni di genere", si finse indignato.
"Certo che no", replicò offesa. "Vuoi davvero vestirlo di rosa?". Non sapeva mai quando scherzava e quando no. Anzi, il rischio con lui era proprio che non scherzasse ma che andasse fino in fondo alle sue teorie più folli.
"Lo vestiremo di rosa. Daremo un segnale forte alla società. Saremo i fautori del cambiamento", declamò ispirato.
Doveva fermarlo prima che iniziasse a mettere i manifesti.

...

Come aveva sempre sostenuto, contro ogni logica, ma intimamente sicura della sua idea, il bambino era un maschio. Ne avevano avuto la certezza da poco e lei ancora provava l'impulso di fuggire nel ricordare tutta la vicenda.
Tutto era iniziato tutto quando, a una visita di controllo, Castle si era fatto dare il cellulare del suo ginecologo. A quanto pareva, il giovane medico era riuscito a conquistare la sua fiducia, nel tempo. Erano diventati grandi amici, così sosteneva Castle, ma lei non conosceva l'opinione del ginecologo a riguardo. Lo aveva tempestato di messaggi con il preciso intento di cogliere l'istante esatto in cui il sesso del nascituro sarebbe stato visibile. Non che avesse preferenze, sosteneva. Purché fosse sano, eccetera. Però voleva saperlo e il prima possibile.

Quando Kate aveva iniziato a notare gruppetti di persone che quotidianamente al distretto, con aria distratta, si fermavano a studiarle la forma della pancia o le facevano domande un po' troppo mirate, aveva deciso di averne abbastanza. L'aveva trascinato in un angolo e gli aveva intimato di non inventarsi nessun giro di scommesse, perché non era un atteggiamento serio, la gente le stava dando sui nervi e lei -anzi tutti - erano lì per lavorare. Ed era maschio, glielo aveva ripetuto all'infinito, perché non si fidava di lei?
Lui aveva annuito con aria molto compunta, le aveva risposto che non aveva alcun motivo di preoccuparsi per le scommesse, lui non ci aveva assolutamente pensato, sarebbe stato decisamente scorretto. Scommettere sul sesso del loro bambino? Anzi, del bambino che l'intero distretto considerava un po' come il proprio, avendo visto nascere il loro amore tra una scrivania e l'altra?
Lei aveva grugnito e l'aveva mollato a blaterare ispirato di grandi storie d'amore che nascono in posti impervi, così come la ginestra fa tra i sassi, e se ne era andata a finire di fare il suo lavoro.
Era assolutamente certa che fossero andati avanti a scommettere sotto al suo naso, ma erano stati molto discreti. Lei non era mai riuscita a coglierli sul fatto.

Il giorno dell'appuntamento, deciso di concerto tra lui e il medico - probabilmente in base a qualche forma di divinazione sciamanica sulle fasi lunari -, era arrivata alla porta dello studio già stremata da un Castle in evidente surplus di zuccheri, che non la smetteva un attimo di parlare. In sala d'attesa gli aveva messo una mano sulla bocca, minacciandolo di legarlo, imbavagliarlo e richiuderlo nello sgabuzzino, se non si fosse dato una calmata. Ovviamente, non era servito.

Una volta dentro, era riuscito a creare la solita confusione, mentre lei cercava a fatica di seguire il discorso.
Stesa sul lettino, mentre lui faceva cadere inavvertitamente lo sgabello di metallo, aveva passato il tempo a escogitare mille modi di uccidere una persona tra atroci sofferenze. Aveva deciso di soffocarlo ficcandogli un sacchetto di plastica in gola. Questo avrebbe avuto il non trascurabile vantaggio di fargli chiudere il becco una volta per tutte.
Per fortuna il bambino era stato ben disposto a mostrarsi e fu presto chiaro dal monitor, senza alcun dubbio per i presenti, che era proprio un maschio. Lei era ammutolita, turbata all'idea di averlo sempre saputo e di averne solo ora la prova concreta. Si era girata verso Castle, per condividere con lui il momento che aveva atteso con ansia. Invece di trovare un uomo entusiasta pronto ai fuochi d'artificio, lo aveva visto immobile e zitto. Lei e il medico si erano guardati, interrogativi. Le era perfino venuto l'orribile sospetto che lui, in fondo, desiderasse avere un'altra figlia.
"Castle, stai bene?"
Sentendo la sua voce, era sembrato risvegliarsi dal coma. Aveva indicato lo schermo.
"Con le parole se ti è possibile".
"È maschio!", era riuscito a sputar fuori con difficoltà. "È il suo... cioè, lo vedo... guardate lì".
"Sì, è chiaro a tutti in questa stanza che è proprio maschio, non c'è bisogno di specificare". Lui non aveva nemmeno colto il tono sarcastico, imbambolato a fissare l'immagine.
"È un problema?", gli aveva chiesto con cautela.
"No, certo che no", aveva risposto strattonandole un braccio, in preda all'esultanza. "È maschio-maschio!".
E da lì la situazione era degenerata. Prima l'aveva detto a tutte le persone nello studio, poi, al ritorno al distretto aveva dato il meglio di sé: aveva fatto la sua entrata trionfale da rockstar, appoggiandosi allo stipite della porta, impettito come un gallo e aveva tenuto a dire a chiunque passasse di lì che lui, Richard Castle in persona, avrebbe avuto un maschio. Volevano guardare? Tirava fuori l'ecografia e illustrava con dovizia di particolari a un pubblico tra il costernato e l'interessato tutta la mascolinità di suo figlio, al punto che lei si sentiva relegata al mero ruolo di regina consorte procreatrice di eredi al trono.
Aveva lasciato che tenesse udienze nella stanza del caffè, che si godesse il momento, e aveva unicamente rifiutato la sua offerta di incorniciare il sacro reperto, con un cerchio a indicare al prossimo l'esatta appartenenza biologica del loro bambino. Non voleva averlo davanti agli occhi in modo così evidente per tutto il tempo, grazie. E niente foto sui social network.

Era comunque rimasta un po' perplessa all'idea che Castle tenesse tanto ad avere un maschio. Forse aveva a che fare con l'essere cresciuto senza un padre. Non avevano potuto dibattere la questione in modo appropriato perché da subito era sorta la controversa questione di chi avrebbe assistito al parto. Nessuno, aveva affermato decisa. Lui non l'aveva presa bene. L'aveva ferito senza volerlo, lei aveva solo considerato il proprio bisogno di concentrarsi senza distrazioni. Castle avrebbe messo a soqquadro l'intera sala parto, ne era sicura. Non erano ancora arrivati a una conclusione soddisfacente. Ne era dispiaciuta.

...

Dopo il sonnellino pomeridiano erano finalmente riusciti a scendere al piano di sotto per una cena veloce, che lui si era offerto di preparare, come sempre. Era seduta sul divano, con le gambe stese sul tavolino di fronte al camino, persa nella contemplazione delle fiamme. Castle arrivò alle sue spalle portandole una tazza di un intruglio bollente di cui aveva letto da qualche parte le magnifiche proprietà e che lei beveva sentendosi molto assennata, e insieme schifata, mentre lui sorseggiava un bicchiere di vino, con molta soddisfazione personale e invidia da parte sua.
Prima o poi sarebbe tornata in possesso del suo corpo.
Si sentiva calma, rilassata e in pace con il mondo come le capitava molto spesso, se non si considerava l'orribile tisana dall'olezzo indescrivibile che era costretta a trangugiare.

Castle appoggiò il bicchiere di vino, si sporse verso il basso e riemerse facendole cadere in grembo qualcosa di molto appariscente, chiuso da un fiocco sgargiante. La discrezione secondo Richard Castle.
"Questo è il tuo regalo", le annunciò.
"Come posso continuare a non accorgermi che lasci in giro per casa oggetti voluminosi?", si stupì, deviando la conversazione dalla cosa che contava davvero, cioè il regalo stesso. Non era brava in queste cose. Ricevere doni, essere amata, felice.
"Me lo sto chiedendo anche io, Beckett. Dove è finito il tuo spirito di osservazione?".

Le indicò il pacco.
"Aprilo. Stracciando la carta. So che tu sei una di quelle persone che apre i pacchetti meticolosamente".
Lei valutò se tirargli un cuscino, ma preferì dedicarsi a cosa più importanti. Tentò di sollevare la carta con cura, ma si arrese in fretta e la fece in brandelli con grande soddisfazione. C'era davvero qualcosa di liberatorio nel cedere alla curiosità e distruggere le cose con furia.
Si trovò tra le mani una scatola. Era di medie dimensioni, di legno scuro con qualche venatura più chiara.
Il regalo era la scatola o era solo un contenitore? Le sfuggiva qualche strano significato simbolico che lui aveva notato e che si aspettava che lei ricordasse? Perché se era così, temeva di doverlo deludere.
La aprì. Era vuota. Quindi il regalo era la scatola. Anzi, era una specie di baule. Ottimo, non aveva la più pallida idea di quello che significasse.
"È la Nostra Scatola Magica. Maiuscolo, come Bambino", le spiegò Castle.
"Quindi adesso salta fuori un coniglio?", non resistette a chiedere, vedendolo così serio.
"No, perché quelli escono dal cilindro, non dalle scatole. Vuoi sapere che cosa significa, o dobbiamo giocare a chi è più cinico?"
"Ok, ok. Scusa. Vai".
"Questa è la scatola della nostra famiglia. Perché siamo una famiglia, già solo io e te. E so che questi discorsi ti spaventano e non li vuoi sentire, ma adesso li ascolterai fino alla fine. Qui metteremo le cose importanti per noi, i nostri ricordi, oggetti che vogliamo conservare, le conchiglie che so che vuoi raccogliere per farne poi un quadretto, frasi che ci sono piaciute, esperienze, avventure, insomma, tutto quello che ci ha fatto stare bene e che farà parte della nostra storia. Qualcosa che dica che siamo noi. E così costruiremo un serbatoio di cose belle, e nostre, che potremo aprire nei momenti difficili, per ricordarci da dove siamo partiti, e cosa abbiamo costruito, insieme. Per ritrovare la magia e viverla ogni giorno", concluse il suo discorso con un po' di emozione nella voce, attirando la sua attenzione sull'interno del coperchio, dove erano incise una parola "Always" e una data "9 Marzo 2009".
"È quando ci siamo incontrati. L'inizio di tutto".
Kate, che aveva già gli occhi lucidi alla parola "Famiglia" e aveva cercato di trattenersi per tutto il tempo del monologo di Castle, sentì scorrere le lacrime sulle guance e prese a fare dei respiri profondi per calmarsi.
"Beckett, non fai altro che piangere da qualche tempo. Dove è finita la donna tutta d'un pezzo che ho incontrato?", la prese in giro, facendola ridere mentre piangeva.
"Sono gli ormoni, Castle! Lo sai", piagnucolò esprimendosi in modo incomprensibile.
"Mi spiace, non capisco il piantese. Sei tu quella esperta", continuò a scherzare Castle, rendendole in qualche modo possibile recuperare il controllo di sé.
"Ok. Sono calma". Chiuse il coperchio della scatola, fece qualche respiro profondo e si girò verso di lui. "Grazie. Davvero. È un pensiero bellissimo. La terrò, la terremo, con molta cura". Avrebbe voluto dire tante cose, ma rischiava di farsi prendere di nuovo dall'emozione e sperò che lui avesse compreso quello che significava per lei, senza doverlo spiegare a parole. Lui era bravo a farlo, lei no.

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Capitolo 19
*** Diciannove ***


19 Castle

Castle tornò al loft dopo un'assenza di un paio d'ore. Uscì dall'ascensore e si fermò davanti alla porta per qualche secondo,. Doveva farsi coraggio. Sapeva che, una volta dentro, la pace che aveva fin lì assaporato sarebbe finita e lui sarebbe stato risucchiato dalle lamentele di una Beckett al colmo dell'esasperazione.

Non che non la capisse. Dopo aver trascorso le ultime settimane in trepidante attesa, convinta che ormai si trattasse di una questione di giorni, perché come ripetevano tutti, ogni momento poteva essere quello giusto, era, invece, scoccata la quarantesima settimana e non era successo niente.
Nessun falso allarme, dolore o contrazione. Niente.
Avevano iniziato proprio quella settimana a fare i monitoraggi in ospedale a giorni alterni, ma la situazione era rimasta invariata: il bambino se ne stava comodo e pacifico nel ventre materno senza apparentemente avere alcuna voglia di palesarsi. Al contrario dei suoi genitori, che bruciavano dalla voglia di vederlo. Dal vivo.
Dopo aver temuto che potesse nascere troppo presto, erano finiti nel girone infernale delle gravidanze che oltrepassavano il termine.

Beckett, che aveva preso pochissimi chili nel corso dei primi otto mesi, nelle ultime settimane si era notevolmente appesantita. Non come un elefante – come aveva temuto all'inizio -, era ancora al di sotto della media, essendo partita sottopeso, ma era più di quello che aveva programmato e che era disposta a tollerare.
Castle comprendeva perfettamente che per lei si trattasse di una situazione difficile. Lo era anche per lui. A breve il loro mondo si sarebbe capovolto ed erano entusiasti all'idea di cominciare una nuova avventura, insieme. Invece erano costretti ad aspettare. E aspettare.

Lui era il bersaglio costante del suo malumore. "Irritabile" non descriveva pienamente la sua condizione. Era più che altro furibonda con il mondo, reo di essere quello che era. Imprevedibile.
Quel mattino era dovuto uscire per sbrigare alcune commissioni. Avrebbe preferito di gran lunga rimanere con lei, ma doveva ammettere che quelle due ore d'aria erano state un toccasana. Si era quasi stupito di non essere rimproverato per qualsiasi cosa ed era stata una sensazione strana vedersi trattare con garbo e gentilezza. Si sentiva vagamente orribile per avere pensieri del genere. Non era colpa di Kate. Non era colpa di nessuno. L'avrebbe rifatto milioni di volte.

Si stampò un sorriso sul volto, che sperò essere credibile, aprì la porta e la trovò distesa sul divano con sui diversi cuscini posizionati strategicamente tra le gambe e dietro la schiena. Un braccio abbandonato sulla fronte lo avvertì che sarebbe stata un'altra meravigliosa giornata di pessimo umore.

Nonostante non desiderasse altro che tenere tra le braccia il suo secondogenito, era sempre emozionante assistere alla trasformazione fisica che Kate aveva subito nel tempo. Era molto diversa, con le forme arrotondate e la pancia tesa a proteggere il loro bambino. Si sentiva rimescolare ogni volta. Forse era un istinto primitivo. O forse era diventato un feticista delle pance. In quel caso sarebbe stato un vero problema, di lì a poco.
L'unica cosa che mancava a rendere perfetta la situazione era riuscire a metterle un dannato anello al dito, perché lui aveva bisogno di sapere che tra loro c'era un impegno, un progetto visibile a tutti. Fuori e dentro di lei. Kate aveva schivato con destrezza l'argomento, ogni volta che il discorso si era fatto serio.

"Smettila di guardarmi come se fossi una qualche Madonna rinascimentale", latrò quando lo sorprese a guardarla con aria sognante, ancora sulla porta.
Lui trasalì per il brusco richiamo.
"Non ti stavo guardando come...", iniziò a ribattere, ma forse dirle che, per essere un quadro di quel tipo, il bambino avrebbe dovuto essere daquesto lato del mondo, non era il modo più opportuno per migliorarle l'umore.
"Come va?", le chiese facendosi spazio in fondo al divano, nell'unico posto lasciato libero.
"Come vuoi che vada?", fu la risposta funerea, che sentì provenire dall'oltretomba.
Domanda sbagliata. Ma se non si fosse premurosamente informato, lei avrebbe dato il via alle recriminazioni: va bene, trattami pure come se non fossi una persona degna del minimo sindacale della cortesia in uso tra estranei. Sono diventata solo un canguro, per te?

Si prese in grembo le sue gambe e iniziò a massaggiarle le caviglie, risalendo lungo il polpaccio, con gesti lenti e concentrici. Lo faceva spesso per darle sollievo. E anche per motivi egoistici, perché le sue gambe continuavano a piacergli molto. In silenzio.
Aveva dovuto imparare velocemente, nel corso del tempo, a non fare alcun riferimento a lei come donna dotata di qualsivoglia attrattiva fisica, perché gli si avventava contro infuriata. Lui la trovava molto attraente e seducente anche adesso, ma aveva saggiamente smesso di dirglielo.

Kate, grazie ai suoi massaggi, parve riprendersi abbastanza da riuscire a mettersi seduta, aggiustandosi la selva di cuscini che portava sempre con sé.
"Castle, fai qualcosa. Subito", lo implorò con voce lagnosa.
Lui capì subito che cosa intendesse e, come sempre, si sentì impotente. Gli spiaceva che toccasse a lei sopportare tutti i fastidi di quell'ultimo periodo.
"Vorrei davvero poterlo fare. Ma ormai è questione di poco, la prossima settimana al massimo ti indurranno il parto".
Lei lo fissò con lo sguardo omicida che gli rifilava almeno una volta al giorno. Eppure non gli era sembrato di aver detto niente di sbagliato. Era stato paziente e incoraggiante, dicendole che sarebbe finita presto, no?
"La prossima settimana?!", esplose. "Pensi che sia facile per me? Vuoi prendere tu il mio posto?!".
Castle rimase zitto. In una occasione simile le aveva risposto che sì, amore mio, certo che vorrei prendere il tuo posto e toglierti tutto il peso di questa situazione, in senso letterale, e vorrei fare qualcosa di più per aiutarti ma lei lo aveva aggredito verbalmente, sbraitando che era facile parlare così per gli uomini, vero? Tanto loro non avevano un utero e, soprattutto, riuscivano ad allacciarsi le stringhe. Per non parlare di vedersi i piedi. Lei i suoi non sapeva nemmeno dove fossero.
"Ho fatto tutto quello che consigliano. Bevo disgustose tisane di lampone da giorni, ho fatto su e giù dalle scale all'infinito e ho camminato intorno all'isolato per ore. Non funziona niente!"
Annuì, comprensivo. Era vero. Era stato quasi sempre testimone dei suoi diligenti sforzi.
"Ti prego, tiralo fuori. Convincilo", lo pregò, cedendo all'irrazionalità.
"Vorrei tanto, Kate, davvero...".
"Tu ce lo hai messo e tu adesso lo devi far uscire. Ora. Non mi interessa come", gli ordinò, come se servisse a qualcosa.
Poteva chiamare in ospedale e corrompere un qualsiasi medico compiacente perché le praticasse un cesareo nel giro di un paio d'ore? Non conosceva qualche tizio che ne conosceva altri che potevano risolvere la situazione senza fare domande?
"Beh, una cosa rimasta da fare ci sarebbe...", le propose invitante. Gli avrebbe urlato addosso comunque, tanto valeva scherzarci sopra.
Lei lo guardò allibita per la sua sfacciata uscita e poi si mise a sogghignare: "Sì, so che quello..." - faccia disgustata, le sue quotazioni erano al ribasso-, "può far partire il travaglio. Ma non posso credere che tu abbia voglia di una cosa del genere".
"Chi sono io per non agevolare il ciclo della natura? Fa' di me quello che vuoi. Sono il tuo eroe", si propose, bello come il sole. O così sperava. Si rincuorò per averla almeno fatta ridere.
"Aiutami a sollevarmi, devo andare in bagno per la centesima volta, oggi", gli chiese, tagliando corto il discorso, con suo rammarico.
L'aiutò a recuperare una posizione eretta, e lei gli appoggiò una mano sul braccio, prima di uscire dalla stanza.
"Scusami. So di essere insopportabile", gli passò le dita tra i capelli. "Ho solo voglia di vedere il suo viso". Le baciò il dorso della mano e la pregò di non preoccuparsi per lui. La capiva benissimo.

In sua assenza allungò una mano verso il cellulare e scorse meccanicamente le ultime notifiche provenienti dal mondo esterno.
Non si accorse, quindi, del tempo che passava e del fatto che lei fosse tornata e se ne stesse in piedi, immobile, accanto al divano e che lo stesse fissando con espressione allucinata.
"Stai bene? È successo qualcosa?". Era pallida e con gli occhi sbarrati.
"Credo... si sono rotte le acque", balbettò, come se non riuscisse a crederci.
Lui perse immediatamente la testa. "Sei sicura? Era proprio quello?". Come era possibile? Era partito tutto così dal niente?
"Non sono sicura, non ci sono mai passata! Credo di sì. Che cos'altro può essere?"

Castle balzò in piedi, fece cadere il telefono sotto il divano, lo recuperò accovacciandosi, si diresse verso la loro stanza, tornò indietro, andò in cucina, girò su se stesso un paio di volte, dando l'idea di essere un grosso merlo che andava a sbattere continuamente contro un vetro. Nel frattempo continuò a farfugliare frasi incomprensibili, ripetendole di stare calma, andava tutto bene, ma che restasse calma per l'amore del cielo, dovevano solo raggiungere l'ospedale, dove sono le chiavi della macchina , Kate non preoccuparti è tutto sotto controllo, se solo trovassi le chiavi, ma le troverò sicuramente, ora usciamo, stai tranquilla, ci sono qui io, non devi preoccuparti di niente.

Riuscì a placarsi solo quando si rese conto che Kate, molto più tranquilla di lui, si era posizionata vicino all'ingresso tenendo in mano la borsa preparata da giorni, osservando divertita le sue bizzarre esternazioni.
"Ti assicuro che sono molto calma. Ti informo però che se non smetti di dar di matto, chiamerò un taxi e andrò in ospedale da sola".
Con tutta la dignità che gli era rimasta, si sforzò di ricomporsi.

...

Nel tragitto verso l'ospedale Castle aveva insultato ogni altro guidatore che aveva avuto l'ardire di mettersi sulla loro strada, rallentandoli. Le aveva ripetuto infinite volte che avrebbero dovuto usare l'auto della polizia e azionare la sirena, perché doveva essere sempre tanto testarda? Stava bene? Aveva dolori? Chiamiamo un ambulanza?

Kate, invece, gli era sembrata l'essenza stessa della perfetta padronanza di sé, solo lievemente annoiata da tutto il trambusto.
Si era finalmente placato, per quello che gli era stato possibile, solo quando aveva parcheggiato, giungendo a destinazione. Era riuscito a non farla partorire in macchina o dentro a un fosso, privi di rete per il cellulare o corrente elettrica, con lui a dover compiere manovre ostetriche con il solo ausilio di una lampada a olio, dovendo tagliare il cordone ombelicale con un coltellaccio sporco trovato in un canale - che erano gli incubi che lo avevano tormentato nelle ultime settimane, al punto da fargli calcolare più volte il tragitto da casa all'ospedale durante l'orario di punta.
Era così concentrato a raggiungere l'ingresso del reparto, con animo più sollevato, che non si accorse di averla persa da qualche parte nel tragitto. Non era più al suo fianco. Ho smarrito la partoriente, si allarmò. Era andato tutto alla perfezione, secondo i calcoli, e adesso gli mancava proprio la protagonista.
Si girò indietro a cercarla e la trovò seduta sul marciapiede. Che cosa stava succedendo? Non sarebbe mai riuscito a sollevarla da lì.
Tornò sui suoi passi di corsa e si accovacciò di fronte a lei.
"Che cosa c'è? Stai male? Hai le contrazioni? Vado a chiamare qualcuno?", le domandò in tono concitato.
Lei alzò la testa a guardalo e lui si spaventò nello scorgere la sua aria assente.
"Beckett, mi senti?". Era normale? Doveva preoccuparsi?
"Castle. Non posso", mormorò Kate, dopo averlo spaventato a morte fissando il vuoto con occhi vacui.
"Non puoi, che cosa?".
"Non posso partorire adesso". Gli spiegò articolando bene le parole, perché il messaggio gli fosse molto chiaro, come se fosse lui quello ottuso.
"Certo che puoi. Ti aiuto ad alzarti".
"Non mi stai prendendo sul serio. Non voglio alzarmi. Voglio andare a casa. Che cosa non capisci di queste frasi?"
Che adesso si mettesse a dar sfoggio di retorica era il colmo.
"Perché vuoi tornare a casa? Il bambino sta per nascere, qui in ospedale", le ricordò, sentendosi un po' idiota a sottolineare questa ovvietà. Non si era sognato che le si erano rotte le acque, no? Altrimenti che cosa ci facevano lì?
"No, ti sbagli".
Castle valutò se lasciarla lì e andare a chiamare qualcuno o se telefonare al centralino dell'ospedale, avvisando che c'era una donna in stato confusionale che vaneggiava in strada, potevano venire a prendersela?
"Kate...".
"No, Castle, lo so che pensi che sono irragionevole. Ma non lo sono. Io mi conosco. Non sono pronta a partorire adesso. Tutto qui. Quindi, per favore, andiamo via". Continuava a mantenere un tono controllato che lo atterriva.
Doveva darle un colpo in testa? Sarebbe servito?
"Non possiamo andare via, lo sai".
"Sì, invece. È semplice. Non è il momento, ci penseremo più avanti. Mi dispiace averti fatto venire qui per niente".
Adesso gli avrebbe offerto una tazza di tè? Delle tartine?
"Kate, non credo che sia una cosa che si possa scegliere, arrivati a questo punto...".
Aveva anche iniziato ad avere delle fitte dolorose regolari, se ne era accorto dalle smorfie che cercava di trattenere e dalla mano che si premeva sulla schiena. Dovevano andarsene da lì. Come?
Le scostò i capelli dal viso e le prese la testa tra le mani, mentre pensava a cosa dirle per sbloccare la situazione.
"Sei spaventata, lo so. Ma adesso ci alzeremo, entreremo, tu sarai molto coraggiosa come sempre e tra poco avremo il nostro bambino. Non vuoi vederlo?", cercò di essere il più persuasivo possibile, giocandosi la carta emotiva.
"Non posso. Non ce la faccio. Non sono capace", gli confessò con voce soffocata contro la sua spalla.
Ok, quindi il problema era questo. Era terrorizzata. Lo era anche lui.
"Certo che sei capace. Tu arresti i cattivi e li sbatti in prigione. Che cosa vuoi che sia un parto a confronto?" Che cosa ne sapeva lui, tra l'altro? Era un uomo. Che qualcuno venisse a salvarlo.
"Portami a casa, per favore. Per favore". Lo stava supplicando, ormai.
Evidentemente, le sue tecniche non stavano avendo successo. Doveva tentare qualcosa d'altro.
"Kate, guardami". Aspettò di avere un contatto visivo. "Non posso portarti a casa. Devi alzarti subito e farlo nascere. Non si può fare diversamente. Fallo per me", ci riprovò con tono più fermo.
Farlo per lui? Da dove gli era venuta?
Con sua sorpresa, Kate sembrò miracolosamente convincersi e non provò più a opporsi, ma gli chiese soltanto: "Tu non te ne vai, vero?"
Dove voleva che andasse? A ubriacarsi al bar?
"No, certo che non me ne vado. Rimango finché mi vuoi".
"Fino alla fine".
Ok. Wow. Wow. Quindi aveva cambiato idea sul parto e lo voleva con lei. Adesso non sapeva chi dei due fosse meno pronto ad affrontare quello che sarebbe presto accaduto.

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Capitolo 20
*** Venti ***


20

Castle
Quelle che erano seguite erano state le ore più intense e memorabili della sua vita. Avrebbe potuto giurarlo.

Una volta guadagnato l'ingresso dell'ospedale, furono accolti da un medico di poche parole che la visitò sommariamente e la mise sotto tracciato per valutare dilatazione e contrazioni. Se ne andò in fretta, lasciandoli nelle mani di un'ostetrica dal piglio autoritario che Castle ribattezzò subito "Rottermeier". Era di una certa età e stazza – modi spicci e aria arcigna -, per niente impressionata dal grande evento in programma, cioè la nascita del suo prezioso bambino. E Kate? Non vedeva che soffriva? Non poteva essere un po' più empatica, visto il mestiere che faceva?
Nonostante non avesse espresso ad alta voce le sue legittime obiezioni, Rotty gli lanciò un'occhiata penetrante – era sicuro che gli avesse letto nel pensiero – e se andò a sua volta trascinando gli zoccoli sul pavimento, dopo aver laconicamente proclamato un "Ci siamo", che lo confuse ancora di più. Che cosa significava? Solo che non si trattava di un falso allarme o che tra due minuti sarebbe nato? Qualcuno poteva spiegare meglio? Appendere delle istruzioni alle pareti? Doveva chiamare il sindaco? Lo avrebbe fatto, stessero a vedere.
Osservandola scomparire oltre la porta, si sentì stranamente piantato in asso. Kate era invece rimasta in silenzio da quando aveva sentito risuonare il battito forte del bambino, a significare che non stava mostrando nessuna sofferenza fetale. Era rimasta docile tra le mani di quelli che, lui personalmente, considerava dei macellai.

In principio, convinto che lei volesse preservare un certo grado di privacy – era sempre stata molto chiara a riguardo – aveva preferito allontanarsi dalla sua postazione con discrezione, quando l'avevano sottoposta al primo round di visite. Kate lo aveva richiamato e gli aveva intimato di rimanere, quasi in preda al panico. Era stato l'unico momento in cui aveva perso la calma. Era corso da lei, pronto a tenerle la mano e a esaudire ogni suo desiderio.
L'ostetrica, convinta che avesse abbandonato il campo per debolezza, lo aveva apostrofato ironicamente chiedendogli come pensava di sopravvivere fino alla fine, se si impressionava tanto per una visita. Come avrebbe fatto quando sua moglie avrebbe sofferto davvero?
Aveva provato la voglia irresistibile di ribattere che, in primo luogo, non era sua moglie. Anzi, perché non tiravano fuori l'argomento, così magari li avrebbe illuminati con qualche dispotica riflessione sui bambini che vengono al mondo nell'illegalità?

Dopo l'iniziale euforia, le cose proseguirono invece più lentamente del previsto. Scoprirono con rammarico che l'ostetrica aveva semplicemente voluto dire che da lì a qualche punto temporale prima della fine del mondo, Kate avrebbe partorito. Per questo non erano stati mandati a casa ad attendere il momento giusto. All'ingresso in ospedale era dilatata di pochissimo, e, nonostante i dolori fossero diventati gradualmente più intensi e ravvicinati, non c'era stata nessuna progressione significativa.

A intervalli regolari e secondo uno schema che aveva imparato a riconoscere, Castle si accorgeva dell'arrivo della successiva contrazione, spiandola sul monitor. Kate chiudeva gli occhi, stringeva i denti, tratteneva il fiato e si ripiegava su se stessa. Lui moriva un pezzetto per volta, vedendola soffrire senza poter fare niente per aiutarla. Dopo un tempo interminabile, finalmente si rilassava e lui riprendeva le sue funzioni vitali.
Non sapeva come facesse a sopportarlo con tanta compostezza, lui di sicuro avrebbe gridato come un'aquila.

Ogni tanto Rotty si degnava di tornare da loro per controllare la situazione. Aveva parlato un'unica volta, per ordinarle di alzarsi dal letto e camminare, sostenendo che avrebbe alleviato il dolore.
Scommetto che da Guantanamo ti chiamano per avere delle consulenze, aveva pensato Castle, cercando di mantenere un'espressione imperturbabile.

Non sembrava che stare in piedi avesse migliorato la situazione. La differenza sostanziale era che adesso, al sopraggiungere delle contrazioni, si aggrappava al muro e a lui, chiedendogli di premerle con forza le mani sui reni, cosa che lui si affrettava a fare, ricordandosi di averlo visto in qualche film.
Aveva anche iniziato a tremare violentemente nelle fasi più dolorose, convincendolo che ci fosse qualcosa di tremendamente sbagliato in tutta la faccenda. Ma a nessuno sembrava importare delle loro traversie.
Ebbe più volte la tentazione di prenderla in braccio e fuggire per portarla in un vero ospedale, perché non era convinto che quello fosse il tipo di assistenza che un Paese civile dovesse garantire ai suoi cittadini.

Con il passare del tempo, Kate cominciò ad apparire stanca e provata. Nonostante l'ammirevole compostezza fin lì mantenuta, ammise di non farcela più. Che cosa aspettava l'anestesista? Un mandato? Vai a cercarlo, Castle, gli ordinò, facendolo sobbalzare. Non si era aspettato il ritorno della vecchia Beckett in versione autoritaria.
Fece come gli era stato detto. Uscì in corridoio, agguantò il primo medico che si trovava a passare di lì, lo convinse a entrare e infine mandò un messaggio furente al ginecologo di Kate, imponendogli di intervenire o li avrebbe denunciati tutti. Non ne poteva più. Perché non scrivevano anche "Partorirai nel dolore" e "Pentiti di aver commesso atti impuri" sui muri, già che c'erano?

Finalmente, quando erano ormai oltre la soglia della tolleranza, l'anestesista di turno si fece vivo con passo flemmatico. Con comodo. Non voleva fermarsi a fare uno spuntino, prima?
I dolori diminuirono. Kate si rilassò e lui con lei. Stesa sul letto, girata dalla sua parte, i capelli legati, una mano abbandonata tra le sue, riuscì perfino a ricominciare a scherzare.
"Grazie", gli disse con un tono molto dolce che non riconobbe come suo. Perché lo ringraziava?
"Non ce l'avrei mai fatta senza di te", aggiunse. Era vero il contrario, probabilmente.
"Sei stata bravissima, invece. Non so come tu abbia fatto a essere tanto stoica. Io a quest'ora sarei già morto".
"Perché c'eri tu".
L'epidurale doveva averle dato alla testa. Le accarezzò i capelli. Si rese condo ti non averla mai amata tanto come in quel momento, fragile e sfinita tra le lenzuola candide.
Passarono altre ore. Fuori iniziò a imbrunire, scese infine la notte. Non si accorsero di niente. Il loro mondo era limitato alla loro stanza. Parlarono a bassa voce, si sorrisero molto. Lei sonnecchiò e lui appoggiò la testa alle sbarre del letto, per tenerla d'occhio e, in fondo, proteggerla.

Beckett
Era mattina, poco dopo l'alba. Era distesa sul letto, incapace di dormire, la porta chiusa per isolarla dal rumore della attività ospedaliere di routine. Osservava suo figlio, Jamie Alexander Castle, che dormiva quieto tra le sue braccia.
E, quindi, sei tu, Jamie, gli sussurrò, le labbra contro la pelle morbida della fronte.
Provava una curiosa sensazione di familiarità. Le sembrava che ci fosse stato da sempre.
Che cosa ho fatto fino adesso, in tua assenza? Come è passato il tempo?

Il ricordo di quello che era successo la notte prima era vago e confuso. A un certo punto le cose avevano preso il volo, era stata trasportata in sala parto, la stanza si era riempita di gente che gridava ordini Non spingere, Kate, non spingere e poi Sì adesso sì, spingi.
Per qualche istante paralizzante aveva ceduto al panicoperché non capiva come mettere in pratica le istruzioni.
Poi, in un momento imprecisato, e senza sapere come, era scesa dentro di sé in un posto che non sapeva esistesse, oscuro e palpitante, in cui lei e il bambino erano stati una cosa sola. Ne sarebbero usciti insieme, ce l'avrebbero fatta. Era stata raggiunta da un'energia sconosciuta, si era sentita concentrata e imbattibile e aveva dato retta a un istinto potente e irresistibile che la invitava con forza a farlo nascere.
Non aveva più sentito le voci, i rumori, si era si era dimenticata che Castle fosse lì con lei. Di colpo, Jamie era scivolato fuori dal suo corpo, e, con sua incredulità, se l'era ritrovato appoggiato sulla pancia, caldo e vivo.
Era stata davvero capace di farlo? Era proprio il suo bambino?

Nel corso dei mesi si era chiesta spesso come avrebbe reagito quando lei e suoi figlio si sarebbero incontrati per la prima volta, ma non era successo niente di quello che si era immaginata. Non si era commossa, non aveva pianto, Castle non era svenuto – e questo, in effetti, era bizzarro. Aveva solo pensato: "Ci siamo dati appuntamento tanto tempo fa, e adesso ci siamo ritrovati. Perché hai aspettato tanto?"
Il bambino, Jamie, aveva aperto gli occhi e l'aveva fissata con uno sguardo così serio e solenne da arrivarle dritto al cuore e impiantarsi nella sua anima.
Lei, sorprendendo tutti, perfino se stessa, non aveva pronunciato una frase importante e simbolica che suggellasse il loro primo, significativo, incontro, come: "Ciao, sono la tua mamma", o "Eri tu ad avere quei terribili gusti in fatto di gelato?", ma lo aveva guardato per un attimo e aveva esclamato: "Cazzo, Castle, è identico a te!", con una voce talmente venata di rimprovero da far girare molte teste in direzione del padre colpevole lì presente.
Castle si era dovuto difendere da numerose occhiate sospettose balbettando che, magari, era solo un'impressione. Ridacchiò nel ricordarlo. Anche il suo ginecologo, che aveva appena iniziato il turno, era arrivato a dare la sua opinione ammettendo una leggera somiglianza tra padre e figlio.

Non li avevano lasciati soli abbastanza a lungo, dopo che Jamie era nato. La necessità fisica di vicinanza era rimasta inappagata ed era ora il suo più grande rimpianto. Lei avrebbe voluto cacciarli via tutti e chiudere a chiave la porta per avere il tempo di riconoscersi in questa nuova identità. Lei e Castle. Dovevano guardarsi negli occhi e prendere atto di quello che era successo, che li avrebbe cambiati per sempre.
C'era stato solo qualche minuto rubato in cui erano stati loro tre e basta, il bambino ancora disteso su di lei e Castle in silenzio, che non osava toccarlo. Si era limitato a spostargli delicatamente i capelli, che aveva in abbondanza e che sembravano incollati alla testa. Come lui, appunto.
Avrebbero avuto bisogno di calma per riuscire a comunicarsi le emozioni che stavano provando e riunirsi dentro al cerchio magico del loro amore. Le sarebbe soprattutto piaciuto tornare a sentire la voce di Castle, visto che, da quando Jamie era nato, non aveva ancora commentato l'evento. Incredibile da dirsi.

"Io... non riesco...", aveva farfugliato deglutendo, incapace di fare altro che fissarli alternativamente con incredulità e riverenza, come se fossero stati due esseri divini che avevano appena finito di compiere un miracolo.
Irrompendo nella loro bolla senza alcun riguardo, le avevano portato via il bambino per sottoporlo a ulteriori visite. Aveva fatto cenno a Castle di seguirlo. Era la cosa più importante.
Si erano ritrovati più tardi, lei piena di adrenalina e lui esausto come non l'aveva mai visto. Gli aveva suggerito di andare a casa, provare a dormire e tornare al mattino. Aveva calcato la mano per convincerlo, perché si era accorta che lui non avrebbe voluto lasciarla, pur non avendo recuperato la sua solita loquacità. Il che era allarmante. Prima di andare via l'aveva abbracciata forte senza parlare. Aveva capito che era il suo modo di dirle tutto quello che si agitava in lui e che non riusciva a esprimere.

Non era riuscita a dormire. Si era sentita svuotata. Letteralmente. Le era sembrato strano che Jamie non fosse più con lei. Si era toccata la pancia incredula che lui non ci fosse più. A dire il vero, continuava a sentire i suoi movimenti e a pensarsi incinta.
Pensieri che non avrebbe mai pensato potessero ronzarle in testa avevano iniziato a opprimerla. Che cosa farò se gli succede qualcosa? Come farò a renderlo felice? Sono completamente responsabile di un altro essere umano e non ho ancora imparato a esserlo di me stessa. Avrebbe voluto riaverlo dentro di sé, per tenerlo al sicuro. Le mancava. Era qualcosa di indescrivibile che non era ancora riuscita a decifrare del tutto.

Al mattino erano arrivati a portarglielo.
Era stato strano aver cambiato improvvisamente identità. Non era più BeckettKate, o, al limite, Detective. In reparto le chiamavano tutte "Mamma", e per lei era una cosa talmente nuova che quando erano entrati chiedendo della "Mamma di Jamie", non aveva risposto. L'infermiera della nursery aveva ricontrollato il braccialetto, l'aveva scrutata e le aveva domandato se andasse tutto bene. Girandosi per rispondere aveva scorto la culla con dentro il bambino, si era accorta di quello che era successo e si era profusa in scuse.

Voleva godersi ogni istante con lui, prima che numerosi visitatori ansiosi ed entusiasti irrompessero per conoscerlo. Voleva imprimersi nella mente ogni lineamento, ogni piega nascosta, imparare a memoria ogni centimetro del suo corpo, tracciare con le dita il bordo delle minuscole orecchie e delle palpebre e annusarlo nella piega del collo.
Non riusciva a smettere. Era come una droga, ammise con se stessa, accarezzandogli i piedini sotto la coperta.
Stava pensando che forse il momento meritava qualche discorso madre-figlio, tipo "Jamie, tuo padre è molto meglio di me, ma io ti insegnerò a dare la caccia ai cattivi", quando sentì bussare alla porta e vide la testa di Lanie fare capolino.
"Ciao, ti hanno lasciato entrare così presto?". Era contenta di vedere l'amica, ma non le sarebbe dispiaciuto avere Jamie solo per sé un po' più a lungo.
"Ero già qui. Ho portato dei campioni in laboratorio". Fece un gesto con la mano. "Non è vero, volevo essere la prima a vedere Baby Caskett", ammise, concentrata sul bambino, a cui faceva da lontano sorrisi e smorfie.
"Baby Caskett? Usi anche tu quel nomignolo?", le chiese con aria di disapprovazione.
Non l'ascoltò, avvicinandosi al letto."Ma tu sei davvero Baby Caskett, vero Jamie? Vero, piccolino? Lo sai che la mamma per anni non ha voluto saperne niente del tuo papà e poi, d'un tratto, eccoti qua? Ti ha già raccontato questa storia?", riprese con voce cantilenante, rivolgendosi solo a lui.
"Ehi! È troppo giovane per sapere queste cose", si lamentò Kate, che se lo teneva stretto temendo che, da un momento all'altro, Lanie le proponesse di prenderlo in braccio, prospettiva che la metteva a disagio. Era suo e non voleva farlo toccare a nessuno. Non sapeva da dove arrivasse quell'istinto, se fosse normale, o sano, ma era quello che sentiva.
Lanie in realtà non le chiese niente e non lo toccò nemmeno. Si limitò a guardarlo e a sorridere, facendola rilassare.

"Non è strano?", esordì Kate un po' imbarazzata dopo qualche minuto di silenzio.
"Il bambino è strano? Deve aver preso da Castle, allora", rispose prontamente Lanie.
"No, non lui. Io, in questa situazione. Avresti mai pensato di vedermi così? Con un bambino?". Pronunciò la parola "Bambino" come se intendesse "Piccolo di istrice".
Lanie la osservò, prima di dare la sua opinione.
"Sì, è strano", concluse lapidaria. Sapeva di poter contare sulla sua onestà. "Però non mi sembra che tu te la stia cavando male", la rassicurò.
"Già. Anche io mi trovo meno peggio del previsto", le confidò.
"Gli hai contato le dita?", si informò l'altra.
"No, perché?", si allarmò Kate. "Dovrei farlo? Nessuno mi ha detto niente".
"È quello che sostengono tutti di fare appena nasce un bambino. Pensavo fosse una specie di tradizione segreta delle madri".
A una successiva conta, tutte le dita si rivelarono essere al loro posto, con grande sollievo di madre e zia.

Lanie si concentrò successivamente sul viso del bambino, studiandolo. "Ha davvero preso tutto da Castle", si stupì. "È incredibile, sono identici".
"Vero? Ho cercato qualcosa di mio, ma non sono riuscita a trovarlo". Ne era un po' dispiaciuta.
"Fammi vedere meglio. Deve pur assomigliarti in qualcosa". Strinse le labbra. "Forse la linea del naso, proprio qui?", indicò, sempre senza toccarlo.
Kate si concentrò sul punto in questione, lo valutarono insieme, ma infine Lanie fu costretta ad ammettere che, no, Jamie era proprio uguale a Castle in tutto e per tutto. Kate sbuffò delusa e risero insieme.

Lanie se ne era andata da poco, quando la porta si aprì di nuovo. Questa volta, quando riconobbe il visitatore, non le venne l'istinto di sguainare la spada per difendere il suo pargolo.
"Guarda chi c'è, Jamie", si rivolse felice al bambino, mostrandogli il nuovo arrivato.
Castle si fermò all'ingresso della stanza a rimirare la scena.
"Castle, hai quell'espressione", lo richiamò all'ordine.
"Quale espressione?".
"Quella di quando stai per donarci oro, incenso e mirra", lo prese in giro.
Castle le fece una smorfia, le sorrise e si chinò a baciarla sulla tempia, accarezzando la testolina di Jamie.
Glielo allungò, perché lo prendesse in braccio. Castle lo accolse con grande delicatezza. Lei aveva una fame da lupo e intendeva concedersi tutto quello che le era stato vietato in gravidanza. Addentò il panino che Castle le aveva portato, dietro sua precisa indicazione. Era squisito.

Castle
Andò verso la finestra, lasciandola alle prese con la sua inconsueta colazione. La verità era che voleva rimanere finalmente da solo con suo figlio, dopo la confusione della notte precedente, di cui non era sicuro di ricordare perfettamente gli eventi. Non avrebbe voluto tornare a casa quando tutto si era bruscamente concluso, avrebbe preferito stare con lei, con loro, ma Kate lo aveva praticamente costretto ed era stato troppo stanco per protestare. Probabilmente non gli avrebbero permesso di rimanere in ospedale in ogni caso.

Una volta raggiunto il loft, esausto, si era accasciato sul divano, senza avere la forza di farsi una doccia e sdraiarsi sul letto, convinto di perdere i sensi all'istante. Al contrario, avevano continuato a scorrergli davanti caotiche immagini di quello che era successo.
Non l'aveva ancora detto a nessuno, a quel punto. Il che era difficile da spiegare anche per lui, considerando che era sempre stato convinto che sarebbe uscito a gridarlo al mondo intero e visto che uno dei loro problemi più grandi era stata la segretezza che lei gli aveva imposto all'inizio. Aveva voluto invece prolungare il più possibile il momento in cui sarebbero esistiti unicamente loro tre, prima di tornare a far parte del mondo.

Si guardò riflesso nel vetro. Era al corrente del fatto che tutti credessero che lui non aveva problemi con i neonati, che gli piacevano – il che era vero -, e che essere padre era per lui come una seconda natura.
Cullando il piccolo Jamie tra le braccia, felice e atterrito insieme, si fece viva un'inconsueta sensazione di smarrimento. Si chiese se sarebbe stato all'altezza. Quando era nata Alexis lui era stato giovane e spensierato e aveva vissuto tutto con allegra noncuranza. Era stato sicuro, con una certa dose di incoscienza, che sarebbe andato tutto bene, anche se crescere una figlia da solo non era stato sempre semplice. Sarebbe stato in grado di farlo anche questa volta? Li avrebbe resi felici? Ce l'avrebbero fatta?
Era iniziato tutto un giorno d'estate caldo e frizzante, che li aveva fatti ubriacare di euforia, e adesso, meno di un anno dopo, si trovano legati da qualcosa di più grande della semplice somma di loro stessi. Sentì di avere tra le mani qualcosa di prezioso e importante. Non voleva rovinarlo.

Tornò da lei, si sedette sul letto e posizionò il bambino in mezzo a loro, con le teste vicine a osservarlo. Da fuori dovevano sembrare due idioti che non riuscivano a smettere di toccarlo, fare commenti e poi ridacchiare a bassa voce. Jamie si era limitato a guardarli entrambi, lievemente seccato.
"Scusa per stanotte. Non intendevo davvero spararti", gli disse Beckett.
"Non ti basteranno le scuse, hai spaventato a morte tutti i presenti", le rispose molto serio. Era andata proprio così, anche se lei credeva scherzasse.
"Immagino siano abituati a sentire i padri venire minacciati di morte dalle future madri".
"Naturalmente. Fino a quando non hai aggiunto, con quella vena che ti pulsa sempre in fronte quando sei leggermente contrariata: 'Guardate che sono un poliziotto e ho davvero una pistola. Io lo ammazzo sul serio se non lo fate smettere!'"
Beckett ridacchiò. "Castle, eri insopportabile, ammettilo. Non facevi che ripetere a pappagallo le istruzioni del medico, come se sapessi di cosa stavi parlando. Dovevo zittirti in qualche modo".
"Mi hanno proposto una scorta, tanto sei stata convincente. Non ho ancora rifiutato".

Per frenare ulteriori proteste, si chinò verso di lei e la baciò sulle labbra. La notte prima si era sentito così sconvolto e sopraffatto dalla magnificenza di quello che era successo, da non aver saputo che cosa dire.
Le era immensamente grato per avergli permesso di entrare nella sua vita, aver tenuto duro e aver compiuto da sola quel prodigio. Aveva trovato solo parole banali per comunicarglielo. Aveva preferito starsene zitto.
Adesso sarebbe stato il momento perfetto per un gesto importante, quello per cui era pronto da molto tempo e che aveva rimandato solo perché lei glielo aveva chiesto. La vide felice e volle bearsi di tutta la sua gioia, senza oscurarla. All'ultimo non ebbe il coraggio di rischiare di sentire un no come risposta e rovinare così i loro primi momenti insieme a Jamie. Guardò il bambino tra di loro e pensò che bastava quello, per ora.
"Se non avessi visto con i miei occhi che l'hai partorito tu, penserei di averlo clonato. Beckett, come hai fatto?!", cambiò discorso, scegliendo un terreno meno scivoloso.
"È quello che ho sostenuto dall'inizio – e con me l'intero reparto - mentre tu dicevi che era solo una mia impressione".
"Mi sembra di far parte di uno di quegli angoscianti romanzi sul tema del doppio che ho studiato al college. Tipo William Wilson di Poe".
"Non avevi una citazione meno inquietante?", replicò Beckett tagliente.
"Guarda che è davvero straniante. Non avresti voluto che assomigliasse un po' anche a te?"
Lo fulminò. "L'ho solo tenuto in grembo nove mesi e qualche giorno e l'ho appena partorito dopo ore di sofferenza, perché mai dovrebbe importarmi di non condividere con lui nemmeno un piccolo tratto fisico?", lo rimbeccò.
"Hai guardato bene? Le mani, forse?", le suggerì Castle, che voleva smettere di avere l'angosciante sensazione di specchiarsi in se stesso, in piccolo.
Kate mise la sua mano vicina a quella del bambino, le paragonò entrambe, ma infine dovette ammettere, ancora una volta, che era il ritratto di suo padre. Ovunque.
"Il prossimo assomiglierà tutto a me, se non ti spiace", gli sorrise, riprendendosi il bambino tra le braccia e baciandolo sulla fronte.
Lui la guardò allibito. Il prossimo? Voleva rifare tutto da capo? Doveva riprendersi o tutte quelle emozioni l'avrebbero messo fuori combattimento. Era più che felice. Si sentì benedetto dalla sorte.

...

Uscirono nell'aria primaverile. Jamie era al sicuro nella navicella che lui teneva saldamente in mano. Beckett camminava accanto a loro con la borsa a tracolla.
Si fermò e si girò verso di lui, prima di arrivare all'auto, costringendolo a smettere di camminare a sua volta. "Da quanto tempo vai in giro con l'anello in tasca?", gli chiese con il suo miglior tono inquisitorio. Mancava solo la lampada puntata negli occhi.
Cercò di dissimulare la sorpresa, chiedendosi come avesse fatto a saperlo. Aveva cercato in ogni modo di non farsi scoprire ed era anzi sicuro che non glielo avesse mai trovato addosso. Ma era una detective, doveva averlo sospettato e averne avuto la certezza dopo averlo interrogato nel sonno.
Con tutta la dignità che aveva, fece la sua confessione.
"Mesi", ammise. Non aveva senso negare.
Lei non si arrabbiò, la vide invece illuminarsi e lui, per la prima volta, sentì nascere dentro di sé la speranza.
"Posso... ?"
"No", si affrettò a rispondergli bruscamente. Poi si mise a ridere, lo prese sottobraccio, e gli disse con semplicità e con un tono carico di promesse: "Vedremo, Castle. Adesso andiamo a casa".

The end -

Grazie per aver seguito di nuovo questa storia con me! Silvia

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