Saving Greg Lestrade

di LilithMichaelis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***
Capitolo 7: *** VII. ***
Capitolo 8: *** VIII. ***
Capitolo 9: *** IX. ***
Capitolo 10: *** X. ***
Capitolo 11: *** XI. ***



Capitolo 1
*** I. ***


Quando sei Sherlock Holmes sei abituato a ricevere messaggi colmi di urgenza provenire da Scotland yard.
Omicidi, rapimenti, casi d'altro profilo... una considerevole porzione dei casi risolti dal distretto era regolarmente affidata a Sherlock nel momento esatto in cui essi toccavano la scrivania di Gregory Lestrade.

Né lui né John, quindi, si preoccupavano troppo quando il cellulare del Consulente Investigativo iniziava a trillare a qualunque ora del giorno.

Eccetto quella volta.

Ripensandoci a mente fredda, John pensò che Baker Street sarebbe dovuta essere più silenziosa.
Che persino la polvere avrebbe dovuto prevedere ciò che sarebbe successo in quella maledetta giornata di primavera.
Sherlock Holmes, il grande detective, avrebbe dovuto prevedere tutto ciò.
Eppure, nonostante il desiderio di John, quel giorno Baker street era tutt'altro che silenziosa.

Nell'appartamento al 221B, due uomini avevano aperto gli occhi quella mattina. Si erano dati il buongiorno e avevano bevuto il the mattutino seduti sulle poltrone in soggiorno.
Uno dei due era sceso a prendere il giornale. O forse il giornale era semplicemente comparso sul tavolino.
John non ne era sicuro.
Dalla cameretta di Rosie Watson, si udirono i richiami della piccola, che segnalarono ai due abitanti dell'appartamento che la piccola principessa si era svegliata.
Sherlock amava accogliere la figlia di John suonando il violino. Da quando i due Watson si erano trasferiti definitivamente al 221B, Sherlock aveva persino ricominciato a comporre.

Sherlock compose quella mattina, questo John lo ricorda. Ricorda anche di aver commentato il fatto che fosse una canzone stranamente malinconica. Sherlock aveva risposto che si sentiva stranamente malinconico. John lo aveva trovato strano, ma cosa non lo era in quell'appartamento?

Eppure, per quanto John si sforzasse di ricordare un dettaglio, un segnale, qualunque cenno del destino che avrebbe potuto avvertirli della tragedia che si sarebbe sviluppata nelle ore seguenti, non ci riusciva.
In quella vita anormale, quella era forse la giornata più ordinaria di tutte.

La signora Hudson aveva raggiunto i due uomini poco dopo, convinta di doversi prendere cura della piccola.
Fu in quel momento che John si accorse di uno degli ingranaggi che, in quella loro routine quotidiana, non aveva funzionato.

Nessuna chiamata da Scotland yard. Nessun caso. Nessun cliente.
Calma piatta.

《Nessun crimine oggi?》 Chiese John Watson.
《Oh, John, non preoccuparti. Il crimine non riposa mai》 rispose Sherlock Holmes.
《Peccato, mi avrebbero fatto bene le ferie》
《Potremmo sempre prendere un giorno di pausa...》
《Sherlock Holmes, sei l'uomo più intelligente nel raggio di 20 km》 Sherlock alzò un sopracciglio 《e solo perché non sono ancora riuscito a provare che il tuo QI è più alto di quello di tuo fratello...》 aggiunse John.
《...ma?》
《Ma sei anche un grandissimo cazzaro》 concluse il biondo.
Come a dare ragione al medico, il cellulare di Sherlock segnalò un messaggio.
Sherlock aggrottò le sopracciglia quando si rese conto del mittente.
《Anderson ha il mio numero di cellulare?!》
《Era per le emergenze!》
《John Watson, il giorno che chiamerò Anderson durante un'emergenza, sarà il giorno in cui sarò morto e sepolto》
Il biondo fece per ribattere, ma l'altro concluse
《Morto davvero》. Il biondo annuì.

Sherlock riportò l'attenzione al messaggio, e poco ci mancò che avesse un mancamento.
O forse lo ha avuto per davvero.
John non ricorda.

Venite in centrale.
Emergenza.
È Lestrade.

Non chiamare tuo fratello.
-Anderson

*****

Note dell'Autrice
Negli ultimi anni mi sono un po' allontanata da tutto ciò che riguardava i fandom e la scrittura in generale... Ma dopo essere stata bloccata a letto con l'influenza, ho deciso di riguardare Sherlock. Devo dire, l'ispirazione è arrivata da sola.

Originariamente doveva essere una Mystrade, ma mi viene difficile scrivere qualunque cosa riguardante Sherlock senza citare anche la Johnlock.

La storia è completa e prevede 11 capitoli che saranno pubblicati con cadenza circa settimanale.
Sono presente anche su wattpad (LilithMichaelis anche lì) e la storia sarà pubblicata anche lì, anche se pianifico di lavorare molto di più qui su efp.
Sono assolutamente aperta a ogni tipo di consiglio e parere, quindi fatemi sapere cosa ne pensate.
A presto!
Lilith


 

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Capitolo 2
*** II. ***


Col senno di poi, John pensò che la strada verso la centrale avrebbe dovuto essere più confusa, più nebbiosa.
Nei libri scrivevano così.

Eppure, stranamente, John ricordava tutto dei momenti passati a raggiungere Scotland yard.
Ricordava che Sherlock fosse lievemente a disagio, mormorando qualcosa su come i poliziotti avessero la bocca larga e su come Mycroft non gli avrebbe dato pace.

John, invece, era preoccupato per Lestrade. Il messaggio di Anderson era troppo criptico, troppo breve.
Lestrade era stato ferito in servizio? In quel caso sarebbero diretti verso l'ospedale.
Se fosse successo qualcosa di grave, Molly lo avrebbe saputo, li avrebbe avvertiti.
Sicuramente era un modo per convincere Sherlock ad accettare un caso noioso, non c'era altra spiegazione.

E allora perché non riusciva a togliersi di dosso quella sensazione che ci fosse qualcosa di estremamente sbagliato in quella storia?
Perché era stato Anderson a scrivere a Sherlock?
Perché aveva nominato Lestrade?
Perché quell'appunto su Mycroft?
E, soprattutto, era davvero così evidente?

Microft e Gregory avevano iniziato a sentirsi poco prima del matrimonio di John e Mary, ma nessuno dei due aveva portato avanti la cosa.
Mycroft affermava di utilizzare il detective come elemento di controllo delle condizioni di Sherlock, e Greg... Greg non voleva ancora ammettere di essere attratto da Mycroft. Non pubblicamente, almeno.
Nonostante la volontà di entrambi, dopo la morte di Mary, i due si erano ritrovati a vedersi.
Spesso.
Inizialmente era per aggiornarsi sulle condizioni di Sherlock. Poi per un caffè. Poi Greg era passato per caso di lì...
Mycroft non ammetteva che la presenza di Greg lo aiutava a tenere sotto controllo la pressione dovuta al suo lavoro, a suo fratello, a sua sorella.
Greg era quello spicchio di normalità, di ordinarietà, quella semplicità che nessuno dei fratelli Holmes aveva conosciuto nella loro casa di infanzia.
E così, piano piano, qualcosa era sbocciato.
Nessuno si azzardava a dargli un nome, ma era qualcosa.
Sherlock, dopo aver dedotto le attività notturne del fratello, era stato minacciato di morte cruenta, se solo avesse rivelato a chiunque ciò che aveva scoperto.
John non ebbe bisogno di tale trattamento, ma non mancò di guardare più dolcemente quell'uomo così spaventoso e così innocente.

Ovviamente, in qualche modo, l'intero distretto era venuto a sapere della storia del Detective e del Governo Britannico.
Non che il primo si sforzasse troppo di nascondere il suo umore decisamente migliore, i sorrisetti ad ogni squillo del telefono, le cravatte nuove...
Insomma, era decisamente il segreto di Pulcinella.

John posò lo sguardo su Sherlock. Anche loro erano evidenti e anche loro non avevano ancora deciso di dare un nome a ciò che stava succedendo, tra di loro.
Ma quando la mano del consulente si posò sulla sua, John smise di preoccuparsi di nomi, relazioni e segreti, e iniziò a preoccuparsi davvero di ciò che li attendeva.

Il taxi li lasciò davanti all'entrata di Scotland yard.
Sherlock si avviò per primo, ogni traccia di delicatezza scomparsa dai suoi occhi azzurri.
John raddrizzò la schiena. Sherlock indossò la sua "faccia da gioco".
Lì dentro li attendeva qualcosa di estremamente sbagliato.

***
Note dell'Autrice
Oggi mi sento particolarmente buona e vi posto il secondo capitolo. Essendo capitoli così brevi ed essendo la storia già finita, credo sia inutile tenervi sulle spine per un'intera settimana.
Vi auguro una buona lettura e ci vediamo al prossimo capitolo.
Lilith

 

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Capitolo 3
*** III. ***


Sherlock e John entrarono nell'ufficio di Lestrade e fu lì che, finalmente, il blogger trovò ciò che cercava.
Il silenzio innaturale che accompagna le tragedie.

Diciamocelo, non si sarebbe sentito uno spillo cadere, questo è certo. I telefoni suonavano ancora, fuori dalla porta il ticchettio di tacchi accompagnava i passi svelti delle impiegate, la vita andava avanti come al solito, ma dentro quell'ufficio nessuno osava dire una parola.

«Cosa succede? Dov'è Graham? Avevate parlato di un'emergenza» cominciò a indagare Sherlock.
Per una volta, John comprese cosa si provasse a leggere gli avvenimenti di una giornata sul volto di una persona.
Il viso di Anderson, in genere un po' arcigno, ma gioviale, era una maschera di cera.
John vedeva il nulla dietro gli occhi del poliziotto, come se qualcosa avesse risucchiato l'essenza dell'uomo.
«C'è stato... Era una semplice soffiata... Non doveva...» blaterò Anderson.
«Philip, cosa stai dicendo? Lestrade è...?» John non voleva neanche finire la frase. Aveva dovuto dire quella parola fin troppe volte per una vita sola.
«No, John. È successo qualcos'altro.» fu la risposta pronta di Sherlock.
«Non lo sappiamo, John. È... Sparito. Volatilizzato»
John si sentì morire.
Sentì il cuore sprofondare, la gola riempirsi di bile.
Ne aveva affrontati di casi al limite del patologico.
Aveva trovato i resti di un bambino in un pozzo, per la miseria...
Eppure non riusciva ad accettare ciò che aveva appena ascoltato.
«Cosa significa "sparito"? La gente non sparisce, Philip!» urlò John col poco fiato che gli rimaneva nei polmoni.
«Significa che un momento prima era lì, quello dopo non c'era più. Era andato a supervisionare una scena del crimine, una semplice effrazione, con dei novellini. Mentre si assicuravano che i criminali se ne fossero andati, ha fatto sparire le tracce: niente porte aperte, segni di colluttazione, il telefono risulta spento. Si è volatilizzato»

John vide Sherlock uscire dalla stanza.
«Hei! Dove vai?» Lo chiamò Anderson.
«A telefonare a mio fratello»
«Sei impazzito? Ti ho detto specificatamente di non chiamarlo»
«Preferisci che lo venga a sapere dai giornali?»
Anderson deglutì, senza la forza di parlare. Il maggiore degli Holmes non era un uomo con cui scherzare. Nessuno degli Holmes lo era, a dire il vero, ma, mentre l'eccentricità di Sherlock poteva garantirti minuti preziosi per scendere a patti con la tua morte imminente, a Mycroft bastava alzare un semplice dito per porre fine alla tua esistenza.
Anderson, però, per un secondo provò a mettersi nei panni del Governo Britannico. Nei panni di Mycroft Holmes. Se lui sentiva il peso del mondo sulle spalle sin dalla notizia della scomparsa di Lestrade, come avrebbe potuto sentirsi quell'uomo? Se una persona come lui avesse potuto provare anche un briciolo delle normali emozioni umane, come avrebbe reagito al ricevere questa notizia dai giornali?
Philip guardò negli occhi Sherlock, aspettandosi fredda risoluzione... Ma le iridi azzurre si muovevano troppo velocemente, il respiro era troppo pesante, poteva sentire il sibilo dell'aria passare tra i denti del detective.
Sherlock Holmes, l'onnipotente detective, era spaventato.
Di cosa, Anderson non aveva idea.

«Fratellino, nessun caso stamattina?»
«Mycroft...»
«Ti trema il respiro, fratello caro?»
«Lestrade. È scomparso. Siamo in centrale. Mi dispiace tanto...»
Il silenzio dall'altro capo del telefono fece gelare il sangue nelle vene di Sherlock. Migliaia di possibili scenari gli si affacciarono in mente e una preghiera muta gi affiorò sulle labbra.
«Mycroft?»
Click

***
Note dell'Autrice:
Terzo capitolo, iniziamo ad avere un'idea di cosa ci troveremo davanti.
So bene che molti (io per prima) di noi sono abituati a dei capitoli molto più lunghi, motivo per cui per tutti e 11 i capitoli della storia ho cercato di mantenermi ben al di sotto delle 1000 parole.
L'effetto che vorrei replicare è la classica situazione che si verifica durante le situazioni drammatiche, dove la tensione fa sì che i momenti di calma sembrino dilatati, e qualunque cosa accada porta con sè quasi una contrazione temporale.
Spero di esserci riuscita.
Al prossimo capitolo!
Lilith

 

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Capitolo 4
*** IV. ***


Era incredible come John trovasse ancora dell'incredibile nelle scene del crimine.
Il dottore ne aveva visti di disastri. Di cadaveri. Di scene degne di un macello.
E nonostante gli anni di allenamento, continuava a trovare casi che lo lasciavano allibito.

La scena del crimine era una casa in periferia. Una piccola villetta a due piani, con i muri bianchi, dal gusto classico.
Al suo interno vi erano molti mobili scuri, che secondo John contrastavano con la facciata in un modo fastidioso.
Lestrade e i novellini erano stati chiamati da un vicino, che aveva visto movimento all'interno della casa, nonostante la famiglia che viveva lì fosse partita per delle lunghe vacanze.
Al loro arrivo, tutto era tranquillo, tutto era perfettamente in ordine. Greg era salito al piano di sopra a controllare che non ci fosse nessuno.
Inutile dire che non fu mai visto scendere.
Ciò che per John aveva dell'incredibile, era la pulizia di quella scena del crimine. In confronto, l'obitorio del Barth's era una discarica.
Ogni singolo angolo di quell'edificio era stato pulito e disinfettato (John poteva percepire l'odore del detersivo), ogni traccia, prova, indizio, erano stati sapientemente spazzati via, cancellati.

Sherlock ebbe difficoltà a dedurre qualunque cosa. La pulizia di quella casa lo inquietava.
Lo spettro che vi si aggirava al suo interno, ancora di più.
Mycroft aveva insistito ad unirsi personalmente alle ricerche, cancellando tutti gli impegni, non solo della giornata, ma dell'intera settimana.
Suo fratello non aveva proferito verbo, oltre le domande inquisitorie poste in centrale. Sherlock non era sicuro che fosse davvero presente in quel momento, dato che si aggirava come un fantasma, ma era certo del motivo per cui Mycroft aveva deciso di buttarsi sul campo: sebbene sarebbe stato più utile nel suo ufficio, a gestire MI6 e Dio solo sa quali altri organi di servizi segreti, Mycroft Holmes era terrorizzato dall'idea di restare da solo.
Se Sherlock non avesse già porto una pistola al fratello, se non avesse visto il rifiuto nei suoi occhi all'idea di uccidere un uomo, avrebbe avuto l'impulso di arrestarlo. Giusto per essere sicuri.
I poliziotti ingaggiati per portare avanti le ricerche, sebbene abituati a lavorare a stretto contatto con Sherlock, non potevano fare a meno di sentirsi a disagio guardando quell'uomo aggirarsi per la villa. Sembrava quasi fosse capace di emanare un'aura di gelo e disperazione, perchè chiunque si fosse malauguratamente trovato vicino a Mycroft sentiva il sangue diventare ghiaccio, i brividi percorrergli la schiena. Nessuno sapeva esattamente quale fosse il lavoro del maggiore degli Holmes - la versione ufficiale era che occupasse una posizione minore al ministero - ma bastava osservarlo per rendersi conto di come ogni punto di cucitura sui suoi elegantissimi completi trattenesse con sè segreti e cospirazioni.
Anderson, tra tutti, era uno dei pochi eletti a conoscere la verità. Durante le sue ricerche, dopo il suicidio di Sherlock, aveva iniziato a scoprire qualcosa sul fratello del Detective. La verità, però, era venuta fuori solo dopo che Sherlock gli ebbe raccontato come era sopravvissuto alla caduta, dopo essere stato contattato da Mycroft per cercare ogni traccia di sostanze stupefacenti nell'appartamento di Sherlock.

Mycroft lo aveva invitato al Diogenes Club per discutere di quanto fosse effettivamente coinvolto nelle attività del fratello. Era stato lui stesso a spiegargli quanto esteso fosse effettivamente il suo controllo sulle vite degli abitanti della Gran Bretagna. Anderson era confuso riguardo al perchè fosse stato scelto per conoscere quelle informazioni e Mycroft glielo spiegò in maniera semplice:

«Vede, signor Anderson, viviamo in un'epoca in cui i complotti e le cospirazioni vengono ogni giorno discussi tramite poche stringhe di testo e inviate nel web, affinchè tutti possano leggerle. Certo, un tale livello di interconnessione potrebbe risultare pericoloso, ma il numero di informazioni che circolano in rete è talmente alto da rendere quasi impossibile riconoscere quali siano vere e quali semplici invenzioni. In poche parole: se anche lo raccontasse a qualcuno, chi le crederebbe?»

Il ragionamento era ineare e Anderson non poteva impedirsi di rabbrividire al pensiero. Il maggiore degli Holmes viveva la sua vita con il volto nascosto da innumerevoli maschere, che toglieva solo in due casi: in presenza di suo fratello, e in presenza di uomini disperati al punto da essere al limite dell'integrazione con la società.

Tuttavia, Anderson non capiva quale maschera stesse indossando in quel momento e, per un breve momento, ebbe il dubbio che non ne stesse indossando affatto. Il viso, in genere inespressivo, era solcato da profonde rughe di preoccupazione. Gli occhi gelidi erano infossati nelle orbite. Il portamento, seppur rigido e regale, sembrava quello di un uomo con il peso del mondo sulle spalle.
Anderson ne era sicuro, quell'uomo di ghiaccio stava, forse per la prima volta nella sua vita, dimostrando delle emozioni. E ciò spaventò il poliziotto ancora più di quanto avesse fatto quell'incontro privato al Diogenes: se Sherlock Holmes era pericoloso, quando in preda a forti emozioni, cosa poteva diventare Mycroft?

Lo sguardo di Anderson cadde sulla figura del detective, che forse per la prima volta, sembrava insicuro, mentre osservava il fratello muoversi nella villa. Sebbene non fosse a conoscenza di metà di ciò che era accaduto quando Sherlock e John erano stati ritrovati a Musgrave, aveva visto Greg abbastanza da rendersi conto che i destini di quei quattro uomini, così diversi tra loro, si erano intrecciati in maniera ormai indissolubile. Sherlock, evidentemente sentendosi osservato, guardò Anderson che, dopo aver mantenuto il contatto visivo per diversi secondi, spostò lo sguardo verso Mycroft.
Sherlock sospirò. Si avviò a passi svelti verso Mycroft e, dopo avergli sussurrato qualcosa, lo portò con sè in una delle stanze della villa, chiudendo la porta alle sue spalle.

«Stai bene?» chiese al fratello, quando i due furono soli.
Mycroft non rispose, ma lo guardò negli occhi. Sherlock fu sconvolto dalla disperazione nello sguardo di quel fratello che per tutta la vita era stato la sua bussola, la sua guida morale. Si rese conto che, forse per la seconda volta nella sua vita, Mycroft stava facendo affidamento su di lui.
Ricordò di aver detto a Lestrade che suo fratello non era così forte come sembrava. Quando aveva pronunciato quelle parole non si era reso conto di essere diventato il nodo che aveva legato i destini dei due uomini.
E ora, uno di loro era in pericolo. Entrambi, a dire il vero.
Una risata amara risuonò nella mente di Sherlock, quando questi riflettè su come fosse la seconda volta che due persone si erano trovate fianco a fianco per causa sua, ed era la seconda volta che qualcun'altro separava quel legame.
Questa volta, però, Sherlock era determinato a impedire che Lestrade subisse lo stesso destino di Mary.
Quando parlò, la solennità nella sua voce ricordò molto il voto che fece alle nozze di John.
«Lo sai che lo troverò, vero? Fosse l'ultima cosa che faccio, non perderemo anche lui»
Mycroft distolse lo sguardo. Sherlock capì.
Il maggiore prese un respiro profondo, cercando di ritrovare la calma.
Mycroft Holmes non era mai stato convinto di possedere un cuore. Non dopo aver deciso di gettarlo via insieme alle siringhe usate da Sherlock la notte della prima overdose.
Eppure, in quel momento era fatalmente sicuro di possederne uno.
Solo un cuore umano poteva soffrire come soffriva lui. Sanguinare senza macchiare i vestiti. Infrangersi senza rumore.

«Devi trovarlo, Sherlock. Dobbiamo trovarlo. Ti prego»

E detto questo.
Se ne andò.


***
Note dell'Autrice:
Lo so, non si dovrebbe pubblicare una storia così velocemente. Bisognerebbe lasciare ai lettori il tempo di desiderarne il seguito. Ma io non sono la Mofftiss, quindi yay capitolo in anticipo.
Inizialmente questo capitolo comprendeva circa 400 parole, ma dopo una revisione mi sono resa conto che la sintesi non fa per me. Sono nata come autrice di genere introspettivo, e tale morirò. Godetevi quindi 1183 parole di disperazione. La mia, principalmente.
Ringrazio tutti voi che recensite la mia storia, perchè i vostri punti di vista sono esattamente ciò di cui avevo bisogno per rivedere alcuni punti cardine della situazione.
Al prossimo capitolo, che verrà pubblicato randomicamente. Dormite con un occhio aperto.
Lilith

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Capitolo 5
*** V. ***


Il silenzio era opprimente e così poco familiare al 221B di Baker Street.

John era abituato al suono della vita che scorreva imperterrita e proseguiva nelle sue avventure: Mrs. Hudson che preparava il the nella piccola cucina dell'appartamento, il violino di Sherlock, Rosie e i suoi capricci, le voci sommesse dei clienti.

I passi pesanti di Greg Lestrade che caracollava su per le scale, pronto ad affidare loro chissà quale nuovo mistero.

Sherlock era immerso nel suo palazzo mentale da ore, senza riuscire a trovare alcuna soluzione alla scomparsa di Lestrade. Erano passati due giorni e il detective aveva a malapena mangiato, sotto insistenza di John, che conosceva la sua lotta con il cibo. Il medico non era sicuro che avesse dormito.
Negli anni di convivenza, John aveva iniziato a comprendere alcuni degli atteggiamenti di Sherlock. Aveva smesso ormai da lungo tempo di credere alle parole del detective quando si discuteva della sua salute.
John sapeva che Sherlock non era capace di processare psicologicamente le sue emozioni - specialmente per colpa dei traumi dovuti a Eurus e le sue memorie bloccate. Da quando quello spicchio di verità era stato rivelato, John trovava molto più sensati molti degli atteggiamenti di Sherlock - perciò le processava a livelo fisico: quando era allegro, saltellava per l'appartamento, rubando dolci dalla cucina della signora Hudson; quando era arrabbiato o frustrato camminava sui mobili; quando era pensoso suonava il violino; quando era triste, stressato, spaventato... era come se premesse un interruttore e spegnesse tutto. Si chiudeva nel suo palazzo mentale, non parlava con nessuno, non toccava nè cibo nè acqua, dimenticava quasi di avere un corpo, arrivando a soffrire fisicamente tanto quando soffriva psicologicamente.

Eppure, dei due Holmes, Sherlock era quello in condizioni migliori. Mycroft, infatti, era come se avesse messo in pausa l'idea di vivere. Non era rasato, aveva i capelli scompigliati, la cravatta disordinata, il suo abito elegante tutto stropicciato. John non sapeva se provare apprensione o paura nel vedere Mycroft, normalmente così curato e raffinato, totalmente in balia del caos.
John riflettè su quanto i fratelli Holmes fossero simili, nonostante fossero ai capi opposti di uno spettro. Anche Mycroft, come Sherlock, convogliava i suoi sentimenti verso il corpo, per riuscire ad analizzarli ed allontanarli dalla sua mente.
Era quasi come se il suo corpo fosse la sua armatura - mentre per Sherlock era un mezzo di "trasporto" - progettata per allontanarlo quanto possibile dal mondo fisico. In quel momento, però, quell'armatura stava piano piano cadendo a pezzi, e John iniziò a intravedere quello che anni e anni di bullismo, responsabilità e isolamento avevano fatto a Mycroft Holmes: dietro la maschera di ferro che indossava di fronte agli altri, vi era un uomo fragile, disperato, spaventato all'idea di perdere qualcuno che amava.

Mycroft Holmes era lì, e John non riusciva a descrivere meglio la sua condizione. L'uomo conosciuto come il Governo Britannico stava. Stava lì, sulla poltrona di John, fermo, a fissare il vuoto mentre rimuginva su Dio solo sa cosa.

John non faticava a immaginare cosa stesse passando in quella mente così fuori dall'ordinario. Paura, disperazione, senso di colpa. John aveva già provato tutte queste sensazioni, più di una volta. Dopo il "suicidio" di Sherlock, dopo la morte di Mary. Ma, nonostante potesse capire cosa provasse Mycroft, non riusciva a trovare la forza di avvicinarsi all'uomo. Di chiedergli se avesse fame, se volesse un the. Di dirgli che lui capiva, lui capiva meglio di tutti.
Più di una volta si era ritrovato a vagare per l'appartamento - trasportando un cesto di biancheria, spolverando mobili che erano stati già spolverati, facendo finta di rendersi utile in una battaglia mentale in cui, francamente, sentiva di essere disarmato - e ad avvicinarsi a Mycroft, sentendo improvvisamente il desiderio di posargli una mano sulla spalla, come faceva per tranquillizzare Sherlock, di invitarlo a discutere dei suoi sentimenti, quasi come fosse una macabra riunione di un fan club. Ma, nonostante sapesse che le sue volontà erano più che nobili, aveva paura che Mycroft potesse fraintendere o, peggio ancora, rifiutare il suo aiuto, proprio come John aveva fatto con Sherlock.

Così, non lo faceva. Si limitava a badare a Rosie che, sebbene fosse ancora piccola, sembrava quasi comprendere la situazione: era particolarmente silenziosa quando Mycroft entrava nell'appartamento. Mentre sgambettava in giro alla ricerca dei suoi giochi, evitava di proposito la poltrona di Mycroft. Sebbene inizialmente avesse provato ad attirare l'attenzione di Sherlock, dopo alcuni tentativi smise di farlo. Si limitava ad osservare ciò che accadeva nell'appartamento, con il suo sguardo curioso così simile a Mary. La piccola rendeva tutto contemporaneamente più pesante e più sopportabile.
Da un lato, John era grato di avere qualcosa da fare, qualcuno di cui occuparsi, che gli avrebbe occupato le giornate e i pensieri, fintanto che lo stalo del 221B si fosse prolungato.
Dall'altro, a John piangeva il cuore nel vedere la figlia allungare le manine verso Sherlock, facendogli segno di prenderla in braccio e mormorando «dada» per attirarne l'attenzione - entrambi gli uomini avevano smesso di correggere Rosie, lasciando che li chiamasse dada e daddy. Sherlock comprendeva che il suo nome fosse complicato perchè una bambina così piccola potesse pronunciarlo correttamente, mentre John... gioiva segretamente all'idea che Rosie potesse amare quell'uomo tanto quanto lo amava lui. John aveva paura che la bambina non comprendesse il motivo di tanto rifiuto, che ne restasse ferita, ma nonostante tutto, Rosie rimaneva tranquilla e allegra. Dopotutto, quell'esserino aveva la testa di Mary, il cuore di John e tutti gli insegnamenti e la comprensione di Sherlock.
John si rimproverò più di una volta, nel constatare di aver sottovalutato sua figlia.

L'impasse sembrava non finire mai.

Fino a che non finì.

John non aveva capito se fosse stata colpa di Rosie, se l'intuizione fosse già pronta a esplodere, se fosse stato un mix tra le cose.

La bambina era in salotto, sul divano, a giocare con i suoi peluche. John era andato in cucina a preparare un po' di frutta per lei e a sbucciarne un po' per Sherlock, pur consapevole che sarebbe rimasta sul tavolo, ad annerire con il passare delle ore. Tutto era tranquillo, stabile, per questo John non era nella stanza con Rosie.
Finite le preparazioni, John tornò in soggiorno e la scena sembrò quasi andare al rallentatore.

Vide Rosie avvicinarsi alla poltrona di Sherlock, con un foglio in mano, mentre chiamava il suo dada. John era convinto che Sherlock sarebbe rimasto impassibile come al solito ed era pronto a distrarre sua figlia dalla delusione. Invece, il più giovane degli Holmes rivolse lo sguardo alla bambina.

«Hei Rosie. Cosa c'è?»

La bambina allungò il foglio che aveva in mano e John si rese conto che era una delle decine di fotografie attaccate alla parete delle deduzioni. Sherlock prese la fotografia e, dopo averla osservata per un secondo, si alzò in piedi, prendendo Rosie in braccio.

«Piccola Watson, sei un genio» disse cullando la bambina e facendola ridere. John non aveva bene afferrato cosa fosse successo, ma vedere il suo migliore amico mostrare un cenno di vitalità per la prima volta da due giorni gli diede speranza, riempiendogli il cuore di gioia. Inoltre, la scena di Sherlock e Rosie che si guardavano con occhi adoranti avrebbe intenerito anche un cuore di pietra. Sherlock si accorse di John ancora fermo sulla soglia e gli si avvicinò con Rosie.

«Sherlock? Che succede?» la consapevolezza della realtà che lo circondava gli si infranse contro per l'ennesima volta.

«Non lo so, ma se ho ragione, Rosie mi ha appena dato una pista» rispose Sherlock sussurrando, per non farsi sentire da Mycroft. John lanciò uno sguardo fulmineo verso il maggiore, che non mostrava di essersi reso conto di nulla, per riportare l'attenzione verso Sherlock. John avrebbe voluto baciarlo delicatamente, ma sapeva che Sherlock non avrebbe apprezzato. Non in quel momento, con mille pensieri per la testa, non con suo fratello agonizzante sulla poltrona.
Gli prese però la mano e gliela strinse, mentre, guardandolo negli occhi, gli faceva un sorriso a mezza bocca, per incoraggiarlo.

I due riportarono la bambina sul divano e, mentre John la aiutava a mangiare, Sherlock si diresse verso il computer e digitò furiosamente per qualche secondo.

Persino Mycroft si era accorto di quella rinfrescante aria di vittoria che traspariva dal viso del fratello, perchè si riscosse dal suo stato di torpore e si avvicinò al computer.

«Lo hai trovato?»

«No, ma ho un'idea. Guarda la fotografia sul tavolo»

«è uno dei novellini che era con Gregory. Cosa c'entra con tutto questo?»

«Se ho ragione, tutto.»

«Sherlock, ti prego, non ho pazienza per i tuoi giochetti ora»

«Ho appeso questa foto perchè quell'uomo mi sembrava familiare, eppure sono sicuro di non averlo mai incontrato. Credevo non fosse un dettaglio importante, visto che abbiamo interrogato tutti i novellini e tendo a dimenticare il viso della gente che non mi interessa, ma...>>

«Ma cosa, Sherlock?»

«Ma Rosie mi ha appena ricordato che quest'uomo non era tra quelli che abbiamo interrogato. E soprattutto, che io non l'ho mai visto. Devi stare messo peggio di me per non essertene accorto»

John era sicuro che in una situazione normale, Mycroft avrebbe fulminato il fratello con lo sguardo, ma in quel momento era troppa la disperazione nei suoi occhi.

Sherlock cessò di digitare al computer e alzò lo sguardo per incrociare quello di John.

Girò il computer, mostrando il titolo di un articolo di pochi mesi prima:

"Poliziotto morto in una caccia all'uomo" - Greg Lestrade: siamo arrivati troppo tardi.

***
Note dell'Autrice:
nuovo giorno, nuovo capitolo. Questo era, originariamente, uno dei più lunghi, con le sue, circa, 700 parole, ma un'attenta revisione l'ha portato al corposo numero di 1573.
Spero che risulti interessante e che la storia vi stia appassionando.
Al prossimo capitolo!
Lilith

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Capitolo 6
*** VI. ***


Dopo aver indagato un po' e avuto conferma dalla centrale, Sherlock scoprì che l'uomo nella fotografia - Luke Lynch - era il fratello del poliziotto deceduto, Joey Lynch.

Mycroft aveva insistito affinchè Sherlock gli desse il permesso di contattare i suoi dell'MI6, ma il fratello glielo aveva categoricamente proibito. Sherlock aveva capito che suo fratello, in quel momento, non era in grado di prendere le decisioni migliori per la situazione. Sembrava quasi paradossale, ma lo stesso uomo in grado di governare la Gran Bretagna restando nell'ombra e che era cresciuto con l'idea che i sentimenti fossero un pericoloso svantaggio, proprio della parte perdente, non era capace di governare i suoi stessi istinti quando erano persone a lui care a essere in pericolo.
Ovviamente, Sherlock sapeva che, se avesse presentato tutto questo sermone al fratello, lui non l'abrebbe presa bene, perciò si affrettò a trovare una scusa plausibile, che lo convincesse a desistere.

«Credi di essere l'unico a voler catturare questo bastardo? No, fratello caro, c'è la fila. Lascia che ci lavori Scotland Yard»

Mycroft aveva fissato Sherlock negli occhi, lo sguardo indurito da anni e anni in cui aveva cercato di nascondere le sue emozioni da chiunque. Sherlock aveva sostenuto lo sguardo, consapevole di non poter fare altro per aiutare Mycroft.
Dal momento in cui Greg era diventato un pilastro stabile della vita di Mycroft, Sherlock aveva iniziato a notare delle piccole crepe nella facciata gelida del fratello. Pregò silenziosamente che Greg potesse tornare nelle loro vite il prima possibile, sia perchè Sherlock era consapevole che una persona come Lestrade non meritasse nulla di quel che gli stava succedendo, sia perchè era terrorizzato da cosa sarebbe successo al fratello se quest'assenza si fosse prolungata.
Se perdere Eurus aveva trasformato un ragazzino allegro e affettuoso nei confronti dei fratelli in un umo di pietra, di cui aver terrore... Cosa poteva succedere se Mycroft avesse perso anche Gregory?

Nonostante questi pensieri engativi, da quando Sherlock aveva avuto l'intuizione sui fratelli Lynch, la tensione nella stanza era decisamente diminuita.

John e Sherlock avevano ricominciato a giocare insieme con Rosie, che si godeva finalmente le attenzioni di quella che per lei era una vera e propria figura paterna. Mrs. Hudson era salita nell'appartamento a portare il the e aveva trovato Sherlock intento ad abbaiare ordini al telefono, girovagando per l'appartamento con la bambina in braccio, per scusarsi di quei due giorni di assenza e di freddezza. John le aveva spiegato cosa stava succedendo e la padrona di casa si era avviata verso le scale, non prima di aver lanciato un'occhiata al più grande degli Holmes e di aver sorriso dolcemente a John, come a dire "sapevamo che ce l'avrebbe fatta".
John guardò la padrona di casa mentre scendeva per le scale, pensando a quanto quella donna fosse unica e a quanto tutti e tre fossero fortunati ad averla nella propria vita: era una vera e propria figura materna, pronta a correggerli nei loro errori, a sostenerli e consolarli quando le cose andavano male e a spronarli a dare sempre il meglio di sè, ma che mai avrebbe lasciato che nulla la scoraggiasse dall'aver fiducia in loro. John desiderò avere solo la metà della forza che quella piccola donna era in grado di esercitare.

Quando si girò per osservare la situazione che si stava svolgendo in salotto, John si trovò a fissare lo sguardo su Mycroft. L'uomo sembrava aver perso una parte di quel peso che portava sulle spalle, come fosse ringiovanito di vent'anni. Sedeva a schiena dritta, mentre seguiva ogni azione del fratello. Aveva provato a rassettare un po' gli abiti, ma erano ancora pieni di pieghe.
Eppure, il suo portamento ricordava un po' di più quell'uomo così ligio e potente che John aveva conosciuto.

Per una frazione di secondo, John provò un impeto di gelosia nei confronti di Lestrade e Mycroft. Perchè Mycroft aveva ancora la speranza di poter riabbracciare Greg, mentre John doveva vivere con la consapevolezza di non poter più rivedere Mary? Perchè Sherlock si stava impegnando così tanto per suo fratello, quando Mary era morta lo stesso?

Ma fu solo un attimo: guardando il viso di Sherlock, John si ricordò di tutto ciò che il detective aveva fatto per guadagnarsi la sua fiducia, di come avesse rischiato di morire ben più di una volta solo per far sì che il soldato lo perdonasse. E John ricordò com'era Mary, come lo conosceva e come comprendeva il rapporto tra lui e Sherlock. Ogni volta che aveva creduto Sherlock morto, anche lui si era sentito morire. Perdere Mary era stato terribile e ne portava ancora i segni, ma il dolore non era neanche paragonabile all'aver visto Sherlock spegnersi. E Mary lo sapeva, per questo si era lanciata nella linea di fuoco.
Non era una lotta a chi amava di più, a chi avrebbe fatto di più per l'altro, quella che si svolgeva nelle loro vite. Era, piuttosto, una battaglia con il mondo esterno - "noi due contro il resto del mondo" aveva detto Sherlock - che i due avrebbero dovuto essere consapevoli di star combattendo.
Mary non era un danno collaterale dell'eccentricità di Sherlock. Piuttosto era la fine annunciata delle scelte che lei stessa aveva compiuto molto prima di conoscere entrambi.
John non avrebbe mai smesso di colpevolizzarsi, e neanche Sherlock, ma lavorando insieme potevano evitare che ciò accadesse a qualcun'altro che amavano.

John distolse lo sguardo dai due fratelli e guardò fuori dalla finestra, accorgendosi che fuori era ormai buio.  Rosie si era addormentata sul divano e John decise che era giunto il momento di portarla in camera.
Guardò sua figlia, rendendosi conto di quanto fosse cresciuta e di quanto, allo stesso tempo, fosse ancora una bambina. Vivere a stretto contatto con Sherlock portava chiunque a maturare in fretta, e Rosie aveva dimostrato la sua precocità in varie occasioni, ma era ancora piccola abbastanza da voler dormire accoccolata ai suoi genitori, da vedere il violino di Sherlock come un giocattolo e la musica che ne fuoriusciva come una magia. Faceva i capricci come tutti i bambini, ma allo stesso tempo reagiva al mondo che la circondava meglio della maggior parte degli adulti.
Era una bambina perfettamente normale, con una famiglia straordinaria alle spalle. Erano quelli i momenti in cui desiderava vederla crescere, per scoprire quale sarebbe stato il suo futuro.

Prese Rosie in braccio, attentoa non svegliarla, e si avvicinò a Sherlock, con una camminata ondeggiante, per cullarla. Il moro abbracciò entrambi delicatamente, posando un bacio delicato come il battito delle ali di una farfalla sulla fronte della bimba.
Dopo aver goduto di quel momento, Sherlock si rivolse al fratello, ancora seduto sulla poltrona di John, posandogli una mano sulla spalla.

«Dovresti andare a casa. Non avremo aggiornamenti fino a domani mattina...»

«Come posso dormire quando...»

«Mycroft, la mia famiglia merita una notte tranquilla e tu hai seriamente bisogno di una doccia. È il momento che tu vada a casa»

«... molto bene»

«Ti chiamo se ho qualunue tipo di notizia»

«Grazie, Sherlock. E Dr. Watson, grazie anche a te. Perdonatemi l'intrusione»

Jonh non sapeva come rispondere, perciò si limitò a fare un cenno col capo, prima di dirigersi nella cameretta di Rosie. Mycroft capì. Dopo aver recuperato l'ombrello del fratello, Sherlock accompagnò Mycroft al piano di sotto, dove i due parlottarono ancora per pochi minuti. John approfittò per sistemare un po' l'appartamento, togliendo i piatti sporchi lasciati in giro, i fogli pieni di appunti sparpagliati sul pavimento, le foto e gli articoli ammucchiati sulla scrivania.
John aveva iniziato a capire che lo stato dell'appartamento fisico replicava quello del palazzo mentale di Sherlock, perciò, ogni qualvolta si rendeva conto che il detective era sotto forte stress, lui si occupava di rimettere in ordine, silenziosamente.

Mentre rassettava, John si rese conto, per l'ennesima volta che Sherlock non aveva mangiato nè bevuto nulla per ore. Sapeva benissimo che il suo coinquilino si sarebbe rifiutato di ingerire qualsiasi cosa - "la digestione mi rallenta" affermava spesso, ma John era convinto che ci fosse qualcosa di più - ma sapeva anche di non poterlo lasciare a stomaco vuoto, così mise la teiera sul fornello, sperando che il the potesse ridurre gli effetti di un digiuno prolungato e disordinato.

Sherlock tornò nell'appartamento proprio mentre il bollitore dava il segnale che annunciava che il the era pronto.

«Ti ho preparato un the»

«Grazie John, ma non ho sete»

«Per favore?»

Sherlock tirò un sospiro, ma si sedette alla sua poltrona. John tornò in fretta con due tazze e prese posto di fronte a Sherlock.
Il dottore fece passare lunghi minuti di silenzio, prima di prendere la parola, per assicurarsi che il detective avesse il tempo di sciogliere i muscoli della schiena, di rilassare il collo e di buttare giù qualche sorso di the.
Quando parlò, John non era ancora sicuro che Sherlock fosse tranquillo, ma, sin dalla scomparsa di Greg, aveva iniziato a non sopportare troppo silenzio prolungato.

«Come stai?»

«Bene. Perchè non dovrei stare bene?»

In passato, John avrebbe provato a forzare Sherlock a parlare dei suoi sentimenti, ma questa volta era convinto che non sarebbe servito inquisire. Poteva vedere nei suoi occhi azzurri tutte le volte in cui aveva sentito di non aver fatto abbastanza, tutte le volte in cui qulcuno era morto perchè Sherlock aveva ignorato un dettaglio. Inoltre, stava lentamente diventando bravo a prendere coscienza di sè, specie dopo aver compreso che la sua memoria era stata corrotta.

«Avevo un'intuizione, John... Lo avevo capito e l'ho ignorato... Se non lo avessi fatto non avremmo perso tutto questo tempo...»

«Sherlock, hai fatto tutto il possibile. Diamine, hai fatto molto più di quanto chiunque di noi sarebbe riuscito a fare. Se siamo un passo più vicini a salvarlo è grazie a te. Smettila di autoflaggellarti, devi essere lucido per andare avanti, lo sai. Ora sei stanco. Vieni a dormire». John gli si avvicinò e gli tese una mano. Sherlock vi si aggrappò come ad un salvagente.

John condusse Sherlock nella sua camera da letto e chiuse la porta alle sue spalle. Sherlock lo guardò con fare interrogativo, quando gli si stese accanto, ma non protestò. Sapeva che gli incubi non lo avrebbero lasciato riposare, ma avere John accanto lo rilassava un po'.
Era da quando aveva scoperto di Eurus che non riposava bene. Il suo cervello cercava ancora di rigettare i ricordi che piano piano riaffioravano, in un ultimo tentativo di protezione, ma quando una diga del genere si rompe è impossibile ricostruirla. Inoltre, Sherlock era stanco di vivere di informazioni parziali, per cui aspettava il momento in cui avrebbe assimilato i ricordi e sarebbe potuto tornare alla sua vita di prima.
John sapeva dei suoi incubi e aveva capito quali fossero i suoi trigger, perciò gli proibiva di dormire da solo quando era sicuro che si sarebbero ripresentati, stendendoglisi accanto e abbracciandolo delicatamente. Sherlock aveva meno paura di dormire, ora.

I due si addormentarono senza una parola.

Ma la notte, per Sherlock Holmes, non era ancora conclusa.

***
Note dell'Autrice:
Questo è molto un capitolo di passaggio, perciò non credo sia necessario dilungarsi molto con i miei commenti. Lascio a voi tutto lo spazio.
Al prossimo capitolo!
Lilith

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Capitolo 7
*** VII. ***


Sherlock si risvegliò ansimante intorno alle 3 del mattino. Le immagini dell'incubo lo tormentarono ancora per qualche secondo, finchè non si tirò a sedere. Per l'ennesima volta, i suoi sogni erano stati tormentati dai volti di tutti coloro che aveva amato e perso. Victor, Eurus, Mary... Greg.

John, allenato dagli anni nell'esercito, aveva il sonno leggero, perciò si tirò anche lui su a sedere, senza un lamento. Era andato a dormire cosciente che sarebbe stato quel tipo di nottata, perciò non si fece troppi problemi a interrompere il sonno per stare vicino a Sherlock. Nonostante avesse convissuto con gli incubi per un tempo lunghissimo - colpa del suo PTSD - neanche lui era capace di conviverci, perciò sapeva che Sherlock sarebbe stato tormentato nei suoi sogni molto più duramente che nella vita di tutti i giorni.

Sherlock era una una persona particolare, la sua zona di conforto variava incredibilmente da giornata a giornata, perciò John non era sicuro di come consolarlo. Delicatamente, posò una mano sulla schiena nuda di Sherlock e, quando quest'ultimo non diede segni di fastidio, cominciò ad accarezzarlo lentamente. Era così che John riusciva a comunicare i suoi sentimenti a Sherlock. Con l'indecisione e la delicatezza. Nell'ultimo periodo, il detective si dimostrava molto più a suo agio sotto il tocco di John, ma non permetteva a nessun altro - se non a Rosie - di toccarlo.
Con il pollice, John percorse le profonde cicatrici che Sherlock portava sulla schiena sin dai tempi del suo finto suicidio. Non aveva mai voluto raccontargli esattamente come se era procurate. Inizialmente, John credeva fosse per proteggerlo, ma quando lo aveva confrontato a riguardo - ricordandogli, urlando, che lui era stato nell'esercito e di ferite ne aveva viste tante - si era reso conto dal suo sguardo che Sherlock non riusciva, fisicamente, a parlarne. John si sentì estremamente in colpa e cominciò a pensare agli orrori che il suo coinquilino doveva aver assistito per essere in grado di smantellare la rete di Moriarty.
Dopo il litigio, Sherlock non fu subito a suo agio a permettere a John di vedere di nuovo le sue cicatrici, assicurandosi di avere sempre qualcosa indosso, anche quand credeva di essere solo, e John non gli chiese mai di cambiare idea.
Fu una notte, diverse settimane dopo, che Sherlock trovò finalmente il coraggio di mostrarsi.
I due erano nella camera di Sherlock - Rosie dormiva in quella di John, con il baby monitor sempre acceso - e i medico, non riuscendo a trattenersi, aveva iniziato a posare baci gentili sulle labbra del detective, che aveva ricambiato con la foga di un uomo che beve per la prima volta dopo essersi perso nel deserto.
Le mani di John avevano avvolto il viso di Sherlock, per poi scendere lungo il collo e raccire il profilo della schiena. John raggiunse il bordo della canotta che Sherlock indossava per dormire e lo sollevò leggermente, per accarezzare la base della sua schiena, prima che si rendesse conto di ciò che stava succedendo e si fermasse.
Si allontanò un poco, guardando Sherlock negli occhi, ma prima che avesse l'occasione di scusarsi, il detective parlò:
«No. Niente più segreti».
Si sfilò lentamente la canotta, lasciandola cadere sul pavimento, e si girò, lasciando che John avesse libero accesso alla sua schiena.
Il biondo si prese un attimo di esitazione, prima di sfiorare delicatamente, con solo la punta delle dita, le cicartici che segnavano la pelle lattea dell'uomo di fornte a lui. Sherlock rilassò i muscoli al contatto con le dita di John e rilasciò un lungo respiro, che nessuno dei due sapeva stesse trattenendo.
Quando fu sicuro che Sherlock non sarebbe fuggito, John andò oltre, avvicinandosi a lui e posando delicatamente le labbra sulla sua schiena, mentre seguiva il percorso di ogni cicatrice con una scia di lievi baci.
Sherlock pianse, quella notte.

E, in questa notte, Sherlock aveva il viso tra le mani e singhiozzava rumorosamente. John non si capacitava di quanto potesse essere fragile. Lo aveva visto affrontare casi terribili con dei nervi d'acciaio, ma questo lo aveva scosso particolarmente. Non capì cosa c'era di diverso tra questo e tutti gli altri casi che aveva affrontato con il detective, finchè non ricordò Eurus.
Ricordò le notti insonni passate a calmare Rosie, svegliata dalle urla di Sherlock. Ancora non aveva il coraggio di entrare nella stanza a calmarlo, quindi passava la notte sulla poltrona, con Rosie in braccio, fino al sorgere del sole.
Sherlock aveva un enorme attaccamento alla sua famiglia. Era ovvio che volesse bene a suo fratello, l'unica altra persona che, prima di Moriarty, aveva mostrato doni simili a lui. E poteva comprendere perchè si sentisse in colpa nei confronti di quella sorella che aveva abbandonato e dimenticato.

La mia famiglia merita una notte tranquilla.

John ricordò le parole che Sherlock aveva rivolto al fratello. Sherlock non aveva il concetto di famiglia tradizionale. La sua famiglia era come lui: confusa, enorme, mista e, soprattutto, fragile. Composta dalle menti più eclettiche e da quelle più ordinarie. Ed era pronto a scommettere che anche Greg era compreso in quell'idea di famiglia che Sherlock aveva creato per sè stesso.
Una parte di sè che ancora John non riusciva pienamente a comprendere fu inondata di calore all'idea che anche lui potesse far parte di quel piccolo e affiatato gruppo di persone che Sherlock aveva deciso di amare.

Piano piano, il respiro di Sherlock si calmò fino a tornare normale. John rimase al suo fianco, in silenzio, dandogli la possibilità di esprimersi in qualunque modo ritenesse necessario. Mentalmente, però, stava ripassando tutti i nascondigli dell'appartamento, pronto a scattare al bisogno.

«Scusami, John. Ti ho svegliato»

«Ero già sveglio» mentì il biondo. Sherlock non lo contraddisse.

«Mio fratello non ha mai amato nessuno così. Nessuno. Non posso permetterlo che lo perda, John... Devo... fare qualcosa. Se accadesse qualcosa a te e Rosie, io... come posso lasciare che succeda lo stesso anche a lui?»

«Non c'è altro da fare, Sherlock, lo hai detto anche tu, lasciamo che ci pensi Scotland Yard. È tutto ciò che possiamo fare ora»

Sherlock guardò John e gli sorrise stancamente. John non capì se fosse esausto per colpa delle notti insonni, del caso, di Eurus, di qualcosa di più profondo o - e John aveva paura che fosse vero - di tutto insieme.

«No, John, non è tutto ciò che posso fare. Mio fratello ha bisogno di me ora»

«Va bene, fammi solo portare Rosie da Mrs. Hudson...»

«No, John, devo andare da solo. Tu riposati, hai decisamente bisogno di dormire»

«Sherlock...»

«Te lo prometto, John. Non è una notte a rischio. Te lo prometto»

Per la prima volta, Jphn non fu sorpreso dalle doti di osservazione dell'altro. Era convinto di avere la faccia di un uomo colpito dalla peggiore sofferenza, perchè le immagini di ciò che Sherlock avrebbe potuto fare se lasciato solo avevano cminciato a riempirgli la testa. Eppure, la sincerità che vedeva negli occhi di Sherlock era rara, se non unica. John era convinto che se ne sarebbe pentito amaramente, ma per una volta decise di sperare. Di fidarsi di Sherlock. Di lasciarlo andare.

Il soldato non disse nulla. Si avvicinò al detective e gli posò delicatamente le labbra sulla spalla. Nessuno dei due si mosse per diversi minuti, ma Sherlock, nonostante fosse restio a rompere il contatto, sapeva che suo fratello aveva bisogno di lui come mai prima di quel momento.

Si vestì in fretta e lasciò l'appartamento sotto lo sguardo vigile di John, che lo osservava dalla finestra. Non aveva mentito, era davvero convinto di non aver bisogno di utilizzare alcun tipo di sostanza, ma era comunque terrorizzato. Aveva paura di essere troppo debole, troppo vulnerabile. Ma i suoi cari avevano bisogno di lui mai come in quel momento, perciò decise che, se anche non si fosse sentito forte abbastanza, avrebbe finto di esserlo. Per loro.
Nascose la paura in un angolo della sua mente e si avviò dove sapeva di trovare suo fratello.

***
Note dell'Autrice:
Altro piccolo capitolo di passaggio, che introdurrà quello che, per me, è uno dei capitoli più belli della storia. Ma non voglio farvi spoiler, quindi vi lascio con un po' di carineria Johnlock che nella vita non fa mai male.
Al prossimo capitolo!
Lilith

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Capitolo 8
*** VIII. ***


Mycroft Holmes osservava i movimenti all'interno della casa in silenzio. Non che ce ne fossero molti, erano quasi le 4 del mattino, ma non poteva negare di sentirsi attratto da quel luogo, come se fissandolo abbastanza potesse costringerlo a rivelargli i suoi segreti.
Il fatto che Scotland Yard non avesse ritenuto necessario lasciare un piantone fisso a sorvegliare la casa lo disturbava, essendo così diverso dal suo modus operandi, ma aveva dovuto convenire con Sherlock che se il rapitore era riuscito ad eliminare già tutte le sue tracce - secondo lui, Lynch si era travestito da agente per approfittare del libero accesso alla scena del crimine - allora era ben difficile che tornasse sui suoi passi.
Mycroft, però, si sentiva fatalmente attratto da quel luogo, come se, aspettando abbastanza a lungo, avesse avuto la capacità di sussurrargli la soluzione al mistero della scomparsa di Gregory.
Si sentiva in colpa per non essere stato in grado di proteggerlo abbastanza, ma sapeva bene che, se Gregory fosse stato con lui in quel momento, lo avrebbe rimproverato e gli avrebbe ricordato di essere consapevole dei rischi del suo mestiere, di non aver bisogno della sua protezione.
Il coraggio di Gregory era stato uno degli elementi che lo avevano attratto di lui. Il coraggio di non abbassare la testa in sua presenza, di trattarlo come una persona normale, di sorseggiare un the nel suo ufficio, mentre si spaparanzava sulla poltrona, come se fosse totalmente a suo agio.
Il coraggio di baciarlo, di far scivolare le dita sul suo corpo...
Mycroft dovette prendere un profondo respiro.

Aveva seguito il consiglio del fratello, lavandosi e tagliando la barba. Adesso sembrava molto di più il grande Governo Britannico. Era deciso a non permettere a chi gli aveva portato via il suo Gregory di vederlo in altro modo. Aveva deciso che non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederlo in ginocchio, nonostante si sentisse distrutto, ferito mortalmente.
Aveva deciso di lasciare che le lacrime, l'insicurezza, la paura, scivolassero via insieme all'acqua bollente della doccia e al sapone profumato, mentre lavava via tutto ciò che in quel momento non era in grado di sopportare. Ciò che gli ricordava, suo malgrado, di essere un uomo come ttti gli altri.
Non era pronto per gestire quella rivelazione. Non era pronto per nessuna rivelazione, sin dal disastro di Eurus. Non da solo.
Ma l'unico uomo che er riuscito a guardare oltre la sua maschera di ferro era proprio l'uomo che mancava dal suo fianco.

Preso dai pensieri, dai ricordi, dalle mille considerazioni, Mycroft non si accorse della figura che gli si avvicinava. O forse sì, ma non voleva essere distratto da nulla. In ogni caso, sussultò lievemente quando udì la voce di Sherlock.

«Lo sai che non è qui, vero? Hanno setacciato la casa centimetro per centimetro. Ho controllato»

«Eccellente deduzione, Sherlock»

«Eppure sei ancora qui. Viene da chiedersi perchè»

Mycroft sospirò. A dire il vero, neanche lui sapeva dire perchè si trovasse in quel luogo. Sapeva solo che il senso di colpa lo stava logorando. Senso di colpa per non essere riuscito a proteggere Gregory. Senso di colpa per non essere mai riuscito a comunicargli i suoi sentimenti. Era stato vicino a pronunciare quelle due parole così tante volte.
Le mattine in cui apriva gli occhi e il viso di Gregory era accanto al suo.
Mentre si preparva per andare a lavoro, perdendo un istante in più per osservare il corpo nudo di Gregory avvolto nelle lenzuola candide.
Di notte, mentre i loro corpi si univano e la stanza si riempiva dei loro sospiri.
Quando lavorava fino a tardi e Gregory gli si sedeva accanto, accarezzandogli la nuca deicatamente.
Dopo ogni bacio, dopo ogni risata, ogni volta che Gregory gli prendeva le mani tra le sue...
Ma Mycroft era fatto così: nel suo lavoro non c'era spazio per le distrazioni, per le relazioni romantiche, per i sentimenti.

Caring is not an advantage era il suo motto, il suo monito.

Ma Gregory era arrivato lo stesso, con i suoi sorrisi e la sua semplicità. Con quel modo di capirlo senza bisogno di parlare. Con il the e la torta di mele dopo una giornata difficile. Con le mille domande e lo sguardo di ammirazione. Con la sua bellezza. Con tutto ciò che lui era.

E ora, qualcuno glielo aveva portato via.
Fu quello il momento in cui Mycroft sentì il pugno nello stomaco che è la consapevolezza di aver perso qualcosa di importante. Fu quello il momento in cui Mycroft, per la prima di molte volte, si ritrovò a chiedersi cosa sarebbe successo se non l'avessero trovato. Se fossero arrivati troppo tardi. Se non avesse potuto avere la possibilità di baciarlo ancora, di scusarsi con lui.
Di dire quelle due, maledette, parole.

Mycroft non sapeva rispondere alla domanda del fratello, perciò non lo fece. Lasciò che fosse Sherlock a leggergli tutto sul viso.

Il giovane Holmes non disse nulla. Non lo prese in giro, non commentò con sarcasmo, non fece sentire Mycroft inadeguato.
Mycroft ne fu sorpreso, in parte, e, allo stesso tempo, rattristato. Se solo la loro vita fosse stata diversa, forse e solo forse, avrebbero potuto appoggiarsi l'uno all'altro in tutti i momenti di difficoltà e disperazione. Invece, entrambi avevano lavorato attivamente affinchè potessero essere l'uno il nemico dell'altro.
Ma, nonostante tutto, il bambino dai capelli scuri saltava ancora al collo del ragazzino cicciottello, in quell'angolo di memoria che Mycroft aveva sperato di seppellire per sempre.

Senza una parola, Sherlock si limitò a posargli una mano sulla spalla, a guardarlo negli occhi, comunicandogli mille emozioni. Perchè, in fondo, Sherlock lo comprendeva. Capiva cosa si provasse, dopo una vita passata a definirsi una macchina senza sentimenti, ad innamorarsi di una persona perfettamente ordinaria.
Mycroft lesse negli occhi di Sherlock migliaia di parole e una sola certezza: non lo avrebbe abbandonato. Nè ora, nè mai.

Per un attimo, la mente di Mycroft corse ai suoi genitori: non aveva mai capito perchè sua madre, d'intelletto non certo inferiore al suo, avesse scelto un uomo tanto ordinario di cui innamorarsi. Ma lei non aveva scelto, non era così che funzionava. A un certo punto della sua vita si era ritrovata ad innamorarsi di suo marito e aveva deciso di creare una famiglia.
Mama Holmes era il primo e più sincero esempio di amore che Mycroft avesse mai conosciuto.

Mycroft si chiese se Sherlock potesse dedurgli i pensieri sul volto, ma se anche la risposta fosse stata affermativa, il minore non lo fece notare. Attese che fosse Mycroft a parlare di nuovo.

Quando il maggiore provò a comunicare, però, la voce gli morì in gola. Un singhiozzo lasciò le sue labbra e una singola lacrima scese dai suoi occhi. Sherlock capì tutto quello che era stato lasciato non detto. Abbracciò Mycroft, per la prima volta dall'infanzia, e gli sussurrò nell'orecchio:

«Lo troveremo, te lo prometto. Fidati di me»

E Mycroft si fidò.

I due avevano sempre nascosto a tutti il loro vero rapporto, così da proteggersi l'un l'altro, se le cose si fossero messe male, ma avevano portato la maschera per così tanto tempo da esserne convinti loro stessi. Invece, provavano un enorme affetto fraterno l'uno per l'altro, da sempre, ma non avevano idea di come agire a riguardo.
E in quel momento, mentre entiva le braccia forti di suo fratello avvolgerlo e stringerlo forte, Mycroft decise che le cose sarebbero dovute cambiare. Non avrebbe dimenticato il suo passato, ma lo avrebbe usato affinchè non si ripetesse più nel futuro.
Non avrebbe lasciato suo fratello da solo, intervenendo solo quando ormai era tardi, quando ormai era riverso sul pavimento lurido di un covo di drogati.
Non avrebbe lasciato che nulla lo allontanasse dall'affetto che per secoli aveva finto di non desiderare.

Per questo, Mycroft agì nell'unico modo che gli venne in mente: si fidò.

***
Note dell'Autrice:
Finalmente siamo giunti a uno dei miei capitoli preferiti, perchè ci dà la possibilità di capire un po' di quel che passa per la testa di Mycroft.
Sono molto curiosa di sapere quello che ne pensate. Forse è un capitolo un po' corto, ma volevo dare spazio solo a Mycroft, invece di alternare i vari POVs.
Al prossimo capitolo!
Lilith

 

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Capitolo 9
*** IX. ***


L'indomani mattina, Sherlock, Mycroft e John furono convocati in centrale.
Tutti e tre gli uomini indossarono le proprie armature e, con il cuore pesante, si prepararono a combattere. Dopo Eurus e i suoi giochetti malati non erano più disposti a perdere nessuno per colpa delle proprie debolezze.
Soldati oggi.
Soldati sempre.

Non era semplice il compito che li attendeva: Luke Lynch era stato catturato, e ora spettava a loro ottenere le informazioni che cercavano. Tante cose, troppe, potevano andare storte, ma Sherlock voleva, per una volta nella vita, confidare nel futuro. Sperare, solo per questa volta, di non perdere una persona così importante nelle loro vite.

L'uomo era seduto nella stanza degli interrogatori, Sherlock lo poteva vedere attraverso lo specchio. Senza accorgersene, il detective trattenne un respiro, improvvisamente soffocato dall'idea di trovarsi faccia a faccia con l'uomo responsabile del rapimento di Lestrade.
Lanciò una rapida occhiata al fratello e fu la sua voce a riempirgli la testa:
Ricordati che sei un Holmes. Testa alta, mento in su. Non cedere.
E così, Sherlock non cedette, ma riportò lo sguardo sull'uomo oggetto di così tanto interesse.

Era alto, lo si notava anche da seduto. Il corpo era possente, muscoloso. Le spalle larghe erano aperte e dritte, la testa alta in segno di sfida e la postura, nel complesso, particolarmente rigida e impostata.
I capelli biondi tagliati corti incorniciavano un viso squadrato, con gli zigomi affilati e varie cicatrici - particolarmente intorno alle labbra - che lo decoravano.
Forse qualcuno avrebbe potuto trovare quel viso gradevole, ma era il ghigno di un uomo convinto di farla franca a rovinare il tutto.
Sherlock guardò John per un attimo, poi di nuovo Luke. Soldato dedusse.

Ciò che non comprendeva, però, era il livido sull'occhio sinistro dell'uomo. Non era nelle foto scattate il giorno della scomparsa di Lestrade. Era decisamente fresco.
Dentro di sè, Sherlock si appuntò di ringraziare il responsabile di quella tinta di colore per averlo nettamente anticipato.

«Anderson!» chiamò Sherlock incuriosito da quel nuovo indizio. Quello non distolse neanche lo sguardo dai documenti che stava analizzando.
«Donovan» rispose leggendo un'altra riga. Sherlock fischiò in approvazione.

John entrò per primo, quasi ad annunciare gli uomini che erano con lui.
Si sedette di fronte a Lynch, a cavalcioni sulla sedia, e lo fissò negli occhi come solo un soldato temprato da anni di guerre, ferite e morti poteva fare. Uno sguardo capace di tenere testa al Governo Britannico in persona.
Uno sguardo che diceva "Muovi un solo muscolo e ti spezzo tutte le ossa mentre le nomino". Luke si sistemò meglio sulla sedia, ma non emise un suono, ancora convinto di poter dominare la situazione che, di lì a poco, si sarebbe scatenata. Povero sciocco.

Sherlock fu il secondo ad entrare, con il suo passo elegante e i lembi del cappotto ben diritti. Si sedette accanto a John, gli occhi di ghiaccio fissi sul sospettato di fronte a lui, appoggiando tra di loro le punte delle dita.
Lo guardava come se potesse leggergli ogni segreto sull'arco del sopracciglio. Ed era assolutamente ciò che il detective stava facendo. Quando lesse abbastanza per sentirsi soddisfatto, Sherlock si accomodò sulla sedia e sorrise con un angolo della bocca.
Il sorriso che un leone potrebbe fare nel guardare la sua preda privata di ogni via di fuga.
Se mai Sherlock avesse provato paura, in quel momento era stata cancellata, mentre una fredda determinazione lo rendeva duro come l'acciaio.

Luke si mosse a disagio sulla sedia, ma cercò, per quanto possibile, di mantenere un contegno. Iniziò a pensare che, forse, la situazione stava cominciando a sfuggire dal suo controllo.

La porta si aprì per la terza volta e trascorsero alcuni, lunghi secondi prima che qualcuno l'attraversasse di nuovo. Fu come se fosse entrata una bufera di neve, perchè tutti nella stanza iniziarono ad avere fastidiosi brividi lungo la schiena.
L'ultimo ad entrare fu Mycroft Holmes, il Governo Britannico. Se qualcuno lo avesse visto, avrebbe creduto che l'Inghilterra fosse guidata da un Re e non da una Regina.
Il portamento del maggiore degli Holmes non era nulla di meno che regale. La schiena dritta, la testa alta, si muoveva come se fluttuasse, invece di camminare, cadenzando il passo con il ticchettare dell'ombrello sul pavimento.
Il suo sguardo, però, fu quello che fece infrangere la facciata di strafottenza di Lynch. Sembrava un serpente, pronto a strisciare ed insinuarsi negli angoli più remoti della mente del rapitore, con quell'espressione ipnotica e un cipiglio che avrebbe convinto un ateo ad andare in chiesa a confessarsi.
Se esistesse un inferno, Mycroft Holmes siederebbe al trono.
I terrore che attraversò gli occhi di Lynch fu abbastanza per far fiorire un sorriso a mezza bocca sul volto dei tre esaminatori.

«Allora... Luke. Normalmente Userei quante più parole possibili per raccontare la storia della tua vita, mettere a nudo tutti i tuoi peccati ed evidenziare la tua mancanza di intelletto, ma non ho tempo da sprecare con te, quindi perchè non facciamo che tu ci dici dov'è il Detective Ispettore Lestrade? Sii esaustivo e noi faremo in modo che la strada da qui al penitenziario sia la più breve possibile.» Sherlock spezzò il silenzio in maniera diretta, sentendo il peso del tempo curvargli la schiena ogni secondo.

«Chi vi ha detto che l'ho preso io?» il ghigno si ricompose sul viso di Luke.

«Tu hai un fratello, o meglio, avevi un fratello, vero? È morto durante una caccia all'uomo guidata da Lestrade...» Lynch interruppe Sherlock sbuffanod bruscamente.

«Questo è scritto su tutti i giornali. Hanno fatto proprio un bel casino, sa? Tutti a parlarne per settimane. Mi ci hanno dato pure una medaglia. Joey è morto e quello schifoso ci ha preso la fama»

Prima che Mycroft potesse sguainare la spada nascosta nell'ombrello, Sherlock scoppiò a ridere.

«Oh, è vero, tuo fratello è stato acclamato come un eroe. Ma non è tutto, vero? Joey non doveva essere in quel team. Non era altro che un novellino, ma aveva una cotta per il Detective Lestrade, così ha deciso di accodarsi al gruppo incaricato della caccia all'uomo. Lestrade gli aveva consigliato di non prendere parte all'incarico, ma si sa come sono i ragazzini, sempre desiderosi di fare colpo sui propri superiori... o sui propri fratelli maggiori.»

Lynch sospirò.

«Era un ragazzetto strano Joey, anche da piccolo.  Non avrebbe fatto male a nessuno, ma si vestiva strano e andava troppo dietro a quel Lestrade. Era uno di... quelli là, quelli che si fanno inchiappettare, capisce?» i tre uomini dovettero sforzarsi all'unisono di trattenere un ringhio. I due Holmes, temprati da anni e anni di soppressione delle emozioni, furono egregi, ma John si sporse un po' di più sul bordo della sedia, guardando Luke con uno sguardo lievemente più assassino. Sherlock era convinto che se non fosse stato seduto accanto al medico, John sarebbe stato capace di saltare alla gola del soldato e di fargli rimangiare quelle parole a suon di chiaffi. Dovette ammettere a se stesso di non essere sicuro di volerlo fermare, se avesse deciso di non trattenersi.

«Sì, insomma, voleva per forza fare colpo su quello là. Non doveva starci Joey in quel gruppo, io glielo aveva detto, non ci doveva proprio diventare poliziotto, ma lui voleva diventare soldato come me...»

«Cos'è successo quel giorno, Luke?» tagliò corto Sherlock, sempre più irritato da quell'uomo.

«"Sono arrivari in ritardo", questo ci hanno detto! La vita di mio fratello non era abbastanza per arrivare in tempo!»

«No. Non è quello che è successo. Tuo fratello aveva degli ordini precisi da seguire, doveva restare nascosto fino all'arrivo di Lestrade, ma era cresciuto con l'idea che solo le femminucce aspettano, quindi ha deciso di contravvenire all'ordine. Ed è morto»

Lynch era totalmente ammutolito. Sherlock continuò.

«Tuo fratello non è morto per colpa di Lestrade, no. Tuo fratello è morto perchè cercava di renderti fiero. Il piano era stato creato per limitare i danni il più possibile, ma tuo fratello ha deciso di fare l'eroe. Non voleva impressionare Lestrade, o almeno, non del tutto. Voleva che tu non lo considerassi una femminuccia, che tu fossi fiero di lui per un solo, dannato secondo. E invece, è rimasto coinvolto in qualcosa che non lo riguardava. Ed ha perso tutto per un istante di incoscienza.
Così, tu hai deciso che dovevi vendicarti su di lui, senza vedere che il sangue di tuo fratello macchiava le tue mani, non quelle di Lestrade.
Hai rubato i vestiti di tuo fratello, ti sei introdotto nell'appartamento, hai preparato tutto e hai fatto la telefonata, in modo che il gruppo di novellini, più disordinati e imprudenti degli esperti, avrebbe potuto fare abbastanza casino da coprire il rapimento. Astuto, devo dire. Ho qualche curiosità sulla pulizia, ma, andiamo, anche Anderson merita la soddisfazione di spremerti un po'.» alzò il sopracciglio e fece una pausa, a sottolineare che il soldato non l'avrebbe passata liscia.
Dopo poco riprese, di nuovo freddo come il ghiaccio.
«Adesso che abbiamo stabilito le colpe, Luke, ripeto la domanda. Dove. è. Lestrade»

«Dovrete passare sul mio cadavere. Così capirete cosa si prova ad "arrivare in ritardo"»

Sherlock stava per ribattere, quando dei passi alle sue spalle lo bloccarono. Mycroft avanzava verso di loro, con un ritmo lento e cadenzato. Si appoggiò al suo fidato ombrello e fissò Luke negli occhi.
Sherlock lesse le intenzioni del fratello mezzo secondo prima che questo agisse e ripassò mentalmente le condizioni di chiunque avesse scoperto l'identità e le mansioni del Governo Britannico: morti, ergastolani o vincolati da contratti spessi quanto un muro di cemento. Iniziò a pensare a una spiegazione logica da dare ad Anderson.

«Signor Lynch, il mio nome è Mycroft Holmes, ma da oggi lei mi conoscerà come il suo peggior incubo.
Ora, io le pongo davanti un'alternativa: lei può dirci dove si trova il Detective Lestrade, ottenendo una sentenza solo lievemente esagerata per i crimini da lei commessi, oppure i suoi documenti saranno modificati in modo che ogni peccato da lei commesso o anche solo pensato dal giorno in cui è nato siano esposti a chiare lettere.
Questo, ovviamente, la andrebbe a classificare direttamente come Alto Traditore e il suo grado di pericolo sarebbe così alto che l'unico posto in cui potrà essere rinchiuso sarà Sherrinford: una prigione così segreta e ben controllata che James Moriarty in persona ha dovuto chinare la testa per entrarci.
E se esiste un Dio, mio caro signor Lynch, le assicuro che dovrà incontrarlo di persona prima di poter sperare di rivedere la luce del sole. Le posso assicurare che tutto ciò che lei possa aver sentito su Alkatraz, non è altro che il portone di ingresso a Sherrinford.
E le assicuro sul mio onore che lei ha già una cella con il suo nome, pronta ad accoglierla. Ho rinchiuso mia sorella lì dentro, non creda che possa avere alcun tipo di rimorso a rinchiuderci lei. A lei la scelta»

Fu lì che, finalmente, Luke Lynch dimostrò tutto il suo terrore: il respiro accelerato, i battiti aumentati, gli occhi spalancati, la bocca aperta. Deglutì un paio di volte, alternando lo sguardo tra gli uomini che aveva di fronte.

«Voi... Voi siete psicopatici»

«Oh, no, Luke. Mio fratello è l'incarnazione umana del Governo Britannico, io sono un sociopatico che risolve crimini come alternativa alla droga e il mio amico John qui presente è un soldato che non è mai tornato dalla guerra, vedovo di un'assassina. E tutti e tre sappiamo dove vive. Faccia le sue ricerche.» Intervenne di nuovo Sherlock per evitare che Mycroft si facesse sfuggire qualche altro Segreto di Stato.
«L'indirizzo, prego».

Pochi secondi dopo, i due Holmes e il Dr Watson erano fuori dalla porta, con un foglietto in mano recante un indirizzo e un sospettato che si era bagnato i pantaloni e che continuava a blaterare di come i tre fossero "il demonio incarnato". Normalmente, Anderson avrebbe utilizzato questa faccenda come scusa per ridicolizzare Sherlock, ma in quel momento si sentiva molto disponibile a far scorrere alcuni commenti e azioni.
Sherlock si ritrovò a ringraziarlo mentalmente. Curioso come il mondo possa ribaltarsi.

Chiamata una squadra armata, i tre si diressero verso l'indirizzo indicato da Lynch, pronti a salvare Gregory Lestrade.


***
Note dell'Autrice:
Sì, sono viva, richiamate le squadre di ricerca. Purtroppo, come potete immaginare, questo è un periodo complicato per tutti, ma prometto che cercherè di essere di nuovo attiva.
Come ricompensa vi lascio un capitolo bello lungo e ricco di minacce di morte più o meno creative.
Non ditemi che non vi voglio bene.
Due capitoli alla fine!
Lilith

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Capitolo 10
*** X. ***


L'indirizzo che Lynch aveva fornito era quello di una fabbrica abbandonata. John non era troppo sicuro di cosa fosse stato prodotto un tempo lì dentro, ma per una volta non era in vena di trovare dettagli da aggiungere al suo blog.
Anche questa volta, John fu sorpreso di aspettarsi un inesistente silenzio. Invece poteva sentire i passi degli uomini al suo fianco, il gocciolare di alcune tubature, il vento soffiare all'interno di quello spazio vuoto e, in lontananza, il suono di varie automobili. Sembrava che la Vita avesse il potere di infiltrarsi persino nei luoghi abbandonati da tutto e da tutti, che proseguisse incurante di chi potesse finire ferito dal suo scorrere inesorabile.
Come la Vita, John sapeva di non potersi fermare. E così, mano nella mano con Sherlock, alzò la testa e si convinse ad andare avanti.

Lo spazio di fronte a loro era immenso. Si ergeva su almeno tre piani ed era estremamente compartimentalizzato, con decine e decine di porte che si susseguivano una dopo l'altra, celando - si sperava - le condizioni di Greg Lestrade. John considerò la vastità dell'edificio, la distanza da ogni forma di vita e, soprattutto, il tempo trascorso dal rapimento.
Il fiato gli si mozzò nei polmoni quando la consapevolezza del rischio di essere arrivati troppo tardi - soddisfacendo così il desiderio di Lynch - si fece spazio nella sua mente. Guardò Sherlock con il panico negli occhi e vide in lui la stessa consapevolezza.
Avanzarono con il cuore pesante, mentre il respiro pesante e quasi ansimato di Mycroft faceva da colonna sonora.
Prima di varcare la soglia, Mycroft chiese un momento per prendere fiato. Riverso su se stesso, faceva fatica a metabolizzare ciò che stava succedendo, ma non avrebbe permesso alla paura di fermarlo.
Non questa volta.
Mycroft alzò la testa e si convinse ad andare avanti.

Sherlock osservava i dettagli dell'ambiente intorno a sè, ma il panico e l'adrenalina gli offuscavano la mente, travolgendolo con un estremo carico di informazioni. Il suo dono dell'osservazione, normalmente indispensabile in queste occasioni, era annebbiato dalla paura e dai ricordi, come se qualcosa lo avesse rotto o bloccato.
Victor Trevor gli compariva davanti ogni volta che distoglieva lo sguardo, ma questa volta non si sarebbe permesso di mollare. Avrebbe smontato la fabbrica mattone dopo mattone, se questo avesse significato riportare Greg tra le braccia di suo fratello.
Perciò, Sherlock alzò la testa e si convinse ad andare avanti.

Insieme a loro tre, una squadra di agenti in giubbotto antiproiettile era pronta a liberare Greg Lestrade. Era stata la precisa volontà di Donovan, che guidava le operazioni a distanza. Sebbene Sherlock avesse definito Lynch come l'equivalente criminale di un ragazzino di quinta elementare, Sally non voleva sottovalutare il rischio, perciò aveva chiamato i rinforzi. I poliziotti avevano cercato di impedire al trio di entrare, ma se c'era una cosa di cui i fratelli Holmes erano incapaci era accettare un "no" come risposta.

John, Mycroft e Sherlock si erano quindi, seppur riluttanti, divisi all'interno della fabbrica, torce alla mano, alla ricerca di quel pezzo di famiglia che da troppo tempo era scomparso.
L'edificio era troppo articolato affinchè potessero restare in gruppo, ma la lontananza momentanea permetteva loro di accorciare i tempi di ricerca, di non sprecare secondi preziosi.

Aprirono porta dopo porta, ma il posto sembrava essere deserto. Provarono ad urlare il nome di Lestrade, decine e decine di volte, ma non ebbero risposta.
L'assenza di una replica, il vuoto all'interno di ogni stanza, iniziarono a minare la sicurezza degli uomini, che sentirono la speranza sgretolarsi nei loro cuori, come una pietra che si trasforma in un mucchio di sabbia.

Finché...

«SHERLOCK» si sentì John urlare dal piano di sopra.
I due Holmes corsero verso la fonte del suono, ma Sherlock si sforzò al massimo per volare. Conosceva John fin troppo bene, conosceva la sua voce, le sue abitudini e sapeva per certo che John stava assistendo all'irreparabile. Con uno scatt felino, Sherlock arrivò per primo e ciò che vide lo sconvolse. Durante il tempo trascorso dalla notizia della scomparsa di Lestrade, mille scenari gli erano passati per la testa, ma nulla avrebbe potuto impedirgli di sentire il sangue nelle sue vene trasformarsi in vero e proprio ghiaccio, dai bordi taglienti e acuminati, capaci di perforargli ogni organo interno.
Corse di nuovo verso la porta, per impedire al fratello di entrare.

«Sherlock, fammi entrare o giuro su Dio...»
«Mi dispiace Mycroft...»

Mycroft scansò il fratello con una manata ed entrò nella stanza.
Greg era lì, appeso per le braccia al centro della camera, come la carcassa di un maiale in macelleria.
La testa era accasciata sul petto, non c'erano segni che il detective fosse cosciente.
Il viso era tumefatto, un'occhio talmente rigonfio da non permettere di vedere l'orbita. Ciuffi di capelli erano stati strappati con forza, facendo scorrere lunghi rivoli di sangue lungo il cuoio capelluto.
Le labbra erano rigonfie e spaccate in più punti. Sherlock non riuscì a vedere se ci fossero denti mancanti, ma non ne sarebbe stato sorpreso.
Il collo presentava vari segni: dita possenti, bruciature di corda...
Non indossava la maglietta, perciò le sue ferite erano ben evidenti agli occhi di Sherlock e di tutti gli altri.
Il suo corpo era decorato da lividi di varie sfumature, sul petto, sulla schiena... Alcuni concentrati anche sul bordo del pantalone.
Vari tagli erano stati inflitti a quel corpo martoriato, ed il sangue che era sgorgato da essi si era andato a raccogliere sul pavimento in una pozza scura.
Sherlock lanciò un'occhio alla schiena di Greg e la sua mente corse immediatamente alla Serbia.
Non riuscì più a trattenere i conati e vomitò in terra, sentendo il corpo contorcersi dall'orrore, dal dispiacere, dal dolore delle sue stesse ferite. John gli corse incontro e Sherlock registrò in fretta che non vi erano macchie di sangue sui vestiti, nè sulle sue mani: non aveva ritenuto necessario avvicinarsi, oppure voleva che fosse Mycroft il primo a toccare Greg?

 

Mycroft azzardò alcuni passi tremanti, prima di accasciarsi davanti a Greg. Mormorando qualcosa, il più grande degli Holmes afferrò delicatamente il viso del Detective Ispettore, avvicinandoli il proprio.
Inizialmente, nessuno riusciva a capire cosa stesse sussurrando, ma dopo alcuni secondi, Sherlock realizzò che il fratello si stava scusando con il suo amante.
I sussurri durarono poco, però, sostituiti in fretta da un urlo straziante e prolungato. L'urlo di un uomo sottoposto alla peggiore delle torture, l'urlo di una psiche fragile che si infrangeva contro la crudeltà di una Vita a lui rivale.
Mycroft urlò, perchè non poteva fare altro. Urlò perchè sentiva il suo cuore bruciare al centro di una pira. Sentì mani che gli strappavano via la pelle, centimentro per centimetro, pugni colpirgli lo stomaco, acqua riempirgli i polmoni.

Né Sherlock né John avevano idea di come aiutarlo. John aveva già visto morire la donna con cui aveva scelto di passare il resto della sua vita, ma vederlo dall'esterno era straziante. E, forse, per la prima volta, John si rese conto che la sua esperienza non bastava a mettersi a confronto con ciò che stava accadendo. Mycroft gli confermò ciò che in cuor suo già sapeva: aveva accettato la morte di Mary nel momento stesso in cui era venuto a conoscenza del suo passato, perciò non avrebbe mai compreso ciò che il maggiore degli Holmes stava provando.
Vedere quell'uomo, in genere così pieno di risorse, non riuscire ad emettere alcun suono coerente, poterne sentire i singhiozzi, come se gli stessero strappando il cuore via dal petto... John non credeva che avrebbe mai potuto dimenticare la scena. Gli si era impressa a fuoco nella mente e lo avrebbe perseguitato fino alla fine dei suoi giorni.

E Sherlock, oddio, Sherlock... Era come se avesse deciso di rimuoversi dalla situazione, di chiudersi all'interno del suo palazzo mentale, senza più trovare la via di uscita.
Anche il suo corpo era scosso dai singhiozzi, ma al contrario del fratello, lui non emetteva un suono, come per non distrarre dal dolore del maggiore.
Come poteva anche solo provare a descrivere a parole l'aria respirata in quella stanza?

Furono presto raggiunti dagli altri agenti, che non si azzardarono ad entrare nella stanza. Rimasero tutti sull'uscio, con il cappello in mano.
Qualcuno di loro mormorò una preghiera, qualcun'altro vomitò, il resto era incredulo e in silenzio, a capo chino.

Non varcarono la soglia. Rimandarono la necessità di chiamare la centrale. Non si scagliarono contro quel corpo appeso per piangere, urlare, espimere sconforto.
Nessuno distolse l'attenzione dal dolore di Mycroft.
Lestrade era particolarmente amato dalle decine di persone che lavoravano con lui ogni giorno, ma quello era il dolore privato di Mycroft Holmes e, di tacito accordo, così rimase.

John non era sicuro di quanto tempo fosse passato prima che la sua attenzione fosse attirata da un nuovo suono. Un suono che fu capace di fare scattare un'intera stanza piena di uomini. Un suono che riuscì ad infondere speranza a tutti i presenti.

Fu Mycroft a parlare.
«John, aiutami... respira ancora»

***

Note dell'Autrice:
Quanto amate due aggiornamenti di fila? In questo momento molto poco, suppongo. Comprensibile. Per scusarmi della mia assenza vi regalo un aggiornamento anticipato. Sono gentile quanto la Mofftiss, vero?
Inizialmente, la rivelazione della sopravvivenza di Lestrade doveva essere lasciata per il capitolo successivo, ma non ci tengo a morire giovane.
Il prossimo capitolo è l'ultimo, se sopravvivrò all'orda di fan assassine che mi assaliranno dopo questo.
Ci si vede!
Lilith

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Capitolo 11
*** XI. ***


In pochi secondi passarono all'azione. Mentre un gruppo di poliziotti contattava l'ambulanza - già allertata prima del loro arrivo in fabbrica - gli altri seguirono le istruzioni di John, collaborando per tirare giù Lestrade.
Cercarono di essere quanto più delicati possibile, mentre tagliavano la corda che gli sorreggeva le braccia, sostenendole ed abbassandole dolcemente.
Oltre ai comandi impartiti da John, l'intera stanza cercò di mantenere un silenzio quasi religioso, attenti ad ascoltare qualunque suono potesse provenire da Greg.
Lui, però, rimase muto, incosciente. Chissà se si sarebbe mai svegliato.

Sherlock restò accanto al fratello durante tutte le fasi di liberazione di Greg, abbracciandolo e carezzandogli dolcemente la schiena. Era quasi come se volesse usare le proprie braccia per contenere Mycroft, evitare che andasse in frantumi su quel pavimento.
Circondato da suo fratello, Mycroft piangeva in silenzio, non azzardandosi a distogliere lo sguardo dall'uomo che amava, con il corpo scosso da tremiti.
Fu silenziosamente grato di avere Sherlock al suo fianco, non osando immaginare come avrebbe reagito se avesse dovuto affrontare tutto da solo.

Quando Gregory fu finalmente libero ed al sicuro tra le braccia del Dr. Watson, Mycroft si liberò piano dall'abbraccio del fratello, avvicinandosi a quel corpo così martoriato.
John osservò Mycroft per qualche secondo, soppesando un pensiero, per poi prendere una decisione, chiedendogli di aiutarlo ad adagiare Gregory sul pavimento.
Non gli chiese di spostarsi, mentre controllava il respiro e il polso, gli permise di restare lì e carezzargli il viso, con dolcezza, come se ogni segno tracciato dalle sue dita potesse aprire nuove ferite.
Mycroft vide John voltarsi verso Sherlock, chiedere quanto fosse distante l'ambulanza.
Pochi minuti, gli rispose.
«Potrebbe non avere pochi minuti»
Mycroft cercò di chiudere tutti al di fuori di sè, di non ascoltare, di creare una bolla attorno a sè e a Gregory.
Sherlock osservò il fratello e si soffermò sulla dolcezza dello sguardo che dedicava a Greg, la leggerezza delle dita sul volto, il modo in cui gli stava accanto e, per un attimo, gli venne in mente una statua che aveva visto con John. Una statua di marmo bianco, in cui una ragazza sorreggeva il corpo di un uomo e lo guardava con l'espressione di una donna che porta in sè un amore più grande della morte, o della vita stessa.
Sherlock non ricordava il nome dell'opera, nè dell'artista, e si sorprese addirittura di aver conservato quell'immagine, ma non poteva negare di vedere la somiglianza di quelle due figure.
Guardando il volto di Mycroft, Sherlock si ritrovò, per l'ennesima volta durande quel caso, a pregare il vuoto, chiedendo una Grazia per Greg e una per suo fratello.

______________________

Mycroft sedeva nella vasca da bagno a osservare il nulla, mentre le immagini di quella lunga giornata continuavano a susseguirsi nella sua mente.
L'ambulanza arrivò in tempo record e, a sirene spiegate, volò per le strade di Londra, per giungere in ospedale, dove un equipe di medici - già allertati dalle autorità - li attendeva all'ingresso.
Gregory fu collocato su una barella, mentre i medici si urlavano a vicenda parole confuse. Mycroft credeva di essere in un sogno, dato che camminava senza rendersene conto. Fu solo quando sentì le mani di Sherlock placcarlo fisicamente per impedirgli di seguire Gregory in sala operatoria che Mycroft finalmente comprese appieno ciò che stava succedendo.
Sentì le gambe cedergli, ma, fortunatamente, Sherlock e John lo afferrarono prima che si accasciasse.
I fratelli Holmes quasi arrivarono alle mani quando Sherlock ordinò al fratello di tornare a casa a darsi una rinfrescata. Mycroft sarebbe rimasto in ospedale fin quando Gregory non fosse stato dichiarato fuori pericolo.
«Non essere idiota, Mycroft! Ci vorranno ore prima che possiamo avere qualunque tipo di notizia. Inoltre tu sembri appena uscito da un macello, non credo tu voglia farti vedere da lui in queste condizioni, quando si sveglierà» disse Sherlock afferrando il polso del fratello e premendo il pollice nell'interno, con fermezza.
Quando, aveva detto. Non se. Quando.

Mycroft si limitò a raddrizzare la schiena, prima di congedarsi in silenzio. 

Ora, mentre guardava il sangue rimastogli addosso - il sangue di Gregory, ricordò - colorare di rosso l'acqua nella vasca, Mycroft richiamò alla mente altre occasioni in cui aveva guardato quel liquido cristallino tingersi di cremisi. Momenti in cui era convinto di essere condannato alla solitudine. Eppure, ogni singola volta, qualcuno lo aveva trovato, lo aveva salvato.
Questa volta, il sentimento era diverso. La paura restava, ma in cuor suo sentiva una forza che lo spingeva a non mollare, a resistere. A vivere. 

Le sue elucubrazioni silenziose furono, finalmente, interrotte dallo squillo del telefono.

Fuori pericolo

-SH

______________________

Sherlock aveva appena finito di leggere il libro che aveva portato da casa, quando la porta della stanza si aprì.
Il detective aveva già calcolato il tempo che suo fratello avrebbe impiegato per tornare in ospedale, perciò non fun troppo sorpreso della sua puntualità.
Mycroft Holmes, fresco di doccia, fece la sua entrata a passo cadenzato.
Sherlock non abbandonò il suo posto sulla poltrona.
Il maggiore degli Holmes indossava uno dei suoi completi migliori, con la cravatta sapientemente annodata. Anche Sherlock sembrava essersi cambiato, probabilmente dopo essersi dato il cambio con John per la notte (Mycroft si era a malapena reso conto del fatto che il sole fosse tramontato e sorto. Non comprendeva più lo scorrere del tempo).

«È ancora stabile, non ha ricevuto lesioni agli organi interni. I medici non sono sicuri che possa riprendere l'utilizzo dell'occhio, ma sono fiduciosi. Non si è ancora svegliato, ma non è sedato, quindi potrà succedere a momenti. In poche parole, fratello caro, non ti sei perso nulla»

«Sherlock, io... Volevo ringraziarti. Per tutto. Non ce l'avremmo fatta senza di te. Non ce l'avrebbe fatta senza di te.»

Sherlock si alzò e raggiunse il fratello. Gli posò una mano sulla spalla e lo costrinse a guardarlo negli occhi. Raramente i due Holmes erano stati così sinceri l'uno con l'altro, ma erano giunti alla conclusione che l'auto-isolamento era utile solo ad aumentare le proprie sofferenze individuali.
Sebbene fossero da sempre convinti che la solitudine era tutto ciò che avevano, che li proteggesse, entrambi erano finalmente giunti alla realizzazione di quanto tutto ciò fosse falso: erano più forti insieme.

«Greg fa parte della mia famiglia. Ho promesso che avrei fatto di tutto per salvarlo. Se vuoi ringraziarmi, per favore, smettila di fare cazzate e confessagli come ti senti»

«Ma...»

«No, niente fottuti ma. Tu sei stato fortunato, lo sai? Parla con John, chiedigli cosa si prova a vedere una persona che ami morirti davanti agli occhi. Chiedigli cosa significa dover guardare tua figlia negli occhi, sapendo di doverle spiegare dov'è sua madre, perché non l'ha potuta crescere.
Chiedigli cosa significa rifarsi una vita, pur sapendo che, nonostante i tuoi sforzi, non la rivedrai mai più.
Ci sei andato vicino, Mycroft, hai rischiato di perderlo. Eppure è qui, è vivo e a breve si sveglierà.
Ne vale davvero la pena, tutto questo silenzio? Non lo stai certo proteggendo: guardalo, è sopravvissuto a malapena e tu eri forse la persona che c'entrava meno in tutto questo disastro.»

Sherlock diede un secondo al fratello, affinché potesse rispondere. Lui non lo fece, perciò riprese.

«La vita è già breve di suo, la nostra, fratello caro, rischia di essere più breve della media. E allora perché privarci di tutto questo?
Parlagli, Mycroft.»

Mycroft si rese conto che sua madre aveva ragione: era davvero Sherlock quello maturo dei due.

«Io ora uscirò a prendere un caffè, dato che ho fatto il turno di notte e me lo merito, e sarò accidentalmente contattato da Anderson con un caso, il che significa che non ci sarà nessuno a controllare Gavin per tutta la serata. Ora, dato che tu hai un buco nell'agenda...»

Senza altre parole, Sherlock indossò il suo cappotto, tirò su il bavero, e si avviò verso la porta, ma, prima di uscire, fu fermato da Mycroft.

«Sherlock...»
«Sì?»
«Il suo nome è Gregory»
«Geralt, e io che ho detto? Ciao, fratello»

______________________
Mycroft non si aspettava di restare solo con Gregory così presto.
Non aveva idea di cosa dirgli, di come dirglielo.
Diavolo, non aveva neanche idea di cosa provasse per quell'uomo.

D'improvviso, si sentì come attirato dal letto di Greg. Si sedette accanto a lui, attento a non disturbarlo, e, delicatamente, cominciò a carezzargli la fronte.
Aspettò le parole giuste, l'ispirazione che gli avrebbe permesso, finalmente, di essere totalmente sincero, per la prima volta, con quell'uomo così meraviglioso.
Eppure, esse non arrivarono. Il tempo continuava a scorrere, inesorabile, come aveva fatto durante tutto quel caso, ma nessuna illuminazione colpì Mycroft che, per la prima volta, realizzò che i sentimenti non sono un qualcosa che ti domina, che prende il controllo di te perchè tu sei troppo debole per contrastarlo.
I sentimenti sono una motivazione, un microfono che amplifica le tue azioni, che dà uno scopo alle tue scelte. I sentimenti sono ciò che ti guida, ma non ti impongono la strada, devi essere tu a seguire, consapevolmente, il sentiero.
Non provare sentimenti non lo rendeva più forte, lo privava solo di una delle capacità più umane.
E, soprattutto, lo privava di quell'energia, quella spinta alla vita, che Gregory gli aveva donato.

Il sole era tramontato da un po', quando, finalmente Mycroft trovò la forza di parlare. Le parole gli sfuggirono dalle labbra prima ancora che lui fosse consapevole della verità di ciò che stava dicendo.

«Gregory... Ti prego... Resta con me. Sono un imbecille, perdonami. Prometto che ti proteggerò sempre, se me lo permetterai... Io non sono bravo con i sentimenti... Ma tu sei importante per me. Non posso perderti»

Afferrò la mano di Gregory e, lentamente, la portò al suo viso, baciandone delicatamente le dita. Sfiorò con le dita il viso dell'uomo addormentato, soffermandosi per alcuni secondi sulle labbra martoriate.
Ora che le aveva dette, quelle parole non erano più così spaventose.
Sebbene Gregory non avesse potuto sentirle, Mycroft si sentiva molto più leggero.
Se non che...

«Io te l'ho sempre detto che sei un imbecille, Mycroft» disse Greg con la bocca impastata dal sonno e dalla morfina, aprendo lentamente l'occhio buono e biascicando le parole in un modo che Mycroft, non fosse stato dominato dalla preoccupazione e dallo sgomento, avrebbe trovato adorabile.
Mycroft perse del tutto l'uso della parola. Lacrime calde iniziarono a scendergli dagli occhi, mentre guardava basito l'uomo che amava mentre, lentamente, riprendeva finalmente conoscenza.
Nonostante tutto, Gregory non ebbe bisogno di promesse, assicurazioni o giuramenti. Sebbene ancora annebbiato dallo shock e dall'anestesia, Lestrade si dimostrò persino più intelligente di Mycroft stesso, leggendogli sul volto ciò che, ancora, non era riuscito a dirgli.

«Ti amo anche io, Mycroft»

***

Note dell'Autrice:

Siamo finalmente giunti alla fine di questa avventura. Fun Fact, il capitolo originale contava circa 370 parole. Non l'ho editato, l'ho praticamente riscritto.
Spero che questa storia vi abbia appassionato e che l'abbiate amata tanto quanto me.
Non è un addio, ci vediamo alla prossima storia!
Lilith

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