Once upon a time... Captain Tsubasa

di sissi149
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** XIII ***
Capitolo 15: *** XIV ***
Capitolo 16: *** XV ***
Capitolo 17: *** XVI ***
Capitolo 18: *** XVII ***
Capitolo 19: *** XVIII ***
Capitolo 20: *** XIX ***
Capitolo 21: *** XX ***
Capitolo 22: *** XXI ***
Capitolo 23: *** XXII ***
Capitolo 24: *** XXIII ***
Capitolo 25: *** XXIV ***
Capitolo 26: *** XXV ***
Capitolo 27: *** XXVI ***
Capitolo 28: *** XXVII ***
Capitolo 29: *** XVIII ***
Capitolo 30: *** XXIX ***
Capitolo 31: *** XXX ***
Capitolo 32: *** XXXI ***
Capitolo 33: *** XXXII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Genzo osservava compiaciuto il salone principale di Villa Wakabayashi trasformato per la grande occasione e pieno di amici festanti. Quando Tsubasa aveva annunciato alla nazionale che si sarebbe sposato con Sanae prima del rientro in Brasile, lui aveva proposto subito di effettuare il ricevimento alla villa: con così poco preavviso non avrebbero potuto trovare libero nessun posto abbastanza grande, mentre la sua residenza di famiglia prendeva polvere per la maggior parte dell’anno.
Tsubasa si alzò in piedi, calice di champagne alla mano, ed invitò amici e parenti al silenzio.
“Volevo ringraziarvi per essere accorsi tutti, nonostante molti di voi siano stati lontani da casa e dalle loro famiglie per molto tempo a causa dei nostri comuni impegni calcistici. Senza di voi questo matrimonio non sarebbe stato così speciale. Un ringraziamento particolare a Genzo che ci ha messo a disposizione Villa Wakabayashi!”
Genzo rispose all’amico sollevando il proprio calice nella sua direzione, aggiungendo:
“Era il minimo che potessi fare, altrimenti ti restava come alternativa il vecchio campo da calcio, quello per cui io e Ishizaki stavamo litigando quando ci siamo conosciuti!”
Lo scoppio di risa fu istantaneo, soprattutto tra i ragazzi di Nankatsu che ben ricordavano le infinite diatribe tra le varie scuole prima che tutti i bambini della città fossero uniti sotto un’unica bandiera per affrontare il campionato nazionale.
Il SGGK non poté fare a meno di pensare a quei giorni con nostalgia, riflettendo su come il tempo fosse passato velocemente da allora, su come molti dei ragazzini che si erano sfidati all’ultimo respiro sui campi di Yomiuri Land, anche con antipatie reciproche, ora fossero diventati grandi e capaci di mettere da parte le simpatie personali per portare la nazionale al grande obiettivo di vincere il campionato del mondo under-20.
All’improvviso sentì una violenta pacca sulla nuca che lo portò a voltarsi di scatto ed a ritrovarsi davanti Ryo Ishizaki.
“Si può sapere che ti passa per la mente?”
“Eri così assorto in qualche strano pensiero che non ho potuto resistere alla tentazione. – sghignazzò il difensore – In memoria delle vecchie dispute.”
“Ishizaki, te la rinfresco volentieri la memoria, se vuoi!” Wakabayashi alzò un pugno con fare minaccioso e Ryo batté di corsa in ritirata al tavolo che occupava insieme a Taro, il più vicino agli sposi.
“Fammi indovinare, hai stuzzicato di nuovo il padrone di casa?”
“Genzo se la prende sempre per niente.”
“Come no! – Mamoru, dal tavolo accanto, oscillò sulla sedia sporgendosi fino al difensore – Guarda che da qui abbiamo visto benissimo quello che gli hai fatto!”
Ishizaki si strinse nelle spalle.
“Volevo solo movimentare la festa! Senza di me che fareste?”
“Giullare! Scordati che ti faccia mettere di nuovo piede in casa mia.” Ribadì Genzo, accomodandosi alla sinistra di Izawa e scambiando uno sguardo d’intesa con la Silver Combi.
“In fondo il mondo è pieno di buffoni, ne troveremmo di sicuro un altro.” Disse Hajime, seguito al volo da Teppei che rincarò al dose:
“Soprattutto qualcuno che sappia fare un colpo di testa come si deve, invece di prendere sempre il pallone in faccia!”
“Ma davvero?” Ryo si stava offendendo seriamente, rischiando di far degenerare la situazione, ma Yuzo e Taro intervennero a sedare gli animi ed a riportare la tranquillità.
Qualche tavolo più in là Hikaru e Jun chiacchieravano con le compagne: Yoshiko aveva avuto il permesso straordinario di lasciare l’ospedale per partecipare alla cerimonia.
“Va tutto bene?” Matsuyama si premurò di controllare nel momento in cui la ragazza abbandonava le posate nel piatto dove rimaneva mezza porzione di cibo intatta.
“Ho mangiato tantissimo!  - spiegò Fujisawa con un sorriso – Non sono più abituata a mangiare tutte queste cose, in ospedale mi davano solo brodini.”
“Non me lo ricordare. Per fortuna io avevo Yayoi che mi portava sempre qualcosa di nascosto.” Misugi strizzò l’occhio in direzione della fidanzata che lo guardò scandalizzata.
“Jun! Avevi promesso che non l’avresti detto a nessuno! E poi è stato solo un paio di volte.”
Hikaru sbottò a ridere:
“Ora ho qualcosa con cui ricattarti durante i ritiri, quando fai troppo il precisino.”
Il rumore di vetro infranto fece voltare l’intera sala verso un dispiaciutissimo Takeshi Sawada che aveva appena fatto cadere in terra il bicchiere di cristallo.
“Per fortuna che non fai il portiere Takeshi, hai le mani di burro!” Lo rimbrottò Kojiro.
Genzo arrivò trafelato, con le mani nei capelli.
“Il servizio di mia madre!” Gridò.
Ken lo scrutò dalla testa ai piedi, prima di domandare:
“Ne sei davvero sicuro?”
“O insomma, Wakashimazu! Volevo fare un po’ il melodrammatico, sai quanto me ne può fregare di un bicchiere.” Batté una sonora pacca di incoraggiamento sulla schiena di Sawada, per fargli capire che non era successo nulla di grave, fosse stato per lui, la serata poteva finire con tutto rotto. Ora che gli veniva in mente, non era forse in Germania che alle feste prenuziali si rompevano i piatti? Avrebbe dovuto chiedere a Kaltz.
“Ragazze! – Annunciò Sanae raggiante – è ora del lancio del bouquet! Venite di corsa in giardino.”
Tutte si precipitarono alle spalle della signora Ozora, seguite con più calma dagli uomini che non vedevano l’ora di sgranchirsi un po’ le gambe.
Katagiri ne approfittò per appartarsi con Mikami a fumare un sigaro proveniente direttamente da cuba.
“In posizione!”
Le ragazze si ammucchiarono, saltellando ripetutamente, pronte per afferrare il mazzo di fiori. C’era più vento di quanto si fossero aspettate, le acconciature rischiavano di disfarsi.
Sanae si voltò di spalle e si preparò a sollevare le braccia per il lancio. Alzò la testa verso il cielo e lanciò un urlo.
“Che diamine è quella cosa?”
A velocità impressionante una gigantesca quanto inquietante nube stava raggiungendo la villa. Al suo interno brillavano numerosi lampi.
“Tutti al riparo, dentro!” Urlò Genzo, prima che il terrore invadesse i presenti.
Ma era troppo tardi: all’avvicinarsi della nuvola il vento era aumentato talmente tanto da rendere difficoltosi gli spostamenti e persino restare. Molti erano a terra nel tentativo di ripararsi.
Solo Tsubasa era riuscito a raggiungere Sanae e la teneva abbracciata forte.
“Andrà tutto bene!”
“Sempre il solito ottimista.” Sussurrò lei di rimando.
“Cercate di tenervi tutti per mano!” Il suggerimento di Matsuyama fu l’ultima cosa che riuscirono a sentire prima di venire avvolti dal vapore nero e piombare nell’oscurità.
La nube vorticava come un uragano.
Molti di loro vennero sollevati da terra e sbattuti dal vento in tutte le direzioni. Chi era riuscito ad aggrapparsi a qualcuno sentì le proprie mani perdere contatto col vicino.
“Jun!”
“Yoshiko!”
“Mamoru!”
“Taro!”
“Yayoi!”
“Kumi!”
“Genzo!”
Tutti tentavano di chiamarsi, disperati per essere separati senza poter opporre resistenza.
Gli ultimi ad essere sollevati furono Sanae e Tsubasa. L’uomo stringeva la moglie così forte da farle quasi male, non voleva assolutamente perderla nella tempesta.
“Non ti lascerò!”
Un colpo di vento più forte li scaraventò al centro esatto della nube e forzò le braccia di Tsubasa, facendole spalancare. Sanae venne allontana bruscamente da lui.
Riuscì solo a sussurrare un “ti amo” prima di sparire dalla sua vista e dalla portata della sua voce.
“Sanae!”
Urlò disperato Tsubasa, continuando a vorticare.
Quando la tempesta fu passata, di Villa Wakabayshi e dei quartieri limitrofi non restava traccia: al loro posto, si estendeva solo un enorme cratere, mentre il resto della città era illesa.





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Come avevo anticipato, sono tornata piuttosto presto dopo il Writober. ;)
Questa storia è in cantiere da parecchio, vi dico solo che il prologo è scritto e pronto da più di un anno, mentre i capitoli hanno preso un buon avvio solo quest'estate.

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Capitolo 2
*** I ***


Jason Brown  si considerava una persona ordinaria e molto precisa, la cui vita scorreva esattamente come programmava, senza mai un intoppo. Aveva terminato le scuole superiori con un discreto punteggio ed era riuscito ad entrare alla Columbia University, dove studiava per diventare  giornalista. Seguiva con piacere i corsi e consegnava i suoi elaborati ad ogni scadenza, ricevendo voti positivi. Avrebbe conseguito il titolo nei termini stabiliti.
L’unica cosa fuori dall’ordinario che lo caratterizzava era la passione per ogni tipo di fumetto ed anche questa era abbastanza moderata: conosceva un buon numero di prodotti sia famosi che di nicchia, americani ed esteri, ma non ne faceva un culto tale da essere considerato un nerd. Ultimamente aveva affrontato la lettura di vari manga di tipo sportivo ed aveva scoperto Captain Tsubasa.
Era entrato nel negozio alla ricerca degli ultimi numeri del World Youth. Nonostante il suo autore avesse annunciato dei seguiti, la serie era ferma da molti anni al termine della finale tra Giappone e Brasile ed alla proposta di matrimonio di Tsubasa a Sanae.
I fumetti erano collocati al piano superiore della libreria, a cui si accedeva tramite una scala a chiocciola. Era un ambiente più piccolo e meno affollato rispetto alla zona dei best-sellers, non erano in molti a cercare quel genere di articoli. Si diresse con passo sicuro alla sezione dei manga e cominciò a scorrere i vari titoli. Dopo un po’ la sua attenzione venne catturata da un volume che non avrebbe dovuto essere lì: si trattava di un libro piuttosto voluminoso con la copertina in pelle rilegata e con preziose decorazioni incise. Aveva l’aria di essere qualcosa di prezioso ed antico. Lo afferrò con l’intenzione di spostarlo, poiché poche cose lo irritavano più del trovare mescolati oggetti che non avevano nulla a che fare gli uni con gli altri. Girandolo con la prima pagina di copertina verso l’alto, si lasciò sfuggire un gemito sorpreso: il titolo “Captain Tsubasa, la storia completa” campeggiava a caratteri eleganti. Preso dalla curiosità iniziò a sfogliarlo e notò come molte delle tavole originali, soprattutto quelle più spettacolari, fossero riportate fedelmente, a partire dal primissimo capitolo della saga, mentre altre parti erano raccontate in prosa, rendendo così possibile avere la vicenda integrale in un unico libro. Si domandò se la pubblicazione fosse stata autorizzata dal maestro Takahashi, gli sembrava così lontana dagli standard giapponesi.
Raggiunse le pagine finali, per scoprire se la storia narrata nel ciclo del World Youth avesse trovato una conclusione, ma rimase deluso, poiché l’ultima tavola era ancora una volta quella della proposta di matrimonio di Tsubasa. Non si conosceva nemmeno la risposta di Sanae, anche se per lui era piuttosto scontata.
Dopo l’immagine, seguiva una decina di pagine bianche, che gli lasciò ancora di più la sensazione di lavoro incompiuto. Nemmeno le utili appendici con le schede descrittive dei personaggi principali gli risollevarono il morale. Per quanto fosse un’edizione di lusso, la riteneva piuttosto inutile, poiché non aggiungeva nulla alla storia che già conosceva.
Decise di posarlo sullo scaffale e dedicarsi alla ricerca di qualcos’altro.
“Io non lo farei se fossi in te.”
Sobbalzò, colto alla sprovvista dalla voce limpida che proveniva dalle sue spalle, convinto di essere il solo interessato allo scaffale. Si voltò e vide una ragazza più o meno della sua età che gli sorrideva. Non era molto alta ed i suoi tratti erano vagamente orientali. I capelli lunghi erano raccolti in due trecce fissate con dei vistosi fiocchi. Tutto il suo abbigliamento poteva definirsi vistoso, a partire dalla minigonna di  jeans accompagnata da calze multicolore, alla giacca di pelle blu elettrico. La borsa a tracolla era decorata da parecchie frange.
“Sta parlando con me?”
La ragazza si strinse nelle spalle.
“Non vedo altre persone che stanno frugando tra i manga sportivi.”
Jason si risentì leggermente per la piccola stilettata, non amava il sarcasmo.
“Quel libro è più prezioso di quanto immagini.” Aveva proseguito nel frattempo la donna.
Per un attimo Jason pensò potesse trattarsi di una nuova commessa della libreria che stesse cercando di fargli acquistare un volume snobbato da tutti, ma scacciò presto quel pensiero, poiché conosceva piuttosto bene i proprietari e dubitava che avrebbero permesso a qualcuno dei dipendenti di lavorare vestito a quella maniera.
“Vuole comprarlo lei?”
“Assolutamente no. Tu dovresti comprarlo, è per te che è importante.”
Jason la guardò scettico, provando una strana sensazione di disagio. L’estranea dava l’impressione di conoscerlo, o meglio, di credere di conoscerlo e di sapere di cosa fosse alla ricerca. Non aveva conosciuto molte persone convinte di sapere cosa fosse meglio per gli altri, ma quelle poche con cui aveva dovuto interagire gli avevano fatto decidere di tenersi ben lontano da chiunque altro si comportasse alla stessa maniera.
“In realtà è solo un libro per pigri, per chi non ha voglia di cercare e comprare tutti i volumi originali. Che senso ha leggere parte della storia in forma discorsiva?”
Nell’esporre la sua idea si era leggermente scaldato, mentre la ragazza continuava a sorridergli, per nulla turbata dalla sua ritrosia.
“Concordo che non è quello a renderlo speciale. Tuttavia questo libro è qui ad aspettare di essere portato a casa da te. Come mai non l’hai ancora riposto?”
Solo allora Jason si rese conto di stringere ancora il tomo tra le mani. Velocemente lo abbandonò in malo modo sullo scaffale e si allontanò verso le scale.
“Non puoi lasciarlo qui!”
“Devo andare. Tra poco ho una lezione a cui non posso mancare.”
La ragazza lo rincorse e lo afferrò per un braccio, guardandolo con occhi imploranti.
“Per favore, loro hanno bisogno di te!”
“Loro chi?”
“I personaggi!”
Jason diede uno strattone ed iniziò a scendere i primi gradini.
“Ti prego! Loro sono vivi!”
L’ultima frase gli diede la certezza che la ragazza fosse pazza. Aveva iniziato a sospettarlo quando gli aveva detto che il libro lo stava aspettando.
Scosse la testa e scese più velocemente che poté, uscendo dal negozio con un cenno di saluto al proprietario, sperando di evitare scenate da parte della sconosciuta o, almeno, che non avvenissero in sua presenza.
 
 
 
Per tutto il tempo della lezione Jason non era riuscito a concentrarsi sulle parole del professore, continuando a pensare, suo malgrado, al volume trovato in negozio. Era obiettivamente un bell’oggetto e sulla sua libreria avrebbe fatto una buona figura, se non veniva aperto poteva passare per un libro antico, magari di qualche autore europeo, di quelli che facevano tanto impazzire Michelle, la fidanzata di uno dei suoi compagni di corso. Valeva sicuramente una seconda occhiata.
L’unico problema erano i discorsi sconclusionati della ragazza strana: come si poteva anche solo pensare che i personaggi di un opera di fantasia fossero vivi? Che un libro fosse apparso in una libreria solo per essere acquistato da lui?
Probabilmente quella tipa cercava solo un modo per approcciarsi a lui ed aveva scelto quello più sbagliato di tutti; altri si sarebbero lasciati affascinare da una storia del genere, lui nemmeno per sogno.
Decise di tornare in libreria per continuare la sua esplorazione interrotta.
Finita la lezione uscì dall’aula con una celerità che solitamente non gli apparteneva e prese il primo bus che l’avrebbe condotto in centro. Più si avvicinava alla sua meta, più si sentiva nervoso come se raggiungere il luogo fosse una questione di vita o di morte. Quasi non si riconosceva, non capiva come un incontro casuale potesse averlo sconvolto fino a quel punto.
Salì i gradini della scala a chiocciola a due a due e solo quando riprese il libro tra le mani poté tirare un profondo sospiro di sollievo.
“Sapevo  che saresti tornato!”
Si voltò di scatto, incredulo che la donna fosse ancora lì, come se lo avesse aspettato tutto il giorno.
“Ma si può sapere chi è lei?”
“Un’amica – rispose questa, alzandosi dallo sgabello su cui era seduta e raggiungendolo – Sono qui per assicurarmi che tu prenda il libro. È per questo che sei tornato?”
Jason avrebbe voluto ribattere che non era tornato per quello, era lì per cercare altri fumetti che prima non aveva potuto trovare, ma il volume che teneva stretto tra le braccia come un tesoro non lasciava spazio a molte possibilità di negare.
“Io non voglio questo stramaledetto libro!” Esalò tutto d’un fiato, portando una mano alla fronte.
“Tuttavia l’hai in mano. Lui vuole essere preso da te!”
Il ragazzo non sapeva più che pensare, non aveva mai creduto al destino, alla magia, al soprannaturale o come lo si volesse chiamare, ma riconosceva che il tomo esercitava su di lui l’attrazione di una calamita anche contro la sua stessa volontà, era una forza a cui non poteva resistere.
“Dovresti comprarlo.” Lo incoraggiò la donna.
Con un misto di controvoglia e desiderio, ormai non riusciva nemmeno lui a capirsi, si diresse al piano inferiore verso la cassa, dove quella sera era di turno il vecchio signor Bloom, il padre dell’attuale proprietario. Era un ometto piccolo, con il naso a punta e vaporosi ciuffi di capelli bianchi che spuntavano dai lati della testa, in contrasto con la sommità completamente calva. Quando riconobbe Jason gli sorrise caloroso.
“Oh, signor Brown, è parecchio che non la vedo da queste parti.”
Jason sorrise di rimando, poiché aveva un rapporto molto cordiale con l’uomo che in passato aveva saputo consigliargli letture parecchio interessanti.
“L’università mi ha assorbito più del previsto, ma oggi non ho potuto resistere dal venire a curiosare.”
“Ha fatto benissimo! Dia a me!”
Il vecchietto afferrò il libro ed allargò gli occhi.
“Sono sorpreso: non credevo che i volumi con questa rilegatura la interessassero.” Afferrò il lettore a raggi e lo puntò sul codice a barre nascosto all’interno dell’ultima pagina, per non rovinare la quarta di copertina. Sul computer non apparve nulla. Aggrottò le sopracciglia e fece un secondo tentativo, ma il risultato fu il medesimo di pochi istanti prima.
“Queste diavolerie moderne! Hanno sempre qualcosa che non va.”
“C’è qualche problema?” Domandò Jason con leggera preoccupazione.
Il signor Bloom si strinse nelle spalle.
“È solo il computer che si rifiuta di collaborare e io non capisco molto di come funzionano questi aggeggi. Sto diventando troppo vecchio!”
“Ma cosa dice?”
“Useremo i vecchi metodi. – l’uomo proseguì come se non avesse sentito la frase di Jason – Fortunatamente il prezzo è indicato. Sono 30 dollari.”
Jason pagò il dovuto, salutò il signor Bloom ed uscì in strada, facendo tintinnare la campanella posta all’ingresso della libreria.
“Questa è fatta. Ora suppongo che dovresti offrirmi qualcosa di caldo.” La donna aveva seguito silenziosamente Jason fuori dal negozio.
“Ma lei mi sta forse pedinando?” Domandò minaccioso, sperando di togliersela dai piedi una volte per tutte.
“Certamente! – rispose invece la donna, senza smettere di sorridere. Stava davvero iniziando ad odiare l’espressione che aveva sempre sul volto – Direi che possiamo anche darci del tu, non ti pare? Io sono Kitty e lì c’è un bar che fa al caso nostro, vieni.”
Rassegnato, a Jason non restò altro da fare che seguire la sconosciuta.
 
 
 
Nonostante tutto, Jason dovette ammettere che il locale non era così male, per lo meno era ordinato e pulito. I tavoli erano tutti rettangolari e potevano ospitare dalle quattro alle sei persone tramite le grandi panche con schienale rigido che li accompagnavano sui lati lunghi.
Si erano accomodati vicino alla vetrata, da dove potevano vedere la strada e, soprattutto, essere visti dall’esterno. A Jason dava una maggiore sensazione di sicurezza finché non avesse capito con che tipo di squilibrata avesse a che fare, se di quelle pericolose o di quelle che credevano ad un mucchio di cose assurde, ma che tutto sommato si rivelavano innocue. Kitty aveva voluto una tazza di latte caldo, mentre lui si era fatto portare del tè verde, cosa che aveva fatto sorridere la sua interlocutrice.
“Immagino avrai milioni di domande.” Esordì la donna.
Jason mescolò un paio di volte col cucchiaino prima di parlare.
“Perché sei fissata con me?”
“Io non sono fissata con te. Mi sono solo assicurata che trovassi il libro. Finalmente, oserei dire. Te la sei presa con comodo!”
L’uomo alzò gli occhi al cielo, ma si costrinse a portare pazienza se voleva arrivare in fondo alla vicenda, la sconosciuta sembrava ben disposta a parlare.
“Era la prima volta che lo vedevo in libreria, come potevo trovare qualcosa che prima non c’era?”
“O forse che prima non vedevi.”
Kitty sembrava avere un risposta pronta ad ogni obiezione, dandogli l’impressione di combattere uno scontro sbilanciato fin dalla partenza. Prese un profondo respiro per darsi coraggio, prima di addentrarsi nel mondo della mente della donna.
“Prima hai detto una cosa strana. – disse – Hai detto che loro sono vivi.” Indicò con la mano sinistra il volume che era appoggiato sul tavolo, a metà strada tra loro due.
“Certo. Vivono tutti a New Team Town. O sarebbe meglio dire che sono prigionieri a New Team Town.”
Jason la guardò sbalordito.
“Mai sentito questo posto.”
“Non hai studiato geografia? È una piccola cittadina a un paio d’ore a sud di New York.”
L’Uomo alzò entrambe le mani in segno di resa, non valeva troppo stare a discutere sull’esistenza di un’assurda città dal nome ancora più assurdo.
“E cosa ti fa credere che gli abitanti di New Team Town siano i protagonisti del lavoro di Takahashi?”
Kitty puntellò il gomito sinistro sul tavolò ed appoggiò il mento sulla mano, guardandolo negli occhi.
“Perché li ho visti. – disse con semplicità – Purtroppo non ricordano chi sono, ma sono là. Tutti, tranne… tranne te.”
Per poco Jason non si strozzò col tè che aveva iniziato a bere. La conversazione stava raggiungendo un livello di assurdità allarmante.
“Come, prego?” Riuscì a dire tra un colpo di tosse e l’altro, sperando che Kitty ritrattasse.
“Hai sentito benissimo!”
“Ma ti rendi conto di quello che dici? – sbottò, non riuscendo più a trattenersi – Stai sostenendo che io sia il personaggio di un fumetto da cui, in qualche modo sia finito nella realtà? È assurdo!”
“Non più di tanto. Solo non riesco a capire come tu sia sfuggito alla maledizione e non sia stato imprigionato con tutti gli altri a New Team Town.”
Il fatto che Kitty continuasse indisturbata a sostenere la sua folle teoria lo fece innervosire al punto da perdere tutta la buona volontà che aveva impiegato in quel colloquio per non offendere in qualche modo la salute mentale della donna.
“Tu sei pazza!”
“Aspetta, posso mostrarti che quello che dico è vero, posso farti vedere che ci sei anche tu qui dentro!” Kitty afferrò il libro ed iniziò a sfogliarlo freneticamente alla ricerca di una tavola che lo raffigurasse.
“Basta così!” Jason scattò in piedi, strappandole il volume dalle mani ed estraendo il portafoglio per lasciare sul tavolo il necessario a pagare le consumazioni.
“Codardo! – sibilò la donna – Ogni volta che dico qualcosa a cui non credi non sai fare altro che scappare, invece di discutere e ragionarne.”
L’uomo si fermò di colpo per replicare.
“Come si può ragionare su delle assurdità? Su cose che non esistono?”
“E se ti dimostrassi che ti sbagli, mi crederesti? Cerca New Team Town sulla tua google maps.”
Jason prese lo smartphone dalla tasca e attivò l’applicazione solo perché convinto che in questo modo avrebbe messo a tacere una volta per tutte la donna, quando la ricerca avrebbe dato risultato nullo: aveva studiato la zona a sud di New York pochi giorni prima e non aveva trovato nessuna fantomatica New Team Town. Aspettò che apparisse la tastiera e digitò i caratteri con diligenza, premendo alla fine il tasto invio.
Si trovò a sgranare gli occhi: l’indicatore rosso puntava con precisione al centro di una piccola cittadina.
“Non è possibile!”
“Mi credi, ora?” Kitty esibiva un sorrisetto trionfante.
Jason si afflosciò sulla panca, ancora inebetito, poiché era sicurissimo che la cittadina non esistesse.
Gli ci volle qualche minuto per radunare le idee.
“Questo non prova nulla. – disse infine – Dimostra solo che questo posto esiste, non  di certo che i suoi abitanti sono fuoriusciti da un fumetto.”
“Beh, potremmo sempre andare laggiù a vedere di persona…” La donna afferrò la propria tazza e bevve un grosso sorso di latte, al punto che quando la riappoggiò sulla tavola due bianchi baffi soffici le incorniciavano il labbro superiore.
“Come se avessi tempo da perdere!”
“Non sei forse un aspirante giornalista?” Kitty assottigliò lo sguardo.
“E allora?”
“Pensavo che potresti ricavarci una storia interessante per un articolo: pensa, hai trovato la città dove vivono i personaggi di Captain Tsubasa.”
“Come no! Se proprio avrei trovato la città dove vivono le persone a cui Takahashi si è ispirato.” Quanto era difficile tenere la conversazione su binari che procedessero con un minimo di razionalità?
Kitty si strinse nelle spalle.
“È in ogni caso interessante scoprire le fonti di ispirazione del proprio idolo.”
Jason Stava per ribattere qualcosa, ma si fermò a metà: dovette ammettere che sotto quel punto di vista la faccenda assumeva una prospettiva intrigante. Portare a termine l’inchiesta non sarebbe stato un lavoro da premio Pulitzer, ma gli avrebbe permesso di muovere primi significativi passi nel mondo del giornalismo attivo. Malgrado ritenesse il novanta per cento di ciò che usciva dalla bocca della donna pura follia, la sua curiosità era stata stuzzicata al livello giusto dalla tela di ragno che gli era stata tessuta attorno, tanto che era sul punto di considerare seriamente l’ipotesi di farsi un viaggetto fino a New Team Town. Solo la vocina della sua razionalità più rigida gli sussurrava in un angolo della testa che Takahashi viveva in Giappone e che se mai si fosse ispirato a qualcuno di reale, se non addirittura ad un intero paese, questo si sarebbe trovato nel paese natale del mangaka, di certo non negli Stati Uniti. Ma quella voce si faceva sempre più esile e sottile, schiacciata da un nuovo ardore investigativo. Presto avrebbe ceduto alla donna misteriosa.




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Se non si fosse notato, o se non conoscete, l'idea di base per questa avventura me l'ha data la serie tv Once upon a time/C'era una volta.
Nel frattempo abbiamo un deciso cambio di ambientazione rispetto al prologo...

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Capitolo 3
*** II ***


Jason non riusciva a credere di essere sul punto di commettere quella pazzia, dimenticandosi di tutte le lezioni di prudenza ricevute: non era una buona idea partire in macchina con una sconosciuta verso una meta di cui sapeva poco o nulla. Rincasato, aveva passato buona parte della serata a cercare informazioni su New Team Town, ma aveva recuperato pochissimo materiale. Aveva anche tentato più volte con google maps, ma la città non gli compariva mai sulla cartina se la ingrandiva genericamente, riusciva a vederla solo se faceva la ricerca specifica nella casella di testo. Era come se quel posto non potesse essere trovato se non da chi conoscesse già la sua esistenza. Era assurdo, eppure aveva verificato personalmente il funzionamento del fenomeno.
Si trovava nel parcheggio del campus ad attendere l’arrivo di Kitty insieme a Matthew, l’amico con cui condivideva l’appartamento e che aveva accettato di prestargli l’auto.
“Sicuro che ti vada bene?” Gli chiese per l’ennesima volta.
L’amico annuì.
“Certo. Ti ricordo che sono stato io a proporti di prendere la mia auto, invece di viaggiare col treno e non so quale altro mezzo di trasporto per raggiungere la tua destinazione. Non farti problema se dovessi trattenerti qualche giorno,  ho intenzione di non muovermi da qui almeno per un mese, ho troppi progetti a cui lavorare che ho a malapena il tempo per respirare.” Matthew era un fiume in piena di parole, forse perché da quando conosceva Jason era la prima volta che lo vedeva fare qualcosa di inaspettato, di fuori dalla norma.
Jason ridacchiò alla sua loquacità, nonostante l’avesse costretto a mollare il pranzo a metà per farsi dare le chiavi dell’auto.
“Sinceramente, spero di essere di ritorno domani in serata. Non vorrei fermarmi fuori troppo a lungo.”
“Stai scherzando? Guarda che un’inchiesta come si deve non si mette in piedi in poche ore!”
Al lato opposto del parcheggio apparve una figura femminile piuttosto minuta che si diresse verso di loro con sicurezza. L’avrebbero notata anche se non fossero stati ad attenderla: con i suoi abiti, gli stessi del giorno precedente, non passava di certo inosservata. Teneva nelle mani due caffè nei grossi bicchieri da asporto, probabilmente acquistati al chiosco all’angolo della via.
“Ho pensato che ti avrebbe dato la carica giusta per metterti alla guida.” Disse la donna porgendo uno dei due caffè a Jason.
“Grazie. – Jason bevve un sorso troppo velocemente – È bollente!” Gridò quasi subito.
Il piccolo disguido fece scoppiare a ridere Matthew.
“Scusa, te lo aspettavi forse ghiacciato? – Poi, sottovoce, aggiunse – Non mi avevi detto che la tua compagna di viaggio fosse così carina. Ora capisco perché ve ne andate soli soletti!”
Jason non apprezzò la battuta dell’amico e rispose tirandogli una gomitata nello stomaco.
“Idiota!”
“Allora, possiamo partire?” Kitty gli diede l’occasione di sottrarsi da ulteriori considerazioni indiscrete.
“Quando vuoi!”
Fece scattare con la chiave elettronica la serratura di una Ford grigio metallizzato e fece segno alla donna di accomodarsi pure sul sedile del passeggero, mentre lui prendeva posto dal lato del guidatore.
“Fate buon viaggio!”
La voce di Matthew si sentì a malapena, coperta dall’accensione del motore.
 
 
L’uscita dalla città fu più difficile del previsto, poiché un incidente aveva mandato in tilt il traffico sulla tangenziale scelta da Jason per lasciare New York dirigendosi verso sud. Erano rimasti imbottigliati per un tempo quasi infinito prima che la carreggiata venisse liberata dalla merce persa da un camion che si era rovesciato. Il viaggio non era iniziato sotto i migliori auspici.
Contrariamente a quanto si era aspettato, immaginando di trovarsi travolto dalle chiacchiere di Kitty, la ragazza non aveva detto una parola, rendendo ancora più insopportabile l’attesa in coda. Guardava fuori dal finestrino con sguardo fisso, quasi assente, come se la sua mente fosse persa in un altro mondo, lontano da ciò che stavano facendo, da ciò che lei l’aveva quasi costretto a fare, per la precisione. L’unico momento in cui era stata partecipe era stato appena usciti dal parcheggio del campus, quando si era informata sul fatto che lui avesse portato il libro con sé. Ovviamente l’aveva portato, con tutta la fatica che gli era costato il giorno prima. L’aveva messo al sicuro nel bagagliaio, non voleva averlo nell’abitacolo  durante il viaggio.
Nemmeno quando il traffico si sbloccò e le ruote dell’auto  cominciarono a macinare chilometri di asfalto, abbandonando la città alle loro spalle, Kitty diede segno di scuotersi.
Dopo un po’ Jason decise che fosse giunto il momento scambiare qualche parola con la ragazza, poiché anche l’autoradio sembrava averlo boicottato, dato che non riusciva a prendere una frequenza che trasmettesse musica decente.
“Allora, mi vuoi finalmente dire il vero motivo per cui hai cercato in ogni modo di convincermi a partire per New Team Town?”
Kitty ebbe un sussulto, come se si stesse svegliando all’improvviso da un sogno, e si voltò a guardarlo.
“Là ci sono persone che hanno bisogno di te. C’è la tua famiglia!”
“Hey! Io ho già una famiglia!”
“Ne sei davvero sicuro? Non ti manca qualcosa?”
L’uomo per poco non inchiodò nel mezzo dell’autostrada, non era possibile che quella donna sapesse…
Non aveva mentito, aveva una famiglia, due genitori meravigliosi ed una pattuglia di cugini casinisti con cui aveva passato momenti indimenticabili negli ultimi sei anni. Prima di allora c’era solo il buio. A quattordici anni aveva avuto un terribile incidente, o così pensava. L’avevano trovato a vagare solo, senza memoria. L’avevano portato in ospedale e c’era stata un po’ di pubblicità per la vicenda sui giornali locali, ma nessuno era venuto a reclamarlo, nessun famigliare o parente. Aveva stazionato per qualche tempo in un istituto, fino a quando i signori Brown non avevano deciso di accoglierlo nella loro famiglia, fatta di calore, di abbracci, di risate e, soprattutto, di quotidianità e di normalità che gli avevano permesso di non pensare troppo alla sua amnesia.
Quella era la sua vera famiglia.
“Non mi manca proprio niente! Io sono felice così!” Rispose inacidito.
Kitty si strinse nelle spalle.
“Contento tu! Ti ricrederai quando saremo arrivati.”
Jason sbuffò sonoramente.
“Comincio ad essere stanco del fatto che tu sia convinta di conoscere la mia vita meglio di quanto non conosca io. Non puoi sbucare dal nulla e sparare sentenze che non stanno né in cielo né in terra. Dovresti farti vedere da uno bravo!”
“Ma per favore! Solo perché qualcosa sfugge alla tua comprensione, non vuol dire sia una follia.”
La voce dell’uomo salì di tono.
“E tu pensi che sia normale essere convinti che la gente che ci circonda sia uscita da un fumetto! Che io sia un personaggio di un fumetto. Ti pare che sia bidimensionale?”
Kitty sbatté un pugno sul coperchio dell’airbag.
“Certo che non sei bidimensionale! – si passò una mano sulla fronte, forse nel tentativo di recuperare parte della sua calma – Facciamo così, visto che non mi credi: raccontami della tua vita, smentisci coi fatti le mie parole. Dimmi, dove andavi a scuola alle elementari? Chi erano i tuoi amici? Quale bambina ti stava più simpatica?”
L’unica risposta che Jason poté darle fu il silenzio, poiché non aveva idea di cosa avesse fatto durante il periodo delle elementari.
“Allora?” Lo incalzò Kitty.
“Senti, non lo so! Ho un’amnesia che non mi permette di ricordare nulla che sia accaduto prima dei miei quattordici anni. Sei contenta?”
Bruscamente abbandonò la corsia per sorpassare un camion, ricevendo un sonoro richiamo di clacson dall’automobilista che sopraggiungeva alle loro spalle, costretto a sua volta a scartare di una corsia per evitare la collisione.
“Stai cercando di farci ammazzare?! – gli urlò contro la donna – E se ti interessa, sono contenta, perché questo conferma la mia storia. Hai vent’anni, giusto?”
Jason rispose con un grugnito che valeva da affermazione.
“Vuol dire che sono passati sei anni di maledetta prigionia! – Esalò Kitty con sofferenza – Sei  anni che i  personaggi del manga sono finiti in questo mondo, precisamente nel giorno del matrimonio di Tsubasa.”
“Ma se il matrimonio di Tsubasa non è mai stato scritto da Takahashi!”
Kitty sospirò.
“Il matrimonio non c’è in nessun volume perché è stato distrutto dalla maledizione che ha imprigionato tutti a New Team Town ed ha bloccato loro la memoria. Come è successo a te: eri solo un ragazzino, ma anche tu c’eri al matrimonio.”
Jason non ne poteva più. Mise la freccia a destra e si preparò a lasciare temporaneamente la via.
“C’è un’area di servizio, ho bisogno di andare  in bagno.” Disse secco.
Appena arrestato il veicolo, scese sbattendo la portiera, allontanandosi il più in fretta possibile da Kitty, prima che la discussione tra loro degenerasse in un alterco troppo violento.
 
 
 
L’ingresso di New Team Town si spalancò di fronte a loro: era una piccola cittadina formata da strade e viali ordinati su cui si affacciavano abitazioni singole o bi-familiari. Solo verso il centro c’era qualche condominio, ma che non superava i cinque piani in altezza.
L’atmosfera all’interno dell’abitacolo dell’auto era fredda come ghiaccio, poiché da dopo la sosta Jason non aveva rivolto la parola e neppure mostrato un cenno di distensione alla donna, ancora troppo furioso per la lite precedente. La sua razionalità gli urlava in ogni istante di fare inversione e tornarsene a New York, dimenticando tutta la faccenda  e le assurde affermazioni di Kitty.
Dal canto suo, Kitty si era richiusa nel mutismo dei primi istanti dopo la partenza, forse perché aveva capito di aver raggiunto il limite con lui, oppure, perché si preparava ad una nuova carica non appena l’avesse condotto in qualche luogo significativo della cittadina. Chissà, forse aveva in mente di portarlo al campo da calcio dove si sarebbe trovato davanti l’intera nazionale alle prese con una massacrate sessione di allenamento sotto lo sguardo severo di Mister Gamo. Non ci poteva credere: stava cominciando a ragionare come Kitty! Scosse la testa per scacciare dalla mente quelle assurdità.
Il suo sguardo fu attirato da un cantiere in pieno fermento e la sua curiosità venne accesa.
“Chissà cosa staranno costruendo lì?” Si domandò, senza rendersi conto di aver parlato ad alta voce.
Kitty aprì gli occhi e rispose pigramente:
“Il nuovo Municipio. Il Sindaco ha messo al lavoro tutti gli operai del paese per questo progetto, anche se dopo l’incidente c’è stato un periodo di stallo.”
Jason non riuscì a trattenersi dall’indagare più a fondo, la sua natura di aspirante giornalista che scalpitava per avere più informazioni.
“Quale incidente?”
“C’è stato un brutto crollo durante i lavori ed il capocantiere è rimasto sotto. È riuscito a salvarsi, ma da allora è su una sedia a rotelle.”
Jason rimase molto colpito.
“Ci credo che i lavori si siano fermati per un po’!”
Kitty prese un sospiro lungo e profondo:
“Questo è solo uno dei problemi creati dalla maledizione. – Di colpo si mise a sedere più dritta – Gira a destra e parcheggia davanti ai due palazzi rossi.”
L’uomo obbedì e si infilò in un altro viale alberato, costeggiato su entrambi i lati da parcheggi a spina di pesce. Ne trovò uno libero proprio davanti alla porta del primo palazzo indicatogli da Kitty. Le facciate dei due edifici erano costruite in maniera perfettamente simmetrica ed una sorta di intuito faceva credere a Jason che anche l’interno fosse organizzato alla stessa maniera.
“Sono palazzi gemelli?” Domandò mentre girava la chiave per spegnere il motore.
“In un certo senso. – rispose la donna – Sono stati realizzati dallo stesso architetto che ha progettato il nuovo palazzo comunale, o almeno, così ci è stato fatto credere, dato che sono stati presenti fin dall’arrivo di tutti i personaggi di Captain Tsubasa.”
Di nuovo Kitty parlava in maniera assurda, ma questa volta Jason decise di ignorarla. Scese dall’auto e si diresse silenziosamente al bagagliaio, da dove estrasse uno zaino con della biancheria di ricambio portata per ogni evenienza, ed una busta di tessuto bianco che conteneva il famoso libro.
“Dove dobbiamo andare?”
“Nel palazzo rosso di sinistra, dove c’è il mio appartamento.”
Jason sbatté gli occhi confuso.
“Non mi avevi detto che anche tu vivevi qui!”
“È importante?”
“Ma certo che lo è, dato che parli di questa cittadina come se fosse un posto magico!”
Era talmente sconvolto dalla rivelazione da non prestare attenzione a dove stesse camminando ed a chi ci fosse intorno a lui. Lo scontro con la donna che avanzava sul marciapiede fu inevitabile.
La donna cadde a terra, mentre a Jason scivolava il libro dalle mani.
“Oh, mi scusi! Sono mortificato!” Si chinò per afferrarle le mani ed aiutarla ad alzarsi.
Una scossa lo investì nel momento in cui la sua pelle sfiorò quella della donna.
“Sta bene?” Chiese, cercando di camuffare la strana sensazione provata.
“Sì.” Anche la donna lo guardava con un certo imbarazzo.
“Buongiorno First Lady, non mi aspettavo di trovarla qui!” Kitty intervenne con tutta la sua esuberanza.
La donna parve riscuotersi.
“Sono molto di fretta! La prossima volta stia più attento a dove cammina! Arrivederci!” Si incamminò velocemente senza più guardarli.
Jason era come inebetito.
“Chi è?”
“Tua sorella!”



__________________________
Alla fine Kitty è riuscita a convincere il razionale Jason a seguirla alla scoperta di New Team Town e dei suoi misteri, anche se il viaggio non si è rivelato dei più sereni: il ragazzo è molto scettico e chi non lo sarebbe al suo posto?
Nel frattempo, però, scopriamo che anche la sua vita passata non è stata così normale e tranquilla come lui ama raccontare.

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Capitolo 4
*** III ***


Jason era ancora inebetito a fissare la donna con cui si era scontrato allontanarsi lungo il marciapiede. Non troppo alta, corporatura snella fasciata da un elegante tailleur con gonna, capelli nerissimi tagliati a caschetto.
Aveva sentito Kitty salutarla, quindi la conosceva.
“Chi è?” Domandò meccanicamente.
“Tua sorella!”
La risposta della sua compagna di viaggio arrivò nel momento in cui la sconosciuta girava l’angolo e spariva dalla visuale, rompendo lo strano momento di sospensione in cui si era trovato.
Subito si accaldò con Kitty:
“Ma cosa dici! Io non ho sorelle!”
“Ne hai una ed era davanti a te poco fa! – rispose Kitty decisa – Ma non parliamone qua, potrebbe esserci qualcuno di indesiderato in ascolto.”
“Oltre che pazza, sei anche paranoica?”
La donna fece finta di non badare troppo all’affermazione di Jason. Si chinò invece a raccogliere la busta bianca rimasta abbandonata a terra, porgendola all’uomo.
“Fai più attenzione con questo. È prezioso, mi pare di avertelo già spiegato. Andiamo.”
Jason sbuffò, riprendendo il libro e seguendo Kitty verso l’edificio in cui abitava.
Passata la porta esterna, un ampio atrio accoglieva gli inquilini. A sinistra erano collocate alcune piante da interno, rigogliose e ben curate, mentre a destra c’era la guardiola del portiere, da cui poi si accedeva al suo appartamento riservato.
“Buon pomeriggio signor Derrick!”
Salutò Kitty cortese.
Il portiere sollevò gli occhi dal bancone, dove stava controllando alcuni documenti.
“Buon pomeriggio signorina.”
Il portiere era un uomo non molto alto dall’aria scaltra, con due grossi incisivi che sporgevano dal labbro superiore. Istintivamente a Jason ricordò uno dei gemelli Tachibana di Takahashi, ma scosse violentemente il capo: non poteva essere, era solo una coincidenza.
Seguì Kitty all’ascensore e silenziosamente raggiunse il secondo piano con lei.
La donna aprì la porta utilizzando un mazzo di chiavi tenuto insieme da un portachiavi peloso dai colori sgargianti dell’arcobaleno. L’appartamento non era molto grande, ma era accogliente ed arredato in maniera sobria, cosa che sorprese Jason, considerando gli abiti e gli accessori vistosi di Kitty.
“Ti mostro la tua stanza, così puoi sistemarti con comodo. Poi potremo parlare in salotto.”
La camera da letto degli ospiti di Kitty si affacciava sul viale da cui erano entrati e, dalla finestra, Jason poteva tenere d’occhio comodamente l’automobile di Matthew. Accanto alla finestra c’era una scrivania libera, l’ideale per poter scrivere i propri articoli e riordinare i frutti delle ricerche dei giorni successivi. Sulla parete opposta era collocato un armadio di legno grezzo, adatto a contenere il vestiario per alcuni giorni di soggiorno. Il letto era quasi al centro della stanza, protetto da una coperta marrone.
Terminato di sistemare il suo piccolo bagaglio, Jason tornò in salotto, stringendo il libro al petto, pronto ad ingaggiare battaglia con Kitty. Quest’ultima, nel frattempo, aveva preparato del tè caldo che stava accuratamente portando con un vassoio fino al tavolino davanti al divano.
“Accomodati pure. -  Gli disse quando lo vide spuntare dal corridoio –Zucchero?”
“Un cucchiaino, grazie.”
Jason si accomodò ed aspettò che la padrona di casa terminasse di preparare lo spuntino.
“Dove ci eravamo interrotti? Ah sì, tua sorella.”
“Ti ho già detto che non ho una sorella!”
“Solo perché non la ricordi, non vuol dire che tu non l’abbia.”
Jason stava già per perdere la pazienza, domandandosi invece come facesse Kitty a restare completamente calma mentre inventava sciocchezze sempre più assurde. Incrociò le braccia al petto con fare oppositivo.
“Sentiamo, perché questa mia fantomatica sorella non è mai venuta a cercarmi?”
“Ma perché nemmeno lei si ricorda di te! Te l’ho spiegato ieri: hanno perso tutti la memoria delle loro vite passate.” Ora Kitty cominciava a dare segni di nervosismo.
Jason alzò le mani in segno di resa, non intendeva continuare a discutere all’infinito su quel punto, da cui sospettava non sarebbero mai usciti. Preferì concentrarsi su qualcosa di più pratico:
“Senti, prima l’hai chiamata First Lady...”
La donna annuì.
“È la moglie del Sindaco. Il suo nome qui a New Team Town è Patricia Gatsby.”
“Qui a New Team Town?” Domandò in tono scettico.
Kitty sbuffò.
“Quando non vuoi credere, sei proprio ottuso! Dammi il libro.”
L’uomo estrasse il volume dalla custodia in cui l’aveva riposto per il viaggio, passando una mano sopra la copertina decorata. Più il libro restava in suo possesso e più gli si affezionava.
“Eccolo.”
Kitty lo appoggiò sul tavolino, spostando più di lato il vassoio con la teiera, e cominciò a sfogliarlo alla ricerca di una delle pagine illustrate. Trovato ciò che cercava, ruotò il libro in modo che fosse dritto per Jason.
“Guarda qua! Non trovi che le somigli?”
Jason strabuzzò gli occhi
“Sanae? Mi stai dicendo che la moglie del Sindaco è Sanae Nakazawa?”
“Perspicace!”
Jason scoppiò a ridere, incapace di trattenersi, trovando la faccenda estremamente assurda e divertente: di tutte le persone che Kitty avrebbe potuto indicargli come fonte di ispirazione per i personaggi di Takahashi, aveva voluto scegliere la donna più in vista della cittadina. Soprattutto, la moglie di un sindaco non era credibile come modella per quel terremoto di Anego. Gli passò nella mente l’immagine di Sanae che prendeva a colpi di bandiera in testa i consiglieri di opposizione durante una seduta del consiglio comunale. La ridarella lo colpì in maniera ancora più incontenibile.
“Sono lieta che la faccenda ti diverta!” La voce di Kitty era secca e scocciata in maniera pericolosamente allarmante.
L’uomo tentò di recuperare un certo contegno.
“E dimmi, se Sanae Nakazawa è la moglie del Sindaco, il Primo cittadino chi è? Tsubasa Ozora? Da capitano della nazionale a sindaco?” Non riuscì a trattenersi dal ridacchiare nuovamente.
Kitty si alzò e si avvicinò alla finestra, torturandosi una delle trecce con la mano.
“Non esattamente: chi ha lanciato la maledizione ha un senso dell’umorismo piuttosto contorto. Il Sindaco è Taro Misaki.”
Le risate di Jason aumentarono di intensità, ormai era un fiume in piena incapace di fermarsi.
“Senti le assurdità che dici?”
“E tu ti stai comportando da cafone maleducato! – Urlò Kitty per sovrastare il rumore – Se non avevi intenzione fin da principio di credere a quello che dico, perché sei venuto fino a qui? Per farti delle risate alle mie spalle? Se non sei intenzionato a salvare la tua famiglia, troverò un modo per farlo da sola. Quella è la porta.”
Kitty era furiosa e Jason si spaventò, sentendosi leggermente in colpa per esserle scoppiato a ridere in faccia, in fondo sapeva fin dall’inizio con che persona avesse a che fare.
“Scusa, non ti scaldare. Non riderò più.”
“No, non lo farai, ma continuerai a considerare tutta questa storia un’assurdità.”
“Non posso farne a meno. – tentò di giustificarsi – Come si può credere a maledizioni e personaggi che saltano fuori dai fumetti? Non è razionale.”
Kitty si allontanò a grandi falcate verso la porta della cucina.
“La razionalità non è il centro della vita! Se la pensi diversamente, tornatene pure alla tua università.”
Jason si alzò di scatto:
“Sono venuto qui, praticamente trascinato da te, per indagare ed ora vuoi cacciarmi?”
La donna si bloccò.
“E su cosa vorresti indagare, su qualcosa a cui non credi?”
Jason si sentì punto nel vivo. Non sapeva nemmeno lui come gestire la situazione in cui si era ingarbugliato: fino a poche ore prima aveva cercato in qualsiasi modo di far desistere Kitty dai suoi propositi e di lasciarlo in pace, ora che lei gli offriva la possibilità di tirarsi fuori dalla faccenda senza essersene troppo compromesso, non voleva andarsene, forse perché non era abituato a lasciare le cose a metà.
“Ormai è quasi sera, non mi va di viaggiare di notte. Dovrai sopportarmi almeno fino a domani mattina.”
Kitty sembrò ammorbidirsi.
“Speriamo che la notte ti faccia rinsavire. Mi procuro qualcosa per cena.”
Afferrò la borsa ed uscì, lasciandolo da solo in casa.
 
 
 
La pioggia era arrivata inaspettata su New Team Town. Non prevista da nessun sistema di rilevazione meteorologica, era iniziata con qualche goccia sparsa, sino a farsi fitta ed insistente al punto da lavare ogni cosa o persona incontrasse sulla sua strada.
C’era il cantiere per il nuovo palazzo municipale, ora fermo e silenzioso, con gli attrezzi riposti in ordine e coperti, pronti per essere utilizzati la mattina successiva.
C’era la villa del Sindaco, al centro del quartiere residenziale, col suo prato curato e perfettamente tagliato a due centimetri d’altezza, la veranda con le sedie di vimini, le tegole rosse del tetto e le grandi vetrate colpite dal ticchettio delle gocce.
C’era il bar caffetteria “Fiore del Nord” frequentato da quasi tutti gli abitanti della cittadina, la cui cameriera correva sotto la pioggia per ritirare tovaglie e cuscini dai tavolini e dalle sedie collocati all’esterno, prima che diventassero irrecuperabili ed il proprietario sfogasse in maniera eccessiva la sua rabbia.
C’era la gelateria, dove si potevano gustare gelati dai gusti freschi e golosi, dotata di una tenda plastificata che poteva essere facilmente srotolata a riparare i clienti.
C’era l’edicola, ancora aperta, gestita con piglio deciso ed instancabile voglia di lavoro dal giovane proprietario, per nulla preoccupato dall’improvviso acquazzone.
C’erano il salone del parrucchiere, il negozio di frutta biologica, la biblioteca, l’ospedale, la casa di riposo, la stazione di polizia, tutti schierati come soldatini sull’attenti, costretti a bagnarsi senza la possibilità di lasciare il loro posto.
C’era la discoteca, coi fari ed i neon spenti per il giorno di chiusura, solo le ballerine che avevano terminato il turno di prove uscivano dalla porta di servizio. Quasi tutte scappavano a casa per non bagnarsi, una restava immobile a braccia spalancate col viso rivolto verso l’alto ad assaporare la pioggia ed a farsi lavare via le oppressioni, almeno finché il suo capo non se ne fosse accorto e l’avesse costretta a mettersi al riparo.
C’erano le strade, i viali, gli alberi, un campo da calcio quasi abbandonato, la chiesa col campanile che svettava alto a richiamare i fedeli.
La cittadina lentamente si spegneva e si preparava ad affrontare la notte, mentre la pioggia non dava segno di diminuire d’intensità.
 
 
 
L’uomo si allontanò dal vetro della finestra, la pioggia che cadeva lo turbava. L’aveva sempre considerata un evento affascinante, eppure quella sera c’era qualcosa che non andava, era diverso.
Stappò una bottiglia di vino rosso e se ne versò un bicchiere. Il sapore aspro gli invase il palato, mentre si accomodava in poltrona. Tentò di distrarsi guardando un po’ di televisione, ma non trovava nessun programma di suo gradimento o che lo catturasse a sufficienza da impedirgli di pensare che qualcosa fuori dal suo controllo stesse accadendo. Anzi, la sensazione di disagio aumentava invece di scemare.
Cercò di fare mente locale sulla giornata appena trascorsa: nulla di rilevante era accaduto, tutti continuavano a condurre le miserevoli esistenze in cui li aveva bloccati, senza possibilità di riscatto o di gioia. Nessuno pareva ricordarsi di chi era stato in tempi di gloria maggiore.
Aveva una posizione di osservatore privilegiato su quanto accadeva nella cittadina ed abbastanza informatori da sapere quando qualcuno dava segni di risveglio, come era accaduto con la prigioniera.
Improvvisamente ebbe un’intuizione, forse la prigioniera sapeva qualcosa, forse era riuscita a combinare qualche trucchetto prima che i suoi la prendessero.
Si alzò e si diresse verso la cantina interrata, dove teneva la sua riserva di vino pregiato. Spostò lo scaffale più lontano, rivelando una stanza segreta grande quanto l’ambiente precedente. Solo una luce fioca illuminava la cella. Sdraiata su una lurida coperta, con entrambi i polsi trattenuti da catene, una giovane donna sonnecchiava.
“Svegliati!” Le ordinò imperioso.
La donna aprì gli occhi e si mise a sedere, per quanto le catene glielo permettessero.
“Cosa è successo?”
“Piove.” Rispose secco.
La prigioniera sbatté le palpebre.
“E quindi?”
“Tu ne sai qualcosa?”
“Sono lusingata, ma mi stai sopravvalutando: se potessi far cambiare il tempo a mio comando, avrei anche trovato il modo per andarmene da qui.”
L’uomo le si avvicinò nervoso.
“Bada a non prendermi in giro, o le conseguenze per te saranno terribili, al punto che questa prigionia ti sembrerà una vacanza.”
La donna sollevò la testa in un moto di orgoglio.
“Sei una carogna! Ti ripeto: non so niente di questa pioggia.”
L’uomo le mollò un ceffone.
“Basta così, piccola impertinente.”
Si voltò e richiuse la cella, sistemando accuratamente lo scaffale: anche se a casa sua entravano solo i suoi fedelissimi, non si era mai troppo prudenti.
Tornato nell’atrio avvertì un leggero capogiro che lo costrinse ad appoggiarsi al primo mobile a disposizione. Ancora più allarmato di prima, afferrò il telefono e compose urgentemente un numero. Dopo pochi squilli risposero all’altro capo.
“Pronto?”
“Sono io.”
“Quali ordini?”
“Tenete gli occhi aperti in paese. C’è stata una vibrazione nella maledizione, qualcosa non va.”
“Sarà fatto.”
Riagganciò senza dire altro e tornò a gustarsi il vino: il suo piano era filato liscio per sei anni, non avrebbe mai permesso che qualcuno lo intralciasse, per nessun motivo.




____________________________
Innanzitutto mi scuso per il mancato aggiornamento di settimana scorsa, ma sono stati giorni pienissimi di cose programmate ed imprevisti che non sono riuscita nemmeno ad aprire il file per revisionare il capitolo e mi scocciava darvi un aggiornamento non sistemato a dovere.
Spero che le prime rivelazioni sulla misteriosa New Team Town, che imbrogliano ancora un po' la matassa, mi faranno perdonare.
Nel frattempo Jason sembra sul punto di perdere definitivamente la pazienza con Kitty e le sue assurdità, tuttavia rinvia la partenza fino al giorno successivo. La notte gli farà cambiare idea?

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Capitolo 5
*** IV ***


Mentre camminavano verso la loro meta, Jason si  guardava intorno, cercando di cogliere tutte le sfumature della cittadina che si risvegliava. Kitty aveva insistito per andare a fare colazione fuori casa in modo che potesse cominciare a prendere familiarità con l’ambiente e le persone che popolavano New Team Town, se avesse deciso di restare. La donna indossava un abito color verde smeraldo che la rendeva visibile da lunghe distanze, mentre la giacca di pelle era stata abbandonata a favore di una color crema.
“Eccoci arrivati!” Annunciò sprizzando energia.
A Jason pareva che avesse dimenticato la lite del giorno precedente e questo significava che presto sarebbe partita alla carica con le sue assurdità. Fortunatamente non l’aveva costretto a portare con sé il libro, ritenendo non prudente mostrarlo troppo in giro.
La caffetteria si chiamava Fiore del Nord e nell’aspetto esterno ricordava un po’ le baite di montagna ricreando con abili pennellate l’effetto delle travi di legno. Anche l’insegna era molto graziosa, un pannello bianco dipinto a mano raffigurante un bucaneve.
La porta d’ingresso si  spalancò e ne uscì una donna dai capelli rossi che reggeva una busta da cui proveniva un invitante profumo di brioche e un bicchiere per bevande da asporto.
“Amy! Non mi aspettavo di trovarti qui! - La salutò Kitty – Di solito a quest’ora non sei ancora nel mondo dei sogni?”
La donna si lasciò sfuggire una risatina:
“Normalmente, ma ti ricordo che ieri sera eravamo chiusi! Sai che mi piace alzarmi presto quando non ho lavorato.”
Kitty si batté una mano sulla fronte.
“Che distratta che sono, ho perso di vista il conto dei giorni.”
Jason osservava lo scambio di cortesie tra le due che sembravano essere amiche, sentendosi un po’ messo da parte, dopo che era stato costretto a raggiungere New Team Town.
“Ti lascio, ne approfitto per fare una passeggiata nel parco. Poi vedo che sei in compagnia!” Amy salutò e li superò, allontanandosi per le vie della cittadina.
“Una sera passeremo al locale. – Le urlò Kitty, prima di tornare a rivolgersi al suo ospite – Entriamo?”
Jason annuì ed aprì la porta, facendosi da parte per lasciare passare prima la donna.
L’interno era grazioso ed accogliente, con molti particolari in legno. Alcune fioriere pendevano dal soffitto, riempite di bucaneve. Gli stessi fiori, adagiati in vasi ricavati da vasetti di marmellata, decoravano anche i tavoli ed il bancone. Scelsero un posto abbastanza centrale da dove potevano vedere un po’ tutto quello che accadeva.
“C’è anche uno spazio all’aperto sul retro, ma a quest’ora è più interessate stare qui.” Lo informò Kitty.
“Siamo forse venuti a spiare la gente al bar?” Chiese ironico Jason.
“Da qualche parte  dovrai pure iniziare. A molta gente piace venire al Fiore del Nord per la colazione, è un posto che ispira pace e tranquillità.”
Una graziosa cameriera si avvicinò al loro tavolo.
“Buongiorno e benvenuti. Vi lascio la lista delle nostre specialità. Oggi abbiamo anche una nuova confettura, se vorrete provarla.”
Kitty sorrise:
“Grazie Jenny, gentilissima.”
Come era arrivata si allontanò per andare a ricevere le ordinazioni di altri clienti.
Jason iniziò a sfogliare il menù, dando una rapida occhiata alla lista di cappuccini, caffè e bevande calde.
“Conosci proprio tutti, eh?” Domandò con un sopracciglio inarcato alla compagna di tavolo.
La donna si strinse nelle spalle.
“È la mia caffetteria preferita. Piuttosto, hai pensato alle implicazioni di ciò che hai scoperto ieri?”
L’uomo sbuffò e scosse la testa, non era pronto ad affrontare certi discorsi ancora prima di avere messo del cibo nello stomaco, gli serviva qualcosa di forte per tenere a freno la galoppante fantasia di Kitty.
“Di grazia, quali sarebbero?”
Kitty lo guardò con un’espressione mista a sconcerto ed incredulità dipinta sul volto:
“Sul serio non ci hai pensato? Hai conosciuto tua sorella e non ci hai riflettuto?” Si stava quasi scandalizzando.
Jason prese un profondo respiro prima di rispondere, per evitare di alzare troppo il tono della voce, poiché si trovavano in un luogo pubblico e non voleva fare la figura del maleducato.
“Ti ho già detto che lei non è mia sorella. Se così fosse io dovrei essere…”
“Atsushi Nakazawa, esatto! – annuì entusiasta Kitty – Allora quando vuoi sai fare lavorare la testolina!”
“Ti dimentichi un particolare: Atsushi è un ragazzino di quattordici anni, io sono un uomo!”
Pensava di averla messa spalle al muro con quella semplice constatazione, di cominciare ad incrinare le certezze della donna in merito alle sue teorie. Eppure lei continuava a sorridere.
“E tu dimentichi che sono passati sei anni! Pensaci, tutto collima: tu non hai nessun ricordo della tua vita prima di sei anni fa.”
“È colpa dell’incidente! – stava cominciando di nuovo a perdere la pazienza, ormai aveva perso il conto delle volte in cui negli ultimi tre giorni quella donna lo aveva portato al limite dell’esasperazione. – E sentiamo, pure tutti gli altri hanno un buco nero nella memoria prima di sei anni fa?”
La donna scosse la testa con aria afflitta.
“Peggio: hanno dei falsi ricordi, credono di essere sempre stati le persone che sono qui. Molti di loro hanno vite infelici e problemi, non sanno che erano molto più felici di come sono ora.”
Una lacrima fece capolino su un occhio di Kitty, ma lei la scacciò rapida con una mano.
Jason non l’aveva mai vista così abbattuta, si rese conto che lei non solo credeva davvero in tutto ciò che affermava, ma soffriva per le conseguenze che pensava le persone attorno a lei stessero subendo. Provò all’improvviso una strana pena per quella sconosciuta e si domandò se assecondarla nei suoi vaneggiamenti fosse la cosa migliore per lei.
Quando parlò di nuovo cercò di usare un tono più dolce:
“Dici che loro hanno dei falsi ricordi, perché io no?”
“Forse perché tu non sei mai arrivato qui. – lo guardò fisso negli occhi – Non so perché sia successo, ma l’uragano che ha trascinato via tutti ti ha scagliato lontano da New Team Town e questo ti ha permesso di non subire tutte le conseguenze della maledizione.”
Jason non sapeva cosa replicare e fu grato quando Jenny si riavvicinò per chiedergli se avessero scelto cosa ordinare.
“Per me un caffè doppio ed un cornetto.”  Disse sicuro.
“Io vorrei un paio di fette di pane tostato con la vostra nuova confettura ed un cappuccino chiaro.” Rispose Kitty che sembrava aver recuperato la solita allegria.
“Ve li porto subito.”
 
 
 
Jenny si allontanò da Kitty e dal suo ospite portando con sé le copie del menù che aveva precedentemente lasciato. Andò dietro al bancone e mise a scaldare nel tostapane due fette di pane. Preparò un vassoio su cui dispose il cornetto richiesto dall’uomo ed i piattini per le tazze che avrebbe riempito con le bevande richieste. Lavorava veloce e sicura, le piaceva portare alla gente il piccolo conforto di un dolcetto, di uno spuntino salato, di una bibita rinfrescante o di un infuso caldo. Non sempre le giornate trascorrevano come programmato o come desiderato e se lei poteva portare un sollievo, seppur minimo, ne era felice. Jenny credeva nel valore delle piccole azioni ed era per quel motivo che aveva sempre avuto il sogno di aprire un bar caffetteria. C’era quasi riuscita: il posto in cui lavorava apparteneva a Jack, il suo compagno, che a sua volta l’aveva ereditato dai genitori. Quando Jack aveva ottenuto il locale aveva deciso di ristrutturarlo e cambiargli nome per farle un regalo. L’aveva chiamato Fiore del Nord in suo onore e l’aveva arredato in tema, facendo anche la felicità del fiorista che non immaginava mai di ricevere un consistente ordine di bucaneve in quella regione. Era stato un gesto molto dolce, considerato che non si frequentavano da molto, che le aveva fatto un piacere immenso e l’aveva convinta che Jack potesse essere quello giusto. All’epoca il loro rapporto era quasi perfetto, non si vedevano nuvole all’orizzonte, poi Jack aveva cominciato a diventare molto geloso nei suoi confronti ed avevano litigato più di una volta per quel motivo. Non che fosse un cattivo ragazzo, ma qualche volta perdeva facilmente la pazienza. Sentiva che spesso non erano sulla stessa lunghezza d’onda e sperava fosse solo una fase passeggera.
“Chi è il tizio con cui stavi parlando prima?” Jack era arrivato accanto a lei facendola trasalire.
“Quale?” Gli chiese.
“Quello allo stesso tavolo di Kitty.”
La donna si strinse nelle spalle cercando di assumere l’aria più innocente che le riuscisse.
“Non ne ho idea, dovresti chiederlo a Kitty.”
Jack mise le mani sui fianchi con fare minaccioso, squadrandola dalla testa ai piedi con un’espressione concentrata che metteva ancora più in risalto la cicatrice a croce che aveva in mezzo alla fronte.
“Vi sarete detti qualcosa!”
“Ho solo raccolto le ordinazioni!”
Jenny dispose le fette di pane ricoperte di confettura e le tazze calde sul vassoio, preparandosi a portarle a Kitty ed al suo ospite.
“Tu sorridi troppo quando lavori.”
“Oh, Jack, – lo canzonò bonariamente – non posso certo andare ai tavoli col broncio: farei scappare tutti i clienti!”
La donna vide l’espressione contrariata che stava cominciando ad apparire sul volto del compagno e decise di prevenire una scenata avvicinandosi a lui ed accarezzandolo su una guancia.
“Non ti preoccupare, non vado da nessuna parte. Porto solo questi al tavolo e sono da te.”
Agilmente aggirò il bancone ed afferrò il vassoio, muovendosi aggraziata tra i tavolini, fino ad arrivare da Kitty.
“Ecco a voi!” Disse con un sorriso, porgendo tutte le ordinazioni.
“Sei stata velocissima ed impeccabile come sempre!” La ringraziò Kitty.
Jenny fece un piccolo inchino per accettare il complimento, ma nel risollevarsi si accorse che l’uomo aveva puntato lo sguardo sul suo polso destro. Innervosita si affrettò ad abbassare di più la manica della camicia per nascondere il livido violetto che le aveva lasciato la mano di Jack la sera precedente, quando l’aveva afferrata durante la loro ultima lite.
“Spero che troverete tutto di vostro gradimento.”
Si allontanò da loro in fretta, non voleva che lo sconosciuto facesse domande per almeno due motivi: per prima cosa, se si fosse trattenuta più del dovuto al loro tavolo a Jack non sarebbe piaciuto, per seconda, Kitty non sarebbe riuscita a trattenersi ed avrebbe tentato a tutti i costi di farle raccontare cosa le fosse successo, qualsiasi bugia lei si inventasse, non avrebbe mollato la presa fino a farla capitolare con la verità.. Quella donna aveva la strana ed inquietante capacità di riuscire a rendersi conto quando qualcuno mentiva, fosse anche per una sciocchezza.
La porta della caffetteria si aprì ed entrò uno dei frequentatori più assidui, tanto che aveva un tavolo riservato tutto per lui.
Jenny lasciò il vassoio sul bancone e gli andò incontro salutandolo calorosamente.
“Buongiorno signor Price!”
“Buongiorno Jenny.” Rispose l’uomo con un verso più simile ad un grugnito che ad una vera risposta.
“L’accompagno al suo tavolo?”
Price annuì ed azionando una leva fece spostare la sua sedia a rotelle in direzione del suo posto riservato, con Jenny accanto.
La donna rifletté che di tutti gli uomini che frequentavano il Fiore del Nord, Benjamin Price sembrava essere l’unico per cui Jack non provasse alcuna gelosia e per cui non veniva mai  rimproverata di passare troppo tempo al suo tavolo o di sorridere in maniera troppo sfrontata, nonostante fosse uno dei più affascinanti scapoli dell’intera cittadina. Forse perché Benjamin Price e la sua famiglia erano clienti del locale ancora da quando era di proprietà dei signori Morris, i genitori di Jack, e quest’ultimo conosceva il capocantiere da quando erano bambini. O forse era perché non vedeva una reale minaccia al suo ruolo di fidanzato perfetto in un uomo in carrozzella. Era un pensiero meschino e Jenny tentò di scacciarlo dalla testa, poiché non voleva credere che Jack covasse dentro di sé simili bassezze: non si giudicava il valore di un uomo dal fatto che potesse camminare o meno.
Con un sorriso tornò a rivolgersi a Benjamin.
“Eccoci arrivati signor Price. Se le da troppo fastidio il sole, posso chiudere la tenda a quella finestra.”
L’uomo scosse la testa.
“No, va bene così. O, meglio, non va bene nulla, ma questa è un’altra faccenda.”
Jenny sapeva che l’altra faccenda riguardava la sua situazione attuale e l’incidente che l’aveva causata: da quel giorno Benjamin Price non era più stato la stessa persona, ironica ed anche un po’ strafottente, di prima. Oltre all’uso delle gambe pareva aver perso buona parte della propria determinazione che spuntava solo nell’odio che provava verso colui che riteneva responsabile della sua sciagura.
“Signor Price, vedrà che presto i dottori troveranno qualcosa, abbia fiducia. Nel frattempo, le porto il solito?”
Benjamin annuì, poi si chiuse nel mutismo. La donna si allontanò per svolgere i suoi doveri di cameriera e preparare quanto richiesto.
 
 
 
“Jason! Smettila di guardare da quella parte, non è educato.”
Al richiamo di Kitty, Jason Brown tornò a concentrarsi sul proprio cornetto ripieno di crema: non voleva sembrare inopportuno guardando troppo a lungo il giovane uomo sulla sedia a rotelle, ma si era ricordato del racconto che la sua compagna di viaggio gli aveva fatto il giorno prima mentre passavano davanti al cantiere del nuovo palazzo municipale.
“Questa confettura è davvero buonissima, scommetto che l’ha fatta Jenny stessa. Quella ragazza ha delle mani d’oro.”
“Come, scusa? - Jason sbatté gli occhi e si passò una mano sulla fronte a recuperare la concentrazione – Non ti stavo seguendo.”
“L’ho notato! In quale elucubrazione eri perso? Pensavi alla tua famiglia?”
Brown fece un sorrisetto ironico:
“Non ti arrendi mai, vero? In realtà stavo pensando a quell’uomo e alla storia che mi hai raccontato ieri.”
Aveva indicato con un gesto discreto, che sperava avesse visto solo la sua interlocutrice, l’uomo che era entrato prima ed era stato accompagnato al tavolo da Jenny.
“Quale storia?”
“Quella del cantiere? Non ricordi?”
Kitty agitò una mano davanti al volto.
“Ti ho raccontato talmente tante cose per cercare di convincerti a venire qui ed indagare, che non posso ricordarmi tutto.”
Tentò di giustificarsi la donna, ma quella spiegazione non convinceva del tutto  Jason, che tuttavia decise di passare oltre, più interessato a conoscere la storia dell’uomo.
“Quel signore, è il capocantiere di cui mi parlavi?”
Kitty annuì.
“È Benjamin Price. Dirigeva tutti i lavori, era molto capace e rispettato da tutti gli operai. Quando c’è stato il crollo il turno era quasi finito e tutti erano quasi fuori, solo lui ed il suo secondo Crocker erano rimasti in prossimità della costruzione.”
Jason ascoltava molto interessato, in una cittadina non troppo grande come New Team Town un crollo in un cantiere era un avvenimento importante e forse avrebbe potuto ricavare qualche buon pezzo che avrebbe potuto tornargli utile come elaborato da consegnare in università.
“A questo Crocker cosa è successo?”
“È rimasto praticamente illeso, a parte qualche ammaccatura temporanea. Pare che il merito sia di Price: ha sentito il cedimento un secondo in anticipo ed è riuscito a spingere l’operaio fuori dalla traiettoria delle macerie più pesanti, ma è costato a lui il rimanere sotto.”
L’uomo sospirò e lanciò un fugace sguardo in direzione di Price.
“Praticamente è un miracolo che sia ancora vivo.”
“Già, ma lui non la pensa così.”
All’improvviso, Kitty parve riacquistare la sua consueta vitalità, dopo che la questione del cantiere l’aveva resa più pensierosa.
“Ti sei scelto un caso difficile come primo salvataggio!”
“Cosa stai vaneggiando?”
“Hey, tu!”
Una voce possente costrinse Jason a voltarsi ed a scoprire di essere stato raggiunto da Benjamin Price che lo stava osservando con sguardo d’odio.
“Ha bisogno di qualcosa?”
“Sì, che tu la smetta di guardarmi come se fossi un’attrazione del circo. La mia condizione ti diverte?”
Jason restò per un istante allibito, ma recuperò prontamente il sangue freddo:
“Se l’ho offesa in qualche modo, non era mia intenzione, le chiedo scusa.”
“Raccontalo a qualcun altro, buffone!”
Kitty intervenne per placare gli animi.
“Signor Price, ha frainteso. Il signor Brown si sta occupando della storia del cantiere, aveva appena saputo di quanto accaduto e si è stupito della coincidenza di trovare qui lei nel momento in cui ne stavamo parlando. Nient’altro.”
Jason si affrettò a confermare la versione della donna, sperando che fosse sufficiente a calmare l’animo del capocantiere.
“Se proprio deve stupirsi di trovare in giro qualcuno, dovrebbe stupirsi di trovare allegramente a passeggiare il responsabile di quanto accaduto!”
Se prima l’odio di Benjamin Price era confinato agli occhi, ora tutto il suo volto era deformato in una maschera, talmente il sentimento che provava era forte.
“Cosa vuole dire?” Domandò ingenuamente Jason.
“Che invece di stare qui ad infastidire me, lei dovrebbe andare a tartassare quel bastardo di Oliver Hutton!”




_________________________
E finalmente, dopo l'accenno nello scorso capitolo, abbiamo il vero nome, secondo Kitty, di Jason: Atsushi Nakazawa, fratello di Sanae. Atsushi è un personaggio che compare solo nel manga e per tanto non ha un nome europeo "ufficiale".
Kitty riesce a convincere il suo ospite a fare colazione fuori, sperando di convincerlo in questo modo a restare.
Noi ne approfittiamo per fare la conoscenza di alcuni degli abitanti di New Team Town e delle loro storie.

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Capitolo 6
*** V ***


Jenny si era allontanata da lui da pochi istanti per andare a preparare la sua usuale colazione. La ragazza era molto gentile e cercava ogni volta di farlo sentire a proprio agio, mentre lui riusciva a rispondere solo a mugugni o con frasi al limite della scortesia. Del resto la sua situazione rischiava di farlo impazzire: si sentiva uno storpio senza possibilità di guarigione. Nel primo anno dopo l’incidente aveva provato a credere alla speranza di riuscire ad alzarsi da quella maledetta sedia a rotelle, ma nessuno dei suoi sforzi era stato premiato ed aveva finito per arrendersi all’evidenza.
Nell’osservare la cameriera allontanarsi aveva notato su di sé lo sguardo dell’uomo che sedeva allo stesso tavolo di quella stramba di Kitty. Gli salì un fastidio improvviso, poiché la seconda cosa che non riusciva a sopportare della propria condizione erano gli sguardi a volte di commiserazione, a volte di pietà, a volte di scherno, a volte di curiosità di chi incontrava. Se quanto accaduto fosse stata colpa sua, forse avrebbe potuto farsene una ragione, ma dato che la colpa era tutta di quella sottospecie di architetto che non era riuscito a fare correttamente l’unica cosa che gli era richiesta, non poteva sopportare di essere lui a pagarne le conseguenze.
Prese il giornale, collocato sulla mensola nei pressi del suo tavolo riservato, per ingannare l’attesa, anche se la cronaca locale non lo interessava molto.
Jenny arrivò poco dopo con un espresso fumante ed una omelette.
“Grazie Jenny!”
“Si figuri, signor Price. Buon appetito.”
Prima di afferrare le posate si accorse che lo sconosciuto l’aveva nuovamente indicato a Kitty con un gesto. La sua rabbia stava per tracimare, ma si trattenne per evitare di fare una scenata nel locale di Jack Morris, che era uno dei pochi posti pubblici della cittadina che ancora frequentava.
L’omelette era davvero deliziosa e per un attimo riuscì a fargli dimenticare i suoi problemi.
Bevve un sorso di caffè, forte e deciso come piaceva a lui e quell’uomo lo stava osservando un’altra volta! Adesso aveva proprio esagerato.
Appoggiò di malagrazia la tazzina sul tavolo e raggiunse gli altri due avventori del Fiore del Nord.
“Hey, tu!” Apostrofò l’uomo, senza curarsi di quello che i due stavano dicendo tra loro.
“Ha bisogno di qualcosa?”
“Sì, che tu la smetta di guardarmi come se fossi un’attrazione del circo. La mia condizione ti diverte?”
L’uomo parve stupito e la cosa, se possibile, lo fece alterare ulteriormente, portandolo a stringere i pugni.
“Se l’ho offesa in qualche modo, non era mia intenzione, le chiedo scusa.”
“Raccontalo a qualcun altro, buffone!”
Stava per fare qualcosa di azzardato, solo l’intervento di Kitty lo fermò:
“Signor Price, ha frainteso. Il signor Brown si sta occupando della storia del cantiere, aveva appena saputo di quanto accaduto e si è stupito della coincidenza di trovare qui lei nel momento in cui ne stavamo parlando. Nient’altro.”
Il signor Brown confermò la versione della donna.
“Se proprio deve stupirsi di trovare in giro qualcuno, dovrebbe stupirsi di trovare allegramente a passeggiare il responsabile di quanto accaduto!”
Ormai l’odio verso l’architetto stava tracimando e se il suo interlocutore fosse stato veramente interessato alla storia del cantiere, allora lui lo avrebbe illuminato come si doveva.
“Cosa vuole dire?”
Fu l’ingenua domanda che si sentì rivolgere.
“Che invece di stare qui ad infastidire me, lei dovrebbe andare a tartassare quel bastardo di Oliver Hutton! È colpa sua se mi trovo in questa condizione di merda, sua e dei suoi progetti completamente sbagliati.”
Sputò fuori ogni parola, quasi triturandola tra i denti, con tutto il disprezzo di cui era capace.
“Aspetti un attimo e mi faccia capire: questo Oliver Hutton sarebbe il progettista del nuovo Municipio?”
Benji annuì.
“Esatto! Ha sbagliato il progetto, noi al cantiere abbiamo seguito le sue istruzioni ed abbiamo rischiato di morire tutti o, peggio, restare storpi a vita. La sa una cosa? Quell’incompetente non ha passato un solo giorno in prigione per quello che mi ha fatto!”
Jason mostrò parecchio stupore:
“Non c’è stato un processo per stabilire le colpe e le punizioni?”
Il capocantiere rispose acido, poiché qualsiasi cosa che avesse a che fare con Hutton lo indisponeva allo stesso modo.
“Quello non è stato un processo, ma una farsa! Quel pusillanime del nostro Sindaco non ha avuto il coraggio di affondare il colpo definitivo e nonostante le chiare colpe dell’architetto ha fatto in modo che non venisse incarcerato. Ora lui è fuori a farsi la bella vita.”
Kitty, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, si rivolse direttamente a lui:
“Signor Price, mi pare che Hutton sia in ogni caso stato condannato a risarcirla con una cifra parecchio cospicua.”
Benji fece una smorfia contrariata:
“E cosa vuoi che me ne faccia dei soldi se non posso più camminare?”
“Mi sta dicendo che con Oliver Hutton in prigione lei si sarebbe alzato immediatamente da quella sedia?”
“Kitty!”
Jason la rimproverò con tono scandalizzato, mentre Price sbatté violentemente un pugno sul tavolo guardandola con odio.
“Qualcuno mi aveva detto che avevi delle simpatie per quell’individuo, del resto cosa ci si potrebbe aspettare da una stramba come te! Non osare mai più rivolgerti a me con quel tono, anzi, non rivolgermi mai più la parola in generale. Buona giornata signor Brown!”
Benji premette i comandi sul bracciolo e girò la carrozzella per andarsene, facendo segno a Jenny di segnare tutto sul suo conto che avrebbe saldato come al solito a fine settimana. Mentre si avvicinava alla porta sentì Kitty che gli urlava contro:
“Io la smetterò di parlarle, quando il suo tirapiedi Harper smetterà di fare lo stronzo!”
Uscì sbattendo la porta e raggiunse l’autista che lo aspettava.
 
 
 
 
 
Dopo l’incidente  con Benjamin Price, Jason aveva terminato in fretta la colazione nel silenzio più assoluto. Voleva solo uscire dal locale e scrollarsi di dosso la sensazione che tutti stessero guardando con disapprovazione verso lui e la sua accompagnatrice. Non avrebbe mai creduto che Kitty potesse rivolgersi in maniera così sgarbata ad un uomo che evidentemente non aveva ancora elaborato del tutto ciò che gli era capitato. Jason aveva provato sulla propria pelle cosa significhi dover superare un trauma e non c’è trauma peggiore di non sapere chi si è: solo il grande amore della sua famiglia adottiva, quella che sentiva essere la sua vera famiglia, l’aveva condotto fuori dal baratro e fatto diventare l’uomo che era ora.
Una volta all’aperto prese una grande boccata d’aria, a rigenerare i polmoni dopo che all’interno del Fiore del Nord la situazione si era fatta irrespirabile.
“Come ti dicevo prima, hai scelto di cominciare con qualcuno di difficile: Benji Price non è certo la persona più affabile di New Team Town e la sua situazione una delle più tristi.”
Si voltò di scatto verso Kitty e l’aggredì verbalmente:
“Come ti è saltato in mente di rivolgerti a quell’uomo in maniera così scortese?”
La donna parve risentirsi, superandolo sul marciapiede.
“Non ti scaldare, non conosci tutte le dinamiche di questo posto. Ti assicuro che Oliver Hutton sta pagando più di quante siano le sue colpe, sempre che ce ne siano state.”
“Adesso metti in dubbio quanto stabilito in un processo?”
“Beh, se il tuo avvocato è Ed Warner, soprannominato l’avvocato delle cause perse, qualche dubbio che il processo avrebbe potuto finire diversamente dovrebbe venirti.”
Jason sbuffò, non era dell’umore per ingaggiare una battaglia verbale con la donna.
“Senti, vado a farmi un giro da solo. Così comincio a conoscere questo posto. Ci vediamo dopo.”
Aspettò qualche istante, sicuro che Kitty avrebbe avuto delle obiezioni ed avrebbe insistito per accompagnarlo e fargli da guida turistica, invece la donna lo sorprese.
“Se sei testardo solo la metà di tua sorella, farai un ottimo lavoro qui, Atsushi.”
“Non chiamarmi Atsushi! Il mio nome è Jason.”
Si voltò di scatto e partì nella direzione opposta rispetto a quella da cui era arrivato al mattino, dalla casa di Kitty.
Pur non credendo a tutte le assurdità della donna, doveva ammettere che la storia del cantiere lo stava intrigando, soprattutto dopo che Benjamin Price aveva espresso il suo punto di vista sulla faccenda. Chi meglio del capocantiere poteva sapere cosa fosse accaduto in quei tragici momenti? Inoltre pareva convinto che le responsabilità dell’architetto progettista fossero maggiori di quanto gli fosse stato riconosciuto dal tribunale. Avrebbe dovuto andare a vedere più da vicino il cantiere e poi cercare di rintracciare quell’Oliver Hutton, in questo forse Kitty avrebbe potuto aiutarlo, dato che sembrava sapere tutto di tutti a New Team Town. Jason si trovò a domandarsi quale personaggio di Captain Tsubasa fosse Benjamin Price nella testa di Kitty.
Sollevò la testa e si accorse di essere arrivato davanti ad un edicola, un buon posto per cercare notizie sugli avvenimenti locali. Decise di dare una sfogliata ai giornali, alla ricerca di qualcosa di interessante. Improvvisamente un uomo alto e dalla pelle abbronzata, uscì di scatto dall’edicola e si diresse a grandi falcate alla gelateria sulla sinistra. Solo un vicoletto, al momento occupato da alcuni cartoni gettati alla rinfusa, separava le due attività.
“Callaghan! – sbraitava lo sconosciuto – Quante volte ti ho detto di non gettare la tua spazzatura nel vicolo!”
“Lenders, sei il solito paranoico!”
Jason pensò di allontanarsi piuttosto in fretta rinunciando ad acquistare il quotidiano che aveva adocchiato, ne aveva avuto abbastanza di gente che urlava e si insultava per quella mattina e sospettava che il diverbio tra l’edicolante ed il gelataio sarebbe durato piuttosto a lungo.
Proseguì nella sua passeggiata senza una meta ben precisa, osservando i negozi del centro con le loro insegne colorate, le case con i mattoni a vista e le persone che passeggiavano. Ad una prima occhiata gli abitanti di New Team Town gli sembrarono delle persone normalissime, vestite normalmente, con volti normali, sguardi normali e preoccupazioni normali. Perché mai avrebbero dovuto essere scambiati per personaggi di un manga finiti contro la loro volontà nel mondo reale?
Scosse la testa, turbato, rendendosi conto di quanto i discorsi strampalati di Kitty fossero penetrati in lui, al punto da portarlo a porsi delle domande che fino a due giorni prima non si sarebbe mai posto. Era come se fosse stato contagiato dal modo di pensare della donna, ma per quel che ne sapeva lui i problemi mentali non erano contagiosi. Si domandò quale potesse essere la definizione clinica del disturbo di una persona che credeva che personaggi immaginari vivessero nel mondo, mescolati alle persone comuni.
Un’idea gli balenò nella mente: se Kitty conosceva quasi tutti, anche gli altri conoscevano lei, come avevano dato prova di fare il signor Price, la cameriera del Fiore del Nord e quella ragazza dai capelli rossi. Mentre indagava per scoprire qualcosa sul cantiere e sulle misteriose fonti di ispirazione di Takahashi, avrebbe potuto fare delle domande anche sulla donna e scoprire qualcosa in più su di lei. Da quello che aveva colto dalla conversazione con Benjamin Price, anche l’ex capocantiere considerava la donna poco centrata e forse era opinione comune nella cittadina.
Uno schiamazzo proveniente dall’altro lato della strada attirò la sua attenzione:
“Hey! Con che coraggio ti fai vedere qui in giro?”
Un uomo con un taglio di capelli molto corto stava gridando in direzione di un altro uomo che gli era appena passato accanto con le spalle incurvate. L’incontro tra i due sembrava casuale, ma il primo individuo nutriva un aperto astio nei confronti del secondo.
“Perché non ti decidi una buona volta a lasciare la cittadina? Non ti vogliamo qui!”
L’interpellato non reagì e proseguì il suo cammino senza nemmeno voltarsi a guardare chi lo stava insultando, solamente incurvò di più le spalle.
Jason voleva nascondere il volto tra le mani e riavvolgere la giornata che si stava rivelando assai burrascosa: ovunque andasse finiva per trovare qualcuno che litigava con qualcun altro.
“Te la dai a gambe? Codardo, reagisci una buona volta. – lo sconosciuto proseguiva la sua invettiva – O forse sai di avere torto marcio, è così? Hai rovinato la vita al mio amico!”
L’uomo aveva con sé una borsa di plastica da cui estrasse un uovo, tirò indietro il braccio e lanciò nella schiena del suo avversario.
“Ecco! Questo è quello che ti meriti!”
Altre uova comparvero nelle sue mani e furono tutte lanciate contro il malcapitato che ad un certo punto osò voltarsi verso l’aggressore e venne colpito sulla guancia.
Jason non riuscì più a trattenersi ed attraversò furioso il viale, deciso a porre fine allo scempio a cui stava assistendo.
“Si può sapere cosa ti ha fatto di male quest’uomo per essere trattato così?” Domandò all’aggressore, frapponendosi tra lui ed il suo obiettivo.
“Fatti gli affari tuoi, bell’imbusto.”
“Qualunque cosa lui possa averti fatto, lanciargli uova addosso non risolverà la situazione. Così passi tu dalla parte del torto.”
Jason si sentì squadrato da capo a piedi dal tizio che aveva di fronte.
“Benji l’aveva detto che c’era in giro un estraneo che ficcava il naso nei nostri affari. A quanto pare hai deciso di schierarti dalla parte di questo qua!”
Brown indurì lo sguardo e replicò seccamente:
“Mi schiero dalla parte di una persona che stava camminando per strada ed è stata aggredita prima verbalmente e poi fisicamente senza un motivo apparente.”
Per un lungo istante i due uomini si fissarono in silenzio, in una sorta di sfida a chi abbassava per primo lo sguardo, a chi ammetteva di avere torto. Fu lo sconosciuto a parlare, rivolgendosi però all’uomo che stava oltre le spalle di Jason.
“Sei fortunato che abbia finito le uova e debba rientrare al lavoro. E tu! – puntò un indice contro Jason – Ci rivedremo presto: sarà meglio che per allora tu abbia capito quale sia la fazione giusta.”
L’uomo raggiunse un pick-up parcheggiato un po’ più in là, salì a bordo sbattendo la portiera e se ne andò.
Jason si voltò ed offrì la propria mano alla vittima dell’aggressione. Indossava dei jeans strappati ed una felpa passata di moda da almeno tre anni e piuttosto scolorita, non sembrava passarsela bene in generale.
“Jason Brown. Come sta?”
L’uomo lo osservò con curiosità, come se non fosse abituato a ricevere manifestazioni di solidarietà. Strinse la mano che gli veniva porta.
“Sto bene, non si preoccupi. Sono Oliver Hutton.”
Jason cercò di mascherare lo stupore e l’emozione che l’aveva colto: dopo aver tanto sentito parlare male dell’architetto, se l’era trovato davanti inaspettatamente.
“La ringrazio per quello che ha fatto. – stava proseguendo Hutton – Tuttavia non avrebbe dovuto mettersi in mezzo, non conosce i motivi dei gesti di Bruce: non si può dire che abbia tutti i torti.”
L’aspirante giornalista scosse la testa piuttosto contrariato.
“Non può dire così: qualunque siano stati i suoi errori e le sue colpe nessuno ha il diritto di aggredirla per strada.”
Oliver sospirò.
“La ringrazio ancora e le auguro buona giornata.”
“Mi permetta di accompagnarla fino a casa, ha bisogno di ripulirsi.”
Si offrì Jason, convinto che nessuno avrebbe infastidito l’architetto se l’avesse visto in compagnia: sospettava che il teppista che l’aveva aggredito agisse solo quando l’uomo era isolato.
“È molto gentile, ma io non ho più una casa.”





_______________________________
Dopo Genzo, finalmente fa la sua comparsa anche Tsubasa che, diciamocelo, non se la passa troppo bene nemmeno lui. Chi ha scagliato la maledizione deve volere proprio male ai nostri eroi.

Parlando di altro, le vacanze natalizie sono alle porte, ed anche i nostri personaggi intendono approfittarne, per cui la storia si prende una pausa fino al termine delle festività nel nuovo anno. ;)
 

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Capitolo 7
*** VI ***


Seduto sul divano di casa di Kitty, Jason stava aspettando che Oliver Hutton finisse di farsi la doccia: dopo che l’architetto gli aveva rivelato di aver perso il proprio appartamento perché non più in grado di pagare l’affitto, era riuscito a convincerlo a seguirlo da Kitty per darsi una ripulita in un bagno dotato di tutti i comfort, invece che delle semplici docce della casa di accoglienza della parrocchia.
Kitty era rientrata da pochi minuti e dopo essere stata ragguagliata su quanto successo, si era limitata ad un sorrisetto compiaciuto.
“Hai fatto bene a portarlo qui!” Gli aveva detto, sistemando nella dispensa il contenuto della busta della spesa.
Jason scosse la testa con fare contrariato.
“Io capisco che quest’uomo non sia molto amato per via dell’incidente al cantiere, ma come si può arrivare ad umiliare una persona a questo modo?”
Kitty si sedette accanto a lui, pensierosa.
“Bruce Harper è sempre stato una testa calda ed un fedelissimo di Benjamin Price, pensa di star facendo giustizia da solo.”
“Ed il signor Price permette queste cose in suo nome?”
La donna gli appoggiò una mano su un braccio, provocandogli una strana sensazione di calore.
“L’hai visto anche tu alla caffetteria: è un uomo profondamente amareggiato da quanto gli è successo ed odia Oliver in maniera viscerale. Direi quasi che l’odio che nutre è la motivazione che lo spinge ad andare avanti e non abbandonarsi all’apatia.”
“È pazzesco.” Fu il solo commento di Jason.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui lo studente si perse nei propri pensieri, non riuscendo a cogliere il senso di una logica di comportamento che andava contro tutto ciò che gli era stato insegnato. Dall’altra parte cominciava a capire quanto affermato da Kitty in mattinata sul fatto che Oliver Hutton stesse scontando più di quanto meritasse e l’irritazione della ragazza nei confronti di Price su quello specifico argomento.
“Senti – chiese – questo Harper è uno degli operai del cantiere?”
La donna scosse la testa.
“Si occupa dell’installazione e della gestione di bagni chimici, ma ultimamente c’è poco lavoro in quel campo.”
“E quindi passa il suo tempo libero a bullizzare la gente?”
“Vedo che hai afferrato il punto.”
Kitty sorrise e si alzò per accendere il bollitore elettrico e preparare il tè.
Jason la sentì parlare dalla cucina.
“Immagino tu stia cominciando a renderti conto delle situazioni create dalla maledizione.”
“Certo – ripose l’uomo con ironia, avvicinandosi alla porta per evitare di urlare attraverso l’appartamento e di far capire all’ospite qualcosa del discorso delirante che era appena stato intavolato – se la gente in questa città non è capace di mantenere dei rapporti civili dev’essere di sicuro colpa di una maledizione.”
“In che altro modo ti spieghi Genzo Wakabayashi che odia a morte Tsubasa Ozora?”
Jason restò spiazzato, come se fosse stato colpito da un pugno improvviso allo stomaco.
“Fammi capire, tu saresti convinta che Tsubasa abbia provocato un incidente in cui Genzo ha rischiato di morire? Che Tsubasa abbia quasi ucciso Genzo?” Domandò esterrefatto, con gli occhi spalancati come due fanali di una vecchia Cinquecento.
 “Non Tsubasa, la maledizione!” Rispose la donna, passandogli davanti con in mano un vassoio su cui erano appoggiate una teiera fumante e tre tazzine di porcellana graziosamente ornate di decorazioni floreali.
Jason ribatté molto irritato:
“Non scherzare su una situazione così seria: se non te ne sei accorta la vicenda è drammatica.”
“Su questo siamo d’accordo.”
Oliver Hutton entrò nel salotto, indossando l’accappatoio che Jason gli aveva prestato, sfregandosi i capelli con un asciugamano e ponendo fine alla discussione tra i due.
“Ciao! Ho fatto del tè, ne vuoi una tazza?” Kitty lo accolse sorridente, facendogli segno di accomodarsi.
“Immagino vi conosciate.” Commentò Jason.
Oliver annuì e un timido accenno di sorriso spuntò sul suo volto.
“Chi non conosce Kitty? Non passa certo inosservata, senza offesa.”
“Figurati! Zucchero?” Domandò cortese.
“Sì, grazie.”
Jason osservò Kitty comportarsi da perfetta padrona di casa, servendo il tè ad Hutton e poi a lui, con una grazia ed una gentilezza che non aveva ancora avuto modo di notare in lei, sempre persa nelle sue fantasie su maledizioni e affini.
L’architetto prese la parola:
“Volevo ringraziarvi entrambi per avermi permesso di venire a ripulirmi qui.”
“Ci mancherebbe altro! Se vuoi posso prestarti degli abiti puliti, ad occhio dovremmo avere la stessa taglia.” Jason si stupì del proprio slancio, solitamente non amava prestare le proprie cose agli amici, figurarsi ad una persona conosciuta solo da poche ore. L’unica eccezione al suo ferreo codice era Matthew, con cui condivideva l’alloggio e con cui si era sviluppato una legame più profondo che con altri.
Oliver rifiutò:
“Non ce n’è bisogno.”
“Non dire sciocchezze: non puoi mica andare in giro con quella felpa sporca di uovo crudo!”
“Kitty ha ragione! -  si oppose Jason -  Me li restituirai la prossima volta che ci vedremo.”
“D’accordo.” Ad Hutton non restò altro da fare  che capitolare, affondando nella poltrona ed incurvando le spalle nella sua abituale posizione rassegnata.
“Però, Kitty, non vorrei che ti esponessi troppo in mio favore. Potresti avere problemi in paese.”
La donna fece un gesto con la mano, a scacciare le preoccupazioni dell’architetto.
“Sai che non mi è mai importato troppo di quello che pensano gli altri. Se insisti a volerti sdebitare, potresti raccontare a Jason tutta la storia del cantiere dal tuo punto di vista.”
Brown raddrizzò la schiena di scatto e si fece attento, poiché l’argomento gli interessava parecchio, ma non voleva sembrare indelicato a chiedere direttamente all’architetto. Ringraziò mentalmente Kitty per aver avanzato la richiesta al suo posto.
Oliver Hutton si irrigidì sulla poltrona, apparendo ancora più a disagio di quando era ricoperto di tuorli ed albumi.
“Non saprei…” Disse solo.
Kitty intervenne di nuovo, ormai aveva preso in mano il controllo della conversazione.
“Dai Holly, ti puoi fidare di lui. Te lo assicuro. Magari una persona estranea alle dinamiche di New Team Town può avere un parere più lucido di noi sulla questione.”
Jason era sulle spine, tratteneva la curiosità a fatica mentre l’architetto rifletteva sulle parole della padrona di casa.
“Mi hai convinto. Cosa sai della vicenda, Jason?” Domandò rivolto allo studente.
“Non molto: quello che mi ha accennato velocemente Kitty e le invettive che Benjamin Price ha lanciato nei tuoi confronti, ma prima di giudicare vorrei avere un quadro completo della situazione.”
Hutton annuì ed iniziò il suo racconto:
“L’architettura e la progettazione sono sempre state la mia grande passione, fin da bambino. Quando ho ricevuto l’incarico di progettare il nuovo Municipio ero laureato da poco, ma avevo già alle spalle diverse esperienze, inizialmente da stagista, poi vere e proprie collaborazioni di successo in importanti studi con alcuni dei migliori architetti dello stato. Avevo guadagnato un certo nome ed un certo rispetto nell’ambiente e credo sia stato questo il motivo che abbia spinto il sindaco Becker ad ingaggiarmi. Ero entusiasta di avere il mio primo progetto autonomo e mi sono messo subito al lavoro. In poco tempo il progetto fu pronto ed al Sindaco piacque molto. Il cantiere fu affidato a Benjamin Price, uno dei migliori nel suo campo, noto per la maniacalità con cui faceva osservare le norme di sicurezza. Il giorno del crollo avevo visitato il cantiere poche ore prima ed ero rimasto piacevolmente sorpreso da come i lavori procedessero spediti. Poi avvenne l’inimmaginabile: tutta la struttura crollò e Benjamin Price ne uscì dapprima in fin di vita e poi su una sedia a rotelle. Dopo quanto avvenuto ho passato notti insonni a riguardare i progetti alla ricerca di un errore, ho rifatto i calcoli mille volte e non ho trovato nulla di sbagliato. Durante il processo, gli esperti che hanno esaminato tutto hanno detto di aver trovato degli errori e non ho motivo di dubitare delle loro parole. Ho chiesto di poter vedere la loro perizia per capire dove avessi sbagliato, ma mi è stato risposto che non potevo visionare le prove.” Concluse il suo racconto con un profondo sospiro di rassegnazione.
“Molto strano – commentò Jason – Se non a te, al tuo avvocato avrebbero dovuto mostrare la perizia.”
Oliver si strinse nelle spalle:
“L’avvocato Warner l’ha letta ed ha detto che era inattaccabile. La sentenza mi ha obbligato a pagare a Price una grossa cifra in risarcimento. Da allora non ho più ricevuto incarichi, nessuno vuole lavorare con me e non gli do torto, ho fatto un errore clamoroso.”
Kitty si alzò sbuffando, si avvicinò all’architetto e gli appoggiò una mano sulla spalla.
“Questa è solo una crudeltà gratuita. Non meriti questo trattamento.”
Jason stava per ribattere che gli sembrava normale che, dopo quanto successo, nessuno chiedesse ad Hutton di gestire un progetto, ma la donna lo zittì prima che potesse pronunciare una sillaba.
“Vedi, Jason, nessuno vuole assumere Holly, nemmeno per fare delle fotocopie, per portare del caffè o raccogliere la spazzatura. Nemmeno per il più meccanico dei lavori che potrebbe svolgere anche un ragazzino. È come se tutto il paese avesse indetto una crociata contro Oliver Hutton.”
Jason restò a bocca aperta, per quanto fosse probabile che la maggior parte della gente simpatizzasse col ferito, non credeva che non ci fosse una sola persona disposta ad assumere Oliver per il più umile dei lavori.
“A volte ho pensato di andarmene, di lasciare New Team Town. -  Proseguì l’architetto – Dove nessuno mi conosce potrei trovare un lavoro, qualsiasi lavoro, non necessariamente legato a ciò che ho studiato. In realtà non sono mai riuscito ad allontanarmi dalla cittadina, ci sono più legato di quanto immaginassi. Così, a forza di restare senza lavoro, i soldi sono finiti, o non me ne sono rimasti a sufficienza per permettermi di pagare un affitto e il mio padrone di casa mi ha sbattuto fuori.”
“Quello non aspettava altro che una scusa, fidati.” Fu l’acido commento di Kitty.
“Quindi ora vivi alla casa di accoglienza?” Chiese Brown.
Oliver annuì, bevendo un lungo sorso di tè prima di rispondere.
“Padre Ross mi ha offerto un letto, almeno ho un posto dove poter passare la notte.”
Restarono tutti e tre in silenzio. Jason rifletteva su tutta la vicenda, indeciso su chi dei due protagonisti principali si trovasse nella condizione più penosa: Benjamin Price aveva perso l’uso delle gambe e non dirigeva più i lavori al cantiere, sul campo, ma aveva l’appoggio e l’affetto di tutti gli abitanti di New Team Town, dall’altra parte Oliver Hutton era ridotto sul lastrico ed abbandonato da tutti, solo il parroco e Kitty gli mostravano della solidarietà. L’architetto gli sembrava una brava persona, aveva commesso un errore, ma in buona fede, non con l’intento di fare del male a qualcuno volontariamente. Si era dimostrato incompetente, non malvagio. Gli ispirava fiducia, una fiducia come poche persone prima di lui erano riuscite a guadagnare da parte sua e solo dopo un lungo periodo di conoscenza.
“Senti, Oliver – lo guardò dritto negli occhi – Hai ancora i progetti originali del nuovo palazzo municipale?”
“Sì, sono tra le poche cose che ho portato via da casa.”
“Potresti farmeli vedere? Matthew, il mio coinquilino, studia architettura e potrebbe darci un’occhiata e farli vedere ad uno dei suoi professori, per cercare di trovare il tuo errore. Dubito che a New York conoscano la vicenda, così possono esaminare il lavoro senza pregiudizi.”
Hutton sembrò illuminarsi:
“Lo faresti sul serio?”
“Certamente! Penso sia nell’interesse di tutti risolvere il mistero.”
Kitty batté le mani con fare entusiasta.
“Jason! Hai avuto una bellissima idea! Vado a preparare la cena, ormai è quasi ora.”
Oliver si alzò.
“Allora io mi cambio e me ne vado.”
“Stai scherzando? - Kitty era scandalizzata – Non mangi niente?”
“Vi ho già dato fin troppo disturbo. Ho del cibo da parte alla casa di accoglienza e ti assicuro che padre Ross mi fornisce almeno un pasto caldo al giorno. Non preoccuparti.”
La donna tentò ancora di protestare, ma fu tutto inutile, Oliver non si fece convincere.
Jason invidiò la calma con cui l’architetto reagiva all’insistenza di Kitty: se si fosse comportato così anche lui quando si erano conosciuti, non sarebbe riuscita a trascinarlo fin lì.
“Vieni, ti prendo qualcosa per vestirti.”
Hutton rispose con un sorriso.
“Grazie! Avrei un altro favore da chiederti: chiamami Holly. Quando avevo amici, mi chiamavano così.”




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Dopo la pausa natalizia, Oliver Hutton riesce finalmente a raccontarci la storia del cantiere dal suo punto di vista. Si ritiene colpevole e questo di sicuro non ha giovato nei suoi rapporti con i concittadini. Tuttavia la proposta di Jason pare tentarlo...

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Capitolo 8
*** VII ***


Il cantiere del nuovo Municipio di New Team Town era attivo e brulicante come un formicaio in costruzione. Le formiche operaie si muovevano in file ordinate e precise, svolgendo diversi compiti, tutti però indirizzati ad un unico fine: l’edificazione del palazzo che sarebbe diventato la nuova sede delle attività amministrative della cittadina.
Ad un primo sguardo al cantiere, a Jason il progetto sembrò impegnativo e quasi eccesivo per una cittadina come New Team Town, ma il suo era un occhio inesperto, poteva benissimo sbagliarsi. Le grandi impalcature, una volta rimosse, avrebbero potuto lasciare posto ad un edificio meno ampio ed appariscente di quello che si poteva intravedere. L’area era delimitata da una rete verde a rombi e l’unico accesso era costituito da un cancello scorrevole del medesimo colore che al momento era chiuso: Jason immaginò che dopo il crollo le misure di sicurezza fossero aumentate anche nei confronti degli esterni e solo il personale autorizzato potesse accedere all’area riservata ai lavori.
Erano passati un paio di giorni da quando aveva inviato a Matthew le foto che aveva fatto ai progetti che Oliver Hutton gli aveva mostrato: avrebbe voluto recarsi subito al cantiere, la storia l’aveva stuzzicato, ma controllando la posta elettronica aveva scoperto che in università gli era stato richiesto di consegnare un saggio con pochissimo preavviso ed aveva passato il tempo chiuso in casa di Kitty a cercare di rispettare la scadenza, rinunciando a svolgere le sue indagini. Aveva anche pensato di rientrare in fretta e furia a New York, ma la donna l’aveva fatto riflettere sul fatto che mettersi in viaggio avrebbe significato la perdita di ore preziose per scrivere.
Il giornalista si appoggiò con entrambe le mani alla rete per tentare di vedere meglio, con la sensazione di sentirsi un pensionato che passava le sue giornate ad osservare e commentare l’operato altrui. La maggior parte degli operai lavorava alacremente, mentre un piccolo gruppo era disposto in cerchio attorno ad un uomo alto e ben messo, con capelli scuri che tendevano al riccio ed occhi altrettanto bui. Da lontano sembrava che stesse dando delle indicazioni agli uomini radunati accanto a lui, i quali annuivano convinti. Probabilmente si trattava del nuovo capocantiere, di colui che aveva preso il posto di Benjamin Price alla riapertura dei lavori. Jason si domandò come il nuovo supervisore fosse stato accolto dai lavoratori che erano impegnati ancora prima del crollo: avevano accolto di buon grado il suo arrivo? Lo trattavano con ostilità perché ancora troppo legati al vecchio capocantiere? Paragonavano il lavoro ed i modi dei due uomini? Probabilmente tutto dipendeva da come il nuovo elemento si era posto il primo giorno e da come continuava ad interagire con gli operai: se aveva dimostrato di rispettare il lavoro di Benjamin Price non c’era motivo per cui venisse considerato un usurpatore della posizione di quest’ultimo.
Il fluire dei pensieri di Jason fu interrotto da una figura altissima e massiccia che gli si parò davanti e lo guardò con odio. Se non ci fosse stata la recinzione a separarli, probabilmente Jason avrebbe fatto un balzo all’indietro, spaventato dall’improvvisa apparizione.
“Cosa stai facendo? Non vogliamo curiosi qua intorno!”
L’operaio incuteva timore e soggezione. Jason deglutì prima di rispondere.
“Mi chiamo Jason Brown e sono un giornalista: sono interessato a scrivere un articolo sulla storia di questo cantiere.”
Pensò che presentarsi in quella maniera, senza nascondere il suo vero scopo, l’avrebbe aiutato meglio di qualunque menzogna estemporanea avesse potuto inventarsi.
L’uomo di fronte a lui grugnì rumorosamente e lo guardò con ancora maggiore sospetto, ma alla fine sembrò convinto.
“Sì, Benji ci aveva raccontato qualcosa di simile. Quindi è lei il forestiero che sta cacciando il naso in affari che non dovrebbero riguardarlo?”
“Faccio solo il mio lavoro, come lei fa il suo. – Rispose Jason, stringendosi nelle spalle – Il mio scopo è ricostruire con la maggior precisione possibile l’intera vicenda, per questo sto cercando di parlare con tutti i diretti interessati e sono venuto a vedere da vicino il cantiere.”
“Qui non troverà niente di interessante: abbiamo abbattuto tutto ciò che restava del vecchio progetto.”
“Denver! Che stai facendo lì impalato? Abbiamo bisogno di te per scaricare il furgone!”
Il nuovo capocantiere richiamò all’ordine il muratore con fare autoritario.
“Ora dovrai vedertela con Big K e lui è ancora meno gentile di me.”
Di primo acchito, il responsabile non suscitò le simpatie di Jason, ma l’uomo decise di concedergli il beneficio del dubbio finché non l’avesse conosciuto meglio.
“E tu che fai lì? – gli sbraitò contro il capocantiere – Sei qui a distrarre i miei uomini?”
Si avvicinò con passo furioso alla recinzione, incrociando Denver che raggiungeva i compagni e che si chinò per sussurrargli qualcosa in un orecchio. Sul volto del capocantiere spuntò un sorrisetto beffardo, mentre, con un passo più calmo, raggiungeva Jason.
“E così sei venuto dalla grande città in questo posto dimenticato da Dio per scrivere un articolo su un altrettanto dimenticato cantiere.”
Jason sbatté le palpebre, mentre un formicolio sotto pelle gli confermava le prime spiacevoli impressioni.
“Come…”
Il capocantiere lo interruppe:
“Risparmiati qualunque storiella tu voglia propinarmi: quelli di città si riconoscono subito dalla puzza di fighetto che li precede.”
Decisamente quell’uomo non gli piaceva, così volgare e maleducato. Esisteva qualcuno di normale in quella stramba cittadina? Se Kitty era così suonata, forse non era del tutto colpa sua.
“Allora! – lo incalzò il suo interlocutore – Vuoi vedere il cantiere? Prima entri, prima ti togli dai piedi.”
Jason non se lo fece ripetere, per come era iniziata la sua conoscenza con gli operai stava disperando di poter avvicinarsi più di quanto gli permettesse la recinzione.
Big K aprì il cancello e lo fece entrare, urlando un ordine ad un uomo dai capelli ricci.
“Mason, porta qui subito un caschetto per il nostro ospite, non vorremmo mai che si facesse male!”
L’interpellato arrivò dopo pochi istanti reggendo un casco antinfortunistico di colore giallo.
“Grazie!”
Jason afferrò l’oggetto e, indossandolo velocemente, si portò all’inseguimento del capocantiere che era già partito verso il tavolo su cui poggiavano i progetti e le consegne per il giorno.
“Ho saputo che questo cantiere è stato fermo molto a lungo – esordì – ora invece vedo che si lavora a pieno ritmo.”
Big K incrociò le braccia con fare apparentemente annoiato.
“Una volta avuto il via libera per riprendere i lavori, non vedo perché dovremmo stare qui a poltrire. È stato già perso abbastanza tempo.”
“Immagino che anche per gli operai restare inattivi a lungo sia piuttosto tedioso.”
“Altroché! Noi siamo uomini di fatica e di sudore, non perfettini che hanno paura di sporcarsi le mani con il duro lavoro come te.”
Jason sentì l’irritazione salire, avrebbe voluto troncare la conversazione immediatamente, invece di restare lì e non ricavare niente di meglio di un continuo flusso di insulti.
“Con tutto il rispetto, non credo che lei mi conosca e possa giudicare.”
Il capocantiere fece una smorfia.
“Non ho bisogno di conoscerti, visto uno vi ho visti tutti. Tu sembri essere della stessa pasta di quell’Oliver Hutton, persi in un mondo di fantasie e sogni ambiziosi, dimentichi di tutto ciò che è reale e tangibile al punto da non rendervi conto che ciò che nella vostra mente esiste perfettamente non è detto possa esistere nella realtà.”
Jason voleva ribattere che forse l’architetto era un sognatore, ma lui non lo era di certo: tutti i suoi amici e compagni di corso gli ripetevano in continuazione che non conoscevano una persona più concreta di lui. Ancora una volta, una vocina che nemmeno sapeva esistesse fino a pochi giorni prima, quella che aveva cominciato a mettere in discussione i suoi punti fermi, gli sussurrò che in fondo così concreto non era dato che stava investigando sulla presunta presenza di personaggi dei fumetti nel mondo reale. Mise a tacere quella voce ricordandole che si era trattato solo di un momento di debolezza ed ora era interessato ad una faccenda molto tangibile: cosa poteva esserci di più concreto di un edificio in costruzione?
Si rivolse di nuovo al capocantiere:
“Parlando di Oliver Hutton, lei ha potuto visionare i progetti originali?”
“No – l’uomo fece un gesto secco e perentorio – E non ne ho nemmeno bisogno, sarebbe solo una perdita di tempo: dopo quanto successo il Sindaco Becker ha pensato bene di affidare un progetto molto ridimensionato ad un nuovo architetto.”
“Un nuovo architetto? – il giornalista era confuso, nessuno, nemmeno Kitty aveva accennato a quel risvolto. Ripensando all’ostracismo rivolto verso Hutton dall’intera cittadina, era una scelta più che sensata e logica. – Chi sarebbe?”
Big K si strinse nelle spalle.
“Un forestiero, non l’abbiamo mai visto. Un tale Shimada. Ha mandato il progetto via posta.”
“E come sarà il nuovo edificio?”
“Niente di trascendentale, ma questo non crollerà e non ammazzerà nessuno. Io non lo permetterò!”
Jason rifletté sulle parole aspre del nuovo capocantiere, pronunciate col tono arrogante con cui aveva condotto tutta la conversazione: sembrava quasi voler sollevare dubbi anche sul suo predecessore.
“Cosa intende quando dice che lei non lo permetterà?”
“Quello che ho detto: sorveglierò da vicino ogni movimento di questo cantiere e se dovessi notare qualcosa di strano impedirò a chiunque di avvicinarsi.”
Jason incalzò:
“Non vorrei che lei stesse sostenendo di poter prevedere un eventuale crollo.”
Big K affilò lo sguardo prima di rispondergli.
“Un danno di quell’entità non si manifesta senza avvisaglie: Price avrebbe dovuto notarle. O forse non era così competente come voleva far credere a tutti.”
Ora sulla faccia di Big K era impresso un orrendo ghigno ed a Jason venne il voltastomaco nella consapevolezza che quell’uomo stesse costruendo il suo successo sulle macerie delle disgrazie altrui, traendone addirittura un evidente gusto. Decise di lasciare da parte la diplomazia e di essere velenoso.
“Per curiosità, gli operai conoscono le sue opinioni personali su Benjamin Price?”
Il capocantiere non parve sconvolgersi più di tanto, aprì una scatola posta sul tavolo ed estrasse un pacchetto di sigarette. Ne portò una alla bocca e l’accese, iniziando ad aspirare.
“Quelli considerano Price come una divinità scesa in terra, lasciamoli nelle loro illusioni fino alla fine dei lavori. Mi sembra di averti dedicato abbastanza tempo, ora smamma!”
Il  giornalista fece per andarsene, lieto che l’incontro avesse fine.
“Solo un’ultima domanda: Big K sta per?”
Big K lo fulminò con un’occhiata, mentre espirava una grossa nuvola di fumo, spingendola contro il suo viso.
“Stai uscendo dal seminato, ragazzo, non espanderti troppo.”
Si voltò e se ne andò, lasciandolo alle sue considerazioni: aveva raccolto varie informazioni interessanti e la faccenda assumeva contorni meno netti, più complicati di quello che gli erano apparsi all’inizio. Ad essere sincero, l’unica persona coinvolta nella costruzione del nuovo Municipio con cui aveva potuto conversare amichevolmente ed avere un confronto positivo era quella da tutti considerata il grande cattivo nella vicenda. Per come aveva avuto modo di interagire con i diretti interessati, Oliver Hutton gli sembrava una pecora circondata da un branco di lupi.
Nel lasciare l’area del cantiere passò davanti  ad un gruppo di cinque operai tra cui riconobbe il gigante che lo aveva accolto al suo arrivo e l’uomo che gli aveva portato il casco. Ebbe un’idea ed il dover restituire l’oggetto gli forniva l’occasione adatta per avvicinare quel gruppo senza essere mandato a quel paese prima di essere riuscito a pronunciare una parola.
“Buongiorno, volevo restituirvi questo.” Disse, presentando il casco con le braccia distese.
Mason  lo afferrò senza degnare Jason di uno sguardo o di una parola e lo gettò malamente a terra, vicino alle cassette degli attrezzi lasciate aperte.
“Ora che hai finito di curiosare, quella è l’uscita.” Lo apostrofò un uomo con la dentatura superiore decisamente sporgente.
“Prima vorrei chiedervi una cosa: voi siete tutti amici di Benjamin Price, giusto?”
“E con questo?” Rispose quello grosso, gli sembrava si chiamasse Denver, mentre qualcuno degli altri annuiva più in risposta ad un istinto che alla volontà di fornire informazioni ad un ficcanaso.
“Immagino conoscerete anche quel tale, Bruce Harper. Vi sembra corretto il modo in cui si comporta nei confronti di Oliver Hutton?”
Un operaio con i capelli lunghi raccolti in un codino sputò a terra, a pochi centimetri di distanza dai piedi di Jason, il quale si rese conto di aver suscitato l’interesse che si aspettava.
“Io farei anche di peggio! Quell’essere ha quasi ucciso Benji ed in ogni caso gli ha rovinato la vita. Deve pagarla per ogni giorno che gli rimane!”
“Calmati Paul!” Il quinto uomo di quel gruppo cercava di trattenere il collega.
“No che non mi calmo! Questo qui viene a parlare di cose che non conosce e si permette di insultare il nostro capo!”
“Io non ho insultato nessuno! Ho solo fatto notare che…” Jason non riuscì a finire la frase che venne fatto voltare e spinto da parte da un forte scossone.
“Muoviti! – Sbraitò Denver – Fuori di qui prima che ti metta le mani addosso sul serio!”
“Me ne vado!”
Il giornalista batté in ritirata, non intenzionato a dare il via ad una rissa, ma comunque soddisfatto dall’aver avuto conferma del fatto che il gruppo di fedeli di Price avvallasse le azioni da teppista di Bruce Harper.
Riuscì a sentire ancora qualche stralcio della conversazione degli operai:
“Paul, non dovresti scaldarti così, in fondo non ha tutti i torti: Bruce sta esagerando, si sta comportando da stalker!”
“Alan, tu sei troppo buono, saresti incapace di portare rancore anche al tuo peggior nemico, perciò non immischiarti in questioni che non comprendi.”
 
 
 
Erano passate un paio di ore dalla cena e Jason si era ritirato in camera a lavorare. Seduto alla scrivania, il pc aperto, stava annotando su un file di testo le impressioni e le informazioni raccolte al cantiere, unite ai suggerimenti di Kitty. L’aiuto della donna era stato fondamentale per ricostruire i nomi degli operai con cui aveva parlato: Bob Denver, Johnny Mason, Ted Carter, Paul Daimon e Alan Crocker. Tutti conoscevano Benji Price fin da ragazzi, avevano lavorato con lui in vari cantieri e nutrivano un sincero sentimento di lealtà nei confronti del capocantiere. Una lealtà che si poteva definire cieca, non disposta ad accorgersi e notare eventuali difetti ed errori di Price, sempre che ce ne fossero stati. Erano la sua guardia del corpo, il suo gruppo di cheerleader private.
Più difficile gli era risultato inquadrare Big K, poiché Kitty non aveva saputo dirgli altro che non avesse particolare simpatia per Hutton già da molto prima del crollo del cantiere e che non era la persona più educata del mondo. Insomma, gli aveva riferito cose di cui si era benissimo accorto da solo. Poi si era attaccata alle sue solite strambe idee sostenendo che Big K era la versione di questo mondo di Koshi Kanda.
Jason voltò la testa verso il libro di Captain Tsubasa che giaceva a pochi centimetri dal computer, aperto sulla pagina dello scontro tra Kanda e Tsubasa, di cui era riportata una tavola. Big K aveva qualche somiglianza col pugile disegnato da Takahashi, a cominciare dalla poca simpatia che entrambi gli  suscitavano, ma da lì a sostenere che fossero la stessa persona era inconcepibile.
La vibrazione del cellulare lo distrasse dai suoi pensieri. Sul display campeggiava il nome di Matthew e rispose senza indugio.
“Hey Matthew!”
Ciao. Scusa l’ora, spero non fossi già a letto.”
“No, riordinavo appunti.” Mentre  parlava al telefono, con la mano libera premette sull’icona del salvataggio, per non rischiare di perdere inutilmente parte del lavoro.
Come va lì?
“La ricerca procede e la tua auto è al sicuro. Sei certo che non ti serva?”
Tranquillo, tienila tutto il tempo che vuoi! Oggi ho visto il professor Sullivan, ma non ho avuto tempo di chiamarti prima.”
Jason si rizzò sulla sedia e si fece più attento.
“Cosa dice? Ha trovato gli sbagli?”
No. Ha riguardato più volte progetti e calcoli e secondo lui sono perfetti e meticolosi.”
“Non capisco… Allora a cosa è dovuto il crollo?”
Dovrai scoprirlo da solo, ma non è dovuto ad un errore di progettazione.”
“Ma, gli esperti del tribunale hanno detto che le responsabilità erano di Oliver Hutton.”
Io non so chi siano questi esperti, ma mi fido del professor Sullivan. È il migliore in questo campo, lo sai.”
Jason sospirò.
“Lo so. Hutton però è stato giudicato colpevole… A meno che…”
A meno che qualcuno non abbia voluto incastrarlo!




_______________________________
Mi scuso per il ritardo di mezza giornata, ma ieri sera non ce l'ho fatta a finire l'ultima revisione.

Finalmente Jason si reca di persona al famoso cantiere e trova un po' di volti noti: chi altro potevano essere gli operai se non i ragazzi che sono più "fedeli" a Genzo, i membri della vecchia Shutetsu? E il nuovo capocantiere è il rivale in amore di Tsubasa, Kanda. Quest'ultimo l'ho chiamato Big K, poiché è un personaggio che appare solo nel manga e non nell'anime, per cui non ha un nome inglese da poter utilizzare ed ho dovuto giocare di fantasia.
 

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Capitolo 9
*** VIII ***


Si erano incontrati nella sua semplice stanza alla casa di accoglienza, perché Jason gli aveva detto di avere notizie importanti da inoltrargli nella più completa discrezione. Erano questioni delicate e l’entusiasmo di Kitty, seppur mosso da buona fede, poteva risultare dannoso: una volta venuta a conoscenza della verità, non se ne sarebbe stata buona in casa, sarebbe corsa a gridarla ai quattro venti senza ascoltare la sua opinione e le sue riserve. E di riserve sul rendere pubblico quanto Brown aveva scoperto ne aveva molte.
“Non ci credo! Non voglio crederci!” Esclamò l’architetto, allontanando da sé con una mano i fogli contenenti le conclusioni del professor Sullivan che il giornalista aveva stampato e gli aveva portato.
Jason sollevò un sopracciglio perplesso.
“Perché non vuoi credere? Ti scagionerebbe da ogni accusa!”
Holly sospirò e restò un attimo in silenzio, cercando di trovare il modo per spiegare all’amico le sue sensazioni e la battaglia interiore che l’aveva colpito nel momento in cui aveva realizzato la portata dei risultati delle verifiche svolte sui suoi progetti. Era ovviamente sollevato di aver scoperto di non avere alcuna colpa, ma non voleva puntare con leggerezza il dito contro un altro responsabile per la disgrazia accaduta a Benjamin Price ed a tutta la comunità. Aveva provato sulla propria pelle quanto facesse male il disprezzo ed il tradimento di persone considerate fidate.
“Non fraintendermi – disse infine – sono contento del fatto che i miei calcoli fossero esatti, sono arrivato perfino a dubitare delle mie stesse capacità. Sapere di non avere responsabilità in quanto successo a Benji è un grosso sollievo.”
“Ed allora cosa ti turba?”
“Capisci cosa implica il fatto che l’errore non sia stato mio? Qualcun altro ha sbagliato.”
Jason annuì, alzandosi dalla sedia e passeggiando per la camera.
“Certo. Sappiamo entrambi contro chi verrà puntato il dito. Qualcuno direbbe che è il Karma che sta presentando il conto.”
L’architetto strinse i pugni con forza, era arrivato al nodo di tutta la questione.
“Non può essere colpa di Price. Lo escludo categoricamente! L’ho visto lavorare ed il suo modo di fare era troppo preciso e puntiglioso per poter anche solo pensare che abbia commesso un errore del genere.”
Guardò con decisione Jason, come se potesse condividere con lui ciò che gli passava per la mente solo attraverso lo sguardo. Sarebbe stato molto più facile far comprendere il proprio punto di vista all’aspirante giornalista.
“Dovresti almeno prendere in considerazione l’ipotesi – Jason ripartì alla carica – anche Big K ha sollevato dubbi in merito e lui non sapeva nemmeno della nuova perizia sui calcoli.”
Holly si alzò di scatto poiché non poteva tollerare che venisse utilizzato il nome del nuovo capocantiere, anzi, il nome di colui che doveva essere il primo capocantiere del progetto. Non amava particolarmente il modo di lavorare di Big K: l’aveva visto all’opera nell’ultimo cantiere in cui aveva partecipato al progetto del suo maestro e si erano scontrati più volte su diverse questioni, a cominciare dai limiti dei rispettivi ambiti di influenza. Quando il Sindaco Becker aveva fatto il nome di Big K come responsabile del cantiere del nuovo Palazzo Municipale, Hutton aveva mostrato le sue riserve al sindaco ed aveva chiesto, se possibile, di avere un sostituto. In pochi giorni era stato scelto Benjamin Price con cui aveva iniziato un’ottima collaborazione, almeno fino all’incidente. Questo era un altro dei motivi che lo facevano sentire responsabile di quanto accaduto a Price: se non si fosse impuntato nel non volere Big K a capo dei lavori, a Benji non sarebbe successo nulla.
“Lascia perdere Big K: è solo un opportunista che non perde occasione di mettere in cattiva luce i suoi colleghi per ricavarne vantaggio. Non è la fonte più affidabile.”
“Si direbbe che lo conosci bene.”
“Meglio di quanto pensi.” La sua voce era carica di risentimento ed il tono non ammetteva repliche.
Jason incrociò le braccia mentre sul suo volto l’insoddisfazione si manifestava palese.
“D’accordo, non contiamo Big K. Ammetterai che col suo modo di fare ed il suo orgoglio Benjamin Price non si sarà di certo soffermato a lungo ad esaminare le sue eventuali colpe.”
Holly scosse la testa.
“Al contrario, è proprio per il suo orgoglio che sono certo che Price avrà passato molto tempo a rivedere ogni sua mossa e decisione prima di auto assolversi dalle colpe. Non posso credere che sia altrimenti.”
“Se proprio insisti.” Si arrese alla fine il giornalista.
Un delicato bussare alla porta fu l’occasione per prendere una pausa. Hutton si riavvicinò al letto e cercò di riunire i fogli che aveva sparpagliato e di voltarli in modo che non fossero visibili, prima di permettere al visitatore di entrare.
Padre Ross fece capolino con un semplice vassoio su cui erano posate due tazzine fumanti e una zuccheriera.
“Ho pensato che voleste un caffè.” Disse.
L’architetto sorrise alla premura del sacerdote, andandogli incontro per afferrare il vassoio ed appoggiarlo sulla sedia: la stanza era così semplice e spoglia da non avere nemmeno un tavolo o una scrivania.
“Padre Ross, non doveva disturbarsi.”
“Sciocchezze! Non ricevi mai visite, se offro un caffè l’unica volta che qualcuno viene a trovarti, le casse della parrocchia non andranno in malora.”
Anche Jason sembrava piuttosto imbarazzato dal gesto di favore del parroco.
“Padre, non vorrei abbia privato qualcuno di più bisognoso a causa mia.”
Padre Ross si rivolse verso Brown scrutando attentamente nel fondo dei suoi occhi.
“Se tenete molto ai bisognosi, prima di andarvene potreste fare una donazione di qualsiasi entità: qualunque cosa è ben accetta.”
“Volentieri, Padre.”
Con un cenno del capo il sacerdote si congedò dai due uomini, lasciandoli di nuovo soli.
Holly porse una tazzina all’amico e si sedette sul bordo del letto ad assaporare la bevanda: era tanto tempo che non beveva un caffè fatto come si doveva, Padre Ross doveva aver utilizzato la sua macchina e la sua miscela personale per l’ospite inatteso.
“Padre Ross sembra tenere molto a te.” Osservò Jason rigirandosi la tazzina tra le mani senza decidersi a portarla alle labbra.
“Come a qualsiasi altro suo parrocchiano. È nella sua natura preoccuparsi di tutti. Cosa pensi di me in realtà non lo so, dubito che mi mostrerebbe la stessa magnanimità se non fosse in qualche modo ‘obbligato’ dalla  veste che indossa.”
Un altro sorso di caffè scese dalla bocca allo stomaco a riscaldarlo ed a dargli carica.
“Senti – riprese Brown dopo un po’ – hai letto anche il resto delle conclusioni? Se escludi l’errore del capocantiere o di uno dei suoi uomini, ci può essere una sola altra causa per il crollo.”
Holly sussurrò sottovoce, quasi stesse parlando per sé.
“I materiali. Il progetto era perfetto solo se si fossero utilizzati i materiali da me indicati, con la specifica qualità indicata. Materiali di fattura inferiore o addirittura diversi avrebbero dovuto richiedere nuovi calcoli.”
“Perché avrebbero dovuto cambiare le forniture senza dirtelo?”
Holly terminò il contenuto della tazzina e la posò sul vassoio, grattandosi il mento con fare pensieroso.
“I materiali che avevo chiesto sono molto costosi ed avrebbero fatto aumentare notevolmente i costi. Avevo preparato un secondo progetto, meno ambizioso, ma pur sempre dignitoso, che avrebbe potuto reggersi anche con l’utilizzo di materiali più economici. Tuttavia il Sindaco era intenzionato a realizzare la versione più grandiosa del Palazzo Comunale.”
Jason annuì, continuando a fissare il caffè nella propria tazza raffreddarsi inesorabilmente.
“Chi si occupava dei contatti con i fornitori?”
“Se ne è sempre occupato qualcuno nell’ufficio del Sindaco: Becker amava talmente quel progetto da tenere sotto controllo personalmente più fasi possibili.”
Improvvisamente si fermò, spalancando gli occhi, colpito da un’improvvisa e dolorosa idea. Si voltò verso l’aspirante giornalista per capire se anche lui stesse traendo le sue stesse sbalorditive conclusioni e dalle espressioni che vide passare sul suo volto, incredulità, consapevolezza, risolutezza, pensò di sì.
“Jason, non starai pensando che il Sindaco abbia richiesto materiali scadenti senza avvertire nessuno?”
“Per risparmiare sul progetto senza dover rinunciare alla megalomania.”
“Ma sapeva che così il palazzo sarebbe crollato prima ancora di essere terminato!”
Entrambi gli uomini avevano il respiro affannato, trascinati in una cavalcata galoppante  dalle conclusioni a cui stavano giungendo simultaneamente.
“Spiegherebbe perché il Sindaco si sia intromesso nel processo per farti alleggerire la condanna: doveva ripulirsi la coscienza.”
Oliver dovette reprimere un conato di vomito all’idea che il primo cittadino di New Team Town si fosse abbassato ad un gioco tanto meschino per risparmiare denaro o, peggio, appropriarsi di denaro pubblico sotto il naso di tutti.
La sua determinazione si risvegliò dal lungo letargo in cui era piombata dopo il crollo.
“Devo parlare con il Sindaco per chiarire la faccenda una volta per tutte.”
“Vuoi che venga con te?” Jason si offrì di accompagnarlo, ma rifiutò.
“No, dev’essere un incontro a quattr’occhi, solo così potrò sapere la verità. Nel frattempo puoi mantenere il segreto? Finché non avremo fatto chiarezza fino in fondo.”
“Contaci.”
I due uomini si strinsero la mano, suggellando il reciproco accordo.
 
 
 
L’ufficio del Sindaco era situato in fondo al corridoio a piano terra di una vecchia e piccola palazzina di soli due piani, ma il primo era inutilizzabile a causa delle infiltrazioni di acqua che si verificavano ogni volta che pioveva per più di qualche minuto consecutivo. In conseguenza di ciò, una parte del personale del Municipio era costretta a lavorare in un'altra sede ad un paio di chilometri di distanza.
Nell’edificio principale erano situati gli assessorati più importanti ed il relativo personale amministrativo, ma anche così molti assessori dovevano dividere l’ufficio con un collega che si occupava di materie molto lontane dalle proprie. Addirittura la segretaria del Sindaco era costretta a fare anticamera per il primo cittadino in corridoio, con una semplice scrivania collocata accanto alla porta di quest’ultimo.
Tutti questi erano i motivi che avevano spinto Tom Becker ad intraprendere la costruzione di un nuovo Palazzo Comunale, in modo che tutti i dipendenti potessero trovarsi in una sola sede ed ognuno avesse un ufficio riservato alle proprie competenze. Si poteva aggiungere anche un po’ di gloria personale, poiché l’edificio maestoso che aveva in mente sarebbe restato in uso per molti anni e sarebbe diventato il cuore pulsante della vita di New Team Town.
Il Sindaco si allontanò dalla finestra, la vista della siepe di recinzione del cortile non era quello che si poteva definire uno spettacolo ispirante. Quando il nuovo Municipio sarebbe stato pronto, il suo ufficio sarebbe stato quello collocato più in alto e con il più ampio panorama possibile.
Tornò alla scrivania e riprese la lettura degli appunti del consiglio comunale del pomeriggio precedente, dove si era discusso, tra le altre cose, proprio della riapertura del cantiere e dell’avanzamento dei lavori. Aveva promesso a tutti i consiglieri di tenerli aggiornati su ogni novità della costruzione, solo in quel modo era riuscito a convincerei più scettici, qualche mese prima, a far ripartire il progetto dopo quanto successo a Price. D’altra parte, lasciare l’opera incompiuta sarebbe stato solo uno spreco di denaro.
Sindaco, Oliver Hutton desidera vederla.”
La voce della sua segretaria arrivò squillante attraversò l’interfono che aveva sulla scrivania. Premette il pulsante per rispondere non senza una certa irritazione:
“Va bene Evelyn, fallo pure passare.”
Prese il plico degli appunti e lo infilò nel primo cassetto, poiché erano presenti numerose informazioni tecniche su questioni in cui l’architetto non avrebbe più dovuto avere nulla a che fare. Si chiese se fosse un caso che Hutton si fosse presentato nel momento in cui stava riesaminando i dati del cantiere o se fosse un avvertimento a non tirare  troppo la corda nel gioco pericoloso in cui si era lasciato invischiare.
Si alzò per accogliere il suo ospite.
“Signor Hutton, vuole accomodarsi? – gli indicò una delle due sedie davanti alla propria scrivania – A cosa devo la sua visita?”
L’architetto lo raggiunse e gli strinse la mano.
“Grazie, Sindaco Becker, per avermi ricevuto senza preavviso, immagino sarà molto occupato.” Esordì accomodandosi.
“Non più del solito, ma venga al punto o perderò sul serio del tempo.” La frase gli era uscita un po’ più brusca del previsto, ma trovarsi da solo con Hutton lo metteva sempre a disagio, erano troppi i compromessi che rischiavano di venire alla luce.
“Arrivo subito al punto: il cantiere.”
Tom si irrigidì contro lo schienale della poltrona e sperò che l’altro non avesse notato il movimento.
“Oliver, mi permetto di chiamarla per nome, sa che non può avere informazioni sul proseguimento dei lavori dopo che è stato estromesso.”
Hutton annuì, appoggiando entrambe le mani sulla scrivania laccata di bianco.
“Lo so, ma sono interessato ad informazioni relative al periodo in cui si lavorava al mio progetto.”
“È stato tutto sviscerato durante la causa in tribunale.” Ribatté pronto il Sindaco.
“Non proprio: che io ricordi non si è mai parlato approfonditamente della fornitura dei materiali.”
Tom sentì l’aria mancargli e gli occhi dell’architetto puntati addosso a cogliere il suo minimo cenno di esitazione. Possibile che dopo tanto tempo, quando pensava che la verità non sarebbe più venuta a galla, qualcuno era arrivato a sospettare nella giusta direzione? E non una persona qualsiasi, ma proprio Oliver Hutton che, tra le altre cose, gli era sempre sembrato la persona più rassegnata di New Team Town ad accettare il verdetto del tribunale, non aveva visto in lui nessuno spirito di rivalsa.
Si versò del succo dalla caraffa che teneva accanto al pc.
“Che sbadato! – esclamò – Non le ho chiesto se vuole qualcosa.”
“No, grazie. Preferirei concentrarmi sulle questioni del cantiere.”
Becker bevve lentamente, stupito dalla decisione con cui l’architetto aveva arginato il suo tentativo di prendere tempo per riguadagnare il controllo delle proprie emozioni.
“Cosa vuole sapere di preciso sui materiali? Mi sembra di ricordare che il suo progetto fosse molto dettagliato in proposito, dovrebbe saperne lei più di me.”
“Il mio progetto era molto dettagliato per molte buone ragioni – rispose Oliver – come mi è stato giustamente fatto notare da amici, la buona riuscita della costruzione dipendeva in gran parte dalla qualità dei materiali impiegati. Cambiare qualcosa senza il mio permesso avrebbe compromesso tutto. Magari anche solo un acquisto in buona fede di qualcosa di meno costoso.”
Il Sindaco appoggiò il bicchiere piuttosto violentemente, sentendo il cristallo vibrare tra le dita.
“Le ricordo che ho seguito personalmente le forniture di materiale: sta forse insinuando che potrei avere ordinato del materiale scadente per risparmiare denaro?”
La sua voce era calma e tagliente, in contrasto con l’ansia che gli ribolliva dentro. Gli sembrò di avere spiazzato l’interlocutore, probabilmente abituato ai suoi toni solitamente cordiali.
“Non insinuo nulla – quasi balbettò Hutton – solo le faccio presente che un non esperto potrebbe non comprendere le differenze di costi tra due materie prime all’apparenza ugu…”
“Basta così! – interruppe il Sindaco, con uno scatto del braccio – Devo ricordarle che si sta rivolgendo al Primo Cittadino? Al rappresentante di New Team Town? Che mettere in dubbio la mia parola sia mettere in dubbio la parola di tutti gli abitanti di questa cittadina?”
Era stato aggressivo, ma doveva impedirgli a qualsiasi costo di avvicinarsi alla verità.
Senza preavviso la porta dell’ufficio si aprì e con trambusto entrò Patricia, seguita al volo dalla sua segreteria, catalizzando l’attenzione dei due uomini.
“Insomma, non ho certo bisogno di essere annunciata per entrare nell’ufficio di mio marito.” Disse la prima con stizza, rivolta alla donna che la stava inseguendo.
“Mi dispiace signor Sindaco, non sono riuscita a fermarla.”
“Va tutto bene, Evelyn. – il Sindaco tranquillizzò la segretaria – Io ed il signor Hutton avevamo finito.”
Tom non era mai stato così grato come in quel momento delle irruzioni non annunciate della moglie.
“Signor Hutton.” Si apprestò frettolosamente a congedare l’architetto.
Oliver si alzò e salutò, facendo tuttavia intendere che la questione non fosse chiusa.
“Signor Sindaco, rifletta su quello che le ho detto: ne riparleremo.”
“Io le suggerisco di non approfittare troppo della mia benevolenza: si ricordi che sono stato io a farle ottenere un alleggerimento della pena.”
Non gli piaceva ricorrere alle minacce, ma sperava che l’allusione alla detenzione facesse demordere Hutton dai suoi propositi di indagine. A buon intenditor…
“Mi sembri turbato: è successo qualcosa di grave?”
Non appena Oliver era uscito, la moglie del Sindaco si era accomodata senza troppi complimenti sulla scrivania ed aveva accavallato le gambe, fasciate fino alle ginocchia da una gonna grigia.
“Non potresti usare le sedie come tutti? Mi stropicci un sacco di documenti ogni volta.” Protestò invano Becker.
“Che divertimento ci sarebbe. – rispose Patricia – Non hai ancora risposto alla mia domanda.”
Tom abbassò gli occhi, sua moglie era un’altra persona a cui era costretto a nascondere i particolari della vicenda.
“Niente di che, Patty! Ogni volta che si finisce a parlare dell’incidente al vecchio cantiere si toccano tasti delicati.”
“Sai – riprese la donna facendo dondolare le gambe – non credo che sia facile nemmeno per l’architetto Hutton: l’incidente ha sconvolto anche la sua vita.”
Il Sindaco sbuffò, non sapeva nemmeno lui se per divertimento o indisposizione.
“Dimenticavo che hai un debole per i poveri derelitti.”
“Tom Becker! Questo non  è  linguaggio adatto ad un Sindaco!” Scoppiò in una risata cristallina, di quelle che piacevano tanto a lui e l’avevano fatto innamorare anni addietro, di quelle contagiose e che erano capaci di fargli dimenticare i problemi.
“Dimmi, c’è una ragione per il tuo arrivo improvviso?” Le chiese.
“Solo ricordarti di sistemare la tua agenda di domani in modo da essere libero la sera: c’è la cena dagli Yuma.”
Tom annuì, nonostante non avesse nessuna voglia di partecipare ad una cena formale: ci andava solo perché gli Yuma erano tra i principali finanziatori dell’orfanotrofio e non voleva che l’arrivo di fondi subisse un brusco arresto.
Signor Sindaco – Evelyn chiamò di nuovo dall’interfono – c’è il Signor Santana.”
“Il dovere chiama.” Sospirò Becker.
Patty scese agilmente dalla scrivania e raccolse la borsetta.
“Vi lascio ai vostri affari segreti! – salutò facendo l’occhiolino a Santana che stava entrando – Ci vediamo a casa!”
Arrivata sulla soglia si voltò e mandò un bacio con la mano al marito, poi si dileguò chiudendosi la porta alle spalle.
Tom si rabbuiò e si diresse alla libreria dove teneva, su uno degli scaffali, del whisky. Fece girare il liquido un paio di volte nel bicchiere, come se lo stesse studiando, prima di trangugiare tutto in un sorso.
“Cosa vuoi Francisco?”
Di spalle non poté vedere il ghigno sul volto dell’interlocutore, ma lo immaginò e sapeva che avrebbe trovato divertente un simile esordio.
“Ho saputo che Hutton è stato qui.”
Ovviamente, Santana sapeva sempre tutto quanto lo interessasse. A volte Tom si domandava se l’imprenditore non avesse nascosto delle cimici nel o, addirittura, delle telecamere nel suo ufficio. Si voltò per affrontarlo e lo trovò spaparanzato con noncuranza su una delle sedie.
“Già. E non è stato per nulla piacevole.”
“Cosa voleva?”
“Sapere dei materiali forniti al cantiere. Ha intuito qualcosa. Non è una bella notizia per noi.”
Francisco incrociò le braccia dietro la testa, assumendo una posa ancora più rilassata.
“Ce ne ha messo di tempo! Suppongo che tu l’abbia rimesso al suo posto.”
Tom annuì, ma non era del tutto convinto.
“Per ora l’ho fermato, ma era molto determinato. Potrebbe diventare una scocciatura seria.”
Santana emise un verso di scherno.
“Questo rischio ce lo saremmo risparmiati se qualcuno, per ripulirsi la coscienza, non avesse insistito per far evitare ad Hutton la prigione.”
Il Sindaco alzò la voce, picchiando i pugni sul tavolo.
“Cosa volevi che facessi? Che lasciassi condannare un innocente per qualcosa che avevamo fatto noi? Non avrei mai dovuto lasciarmi convincere da te a questi giochetti.”
Santana si alzò in piedi, a sfidarlo direttamente.
“Ricordami chi ti ha dato le spinte necessarie per farti eleggere Sindaco. Ce lo dovevi, era parte degli accordi.”
“Abbiamo rovinato delle vite!”
“È il prezzo da pagare.  – Francisco assottigliò lo sguardo – O la tua coscienza reclama di nuovo? Mettila a tacere!”
Tom scosse la testa, era stanco di dover sempre mentire a tutti, di dover vedere quel povero architetto che non aveva nessuna colpa, venire ignorato o maltrattato da quasi tutti gli abitanti della cittadina.
Santana si riaccomodò alla sedia.
“Lascia che ti spieghi una cosa: se tu ora vai là fuori e racconti la verità, racconti che hai fatto i soldi comprando materie prime di bassa qualità per il cantiere, ad un prezzo inferiore di quello che hai dichiarato, intascandoti parte della differenza, racconti che quanto successo a Benjamin Price è colpa tua, stai sicuro che puoi scordarti la rielezione a Sindaco. Anzi, quello che subisce attualmente Oliver Hutton, ti sembrerà niente in confronto a quello che faranno a te e ti ritroverai a implorare di essere mandato in galera. E tua moglie? Cosa penserà di te? Sei disposto a perderla per un astratto senso di giustizia?”
Tom lo guardava impietrito, riuscì solo a dire:
“Tu ci sei dentro quanto me. Il resto dei soldi in avanzo l’hai guadagnato tu insieme ai tuoi soci.”
Santana sorrise.
“Ti sbagli, io posso tirarmene fuori in qualunque momento. Non esistono accordi scritti tra noi, mi basterà dichiarare che ti è stato procurato il materiale che hai chiesto, che non sapevo nulla del fatto che ti servisse qualcosa di qualità superiore. Ti conviene tacere, se non vuoi essere rovinato.”




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Oh, oh, oh, si scoprono i primi altarini almeno per noi lettori e sembra ci sia di mezzo qualcuno di apparentemente insospettabile...
So che l'accoppiata Sanae/Taro può risultare strana, è strana pure per me che ne ho scritto, ma quello che mi sento di dire è che siamo in una realtà apparentemente creata da una maledizione che ha scompigliato molte carte, che sta facendo soffrire molti dei personaggi...
Per quanto riguarda Santana, nel manga si chiama Carlos, mentre in alcune puntate dell'anime viene chiamato Francisco, quindi ho scelto questa seconda versione del suo nome per la "realtà della maledizione".

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Capitolo 10
*** IX ***


Patty camminava spedita verso il quartiere latino americano, dove si trovava il suo parrucchiere di fiducia, accompagnata da un leggero vento autunnale che faceva volteggiare le foglie che pigramente si staccavano dagli alberi. Tirò la sciarpa azzurra leggermente più in alto, a coprire parte della bocca. Era vestita in maniera informale, come più le piaceva, con un paio di jeans, una maglia nera a maniche lunghe ed una giacca di jeans. I completi formali li utilizzava nelle occasioni ufficiali accanto a Tom o quando doveva atteggiarsi a moglie del Sindaco, ma quando andava dal parrucchiere si sentiva libera di tornare al suo originario modo sportivo di vestire. Per mezza mattina voleva dimenticare di essere la First Lady, come molta gente la chiamava.
Giunta al negozio si fermò ad osservare la vetrina esterna, tappezzata di poster che pubblicizzavano i nuovi tagli per l’imminente stagione fredda e la nuova linea di colorazioni, alcune delle quali parecchio audaci: se non si fosse trovata nella posizione di ricoprire un ruolo pubblico, probabilmente si sarebbe divertita a provarne qualcuna.
Aprì la porta e subito venne avvolta dall’aroma vellutato del nebulizzatore che Roberto teneva vicino all’ingresso, nella zona in cui accoglieva le clienti, per evitare di frastornarle subito con gli odori dei prodotti per capelli.
“Buongiorno!” Salutò cortesemente.
Un uomo schizzò fuori davanti a lei, reggendo in una mano un flacone di lacca ed una spazzola nell’altra. Portava anche un grembiule blu e dei particolari occhiali con le lenti che cambiavano colore a seconda della luce che li colpiva: al momento erano verde smeraldo.
“Ohhh, signora Patricia! Da quanto tempo non ti vedo!”
Corse ad abbracciarla con foga.
“Roberto, mi sei mancato anche tu!”
Il parrucchiere era raggiante per l’apprezzamento ricevuto.
“Sarò da te in cinque minuti. Intanto puoi spogliarti e ad accomodarti alla tua postazione preferita. Sai che la tengo sempre libera quando mi chiami.”
Schizzò via per terminare di sistemare la piega ad un’anziana signora, mentre Patty si liberava della sciarpa e della giacca e si sistemava sulla poltroncina grigio perlato.
“Allora cara, cosa facciamo oggi?”
Roberto era tornato e le stava sistemando intorno la mantella protettiva.
“Ho una cena importante stasera, quindi controlla che il taglio sia ben regolato e le punte  siano in ordine.”
“Ovviamente, cara. – sorrise il parrucchiere – Ma che ne dici di sbizzarrirti con qualche colore?”
Senza tanti complimenti l’uomo le posò in grembo il cartoncino con i vari campioni.
“Io dico che un bel lilla ti starebbe benissimo, con qualche ciuffo porpora qua e là saresti fantastica!”
“Sarei perfetta per far venire un infarto all’intero consiglio comunale.”
Rispose ridendo Patty, anche se l’idea la stuzzicava parecchio. Magari avrebbe potuto approfittarne alla prossima vacanza, prima di partire verso un luogo in cui non sarebbe stata la moglie del Sindaco.
Roberto sbuffò contrito.
“Già, quegli incartapecoriti. Scommetto che ci saranno tutti a cena stasera, vero?”
La donna annuì, nascondendo un sorrisetto divertito per la definizione che il parrucchiere aveva dato dei membri del Consiglio Comunale, non che avesse tutti i torti per la maggior parte di loro.
Roberto si batté una mano sulla fronte con fare plateale:
“Che stupido! Perché non ci ho mai pensato prima? Potresti fare un riflessante!”
Fulmineamente le sfilò il campionario e gliene propose un altro, un po’ meno assortito, ma pur sempre valido.
“Vedi – le spiegò – con questi i tuoi capelli resteranno sempre neri, ma quando saranno colpiti da una luce intensa mostreranno il riflesso del colore che hai scelto. È un modo per ravvivarli senza essere troppo appariscente.”
Patty era pensierosa.
“Roberto Sedinho, mi stai tentando. Questo che effetto mi farebbe?”
Gli occhi del parrucchiere brillarono attraverso le lenti, ora virate verso un normale trasparente per non inficiare la valutazione dei colori. O, forse, Roberto aveva semplicemente indossato un altro paio di occhiali… I repentini cambiamenti delle sue lenti erano un mistero che l’aveva sempre affascinata.
“Ohh, questo blu ti starebbe d’incanto! Come ti dicevo, il colore apparirebbe solo sotto la luce ed essendo il tuo colore naturale molto scuro, il riflesso non si discosterebbe troppo da questo. Verrebbe fuori qualcosa di sobrio ed elegante. Direi appropriato.”
“Credo proprio che lo farò!”
“Non credo che suo marito approverà la scelta! – Da sotto un casco sbucò Evelyn Davidson, la segretaria del sindaco Becker – Vuole davvero metterlo in imbarazzo di fronte a tutti?”
Patty represse un moto di insofferenza per la donna che ultimamente stava diventando sempre più invadente.
“Buongiorno, Evelyn. Come mai non sei in ufficio?”
“Suo marito mi ha concesso un paio di ore libere per sistemarmi per la cena di stasera.”
La moglie del sindaco nascose lo stupore.
“Ci sarai anche tu?”
“Ovviamente – sogghignò Evelyn avvicinandosi con fare petulante – gli Yuma sono miei cugini, per tanto so perfettamente cosa gli aggrada e cosa no. Come lo so del sindaco: temeva qualche suo colpo di testa.”
“Se credi di conoscere mio marito meglio di me, ti sbagli di grosso!” Patty scattò nervosa, non gli era mai  piaciuta quella donna, tanto meno ora che faceva la saputella su ciò che sarebbe stato appropriato per lei.
Roberto si mise in mezzo.
“Signore, vi prego, il mio negozio non è luogo per scenate. Intanto che la signora Becker decide cosa fare, lei signorina Davidson potrebbe raggiungermi, così controlliamo che l’asciugatura sia stata completata.”
Patty cercò di rilassarsi sulla poltroncina e di dimenticare lo spiacevole scambio di battute appena avvenuto. Quando la Davidson era stata assunta, aveva detto al marito che non le aveva fatto una buona impressione, le aveva suscitato una strana sensazione e, di solito, le sue sensazioni non sbagliavano mai, ma Tom ci aveva riso sopra.
“Eccomi, cara! – si annunciò Roberto – Ho congedato la signorina Davidson, così non ci disturberà più.”
“Quella crede di sapere tutto! È vero che Tom era innervosito ieri, chi non lo sarebbe se la questione del cantiere tornasse sempre a galla?”
Il parrucchiere si fece attento:
“Raccontami tutto, ma prima dimmi cosa vuoi fare.”
“Ovviamente il riflessante blu!” Sorrise furba, pronta a confidarsi.
 
 
 
Jason era al parco seduto su una panchina a riflettere: Holly gli aveva raccontato dell’incontro del giorno prima e di come il sindaco avesse negato bruscamente qualsiasi problema con le forniture. Sembrava vulnerabile sull’argomento, ma l’architetto non aveva potuto insistere più di tanto dato l’arrivo inaspettato della moglie del primo cittadino. Jason aveva pensato di chiedere un appuntamento al sindaco, sempre con la scusa dell’articolo, per tastare il terreno con un estraneo, tuttavia, riflettendo, presentarsi il giorno dopo Oliver Hutton poteva apparire sospetto. Conveniva aspettare qualche giorno che il sindaco si rilassasse nuovamente ed abbassasse la guardia.
Stare in casa senza nulla da fare lo rendeva insofferente così, dopo aver chiesto a Matthew di fargli recapitare con un pacco alcuni dei suoi libri universitari, era uscito, portando con sé il volume acquistato a New York prima di partire. L’oggetto poteva essere definito la causa di tutto: l’incontro con Kitty, la decisione di partire e l’inizio delle investigazioni.
Aveva pensato che si sarebbe trattato di un viaggio di pochi giorni, invece, ora che era lì, non riusciva ad allontanarsi dalla cittadina, non solo perché la storia del cantiere lo aveva interessato, New Team Town stessa sembrava attrarlo. Ed il libro aveva la sua parte. Aveva creduto di essere suggestionato dalle storie e stramberie di Kitty, invece aveva passato ogni sera a leggere sempre più pagine, sebbene conoscesse le vicende quasi a memoria.
Anche in quel momento stava rileggendo a proposito del primo incontro di Sanae e Tsubasa. La menzione da parte di Holly della moglie del sindaco gli aveva riportato alla mente l’assurda affermazione della sua temporanea coinquilina secondo cui lei fosse sua sorella e, ancora più assurdo, la versione prigioniera nel nostro mondo di Sanae Nakazawa. Tutto ciò, negli ultimi giorni, gli aveva fatto nascere una specie di ossessione per il personaggio della manager, portandolo a cercare di scoprire dettagli che nelle precedenti letture del manga non era riuscito a cogliere.
Era talmente preso dalla lettura che il mondo intorno a lui sembrava essere scomparso: non notava i vialetti di ghiaia ben curata, le aiuole delimitate da grossi ciottoli uno accanto all’altro, le aree lasciate a semplice prato per potersi rilassare, le persone che passeggiavano chiacchierando, il gruppo di bambini dell’orfanotrofio portato lì a giocare dalle educatrici e nemmeno il cellulare che suonava nello zainetto appoggiato sulla panchina.
“Il suo telefono sta suonando!” Finalmente qualcuno riuscì a far breccia nel suo isolamento ed i rumori lo raggiunsero tutti insieme, facendolo sussultare.
“Cosa è successo?”
“Il suo telefono.” Ripeté la donna che si era fermata davanti a lui, ma ormai il cellulare si era zittito.
Jason lo estrasse rapidamente e fece scorrere l’elenco chiamate, decidendo che chi l’aveva cercato poteva attendere qualche minuto prima di essere ricontattato. Si concentrò invece sulla persona che aveva di fronte.
“Grazie per l’avvertimento.”
Rimase spiazzato quando si rese conto che si trattava della moglie del sindaco, colei che aveva vagato nei suoi pensieri nelle ultime ore. Si alzò di scatto per salutarla meglio.
“Mi scusi First Lady, non l’avevo riconosciuta.” La chiamò con l’appellativo che aveva sentito utilizzare da Kitty.
La signora Becker lo guardò dubbiosa.
“Ci conosciamo?”
“Ci siamo incontrati, o meglio dire scontrati, qualche giorno fa, non appena ero arrivato in città.”
Gli occhi di Patricia si mossero veloci  per qualche momento, poi, finalmente, ricordò.
“Ah, sì, vicino a casa di Kitty.”
Lo studente accennò un sorriso.
“Kitty è conosciuta ovunque. Io sono Jason Brown, molto piacere.” Porse la sua mano alla donna.
“Patricia Becker.” La First Lady strinse la mano dell’uomo.
Come al loro primo incontro Jason avvertì un’altra scarica, più violenta della precedente, tanto che la notò anche la sua interlocutrice.
“Non volevo darle la scossa!” Si scusò questa.
“Si figuri! Anzi, credo di essere stata io a darla a lei.”
Si sorrisero entrambi e Jason notò quanto fosse luminoso quello della donna, ma, inaspettatamente, la vide rabbuiarsi.
“Lei è forse il giornalista che sta facendo domande in giro sul cantiere?”
Jason sentì il tono di accusa nella domanda e rispose sulla difensiva:
“Sto solo facendo il mio lavoro: cerco più informazioni possibile per raccontare la storia nel modo più completo.”
La donna annuì, tuttavia non era disposta a lasciar cadere la conversazione.
“La vicenda ha fatto soffrire molta gente. Sta aprendo vecchie ferite con le sue domande.”
“Ne sono consapevole. – Jason si domandò quanto la signora Becker avesse appreso dal marito dei sospetti che gravavano su di lui – Il mio unico scopo è raccontare la storia al meglio e magari porre fine ad inutili episodi di bullismo.”
“Cosa intende?”
“Vuole farmi credere che la moglie del sindaco non sa nulla di quello che combina Bruce Harper?” Chiese ironico e sprezzante.
Patty restò per un attimo spiazzata.
“Io non posso sapere tutto ciò che accade nella cittadina, non sono onnisciente! Ora, se vuole scusarmi, ho degli impegni. Buona giornata.”
“Buona giornata anche a lei.”
Lo studente ricambiò il saluto poi restò imbambolato a guardarla allontanarsi per il vialetto, combattendo lo strano desiderio di seguirla e passare ancora del tempo con lei. Non poteva negare che quella donna esercitasse su di lui uno strano potere.
 
 
 
La sala da pranzo del piccolo albergo degli Yuma brulicava degli invitati alla cena, alcune delle personalità più in vista di New Team Town. Il piccolo hotel era più che sufficiente per ospitare la quasi totalità dei visitatori che raggiungevano la cittadina, molti dei quali capitavano lì quasi per caso e si fermavano solo di passaggio nel viaggio verso la Grande Mela. In quel periodo non aveva ospiti, per cui l’ambiente era tutto per la famiglia ed i suoi invitati.
Nonostante il turismo non fosse il punto di forza della cittadina, gli Yuma erano comunque tra i più ricchi abitanti: si diceva avessero affari importanti al di fuori dello stato, in cosa o dove esattamente a Tom non era mai importato più di tanto.
La cena si era rivelata meno impegnativa e spiacevole del previsto, sua moglie era stata impeccabile, come sempre, ed aveva tenuto la conversazione con i commensali meglio di quanto avrebbe saputo fare lui. Con suo grande sollievo, inoltre, Santana non era presente: probabilmente aveva preferito restare al suo locale in quella che era una delle serate di punta per lui. Meglio così, si sarebbe evitato inutili discussioni e mal di pancia.
Assaporò un goccio di liquore, passeggiando tra i tavoli per salutare chi non aveva avuto il piacere di avere vicino per la maggior parte della serata.
“Buonasera, signori.”
“Buonasera signor sindaco. È sempre un piacere averla ospite a cena. Sua moglie stasera è deliziosa.”
Becker guardò in direzione di Patty, impegnata in conversazione con la padrona di casa, ammirando ancora una volta il semplice tubino blu dalle maniche a tre quarti in cui era avvolta, con una sottile cintura chiara a sottolineare il punto vita. I nuovi riflessi che le si accendevano tra i capelli quando passava sotto i lampadari le stavano benissimo e sottolineavano il lato ribelle del suo carattere che come moglie del sindaco aveva dovuto tenere a bada e soffocare.
“Riferirò! Buon proseguimento di serata.”
Si congedò e riprese a girare per la sala, scambiando anche un cenno di saluto con Evelyn. Doveva ammettere che si era stupito nel vedere la segretaria in abiti così eleganti.
Patty lo raggiunse e lo prese affettuosamente a braccetto.
“La signora Yuma è molto soddisfatta della serata e mi ha raccontato diverse cose interessanti.”
Tom le sorrise facendole l’occhiolino:
“Ho sempre detto che sei la mia spia nella parte femminile della popolazione di New Team Town.”
La donna ridacchiò.
“Attento signor sindaco, o potrei stortarle il papillon!”
Tom voleva ribattere alla moglie, ma venne preceduto dal saluto di un altro ospite:
“Buonasera, signor sindaco!”
“Buonasera, Jack!”
I due uomini si strinsero la mano.
“Signor Morris, non ho visto la sua fidanzata stasera. Mi avrebbe fatto piacere salutarla.” Constatò la signora Becker.
Jack si strinse nelle spalle.
“Sapete, a Jenny non piace frequentare questo genere di serate. Ha preferito rimanere a casa.”
“È un vero peccato. – Patty era sinceramente dispiaciuta – Credo che andrò al banco a prendere da bere, così potete parlare di affari senza annoiare una signora. A dopo.”
Tom la ringraziò mentalmente per la sua perspicacia nel capire sempre quando doveva discutere con qualcuno da solo, senza che lui avesse bisogno di chiederle di allontanarsi.
“Allora Jack, a inizio serata mi aveva accennato qualcosa a proposito di un giornalista.”
L’uomo annuì, infilando le mani in tasca.
“Un dannatissimo seccatore! – esordì – Va in giro a fare domande sul cantiere ed a provocare scompiglio. Perfino nel mio bar!”
Becker si fece molto attento, non poteva essere un caso che Oliver Hutton avesse dimostrato un improvviso interessamento per quanto accaduto anni prima proprio ora che c’era un ficcanaso in città.
“Mi racconti.”
“Cosa vuole che le dica? È venuto a fare colazione con quella stramba di Kitty ed era presente anche il signor Price. Inutile dire che hanno discusso. Alla fine il signor Price se n’è andato molto seccato, come biasimarlo? Tra tutti è quello che ha pagato il prezzo più alto.”
Tom ebbe una stretta allo stomaco come ogni volta che si parlava di Benjamin Price, poiché sapeva benissimo di essere il vero responsabile di quanto accadutogli. C’erano notti in cui era tormentato dagli incubi sull’incidente del cantiere e l’unico modo che aveva per mettere a tacere la propria coscienza era raccontarsi la favoletta che aveva agito per il bene di New Team Town stessa: oltre ai soldi che aveva guadagnato con i materiali più economici, favorendo Santana ed i suoi soci, si era garantito il loro appoggio per i suoi progetti di miglioramento della cittadina.
“La situazione del capocantiere è molto infelice, per lui riaprire quella ferita dev’essere molto doloroso.” Commentò soltanto.
“Anche perché pare che questo Jason Brown abbia simpatie per quella sottospecie di architetto.”
Tom sospirò.
“Un pessimo affare.” Terminò di bere il suo drink ed appoggiò il bicchiere sul vassoio di un cameriere che stava passando in quel momento.
Jack Morris lo stava guardando con una luce particolarmente gelida negli occhi.
“Beh, signor Sindaco, stia certo che se il giornalista si intromette di nuovo nel benessere della nostra cittadina, la pagherà molto cara.”




____________________________
E finalmente vediamo agire un po' di più Sanae che deve bilanciare il suo carattere estroverso con il suo ruolo pubblico. Ed incontra anche il nostro Jason: non si può dire che l'incontro si sia concluso nel migliore dei modi, ma poteva andare anche molto peggio conoscendo il caratterino di Sanae.
Nel finale, invece, abbiamo una dichiarazione di guerra...
 

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Capitolo 11
*** X ***


Kitty aveva deciso che si meritavano una serata fuori per svagarsi un po’, così l’aveva trascinato al Cyborg, una discoteca che si trovava al limite del quartiere latino americano. Ogni volta che ci passava, non poteva fare a meno di domandarsi come una non proprio piccola comunità di brasiliani fosse finita a New Team Town.
Davanti alla discoteca, vedendo l’insegna al neon intermittente, Jason aveva tentato di opporsi.
“Non è proprio il mio genere di locale. – affermò  come ultima spiaggia – E poi dovrei studiare.”
“Sciocchezze! – ribatté Kitty – I libri del tuo amico non sono ancora arrivati.”
Di mala voglia Jason aprì la porta per farla passare e seguirla all’interno del locale sotto lo sguardo vigile di un enorme buttafuori.
Le luci colorate della pista da ballo li avvolsero mentre si facevano strada verso uno dei tavolini con divanetto, incredibilmente libero per essere così vicino alla pista. Il banco del bar era collocato sulla destra e numerosi cocktail ornati di cannucce, ombrellini e palmine luccicanti venivano portati ai clienti da camerieri e cameriere in uniforme con grembiuli verdi fosforescenti. Dietro la pista da ballo c’era un palco dove si esibivano le ballerine del locale con complicate coreografie.
“Desiderate qualcosa?” Domandò loro una cameriera dai capelli rosa.
“Io una caipirinha. – disse Kitty – E tu?”
“Non credo prenderò qualcosa!” Rispose Jason.
“Dai! Non fare il guastafeste, siamo qui per divertirci!”
La donna quasi lo strattonò per convincerlo a prendere qualcosa ed alla fine cedette, ordinando una birra, tanto per farla contenta: non era dell’umore adatto per festeggiare o divertirsi, avrebbe preferito concentrarsi sulle ricerche. Inoltre, era ancora turbato per l’incontro al parco con la moglie del Sindaco.
Kitty sembrò leggergli nella mente, almeno per quanto riguardava una parte delle sue preoccupazioni:
“Rilassati, stasera non avresti trovato in giro nessuno dei cittadini ‘importanti’: sono tutti ad una cena privata dagli Yuma.”
“Sei sempre informata su tutto quello che fanno gli abitanti di New Team Town?” Le chiese sarcastico.
“Quasi sempre!” Ribatté lei.
“Sai, non ti ho ancora chiesto che lavoro fai…” disse Jason pensieroso, portandosi alle labbra il boccale appena consegnatogli dalla stessa cameriera che aveva preso le ordinazioni.
Kitty deglutì prima di rispondere:
“Ti si è risvegliata solo ora la curiosità? Dopo tutti questi giorni?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle.
“Prima non ci ho pensato molto, troppo preso dalla questione di Holly. Avremmo dovuto invitarlo…” Aggiunse, colto da un’idea improvvisa.
“No, non è molto gradito qui al Cyborg.”
“Come in qualsiasi altro posto della cittadina. – constatò amaro il giornalista – Peccato, avrebbe potuto essere una buona compagnia.”
La donna gonfiò le guance.
“Ed io cosa sarei, tappezzeria?” Domandò con una punta di cattiveria.
“Certo che no, sei troppo vistosa.”
Jason alludeva alla sua gonna ricoperta di paillettes color rosa ciclamino che faceva pendant con il cerchietto con cui teneva indietro i capelli, lasciati per una volta sciolti.
“Siamo in una discoteca, qui tutto è luccicante!”
Jason sollevò le sopracciglia, pensando che con una come Kitty averla vinta era un’ardua impresa. Tornò alla domanda originale:
“Che lavoro fai?”
“Ecco che il cocciuto Jason riparte all’attacco!” Rispose lei facendogli l’occhiolino.
L’uomo non poté fare a meno di notare come nel giro di poco tempo la sua compagna fosse stata evasiva per ben due volte alla stessa domanda, come se nascondesse qualcosa. Del resto era più che plausibile, non sapeva quasi nulla di lei, aveva deciso irrazionalmente ed alla cieca di seguirla nella cittadina, senza prendersi la briga di cercare troppe informazioni o di farle qualche domanda. Il fatto che molti degli abitanti di New Team Town la conoscessero aveva messo a tacere i suoi scrupoli. Si ripromise di parlarne con Holly il prima possibile, senza però mollare la presa in quel momento.
“Kitty, non sto scherzando: sono seriamente interessato!”
“Kitty! – furono quasi travolti dall’entusiasmo di una ragazza – Finalmente sei venuta al locale!”
“Meglio tardi che mai! – Sorrise furba la donna, quasi col sollievo di poter parlare di altro che non di sé – Jason, ti ricordi di Amy? L’abbiamo incontrata davanti al Fiore del Nord.”
“Molto piacere, Jason Brown.”
Il giornalista tese la mano alla nuova arrivata, studiandone l’aspetto: altezza media, molto magra, lunghi capelli rossi, occhi chiari contornati da un trucco piuttosto pesante, lucidalabbra con brillantini. Indossava un abito anch’esso di brillantini e paillettes, con una gonna molto corta ed una scollatura decisamente profonda a cui erano aggiunte un paio di aperture sui fianchi: ben poco era lasciato all’immaginazione di chi la osservava.
“Sei il giornalista di cui mezza cittadina parla? Io sono Amy.”
Con un sorriso la donna si accomodò sul bracciolo del divano vicino all’amica, facendosi passare il suo cocktail.
“Stai diventando famoso, Jason! – lo stuzzicò Kitty – Ehi tu, vacci piano o non riuscirai a fare il tuo lavoro!”
Agilmente recuperò il bicchiere, da cui era sparita una visibile parte del liquido.
Amy si strinse nelle spalle.
“Sai che reggo questo e altro.”
Jason percepì un sottile velo di malinconia oscurarle gli occhi e si domandò di cosa potesse trattarsi.
“Non dovresti esagerare comunque!”
“A volte sei peggio del mio medico!”
Il battibecco tra le due donne divertì Jason che si ritrovò a ridacchiare, contrariamente ai suoi propositi di restarsene col muso tutta la sera e di comportarsi da guastafeste.
“Vedo che quasi nessuno riesce ad evitare di litigare con te.”
“Sarà un mio dono di natura!” Kitty lo guardò maliziosa, sollevando il bicchiere nel gesto di un brindisi e lui fu costretto a contraccambiare col suo boccale, facendo tintinnare i due vetri al loro contatto.
Amy si alzò e si stiracchiò prima di congedarsi:
“Ragazzi, è stato un piacere, ma il dovere mi chiama. Ci ribecchiamo più tardi!”
Jason la vide sparire tra la folla della pista da ballo e ricomparire poco dopo, all’inizio di una nuova canzone, sul palco. Si muoveva sicura, morbida e sensuale, catalizzando ben presto su di sé l’attenzione di buona parte degli avventori del Cyborg. Le luci colorate si spostavano sul suo corpo, dando risalto ai punti giusti, il vestito le lasciava libertà di eseguire qualsiasi mossa, dalle più semplici alle spaccate più audaci. Il culmine del numero fu raggiunto quando le altre ballerine presero  Amy e la sollevarono in alto, esattamente sull’ultimo accordo che usciva dagli altoparlanti.
Lo studente si ritrovò in piedi ad applaudire, completamente affascinato.
 
 
 
 
Terminata l’esibizione, Amy tornò nel retro del locale, non senza essersi fatta dare una bottiglia di birra al bancone. Rispetto alle altre ragazze aveva un camerino solo per sé dove potersi cambiare e truccare. Si sedette davanti allo specchio circondato di lampadine e si osservò il trucco cercando di decidere se fosse il caso di ritoccarlo prima del numero seguente. Matita nera e ombretto ancora reggevano alla perfezione, solo il lucidalabbra avrebbe avuto bisogno di una ripassata una volta terminato di bere.
“Una buona esibizione, ma puoi fare di meglio.”
La voce alle sue spalle la fece scattare in piedi e voltare verso la porta.
“Cosa vuoi Francisco?” Domandò, anche se sapeva benissimo cosa ci facesse nel suo camerino il proprietario della discoteca.
Con una mano dietro la schiena l’uomo fece scattare la serratura interna della porta.
“Non posso venire a controllare come sta la mia migliore ballerina?”
Amy cercò di mantenere un’espressione neutra davanti all’idea che il suo capo aveva del controllare come stesse. L’uomo le si avvicinò e senza attendere un suo cenno cominciò a seguire con una mano il profilo della scollatura profonda del suo abito, provocandole la pelle d’oca.
“Francisco…”
La baciò, mentre con l’altra mano saliva lungo la coscia.
Amy riuscì a divincolarsi ed a mettere qualche passo di distanza tra loro.
“Ancora fai la preziosa? – le chiese, mal celando il disappunto per l’ennesimo rifiuto – Lo sai che senza di me saresti ancora in mezzo ad una strada.”
“Di questo ti sono grata, ma non puoi trattarmi come una tua proprietà.” Afferrò la bottiglia di birra e bevve un lungo sorso.
L’uomo fece un ghigno:
“Ti sbagli, tutto ciò che riguarda il Cyborg mi appartiene.”
Gli occhi di Amy saettarono.
“Io non faccio parte dell’arredamento, non sono un oggetto!” Recuperò in fretta la sua borsa e si diresse a passi rapidi verso la porta del camerino.
“Dove vai?”
“Mi licenzio. Troverò un altro lavoro.”
Aveva già la mano sulla serratura, stava per aprirla, ma ebbe un attimo di esitazione, in cui la voce del proprietario della discoteca si insinuò.
“Se vuoi, puoi smettere di ballare per qualche giorno, prenderti una vacanza, ma non puoi andartene per sempre.”
La ballerina si voltò verso Santana, per fronteggiarlo un’ultima volta, consapevole di essere stata dalla parte perdente fin dall’inizio. L’uomo era di nuovo vicino a lei e le puntò un indice minaccioso sul petto, all’altezza del cuore.
“Noi non ti permetteremo mai di andartene, la tua vita è nelle nostre mani.”
Amy abbassò il capo sconfitta. Non sapeva come potesse essere possibile, ma ogni volta che aveva tentato di abbandonare il suo luogo di lavoro e la cittadina si era trovata preda di terribili fitte e costretta a tornare implorante da Francisco perché il dolore cessasse.
Lasciò cadere la borsa per terra, rassegnata.
“Vedo che ragioniamo.”
L’uomo la attirò a sé, facendo aderire i loro corpi in modo da sussurrarle all’orecchio:
“Prima o poi mi stancherò di aspettare che tu ti decida a concederti a me. Fino ad adesso ho avuto pazienza e riguardo, ma non tirare troppo la corda. Non mi accontento solo di guardare le tue grazie come un banale cliente del locale.”
Con due dita le sollevò il mento e la baciò di nuovo. Suo malgrado, Amy si ritrovò a rispondere al bacio.
“Ora sbrigati a sistemarti, tra due minuti va in scena il prossimo numero.”
Sbloccò la serratura ed uscì, lasciandola sola.
Con le gambe che le tremavano, Amy raggiunse la sua postazione di trucco e si lasciò cadere sulla sedia, facendosi consolare dagli ultimi sorsi di birra.
Odiava quella situazione: se da una parte era grata a Francisco per averla salvata quando si era ritrovata al verde, senza una casa e costretta a vivere elemosinando per strada, dall’altra l’aveva resa una sua prigioniera, una prigioniera di Santana e dei suoi soci misteriosi. Odiava anche le sue stesse sensazioni e sentimenti, poiché ricordava perfettamente di essersi sentita lusingata, all’inizio, quando Francisco aveva palesato i suoi interessi verso di lei e non si era tirata indietro dal flirtare, ma poi lui aveva cominciato a farsi più insistente ed a pretendere di più. Allora aveva avuto paura, c’era qualcosa che la inquietava profondamente nell’uomo e che non le consentiva di sciogliersi ed accettare di andare a letto con lui. Almeno due delle sue colleghe avrebbero fatto carte false per farsi scopare dal proprietario della discoteca, ma lei non ci riusciva. Obiettivamente Francisco era un uomo molto attraente e non poteva negare di provare un certo piacere dai suoi baci, ma il modo con la approcciava, con cui si poneva le faceva allo stesso tempo provare  ribrezzo quando la toccava. Odiava lo stallo in cui si trovava la sua vita.
Velocemente si mise il lucidalabbra e si preparò ad andare in scena, passando prima dal bancone dell’angolo bar.
“Felipe, fammi uno shottino. Bello forte.” Bere era l’unico modo che conosceva per togliersi di dosso la sensazione delle mani di Santana sul proprio corpo.
Trangugiò alla goccia la vodka fruttata e salì sul palco, appena in tempo per iniziare a ballare, notando con la coda dell’occhio Francisco che la fissava.
 
 
 
Jason dovette ammettere che la serata si stava rivelando più divertente del previsto, forse perché Kitty era riuscita a sciogliere tutte le sue riserve e, contrariamente ad ogni previsione sensata, era riuscita a trascinarlo in pista a ballare. Non l’aveva mai fatto, nemmeno alle feste universitarie, dove era noto come quello che restava sempre ai bordi a guardare, per quelle poche volte che era stato invitato alle feste. Ora, invece, sotto le luci colorate si stava lasciando andare come poche altre volte aveva fatto.
Doveva anche ammettere che la visione dal centro del locale gli offriva una prospettiva diversa rispetto a quella dal divanetto: riusciva a cogliere molti più dettagli, come ad esempio il fatto che Amy si avvicinasse spesso al bancone terminati i suoi numeri musicali e non era certo acqua quella che chiedeva ogni volta.
“Certo che la tua amica beve parecchio.” Sussurrò all’orecchio di Kitty non appena furono abbastanza vicini da potersi parlare senza gridare.
“Chi?”
“Amy!”
La donna fece una piroetta su sé stessa, prima di rispondere.
“Credimi, ha più problemi di quanti tu possa immaginare.”
La voce di Kitty si era fatta bassa e spenta, come ogni volta che raccontava qualcosa che non le piaceva sugli abitanti di New Team Town. Più li conosceva, più Jason si rendeva conto che quasi tutti coloro che la donna gli presentava, avevano alle spalle una storia ben più triste e complessa di quella dei personaggi di cui Takahashi aveva narrato le gesta. Da come Kitty gli aveva raccontato la faccenda per convincerlo a venire, si era aspettato di trovare una cittadina allegra e colorata, piena di abitanti pittoreschi, che avessero ispirato il maestro a trasformarli nei protagonisti delle sue infinite partite, invece aveva trovato una paese intento a leccarsi le cicatrici di grandi e piccole tragedie personali. Forse era per quello che si era auto convinta che tutti a New Team Town fossero vittime di una maledizione che li aveva resi infelici.
“Come il tizio che continua a fissarla?”
Non gli era sfuggito l’uomo in completo elegante appoggiato al bancone che sembrava scrutare e tenere sotto controllo ogni angolo del locale, ma soprattutto sembrava guardare ai raggi-x la ballerina.
“Quello è Francisco Santana, il proprietario del Cyborg.”
Risposta secca, diretta.
Jason lo osservò con maggiore attenzione, notando l’aria arrogante e supponente di chi guardava ogni cosa con la soddisfazione di considerarla una sua proprietà, incluso il personale che lavorava all’interno della discoteca. Un brivido di disgusto gli scese fino allo stomaco, provocandogli una temporanea sensazione di nausea.
“Non mi piace. – disse alla coinquilina – Ha un qualcosa che non so come definire, ma che non promette nulla di buono.”
Kitty sorrise.
“Il tuo intuito comincia ad affinarsi. Vedi che ho fatto bene a portarti qui stasera?”
“Immagino che conoscerai tutti i suoi scheletri nell’armadio.” La prese in giro Jason.
“Molti. Ma ora goditi la serata.”
Ballando Kitty venne inghiottita da chi la circondava, lasciandolo da solo.
Sul palco Amy e le compagne, che nel frattempo avevano cambiato abito, si stavano esibendo in una danza molto rapida e ad effetto.
La musica catturò anche Jason riuscendo finalmente a fargli mettere in pausa i pensieri.
 
 
 
 
 
Erano le due del mattino passate, anche per quella giornata il lavoro era finito. Amy non vedeva l’ora di andare a casa e buttarsi sul letto fino a mezzogiorno passato, prima che il mondo iniziasse a vorticare senza fine.
Aveva perso il conto di quanti bicchieri avesse bevuto, di sicuro più di quelli che avrebbe dovuto, ma con Francisco nei dintorni non poteva fare a meno di concedersi quel vizio. C’erano serate in cui il capo se ne stava chiuso nel suo ufficio a controllare i conti, oppure se ne stava al locale in compagnia di qualche ospite importante per cui non aveva tempo da dedicare alle sue ballerine, ma c’erano sere in cui sembrava quasi ossessionato da lei e non le staccava gli occhi di dosso. Serate come quella appena trascorsa.
Afferrò il cappotto e se lo mise addosso, sopra il costume di scena, per fare il più in fretta possibile. Un paio di scarpe da ginnastica al posto delle scarpe da ballo e la borsa a tracolla. Anche il trucco sarebbe stato tolto a casa. Era ubriaca, ma non al punto da non rendersi conto che trattenersi troppo a lungo in camerino avrebbe dato a Francisco un’occasione per cercarla di nuovo, anche se, solitamente, non ci provava mai due volte nella stessa sera.
Chiuse la porta alle sue spalle e sentì dall’altro camerino le voci allegre e scherzose delle sue compagne che si stavano cambiando con calma. A volte non avrebbe voluto il privilegio di una stanza personale, essere in gruppo poteva avere i suoi vantaggi. Sorrise alla loro spensieratezza, quando le arrivò un commento malevolo.
“Avete visto come il capo guardava Amy stasera? – era Becky a parlare – Secondo me se la porta a letto.”
“Tu dici?”
“In che altro modo si sarebbe guadagnata il posto da ‘prima ballerina’? Non è poi così speciale.”
“Non mi sembra il tipo, lei. È sempre sulle sue…”
“Lui di sicuro vorrebbe scoparsela, è palese. Ma credo che lei lo tenga sulla corda.”
“In questo caso è una stupida: come si fa a dire di no ad uno come Francisco? Capo o non capo, io ci farei la firma.”
Amy aveva sentito abbastanza. Tutte quelle cattiverie e malelingue le stavano togliendo il respiro.
Spalancò la porta di servizio, quella che usava il personale per non mescolarsi ai clienti, e sbucò nel vicolo sul retro del Cyborg.
Sperò che l’aria fresca le desse la scossa giusta per arrivare a casa.
Per un poco fu così, sbucò dal vicolo e voltò sulla statale.
La testa cominciò a girarle e con essa il marciapiede assumeva linee curve al posto della consueta squadratura.
“Accidenti a te, Amy! Dovevi proprio berti anche l’ultimo bicchierino?” Pensò.
Con la volontà di allontanarsi il più in fretta possibile dalla discoteca, attraversò la strada, senza quasi rendersi conto di quello che stava facendo. Mezza sbilanciata in avanti, voltò la testa verso sinistra, da dove proveniva uno strano chiarore: due luci nella notte si stavano avvicinando velocemente, presto l’avrebbero raggiunta.



___________________________

Kitty e Jason decidono di concedersi una serata di svago, anche se il ragazzo comincia a porsi delle domande che avrebbe dovuto farsi tempo prima.
L'uscita in discoteca ci permette anche di conoscere qualcuno degli altri abitanti di New Team Town: se Santana non vi aveva fatto una buona impressione quando l'abbiamo incontrato con il sindaco, la sua posizione ora non è certo migliorata...

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Capitolo 12
*** XI ***


Erano le due di notte passate e padre Ross stava guidando attraverso il quartiere latino americano di ritorno dalla casa di riposo dove  era stato ad assistere uno degli ospiti fino al suo ultimo respiro. Si trattava di un uomo molto anziano, solo, senza nessun parente, per cui, quando era stato chiamato per l’ultima benedizione, aveva deciso di trattenersi fino alla fine. Non voleva che fosse solo quando sarebbe arrivato il momento in cui il Signore l’avrebbe richiamato a sé.
Sospirò. La vita che aveva scelto contemplava anche quel tipo di doveri.
Quando era stato assegnato a New Team Town, era stato contento della destinazione, l’aveva trovata piacevole: una tranquilla cittadina abbastanza lontana dalla grande metropoli da non risentire degli influssi negativi che potevano provenire da questa e dalla vita troppo frenetica che si conduceva là. Invece aveva trovato un paese che, nascosto dalla patina di una lucida copertina, era avvolto in sofferenze e situazioni disdicevoli che gli facevano dubitare di avere la forza di affrontare un simile compito. Amava i suoi parrocchiani ed avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro, eppure con alcuni di essi aveva la sensazione che non volessero essere salvati.
Raggiunse la zona del Cyborg e la mancanza del solito marasma di auto parcheggiate alla meglio in ogni vicolo gli fece capire che la discoteca aveva già chiuso i battenti e che la clientela era già sparita nelle proprie abitazioni. Forse quella sera non ci sarebbero stati ulteriori disastri. Fosse stato per lui il locale sarebbe già stato costretto alla chiusura definitiva: non c’era nulla di male nello svagarsi moderatamente e nel lasciarsi andare a qualche danza, ma là dentro avvenivano eccessi che non poteva sopportare, a cominciare dal fatto che pareva avessero il beneplacito della direzione.
Improvvisamente si trovò davanti una figura barcollante, sbucata dal nulla.
Inchiodò di colpo e riuscì a fermarsi giusto pochi centimetri prima di travolgere l’inaspettato personaggio.
Sganciò la cintura e scese di corsa a verificare cosa fosse successo. Trovò accasciata a terra, davanti al cofano dell’auto, una donna che indossava un cappotto grigio sotto cui non parevano esserci altri vestiti, oppure l’abito era talmente striminzito da non riuscire a sbucare nemmeno per pochi centimetri dall’orlo inferiore. Portava anche delle scarpe da ginnastica, lunghi capelli rossi sciolti sulle spalle e un trucco molto pesante. Aveva tutta l’aria di essere una delle ballerine del locale di Santana.
“Signorina, sta bene?” Domandò preoccupato, accasciandosi per controllare, anche se non credeva di averla colpita.
La donna alzò la testa verso di lui e annuì lentamente, lo sguardo piuttosto spaesato.
“Ce la fa ad alzarsi?” Le porse una mano per aiutarla.
La sconosciuta l’accettò e si tirò in piedi, ma, non appena lasciò la presa, cominciò a barcollare vistosamente.
Padre Ross ebbe i riflessi pronti e l’afferrò con entrambe le braccia prima che cadesse di nuovo. Sospettò che fosse ubriaca, parecchio oltre l’essere semplicemente un po’ brilla e troppo allegra.
“Sta bene sul serio?” Chiese di nuovo, più preoccupato di prima.
“Mi lasci andare, non vede che sto benissimo!”
La ballerina si sciolse dalla sua presa, fece qualche passo e fu costretta ad appoggiarsi alla carrozzeria dell’auto per sorreggersi.
“Non si regge neanche in piedi. Mi permetta di accompagnarla a casa.”
“E dovrei salire sulla macchina del primo sconosciuto?”
La donna aveva la risposta pronta, anche se impastata dal troppo alcol ingerito, che le impediva di riconoscerlo.
“Signorina, sono il reverendo Ross.”
Aprì la portiera del lato passeggero per averla pronta per qualsiasi evenienza, e la seguì per un paio di metri.
“Padre Ross – biascicò lei – non l’avevo riconosciuta.”
Barcollò ancora una volta e dovette fermarsi per recuperare un minimo di equilibrio prima di proseguire.
“La prego, mi permetta di accompagnarla almeno fino alla porta di casa. Non può attraversare la città in queste condizioni.”
La ballerina scosse la testa, sembrava convinta a rifiutare ad ogni maniera il suo aiuto.
“Padre Ross, non si disturbi, ce la faccio.”
Solo la presa salda del sacerdote le impedì di rovinare a terra a seguito di un ulteriore barcollamento.
“Vedo come ce la fa!”
Senza badare alla deboli proteste della sua interlocutrice, Padre Ross la prese in braccio e l’adagiò sul sedile, per poi montare a sua volta in auto e riaccendere il motore.
“Non faccia tante storie e mi dica dove abita.”
“Non le si può proprio dire di no.”
“Non quando si tratta della sua incolumità.”
La donna ridacchiò, poi, in modo confuso, riuscì a far capire al suo accompagnatore dove doveva portarla. Non era troppo lontano, ma si trattava di attraversare un paio di strade in cui, anche a quell’ora della notte, potevano passare veicoli ad una velocità sostenuta. Se le fosse successo qualcosa perché non era riuscito a condurla a casa salva, il reverendo non se lo sarebbe mai perdonato.
“Allora, padre – parlò la donna dopo un istante di silenzio – niente prediche sull’immoralità della mia vita?”
L’uomo rispose senza distogliere gli occhi dalla strada:
“Potrei stare qui a parlare per mezz’ora, ma tanto domani lei avrò già dimenticato tutto. Quanto ha bevuto?”
“Il necessario.”
Dopodiché la sua passeggera si voltò e non disse più una sola parola fino all’arrivo ad un piccolo palazzo residenziale.
“A che piano abita?” Domandò mentre l’aiutava a scendere dall’auto, notando che la sbornia non dava segni di essersi attenuata.
“Al secondo. Padre, non starà cercando di approfittarsene?” Fece una specie di occhiolino o, perlomeno, lui lo interpretò a quella maniera, complice il buio provocato dal lampione rotto proprio nei pressi dell’ingresso dell’edificio.
“Non dica assurdità!”
La guardò cercare in una tasca ed estrarre un mazzo di chiavi con cui, dopo vari tentativi che occuparono almeno cinque minuti, riuscì ad aprire il portoncino che dava sulla strada. Non si sentì tranquillo a lasciarla entrare da sola in quelle condizioni: dubitava che ci fosse un ascensore ed il pensiero di farle affrontare le scale con il rischio costante di qualche volo gli stringeva lo stomaco.
“L’accompagno fino al pianerottolo.”
Non attese nemmeno la risposta della ballerina, le passò un braccio attorno alla vita e la condusse ai piani superiori. Davanti alla porta, per evitare il ripetersi della scena pietosa di poco prima, si offrì di infilare la chiave nella toppa e di girarla al suo posto.
La serratura scattò.
“Direi che ora può cavarsela da sola. Buona notte!”
Aveva compiuto il suo dovere e non aveva intenzione di spingersi oltre il confine dell’inopportuno, a meno che non gli venisse esplicitamente richiesto di entrare nell’appartamento. Gli sembrò di cogliere un moto di sorpresa negli occhi della donna, forse si aspettava che, nonostante tutto, lui cercasse di approfittare in qualche modo della situazione.
“Buona notte, padre!”
La porta venne chiusa, quasi sbattuta, davanti alla sua faccia.
Si avviò sulle scale, per scendere e raggiungere finalmente la canonica, lasciandosi sfuggire un grosso sospiro sconsolato. Si domandò come una ragazza così bella, che avrebbe potuto avere tutto dalla vita, potesse ridursi nelle condizioni di uno straccio, nelle condizioni di non poter avere consapevolezza di quanto le accada accanto. Quanto c’era mancato che si facesse investire? E se, invece di lui, l’avesse soccorsa qualche malintenzionato?
Quelle erano le situazioni che lo facevano sentire impotente.
 
 
 
 
Amy si lasciò scivolare a terra, con la schiena contro la porta del suo appartamento. La testa le girava vorticosamente, le sembrava di essere salita su un ottovolante dalla corsa infinita. Sapeva di avere esagerato e sapeva che se non ci fosse stato padre Ross probabilmente non sarebbe riuscita a tornare a casa senza particolari problemi. Sapeva anche di essere stata fortunata, il reverendo era noto per la sua ferrea morale, non avrebbe mai approfittato della sua debolezza per farle un torto qualsiasi; non si poteva dire lo stesso degli altri frequentatori del quartiere latino americano. Avrebbe dovuto ringraziarlo quando sarebbe stata più lucida, ma una parte di lei si vergognava da morire per come si era ridotta e per aver avuto bisogno di aiuto perfino per aprire la porta di casa. Non credeva sarebbe stata capace di andare fino alla canonica per sdebitarsi.
Si trascinò esausta fino alla camera, riuscì a qualche maniera a togliersi il cappotto ed a buttarsi sul letto. Voleva solo dormire e dimenticare tutto: l’orribile serata, Francisco, i commenti delle colleghe e padre Ross. Se possibile, l’ultimo era il punto che le doleva di più. Aveva già incontrato il parroco in occasioni in cui era più lucida ed anche senza avvicinarsi troppo a lui aveva notato i suoi sguardi di disapprovazione verso il gruppo di ballerine. Non riusciva a sopportarli, contenevano le stesse accuse che le avrebbe rivolto sua madre se avesse potuto vedere cosa era diventata la sua vita.
Chiuse gli occhi e per un istante pensò a cosa sarebbe successo se non si fosse più svegliata la mattina seguente.
 
 
 
 
 
La mattinata di lavoro stava procedendo in maniera lenta e monotona, Evelyn aveva solo alcune carte da ordinare e sistemare nel mobile archivio alla sua sinistra. Col pensiero preferiva indugiare alla serata precedente, dove aveva potuto trascorrere alcuni istanti in compagnia del sindaco Becker al di fuori dell’orario di lavoro, peccato per quell’avvoltoio di sua moglie che non si era mai schiodata dal salone.
Lei si era preparata con cura all’evento e poteva scommettere che Tom l’avesse notata e apprezzata nel suo delicato abito firmato e nel suo trucco sobrio. Invece quella scostumata della signora Becker aveva osato presentarsi con quell’indecente colore di capelli! E non aveva fatto altro che pavoneggiarsi in giro! Tom meritava molto di meglio che quella lì! Presto se ne sarebbe reso conto.
Le sue riflessioni furono interrotte dal passo di qualcuno che si avvicinava lungo il corridoio. Alzò lo sguardo ed anche da lontano riconobbe l’inconfondibile figura del reverendo Ross, con la sua lunga tonaca. La visita era inaspettata.
“Buon giorno padre Ross.” Lo salutò educatamente, cercando di non mostrare la propria perplessità.
“Buon giorno signorina Davidson. Il sindaco c’è?”
“Aveva un appuntamento, padre?”
“No, ma devo conferire con lui di una questione della massima urgenza.”
Il tono del sacerdote era perentorio, non ammetteva una risposta negativa.
“Vedo se può riceverla.”
La segretaria alzò la cornetta dell’interfono e permette il pulsante per comunicare con l’ufficio del superiore. Teneva moltissimo a queste formalità, invece di andare a bussare direttamente alla porta che era alle sue spalle.
“Signor sindaco, c’è qui padre Ross: dice che ha bisogno di vederla con urgenza.”
Ti ha detto a che proposito?”
“No, signore.”
Va bene. Ho un po’ di tempo, fallo pure passare.”
Riagganciò con calma e si alzò, facendo un gesto con la mano destra.
“Prego padre, il sindaco può riceverla.”
Aprì la porta dello studio, facendo strada al reverendo ed annunciandolo:
“Padre Ross.”
Il Sindaco gli andò incontro, salutandolo calorosamente:
“Padre Ross, a cosa devo l’onore di questa visita?”
Il reverendo contraccambiò la stretta alla mano che gli veniva porta, poi esordì senza mezzi termini:
“È avvenuto un fatto gravissimo ed increscioso.”
Evelyn non riuscì a cogliere altro, nonostante avesse cercato di chiudersi la porta alle spalle il più lentamente possibile.
Quello che sapeva di padre Ross era la sua forte moralità e la sua avversione a tutto ciò che comportava l’allontanamento dalla strada della rettitudine. Era un uomo molto rigido nei suoi principi, tuttavia aveva il brutto difetto di cercare di salvare ed aiutare chiunque avesse smarrito la via, compreso quell’Oliver Hutton che tanti danni aveva causato all’intera cittadina e portato un sacco di inutili grattacapi a Tom. In ogni caso, era un uomo che poteva essere un forte alleato per mantenere l’ordine ed il decoro a New Team Town. Quando aveva lamentele e rimostranze, occorreva ascoltarlo, poiché si trattava sicuramente di qualcosa di serio e importante per il benessere dell’intera cittadina. A volte Evelyn si domandava cosa pensasse il reverendo a proposito della moglie del Sindaco, magari l’incontro riguardava qualche bravata commessa da quell’irresponsabile che rischiava di arrecare danni all’immagine di Tom. Una First lady che non sapeva comportarsi a modo era una vera piaga per tutti.
Il colloquio tra i due uomini durò circa una mezz’ora, durante la quale la segretaria non riuscì a concentrarsi sulle proprie carte, ma sul cercare di captare il minimo rumore proveniente dall’ufficio del Sindaco. Sapere cosa avveniva lì dentro l’aiutava a prevenire le richieste del suo capo, ad eseguire meglio i suoi compiti, ad essere essenziale nel mandare avanti la gestione della cittadina, ad essere essenziale per Tom.
Quando la porta si aprì, Padre Ross ne uscì tranquillo, anche se dava l’idea di non essere tropo soddisfatto:
“Mi auguro che abbia ragione, sindaco Becker, ma temo servirà una linea d’azione più aggressiva. Ci aggiorneremo. Buona giornata, signorina Davidson.”
“Buona giornata anche a lei, padre.”
Evelyn osservò il sacerdote allontanarsi, poi contò mentalmente fino a dieci, prima di avvicinarsi all’ingresso dell’ufficio, non doveva dare l’idea di essere troppo curiosa o impaziente, la professionalità era tutto in quel momento. Bussò con la mano sullo stipite della porta rimasta aperta, per annunciarsi.
“Ha bisogno di qualcosa, sindaco?”
Tom era seduto alla scrivania, con i gomiti appoggiati al piano di legno e le mani intrecciate che sostenevano il mento. Sembrava pensieroso.
“Padre Ross ha portato cattive notizie?” Domandò, avanzando nella stanza.
“Nulla di particolare, se non fosse che si tratta di padre Ross. – Si alzò per sgranchirsi le gambe – Dovrai convocare il signor Santana.”
Evelyn annuì, scarabocchiando un appunto sul blocco notes che portava sempre con sé, cominciando ad immaginare cosa avesse condotto il reverendo a presentarsi in municipio senza un appuntamento. La sera precedente c’era stato uno degli eventi di punta della settimana alla discoteca di Santana, come minimo padre Ross era andato a curiosare ed era rimasto sconvolto da qualcosa.
“È successo qualcosa al Cyborg?”
Il Sindaco sospirò:
“A quanto sembra il nostro parroco ha trovato una delle ballerine parecchio ubriaca all’uscita del locale. Pare non si reggesse nemmeno in piedi e non abbia neanche riconosciuto padre Ross. Sai che il reverendo è un fautore della campagna contro l’alcol.”
“Non si può dire che abbia tutti i torti.”
“No, affatto. Soprattutto perché in questo caso non si trattava di un cliente, ma di qualcuno del personale del locale. Francisco dovrà fare più attenzione se non vuole che padre Ross prenda di mira la sua discoteca.”
Durante l’esposizione Evelyn aveva osservato il sindaco muoversi per l’ufficio inquieto, oppresso dal peso delle mille incombenze che gravavano su di lui. Non era un periodo facile per gli impegni e le scadenze, ora si aggiungeva questa seccatura di padre Ross. Tom le sembrava esausto.
“Per quando devo dare appuntamento a Santana? Per domani?” Cercò di posticipare l’appuntamento, per permettere a Becker di riposare ed elaborare una strategia.
“No – il sindaco si oppose – il prima possibile. Oggi pomeriggio non mi sembra di avere impegni  particolari.”
“Un attimo che controllo. – La donna estrasse dalla tasca l’agenda digitale su cui caricava tutti gli impegni ufficiali del Sindaco – Oggi pomeriggio è libero. C’era il signor Lenders prenotato, ma ha chiamato per disdire.”
Tom annuì.
“Bene, allora fissa l’appuntamento per questo pomeriggio, se Francisco è disponibile. Anche se non so se sia meglio occuparsi di lui o sentire Lenders lamentarsi di Callaghan.” Si portò le mani alle tempie per massaggiarle, sussurrando a bassa voce.
“A volte mi domando chi me l’ha fatto fare di diventare sindaco.”
Nonostante la voce bassa, Evelyn riuscì a sentire e si avvicinò a pochi centimetri da lui.
“Se posso permettermi, signore, lei è un ottimo sindaco. – Gli appoggiò una mano sull’avambraccio, in segno di solidarietà. – Se non fosse così, i cittadini non verrebbero sempre da lei per risolvere i loro problemi.”
“Tu dici?”
“Ne sono sicura. – Era sempre più vicina – Non c’è nessuno migliore di lei.”
Si sollevò sulla punta dei piedi e depositò un bacio sulle labbra di Tom: vederlo così vulnerabile le aveva dato il coraggi di agire, di fargli capire che lei era lì per lui. Tentò di approfondire il bacio, le sue labbra sapevano di buono.
Il Sindaco la allontanò di scatto.
“Evelyn, no! – le disse – Sono sposato ed amo mia moglie.”
“Ma…” Tentò di ribattere: un uomo come il sindaco non poteva amare una donna come quella, ne era certa.
“Capisco le tue buone intenzioni di confortarmi, ma non dobbiamo andare oltre un certo limite. – Becker si voltò a darle le spalle – Faremo come se non fosse successo nulla. Vai a fare il tuo lavoro.”
La segretaria capì di essere stata congedata e mestamente lasciò l’ufficio per tornare alla propria scrivania. Una volta fuori dalla portata dello sguardo di Tom si lasciò scappare un sorrisetto compiaciuto: anche se a parole l’aveva momentaneamente allontanata, presto la sua pazienza sarebbe stata premiata, il suo lento lavorio nell’ombra avrebbe dato i suoi frutti. Ed a quella sciagurata di Patricia Gatsby non sarebbe restato altro da fare che andarsene con la coda tra le gambe. Com’era dolce il sapore della quasi vittoria!





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E chi altri doveva intervenire a quasi investire ehm, salvare Amy se non Julian? Per una volta è lui che vorrebbe fare la ramanzina a lei su come ci si dovrebbe comportare per la salute, ma lei è troppo sottosopra, diciamo così. Tuttavia padre Ross non sembra intenzionato a mollare l'osso e cerca di mettere in mezzo il sindaco per sistemare quello che accade alla discoteca.
Evelyn scopre un po' le sue carte, ma Tom pare essere un marito fedele, almeno quello.
 

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Capitolo 13
*** XII ***


“Quindi sei deciso a proseguire nelle ricerche?” Jason stava passeggiando con Holly in alcune vie un poco scostate dal centro, per evitare spiacevoli incidenti. La giornata era soleggiata e non troppo fredda, non aveva senso sprecarla al chiuso della casa d’accoglienza. Si erano fermati solo un attimo al quartiere latinoamericano al Natura viva, un negozio di frutta e verdura biologica. Il proprietario, un ragazzone con i capelli raccolti in numerosissime treccine, sembrava non badare troppo al fatto che uno dei due clienti fosse Oliver Hutton. Li aveva serviti con il sorriso.
Le indagini di Jason, invece, erano ad un punto morto o, meglio, per poterne sapere di più bisognava cominciare a pestare qualche piede, fare domande inopportune, più inopportune di quanto avesse fatto, e crearsi dei nemici. Per lui non era troppo un problema, finita quella storia sarebbe partito dalla cittadina, ma l’architetto avrebbe fatto la stessa cosa? Già era trattato male ora, figuriamoci se avesse scoperto alcuni altarini senza però portare a nulla di fatto nella sua situazione personale.
Hutton fece un cenno di assenso.
“Assolutamente. Non commetterò più l’errore che ho commesso in questi anni: ora che so di non essere responsabile di quanto accaduto, lotterò con tutte le mie forze perché la verità venga a galla, non solo per me, ma per tutti. Se qualcuno ha procurato questo casino intenzionalmente, al cantiere lo devono sapere. Ne va anche della loro incolumità.”
Per un istante Jason lo guardò ammirato.
“Sei più idealista di quanto immaginassi, loro non muoverebbero un dito per te.”
“Loro mi ritengono responsabile.”
“Ma hanno torto!” Esclamò in tono deciso, senza aspettarsi la successiva replica.
“Ma non lo sanno. Credono di essere nel giusto.”
Il giornalista sbuffò sonoramente, arricciando le labbra e facendo comparire sul proprio volto un’espressione di disappunto totale.
“Renderti la vita un inferno non è comportarsi da persone che sono nel giusto. Prendi quell’Harper, scommetto tutto quello che vuoi che Price ed i suoi amichetti muratori sanno benissimo quello che ti fa.”
Jason era ancora amareggiato per la faccenda del lancio delle uova a cui aveva assistito e per altre cose che era venuto a sapere tramite Kitty, sia del passato che dei giorni successivi al suo incontro con Holly: Bruce Harper sembrava aver trovato nell’umiliazione dell’architetto una sorta di ragione di vita alternativa. Chissà quanto veniva pagato da Benjamin Price…  Dovette frenarsi per non lasciare troppo spazio alle supposizioni che sapeva di non poter provare.
Si rese improvvisamente conto di essere rimasto indietro ed accelerò per raggiungere il compagno di passeggiata.
“Vedrai che quando la verità salterà fuori, e sono sicuro accadrà, anche Bruce Harper smetterà di comportarsi come…”
“Come un incivile?” Suggerì Brown.
“Non era proprio la parola che stavo cercando, ma può andare.” Un timido sorriso fece capolino tra i lineamenti dell’architetto.
Jason non poté far a meno di notare il cambiamento avvenuto nel suo interlocutore: quando l’aveva conosciuto era la persona più apatica ed arrendevole che avesse mai visto, ora, le notizie che gli aveva portato, avevano acceso in lui ottimismo e determinazione in egual abbondanza, gli pareva quasi di aver a che fare col Dottor Jeckyl e Mister Hyde.
Il cambiamento avvenuto in Holly e la risoluzione dell’intera faccenda del cantiere non erano però gli unici misteri che lo turbavano, si era ripromesso di scoprire qualcosa in più anche sul conto della donna che lo ospitava, cosa che, a ben pensarci, avrebbe dovuto fare fin dall’inizio. Si era dato più volte dello stupido nei giorni precedenti per non aver approfittato delle sue uscite per indagare anche su di lei. Decise di cogliere al volo l’occasione in quel momento, del resto l’architetto sembrava conoscere abbastanza bene la donna, di sicuro più di lui.
“Senti Holly – esordì dopo aver preso un profondo respiro – posso chiederti una cosa che forse ti sembrerà strana?”
L’architetto si mostrò disponibile:
“Dimmi pure.”
“Conosci bene Kitty?”
Oliver si fermò a riflettere qualche istante, lasciandolo sulle spine.
“Non benissimo, ma è una delle poche persone che mi rivolge parole gentili ed attenzioni, a parte Padre Ross. Forse perché lei non era qua ai tempi dell’incidente, è arrivata solo dopo e non è legata a chi è rimasto ferito o coinvolto.”
Jason annuì, rimanendo un poco sorpreso, poiché Kitty parlava sempre dell’incidente come se l’avesse vissuto in prima persona. Questo però spiegava perché si fosse affezionata ad Holly nonostante l’aperta ostilità di tutti gli altri cittadini, non solo perché era strana ed eccentrica.
“Quando è arrivata?”
“Poco meno di un anno fa, ma si è fatta subito notare. È piuttosto difficile che passi inosservata, voglio dire…”
Entrambi sghignazzarono, Jason soprattutto perché aveva imparato a conoscere le mise della donna ed erano una più vistosa dell’altra, per esempio quella mattina era uscita con un miniabito a righe gialle e blu che fortunatamente aveva camuffato con un cappotto lungo. Evidentemente ai suoi datori di lavoro non importava molto come si presentasse.
“Sai per caso che lavoro faccia?” Domandò ancora, riprendendo a camminare.
Holly si strinse nelle spalle.
“Non ne ho idea, non parla molto di sé, anche se ha sempre qualcosa da dire sugli altri.”
“L’ho notato anch’io. Dicevi che non è qui da troppo tempo?”
“Esatto. Prima nel suo appartamento abitava un’altra ragazza, ma è partita o così credo, non la si vede più in giro per New Team Town da un bel pezzo.”
Camminarono insieme ancora per un lungo tratto, poi Holly si scusò, dicendo che doveva rientrare alla casa di accoglienza, dato che aveva promesso a Padre Ross di aiutarlo con alcuni lavori. Era il minimo che potesse fare per ricambiare l’ospitalità che riceveva ogni giorno.
 
 
 
 
 
Lasciato Oliver, Jason proseguì la camminata in solitaria, cercando di riflettere sulle sue nuove scoperte: chi era Kitty? E cosa faceva a New Team Town? Che rapporto aveva con gli abitanti e le loro disgrazie? E, soprattutto, perché aveva insistito a trascinare proprio lui laggiù?
Senza accorgersene era arrivato in un quartiere che non aveva ancora visto. Nelle ormai quasi due settimane di permanenza aveva girato buona parte della cittadina e sapeva orientarsi piuttosto bene, tuttavia alcune zone restavano per lui ancora un mistero. Notò un quartiere elegante, formato da piccole case unifamiliari, tutte munite di giardino e vialetto. Doveva essere uno dei due rioni delle personalità benestanti di New Team Town di cui gli era stato raccontato: oltre a quello in cui era incappato, dall’altro lato della città c’era il quartiere che ospitava la villa del Sindaco Becker e della moglie.
La sua attenzione venne catturata da un maestoso castagno che si stagliava al fondo del viale, con i rami ancora carichi di ricci, poiché quell’anno la maturazione delle castagne era in ritardo rispetto al solito. Una strana sensazione gli avvolse lo stomaco, quasi come una stilettata scagliata da chissà quale recesso del passato. Barcollò per un istante, poi la fitta passò.
Si passò una mano sul volto per scacciare gli strani pensieri sbucatigli alla mente, frutto dell’influenza che Kitty esercitava su di lui con i suoi discorsi strampalati. Probabilmente il suo stomaco gli aveva solo ricordato che a pranzo aveva mangiato qualcosa in velocità ed era il caso facesse una piccola merenda se voleva raggiungere l’ora di cena senza troppi intoppi. Si stava quasi pentendo di non aver acquistato un frutto per sé al quartiere latinoamericano e di aver lasciato la busta con le mele a Holly.
Decise che avrebbe osservato più da vicino il castagno e poi sarebbe tornato sui suoi passi verso il centro, dove si sarebbe procurato uno snack da sgranocchiare al piccolo supermercato, dato che doveva anche effettuare degli altri acquisti.
Mentre osservava da sotto i suoi rami la pianta, che avrebbe potuto benissimo avere almeno un centinaio di anni, Jason venne colpito da un suono inaspettato:
“Jack, mi stai facendo male!”
La frase non era stata urlata, ma era stata scandita chiaramente da una voce femminile che alle sue orecchie non suonava del tutto sconosciuta: l’aveva sentita ancora, tuttavia non riusciva a collocarla tra gli abitanti della cittadina che conosceva.
Mosse la testa verso la direzione di provenienza della voce per cercare di capire meglio, non significava per forza che qualcuno fosse maltrattato, poteva anche trattarsi di una semplice constatazione rispetto ad un movimento improvviso o sbadato di questo Jack. Si sporse, rimanendo protetto dal tronco e vide due persone davanti al giardino curato di una villetta dipinta di giallo scuro. Erano un uomo ed una donna le cui pose non lasciavano molto spazio ai fraintendimenti: lui le stava afferrando un polso e cercava di portarla all’interno del piccolo cancellino bianco, mentre lei cercava di separarsi.
“Non ti divincolare, sciocca! Vuoi che tutti i vicini ti vedano?”
Li riconobbe senza dubbi: l’uomo era Jack Morris, il proprietario del Fiore del nord, e la donna la cameriera Jenny.
“Mollami, per favore.”
Jason colse una nota di supplica nella sua voce. Nella mente gli esplose nitido il ricordo dei segni che aveva intravisto per pochi secondi sul polso della ragazza quella mattina al bar, quando c’era stata la scena madre di Benjamin Price, mai avrebbe pensato  che la causa fosse il suo datore di lavoro. Le mani cominciarono a prudergli sempre più forte.
La donna tentò ancora una volta di fuggire, ma Morris non mollò la presa e le piegò con forza il braccio dietro la schiena. Jason non ci vide più ed abbandonò il tronco del castagno, dirigendosi a grandi falcate alla villetta. Si parò davanti alla coppia.
“Che sta succedendo qui?” Domandò in tono minaccioso.
Entrambi sobbalzarono, colti alla sprovvista. Probabilmente non immaginavano che qualcuno stesse assistendo a quanto avveniva fra loro. L’uomo arretrò di un passo e riuscì a portare con sé Jenny all’interno del giardino, senza però mollare la presa, poi rispose rabbioso:
“Non sono affari tuoi! Smetti di ficcare il naso in cose che non ti riguardano!”
A Jenny sfuggì un piccolo gemito di dolore, probabilmente la presa sul polso si era fatta più stretta. Jason respirò a fondo, non voleva combinare qualcosa di avventato.
“La lasci andare, le sta facendo male.”
“Non ti permettere di dirmi cosa fare in casa mia!” Disse Jack Morris. In faccia aveva stampato un ghigno quasi diabolico, come se volesse provocare, più che allontanare l’inaspettato intruso.
Il giornalista non riuscì più a contenersi, superò il cancelletto rimasto aperto e sferrò un pugno violento sulla guancia del proprietario del Fiore del Nord, facendolo sbilanciare. Jenny urlò.
“Vediamo se avrai ancora voglia di mettere le mani addosso ad una donna.” Gli gridò contro, respirando affannosamente.
“Schifoso bastardo! Pagherai caro questo affronto. – Morris estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans e velocemente digitò sulla tastiera, facendo partire una telefonata – Centrale, sono Jack Morris, ho bisogno di una pattuglia a casa mia.”
Jason lo guardò sbigottito, di tutte le reazioni che avrebbe potuto avere il barista, chiamare la polizia era la più inaspettata ed insensata, cosa credeva di fare?
“Hai deciso di autodenunciarti?” Chiese ironico, recuperando una maggiore calma dopo lo sfogo violento di poco prima.
“Sei davvero un ingenuo!”
 
 
 
 
 
Jenny faceva scorrere le mani sulle braccia nel tentativo di scacciare i brividi che le scorrevano in tutto il corpo. Non si trattava di freddo, era coperta abbastanza con la sua giacca a vento e le calze pesanti. Sospirò: quando mai aveva deciso di indossare la gonna per uscire? In fondo stava andando a trovare la madre e le zie, un paio di quartieri più in là della villetta che condivideva con Jack, eppure a quest’ultimo non era sembrato un abbigliamento consono. L’aveva incrociato poco fuori dal giardino, era appena uscita, mentre lui rientrava dal Fiore del Nord dove era stato a ricevere una consegna da parte di un fornitore. Aveva finito prima del previsto. Quando l’aveva vista l’aveva squadrata con un occhiata gelida e le aveva sussurrato sottovoce quel Dove credi di andare conciata così? che l’aveva ferita profondamente. E ancora di più l’aveva ferita il fatto che non le credesse sulla sua destinazione finale, così l’aveva afferrata ed aveva cominciato a strattonarla per costringerla a rientrare in casa a cambiarsi. Era in quel momento che era spuntato il giornalista, quello che aveva fatto infuriare il signor Price una decina di giorni prima. Aveva cercato di difenderla, ma Jack la sapeva più lunga di lui, a dirla tutta, la sapeva più lunga di molti a New Team Town.
La volante che aveva fatto chiamare era appena arrivata, parcheggiando proprio davanti a casa loro. Erano stati mandati gli agenti Custer e Mellow. A Jenny non sfuggì il sorrisetto compiaciuti di Jack quando vide che era venuto Charlie, vecchio compagno di classe del suo fidanzato. Guardò verso il signor Brown domandandosi perché non se ne fosse andato quando aveva avuto la possibilità di farlo: dalla telefonata di Jack all’arrivo della volante erano passati una decina di minuti. Perché aveva voluto intromettersi, non la conosceva nemmeno? Sarebbe stato meglio per tutti se avesse fatto finta di non accorgersi di nulla ed avesse pensato solo ai suoi affari.
“Buongiorno signori. Che cosa succede?” Esordì il più giovane dei due poliziotti: Jenny l’aveva visto qualche volta al lavoro, era uscito da poco dall’accademia ed era molto gentile, aveva l’aria di essere un bravo ragazzo, peccato fosse finito a fare coppia con quella mezza carogna di Charlie Custer.
“Il buongiorno può anche risparmiarselo, agente! – Rispose caustico Jack – Se vi ho fatto chiamare vuol dire che qualcosa non va, anzi, parecchie cose non vanno.”
Il giovane Mellow incassò il colpo arretrando di scatto il mento e fermandosi esitante. Lanciò uno sguardo al collega in un’evidente richiesta di supporto.
Charlie Custer avanzò, il cappello sotto il braccio destro, sistemandosi con la mano sinistra il ciuffo voluminoso, lasciato crescere quasi con sprezzo del rigido codice della polizia. Entrò dal cancellino e si posizionò sul vialetto, tra Jack ed il signor Brown, mentre Jenny restava in disparte con lo sguardo basso.
“Si calmi signor Morris, ora siamo qui. Cosa è successo?” Il tono di Custer era calmo e conciliante, ma Jenny avvertì un brivido lungo la schiena: l’agente aveva in mente qualcosa, aveva fiutato una preda e non avrebbe mollato l’osso fino a quando non sarebbe stato soddisfatto, lo conosceva.
Jack si piantò bene sulle gambe ed accusò:
“Sono stato aggredito nella mia proprietà da quest’uomo!” Puntò l’indice contro il giornalista che restò imperturbabile.
L’agente Mellow sgranò gli occhi, che erano molto grandi, ottenendo l’effetto di distorcere il volto in una maschera quasi surreale, mentre l’agente Custer inarcò verso l’alto un angolo della bocca.
“Bene. Lei cos’ha da dire a sua discolpa?”
Fino a quel momento Jason aveva assistito alla scena con le braccia incrociate. Jenny pensò che doveva veramente essere molto ingenuo per non aver ancora capito in quale guaio si fosse cacciato, lei al suo posto non avrebbe potuto rimanere così calma.
“La verità: sono intervenuto per difendere la signorina Jenny che stava subendo un’aggressione dal signor Morris.”
“Balle! – Sibilò Jack – Come potrei aggredire la mia fidanzata? La stavo aiutando a rientrare in casa.”
“Sporco bugiardo, la stavi trascinando contro la sua volontà!”
I due uomini si guardarono con odio reciproco, mentre l’aria attorno a loro si infiammava. L’agente Mellow cominciò a mostrare segni di nervosismo, lanciando occhiate alternativamente al giornalista, al proprietario del Fiore del Nord ed al collega.
L’agente Custer parlò in tono mellifluo:
“Signori, vi prego, contenetevi. Vi ricordo che siete al cospetto di agenti di polizia, comportatevi in maniera civile, per quanto questa faccenda non abbia nulla di  civile.”
“Sono d’accordo.” Borbottò Jason, ricevendo un’occhiata glaciale da Custer.
“C’è un modo molto semplici di dirimere la questione. Signorina, qual è la sua versione?”
Il momento che Jenny aveva temuto era giunto, era stata chiamata direttamente in causa. Fu costretta ad alzare la testa per guardare in volto l’agente Custer. Lo sguardo di Jack la inchiodò sul posto: aveva negli occhi una cattiveria che mai gli aveva visto, ma che parlava di una terribile reazione, peggiore di qualunque precedente, se lei l’avesse deluso, se avesse detto cose che avrebbero scalfito la sua reputazione. Jack sosteneva sempre che i panni sporchi si dovessero lavare in famiglia e non avrebbe voluto cominciare in quel momento a rendere pubbliche le sue faccende. Era terrorizzata.
“Ecco..” Balbettò.
“Coraggio signorina, non le succederà niente, ci siamo noi a proteggerla.” L’agente Mellow aveva voluto essere gentile, incoraggiarla, ne era certa, ma lei non poté fare a meno di trovare le sue parole tristemente e terribilmente ironiche: non avrebbe avuto nessuna a proteggerla da Jack se avesse fatto una mossa falsa, l’aveva capito nel momento esatto in cui aveva notato le occhiate complici che si scambiavano il fidanzato e l’agente Custer.
In realtà avrebbe dovuto capire tempo prima che Jack aveva le spalle coperte da Charlie, era troppo sicuro di sé in determinati frangenti.
“Io credo che il signor Brown fosse convinto che Jack mi stava facendo male, ma…”
“Certo che ne ero convinto! E lo sono tutt’ora!”
Jenny strinse le labbra, se quel giornalista continuava a comportarsi così peggiorava solo la situazione, la propria e la sua. Gli lanciò uno sguardo di supplica che sperò venisse colto.
L’agente Custer, nel frattempo, si era voltato verso Brown e l’aveva apostrofato in malo modo.
“Stia zitto lei o le muoverò un’accusa per oltraggio a pubblico ufficiale. – Tornò a rivolgersi a lei – Stava dicendo?”
Jenny esitò, sentiva su di sé la pressione di Jack, come un macigno sopra le spalle e nello stomaco.
“Jack non mi stava facendo nulla, il signor Brown da lontano avrà equivocato.”
“Un cavolo! – sbraitò Morris senza contenersi – Quello mi sta portando solo guai! Charlie, oltre che avermi aggredito, la scorsa settimana questo individuo è venuto al Fiore del Nord a scatenare il putiferio.”
L’agente Custer annuì.
“Ne avevo sentito parlare. Così è questo il poco di buono che sta portando il disordine nella mia città? Anche al cantiere si sono lamentati di te.”
Jason sciolse le braccia e fece un passo avanti, a testa alta e con orgoglio.
“Io non faccio alcun disordine, io indago soltanto su alcuni fatti poco chiari.”
“Ed entrare in casa mia e prendermi a pugni lo chiami indagare? Delinquente!” Jack stava attaccando, voleva far saltare i nervi al suo interlocutore. Jenny conosceva quella strategia.
“Io non sono mai entrato in casa tua.”
“E vorresti pure negare di avermi dato un pugno qui? – Morris mostrò lo zigomo su cui campeggiava il livido del colpo subito. – Sei o non sei nel mio giardino?”
Jenny vide sul volto del giornalista farsi finalmente strada la consapevolezza di essere stato fregato fin dall’inizio, di non avere mai avuto la possibilità di far valere le sue ragioni, mentre dall’altra parte Jack stava trionfando compiaciuto.
L’agente Custer decise di intervenire:
“Ho sentito abbastanza. Direi che un giro in centrale ed un’indagine approfondita sulla struttura delle nostre celle non te li leva nessuno.”
“Che cosa? Su quali basi?”
Charlie estrasse le manette e lo fece voltare.
“Che sta facendo? Non ho fatto niente! Stavo difendendo Jenny!”
Con fatica il poliziotto chiuse le manette e rispose in tono secco.
“Resistenza all’arresto, tanto per iniziare. Aggressione intenzionale all’interno di una proprietà privata. Stia calmo o aggiungerò altre imputazioni. Danny! Portalo alla macchina e leggigli i suoi diritti.”
L’agente Mellow prese in consegna il signor Brown e lo scortò fuori dal giardino, alla volante.
Jenny avrebbe voluto intervenire per dire che non riteneva necessario un arresto, le cose si sarebbero potute risolvere chiarendo il malinteso tra il giornalista ed il fidanzato, ma venne bloccata sul posto da una mano che le tirava discretamente i capelli: era un avvertimento di Jack a lasciar perdere qualsiasi cosa avesse in mente.
L’agente Custer fece un cenno d’intesa a Jack e si voltò per seguire il collega.
Jenny non poté far altro che restare impotente a guardare l’agente Mellow che piegava la testa del signor Brown per farlo sistemare sul sedile posteriore dell’auto di servizio, declamando:
“Lei ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirà potrà essere e sarà usata contro di lei in tribunale. Ha diritto a un avvocato durante l'interrogatorio. Se non può permettersi un avvocato, gliene sarà assegnato uno d'ufficio.”





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Ahi, ahi, le cose si mettono decisamente male per il nostro Jason. Ha commesso un brutto passo falso litigando, anche se per buoni motivi, con la persona sbagliata. A quanto pare il sindaco non è l'unica persona corrotta...

Nota di servizio: il prossimo aggiornamento molto probabilmente sarà tra 15 giorni, giovedì prossimo non credo che sarò in questi lidi.

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Capitolo 14
*** XIII ***


La notte trascorsa in cella, sulla rigida branda priva di materasso gentilmente fornitagli dall’agente Custer, aveva lasciato Jason pieno di acciacchi e doloretti in muscoli che non sapeva nemmeno di possedere. Soprattutto l’aveva lasciato pieno di dubbi sulla sua permanenza a New Team Town e sul suo coinvolgimento in tutta la vicenda. Dovette ammettere a sé stesso di essersi fatto prendere in maniera smodata dalla curiosità per gli avvenimenti del cantiere, dimenticando di trovarsi in un luogo estraneo e di come fosse stato convinto a recarsi in quella cittadina.
Inoltre era profondamente amareggiato, poiché si era messo nei guai per difendere Jenny, per difenderla da quella che era certo essere stata un’aggressione e la donna lo aveva ripagato smentendo la sua versione e dando credito al fidanzato violento. Jenny, nella loro breve e superficiale conoscenza, gli era sembrata una donna gentile, a modo, che poco aveva a che fare con i modi sgarbati che aveva visto utilizzare al signor Morris nel loro alterco. Chissà cosa ci trovava in lui, chissà come una storia tra due persone così distanti aveva potuto iniziare? Evidentemente Morris sapeva giocare bene le sue carte, in fondo era il proprietario del bar principale della cittadina…
Il giornalista si alzò e si stiracchiò, ruotando il collo nel vano tentativo di far tacere le stilettate alla schiena.
Era amareggiato anche nei confronti di Kitty che, a quanto pareva, l’aveva abbandonato al suo destino, lei che l’aveva trascinato lontano dalla sua comfort zone. Il giorno precedente, giunto in centrale, gli era stata concessa una telefonata e lui l’aveva utilizzata per chiamare la donna: era l’unico contatto che aveva lì, a parte Oliver Hutton. Sperava che lei potesse sbloccare la situazione mandandogli un avvocato, in fondo conosceva tutti a New Team Town, manco fosse il sindaco! Invece, la prima cosa che era stata capace di chiedergli, quando l’aveva informata di essere stato arrestato era stata:
“Dov’è il libro? È al sicuro, vero? Non l’avevi con te?”
Le importava solo di quel maledettissimo libro, di quell’oggetto che era stato la causa di tutti i suoi guai. Maledetto il giorno in cui era entrato in libreria, anzi, maledetto il giorno in cui aveva iniziato a leggere il manga di Captain Tsubasa! Chi l’avrebbe mai detto che un fumetto l’avrebbe fatto finire in prigione? Se ci pensava era una cosa ridicola.
Era talmente furioso per la reazione squilibrata di Kitty che aveva sbattuto la cornetta del telefono sul ricevitore, uno di quelli vecchio modello, da scrivania, e le aveva interrotto la chiamata in faccia. Ennesima azione di cui si era pentito poco dopo, dato che non aveva potuto fare ulteriori chiamate.
Avrebbe dovuto chiedere il numero della parrocchia, forse Padre Ross avrebbe potuto fare qualcosa per procurargli un avvocato, sicuramente sarebbe stato di gran lunga più affidabile di Kitty. Ora come ora, non gli restava altro da fare che sperare nell’avvocato d’ufficio, che non abitasse troppo lontano da quel microscopico paese inesistente sulle mappe, che lo raggiungesse in tempi brevi e che non fosse uno sbarbatello appena fresco di laurea, incapace di voltarsi a destra o a sinistra senza essere tenuto per mano.
Stava diventando acido, non era mai stato così caustico, ma di certo la sua situazione non era la più adatta per pensare a fiori, arcobaleni e unicorni.
Rumori di una porta in fondo al corridoio, dei passi che si avvicinavano lo distolsero dalla spirale negativa ed autodistruttiva in cui stava precipitando.
“Signor Brown, ha una visita.”
Il giovane agente che era arrivato infilò le chiavi nella toppa ed aprì la cella per scortarlo. Jason riconobbe l’agente Mellow, uno dei due poliziotti che avevano effettuato il suo arresto. A differenza dell’agente Custer, Mellow si era comportato in maniera che non si poteva definire gentile, ma nemmeno aggressiva, era stato professionale, a discapito della sua giovane età ed inesperienza.
“Chi c’è?” Domandò.
“Il suo avvocato. Mi segua.”
Jason si stupì, aveva fatto più in fretta del previsto. Forse Kitty non lo aveva abbandonato del tutto o, semplicemente, a New Team Town gli avvocati d’ufficio erano decisamente celeri. Tutto sommato quel posto appariva tranquillo, immaginò che polizia ed avvocati non avessero molto lavoro, per cui quando si presentava l’occasione la coglievano al volo, per uscire dalla monotonia.
L’agente lo accompagnò fino alla stanza dove avrebbe potuto avere un colloquio privato con il suo rappresentante.
“Vi lascio soli.”
“Grazie, agente Mellow.”
“Dovere. Quando avrete finito, sarò qua fuori.”
Una volta che la porta fu chiusa alle sue spalle, Jason si concesse di studiare le due persone sedute al tavolo che lo attendevano: una di esse era Kitty e la cosa risollevò un poco il suo umore nero. Stranamente era vestita in maniera sobria, con un cappottino grigio ed i capelli raccolti in una coda bassa laterale. Appariva molto turbata. Vicino a lei era seduto un uomo con un completo scuro ed una cravatta grigia abbinata. Era molto magro ed aveva lunghi capelli neri tenuti sciolti che, ad essere onesti, non gli conferivano un aspetto molto professionale. Il dettaglio fece storcere il naso a Jason, si aspettava di meglio da un avvocato. Tuttavia salutò educatamente, non voleva partire col piede sbagliato con l’unica persona che avrebbe potuto tirarlo fuori da lì.
“Buongiorno.” Disse semplicemente.
Kitty si alzò e gli andò incontro, scrutandolo in viso. Nei suoi occhi traspariva la preoccupazione che aveva provato e che ancora provava, facendo in parte ricredere il giornalista.
“Come hai passato la notte?”
“Ne ho passate di migliori.” Rispose laconico.
“Vieni, ti presento l’avvocato Warner, che ha preso in carico il tuo caso.”
Il nome pronunciato dalla donna lo fece trasalire: ricordava fin troppo bene come la stessa aveva definito l’avvocato che aveva difeso Oliver Hutton. L’afferrò per un braccio per trattenerla qualche secondo e si chinò a parlarle all’orecchio:
“Mi hai portato l’avvocato delle cause perse?” Chiese con irritazione.
Kitty rispose a tono, sempre sussurrando:
“È il tuo avvocato d’ufficio, non ce n’erano altri disponibili. Cerca di essere gentile.”
Senza sforzo si liberò dalla presa e raggiunse Warner che, nel frattempo, si era alzato.
“Avvocato, questo è il signor Brown.”
I due uomini si strinsero la mano e si studiarono, per capire quanto potessero fidarsi l’uno dell’altro. Jason non poteva negare a sé stesso di avere un forte pregiudizio sulle capacità dell’uomo di legge.
“Non stiamo in piedi, sediamoci al tavolo. Saremo un poco più comodi, per quanto possibile.” Disse Warner, indicando il tavolo spartano e le tre sedie di plastica collocate intorno ad esso.
Si sedettero e l’avvocato aprì la propria valigetta, da cui estrasse una serie di incartamenti ed un blocco per gli appunti con già diverse annotazioni frettolose.
“Ho qui il verbale dell’intervento di ieri degli agenti Custer e Mellow e del suo successivo arresto, corredato delle dichiarazioni del signor Morris ed una stringata dichiarazione della fidanzata. – spiegò Warner – Lei ha da aggiungere altro a quello che è riportato in queste carte?”
L’avvocato le passò a Jason, affinché potesse dargli un’occhiata e potesse indicare le inesattezze e le incongruenze dal suo punto di vista.
Jason sbuffò e le rigettò malamente sul tavolo, dopo avergli dato una veloce scorsa, incrociando le braccia con fare molto contrariato.
“Tanto per iniziare, io non ho aggredito deliberatamente il signor Morris! Sono intervenuto per difendere Jenny che era stata aggredita da quel viscido di Morris!”
Warner scosse la testa:
“Purtroppo non risulta così dai verbali. Anzi, la stessa signorina Jenny ha dichiarato di non essere stata vittima di nessuna aggressione.”
“Bisogna farla ritrattare, so quello che ho visto!” Jason si impuntò.
Kitty appoggiò i gomiti sul tavolo e lo guardò negli occhi:
“Non ne dubito, ma Jenny non ammetterà mai di essere stata trattata male da Jack: ha troppa paura di lui ed è troppo succube, anche se non vuole riconoscerlo.”
“Nemmeno se le parli tu?” Il giornalista era speranzoso, la donna, quando voleva, sapeva rigirare come un calzino il proprio interlocutore, prova ne era come era riuscita a convincere lui stesso a cedere alle sue assurde richieste. Quando mai le aveva dato retta…
“Sai quante volte ho tentato di farla parlare quando la vedevo strana al bar?”
L’avvocato Warner scosse la testa con fare perentorio.
“Nessuno farà nulla per cercare di convincerla o potrebbero accusare noi di coercizione nei suoi confronti. Bisogna agire cautamente.”
Jason sbatté entrambi i pugni sul tavolo, insofferente alla situazione che si stava dipanando davanti ai suoi occhi, sempre più simile ad un vicolo cieco.
“Quello che la costringe a fare cose è il suo fidanzato, io no di certo!”
“A proposito di Jack Morris – l’avvocato parlò cautamente – è meglio non rivolgersi con troppa acrimonia a lui, già è molto irritato, cerchiamo di non aumentare il suo risentimento.”
“Il suo risentimento?! – esplose Jason – Quello che è stato incarcerato ingiustamente sono io! Nemmeno gli agenti mi sono stati a sentire.”
Kitty si agitò nervosamente sulla propria sedia, movimento che non sfuggì al giornalista.
“Cosa c’è adesso?”
La donna emise un lungo sospiro prima di rispondere:
“Charlie Custer è sul libro paga di Jack Morris, qualunque accusa questo gli chieda di inserire a tuo carico stai pur certo che la aggiungerà.”
Se Jason aveva avuto una speranza di cavarsela a poco prezzo, si spense nell’udire quelle parole: con certezza seppe che avrebbe passato un lungo soggiorno nelle celle di New Team Town. Ora comprendeva finalmente l’espressione subdola e trionfante che non aveva mai lasciato il volto del proprietario del Fiore del Nord durante la loro lite, nemmeno quando l’aveva colpito. Una lampadina scattò in lui: quello stronzo l’aveva provocato volutamente, l’aveva spinto a scavalcare il limite della sua proprietà per avere un carico di accuse più pesanti contro di lui. Maledetto!
Un altro pugno si schiantò sul tavolo, la rabbia lo stava invadendo, come il veleno di un serpente.
“Tu! – apostrofò Kitty – Avresti potuto dirmi che razza di persona fosse Jack Morris. Ti piace così tanto spettegolare su tutti gli abitanti di New Team Town, come mai su di lui non hai detto una parola?”
“Pensavo non fossi così stupido da andare a prendere a pugni la gente!”
“Sarebbe colpa mia, quindi?”
L’atmosfera si stava surriscaldando pesantemente e le voci aumentavano di volume in maniera direttamente proporzionale, al punto che l’agente Mellow avrebbe potuto entrare a vedere cosa stava stesse succedendo. L’avvocato Warner cercò di calmare gli animi allargando le braccia tra i due e parlando con voce pacata:
“Signori, litigare non serve a nulla, non migliorerà la situazione. Anzi, signorina, perché non ci lascia un attimo soli, per favore?”
La donna non sembrava molto contenta di essere stata invitata ad uscire, mentre Jason si sentì sollevato dalla proposta dell’avvocato, poiché se Kitty fosse rimasta, probabilmente avrebbe perso del tutto ogni forma di pazienza e lucidità. Quanto sapeva dargli sui nervi quella donna!
“Per favore!” Quasi la supplicò.
Kitty si alzò trascinando rumorosamente la sedia contro il pavimento grigio. Era palesemente scocciata.
“La aspetto fuori.” Disse all’avvocato Warner, uscendo senza degnare di uno sguardo Jason.
Passò qualche istante di silenzio in cui il giornalista si soffermò a studiare meglio la figura dell’avvocato d’ufficio cercando di far scemare rabbia. Non voleva aggredire anche l’unico alleato che gli era rimasto. Prese un paio di profondi respiri, lasciando che l’aria ossigenata entrasse nei polmoni e quella viziata di tossine uscisse dal suo corpo.
“Possiamo fare qualcosa?” Domandò.
Warner cambiò pagina sul blocco degli appunti: anche questa era già scritta, ma in maniera più elegante ed ordinata.
“Beh, dipende da lei. Prima di venire qui ho visto il signor Morris e, se lei fosse disposto a patteggiare, sono riuscito a strappargli un buon accordo.”
 
 
 
 
Jason era rientrato a casa di Kitty da una decina di minuti e si era precipitato in camera. Aveva recuperato da sotto il letto il borsone che aveva portato con sé da New York e ci stava gettando dentro alla rinfusa tutti gli abiti e gli affetti personali: voleva fare il più in fretta possibile, voleva allontanarsi dalla cittadina senza perdere ulteriore tempo. Pazienza se avrebbe dovuto viaggiare col buio: tra le ritrattazioni, la contrattazione, le firme  degli accordi, le pratiche di scarcerazione e quant’altro, la giornata era trascorsa quasi del tutto. Recuperò il pigiama da sotto il cuscino e lo mise insieme al mucchio di abiti, facendo scorrere la zip.
“Che fai?”
La voce di Kitty lo fece sobbalzare: aveva sperato con tutte le sue forze di evitare il confronto, ma sapeva che non sarebbe stato possibile sgattaiolare fuori dalla casa e via da New Team Town senza affrontare la donna. Si voltò verso di lei per affrontarla a viso aperto: aveva preso la sua decisione e questa volta nessuno, nemmeno lei, sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Oltretutto, il pensiero di ritornare in prigione era un incentivo estremamente convincente a fargli mantenere la risoluzione.
“Me ne vado! Lascio la città.”
Kitty spalancò gli occhi per lo stupore e forse anche per l’indignazione.
“Come sarebbe a dire?”
“Hai sentito benissimo.”
“Quindi ci abbandoni?”
Perché quella donna doveva sempre trovare le parole per colpire nei suoi punti di maggiore vulnerabilità? Lui non voleva abbandonare Oliver, ma doveva andarsene, non era disposto a sacrificare la propria libertà per quelle persone, si era già messo fin troppo nei guai per loro.
“Il giudice Everett mi ha imposto di lasciare la città. Non posso restare nemmeno  volendo.” Scelse di essere onesto, forse di fronte ad un ordine del tribunale lei avrebbe mollato la presa.
Kitty  avanzò nella stanza, gli occhi stretti, ridotti quasi a due fessure.
“Il giudice Everett? – sibilò – Non  avrai forse patteggiato?”
“Che altro avrei dovuto fare? Si stava parlando della mia libertà! In questo modo Morris ha mitigato la denuncia ed io ho dovuto pagare solo una multa, più lasciare New Team Town per sempre.”
Kitty si avvicinò fino ad essere a pochi centimetri di distanza da lui e lo colpì violentemente al viso con una sberla.
“Egoista!”
Jason arretrò di un passo, non tanto per il dolore del colpo subito, quanto piuttosto per un improvviso timore nei confronti della donna che non aveva mai visto così irata. Gli faceva quasi paura.
“Ti importa solo di te stesso!”
“Ho preso la mia decisione, Kitty! Lasciami andare.”
Si diresse alla scrivania ed afferrò la borsa che conteneva il computer portatile. Lì accanto c’era anche il libro che era all’origine di ogni suo guaio: davanti alla sua copertina esitò per un istante.
Kitty parve leggergli nel pensiero:
“Non ti azzardare a portare quello fuori da questa casa!”
Il giornalista si girò di scatto, preso da un moto di fastidio per l’ennesima prova che alla donna interessasse molto di più quel maledetto libro che qualsiasi altra cosa. Lui era finito in prigione per assecondare i suoi capricci e lei lo ricambiava dandogli dell’egoista? Era decisamente una squilibrata, avrebbe dovuto seguire il suo primo istinto e non darle corda.
La risposta che le diede gli uscì carica di rancore:
“Non ci penso nemmeno a portarmelo dietro! Se non fosse per te e per quello stupidissimo libro io sarei rimasto in università a fare ciò che mi piaceva. Vorrei non averti mai incontrata. Addio!”
Prese il borsone dal letto e la superò, uscendo dalla stanza prima e dall’appartamento poi.
Era sulle scale, quando sentì una voce che lo chiamava dall’alto.
“Si sta facendo buio. Aspetta fino a domani mattina!”
“Per lasciarti un’altra notte di tempo per farmi di nuovo il lavaggio del cervello? Puoi scordartelo!”
Senza voltarsi arrivò fino al fondo delle scale, nella hall del palazzo salutò il portiere e si diresse all’auto di Matthew che era rimasta parcheggiata dove l’aveva lasciata il primo giorno. Caricò tutto nel bagagliaio e si mise alla guida.
Solo quando ebbe svoltato l’angolo si concesse di accostare e prendersi un attimo per sé per far sbollire la rabbia: aveva dovuto allontanarsi di fretta per non dare a Kitty l’occasione di intrappolarlo di nuovo nella sua rete, ma si rendeva conto di non poter guidare fino a New York in quelle condizioni. Lasciò la presa sul volante e si accorse che le braccia e le mani gli tremavano per la rabbia ed il respiro era leggermente affannato. Accese l’autoradio e lasciò che la musica lo cullasse mentre appoggiava il capo al poggiatesta del sedile e chiudeva gli occhi. Quella che doveva essere una semplice gita di qualche giorno per recuperare un paio di informazioni si era trasformata in un incubo, ma, per fortuna, stava per avere fine.
Le ultime note di Let it be lo trovarono pronto a rimettersi in viaggio. Ingranò la marcia e si immise nel leggero traffico di New Team Tom.
Il tramonto stava arrivando velocemente ed i lampioni sulle strade erano stati accesi da poco. Le case che scorrevano ai fianchi dell’auto guidata da Jason diventavano sempre più rade. Se al suo arrivo le varie costruzioni avevano suscitato in lui interesse, ora gli facevano provare solo repulsione per il luogo. E vergogna: si era sempre comportato in maniera ligia alle regole, tuttavia si trovava a lasciare la cittadina dopo aver trascorso una notte in cella come il peggiore dei criminali. Si vergognava di sé stesso. Aveva tentato di scaricare tutte le colpe su Kitty e sul libro, ma con la mente più lucida e il nastro d’asfalto della strada che scorreva sotto le ruote della Ford, sapeva che doveva biasimare solo sé stesso. Nessuno l’aveva costretto ad intervenire in difesa di Jenny e ad accapigliarsi con Jack Morris, aveva fatto tutto da solo.
Lasciate le ultime case anche il traffico era drasticamente calato, ormai era l’unico rimasto nel raggio di qualche chilometro, poteva procedere all’andatura che più desiderava, senza correre troppo.
Il cartello che indicava l’uscita dal territorio di New Team Town apparve dopo una curva: ancora qualche centinaio di metri e la cittadina sarebbe stata solo un ricordo destinato a svanire sempre più dalla sua mente.
Improvvisamente la macchina ebbe uno strano scatto che lo costrinse a stringere la presa sul volante per non finire fuori strada. Jason era perplesso, poiché non c’erano tracce di acqua o olio o altre sostanze scivolose e neppure di buche o dissesti. Magari aveva preso un sasso senza accorgersene.
L’auto sfuggì di nuovo al suo controllo, iniziando a zigzagare sulla strada.
Jason era terrorizzato, non sapeva che fare: né il volante, né il pedale del freno e neppure il freno a mano rispondevano ai suoi comandi.
La macchina uscì di strada in un punto in cui non c’era guardrail e cominciò a cappottarsi su sé stessa. Il giornalista si sentiva sballottare a destra ed a sinistra con sempre maggior violenza. Un urlo restò strozzato in gola, incapace di trovare la strada per esplodere. Poi tutto divenne buio.




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Il capitolo inizia male per Jason e si conclude ancora peggio. XD Il nostro aspirante giornalista pareva essere riuscito a risolvere il suo problema con la polizia, ma a quanto sembra si ritrova di nuovo nei guai...
Cosa gli sarà successo?

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Capitolo 15
*** XIV ***


L’uomo era nervoso, si muoveva in circolo nel salotto della villa reggendo un calice colmo di vino rosso da cui beveva qualche sorso ad intervalli irregolari. I suoi ospiti lo guardavano inquieti, l’unica volta che l’avevano visto in quelle condizioni era stato circa un anno prima, quando quella ragazza, quella che teneva prigioniera dietro la cantina, aveva cominciato a ricordare qualcosa. Lì aveva dovuto intervenire, prima che nella maledizione si aprissero crepe che non avrebbero più potuto essere sanate. In quell’occasione aveva usato parole dure con i suoi sgherri, ora era pronto a rifare la medesima cosa.
Mosse la mano che reggeva il calice in modo che il vino si muovesse a in circolo al suo interno. Cercò di controllare la voce, senza gridare, ma tenendo un tono tagliente che facesse sentire a tutti la sua irritazione:
“Vorrei sapere chi di voi ha ritenuto superfluo informarmi della presenza in città di un forestiero e delle sue attività.”
Le occhiate che passarono tra i suoi uomini erano fin troppo palesi della loro colpa.
“Qualcuno dica qualcosa.” Li spronò.
Nuovi sguardi e nuove occhiate, stavano forse cercando di farlo irritare? Non gli conveniva giocare col fuoco, era già pericolosamente prossimo al termine della pazienza.
Finalmente Roberto fece un passo avanti:
“Non è il primo ospite di passaggio che arriva a New Team Town.”
L’uomo si fermò davanti allo scagnozzo:
“Vero, ma è il primo che si ferma così a lungo e che ficca il naso in faccende che non gli competono.”
Roberto abbassò la testa e l’uomo proseguì:
“Quando pensavate di informarmi? Non vi ho messo al lavoro nei punti strategici della cittadina perché passiate il tempo a rigirarvi i pollici. Mi aspetto ben altri servizi dalle mie spie.”
Bevve l’ultimo sorso di vino e si spostò verso destra, fino a posizionarsi davanti ad un giovane biondo che, fino a poche ore prima, aveva sempre considerato il suo uomo più fedele dopo Roberto. Forse era venuto il momento di cambiare le gerarchie.
“Chi mi ha deluso più di tutti sei tu, Santana. Non dirmi che tu ed il tuo amichetto sindaco non avete mai avuto occasione di fare quattro chiacchiere su questo Jason Brown.”
Santana si irrigidì completamente, strinse i pugni affondando le unghie nella carne dei palmi delle mani.
“Il giornalista stava solo facendo domande inopportune. Ho messo Becker sull’avviso, può gestire lui la situazione: in fondo, se la storia del cantiere viene a galla è lui a rimetterci ogni cosa.”
“Idiota! - Il vaso era tracimato. L’uomo lasciò cadere il calice, che si infranse sul pavimento lucido, e mollò un manrovescio allo scagnozzo. - Il cantiere è nulla rispetto all’intera posta in palio! Questo Brown rischia di mettere in moto degli ingranaggi che possono portare alla distruzione di tutti noi.”
Santana si teneva con una mano la guancia colpita.
“Non immaginavo.”
“Scommetto che non immaginavi nemmeno che qualche sera fa è venuto anche al tuo locale. Eri forse troppo impegnato a correre dietro alla gonna della tua ballerina?”
“Io…”
L’uomo gli impedì di replicare, rivolgendogli uno sguardo furioso.
“Vedi di tenere a freno i tuoi bollori con Amy, sono stanco anche di dover rimediare a tutte le volte che l’hai quasi fatta scappare. Lei è uno dei nostri assi nella manica, ficcati bene in testa che devi tenerla sotto  controllo, non scopartela.”
Una fitta alla testa lo fece esitare. Invece di proseguire con l’invettiva si avvicinò al caminetto ed si appoggiò con entrambe le braccia alla parte superiore per sostenersi. Chiuse gli occhi e prese dei profondi respiri.
“Capo, tutto bene?”
Domandò uno degli sgherri che fin’ora era rimasto in silenzio.
“Zitto, idiota!”
Era successo di nuovo, qualcosa stava sfuggendo al suo controllo e non poteva sopportarlo. Ciò che lo infastidiva di più era il fatto che avesse chiesto ai suoi uomini di alzare la guardia ed invece avevano preso la situazione alla leggera. Cercò di recuperare un contegno.
“Questo Jason Brown ora dov’è?”
Fu Roberto a rispondere:
“Charlie Custer l’aveva arrestato, perché a quanto pare aveva pestato i piedi a Jack Morris.”
L’uomo raddrizzò la schiena, interessato: Jack Morris era solo un pallone gonfiato convinto di poter fare il bello ed il cattivo tempo a New Team Town insieme al suo amichetto poliziotto. Una volta tanto poteva essersi comportato in maniera utile.
“Quindi il ficcanaso ora è in prigione?”
Roberto scosse la testa.
“Pare che Morris abbia giocato le sue carte in modo da convincerlo a lasciare la città in cambio della libertà. Ora si starà preparando a partire.”
“Alla fine la faccenda si è risolta da sola, il signor Brown se ne andrà presto fuori dai piedi.” Commentò Santana.
L’uomo venne invaso da un moto di rabbia, possibile che una buona notizia dovesse essere subito seguita da una pessima? Quel giorno pareva dovesse andargli tutto storto e, per di più, i suoi scagnozzi parevano non accorgersi di nulla.
“Non deve lasciare la città. – Sibilò tra i denti – Non dovete permetterglielo!”
“Ma capo!”
“Silenzio! Jason Brown non deve uscire dai confini di New Team Town, non può andarsene in giro chissà dove a raccontare di noi. Fermatelo con qualsiasi mezzo, basta che non lo ammazziate. Fermatelo e portatelo qua: godrà della mia ospitalità speciale.”
 
 
 
 
Una vecchia berlina nera percorreva frettolosamente le strade di New Team Town verso il confine nord della cittadina. Erano passati davanti al palazzo in cui abitava Kitty, dove la macchina con cui Jason Brown era arrivato era sempre stata parcheggiata: quando non l’avevano vista, avevano subito capito che il giornalista doveva essere già partito alla volta di New York. Speravano solo che non fosse troppo tardi per raggiungerlo prima che lasciasse definitivamente la cittadina, il capo non gliel’avrebbe perdonato.
“Francisco! Vedi di stare più attento, non vorrai farci rompere l’osso del collo.”
L’osservazione fece irritare maggiormente Santana che ancora non aveva digerito il modo in cui era stato trattato poco prima, come un incompetente, dopo che era stato un servitore fedele per anni. Sterzò bruscamente per assecondare la curva.
“Sta zitto Roberto!”
“Non parlarmi in questo modo. – lo rimproverò il parrucchiere – Ricordati che sono il suo braccio destro.”
Francisco sbuffò, ancora con riusciva a capire come tra tutti i seguaci, il capo avesse scelto proprio quel damerino come suo uomo più alto in grado. Avrebbe dovuto esserci lui in quella posizione, dannazione! Chi faceva il lavoro più sporco? Chi faceva girare i contanti nella cittadina? Chi era andato a circuire il futuro sindaco, con tutti i rischi connessi? Lui, lui e sempre lui! Eppure al capo pareva non importare! Era sempre rintanato nella villa a tramare oscure faccende. L’unica punto che Sedinho poteva avere dalla sua era l’età.
“Cosa gli avrai mai fatto per godere di tanto favore? Uno shampoo speciale?” Domandò sarcastico.
“Spiritoso! Non credere che quello che faccio in paese sia inutile.”
“Certo, civettare con vecchie signore circondato da lacche e profumi aromatici. Molto virile!”
Roberto gli mollò uno scappellotto sulla nuca, rischiando di fargli perdere il controllo dell’auto. La macchina che veniva loro incontro sulla corsia opposta suonò il clacson prepotentemente.
“Ma sei impazzito!?”
“Ragazzino – tuonò l’uomo seduto sul sedile del passeggero – quella del parrucchiere è solo una copertura ed una recita. Credi che mi faccia impazzire girare per un negozio ancheggiando e dispensando ‘cara’ e ‘tesoro’ a destra e a sinistra? Lo faccio solo perché tu non hai idea la miniera delle informazioni che si possono raccogliere tramite i pettegolezzi delle donne.”
Francisco era parecchio scettico, sapeva quali erano i generi di discorsi preferiti dalle donne, gli era capitato ancora di intercettare qualche conversazione tra i camerini del locale.
“E dimmi, quanto può esserci utile sapere chi è uscito con chi, chi ha trombato con chi ed altre amenità simili?”
Con la coda dell’occhio vide Roberto scuotere la testa come se lui fosse un bambino pigro a capire e per reazione premette ancora più a fondo sull’acceleratore. La freccia del tachimetro svettò a livelli che la piccola automobile non doveva mai avere visto. Roberto fu costretto ad attaccarsi alla maniglia posta sopra la sua portiera mentre cercava di parlare.
“Ti do atto che molte delle chiacchiere sono inutili, ma se si hanno buone antenne si vengono a sapere cose molto interessanti. Soprattutto se la signora Becker o la segretaria del Sindaco sono clienti abituali.”
Francisco dovette ammettere di essere colpito, non pensava che persone tanto importanti frequentassero il salone di Sedinho. Anche il suo locale era frequentato da gente interessante, ma difficilmente riusciva a cavarne informazioni in mezzo al frastuono della musica e allo scatenarsi dei balli. Molto in profondità, provò un piccolo moto di ammirazione nei confronti dell’uomo che riusciva a camuffare  sotto un aspetto così affabile le trame che intesseva nell’ombra. Tuttavia…
“E quindi la First Lady non ti ha detto nulla che avrebbe potuto evitare la sfuriata del capo? O hai preferito tenerti per te le tue grandiose scoperte?”
Non poté trattenersi dall’affondare la stoccata velenosa: Roberto aveva sbagliato come tutti loro nel non informare prontamente il capo.
“Aspettavo di ricevere maggiori conferme.”
Aveva colpito, il parrucchiere era scattato sulla difensiva.
“Ma che diamine? Francisco, accosta presto!”
“Cos’è, stai male? – ribatté Santana – Oh cazzo!”
Il proprietario del Cyborg non riuscì a trattenere l’esclamazione quando si trovò davanti l’auto di Jason Brown ribaltata nel campo oltre il ciglio della strada.
“Dici che è ancora vivo?” chiese a Roberto.
“Non lo so e di certo non lo scopriremo restando qui. Andiamo a controllare.”
Entrambi si slacciarono le cinture e scesero dalle rispettive portiere.
“Vediamo di fare in fretta, prima che arrivi la polizia: la pattuglia passa sempre da queste parti prima di staccare del tutto per la notte.”
Francisco annotò mentalmente un altro punto a favore di Roberto: come diavolo faceva a conoscere pure i giri delle pattuglie locali? Avvicinandosi all’auto ammaccata commentò:
“Se questo tizio fosse morto avrebbe fatto un affare: si risparmierebbe di finire tra le mani del capo.”
“In realtà, credo che il capo non sia del tutto estraneo a quanto successo alla sua auto.”
 
 
 
 
 
Jason si svegliò in preda ad una forte emicrania. Ricordava molto poco di quanto avvenuto: era alla guida dell’auto di Matthew e stava lasciando New Team Town per non farvi più ritorno, voleva lasciarsi alle spalle la brutta esperienza della cittadina. Ricordava che c’era stato un grande botto, poi il nulla. Il suo primo pensiero andò all’auto del coinquilino ed a come avrebbe potuto dirgli che la sua preziosa Ford era probabilmente un rottame. Si sentiva uno stupido.
Si mosse e si rese conto di essere adagiato su qualcosa di morbido, probabilmente era stato portato in ospedale mentre era incosciente. Cercò di mettersi seduto, provando ad ignorare il dolore che pulsava nelle tempie. Il buio intorno a lui era così fitto che non riusciva a riconoscere nulla, quindi mosse le mani alla ricerca del comodino su cui certamente doveva esserci una piccola lampada o, al limite, un interruttore. I suoi palmi incontrarono del freddo cemento, non solo dove avrebbe dovuto esserci il mobile, ma tutt’intorno al letto: realizzò di trovarsi su un materasso adagiato sul pavimento. Non poteva di certo essere in ospedale, dove diamine era finito? Per una frazione di secondo la sua mente fu attraversata dalla paura di essere tornato di nuovo in carcere, quel Custer avrebbe benissimo potuto arrestarlo per un incidente stradale di cui era rimasto vittima.
Un tintinnio di catene a pochi metri da lui lo fece sobbalzare, procurandogli una fitta più intensa alla testa.
“Chi c’è?” Domandò al buio.
Il rumore delle catene si fece più intenso, qualcuno si muoveva di certo all’interno di quella strana stanza. O forse doveva dire cella?
“Atsushi? Sei davvero tu?” Chiese una voce femminile con una nota vagamente familiare.
Ciò che colpì Jason fu l’uso di quel nome, quello che Kitty pretendeva essere il suo vero nome di battesimo. Gli sembrava di essere finito in un manicomio, in quella cittadina non c’era nulla che funzionasse in modo normale o con un minimo di logica. Perché non era rimasto a New York? A quanto pareva, tentare di allontanarsi non era bastato ad evitare quella sventura.
“Non sono Atsushi. – rispose stizzito – E tu chi sei?”
“Sono prigioniera come te.”
“Prigioniera? E di chi? Dove cazzo siamo?”
“Siamo sotto la villa. Lui ha paura che la maledizione si spezzi. Lui è cattivo, è stato lui ha fare tutto questo!”
Jason esplose, non ne poteva più di sentir parlare  di maledizioni ed altre assurdità simili:
“Lui chi? Per amor di Dio, basta con questa storia della maledizione!” Urlò esasperato.
All’improvviso una fascio di luce, che accecò il giornalista, entrò nella stanza: era stato aperto un varco. Un uomo parlò:
“Siete svegli entrambi! Giusto in tempo.”
Dopo la prolungata oscurità, gli occhi di Jason impiegarono parecchio per adattarsi alla luce e riuscire a restare aperti.
“Sistemate il nuovo ospite.”
L’ordine venne impartito ad un paio di ceffi che entrarono nella cella, presero il giornalista per le braccia e lo avvicinarono al muro. Jason tentò di divincolarsi, protestando e scalciando, ma uno di essi lo teneva saldamente, mentre l’altro gli chiudeva un polso in un anello di ferro. Era stato incatenato anche lui.
Terminata l’operazione i due se ne andarono.
Jason provò a strattonare la catena, ma era solida e resistente. Inoltre, i movimenti repentini non facevano che aumentare il suo mal di testa. Decise di non tentare ulteriormente di liberarsi e si concentrò sull’uomo che era rimasto con lui e l’altra prigioniera, quello che aveva l’aria di essere il capo. Era un individuo alto e abbastanza robusto che teneva il volto celato da una maschera ed aveva una specie di frustino nella mano sinistra.
“Chi sei tu?” Chiese.
L’uomo si mantenne impassibile mentre replicava:
“Siamo in casa mia, le domande le faccio io.”
“Per come ci stai trattando, non mi pare che meriti molto rispetto. Non hai nemmeno il coraggi di farti vedere in volto!” Jason era sfinito dalla situazione che, invece di migliorare, si faceva sempre più assurda e sfiancante.
“Non provocarlo!” Gli disse la donna con tono di supplica, ma l’uomo non sembrava contento dell’intervento.
“Tu non ti intromettere! – Le sibilò contro – Ora veniamo a te.”
L’uomo avanzò nella cella fino ad essere proprio davanti a Jason ed a riuscire a sollevargli il mento con la mano destra. Il giornalista rabbrividì al contatto con la pelle fredda del suo carceriere.
“Allora, sentiamo, cosa sei venuto a fare nella mia città?”
“Niente di particolare, solo una gita.”
L’uomo mosse il polso rapidamente e gli colpì la gamba con il frustino, procurandogli una fitta di dolore.
“Non mentirmi! Cosa sei venuto a fare e come sei arrivato qui.”
“Sono arrivato per caso.”
“E ti saresti fermato quasi tre settimane in un posto in cui sei andato a caso?”
Jason non rispose, mentre riceveva un altro colpo sulle gambe. Una parte di lui sapeva che sarebbe stato facile fare il nome di Kitty, ma un’altra parte, nonostante tutto, nonostante i suoi guai fossero colpa di lei, non voleva tradirla, non voleva consegnarla a quel pazzo che di certo non aveva nulla a che fare con la polizia.
“Parla!” Gli intimò ancora una volta l’uomo.
Il giornalista fece uno scatto indietro con la testa, per sfuggire alla presa gelida sul volto.
“Cosa ti interessa che facevo qui? Tanto me ne stavo andando!”
“Risposta sbagliata!”
L’uomo fece schioccare nuovamente la frusta, colpendo però il pavimento in un moto di nervosismo.
“Non collabori? Peggio per te. Non ho ancora capito come tu abbia fatto a finire fuori dai confini di New Team Town in origine, ma ora che sei qui non te ne andrai più. Goditi la permanenza, Atsushi.”
L’uomo fece un cenno ai suoi sgherri e la porta della cella venne richiusa. L’oscurità tornò a regnare sovrana.





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Per prima cosa mi scuso se l'aggiornamento non è arrivato ieri sera, ma non ce l'ho fatta e quando ho avuto un momento era tardi ed il sito andava al rallentatore. Pubblico oggi, invece di slittare a settimana prossima, nella speranza di potervi fare compagnia in questo periodo complicato per tutti.
In questo capitolo facciamo un salto dall'altro lato dello schieramento: se Santana era prevedibile tra i cattivi, qualcun altro risulterà meno scontato.
Per il nostro Jason la situazione è precipitata, temo sarà fuori dai giochi per un bel po'. Chissà però se il suo breve intervento in città avrà smosso davvero degl "ingranaggi" come teme il nostro super cattivo?

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Capitolo 16
*** XV ***


Come ogni mattina da quando aveva memoria, o almeno così a lui pareva, la sveglia era suonata impietosa prima delle sei.
Senza troppe cerimonie, Mark scese grugnendo dal letto e si trascinò in cucina per prepararsi un caffè forte, aveva bisogno di carburare prima di uscire per andare al lavoro. Accese la radio per captare qualche canzone gracchiante: non aveva mai avuto una grande ricezione del segnale, probabilmente dovuta al fatto che il suo apparecchio risaliva almeno ad una quarantina di anni precedenti, ma per quel poco che ascoltava musica era più che sufficiente. Non amava sprecare denaro per questioni futili come una radio.
Bevve il caffè, si vestì in fretta ed uscì a piedi. Anche se abitava piuttosto lontano dal centro e dall’edicola, per lui non era un problema fare quella lunga passeggiata, gli dava la possibilità di osservare la cittadina ancora immersa nel buio prima dell’inizio delle attività. Non si poteva dire che la vita a New Team Town scorresse frenetica e dinamica, ma c’era comunque una differenza notevole tra le ore di quiete notturna e la giornata lavorativa. Erano in pochi a svegliarsi presto come lui.
L’aria si stava facendo sempre più fredda, l’autunno era quasi agli sgoccioli e presto sarebbe iniziato l’inverno, periodo dell’anno che lo rendeva sempre nervoso ed intrattabile più del solito. Era stato in inverno che la sua famiglia era andata a rotoli, perciò odiava con tutto sé stesso quella stagione ed ogni ricorrenza legata ad essa.
Arrivato all’edicola, utilizzò la sua chiave per sollevare la serranda dall’esterno, presto sarebbe arrivato il primo furgone con la consegna dei quotidiani, non doveva perdere toppo tempo. Si recò nel vicolo per accedere all’ambiente dalla porta laterale e lo ritrovò invaso dai rifiuti della gelateria. Quel Callaghan non aveva alcun riguardo per lui e per il suo lavoro! Tirò un calcio di stizza ad un mucchio di cartoni. Era stufo marcio di quella situazione e gliel’avrebbe fatta pagare a breve, era inutile che il gelataio continuasse ad usare la scusa che il ritiro porta a porta era in ritardo, poteva benissimo fare come tutti e caricarsi la sua spazzatura sul suo stramaledettissimo pick-up arancione e portarla direttamente in discarica.
Afferrò il cellulare e digitò un messaggio per il suo amico Eddie Bright:
Il muletto mi serve questa mattina.”
Premette invio un istante prima che il furgone parcheggiasse davanti all’edicola.
“Buongiorno Lenders!” Salutò l’autista, scendendo ed aprendo i portelloni posteriori.
“Buongiorno White. Il solito carico?”
“Esattamente. – L’uomo cominciò ad estrarre dal furgone voluminosi pacchi contenenti i principali quotidiani della zona – C’è stato un incidente sulla Lincoln che ha bloccato quasi tutto. Io sono riuscito a passare per un pelo.”
La notizia non piacque per nulla a Mark, dato che aspettava un secondo turno di consegna con i giornali sportivi ed alcuni settimanali e la Lincoln era la via di comunicazione principale per raggiungere New Team Town provenendo dalle redazioni e dalle stamperie. Se Brian era rimasto bloccato, sarebbe stato a secco per chissà quante ore. La giornata si prospettava di merda.
Il corriere richiuse il furgone e si sistemò il cappellino sulle tempie.
“Io ho finito. Ci vediamo domani.”
“A domani, stesso posto, stessa ora.”
Mark aspettò che il mezzo partisse, poi arrotolò le maniche e si mise pazientemente a spacchettare i quotidiani ed a disporli ognuno nelle apposite postazioni. I suoi clienti si aspettavano di trovare l’ordine perfetto ed immutato ogni giorno, non amavano le sorprese, come lui del resto.
 
 
 
 
Philip Callaghan era molto orgoglioso della gelateria a cui aveva dedicato tutte le proprie energie negli ultimi anni: non troppo grande, ma con sufficiente spazio per cinque tavolini rotondi, il pavimento a piastrelle azzurre e bianche ed una grande vetrata sulla strada. Gli avventori apprezzavano e ad ogni stagione estiva erano sempre più numerosi. Nella stagione autunnale ed invernale c’era un calo fisiologico delle presenze, ma i più fedeli si facevano sempre vedere almeno una volta a settimana, soprattutto da quando aveva iniziato ad abbinare ai gelati tazze colme di cioccolata calda.
Quando aveva deciso di imbarcarsi nell’impresa era stato piuttosto fortunato nel trovare disponibile un locale abbastanza centrale ed in un luogo in cui passava molta gente: un cono gelato poteva essere preso anche al volo, senza bisogno di fermarsi e sedersi. A fare delle obiezioni era stato il proprietario del Fiore del nord che non voleva nella cittadina un’altra attività simile alla propria, ma non aveva potuto fare molto di più che brontolare, dato che i due locali erano sufficientemente distanti l’uno dall’altro da evitare di darsi fastidio a vicenda. Philip non aveva molto compreso questo astio da parte di Morris, in fondo le loro clientele erano differenti, ma essendosi risolto tutto in un nulla di fatto, aveva lasciato correre senza andarsi a cercare inutili gatte da pelare. Ne aveva già una bella grossa a cui badare: il suo vicino, il proprietario dell’edicola di New Team Town, Mark Lenders.
Quell’uomo era l’unico vero intoppo che avesse incontrato nella sua attività ed era un intoppo di quelli grossi, da perderci il sonno. Inizialmente aveva pensato che la vicinanza con un’edicola avrebbe potuto essere un vantaggio per entrambi: chi si fermava per un gelato poteva poi acquistare un quotidiano o, viceversa, chi cercava un giornale si sarebbe potuto fermare per una piccola pausa rinfrescante. Lui e l’edicolante avrebbero potuto trovare un sacco di modi per collaborare, per fare gioco di squadra, aveva moltissime idee. Invece il signor Lenders l’aveva preso subito in antipatia, non appena l’aveva visto, per non parlare del fatto che, essendo la sua attività la più vecchia della via, riteneva di dover essere l’unico a poter prendere alcune decisioni e che Philip dovesse sottostare senza battere ciglio. Al gelataio la cosa non andava a genio, non pretendeva di venire a comandare con una nuova attività, ma di essere trattato con un minimo di rispetto. Poiché Lenders gli mancava sempre di rispetto, l’antipatia era diventata reciproca e non passava giorno senza che i due litigassero: ogni pretesto, anche il più banale, era una scusa per iniziare una lite. Uno dei loro principali argomenti di discussione era l’utilizzo del vicolo che separava la gelateria dalla struttura dell’edicola, dato che entrambi avevano gli ingressi di servizio proprio su quella porzione di strada e nessuno dei due era intenzionato a subire ritardi nelle consegne perché l’altro stava a sua volta ricevendo un rifornimento. Inoltre, Lenders si attaccava a qualunque cosa per indisporlo, anche quando il problema non era dipendente dalla sua volontà: ad esempio quando gli addetti alla raccolta porta a porta dei rifiuti tardavano con il loro giro e lasciavano i suoi sacchetti e scatoloni a stazionare più del dovuto nel vicolo.
Callaghan a volte era esasperato dalla situazione, era come avere una costante spina nel fianco, ma non era intenzionato a mollare od arretrare nelle sue convinzioni, aveva investito troppo nella gelateria. Stava anche pensando di fare dei piccoli rinnovi a fine inverno, giusto prima della primavera, quando il clima sarebbe stato più mite ed adatto ai lavori all’aperto: gli sarebbe piaciuto rinnovare la facciata con un nuovo colore. Doveva sbrigarsi a chiedere tutti i permessi e le autorizzazioni al sindaco, in modo da essere pronto per il tempo stabilito senza che l’edicolante potesse più mettergli i bastoni tra le ruote.
Aveva appena finito di spolverare la vetrina dove esponeva le vaschette con i vari gusti di gelato che un rumore non troppo forte di qualcosa rovesciato proprio vicino all’ingresso gli fece alzare la testa di scatto. Guardò fuori dalla vetrina e vide una montagna di scatole di cartone e la sagoma di un veicolo che si allontanava.
Si precipitò in strada per controllare meglio quello che stava succedendo e non poté credere ai propri occhi:
“Ma che cavolo!” Esclamò.
Mark Lenders, l’edicolante, stava guidando una specie di muletto con cui aveva preso tutti i rifiuti che la nettezza urbana non aveva ancora ritirato dal vicolo e li aveva rovesciati davanti alla sua vetrina.
“Lenders! Si può sapere che diamine staresti facendo!”
“Faccio pulizia Callaghan! Quella che non ti degni di fare tu.”
Il gelataio sentì la rabbia montare dentro di sé, come si permetteva quel cafone di venire a fargli la predica? Per di più, pretendeva di fare pulizia ammucchiando roba davanti al suo locale?
“Sposta immediatamente quella roba da davanti alla mia vetrina!”
“Te lo puoi scordare. Sono stanco di trovare le tue schifezze nel vicolo, vicino alla mia porta!”
Philip scattò pieno di rabbia verso il muletto, mise un piede sulla carrozzeria, come per montare a bordo, ed afferrò Lenders per la felpa.
“Razza di maleducato! Rimetti subito a posto!”
Se Mark rimase sorpreso dal gesto improvviso del gelataio non lo diede a vedere e reagì prontamente, scrollandoselo di dosso violentemente.
“Vattene via, razza di idiota!”
Lo strattonò con tanta forza che non solo lo allontanò da sé, ma lo fece cadere sul marciapiede mezzo metro più in là.
Callaghan era furibondo, si rialzò per ripartire alla carica, ma Lenders aveva già inserito la retromarcia.
“Te ne vai codardo?” Urlò Philip a pieni polmoni. Con qualche secondo di ritardo si accorse che sul marciapiede non erano soli, c’era qualcun altro con loro e l’edicolante pareva non averlo visto a sua volta, tanto che procedeva imperterrito nella sua manovra. Philip fece un passo avanti e tentò di avvertirlo di fermarsi:
“Attento a dove vai!”
Troppo tardi, il muletto aveva già colpito e ribaltato un altro mezzo di trasporto.
 
 
 
 
Benjamin Price era di pessimo umore: la giornata era iniziata in maniera sbagliata e stava proseguendo in modo ancora peggiore. Se continuava di quel passo, prima di sera probabilmente gli sarebbe caduto un asteroide in testa. Era dovuto uscire per incontrare l’avvocato di famiglia, fatto alquanto insolito dato che solitamente il legale lo raggiungeva a casa, ma l’uomo era impegnato in chissà quali scartoffie che non aveva potuto lasciare l’ufficio. Si era fatto accompagnare dall’autista, come sempre quando usciva, fin sulla porta dell’avvocato, ma lo chauffeur era febbricitante e lui non si era sentito di farlo aspettare delle ore in auto, così l’aveva congedato. Sarebbe rientrato in taxi, cosa che odiava profondamente, perché tutti i taxisti della cittadina sbuffavano sempre non appena vedevano la sua sedia a rotelle. Dall’altra parte, arrivare fino al quartiere di lusso da solo, esposto alla vista di tutti coloro che passavano per strada, lo indisponeva ancora di più. Tra i due mali aveva  scelto il minore.
L’incontro con l’avvocato non aveva dato i frutti sperati e di certo il suo umore non era migliorato.
Unica nota positiva non pioveva, così aveva pensato di avviarsi fino all’edicola per recuperare un paio di riviste di economia prima di chiamare un taxi. In fondo si trattava di poco meno di duecento metri da percorrere, avrebbe sopportato.
L’edicola e le riviste gli fecero venire in mente quel giornalista ficcanaso che l’aveva importunato qualche settimana prima. Dopo l’episodio al Fiore del nord non l’aveva più avvicinato, ma le sue fonti gli avevano raccontato che era andato ad immischiarsi fino al cantiere e che aveva trovato pure l’architetto da strapazzo, con cui pareva aver instaurato un certo feeling. Però ad un certo punto doveva averla combinata grossa, perché era partito in fretta e furia da New Team Town. Uno scocciatore in meno!
Avvicinandosi all’edicola si accorse che Lenders e Callaghan stavano litigando, come loro solito. Non gliene andava bene una quel giorno.
“Razza di maleducato! Rimetti subito a posto!”
Il gelataio stava aggredendo l’edicolante che, dal canto suo, era alla guida di un muletto sul marciapiede, impedendo di fatto a tutti di  passare.
“Vattene via, razza di idiota!”
L’atmosfera tra i due si stava surriscaldando velocemente e Benji non aveva nessuna voglia di rimanere coinvolto nei loro bisticci. Pensò di voltare i tacchi ed andarsene, ma era arrivato fino a lì e non voleva restare a mani vuote. Ne avrebbe dette quattro a tutti e due, dare spettacolo a quella maniera per strada. Premette il pulsante per  avanzare.
“Te ne vai codardo?”
Il capocantiere vide Lenders iniziare la retromarcia senza curarsi di dove stava andando. Si arrestò, ma non aveva spazio per spostare la carrozzella in tempo per evitare lo scontro.
La voce allarmata di Callaghan che intimava all’edicolante di fare attenzione fu l’ultima cosa che sentì prima di venire colpito.  Fu un impatto piuttosto violento, sul lato della carrozzina.
La sedia a rotelle si ribaltò sul fianco, sbattendo Benji a terra in mezzo alla strada, dove non avrebbe avuto possibilità di alzarsi da solo.
“Che cazzo hai combinato?” Sentì Callaghan urlare, mentre Lenders imprecava:
“Merda!”
Il rumore assordante del clacson di un camion gli fece voltare la testa verso sinistra: un autoarticolato stava arrivando a velocità sostenuta proprio nella sua direzione. Se quando gli era franato addosso il cantiere si era salvato miracolosamente, ora non avrebbe avuto scampo, si era già giocato tutti gli aiuti divini. Il suo volto si trasformò in una maschera di terrore.
 
 
 
 
 
“Risponde la segreteria telefonica.”
Oliver chiuse la comunicazione con un sospiro: erano un paio di giorni che cercava di mettersi in contatto con Jason, ma trovava sempre il telefono staccato. Sapeva da Kitty che il giornalista aveva lasciato la cittadina: quando era andato all’appartamento per incontrarsi con Jason, aveva trovato al donna quasi fuori di sé, tra rabbia e disperazione, e gli ci era voluta una buona mezz’ora per farla calmare e farsi raccontare per bene la storia. Poteva capire perché l’amico avesse deciso di lasciare New Team Town, con le accuse penali non si doveva mai scherzare, lui era il primo a saperne qualcosa. Non capiva perché avesse staccato il telefono, rendendosi di fatto irraggiungibile a chiunque, anche  ai suoi conoscenti di più vecchia data. Magari aveva solo perso il caricabatterie ed il cellulare era morto in attesa di essere collegato ad una presa di corrente. Voleva credere di non essere stato tagliato fuori da quella persona con cui aveva un debito: senza di lui non avrebbe mai saputo la verità sul suo progetto, starebbe ancora brancolando nel buio, schiacciato dal peso di responsabilità che ora sapeva non essere sue. Doveva molto a Jason e non aveva avuto l’occasione di dimostrarglielo.
Nel riporre il telefono, osservò la chiazza rossa di pomodoro che occupava il centro della sua felpa. Mezz’ora prima aveva incrociato Bruce Harper che non aveva perso l’occasione per utilizzarlo come bersaglio. Si domandò come accidenti facesse ad avere sempre a portata di mano qualcosa da scagliargli contro, era peggio di uno stalker. Una volta aveva anche pensato di denunciarlo, ma poi aveva desistito, poiché pensava di meritarsi il biasimo di tutti. Adesso non era più disposto a sopportare certe angherie, così aveva sollevato la testa ed aveva risposto seccato all’installatore di bagni chimici. Poi non si era fermato ad aspettare la reazione, ma immaginò di averlo lasciato piuttosto sorpreso.
Il rumore di voi concitate lo allontanò dai suoi pensieri e lo ricatapultò nella realtà. Non si era reso conto di essere arrivato fino quasi in centro, pensava di essere molto  più lontano, non di aver raggiunto il viale della gelateria di Philip Callaghan e dell’edicola di Mark Lenders. Poco distante da loro c’era anche Benjamin Price, il su ex capocantiere. Decise che avrebbe fatto meglio a cambiare strada, non aveva voglia di sostenere una discussione con Price.
All’improvviso vide Lenders arretrare col muletto che stava guidando e colpire lateralmente la carrozzella di Benjamin, facendola ribaltare e gettando l’uomo sull’asfalto in mezzo alla strada.
Vide un camion arrivare.
Tutto sembrò cominciare a muoversi al rallentatore ed anche gli strepiti dei due litiganti arrivavano alle sue orecchie sinistramente distorti.
Senza esitare, Holly si mise a correre e si gettò sulla strada: afferrò Benji sotto le ascelle e tentò di trascinarlo al riparo. La maledettissima sedia a rotelle gli si era rovesciata sulle gambe, rendendo la manovra molto più difficile. Disperato, l’architetto tentò di allontanarla con un calcio, poi diede un ultimo strattone.
Il camion zigzagò per qualche metro, poi proseguì la sua corsa senza aver travolto nessuno.
Passato il pericolo, le gambe di Holly cedettero e lo costrinsero ad accasciarsi al suolo, mentre sia Callaghan che Lenders lo raggiungevano di corsa.
Benji si rivolse al suo inaspettato salvatore:
“Grazie – la sua espressione mutò di colpo non appena si rese conto di chi si trovava di fronte – Non mi toccare!”
Con uno strattone cercò di allontanarsi da Oliver che ancora lo teneva tra le braccia.
“Come vuoi.” Sussurrò l’architetto, lasciandolo andare. La reazione di Benji era stata come un pugno  allo stomaco per lui: non si aspettava di certo che il capocantiere seppellisse l’ascia di guerra, ma neppure il fatto di averlo appena salvato sembrava essere sufficiente per una temporanea tregua.
Philip si inginocchiò:
“Come sta, signor Price?”
“Come vuole che stia? Voi due idioti…” Il capocantiere si bloccò di colpo, come se fosse stato preso alla sprovvista.
“Che c’è?” Domandò ancora il gelataio.
Benji parlò in un sussurro:
“Sento male alle gambe!”






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Con Jason furoi dai giochi, conosciamo altri due abitanti di New Team Town che finora avevamo solo sentito citare e che, con le loro liti continue provocano un pasticcio o forse no...
Fa la sua comparsa anche il villain di tutto Captain Tsubasa: il camion. XD

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Capitolo 17
*** XVI ***


Oliver aveva accompagnato il su ex capocantiere fino all’ospedale, per degli  accertamenti. Dopo la tragedia sfiorata aveva chiamato un taxi, ma non se l’era sentita di lasciare andare da solo Price. Chiedere a Callaghan o a Lenders di accompagnarlo era fuori discussione, dato che era stata la loro lite a provocare l’incidente. Benjamin non si era certo limitato al riguardo: passato lo spavento, aveva trovato un nuovo bersaglio su cui sfogare la sua frustrazione.
“Io la denuncio per tentato omicidio!” Aveva urlato in direzione dell’edicolante.
Non aveva neppure fatto i salti di gioia quando aveva realizzato che non sarebbe andato da solo, ma Holly era stato irremovibile, a dispetto di tutte le critiche e gli sguardi di ghiaccio che gli venivano lanciati addosso. L’architetto aveva preso in mano le redini della situazione e non se le era lasciate sfuggire.
Guardò impaziente l’orologio da polso: nello studio del medico ci stavano mettendo un’eternità. Non sapeva bene nemmeno lui perché fosse rimasto una volta lasciato Benjamin nelle mani dei dottori. Forse perché non amava lasciare le cose a metà, ed andarsene senza sapere nulla del risultato degli accertamenti gli sembrava scortese. Di contro, non credeva che il capocantiere avrebbe apprezzato troppo, temeva di essere scambiato per invadente.
La porta si aprì e Price uscì, spingendo con le braccia le ruote della sedia che gli avevano prestato in ospedale, poiché la sua, dotata di tutti i comandi elettrici, era rimasta danneggiata nella collisione col muletto.
“Com’è andata?” Chiese Oliver.
Aveva deciso di mantenersi sul vago, espressioni come è tutto a posto?, niente di grave?, solo qualche livido?, gli sembravano fuori luogo ed inopportune nella condizione dell’ex capocantiere.
Benjamin ebbe un leggero sussulto, come se non si aspettasse di trovarlo lì, tuttavia proseguì per la sua strada senza fermarsi.
L’architetto sospirò: che cosa si era messo in mente, che Benjamin Price di colpo seppellisse l’ascia di guerra? Era già tanto che non lo avesse insultato e si fosse limitato a passargli davanti in silenzio.
“Perché?”
Oliver si voltò in direzione di Price che si era fermato di colpo.
“Cosa?” Domandò.
A fatica Benjamin fece voltare la carrozzella  e lo scrutò assottigliando gli occhi.
“Perché mi hai salvato?”
“Avrei dovuto lasciarti investire?” Oliver non capiva il perché della domanda, per lui era stato naturale fare quello che aveva fatto. Chiunque al suo posto avrebbe fatto la stessa cosa.
“Mi hai già rovinato la vita una volta, perché avrebbe dovuto essere diverso oggi?”
Holly rimase ferito dalle parole del capocantiere, ma non era più intenzionato a chinare la testa e lasciar correre ogni insulto.
“Forse ti ho salvato oggi, perché non ho potuto farlo il giorno del crollo.”
I due uomini si guardarono negli occhi, intorno a loro aleggiava il silenzio, nel corridoio non passava una persona, nessuno che potesse intervenire a fermare quella sfida silenziosa.
Price abbassò le spalle ed ammorbidì il tono:
“Forse ti ho giudicato male.”
Oliver sbatté le palpebre un paio di volte, completamente allibito: Benjamin Price si stava rimangiando le sue affermazioni?
“Forse non sei il bastardo che credevo.”
“Non ho mai voluto fare del male a nessuno. – Holly si alzò e si avvicinò al proprio interlocutore – Avrei preferito restare io stesso sotto le macerie, piuttosto che ci andasse di mezzo qualcun altro.”
Benjamin appariva pensieroso, come se dentro di lui si agitasse una battaglia tra diversi sentimenti e diverse interpretazioni della realtà.
“Non so perché, devo essere impazzito, ma ti credo.”
Non c’era traccia di scherno né di astio nelle parole del capocantiere, solo accettazione.
Oliver si domandò se il pericolo scampato l’avesse portato finalmente ad accettare la sua situazione, a farsi una ragione di quanto gli fosse capitato ed a cercare di lasciarsi alle spalle il passato. Era anche la prima volta che loro due avevano un confronto diretto dal giorno dell’incidente: se si fosse fatto coraggio ed avesse cercato un incontro, magari le loro divergenze si sarebbero appianate prima, ma era troppo impegnato a sentirsi in colpa per un errore che ora sapeva di non aver commesso. Oliver capì che prima nessuno di loro due sarebbe stato pronto, mentre ora il momento sembrava essere propizio.
“So che non è facile concedermi fiducia, ma sono lieto che tu ci stia provando.” Disse cauto.
Sapeva di doverci andare piano, quel dialogo si stava conducendo su una lastra di ghiaccio e una parola sbagliata avrebbe potuto far crollare la debole tregua.
Benjamin si guardò attorno più volte a sincerarsi che fossero soli.
“Vorrei farti vedere una cosa.”
“Che cosa?”
“Aiutami a reggermi.”
“Come?”
“Allunga la tua mano!” La voce di Price fremeva di precipitazione, non era mai stato un tipo molto paziente.
Holly non capiva cosa avesse in mente, ma decise di assecondarlo ed allungò il suo braccio destro. Il capocantiere l’afferrò e si puntò con forza. Hutton sentiva la stretta delle sue dita sull’avambraccio. Avrebbe voluto dirgli di fermarsi. Poi lo stupore per quello che stava vedendo fece da anestetico al dolore: Benjamin Price, molto a fatica, si era sollevato dalla sedia a rotelle. La sua postura non era perfettamente eretta, era ancora molto curvo, ma era inequivocabilmente in piedi sulle proprie gambe.
“Ma…”
Con uno sguardo Price lo pregò di stare zitto e si riadagiò sulla sedia, prendendo un paio di respiri profondi.
“Per ora è tutto ciò che riesco a fare.”
Holly stava ancora cercando di riprendersi dalla sorpresa, aveva ancora gli occhi completamente spalancati e la bocca aperta.
“Sembra che tu abbia appena visto un fantasma!”
Ora Benjamin Price faceva pure dell’ironia sulla situazione? Il mondo era forse saltato per aria e lui non se ne era accorto? Holly non sapeva che dire e che fare. Si passò una mano nei capelli e dietro alla nuca.
“Da… da quanto va avanti?” Chiese alla fine.
“Da questa mattina.”
“Vorresti forse dire che la caduta ha provocato qualcosa?”
Hutton non riusciva a crederci, aveva bisogno di sedersi. Indietreggiò di qualche passo e si sedette sul seggiolino che aveva abbandonato poco prima. Price spinse la carrozzella nella sua direzione.
“Nemmeno i medici sanno spiegarsi l’accaduto. Quando ho detto che avevo iniziato a sentire del dolore alle gambe mi hanno guardato come se fossi un pazzo che soffriva di allucinazioni. Ci è voluto un po’ prima che iniziassero a prendermi sul serio ed a fare i loro test.”
L’architetto riusciva solo ad annuire alla storia incredibile che gli veniva narrata.
“Inizialmente pensavo di aver recuperato una parte di sensibilità, non volevo illudermi che ci fosse qualcosa di più. Invece…”
“Invece sei riuscito a muovere le gambe e persino ad alzarti.”
“Già.”
Il silenzio calò di nuovo tra i due uomini. Holly cercava di metabolizzare le rivelazioni e tutto quello che avrebbero potuto comportare per la piccola cittadina di New Team Town. Se la cosa fosse uscita dall’ospedale in poche ore sarebbe stata sulla bocca di tutti e chissà che qualcuno non si sarebbe ricreduto su di lui. A quanto pareva Benjamin Price stava già cambiando opinione.
“Perché? – fu il suo turno di chiedere – Perché l’hai raccontato a me?”
“Perché se non fosse stato per te non sarebbe mai successo. Se non mi avessi salvato.”
Holly restò colpito dalle parole del capocantiere, era felice che potessero parlarsi di nuovo civilmente, come prima del crollo del cantiere, ma non voleva prendersi meriti non suoi.
“Chiunque al mio posto l’avrebbe fatto.”
Sul voltò di Price comparve un sorrisetto sghembo.
“Sempre con quell’aria di modestia, signor architetto.”
“Dico sul serio: se non ci fossi stato io ci avrebbero pensato Callaghan e Lenders.”
“Non nominare quei due, per favore. Riceveranno notizie dal mio avvocato!”
Oliver alzò gli occhi al cielo, sarebbe stato troppo bello se Price avesse fatto pace con lui senza trovarsi un nuovo nemico pubblico.
“Che ne dici di andarcene da questo posto? – propose il capocantiere – Ho bisogno di un caffè. Accompagnami, ti offro qualcosa al Fiore del Nord.”
Se Holly non fosse stato già seduto probabilmente sarebbe caduto a terra. Un conto era riuscire a parlarsi civilmente, un conto era essere addirittura invitato a farsi vedere in pubblico insieme. Forse era meglio fermarsi e richiedere una tac alla testa.
Dal fondo del corridoio Price si voltò verso di lui.
“Cosa stai aspettando? – Lo richiamò – Dai che dobbiamo chiamare un taxi.”
Holly non poté  far altro che alzarsi e seguirlo.
 
 
 
 
“Ecco a lei signora.”
Jenny stava servendo ad uno dei tavoli del Fiore del Nord, era tornata al lavoro dopo un giorno di assenza, troppo scossa per quanto accaduto nel giardino della villetta con Jason Brown. Jack le aveva fatto una ramanzina infinita, scaricandole addosso la colpa di tutto: se lei non avesse deciso di vestirsi in modo sconveniente, lui non avrebbe dovuto richiamarla all’attenzione e quel ficcanaso non si sarebbe intromesso nella loro vita privata. Si era sentita in colpa per non aver fatto molto per evitare l’arresto al giornalista, ma Jack l’aveva convinta che era meglio per tutta la cittadina che se ne andasse.
La campanella sulla porta tintinnò e la strappò dai suoi pensieri. Rimase ferma come uno stoccafisso, il vassoio per poco non le scivolò di mano: Oliver Hutton stava entrando nel locale spingendo la carrozzella di Benjamin Price.
“Buongiorno Jenny. – la salutò quest’ultimo, con un tono gioviale che non gli sentiva da parecchio – Il mio solito tavolo è libero?”
“Ce… certo.” Riuscì solo a balbettare.
Con gli occhi seguì la strana coppia dirigersi al tavolo in fondo al locale, accomodarsi e cominciare a chiacchierare come vecchi amici. Stringendosi nelle spalle ritornò dietro al bancone e si mise a svuotare la lavastoviglie che aveva appena terminato un ciclo di lavaggio. Piattini, tazzine, cucchiaini e posate passavano veloci nelle sue mani per tornare alla loro abituale collocazione da dove sarebbero stati presto riutilizzati per servire altri clienti. Era un ciclo infinito.
“Ma che mi prenda un colpo!”
Jack era appena tornato dalla cantina con un sacco pieno di caffè in chicchi per ricaricare la macchinetta.
“Cosa diamine è venuto a fare qui quel pezzo di merda di Oliver Hutton? Sta cercando guai di sicuro!”
L’uomo mollò di colpo il sacco a terra e fece per partire alla carica, ma Jenny gli appoggiò una mano sul braccio.
“Aspetta! È venuto con il signor Price.”
Jack si voltò a guardarla.
“Mi prendi per il culo?”
“Guarda tu stesso.” Gli rispose indicando alle sue spalle con il pollice.
Jack si sporse per osservare e dopo pochi secondi si ritirò borbottando.
“Cose da pazzi!”
Riprese a caricare la macchinetta, mentre Jenny decideva che era giunto il momento di raggiungere il loro cliente vip ed il suo ospite per raccogliere le ordinazioni.
“Buongiorno signori, cosa vi posso portare?” Domandò con la sua consueta cortesia, cercando di non lasciar trasparire il suo stupore.
“A me un espresso, bello forte. Grazie. – Rispose il signor Price che poi si rivolse ad Hutton – E tu cosa prendi?”
L’architetto era parecchio imbarazzato:
“Sono a posto così. Non c’è bisogno di...”
Price lo interruppe senza troppe cerimonie:
“Sciocchezze: sei stato in giro con me tutta la mattinata. Jenny, potresti portare un caffè anche a lui?”
“Certamente. Vado a preparare tutto.”
La cameriera si allontanò di qualche passo, non sapendo che pensare della strana conversazione a cui aveva appena assistito.
“Jenny, scusa!” Benjamin l’aveva richiamata e si voltò per rispondergli.
“Mi dica signor Price.”
“Mi sono appena reso conto che l’ora di pranzo è passata: potresti portarci anche due panini? Belli farciti, mi raccomando!”
“Di sicuro.”
Dietro il capocantiere, Oliver Hutton si agitava sulla sedia sempre più a disagio, cercando di farle segno di non esagerare troppo con la sua ordinazione.
Jenny non sapeva che pensare, se non che fosse successo qualcosa tra quei due che poteva averli spinti a fare pace. Il giro dei pettegolezzi mattutino aveva riportato di un bisticcio più violento del solito tra Callaghan e Lenders, qualcuno ci aveva infilato anche il nome del capocantiere, ma nessuno aveva citato l’architetto.
Tornata alla sua postazione preparò due panini come da richiesta: per il signor Price optò per il suo preferito, con prosciutto crudo, formaggio ed acciughe,  mentre per Hutton scelse un classico sandwich con prosciutto cotto, maionese ed una foglia di lattuga.
“Quindi pranzano insieme?” Alle sue spalle Jack la fece sobbalzare.
“Così pare.” Aggiunse i due caffè al vassoio e partì per la consegna.
Nell’avvicinarsi al tavolo colse un brandello della loro conservazione.
“Nemmeno a me è mai piaciuto troppo Kanda – stava dicendo l’ex capocantiere – Non solo perché ha preso il mio posto.”
“Il tuo modo di lavorare è molto più metodico.” Rispose Oliver.
“Signori, le vostre ordinazioni: due caffè ed il suo panino preferito. – mise il piatto davanti a Benjamin – Per lei invece, signor Hutton, non sapevo cosa proporle e ho fatto qualcosa di basilare.”
Holly sorrise alla cameriera:
“Va benissimo così, grazie Jenny!”
“Jenny, senti – il capocantiere la trattenne al tavolo – Ti ricordi il giornalista che era qui qualche settimana fa?”
La donna annuì, cominciando a sentirsi a disagio, non le piaceva parlare del signor Brown.
“So che è partito, ha forse detto che sarebbe tornato? Mi piacerebbe rivederlo.”
“Non lo vediamo da quel giorno qui al bar.” Rispose, abbassando gli occhi.
Fu Oliver Hutton a venire in suo soccorso:
“È partito un paio di giorni fa per tornare a casa. Questioni personali, non credo tornerà.”
Lo sguardo che le lanciò fece capire a Jenny che l’architetto sapeva più di quanto avesse detto, ma aveva deciso di restare sul vago per non metterla in difficoltà. Sentì allargarsi nel petto il calore della gratitudine.
Price invece pareva deluso.
“Peccato. – mormorò – Mi sarebbe piaciuto rivederlo: volevo chiedergli scusa per non essermi comportato molto bene, in fondo lui stava solo facendo il suo lavoro.”
“Vedrai che non se la sarà presa per questo.”
“Io me la prenderei se qualcuno mi trattasse come io ho trattato lui e molti altri. Che dici, mangiamo?”
Jenny, non volendo essere di troppo nel dialogo che era ricominciato fluente tra i due, si congedò:
“Vi lascio, se avete bisogno di qualcosa basta fare un cenno.”
La campanella sulla porta tintinnò ancora una volta e Bruce Harper entrò di corsa, puntando al bancone. Indossava la salopette che usava come divisa per la sua ditta ed aveva l’aria di essere molto di fretta.
“Jack, ho dieci minuti prima di andare dal prossimo cliente. Riesci a farmi un panino al volo?”
Il proprietario del Fiore del Nord rispose con un sorriso sarcastico, mentre gli allungava una bottiglietta d’acqua.
“Giornata piena oggi?”
“Puoi dirlo forte! – Harper voltò la testa verso destra e per poco non si strozzò con l’acqua – Ma che diamine?”
Si alzò di scatto e a grandi falcate si diresse verso il tavolo di Price ed Hutton, senza badare a chi o cosa incontrasse sulla strada.
Per poco Jenny non venne travolta dalla sua furia ed a nulla valsero i suoi tentativi di chiamarlo per farlo fermare. Lo vide piombare sull’architetto come un falco su una preda, per fermarsi all’ultimo secondo, probabilmente richiamato dall’ex capocantiere. Vide lo sconcerto dipingersi sempre più nitidamente sul suo volto, finché non fu costretto a battere in ritirata e tornarsene da Jack con i remi in spalla a ritirare il suo panino.
“Jenny, mettilo in un sacchetto per Bruce.”
La cameriera estrasse una busta e vi infilò il panino che il compagno aveva preparato.
“Ecco signor Harper.”
“Grazie. – era ancora palesemente sotto shock – Io non capisco: non è che Benji ha esagerato col vino l’altra sera?”
Morris si strinse nelle spalle.
“Non so che dirti. Questa faccenda mi puzza.”
“Sarà meglio che vada. Metti tutto sul mio conto. Ti saldo a fine settimana come sempre.”
Harper uscì e nel locale tornò la tranquillità.
 
 
 
 
 
L’uomo era rientrato da poco alla villa, dopo essere stato nella cittadina a svolgere la sua consueta attività di copertura. Non aveva notato nulla di insolito, dopo aver fermato quell’impiccione di un giornalista sembrava essere tornato tutto alla normalità.
Si versò da bere e si sedette alla poltrona. L’intera faccenda gli dava da pensare e l’aveva fatto riflettere sul fatto che nemmeno lui avesse posto troppa attenzione, le falle non erano venute solo dai suoi uomini. Come aveva potuto non accorgersi prima che Atsushi Nakazawa era sfuggito alla rete che aveva intrappolato tutti quanti a New Team Town? All’epoca era solo un ragazzino e probabilmente non vi aveva prestato attenzione, immaginando che fosse finito insieme a tutti gli altri marmocchi, ma rimaneva in ogni caso il fratello della moglie di Ozora. Doveva rendersene conto prima.
Strinse convulsamente una mano attorno al bicchiere e l’altra al bracciolo della poltrona.
Doveva trovare la soluzione del rompicapo al più presto. Come aveva fatto Atsushi a finire lontano dai confini tracciati dalla maledizione? Ma, soprattutto, come aveva fatto a tornare e trovare la cittadina? Un qualche richiamo di sangue più forte della maledizione? Nei giorni precedenti l’aveva interrogato più volte, tentando di estorcergli informazioni, ma si era rivelato un osso più duro del previsto, l’unica ammissione ottenuta era stata il fatto che si trovasse nella cittadina per ricavare un articolo sulla vicenda del cantiere. Effettivamente nel suo pc avevano trovato degli appunti in merito. Eppure la questione non gli quadrava del tutto.
La sola nota positiva era che pareva non ricordare nulla della sua vita precedente alla maledizione, di Atsushi Nakazawa, Tsubasa Ozora e tutti gli altri, addirittura l’aveva preso per pazzo quando aveva fatto quei nomi. Motivo per cui non aveva più affrontato quella parte dell’argomento: meglio non svegliare il cane che dormiva.
Aveva fatto approntare un pannello semitrasparente per separarlo dall’altra prigioniera, poiché lei ricordava fin troppe cose e tenerli insieme era un rischio che non era disposto a correre, ora che era riuscito a rimediare alle leggerezze che tutti avevano commesso.
Fortunatamente la maledizione era ancora forte ed aveva compiuto il suo dovere quando una delle sue vittime aveva tentato la fuga: Francisco e Roberto gli avevano raccontato delle condizioni in cui avevano trovato l’auto di Atsushi e lui non aveva dubitato per un istante che la barriera invisibile che aveva eretto attorno a New Team Town avesse riconosciuto uno dei suoi prigionieri, se si fosse trattato di uno straniero qualsiasi avrebbe potuto attraversare il confine d’uscita indisturbato.
Tutto era tornato a posto.
Una fitta improvvisa lo colpì alla testa ed al petto: la prima sembrava sul punto di spaccarsi in due, mentre il secondo sembrava non essere più in grado di procurarsi l’aria necessaria. Scivolò dalla poltrona e si accasciò a terra per un tempo che gli sembrò interminabile.
Lentamente il dolore scemò e l’ossigeno tornò a scorrere nei polmoni.
Un moto di rabbia gli fece sbattere entrambi i pugni sul tappeto.
Qualcosa di grave era accaduto, la maledizione aveva vibrato così forte che aveva temuto potesse spezzarsi. Il potere di Oliver Hutton stava aumentando, lo sentiva chiaramente. Era successo qualcosa che gli aveva ridato forza e stava indebolendo lui.
Atsushi! Atsushi doveva essere riuscito a mettere in moto gli ingranaggi. L’avrebbe pagata quella sera stessa, ma prima doveva fare una telefonata.
Prese il cellulare e fece partire la prima chiamata rapida. Un paio di squilli a vuoto e poi arrivò la risposta dall’altro capo della linea.
“Pronto?”
“Sono io. La situazione è cambiata, Roberto. Dobbiamo passare alla fase due.”
“Capo, ne è sicuro?”
“Sicurissimo. Entro domani mattina deve essere tutto fatto.”
“Va bene.”
“Non deludermi.”
Chiuse la comunicazione. Era ora di giocare con l’artiglieria pesante. Se fino quel momento Tsubasa Ozora si era considerato sfortunato, da lì in avanti avrebbe capito cosa significava perdere ogni cosa importante.




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Una gioia, una gioia per Genzo!
A quanto pare qualcosa sta davvero succedendo nell'equilibrio di New Team Town e purtroppo il nostro responsabile pare essersene accorto...

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Capitolo 18
*** XVII ***


Roberto lavorava nel suo negozio indaffarato, faceva andare veloce le mani e proponeva alle clienti nuove soluzioni e tagli alla moda. Eppure c’era qualcosa che non andava, non era allegro e gioviale come al solito.
“Ecco qua tesoro!”
Disse togliendo la mantellina dalle spalle della moglie del sindaco.
“Grazie mille! Sei sempre il migliore!”
La donna rispose con un sorriso, mentre lo seguiva nella zona della cassa per saldare il conto.
“Sicuro di stare bene? Sei un po’ troppo taciturno.”
Il parrucchiere agitò una mano davanti al volto e agli occhiali  dalle lenti colorate.
“Non è niente. Ho solo parecchio lavoro da fare: nel pomeriggio è il turno dei bambini dell’orfanotrofio e quelle piccole pesti fanno sempre scompiglio in negozio. Mi toccherà nascondere tutti i flaconi delicati.”
Patty ridacchiò alla battuta e lasciò il salone con passo rapido.
Una volta rimasto solo, Roberto, invece di prepararsi a ricevere altri clienti, abbassò la serranda e chiuse a chiave la porta dopo aver esposto un cartello che annunciava che per quella mattina il salone sarebbe stato chiuso ed avrebbe ripreso l’attività nel pomeriggio.
Aveva altro da fare: il capo aveva ordinato di muoversi contro Oliver Hutton e gli aveva dato la mattina come termine ultimo.
Era parecchio preoccupato perché in realtà non sapeva esattamente cosa sarebbe successo nel momento in cui avrebbe effettuato la sua mossa. Tempo prima il capo gli aveva affidato una fialetta contenente uno strano liquido, raccomandandogli di utilizzarla solo in casi di estrema necessità e sotto un suo ordine diretto. Non gli aveva detto altro.
Si diresse sul retro ed aprì un piccolo armadietto chiuso da un lucchetto, accanto a quello in cui custodiva le sue scorte di flaconi dei colori e degli shampoo. Estrasse la fialetta chiusa ermeticamente e si mise ad osservare il liquido rosso al suo interno. Non aveva la più pallida idea di quale fosse il suo scopo: veleno? Sonnifero? Avrebbe provocato una reazione allergica? Doveva farla bere ad Oliver Hutton e poi andarsene.
L’idea non lo allettava, non era sicuro che il capo stesse facendo la mossa giusta, ma opporsi non era possibile. Temeva che se fosse successo qualcosa di male all’architetto sarebbero risaliti a lui ed avrebbe potuto passare grossi guai. Il fatto che fin’ora nessuno sospettasse dei loro movimenti nell’ombra non lo lasciava completamente tranquillo. D’altra parte il capo li aveva protetti fino a quel momento.
Mise la fiala nella tasca del giubbino ed uscì, pensando al modo di essere certo che la sua vittima bevesse l’intruglio.
Il quartiere latinoamericano era nel pieno delle sue attività, solo il locale di Francisco era immerso nella quiete e nella calma. Passò per un istante al Natura Viva.
“Buongiorno! – salutò cordiale – Avrei bisogno di qualche arancia per delle spremute.”
“Ma certo.”
Il proprietario lo servì col sorriso, come sempre.
“Per le spremute queste sono le migliori!” Disse, indicando un paio di cassette alla sua sinistra. Con cura scelse le più grandi e le più succose, infilandole in una busta di carta marrone.
“È a posto così?”
“A posto, grazie. Ho altre commissioni che mi attendono.”
I due uomini si salutarono e Roberto riprese la sua via verso la parrocchia, dove era quasi certo di trovare Hutton. Doveva ancora pensare ad una scusa per attirarlo fuori o per allontanare Padre Ross: il reverendo sapeva essere un impiccione di prima categoria ed aveva un fiuto incredibile per gli affari loschi. Non per niente stava rischiando di diventare una spina nel fianco per gli affari di Francisco, la sua ultima omelia contro vizi come alcol e droga aveva turbato molti parrocchiani.
Con discrezione bussò alla porta della canonica.
“Buongiorno, sono Roberto Sedinho.”
La porta si aprì e sulla soglia apparve Oliver Hutton in persona.
“Buongiorno, cosa posso fare per lei?” Gli chiese l’architetto.
“Sto cercando Padre Ross.” Disse con prudenza.
“Purtroppo non c’è: è fuori per il suo giro di visite agli anziani.”
Roberto non riusciva a credere al colpo di fortuna che gli era capitato: trovare il suo bersaglio da solo andava oltre le sue più rosee previsioni.
Oliver si grattò la nuca con una mano, segno di nervosismo.
“Ha bisogno del reverendo o posso aiutarla io?”
“In realtà credo che mi possa aiutare anche lei. – rispose scrutandolo pensieroso attraverso le lenti scure degli occhiali da sole – Ho portato delle arance come dono per la parrocchia.”
“Che pensiero gentile! Venga dentro.”
Hutton lo fece entrare e lo guidò fino all’anticamera dello studio di Padre Ross, un locale piccolo, ma pulito e ordinato, fornito di due poltroncine ed un piccolo tavolino per chi restava in attesa del reverendo.
“Lasci pure il sacchetto sul tavolo, così Padre Ross lo troverà. Posso offrirle qualcosa?”
Il parrucchiere appoggiò il suo dono con calma studiata, prima di rivolgersi al suo interlocutore.
“Se non è chiedere troppo, gradirei un caffè. Magari lei potrebbe farmi compagnia.”
L’architetto apparve sconcertato per un momento, poi annuì facendogli segno di seguirlo fino alla cucina. Si muoveva sicuro nei corridoi e tra il mobilio, segno che doveva aver passato molto tempo in compagnia del reverendo.
“La sua fisionomia non mi è estranea – esordì Roberto, accomodandosi al tavolo della cucina – ci conosciamo?”
“Forse di vista.”
Il parrucchiere tamburellò con le dita sul tavolo, simulando la ricerca di un possibile ricordo.
“Forse ci sono: lei è l’architetto che ha progettato il nuovo municipio.”
Hutton si irrigidì con la caffettiera in mano, un attimo prima di iniziare a versare il caffè bollente.
“Qualche problema?”
Toccò a Roberto stemperare la tensione.
“Oh no, affatto.”
“Bene.”
Con le mascelle serrate, Oliver riempì le due tazzine che aveva preparato sul tavolo.
“Per cortesia, c’è dello zucchero?”
L’architetto annuì e si voltò per andare a cercare la zuccheriera nella dispensa. Roberto ne approfittò per correggere il caffè del suo ospite con il contenuto della fialetta. Con perizia ruppe il sigillo e lentamente la rovesciò nella tazzina, tenendo sempre uno sguardo vigile sulla schiena di Hutton: se si fosse voltato prima che avesse finito, il suo gioco sarebbe stato scoperto in malo modo.
Quando anche l’ultima goccia di liquido fu rovesciata tirò un sospiro di sollievo.
Oliver si voltò senza essersi accorto dei suoi movimenti.
“Ecco lo zucchero.”
“Grazie.”
Roberto si versò un paio di cucchiaini, non amava quella bevanda troppo amara. Improvvisamente venne colto dal dubbio che il contenuto della fialetta non fosse insapore ed Hutton potesse accorgersi che c’era qualcosa di strano nel suo caffè. Cercò di trattenersi dal mostrare qualsiasi emozione, osservandolo bere con tranquillità.
Pareva non accorgersi di nulla di strano.
Aveva compiuto la sua missione. Ora poteva concentrarsi sulla conversazione di circostanza.  
 
 
 
 
 
Padre Ross era rientrato circa una mezz’oretta dopo la partenza di Roberto Sedinho, il parrucchiere del quartiere latinoamericano, così Oliver aveva deciso di fare una passeggiata per riflettere su quello strano incontro.
Seduto su una panchina del parco meditava anche sul cantiere: stava cercando di capire fino a che punto poteva essere sincero con Benjamin Price e fidarsi a raccontargli delle sue scoperte su quanto realmente avvenuto il giorno del crollo. Avevano appena ricominciato a parlare civilmente, più che civilmente, e non voleva rischiare di rovinare tutto a causa di avventatezza. Per l’ex capocantiere era stato già un grosso passo ricominciare a considerarlo una persona degna di essere salutata, non voleva affrettare le cose puntando subito all’assoluzione completa.
All’improvviso ebbe un giramento di testa ed una specie di flash:
 
Era sul Belvedere della città di Nankatsu, dove si era appena trasferito con sua mamma. Era in compagnia di un ragazzino che aveva appena conosciuto, si chiamava Ishizaki. Stavano guardando verso una grande villa.
“Ti sei trasferito solo oggi e non sai come vanno le cose qui. -  Stava dicendo il ragazzino – Imparerai presto a conoscere Genzo Wakabayashi. Vedi quella bellissima villa laggiù in fondo in quel grande parco?”
Ishizaki aveva indicato col dito e lui aveva annuito.
“È là che abita Wakabayashi: la sua famiglia è una delle più importanti della città. Sai, a essere sincero non credo che riuscirai a batterlo, in tutto il campionato neanche quelli più grandi e robusti di te sono riusciti a segnargli un gol.”[1]
Lui non ci aveva badato più di tanto e si era accasciato, cominciando a scrivere parole di sfida sul pallone che aveva con sé. Voleva confrontarsi con quel portiere che sembrava essere imbattibile.
Prese la rincorsa e con un calcio lanciò il pallone oltre il parapetto fino a farlo atterrare nel giardino della grande villa, sotto lo sguardo meravigliato di Ishizaki.
Era così elettrizzato!
 
Holly si prese la testa tra le mani: che cos’era quella specie di visione? Un allucinazione?
Decise di non restare lì, di avviarsi verso la parrocchia per tornare al suo dormitorio. Faceva troppo freddo e la temperatura gli stava sicuramente giocando brutti colpi.
Si alzò e fece qualche passo dalla panchina.
Ebbe una nuova visione.
 
Stavano giocando a calcio, era una partita molto importante, dallo scontro dipendeva il risultato finale di tutto il torneo interscolastico. Purtroppo Ishizaki si era fatto male e non avevano nessuno con cui sostituirlo.
All’improvviso era apparso un altro bambino che nessuno conosceva: diceva di chiamarsi Taro Misaki e di essere un nuovo iscritto alla loro scuola.
Era entrato in campo al posto di Ryo.
Aveva sentito subito un grande feeling con quel nuovo giocatore. I passaggi e le giocate tra loro venivano naturali, non avevano bisogno di accordarsi prima, bastava un’occhiata per capirsi al volo.
Quella partita aveva segnato l’inizio della sua amicizia con Misaki che era seconda solo al rapporto speciale che aveva col suo amico pallone.
Insieme erano riusciti a segnare a Genzo Wakabayashi.
Poi erano andati al campionato nazionale.
 
Holly sbatté le palpebre e riprese a camminare più in fretta possibile. Non voleva credere di stare impazzendo, non ora che stava riprendendo in mano la sua vita.
Incrociò i bambini dell’orfanotrofio nella loro quotidiana passeggiata all’aria aperta. Uno di loro gli pareva avesse un’aria familiare. Scosse la testa e proseguì dritto per il vialetto che aveva imboccato.
A che stava pensando?
A Genzo Wakabayashi, cioè a Benjamin Price. Perché nella sua testa aveva associato quei due nomi che non c’entravano nulla l’uno con l’altro?
Il cantiere e Benjamin Price dovevano essere la sua priorità al momento. Voleva assolutamente risolvere la faccenda e fare in modo che i veri colpevoli pagassero per quanto accaduto. Non doveva farlo solo per sé stesso, ma anche per Benji.
 
Era a Parigi. Il tramonto dipingeva il cielo in tutte le tonalità dell’arancione mentre si avvicinava alla Tour Eiffel. Un'altra persona stava correndo nella direzione opposta alla sua. Quando lo incrociò vide che era Taro Misaki.
Si abbracciarono stretti, in fondo erano tre anni che non si vedevano, da poco dopo la finale del campionato delle elementari. Ora erano entrambi lì, in nazionale, come sognavano da bambini, per disputare il mondiale under 15. E insieme a loro ci sarebbe stato anche Genzo.
Erano di nuovo tutti insieme grazie al pallone.
Era felice.
 
Holly si mise a correre, non voleva pensare a quelle strane voci, a quegli strani echi di una vita che non gli apparteneva. Voleva solo che si allontanassero, che uscissero dalla sua testa.
Lui non era mai stato un calciatore, lui era un architetto.
Non conosceva nessun Taro Misaki e men che meno nessun Genzo Wakabayashi.
Una fitta di dolore lo travolse, come una pugnalata al petto.
 
Aveva appena ricevuto la notizia: Taro aveva avuto un grave incidente per salvare la sua sorellastra da un investimento.
La sua  gamba era stata terribilmente compromessa.
Era fuori discussione che tornasse per terminare di disputare il World Youth. Rischiava addirittura di dover rinunciare per sempre alla sua carriera.
Il suo migliore amico avrebbe dovuto rinunciare al loro sogno.
 
Corse più forte che poteva, fino a perdere il fiato. Arrivò fino all’uscita opposta del parco.
Nella sua testa le immagini che fin’ora gli si erano presentate con un certo ordine cominciarono a vorticare sempre più forte ed impazzite. Di molte di loro non riusciva a cogliere il senso, vedeva solo chiazze di colori e volti che per un attimo gli sembrava di conoscere e poi l’attimo dopo cadevano nella nebbia.
 
Il sindaco Becker era seduto alla scrivania del suo ufficio e lo liquidava senza troppi problemi asserendo che non doveva immischiarsi nelle faccende del cantiere. Improvvisamente il suo viso si sovrappose a quello di Taro Misaki, quasi che fossero la stessa persona.
 
L’architetto si accasciò a terra, respirando affannosamente. Non era solo la fatica della corsa, non capiva più nulla di quello che stava succedendo nella sua testa e ciò lo mandava in panico. Tutto stava crollando sotto i suoi piedi.
Non capiva come Tom Becker e Taro Misaki potessero essere la stessa persona, a cominciare dal fatto che non conosceva nemmeno un Taro Misaki. Eppure doveva ammettere che per come li aveva visti nella sua testa i due uomini era praticamente identici, due gocce d’acqua, manco fossero gemelli.
Chi era questo Taro Misaki?
E perché lo considerava il suo migliore amico?
Cosa c’entrava il calcio con lui?
Ma, soprattutto, chi era lui?
Era sempre stato convinto di avere una passione viscerale per l’architettura che l’aveva portato a primeggiare durante gli studi, fino al tragico avvenimento del cantiere. Ora dentro di lui sentiva innestarsi un’altrettanto viscerale passione per il calcio, come se un’altra personalità stesse nascendo dentro di lui. Com’è che si chiamavano? Personalità multiple, forse.
Non capiva più nulla. Percepiva ricordi di un’altra persona eppure li sentiva quasi come fossero suoi.
Cosa stava succedendo?
Chi era?
“Holly! Che ti succede?”
Sollevò il volto e si trovò davanti Kitty, estremamente preoccupata, che lo guardava con gli occhi spalancati e la mano davanti alla bocca.
La sua prima reazione di difesa fu quella di mentirle, di dirle che andava tutto bene e che era solo inciampato, tuttavia non ci riuscì:
“Non lo so. Non so che mi sta accadendo.” Esalò.
Kitty si inginocchiò davanti a lui, appoggiandogli una mano sulla spalla e scrutandolo attentamente.
“Tsubasa Ozora, sei tornato?”
Quel nome gli esplose nella testa come dinamite.
 
Lui era Tsubasa Ozora, capitano della Nankatsu. Avevano vinto il torneo delle elementari, poi alle medie avevano ottenuto tre storiche vittorie consecutive. La sua generazione era conosciuta come Generazione d’Oro e lui ne era il leader. Aveva sollevato vari trofei con la maglia della nazionale, fino ad arrivare all’ambita coppa del World Youth. Aveva realizzato tutti i suoi sogni.
 
“Tsubasa, ci sei?” Chiese ancora Kitty.
“Credo di sì.”
 

[1] Il dialogo è ripreso fedelmente dalla prima puntata della serie classica dell’anime.




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Oh, oh, oh, Roberto versa uno strano liquido nel caffé di Holly e questo comincia a ricordare qualcosa alla rinfusa....
Probabilmente non è la mossa che ci aspettavamo dal nostro misterioso cattivo, per cui c'è da chiedersi cosa possa avere in mente....

In ritardo di 24 ore, ma ce l'ho fatta a consegnarvi il capitolo. :)
Settimana prossima non so se ci sarà l'aggiornamento o se salterà tra 15 giorni.

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Capitolo 19
*** XVIII ***


Si erano dati appuntamento al parco per sfidarsi: in palio c’era l’amore di una compagna di scuola. Entrambi erano innamorati di lei e volevano risolvere la questione con l’avversario una volta per tutte.
“Scusa per il ritardo.”
“Ozora, finalmente sei arrivato.” Kanda l’aveva accolto con un ghigno.
Si era accorto che c’era anche una ragazza ad assistere, ma il suo volto gli appariva sfuocato. Probabilmente era la famosa lei per cui avevano organizzato quello scontro.
Lei stava cercando in tutti i modi di impedire che si picchiassero, allora Kanda l’aveva allontanata con un gesto rude, facendola cadere a terra.
La loro sfida era iniziata.
Inizialmente aveva subito i pugni precisi e potenti di Kanda, del resto era un ottimo pugile, il migliore del club della scuola. Poi era passato al contrattacco e gli era bastato un solo calcio ben assestato per mettere ko l’avversario.
Una volta terminata la sfida, la ragazza si era buttata tra le sue braccia piangendo:
“Perché l’hai fatto?”
 
 
Holly si svegliò di scatto, mettendosi a sedere di colpo nel letto.
In un primo momento non riconobbe la camera in cui si trovava, molto più ampia e spaziosa della stanza  che aveva alla casa d’accoglienza, poi ricordò che la sera prima Kitty gli aveva offerto la sua ospitalità e lui l’aveva accettata, completamente distrutto. Dopo che si erano incontrati al parco e lei l’aveva soccorso, erano andati a casa sua ed era riuscito ad aprirsi con lei su quanto gli stava accadendo, sulla confusione che gli albergava in testa, come se si trovasse a vivere una vita sdoppiata.
Kitty l’aveva chiamato Tsubasa e, anche se non aveva mai sentito quel nome prima del pomeriggio precedente, era sicuro appartenesse a lui. Non sapeva come fosse possibile, ma sentiva di essere sia Oliver Hutton che Tsubasa Ozora.
Poi Kitty gli aveva portato quello strano libro, che Jason aveva lasciato prima di andarsene, e gliel’aveva mostrato sorridendo.
“Qui ci sono quasi tutte le risposte. Qui c’è la tua vera vita. - Gli aveva detto – Era molto bella, ma qualcuno ha scagliato una maledizione su di te e tutti i tuoi amici, rovinando le vostre vite.”
All’inizio non aveva capito, pensando subito che Kitty fosse partita per la tangente con una delle sue strampalate storie e teorie, di cui gli aveva vagamente accennato il giornalista. Eppure, anche quello che stava succedendo dentro la sua stessa testa non era de tutto normale. Forse, a conti fatti, Kitty non era poi così fuori di testa.
La sensazione di vuoto allo stomaco, come dopo una caduta vertiginosa, l’aveva colpito non appena aveva toccato il libro, così aveva cominciato a sfogliare avidamente le tavole illustrate ed a leggiucchiare le pagine scritte in prosa ed anche se non ricordava la maggior parte degli avvenimenti che vedeva, aveva riconosciuto alcuni momenti e persone: non c’erano dubbi che Taro Misaki doveva essere l’alter ego del sindaco Tom Becker. Più leggeva e più guardava la loro storia, più sentiva il legame di amicizia farsi forte e crescere sotto la pelle come un formicolio che parte dalla punta delle dita e piano piano si irradia a tutto il resto del corpo al punto da diventare praticamente certo che Taro Misaki fosse sempre stato il suo migliore amico.
Ripensò al sogno che aveva appena fatto, quello che l’aveva svegliato: si batteva per l’amore di una ragazza. Secondo il libro, nella sua vita come Tsubasa aveva avuto una fidanzata a cui aveva chiesto di sposarlo, ma non era riuscito ad associarla a nessuna delle persone che conosceva.
Kitty aveva detto che la sua memoria sarebbe tornata un po’ alla volta, non sapeva perché avesse deciso di cominciare a risvegliare in lui il legame con Taro.
Si alzò di scatto ed andò alla scrivania dove aveva lasciato il volume. Sfogliò le pagine fino a trovarsi davanti agli occhi le tavole che rappresentavano la sua sfida per amore: la ragazza non compariva, ma il suo avversario era ritratto chiaramente, perfettamente identico a quello con cui si era picchiato nel sogno.
Chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi, di aggrapparsi a ogni frammento della visione onirica per recuperare qualche ulteriore frammento della sua memoria. Un nuovo ricordo gli esplose nella memoria.
 
 
Stavano passeggiando sulla riva del canale che scorreva in mezzo a Nankatsu, quello dove aveva fatto cadere Manabu il giorno in cui si erano conosciuti. Lei si era ripresa dallo shock dello scontro e lo stava rimproverando:
“Non avresti dovuto fare a botte con Kanda. So difendermi da sola da quelli come lui.”
“Lo so, ma dovevo mettere la questione in chiaro.”
La sentì sbuffare al suo fianco e masticare a mezza voce un “uomini” non molto lusinghiero.
“Sanae, senti, non mi sono battuto con Kanda per mostrare chissà quale superiorità maschile, mi sono battuto con lui perché tengo veramente a te.”
La ragazza si era fermata di colpo.
“Ripeti ciò che hai detto.”
Lui si era voltato a guardarla e le aveva afferrato le mani.
“Io tengo molto a te.”
Avevano raggiunto la cima di una collina e si erano seduti sotto un imponente castagno. Lì le aveva raccontato per l’ennesima volta dei suoi progetti per il futuro e del suo prossimo trasferimento in Brasile.
“Non posso chiederti di venire in Brasile con me, né posso chiederti di aspettarmi fino al mio ritorno, ma c’è una cosa che voglio dirti: ti voglio bene, Sanae Nakazawa.”
 
 
Oliver si riscosse: ora cominciava a ricordare qualcosa di quella misteriosa ragazza. Teneva moltissimo a lei, lo sentiva nel profondo, non solo, la amava, era la donna della sua vita. Doveva assolutamente ritrovarla e dirgli ciò che provava prima che fosse troppo tardi.
Guardò per l’ennesima volta la pagina e di colpo vide Koshi Kanda con occhi nuovi: sapeva chi era lì a New Team Town.
Si alzò dalla sedia facendola rovesciare e scappò fuori dalla camera.
In cucina Kitty stava preparando la colazione per entrambi.
“Io esco – urlò – So chi mi ha fatto questo!”
 
 
 
 
 
Al cantiere tutti i muratori erano emozionati per la sua visita, non si aspettavano di vederlo lì, dopo che aveva passato anni ad evitare il posto come la peste. Tutti avevano smesso la loro attività per venire a salutarlo, perfino Big K non aveva potuto obiettare nulla, se non andare a stringergli formalmente la mano.
“Allora capo, non ti aspettavamo. Ci hai fatto proprio una sorpresa!” Commentò Diamond coi suoi soliti modi da caciarone.
“Prima o poi dovevo venire a controllare cosa combinavate qui senza di me.” Aveva risposto Benji con un sorriso. Il tempo dei musi lunghi era passato ed aveva deciso di rimboccarsi le maniche, a cominciare dalla fisioterapia.
“Come ve la passate?” Chiese ai suoi vecchi collaboratori.
“Non c’è male. – rispose Ted – Lavorare con te era un'altra storia, ma Big K sa il fatto suo.”
“A parte quando ti riprende perché perdi tempo! Allora diventa il peggior capocantiere.” Lo punzecchiò Johnny, facendo ridere tutti.
In mezzo al chiassoso gruppo c’era però qualcuno che restava in silenzio ed un po’ in disparte. Benji spostò la sedia a rotelle fino a raggiungere Alan Crocker, colui che era sempre stato il suo pupillo.
“Allora, Alan, non mi dici niente di te?” Gli domandò battendogli una pacca a mezza schiena.
“Ecco, io…”
Il muratore non poté continuare a parlare perché venne interrotto dall’improvvisa irruzione di Oliver Hutton che si scagliò come una furia su Big K, intento a fumare una sigaretta vicino al suo tavolo, prendendolo per il colletto.
“Codardo! – gli sbraitò – So cosa hai fatto! Tu mi hai maledetto e me l’hai portata via!”
“Ma ti ha dato di volta il cervello?” Protestò Big K, allontanandolo con uno strattone, ma Hutton non era intenzionato ad arrendersi. L’architetto si rilanciò contro l’avversario sferrandogli un pugno con la mano destra. Il capocantiere parò svelto il colpo e contraccambiò con un gancio sinistro che andò a segno sulla mascella di Oliver.
“Cosa credi di fare?”
“Ottenere giustizia!”
Hutton ripartì alla carica, cercando di colpire come meglio poteva l’avversario che aveva una struttura fisica più adatta al combattimento e sembrava avere anche una certa esperienza negli scontri corpo a corpo.
Arrivò anche Kitty, di corsa e col fiatone, che cercava di far ragionare l’architetto.
“Per… favore… Holly… non… è… il… caso… - ansimò – ti… stai… sbagliando…”
Big K aveva appena assestato un pugno in pieno stomaco ad Hutton, facendolo piegare su sé stesso per il dolore.
Benji decise che era giunto il momento di mettere fine a quello spettacolo indecoroso.
“Volete smetterla di fare gli idioti?!” Tuonò con la sua voce possente.
I due uomini si fermarono all’istante, entrambi col fiatone. Big K era furioso e lanciava saette dagli occhi:
“È stato questo parassita ad iniziare! È arrivato qua come una furia per chi sa quale motivo!”
Holly non ci stava a prendersi le colpe.
“Ho tutti i motivi del mondo per avercela con te! Dov’è la mia donna?”
A Big K per poco non cadde la mascella per lo stupore.
“Ma di che cazzo stai parlando?”
“Lo sai benissimo di che parlo!”
Stavano per venire nuovamente alle mani, ma anche Benji era arrivato al limite di sopportazione:
“Adesso basta! Non tollero simili comportamenti nel mio cantiere!”
Big K si voltò verso di lui, rovesciandogli addosso il disprezzo che prima stava rivolgendo all’architetto.
“Il tuo cantiere? – chiese ironico – Non lo è più da un pezzo, ora è il mio cantiere.”
“Ancora per poco. – sibilò Benji – Chiederò al sindaco Becker di assegnarmi una supervisione speciale su questo posto, così mi assicurerò che tutto fili liscio.”
“Non te lo permetterò mai Price!” Big K si avvicinò con fare minaccioso, facendo scrocchiare le nocche di entrambe le mani, ma Benjamin non si fece intimorire.
“Hai intenzione di picchiare un uomo su una sedia a rotelle? Molto maturo.”
Big K fu costretto a fermarsi di controvoglia e sputò per terra.
“Non finisce qui, Price!”
Il capocantiere se ne tornò al tavolo, afferrando rabbiosamente l’accendino ed una nuova sigaretta dal pacchetto appoggiato sopra le mappe del progetto.
“Voi tutti, è ora di tornare al lavoro!” Sbraitò in direzione degli operai.
Benji salutò i vecchi amici con calore e rivolse loro parole da leader.
“Andate. Non dategli scuse per prendersela con voi.”
Quando tutti i muratori si furono dispersi per riprendere le rispettive mansioni, Price si dedicò all’architetto.
“Si può sapere che ti è preso? Non è da te comportarsi così.” Lo rimproverò, cercando di non usare un volume troppo alto per non farsi sentire dagli altri e, soprattutto, da Big K.
“Big K è un impostore!”
Anche Kitty, che aveva finalmente ripreso fiato, li raggiunse ed appoggiò una mano sul braccio di Oliver, nel chiaro tentativo di calmarlo.
“Ti stai sbagliando: Big K non c’entra nulla con quella faccenda.”
“Ma…”
“Fidati. Ora è meglio se torniamo a casa.”
Benji approvò:
“Kitty ha ragione, vai a rinfrescarti le idee. Io andrò al vecchio municipio.”
 
 
 
 
Una volta rientrato nell’appartamento di Kitty, Holly si gettò sul divano. Sul volto un grosso livido violaceo, dove Big K l’aveva colpito, stava diventando sempre più evidente.
“Vado a prenderti qualcosa per quello.” Gli disse la donna sparendo in cucina.
Tornò poco dopo con una mattonella di ghiaccio avvolta in uno strofinaccio e delicatamente gliela appoggiò sull’ematoma.
Oliver la osservò con attenzione e notò per la prima volta i capelli scompigliati ed il pigiama che doveva aver indossato sotto il cappotto. Probabilmente quando era fuggito di corsa da casa, qualche ora prima, lei si era fiondata al suo inseguimento senza badare al fatto di essere ancora in deshabillé. Provò vergogna per il suo gesto impulsivo.
“Scusa, ho perso la testa.”
La donna annuì con condiscendenza.
“Beh, non dev’essere facile affrontare quello che stai passando, con i ricordi che appaiono all’improvviso.”
“Già. Ho avuto un nuovo ricordo e ho riconosciuto Kanda: stavamo litigando per una ragazza.”
“Sanae.” Sussurrò Kitty.
“Sì, Sanae. La conosci? Sai chi è? Sai dov’è?” Holly si stava agitando, aveva un fiume in piena di domande dentro di sé e tutte volevano uscire una con più urgenza dell’altra.
La donna si limitò a sorridere sedendosi accanto a lui.
“Quando sarà il momento giusto, la riconoscerai. Ora dimmi, perché stavi facendo a botte con Big K?”
“Non è ovvio? È lui il responsabile di tutto quanto. Lui voleva Sanae per sé e ha fatto questa cosa, questa maledizione, come sostieni tu, per separarci.”
Holly strinse con forza il pugno della mano libera: il colpevole doveva essere per forza Kanda. Non aveva recuperato completamente i propri ricordi, ma doveva pur esserci un motivo se uno dei primo episodi che aveva ricordato era la loro lite nel parco, erano nemici e se c’era qualcuno che aveva interesse a separarlo da Sanae era proprio il pugile.
Kitty sospirò e si accomodò meglio sul divano.
“Devo ammettere che Kanda potrebbe essere il candidato ideale al ruolo di cattivo in questa storia, ma ti assicuro che non è lui il responsabile: avrebbe preso Sanae per sé, non credi?”
L’architetto soppesò le parole che aveva appena udito, dovendo ammettere che seguivano un filo logico semplice, ma inoppugnabile. Anche se non era ancora del tutto convinto.
“Quindi Sanae non è con lui?”
“No.”
“Allora dov’è?”
La testa cominciò a girare vorticosamente.
 
 
La fiera di Nankatsu era stata spettacolare e piena di gente, come tutti gli anni. Si erano trattenuti più del solito e così aveva deciso di accompagnare Sanae fino a casa, non gli andava che facesse il tragitto da sola. Le teneva la mano, non avevano motivi per nascondere la loro relazione.
“Sei davvero un cavaliere stasera, Tsubasa.”
“Al tuo servizio.” Le aveva risposto ridendo.
Si erano fermati uno di fronte all’altra. Gli occhi di Nakazawa brillavano e le sue guance erano leggermente arrossate.
Non aveva saputo resistere e con dolcezza le aveva depositato un bacio sulle labbra. Era stato come l’aveva sempre immaginato.
 
 
Holly restava seduto sul divano con il sorriso stampato sulle labbra: aveva appena recuperato uno dei suoi ricordi più dolci. Per un attimo era ritornato un adolescente alle prese con i primi sentimenti amorosi.
“Hai visto qualcosa di bello?” Gli chiese Kitty.
“Ho visto Sanae e il nostro primo bacio.”
L’uomo cambiò la posizione della mattonella di ghiaccio sulla guancia, ripensando a quanto era stato stupido a precipitarsi a fare a pugni con Big K, davanti a tutti gli operai. La voce sarebbe presto arrivata al sindaco, ne era sicuro.
Il pensiero di Tom Becker scatenò dentro di lui una reazione a catena che gli fece drizzare la schiena come avesse preso la scossa.
“So chi è Sanae – mormorò – è la moglie del sindaco. Il mio miglior amico e la mia ragazza sono sposati!”
Lo stomaco si contrasse in una fitta di dolore.
 
 
 
 
 
 
L’uomo cercava di tenersi impegnato mentre attendeva il rapporto delle sue spie. Roberto gli aveva confermato di aver compiuto la sua missione la mattina precedente, non restava che aspettare che si cominciassero a vedere i frutti dell’inferno personale in cui aveva deciso di sprofondare Tsubasa Ozora. Nella migliore delle ipotesi, l’affiorare della sua vecchia vita nella maniera frammentaria e parziale che aveva deciso per lui, l’avrebbe portato ad impazzire, nella peggiore, avrebbe collegato un paio di pezzi del puzzle ed avrebbe passato la sua esistenza a struggersi per ciò che aveva perduto: era troppo un santarellino per fare quello che andava fatto per riprendersi la moglie e sarebbe rimasto a struggersi per lei. In ogni caso avrebbe perso definitivamente tutto.
La televisione era sintonizzata su un vecchio film d’azione, uno dei suoi preferiti, di quelli ancora girati con la pellicola in bianco e nero. Li aveva sempre considerati affascinanti, eco di un passato non troppo lontano.
Il cellulare squillò sul tavolino accanto al divano. Si costrinse a contare fino a cinque prima di rispondere, per non dare l’impressione di essere sulle spine, doveva mantenere le apparenze di capo freddo e gelido.
“Pronto.”
“Capo, abbiamo novità.”
“Ditemi.”
“Questa mattina Oliver Hutton è arrivato al cantiere come una furia e si è preso a pugni con Big K. Lo accusava di nascondere una certa donna, ma non sappiamo di più.”
L’uomo sorrise compiaciuto, Tsubasa non aveva perso tempo a scagliarsi contro il sospettato più ovvio per la sua disgrazia e quel pugile borioso che era finito quasi per sbaglio nella sua maledizione lo avrebbe sistemato a dovere.
“Immagino che Hutton non ne sia uscito molto bene.”
“Beh, ha preso un bel gancio in faccia e un brutto colpo allo stomaco, ma poi è arrivata Kitty e l’ha convinto a desistere.”
“Come?” La sua voce suonò come un ringhio.
“Kitty, quella strana che vive nell’appartamento della prigioniera. Ha farfugliato qualcosa sul fatto che Big K non c’entrasse nulla con l’altra faccenda e l’ha portato via.”
L’uomo aveva la gola secca, mentre la rabbia montava dentro di lui.
“È tutto?”
“Sì.”
“Tornate al vostro lavoro.”
Bruscamente chiuse la telefonata e in uno scatto d’ira lanciò il telefono contro la parete più vicina. Prese il cesto delle riviste e lo gettò sul pavimento, con un gesto del braccio buttò in terra tutti soprammobili della mensola sul caminetto. Non c’era oggetto nella stanza che non subisse la sua ira e venisse scagliato da qualche parte. Era fuori controllo.
Quella Kitty sapeva troppe cose! Come diavolo faceva a saperle?
Nella sua furia la sua mente lavorava febbrilmente portandogli alle luce un insieme di dettagli che gli erano sfuggiti.
Jason Brown era spesso in compagnia di Kitty: lei l’aveva fatto venire a New Team Town.
Ma come?
Kitty poteva forse uscire dalla città?
Kitty viveva nel vecchi appartamento della prigioniera. Aveva preso il suo posto.
Come aveva fatto a non pensarci prima?
Con uno scatto si diresse verso la porta della cantina, doveva verificare la sua ipotesi.
Giunto nella stanza segreta, dopo aver indossato la maschera, trovò la prigioniera addormentata. La scosse violentemente.
“Sveglia! Svegliati!”
Con estrema fatica e lentezza la donna aprì gli occhi:
“Che vuoi?”
“Tu hai mandato Kitty?”
Lo sguardo della donna era ancora velato dal sonno, come se le occorresse tempo per tornare alla coscienza da un luogo remoto.
“Cosa vuoi dire?”
“Kitty, quella stramba. Agisce per tuo conto? L’hai fatta venire tu? Come hai fatto?”
Urlò violentemente, non gli importava nulla del fatto che oltre la parete trasparente alla sua sinistra Atsushi lo stesse guardando con gli occhi sbarrati.
“Parla!”
La prigioniera era ora del tutto vigile e attenta.
“Te l’ho già detto: tu mi sopravvaluti.”
La sua pazienza era arrivata al limite: prese il frustino e la colpì un paio di volte alle gambe.
“La tua amichetta farà una brutta fine per essersi intromessa!”
Senza aggiungere una parola se ne tornò di sopra: doveva escogitare un nuovo piano.



_________________________________
Dopo la pausa pasquale, Holly comincia a ricordarsi di Sanae e di Kanda e va a scagliarsi contro quello che i suoi ricordi parziali gli fanno credere essere l'indiziato numero uno del grande casino.
Intuiamo un po' le motivazioni del nostro Mister x nel risvegliare una parte dei ricordi di Tsubasa. Ma ora il nostro si è accorto di aver sottovalutato Kitty....
 

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Capitolo 20
*** XIX ***


Il cancello della villa svettava imponente davanti all’automobile. Amy sentì un brivido correrle lungo la schiena: l’abitazione aveva una reputazione piuttosto sinistra nella cittadina, a cominciare dal fatto che nessuno sapesse con certezza chi vi abitava. Forse solo il sindaco e, a quanto pareva, Santana sapevano qualcosa. Quel pomeriggio Francisco aveva fatto irruzione durante le prove dei numeri musicali e l’aveva letteralmente trascinata via, costringendola a seguirlo in macchina verso una destinazione sconosciuta.
“Lui vuole vederti.”
Erano state le sue uniche parole, pronunciate con una strana sfumatura, come se anche il proprietario del Cyborg non facesse i salti di gioia per quella convocazione. Per una volta i loro desideri coincidevano.
Con un inquietante rumore di metallo che strideva, il cancello si aprì, girando sui cardini arrugginiti.
Il vialetto d’accesso era pulito ed ordinato, i prati e le aiuole ben tenute, chi vi abitava teneva a fare bella figura.
Quando arrivarono davanti all’ingresso dell’abitazione, Amy si stupì della quantità di macchine parcheggiate: evidentemente il proprietario della villa non era poi così sconosciuto. La cosa non le piacque per niente, perché se qualcuno nascondeva la propria identità a quel modo, doveva certamente essere coinvolto in qualche affare losco, di quelli che farebbero sembrare giochetti innocui i mezzucci poco discutibili usati da Francisco.
Un uomo li accolse sulla porta.
“Entrate, il capo vi sta aspettando in salotto.”
Santana la guidò con sicurezza attraverso un paio di corridoi, doveva conoscere il luogo piuttosto bene. Il brivido che aveva sentito prima si fece più insistente, portandola a strofinarsi le mani lungo le braccia per riscaldarsi: era uscita di corsa dal locale senza prendere la giacca e la felpa che utilizzava durante le prove non era l’indumento più adatto per restare al caldo.
Entrata nel salone si accorse di conoscere almeno di vista molte delle persone che erano riunite lì ed aspettavano in rigoroso silenzio.
Francisco la afferrò per un braccio ed avanzò di qualche passo, al centro del tappeto decorato.
“Capo, le ho portato la ragazza.”
Sul divano era seduto un uomo impegnato nella lettura di un quotidiano che venne lentamente abbassato. La sorpresa di Amy raggiunse picchi vertiginosi quando si rese conto di chi fosse il leader di quello strano gruppo.
“Tu!” Le scappò, guadagnandosi un’occhiata di disapprovazione da parte di Santana.
L’uomo mise del tutto da parte il giornale e puntò lo sguardo su di lei.
“Proprio io. Ora, se non ti dispiace, parliamo di affari. Non sei curiosa di sapere perché ti ho chiamato qui?”
Amy annuì, era da quando era salita in macchina che voleva sapere, ma negli anni aveva imparato a non fare troppe domande a Francisco.
“È successo qualcosa di seccante e tu potresti aiutarmi a risolvere la questione.”
“Cosa intendi?”
“Tu sei amica di Kitty, giusto?”
Amy non riusciva a capire il perché della richiesta, ma decise di essere onesta.
“La conosco abbastanza bene.”
“Quindi non avresti problemi a pedinarla.”
La ballerina sgranò gli occhi, per chi l’avevano presa? Per quanto Kitty potesse essere stramba, non faceva nulla di male, che bisogno c’era di seguirla?
“Io non capisco.”
L’uomo si alzò in piedi con calma studiata, avvicinandosi e sollevandole il mento con una mano.
“Ti trovo un po’ sciupata, Francisco non ti tratta con la dovuta cura?”
Amy  era sempre più spaesata, non capiva dove quell’uomo volesse andare a parare con i suoi discorsi.
“Se mi fai questo piacere, forse potrai smettere di lavorare al Cyborg, almeno per un po’.”
Sentì Francisco irrigidirsi al suo fianco, come se non si aspettasse che il suo socio le avrebbe  promesso la libertà da lui. La prospettiva la allettava parecchio eppure c’era qualcosa che non andava, qualcosa che puzzava. Aveva imparato sulla sua pelle che quando qualcuno come Santana ti faceva una proposta che avrebbe potuto risolvere tutti i tuoi problemi, c’era sempre un rovescio della medaglia, un prezzo da pagare.
L’uomo si staccò da lei e proseguì come se niente fosse.
“Quella piccola intrigante di Kitty sta mettendo il naso nei miei affari. Non conosco le sue motivazioni, non so a cosa punti, ma è importante scoprirlo. Tu dovrai essere la mia spia e riferirmi ogni cosa.”
Il proprietario della villa fece una piccola pausa, poi le piantò uno sguardo di ghiaccio negli occhi:
“Se quello che mi riferirai sarà troppo allarmante, dovrai fare in modo di toglierla di mezzo.”
Amy fece un passo indietro e gridò:
“No! Non ti aiuterò a farle del male! Kitty è una persona gentile.”
“Le apparenze ingannano – ribatté l’uomo – Kitty potrebbe essere pericolosa e nascondere una minaccia per tutti noi!”
“Non è possibile.” Balbettò la ballerina.
L’uomo si avvicinò alla credenza, aprì uno degli scomparti e vi estrasse uno scrigno protetto da una combinazione. Lo appoggiò sul tavolo, sfiorandone il coperchio con la mano, come se gli facesse una carezza.
“Naturalmente potrei essermi sbagliato. In questo caso ti chiederò di smettere di sorvegliarla.”
Digitò la combinazione, facendo scattare la serratura.
“Se mi farai questo favore, sarai libera di andartene.”
“No! Io non tradirò un’amica. Arrivederci.”
Si voltò ed attraversò la stanza diretta alla porta. Se ne sarebbe andata all’istante, a costo di dover scendere la collina a piedi fino a New Team Town.
Una fitta di dolore al petto la bloccò sul posto, facendola accasciare a terra. Non era il momento opportuno per simili problemi.
“Non ti è concesso dirmi di no. Non è un opzione.”
“Non ti accontenterò mai!”
Il dolore al petto aumentò, era quasi insopportabile. Sentì i passi dell’uomo avvicinarsi ed avvertì la sua presenza torreggiare sopra si lei.
Con estremo sforzò si voltò per guardarlo.
“Lo vedi questo?”
Amy dovette sbattere le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco, poiché la vista le si era appannata. L’uomo stringeva nel pugno destro un oggetto di cui non riconobbe la forma e che emanava una strana luce pulsante di colore rosso. Si accendeva e spegneva ad una velocità quasi folle.
“Sai cos’è?”
Non riusciva a parlare, sentiva la bocca impastata. Riuscì solo a muovere la testa in un piccolo cenno di diniego.
“Questo mia cara è il simbolo della tua schiavitù: è un piccolo pezzo del tuo cuore, sufficiente a soggiogarti alla mia volontà.”
Tra un respiro affannoso e l’altro, Amy rantolò:
“…pazzo…”
L’uomo scoppiò in una risata fragorosa, che alla donna confermò il suo stato alterato.
“No, non sono pazzo. Ti posso dare una dimostrazione pratica.”
Aumentò la pressione della stretta della mano sullo strano oggetto. Nello stesso momento il dolore che Amy provava al petto aumentò in maniera esponenziale.
“Vedi? Più premo e più stringo il tuo cuore in una morsa.” Un sorriso sadico si allargava sul suo volto.
Con molta lentezza riaprì la mano ed il dolore cominciò ad attenuarsi.
Man mano che il dolore scemava e il suo respiro si normalizzava, anche le pulsazioni dell’oggetto diminuivano di frequenza.  Amy cominciò a pensare che veramente quell’oggetto poteva essere collegato a lei, in quel modo trovavano spiegazione tutte le volte che aveva tentato di lasciare il Cyborg e Francisco e si era sentita male. Qualunque fosse il gioco che il loro gruppo stesse conducendo lei era sempre stata una loro pedina fin dall’inizio.
“Francisco, dalle una mano ad alzarsi.” Ordinò l’uomo mentre riponeva con cura l’oggetto nello scrigno.
Santana le si avvicinò e con una certa rudezza la sollevò fino a metterla in piedi. Le gambe le tremavano ancora e dovette aggrapparsi al proprio datore di lavoro per non crollare nuovamente sul pavimento.
L’uomo tornò a rivolgersi a lei.
“Spero che questa dimostrazione sia stata efficace. Ti avevo promesso la libertà se mi avessi accontentato spontaneamente, ora ti prometto la morte se non mi esaudirai. Vedi di non deludermi, ne va della tua vita.”
Con un colpo secco richiuse lo scrigno e fece scattare la serratura di sicurezza.
“Siamo intesi?”
Amy avrebbe tanto voluto trovare dentro di sé la forza per opporsi, per urlare un nuovo no, ma non si sentiva abbastanza coraggiosa per affrontare un’altra volta il dolore lancinante.
Abbassò la testa in segno di resa. 
 
 
 
 
Holly era chiuso nella sua stanza a pensare, come faceva ormai da qualche giorno, da quando aveva cominciato ad avere visioni sulla sua presunta vita come Tsubasa Ozora. Aveva lasciato l’appartamento  di Kitty ed era tornato alla casa d’accoglienza di Padre Ross, portando con sé il prezioso volume: la donna gliel’aveva lasciato, raccomandandogli di averne la massima cura e di non mostrarlo a nessuno, nemmeno  al reverendo. Aveva sfogliato più e più volte il libro, ma non aveva avuto nessuna nuova visione e nessun nuovo ricordo, per cui la maggior parte delle storie che vi erano narrate restavano per lui le vicende di un estraneo. Gli unici personaggi che aveva riconosciuto come abitanti di New Team Town erano Big K, il sindaco Becker e la moglie Patricia.
Una fitta lo colpì allo stomaco, come ogni volta che pensava a quei due sposati.
La teoria della maledizione di Kitty gli sembrava ancora un’assurdità, ma non poteva negare i sentimenti che provava per Sanae e per Taro, come il disprezzo che lo legava a Kanda: erano sentimenti reali e tangibili per lui.
Il cellulare ricevette l’ennesimo messaggio di Benjamin Price che si diceva preoccupato per la sua scazzottata con Big K e voleva parlargli. Tutta quella vicenda gli aveva fatto dimenticare i problemi del cantiere ed il fatto che ora Benji si preoccupasse per lui. Si alzò dal letto e recuperò l’apparecchio, doveva rispondere o Price sarebbe diventato ancora più insistente. Gli diede appuntamento per la sera.
Alla porta si udì un leggero e discreto bussare.
“Avanti.” Disse, mentre nascondeva il libro sotto il letto.
Padre Ross entrò nella stanza, seguito da una donna:
“Oliver, hai una visita.” Gli annunciò.
“Ciao Holly!”
Kitty, solare come sempre, lo salutò con la mano.
“Kitty, vieni. È un piacere vederti.”
Con un certo imbarazzo si mise di fretta a raccogliere i vestiti del giorno prima che aveva lasciato abbandonati sull’unica sedia della stanza. Li mise in una cesta: più tardi sarebbe andato a fare il bucato.
“Accomodati.”
“Grazie.”
La donna si tolse il cappotto, rivelando un abito giallo canarino, mentre il reverendo uscì chiudendo la porta. Holly si accomodò sul letto, di fronte a lei, preparandosi ad una lunga discussione.
“Come va?” Gli chiese Kitty premurosa.
“Così così. Non ho più avuto nuovi ricordi oltre a quelli riguardanti Taro e Sanae. Mi sembra come se la mia vita fosse spezzata in due.”
Sospirò profondamente, rendendosi conto forse per la prima volta della pesantezza della situazione.
Kitty cercò di fargli forza, parlando con dolcezza.
“Coraggio, è solo da pochi giorni che hai cominciato a ricordare. Le cose piano piano andranno a posto.”
“Ma perché ho cominciato a ricordare senza un motivo apparente?” Domandò senza la pretesa di ricevere una risposta.
“Non lo so. Non so nemmeno perché i tuoi ricordi siano parziali.”
Restarono qualche istante in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri. Holly aveva sperato che la donna avesse qualcosa in più da dirgli, dato che sembrava così ferrata in materia, sembrava sapere ogni cosa riguardante quella strana situazione. Chissà se anche con Jason aveva discusso del libro e della presunta maledizione? Forse il giornalista sapeva qualcosa di importante, ma la brutta esperienza con la polizia lo aveva dissuaso e convinto a lasciare la cittadina prima di aver portato a termine la sua indagine. Forse era quello il vero motivo per cui l’aveva avvicinato e non la vicenda dell’incidente al cantiere.
“Ascolta – Kitty riprese a parlare – io non credo che questi ricordi siano casuali. Dovresti fare qualcosa al riguardo, cominciare a pensare come fare per…”
L’architetto si irrigidì e la interruppe:
“Te l’ho già detto, non intendo fare nulla in proposito.”
La donna scosse la testa:
“Non capisci che così fai solo il gioco di chi vi ha costretti qui, in questa realtà distorta? Lui vuole che tu soffra.”
“Beh, direi che c’è riuscito: sto già soffrendo, prima per il crollo del nuovo palazzo municipale, ora per il fatto che la donna che credo di amare è sposata con un altro.”
Si passò entrambe le mani nei capelli per tentare di nascondere il singhiozzo che gli era salito. La sua vita si era ridotta a qualcosa di ben miserabile: in fondo l’insuccesso professionale poteva sopportarlo, ma che la sua donna e il suo migliore amico  facessero coppia era lacerante.
Kitty ripartì alla carica:
“Certo, ma tu puoi cambiare le cose, puoi risvegliare l’amore che lei provava per te.”
“Non posso farlo, Kitty.”
Sul volto della donna si dipinse un’espressione indecifrabile. Quando parlo un’altra volta la sua voce era fredda e tagliante
“Dov’è finito Tsubasa Ozora? Dov’è finito  il campione che non si arrende mai fino a che la partita non è finita?”
Holly si alzò per sgranchirsi le gambe nei pochi centimetri che aveva a disposizione nella piccola stanza e si mise di spalle alla finestra.
“Non siamo su un campo da calcio, Kitty.”
“Non fare sottigliezze. Tre giorni fa, quando eri convinto che Kanda ti avesse portato via Sanae, ti sei precipitato a fare a botte con lui.”
Hutton incrociò le braccia al petto e incassò il mento
“Quello era diverso.”
“Perché?”
“Perché Kanda è Kanda.”
Gli sembrava assurdo che Kitty non riuscisse a comprendere una situazione semplice e lampante come quella.
La donna si alzò in piedi e si mise al suo fianco, spalla contro spalla.
“Non capisco.”
Holly sciolse le braccia lungo i fianchi e prese fiato:
“Con Kanda non siamo mai andati d’accordo e nemmeno Sanae lo apprezzava, perciò è abbastanza normale che io non abbia problemi a sfidarlo.”
“E con Taro?”
“È il mio migliore amico, non posso andare a portargli via la sua donna.”
“Lui però l’ha fatto!”
Una nuova fitta di dolore colpì Holly allo stomaco. Sapeva che il ragionamento della donna non faceva una piega, ma allo stesso tempo sentiva che c’era qualcosa di sbagliato.
“Io non penso che lui ricordi. Tom Becker non sa nulla di Taro Misaki e men che meno di Tsubasa Ozora.”
“Per questo devi fare qualcosa! Non solo per te, ma anche per loro. Quando lui ricorderà, non gli importerà nulla del fatto che hai cercato di portargli via la moglie! Sarà felice di aver riavuto la sua vera vita, come tutti gli altri.”
La voce di Kitty era carica di disperazione, la faccenda le stava veramente a cuore, quasi più di quanto importasse a lui, come se anche lei ne fosse direttamente coinvolta.
L’uomo si allontanò dalla finestra per poterla guardare frontalmente.
“Io amo Sanae e voglio bene a Taro come se fosse un fratello. In questo momento loro sono felici insieme,li hai visti? Il sindaco e la moglie sono una coppia perfetta. Io non mi intrometterò a rovinare la loro felicità.”
Kitty strinse forte i pugni.
“Ma perché?” Chiese sull’orlo delle lacrime.
“Perché gli voglio troppo bene e non rovinerei mai la loro felicità per la mia.”



___________________________
In questo capitolo si riafferma l'elemento soprannaturale e come il nostro cattivo lo sappia manipolare, mostrando le sue quasi infinite risorse.
Nella seconda parte diventa ancora più chiaro il perché l'antagonista abbia deciso di risvegliare alcuni ricordi di Tsubasa: sapeva che l'uomo sarebbe arrivato alla risoluzione che ha preso nel finale.

Nota di servizio: probabilmente settimana prossima salterò l'aggiornamento perché sarò momentaneamente alle prese con un altro progetto scrittorio. Se tutto andrà come deve, lunedì ne saprete di più. ;)

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Capitolo 21
*** XX ***


Alle sue spalle il Sindaco Becker sentiva l’allegro vociare degli ospiti della casa di riposo, tutti emozionati ed accalcati per l’evento del pomeriggio: i lavori di tinteggiatura dell’ala est e della sala delle attività ludiche e ricreative erano finalmente giunti a termine. Con una cerimonia semplice ed un taglio del nastro, lui e la moglie avrebbero aperto ufficialmente gli ambienti ristrutturati agli ospiti.
“Quando vuole possiamo  iniziare. - Il direttore della struttura gli si era avvinato, sussurrandogli sottovoce – I nostri ospiti non sono l’esempio migliore di pazienza.”
Il Sindaco annuì e cercò gli occhi della moglie: come sempre era al suo fianco, vestita con un impeccabile tailleur che metteva in risalto la sua figura affusolata. Certe volte pensava che Patty avrebbe fatto un’ottima figura con indosso qualsiasi cosa, anche un sacco di patate.
Ripassò velocemente il breve discorso che aveva preparato.
“Iniziamo pure.”
Il direttore della casa di riposo attirò l’attenzione dei suoi ospiti:
“Signori, oggi vi abbiamo fatti venire qui per una piccola cerimonia. L’apertura dei locali dell’ala est rinnovata può sembrare un piccolo traguardo dall’esterno, ma per noi è un momento importante e solenne. Per questo ringrazio il nostro Sindaco e la signora Becker per essere qui con noi a condividere la nostra gioia.”
“Vediamo di sbrigarcela in fretta, ho una partita a carte da vincere!” La  voce burbera di uno degli ospiti si levò dal centro del gruppo.
“Vedrà, signor Gamo, che se non ci interrompe di continuo finiremo in pochissimo tempo.”
Il direttore era abituato alle intemperanze, ma quel giorno voleva che le cose filassero lisce.
“Come stavo dicendo, ringraziamo il Sindaco e sua moglie per essere intervenuti.”
La platea si produsse in un composto applauso: evidentemente molti ospiti erano dello stesso parere del signor Gamo.
Tom non si scoraggiò e si portò al centro del nastro, prendendo il posto del direttore.
“Sarò breve, lo prometto. – sorrise, cercando di attirarsi le simpatie dell’uditorio – Come Sindaco sono molto attento alle esigenze di tutti i miei concittadini, soprattutto di quelli che alloggiano nelle strutture comunali. Quando il direttore mi ha fatto presente che questa struttura aveva bisogno di essere rinfrescata non ho esitato un attimo ed in poco tempo il consiglio comunale ha stanziato i fondi necessari.”
“Dopo il casino al cantiere, doveva pure trovare qualcosa da far fare agli operai.”
Il commento era arrivato abbastanza nitido alle sue orecchie e Tom incassò il colpo cerando di non far notare a nessuno che aveva colto. Era partito dalle prime file, ne era certo, ma non sapeva dire chi fosse stato. Proseguì con il suo discorso.
“È mio grande piacere essere qui oggi ad inaugurare quello che spero sarà un luogo apprezzato e di ristoro per chi nel corso della sua vita ha lavorato per la nostra cittadina e la sua comunità.”
L’applauso si ripeté un poco più caloroso del precedente, ma ben lontano dai vasti consensi che aveva ottenuto in campagna elettorale. Probabilmente era come diceva il direttore: gli anziani si spazientivano facilmente e non vedevano l’ora di tornare ai loro passatempi preferiti.
Il Sindaco si voltò ed afferrò le forbici poste su un cuscino. Ebbe un attimo di esitazione e si volse alla moglie:
“Cara, vorresti farlo tu?”
La signora Becker annuì e raggiunse il marito, prendendo delicatamente le forbici che lui le porgeva. Con un taglio sicuro divise in due il nastro teso che cadde a terra fluttuando. Si rivoltò verso gli anziani e sorrise loro.
“Ecco a voi la vostra nuova sala!”
Si fece di lato per lasciare passare gli ospiti della casa di riposo che erano diventati così impazienti da dimenticarsi di applaudire una terza ed ultima volta.
Dopo che il fiume di gente fu passato, Tom le si avvicinò e la prese per mano.
“Sei stata bravissima.”
“Avevi qualche dubbio?”
“Assolutamente no!”
Le sorrise, ma non andò oltre: in pubblico dovevano mostrare di essere una coppia affiatata, ma senza esagerare, soprattutto con la parte più conservatrice della popolazione, anche se Tom dubitava che gli anziani avrebbero prestato attenzione a loro.
“Mi scusi signor Sindaco – il direttore si era avvicinato – sono mortificato per la scarsa attenzione che i nostri ospiti le hanno rivolto. A volte più che uomini maturi sembrano dei bambini.”
La signora Becker fece un grazioso cenno del capo.
“Non si preoccupi. La miglior forma di riconoscenza per noi è vedere con quanto entusiasmo stanno prendendo possesso della loro nuova sala ricreativa.”
Tom non riuscì a nascondere il moto di ammirazione per la moglie. Si sentiva così fortunato ad avere accanto quella donna che sapeva sempre trovare le parole giuste anche quando a lui risultavano difficili.
“Mia moglie ha ragione.”
“Ora devo tornare nel mio ufficio, restate pure quanto volete. Ci vediamo più tardi alla cena con il consiglio di amministrazione.” Il direttor si congedò con una stretta di mano ad entrambi.
Il Sindaco avrebbe voluto andarsene, ma sapeva che sarebbe stato maleducato dopo un invito del genere. Guardò l’orologio da polso che segnava le 17:30: tornare a casa non avrebbe avuto molto senso, avevano un appuntamento per le 19:00 per cominciare l’aperitivo e poi la cena.
“Che dici, esploriamo un po’ il mondo di questi intrepidi vecchietti?” Propose alla moglie.
“Fai strada!”
Entrarono entrambi nel salone e trovarono l’attività degli ospiti già in pieno fermento: avevano sistemato i tavoli come meglio gli aggradava e si erano divisi in gruppi, chi per giocare, chi per leggere i giornali, chi per guardare la tv; c’era anche un gruppo di nonnine che sferruzzava a maglia in un angolo e chiacchierava allegramente.
Tom passò vicino al signor Gamo, l’uomo che aveva interrotto il direttore durante il suo discorso introduttivo.
“Coraggio Freddy! – stava quasi gridando – Sono tre giorni che aspetto di poterti battere. Sbrigati a mescolare quelle carte.”
L’uomo di fronte a lui, un tipo con i capelli grigi e gli occhiali spessi con la montatura metallica, rispose in maniera pacata:
“Non ti scaldare Gabriel, per queste cose ci vuole il suo tempo.”
L’uomo cominciò a distribuire le carte.
“Era anche ora!”
Improvvisamente arrivò un terzo uomo, non molto alto e con una strana andatura.
“Non starete giocando di nuovo a scala quaranta voi due?”
Squadrò con occhio truce i due anziani che avevano cominciato la loro partita.
“Che vuoi Jeff?” Chiese brusco Gamo.
“Quello è un gioco da donnicciole! Il Texas Hold’em è un gioco da veri uomini”
Senza tante cerimonie prese una sedia dal tavolo accanto, la mise con lo schienale al contrario e si sedette a cavalcioni, poi prese di mano le carte ai due amici.
“Date qua!”
L’uomo con gli occhiali scosse la testa, ma più che spazientito, a Tom pareva rassegnato.
“Sei sempre il solito Jeff!”
“Mai che si riesca a portare a termine qualcosa quando ci sei tu nei paraggi.” Rincarò la dose Gamo.
Jeff sbuffò sonoramente.
“Fate sempre così voi, poi alla fine le mie idee non vi dispiacciono così tanto.”
“A parte quella volta che per poco non ci hai fatto buttare fuori dal direttore tutti e tre.”
“Sciocchezze. - Jeff agitò la mano destra, mentre con la sinistra porgeva a Freddy il mazzo da smezzare. – Se non hanno buttato fuori quella buon anima di Parson quando l’hanno beccato a fumarsi tutti i suoi sigari in camera, cosa volete che facciano a noi?”
Ad un certo punto Gamo si accorse che il Sindaco si era fermato ad osservarli e richiamò ironicamente l’attenzione di compagni di gioco.
“Parlate piano, le autorità ci sorvegliano!”
Tom si sentì colto in fallo ed alzò entrambe le mani.
“Vi prego, signori, continuate pure: non era mia intenzione disturbarvi.”
“Dite tutti così… Politici.” La voce di Jeff emanava disprezzo.
Freddy si mosse a disagio sulla sedia ed intervenne per calmare gli animi. Il Sindaco sospettò che si trovasse spesso a fare da paciere e mediatore tra i due amici e gli altri ospiti della casa di riposo, dei tre pareva il più tranquillo ed assennato.
“Magari il Sindaco vuole giocare una partita con noi?”
Sia Gabriel che Jeff emisero degli strani versi incomprensibili.
“Non credo sia il caso.” Balbettò Tom.
“Ecco, bravo.” Gamo applaudì ironicamente.
Jeff pareva non essere così d’accordo con l’amico.
“E quando mi ricapita l’occasione di lasciare in mutande un politico? Coraggio ragazzo, unisciti a noi.”
L’uomo si era alzato e con un paio di pacche sulle spalle aveva praticamente costretto Tom a sedersi al loro tavolo.
“Solo un giro, però.” Tentò di puntualizzare il Sindaco, mentre si ritrovava con le mani riempite di carte.
Alzò lo sguardo verso la moglie, in cerca di sostegno e la vide allontanarsi dopo avergli fatto l’occhiolino, dirigendosi verso le signore del lavoro a maglia.
Non gli restò che cominciare a giocare.    
 
 
 
 
 
 
 
 
Patty si richiuse alle spalle la porta della grande casa in cui abitava col marito: era elegante e spaziosa, una delle più belle della cittadina, escludendo la villa sulla collina fuori città, che competeva in una categoria a parte. Chiuso il mondo fuori poteva smettere i panni della perfetta First Lady e moglie: gettò con non curanza il cappotto sulla prima poltrona che incontrò e si liberò delle scarpe col tacco con un paio di movimenti rapidi delle caviglie.
Tom sorrise divertito, avvicinandosi al mobiletto dei liquori. Sopra di esso troneggiava una grande foto del giorno del loro matrimonio: gli abiti bellissimi e perfetti, un abbraccio dolce, i sorrisi felici che si estendevano fino agli occhi brillanti.
“Un ultimo drink prima di andare a dormire?”
La signora Becker scosse la testa.
“Il vino della cena è stato più che sufficiente. Vado in camera.”
Il marito le si avvicinò, afferrandole le mani.
“Ti posso accompagnare.” Si sporse per baciarla sulle labbra, ma lei si scostò.
“Tom, ti prego, no. Ne abbiamo già parlato. – Liberò le mani e con dolcezza gli depositò un bacio sulla guancia destra – Buona notte!”
Con leggerezza salì le scale ed imboccò il corridoio sulla destra, dove si trovava la sua camera, mentre quella di Tom ed il suo studio erano nel corridoio di sinistra. Ormai era parecchio tempo che dormivano in stanze separate.
La donna si tolse quasi con frenesia il tailleur che aveva indossato per l’occasione pubblica: i pantaloni con la riga finirono lanciati sulla cassapanca, seguiti dalla giacca e dalla camicetta ricamata. Si sedette davanti al piccolo mobile con specchio dove teneva l’occorrente per la cura del viso, restando in biancheria intima. Solo quando si fu tolta anche l’ultimo residuo di trucco si concesse di rilassarsi conto lo schienale della sedia: era di nuovo sé stessa, si era tolta di dosso la maschera che doveva utilizzare ogni volta che appariva nel ruolo di moglie del Sindaco.
Indossò un comodo pigiama e si mise a letto portando con sé il romanzo che aveva iniziato a leggere da poco e che la stava catturando e tenendo incollata alle sue pagine. Ma non quella sera: aveva letto poche righe, giusto un paio di paragrafi e si fermò.
Era indubbiamente una di quelle giornate in cui si ritrovava a domandarsi se avesse compiuto tutte le scelte giuste nella sua vita, se non avesse avuto ragione sua madre quando aveva cercato di frenarla. Ancora ricordava la lite che le aveva coinvolte: lei all’epoca era troppo giovane e testarda per ascoltare un altro parere che, in fondo, non le stava dicendo di rinunciare al suo progetto, ma solo di prendersi più tempo per riflettere, di aspettare e vedere come si sarebbe evoluta la cosa.
Aveva incontrato Tom per caso, mentre faceva la spesa e subito era scattata la scintilla. Avevano cominciato ad uscire insieme sempre più spesso, prima solo loro due, poi insieme ai rispettivi amici. Dopo poco tempo Tom le aveva fatto la proposta e lei aveva accettato subito, senza pensarci. Era stata così felice.
L’unica che non aveva decisamente fatto i salti di gioia era stata sua madre:
“Sei troppo giovane per sposarti! Aspetta ancora qualche tempo, conosci Tom da così poco. Se è quello giusto aspettare almeno un anno non sarà un problema.”
Ancora le frullavano nella testa tutte le frasi con cui la mamma aveva tentato di dissuaderla da quella scelta frettolosa. Lei non aveva voluto ascoltarla, era troppo innamorata e troppo testarda per tentare di capire il punto di vista del genitore. Le famiglie di tutte le sue amiche avrebbero fatto carte false per far sposare le loro ragazze con il figlio dei Becker, i suoi genitori no. La cosa l’aveva resa furiosa, così aveva fatto di testa sua ed aveva proseguito nei preparativi del matrimonio.
Patty aprì il cassetto del comodino e ne estrasse un plico di fotografie che aveva conservato. L’immagine che era in cima era una delle prime foto che avevano scattato lei e Tom durante uno dei primissimi appuntamenti. Erano andati ad una partita di baseball fuori da New Team Town, entrambi indossavano le t-shirt di una delle due squadre ed i rispettivi cappellini abbinati. Entrambi sorridevano. La foto successiva era un’istantanea di pochi secondi dopo: invece di guardare l’obiettivo si erano voltato a guardarsi negli occhi. Era una raffigurazione d’amore più esplicita di mille dichiarazioni.
La donna si strinse al petto la fotografia, ricordo di un passato felice che non sarebbe più tornato.
Non sapeva esattamente quando era successo: per il primo anno dopo il matrimonio e il loro trasferimento nella villa dei Becker, che tuttora occupavano, era stato come una favola, poi le cose tra di loro avevano cominciato a raffreddarsi. Per lo meno da parte sua, Tom ancora tentava di approcciarla e di riaccendere la fiamma, ma per lei era spenta: tutto ciò che rimaneva era una tiepida brace di affetto. L’innamoramento era terminato, per un po’ il sesso li aveva tenuti insieme, poi nemmeno quello. Più che una coppia di sposi erano diventati una coppia di amici.
Patty sospirò, rendendosi finalmente conto che sua mamma aveva visto più in là di loro, aveva capito che stavano correndo dietro un fuoco di paglia che era bruciato troppo velocemente.
Aveva pensato di separarsi da Tom per poter continuare ognuno con la propria vita e, magari, trovare un’altra persona che potesse far rinascere l’amore. Non voleva arrendersi. Ma Tom aveva deciso di candidarsi al ruolo di Sindaco e in una cittadina piccola come New Team Town anche una separazione o un divorzio potevano costituire uno scandalo sufficiente a far perdere il consenso popolare. Tutti i consiglieri di suo marito gli avevano caldamente suggerito di tenere in piedi il suo matrimonio, se voleva avere la speranza di far carriera. Ne avevano parlato tra loro a lungo e alla fine Patty aveva deciso di non separarsi da Tom e di aiutarlo ad intraprendere la strada della politica: gli voleva bene, non voleva essere un ostacolo alla sua realizzazione professionale, oltretutto era convinta che un Sindaco giovane avrebbe fatto solo bene alla cittadina, l’avrebbe aiutata ad uscire dal suo stato di vecchiume. Suo marito era l’uomo giusto per quel posto e lei aveva deciso di appoggiarlo.
In casa si erano organizzati per condurre le loro vite in maniera separata, non dormivano nella stessa stanza e nello stesso letto da anni, ma fuori, davanti alla gente, indossavano le maschere della coppia perfetta. Tom le aveva detto di essere sicuro che buona parte dei voti ricevuti alle elezioni fosse dovuta alla sua costante presenza al suo fianco durante tutti gli incontri della campagna elettorale.
La donna rimise le fotografie nel cassetto e spense la luce. Si sdraiò e si tirò la coperta fino alle spalle.
Non poteva biasimare nessuno per la propria situazione, se non sé stessa. Avrebbe dovuto ascoltare sua madre e rinviare almeno di qualche mese il matrimonio con Tom.
Con quella nuova consapevolezza, prese finalmente sonno.
 



_______________________________
Finalmente eccoci con un nuovo capitolo! La Writing Week mi ha impegnato due settimane fa e la scorsa il capitolo stava terminando la revisione.
Siamo ad un momento importante: cominciamo a vedere le crepe sotto il matrimonio di Patty e Tom. Holly non vuole inetrferire tra i due perché li ritiene felici insieme, ma in realtà non è proprio così. Holly verra a spaere qualcosa della situazione tra i due?

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Capitolo 22
*** XXI ***


Era qualche giorno che Holly non dormiva bene: si sentiva intrappolato in un limbo in cui sapeva di non essere Oliver Hutton, ma non era nemmeno Tsubasa Ozora. Aveva ricordi troppo parziali per poter affermare con certezza di essere il campione nato dalla penna di Yoichi Takahashi. Aveva la sensazione di star vivendo due vite a metà.
Kitty non era più tornata direttamente alla carica per cercare di convincerlo a riconquistare Sanae, ma si lasciava sfuggire spesso delle frecciatine al riguardo. Non era una che si arrendeva facilmente e molte volte avrebbe voluto non rispondere ai suoi messaggi o alle sue chiamate, ma era l’unica persona con cui poteva parlare della situazione e, spesso, era proprio lui a cercarla.
Come quel giorno.
Stavano passeggiando nel parco con due caffè bollenti in mano nel tentativo di riscaldarsi dal freddo che si stava facendo sempre più pungente.
“Credi che presto nevicherà?” Chiese la donna un istante prima di portare alle labbra il bicchiere.
“Penso che ci vorrà ancora qualche settimana.”
Gli alberi erano ormai completamente spogli e gli animali tutti rintanati al caldo delle loro tane, un silenzio surreale circondava il parco.
“Volevo domandarti una cosa.”
“Tutto quello che può esserti utile.”
Kitty non si smentiva mai, aveva realmente a cuore l’intera faccenda.
“Tsubasa Ozora aveva un fratellino, giusto?”
Kitty annuì energicamente.
“Sì, il piccolo Daichi. Ti sei ricordato di lui?”
L’architetto sospirò pesantemente.
“No, purtroppo, però se lo ritrovassi potrebbe aiutarmi a ricordare. Magari il legame di sangue è più forte di questa maledizione ed il rivederci potrebbe far affiorare i ricordi di entrambi. Per te ha senso o è una teoria assurda?”
Oliver si grattò la nuca con una mano in imbarazzo, ora che aveva pronunciato quelle parole ad alta voce si rendeva conto di quanto potessero essere deliranti.
La sua compagna lo guardò negli occhi.
“Ti ricordo che stai parlando con la pazza che è convinta che questa cittadina esista solo perché è stata lanciata una maledizione, nessuna teoria è troppo assurda per me.”
“Non ti facevo così autoironica! Quindi che ne pensi?”
La donna fece qualche passo in silenzio, bevendo qualche altro sorso di caffè.
“Potrebbe essere plausibile – disse meditabonda – fare un tentativo non costerà nulla di  male.”
“Tu sai dov’è?”
Era quella la questione che più gli premeva, poiché Kitty sembrava sapere ogni cosa sullo stato in cui si trovavano tutti, doveva sapere anche dove fosse suo fratello…
“Purtroppo no.”
L’architetto si arrestò di colpo, sentendo le sue speranze svanire.
“Come? Tu sai..”
“Io so tante cose – Kitty lo fermò, appoggiandogli la mano sinistra sul braccio – ma non so tutto. Non ho potuto scoprire tutto.”
La donna bevve un altro sorso di caffè. Holly non sapeva che pensare, aveva riposto molte aspettative nell’idea di trovare Daichi, doveva scoprire se il bambino stava bene. Non poteva fare nulla per riprendersi Sanae, poteva cercare di riprendersi l’altra parte di famiglia che aveva perso. C’era il legame di sangue che gli dava il diritto prendere il bambino sotto la sua cura.
“Posso fare un’ipotesi.”
La voce di Kitty gli diede una piccola scarica:
“Che intendi?”
“C’è l’orfanotrofio. Insomma, prima di andare a cercare a casa di tutte le famiglie di New Team Town potresti provare lì.”
Holly ci pensò su, non era un’idea malvagia fare qualche domanda sui bambini dell’orfanotrofio, erano tutti senza famiglia e non era inverosimile che suo fratello fosse finito tra di loro, sempre che non fosse stato adottato nel frattempo. Allora sarebbe stato punto e a capo. Aveva anche il sospetto che eventuali genitori adottivi sarebbero stati un osso molto duro da convincere a cedergli il bambino.
“Potrei tentare. In fondo devo cominciare  da qualche parte con le ricerche!”
“Così mi piaci!”
Kitty gli  diede un buffetto sulla guancia e poi lo invitò a brindare facendo incontrare i due bicchieri di caffè.
“Alla nuova investigazione!”
 
 
 
Dopo l’incontro con Kitty, Oliver non si era recato subito all’orfanotrofio, aveva aspettato qualche ora, non tanto perché non fosse convinto della bontà dell’idea, piuttosto temeva di non riuscire a riconoscere il fratello e di ricevere una delusione. Da qualche parte doveva pur incominciare se voleva sperare di trovare qualcosa, così si era deciso ed aveva salito i tre gradini di pietra che conducevano all’istituto. L’edificio aveva tutto l’aspetto di una di quelle vecchie scuole di mattoni rossi con alte finestre, progettate e costruite in altri tempi. Dava l’idea di non essere un posto molto accogliente.
Suonò un colpo secco al campanello, non voleva apparire impaziente o assillante. A dire la verità, non sapeva bene ancora quale scusa avrebbe usato per indagare sui bambini che venivano ospitati nella struttura o anche solo farsi ammettere all’interno delle mura.
La porta venne aperta da una suora piccola e mingherlina, che lo osservava da dietro un paio di occhiali rotondi dalla montatura  sottile.
“Buongiorno.”
“Oh, buongiorno! – esclamò la religiosa, allegra e pimpante – Lei dev’essere uno dei nuovi volontari che vengono a giocare con i bambini! Prego, è il benvenuto!”
La suora si fece da parte per lasciarlo passare, poi lo condusse verso una stanza a piano terra.
“Lei non sa che favore ci fa a venire a dedicare un po’ del suo tempo a questi piccoli! Purtroppo la maggior parte di noi non è più giovane e attiva come un tempo e delle nuove energie sono sempre un toccasana.”
Oliver era travolto dal fiume di parole di quella suora e stentava a credere che le donne fossero così in difficoltà con bambini e ragazzi.
“Non la trovo per niente stanca, sorella.” Disse cortesemente.
La suora ridacchiò, mentre apriva una porta a vetri a due ante.
“Oh, non mi riferivo a me! Io sono ancora nel pieno delle mie forze. Eccoci arrivati.”
La prima cosa che colpì Oliver fu il chiacchiericcio dei bambini divisi in piccoli gruppetti. Ognuno di loro indossava un grembiulino a quadretti: bianco e azzurro per i maschi, rosa e bianco per le femmine. Erano tutti in età da scuola elementare e pensò di essere stato fortunato, poiché secondo i suoi calcoli Daichi doveva avere circa nove o dieci anni. C’erano così tanti bambini, non sarebbe stato facile trovare suo fratello.
“Non pensavo ci fosse un numero così elevato di orfani a New Team Town.” Constatò, grattandosi la nuca quasi in imbarazzo: era andato lì per trovare un singolo bambino e ora provava una specie di senso di colpa per non aver pensato a tutti gli altri.
“Purtroppo signor….”
“Hutton, Oliver Hutton.”
“Dicevo, signor Hutton – proseguì la religiosa – il nostro istituto si occupa di un territorio più ampio di quello della sola cittadina. Ora, se non le dispiace, potrebbe giocare con i bambini. Tra poco arriverà qualcuno per le bambine.”
Detto questo, la donna indicò energicamente ai piccoli di spostarsi nella zona a sinistra e li lasciò alle cure dell’architetto, raccomandandosi di comportarsi bene con il loro nuovo amico.
“Se ha bisogno di aiuto sono nell’ufficio in fondo al corridoio, ma non credo che avrà troppi problemi: quando vogliono sanno essere degli angioletti.”
La suora si allontanò e per un secondo Oliver avrebbe giurato di averla sentita fischiettare.
“Che tipo! – pensò – Bene bambini, chiamatemi pure Holly!”
“Ciao Holly!” ripeterono tutti in coro.
L’uomo si guardò intorno in cerca di un’ispirazione per un gioco o un’attività in cui coinvolgerli, finché non vide due grosse scatole trasparenti piene fino all’orlo di mattoncini colorati. Un grande sorriso si dipinse sul suo viso.
“Che ne dite di costruire qualcosa?”
 
 
 
 
“Signora Patty, mi stai ascoltando?”
“Certo, dimmi pure tesoro.”
Patty si impose di prestare attenzione alla piccola Isabel e alle disavventure capitate al vestitino preferito della bambola Camille.
Come tutte le settimane era andata all’orfanotrofio per il suo pomeriggio di volontariato con le bambine. Solitamente era molto concentrata e dedicava tutta sé stessa ad ascoltare le loro storie, le loro preoccupazioni e le loro gioie. Quel giorno invece non riusciva ad essere concentrata come avrebbe voluto, poiché ogni tanto lanciava occhiate trasversali al gruppo dei maschietti ed all’uomo che era intento a giocare con loro. Tra tutti gli abitanti di New Team Town, lui era l’ultima persona che si sarebbe aspettata di trovare lì.
Starsene a giocare con i bambini non corrispondeva esattamente alle informazioni che lei aveva sul conto di Oliver Hutton, il responsabile del più grande disastro avvenuto nella cittadina da almeno cinquant’anni. Le era stato sempre dipinto da tutti come un uomo insensibile al dolore che aveva causato, al punto da non rendersi nemmeno conto che lasciare la città da parte sua sarebbe stato un sollievo per tutti. Invece ora lo vedeva nel salone dell’orfanotrofio, circondato da bambini tutti intenti a costruire un grande grattacielo di mattoncini colorati. E i bambini parevano gradire la sua compagnia, era da un po’ che non li vedeva così entusiasti, perfino i più timidi erano coinvolti nel gioco.
“E quindi la povera Camille è dovuta stare tre giorni senza poter indossare il suo vestitino.” Isabel aveva terminato il suo racconto.
“Spero che tu le abbia dato qualcos’altro con cui vestirsi.” Commentò la moglie del Sindaco.
“Certo! Con questo freddo prendeva il raffreddore. Ma il vestito Rosso è meglio di quello blu.”
“Sono d’accordo con te piccola, ma non sempre possiamo vestirci come più ci piace.”
Depositò un bacio sulla testina bionda della bambina, giusto un attimo prima che Suor Ermengarda, la vice direttrice, arrivasse ad avvisare tutti che mancavano dieci minuti all’ora della preghiera. I bambini, sia maschi che femmine, scattarono tutti come piccoli  soldatini ed in pochissimo tempo rimisero in perfetto ordine la loro sala giochi, salutarono gli ospiti e si accodarono silenziosamente dietro l’anziana suora.
Solo quando i  bambini furono spariti in fondo al corridoio Patty si rese conto di essere rimasta sola con Hutton. Lentamente si alzò e sistemò le pieghe della gonna, mentre il silenzio si faceva imbarazzante, doveva dire qualcosa.
“Buonasera, signor Hutton.” Lo salutò formalmente, educata, ma non confidenziale.
Vide l’uomo irrigidirsi quando si rese conto di essere stato salutato, forse non l’aveva nemmeno notata, impegnato nella sua attività con i bambini.
“Buonasera signora Becker.”
Patty avvertì freddezza nel tono dell’ex architetto e, dopotutto, non poté biasimarlo, sapeva che i rapporti con suo marito erano tesi. Si avvicinò all’attaccapanni per recuperare il cappotto ed andarsene abbastanza in fretta. Il suo dovere l’aveva fatto: era stata educata, aveva salutato, non erano necessarie altre parole.
“Non mi aspettavo di vederla qui.” Le scappò fuori dalle labbra quasi senza che se ne rendesse conto.
L’uomo, non troppo distante da lei, si irrigidì ulteriormente.
L’aveva fatta grossa e ora doveva rimediare:
“Non mi fraintenda – disse voltandosi verso di lui – non sono molte le persone che rinuncerebbero a parte del loro tempo per stare con degli orfani.”
Oliver annuì in maniera meccanica.
Sperando di aver superato l’incidente, Patty infilò il cappotto ed iniziò ad allacciarselo.
“Nemmeno io mi aspettavo di vedere qui la moglie del Sindaco.”
“Faccio solo quello che posso per questi bambini. – sospirò – Lei è molto bravo con loro. Non ho mai visto il piccolo David partecipare con gli altri, di solito è sempre in un angolino tutto solo. È stato molto bravo a coinvolgerlo.”
La donna era stupita da sé stessa: senza volerlo si era trovata ad instaurare una vera e propria conversazione con Oliver Hutton.
“In realtà non ho fatto nulla di particolare.” Anche l’architetto aveva indossato il suo piumino, di colore scuro.
“Si vede che è molto portato per stare con i bambini. L’aveva mai fatto prima?”
Si erano avviati lungo il corridoio che portava all’uscita, continuando a chiacchierare.
“Ecco… io avevo, cioè ho, un fratellino più o meno della stessa età di quei bimbi.”
“Oh, che meraviglia!” Patty unì le mani e le portò vicino alla bocca spalancata: era sinceramente colpita, le sarebbe piaciuto moltissimo avere una sorella o un fratello minore, invece aveva dovuto crescere come figlia unica.
La porta esterna dell’orfanotrofio si aprì e nell’ingresso entrò suo marito.
 
 
 
 
Holly non riusciva a credere di aver incontrato Patty all’orfanotrofio, men che meno si sarebbe immaginato di scambiare qualche chiacchiera e confidenza con lei e mai avrebbe pensato possibile accennargli addirittura qualcosa su Daichi. Tuttavia lei aveva notato l’attaccamento che il piccolo David aveva sviluppato per lui in poco tempo, chissà se quel bambino poteva essere il fratellino perduto.
“Oh, che meraviglia!”
L’espressione di genuini stupore e gioia che erano appena apparsi sul volto della signora Becker lo fecero restare qualche secondo di troppo ad osservarla, proprio nel momento in cui il Sindaco aveva aperto la porta.
“Caro, bene arrivato! Cosa ci fai qui?”
Patty andò incontro al marito e gli diede un affettuoso bacio sulla guancia.
Lo stomaco di Holly si contorse. Per un momento aveva quasi dimenticato la situazione assurda in cui si trovava con Sanae e Taro. Aveva abbassato la guardia solo per un istante, ma la realtà si era violentemente materializzata davanti a lui, con la forza di un tackle del miglior difensore del campionato.
“Volevo farti una sorpresa. Finito?”
“Da poco.”
“Ho l’auto qui fuori.”
“Arrivederci signor Hutton.”
Patty lo salutò con il sorriso e sparì leggiadra oltre la porta cavallerescamente tenuta aperta dal marito. Quest’ultimo si trattenne qualche minuto, fissando l’architetto con sguardo gelido.
“Cosa stava facendo con mia moglie? Spero non la stesse importunando con qualche sua sciocca rimostranza sull’affare del cantiere.”
L’attacco che aveva appena ricevuto era del tutto gratuito. Decise di non starsene zitto, come avrebbe fatto una volta per il quieto vivere di tutti, ma rispose con decisione:
“Ho solo incontrato sua moglie mentre entrambi giocavamo con i bambini. Altre questioni non ci hanno minimamente sfiorato la mente, o forse lei teme che a sua moglie possano arrivare voci su questioni che ha fatto di tutto per tenere nascoste?”
Il Sindaco fece mezzo passo all’indietro.
“Mi sta forse minacciando?”
“Assolutamente no. Mi domandavo solo come mai un uomo che dice di non aver nulla da nascondere su quanto successo al cantiere si preoccupi che nessuno ne parli con la moglie.”
Becker sembrava sul punto di perdere la calma: con un profondo respiro riuscì a recuperare abbastanza contegno per ribattere un’ultima volta:
“Lei ha le traveggole, Hutton. Se ne vada a casa.”
Se ne andò senza nemmeno salutarlo.
Holly aspettò un po’ di tempo prima di uscire, per essere sicuro che Tom fosse salito in auto e si fosse allontanato, non voleva che Patty, che la sua Sanae, assistesse ad una possibile scenata tra loro due.
Avvertiva una leggera punta di rammarico per essersi comportato in maniera così acida con il migliore amico, ma l’accenno alla questione del cantiere l’aveva fatto scattare: ancora gli pareva inconcepibile aver ricevuto una simile pugnalata alle spalle proprio da Tom. Il fatto che Taro non sapesse il loro reale legame poteva essere un attenuante alle sue azioni, ma non le rendeva meno dolorose.
Se non smetteva di pensarci, quella situazione l’avrebbe fatto impazzire.
Uscì dall’edificio chiudendosi la porta alle spalle e prendendo la risoluzione di tornare quanto prima: avrebbe tentato di capire qualcosa sulla storia del piccolo David e forse avrebbe incontrato di nuovo Sanae.
Nonostante tutto, il pensiero lo fece sorridere.




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Mi dispiace molto per il ritardo con cui arriva questo capitolo, ma questo periodo è stato veramente pienissimo di altro ed anche il periodo a venire si prospetta molto intenso.
Spero di poter riprendere ad aggiornare regolarmente, se non tutte le settimane, almeno una volta ogni 15 giorni.

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Capitolo 23
*** XXII ***


Philip stava spazzando davanti alla porta della sua gelateria, ci teneva che tutto fosse in ordine e a fare bella figura con i clienti, qualunque cosa ne dicesse Lenders. Lanciò uno sguardo obliquo verso l’edicola, ma il suo proprietario non si intravedeva: probabilmente era rintanato al caldo della sua stufetta portatile.
Callaghan afferrò lo zerbino e lo sbatté con energia, per poi riposizionarlo al suo posto, pronto per accogliere chiunque fosse entrato nel suo locale.
“Buongiorno.”
Il gelataio alzò gli occhi e si trovò davanti una delle cose più meravigliose che avesse mai visto: una donna molto graziosa, con lunghi capelli neri raccolti in una treccia lo stava salutando.
Subito si rizzò in piedi e velocemente cerò di pulirsi le mani nel grembiule.
“Buongiorno. Cosa posso fare per lei?”
La donna parve esitare per un istante.
“Potrei avere una delle sue cioccolate calde?”
“Ma certo! Prego, si accomodi.”
Philip aprì  la porta per farle strada, ma la sconosciuta scosse la testa.
“No, davvero. Vorrei solo una cioccolata d’asporto. La aspetterò qui fuori.”
“Ne è sicura?”
Al cenno di assenso della donna Philip non poté far altro che rientrare e mettersi al lavoro per poter essere il più svelto possibile. Si liberò del grembiule che usava per le pulizie, gettandolo in un angolo del magazzino e si mise al lavoro.
Cercò di non pensare troppo al fatto che la sua cliente non avesse voluto entrare, forse perché non c’era nessun altro all’interno, ma il locale aveva delle ampie vetrate per cui l’ambiente era perfettamente visibile dalla strada. Alzando lo sguardo verso il marciapiede la vide portare le mani vicino alla bocca e tentare di scaldarle con il calore del fiato. Doveva aver dimenticato i guanti, motivo in più per volersi rintanare al caldo invece di aspettare in strada.
Afferrò un bicchiere di carta, lo riempì e lo chiuse con il pratico coperchio per le consumazioni veloci durante le passeggiate.
“Ecco a lei!”
Annunciò uscendo e porgendole la cioccolata ancora fumante.
“La ringrazio davvero.”
“Sono quattro dollari.”
“Oh, certo.”
La donna estrasse dalla tasca del cappotto una banconota da cinque dollari.
“Tenga pure il resto, per avermi portato il bicchiere qua fuori.”
Philip non sapeva cosa dire, non gli sembrava giusto tenere un dollaro in più su una consumazione così piccola, dall’altra parte non voleva essere scortese e rifiutare il gentile pensiero della cliente.
Improvvisamente la vide irrigidirsi e per istinto si girò verso la direzione in cui era puntato il suo sguardo: Jack Morris, il proprietario del Fiore del Nord, stava arrivando alla carica come un bisonte inferocito.
“Tu! Che diamine stai facendo con la mia fidanzata?” Lo apostrofò puntandogli contro un dito.
Il gelataio rimase sbalordito, ma la parlantina non gli mancava.
“Nulla signor Morris, le ho solo dato una cioccolata calda, come desiderava.”
Morris era arrivato davanti a loro e si era fermato. Philip era sicuro che potesse vedere il bicchiere che la fidanzata teneva in mano.
“E perché mai Jenny sarebbe dovuta venire da lei?”
“Jack, ti prego, calmati.” La donna stava supplicando e Callaghan si sentì terribilmente a disagio.
“Forse perché è lontana dal suo locale ed aveva bisogno di qualcosa di caldo.”
Morris non diede segni di volersi calmare, anzi, sembrava che la sua furia stesse montando sempre di più.
“Senti che lingua, Callaghan. Stai cercando forse guai?”
“Come prego?”
Lo scatto violento della finestra dell’edicola fece voltare tutti giusto in tempo per vedere Mark Lenders affacciarsi con fare minaccioso.
“Morris, la smetta di starnazzare come un’oca. La sua fidanzata è venuta a prendere qualcosa ed è stata servita. È così che funziona.”
Philip dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non spalancare la mascella e farla cadere fino a terra dallo stupore: da quando l’edicolante si muoveva in sua difesa?
Jack Morris fece scorrere lo sguardo da uno all’altro uomo, probabilmente non si aspettava di essere messo in minoranza.
“Voi due sentirete parlare di me molto presto! – sibilò – Andiamo via!”
Senza attendere altro afferrò Jenny per un braccio e la trascinò via con sé verso il quartiere del Fiore del Nord.
“Sai una cosa? – Philip sobbalzò nel ritrovarsi Lenders alle spalle, uscito dall’edicola – Cominciò a credere che quel giornalista che ha avuto a che dire con Morris non avesse tutti i torti.”
Callaghan annuì.
“Ho sentito della vicenda. Voci dicevano che si fosse intromesso tra Morris e la fidanzata. A proposito, grazie dell’aiuto.”
Tese la sua mano verso l’edicolante. Questi la guardò dall’alto in basso, con supponenza.
“Non l’ho fatto per te, l’ho fatto per la ragazza.”
“E ti pareva. È stato bello non litigare per cinque minuti, almeno per una volta.” Ribatté secco Philip, tornando verso il suo locale.
Per una volta  che lui e l’edicolante parevano sulla stessa lunghezza d’onda sarebbe stato un peccato sprecare così la situazione. Doveva fare qualcosa, il massimo che poteva capitare era che Lenders lo snobbasse o gli rispondesse male, come sempre del resto.
“Vuoi qualcosa di caldo?”
 
 
 
 
 
 
Padre Ross si muoveva rapido per le vie del quartiere latino americano, reggendo un ombrello nero. Cadeva una leggera pioggia invernale, abbastanza insistente e fastidiosa.
Aveva lasciato un po’ di tempo al sindaco e a Santana per risolvere la situazione della condotta del personale del Cyborg, ma da quello che gli veniva raccontato non c’erano stati significativi cambiamenti, così aveva deciso di recarsi di persona a parlare con le ballerine. Ovviamente non poteva entrare nel locale di sera e quindi si stava recando lì il pomeriggio in uno dei giorni in cui sapeva che le ragazze provavano i vecchi numeri musicali e lavoravano a eventuali nuove coreografie.
L’ingresso principale era chiuso, per cui si recò nel vicolo sul retro da cui aveva visto ancora uscire i dipendenti. Vicino alla porta era accumulata una grande quantità di mozziconi di sigarette, lasciate dai baristi o dalle stesse ballerine che si prendevano una pausa e una boccata d’aria durante la serata. Era schifato, non solo all’interno del locale si incentivavano i vizi, ma pure all’esterno la situazione non era differente.
La porta si aprì senza troppa resistenza ed il reverendo entrò senza aspettare di essere invitato o che qualcuno gli venisse incontro. Non aveva intenzione di farsi mandare via prima ancora di essere riuscito a proferire una parola. Lasciò l’ombrello accanto all’entrata e proseguì lungo il corridoio. Oltre una porta lasciata socchiusa intravide quello che doveva essere uno dei camerini con alcuni borsoni appoggiati per terra.
Quando arrivò alla pista da ballo, dovette ammettere che il salone, senza le luci colorate che impazzavano e la musica ad alto volume non era poi così male, in fondo era arredato anche con un certo gusto. Peccato per come veniva gestito ed utilizzato lo spazio.
Il suo sguardo di disapprovazione si appoggiò per un lungo istante oltre il bancone dell’angolo bar, sulle bottiglie di alcolici schierate in bella mostra per invogliare i clienti a consumare. Al momento non c’era nessuno e, fosse stato per lui, sarebbe sempre dovuto essere così.
Si voltò verso il palco, le ballerine erano impegnate in un sollevamento: quattro di loro stavano reggendo la ragazza dai capelli rossi che  aveva soccorso qualche tempo prima. Successe qualcosa, il reverendo non seppe dire cosa esattamente, se una distrazione o un semplice incidente, ma la presa di una delle ballerine cedette e l’intera figura venne rovinata e trasformata in un groviglio di corpi uno sopra l’altro.
“Dannazione, Becky! Volevi ammazzarmi?” La ragazza che era in aria si sollevò di scatto ed inveì contro una delle compagnie.
“Mi sei scivolata!” Urlò di rimando l’interpellata.
“Come no!”
“Vorresti dire che l’avrei fatto apposta?”
“Non sarebbe la prima volta che tenti di sabotarmi.”
Il battibecco tra le due ballerine stava raggiungendo rapidamente toni sempre più accesi. Padre Ross fece qualche passo in avanti per farsi notare, sperando che la sua presenza calmasse gli animi.
Una terza ballerina si introdusse nella conversazione:
“Ragazze, non gridate. Francisco è in ufficio, sapete che non apprezza che lo disturbiamo.”
La ballerina dai capelli rossi alzò entrambe le mani in segno di resa, sbuffando però sonoramente ed afferrando piuttosto nervosa una borraccia trasparente.
“Cinque  minuti di pausa.” Annunciò.
Padre Ross decise che quella era l’occasione che stava aspettando per presentarsi alle ragazze. Le osservò per un ultimo istante: erano tutte molto belle anche senza il trucco eccessivo che portavano quando il locale era aperto al pubblico, del resto il loro lavoro consisteva nell’offrire qualcosa di bello a chi le  guardava.
“Buon pomeriggio.” Si annunciò, dopo aver attraversato con rapide falcate tutta la pista da ballo ed essersi portato in prossimità del palco.
La ballerina che aveva sedato la lite si rivolse a lui:
“Siamo chiusi, torni questa sera. Oh – lo stupore si dipinse sui suoi occhi non appena riconobbe il suo interlocutore – Padre Ross, cosa ci fa da queste parti?”
Al reverendo non sfuggì il piccolo scatto della testa della ragazza che aveva accompagnato a casa non appena era stato pronunciato il suo nome.
“Volevo parlare un po’ con voi della vostra attività, del fatto che fare le ballerine in una discoteca non può essere la vostra prospettiva per la vita. E anche di come vi comportate quando lavorate.”
Becky si  avvicinò a lui con sguardo di sfida.
“In altre parole è venuto a farci la predica. Io passo volentieri, vado a fumarmi una sigaretta.”
Lo superò senza nemmeno salutarlo.
“Vengo con te!”
Una ragazza mingherlina dai folti capelli ricci si alzò e seguì di corsa la compagna appena uscita.
Padre Ross sapeva fin dall’inizio che non sarebbe stato facile farsi ascoltare e convincere qualcuna di quelle ragazze a cambiare vita, a darsi una possibilità, ma non si aspettava che non lo lasciassero nemmeno parlare.
“Senza offesa, padre. – A rivolgersi a lui era la ballerina che per prima aveva risposto al suo saluto – Noi ci troviamo bene col nostro lavoro, è qualcosa che ci piace. Forse non corrisponderà ai suoi canoni, ma, almeno per me, preferisco fare qualcosa che mi piace che un lavoro che finirei per detestare, anche se più prestigioso e remunerativo.”
Il reverendo annuì, capiva il discorso ed anche lui credeva fermamente nel fatto che bisognasse assecondare le proprie passioni personali, ma non al punto di rovinarsi.
“Comprendo il suo punto di vista, ma potete fare questo lavoro senza per forza incorrere in comportamenti viziosi, come il fumo, l’alcol, le droghe…” O i rapporti sessuali occasionali, ma questo lo pensò soltanto, non voleva tirare  troppo la corda.
Una ragazza dalla pelle scura scoppiò a ridere:
“Suvvia padre, com’è puritano! Nessuno si è mai fatto male per un paio di bicchierini.”
“Nelle serate più lunghe ci danno la carica.”
Padre Ross si rese conto di trovarsi contro un muro invalicabile.
“Vi chiedo solo di riflettere su quello che vi ho detto. Le porte della mia parrocchia sono sempre aperte per chiunque voglia confidarsi.”
Aveva notato che la ballerina dai capelli rossi era andata in un angolo del palco, seduta con le gambe a penzoloni, separata dal resto del gruppo. Non era intervenuta nella sua discussione con le compagne, né dava segno di voler scambiare quattro chiacchiere con loro. Era isolata dalle altre.
Si avvicinò a lei per poterle parlare direttamente e con più tranquillità, dopotutto era soprattutto per lei se aveva deciso di intraprendere il tentativo di redenzione dei dipendenti della discoteca.
“Signorina.”
La salutò inclinando leggermente il capo.
La donna abbassò di colpo gli occhi che fino a quel momento aveva tenuto incollati su di lui. Aveva percepito il suo sguardo anche quando si era trovato a darle le spalle.
“Sta meglio, oggi?”
“Sì, grazie.”
La sua risposta era un pigolio appena percepibile.
“L’altra sera non ci siamo presentati a dovere, qual è il suo nome?”
“Amy.”
La ballerina continuava a tenere lo sguardo basso, sembrava attratta dal parquet lucido della pista che si snodava sotto i suoi piedi.
“Posso sedermi vicino a lei?”
La sua interlocutrice non si mosse. Dopo qualche istante il reverendo smise di attendere e si sedette al suo fianco.
“Amy – esordì – lei non mi sembra felice qui. Dovrebbe smettere di bere, sono certo che quando l’ho soccorsa non era la prima volta che si ubriacava. Non le fa bene. Si lasci aiutare a cambiare vita. Fuori ci sono un sacco di opportunità.”
La vide stringere convulsamente una mano attorno alla borraccia che ancora reggeva.
“Lei non sa niente, padre Ross.”
Lo disse con decisione, il piglio da uccellino spaventato di poco prima era stato spazzato via.
Padre Ross non aveva intenzione di gettare la spugna.
“Io la posso aiutare. Deve solo raccontarmi qual è il problema.”
“Non c’è nessun problema. Se ne vada!” Ora la donna era decisamente stizzita, segno che aveva toccato un qualche suo nervo scoperto. Doveva approfittarne.
“Amy!”
La voce secca di Francisco Santana fece sussultare la ballerina.
“Devo parlarti in ufficio, adesso.”
Amy si alzò e proseguì verso il corridoio, dove il reverendo la vide sparire sulla destra.
“Padre Ross. A cosa devo l’onore della sua visita?”
La voce del proprietario del Cyborg era carica di ironia e il suo sguardo gonfio di odio.
Padre Ross si alzò e si strinse nelle spalle.
“Niente di particolare, solo fare quattro chiacchiere con le ragazze. In fondo sono anche loro mie parrocchiane. Mi stavo assicurando che stessero tutte bene.”
“Mi ha forse preso per uno schiavista? Come vede le ballerine sono tutte in perfetta salute. Se non le dispiace il locale è chiuso. Immagino conosca la strada.”
“La conosco. Buona giornata.”
Il reverendo recuperò l’ombrello ed uscì sotto la pioggia, che si era fatta più intensa. Le due ballerine che erano uscite prima erano ancora all’esterno, intente ad accendersi  un’altra sigaretta.
L’arrivo di Santana aveva rovinato i suoi progetti, anche se ora gli era chiaro che in quel locale avvenissero più cose riprovevoli di quante avesse immaginato, il sussulto di Amy era stato troppo forte, era come se fosse spaventata dal suo capo. Doveva vederci chiaro.
 
 
 
 
 
 
Per una volta Amy si ritrovò ad essere grata a Francisco: con il suo arrivo l’aveva aiutata a svicolare le domande insistenti di Padre Ross. Sapeva che l’uomo agiva in buona fede, convinto di aiutarla, ma nessuno poteva toglierla dalla situazione in cui era finita.
Dall’altra parte il fatto che il capo l’avesse convocata nel suo ufficio, con fare così brusco e nel mezzo del pomeriggio, non prometteva nulla di buono.
L’attesa del suo arrivo era costellata da incertezze e domande: temeva nuove richieste da parte dell’occupante della villa sulla collina. Tutti a New Team Town la credevano disabitata, invece lassù venivano tirati tutti i fili delle attività illecite della cittadina. Non aveva osato chiedere nulla in più a Santana, durante il tragitto di ritorno nel giorno in cui era stata portata lassù, ma era chiaro che chi si riuniva lì conduceva affari loschi.
“Che voleva da te quell’impiccione di Padre Ross?”
La voce irritata di Francisco la raggiunse alle spalle, la visita del reverendo doveva avergli dato parecchio fastidio.
“Niente di che. – rispose alzando le spalle – Le solite cose che predica in chiesa.”
Santana la superò e si appoggiò col fondo schiena al bordo della propria scrivania.
“Sicura? Non ti sarai lasciata sfuggire altro?”
La ballerina incrociò le braccia, assottigliando lo sguardo con aria di sfida:
“Mi prendi per una stupida?”
“Ti prendo per una alla ricerca di una via di fuga e magari il caro reverendo potrebbe esserti sembrato un ottimo alleato.”
“Conosco il prezzo della disobbedienza!”
Istintivamente portò una mano al petto. A volte le sembrava ancora di sentire la morsa di dolore che aveva provato quel giorno.
“Ne sono lieto. Chiudi la porta.” Aggiunse poi il proprietario del Cyborg.
Amy non se lo fece ripetere ed andò a chiudere, dando prima un’occhiata in corridoio. Nessuno era in vista e tutti i dipendenti sapevano che se trovavano la porta chiusa dovevano bussare prima di entrare.
Per dissimulare il nervosismo, diede una sistemata alla coda, poi si voltò.
Stranamente Francisco non approfittò della situazione per farle delle avances, anzi, pareva turbato ed Amy iniziò a sospettare che si trattasse di qualcosa di più complesso della semplice, per quanto indesiderata, visita di Padre Ross.
“Cosa succede?” Chiese, non riuscendo a trattenersi.
Santana le piantò addosso uno sguardo glaciale.
“Lui non è contento.”
La donna avvertì un brivido in tutto il corpo.
“Io, sto facendo quello che lui ha chiesto! Gli ho riferito tutto quello che ho saputo su Kitty.”
“Beh, per lui non è abbastanza! A quanto pare Oliver Hutton è andato a ficcare il naso all’orfanotrofio, su suggerimento di Kitty, immagino.”
Amy lasciò andare un sospiro esasperato, non capiva che problemi ci fossero dietro una cosa del genere.
“E di grazia, cosa ci sarebbe di male nell’andare a trovare dei bambini orfani?”
Francisco non trovò di meglio da replicare che battere un pugno contro la scrivania.
“E io che ne so! Lui non ci dice tutto.”
La ballerina strinse le labbra, iniziando a pensare che anche Francisco alla fine fosse una pedina nel gioco a cui entrambi erano costretti a partecipare. Una pedina posta piuttosto in alto nella gerarchia, di quelle che traevano anche ricavi nell’essere invischiati con l’uomo alla villa, ma questo non lo avrebbe messo al riparo da punizioni e problemi se non si fosse attenuto agli ordini che riceveva. Che situazione da pazzi!
Nel frattempo, il proprietario del Cyborg si era diretto verso la parete a sinistra ed aveva rimosso il quadro che nascondeva la cassaforte. Da questa estrasse una pistola tascabile di colore nero.
Amy sussultò alla vista dell’oggetto.
“È una semiautomatica. Sei in grado di usarla?”
Per la sorpresa, la donna fece un passo  indietro.
“Cosa ci dovrei fare con quella?” Gridò.
“Zitta, sciocca! Le pareti non sono insonorizzate. -  Santana si guardò attorno come se si aspettasse l’irruzione di una pattuglia di poliziotti da un momento all’altro – Dovrai usarla con Kitty.”
Amy scosse violentemente la testa, in preda al panico:
“No, non posso! Datemi altro tempo, posso scoprire cosa trama Kitty, posso convincerla a lasciar perdere. Non chiedermi di ucciderla.”
Francisco attraversò la stanza e si pose a pochi centimetri da lei.
“Non te lo sto chiedendo io, te lo sta ordinando lui. Farai bene ad obbedirgli o non si farà problemi ad eliminare anche te.”
Con forza le cacciò l’arma tra le mani, mentre le lacrime cominciarono a rigarle copiosamente le guance.
“Tu occupati di Kitty, io mi occuperò di Padre Ross.”




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E ci siamo anche con questo capitolo.
Se nel caso di Philip e Mark sembra essere avvenuto un piccolo avvicinamento, sul versante Amy le cose stanno prendendo decisamente una brutta piega.

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Capitolo 24
*** XXIII ***


Mentre faceva un po’ d’ordine nella cantina di padre Ross, aveva trovato quel vecchio pallone per caso, abbandonato tra le vecchie cose del gruppo sportivo giovanile che un tempo frequentava la parrocchia. Quel gruppo era una sorta di creatura leggendaria: tutti nella cittadina ne avevano sentito parlare, in pochi ricordavano di averlo visto in azione e quasi nessuno sapeva dire chi effettivamente fossero i suoi membri e da quanto tempo fosse stato sciolto.
Colpito da un’ispirazione improvvisa, quando si era trovato tra le mani il pallone, Holly l’aveva preso con sé ed aveva cercato di renderlo utilizzabile. L’aveva pulito con cura con un panno bagnato e l’aveva gonfiato. Come risultato aveva ottenuto un vecchio pallone a scacchi bianco e nero, privo di sponsor e loghi moderni, non perfettamente sferico. Il tempo probabilmente aveva allentato il cuoio e le cuciture, tuttavia per fare quattro tiri in solitaria era più che sufficiente.
Aveva imboccato la via che conduceva al vecchio campo da calcio, anch’esso abbandonato da tempo, tenendo il pallone sotto braccio. Aveva bisogno di riflettere in tranquillità e sfogare l’insoddisfazione degli ultimi giorni in cui gli sembrava di non aver fatto nessun passo in avanti, né nel recuperare parti ulteriori di memoria, né nel trovare un modo per far in modo che la verità sul cantiere potesse venire alla luce. L’unica nota positiva erano i momenti che trascorreva con i bambini dell’orfanotrofio ed in particolare col piccolo David. Il timido bambino diventava sempre più intraprendente con lui ogni giorno che passava, regalandogli attimi di spensieratezza. A volte credeva potesse trattarsi del suo fratellino, altre volte il dubbio di starsi affezionando ad un perfetto estraneo che avrebbe potuto essergli strappato da un momento all’altro gli faceva domandarsi se fosse il caso di passare così tanto tempo con lui.
Poi c’era Sanae.
O, meglio, la signora Becker. La moglie del sindaco era una presenza costante ed assidua all’orfanotrofio, per cui spesso si ritrovavano a scambiare quattro parole al momento di lasciare l’edificio. Non avevano mai apertamente toccato argomenti politici, si limitavano a salutarsi cortesemente ed a considerazioni di carattere generale. Lei non si mostrava più ostile come al loro primo incontro, anzi, pareva  disposta a dargli quella possibilità che molti gli avevano negato per anni.
Se da una parte apprezzava quei piccoli e fugaci scambi e la vicinanza con la donna, dall’altra, ogni volta che rientrava a casa c’era una ferita che sanguinava copiosamente dentro di lui. Non poteva negare a sé stesso di provare ancora dei sentimenti per la moglie perduta e, nonostante avesse promesso di reprimere e dimenticare tutto per la felicità di Sanae e Taro, sentiva l’amore riaccendersi ogni volta.
Aveva pensato di chiedere alle suore se esistesse un orario in cui poteva stare con i bambini senza incrociare la signora Becker, ma aveva il sospetto che sarebbe stata una richiesta inutile.
Perso nei propri pensieri era finalmente arrivato al vecchio campo da calcio.
Non si era nemmeno accorto che nell’ultima parte del tragitto aveva lasciato cadere il pallone e l’aveva portato avanti con delicati tocchi dei piedi.
Si fermò al bordo del rettangolo di gioco, osservandone la superficie: le linee di gesso bianco che delimitavano i contorni delle varie zone erano ormai sparite da molto tempo, le erbacce crescevano incolte ed una delle porte era rimasta senza reti, mentre in quella alla sua sinistra penzolava sconsolato un intrico di fili che aveva visto tempi migliori.
Decise di dirigersi da quella parte e di iniziare con qualche movimento, prima di tentare un tiro in porta.
La sensazione della corsa col pallone tra i piedi gli procurò una scarica di adrenalina come non gli succedeva da molto e la consapevolezza di aver ritrovato un vecchio amico perso da tanto tempo. Tra un dribbling e l’altro delle zolle di terra Tsubasa Ozora tornava alla luce e si toglieva di dosso la polvere.
Dopo aver realizzato dei tiri abbastanza semplici, decise di concentrarsi su qualcosa di più complesso, su qualcuno dei tiri speciali che aveva visto nelle immagini del libro di Kitty e che galleggiavano nella sua memoria avvolti da una coltre di nebbia. Sperava che impegnarsi nella loro realizzazione li avrebbe fatti a poco a poco riemergere.
Provò per molto tempo il tiro ad effetto, ma il pallone schizzava sempre alto sopra la traversa e lo costringeva a lunghe corse per recuperarlo. Oppure con la rovesciata e ogni volta finiva con la schiena per terra ed una botta che era certo il giorno seguente gli avrebbe ricordato la sua testardaggine. Eppure non voleva smettere finché non fosse riuscito a realizzare almeno uno dei suoi tiri speciali.
Ad un certo punto si accorse che qualcuno lo osservava.
 
 
 
 
 
Patty era uscita per un paio di commissioni ed aveva deciso di approfittare della giornata non troppo fredda per fare una passeggiata. Non amava uscire con l’automobile, preferiva muoversi a piedi, quando il tempo glielo permetteva.
Non sapeva bene perché o cosa l’avesse ispirata quel pomeriggio, ma aveva deciso di fare un percorso strano, diverso dal suo abituale, costeggiando i quartieri popolari e passando accanto al vecchio campo da calcio. Quanto le sarebbe piaciuto vedere quel posto nuovamente in ordine! Sarebbe stato un buon punto di ritrovo per i ragazzi della città: non pretendeva che si formasse una squadra ufficiale che partecipasse ai campionati locali, si rendeva conto che fosse un progetto ambizioso, ma vedere il campo abbandonato ed in decadenza le stringeva il cuore. Non sarebbe stato meglio l’allegro vociare di bambini e ragazzi impegnati a correre dietro a un pallone, piuttosto che un campo silenzioso pieno solo di erbacce? Aveva accennato una volta il discorso con Tom, ma il sindaco aveva liquidato la faccenda sostenendo che al momento c’erano esigenze più importanti nella cittadina che occuparsi di un vecchio prato.
Sospirò al ricordo di quella avvilente conversazione: il suo Tom, il vecchio Tom, quello di cui si era innamorata, avrebbe capito ed avrebbe trovato un modo per far quadrare i bilanci e sistemare il campo.
Un rumore diverso ed inaspettato catturò la sua attenzione, portandola a concentrarsi sul prato da calcio alla sua destra: c’era una persona che stava giocando o che per lo meno ci stava provando, con risultati non molto brillanti, per quello che ne capiva lei. Osservandolo attentamente vide che si trattava di Oliver Hutton.
L’architetto lanciava il pallone in direzione della porta, ma invece di segnare un gol, continuava a colpire uno dei pali o la traversa e cercava di prendere al volo il rimbalzo, ma irrimediabilmente si ritrovava a cadere sul terreno duro. Non capiva dove volesse arrivare, tuttavia Patty ammirava la sua tenacia, non pareva essere disposto ad arrendersi, nonostante i lividi che si sarebbe ritrovato addosso l’indomani.
L’uomo smise di calciare il pallone e si voltò verso di lei.
Per una frazione di secondo si sentì come una bambina colta con le mani nel vasetto della marmellata, ma subito si riscosse, in fondo non stava facendo nulla di male. Alzò una mano in segno di saluto, che venne prontamente ricambiato dall’uomo.
Stava per voltarsi e proseguire la sua strada, verso  casa, invece Oliver Hutton la raggiunse.
“Buonasera, signora Becker.”
“Buonasera, signor Hutton – rispose con cortesia – Non volevo interromperla e distoglierla dalla sua occupazione.”
L’architetto scosse la testa e le sorrise gentilmente.
“Non si preoccupi, non era nulla di importante. A dirla tutta, non stava andando neanche così bene.” Si portò una mano dietro la nuca.
“Guardi, io non saprei nemmeno da che parte cominciare con un pallone, anche se non mi dispiacerebbe che questo posto venisse rimesso a nuovo ed utilizzato.”
Nel dire questo i suoi occhi si velarono di tristezza.
“Sono sicuro che il Sindaco avrà dei progetti in merito.”
Patty rimase colpita da quell’uscita di Hutton: sapeva che tra il marito e l’architetto non scorresse buon sangue, perciò si stupì nel vederlo quasi prendere le sue difese.
“Il Sindaco non pare interessato.” Nella sua risposta non riuscì a nascondere l’amarezza che provava.
Vide l’uomo abbassare lo sguardo, probabilmente pensava di aver fatto una gaffe con lei, così si affrettò a rimediare.
“Sono stata all’orfanotrofio anche oggi. I bambini mi hanno chiesto di lei, le si stanno molto affezionando.”
Oliver recuperò il sorriso:
“Mi fa piacere. Ho sempre trovato divertente costruire e manipolare i materiali e pare che anche loro lo apprezzino.”
La donna annuì.
“Oh, sì. Sono dei piccoli artisti in erba. – il suo sguardo cadde sul pallone che l’uomo aveva continuato a passarsi tra un piede e l’altro durante il loro dialogo – Qualche volta però dovrebbe provare a farli giocare a calcio.”
“Non credo di essere un bravo maestro!”
“L’importante è farli divertire, non trova?”
L’uomo annuì in risposta, perdendosi poi in riflessioni. All’improvviso il suo volto si illuminò:
“Forse ho un’idea per il campo!” Esclamò.
La moglie del sindaco ebbe un brivido:
“Dice davvero?”
“Potremmo trovare qualcuno che ci aiuti a rimettere un po’ d’ordine per poterci portare i bambini dell’orfanotrofio a giocare. Basterebbe un buon giardiniere, giusto per togliere le erbacce.”
Patty batté le mani emozionata, non riusciva a credere che la soluzione fosse così a portata di mano.
“È un’idea geniale! Se diciamo che è per l’orfanotrofio, magari la ditta di giardinaggio ci farà un buon prezzo.”
“Potremmo anche coinvolgere Padre Ross: di sicuro convincerà qualche volontario della parrocchia.”
Patty si sarebbe messa a saltare per la gioia ed avrebbe volentieri abbracciato l’architetto, ma si trattenne all’ultimo.
“Io devo correre a casa e preparare un progetto come si deve! Così riusciremo a salvare il campo e a farlo rinascere! La ringrazio infinitamente!”
Si voltò e partì con passo svelto, ma Hutton la trattenne nuovamente.
“Aspetti, si sta facendo buio. È sicura di voler rientrare da sola?”
La donna sorrise per quella premura.
“È molto gentile da parte sua, però non si preoccupi: è solo il tramonto ed sono sicura di arrivare alla villa con ancora abbastanza luce. Conosco bene la cittadina e il tragitto. Nei prossimi giorni la contatterò di sicuro! Arrivederci, signor Hutton!”
“Arrivederci, signora Becker!”
Patty quasi correva sulla via verso casa, era parecchio che non si sentiva così leggera. Aveva finalmente trovato un modo per sistemare il vecchio campo e se tutto fosse andato per il verso giusto, non avrebbe dovuto chiedere un centesimo alle casse comunali e Tom non avrebbe avuto nulla da ridire quella volta. Era felice. Aveva un nuovo progetto da portare avanti e non sarebbe stata sola: era sicura che Oliver Hutton l’avrebbe affiancata.
 
 
 
 
 
Amy uscì dal retro del Cyborg con il borsone sulla spalla destra, mentre il contenuto della tasca del cappotto le premeva contro il fianco, costante promemoria di ciò che doveva essere fatto.
Era il giorno di chiusura per il locale, così aveva dato appuntamento a Kitty al termine delle prove. Anche se non era particolarmente tardi, era già buio da un pezzo e questo l’avrebbe aiutata.
Dal petto le uscì un profondo sospiro e una nuvoletta di condensa bianca si formò davanti alla sua bocca.
Aveva un piano, sperava che tutto andasse liscio e si svolgesse in fretta.
“Amy!” Avvertì l’urgenza della voce che la chiamava in fondo al vicolo, verso la zona più appartata, dove la strada si fermava contro un muro.
“È tanto che aspetti?” Domandò con premura.
Kitty avanzò dall’ombra, entrando nel cono di luce di un lampione.
“Solo pochi minuti. Ti ho sentita agitata al telefono, di cosa volevi parlarmi?”
La ballerina si guardò la punta delle scarpe ed infilò una delle mani in tasca.
“Cosa ti trattiene qui a New Team Town? Tu non sei di qui.”
Kitty sbatté le palpebre un paio di volte.
“Cosa, scusa?”
“Perché non lasci la città? – insisté Amy – Staresti molto meglio da un’altra parte.”
L’amica la guardava come se non capisse cosa le stava dicendo, eppure non era un concetto complicato.
“Che ti prende Amy? Ti è successo qualcosa di brutto?”
“Kitty, per favore – la supplicò – vattene da New Team Town, trovati un altro posto. È per il tuo bene!”
“Non posso, ho delle cose da fare qui. Cose importanti.”
“Puoi farle altrove le tue cose! Per favore!” Il groppo che sentiva in gola stava crescendo e gli occhi cominciavano a pizzicarle.
Kitty scosse la testa in segno di diniego.
Amy si vide costretta a fare ciò che aveva tentato di evitare con tutta sé stessa. Strinse la mano contro il calcio della pistola e la estrasse dalla tasca, puntandola contro Kitty.
L’altra spalancò gli occhi per lo stupore.
“Amy, metti via quell’affare!”
“Solo se tu te ne andrai dalla città!”
Il braccio che reggeva l’arma le tremava vistosamente e le lacrime scendevano copiose sulle sue guance.
“Non scherzare…”
“Non sto scherzando! Non obbligarmi a farlo.”
“Questa non sei tu! – la disperazione si era impadronita anche della voce di Kitty – Yayoi, per favore, svegliati dall’incantesimo. Tu sei più forte di questo, io lo so.”
“Cosa stai blaterando? Chi è Yayoi? Ti supplico Kitty, dimmi che te ne andrai.”
“Non posso farlo. Sto cercando di salvarci tutti.”
Gli occhi di Amy si stavano offuscando sempre più e la mira sulla figura di Kitty si faceva sempre più instabile, ma aveva capito di non aver altra scelta: la vita dell’amica per la sua. Non era così forte da poter sfuggire a quel gioco perverso.
“Yayoi, ti prego.”
“Mi dispiace.”
Nel momento in cui fece partire il colpo chiuse gli occhi.
Il fragore si sparse nel vicolo.
Le ginocchia le cedettero e cadde a terra piangendo e singhiozzando.
Dopo qualche istante, richiamata dal rumore, una mano le si appoggiò sulla spalla, stringendola forte.
“L’hai fatto?” La voce di Santana era fredda e dura.
Amy annuì.
Francisco avanzò nel vicolo,fino al punto in cui c’era Kitty prima che la ballerina le sparasse.
“Qui non c’è nessuno!” Esclamò.
“Io le ho sparato!”
“Sicura di non averla mancata?”
“Me  ne sarei accorta se fosse scappata da questa parte! Ti dico che le ho sparato!”
L’uomo le ritornò accanto e le  mostrò il proiettile completamente integro che aveva trovato sotto al lampione.
“C’era solo questo, là in fondo.”
“Non è possibile! – urlò Amy, mentre il terrore prendeva il posto della disperazione – Lui mi ucciderà adesso?”
“Posso provare a prendere tempo.”
L’affermazione stupì la donna, ma non la tranquillizzò.
 
 
 
 
 
Jason aveva perso la nozione del tempo ed il conto dei giorni nella cella in cui il suo misterioso carceriere lo teneva rinchiuso. A volte gli sembrava fossero passati mesi dall’ultima volta che aveva preso una boccata d’aria, altre vedeva i lividi sulle sue gambe e braccia ancora in via di guarigione e si rendeva conto che non poteva essere passato così tanto.
La sua compagna non era certo d’aiuto in questo, dato che passava la maggior parte del suo tempo addormentata o svenuta. Aveva anche sospettato che venisse drogata in qualche modo, quando le portavano i pasti. Ma allora perché tenerli separati con una parete trasparente? Perché non sedare entrambi se il rapitore non voleva che si rivolgessero la parola?
Improvvisamente, nonostante la poca luce del posto, la vide scattare a sedersi con un movimento brusco, come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Aveva il fiatone ed aveva portato entrambe le mani al petto, poco sotto la spalla destra.
“C’è… mancato… poco… - ansimava – davvero… poco…”
“A cosa è mancato poco?”
La donna si voltò verso di lui, continuando a cercare di prendere più aria possibile nei polmoni.
“Atsushi…”
Un moto di rabbia lo  avvolse, identico ad ogni volta che sentiva pronunciare quel nome.
“Basta chiamarmi a quella maniera assurda! Cosa ti è successo?”
“Il bastardo… ha scoperto…”
“Cosa ha scoperto?”
“Kitty.”
Con una mano si massaggiava sotto la spalla, mentre aveva portato l’altra alla fronte.
“Tu conosci Kitty? Che c’entra lei in questa storia?”
Jason non capiva più nulla, ogni nuova informazione che riceveva non faceva altro che ingarbugliare la matassa dei quesiti irrisolti.
“Non credo di perdere sangue, per fortuna.”
L’affermazione della donna non aveva senso. Jason si passò una mano nei capelli sempre più convinto di essere finito in balia di pazzi e maledicendosi per l’ennesima volta di non aver dato retta al suo primo istinto quando aveva incontrato Kitty a New York.
“Stavamo parlando di Kitty. Che le è successo?”
“Lui ha fatto in modo che tentassero di ucciderci!”




_______________________________
Prima o poi un pallone doveva finire tra i piedi di Holly, non credete? XD Ed è proprio il pallone a fornire a Holly e Patty una scusa per potersi frequentare ed un progetto comune su cui lavorare, se tutto andrà bene.
Sul fronte Amy e Kitty le cose sembrano precipitare, ma succede qualcosa di strano e forse, per la prima volta, Santana sembra non accanirsi contro la ballerina...

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Capitolo 25
*** XXIV ***


Quel pomeriggio Tom era tornato a casa molto presto dall’ufficio, complice un leggero mal di testa che gli aveva fornito la scusa perfetta per fare una sorpresa a Patty e sottrarsi alle attenzioni invadenti di Evelyn: se le avesse chiesto una compressa, sicuramente le avrebbe fornito la scusa giusta per fare irruzione ogni mezz’ora nel suo ufficio.
Salì dal garage attraverso la scala interna, appese le chiavi dell’auto vicino alla porta e chiamò la moglie. Con suo grande disappunto non rispose nessuno. La cosa lo infastidì parecchio, ma non poté negare che fosse anche colpa sua: se le avesse fatto un colpo di telefono, probabilmente Patty avrebbe organizzato diversamente i suoi impegni.
Decise di versarsi qualcosa dal mobiletto dei liquori, al diavolo il mal di testa.
Allentò la cravatta e portò alle labbra il bicchiere di cristallo.
Il campanello suonò per alcuni secondi, seguito da colpi violenti alla porta d’ingresso che rimbombarono per tutto il corridoio, facendolo sobbalzare. Chi poteva essere a venire a scocciarlo a casa con tale impertinenza? Di malavoglia andò a controllare e quando aprì la porta si trovò davanti il più imponente dei buttafuori di Santana.
L’uomo lo scansò senza troppi complimenti ed entrò in casa seguito da Francisco. Il proprietario del Cyborg si diresse in salotto e si accomodò sul divano, accavallando le gambe e portando le mani dietro la testa, comportandosi come se fosse a casa propria.
Tom era irritato, c’erano dei limiti a quello che Francisco poteva permettersi di fare e fare irruzione in casa sua rientrava decisamente tra quelli. Rientrando in salotto, mollò con rabbia il bicchiere sul primo ripiano a disposizione, senza curarsi dei documenti su cui lo stava appoggiando.
“Cosa credi di fare in casa mia?” Domandò tagliente.
“Dovresti essere più cortese con i tuoi ospiti, Sindaco.” Lo prese in giro Santana, senza scomporsi.
Gli occhi di Tom si ridussero a due fessure:
“Bada, non sto scherzando.”
“Oh, nemmeno io. – Santana si staccò leggermente dallo schienale – Dimmi, quanto è piacevole subire un’intromissione indesiderata in casa propria?”
“Quanto ritrovarsi un porcospino sotto al culo! Vieni al punto.”
Becker sentiva le fitte alle tempie farsi più intense, avrebbe dovuto prendere un antidolorifico, altro che concedersi un bicchierino. Di certo quella visita non voluta non migliorava le cose. Per di più Francisco pareva divertirsi per la situazione…
“Modera i termini, se ti sentissero i tuoi elettori? O i cari vecchietti della casa di riposo?”
Il proprietario del Cyborg si alzò e raggiunse la bottiglia di liquore rimasta incustodita davanti al mobiletto, servendosi un goccio. Tom era sul punto di buttarlo fuori di casa.
“Diciamo che non sei l’unico ad  aver ricevuto una visita sgradita – Santana sollevò il bicchiere in direzione del Sindaco – Padre Ross ha fatto irruzione in discoteca l’altro pomeriggio ed ha importunato le mie ragazze. Credevo che dovessi occuparti tu di tenerlo a bada.”
Tom si allentò ulteriormente la cravatta con gesto nervoso. Con tutte le cose che aveva da pensare, doveva occuparsi pure di controllare il reverendo del paese?
“E cosa pretendi che faccia? Gli ho già detto che avrei parlato con te, che mi sarei occupato io delle faccende di ordine al Cyborg, non posso tenerlo legato in canonica o in chiesa.” Sbottò.
Francisco ridacchiò:
“Non sarebbe male come idea.”
“Ma sei impazzito?”
“Quello impazzito è lui, se prova di nuovo a rovinarmi gli affari!”
Tom scosse la testa, mentre una nuova fitta si impossessava della sua tempia sinistra.
“Sei il solito esagerato: sono anni che Padre Ross si scaglia contro i locali notturni durante le sue prediche e non mi pare che i tuoi affari ne abbiano risentito.”
Sul volto di Santana apparve un ghigno poco rassicurante:
“Beh, è ora di darci un taglio. Trova il modo di tenerlo a bada.”
Il Sindaco cominciò a massaggiarsi le tempie.
“Il problema è tuo, perché dovrei immischiarmi io?”
“Perché se dovesse succedere qualcosa al caro Reverendo io sarei il primo indiziato. Perché ce lo devi come favore, non dimenticarti che occupi quella poltrona anche grazie a noi. Da ultimo, e mi scoccia ammetterlo, perché sei piuttosto bravo a sguazzare nel torbido mantenendo quella faccina angelica che fregherebbe chiunque.”
Becker non ci vide più dalla rabbia e si avventò contro Santana, afferrandogli il maglione con entrambe le mani.
“Non puoi permetterti di venire in casa mia ed accusarmi in questo modo!”
Con la coda dell’occhio Tom vide il buttafuori di Santana avvicinarsi a lui, pronto a difendere il datore di lavoro, ma prima che potesse raggiungerli un grido improvviso fece bloccare ogni cosa.
“Che cosa sta succedendo qui?”
Il sangue di Tom si ghiacciò nelle vene.
 
 
 
 
 
Patty era stata alla casa di accoglienza da Padre Ross, sperava di incontrare Oliver Hutton per illustrargli le prime idee che aveva avuto per rimettere a nuovo il campo da calcio, ma l’architetto era uscito per vedersi con Benjamin Price, così le era stato detto. In compenso aveva incontrato il reverendo ed aveva iniziato a coinvolgere anche lui nel progetto. Padre Ross ne era stato subito entusiasta e le aveva fatto capire che  lo riteneva anche un ottimo modo per provare ad impegnare i giovani della città in qualcosa di sano e non lasciarli cedere ai vizi.
La sua uscita alla fine non si era rivelata infruttuosa.
Arrivando a piedi si soffermò sulla facciata della villetta e sulla veranda, doveva decidersi a riportare sedie e cuscini all’interno, non era più stagione di sedersi all’aperto a leggere o a sorseggiare una bibita. Aveva pensato di comprare uno di quei piloni riscaldanti che i locali usavano per sfruttare le parti esterne anche l’inverno, ma esteticamente non la soddisfacevano e riteneva che nell’insieme della casa sarebbero stati solo una stonatura.
Percorse il vialetto ed aprì la porta d’ingresso. Dal salotto provenivano delle voci ed in un primo momento pensò che qualcuno si fosse introdotto in casa, poi riconobbe la voce del marito e rimase stupita: era raro che Tom rientrasse prima del termine dell’orario d’ufficio, ci teneva a mostrarsi un Sindaco presente per gli impiegati.
Istintivamente strinse più forte la cartellina con gli abbozzi del progetto, come a volerla riparare e proseguì nel corridoio.
“Sei il solito esagerato: sono anni che Padre Ross si scaglia contro i locali notturni durante le sue prediche e non mi pare che i tuoi affari ne abbiano risentito.”
Dalle parole del marito Patty intuì che l’altro interlocutore doveva essere Francisco Santana.
“Beh, è ora di darci un taglio. Trova il modo di tenerlo a bada.”
 “Il problema è tuo, perché dovrei immischiarmi io?”
Mano a mano che si avvicinava l’atmosfera le sembrava parecchio tesa, forse avrebbe dovuto mostrarsi per stemperare un po’ la questione tra i due uomini.
“Perché se dovesse succedere qualcosa al caro Reverendo io sarei il primo indiziato. Perché ce lo devi come favore, non dimenticarti che occupi quella poltrona anche grazie a noi.”
Patty si fermò di colpo.
 “Da ultimo, e mi scoccia ammetterlo, perché sei piuttosto bravo a sguazzare nel torbido mantenendo quella faccina angelica che fregherebbe chiunque.”
“Non puoi permetterti di venire in casa mia ed accusarmi in questo modo!”
La donna aveva sentito abbastanza, non poteva credere alle accuse infamanti che stavano venendo lanciate a suo marito. Decise di non restarsene in disparte e vederci chiaro. Entrò come una furia in salotto:
“Che cosa sta succedendo qui?”
La scena che le si parò davanti aveva dell’incredibile: Tom stava per fare a botte con Santana, mentre il buttafuori del Cyborg stava a sua volta per picchiare suo marito.
“Esigo delle spiegazioni!” Gridò.
L’uomo di Santana si fermò, Tom abbassò le braccia, mollò le mani dal maglione di Francisco e si voltò lentamente, quasi meccanicamente verso di lei. Notò che era parecchio pallido.
“Ca.. cara, credevo fossi fuori.” Balbettò suo marito.
“Sono appena rientrata e mi ritrovo davanti questo deplorevole spettacolo.”
Patty fece scorrere lo sguardo per tutta la stanza, cercando di afferrare ogni particolare per dare un senso a quello che aveva appena visto e, soprattutto, sentito. Non poteva essere vero che suo marito fosse invischiato in intrallazzi di pessimo genere, non Tom. Non le sfuggì il ghigno perfido che si stava dipingendo sul volto di Santana.
“Io e Francisco abbiamo una piccola divergenza di opinioni, tutto qui.”
La signora Becker gettò la cartellina su una poltrona e incrociò le braccia al petto.
“E per una semplice divergenza di opinioni stavate per fare a botte? Tom Becker, non raccontarmi balle!”
Santana scoppiò a ridere, incapace di trattenersi.
“La commedia è  finita, caro sindaco. È ora che tua moglie apra gli occhi.”
Il proprietario del Cyborg fece un gesto al suo uomo per invitarlo a seguirlo e si rivolse poi a Patty.
“I miei ossequi First Lady.”
Patty stava cercando di mantenere la calma per non esplodere a vuoto, ma non tollerava di essere presa in giro.
“Non così in fretta. – sibilò – Le ho sentito lanciare accuse pesanti a mio marito. Esigo che lei me le dimostri.”
Santana si fermò e la guardò in modo strano, a Patty sembrava che stesse valutando se chi aveva davanti fosse degno delle sue attenzioni, se fosse all’altezza di impegnarlo e fargli sprecare il suo tempo. Lei gli avrebbe dato tutto il filo da torcere che voleva, non aveva paura di lui.
A un certo punto, l’uomo sorrise malignamente:
“Beh, tanto per incominciare il suo caro marito ha comprato i  nostri voti per essere eletto e un sacco di altri.”
“Balle!” Patty non era intenzionata a credere a menzogne così spudorate.
Si voltò verso il Tom, in attesa che anche lui replicasse a quelle infamità, ma il marito era come pietrificato, come se non sapesse che fare o dire.
“Tom, difenditi da queste ridicole accuse.” Tentò di spronarlo.
Becker era sempre più pallido e si portava con insistenza le mani alle tempie.
“Io…”
“Tom!” Esclamò Patty, stava decisamente perdendo la pazienza anche nei suoi confronti.
“Non mi dirai che sei sceso a compromessi per una manciata di voti?”
Lo sguardo della signora Becker era infuocato.
“Non ho fatto nulla di male. – ribatté il marito – Tutti lo fanno, è la politica.”
Patty provò un moto di disgusto, faticava a riconoscere l’uomo che aveva davanti. Dov’era finito il buono, onesto e generoso Tom Becker che aveva conosciuto anni prima? Non poteva essere stato solo il loro allontanamento a trasformarlo così.
Come se non bastasse, Santana prese di nuovo la parola ed aggiunse un altro carico.
“Fosse solo quello. Non vuoi parlare di tutti i soldi che hai guadagnato con operazioni poco pulite, a cominciare dalle porcate che hai fatto con la tua megalomania per il nuovo palazzo comunale?”
“Sta zitto Francisco!”
Il grido del Sindaco suonò come esasperato, più che un urlo difensivo.
Patty arretrò istintivamente di un passo.
“Tom, di cosa sta parlando?”
“Vorrei saperlo anch’io.” Rispose Becker.
“Smettila di fare il santarellino! In fondo non vedevi l’ora di ripulirti la coscienza!”
“Va al diavolo, Francisco! – sbottò il Sindaco – Tu mi hai trascinato in mezzo a questi traffici, non scaricare tutta la colpa su di me.”
Patty era rimasta fulminata. Quando era avvenuto il crollo al cantiere, Tom si era prodigato in ogni modo per far muovere il più velocemente possibile la macchina dei soccorsi, si era recato sul posto ed aveva aiutato personalmente a rimuovere le macerie sotto cui era intrappolato Benjamin Price, aveva fornito assistenza a tutti coloro che erano coinvolti, aveva mosso le acque affinché il processo si svolgesse il più rapidamente possibile per assicurare i colpevoli alla giustizia, era stato molto coinvolto nella vicenda. Improvvisamente realizzò che Tom era stato troppo coinvolto dalla vicenda. Aveva fatto tutto in fretta, troppo in fretta. Come se volesse che non si indagasse troppo a fondo. Come se avesse paura che si scoprisse troppo, che si scoprisse il suo coinvolgimento.
Sgranò gli occhi e rivolse un’ultima supplica al marito.
“Tom, dimmi che non è vero.”
Becker era ormai cadaverico, senza la forza per ribattere, si limitò  a guardarla e lei colse la colpevolezza in fondo ai suoi occhi.
Patty strinse i pugni: si sentiva ferita e tradita dalla persona a lei più vicina, la persona per cui aveva sacrificato le sue aspirazioni personali.
“Voglio il divorzio!” Decretò, poi si sfilò la fede dall’anulare e la gettò per terra. Afferrò la cartellina che aveva abbandonato sulla poltrona e lasciò la casa per non tornarvi più.
 
 
 
 
 
Roberto stava dando una sistemata all’esterno del suo negozio, mentre attendeva l’arrivo della prossima cliente. Osservava attraverso i suoi occhiali colorati e studiava la disposizione migliore per le decorazioni che voleva approntare per la  settimana seguente quando avrebbe festeggiato l’anniversario dell’apertura del negozio. Non che avesse molta voglia di festeggiare, col capo che stava col suo fiato sul collo di tutti loro, ma doveva mantenere le apparenze con la sua clientela, con le pettegole di New Team Town che sapevano essere una fonte inesauribile di informazioni. Certo, il più delle volte doveva sorbirsi interminabili resoconti di corna, sparlate alle spalle altrui ed altre cose di infimo interesse, tuttavia in mezzo alle chiacchiere inutili riusciva sempre a cogliere qualcosa di rilevante, a cominciare dal fatto che Benjamin Price non si aggirasse più per la cittadina con la costante aria da derelitto.
Un brivido lo colse dietro la nuca, segno che stava succedendo qualcosa a cui doveva prestare attenzione. Si guardò intorno e vide arrivare ad ampie falcate la signora Becker: pareva avere un diavolo per capello, doveva essere successo qualcosa di grave.
“Buon pomeriggio, tesoro! – la salutò col suo solito tono cordiale ed eccessivamente affettato – Avevamo forse un appuntamento di cui mi sono scordato?”
La donna quasi  lo fulminò con lo sguardo:
“Non adesso, Roberto!”
“Oh, tesoro, mi sembri sconvolta. Vieni dentro, un bello shampoo abbinato ad un massaggio del cuoio capelluto ti toglieranno di dosso tutta quella tensione e ti aiuteranno a rilassarti.”
Patty si fermò sbuffando e scalpitando.
“Magari bastasse così poco! Sono furiosa! Il Sindaco Becker è una testa di cazzo!”
Roberto sbatté le palpebre perplesso: sapeva che Patricia Becker aveva un carattere fumantino che teneva a bada durante  le sue apparizioni in pubblico, tuttavia non l’aveva mai sentita rivolgere parole così dure nei confronti di Becker. Sapeva perfettamente che il loro matrimonio era ormai una farsa a beneficio degli elettori più conservatori di New Team Town, una farsa sostenuta da una grande amicizia. La dichiarazione della donna lo allarmò profondamente, doveva indagare.
“Lo sai anche tu che gli uomini sono stupidi, a parte me. Qualunque cosa avrà combinato tuo marito, vedrai che si sistemerà tutto.”
Patty rispose lapidaria.
“Ex marito.”
“È così grave?”
“Non voglio parlarne, né di lui, né di quel suo lurido amico di Santana. Ora devo andare.”
La quasi ex signora Becker proseguì il suo cammino furioso, senza attendere che il parrucchiere la salutasse.
Roberto scosse il capo, doveva immaginare che prima o poi Francisco avrebbe commesso qualche leggerezza e la verità sui suoi intrallazzi col Sindaco sarebbe arrivata alle orecchie della moglie. Quel ragazzo pensava solo al proprio interesse senza badare ai disegni più grandi. Doveva approfondire la vicenda, c’era il rischio che Patty andasse a denunciare tutto all’autorità o a qualcuno di ancora peggiore. Doveva scoprire esattamente di cosa era venuta a conoscenza. Doveva seguirla.
Con un rapido gesto chiuse la serranda del negozio, non avrebbe ricevuto ulteriori clienti per quel pomeriggio.
“Roberto, che fa? Chiude?” La signora White, un’attempata matrona, lo fece sobbalzare.
“Mi dispiace, un’emergenza improvvisa. Mi chiami domani per un nuovo  appuntamento.”
Il parrucchiere si gettò all’inseguimento di Patty con passo svelto, cercando allo stesso tempo di non dare nell’occhio.
I lampioni cominciavano ad accendersi ed il buio stava iniziando a fare capolino, rendendogli più facile camuffarsi. La sua preda continuava imperterrita nella sua camminata, apparentemente senza metà, fino a quando sbatté contro un uomo.
Roberto scivolò nel vicolo che propiziamente si trovava alla sua destra, da dove poteva osservare senza essere visto.
“Signora Becker, mi scusi, non l’avevo vista.” Stava dicendo Oliver Hutton.
Le antenne del parrucchiere si drizzarono ulteriormente.
“No, signor Hutton, sono io che non l’avevo vista.”
L’architetto si passò una mano dietro la nuca, gesto evidente di nervosismo.
“Padre Ross mi ha detto che mi aveva cercata.”
“Ah, sì. Volevo parlarle del progetto per il campo sportivo, ma ora sono accadute cose più importanti.”
La sua voce non riusciva a nascondere la rabbia che la stava scuotendo, Roberto non credeva che l’architetto ci avrebbe messo molto ad accorgersene.
“Signora Becker, sta bene? La vedo sconvolta.”
La donna scosse il capo.
“Non ora, sono ancora troppo furiosa. Sto andando in albergo. Ci possiamo vedere più tardi?”
Hutton pareva indeciso.
“D’accordo. Vuole venire in canonica?”
“No, vediamoci dove nessuno ci possa sentire. – improvvisamente i suoi occhi si illuminarono – Vediamoci al vecchio campo. Stasera per le 21.30.”
“Ma a quell’ora sarà completamente buio!”
“I lampioni della strada sono molto vicini. Solo lì mi sentirei al sicuro a parlarle di quello che devo. Per favore.”
Roberto non perdeva una singola sillaba di quel dialogo.
Alla fine l’architetto cedette.
“D’accordo. Ci vediamo là.”
I due si separarono e proseguirono entrambi per la loro strada.
Il parrucchiere uscì dal suo nascondiglio e si diresse di corsa a prendere l’auto per raggiungere la villa sulla collina: doveva assolutamente avvisare il capo e non poteva farlo per telefono, la notizia era troppo delicata, doveva andare di persona.





______________________________________
La situazione pare aver subito una brusca scossa, con Tom sorpeso da Patty e costretto a scoprire gli altarini. Ora Patty deve incontrarsi con Holly, ma qualcuno ha origliato la conversazione.... Riusciranno ad incontrarsi ed a parlare per mettere insieme altre  tessere del puzzle?
Lo scopriremo a fine mese, perché a breve sparirò per il mio annuale periodo di libertà da pc e affini.
In serata risponderò anche alle vostre preziose recensioni.
A presto!

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Capitolo 26
*** XXV ***


La villa era immersa nella calma e nel silenzio, come lui amava che fosse al termine della giornata. La situazione a New Team Town stava rientrando nei ranghi: aveva messo sufficiente paura ai suoi scagnozzi che non avrebbero osato commettere altre leggerezze. Oliver Hutton sembrava aver temporaneamente cominciato a rialzare la testa, mentre ora il peso della separazione da quella che credeva la sua donna lo stava schiacciando di nuovo nell’infelicità. I prigionieri erano inoffensivi e  di Kitty non si avevano notizie da qualche giorno. Tutti i pericoli per il suo lavoro stavano per essere neutralizzati.
Solo un particolare ancora gli sfuggiva: come avesse fatto Atsushi a finire lontano dalla cittadina che aveva realizzato con la sua maledizione. Forse il vento era stato troppo forte per quel ragazzino ed era perciò stato scagliato in un luogo del tutto diverso da quello predisposto. Non era comunque il caso di angustiarsi ulteriormente, la svista era stata recuperata. 
Tutto procedeva in modo rassicurante.
Tutto sarebbe tornato ad essere perfetto.
Avrebbe potuto ricominciare a dedicarsi al roseto e alla serra, li stava trascurando.
I lampioni in giardino si erano accesi ormai da qualche ora.
Dalla finestra vide giungere l’auto di Roberto e per un attimo temette di aver dimenticato una riunione, eppure era certo di non aver convocato nessuno alla villa.
Il suo volto si contrasse in una smorfia di disappunto, le mani iniziarono a formicolare, come un campanello d’allarme. Prese un paio di respiri, ripetendosi mentalmente che tutto stava andando bene, che tutto sarebbe continuato come lui aveva deciso. Si accomodò al tavolo, per non dare  l’impressione di essere in ansia: mai mostrare le proprie debolezze ai sottoposti.
Dopo qualche istante Roberto si precipitò nel salotto col fiato corto: evidentemente aveva percorso i corridoi di corsa. Brutto segnale.
“Capo! – esordì il parrucchiere – Ci sono stati sviluppi.”
“Di cui non potevi parlarmi per telefono? O  che non potevano aspettare un appuntamento?”
Roberto scosse violentemente la testa, sistemando poi gli occhiali che erano scivolati lungo il naso.
“Si tratta di Patricia Becker: vuole separarsi dal marito.”
La notizia lo turbò: aveva creato lui stesso le condizioni di un matrimonio infelice per la donna, ma aveva tirato i fili in modo che lei non arrivasse mai a chiedere il divorzio. Non doveva permettere che accadesse nulla del genere, o Hutton avrebbe avuto un germe di speranza. Sapeva quanto poteva essere pericolosa la speranza.
“Da quando ci occupiamo della vita coniugale delle persone?” Chiese, sollevando un sopracciglio.
“Non si tratta di un semplice bisticcio di coppia. Da quello che ho capito lei ha scoperto qualcosa sulle attività del Sindaco. Potrebbe arrivare a noi.”
L’uomo ora era scocciato. Appena sistemava una grana ecco che qualcos’altro si incrinava e gli toccava sempre correre ai ripari. Che Patricia venisse a sapere di parte dei loro maneggi era facilmente gestibile, avrebbe richiesto minima parte della sua attenzione, in fondo già nel coinvolgimento del marito avevano preso le loro precauzioni per uscirne puliti in caso di voltafaccia di Becker. Era estenuante dover continuamente stare sul chi vive in casa propria, nel proprio regno.
“E sei corso fin qua solo per questo? Mi deludi, sai che possiamo benissimo gestire questa situazione.”
Roberto fece un passo avanti.
“C’è dell’altro.”
Oltre che scocciato, ora cominciava pure a spazientirsi. Possibile che Sedinho parlasse con il contagocce? Sbatté un pugno sul tavolo.
“E che altro? Devo forse estrarti le parole con una canna da pesca?”
“La donna ha incrociato Oliver Hutton e si sono dati un appuntamento per stasera.”
“Cosa!?” Tuonò, la rabbia che tracimava ed esplodeva.
Non poteva essere possibile. Non avrebbe permesso che accadesse.
Roberto fece mezzo passo indietro, spaventato da quello scoppio improvviso.
“Al vecchio campo da calcio.”
“Cosa!?”
L’uomo sbatté entrambi i pugni con violenza, cominciando a respirare affannosamente.
“E tu sei venuto da me senza seguirli?! Razza di idiota! Torna immediatamente laggiù! Ascolta quello che hanno da dirsi! E se dovessero avvicinarsi troppo, impediscilo con ogni mezzo!”
“Ma, capo…”
“Fallo e basta!” Urlò con quanto fiato aveva in gola.
Sedinho non poté fare altro che ripercorrere la strada da cui era venuto e dirigersi ad eseguire gli ordini.
L’uomo aspettò di essere completamente solo per dare sfogo totale alla sua rabbia, travolgendo ogni cosa nel salotto, dai piccoli soprammobili al tavolo e perfino al divano. Sembrava che un uragano si stesse abbattendo sulla stanza.
Tutto aveva preso una piega inaspettata e terribilmente sbagliata.
Buttò giù un intero ripiano di libri dalla libreria.
Non avrebbe dovuto delegare ad altri il compito di vigilare su New Team Town. Avrebbe dovuto fare tutto da solo.
Giornali e riviste volarono per aria.
Se il piano fosse fallito l’avrebbero pagata tutti cara.
Spalancò la credenza.
A cominciare da quella sciocca ballerina.
Digitò furiosamente la combinazione che apriva lo scrigno.
Aveva il sospetto che l’avesse preso per il culo e non avesse ucciso Kitty.
Afferrò il frammento del suo cuore.
Piccola bastardella.
Strinse il pugno con forza, fin quasi a ridurre in polvere la sua vita.
 
 
 
 
 
“Ma vuoi stare un po’ attenta a quello che fai? Sei costantemente in ritardo!”
Amy incassò il rimbrotto di Becky senza reagire, in fondo aveva ragione, non riusciva a concentrarsi e finiva col risentirne l’intera coreografia.
Scivolò nel suo camerino, senza passare per l’angolo bar. Non aveva la spinta nemmeno per bere.
Era preoccupata.
Erano passati un paio di giorni dal fallito attentato alla vita di Kitty e dalla villa non erano ancora arrivati segnali di ritorsione. Francisco aveva mantenuto la sua parola, aveva coperto il suo fallimento. Ma a quale prezzo?
Il suo datore di lavoro avrebbe di sicuro voluto qualcosa in cambio per quel favore, non era il tipo da fornire aiuto per niente. Lei l’aveva imparato sulla sua pelle.
La ballerina temeva il momento in cui Santana sarebbe entrato nel suo camerino ed avrebbe preteso quello che finora era sempre riuscita a negargli.
Ora lui aveva di che ricattarla.
Non avrebbe potuto dirgli di no.
Eppure non era ancora arrivato da lei e per il momento pareva confinato nel suo ufficio. Ma non poteva abbassare la guardia, la serata era appena iniziata, c’era ancora tutto il tempo del mondo perché lui la reclamasse.
Meccanicamente si sfilò il costume argentato, lasciandolo a terra. Fece scorrere gli appendiabiti sullo stand ed afferrò il vestito rosso, per il numero successivo.
Guardò l’orologio appeso al muro: aveva ancora cinque minuti.
All’apparenza il vestito che stava infilando era uno dei più coprenti del guardaroba: non troppo corto, non aveva strane aperture sui fianchi e nei punti strategici. Non era neppure aderente, a dirla tutta, ma era di morbida, leggera e lucida seta rossa, di quella che si spostava al minimo movimento e si sollevava ad ogni spiffero. La ventola sotto il  palco avrebbe avuto da lavorare nell’accompagnare la musica.
Allacciò la zip sulla schiena e diede un’ultima sistemata ai capelli.
Di Francisco ancora nessuna traccia.
Appoggiò la mano sulla maniglia, pronta a tornare in scena.
Accadde all’improvviso, senza nessun segnale anticipatore: il dolore lancinante esplose nel petto, mentre l’aria fuggiva dai polmoni. Amy seppe che la sua vendetta era arrivata.
Con la forza della disperazione aprì la porta e si gettò in corridoio alla ricerca di aiuto.
Ma chi poteva aiutarla contro quel tipo di nemico?
Barcollò, senza sapere come, fino all’uscita sul retro, trovandola aperta. L’istinto l’aveva portata verso l’esterno, alla ricerca di aria.
Il dolore si fece così intenso che cacciò un urlò straziante.
“Signorina, sta male?” Un uomo si avvicinava allarmato.
Amy non aveva più aria nei polmoni. Fece in tempo a riconoscere Padre Ross e ad allungare un braccio verso di lui, prima di cadere a terra priva di sensi.
 
 
 
 
Padre Ross non aveva intenzione di arrendersi, non sapeva bene ancora come avrebbe fatto, ma non avrebbe lasciato cadere la questione con le ballerine del Cyborg. Per quello si era trovato a passare nel vicolo sul retro della discoteca, con la speranza di riuscire ad incontrare qualcuna, quando aveva visto la donna dai capelli rossi uscire piuttosto malferma dalla porta. Aveva capito subito che  qualcosa non andava in lei, qualcosa di serio, di peggio di un’ubriacatura. L’istinto, o l’ispirazione divina, l’aveva spinto ad affrettarsi ad andarle incontro.
“Signorina, sta male?”
La donna allungò un braccio verso di lui, in un’evidente supplica, mentre con l’altra mano si teneva il petto, poi cadde a terra.
Padre Ross la raggiunse di corsa e cercò di scuoterla.
“Signorina, mi sente? Signorina!”
Si passò la mano sinistra nei capelli guardandosi intorno alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarlo. Appoggiò due dita della mano destra alla sua gola, come gli era stato insegnato nei corsi di pronto soccorso che frequentava regolarmente, alla ricerca del battito.
“Merda!” Non era da lui imprecare, ma la situazione era disperata.
Sfilò il cellulare dalla tasca e compose il numero per le emergenze. Rispose un’operatrice.
911. Qual è l’emergenza?”
“Donna a terra, incosciente, probabile arresto cardiaco. Siamo a New Team Town, sul retro del Cyborg, quartiere latino americano.” Fornì subito tutti i dettagli, era importante essere rapidi e precisi.
Le mando subito un’ambulanza.”
Terminata la chiamata, Padre Ross cominciò a praticare il massaggio in attesa dei paramedici.
“Forza! Resisti!"
 
 
 
 
 
Holly non sapeva che pensare degli avvenimenti degli ultimi giorni: prima Kitty e poi la signora Becker.
Kitty gli aveva scritto una mattina per vedersi al suo appartamento, raccomandandogli di stare attento a non farsi vedere e seguire da nessuno, di non dire dove andava e cosa stava facendo. Sembrava caduta in una strana paranoia complottista. Gli aveva quasi fatto paura.
L’aveva raggiunta ed aveva trovato l’appartamento completamente al buio, con tutte le tapparelle abbassate e solo una piccola lucina accesa giusto per non andare a sbattere contro i mobili. Aveva i capelli alla rinfusa e gli occhi stanchi di chi non doveva aver chiuso gli occhi per tutta la notte. Indossava un maglione di quelli che facevano da vestito ed un paio di calzettoni di lana spessi, tutto di colore marrone, troppo spenti per i suoi standard abituali.
“Che ti è successo Kitty?”
“Loro stanno capendo, loro ci daranno la caccia.” Aveva continuato a ripetere, muovendo la testa a destra e a sinistra senza riuscire a restare ferma in un punto della stanza.
“Kitty, calmati! Loro chi?”
“Chi ci ha fatto questo! Forse hanno preso anche Jason! Forse è per questo che non è più tornato!”
Si muoveva talmente in fretta che ad Holly aveva fatto venire il mal di mare.
Le si era avvicinato e l’aveva afferrata per le spalle, con decisione, senza però farle troppo male. La sua intenzione non era stata spaventarla, ma cercare di calmarla.
“Kitty, di che cosa stai parlando? Ti riferisci alla maledizione?” Aveva chiesto dolcemente guardandola in volto.
Nei suoi occhi aveva letto la paura e per un istante gli era sembrato che stesse per mettersi a piangere.
“Devi stare attento! Cercheranno anche te, se non usi prudenza.”
Con uno scatto la donna si era liberata dalla presa ed aveva cominciato a spintonarlo verso la porta dell’appartamento.
“Non dovresti essere qui. Non devono trovarti qui!”
“Mi hai fatto venire tu qui! – improvvisamente aveva avuto un’idea – Aspetta  hai scoperto chi c’è dietro a tutto questo?”
Kitty aveva continuato a spintonarlo.
“Vai via. Stai attento. Non fidarti di Amy.”
“Amy?”
L’aveva spinto fuori dalla porta.
“Sei la nostra ultima speranza! Salva Sanae e salvaci tutti!”
Dopo quelle parole, Kitty aveva chiuso la porta violentemente e non c’era più stato verso di farsi riaprire. Dall’appartamento non si era sentito più il minimo rumore, come se fosse stato abbandonato. Se Holly non avesse saputo che quella davanti a cui era rimasto a bussare per una buona mezz’ora era l’unica uscita, avrebbe pensato che fosse scappata da una finestra.
Alla fine aveva desistito ed era tornato alla casa di accoglienza.
Si era chiesto più volte se avesse fatto meglio ad allertare qualcuno, dato lo stato evidentemente alterato in cui Kitty versava, ma poi aveva pensato fosse più opportuno non coinvolgere nessun altro. Se davvero chi aveva lanciato la maledizione aveva scoperto le loro indagini, chiamare qualcun altro poteva rivelarsi un’arma a doppio taglio: nei suoi deliri Kitty aveva accennato una cosa molto saggia, non sapeva di chi poteva fidarsi.
Poi c’era stato l’incontro di quel tardo pomeriggio con Patty.
Anche lei gli era parsa nervosa per qualcosa e l’urgenza e l’insolito luogo scelto per il loro appuntamento non promettevano nulla di buono.
Sperò che non le fosse accaduto nulla di pericoloso.
Sanae aveva un carattere fumantino, facile ad accendersi, ma anche veloce nel perdono, probabilmente all’incontro avrebbe già recuperato la sua calma.
Quel pensiero però non riusciva a metterlo tranquillo. Si sentiva pure lui all’erta, quasi che la paranoia di Kitty fosse contagiosa.
Infilò la giacca ed uscì per recarsi all’appuntamento, anche se mancava ancora  del tempo: non ce la faceva ad aspettare rinchiuso da solo.
Nel chiudere notò che Padre Ross non era ancora rientrato. Altra stranezza anche quella.
Per un attimo fu attraversato dall’idea di portare con sé il pallone, di ingannare l’attesa facendo qualche tiro in porta. Scartò quasi subito il pensiero, la signora Becker avrebbe potuto pensare che non prendesse sul serio il loro incontro.
L’aria della notte che cominciava era fredda e pungente, chissà se era la volta buona che sarebbe venuto a nevicare, ormai erano giorni che il clima era quello adatto.
Un’ambulanza sfrecciò a sirene spiegate sul viale in prossimità del vecchio campo.
Fu colto dall’irrazionale paura che a bordo, nel vano posteriore, ci fosse Patty, che le fosse successo qualcosa, che chi aveva lanciato la maledizione le avesse fatto del male per colpire lui.
Trovò il pensiero insopportabile e si affrettò a pensare ad altro.
Per esempio al fatto che Patty si fosse lasciata sfuggire che stava andando in albergo. Significava che non viveva più alla villa dei Becker con il Sindaco? Avevano forse litigato?
Impossibile, erano sempre così in sintonia ogni volta che li vedeva insieme.
Probabilmente Patty doveva vedere qualcuno degli Yuma per questioni del municipio, magari sarebbe stata raggiunta proprio dal marito.
Magari sarebbe venuto pure Tom al loro incontro.
L’idea gli fece storcere la bocca e pensare di tornare indietro. Ma aveva dato la sua parola che sarebbe andato all’appuntamento, non poteva deluderla. Non voleva deluderla.
Ormai era arrivato al campo, doveva solo attraversare la strada, non valeva la pena tornare indietro.
Raggiunse il manto erboso preparandosi ad aspettare, sicuro di essere in anticipo. Invece lei era già arrivata.
La vide illuminata nel cono di luce di un lampione e subito il cuore cominciò a galoppargli nel petto. Era bellissima, più di quanto ricordasse, avvolta nel suo cappotto nero e nella sciarpa grigia. La sua Sanae, la sua meravigliosa Sanae.
Deglutì cercando di recuperare lucidità. Doveva stare attento, non poteva permettersi di dire la cosa sbagliata o comportarsi in maniera inopportuna. Doveva ricordarsi che quella che aveva davanti era la moglie di Taro.
Con calma studiata si avvicinò a lei, facendosi riconoscere.
“Buonasera, signora Becker.”
La donna sbuffò.
“Ancora per poco. Io sono Patricia, da questo momento in poi sarò Patricia per tutti.”
Holly restò per un attimo perplesso, non si aspettava che la situazione fosse a quel punto.
Forse aveva una speranza.
Togliti subito dalla testa queste idee, Oliver Hutton! Non puoi fare questo al tuo migliore amico.
Ecco che la sua coscienza si faceva strada prepotentemente.
“Allora io sono Oliver.”
La donna gli sorrise, apparendogli un poco più serena di qualche istante prima.
“Ti chiederai perché ti ho fatto venire qui…”
Decisamente se lo stava chiedendo.
“Ho scoperto delle cose di cui finora ero all’oscuro. Mi dispiace tanto non averlo saputo prima.”
Holly la vide chinare la testa, in un chiaro segno di scuse.
“Patricia, non capisco di che parli. Non hai niente di cui scusarti con me.”
“Invece sì: il mio ex marito ti ha rovinato la vita!”




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Eccoci di ritorno, con una nottata che si preannuncia essere piuttosto movimentata.
Come c'era da aspettarsi il nostro cattivo non ha preso bene la notizia dell'incontro tra Holly e Patty ed ha sganciato Roberto all'inseguimento. Riuscirà il parrucchiere ad impedire che Patty comunichi ad Holly notizie compromettenti? Che si avvicinino troppo? Oppure Patty e Holly riusciranno a terminare tranquillamente il loro incontro?
E Amy?

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Capitolo 27
*** XXVI ***


Roberto guidava nervosamente scendendo dalla strada collinare che dalla villa riportava in centro a New Team Town. Ogni volta che la percorreva si rendeva conto di quanto in realtà la residenza del capo non fosse proprio dietro l’angolo. Una volta lasciato il centro della cittadina, con tutti quei tornanti raggiungerla era una questione di una decina di minuti scarsi in auto, ma a piedi era un’ora abbondante di cammino. Non capiva perché avesse scelto un posto così isolato con una sola via d’accesso. Sul retro della villa, infatti, oltre il muro c’era un bosco così fitto ed intricato che si rischiava di perdersi al solo pensiero di entrarci. Certo, da lì la vista sulla città era quasi completa.
I fari dell’auto illuminavano il percorso e Roberto pensava solo a fare in fretta, poiché non aveva mai visto il capo così fuori di sé. Forse avrebbe fatto meglio a passare dal Cyborg a prendere Francisco: in due sarebbero riusciti meglio a fermare Hutton.
Abbassò gli occhi sul cruscotto dove una spia luminosa si era appena accesa.
“Non adesso, cazzo!”
Sapeva che la sua auto da alcuni giorni aveva qualche problema con il sistema di raffreddamento del motore, ma non aveva avuto ancora l’occasione d portarla dal meccanico. Sperava di riuscire ad arrivare fino alla cittadina.
Una nuvola di fumo bianco si sprigionò dal vano del motore, sempre più grande e densa. L’automobile si spense di colpo a metà dell’unico tratto di rettilineo.
Tirò il freno a mano, scese dal veicolo ed aprì il cofano per far arieggiare meglio e controllare che non ci fosse un principio di incendio. Dopo qualche minuto provò a far ripartire il motore: girò la chiave una, due, tre, quattro volte. Il motore non dava segno di volersi riaccendere. La sua auto l’aveva abbandonato.
Era inutile aspettare che qualcuno passasse e gli desse un passaggio fino in centro: era troppo tardi, a quell’ora solo chi scendeva dalla casa avrebbe percorso la strada. Ritornare alla villa e prendere in prestito una macchina lì era fuori discussione, era la volta buona che il capo l’avrebbe ammazzato. Chiamare un carro attrezzi gli avrebbe fatto perdere troppo tempo tra burocrazia e scartoffie, però avrebbe potuto chiamare Francisco, gli avrebbe fatto schiodare il culo dal suo bel locale. Prese il cellulare per telefonare, ma la batteria risultò scarica. La tecnologia era forse in rivolta contro di lui?
Non gli restò altro da fare che lasciare l’auto e scendere a piedi, dopo aver recuperato le sue forbici preferite dal vano porta oggetti.
Non sarebbe mai arrivato in tempo per impedire l’incontro tra Hutton e Patricia Becker. Poteva solo augurarsi di arrivare prima che tra i due venissero dette parole compromettenti. Doveva farcela.
 
 
 
 
 
Dopo aver visto Oliver Hutton rimanere di sasso alla sua rivelazione, Patty aveva cominciato a raccontare a fiume cosa era successo il pomeriggio e di come aveva scoperto degli intrallazzi del marito.
Si era preparata tutto il discorso nelle ore in albergo, per poter spiegare ogni cosa al meglio e non sembrare solo una moglie amareggiata dai segreti di Tom, ma quando era giunto il momento aveva buttato tutto all’aria ed aveva improvvisato, lasciando ampio sfogo alla rabbia.
Oliver l’aveva ascoltata in silenzio, senza interromperla nemmeno una volta, permettendole così un resoconto completo.
“E questo è quanto è accaduto.” Disse, terminando il racconto.
Tra di loro si frappose il silenzio, disturbato solo dal rumore di qualche rara automobile che passava sulla strada.
“Mi dispiace – esordì l’architetto – che tu abbia scoperto di tuo marito in questo modo. Forse hai capito male, ha meno responsabilità di quello che sembra.”
“Perché cerchi di difenderlo?” Chiese con rabbia. Non poteva credere che tra tutti, proprio lui, che ne aveva pagato lo scotto in prima persona, non volesse ammettere le nefandezze di Tom.
“Perché… - Oliver esitava alla ricerca della cosa giusta da dire – perché non vorrei credere che un uomo, un sindaco che si è pubblicamente impegnato per il bene della comunità, sia invece capace di commettere questo genere di azioni ed occupare una carica prestigiosa solo per il proprio tornaconto personale.”
Patty si abbracciò la vita.
“Io ho dovuto credere che un marito ed un amico abbia potuto farmi questo.” Commentò amaramente e capì che era quello che le faceva male: più del tradimento alla comunità, il tradimento a lei. L’amore tra lei e Tom era finito da un pezzo, ma l’amicizia e la stima reciproca non erano mai venute meno, o così aveva creduto fino a poche ore prima.
Senza che potesse fare nulla per impedirlo, le lacrime cominciarono ad affacciarsi alle ciglia ed a cadere lungo le guance. Le lacrime che aveva trattenuto tutta la sera ora erano inarrestabili.
“Patricia.”
Il suo nome venne pronunciato da Oliver Hutton in un sussurro.
L’uomo si avvicinò a lei e con un movimento  delicato cercò di asciugarle le gocce di pianto con i pollici.
“Non sopporto di vederti piangere.”
Il tocco delle sue mani le provocò una strana sensazione di tepore al viso e la fece rendere conto che tutto il resto del suo corpo era diventato un blocco di ghiaccio, svuotato della vita. Che potere aveva Oliver Hutton di riportarla al calore?
Spaventata dalla nuova emozione, fece un passo indietro per proteggersi.
L’architetto allontano subito le mani ed abbassò lo sguardo sui propri piedi.
“Ti chiedo scusa. Non volevo essere inopportuno.”
Patty colse l’amarezza e la tristezza nel suo tono e pensò di averlo ferito. Non se lo meritava, aveva solo cercato di consolarla. E lei si sentiva così a pezzi.
“Metà della mia vita è stata una menzogna.” Esalò.
“Credimi, capisco molto meglio di quanto immagini come tu possa sentirti in questo momento. Non c’è un modo giusto ed uno sbagliato di reagire ad una situazione del genere.”
La donna rimase colpita dalle sue parole: ancora una volta, l’uomo che tutta New Team Town aveva odiato per anni, ed a torto, ora ne era certa, era lì ad offrirle conforto. Era una persona fuori dal comune, avrebbe dovuto notarlo prima, se solo si fosse presa la briga di non fermarsi alle apparenze.
Senza sapere bene il perché, guidata solo dall’istinto, si tuffò contro il petto di Hutton e lasciò andare tutte le lacrime e i singhiozzi.
L’uomo l’abbracciò e la strinse forte.
In quell’abbraccio si sentiva al caldo, si sentiva protetta, si sentiva al sicuro come Tom non l’aveva mai fatta sentire.
 
 
 
 
 
L’ambulanza era arrivata in pochi minuti, fortunatamente New Team Town aveva il proprio pronto soccorso ed un mezzo sempre a disposizione per le emergenze. I paramedici erano intervenuti rianimando e defibrillando la ballerina sul posto e poi l’avevano caricata sul mezzo, ripartendo a lampeggianti accesi e sirene spiegate alla volta dell’ospedale.
Francisco Santana era apparso sulla porta sul retro del locale, seguito da qualcuna delle altre ballerine, qualche istante prima dell’arrivo del mezzo, alla ricerca della sua dipendente ed era rimasto pietrificato sul posto. Padre Ross non avrebbe mai creduto di vedere un simile sguardo di terrore su quell’uomo che era sempre sprezzante nei confronti di chiunque e qualsiasi situazione si trovasse davanti.
Il reverendo parcheggiò l’auto nei pressi dell’ingresso del pronto soccorso e si diresse al desk di accoglienza.
“Buonasera – salutò cordialmente l’impiegata alla scrivania – cerco informazioni sulla ragazza del Cyborg che è arrivata poco fa in ambulanza. Si chiama Amy.”
“Buonasera, Padre Ross. Credo sia con i medici, ma se lei non è un parente non posso darle informazioni più precise. Mi dispiace reverendo.”
“Posso aspettare qui?”
“Come crede.”
L’uomo si sedette su una delle sedie della sala d’attesa, con le braccia incrociate. Sperava di essere riuscito a dare a quella ragazza una possibilità di salvarsi. Non voleva pensare a cosa le sarebbe accaduto se lui non fosse passato dal vicolo proprio in quel preciso momento.
Anche se con lei non aveva legami di parentela, conosceva solo il suo nome e la sua professione, non poteva andarsene da lì senza sapere come stesse, a costo di dover aspettare tutta la notte e farsi odiare dalla donna all’ingresso.
Dopo quella che gli parve un’eternità, una dottoressa con la divisa blu uscì dal corridoio e raggiunse il desk. Era alta e portava i capelli con un taglio molto corto, aveva l’aria di essere molto sicura di sé. La vide scambiare qualche parole con la stessa segretaria con cui aveva parlato lui e poi raggiungerlo.
Si alzò in piedi.
“Padre Ross, sono la dottoressa Hope.”
“Buonasera. Come sta Amy?”
“Di norma non parliamo delle condizioni dei pazienti a chi non è un parente, ma per lei possiamo fare un’eccezione. Mi segua.”
Superarono le porte oltre il desk e proseguirono verso l’ascensore.
“L’abbiamo portata di sopra dove può essere monitorata meglio.” Disse asciutta la dottoressa.
“Quindi è viva.”
Nel dirlo Padre Ross emise un sospiro di sollievo, mentre sentiva la tensione abbandonargli le spalle e la schiena.
La dottoressa annuì:
“È viva, grazie a lei. Senza il suo massaggio cardiaco sul posto difficilmente avremmo potuto recuperarla.”
Le porte dell’ascensore si aprirono e loro iniziarono a percorrere il corridoio.
“Ora come sta?”
“Abbiamo ripristinato il ritmo sinusale, ma il polso è molto debole. Non le nego che la sua vita è ancora appesa a un filo, non siamo in grado di sciogliere la prognosi.”
Si fermarono davanti ad una stanza, la porta chiusa.
Il reverendo aveva una domanda sulla punta della lingua:
“È stata un’overdose?”
La dottoressa fece scorrere un paio di schermate sul tablet che teneva in mano.
“Il laboratorio non ha ancora mandato i risultati degli esami del sangue, incluso il tossicologico.”
“Capisco.”
“I primi accertamenti eseguiti indicano la probabile presenza di un difetto cardiaco. Forse era solo questione di tempo prima che si presentasse una crisi del genere. L’eventuale abuso di alcol o altre sostanze sicuramente contribuisce ad aggravare queste situazioni. Ne sapremo di più domani, con altre visite e l’arrivo  del primario di cardiologia.”
Padre Ross annuì, non poteva fare altro.
“La ringrazio per avermi informato.”
“Si figuri, in fondo le deve la vita. Vuole vederla?”
L’uomo spalancò gli occhi, non credeva che avrebbe potuto, in fondo cosa lo legava a lei se non le due volte che l’aveva soccorsa per strada?
“Se posso, volentieri.”
“Prego – la dottoressa aprì la porta davanti a cui si erano fermati e lo invitò ad entrare – Resti pure quanto desidera.”
Padre Ross entrò nella stanza in penombra.
La ballerina giaceva nel letto, pallida ed immobile. Avevano sostituito l’abito che indossava fuori da Cyborg e che i paramedici avevano strappato con il camice tipico degli ospedali. Al braccio era collegata la cannula di una flebo che scendeva lentamente, goccia dopo goccia. I cavi degli elettrodi uscivano dalla scollatura della tunica bianca. L’unico rumore era il pulsare ritmico del monitor che teneva sotto stretta osservazione il battito del cuore.
Era così fragile, come un prezioso cristallo di Boemia, che a stento poteva credere che fino a poco prima ballasse davanti ai clienti del Cyborg, sprizzando vitalità.
Il reverendo si sedette sulla poltrona vicino al letto ed iniziò a pregare: pur con tutti gli sbagli che aveva fatto, Amy non si meritava di rimanere lì sola ed abbandonata e lui avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per impedire che accadesse. Meritava una seconda occasione dalla vita.
 
 
 
 
Patty si staccò dall’abbraccio asciugandosi gli occhi, si era calmata a sufficienza per poter pensare a come agire per riparare i torti di Tom: non aveva intenzione di restarsene zitta mentre  altri soffrivano.
“Non so esattamente cosa abbia combinato Tom, ma devono esserci delle prove da qualche parte per dimostrare la sua colpevolezza.”
Oliver era pensieroso, come se le stesse nascondendo qualcosa. Non poteva sopportare altre bugie, non da lui che l’aveva appena fatta sentire così bene. Era stanca che tutti mentissero in continuazione.
“Cos’è che non mi stai dicendo?” Gli chiese con rabbia.
In risposta Oliver le lanciò uno  sguardo profondo che le fece trattenere il fiato per un istante.
“Prima che se ne andasse, Jason e io avevamo fatto delle indagini sul crollo al cantiere: dopo aver fatto ricontrollare il mio progetto ad un professore della Columbia University, sospettavamo che fosse stato acquistato del materiale di qualità inferiore a quello richiesto.”
Patty ascoltava con molta attenzione.
“Ho provato ad affrontare il Sindaco sull’argomento e lui ovviamente ha negato qualsiasi coinvolgimento. Senza prove non potevo accusarlo pubblicamente, avrei riaperto solo ferite in chi era rimasto coinvolto nell’incidente.”
La donna si accese improvvisamente:
“Tom avrà di sicuro le ricevute di questo materiale, in fondo era una commessa per il Municipio. Ma dove?”
Patty cominciò a spostarsi a destra e a sinistra, parlando ad alta voce per rendere partecipe l’architetto dei suoi ragionamenti.
“Saranno in Municipio? No, più probabile che lì ci siano delle copie false. Forse a casa? Probabile, sì. Lui sapeva che io non andavo mai a sbirciare tra le carte del lavoro che archiviava. Dovrò fare un salto a…”
Oliver si intromise cercando di frenarla:
“Aspetta! Non è detto che il Sindaco abbia le ricevute: se è in combutta con qualche amico di Santana, le uniche copie in circolazione saranno quelle falsificate.”
“Allora troveremo quelle e dimostreremo che sono truccate. Forse Benjamin Price potrebbe dire di aver lavorato materiale diverso da quello indicato nei documenti d’acquisto e nelle bolle di consegna.”
Si stava scaldando, stava trovando una soluzione per ogni problema, avrebbe travolto il suo ex marito e tutti i suoi soci con la forza di uno schiacciasassi. Non sarebbero rimasti impuniti a lungo.
“Frena un attimo!”
“Devo solo mettere le mani su quei documenti e…”
“Vuoi starmi a sentire?”
Oliver Hutton aveva alzato la voce e l’aveva afferrata per le spalle, costringendola a fermarsi. Di nuovo il suo sguardo le fece trattenere il respiro. Non sapeva che effetto le facesse.
“Non voglio  che tu faccia mosse avventate. È troppo pericoloso quello che hai in mente.”
Si stava forse preoccupando per lei?
“Oliver, se smascheriamo Tom tutti potranno avere la giustizia che meritano. Anche tu! Sei stato trattato in maniera così ingiusta.”
Con un movimento delicato si sciolse dalla presa sulle spalle e prese le mani dell’architetto tra le proprie. Un piacevole formicolio si diffuse sulla punta delle sue dita.
L’uomo le sorrideva con calore.
“Lo so, ma non voglio che corri questi rischi per me. Non potrei sopportare che ti venisse fatto del male.”
Sì, si stava decisamente preoccupando per lei ed era così dolce. Non ricordava il tempo che qualcuno dimostrasse di tenere a lei a quella maniera. Tom le voleva bene, o così credeva, ma era stato diverso.
Il cuore cominciò a batterle più forte nel petto, lo sguardo si posò sulle sue labbra: erano così attraenti. Le venne l’improvviso desiderio di baciarle, di farle sue. Si alzò in punta di piedi per raggiungerlo meglio, per assaporare quelle labbra.
 
 
 
 
Oliver capiva come dovesse sentirsi Sanae, poteva quasi avvertire sia il suo dolore che la sua voglia di rivalsa e giustizia, ma non le avrebbe mai permesso di correre rischi inutili. Probabilmente Taro non le avrebbe fatto nulla di male, ma Santana ed i suoi amici non erano persone molto raccomandabili, persino al povero architetto bistrattato e schivato da tutti erano arrivate certe voci.
Patricia si avvicinava a lui. L’architetto comprese cosa stava cercando di fare e sgranò gli occhi,restando immobile: non si aspettava che lei cercasse di baciarlo, probabilmente non era nemmeno giusto che avvenisse così, eppure non aveva la forza di scansarsi, desiderava quel bacio più di ogni altra cosa.
“Hey, voi due!”
La voce alle loro spalle li interruppe un istante prima che le loro labbra si incontrassero. Si voltò e riconobbe il parrucchiere del quartiere latino americano e, in un improvviso flash, il primo grande mentore di Tsubasa Ozora. Ebbe un attimo di esitazione.
“Roberto, cosa ci fai qui a quest’ora?”
La signora Becker era sconcertata.
“Potrei farti la stessa domanda, tesoro. – rispose Roberto con tono mellifluo – Soprattutto in compagnia di questo qui. Dovresti selezionare meglio le tue amicizie. Mi deludi.”
“Ma cosa stai dicendo?”
“E tu! Allontanati subito da lei.” Il parrucchiere aveva mutato atteggiamento ed aveva indicato l’architetto distendendo il braccio destro. In mano teneva un paio di forbici dalla punta parecchio acuminata, che brillò nel buio.
Oliver comprese subito la minaccia e si portò tra l’uomo e Patricia, spostando quest’ultima dietro la propria schiena con un braccio.
“Non osare minacciarci.” Sibilò.
Patty era frastornata:
“Che diavolo dici Roberto? Cosa ti è preso?”
“Proteggo i nostri interessi!”
“Cosa?! Non dirmi che anche tu sei invischiato con Santana? Ma c’è qualcuno in questo posto che sia onesto?” Gridò la donna.
Oliver avvertì nello stomaco tutta la disperazione del grido di Sanae, l’essersi resa conto che tutti coloro che la circondavano l’avevano in qualche modo tradita. Gli spezzava il cuore.
“Io mi fidavo di te! Ti ho raccontato un sacco di cose!”
Il parrucchiere sogghignò:
“E di questo ti sono immensamente grato. Ma questa è la legge del più forte.”
Con uno scatto repentino Sedinho si lanciò in avanti ed afferrò Hutton, puntandogli le forbici direttamente alla carotide, mentre Patty urlava.
“Ora tu verrai con me, senza fare storie. – disse rivolto all’architetto – Ne va della tua vita.”
Lentamente cominciò a trascinarlo lontano da Patty.
La donna recuperò velocemente la sua grinta.
“Non te lo permetterò! Vigliacco!”
Si stava per scagliare contro il parrucchiere. Roberto non smetteva di ghignare.
“Non lo farei se fossi in te. Un solo passo e le forbici affonderanno nella sua gola.”
Oliver sentì il metallo freddo delle forbici aumentare la pressione contro il suo collo. Era in trappola, non poteva fare nessun movimento senza rischiare di morire. Dopo di lui Roberto se la sarebbe presa con la sua Sanae. Non poteva assolutamente permetterlo.
“Verrò con te – disse – solo se a lei non verrà fatto alcun male.”
“Lei non ci interessa tanto quanto te. – Roberto si voltò verso la signora Becker – Faresti bene a tornare da tuo marito, al capo non è piaciuto questo tuo atto di ribellione.”
Oliver vide lo sguardo di Patty e si sentì impotente: non era in grado di proteggere sé stesso né le persone che amava. Forse, in fondo, si meritava di aver subito quella maledizione.




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Abbiamo un problema! Dopo un iniziale contrattempo, Roberto è riuscito ad arrivare ed ora minaccia la vita di Holly. La situazione è decisamente spinosa.
Sul versante Amy, l'intervento di Padre Ross è riuscito, ma le parole della dottoressa non sono totalmente confortanti...

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Capitolo 28
*** XXVII ***


Erano usciti a cena insieme, era parecchio che non lo facevano. Da quando Benji aveva avuto l’incidente la loro voglia di socializzare era calata di pari passo con la sua incazzatura col mondo. Non che lo biasimasse del tutto, la sua non era certo una situazione facile, ma aveva cercato di fargli capire che comportarsi da derelitto non l’avrebbe aiutato a sentirsi meglio. Per quel suo ardire era stato messo alla porta di casa Price e gli altri ragazzi del cantiere per un poco l’avevano trattato freddamente.
A Bob Denver non era importato più di tanto, sapeva di aver agito per il bene del suo capo.
Ultimamente invece Benji pareva aver ripreso parte della sua energia, era perfino venuti a trovarli al cantiere, promettendo di farsi vedere più spesso. E così era stato.
Di pari passo loro avevano ricominciato a frequentarsi al di fuori dei momenti di lavoro.
“Gimme, gimme, gimme a man after midnight.” La voce di Paul evidentemente ubriaco precedeva il loro gruppetto.
Johnny si sfracellò una mano sulla fronte.
“E poi si domanda perché Alan non vuole mai uscire con noi. Finirebbe col vergognarsi da morire con un simile cretino.”
“Perché, tu non ti stai vergognando?” Fu il commento pungente di Ted.
“Chiaro che sì, ma come si fa a ridursi così?”
Paul si voltò indietro verso di loro.
“Guardate che vi sento! Non sono così ubriaco come credete, sono solo un po’ alticcio.”
“Vallo a raccontare a Big K domani mattina.”
“Impiccati Johnny. There’s not a soul out there, no one to hear my prayer!”
Paul alzò volutamente di qualche decibel il volume del suo canto, costringendo Johnny e Ted a tapparsi le orecchie. Quest’ultimo cominciò ad implorare la fine del supplizio.
“Che cazzo c’era nella sua birra? I funghi allucinogeni di Super Mario?”
“O forse Mama Daisy ha avvelenato il pulled pork.”
“Gimme, gimme, gimme a man after midnight.”
Bob pensò fosse giunto il momento di intervenire, prima che la situazione degenerasse e qualcuno aprisse qualche finestra per insultarli tutti.
“Buoni bambini, o finirete per fare disturbo alla quiete pubblica.”
Ted gli andò subito dietro:
“Hai sentito Paul? Perfino lo Yeti dice di piantarla.”
Diamond fece una linguaccia a tutto il gruppo.
“E va bene, la smetto. Solo perché è stato lo Yeti a chiederlo.”
“Le mie orecchie ringraziano.” Borbottò Johnny.
Bob sghignazzò. Essere il più grosso del gruppo gli rendeva parecchio più semplice il compito di calmare gli animi quando degeneravano come in quel momento. Per carità, sapevano essere un gruppo di amici fantastici, quando volevano, ma ogni tanto avevano bisogno di qualcuno che li tenesse in riga, che si imponesse e si facesse valere, come un vero Yeti. Era orgoglioso di quel soprannome, lo rappresentava.
Prese di nuovo la parola:
“Ragazzi, parlando seriamente, meglio che ci avviamo a dormire, o davvero domani Big K ci farà una lavata di capo che ci ricorderemo finché campiamo.”
Gli altri tre annuirono, riprendendo la loro camminata. Paul inciampò in un tombino chiuso male e se non fosse stato per la prontezza di riflessi di Ted sarebbe finito disteso sul marciapiede.
“Meglio che facciamo il giro lungo, verso il vecchio campo da calcio. – propose Mason – Così a questo qui passa la sbornia che dice di non avere. Se lo vede in questo stato è la volta che la sua padrona di casa lo butta fuori.”
“A volte, Johnny, sei simpatico come un porcospino sotto il cuscino.”
Ted e Bob scoppiarono a ridere per l’insolita metafora.
Risentito, Paul cercò di darsi un tono, portando la conversazione su qualcosa di più serio:
“Credete verrà a nevicare?”
“Tu ci speri, così domani potrai startene a letto a farti passare il mal di testa.”
“Vi siete coalizzati contro di me stasera?”
“Bambini… Non fatemi alzare la voce.”
Un grido interruppe i loro amichevoli battibecchi. Johnny si guardava intorno all’armato.
“Cosa è stato?”
“Mi sembra che provenisse dal campo da calcio. Andiamo a vedere.”
“Ti seguiamo Yeti, fai strada.” Paul aveva di colpo recuperato tutta la lucidità.
I quattro amici si misero a correre per raggiungere al più presto il prato. Mano a mano che procedevano sentivano delle voci farsi sempre più chiare.
“Verrò con te, solo se a lei non verrà fatto alcun male.”
Bob si fermò e con un gesto del braccio bloccò i tre che lo seguivano. Lo spettacolo che si trovò davanti era sconcertante: un uomo, di spalle rispetto a loro, stava puntando un grosso paio di forbici alla gola di un altro uomo, mentre la moglie del Sindaco assisteva terrorizzata.
“Sembra Roberto Sedinho, il parrucchiere.” Sussurrò Ted.
“Lei non ci interessa tanto quanto te. Tu faresti bene a tornare da tuo marito, al capo non è piaciuto questo tuo atto di ribellione.”
Lo Yeti aveva sentito abbastanza, non poteva tollerare questi discorsi da medioevo. Approfittando del fatto che l’aggressore gli mostrasse la schiena, si mosse furtivo verso di lui.
“Yeti, che vuoi fare?” La voce di Paul era appena udibile, ma avrebbe potuto allertare Sedinho. Sperò che i tre capissero che dovevano stare zitti.
Quando fu abbastanza vicino saltò addosso al parrucchiere, costringendolo a mollare la presa sul suo prigioniero.
“Che diamine succede?”
“Succede che hai finito di fare il gradasso con quelle forbici.”
Roberto tentava di divincolarsi, ma la presa di Bob era salda, anzi, quel contorcersi non faceva altro che farlo sorridere.
“La pagherai per esserti messo in mezzo a questioni che non ti riguardano.”
Gli altri ragazzi l’avevano raggiunto sul prato e Paul non si era lasciato sfuggire l’occasione di mostrare la sua lingua lunga.
“Sta un po’ zitto tu, grande uomo!”
Bob rivolse la sua attenzione alla signora Becker e all’uomo che era con lei. Questo si teneva una mano sul collo, dove poco prima facevano pressione le forbici del parrucchiere.
“State bene tutti e due?”
La moglie del Sindaco recuperò un po’ di colore sulle guance:
“Ora sì, grazie a voi.” Rispose.
Oliver Hutton si voltò verso i suoi salvatori.
“Vi ringrazio anch’io.”
Bob Denver spalancò gli occhi per la sorpresa e sicuramente lo fecero anche i suoi amici, ma non seppe dire se era maggiore la loro o quella sul volto dell’architetto.
“Fantastico – esclamò Paul – abbiamo salvato questo disgraziato. Avremmo davvero fatto bene a non intrometterci.”
“Paul, smettila di dire sciocchezze.”
“Ma Yeti!”
“Ho detto basta!”
Johnny Mason si mise in mezzo, guardano la signora Becker e Hutton.
“Scusatelo, quando beve troppo non sa quello che dice. È ovvio che non avremmo lasciato che qualcuno minacciasse le vostre vite.”
“Io non sono ubriaco!” Diamond incrociò le braccia al petto, come un bambino offeso.
Bob alzò gli occhi al cielo.
“Meglio che portiamo questo qui alla centrale di polizia. Venite anche voi?” Chiese Carter.
La signora Becker rispose per entrambi:
“Vi raggiungiamo tra poco, riprendiamo un attimo fiato.”
 
 
 
Era tardi, molto tardi, ma Evelyn non riusciva a dormire, troppo eccitata per le notizie che aveva ricevuto dal cugino: Patricia Gatsby si era recata in albergo ed aveva riservato una camera per sé a tempo indeterminato. Nel farlo era parsa furiosa e sconvolta.
Evelyn aveva esultato di gioia.
Sicuramente quella sconsiderata aveva combinato qualche pasticcio e finalmente Tome aveva aperto gli occhi e l’aveva cacciata di casa. Ora lei avrebbe potuto dimostrargli che era la perfetta compagna per lui, altro che quella scriteriata.
Doveva raggiungerlo immediatamente, doveva andare alla villetta. Poteva sempre usare la scusa del lavoro, anche se a quell’ora della notte non sarebbe stata molto credibile.
Terminò di passare il mascara, infilò il cappotto ed uscì di casa.
Parcheggiò la sua piccola auto, un vecchio modello di Fiat 500 italiana, davanti alla villetta di famiglia dei Becker. Notò subito la luce del salotto accesa, segno che Tom era in piedi, troppo preso da preoccupazioni. Aveva fatto bene ad andare da lui.
Aprì il cancelletto esterno, che non veniva mai chiuso a chiave, e percorse il vialetto a passo spedito. Il suo Tom aveva bisogno di lei. Premette il pulsante del campanello.
Dopo un minuto di attesa il Sindaco apparve alla porta: era visibilmente stravolto, le occhiaie gli segnavano il volto.
“Evelyn! – la chiamò allarmato – È successo qualcosa di grave? Ho spento il telefono e…”
La donna avanzò e gli appoggiò una mano sulla bocca per farlo tacere.
“New Team Town sta benissimo, è tutto a posto. Ho saputo di tua moglie.
Le spalle di Becker si afflosciarono.
“La notizia sta già facendo il giro della cittadina?” Chiese amaramente il Sindaco.
“Non ancora, ma lo farà presto. Posso entrare?”
Tom si fece da parte per lasciare passare la segretaria all’interno, guidandola poi verso il salotto. Si buttò stancamente su una poltrona.
Evelyn non attese che le venisse detto nulla ed iniziò a togliersi il cappotto. Sopra i jeans indossava solamente una camicia bianca.
“Che cosa ha combinato? – Chiese all’indirizzo del Sindaco – Deve averla fatta proprio grossa!”
“Di chi parli?”
“Ma di Patricia, ovviamente.” Evelyn mise tutto il disprezzo che aveva nel pronunciare il nome della moglie del suo adorato Tom.
“Lei non ha fatto nulla.”
“Non è possibile!”
Tom alzò la testa, lanciandole uno sguardo inespressivo. Non ce la faceva a guardarlo in queste condizioni.
“Non riesci proprio a fare a meno di pensare male di mia moglie?”
Evelyn non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto.
“Perché non dovrei? È così inopportuna e scostumata.”
Il Sindaco sospirò:
“Perché sono io che ho fatto un casino e lei se n’è andata. L’ho persa per sempre.”
Per un attimo Evelyn non seppe cosa dire, non si aspettava una simile confessione. Sbatté velocemente le palpebre tre o quattro volte. Se era davvero così, se Patricia Gatsby se ne era andata per qualche piccola sciocchezza commessa dal marito, era davvero più stupida di quanto immaginasse. Tanto meglio per lei.
Raggiunse la poltrona di Becker e si sedette a cavalcioni delle sue gambe, passandogli le dita tra i capelli.
“Evelyn, no. Te l’ho già detto.”
L’uomo tentò di fermarla, senza troppa convinzione e lei non si fece convincere, non quella volta.
“Tua moglie non c’è più. Non ci sono più ostacoli.” Si aprì i primi due bottoni della camicetta, in un chiaro invito.
“Sono così stanco, Evelyn.” Fu l’ultima debole protesta.
“Allora lascia fare a me. Vedrai che ti sentirai presto meglio.”
Si chinò su di lui e lo baciò. Con una leggera pressione della lingua dischiuse le sue labbra e spinse il bacio più in profondità, alla francese. Era la resa incondizionata di Tom.
 
 
 
 
Il gruppo dei muratori del cantiere si era appena allontanato, portando con sé Roberto, tenuto a viva forza da Bob Denver con l’aiuto di Paul Diamond.
Patty era ancora scossa per quanto accaduto e non sapeva bene cosa fare.
Si accorse di un rivolo di sangue che colava sul collo di Oliver. Cercò un fazzoletto pulito nella tasca del cappotto e cominciò a tamponargli la ferita.
“Forse dovresti andare a farlo vedere ad un medico.”
Oliver scosse leggermente il capo, senza però muoversi troppo bruscamente da allontanare la sua mano.
“È solo un taglietto superficiale, non devi preoccuparti. Ti si rovinerà tutto il fazzoletto.”
“Figurati.”
“Lascia tenere a me.”
Oliver appoggiò la mano sulla sua, per reggere da solo il fazzoletto. Ancora una volte le sue dita formicolarono di calore e di piacere. Stava ritrovando le stesse sensazioni di prima che venissero interrotti da Roberto. Già, quel traditore…
Patty sfilò la propria mano e si allontanò di un passo, abbassando lo sguardo. Si sentiva colpevole.
“È tutta colpa mia.” Esalò.
“Non dire sciocchezze. Di cosa avresti colpe?” La voce dell’architetto aveva recuperato il tono dolce che lei aveva imparato a considerare famigliare durante la notte.
Guardò di sfuggita l’orologio da polso, ormai era tardissimo, le lancette avevano superato le ventitré.
“Ho incontrato Roberto prima di incontrare te, questo pomeriggio. Gli ho detto che ero furiosa con Tom e che volevo separarmi da lui.”
L’architetto recuperò in pochi  passi la distanza che lei aveva cercato di mettere tra loro.
“Patricia, guardami, non è colpa tua. Come potevi sapere che Roberto ti avrebbe seguito ed avrebbe tentato di farci del male?”
Patty alzò la testa. Negli occhi di Oliver non trovò traccia di biasimo e di accusa, eppure lei non riusciva a perdonarsi. L’aveva messo in pericolo e non poteva sopportarlo. Nel vederlo minacciato con delle forbici alla gola aveva capito quanto i loro incontri e le loro conversazioni fugaci all’orfanotrofio fossero diventate importanti per lei, quanto Oliver Hutton fosse stato una spalla discreta nell’ultimo periodo. Non era stata solo l’idea di ristrutturare il campo ad averle messo le ali ai piedi negli ultimi giorni, era stata l’idea di farlo con lui. L’idea di passare del tempo con lui.
Era parecchio tempo che non pensava ad un uomo in termini romantici, che non aveva riconosciuto i piccoli segnali del lento affezionarsi ed innamorarsi. E tutto avrebbe potuto finire prima di iniziare, perché non aveva capito chi fossero le persone che la circondavano.
“Mi sono fidata troppo di Roberto. Avrei dovuto capire che non era una brava persona.” Non demorse.
“Come? Roberto ha fregato tutti noi, con i suoi modi sdolcinati. E non è stato l’unico.”
Entrambi sospirarono all’unisono, ritrovandosi a scambiarsi uno sguardo quasi divertito per questo ed a lasciarsi andare ad una piccola risata.
Patty ne aveva bisogno, era fin troppo provata da tutto ciò che era successo in un solo giorno.
“Vorrei sapere in che razza di guai è andato a ficcarsi Tom.”
Una morsa le strinse lo stomaco: il Tom di una volta non si sarebbe mai lasciato comprare per ambizione, ora invece si accompagnava ai più loschi figuri di New Team Town che erano arrivati addirittura a minacciare la vita di Oliver Hutton. Solo perché lei aveva scelto di divorziare? Solo perché lei non poteva restare sposata con un uomo che dietro la facciata del Sindaco perfetto badava solo ai propri interessi? In che giro era rimasto invischiato?
I lineamenti di Oliver si indurirono, la mascella si serrava e i denti digrignavano.
“C’è in gioco molto di più di semplici guadagni legati a una truffa di materiali scarsi. C’è in gioco il controllo di tutta la cittadina.”
Patty ebbe l’impressione che lui volesse aggiungere altro, ma che non osasse farlo. Forse aveva paura di qualche altro osservatore indesiderato.
“Allora non possiamo starcene con le mani in mano, dobbiamo agire. Hai visto anche tu cosa hanno tentato di fare stasera!”
“Per questo non volevo che tu fossi coinvolta.”
Patty gli sorrise. Non aveva bisogno di chiederglielo per sapere che l’architetto teneva a lei quanto lei aveva capito di tenere a lui. Gliel’aveva letto in faccia tutte le volte che quella notte si era mosso in sua difesa. Quanto avrebbe voluto averlo conosciuto in altre circostanze, in una esistenza normale, non dove dovevano guardarsi le spalle dalla mala vita di una cittadina di provincia.
“Ormai sanno che sappiamo, non ci lasceranno mai in pace. Tanto vale combattere contro di loro che subire passivamente.”
La ferita sul collo di Hutton aveva smesso di sanguinare e lui stava riponendo nel giubbino il fazzoletto che gli aveva prestato.
“Te lo riporterò domani pulito.”
La donna portò le mani ai fianchi e socchiuse gli occhi:
“Stai cercando di cambiare argomento?”
L’architetto si portò una mano dietro la nuca. Patty aveva notato che era un gesto che compiva spesso quando era nervoso. Pensò di approfittarne e di avvicinarsi a lui.
“Io non mi arrenderò e nessuno mi fermerà.” Dichiarò decisa.
“Lo so. Ti conosco.”
Le sue parole la colpirono come una freccia al petto. Il cuore riprese a battere più veloce. Forse l’atmosfera di prima non era del tutto perduta.
Delicatamente, quasi titubante, appoggiò le mani sul petto dell’uomo, sul giubbino liscio e lucido. Nemmeno quella volta lui diede segno di volersi allontanare.
“Oliver… io…”
Si alzò sulla punta dei piedi.
“Credo… di… essere…”
Finalmente le loro labbra si incontrarono: sapevano di buono, sapevano di fresco, sapevano di vita.
 
 
 
Nell’esatto momento in cui si baciarono cominciò a formarsi intorno alle loro vite un piccolo cerchio d’aria. In pochi secondi divenne più spesso, poi, di colpo si allargò, fino ad investire e colpire tutta New Team Town, infrangendosi solo sui confini della cittadina.



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Di frettissima stamattina, ma ci tenevo a pubblicare l'aggiornamento puntuale.
Direi che siamo arrivati a un decisivo punto di svolta, ma la strada non sarà tutta in discesa.
La capitolazione definitiva di Tom con Evelyn non era nei piani, ma Ewan ha insistito per fargli raggiungere il punto più basso possibile, mentre Patty e Holly si ritrovavano. Date pure la colpa a lui. XD
La canzone che canta Paul da mezzo ubriaco è Gimme, gimme, gimme degli Abba.
 

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Capitolo 29
*** XVIII ***


L’uomo aveva riacquistato un minimo di lucidità, riuscendo a fermarsi all’ultimo momento dal disintegrare il frammento di cuore di Amy. Non doveva dimenticare che se la situazione fosse irrimediabilmente precipitata, la ballerina poteva essere il suo lasciapassare, la sua estrema risorsa, il suo ultimo asso nella manica. Ripose il piccolo rombo nel suo scrigno, mentre la sua luce pulsava molto flebilmente: aveva tirato la corda fino quasi a strapparla, la prossima volta avrebbe dovuto fare più attenzione. Chiuse il coperchio e reinserì la combinazione.
Uscì dalla stanza senza curarsi del caos in cui l’aveva lasciata, diretto con passo sicuro verso la cantina. Voleva vederci chiaro con la prigioniera, non era possibile che questi continui intoppi si stessero verificando tutti insieme, lei doveva aver fatto in modo di metterci il suo zampino, era l’unica soluzione possibile. Sarebbe arrivato fino in fondo con lei.
Spostò lo scaffale che nascondeva la cella e vi entrò. Entrambi i prigionieri erano legati alle catene e stranamente svegli: aveva trovato più volte la donna in stato di sonno profondo quando, nelle ultime settimane, era sceso a controllare che tutto fosse in ordine.
Non si preoccupò di nascondere il volto, era certo che Atsushi non ricordasse niente del suo passato e se anche lo avesse riconosciuto come uno degli abitanti di New Team Town cha aveva incontrato in centro, non poteva andare a raccontarlo a nessuno.
Si rivolse con tono aggressivo alla donna:
“Dimmi, ci sei tu dietro a tutto questo?”
“Questo cosa?” Ribatté lei.
“Non fare la finta tonta. Quello che sta succedendo in città?”
La donna si alzò e fece un paio di passi avanti.
“Come faccio a sapere quello che sta accadendo in città, se sono chiusa qui dentro da mesi? L’unico che mi porta notizie dall’esterno, sei tu. Non mi starai di nuovo sopravvalutando?”
“Impertinente! – sibilò tra i denti l’uomo – Dimmi come diavolo hai fatto a fare in modo che Tsubasa e Sanae arrivassero quasi a ritrovarsi?”
Con la coda dell’occhio vide che Jason Brown osservava la scena ad occhi sbarrati.
“E tu cos’hai da guardare?”
“Che c’è, hai la coda di paglia?” La donna lo stava provocando apertamente.
“Come osi!” Si lanciò verso la prigioniera ed alzò la mano destra per colpirla.
Un’onda d’aria investì in pieno la cantina ed i suoi occupanti. L’uomo avvertì la testa girare e l’aria sfuggirgli per qualche secondo, poi tutto si fermò. Seppe con certezza che parte della maledizione era stata spezzata.
Atsushi era seduto per terra, ancora scosso e intontito, mentre la donna non sembrava aver subito particolari conseguenze dal cambiamento della situazione, segno che aveva già recuperato buona parte dei suoi ricordi da un pezzo. Ancora non aveva capito come, ma non aveva più importanza.
Tutto era crollato.
Un moto di rabbia lo invase di nuovo alimentato dal sorriso trionfante che era apparso  sul viso della prigioniera.
“Sei fregato!”
“Non credere che sia così facile: ho il mio piano di riserva e a quello stordito di Tsubasa ci vorrà un po’ per capire che ci sono io dietro a tutto.”
Lo scherno sul volto della donna non accennava ad andarsene.
“Certo, ma forse avresti fatto meglio a tenere Roberto al guinzaglio, vicino a te.”
L’uomo si morse la lingua: come aveva fatto ad essere così stupido da mandare proprio Roberto sulle tracce di Tsubasa e Sanae? Tra tutti i suoi sottoposti era l’unico che aveva un legame col calciatore che poteva definirsi stretto, al punto che avrebbe potuto andare  subito a vuotare il sacco. Avrebbe dovuto prevederlo!
La rabbia lo rese folle e lo fece avventare sulla donna, scuotendola con forza. Poi prese un teaser e la stordì facendole perdere i sensi. La liberò dalle catene e se la caricò in spalla come un sacco di patate.
“Ora tu verrai con me e quando saremo lontani la pagherai cara!”
“Tu, che ci fai qui? Dove siamo? E che cosa le stai facendo?” Gridò l’altro prigioniero.
“Ben tornato tra noi, Atsushi. – lo schernì – Purtroppo non posso trattenermi, ho dei conti da regolare con la nostra amica.”
“Non ti azzardare a farle del male! Torna qui!”
L’uomo lo ignorò, riposizionò lo scaffale, soffocando la sua voce: avrebbe potuto gridare fino a sgolarsi, ma nessuno l’avrebbe sentito.
Si diresse in garage e dal parco macchine scelse la berlina nera dai vetri posteriori oscurati, la più adatta a confondersi tra le altre auto della cittadina.
Gettò in maniera rude la donna nel bagagliaio, legandole polsi e caviglie con dello spesso nastro isolante, senza dimenticare di applicarne una striscia anche sulla bocca.
Tornò in casa a recuperare una sacca che teneva pronta in un mobile all’ingresso, contenente tutto il necessario per la fuga, e lo scrigno col frammento di cuore di Amy.
Caricò tutto in auto e si mise alla guida. Doveva fare presto: doveva arrivare ai piedi della collina prima che Tsubasa e qualcuno dei suoi amichetti decidessero salire alla villa ed imboccassero l’unica strada che la raggiungeva. Indossò una berretta, nella speranza di essere meno riconoscibile.
Di sicuro non sarebbe mai riuscito ad arrivare da solo ai confini della città, se non erano stupidi li avrebbero messi subito sotto sorveglianza. Una volta arrivato in centro doveva procurarsi un autista, un insospettabile che avrebbe guidato per lui e che gli altri non avrebbero provato a fermare.
Ora che tutti avevano riacquistato la memoria, avrebbero potuto uscire senza problemi dalla città, quindi poteva servirsi di qualcuno.
Passò la mano destra sullo scrigno, sapeva esattamente chi avrebbe fatto al caso suo.
 
 
 
 
Holly si separò da Patty, era inebriato dal bacio che si erano appena scambiati, gli sembrava quasi di essere tornato a Nankatsu, a giorni più spensierati. A una sera d’estate, tornando a casa dalla fiera. A quando entrambi potevano amarsi liberamente, senza il timore di ferire altre persone.
Guardò la donna e la vide spalancare di colpo gli occhi.
“Tsubasa!” Esclamò la moglie del Sindaco.
Holly avvertì un brivido lungo la schiena, come poteva essere che lei si fosse svegliata?
“Cosa hai detto?”
“Tsubasa Ozora, non mi riconosci?”
L’architetto gridò dalla gioia.
“Sanae! Sei tornata!”
Tsubasa abbracciò la donna che amava, stringendola forte a sé e inspirando il suo profumo. Era un momento perfetto, avrebbe voluto farlo durare un tempo indefinito, ma sapeva che non era possibile, c’erano cose che andavano fatte.
“Tsubasa, mi sei mancato così tanto.”
“Anche tu!” Depositò un piccolo bacio sulla sua testa.
Sanae si strinse più forte a lui.
“Credi che sia stato il tornado al nostro matrimonio a portarci qui?” Domandò la donna.
Ozora si fece pensieroso: subito non se ne era reso conto, stupito dallo scoprire che Sanae avesse riacquistato il ricordo della sua identità, ma anche la sua memoria stava riempiendo le lacune che il suo risveglio parziale aveva lasciato. Ora ricordava il matrimonio, la festa alla villa di Genzo e lo strano tornado che li aveva investiti. Aveva cercato di tenere Sanae salda a sé, invece l’aria era stata troppo forte e li aveva scagliati lontani l’uno dall’altro, per farli finire a New Team Town senza memoria l’uno dell’altro: vicini, eppure lontanissimi.
“Penso di sì. Kitty ha sempre sostenuto la tesi di una maledizione ed una tromba d’aria è un ottimo modo per metterla in pratica.”
Di colpo sua moglie si allontanò da lui e si portò entrambe le mani alla bocca, scuotendo leggermente la testa. Era mortificata.
“Mi dispiace Tsubasa – quasi balbettava – io non volevo essere sposata con Taro. Ti giuro che lui per me è sempre stato solo un amico, è questa realtà distorta che ci ha messo insieme.”
Per la prima volta da quando aveva iniziato a ricordare, a Tsubasa non fece male il pensiero di Misaki e Nakazawa insieme. Ora sapeva che la sua Sanae non aveva smesso di amarlo. Si sentì di colpo molto più leggero.
Si lasciò andare ad una risata liberatoria.
Forse non era molto appropriata, infatti la signora Ozora mise le mani sui fianchi con fare minaccioso:
“Tsubasa Ozora, cosa ci sarebbe di così divertente in questa situazione?”
Il calciatore si ricompose e si raddrizzò meglio.
“In realtà nulla. Solo le paranoie delle ultime settimane che si dissolvono.”
“Aspetta, vorresti dirmi che sono settimane che ricordi la verità?”
L’uomo annuì.
“Non ricordavo tutto. – ebbe un’idea improvvisa – Pensi che anche qualcuno degli altri stia cominciando a ricordare?”
“Tsubasa!”
La voce trafelata di Roberto li interruppe di colpo. Entrambi si voltarono e videro l’ex campione brasiliano arrivare di corsa, seguito dai ragazzi della vecchia Shutetsu: Takasugi, Izawa, Taki e Kisugi, c’erano tutti a parte Wakabayashi.
Roberto si fermò davanti a lui, piegandosi sulle ginocchia per il fiatone .
“Sono troppo fuori allenamento.”
Sanae socchiuse gli occhi, sospettosa:
“Cosa ci fate tutti qui? Lui non doveva andare alla polizia?”
Mamoru rispose al volo, piuttosto piccato.
“Ci stavamo andando, ma siamo stati investiti da una sferzata d’aria e abbiamo cominciato a ricordare.”
Tsubasa era felicissimo, come non gli accadeva da tempo: i suoi amici si stavano svegliando, forse c’era la possibilità che anche altri a New Team Town stessero ritornando in sé.
“Quindi voi sapete tutti chi siete?”
I quattro fecero dei cenni affermativi con la testa. Roberto si sollevò, aveva finalmente recuperato il fiato.
“Io so chi ha fatto tutto questo!”
 
 
 
 
Padre Ross era seduto sulla poltrona nella stanza di Amy, quando l’onda della maledizione che si spezzava travolse l’ospedale.
La sua testa fu presa da una vertigine improvvisa, dal turbinio dei ricordi di una vita dimenticata che andavano prima a mescolarsi con la sua vita presente, poi ad incastrarsi come tessere di un puzzle. Un pallone a scacchi, la sua consacrazione, la Musashi, l’arrivo nella parrocchia di New Team Town, la nazionale giapponese, le prediche nella sua chiesa, uno schiaffo dato per rabbia ad una ragazzina che poi fuggiva piangendo.
Jun Misugi sbatté gli occhi, rimettendo a fuoco il letto in cui giaceva la ballerina che aveva soccorso.
“Yayoi!” Balzò in piedi per avvicinarsi alla donna, desiderando di essersi sbagliato.
I capelli rossi sparsi sul cuscino, i lineamenti  delicati, la piccola voglia sul collo, a destra, tra l’orecchio e la carotide: non c’erano dubbi che la donna attaccata ai macchinari fosse Aoba.
Le gambe iniziarono a tremargli, con gli occhi cercò il monitor per leggere i dati alla ricerca di rassicurazioni. Le onde indicavano una leggera tachicardia che stava però rientrando nella norma, probabilmente una conseguenza dell’urto che aveva travolto la stanza, mentre la pressione era bassa. Ricapitolò mentalmente la conversazione avuta nei panni del reverendo con la dottoressa: “la sua vita è ancora appesa ad un filo” e “Probabile presenza di un difetto cardiaco” erano le due frasi che continuavano a rimbalzargli in testa.
Scosse la testa, non voleva pensarci, non voleva crederci.
Prese la sua mano destra tra le proprie, portandola vicino alle labbra.
“Yayoi, ti prego, non te ne andare. Tu devi svegliarti e guarire.”
Nel suo passato, nella sua vita da calciatore, si era rapportato spesso con la malattia, ma era rimasto limitato a sé stesso, non aveva mai provato l’inquietudine di doversi preoccupare per qualcuno a cui tenesse. Era come avere un macigno nel petto.
 
 
 
 
 
Jenny aveva appena terminato di pulire il bancone e le macchine del caffè. Quella sera avevano tenuto aperto più a lungo del consueto a causa di una serata di compleanno organizzata da vecchi amici di Jack: un gruppo piuttosto rumoroso e su di giri, ben diverso dalla clientela abituale del Fiore del Nord. Qualcuno di loro si era anche azzardato ad una o due battute di troppo nei suoi confronti e lei si era ritrovata a trattenere il fiato, temendo una reazione del compagno, ma questo aveva ignorato la cosa, almeno fino ad ora.
Si voltò per riporre gli strofinacci nel retro e si trovò davanti Jack con le braccia incrociate. Involontariamente sobbalzò.
“Di’ la verità: ti sono piaciuti gli apprezzamenti di Michael!”
La donna scosse la testa, cercando di mantenere la calma.
“Jack, ne abbiamo già parlato: sono solo commenti di clienti, non posso mettere il bavaglio a chi entra qua dentro.”
Morris assottigliò lo sguardo:
“O non vuoi perché ti piace? Tu non la racconti giusta.”
“Quelli di stasera erano tuoi amici, avresti potuto tenerli a bada tu!” Jenny si morse la lingua non appena terminata la frase. Le era scappata, ma si era resa subito conto di aver commesso un passo falso, aveva offerto il fianco a Jack per liberare tutta la sua gelosia.
“Come ti permetti, stronzetta? È così che mi ripaghi?”
La sberla la colpì in faccia all’improvviso, facendole bruciare sia la guancia che l’orgoglio. Sollevò lo sguardo sul fidanzato ed ebbe paura come mai prima: Jack era veramente fuori di sé, non l’aveva mai visto così furioso ed aggressivo, non era stato così nemmeno quando aveva fatto arrestare quel povero giornalista.
L’uomo sollevò il braccio e Jenny si coprì il volto con le braccia, nel tentativo di evitare il nuovo colpo. Uno spostamento d’aria la fece cadere a terra e sbattere sul pavimento.
“Ma che diamine…”
Sentì la voce di Jack imprecare e sovrapporsi ad un’altra voce conosciuta.
Per dei lunghissimi istanti si sentì spaesata, come se non sapesse dove fosse, ma soprattutto chi fosse. Aveva la testa leggera, come se fosse stata svuotata di tutto. Ogni cosa era avvolta dalla nebbia.
“Fujisawa! Fujisawa!”
Qualcuno la chiamava con un nome che non sentiva da parecchio tempo e bruscamente la riportò alla realtà.
Hanji Urabe la guardava con un misto di stupore e di raccapriccio sul volto.
“Stai bene?” Le chiese.
Lentamente annuì, incerta se fidarsi o meno dell’uomo che l’aveva appena schiaffeggiata ed era stato sul punto di rifarlo. Eppure, da che ricordava, Hanji Urabe non aveva motivi per colpirla… Era tutto così confuso.
“Cosa è successo?” Domandò.
“Non lo so. Mi sembra di essere intrappolato in due vite diverse e in una di queste ti ho trattato di merda. – Abbassò il capo – Io non volevo colpirti, sono mortificato. Non ero io quello.”
Yoshiko si alzò in piedi guardandosi attorno, non riusciva a fidarsi dell’uomo che aveva davanti, gliene aveva fatte passare troppe e lei sentiva di non essere remissiva come Jenny, come quella che era stata fino a poco prima.
“So di non avere un ottimo carattere, ma ti giuro che se fossi stato in me, non avrei mai messo le mani addosso ad una ragazza.”
Sembrava sincero, eppure lei non voleva restare lì da sola con lui, voleva andare via, voleva trovare Hikaru. Solo con Matsuyama si sarebbe sentita al sicuro.
Il telefono di Urabe squillò, dando una scossa alla situazione di stallo in cui erano giunti.
L’uomo alzò rispose piuttosto perplesso alla chiamata:
“Pronto?”
Yoshiko vide alternarsi varie espressioni sul suo viso, dall’incredulità, alla consapevolezza per finire ad una parvenza di gioia. Si domandò chi potesse esserci dall’altro capo del telefono che potesse avere un simile effetto a quell’ora della notte.
Hanji chiuse la chiamata e la guardò fisso:
“Era Ishizaki. Gli altri si stanno radunando tutti in piazza. Tu vieni?”
 
 
 
 
 
Jun aveva avvicinato la poltrona al letto, in modo da poter tenere la mano a Yayoi. Aveva sperato che, come si era svegliato lui dal torpore di quella vita fasulla, allo stesso modo si risvegliasse anche lei dallo stato di incoscienza in cui era caduta.
Aoba era sempre stata sanissima, non ricordava si fosse mai presa nemmeno un raffreddore, eppure in quel posto assurdo in cui erano finiti, l’aveva trovata svenuta per strada in arresto cardiaco. Il pensiero di perderla senza poter far niente per impedirlo lo faceva sentire impotente. Aveva appena iniziato gli studi di medicina, non aveva le competenze necessarie per fare qualcosa di concreto. Negli ultimi sei anni era stato un uomo di fede, ma nella sua vita precedente la fede in qualsiasi divinità aveva trovato poco spazio, si era spenta tempo prima, quando un ragazzino aveva ricevuto la sentenza che avrebbe potuto distruggere tutti i suoi sogni.
Una variazione nei suoni del monitor gli fece alzare di scatto la testa: le pulsazioni di Yayoi stavano diventando irregolari. L’allarme cominciò a suonare per richiamare il personale sanitario.
Il tracciato sul monitor si trasformò in una linea piatta: il cuore di Yayoi si era fermato un’altra volta.
La dottoressa e gli infermieri irruppero di corsa nella stanza, col carrello d’emergenza, iniziando le manovre del caso.
“Padre Ross, si sposti.”
Jun era paralizzato dallo shock. Qualcuno lo allontanò di peso verso la porta.
“Yayoi!” Gridò allora.
La dottoressa con cui aveva parlato delle condizioni di Amy lo spinse fuori dalla stanza.
“Lascia fare a noi, Misugi. – gli disse, voltandosi poi per dare ordini e tornare accanto ad Aoba – Una dose di epinefrina e caricate il defibrillatore.”
“Akamine!” Sussurrò Jun, ma non poté fare altro che restare a guardare mentre altri si occupavano di salvare la sua ragazza.
Ogni volta che vedeva il suo corpo inerte sollevarsi per la forza della scarica elettrica e poi ricadere, era come ricevere una pugnalata.
Non poteva perderla ora che l’aveva appena ritrovata!
Ci vollero… aveva perso il conto del numero di tentativi necessari, sapeva solo che sul monitor erano riapparsi i picchi tipici dell’attività cardiaca regolare.
La dottoressa e gli infermieri uscirono dalla stanza.
“L’abbiamo stabilizzata, per ora.”
Jun annuì meccanicamente e si rese conto di aver entrambe le guance bagnate di lacrime.
Avanzò di un passo per tornare da Yayoi. Una mano gli si posò su una spalla.
“Misugi – lo chiamò una voce conosciuta – stai bene?”
L’uomo asciugò in fretta il viso e si voltò verso il suo interlocutore.
“Natureza. Non credevo di trovarti qui.”
Il brasiliano accennò un sorriso.
“Sono tempi strani. – inclinò la testa in direzione della stanza, facendo oscillare la sua pettinatura rasta – Qualcuno che conosci?”
“La mia ragazza.” Non appena finito di rispondere, ebbe la sensazione che avrebbe fatto meglio a tacere.
“Mi dispiace che sia quasi morta… due volte.”
“Come lo sai?” Balbettò Jun, era stordito da quanto appena successo, ma non al punto da non rendersi conto che l’uomo accanto a lui non avrebbe dovuto conoscere quell’informazione.
“Se vuoi salvarla, dovresti seguirmi. - rispose Natureza, mostrando la mano destra in cui custodiva un oggetto luminoso. – O preferisci che ti dia un’altra dimostrazione di ciò che posso farle, come poco fa?”






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Dopo la pausa del Writober eccoci con un nuovo capitolo in cui scopriamo finalmente le conseguenze del bacio tra Holly e Patty: come nelle fiabe il bacio del vero amore ribalta la situazione e consente a tutti(?) di ricordare. Il ricordo arriva in modo diverso per ognuno di loro, ma arriva.
E finalmente abbiamo il nome del misterioso Mister X, qualcuno l'aveva anche ipotizzto in qualche recensione.
Tutto pare stia crollando, ma il nostro cattivo non è disposto a darsi per vinto...

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Capitolo 30
*** XXIX ***


Si erano spostati in piazza, dove era più facile che tutti confluissero una volta recuperata la memoria. Qualcuno era stato allertato con una chiamata direttamente da lei o da uno dei ragazzi del vecchio quartetto della Shutetsu, poi a catena, tramite il giro delle conoscenze incrociate in quella nuova realtà erano riusciti a raggiungere quasi tutti i membri della Generazione d’oro e chi li conosceva da vicino.
L’atmosfera che Sanae respirava era un miscuglio di emozioni diverse, ma su  tutte dominavano lo stupore e la gioia per essersi risvegliati e ritrovati in quella strana realtà, dove il loro mondo era andato tutto a rovescio e gli amici di sempre si erano ritrovati ad essere acerrimi nemici.
Era lì, mano nella mano con Tsubasa che osservava l’arrivo degli altri da soli o in piccoli gruppi, a cominciare da Ishizaki che si era gettato in ginocchio davanti ad Ozora  per chiedere perdono per tutte le sue malefatte e tutto ciò che aveva fatto subire al povero ed innocente architetto.
“Tsubasa, ti prego perdonami! – strillava – Io non so cosa stessi facendo! Sai che non l’avrei mai fatto intenzionalmente. Sei il  mio idolo, non ti avrei mai trattato così.”
“Ryo, alzati. Non c’è bisogno che ti scusi di nulla.” Tsubasa, come suo solito, era fin troppo disposto a perdonare da subito, ma era anche per quello che Sanae lo aveva sposato.
“Se fossi stato in me ti avrei difeso a spada tratta da chi ti credeva colpevole di aver fatto del male a Genzo! Io so che sei troppo in gamba per aver fatto una cosa del genere.”
Ora la cosa stava sfiorando il ridicolo, ancora un po’ e Ryo avrebbe dichiarato eterno amore al suo capitano. La signora Ozora decise di intervenire per porre fine a quello spettacolo indecoroso.
“Ishizaki, smettila! Ti rendi conto che stai attirando l’attenzione di tutti e ti stai rendendo ridicolo? Capisco che sia più forte di te, ma c’è un limite a tutto!”
Quelli più vicini ai coniugi Ozora ridacchiarono per l’affermazione di Sanae, mentre il diretto interessato si rialzava e batteva leggermente in ritirata, non rinunciando a lanciarle a sua volta una frecciatina.
“Vedo che non sei cambiata per nulla, Anego.”
Sanae si stinse nelle spalle. Era bello sentire nuovamente il suo vecchio soprannome, i panni della composta ed inappuntabile signora Becker le erano stati decisamente scomodi e solo una volta risvegliata si era resa conto di quanto la situazione avesse soffocato la sua vera natura.
Non appena il  suo pensiero indugiò sul Sindaco lo vide arrivare in fondo alla strada, seguito da Yukari. Vederli insieme la sorprese, sapeva che la segretaria abitava lontano dalla loro villetta, non era possibile si fossero incrociati per strada. Il fatto che fossero giunti dalla stessa direzione a quell’ora della notte lasciava campo libero all’immaginazione e confermava parecchi suoi sospetti sulle mire della donna: aveva sempre presentito che volesse portarle via il marito. Per assurdo la cosa le diede fastidio: pur sapendo che la realtà in cui erano vissuti fino a poco prima era fittizia, frutto di una mente perversa, ed i sentimenti che avevano legato lei e Taro avevano ben poco di reale, scoprire tra le braccia di un’altra l’uomo che fino a quel pomeriggio aveva sostenuto di amarla la addolorava. Rendeva ancora più insostenibile il peso del castello di bugie.
Sia Misaki che Nishimoto si avvicinarono con gli occhi bassi, evidentemente sapevano di essere in fallo. Se Roberto non avesse fornito loro un altro nome, per come il Sindaco Becker si era comportato e per tutti gli altarini che aveva sempre nascosto, avrebbe quasi sicuramente puntato il dito contro di lui come mente dietro tutto quanto accaduto. Anche a costo di litigare con Tsubasa, lui non avrebbe mai accettato che il suo migliore amico potesse avergli procurato tanta sofferenza.
Difatti il marito mollò la sua mano e corse ad abbracciare Misaki, che in un primo tempo lo guardò stralunato.
“Taro! Come sono felice di vedere che stai bene e che sei tornato!”
“Gra… grazie Tsubasa – Misaki rispose esitante – non credevo che avresti fatto i salti di gioia a vedermi.”
“E perché mai?”
Taro si allontanò dall’amico e sospirò profondamente, spostando per qualche secondo lo sguardo anche su di lei.
“Vuoi davvero che ti faccia l’elenco dei motivi per cui dovresti odiarmi?” il Sindaco alzò le sopracciglia con fare ironico, mentre Tsubasa allargava le braccia.
“È un altro quello da biasimare e che dovrà rendere conto a tutti di quanto avvenuto qui.”
Sanae scuoteva la testa al discorso del marito. Avrebbe forse dovuto dire del primo marito da quel momento?
Lei non era così pronta al perdono, per quello non aveva fatto nemmeno mezzo passo verso Yukari, verso colei che era stata la sua confidente negli anni di separazione da Ozora mentre inseguiva il suo sogno in Brasile. Il sangue cominciò a ribollirle, quella maledetta nazione era sempre stata la causa della sua sofferenza fin da ragazzina!
“Sanae…” Nishimoto sollevò la testa nel tentativo di intavolare  un dialogo con lei, ma venne bloccata da Ryo che le saltò addosso in uno slancio di affetto.
“Yukari, quanto mi sei mancata!”
“Ryo, datti una calmata! – Ribatté la donna, sembrando anche piuttosto scocciata – Non davanti a tutti.”
Ishizaki non sentiva ragioni:
“Cosa vuoi che mi importi degli altri? Dopo anni che non ci siamo più potuti frequentare.”
Sanae sgranò gli occhi, cogliendo il doppio significato dietro alle parole dell’uomo. Non credeva che Yukari e Ryo avessero cominciato ad uscire insieme ai tempi della loro vita precedente.
“Brutto stronzo! Questo è quello che ti meriti!”
L’esclamazione fece voltare tutti di scatto verso Matsuyama che guardava furente Hanji Urabe, mentre Hyuga cercava di trattenerlo.
“Hikaru, non ne vale la pena.”
“Ah, no? – Chiese il gelataio con astio -  Ti rendi conto di quello che ha fatto a Yoshiko?”
Urabe si massaggiava una guancia, dove evidentemente era stato colpito. Matsuyama non aveva certo avuto la reazione pacata di Tsubasa al risveglio. A Sanae non sarebbe del tutto dispiaciuto vedere Tsubasa prendere a pugni qualcuno, ma poi ricordò che Ozora aveva fatto a botte per lei in passato. Cercò Kanda tra la folla, ma non lo vide, forse non era stato raggiunto dalla loro catena di messaggi.
“Matsuyama ha ragione, mi merito questo.”
La risposta di Hanji scosse la signora Ozora dai suoi pensieri.
“Lo vedi, Kojiro? Lasciami andare!”
“Adesso basta!” La voce di Tsubasa si levò come un tuono, mentre il calciatore si avvicinava ai contendenti con ampie falcate, attirando su di sé le attenzioni dei presenti.
“Non vi è bastato essere stati messi gli uni contro gli altri per gli ultimi anni? Amico contro amico, compagni separati da distanze incolmabili? Ora che ci siamo ritrovati dovremmo stare uniti e se proprio ci venisse voglia di sfogare la nostra frustrazione, dovremmo rivolgerla contro il vero responsabile di tutto ciò!”
Sanae lo guardò con ammirazione: Ozora era un leader nato, che sapeva placare gli animi quando necessario ed indirizzare lo spirito battagliero nella corretta direzione. Per quello i ragazzi sul campo lo seguivano in qualsiasi sua decisione, per quello li aveva trascinati alla vittoria del campionato mondiale under 19.
“E tu sai forse chi è il nostro grande nemico?” La voce di Ken Wakashimazu arrivò dal fondo del gruppo, con la domanda che, Sanae ne era sicura, tutti avevano sulla punta della lingua.
Roberto si allontanò dalla folla e raggiunse Tsubasa al centro della piazza, prendendo la parola:
“Natureza. È stato Natureza. Il perché lo ignoro.”
“E tu come lo sai?” Incalzò Hyuga, che non aveva di certo per l’ex campione brasiliano la stessa stima che avevano i ragazzi di Nankatsu.
Hongo sospirò, ma sostenne gli sguardi di tutti.
“In questa realtà io ero uno dei suoi tirapiedi. Non si è mai preoccupato di nascondere la sua identità a noi, ma non ci ha mai svelato nel dettaglio cosa avesse fatto, so solo che dalla sua residenza muoveva i fili di tutto quanto avvenisse qui a New Team Town.”
Urabe fece una sorta di pernacchia con la bocca.
“La sua residenza? Il negozio di frutta nel quartiere latinoamericano? E come faceva, vendeva banane con microchip nascosti all’interno?”
Sanae vide qualcuno annuire alle domande provocatorie di Hanji. Effettivamente le sue non erano obiezioni campate del tutto per aria, avevano un loro fondamento.
“Quella era solo una copertura, la sua vera residenza…”
Roberto non terminò la frase. Un auto di lusso arrivò in piazza a velocità sostenuta e si arrestò inchiodando di colpo a pochi centimetri dal gruppo. Ne scese un uomo alto e robusto che, nonostante l’ora sempre più assurda della notte, indossava un berretto sportivo con visiera.
“Allora, che mi sono perso?”
“Genzo!” Urlò Tsubasa, correndo incontro all’amico ed abbracciandolo forte.
Sanae sbatté gli occhi un paio di volte: l’ultima volta che aveva visto Wakabayashi era su una sedia a rotelle nei panni di Benjamin Price, il sempre incazzato ex capocantiere di New Team Town, ora lo ritrovava in piedi e perfettamente ristabilito. Evidentemente la rottura della maledizione aveva spazzato via la sua condizione di invalidità. La donna cominciò a sospettare che l’incidente al cantiere non fosse mai avvenuto e fosse frutto di ricordi contraffatti.
Fece qualche passo in avanti, felice di aver ritrovato quell’amico.
“Wakabayshi, sei in splendida forma.” Gli disse.
Il portiere si separò da Tsubasa e contraccambiò il suo saluto.
“Anche tu! Ma credo che tu ti stia ritrovando con un marito di troppo.”
Sanae si sbatté una mano sulla fronte, non era decisamente il momento di parlare di quello, c’erano questioni ben più urgenti da sistemare.
“Roberto, dicevi di Natureza e del negozio?” Domandò ad Hongo.
Il brasiliano si schiarì la voce.
“Il negozio era solo una copertura, un po’ come il mio che utilizzavo per raccogliere informazioni. Natureza gestiva ogni cosa dalla villa sulla collina.”
Istintivamente le teste di tutti si voltarono nella direzione indicata dal parrucchiere, dove la sagoma della villa svettava lontana.
“Io credevo fosse disabitata.” Sussurrò Ishizaki.
“È quello che Natureza voleva far credere. – rispose Roberto – Non avete idea del via vai che ci fosse lassù in certe giornate.”
Gli occhi di Genzo si assottigliarono, poi giunse l’esplosione:
“Stai dicendo che il bastardo che ci ha fatto questo dirigeva tutto il teatrino dalla mia villa? Appena mi capita a tiro lo strozzerò con le mie stesse mani!”
Sanae sapeva che difficilmente Wakabayashi minacciava a vuoto ed un brivido di angoscia le percorse la schiena.
“Genzo…” Sussurrò. Voleva farlo calmare, ma non sapeva bene cosa dirgli.
“Io vado lassù! Nessuno tocca Villa Wakabayashi senza il mio permesso!”
“Vengo con te! – Ryo si era scaldato a ruota dietro il compagno – andiamo a sistemare per le feste quello stronzo.”
“Rallenta Ishizaki.” La voce di Tsubasa era così calma, come se fosse diventato imperturbabile.
“Tsubasa ha ragione. – Roberto parlò di nuovo – Se conosco Natureza non se ne sarà rimasto lassù ad aspettare come un topo in trappola. Starà facendo di tutto per lasciare questo posto da vincitore, alle sue condizioni. Sa giocare parecchio sporco.”
Kojiro incrociò le braccia al petto e grugnì:
“Ce ne siamo accorti.”
Sanae ebbe come l’impressione che dietro le parole di Roberto si celasse molto di più di quanto l’uomo stesse dicendo, un pericolo maggiore di quanto tutti loro potessero immaginare. Del resto se era stato in grado di modificare le memorie a tutti loro e di portarli in quel posto sconosciuto chissà cos’altro sapeva fare. Si rese conto che stanarlo sarebbe stato pericoloso, avrebbero rischiato di perdere chi avevano appena ritrovato. Lei avrebbe potuto perdere Tsubasa, di nuovo. Non poteva sopportarlo.
Eppure anche lei aveva una gran voglia di vedere quel disgraziato, per usare un’espressione gentile, patire anche solo la metà di quello che aveva fatto subire a loro. Di certo non sarebbe venuto a consegnarsi di sua spontanea volontà, qualcuno doveva catturarlo.
Si sentiva in un vicolo cieco, qualsiasi decisione avrebbero preso avrebbe potuto andare male.
Ozora prese in mano di nuovo la situazione:
“Ci divideremo in gruppi: qualcuno salirà alla villa, qualcuno andrà anche al negozio, per precauzione, per controllare anche i posti scontati. Gli altri si organizzeranno a sorvegliare i confini della città. Dobbiamo fermare Natureza a tutti i costi!”
Un ruggito di approvazione esplose tra i ragazzi della Generazione d’oro.
Forse solo lei e le altre ragazze, Yukari e Yoshiko, non erano così convinte. Chissà che ne pensavano Yayoi o Kumi, oppure Maki. Le cercò con lo sguardo, ma non le trovò. Si rese conto che parecchie persone che erano intervenute al matrimonio non erano arrivate nella piazza.
Sfiorò delicatamente un braccio al marito.
“Tsubasa – gli disse – qui non ci sono tutti. Molti ancora mancano. Io cercherò di rintracciarli tutti.”
Tsubasa annuì.
“Sono stupito di non vedere Kitty: lei era sempre stata una sostenitrice della teoria della maledizione.”
“Lei sapeva di noi?”
“In un certo senso.”
Roberto sospirò di nuovo, guadagnandosi l’attenzione della coppia.
“Non so se rivedremo mai quella donna, Natureza voleva che fosse tolta di mezzo in maniera definitiva: la considerava pericolosa.”
La rabbia esplose nel petto di Sanae. Non bastava aver stravolto le vite di tutti, ora Natureza si dava anche all’omicidio? Che razza di persona era?
“Vi prego, prendetelo, gettatelo in prigione e buttate via la chiave!” Gridò, sentendosi sostenuta da un altro ruggito di approvazione dei ragazzi.
Genzo si mise davanti a Tsubasa, con piglio deciso:
“Io salgo alla villa: è casa mia e nessuno metterà più piede là dentro senza di me.”
Ozora annuì.
“Vai e portati qualcuno di fidato.”
“Stai attento, Natureza teneva dei prigionieri lassù, in una stanza segreta in cantina.”
Fu l’ultimo avvertimento di Roberto prima che Genzo risalisse in macchina seguito dai ragazzi della Shutetsu.
 
 
 
 
Genzo parcheggiò davanti all’ingresso della villa, sempre più disgustato. Mano a mano che si erano avvicinati il profilo di dell’abitazione era diventato più chiaro e familiare, riportandogli alla mente tutti i momenti trascorsi tra quelle mura con i genitori, con Mikami e con gli amici. Quel luogo era una sorta di tempio sacro per lui ed era stato profanato dal bastardo che aveva voluto rovinare le loro vite. Chissà poi perché. In fondo con Natureza si erano scontrati un’unica volta sul campo da calcio, nella finale del World Youth, era un avversario come tanti, non c’era stato nulla di personale nel loro scontrarsi. Non era possibile che avesse messo in piedi un simile teatrino solo perché aveva perso una partita, seppur importante. Cosa aveva, undici anni? Anche lui in passato non aveva preso bene le sconfitte od il subire un solo gol, ma erano fatti che risalivano a quando, appunto, era solo un ragazzino, anche piuttosto viziato, doveva ammetterlo. Ma poi era cresciuto.
Scese dall’auto stringendo i pugni con forza, al punto che le nocche sbiancarono.
“Capitano, tutto bene?” Mamoru accanto a lui era preoccupato.
“Come ti sentiresti se uno stronzo si installasse in casa tua?”
“Non bene, per questo ti ho chiesto.”
Wakabayashi annuì, era inutile mettersi a discutere con i vecchi amici, in fondo le intenzioni di Izawa erano state buone.
“Andiamo.”
Fece segno anche alla Silver Combi ed a Takasugi di seguirlo verso l’abitazione, salendo i gradini dell’ingresso. Senza troppa convinzione appoggiò una mano sulla maniglia e provò ad abbassarla. Con sua sorpresa la porta si aprì senza opporre resistenza.
“Dev’essere scappato proprio in fretta e furia per aver lasciato tutto spalancato.” Commentò alle sue spalle Hajime.
Genzo prese un sospiro ed entrò. L’ingresso ed il corridoio erano sempre uguali, eppure erano in qualche modo diversi. I suoi occhi si muovevano veloci a cercare tracce di contaminazione nel suo prezioso territorio, scorgendole nei dettagli e nei particolari, dalla sparizione delle foto di famiglia o di immagini significative, sostituite con qualcosa di molto più anonimo e vuoto. Tutto in quel posto aveva perso il suo calore familiare per diventare freddo ed asettico, come sospeso nel tempo e nello spazio. Temeva di scoprire cosa Natureza avesse fatto nelle altre stanze e negli altri ambienti.
Lo spirito pratico di Takasugi diede una scossa al gruppo:
“Da che parte cominciamo?”
“Roberto ha parlato di prigionieri in cantina, forse dovremmo cominciare da lì.” Propose Teppei. La rabbia salì di un ulteriore gradino in Wakabayashi: che casa sua venisse usata come prigione era un affronto senza precedenti, Natureza doveva solo pregare di non finire tra le sue mani.
Senza dire una parola si mosse in direzione della cantina e scese le scale. Il suo occhio esperto notò come la collezione di vini di suo padre si fosse ridotta di parecchie unità. Al parassita piaceva trattarsi bene. Sul fondo uno degli scaffali, quello che custodiva i vini preferiti del signor Wakabayashi era però rimasto ben fornito. L’istinto gli disse di dirigersi da quella parte. Sul pavimento c’erano parecchi segni di trascinamento: lo scaffale doveva essere stato spostato più volte.
“Shingo, dammi una mano con questo!” Chiamò l’amico, mentre da oltre la parete si udiva un lamento:
“C’è qualcuno? Aiuto!”
In due riuscirono a spostare il mobile con facilità.
Si trovarono di fronte una cella dove era incatenato un uomo che doveva essere lì da diversi giorni, se non addirittura settimane.
“Signor Brown?” Domandò Genzo sorpreso, a quanto ne sapeva lui il giornalista doveva aver lasciato la cittadina da un pezzo. Perché Natureza se l’era presa anche con qualcuno che non c’entrava nulla con il loro mondo? Forse aveva paura che il giornalista scoprisse qualcosa? Ma chi avrebbe mai potuto credere ad una storia incredibile come la loro? Lui stesso, che la stava vivendo, ancora pensava di essere nel bel mezzo di un incubo da cui si sarebbe dovuto svegliare.
“Wakabayashi, sei proprio tu? E Takasugi! Izawa! Grazie agli dei.”
Genzo sbatté le palpebre dubbioso:
“Ci conosciamo forse?”
L’uomo annuì vigorosamente.
“Sono Atsushi, Atsushi Nakazawa.”
Mamoru si avvicinò sgranando gli occhi:
“Il fratello di Nakazawa? L’ultima volta che ti ho visto eri ancora un soldo di cacio!”
“Tu invece sei sempre il solito presuntuoso. Non capirò mai come mia sorella possa trovare piacevole la compagnia di quelli come te.”
Genzo non aveva tempo da perdere con battibecchi da adolescenti e lo fece presente ai due che abbassarono la testa.
“Come sei finito prigioniero, Atsushi?” Chiese invece Shingo.
 “Ho messo il naso dove non dovevo: ancora prima che riacquistassi la memoria Natureza continuava a chiedermi cosa ricordassi o meno ed io con capivo che volesse. Ma che ne dite di togliermi le catene?”
Genzo sbuffò, guardandosi attorno. Non trovò chiavi nelle vicinanze e se Natureza le aveva nascoste da qualche parte nella villa avrebbero potuto cercare per giorni inutilmente.
“Taki, Kisugi. Andate a cercare qualcosa per liberarlo.” Gli ordinò.
“C’è un’altra cosa che dovreste sapere.” Disse Atsushi.
“Cosa?”
“Il bastardo teneva qui anche Kumi. Prima di andarsene l’ha stordita e l’ha portata con sé, non ho idea di cosa voglia farle.”
“Niente di buono – pensò Genzo – Decisamente niente di buono.”
Prese il cellulare per allertare gli altri dei nuovi sviluppi.






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Un po' in ritardo questa domenica, ma la famiglia ha preteso attenzioni e mi ha tenuto lontana dall'ultima revisione fino ad adesso.

Qui abbiamo il grande incontro tra quasi tutti i nostri ragazzi e come vediamo da Sanae le assenze non passano inosservate. Qualcuno avrà delle buone ragioni per non essere presente, qualcuno magari non è stato raggiunto.
Sul finale abbaimo anche la rivelazione del nome della misteriosa prigioniera che molti di voi hanno intutito. Del resto il cerchio si stava stringendo ed i nomi rimasti fuori tra i nostri eroi cominciavano a scarseggiare...

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Capitolo 31
*** XXX ***


Jun guidava nervosamente la berlina nera sulla quale stava trasportando Natureza verso il confine ovest della cittadina, da dove il brasiliano aveva ritenuto fosse più sicuro scappare.
Aveva tentato di opporre resistenza alle sue richieste, non voleva essere complice della sua fuga, ma le sue argomentazioni erano state parecchio consistenti. La vita di Yayoi era letteralmente nelle sue mani e lui non aveva avuto la forza per giocare con il fuoco.  Il brasiliano gli aveva fatto capire che un suo movimento falso sarebbe bastato per condannare la ragazza, distruggendo il piccolo oggetto che teneva in mano. Ancora non capiva come funzionasse il tutto, la sua indole razionale rifiutava di essere di fronte a qualcosa di soprannaturale, ma aveva compreso che la minaccia era reale e non un bluff per costringerlo ad accettare le sue condizioni. Lui non poteva permettersi di mettere a repentaglio la vita di Yayoi.
Forse era stato egoista a scegliere la vita della donna che sapeva di amare rispetto alla giustizia per tutti loro. Scelta che non gli dava in ogni caso la garanzia di poter salvare Aoba: Natureza gli aveva promesso che, una volta lo avesse condotto sufficientemente lontano da New Team Town, gli avrebbe consegnato il frammento del cuore di Yayoi, ma avrebbe potuto benissimo non farlo. Non era la persona più affidabile che lui conoscesse.
Non si sentiva completamente a posto nell’aver scelto la lealtà nei confronti di Yayoi a discapito di quella di tutti amici, ma sapeva anche che era l’unica opzione che sarebbe stata praticabile per lui.
“Potresti fare un po’ più in fretta?”
Dal sedile posteriore gli giunse la voce seccata del suo passeggero.
“Per farci scoprire subito? Non so se hai notato, ma c’è più movimento in giro di quello che mi sarei aspettato a quest’ora della notte.”
“Motivo in più per fare in fretta. O stai cercando di fare il doppio gioco. Non mi ci vuole molto a ricordarti cosa c’è in ballo qui!”
Jun scosse la testa, mentre lo stomaco si contorceva. Sapeva che ogni suo movimento era sotto osservazione.
“Come vuoi tu, ma poi non lamentarti.”
Misugi premette il piede sull’acceleratore quel tanto che bastava ad accontentare Natureza, senza però esagerare.
Erano arrivati alla periferia della cittadina, una volta superate le ultime case avrebbero ragionevolmente potuto pensare che la via fosse libera.
Forse Jun si era fatto prendere dalla paranoia nel vedere andirivieni di gente in centro: non solo loro abitavano a New Team Town, c’era tutta una folla di personaggi di contorno che non c’entravano nulla con le loro vicende e che avrebbero continuato con le loro abitudini di sempre. Gettò uno sguardo all’orologio da polso, erano vicini all’orario di chiusura del Cyborg, molta gente probabilmente era in strada per quello.
Il pensiero della discoteca gli riportò alla mente Yayoi: se solo fosse intervenuto con più solerzia, se l’avesse trascinata lontano da quel posto ancora la prima volta che l’aveva soccorsa…
Sospirò. Era inutile perdersi in congetture ed in “se” che non si sarebbero mai realizzati, Natureza avrebbe giocato sporco in ogni caso, qualunque cosa lui avesse fatto in anticipo. Non valeva come consolazione, anzi, lo faceva sentire ancora più frustrato. Non era stato in grado di proteggerla, non ne aveva mai avuto la possibilità.
La campagna si spalancò davanti a loro, erano quasi al confine. Se superavano i limiti della cittadina avrebbero avuto una possibilità. Invece di rilassarsi, Misugi si irrigidì maggiormente, poiché sapeva che quello era il momento della verità. Quante volte in vista del traguardo si rischiava di commettere un errore fatale?
Solo un ultima curva a sinistra, dietro un vecchio capanno abbandonato.
“Merda!”
L’imprecazione gli uscì diretta, mentre con il piede cercava di modulare il freno per rallentare in maniera non troppo vistosa.
Di traverso sulla loro corsia era parcheggiata un auto, sembrava quella del Sindaco Becker. Di sicuro sorvegliavano il confine.
“Vedi di non fare scherzi! Attieniti al piano.”
Natureza si accucciò dietro al sedile del passeggero e si buttò addosso una coperta per tentare di camuffarsi. Jun sperò che, anche se lo avessero fermato, non avrebbero guardato con troppa attenzione sui sedili posteriori: i vetri oscurati erano un buono schermo, ma non erano impenetrabili.
Tsubasa e Taro cominciarono a sbracciarsi, facendogli segno di accostare. Era incredibile come quei due alla fine si trovassero sempre, a discapito di qualunque situazione, e finissero per lavorare in coppia.
Si fermò a poco dalla loro auto, rimanendo sulla strada, pronto a scattare in caso le cose fossero precipitate al punto da dare il via ad un inseguimento.
Strinse le mani attorno al volante e prese un paio di respiri profondi per cercare di apparire il più calmo possibile. Un suo errore e Yayoi sarebbe stata perduta per sempre.
Abbassò un poco il finestrino, per poter parlare con loro.
“Ozora! Misaki! Che bello vedervi! Che ci fate qui?”
Erano frasi banali, ma erano l’unico modo per non apparire sospetto ai loro occhi.
“Potremmo chiederti la stessa cosa…” Gli rispose a tono Misaki.
“Sono stato chiamato per un’emergenza. Sapete, di solito assistevo, cioè, Padre Ross assisteva anche persone fuori dai confini di New Team Town…” Sperò se la bevessero.
“A quest’ora della notte? O del mattino?”
Tsubasa gli sembrava molto sospettoso. Del resto era prevedibile che loro fossero all’erta e le sue scuse piuttosto stiracchiate.
“Non hai ricevuto i nostri messaggi? – continuò il numero dieci della nazionale – Perché non sei venuto in piazza insieme a tutti gli altri?”
“L’avrei fatto volentieri, ma questo era altrettanto importante.”
Misaki sbottò, perdendo la calma che l’aveva sempre contraddistinto, o almeno nei momenti in cui lui aveva avuto occasione di interagire con Taro.
“Cosa c’è di così importante rispetto allo scoprire di aver vissuto in un enorme castello di bugie, di essere stati tutti costretti ad interpretare ruoli che non sono nostri e che a volte ci hanno fatto spingere al limite della legalità? Credevo che tra tutti tu saresti stato il primo ad accorrere…”
Jun sentiva il sudore scendergli lungo la schiena, nonostante fuori si gelasse.
“Ragazzi, voi siete in tanti, siete perfettamente in grado di cavarvela senza di me. Io devo occuparmi di una persona sola e malata.”
L’ultima parte non era troppo lontana dalla verità, si stava occupando di Yayoi sola e in fin di vita in un letto d’ospedale. Sperò che il velato accenno alla situazione reale lo rendesse più credibile, mentire basandosi sulla realtà.
“Jun – il tono di Tsubasa non gli piacque per niente – sei sicuro di stare bene? Mi sembri pallido e nervoso. Forse dovresti scendere dall’auto.”
“No, sto benissimo così. Devo andare. Per favore.” Lo disse quasi come una supplica e si maledisse mentalmente per averlo fatto. Aveva fornito a Tsubasa un motivo per essere ancora più insistente.
“Jun, perché vuoi lasciare la città a tutti i costi? Non ci starai nascondendo qualcosa.”
“Assolutamente no!”
Misugi sentì gli occhi di Tsubasa scrutarlo e tentare di penetrare ogni centimetro della berlina nera. Sperò che non notasse la coperta sotto la quale era nascosto Natureza.
L’osservazione di Taro arrivò imprevista, a quello proprio non aveva pensato:
“Misugi, hai forse cambiato auto? Mi sembrava che la tua fosse blu scuro…”
Fu costretto ad inventare una scusa, l’ennesima, al volo:
“È guasta, è dal meccanico. Questa è l’auto di cortesia.”
Non poteva reggere, Ozora sapeva che la sua auto non aveva nessun guasto, l’aveva vista parcheggiata in parrocchia fino a quella sera, quando erano entrambi usciti per strade diverse. Gli bastava fare due più due.
“Misugi, da dove viene quest’auto?”
“Parti subito!”
Jun non ebbe bisogno di altro, era già pronto a scattare, ormai non se la poteva cavare con le parole.
Nella partenza rischiò di travolgere sia Tsubasa che Taro, ma entrambi ebbero dei buoni riflessi ed evitarono l’impatto. Doveva allontanarsi da lì prima che si riavessero dalla sorpresa.
L’auto cominciò a sbandare, si muoveva come se lui non avesse più avuto alcun controllo. Uscì di strada, fermandosi in mezzo ad un campo, senza ribaltarsi fortunatamente.
“Che cazzo hai fatto?” Urlò Natureza, spostando la coperta.
Jun si voltò verso di lui e lo fulminò con lo sguardo.
“Non ho fatto nulla. Credi che volessi farci ammazzare entrambi? Se vuoi avere ancora una speranza di fuggire, vedi di restartene buono.”
Con uno scatto nervoso si slacciò la cintura e scese dal veicolo, per andare a controllare cosa fosse successo. Trovò le ruote posteriori completamente a terra, mentre i due calciatori lo raggiungevano di corsa.
Si voltò verso di loro e sgranò gli occhi: Misaki teneva in mano una pistola che aveva tutta l’aria di essere appena stata utilizzata.
“Da quando hai una pistola Taro?” Gli chiese.
Dall’espressione sul volto di Tsubasa si rese conto che nemmeno lui si era aspettato quella mossa da parte dell’altro uomo.
“Sai, pare che il Sindaco di New Team Town sia una persona poco raccomandabile ed invischiato con i peggiori loschi figuri della cittadina, per cui avvertiva il bisogno di avere una pistola in cassaforte in casa.”
Il tono di Misaki era secco e tagliente.
“Non te lo chiederò un’altra volta, perché stavi fuggendo? Sei forse in combutta con Natureza?”
“Ma che dici? Che c’entra Natureza?” Ormai stava raschiando il fondo del barile, se lo sentiva. Non ci avrebbero messo molto a trovare il brasiliano.
Tsubasa scosse la testa.
“Se non hai nulla da nascondere, non ti dispiacerà se guardiamo nell’auto.”
“No, non c’è nulla lì dentro. Devi credermi!”
Ma Tsubasa non lo ascoltava più. Si stava dirigendo verso la portiera posteriore, spalancandola poco dopo. Spostò bruscamente la coperta e trovò il nascondiglio di Natureza.
Il mondo crollò sotto i piedi di Jun, tutto stava andando nel verso sbagliato.
Il brasiliano uscì dall’auto con un’espressione stupita, sapeva bluffare dannatamente bene.
“Tsubasa? Non credevo fossi in questo posto.”
“Risparmiaci la commedia, Natureza!”
Il capitano della nazionale si avventò contro il suo nemico e Jun si gettò addosso ad Ozora.
“Tsubasa, ti prego, lascialo andare.”
Misugi non fingeva più, tutto stava andando in malora, tanto valeva giocare a carte scoperte.
“Perché lo difendi, Jun? Sai cosa ci ha fatto?”
“Ucciderà Yayoi se non lo lasciamo fuggire!”
Lo gridò in faccia a Tsubasa, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
Natureza scoppiò a ridere:
“Credevate davvero che fosse così facile fermarmi? Poveri illusi! Ora, se non volete avere tutti e tre sulla coscienza la vita della graziosa signorina con i capelli rossi vi conviene lasciarmi andare. E porterò con me questo – sollevò in alto il frammento di cuore – a garanzia che non tenterete di inseguirmi.”
Misugi si voltò di scatto verso il brasiliano, come se fosse stato colpito in pieno volto da uno schiaffo per essere risvegliato.
“Schifoso bugiardo! Avevi promesso che se ti avessi aiutato mi avresti riconsegnato la vita di Yayoi!”
Fece per andargli incontro, ma l’uomo cominciò a stringere il pugno.
“Non credevo che tra tutti proprio tu avresti messo a repentaglio la vita della tua fidanzata.”
Subito Jun si bloccò, sapeva cosa stava facendo Natureza e gli effetti che aveva su Aoba il suo gesto.
“Maledetto! – Sibilò, facendo segno anche agli altri di desistere da qualsiasi azione – Ogni volta che schiaccia quell’affare Yayoi ha un attacco di cuore. Ha già avuto due arresti cardiaci stanotte.”
Jun sentì la mano di Tsubasa stringersi sulla sua in un gesto di solidarietà, facendogli capire che aveva compreso come stavano le cose e che non avrebbe fatto nulla per mettere a repentaglio l’incolumità di Yayoi. In fondo la donna era anche una sua cara amica d’infanzia.
Natureza continuava a mostrarsi trionfante.
“Sai come si dice: non c’è due senza tre. Forse il terzo sarà quello definitivo, ma non credo tu voglia scoprirlo.”
Tuttavia Misaki non sembrava essere così arrendevole e sollevò di nuovo la pistola, puntandola contro il brasiliano.
“Credi davvero di cavartela così?”
“Taro, che stai facendo? Non puoi rischiare la vita di una nostra amica!” Tsusbasa cercava di far ragionare Misaki, mentre Jun non aveva quasi più forza per reagire.
“Non ho intenzione di lasciar andare via questo stronzo! – rispose il numero undici – Mi ha trasformato in una persona orribile, mi ha costretto ad essere l’origine di molti dei vostri mali e pretendi che lo lasci libero?”
La voce del calciatore era carica di astio e odio, il suo risveglio doveva essere stato uno dei più traumatici.
“Taro, ti prego, ragiona…” Provò Jun con un filo di voce, nel tentativo di non perdere anche l’ultima traccia di speranza.
“Io voglio vendetta per me e per gli altri.”
Il centrocampista della Nankatsu era quasi irriconoscibile nella sua ira.
“Taro, non farlo! – Tsubasa non aveva intenzione di darsi per vinto – Se non lo lascerai andare diventerai veramente come lui ha cercato di trasformarti. Gliela darai vinta maggiormente.”
Natureza sghignazzò un’altra volta:
“Intanto che voi disquisite di filosofia, io me ne allontanerei.”
“Ti ho detto di non muoverti!” Urlò Misaki.
“Allora che aspetti? Sparami! Così ucciderai sia me che la vostra amica. Ma tu non ne hai il coraggio, vero? Sei solo un’ombra alle spalle di Tsubasa!”
Natureza cominciò a voltarsi per andarsene.
Jun visse tutta la scena come se fosse al rallentatore: sentì il colpo di pistola, vide il proiettile che colpiva il polso destro del brasiliano e la sua mano aprirsi per il dolore, lasciando cadere il frammento del cuore di Yayoi. Con uno sforzo disperato si tuffò per raggiungerlo, non aveva idea di quanto l’oggetto fosse resistente e potesse o meno resistere ad una caduta da quell’altezza. Riuscì ad afferrarlo pochi centimetri prima che toccasse terra, provando un immediato sollievo.
Natureza ululò per il dolore. Poi cominciò a prenderlo a calci, doveva essersi reso conto di aver perso il suo asso nella manica.
“Maledetto! Quello è mio, ridammelo!”
“Basta Natureza! È finita.” La voce di Tsubasa era calma, come se stesse semplicemente annunciando la fine di una partita.
Il brasiliano smise di colpire Jun.
“Non mi avrai mai!”
Scattò di corsa per fuggire, ma Tsubasa era alle sue calcagna, mentre Jun riprendeva fiato e si rialzava, custodendo preziosamente il frammento.
“Stai bene?” Gli chiese Misaki.
“Sei stato un incosciente – gli rispose – poteva finire peggio.”
Tsubasa aveva raggiunto Natureza in pochi passi, era sempre stato velocissimo col pallone al piede, figurarsi senza.
I due iniziarono a colpirsi più volte a calci e pugni. Jun si stupì di come il brasiliano sembrasse non avere risorse aggiuntive oltre alla sua forza bruta. Che avesse esaurito i suoi trucchetti di magia? Forse non era così temibile come sembrava in un primo momento, si era costruito attorno pure lui un mantello di inafferrabilità e di terrore col quale teneva legati a sé i suoi scagnozzi, ma nella sostanza era poco più di un uomo.
Tsubasa era in difficoltà, sembrava stesse per avere la peggio.
Misaki aveva alzato di nuovo il braccio, ma esitava a sparare.
“Maledizione, sono troppo appiccicati, rischierei di colpire Tsubasa.”
“Solo ora ti fai degli scrupoli?” Jun ancora non l’aveva perdonato, pur sapendo che era merito suo se la situazione si era sbloccata.
Tsubasa era a terra, Natureza estrasse un coltello e si preparò a colpire il giapponese, ma questo all’ultimo momento si spostò e la lama si conficcò nel terreno duro. Ozora ruotò su sé stesso e con un calcio ben assestato sbilanciò Natureza, buttandolo di faccia nell’erba. Con un piede lo tenne premuto sul terreno.
“Portatemi una corda!” Gridò loro.
Quando ebbero legato Natureza nei pressi dell’auto di Misaki il cielo stava cominciando a rischiararsi.
Quella notte terribile stava giungendo alla fine. Jun non vedeva l’ora di tornare in ospedale per scoprire come stesse Yayoi, il pensiero non lo abbandonava mai.
Tsubasa non sembrava avere la sua fretta, infatti il numero dieci si rivolse a Natureza, guardandolo dritto negli occhi.
“Perché?” Gli chiese semplicemente.
Se l’era domandato anche Jun, che motivo aveva Natureza per prendersela con tutti loro?
“E me lo domandi pure? – il brasiliano non perdeva neppure nella sconfitta il suo tono arrogante – Tu mi hai fatto un affronto imperdonabile: hai rovinato la mia ascesa!”
Jun poteva sentire la stessa perplessità che provava lui anche negli altri due compagni di squadra.
“Solo perché ti ho sconfitto durante un torneo? Ci sarebbero state altre occasioni per scontrarsi di nuovo.”
“Davvero non capisci? Quello non era solo un torneo di calcio, quella doveva essere la mia consacrazione definitiva come solo ed unico campione e tu e i tuoi amichetti avete avuto l’ardire di mettermi i bastoni tra le ruote! Io sono il migliore di tutti! Io dovevo ritornare a casa ricoperto di onori e di gloria! Io dovevo trionfare!”
L’uomo stava decisamente delirando.
“Tu e i tuoi amichetti dovevate pagare per l’affronto. Avete distrutto la mia vita ed io dovevo distruggere la vostra, riducendovi ad essere solo delle ombre e delle marionette ai miei comandi!”
“Tu non stai bene. – Fu il laconico commento di Misaki – Mi fai solo pena.”
Natureza scoppiò a ridere in maniera incontrollata.
“Ma sentilo, quello che credeva di avere tutto ed invece aveva solo un pugno di mosche in mano!”
Misugi non riuscì a trattenersi a sua volta dal fare una domanda:
“Come hai fatto a realizzare tutto questo?”
Natureza lo guardò come si guarda un bambino a cui bisogna spiegare la più semplice delle addizioni.
“Dimentichi che ho vissuto per anni nella foresta Amazzonica: voi non avete idea dei poteri e dei segreti ancestrali che sono custoditi nel suo profondo. Forze di cui non sospettate nemmeno l’esistenza e che io sono in parte in grado di dominare. Ecco perché sono migliore di voi, ecco perché voi dovevate essere puniti per aver osato battermi. Voi e quel traditore di Roberto che ha svelato i segreti del calcio brasiliano ad un giapponese. Bleah.”
La pazienza di Tsubasa era giunta al limite:
“Chiudi la bocca, essere patetico. Se davvero ragioni così non sei degno di nulla.”
Jun e Taro spinsero il brasiliano sui sedili posteriori dell’auto.
Misaki diede le chiavi a Jun.
“Guida tu, io sorveglio il nostro ospite fino all’arrivo in prigione. Ho degli argomenti convincenti. – Taro mosse la mano destra che non aveva abbandonato un secondo la pistola. – Ho un solo colpo, ma questo lui non lo sa.”
“Io però vorrei sapere che ne ha fatto di Kumi: Atsushi dice che l’aveva portata con sé nella fuga.” Commentò Tsubasa.
Jun scosse la testa:
“Io non l’ho vista. In ospedale mi ha avvicinato solo Natureza e da quel momento mi è sempre stato alle costole. Mi dispiace Tsubasa se l’ho aiutato, ma ne andava della vita di Yayoi.”
Tsubasa gli sorrise comprensivo.
“Probabilmente avrei fatto lo stesso se si fosse trattato di Sanae. Non fartene una colpa, stavi proteggendo chi ami.”
Jun annuì grato, poi il suo sguardo si portò sulla berlina nera, rimasta fuori uso nel campo.
“Aspetta un momento: prima volevo mettere qualcosa nel bagagliaio, ma Natureza me l’ha vietato con veemenza. Scommetterei qualunque cosa che è lì che tiene Kumi!”





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E questa lunga notte è giunta alla sua conclusione, dopo aver fatto patire le pene dell'inferno al povero Jun che ha retto tutto il capitolo col suo punto di vista. Se non gli è venuto un infarto a questo giro, non l'ammazza più nulla. XD
Le giustificazioni di Natureza, invece, per ora sono piuttosto scarne e deliranti...

Non diciamolo troppo forte, ma spero di potervi fornire i successivi aggiornamenti con intervalli minori dei 15 giorni, in modo da poter chiudere prima della fine dell'anno.
 

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Capitolo 32
*** XXXI ***


Era passato qualche giorno da quando si era svegliata in un letto d’ospedale senza sapere bene come ci fosse arrivata e perché, prima di capire che non si trovava a Tokyo o in qualche altra parte del Giappone, ma addirittura in una fittizia cittadina degli Stati Uniti. Quando aveva aperto gli occhi, il suo ultimo ricordo era stato il forte vento al matrimonio di Tsubasa e Sanae. Dopo qualche ora passata a brancolare nel buio alla sua mente era riaffiorato anche tutto ciò che aveva fatto a New Team Town come Amy e, nell’assurda situazione, tutto aveva iniziato ad acquistare più senso, a cominciare dai balbettii confusi di Jun.
Secondo Kumi, lo strano scherzo della sua memoria, rispetto a tutti gli altri, era molto probabilmente dovuto al fatto che si trovasse incosciente nel momento in cui la maledizione era stata spezzata, resettando temporaneamente ciò che aveva vissuto nel periodo della stessa.
Yayoi era seduta nel letto, con la schiena appoggiata al cuscino, nella sua stanza in ospedale, mentre le altre ragazze erano distribuite un po’ dove capitava: Kumi accoccolata sulla poltrona, Yoshiko seduta sul letto ai piedi dal lato sinistro, Sanae e Yukari si erano appropriate del secondo letto momentaneamente non occupato, mentre Maki era in piedi appoggiata alla parete, pronta ad uscire in caso di chiamata.
“Si può sapere quando il tuo primario avrà intenzione di dimettermi? Io sto bene.” Sbuffò Aoba, sistemando i due codini in cui teneva raccolti i lunghi capelli rossi.
Maki si strinse nelle spalle:
“Non ne ho idea. Sai, non riesce molto a fare quadrare gli esami, quello che ti è successo e la tua strana ripresa.”
Yayoi sospirò, voltando la testa in direzione del comodino, dove era appoggiato lo scrigno che custodiva il frammento del suo cuore. Anche se non erano ancora riusciti a capire come poter rimetterlo al suo posto, il solo fatto di averlo vicino aveva stabilizzato le sue condizioni e l’aveva fatta riprendere. Ma quale medico avrebbe mai accettato una spiegazione del genere? Chi avrebbe creduto che i problemi della propria paziente derivavano da una specie di trucco di magia nera e non da una causa oggettiva?
“Se non si decide, firmerò per uscire senza il consenso del medico e anche Misugi dovrà farsene una ragione.”
Lei avrebbe già voluto andarsene almeno il giorno precedente, ma il compagno aveva insistito che stesse riguardata ed alla fine aveva ceduto più per farlo stare tranquillo che per sé stessa. Aveva saputo cosa aveva dovuto passare la notte in cui la maledizione era crollata e non se la sentiva di farlo preoccupare ulteriormente, almeno finché si trattava di un paio di giorni.
Yoshiko allungò una mano a sfiorarle la gamba da sopra le lenzuola.
“Sai che si preoccupa per te.”
“Lo so, ma non sono più sotto il controllo di Natureza, cosa può succedermi di male?”
Non le sfuggì il brivido di Sugimoto quando nominò il brasiliano: la donna si stava ancora riprendendo da quanto subito dall’uomo nei mesi di prigionia e soprattutto negli ultimi giorni.
“Come stai, Kumi?”
“Sono stata meglio, ma non mi lamento. L’importante è essere tornati noi stessi. – rispose con semplicità, poi si rivolse verso Sanae – E Atsushi?”
La signora Ozora spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Si sta riprendendo anche lui.”
“Non avrei mai voluto metterlo in pericolo, ma avevo pensato che richiamarlo qui fosse l’unico modo di interrompere la spirale d’infelicità in cui la maledizione ci aveva spediti.”
Yayoi avvertì nella sua voce tutto il suo rammarico ed avrebbe voluto dirle qualcosa, ma spettava a Sanae fare quel passo, Atsushi era suo fratello. Fu invece Yukari a parlare:
“Beh, ha funzionato. Da quando è arrivato lui, le cose hanno cominciato a muoversi in modo diverso.”
“Anche se non sempre in modo piacevole.” Sospirò Yoshiko.
Yayoi sorrise a tutte, cercando di allontanare il momento malinconico.
“Beh, fare la classifica di chi se l’è passata peggio non credo sia molto costruttivo adesso!”
“Decisamente no. – Sanae allargò le braccia – Sapere quello che ha passato Atsushi non mi rende felice, e avrei voluto disintegrare Natureza, ma comprendo che portarlo qui fosse necessario. Devo dire che sono comunque rimasta scioccata: mi aspettavo un adolescente ribelle ed invece mi sono ritrovata un uomo quasi fatto e finito.”
Yukari fece un gesto provocatorio.
“Mettila così: almeno ti sei risparmiata la fase da adolescemo!”
Nel gruppo scoppiò una risata sonora e cristallina, come nessuna di loro faceva da molto, troppo tempo. Il pomeriggio insieme si stava rivelando un’ottima idea, anche se tra le mura di un ospedale.
Una fitta di dolore alle costole fece sussultare Yayoi.
“Ahi!”
“Che hai?” Le chiese subito Sanae.
Aoba fece una smorfia.
“Diciamo che Jun non ci è andato leggero quando mi ha rianimato. Sono ancora tutta indolenzita.”
“Pure le scariche di defibrillatore non è che siano state una passeggiata. – Le ricordò Maki – Dovresti startene buona ancora per qualche giorno.”
“Agli ordini dottore!” Yayoi simulò il saluto militare, ritrovandosi come risposta una linguaccia da Akamine.
“Scema!”
Nishimoto sprimacciò il cuscino che aveva alla sua destra, poi si rivolse a Kumi:
“Mi sto ancora domandando come tu sia riuscita a salvarci tutti.”
“Non esagerare, non ho spezzato io la maledizione.”
“Sì, beh ok. Il bacio del vero amore tra Sanae ed il nostro capitano ha di sicuro fatto la sua parte, ma tu hai messo in moto gli ingranaggi.”
Yoshiko annuì vistosamente:
“Yukari ha ragione: sei stata l’unica a renderti conto di qualcosa. Come hai fatto?”
Kumi si strinse nelle spalle, probabilmente non sapeva bene nemmeno lei come fosse successo tutto. Yayoi era curiosa come tutte le altre, tuttavia sapeva di dover rispettare i tempi ed i modi di Sugimoto, non doveva essere facile in ogni caso parlare di questa esperienza.
“Nonna. – rispose con semplicità – Sapete che mia nonna era un’esperta dell’occulto e mi ha insegnato alcune cose. Alcune abilità sono trasmesse di generazione in generazione nella nostra famiglia.”
Sanae si sistemò meglio sul letto.
“Onestamente, ho sempre creduto che fosse un po’ fuori di testa, invece non la ringrazierò mai abbastanza.”
“Sanae, scusa – la voce di Yukari era maliziosa – chi non hai mai considerato un po’ fuori di testa?”
“Ma smettila.” La signora Ozora diede una spintarella alla vicina.
Yayoi era felice di vederle ridere e scherzare come un tempo, mentre la prima volta che le aveva riviste le era sembrato di percepire una certa distanza e freddezza tra loro. Strascichi della maledizione che non erano ancora svaniti.
Kumi continuò il suo racconto:
“Probabilmente gli insegnamenti di nonna hanno protetto una parte della mia mente dagli effetti della maledizione e ad un certo punto ho cominciato a ricordare e a mettere insieme i pezzi del puzzle. Non devo essere stata molto discreta, ho attirato l’attenzione delle persone sbagliate e sono stata catturata prima di caprie chi fosse il vero responsabile e quali fossero gli schieramenti in campo.”
“Ma tu non ti sei arresa – La confortò Maki. – Hai dato vita a Kitty.”
“Ho impiegato molto tempo, troppo. In questa realtà tutto funziona in modo diverso, la magia è molto più debole rispetto a dove proveniamo. Anche lo stesso Natureza deve essersene reso conto. Qualche incantesimo che si è portato qui insieme alla maledizione ha dato buoni frutti, ma non credo sia riuscito ad avere il pieno controllo di tutto ciò che aveva pianificato.”
Yayoi sbuffò.
“Ovviamente io sono finita in una delle poche situazioni che hanno funzionato!”
“Mi dispiace.” Sospirò Kumi.
“E di cosa? Non è mica colpa tua se quello è psicopatico!”
Sanae mise le mani sui fianchi
“Signorina Aoba, da quando sei così maleducata?”
“Beh, scusa Sanae, in che altro modo definiresti il nostro ‘amico’ brasiliano?” Nishimoto mimò vistosamente delle virgolette nell’aria.
“Bastardo forse?”
La domanda sprezzante di Yoshiko fece voltare di scatto tutte le teste nella sua direzione: Yayoi non aveva mai sentito l’amica utilizzare certe espressioni. Quella odiosa maledizione aveva colpito molto più in profondità di quanto poteva sembrare.
“Yoshi…” Sospirò, allungando una mano verso di lei.
“Scusate, ma per me il risveglio è stato così traumatico: stavo litigando con Jack e lui stava per colpirmi.”
Si passò una mano sul polso destro, dove in passato il fidanzato le aveva lasciato dei lividi. Yayoi li aveva intravisti qualche volta al Fiore del Nord, quando non era impegnata a smaltire qualche sbornia.
“Io mi sono svegliata mentre stavo mettendo i punti ad un tizio in pronto soccorso e sono rimasta a guardare con la faccia da ebete il filo di sutura per almeno un minuto. Chissà cos’avrà pensato quel poveretto.”
Il racconto di Maki fece ridacchiare nuovamente tutte.
“E tu Yukari, che stavi facendo?” Indagò Aoba.
“Io… Non posso, è troppo imbarazzante.” La donna nascose la faccia, arrossita di colpo, tra le mani.
“Cosa stavi combinando, per gli dei?” Domandò Akamine.
“Ero con Misaki.” La sua voce era un sussurro poco percepibile.
“Parla più forte.” La stuzzicò Sanae, cominciando a farle il solletico per costringerla a mostrare il viso a tutte.
“Smettila!”
“E cosa facevi dal Sindaco a quell’ora di notte?”
“Realizzava il sogno della vita di Evelyn!”
“Sanae! È stato troppo imbarazzante! Mi sono svegliata ed ero in braccio a Taro, senza la parte sopra dei vestiti, avevo solo la biancheria. E la faccia di Misaki era indecifrabile. Avrei voluto seppellirmi viva!”
Nishimoto tornò a tuffare il volto nelle mani, mentre Sanae le passava un braccio intorno alle spalle.
“In realtà credevo aveste fatto di peggio!”
“Se può consolarti – intervenne Yayoi – credo che tu sia comunque stata vestita più di me certe volte in discoteca e lì mi vedeva un sacco di gente.”
“Immagino che Jun abbia fatto i salti di gioia.” Commentò Yoshiko.
Il trillo del cercapersone di Maki interruppe il momento delle confidenze.
“Devo andare, c’è un arrivo in reparto.”
La dottoressa aprì la porta e sobbalzò: davanti a lei c’era Santana con una mano sollevata a pugno, come se stesse per bussare.
L’uomo si irrigidì.
“Buongiorno. Volevo parlare con Aoba, possibilmente a quattr’occhi.”
Yayoi sbatté le palpebre, stupita di trovarlo lì, poi annuì.
“Va bene, entra pure.”
Sanae si alzò dal letto e le puntò addosso uno sguardo scettico.
“Ne sei sicura?”
“È tutto a posto, andate pure.”
“Ci vediamo domani.” Salutò Yoshiko.
Una a una le ragazze uscirono, lasciandoli da soli.
L’uomo si avvicinò al letto ed afferrò con entrambe le mani la pediera.
“Come stai?”
“Io sto bene, grazie.”
Dopo il convenevole, il brasiliano sembrava aver perso le parole e rimase in silenzio per alcuni minuti, facendo aumentare la curiosità di Yayoi su quanto volesse dirle. Certamente era qualcosa di importante, non avrebbe chiesto di restare soli per un semplice saluto.
“Perché sei qui? Non credo tu sia venuto solo per sapere se fossi ancora viva.”
Il proprietario del Cyborg deglutì vistosamente, mentre le sue mani stringevano la presa.
“Volevo scusarmi per essere stato un mostro con te. Quello che hai passato è in gran parte colpa mia.”
“Non essere sciocco, eravamo tutti sotto una maledizione: era Francisco, non Carlos quello che voleva portarmi a letto.”
Santana strinse le labbra, come a soppesare le parole.
“Non esattamente…”
“Che vuoi dire?”
“Io ti trovo attraente. Ti ho visto al party di inaugurazione del World Youth e mi hai colpita. Io ti avrei cercata dopo la finale se non avessi saputo che eri la fidanzata di Misugi.”
“Oh – Yayoi spalancò gli occhi – Oh!” Ripeté, comprendendo a fondo il significato delle parole del brasiliano.
“Ho parlato di sfuggita a Natureza di te e credo che lui abbia sfruttato questa cosa nella sua maledizione, mi spiace.”
La donna non sapeva che rispondere, aveva detestato così a fondo Francisco e tutta la situazione del Cyborg che sarebbe stato facile mandarlo a quel paese in quel momento, ma non era nella sua natura. Aveva cominciato a tormentare il lenzuolo con le mani.
“Se tu non volessi più avere nulla a che fare con me lo comprenderei – riprese Santana – Volevo solo la possibilità di scusarmi, ma so che non può essere sufficiente.”
“Non impazzisco all’idea di passare del tempo con te ed a volte avrei voluto che sparissi, ma non posso nemmeno dimenticare che alla fine hai cercato di proteggermi in qualche modo.”
Carlos alzò di colpo la testa, guardandola negli occhi.
“Quando?”
“Quando non hai riferito a Natureza del mio fallimento con Kitty.”
“Era il minimo…”
“Non per Francisco, lui non avrebbe mai rischiato la sua pelle per qualcun altro. Forse l’attrazione che provavi come Carlos ha smosso qualcosa inconsciamente per convincerlo e di questo ti sono grata.”
Santana sospirò pesantemente:
“Come fai a trovare del buono in questa storia?”
Yayoi sorrise appena, aveva scoperto il segreto da molto tempo:
“Quando hai vicino persone con seri problemi di salute, impari a valorizzare ogni briciola di positività.”
 
 
 
 
Erano tutti al campo da calcio, tirato quasi a nuovo con la collaborazione di ognuno di loro. Avevano bisogno di sfogarsi e di passare qualche mezz’ora spensierata dopo l’ultimo periodo. Dopo la gioia nel ritrovarsi, dopo le discussioni pacificatrici, era emersa l’insoddisfazione per non sapere come tornare alle loro vere case.
Natureza non era stato molto d’aiuto, anzi, in uno dei suoi rari momenti collaborativi aveva sentenziato che la magia in quel luogo era talmente debole che non era possibile trovare una via di ritorno.
Tsubasa tornò a concentrarsi sul gioco, scartando agilmente Sawada per poi passare la palla ad uno dei gemelli Tachibana che saltò per compiere una delle sue acrobazie e trovarsi irrimediabilmente con la schiena a terra.
“Masao, tutto bene?” Il fratello accorse preoccupato.
“Sono stato meglio. Non capisco perché non riesca più a fare le nostre mosse.”
Entrambi si guardarono scuotendo la testa.
La palla fu recuperata da Kojiro che partì alla volta della porta avversaria. Giunto in prossimità dell’area di rigore si preparò ad eseguire il suo famoso Tiro della Tigre. Colpì il pallone con tutta la sua forza, ma questo si limitò a percorrere lo spazio verso la porta cadendo comodamente tra le braccia di Wakabayashi.
“Hyuga, ti sei rammollito facendo l’edicolante?” Chiese il portiere con ironia.
Kojiro si limitò ad imprecare tra i denti e a calciare una zolla di terra per l’ennesimo tentativo fallito.
Tsubasa pensò che fosse il momento di rivelare ai compagni quello che ormai riteneva fosse una certezza:
“Credo che qui non potremmo mai eseguire i nostri tiri speciali, le nostre parate migliori e le varie acrobazie.”
Matsuyama non sembrava esserne molto convinto.
“Dici sul serio?”
“Nel periodo in cui sono stato sveglio prima che si spezzasse la maledizione, ho provato innumerevoli volte in questo stesso campo ad eseguire una rovesciata e l’unico risultato che ho ottenuto è stato quello di riempirmi di lividi.”
“Sarai stato fuori allenamento. Come tutti noi.” Suggerì Taro.
Tsubasa scosse la testa in maniera convinta, aveva provato troppe volte e non aveva ottenuto il minimo miglioramento, la soluzione poteva essere solo una.
“Credo che qui funzioni in modo diverso, la fisica ha delle regole diverse rispetto a dove siamo cresciuti.”
Hyuga masticò una mezza imprecazione tra i denti, prima di domandargli:
“E da quando saresti un esperto di regole della fisica?”
“Qui avrei studiato da architetto, anche se non so quando effettivamente.”
“Tsubasa, lasciatelo dire – Genzo si avvicinò sistemando il berretto – Tu sei un architetto tanto quanto Misugi è un prete!”
Molti del gruppo si misero a ridere per la battuta del portiere, che sottolineava l’assurdità della loro situazione. Lui stesso sorrise prima di voltare lo sguardo alla ricerca di Misugi che se ne stava sempre un po’ in disparte rispetto agli altri.
“Riprendiamo a giocare comunque?” Hikaru riuscì a trascinare gli amici di nuovo in mezzo al campo.
Tsubasa decise di prendersi una piccola pausa e di raggiungere Misugi che si era seduto su una delle vecchie panchine.
“Jun, è tutto a posto?”
L’interpellato alzò la testa ed esitò un attimo prima di rispondere.
“Io direi di sì.”
“Non sei stanco o cose del genere?”
Jun agitò le mani.
“No, affatto. Qui non ho mai avuto problemi, anzi sembrano essersi trasferiti tutti a Yayoi.” L’uomo emise un profondo e lungo sospiro, tanto che a Tsubasa sembrò che stesse svuotando i polmoni di tutta l’aria.
Decise di sedersi accanto a lui.
“Troveremo il modo di sistemare anche questa faccenda. Ho notato però che tendi ad isolarti, a stare da solo.”
“Io mi sento ancora in colpa per avervi traditi.”
Tsubasa aveva immaginato che Misugi si stesse ancora tormentando per parte di quanto accaduto la notte in cui la maledizione si era sciolta ed avevano catturato Natureza.
“Tu non ci hai tradito, proteggevi uno di noi: Yayoi è parte del gruppo e non avremmo mai permesso che le succedesse qualcosa. Se qualcuno ha problemi con questo fatto dovrà discuterne con me.”
Finalmente Jun sorrise.
“Sei un vero amico, Tsubasa! Ma ora dimmi, c’è qualcosa che disturba anche te.”
Ozora si portò una mano dietro alla nuca, colto in fallo: Misugi era perspicace come sempre.
“Sei stato di nuovo da Natureza?”
Il Capitano della nazionale annuì.
“Speravo di ottenere da lui qualcosa di più, una spiegazione più plausibile rispetto a ciò che ci ha raccontato quella notte.”
“E…”
“E ogni volta l’ho trovato sempre più delirante, quasi come se stesse perdendo l’uso della ragione. Non riesco a capacitarmi che ci abbia fatto tutto questo solo per averlo battuto.”
“Nella sua mente contorta e malata è stato un affronto imperdonabile. Immagino che non ti abbia nemmeno detto come annullare del tutto questa maledizione e riportarci a casa.”
Quella era la parte più frustrante, pensare che anche se l’avevano catturato, erano comunque condannati a rimanere prigionieri in quel posto e a non rivedere più molte persone a loro care. Lui poteva ritenersi fortunato, aveva Sanae con sé, aveva ritrovato Daichi e pure i suoi genitori erano risultati essere ospiti della casa di riposo, ma molti altri compagni sarebbero stati separati per sempre dalle loro famiglie.
“Secondo lui è impossibile. Ci ha condannati due volte.”
“Oh, eccovi qui! – Una voce alle loro spalle li fece sussultare entrambi – Avrei dovuto immaginare che voi fissati sareste stati al campo da calcio.”
“Kanda!” Tsubasa si alzò in piedi per accogliere il nuovo venuto.
“Nemmeno in una realtà distorta vi si può tenere lontani dal pallone.”
“Avevamo bisogno di sfogarci. – abbassando lo sguardo si accorse delle mani piene di tagli e lividi del pugile – Tu, piuttosto, che hai fatto alle mani?”
Kanda si strinse nelle spalle.
“Mi sono sfogato a modo mio.”
“Spero non contro qualcuno.”
“Contro qualche albero! Per chi mi hai preso? Non sono più il bulletto delle scuole medie.”
Tsubasa annuì, credendo senza esitazione alle parole dell’ex rivale in amore.
“Io mi domando una cosa – Misugi si inserì nel discorso – perché Natureza ha trascinato anche te quaggiù?”
“Posto sbagliato al momento sbagliato.”
Tsubasa era stupito dalla semplicità delle conclusioni di Kanda.
“Che vuoi dire?”
“Quando il vostro amichetto pazzoide ha scatenato quel tornado, io stavo tranquillamente passeggiando nei pressi di Villa Wakabayashi.”
“Sei stato proprio sfortunato.” Commentò Jun.
Passarono qualche istante in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri. La rivelazione di Kanda rendeva Tsubasa ancora più disgustato nei confronti di Natureza: nei suoi folli propositi di vendetta non si era preoccupato di aver trascinato lontano da casa anche chi non aveva nulla a che fare con le loro vicende e questioni. Che fosse folle era ormai evidente.
“Credo proprio che proverò questo gioco.”
Senza aspettare altro Koshi si allontanò dalla panchina ed andò a raggiungere il gruppo a centrocampo, dove Takeshi Kishida si stava rialzando dall’ennesimo volo.
Tsubasa si ritrovò ad osservare la scena ad occhi sbarrati: Kanda che si metteva a giocare a calcio era davvero roba dell’altro mondo!





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Capitolo più tranquillo, perché avevamo bisogno di vedere i ragazzi e le ragazze in un momento un po' sereno e con la possibilità di spiegare alcuni dei misteri che erano rimasti aperti, come ad esempio la presenza di Kanda che è finito lì con loro per puro caso.
Finalmente abbiamo la conferma di ciò che tutti sospettavamo: Kitty era una creatura/proiezione di Kumi ed è anche per questo motivo che in tutta la storia non abbiamo mai avuto una scena dal suo punto di vista.
In attesa del prossimo capitolo, vado a riprendermi dallo shock della rivelazione inaspettata di Santana: finché non me l'ha detto lui in questo capitolo non avevo idea che la sua versione non lavaggiocervellata avesse un debole per Yayoi. XD

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Capitolo 33
*** XXXII ***


Kumi staccò gli occhi dal libro che stava sfogliando, massaggiandoli delicatamente: la stanchezza cominciava a farsi sentire. Con le altre ragazze avevano pianificato una giornata di ricerca nella vecchia biblioteca di New Team Town. Era un posto polveroso e abbandonato da anni, pieno di vecchi scaffali ed un’illuminazione così fioca in alcune zone che spesso si faceva fatica a leggere, ma lei aveva la strana sensazione che lì avrebbero trovato la chiave per uscire dell’impasse in cui erano piombati: svegli e consapevoli delle loro identità, ma impossibilitati a tornare alle loro vere case, condannati a vivere una vita sospesa tra verità e menzogna.
Natureza si era rivelato sempre più di scarso aiuto. L’aveva raggiunto in prigione un giorno insieme  a Tsubasa e l’aveva trovato preda del delirio, incapace perfino di riconoscerli: aveva legato troppo saldamente sé stesso alla maledizione che aveva scagliato, finendo col perdere il senno nel momento in cui questa era stata spezzata, seppur in modo parziale. Aveva giocato con forze e poteri più grandi di lui e si era ritrovato a pagarne il prezzo più alto.
“Uff! – Yayoi spuntò da dietro uno scaffale sbuffando – Mi sembra di andare in giro con la colonnina della flebo a trascinare sempre con me questo affare!”
Nella borsa che Aoba portava a tracolla era contenuto lo scrigno di Natureza.
La battuta riuscì a strapparle un sorriso:
“Ma quella è molto più carina! Trovato niente?”
“Nulla, solo libri polverosi sulla storia fittizia di New Team Town, ancora libri polverosi e…”
“Ahhhh!”
L’urlo fece drizzare di scatto la schiena a Sugimoto, mentre Yayoi voltava la testa oltre gli scaffali.
“Cos’è stato?” Urlò Kumi.
A risponderle fu Yukari:
“Niente di grave: Yoshiko ha visto un ragno.”
Fujisawa arrivò quasi trafelata alla postazione di Kumi.
“Chiamalo ragno! – si lamentò – Era un affare gigantesco e peloso! È saltato fuori dal libro che avevo in mano!”
La ragazza si passò una mano sul viso.
“Questo posto diventa sempre più orribile. Non vedo l’ora di potercene andare.”
“Lo vogliamo tutti questo.” Anche Sanae aveva raggiunto il piccolo gruppetto in quella che era ormai diventata una pausa dalla ricerca.
Yukari si lasciò cadere su una sedia:
“Troveremo mai qualcosa qui dentro?”
Kumi annuì, doveva esserci qualcosa, le sue sensazioni non sbagliavano quasi mai. Doveva trovare il modo di riportare tutti indietro, non sarebbe mai stata in pace con sé stessa altrimenti.
Spostò lo sguardo sulla destra, sempre sul tavolo, dove era appoggiato il prezioso volume che conteneva le loro vite passate. Dopo averlo custodito, Tsubasa aveva deciso di riportarlo ad Atsushi, ma questo non ne aveva voluto sapere, così l’aveva restituito a lei. Era diventato il simbolo della loro speranza.
“Dobbiamo trovare qualcosa! Non può essere irreversibile questa maledizione. – Dichiarò alle amiche – Pensavo che il bacio del vero amore avrebbe risolto tutto, invece ci dev’essere qualcosa d’altro.”
Si stava intestardendo, non avrebbe mollato finché non avesse trovato una soluzione.
“Forse abbiamo sbagliato bacio. – Saltò su ad un certo punto Nishimoto – Insomma, lo sanno tutti che il vero e grande amore di Tsubasa è il pallone!”
“Yukari!” tutte scoppiarono a ridere ad eccezione della signora Ozora che mollò uno scappellotto in testa alla vecchia compagna di classe.
Sugimoto ad un certo punto si bloccò:
“Aspettate, forse ho trovato: dobbiamo usare altri baci. Yukari tu sei un genio!”
Sanae incrociò le braccia al petto e la guardò di traverso:
“Non avrai sul serio intenzione di far baciare il pallone a mio marito?”
Kumi scosse la testa, cominciando a sfogliare il libro con le tavole illustrate.
“Assolutamente no, ma pensavo che quello che c’è tra te e Tsubasa non è il solo vero amore che abbiamo a New Team Town! Ci sono Jun e Yayoi, Hikaru e Yoshiko, Kojiro con Maki e altri che magari qui – picchiettò con un indice il volume – non sono illustrati, ma esistono. Se mettessimo insieme tutti, forse potremmo invertire la maledizione!”
Yayoi batté le mani:
“Non è un’idea malvagia, si potrebbe tentare!”
“Ma dobbiamo farlo pubblicamente?” Yoshiko era arrossita di colpo, mentre Sanae stava già estraendo il cellulare:
“Mando un messaggio sul gruppo per trovarci tutti al vecchio campo da calcio.”
“Direi che non potevi scegliere luogo migliore!” Yukari si alzò e cominciò ad avviarsi.
Kumi chiuse il libro delicatamente, quasi accarezzandolo, poi lo rimise nella sua busta bianca, seguendo le amiche.
 
Ci era voluto pochissimo tempo, meno di un’ora a radunare tutti i ragazzi al campo sportivo ed a spiegare cosa avevano in mente. Non aveva dato garanzie di successo, ma era una cosa talmente semplice e senza controindicazioni che valeva davvero la pena di tentare, il massimo che sarebbe successo in caso di fallimento era un grande sbaciucchiamento pubblico. C’era decisamente di peggio.
Tuttavia Kumi era sicura che avrebbe funzionato, come era stata sicura che la biblioteca fosse una buona idea. Sapeva che l’amore che univa le altre coppie era altrettanto puro e forte di quello che legava Sanae a Tsubasa, insieme avrebbero potuto spezzare definitivamente la bolla della maledizione. Inoltre tutto il gruppo era lì a sostenere le coppie con la sua amicizia e che cos’era l’amicizia se non una diversa declinazione dell’amore? Ce l’avrebbero fatta.
Sugimoto sapeva di essere parecchio ottimista nelle sue previsioni, ma era stato quell’ottimismo, la speranza di poter arrivare ad una soluzione a darle forza nei giorni più difficili della sua prigionia, nei giorni in cui aveva dovuto dare vita ad un alter ego fittizio che potesse lasciare la città e raggiungere l’unica persona che avrebbe potuto sbloccare la situazione.
“Che ne sarà di Natureza se questa cosa funzionerà?” La domanda postale da Kishida la strappò dai suoi pensieri.
“Che  vuoi dire?”
“Resterà qui o tornerà con noi nel nostro mondo?” Si spiegò meglio il calciatore.
Kumi non aveva una risposta certa, non era un’esperta di quel tipo di maledizioni, non le erano mai interessate in realtà. Decise però di tentare una risposta.
“Credo che se la maledizione sarà spezzata interamente, lo sarà per tutti, quindi anche lui dovrebbe tornare. Non so però in quali condizioni, non so se si potrà riprendere o resterà annichilito come ora.”
Urabe si avvicinò con espressione dura.
“Spero di no. Spero che resti così, in modo da non nuocere nemmeno ad una mosca.”
“Di questo non dovete preoccuparvi – intervenne Roberto – se dovesse tornare  lucido ci occuperemo noi di lui, faremo in modo che non possa giocarci qualche altro brutto scherzo.”
Tutta la nazionale brasiliana diede manforte alle parole dell’allenatore, del resto erano rimati anche loro vittime dei deliri dell’ex compagno di squadra, trascinati nella maledizione senza memoria, con il solo scopo di servirlo come spie e lacchè.
“Siamo pronti?”
Tsubasa chiamò gli amici che risposero quasi all’unisono.
Le coppie si erano posizionate al centro del campo, con gli altri tutti intorno ad incitarli: c’erano, ovviamente, Tsubasa e Sanae, Jun e Yayoi con la sua tracolla al seguito, Hikaru e Yoshiko ancora nervosa per trovarsi davanti a tutti, Maki che aveva convinto un reticente Kojiro, i genitori di Tsubasa e anche quelli di Sanae e, a sorpresa, anche Ryo e Yukari erano usciti allo scoperto.
Cominciarono a baciarsi, ognuno a proprio modo, chi più delicatamente, chi in maniera più passionale e subito Kumi avvertì un cambiamento nell’aria: il vento stava cominciando a soffiare, dapprima debolmente, poi sempre più forte.
“Sta funzionando, continuate!” Li incitò.
Da tempesta il vento si trasformò in uragano.
Kumi si sentì sollevare verso l’alto e seppe con certezza che stavano per tornare a casa.
 
 
 
 
 
 
 
La schiena di Genzo toccò terra piuttosto dolorosamente, di sicuro il giorno dopo si sarebbe ritrovato con un bel livido violaceo. A fatica si mise a sedere, osservando gli abiti che aveva addosso: stava indossando il completo che portava il giorno del matrimonio di Tsubasa. Si guardò intorno e vide tutti gli altri ancora a terra e storditi, chi più chi meno, vestiti piuttosto eleganti. Riconobbe anche il giardino di Villa Wakabayashi, conciato come se fosse appena passato un temporale.
“Siamo davvero tornati?” Chiese Ryo al suo fianco.
“Così sembrerebbe.” Gli rispose.
Da un lato arrivò Sanae, in abito da sposa, seguita da Tsubasa.
“Siamo a Nankatsu! – esclamò la donna – Ma siamo anche tornati indietro nel tempo? Come se la maledizione non ci fosse stata?”
Kumi li raggiunse con il sorriso sulle labbra:
“Ha funzionato! Ve l’avevo detto!”
Tutti si stavano rialzando e sistemando, abbracciandosi felici. Matsuyama sosteneva Fujisawa che era tornata ad essere pallida come quando era uscita dall’ospedale, qualche giorno prima del matrimonio, mentre Misugi pareva impegnato nel fare il terzo grado ad Aoba:
“Come stai? Ti senti bene?”
“Sto benissimo!”
“E il frammento di cuore?”
“Credo sia tornato al suo posto. È tutto finito.”
I due si abbracciarono felici.
Genzo si rivolse a Kumi al suo fianco:
“Perché siamo tornati indietro di sei anni?”
“Penso che lo spezzarsi definitivo della maledizione ci abbia riportato al momento in cui è stata lanciata, ma senza cancellare le nostre memorie.”
Sanae scuoteva la testa, non soddisfatta:
“Dovremo ricordarci per sempre delle nostre vite finte?”
Tsubasa le cinse le spalle con il suo abbraccio.
“È giusto così. – commentò – Non è di sicuro stata un’esperienza piacevole, ma non la si può cancellare come se non fosse esistita. Io sono Tsubasa Ozora, ma per un certo periodo sono stato anche Oliver Hutton. Ciò che ho vissuto, ciò che ho provato in quei panni mi ha aiutato e mi aiuterà a crescere. Non sarebbe stato giusto riprendere le nostre vite come se nulla fosse successo. Ora abbiamo la possibilità di rivivere alcuni anni come noi stessi, non sprechiamola.”
Genzo non poteva essere più d’accordo con l’amico. Dal canto suo aveva imparato che il rancore ed il risentimento erano due nemici terribili che albergavano nel profondo del suo animo, la maledizione li aveva solo resi più acuti ed esasperati. Si promise di impegnarsi a tenerli a bada ed a fare in modo che non prendessero di nuovo il sopravvento, impedendogli di godere di ciò che di bello la vita gli offriva, oltre alle sfide e agli infortuni.
“Non è giusto però che io debba tornare a scuola!”
Atsushi era il più imbronciato di tutti ed in fondo Wakabayashi non seppe dargli torto: dall’uomo che era diventato a New Team Town era tornato ad essere un ragazzino alle prese con il primo anno del liceo. Chissà come si sarebbe trovato con i suoi coetanei con l’esperienza accumulata nei sei anni come Jason Brown.
Genzo scacciò il pensiero, di quello si sarebbero occupati il giorno successivo, ora dovevano solo festeggiare il ritorno a casa e Villa Wakabayashi aveva ancora delle risorse da offrire.
“Forza! – chiamò i suoi ospiti – Si sta facendo freddo, torniamo dentro. Ci sono ancora parecchie bottiglie di champagne da stappare e abbiamo centinaia di buoni motivi per festeggiare.”
Con passo sicuro guidò il gruppo nel salone allestito come se il rinfresco di nozze di Sanae e Tsubasa non fosse mai stato interrotto.
Erano tornati tutti a casa salvi e se avevano sconfitto una maledizione come quella, nulla avrebbe potuto abbatterli.
Afferrò un flute appena riempito di champagne da un cameriere e lo sollevò in alto a proporre un brindisi.
“Agli sposi ed al loro vero amore!”
Avvicinò il flute alle labbra e cominciò a sorseggiare, mentre Tsubasa e Sanae si scambiavano un bacio.
Non ci sarebbero più state maledizioni, realtà alternative e strani libri che li raffiguravano come personaggi dei fumetti.
Era tutto perfetto, finalmente.




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Per il finale di questa storia ho voluto utilizzare due punti di vista significativi: il primo è stato quello di Kumi che non avevavmo mai visto per tutta la storia e mi sarebbe piaciuto chiudere con lei, ma poi ho trovato giusto che fosse Genzo a chiudere il cerchio, dato che era stato lui ad introdurci nella storia nel prologo a Villa Wakabayashi duarnte i festeggiamenti del matrimonio di Sanae e Tsubasa. Ed in un movimento circolare i nostri sono tornati dove tutto era iniziato, uguali, ma cambiati.
Ma chi mi conosce sa che io amo i lieto  fine e non avrei potuto lasciare i nostri prigionieri per sempre a New Team Town.

Vorrei ringraziare tutti coloro che in questo anno abbondante hanno letto e seguito questa storia, soprattutto coloro che si sono "fidati" quando i personaggi durante la maledizione hanno cominciato ad apparire con "abbinamenti" insoliti.
Ringrazio chi ha inserito la storia in una delle varie liste e chi ha speso parte del suo tempo per lasciare una recensione.

Nonostante questo anno strano, nonostante in alcuni momenti abbia dovuto diluire la pubblicazione, non ho mai smesso di lavorare a questa storia e di questo mi sento soddisfatta, ma ora ho bisogno di una pausa prima di tuffarmi in altri progetti, questo è stato bello tosto!
 

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