Un colpo di testa

di Ksyl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***
Capitolo 6: *** Sei ***
Capitolo 7: *** Sette ***
Capitolo 8: *** Otto ***
Capitolo 9: *** Nove ***



Capitolo 1
*** Uno ***


1

Prologo:
B: Look... I know that I'm not the easiest person to get to know, and I don't always let on what's on my mind. But this past year, working with you, I've had a really good time.
C: Yeah. Me, too.
B: So, I'm- I'm just gonna say this and...

"Se l'invito è ancora valido...", concluse Beckett con un po' di esitazione.
"L'invito?", la interruppe Castle, senza capire.
Kate inspirò profondamente, cercando di raccogliere tutto il coraggio che non aveva certo in grande misura, mentre stringeva tra le mani la bottiglia di birra, come se la sua vita dipendesse da quello.
"Il weekend negli Hamptons", lasciò uscire in un soffio, il cuore che batteva all'impazzata.
"Tu... vuoi venire negli Hamptons ? Con me?"
Castle aveva l'esatta espressione di qualcuno che si era improvvisamente trovato davanti un fantasma travestito da lupo mannaro.

Kate rimase in attesa, incerta. Non sapeva come comportarsi. Si sentì vulnerabile. E idiota, molto idiota. Forse Castle l'aveva detto scherzando. Forse era così che si comportava di solito, lanciava proposte di nessuna importanza con la solita gioiosa leggerezza, senza aspettarsi che nessuno – lei, soprattutto – le raccogliesse. In che pasticcio si era ficcata? Si era resa ridicola davanti a Richard Castle. L'ultima cosa che si potesse permettere.

Visto che il suo interlocutore insisteva nel non dare segni di vita che potessero testimoniare una qualche forma di intelligenza reattiva, fu costretta a dar seguito alla peggior uscita di sempre. Nessuno era mai morto per una cosa del genere, giusto? Sperò in una morte dignitosa e, soprattutto, solitaria.
"Se non...", fece un profondo respiro. Temeva che le sarebbe mancata la voce, aggiungendo ulteriore imbarazzo a una situazione già drammatica. "Se non hai altri programmi".

"No", la interruppe lui ansioso. "No, no, certo, l'invito è ancora valido. Molto più che valido. Non ho nessun altro programma. Mai avuti, anzi. Partiamo subito. Adesso".
Rimase a fissarla imbambolato, in aperta contrapposizione con le parole appena pronunciate. Le venne da ridere. Castle avrebbe dovuto esercitarsi un po' di più se non avesse voluto che lei lo leggesse con tanta facilità. Ma era lusingata dalla sua reazione e dal miscuglio di entusiasmo e incredulità che non si curava di nasconderle.
A sua volta si sentiva impaurita ed eccitata, come la prima volta in cui era salita sulle montagne russe, da ragazzina. Al contrario di lui, però, cercò di mantenere un contegno distaccato, evitando di lasciar trapelare le sue emozioni.

"Prima devo tornare a casa a preparare qualcosa da mettere in borsa. Non posso partire così", gli ricordò, pratica.
"Certo che puoi. Alla villa ho tutto l'occorrente per gli ospiti".
"Mi serviranno dei vestiti di ricambio, dubito che tu abbia anche quelli. E nel caso invece li avessi, preferisco non saperne niente".
Era sicura che sarebbe stata una buona idea? No, naturalmente. Ma ormai non poteva tirarsi indietro.
"Dei vestiti possiamo farne a meno".
Un colpo di rivoltella in fronte e l'avrebbe tacitato per sempre.
"Castle", lo ammonì con la necessaria severità. Bisognava imporre dei limiti o la sua straripante euforia si sarebbe trasformata in qualcosa di impossibile da arginare. "Se sono queste le tue intenzioni, io me ne sto a casa".
E forse sarebbe stato invero saggio farlo.

"Le mie intenzioni sono onorevolissime, ma visto che staremo in spiaggia o in piscina, non ti serve chissà quanta roba", finse di offendersi. "I termini non sono cambiati. Sarà un fine settimana amichevole, il tuo fidanzato può stare tranquillo".
Le lanciò un'occhiata penetrante, come se si fosse appena ricordato di un dettaglio importante. "A proposito di fidanzato. Che fine ha fatto Demming? Non dovevi trascorrere il fine settimana con lui? Immagino sia saltato fuori qualche contrattempo. Non che siano affari miei, naturalmente", aggiunse, dimostrando chiaramente che non pensava che non si trattasse di fatti suoi.

Kate abbassò lo sguardo a terra. Non moriva dalla voglia di raccontare a Castle come erano andate le cose, ma sapeva di dovergli una spiegazione. Si mordicchiò un labbro, ricordando il povero Tom che si era congedato con aria mesta solo qualche ora prima. Le piaceva, davvero. Come ti piace un vecchio, affidabile, cane da guardia. Non abbastanza, quindi. Non come... meglio non concludere la frase. Se avesse tenuto la verità nascosta anche a se stessa, forse ce l'avrebbe fatta a superare indenne il prossimo futuro.
"Noi... abbiamo pensato che fosse meglio prendere strade diverse". Abbastanza attinente al vero senza dover dare troppi particolari.
Castle inarcò un sopracciglio. "Noi? Anche lui ha convenuto che fosse meglio smettere di vedervi? Mi sembra difficile da credere. Voglio dire... tu sei..."

Sarebbe stata curiosa di sapere come si sarebbe tirato fuori da quella situazione, ma preferì dare importanza ad altro. Per esempio, il fatto che stessero perdendo tempo prezioso.
"Non che la cosa ti riguardi, Castle, ma sono stata io a deciderlo. Contento?", ammise suo malgrado. Non era difficile capire dove volesse andare a parare e non aveva intenzione di prendere quella strada. Mai. Per niente al mondo.
"Dì la verità, l'hai lasciato perché sapevi che il week end con me sarebbe stato molto più divertente. In generale, io sono più divertente, ammettilo".
Kate si lasciò sfuggire un sospiro di pura esasperazione. Ecco il Grande Ego in azione. Perché se ne stupiva? "No, non l'ho lasciato per questo". Ovviamente. Giusto? "Io... " non trovava le parole giuste. Perché poi avrebbe dovuto trovarle? Potevano chiudere la questione?
"Vuoi che andiamo o pensi di rimanere qui al distretto a farmi il terzo grado? Preferisci chiudermi nella stanza degli interrogatori finché non confesserò?". Se non puoi convincerli, confondili. Avrebbe agito secondo quell'ottimo consiglio, che non ricordava chi le avesse dato.

Lui alzò le mani in segno di resa. "D'accordo. Andiamo, certo. Ma non pensare che non ci sarà occasione in questi giorni per continuare a parlare di..."
"È questo il modo in cui pensi di trascorrere i prossimi giorni? Discorrendo degli uomini con cui esco? Sarebbe questo il fascino di cui ti vanti tanto?", ribatté caustica, dirigendosi verso la sua scrivania, per recuperare la borsa e abbandonare finalmente il distretto.
"Non credevo che il nostro weekend amichevole necessitasse del mio fascino", rispose a bassa voce.
Si sentì trafiggere dal suo sguardo. Per fortuna era girata di schiena, così non si sarebbe accorto che era arrossita.
"Ovvio, Castle, la mia era solo una battuta".
"O forse sei tu ad avere intenzioni meno che onorevoli. E io che pensavo avessi accettato perché volevi un po' di relax all'aria aperta, fare il primo bagno della stagione, leggerti un paio di libri in tutta tranquillità. Katherine Beckett, non mi sarei mai aspettato..."
Gli lanciò un'occhiata di puro odio, che svanì quando si rese conto che si stava prendendo gioco di lei. Maledetto.
"È proprio quello che ho intenzione di fare. Starmene al sole, nuotare e leggere tutti i numerosi libri che mi porterò, se smetterai di parlare abbastanza a lungo da permettermi di tornare a casa a fare i bagagli", rispose ostentando indifferenza.
"Non vedo l'ora di vedere quali saranno le tue scelte letterarie. Magari possiamo scambiarci qualche titolo e chiacchierare di letteratura contemporanea. Non ti piace il programma?"
Non gli rispose. Lo piantò semplicemente in asso.

...

Kate era davanti al suo armadio, colmo fino a esplodere, paralizzata dall'indecisione. Si stava sforzando da almeno dieci minuti di compilare una lista di cose da portare, ma gli impulsi che riceveva dal suo cervello ampiamente su di giri non deponevano a favore di un compito tanto semplice.

Calmati, si disse. Non hai quindici anni. E non è niente di che. Solo un weekend con Castle. No, non doveva indulgere in pensieri del genere. Il suo cuore aveva fatto una capriola alla sola prospettiva. Che problemi aveva? Era così che si comportavano gli adulti? Era così che si comportava lei?
Non riusciva a smettere di sorridere. Non riusciva a smettere di sorridere e rimproverarsi. Per come si stava riducendo. Per aver perso il suo solito contegno.

Doveva fare in fretta, perché di lì a poco Castle sarebbe passato a prenderla ed era sicura che, anzi, fosse già di sotto ad aspettarla. Si erano accordati per vedersi un'ora dopo, un tempo più che ragionevole, si era detta a quel punto. L'aveva raggiunta all'ascensore ed erano scesi insieme. Di tutte le volte in cui avevano condiviso quello spazio ristretto, quella non era decisamente stata la più calma. O la più rilassante. Si era imposta di rimanere immobile e zitta, ma era sicura che lui le avesse letto nella mente. Era quello che faceva di solito.

"Sessanta minuti, non uno di più, sincronizziamo gli orologi", l'aveva avvertita, prima di scappare via di corsa, travolgendo le persone che si erano trovate sulla sua traiettoria. Il solito Castle. E per una volta non se l'era detto scuotendo la testa, irritata. Che cosa le stava succedendo? Era forse così che si palesava lo squilibrio mentale? Doveva preoccuparsi?

Cercò di concentrarsi su cose pratiche, per non pensare all'enormità delle conseguenze che la sua scelta forse avventata – senza forse – avrebbe prodotto. Ma era stanca. Stanca di dirsi di no, stanca di non concedersi nessun divertimento. Per una volta aveva voglia di smettere di portarsi addosso il peso del mondo. Voleva sentirsi viva.

...

Un minuto prima che terminassero l'ora precisa che Castle le aveva concesso – era stato inflessibile a riguardo-, Beckett raccolse la borsa da terra, la chiuse con un gesto deciso e uscì di casa senza guardarsi indietro. Se lo avesse fatto, non era certa che avrebbe avuto l'ardire di uscire.
Castle la stava aspettando parcheggiato in doppia fila. Le fece segno di sbrigarsi, indicandole l'orologio. Nascose un sorriso.

Rubò qualche istante per osservarlo meglio. Occhiali da sole, un'ombra di barba, jeans e maglietta verde militare, un braccio appoggiato al volante, un'espressione di completo relax in volto.
Si sentì tremare le gambe, per quel salto verso l'ignoto che stava per compiere e per quell'attrazione che era solita celare dentro di sé e che era ora uscita allo scoperto. Sarebbe stato tutto diverso. Lo era già. Fuori dal distretto, senza nessun altro intorno, in un territorio a lei sconosciuto. Ingoiò l'aria. L'adrenalina rimbalzava impazzita nel suo corpo.

Recuperò una parvenza di compostezza e salì in auto. Si sedette accanto a lui, inizialmente un po' rigida, facendo attenzione che i loro corpi non si sfiorassero. Temette per lunghi minuti che non sarebbero riusciti a ricreare quel loro solito cameratismo. Erano impacciati. Lei, soprattutto, anche se Castle stava cercando in tutti i modi di metterla a suo agio.

Pian piano la situazione migliorò. Le raccontò aneddoti divertenti delle estati trascorse negli Hamptons facendola ridere forte. Lei condivise a sua volta qualche esperienza vacanziera della sua infanzia, trascorsa nello chalet di famiglia. Lui era più aperto, la faceva entrare nella sua vita con la solita generosità. Lei, al contrario, era più riservata, ma lui non parve darvi troppo peso. Si voltava spesso nella sua direzione per farla partecipe, infervorato dal discorso, gli occhi scintillanti. Lei si limitava a sorridergli. Si rilassò contro il sedile assaporando il momento. Il tramonto, la quasi totale assenza di traffico, la morbidezza della pelle, la voce ipnotica di Castle in sottofondo.

Tre giorni. Tre giorni e basta. Poi sarebbe tornato tutto come era prima, tentò di convincersi. Non sarebbe successo niente, in fondo erano davvero solo due amici che avrebbero trascorso del tempo insieme. Non doveva per forza succedere qualcosa. Sapendo in fondo al cuore di mentire a se stessa.

Questa è la prima fanfiction che io abbia mai scritto, cinque anni fa. In generale, è stata la prima volta in cui ho scritto qualcosa. È breve, acerba, molto semplice, ma ha in sé un grande entusiasmo, che ho avvertito tutto rileggendola. Avrei potuto arricchirla, riscriverla da capo per come lo farei adesso, approfondirla. E mi sarebbe piaciuto moltissimo farlo. Ho preferito lasciarla intatta. Penso meriti di essere letta così. Silvia

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Capitolo 2
*** Due ***


2

Arrivarono a destinazione che era quasi l'imbrunire.
Kate era sorpresa di come fosse stato facile, chiusi in una bolla che sembrava sospesa nel tempo e nello spazio, lasciarsi andare e chiacchierare. Il viaggio era volato, si era goduta ogni minuto.

Quando l'auto rallentò per immettersi nel vialetto della villa, si scoprì a chiedersi che cosa sarebbe successo di lì in avanti. Sarebbero riusciti a mantenere lo stesso grado di rilassata sintonia, in cui erano sembrati più vicini di quanto non fossero mai stati?
Un conto era accettare una proposta ai limiti dei buonsenso in preda all'entusiasmo, un altro era passare la notte sotto lo stesso tetto. Senza pistola.

Riflessioni e interrogativi passarono momentaneamente in secondo piano quando si trovò davanti a quella che lui aveva sempre chiamato "La casa negli Hamptons", senza darvi troppo peso, quasi si fosse trattato di un appartamento di poche pretese. Sgranò gli occhi.
Naturalmente era a conoscenza del fatto che fosse ricco, ma non si era mai posta il problema di quantificarlo. Non le era mai importato.
La villa era enorme, aveva una vista mozzafiato, esattamente per come le aveva mostrato quel mattino, quando il mondo girava ancora sui soliti binari. Non era direttamente sul mare e se ne chiese il motivo. Era stata convinta che Castle avrebbe scelto una casa a due passi dall'oceano. O su una scogliera a picco sul mare infestata da fantasmi e storie di pirati cannibali alla ricerca di un forziere di monete d'oro.
Castle sapeva godersi la vita. Non era certo una novità.

Scivolò fuori dall'auto non appena Castle spense il motore.
"Potevi almeno aspettare che ti aprissi lo sportello", si lamentò, raggiungendola.
"Nemmeno io te lo apro di solito, non badiamo a questo genere di formalità tra noi", lo prese in giro.
"Ti sarebbe possibile concedermi di essere galante, qualche volta?"
"Ti ho appena permesso di guidare. Non ti basta?", rispose, sviando il discorso.
"Così hai potuto renderti conto che sono un ottimo autista".
Lo soppesò con lo sguardo.
"È vero, ammetto che non sei stato male. Pensavo peggio".
"Quindi potrò rifarlo con la macchina della polizia, la sirena e tutto il resto?"
"Puoi scordartelo", lo sferzò tradendo una risata.

Era un terreno conosciuto, familiare. Si muoveva a suo agio tra le loro solite schermaglie, che le servivano per nascondere il fatto di essere leggermente intimidita dalla casa e dall'intera situazione. Aveva bisogno di riprendere il controllo.
Le venne il sospetto che lui la stesse assecondando perché era capace di leggerle dentro ed era bravo a intuire quello che stava provando.
Non doveva essergli sfuggito che, per quanto avesse accettato d'istinto il suo invito senza successivamente tirarsi indietro – che era forse la cosa più improbabile tra tutte-, non le era comunque facile destreggiarsi in una situazione che sfidava il suo naturale istinto di autoprotezione, un po' più marcato del normale. Le stava dando tempo di familiarizzare con la novità, senza fare pressioni. Gli inviò un silenzioso ringraziamento.

"Bene, sei pronta per il tour della dimora?", le domandò prendendo le loro borse dal bagagliaio e invitandola a seguirlo all'interno.
Dentro la casa era altrettanto lussuosa, ma lei smise di stupirsene. Era arredata secondo lo stile degli Hamptons, molto fresco e vacanziero, ma con un tocco personale che avrebbe riconosciuto ovunque. Dimostrava buon gusto, con l'aggiunta di qualche dettaglio eccentrico che riusciva ad armonizzarsi al contesto.

Per qualche minuto si perse nella contemplazione dei mobili, ma quando lui la invitò a proseguire la visita al piano superiore, si fermò, esitante. Castle continuò a salire le scale, raccontandole, come un perfetto ospite, la storia della casa. Si fermò solo una volta arrivato in cima, rendendosi conto di essere rimasto da solo. Si voltò a guardarla.
"Va tutto bene?", si informò gentilmente, distraendola dai suoi pensieri.
"Sì, certo, stavo... ammirando la vista dall'alto. Hai dei bellissimi pezzi di arredamento", farfugliò arrossendo. Da quando era esperta di arredamento? Lui rimase a fissarla per un istante, e poi, senza una parola, aspettò che lo raggiungesse.

Si infilarono in un lungo corridoio, e infine, Castle si fermò davanti a una porta.
"E questa è la tua stanza", esclamò senza tradire nessuna emozione, abbassando la maniglia.
"La mia stanza?" chiese dopo qualche istante di silenzio. Si rimproverò per essersene uscita con un'affermazione tanto stupida.
"Sì, la mia è di fronte", rispose asciutto, senza all'apparenza notare nessuna stranezza. "Se non ti piace c'è quella di Alexis. O di mia madre. Ma questa ha la vista migliore e non è piena di cianfrusaglie. Ci conosci. 'Meno è meglio' non è certo il motto della nostra famiglia", aggiunse rapidamente, per coprire un silenzio che stava diventando pesante.
"Se può interessarti, però, la vasca con idromassaggio è presente solo nel mio bagno. Parlo di quella interna. Quindi se hai voglia di rilassarti, approfittane pure. Ti ho detto che dopo i campi da tennis c'è una piscina riscaldata? Possiamo usarla quando vogliamo, anche adesso".

Rimase impalata sulla soglia mentre lui entrava nella camera, posava la borsa sulla poltrona al lato del letto, tirava le tende e faceva entrare la luce del tramonto. Lasciò andare il fiato che aveva trattenuto. Di che cosa aveva avuto paura? Che avrebbe dato per scontato che avrebbero diviso la stessa stanza, solo perché aveva accettato il suo invito? Era stata ingiusta. Castle non era così, non era quel tipo di persona. Era lei a essere paranoica.
Anche se entrambi sapevano che l'invito non era così platonico o amichevole per come avevano finto che fosse, le avrebbe comunque lasciato spazio, senza aspettarsi niente. Lo conosceva. E lei aveva accettato proprio per quel motivo. Si calmò, dandosi della sciocca. L'entusiasmo che aveva perso per futili motivi tornò farsi vivo. Si sentì leggera e piena di euforia.

"La stanza va benissimo". Gli sorrise.
"Che ne dici di sistemarti – fai pure con comodo – e poi di raggiungermi di sotto? Ti preparo un bicchiere di vino".
"Perfetto. Grazie".
Gli si avvicinò, mettendogli istintivamente una mano sul braccio. L'aveva già fatto altre volte, in fondo se ne stavano sempre vicini quando erano seduti alla scrivania o per strada parlando dei casi- più vicini, spesso, di quanto non richiedesse la situazione, come se convergessero istintivamente l'uno verso l'altra.
Eppure successe qualcosa di diverso. L'atmosfera cambiò di colpo, impercettibilmente. Avvertì un brivido e un calore improvvisi sprigionarsi da un gesto semplice, fatto senza pensarci. Alzò gli occhi, rimanendo imprigionata nel suo sguardo.

Se solo avesse saputo quanto era sexy in quel preciso istante e come gli era difficile imporsi di non muovere nessun muscolo per sollevarla e portarla altrove, pensò Castle, sforzandosi di rimanere impassibile.
Non sapeva come comportarsi. Non aveva pianificato niente, non ne aveva avuto il tempo perché tutto si sarebbe aspettato a quel punto, tranne che Beckett accettasse un invito che lui le aveva fatto essenzialmente per gioco e perché gli piaceva provocarla. Naturalmente, ci aveva sperato da qualche parte in fondo al cuore. Era stato però convinto che lei l'avrebbe rispedito al mittente senza troppe gentilezze, con i suoi soliti modi bruschi.
Invece aveva accettato. Ma questo non significava niente, doveva tenerlo sempre presente. Non doveva fare gesti avventati che avrebbero compromesso il loro rapporto per sempre. C'era in ballo altro che non una semplice avventura vacanziera.

Quando si trattava di lei, Castle sapeva quanto fosse importante contare unicamente sul suo istinto. Lo fece anche questa volta. Qualcosa che non avrebbe saputo definire e che andava oltre il piano della logica, gli suggeriva di non forzare la situazione. Quello che si stava creando tra di loro, inaspettato, ma da lui lungamente atteso, era più fragile e prezioso di quanto avesse immaginato.

Dopo qualche istante di turbamento, riprese le buone maniere, comportandosi come un perfetto padrone di casa, le diede appuntamento a più tardi, avvisandola che sarebbe andato a farsi una doccia e si chiuse delicatamente la porta alle spalle, lasciandosi sfuggire un sospiro solo quando fu sicuro di essere rimasto da solo.

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Capitolo 3
*** Tre ***


3

Castle era in piedi davanti all'ampia vetrata che dava sull'oceano. La luce dorata del tramonto aveva lasciato spazio all'oscurità della sera e tutto quello che riusciva a scorgere era il biancore delle onde, in lontananza.
Sul tavolino dietro di lui, di fronte al camino, erano posati due calici di vino.

La sentì scendere le scale e si voltò nella sua direzione. Non seppe nascondere un moto di stupore, che gli fece morire le parole in gola. Curioso, per essere uno scrittore.
"Che c'è, Castle, il gatto ti ha mangiato la lingua?", gli chiese con tono provocatorio, raggiungendolo e prendendo dalle sue mani il bicchiere di vino che era stato pronto a porgerle.
Era tornata sicura di sé e battagliera come sempre, notò Castle, che l'aveva vista inizialmente un po' smarrita.
"No, ero solo incantato...", le indicò l'esterno, "dal panorama". Notò con divertimento l'occhiata dubbiosa che lei gli rivolse, ma ostentò indifferenza, continuando a sorseggiare il suo vino.
"E anche dal tuo vestito", aggiunse, quando fu sicuro che lei non se lo aspettasse. Fu ricompensato dal breve sorriso che le aleggiò sulle labbra, prima che si affrettasse a dissimularlo. "Credo che sia illegale in molti Stati".
"Il vestito?" chiese lei senza capire.
"La tua bellezza", rispose lui con fare pomposo.
Lo trafisse con lo sguardo. "È il meglio che sai fare, Castle? Ricicli frasi melense dai biscotti della fortuna? È da lì che prendi la tua ispirazione?"
La fissò a lungo, in silenzio: "Sai da dove prendo la mia ispirazione", rispose con voce sommessa. Lei abbassò gli occhi.

"E infatti penso che dovrò fornire a Nikki un nuovo guardaroba, dopo stasera. Devo accorciarle qualche gonna", la prese in giro, cambiando discorso.
Lei si avvicinò per dargli un colpo sul braccio, che andò a vuoto perché lui si spostò all'ultimo e questo le fece perdere l'equilibrio. Castle fu rapido a sorreggerla, ma quando lei tornò stabile sulle sue gambe, ringraziandolo, decise di lasciare la mano appoggiata al suo gomito, con un gesto che sembrò del tutto naturale a entrambi. Per un istante gli era parso di sentire un lievissimo profumo di ciliegie. Si chiese se usasse sempre quello shampoo o se fosse colpa della sua immaginazione iperattiva.
"Sei pronta?", chiese, osando accarezzarle con il pollice la pelle morbida del braccio, trattenendo il respiro, convinto che lei si sarebbe presto scostata. O peggio. Magari l'avrebbe insultato.
"Pronta per cosa?"
"Per uscire a cena".

Lei rimase attonita a guardarlo, allontanandosi di qualche passo, interrompendo il contatto.
"Io non... non pensavo che saremmo usciti", mormorò dalla sua posizione di sicurezza.
"Quindi ti sei vestita così solo per me?"
"No, non mi sono vestita così per te", protestò con calore. "Mi sono vestita e basta, smettila di fare commenti tanto prevedibili. Semplicemente non pensavo che avessi fatto in tempo a prenotare da qualche parte. Siamo partiti all'improvviso".
Lui avvicinò la bocca al suo orecchio, sussurrando: "Non ho nessun bisogno di prenotare".
Kate alzò gli occhi al cielo e appoggiò il bicchiere di vino sul tavolino, esasperata: "A volte mi capita perfino di dimenticare il tuo grosso ego ingombrante e poi eccolo che rispunta a tradimento", si lamentò. Lui si scoppiò a ridere facendole strada verso l'uscita.

Una volta arrivati al ristorante, Kate rimase seduta in auto in attesa che le aprisse la portiera. Fu felice di accontentarla.
"Visto? Non muore nessuno se mi lasci essere galante".
"Castle, ti prego, vorrei rilassarmi nei miei giorni liberi. Non attirare cadaveri quando non ce ne sono".
"Per chi mi hai preso? Non sono certo La signora in giallo".
Lei le costrinse a spostarsi finché non si ritrovò sotto la luce del lampione. Lo guardò con attenzione. "Adesso che mi ci fai pensare, in effetti mi ricordi un po' Jessica Fletcher. Il taglio di capelli, forse".
Lui le fece una smorfia. "Se fossi Jessica Fletcher mi imbatterei nei cadaveri ogni volta che esco di casa", le fece notare. "Invece devo fingere di scrivere i miei romanzi, mentre aspetto una tua chiamata che, per la cronaca, non arriva mai abbastanza presto da salvarmi dalla noia".
"Castle, se fossi Jessica Fletcher, non ti limiteresti a imbatterti nei cadaveri per caso. Saresti tu l'assassino, invariabilmente", gli rispose con un tono che non ammetteva repliche.
La guardò sgranando gli occhi per la sorpresa. "Stai insultando l'idolo della mia infanzia. Nessuno può toccare Jessica".
"Via, Castle, mi hai seguito abbastanza a lungo per sapere che l'ipotesi più semplice è spesso quella giusta. È per forza lei a commettere gli omicidi. Altrimenti come potrebbe trovarsi sempre al posto giusto nel momento giusto? Se ne va in crociera e casualmente muore qualcuno, la invita il nipote da qualche parte e mentre è lì muore il figlio del cugino di secondo grado perché ha sbagliato a fare la raccolta differenziata e questo ha causato una faida familiare. Li ammazza lei, è l'unica spiegazione".
"Ok", iniziò Castle tentando di mostrarsi conciliante, cercando di prenderla con le buone per mitigare il suo astio ingiustificato e a lui completamente ignoto contro la povera Jessica. "Ok. Vorrei solo ricordarti che si tratta di fiction e non realtà, e quindi..."
"E questo che cosa significa?", lo interruppe. "Che i tuoi romanzi, pur essendo a loro volta fiction, non seguono uno svolgimento basato su una logica reale?"
"Sì, naturalmente..." rispose un po' insicuro.
"I tuoi lettori non cercano di arrivare all'assassino seguendo degli indizi che dissemini appositamente?" proseguì sempre calmissima.
"Certo. Sarebbe un tradimento da parte dell'autore non fornire tutte le informazioni affinché il lettore arrivi da solo alla soluzione", spiegò senza capire il punto.
"Quindi è lei per forza. Si tratta di logica, Castle", concluse trionfante puntandogli l'indice sul petto per sottolineare la parola "logica".
"Ehi, non vale usare i tuoi trabocchetti mentali per vincere la discussione. Mi hai costretto a confessare. Vostro Onore, sono innocente!" si lamentò con voce petulante. Aveva tradito Jessica Fletcher?
"È quello che dicono tutti, lo dirà senz'altro anche la tua Signora in giallo. Informala di non passare per New York, se non vuole incontrarmi e farsi arrestare".
Castle non si diede per vinto.
"E che cosa mi dici di Poirot? Anche lui ha risolto tantissimi casi. E questo implica, a rigore di logica, tantissima gente morta. È anche lui un assassino?"
"Lui faceva il detective freelance di professione, Castle. Veniva chiamato dopo che era avvenuto un omicidio", rispose paziente come se si stesse rivolgendo a un bambino un po' ottuso.
"Miss Marple!" gli uscì gridando, costretto a rincorrerla, mentre lei si dirigeva verso l'entrata.
"Ecco un'altra donna sospetta", concesse lei, solenne.
"Vuoi partire per l'Inghilterra e arrestare anche lei? Hai un problema con le vecchiette pettegole?"
"Non tentarmi, Castle", rise lei, fermandosi e guardandolo negli occhi.

Lui si dimenticò quello che stava per ribattere, all'improvviso il gioco non gli interessò più. Le mise una mano sulla schiena, in basso, con un gesto deciso e la guidò, in silenzio, dentro al ristorante.

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Capitolo 4
*** Quattro ***


4

Si sedettero a un tavolo appartato, uno di fronte all'altra. Ci fu un iniziale, prolungato momento di silenzio.
Era una situazione insolita per loro. Aveva consumato spesso pasti veloci quando erano fuori per un caso o quando avevano bisogno di decomprimersi, sempre in ambito lavorativo. Si era sempre trattato di qualcosa di informale, avevano parlato per tutto il tempo di omicidi e moventi, in fin dei conti.
Adesso, pensò Kate, erano un uomo e una donna fuori a cena. Senza ruoli, etichette. E questo cambiava tutto.

Nonostante non avessero effettivamente prenotato, una volta entrati erano stati accolti festosamente dal proprietario in persona che doveva essere una vecchia conoscenza di Castle, a giudicare da come si erano salutati. Dopo le presentazioni di rito, erano stati accompagnati nel giardino esterno, da cui si godeva una perfetta vista dell'oceano. Si era alzata una leggera brezza, che aveva mitigato le temperature insolitamente calde della giornata appena trascorsa, rendendo il clima molto piacevole e adatto a una serata all'aria aperta.

"Quindi è qui che passerai l'estate".
Fu lei a rompere il silenzio, che si era protratto troppo a lungo, alzando la testa da sopra il menù nel quale era stata immersa.
Lui la guardò senza capire.
"Qui negli Hamptons. Non qui al ristorante", puntualizzò.
"Ah, sì", rispose vago, evitando di incrociare il suo sguardo e fingendosi molto impegnato a leggere la lista dei vini, che doveva conoscere a memoria. Che cosa gli stava succedendo?
"Non avevi deciso di prenderti una pausa da New York e dal distretto per concludere il tuo romanzo? È quello che mi hai detto oggi pomeriggio, quando mi hai informato che si sarebbe trattato del nostro ultimo caso", insistette Kate, senza mollare la presa.
In verità era ancora un po' scioccata da quella loro maldestra conversazione e avrebbe voluto capirci qualcosa di più. Era seriamente intenzionato a farlo? O si era trattato di altro?
"Dobbiamo proprio discutere del mio libro? Ho passato ore al telefono con Gina ed è un'esperienza che normalmente cerco di evitare, finché è possibile. Credimi, mi fa venire voglia di darmi ai romanzi d'amore in costume, piuttosto che continuare così".
"Ti ha trovato, alla fine", notò Kate, asciutta. "Aveva chiamato anche al distretto, cercandoti".
"Sì, purtroppo sì", rispose tagliando corto.
"Va così male?"
"Con Gina o con il libro?"
"Con il libro". Non le importava della sua ex moglie. "Mi sembra che tu non ne voglia parlare".
"Il fatto è che sono arrivato a un punto morto. Non sono soddisfatto..."
"Dei personaggi?"
"Della trama", la corresse rapido. "I personaggi vanno bene. Alla grande. Nessuna nuvola all'orizzonte per Nikki e Rook", concluse deciso.
Le fece piacere scoprirlo.
"Capisco. Quindi è un problema che riguarda il lato thriller?" si informò con tatto. "Se ne hai bisogno sono sempre lieta di offrirti la mia consulenza sui punti che ti danno maggiori problemi", si propose spontaneamente, sfoderando un sorriso professionale.
Si sentì esaminata con attenzione. Aveva detto qualcosa di fraintendibile? Non le pareva.

Castle si sporse verso di lei, mettendola un po' a disagio.
"Non credere di ingannarmi, Beckett. Tu non vuoi aiutarmi. Ammettilo. Tu vuoi gli spoiler".
Sbuffò.
"È vero, mi hai scoperta". Non era così, ma preferì dargli corda. "Non puoi darmi una piccola anticipazione? Minuscola? Sono la tua Musa, dovrei sapere le cose prima di chiunque altro".
"Infatti hai l'onore di leggere il manoscritto prima che vada in stampa, lo hai dimenticato? E mi fa piacere che adesso l'idea di essere la mia Musa non ti faccia più venire voglia di spezzarmi le gambe".
Sorvolò su quel punto.
"Hai ragione, ma ci vorranno ancora mesi prima che tu me lo faccia leggere. Almeno tutta l'estate e solo quando lo avrai finito". Che era il punto che le stava a cuore.
"Se te lo facessi leggere in fase di stesura passeresti il tempo a dirmi Ti piacerebbe, Castle. Solo nei tuoi sogni, Castle. Uccideresti la mia creatività".
"E da quando? Non sono io che ti "ispiro"?". Mimò le virgolette.
"Sì, ma poi ho bisogno di una certa libertà per... ricrearti nelle vesti di Nikki togliendo di mezzo i tuoi atteggiamenti dispotici. Ti ricordo che mi hai minacciato fisicamente perché cambiassi il nome della mia protagonista".
"Certo, perché ha un nome da stripper! E, per la cronaca, io non ho nessun atteggiamento dispotico", si indignò.
"Oh, sì, sei dispotica. Affascinante e dispotica. Bellissima e dispotica. Incredibilmente sexy e..."

Lo fermò prima che la situazione degenerasse.
"Ok, ok. Ho capito il concetto. Ma torniamo al libro", alzò la mano per fermarlo. "Sai qual è il problema, Castle, se posso permettermi un consiglio?"
"Pendo dalle tue labbra", rispose serissimo.
"Se non la smetti, mi alzo e me ne vado", lo rimproverò, ridendo.
"Non capisco a cosa tu ti riferisca, io non vedo l'ora di ascoltare il tuo consiglio", rispose con aria innocente.
"Io non sono una scrittrice, ma, se il problema riguarda il caso, forse hai fatto poche ricerche sul campo", gli lanciò un'occhiata veloce. Sapeva benissimo quanto lui fosse molto rigoroso in quel preciso ambito. "Non credi che rinchiuderti qui per i prossimi tre mesi senza contatti con il crimine, intendo il vero crimine, possa essere controproducente per la tua creatività?"
Prese il bicchiere di vino e bevve una lunga sorsata. Le piaceva giocare, ma ogni tanto nella vita era necessario un po' di coraggio.
"Pensavo che non ne potessi più di avermi intorno e che fossi felice di vedermi altrove. Da quanto tempo ti seguo, ormai? Un anno? Un anno e mezzo?"
"Hai ragione, ma non lo faccio per averti intorno. Lo faccio per il rigore scientifico", lo informò con aria ispirata. "Non puoi dare in pasto al tuo pubblico una trama poco rigorosa".

Castle rimase a fissarla socchiudendo gli occhi. Era chiaro che non riusciva a interpretarla. Era difficile anche per lei interpretare se stessa, arrivati a quel punto.
"Giusto, il rigore scientifico. E anche il realismo, naturalmente, sono d'accordo con te. È alla base dell'intera struttura narrativa". Aveva finalmente raccolto l'imbeccata. "Sai, ripensandoci...", proseguì assorto, "in effetti ho ormai un discreto numero di appunti presi durante la nostra collaborazione e qualcuno potrebbe ritenere che bastino a scrivere una ventina di romanzi, ma...", si fermò titubante.
"Continua, mi sembri sulla strada giusta", lo invitò lei.
"Ma sei stata tu a insegnarmi che la stranezza del genere umano non si esaurisce mai, giusto? E se dovessi perdermi un caso insolito, mentre me ne sto qui in vacanza a fare l'eremita? Se non mi ricapitasse mai più? Se fosse proprio quello di cui ho bisogno per dare un nuovo impulso narrativo alla trama? Potrei addirittura perdere il Pulitzer solo perché mi sono fatto sfuggire un'occasione".
Castle ormai era lanciato e non sembrava volersi fermare. Lei avrebbe evitato il riferimento al Pulitzer, ma preferì non interromperlo.
"Esatto, proprio quello che volevo dire. Sarebbe un peccato. Quindi..."
"Quindi?", la incalzò.
"Magari potrei chiamarti nel caso in cui dovesse capitarmi un caso particolare durante l'estate. O disturberei la tua quiete creativa?", chiese dubbiosa e speranzosa insieme.
"No", rispose lui quasi gridando. "No, no. Certo che no. Chiama quando vuoi. Anzi, spero che tu lo faccia. Lo dobbiamo al rigore scientifico, proprio come hai detto tu", concordò lui.
"Non dobbiamo aspettare l'autunno per vederci, giusto?"
"Certo che no. Assolutamente no", convenne Castle guardandola negli occhi.

Castle avrebbe decisamente voluto approfondire il concetto di vedersi. In tutta onestà aveva faticato fin dall'inizio a capire quale fosse il senso di tutto quel discorso che sembrava partire da molto lontano.
Stentava a credere che il problema, se così si poteva definire, fosse stata la sua infelice uscita sul fatto che avrebbero dovuto prendersi una pausa da loro. Non dai casi, non dal distretto. Dalla sofferenza di vederla con un altro.
Sì, aveva notato come fosse rimasta colpita dalle sue parole, soprattutto quando aveva menzionato il fatto che potesse essere il loro ultimo caso insieme.
Poi aveva accettato il suo invito e aveva ribaltato tutto.
E ora aveva voluto assicurarsi che quella loro presunta separazione fino all'autunno potesse essere interrotta. Legittimamente, certo. Con giustificazioni a prova di qualsiasi sottinteso. Ma era pur sempre qualcosa che non si sarebbe mai aspettato da lei.
Proprio allora arrivò un solerte cameriere con le loro ordinazioni e, all'improvviso, non gli sembrò più l'atmosfera adatta a parlarne, indagare. Due passi avanti e uno indietro, si disse. Funzionava sempre così con Kate Beckett.

Mangiarono con gusto, chiacchierarono senza interruzione, ordinarono altre bottiglie di vino e risero molto.
"Sai, Castle, ho come la sensazione che il mio bicchiere non sia mai vuoto. Non starai cercando di farmi ubriacare?"
Naturalmente. Era già un po' brilla e lo spettacolo di per sé era molto più che affascinante.
"Ti farei ubriacare se ci fosse un motivo per farlo", rispose Castle, mentendo. "Invece stiamo solo accompagnando un'ottima cena con del vino adatto. E tu non sei in servizio".
E dormirai sotto il mio tetto.
"Non cercare di battermi a questo gioco. Lanie aveva ragione, reggo l'alcol meglio di chiunque altro", lo avvisò.
"Lo so. Infatti mi sono già arreso e lascio che sia tu a vincere. Però non sono sicuro che riuscirai a camminare da sola sulle tue gambe, una volta fuori di qui", la prese in giro.
Lei gli lanciò il tovagliolo, sbagliando di poco la mira.
"Non ho nessun problema a stare in piedi. Vuoi che ti mostri che riesco a toccarmi il naso con gli occhi chiusi?", propose.
"No", rispose ridendo."Mi fido della tua parola". Era buffa. Adorabile e divertente. Non ne aveva mai abbastanza.

"Castle perché mi hai invitato a venire qui?" chiese lei con un tono molto più serio che lo colse di sorpresa. Non stavano ridendo fino a qualche momento prima? Avvertì il brusco cambio di atmosfera tra loro. Forse non era così brilla come aveva pensato. Gli sembrò invece lucidissima.
"E tu perché hai accettato?", le rimbalzò la domanda, nello stesso tono e senza più scherzare.
Era il momento di mettere le carte in tavola? Era pronto a farlo?
"Non si risponde a una domanda con una domanda". La osservò meglio. Non era da lei parlare così chiaramente. O volere una risposta tanto onesta. Non sapeva dove fosse il limite oltre il quale l'avrebbe fatta scappare, limite che di solito era bravo a individuare. Ma da quel pomeriggio tutto quello in cui credeva e che la riguardava si era capovolto.
"È per via di Tom?"
"Per Tom?"
"Perché mi hai vista con lui? È una specie di gioco per te?"
"No, Kate", rispose coprendole la mano con la sua. "È per te. Ti ho invitato per te". Era ansioso di convincerla. Non aveva mai pensato che lei potesse credere che lui stesse semplicemente divertendosi a portare scompiglio. Lui l'aveva voluta per sé. Era sempre stato così, fin dall'inizio.
Intrecciò le dita tra le sue, accarezzandole il polso. "E tu perché hai accettato?", le domandò in tono tanto sommesso da farlo dubitare che l'avesse sentito.

"Io..." Kate si guardò intorno alla ricerca di parole che non aveva. "Non sono molto brava a spiegarmi. E non sono nemmeno una persona con cui è facile andare d'accordo, e probabilmente sono davvero dispotica come hai detto...".
Che era quello che gli aveva già detto prima di accettare il suo invito. Attese.
"E quindi sono qui perché...", si fermò di colpo, abbassando gli occhi. Ok, forse il limite era stato superato. Non aveva idea di come fosse successo, di come fossero finiti a quel punto, ma sapeva che non era il caso di proseguire. Doveva portarla via da lì.
"È tardi. Perché non ce ne andiamo? È stata una giornata molto lunga, sarai stanca", propose strizzandole gentilmente la mano, un gesto che non aveva nessun secondo fine. Si era semplicemente attivato il suo istinto protettivo. Non voleva lasciarla annaspare.
"Sì. Sì, è vero, hai ragione", lo guardò riconoscente, alzandosi in piedi. Le offrì un braccio perché era pur sempre un uomo galante e perché gli era rimasto qualche dubbio sul fatto che fosse in grado di raggiungere l'auto senza un aiuto. Ce la faceva benissimo, invece, ma questo non le impedì di appoggiarsi a lui.

Non era facile venire a patti con una Beckett che si comportava in modo tanto diverso rispetto al solito. E questo faceva sorgere una serie di domande che mai avrebbe espresso ad alta voce e che avrebbero meritato una più ampia riflessione. Ma non era nelle condizioni di farlo. Dovevano tornare a casa. Era quella la sua priorità.
Fece un respiro profondo e quando lei alzò gli occhi a sorridergli, lui le rispose in automatico, cercando nel frattempo di autoipnotizzarsi per non muovere nessun muscolo, per contrastare l'attrazione che provava per lei.

Il viaggio fino alla villa li vide immersi in un silenzio ininterrotto.
Qualcosa tra di loro era cambiato, lui lo percepiva chiaramente. E anche lei, ne era certo. Ma sospettava che nessuno dei due volesse rovinare un'atmosfera troppo ricca di promesse ancora acerbe.
"È molto bello qui", mormorò Kate, avanzando nel giardino, a piedi nudi. Si era tolta i sandali non appena erano scesi dall'auto. Lo trovava molto sexy. Anzi, l'avrebbe trovato molto sexy se si fosse dato il permesso di esprimersi mentalmente in quel modo, invece che sforzarsi di credersi un modello di ascetismo privo di impulsi carnali, per non commettere azioni irreparabili.

La raggiunse. Non poteva rimanere in piedi a fissarla inebetito in eterno. E non poteva continuare a reprimersi, dopotutto.
Le appoggiò un braccio intorno ai fianchi, la fece voltare verso di sé, le infilò una mano tra i capelli e, mentre il cuore gli batteva a mille, si chinò a baciarla. Poteva essere un errore, ma doveva scoprirlo.
Lo aveva sognato così a lungo da rendergli difficile credere che stesse succedendo davvero. Kate rispose al bacio, almeno all'inizio e almeno per quanto riuscì a capire, sconvolto com'era e proiettato altrove, nemmeno sapeva di preciso dove. Era solo consapevole di un livello di beatitudine mai raggiunto prima.
Le accarezzò la schiena con gesti ampi, cominciando a darsi il permesso di sperare che quello sarebbe stato il preludio a molto altro. Che desiderava moltissimo.
"No" si staccò lei di colpo, allontanandolo con forza e guardandolo con occhi sbarrati. "Non posso. Io non..."
La tenne contro di sé e appoggiò la fronte sulla sua, respirando velocemente. "Kate" la pregò a bassa voce, sapendo già che non sarebbe servito a niente.
Kate si sciolse dal suo abbraccio e in un attimo scomparve dentro casa.

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Capitolo 5
*** Cinque ***


5

Il mattino dopo Castle si svegliò molto presto.
Non aveva chiuso occhio, ossessionato da quello che era successo e da tutto il ventaglio delle possibili conseguenze. Si era domandato più e più volte che cosa potesse essere andato storto. Aveva creduto di cogliere dei segnali inesistenti? Aveva perso la sua capacità di interpretare le situazioni – certe situazioni in particolare – nel modo corretto?
O forse, ancor prima, aveva dato per scontato che l'aver accettato il suo invito implicasse qualcosa d'altro? Qualcosa a cui nessuno aveva mai fatto allusione? Doveva essere onesto con se stesso. Era andata così?
Forse l'aveva spaventata o forse si era convinta che, nonostante le rassicurazioni sulle sue fraterne intenzioni, lui avesse avuto in mente da subito uno scopo ben diverso. Si diede dell'idiota. Che cosa gli era saltato in mente, la prima sera, poche ore dopo il loro arrivo?

Non sapeva quale delle molteplici versioni fosse quella giusta. Le ore passavano e lui non aveva smesso di arrovellarsi. Avrebbe voluto alzarsi e dar fuoco al letto o, in alternativa, abbattere la porta della stanza dove dormiva Beckett e implorarla, letteralmente, di parlare con lui e spiegargli che cosa fosse successo.
Non sapeva nemmeno che cosa si sarebbero detti incontrandosi al mattino. Magari sarebbe voluta tornare subito a New York, dichiarando conclusa la vacanza più breve della storia. E tutto il resto. Gli mancò il cuore nell'immaginarsi la scena, il suo futuro solitario, bandito dal distretto.

Decise di alzarsi. Non ne poteva più di rimanere imprigionato tra lenzuola stropicciate e congetture sempre meno realistiche.
Si mise all'opera per preparare una colazione molto più che abbondante, in modo da tenersi impegnato. Voleva avere qualcosa da offrirle in segno di pace. Era una delle funzioni antropologiche del cibo, giusto? Era un simbolo di accoglienza e ospitalità. Forse sarebbe servito a mitigare, almeno in parte, l'opinione pessima che doveva avere di lui a quel punto.
Dopo essersi concesso la prima dose di caffeina della giornata decise di apparecchiare all'aperto. Non faceva ancora abbastanza caldo, ma più tardi si sarebbe trasformato in un angolo magnifico dove consumare insieme il primo pasto della giornata. E parlare. E farsi perdonare. E regalarle un pony.

Preparò il necessario, affettò, andò avanti e indietro più volte dalla cucina, dispose tutto sul tavolo, decise di recuperare un vaso dove mettere dei fiori, gettò il vaso e poi i fiori, bevve un'altra tazza di caffè, si dichiarò soddisfatto del proprio lavoro, ma la porta della camera di Beckett rimase ostinatamente chiusa. Era un messaggio?
Prima o poi sarebbe dovuta scendere, a meno che non volesse calarsi dalla finestra per atterrare sul pergolato di sotto. C'era un pergolato sotto la sua finestra? Non se lo ricordava. Ritenne saggio non andare a controllare.

La voce di Kate all'improvviso alle sue spalle lo fece sobbalzare, facendogli quasi rovesciare il caffè sulla camicia.
"Buongiorno", lo salutò con un po' di affanno. "Hai preparato da mangiare per un esercito? Ha intenzione di sfamare tutto il circondario?"
Castle, stupefatto, guardò prima lei e poi la direzione da cui era arrivata, incapace di articolare una frase di senso compiuto.
"Pensavo che stessi ancora dormendo".
"Non dormo mai a lungo al mattino. Sono andata a correre"
"Anche in vacanza?"
Anche dopo una serata disastrosa?
"Sì, è rilassante. Dovresti provare".
Lui avrebbe usato quell'aggettivo per ben altre attività, ma preferì non farglielo sapere. Meglio essere prudenti.
"Prima vorrei andare a farmi una doccia, se non ti spiace", continuò, del tutto a suo agio.
Lui annuì, senza parlare. Voleva fingere che non fosse successo nulla? Non era troppo perfino per lei? Perché per lui lo era di certo.
L'aspettò impaziente e curioso di vedere che cosa sarebbe successo e come si sarebbe comportata.
Tornò dopo poco, i capelli umidi e un vestito corto indossato sopra il costume. Era un cambiamento abissale rispetto a come l'aveva sempre vista al distretto. Si aspettava davvero che lui facesse finta di niente? In quale girone infernale era finito?

"Qual è il programma di oggi?", chiese allegra prendendo posto al tavolo riccamente imbandito. "Che cosa fai di solito in vacanza?"
Già, che cosa faceva a parte rovinarle?
"Per me non è mai una vera vacanza. Di solito vengo qui a scrivere", iniziò schiarendosi la voce. "Non faccio niente di particolare, sto in piscina, accendo il barbecue, leggo, mi rilasso". Ti bacio.
"Niente di particolare? Non vado in vacanza da almeno dieci anni, per me è un sogno. Con che cosa cominciamo?"
Gli sembrò che rispondesse con un po' troppo entusiasmo, il che gli fece sospettare che forse, come lui, si stava sforzando di mantenere un'atmosfera piacevole e di superare l'imbarazzo. Guardandola meglio riusciva a scorgere un'ombra scura sotto agli occhi che prima non aveva notato, segno che la corsa mattutina era stata più un pretesto per alzarsi, piuttosto che un'abitudine quotidiana da praticare ovunque.
"Se non ti va di stare qui possiamo andare a visitare i dintorni, se ti piacciono, beh... le spiagge e l'antiquariato. L'offerta è limitata", propose Castle, poco convinto.
"Perfetto", rispose lei felice.
"Ti piacciono i negozi di antiquariato?"
"Sì, molto". Davvero? "Non sono esperta, però per arredare il mio nuovo appartamento ho girato molti mercatini. Non posso permettermi tutto quello che voglio, ma qualche buon pezzo sono riuscita a portarmelo a casa. Ci andiamo subito?"

Scattò in piedi. Aveva a malapena sbocconcellato quello che le aveva messo nel piatto.
Kate non voleva rimanere a casa con lui, era evidente. Probabilmente avrebbe accettato anche la proposta di un safari in Kenya, se fossero riusciti a prendere un aereo abbastanza in fretta. Ma se questo era ciò che voleva, lui si sarebbe adeguato. Non desiderava certo che si voltasse all'improvviso per chiedergli di riportarla a casa o di accompagnarla in stazione. Avrebbe fatto di tutto per impedirle di fuggire.
"Certo. Andiamo".

Con sua sorpresa la giornata si rivelò molto al di sopra delle aspettative. Che, a onor del vero, erano state molto basse, almeno da parte sua.
Dopo i primi minuti di conversazione stentata, nell'intimità forzata dell'auto, erano riusciti gradualmente a tornare all'atmosfera cameratesca del pomeriggio precedente. Avevano chiacchierato di svariati argomenti e lei aveva sorriso molto. Più di quanto le avesse mai visto fare.
E lui era stato bene. Aveva avuto la consapevolezza improvvisa di non stare così bene da tanto tempo, perfettamente a proprio agio, senza preoccupazioni o il timore di dire qualcosa di sbagliato. Erano da soli, nessuno avrebbe potuto interromperli, i finestrini erano abbassati e la brezza le scompigliava i capelli. A un certo punto aveva sentito la tensione abbandonare il suo stomaco ed era riuscito a fare, per la prima volta dopo tante ore, un respiro profondo, liberatorio.

Kate era una vera appassionata di antiquariato, a quanto pareva. Era una delle cose che non aveva mai saputo di lei e su cui non avrebbe mai scommesso un centesimo. Quando pensava di essere riuscito a farsi un quadro credibile della sua poliedrica personalità, lei lo sorprendeva mostrandogli parti di sé che non aveva nemmeno sospettato esistessero. Erano parti che mostrava solo a lui, il che lo rendeva incredibilmente felice.
Avevano girovagato a lungo, erano entrati in molti negozi, perché lei aveva gusti molto esigenti e di rado era soddisfatta di qualcosa. Continuava la caccia con instancabile determinazione.

"Di questo passo faremo tutta la costa da qui alla Florida senza trovare niente", si era lamentato. Forse era quello che voleva. Non tornare mai più alla villa per non dover subire ancora approcci sgradevoli da parte sua.
"Il piacere sta nella ricerca, non nell'acquisto", gli aveva spiegato.
"È per questo che non ti fermi mai abbastanza a lungo in nessun negozio? Perché vuoi rendere la ricerca, e quindi il piacere, infiniti?", l'aveva punzecchiata.
"È semplice. Sento subito se ci sarà il pezzo giusto per me. Se non è così preferisco andarmene".
Interessante. Quindi ora sentiva le cose? Pensava fosse una sua prerogativa. "E come sarebbe questo pezzo giusto? Ha delle caratteristiche? È descrivibile?"
Si era voltata a guardarlo pensierosa e aveva soppesato attentamente la risposta. Gli era venuto il dubbio di essere entrato in un terreno minato, delimitato da cartelli di pericolo, che, come al solito, non aveva notato.
"Non lo so... è giusto e basta. Una persona lo sa quando trova quello giusto".
Stava sempre parlando di oggetti, giusto? Non di altro. Non di metafore sentimentali. Dannata donna misteriosa. Non sapeva mai come prenderla.

Alla fine aveva comprato uno specchio. Lui non capiva che cosa avesse di particolare, ma aveva ascoltato con grande interesse una lunga e approfondita dissertazione su stili, ricordi, la nonna italiana, lo chalet di suo padre. Non era mai intervenuto, beandosi dei suoi racconti, che gli avevano svelato nuovi lati di lei, temendo di commettere ancora una volta un passo falso. Le piacevano gli specchi? Bene, l'avrebbe inondata di specchi. Specchi per tutte le stagioni.
Si era fermata e gli aveva sorriso: "Ti sto annoiando a morte, vero?"
"No, assolutamente. Potrei ascoltarti per tutto il giorno".
Non aveva mentito. Era abituato a passare con lei tantissimo tempo, intervallato da estenuanti giornate di solitudine, prima che scoprissero un nuovo cadavere e lei lo avvertisse. Dopo nemmeno ventiquattro ore di Beckett in versione vacanziera moriva dal desiderio di passare con lei ogni minuto della sua vita. Aveva detto vita? Voleva dire giornata. Ogni minuto della sua giornata, notti insonni incluse.

Nel pomeriggio, stanchi e accaldati, dopo essersi fermati per un pranzo leggero in un locale sulla spiaggia, decisero di tornare a casa. Lui con un po' di timore. Lei, piuttosto indifferente.
"È ora di provare il famoso idromassaggio, non trovi?" suggerì Kate, scendendo dall'auto.
Lo aveva davvero proposto o lui era stato vittima di una fantasia molto vivida e realistica? Una delle solite, in sostanza.
"Pensavo volessi fare un bagno nell'oceano".
"L'acqua è gelida, non sono così temeraria. O vuoi dirmi che questo fantomatico idromassaggio non esiste?".
"Per chi mi hai preso? Certo che esiste. Vieni, te lo mostro".
Lei appoggiò il suo prezioso pacchetto su una delle sedie in vimini del patio. "Mi fai compagnia?"
No, Kate, penso che starò qui a fissare il mare aspettando di invecchiare da solo, ma grazie dell'invito.
Non se lo fece dire due volte.

"Wow, Castle, mi aspettavo qualcosa di molto più modesto", si sorprese Kate, una volta a mollo.
"Come se io potessi mai accontentarmi di qualcosa di modesto", rispose Castle con malcelato orgoglio. Era contento che le piacesse.
"In effetti è tutto il giorno che il tuo ego si sta trattenendo. Deve essere stato difficile, vero?"
"Non c'era abbastanza spazio, per via del tuo specchio".
Lei scoppiò a ridere e si mosse nell'acqua, fino a sfiorarlo. La vasca era sagomata in modo da formare un ampio sedile che permetteva di starsene semi sdraiati, invece che seduti con la schiena appoggiata al bordo.
Molto comodo, ma c'erano degli svantaggi. Non per lui, naturalmente. L'acqua e la posizione stessa li mandavano inevitabilmente l'uno contro l'altra, al minimo movimento. Dopo le prime volte, Kate aveva smesso di allontanarsi. Lui non era solo acutamente consapevole dei loro corpi che aderivano a intervalli, ma anche atterrito abbastanza da non voler fare mosse azzardate.
Il che si stava rivelando sempre più difficile.
Non doveva dare niente per scontato. Magari lei pensava che toccarsi casualmente in acqua non fosse proprio toccarsi, perché c'era sempre un corpo estraneo, cioè l'acqua, tra di loro. Forse non si rendeva nemmeno conto di essere così vicina a lui.

Gli appoggiò la testa su una spalla, sospirando. Questo era diverso, rifletté in panico. Non poteva non essere voluto. Doveva essere intenzionale per forza, non poteva dipendere sempre dal peso del liquido spostato, eccetera. Di quel passo sarebbe diventato pazzo prima di sera.
Rimase immobile, con gli occhi chiusi e il volto rivolto a sole, fingendo indifferenza. Non vuol dire niente, Rick. Magari è il suo modo di essere amichevole, che ne sai? 
Lei, senza dire niente, si voltò verso di lui. Finse di non notarlo, finché, nel sollevarsi, il getto dell'acqua non rischiò di allontanarla e lui fu costretto ad allungare istintivamente le mani per trattenerla. Senza sapere come, la trovò seduta sopra di lui. Questo complicava decisamente le cose.

"Kate" mormorò, senza mollare la presa sui fianchi per non farle perdere l'equilibrio e, allo stesso tempo, per tenerla lontana da sé, per il bene di tutti.
Si trattenne finché gli fu possibile farlo e cioè finché non decise che era stanco di comportarsi bene. Non era mai morto nessuno per l'ennesimo rifiuto. Quando mai gli sarebbe ricapitato di averla tra le braccia nella sua piscina? Al massimo avrebbe passato un'altra notte insonne e pazienza. Era pronto a correre il rischio, ma non poteva certo resistere a quegli occhi nocciola screziati di verde che lo stavano fissando e a quelle labbra a cui aveva pensato così spesso. E di cui ricordava tanto bene il sapore.

La baciò. Diversamente dalla sera prima fu un bacio molto cauto. Era pronto a interrompersi al primo segnale negativo da parte sua.
Per qualche strano e miracoloso motivo che non capì mai, lei non si tirò indietro. Gli mise le braccia dietro al collo, mentre lui le mordicchiava il labbro inferiore e lei apriva impercettibilmente la bocca per rendere il bacio più profondo. Si baciarono così a lungo da fargli dimenticare di essere prudente o perfino di essere al mondo. Smise di aspettarsi che lei potesse fermarlo e si lasciò andare.

"Castle", la sentì mormorare con il respiro affrettato, mentre era sceso a baciarle avidamente il collo. Non le diede retta. Era troppo oltre per riuscire a collegare il cervello e, anzi, tornò a divorarle le labbra, come se non l'avesse sentita.
"Castle" ripeté lei di nuovo con tono deciso, mettendogli le mani sulle spalle per attirare la sua attenzione. Si bloccò, sentendosi colpevole. Aveva sbagliato, di nuovo. Non si era ritratto quando glielo aveva chiesto. Era imperdonabile. Chiuse gli occhi o avrebbe peggiorato la situazione implorandola di non andarsene.

Kate gli sfiorò le labbra con le dita e gli disse, a bassa voce: "Andiamo dentro".

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Capitolo 6
*** Sei ***


6

Castle aprì gli occhi senza riuscire a orientarsi nella stanza immersa nell'oscurità. Non aveva idea del tempo trascorso dormendo. Si strofinò le palpebre, nel tentativo di rendere più nitida la visione. Un movimento accanto a lui lo fece sussultare. Si voltò.

"Ehi", mormorò un'assonnata Beckett, sorridendogli, raggomitolata in posizione fetale.
"Sei qui davvero? In carne e ossa?", domandò sorpreso.
Kate spalancò gli occhi, fissandolo. "Dovrei essere qui in versione fantasma?"
Non ricevendo risposta si sollevò appoggiandosi a un gomito e lo scrutò con attenzione. "Castle, stai bene? Sei sonnambulo? Parli nel sonno o qualcosa del genere?"
"Sì. No. Cioè, solo quando sono stanco. Parlare nel sonno, intendo. Non me ne vado in giro. Ma non è questo... è che... "
Pensavo fosse stato tutto un sogno. 
"Niente, lascia stare. Stai bene?", domandò sollecito, cambiando argomento.
"Molto". Kate si stiracchiò pigramente sotto le lenzuola. Nel suo letto. No, non sarebbero mai riusciti a convincerlo che non si trattasse di un sogno.

Le passò una mano tra i capelli, seguì il profilo del suo viso, accarezzandola piano e tracciando linee leggere sul collo e sulle spalle, prendendosi tutto il tempo per imparare a memoria i suoi lineamenti aggraziati. Il tempo si era dilatato e il mondo si era ridotto a quella stanza. Il resto non contava.
Si sporse su di lei e le appoggiò le labbra alla base del collo, strappandole un mugolio.
"Hai fame?", le chiese.
"No", rispose subito.
Non era la risposta che si era aspettato. Non mangiavano decentemente dal mattino.
"No?"
"Ho sonno".
"È ora di cena". Aveva controllato l'orologio. "Non vuoi assaggiare il mio famosissimo barbecue? Sono il dio della carne alla brace".
Lei aprì un occhio. "Non mi dire, un'altra delle tante cose in cui sei molto bravo, giusto?", lo prese in giro.
"Dal momento che sei stata tu a tirar fuori l'argomento, non sarò di certo io a negarlo", sorrise compiaciuto, accogliendo il complimento sottinteso.

Lei si girò, dandogli la schiena e si nascose sotto al cuscino, sbuffando, mentre lui rideva e allungava un braccio per tirarla contro di sé, i loro corpi che aderivano in modo naturale e perfetto. Lei non si ribellò. Doveva ancora adattarsi a questa nuova Beckett che non metteva barriere tra loro. Le diede un bacio sui capelli. "Però dobbiamo mangiare", insistette.
"Perché ti ossessiona così tanto l'idea di nutrirmi?", volle sapere, appoggiando una mano sulla sua e iniziando ad accarezzarla, con movimenti casuali, quasi senza rendersene conto. Lui riusciva a stento a respirare.
"Perché non fai mai pasti completi".
"Sono adulta, Castle. Non ho bisogno che mi si ricordi che devo mangiare. Non stiamo bene qui? Che bisogno abbiamo di alzarci?"
Non aveva torto. A parte il fatto che di quel passo sarebbero morti di inedia.
"D'accordo, ti concedo altri cinque minuti".

Questa, pensò Castle. Questa era la sua idea di paradiso. Stare insieme a lei senza che nessuno dei due dovesse tenere l'altro a distanza, senza sforzarsi di trovare modi fantasiosi per dire qualcosa che non poteva ancora essere detto ed essere costretti a leggere tra le righe. Era stato divertente, il più delle volte. Ma era solo un modo per nascondersi, per non mostrarsi all'altro. Ora, invece, si sentiva in pace e molto felice.

Non che non l'avesse immaginato tante volte, ma anche nei suoi sogni più arditi il mattino dopo Kate si pentiva di quello che era successo e lo piantava in asso senza lasciargli un biglietto. Nella migliore delle ipotesi gli spiegava che il loro rapporto era stato ormai definitivamente rovinato e che era spiacente, ma non poteva più seguirla nei casi. Non aveva mai fantasticato di trovarsela accanto a poltrire insieme a lui.
Gli faceva venire voglia di proteggerla ed era qualcosa non avrebbe mai pensato di provare per lei. Guardarle le spalle, difenderla con una pistola, salvarle la vita, certo. Era scontato. Ma aveva sempre pensato a lei come una donna che bastava a se stessa. Invece, si trovava a provare tenerezza e ad aver voglia di tenerla tra le braccia per sempre. Era incredibile che fosse la stessa donna capace di far confessare chiunque durante un interrogatorio.
Dal suo respiro regolare capì che si era riaddormentata. Avrebbe aspettato che si svegliasse, lasciandola dormire finché avesse voluto. Non avevano niente altro da fare, in fondo. Solo altre ventiquattrore tutte per loro. Non voleva pensare a quello che sarebbe successo dopo.

"Castle, sei una di quelle persone che fissano gli altri dormire?"
Lo corse di sorpresa.
"Come fai a sapere che ti sto fissando? Hai gli occhi dietro alla testa?"
"Sono un poliziotto. Certo che ho gli occhi dietro alla testa".
"Cominci a farmi paura, Katherine Beckett. E, comunque, no. Non fisso la gente che dorme", si difese.
"Sicuro che non ci sia altro che devi dirmi? Parli nel sonno, mi fissi mentre dormo, il cibo ti ossessiona. Altre stranezze? A parte quelle che conosco già".
Finse di offendersi. "No, nient'altro. E avrei qualcosa da dire riguardo al tuo elenco, per non parlare della lista che potrei compilare su di te, ma sono troppo gentile per farlo".
Kate gli sorrise. Appoggiò la testa sotto al suo mento, parzialmente distesa su di lui, e con una mano gli accarezzò la pelle del petto. Nessuno aveva voglia di muoversi da lì. Fu lui a prendere in mano la situazione.
"Dal momento che non vuoi saperne di mangiare o di alzarti, perché non occupiamo il tempo in modo più proficuo? Sono stanco di dormire".
Lei gli diede un bacio a fior di labbra. "Cominciavo a perdere le speranze, Castle".
Fu solo dopo molto tempo che riuscirono a uscire dalla stanza per scendere di sotto a riprendere una parvenza di vita normale.

...

Castle insistette per accendere il barbecue e farle assaggiare la sua famosa carne alla griglia, anche se lei protestò che le sarebbe bastato qualcosa di più semplice da preparare.
In effetti non fu facile coordinare le azioni necessarie per portare in tavola una cena degna di questo nome, visto che nel frattempo non smisero di baciarsi e toccarsi.
Lei rischiò di scottarsi e di mandare a fuoco il lungo abito bianco che si era infilata dopo la doccia e che le si impigliava ovunque, oltre a lasciarle la schiena completamente nuda, cosa che non mancava di distrarre Castle dal suo compito. A un certo punto decisero di separarsi per non combinare qualche altro pericoloso disastro.

Kate decise di lasciarlo alle prese con le incombenze culinarie. Attraversò l'intero perimetro del giardino e scese in spiaggia, dove si sedette per ammirare l'oceano davanti a lei. Affondò le mani nella sabbia, ancora calda del sole della giornata. Si rilassò, le parve di avere la mente del tutto vuota, una situazione insolita e molto appagante. Si poteva non pensare a niente? Credeva di no.
Si lasciò semplicemente esistere, sperimentando una pace che raramente le era capitato di provare. Non ultimamente, almeno. Non si era più sentita così al sicuro, beh, da almeno una decina di anni. Come se per un attimo potesse togliersi tutto il peso dalle spalle per appoggiarlo accanto a sé. Non voleva ripensare a quello che era successo nelle ultime ore, perché ci sarebbe stato tutto il tempo, dopo, per farlo. Qualsiasi dopo ci fosse in serbo per lei.

Castle la raggiunse portando con sé piatti, bicchieri, un telo di lino e tutto quello che era riuscito a tenere precariamente in equilibrio.
"Sapevo di trovarti qui. È un posto incantevole quando la spiaggia si svuota, la sera". Stese il telo sulla sabbia, apparecchiò in modo rudimentale per due, e, alla fine, mise una rosa bianca al centro del tavolo improvvisato.
"Et voilà, la cena è servita", annunciò orgoglioso.
"Wow Castle, hai addirittura organizzato un picnic sulla spiaggia? Il falò e la chitarra non li hai portati?", commentò ironica, ignorando la rosa.
"Il tuo sarcasmo finirà per uccidere tutto il mio romanticismo", la rimproverò sorridendole.
"Hai ragione, scusami. È tutto molto bello. E io ho fame", si allungò per baciarlo. "È tutto perfetto, davvero", insistette, temendo di aver rovinato l'atmosfera.
"In ogni caso, eviterei il falò per non mandare a fuoco l'intera spiaggia, ma se vuoi posso cantarti qualcosa tratto dal mio repertorio di canzoni romantiche".
"No, no. Grazie. Va bene così", rispose in fretta, fermandolo prima che fosse troppo tardi, non del tutto sicura che stesse scherzando.

Fu una serata molto intima. Kate si accorse che aveva già usato quella parola molte volte, in appena due giorni, ogni volta a significare qualcosa di diverso e sempre più profondo. Non sapeva che cosa sarebbe successo quando aveva accettato il suo invito e non sapeva soprattutto come avrebbero proseguito da quel punto in avanti, ma in quella sera sospesa tutto sembrava possibile. Non si era aspettata che Castle riuscisse a toccarla così in profondità e la cosa l'aveva colta senza difese. Né che fosse così rispettoso e delicato con lei. Che pensasse solo a farla stare bene, e sorvolasse sulle sue incoerenze e i suoi cambiamenti di rotta improvvisi.
Era certo spesso fastidioso, insistente e non la ascoltava mai. O, almeno, così si era sempre raccontata per tenerlo lontano. Gli ultimi giorni le avevano fatto scorgere qualcosa d'altro in lui, su cui preferiva non indagare.
Avevano ancora un giorno da trascorrere insieme e non voleva perdersi neanche un minuto del regalo che la vita, o lei stessa si era fatta.

Voleva continuare ad abbracciarlo, sentire il profumo della sua pelle e sorprendersi ogni volta della possibilità di allungare una mano per toccarlo, un gesto che tante volte aveva represso nelle loro lunghe giornate insieme e che adesso le veniva così naturale. Voleva continuare a trascorre il tempo in un silenzio pieno di parole, ma mai imbarazzato, sentire le sue labbra sulla sua tempia e vederlo aiutarla a raccogliere la lunga gonna, prima di rientrare a casa, a notte fonda.

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Capitolo 7
*** Sette ***


7

La giornata seguente, teoricamente l'ultima della loro breve vacanza e quindi la più gloriosa, non iniziò invece sotto i migliori auspici.
Kate aveva dormito di un sonno pesante senza sogni, immersa in una cappa di piombo. Si era svegliata intontita e con il collo dolorante per essere stato a lungo costretto in una posizione innaturale. A peggiorare le cose, quando aveva aperto gli occhi si era trovata in un letto vuoto. Nemmeno un biglietto sul cuscino.
Decise di alzarsi e di uscire in terrazza a prendere un po' d'aria e schiarirsi le idee, ma non ebbe fortuna. Il cielo era solcato da nuvole basse e opprimenti, che rendevano l'atmosfera pesante e lattiginosa. L'aria era ferma e umida. L'oceano quasi invisibile. Il suo umore cupo rispecchiava l'immobilità del panorama che aveva di fronte.

Dopo qualche minuto sentì Castle chiamarla dall'interno. Non rispose, lasciò che fosse lui a trovarla.
Avanzò verso di lei e le porse una tazza di caffè fumante con un sorriso. Accettò grata, massaggiandosi i muscoli indolenziti, per trovare un po' di sollievo. Invano.
"Va tutto bene?", le domandò premuroso come sempre.
"Sì. Sono solo un po' stanca", ammise, senza trovare le parole per descrivere quel groviglio di frustrazione che non sapeva spiegarsi.
Da quel punto esatto la situazione precipitò. Nel tempo, non sarebbe mai riuscita a capire quale fosse stato il loro punto più alto. Erano stati tanti i momenti perfetti e lei li aveva vissuti tutti intensamente. Ma ricordò per sempre quando le cose cominciarono ad andare male. E poi, sempre peggio.
"Quando vuoi tornare a casa?", si informò Castle con tono noncurante.
"Tornare?" gli fece eco Beckett. Nessun tocco, nessun bacio, nessuna magia? Sentì risuonare tutti gli allarmi e in automatico si chiuse in se stessa. Gli diede le spalle, tornando a guardare verso l'oceano.
"Sì. Domani devi riprendere il lavoro e io ho un impegno con Alexis. Tenendo conto del traffico del rientro, sarà meglio muoverci subito".
Castle continuò a parlare, ma lei smise di ascoltare. Non le sembrava più l'uomo che era stato fino alla notte precedente, pareva essersi trasformato in un estraneo molto sorridente ed educato, senza alcuna connessione con lei.
"Come preferisci", rispose laconicamente.
"C'è qualche problema?"
"No".
"È quel no delle donne che vuol dire  e io dovrei capire che cosa è successo, perché tu non me lo dirai mai?"
Quel goffo tentativo di fare del banale umorismo la indispettì ancora di più.
Trangugiò il caffè, gli ficcò la tazza tra le mani e lo piantò in asso, dopo avergli gridato "No, Castle, è un no che vuol dire no, punto", mentre se ne andava.

Si infilò nella stanza degli ospiti, quella che le era stata destinata in principio e iniziò a lanciare con violenza tutte le sue cose nella borsa. Voleva andarsene e concludere in fretta e furia il loro weekend? Benissimo. Non voleva approfittare un minuto in più della sua ospitalità. Come poteva essere tanto... ? Non le venivano aggettivi adeguati con cui descriverlo.
Quando ebbe finito, avvertì un discreto bussare alla porta. Da quando era tornato tanto ligio alla privacy? Erano a mille anni luce da quello che erano stati fino a poche ore prima.
"Io sono pronta", gli annunciò con tono formale, dopo averlo fatto entrare. "Fammi sapere quando vuoi tornare a New York".
"Kate, possiamo parlare con calma?"

Castle avrebbe davvero voluto capire che cosa fosse successo. Non erano certo arrivati a quel punto per ripiombare in un attimo al punto di partenza. Non adesso che sapeva molto bene a che cosa avrebbe dovuto rinunciare. E per quale diamine di motivo doveva rinunciarci?
Erano stati bene, finora. Più che bene. Oltre qualsiasi definizione di bene. Ed era stato via per soli cinque minuti. Si era svegliato prima di lei e aveva pensato di farle una sorpresa, preparandole un caffè. Che cosa era successo, nel frattempo, per giustificare una tale reazione?
Si era pentita? Si era svegliata e la realtà aveva fatto capolino convincendola che fosse tutto uno sbaglio? Proprio quello che lui aveva sempre temuto potesse succedere.
Allungò una mano per toccarla, ma lei si scostò con un movimento repentino. Se ne sentì ferito.
"Di che cosa vorresti parlare?", domandò brusca.
Era così simile alla Beckett dei primi tempi della loro conoscenza da fargli venire una nausea improvvisa. Era completamente ostile. Si chiese a che punto l'avesse persa. Perché non era la persona che si lasciava stringere per tutta la notte e che gli aveva concesso spazio per avvicinarsi. Si trovava davanti a qualcuno che aveva rialzato le sue corazze per qualche motivo che si ostinava a non volergli dire.
"È successo qualcosa? Sei... diversa". Ci andò piano con le definizioni, non voleva farla allontanare ancora di più.
"Non sono affatto diversa. Lo hai detto tu, io devo tornare al lavoro, tu da Alexis, e il traffico", ripeté esattamente le sue parole, con un lieve tono di scherno.
"Siamo sempre noi?", chiese come ultimo, impacciato, tentativo.
Lei si voltò con uno sguardo di pura sofferenza, che lui non seppe interpretare, se non nella maniera più ovvia, senza porsi nessun dubbio a riguardo, cosa che fece deragliare tutto. "Non c'è nessun noi", lo informò con fare glaciale che lo mandò su tutte le furie.

Bene, quindi era così, si disse. Era finita qui. Il loro folle, inaspettato week end terminava in quel preciso istante, su una delle note più basse della sua vita. Non era quello che voleva, ma non poteva cambiare la realtà delle cose. Lei non provava niente. Non aveva nemmeno permesso che quel qualcosa di ineffabile, ma prezioso, che lui aveva sentito, ma che ancora non aveva un nome o una forma, prendesse vita. Non le importava nulla di quello che avevano condiviso.
"Bene. Preparo le mie cose e partiamo", la informò, smettendo di essere conciliante, e ritirandosi, anche lui, dietro all'orgoglio ferito.
Non doveva finire così. Ma a quel punto non era più possibile farla andare diversamente.
Il viaggio di ritorno si svolse prevalentemente in silenzio, intervallato da qualche comunicazione di servizio. La corsa in macchina di due giorni prima, spensierata e piena di eccitazione, era solo un lontano ricordo. Beckett trascorse tutto il tempo a guardare fuori dal finestrino, senza parlare.
Solo per un breve attimo gli sembrò che fosse possibile un contatto, quando lui le mise una mano sul ginocchio e lei non si scostò. Anzi, incontrò il suo sguardo. Gli parve che si aspettasse che lui dicesse qualcosa, ma non si risolse a farlo, nel timore di rovinare quel momento di tregua. Lei si ritrasse, allontanando la sua mano e lui tornò a concentrarsi alla guida, in silenzio, sentendosi sconfitto.

Arrivarono a Manhattan troppo presto. Parcheggiò sotto il suo palazzo e scese dall'auto per accompagnarla fino all'ingresso, senza sapere come comportarsi. Aveva la sensazione che qualcosa di speciale si fosse dissolto e temeva che non avrebbero mai più avuto occasione di metterlo nuovamente alla prova. Nonostante gli paresse di vivere in un incubo di cui non conosceva le dimensioni, non sapeva come colmare quella voragine che si era aperta tra di loro. L'intensità del loro sentimento li aveva travolti, ma questa violenza, declinata in senso contrario, rischiava di spazzarli via.
Kate lo osservò per qualche istante, non disse niente e lo abbandonò da solo sotto la pioggia sottile che aveva iniziato a cadere.

...

Trascorse un mese. Kate tornò al lavoro e si immerse nelle indagini, rimanendo in ufficio fino a tardi e rispondendo ai colleghi perlopiù a monosillabi. Le sue giornate erano lunghe e impegnative, il caldo rendeva le persone meno tolleranti e i casi di omicidio erano aumentati di conseguenza. Cercava di stordirsi con il lavoro, per arrivare a sera, buttarsi sul letto e perdere i sensi dalla stanchezza. Dormiva qualche ora e poi si svegliava, nervosa e irritabile, il sonno un ricordo lontano. Aveva coperto tutti i turni possibili, vivendo di cracker e caffè.

Le giornate di riposo erano la parte peggiore. Quale riposo? Non poteva smettere neanche per un momento di sentirsi triste e arrabbiata, e arrabbiata perché si sentiva triste. Voleva solo tornare alla sua vita di prima. Era così difficile? Aveva avuto una vita prima di Castle, e poteva riaverla. Solo, non sapeva come ritrovarla.
Non aveva mai preso in mano il telefono per chiamarlo. A che scopo? Per sentirlo chiacchierare della sua estate in tono mondano? Per scambiarsi i soliti convenevoli? Loro non avevano l'abitudine di telefonarsi solo per "sentirsi". Evidentemente, nemmeno adesso. Lui non si era fatto vivo. Era ovvio che ormai lei e il distretto non gli interessavano più. Aveva materiale per scrivere una cinquantina di romanzi, le aveva detto Espo. Per quanto la riguardava, li scrivesse pure tutti e ci vincesse dei premi.

Castle si trasferì negli Hamptons per terminare il romanzo, visto che si era imposto un allontanamento forzato dal distretto. Del resto non aveva nessun motivo per tornarci. O voglia. La stesura del libro andava a rilento, perché trascorreva la maggior parte del temo a cercare di non guardar fuori dalla finestra e ricordare i momenti passati insieme. Era doloroso starsene lì, ma New York non era grande abbastanza per contenerli entrambi. Così aveva preso la decisione di esiliarsi a chilometri di distanza da lei, senza aver voglia di vedere nessuno, imponendosi di scrivere, mangiare qualcosa, sopravvivere. Più spesso di quanto gli piacesse ammettere, andava nella camera degli ospiti, dove lei aveva dormito la prima notte, si sdraiava sopra le lenzuola, chiudeva gli occhi e non pensava a niente.

Qualche settimana dopo - il libro era ormai terminato -, fu costretto a tornare a casa. L'impatto con la città fu molto forte, perché a ogni angolo qualcosa gli ricordava lei.
Arrivò nel tardo pomeriggio, passò dal suo editore, tornò a casa, si sedette sul divano, si alzò dal divano e si disse che era arrivato il momento di smettere di stare così male. Di continuare a pensarci e di non riuscire ad andare avanti. Doveva parlarle un'ultima volta. Costringerla a dirgli in faccia che lei non aveva sentito quello che invece lui aveva sentito lui benissimo o che non le era sembrato abbastanza.
Giunto al distretto, si fece forza e salì. Salutò tutti con forzata allegria, mentre allungava lo sguardo cercandola. Esposito si parò davanti a lui, a braccia incrociate, fissandolo con aria truce.
"Che cosa ci fai qui, Castle?", gli chiese andando dritto al punto, per nulla amichevole.
"Sono passato per un saluto. Beckett non c'è?"
Si rese conto, con un tuffo al cuore, che la sua sedia non era più accanto alla scrivania.
"No, non c'è", rispose asciutto, senza aggiungere dettagli.
"È già andata a casa? Non è da lei", continuò con tono leggero, imponendosi di sorridere per non far trapelare nulla.
Ryan arrivò a far da spalla a Espo ed entrambi formarono una barriera compatta e ostile contro di lui.
"Che ti importa di Beckett?". Esposito aveva ormai abbandonato ogni forma di cortesia.
"Come che mi importa? Dai, ragazzi, passavo di qui e mi è sembrato naturale salire".
"La prossima volta prendi un'altra strada".
"Ok, è stato divertente, ma basta così. Che cosa vi succede?"
"Che cosa succede a noi? Tu, piuttosto. Che cosa le hai fatto?"
Se fossero stati seduti uno di fronte all'altro nella stanza degli interrogatori non avrebbe potuto essere più minaccioso di così.
"Non le ho fatto niente!", si difese Castle, arretrando impercettibilmente.
"A noi invece sembra che sia successo qualcosa", intervenne Ryan più conciliante del collega. "Qualcosa di brutto, per colpa tua".
"Lei vi ha detto che è stata colpa mia?"
"Lo vedi che allora abbiamo ragione?", replicò Espo, trionfante. "Che cosa è successo durante il vostro weekend? L'hai trattata male? Non ti vergogni?"
Era il colmo.
"Non ho fatto niente. Andava tutto benissimo e poi, di colpo, ha iniziato ad andare male, ma non so il motivo", confessò. Si tormentava da troppo tempo per tenerlo ancora per sé.
"Pensi che qualcuno ti crederebbe in tribunale? Ti sembra una storia convincente?", lo sferzò con sarcasmo.
"Non è una storia che mi sono inventato! È andata proprio così. E, comunque, sono affari nostri".
"Ok, se sono affari vostri, non venire qui a cercarla".
Capì che era inutile rimanere. Ora, a peggiorare la situazione, li aveva offesi. "Potete solo dirle che sono passato?"
"No", risposero all'unisono, girandogli le spalle.

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Capitolo 8
*** Otto ***


8

Castle non si diede per vinto. Se Beckett non era al distretto, poteva essere a casa. O forse era ovunque, ma preferiva essere ottimista e sperare di poterla trovare, e vedere, presto. Si fermò a comprare un mazzo di margherite vicino al suo appartamento e la sosta gli servì per calmare i nervi. Non aveva preparato nessun discorso, ma era fermo nel suo proposito di risolvere la questione una volta per tutte. Non si poteva andare avanti così. Lui non avrebbe retto.

Bussò alla porta con il cuore che gli batteva sempre più forte. Con suo grande sollievo sentì dei passi in avvicinamento. La porta si spalancò di colpo. Si trovò a fissare Beckett senza riuscire a dire una parola.
"Castle", ruppe lei il silenzio, sorpresa. "Che cosa ci fai qui?"
Non gli sembrò contenta di vederlo. Prima che trovasse un pretesto per allontanarlo le allungò il mazzo di fiori, in segno di pace. Ma nemmeno questo gesto fu in grado riscaldare l'atmosfera, anche se lei lo accettò senza fare nessuna obiezione.

"Grazie. Sono molto belle", mormorò a fatica. "Vuoi entrare?"
Fu un invito fatto con molta riluttanza, ma lui non se lo fece dire due volte e oltrepassò velocemente la soglia.
"È molto bello qui", le disse guardandosi intorno.
Vide di sfuggita lo specchio che avevano comprato insieme, appoggiato contro una parete, girato. Questo, insieme alla sua sedia scomparsa, non raccontavano una storia confortante. Non si perse d'animo, se la sarebbe giocata dando fondo a tutto il suo fascino, se si fosse reso necessario.
Kate si allontanò per mettere i fiori in un vaso e lui ne approfittò per osservarla meglio. Gli parve più magra del solito, sicuramente più stanca e non esattamente disponibile a un confronto, ma sempre splendida.
Invece di parlarle avrebbe voluto raggiungerla in cucina, abbracciarla e implorarla di non allontanarlo mai più. E tanti saluti al suo fascino.

Lei lo sorprese tornando da lui con due tazze di caffè. Gliene porse una, prima di sedersi nel punto più lontano del divano, raccogliendo le gambe sotto di sé.
"Sei tornato in città?"
"Sì, oggi. Sono passato al distretto, ma visto che non c'eri, ho pensato di venire a vedere il tuo nuovo appartamento".
Che cosa gli prendeva? Sembrava una visita di cortesia a una nuova amica settantenne che aveva appena conosciuto alla tombola.
"Molto gentile da parte tua", gli rispose con tono incolore, continuando a bere il suo caffè. Certo non lo stava aiutando ad alleggerire l'atmosfera, né sembrava avere intenzione di metterlo a suo agio, caffè a parte. Ma forse funzionava così con le amiche della tombola.
"Come stai?", le chiese appoggiando la tazza sul tavolino basso di fronte a lui. L'appartamento gli piaceva davvero. C'era molto di lei, molto più che nel precedente saltato per aria. La ritrovava in ogni dettaglio.
Da lettore accanito avrebbe desiderato alzarsi per leggere i titoli sui dorsi dei libri che aveva disseminato per tutta la casa, ma forse non era il momento giusto.
Era già infastidita dalla sua presenza, ci mancava solo che lo trovasse in bagno a spiare nel suo armadietto dei medicinali.
"Bene. Normale", rispose lei senza guardarlo in faccia. "Tu come stai?"
"Mi sei mancata". Sganciò la bomba che rimase in sospeso tra di loro. Lei lo fissò attonita per un lungo istante, mentre lui cercava nel suo viso la reazione alle sue parole.
Sapeva come erano fatti. Avrebbero potuto andare avanti ore e giorni, guardinghi, senza abbandonare la loro tana, rilanciando ogni volta la palla all'altro. Non ne sarebbero mai usciti. Qualcuno doveva sbloccare la situazione ed esporsi e quel qualcuno era lui. Giochi finiti. Adesso si faceva sul serio.

Lei rimase in silenzio per molto tempo, come se volesse sorvolare sulla sua confessione, ma poi sembrò decidere che se lui aveva messo le sue carte sul tavolo, allora l'avrebbe fatto anche lei.
"Non hai mai telefonato".
"E tu hai tolto la mia sedia al distretto".
"Che cosa c'entra adesso la tua sedia?", replicò brusca.
Era bastato poco per farla alterare. Doveva aver covato per settimane sentimenti poco piacevoli nei suoi confronti. Ecco perché sarebbe stato necessario parlarsi. Ma non era quello che erano abituati a fare. Parlarsi. 
"È così che andrà? Mi taglierai fuori dalla tua vita senza spiegazioni solo perché hai voluto provare un'esperienza che alla fine non ti è piaciuta?", la provocò irato, senza riuscire a controllarsi.
Dio lo perdonasse, non pensava quello che aveva detto. Non del tutto, almeno. E feriva soprattutto se stesso, immaginando che lei avesse gettato senza problemi quello che lui avrebbe invece voluto nutrire e custodire.

Ci volle qualche istante prima che in lei si facesse strada il senso delle accuse che lui le aveva lanciato. Poi si trasformò in una furia sotto i suoi occhi.
"Io ho voluto provare l'esperienza? Io ti ho tagliato fuori dalla mia vita? Ti ha dato di volta il cervello? Se è così che la pensi puoi andartene immediatamente. Non ho intenzione di stare ad ascoltarti" gli vomitò addosso.
"Sei tu a essere cambiata senza motivo. Quel mattino ti sei svegliata ed era tutto diverso".
E gli aveva detto che non c'era nessun noi. La parte più terrificante di tutte.
"Mi spiace molto rovinare questo bel quadretto che ti sei costruito in cui io sono la cattiva, ma se c'è qualcuno che mi ha letteralmente scaricato, quello sei tu".
La guardò con tanto d'occhi. "Sei impazzita?"
"Io non sono impazzita. Forse sei tu ad aver perso la memoria a breve termine", concluse sarcastica.
"Io ricordo tutto benissimo, invece. Siamo stati bene, molto bene e poi, all'improvviso, sei diventata distante, inaccessibile, come se non fosse successo niente tra di noi. O non te ne importasse". Non era così che aveva voluto che andasse il loro incontro, ma almeno si era tolto un enorme peso dalle spalle.
"Castle". La vide far uno sforzo per calmarsi prima di proseguire. "Hai iniziato a parlare di tornare a New York appena ho aperto gli occhi. Mi hai praticamente spinto fuori da casa tua. Questo te lo sei dimenticato Signor 'Io mi ricordo tutto?", gli fece il verso, imitando il suo tono e questo gli fece venire un po' da ridere.
"Il problema quindi è averti chiesto a che ora volessi tornare a casa?". Era tutto lì? Avevano perso cinque settimane di vita perché lui aveva sbagliato a fare una domanda? E cosa c'era poi di sbagliato in quella dannata domanda?
"Ti sembra normale?". Kate era l'espressione stessa della dignità offesa.
"Volevo solo sapere quali fossero i tuoi programmi per la giornata. Non potevo certo legarti e tenerti con me per tutta l'estate. Che, per inciso, era invece quello che volevo fare. Ma mi pare così ovvio che non ha nemmeno senso stare qui a doverlo spiegare". A questo punto era davvero arrabbiato. Avevano smesso di parlarsi per una cosa così idiota? Non poteva essere di certo quella la spiegazione. Doveva esserci dell'altro.

"Kate, non c'è bisogno di inventarti delle scuse", continuò, abbassando la voce. "Posso accettare che tu abbia avuto un ripensamento dopo aver capito che non era quello che volevi. Posso farmene una ragione, basta che me lo dici una volta per tutte e non ti chiudi nei tuoi silenzi di tomba da cui non riesco a tirarti fuori nemmeno strappandomi il sangue".
"Sei davvero convinto che ti abbia sedotto e poi abbandonato? Perché invece non potrebbe essere il contrario?"
Lui fece una risata forzata. "Dai, Kate, è impossibile. Lo sanno tutti...".
"Sanno tutti cosa?", insistette.
Castle fu distratto da un tuono in lontananza, che preannunciava un temporale estivo. L'interruzione gli servì per raccogliere le idee.
"Che non sto al distretto solo per i casi. Che aspetto tutti i giorni la tua telefonata per arrivare di corsa con una tazza di caffè sperando di strapparti un sorriso e che mi sento a casa solo quando mi siedo su quella sedia scomoda. Che tu hai tolto". Era un punto a cui teneva molto.
"Castle, tu non mi hai mai detto queste cose", mormorò sconvolta.
"Dai, Kate, lo vedrebbe anche un cieco", le rispose esasperato. "Inventati un'altra scusa".
"E allora perché mi regali dei fiori bianchi?", gli sbraitò addosso.
Lui la guardò senza capire.
"Cosa vuol dire che ti regalo fiori bianchi? Quali fiori?", chiese facendo fatica a concentrarsi sul nuovo argomento di discussione.
Lei allungò un braccio a indicare i fiori nel vaso: "Le margherite? Bianche. La rosa che mi hai portato in spiaggia? Bianca". Lo guardò come se il suo ragionamento fosse non solo logico, ma anche ovvio e scontato.
Lui aprì la mano che teneva stretta a pugno e mosse le dita intorpidite. "Mi stai dicendo che la base delle nostre incomprensioni è il mio pessimo gusto in ambito floreale?". Per la seconda volta, gli venne da ridere. Dal modo in cui cercava di non mordersi le labbra, era sicuro che stesse venendo da ridere anche a lei. Se ne sentì rincuorato.
"Anche quel tuo vestito che mi ha fatto impazzire era bianco, quindi? C'è qualcosa che non colgo?"
Non le piaceva il bianco? Lo avrebbe fatto scomparire dall'intero universo cromatico, se avesse voluto.

Tornò serio.
"Di cosa stiamo parlando esattamente, qui, Kate? Perché io non ho ancora capito qual è il problema. E non posso provare a risolverlo, se non so di cosa si tratta".
Si interruppe. Ripensò alla sua reazione, a quello che era riuscito a strapparle. Di come si era arrabbiata quando l'aveva accusata di averlo scaricato.
"Quindi... nemmeno tu volevi che finisse così? Non ti sei chiusa in te stessa perché non sapevi come dirmi che non era quello che volevi senza mettermi in imbarazzo?"
Erano stati due idioti. Due completi idioti.
"Certo che no", rispose offesa. "Pensavo che fossi tu a non sapere come affrontare il discorso".
"Io non volevo far altro che riportarti in quel maledetto letto e tenertici per quanto possibile. Però mi sembrava cortese e civile sapere i tuoi piani a riguardo".
"Tu volevi...", farfugliò lei esitante.
"Passare ogni istante del mio tempo con te? Sì. Portarti ogni week end libero negli Hamptons per averti tutta per me? Sì. Comprarti un maledetto specchio al giorno? Sì. Dormire nello stesso letto con te tutte le notti? Sì. Tenerti la mano in silenzio quando non vuoi parlare? Sì".
Non avrebbe saputo che cos'altro inventarsi per convincerla. E perché era tanto difficile farlo?
"Non potevi semplicemente dirmelo?"
"No, non potevo. Perché saresti scappata via spaventata. E perché non lo sapevo nemmeno io fino adesso che l'ho detto ad alta voce".
"Sapere cosa?".
"Che ti amo", rispose semplicemente, guardandola negli occhi finalmente libero e dando un nome a quello che sapeva dentro di sé da mesi, senza avere il coraggio di dirselo.
Lei rimase in silenzio, come se non riuscisse a rendere comprensibile a se stessa quello che aveva sentito e solo dopo un po' di tempo, quando aveva recuperato la padronanza di sé, ritrovò la voce.
"Usciamo", gli disse con tono deciso.
Lui la guardò a bocca aperta. Gesù, quella donna era spiazzante.
"Ma sta per piovere", obiettò.
"Dai, Castle, un po' di pioggia non ha mai ucciso nessuno".

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Capitolo 9
*** Nove ***


9

Scesero in strada e iniziarono a camminare senza meta.
Il cielo era plumbeo e il vento faceva volare foglie e cartacce, sferzando i muri degli edifici e scompigliandole i capelli che Kate tentava senza successo di allontanare dal viso.
Castle avrebbe voluto dirle che andava bene così.
"Va bene così, cosa?", chiese lei di punto in bianco.
L'aveva detto ad alta voce?
"I capelli. Sciolti. Ribelli".
"Ribelli?"
"Sono uno scrittore. È il mio lavoro usare aggettivi ispirati".
"Lo so benissimo, Castle. Come dimenticare 'Il vento le raccolse i capelli'? Una delle tue immagini più ispirate", lo prese in giro, ricordandogli la volta che l'aveva sorpreso presentandosi con un abito imprevisto a una lettura pubblica a cui aveva partecipato.
"È tutta questione di creatività. E di arte", rispose con tono superiore, scherzando a sua volta.
"L'arte, certo", annuì dandogli corda. "Perdonami, artista, se non so cogliere i significati misteriosi dei miei capelli ribelli".
"È solo perché non ti vedi come ti vedo io", le rispose improvvisamente serio, guardandola intensamente.
Kate sorvolò sul commento, anche se a lui parve di scorgere un piccolo sorriso che si affrettò a dissimulare.

Camminarono a lungo, sfiorandosi le spalle, parlando di cose di nessuna importanza, ridendo, fermandosi di tanto in tanto mentre la gente li superava di fretta, incuranti delle occhiate di rimprovero che venivano loro rivolte, ignari di ciò che avevano intorno.
Castle si scoprì spesso ad allungare un braccio d'istinto per aiutarla a evitare un ostacolo di cui non si era accorta o a fermarla prima che attraversasse con il rosso, divertito da questa Beckett con la testa tra le nuvole, che gli permetteva di essere gentile senza respingerlo e che accettava il contatto fisico senza ritrarsi.
"Sai dove mi piacerebbe continuare a fare questo, Castle?", gli chiese all'improvviso, bloccandosi.
"Potresti specificare meglio cosa intendi con questo?", rispose lui mettendole un braccio intorno ai fianchi. Lo faceva solo per la sua incolumità.
"Camminare. Sai che mi piace camminare", spiegò.
"Sì, me nei sono accorto", replicò facendo finta di essere stanco morto. "E, sentiamo, dove vorresti continuare la nostra maratona? Sono aperto a tutte le possibilità".
"No, non adesso. È troppo lontano", precisò.
"Niente è troppo lontano", la informò con aria solenne.
"È di nuovo la tua personalità artistica a parlare?", lo stuzzicò, mettendogli una mano sul petto, così vicini da sentire l'uno il respiro dell'altra.
"No, ma tu uccidi i miei tentativi di essere carino".
"Non hai bisogno di essere carino", sussurrò senza incontrare il suo sguardo.
Lui sentì una stretta al cuore. Era... speranza?
"Dove sarebbe questo posto irraggiungibile?"
"In spiaggia. Negli Hamptons. Non abbiamo avuto tempo per farlo".
La guardò stupito. Aveva capito giusto? Era la risposta a quello che lui le aveva detto nel suo appartamento, prima che lo costringesse a uscire e cambiasse discorso, facendo finta di niente? Poteva crederci?
"Davvero? Ti informo che la costa va avanti per chilometri. Dovremmo chiamare qualcuno per venire a recuperarci. Me di sicuro".
Riprese, cambiando tono: "E, comunque, no, non è troppo lontano. Quando vuoi...". Lei gli fece un sorriso dolce e si staccò da lui. Non era un sì, ma non era nemmeno un rifiuto categorico.

"Andiamo al parco", gli propose.
"Lo sai, vero, che quando c'è il temporale si deve stare lontani dagli alberi? Non te lo hanno insegnato a scuola? Non sei andata al campeggio estivo da piccola?"
"Non sta nemmeno piovendo. Che cosa vuoi che succeda?"
Poteva succedere di tutto, ma non se la sentì di rifiutare.
Si fermarono vicino alla statua di Balto e Castle ne approfittò per raccontarle di quando Alexis, da piccola, voleva vedere e rivedere quel cartone animato fino alla nausea e lo obbligava a portarla lì tutti i giorni, facendogli venire voglia di far sparire quel maledetto lupo dalla faccia della terra.
"Non è un lupo. E non è nemmeno un cane. È un eroe", protestò Beckett, imitando l'accento russo di uno di personaggi del cartone animato.
"Ti ho già detto quanto sei sexy quando parli russo?"
Finse di non aver sentito, forse c'erano ancora dei limiti alla loro ritrovata vicinanza. Sempre che si potesse definirla così. Preferiva andarci cauto.

"Ci sediamo qui?"
Gli indicò una panchina. Era dunque quella la loro meta? La statua di un lupo?
"Dovrei leggere significati particolari in questa proposta? Devo interpretare Balto come una specie di simbolo? Tipo l'indovinello della Sfinge?"
La sua mente si era già messa in moto.
"No, Castle...", iniziò pazientemente.
"No, non dirmelo! Devo arrivarci da solo".
Lo prese per un braccio e gli impose di sedersi accanto a lei.
"No, lascia in pace il povero Balto. Non nasconde nessun mistero".
"Ok, se lo dici tu", rispose per niente convinto. Lo sapeva che quel lupo era sospetto. L'aveva sempre saputo.

Lei si girò verso di lui, una gamba piegata sotto l'altra e fece un respiro profondo.
"Dobbiamo parlare...", iniziò a fatica. Castle saltò per aria.
"Sei impazzita? Mi hai fatto camminare per chilometri solo per farmi venire un colpo? E quali sono i tuoi successivi programmi? Farmi a pezzi e sotterrarmi?", replicò con autentico orrore.
Lei lo guardò esterrefatta, senza capire.
"La frase, Beckett, 'Dobbiamo parlare'. È la prima causa di morte tra gli esseri umani di sesso maschile. Come fai a non saperlo?", le spiegò con tono di riprovazione.
"Tu dovresti farti vedere da qualcuno, Castle. Seriamente", lo redarguì. "In ogni caso avevo solo intenzione di parlare, senza nessun misterioso complotto sotto. Vorrei dire alcune cose, se mi è concesso farlo senza essere interrotta e senza che tu paventi l'arrivo dell'Apocalisse. Credi ti sia possibile?"
Gli aveva parlato in tono calmo, come se temesse sul serio di trovarsi di fronte a uno squilibrato. La cosa lo divertì immensamente.
Finse di sigillarsi le labbra, annuendo.

"Castle, tu mi piaci davvero, davvero tanto".
"Oddio, sento le campane a morto", si abbatté lui passandosi una mano sulla fronte, rompendo subito la promessa di fare silenzio.
Lei si mise a ridere. "Castle, smettila! Non possiamo stare qui tutta la notte", lo rimproverò, senza riuscire a tornare seria.
"Smettila tu di spaventare così la gente. Ok, ok, scusa. Prego, parla".
Lei appoggiò distrattamente una mano sulla sua gamba, prima di ricominciare il discorso. Lui pensò che non doveva essere un segno infausto. Ma non era ancora del tutto tranquillo.
"Mi piace stare con te e lavorare con te. Mi è piaciuto il nostro week end, almeno fino a prima che finisse in modo precipitoso. Sei divertente, creativo, generoso, tocchi le cose..."
"Come sarebbe 'tocco le cose'?", la interruppe, indignato.
Lei gli lanciò un'occhiata di fuoco, intimandogli di tacere una volta per tutte.
"Ma, più di tutto, mi piace perché fai sembrare tutto, il mondo, la vita, un'avventura. E non so più come potrei farne a meno".

Seguirono silenzio e occhi bassi. "Ma...", continuò a disagio.
"Se dopo quel ma c'è un "non può funzionare", ti informo che il sistema operativo non riconosce il comando".
Lei sorrise, un po' triste. "Dai, smettila di scherzare...".
"Io smetto di scherzare, ma tu smetti di essere pessimista".
"Non sono pessimista! Hai visto anche tu come è andata a finire!", si difese lei.
"Sì, l'ho visto. Ma ho anche visto come siamo stati bene e come potremmo stare bene, in futuro e per sempre".
"Ma se sono bastati due giorni per allontanarci per intere settimane!"
"Perché c'è ancora da mettere a posto qualcosa...", convenne lui, conciliante.
"Castle, non siamo neanche capaci di comunicare", sbottò esasperata. "Continuiamo a imbatterci in incomprensioni perché non sappiamo nemmeno dirci le cose! Guarda che cosa è successo per una frase sbagliata...".

Le scostò una ciocca di capelli dal viso e gliela mise dietro l'orecchio. Stava per iniziare a rispondere, in modo più organico e sensato, e, sperava, convincente, quando iniziarono a cadere le prime grosse gocce di pioggia, proprio come lui aveva previsto.
Si alzarono insieme, gridando mentre lo scroscio di acqua si faceva sempre più violento. In un attimo furono entrambi fradici. Corsero in strada, ed erano quasi fuori dal parco, quando Castle la fermò bruscamente, prendendola per un braccio e ruotandola verso di sé. Non poteva aspettare oltre.
"Kate, vuoi la certezza che funzionerà? Non ce l'abbiamo. E, sì, probabilmente è un follia. Vuoi fare questa follia con me?", le chiese incurante della pioggia che lo stava accecando e delle raffiche di vento che rendevano difficile mantenere un equilibro.
La vide aprirsi in un sorriso irresistibile.
"E se faremo casino?", gli domandò.
"Ma certo che faremo casino. E poi lo rimetteremo a posto. E poi rifaremo casino. E poi... ci troveremo sposati da cinquant'anni".
Forse era azzardato, ma in fondo perché no?
"Per il momento mi basta la promessa di avere pancake a colazione".
"Pancake tutte le mattine. E tutti i caffè che vuoi. Ti lascerò perfino scegliere in quale parte del letto dormire, perché mi aspetto di farlo con te tutte le notti. E basta rose bianche, o qualsiasi cosa bianca..."
Il suo lungo sconclusionato discorso venne presto interrotto dalle labbra di Kate che lo zittirono per molto, molto tempo.

- The End

Grazie a tutti per aver seguito anche questa vecchia storia! Silvia

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