Il museo delle anime vive

di Wastingthedawn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuti ***
Capitolo 2: *** Il messia ***
Capitolo 3: *** Hotel Grassi PRIMA PARTE ***
Capitolo 4: *** Hotel Grassi SECONDA PARTE ***
Capitolo 5: *** La nuova opera ***



Capitolo 1
*** Benvenuti ***


“Buonasera, gentili ospiti.

Mi scuso per avervi fatto attendere alcuni minuti nel salone antistante, non era previsto.

La puntualità è uno dei pilastri fondamentali del Museo delle Anime Vive dell’illustre Dottor Emeritus, il nostro amato e rispettabile benefattore.

Il dottor Emeritus non può essere qui con noi stanotte, a causa di incresciosi impegni che lo tengono bloccato alla sua scrivania.

Ma si è premurato di farvi sapere che ci osserva dall’alto del suo ufficio con un smagliante sorriso e l’orgoglio che solo un collezionista d’arte così scrupoloso ed eclettico come lui può provare.

Perdonatemi di nuovo, non mi sono presentato: io sono il signor “Où” e vi accompagnerò alla scoperta di alcuni dei più interessanti capolavori dell’arte occulta che siano mai stati realizzati in questo universo…così come negli altri.

Non temete, nulla di esoterico o New Age, non vedrete certo divinità pagane impresse sulle tele dei nostri cari artisti innominabili.

Sì, i nostri artisti sono senza nome, per scelta. Hanno deciso di annullare completamente la loro identità, la loro individualità, il loro ego, distruggendo qualsiasi illusione di separazione.

I nostri artisti sono migliaia, ma è come se fossero diventati una sola grande mente, una sola grande anima. Avete mai sentito parlare della dottrina di Plotino?

Oh, sto divagando.

Beh, se avete scelto di recarvi al museo delle anime vive, sapete che tutto qui è molto… inusuale.

Sì, proprio così.

A partire dal fatto che, come ben saprete, è permesso visitare il museo solamente dalle due di notte alle cinque del mattino, non vogliamo certo disturbare i nostri…ospiti.

Non sono permesse fotografie; sapete, gli artisti sono così scaramantici, pensano ancora che le loro anime possano imprimersi, in qualche maniera, sulla pellicola.

Noi rispettiamo ogni idea, ogni scelta e ogni piccola superstizione; amiamo i nostri artisti.

Dopo tutto, questa è casa loro..

Seguitemi, in silenzio e composti, signore e signori e…oh, ci sono anche dei bambini. Che meraviglia!

Prego, vi farò strada lungo i corridoi del nostro umile palazzo, e vi guiderò in un viaggio nel cuore dell’arte…viva.

Sì, signora? Oh be, non ci è permesso rivelarvi nulla di personale sugli artisti che.. “dimorano” qui, né tanto meno possiamo permetterci di spendere il già poco tempo a disposizione parlando di chi ha già detto tutto su di sé tramite i dipinte.

Altre domande?

Oh signore, credevo di aver già risposto… Questa galleria d’arte si intitola “delle anime vive” perché le tele LETTERALMENTE respirano, vivono di vita propria, hanno dato alla luce veri universi paralleli.

Il dottor Emeritus è sempre stato un appassionato di arti occulte, e un convinto Jungiano; crede con assoluta certezza che le nostre esperienze oniriche, le nostre fantasie, non vengano mai prodotte dal nulla, ma siano sempre in qualche modo un portale verso un universo…diciamo fratello del nostro, parallelo come solevo spiegarvi poc’anzi.

Bene, possiamo addentrarci verso il salone principale, la camera rossa.

Nome insolito? Sapete, il confine tra dolore e piacere non è mai così marcato e definito.

Se pensate all’estasi dei Santi, molti vostri dubbi verranno chiariti.

Le stanze rosse sono conosciute per essere luoghi di tortura e liberazione dei più oscuri e intimi desideri proibiti, dove appagare tanto la sete di sangue quanto la libido.

Ahhha signore vi prego non scambiatevi quegli sguardi allarmati, siamo in un museo; nessuno vi torcerà un capello.

Questo nome è stato scelto in senso allegorico, una metafora, un filo conduttore per comprendere meglio la natura delle opere che andremo a…vivere.

Prestate attenzione al pavimento sul quale state poggiando i vostri bei piedi, è ossidiana, una pietra levigata e scurissima; le pareti sono tappezzate di kashmir cremisi, lasciatevi avvolgere da questa aura sensuale e tenebrosa.

Vi avverto, però: le esperienze sensoriali del Museo delle Anime Vive possono essere particolarmente… “intense”. Potreste soffrire di qualche leggera allucinazione, avvertire l’impulso incontrollato di prender sonno e stendervi sul freddo pavimento, che vi sembrerà tuttavia il più comodo dei giacigli se cadrete in questa meravigliosa trance.

Solo la visione di queste opere, l’uso dei colori, la direzione delle pennellate, potrà permettervi di accedere, per pochi secondi, all’universo parallelo che l’artista in questione ha creato.

Perciò lasciatevi sopraffare da questa energia, rilassatevi ed entrare nello stato di coscienza alterata, mentre il vostro fedele Signor “Où” vi guida alla scoperta di questo magico giardino dei capolavori occulti.

 

Siete pronti, signore, signori, bambini? La nostra prima opera si intitola “ Riti di passaggio”.

Nome insolito, così come è insolito il soggetto, non è così?

Ditemi, cosa vedete?

Bravissima piccolina, è un coniglietto rosa.

O meglio,  una persona travestita da coniglietto.

E’ in piedi, tutto solo, in mezzo a una foresta nera come la pece. Vedete, l’artista in questione ha voluto rappresentare, a suo modo, l’abbandono dell’infanzia e il tuffo nell’età adulta.

Tutti noi affrontiamo delle sfide, delle prove, che ci consacrano alla maturità.

Prestate attenzione a questo dipinto: il contrasto tra il rosa intenso del manto sintetico, e il verde scuro delle foglie di pino; il terriccio bagnato che sporca i piedi del nostro simpatico personaggio; lo sguardo vitreo della maschera di peluche, e…oh! Iniziate a sentirla, quella voce? Sì, è una voce in lontananza, una voce di ragazza. Anzi, un grido! Disperato oserei dire. Che mai starà succedendo nell’universo creato dal nostro artista ignoto?

Vedo molte facce ipnotizzate, eccellente.

State avendo il vostro primo viaggio, quindi godetevi la storia che sta dietro a questo capolavoro.


Nota: Si tratta di una raccolta di storie dell'horror/inquietanti, per ognuna delle quali corrisponde un quadro presente in questa galleria immaginaria. Se posso consigliarvi, ho immaginato la voce del signor Où come disgustosamente meliflua e cantilenante, stile Mr Burns dei Simpson ma ancora più grottesco. Spero vi possa piacere, questa è l'introduzione. Troverete subito una seconda storia per essere catapultati nell'universo di questi artisti.
Ps: Mi sono vagamente ispirata al racconto "Il modello di Pickman" di H.P. Lovecraft

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Capitolo 2
*** Il messia ***


“Siete rinvenuti, miei cari ospiti.
Avverto lo sgomento e la paura che provate; avete appena vissuto un incubo ad occhi aperti, non è forse così?
Orribile, davvero orribile, una tela sconcertante, e non è una delle più intense devo dire. Cosa? Qualcuno sta piangendo? Oh, signori, bambini, è perfettamente normale tutto ciò.
Sapevate che la visita in questo luogo è un’esperienza “disumana”, per tanto chiunque volesse abbandonare la visita guidata può farlo.
Sì, capisco. Non ci riuscite, vero? Siete ipnotizzati, venite attratti dai colori vividi e brillanti contro la vostra volontà. Sperimenterete la trance fino alla fine del percorso, e non vi piacerà.
Anzi, vi disgusterà, vi rattristerà, vi shockerà, vorrete cavarvi gli occhi, tapparvi le orecchie pur di non essere testimoni di ciò che vivrete durante la vostra allucinazione.
Eppure non ve ne andrete, anche se nessuno vi sta trattenendo contro la vostra volontà.
Quindi, per non perdere ulteriore tempo, lasciate che vi introduca il nostro prossimo quadro: l’artista in questione ha un dono per i dipinti paesaggistici, e ha deciso di dare anima e corpo in questa splendida veduta dall’alto su di una foresta di sempreverdi.
Che magnificenza! La natura, così pura e così…crudele.
Sì, sta iniziando l’allucinazione uditiva, ma non temete, presto la vostra mente si popolerà di immagini vivide e realistiche.
Intanto, ascoltate ciò che la voce che esce da questo dipinto ha da dirvi.
Chissà che mistero si cela dietro una tela tanto enigmatica, intitolata: “Il Messia”.

 
Il messia

 
Le creature viscide si erano prese mio fratello.
Erano venute all’alba, a cavallo dei loro destrieri ruggenti, quegli strani esseri a quattro zampe, veloci come nessun altro animale che dimorava nella foresta; producevano un rumore assordante, un  ronzio che ogni volta era in grado svegliare tutti noi, disturbando la nostra quiete e lasciando presagire le eminenti sciagure.
Il mio popolo aveva abitato in quelle terre fin dall’alba dei tempi, si era evoluto col passare delle ere e aveva contribuito a dare una casa a tutti gli essere viventi che, a poco a poco, avevano cominciato a svilupparsi e a diffondersi.
Nessun animale ha mai causato danni al mio popolo, e noi siamo sempre stati più che disponibili a coesistere pacificamente con loro, in armonia.
Poi, un giorno, sono arrivate le creature.
Immagino lo sgomento quando i miei antenati hanno visto per la prima volta questi esseri informi, piccoli e per questo apparentemente innocui.
Apparentemente.
Provavamo un certo ribrezzo nel vederli aggirarsi tra le nostre terre, con la loro superficie molliccia, le quattro protuberanze ballonzolanti che si trascinavano appresso, attaccate a quel tronco piccolo e tozzo
A volte li osservavamo, impotenti, mentre davano la caccia a qualche animale selvatico, mentre lottavano tra di loro, mentre…
Mentre ci mutilavano.
Mentre ci ferivano, mentre uccidevano alcuni di noi.
Ho visto i mostri arrampicarsi sui miei simili, portarsi a casa dei pezzi del loro corpo, come trofei.
Mio padre mi spiegava che era così che andava il mondo: da quando le creature viscide erano state date alla luce, i nostri simili non potevano più dirsi al sicuro; dovevamo accettare che i mostri si prendessero ciò che desideravano da noi, senza poter far nulla per fermarli.
Ho vissuto secoli nella foresta, cullato dal dolce vento che mi accarezza le foglie, nutrendomi del terreno dove le mie radici sono ben piantate a terra: non ho mai avuto bisogno di uccidere per sopravvivere, così come nessuno del mio popolo ha mai fatto lo stesso.
Gli animali, erbivori o carnivori che fossero, non ci hanno mai torturato; se mai dobbiamo temere qualcosa, quelle sono le intemperie, e i fulmini.
Ma madre natura si è sempre presa cura dei suoi figli, e noi siamo i guardiani del suo creato.
Non potevo credere che ci lasciasse in balia delle creature viscide.
Mio padre, una sequoia ormai ultracentenaria, spiegava a me e ai miei fratelli che la nostra madre era madre anche delle creature, e affinché anche loro sopravvivessero, gli permetteva di farci questo.
“Mors tua vita mea”, ripeteva sempre.
Provavo un disgusto indicibile.
Come potevo accettare tutto questo?
Come potevo accettare di sapere che nel mondo, grida disperate si elevavano al cielo, ogni qual volta i mostri brandivano un’accetta e la usavano per colpire un mio simile.
Presto tutti noi saremmo stati spazzati via, rasi al suolo per accontentare i capricci di quelle disgustose bestie che, nei secoli, erano diventate sempre più fameliche.
Ormai non ci usavano più solo per sopravvivere, ma per procurarsi agi inutili.
No, non avrei potuto conviverci a lungo.
La mattina che sono venuti per mio fratello, tutto è cambiato.
Sono arrivati a dorso di quella bestia metallica, come per farsi subito temere, per stabilire il loro dominio.
Hanno brandito quell’arma dentellata di cui ci raccontavano gli alberi più giovani, i quali erano più sensibili al passaparola di informazioni che saettava da foresta a foresta, e si sono avventati sulla mia dinastia.
Sentivo dire che le creature sono sorde, non riescono ad avvertire i rumori che noi produciamo, perciò la loro crudeltà deriva dall’incapacità di udire le grida di dolore che lanciamo mentre maciullano i nostri corpi.
Tutte stronzate.
Mentre facevano a pezzi mio fratello, lentamente e senza sosta, non potevo credere che non avvertissero minimamente il suo pianto disperato, il rantolo che gli è uscito quando è caduto definitivamente a terra, morto.
Le loro fattezze informi, il corpo privo di corteccia, il colorito di un bianco sporco, così innaturale…ogni cosa mi faceva ribrezzo.
Pensai di nuovo alle parole di mio padre e mi chiesi: “ se la nostra morte permette a loro di vivere… la nostra vita sarà garantita dalla loro morte”.
Quella notte ci pensai a lungo, pensai che doveva esserci un modo per noi alberi di ribellarci.
Noi, esseri primigeni, autotrofi e indipendenti, primi figli della Dea madre natura, dovevamo nascondere molti altri poteri di cui non eravamo a conoscenza.
Lasciai che la rabbia montasse, che nella mia linfa scorresse l’odio puro, e a poco a poco ho sentito che riuscivo a muovermi sempre di più.
Pregai la dea madre, la supplicai di permetterci di rimediare all’errore che aveva commesso, quando aveva creato i mostri viscidi.
Le mie preghiere vennero ascoltate.
Il giorno dopo, erano lì per me.
Avevano portato un altro animale meccanico, più grosso e robusto.
Tuttavia, non avevano fatto in tempo ad accenderlo.
Con una zaffata scaraventai il primo ominide biancastro dall’altra parte della foresta, facendolo ruzzolare giù per una scarpata.
Poi, con decisione, afferrai il secondo mostro, più grassoccio e maleodorante del primo, e lo stritolai fino a fargli uscire dal corpo tutta quella melmosa linfa rosso scuro che li compone.
Ho provato un moto di disgusto, ma è stato un piacere sentirlo strillare di terrore e dolore.
Noi sì che siamo in grado di udirli.
Tutta la foresta mi guardava, in un misto di shock ed ammirazione; quando sentii il tronco di uno dei miei fratelli alle mie spalle, provai un forte orgoglio.
La foresta si stava risvegliando.
Il mio popolo stava staccando, non senza fatica, le radici dal terreno e stava, lentamente, avanzando verso le creature immonde.
Presto, più di un centinaio di sequoie stava marciando verso la “foresta di umani” più vicina, cantando di gioia e richiamando tutti gli alberi di tutte le foreste di tutto il mondo.
Inutile dire che, quando ci videro arrivare, i mostri iniziarono a urlare e scappare.
Esatto, figli di puttana, finalmente saprete cosa si prova, pensai tra me e me.
I miei rami entravano nelle finestre delle loro abitazioni, infrangevano i vetri e stritolavano ogni creatura che gli capitava a tiro.
Dovette fare lo stesso con i loro figli: quei piccoli germogli non avevano colpa, ancora, però sapevo che dovevo farlo; ne andava del bene del mio popolo, di nostra madre.
Infilzai un umanoide dal tronco fino e scuro, mi rimasero le sue nauseabonde interiora attaccate ad alcune foglie.
Man mano che marciavamo, distruggevamo case e strada, risvegliavamo i fratelli che erano stati cresciuti in cattività, resi prigionieri nei loro recinti e nei loro parchi, e continuavamo la devastazione.
Ci vollero quasi una decina di anni, ma alla fine l’impresa fu terminata.
Ogni singolo mostro era stato annientato.
La schifosa melma grigia che avevano cosparso sul terreno venne completamente coperta dalle nostre cugine piante, e tutto ciò che è stato costruito da loro non è quasi più visibile.
Ora so perché la madre ci ha sottoposti a questa prova: voleva che dimostrassimo il suo amore per lei, che annientassimo i mostri e che ci riprendessimo ciò che è nostro.
Molti dei fratelli sono periti, le crudeli creature hanno tentato di sopprimerci e incendiarci, e alla fine hanno fallito.
Le mie radici sono di nuovo ben piantate nel terreno, la popolazione cresce sempre più forte e rigogliosa; vengo chiamato il Messia, colui che per primo ha preso posizione e dato inizio alla lotta.
Che il mio popolo possa nuovamente vivere in pace e in armonia, e che nessun altro mostro possa mai più svilupparsi sul nostro pianeta.
 
 

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Capitolo 3
*** Hotel Grassi PRIMA PARTE ***


Prima Parte

 
 “Che spettacolo miei signori, che spettacolo…
Sono sempre io, il signor Où. Riconoscete la mia voce, non è vero?
Certo certo, vi lascio qualche secondo per riprendervi.
Vedo facce disgustate, facce addolorate, facce sofferenti; lo avete sentito, il pugno allo stomaco, giusto?
Vedete, ciò che il Museo delle Anime Vive offre e che non troverete mai in nessun’altra galleria d’arte al mondo, è l’esperienza diretta.
VIVA.
La sensazione di quei grossi rami ruvidi che vi stringono in vita, la vista di quelle povere persone massacrate, raccapricciante!
Oh, perdonate, a stento trattengo l’emozione; pensare ai che gioielli dell’arte occulta possediamo mi causa brividi di orgoglio e piacere lungo tutta la spina dorsale.
Ma andiamo avanti, ormai i vostri occhi bramano ancora storie, visioni, colori, sensazioni e, per quanto stiate internamente morendo dentro, non ne potete fare a meno.
Già, nessuno ne potrà più fare a meno.
Bambina, scuoti la testa? Bhè, se tutto questo ti turba, molla la mano della tua mamma e corri fuori, nessuno te lo impedirà.
Come pensavo, voi non ne potete più fare a meno.
Tenete duro, l’ipnosi finirà presto.
Quindi scopriamo insieme la tela numero tre, e la storia che si è originata pennellata dopo pennellata.
Ah, meravigliosa! Assolutamente un capolavoro, siete davvero molto fortunati, miei cari avventori.
Non mi stanco mai di ammirare la giustapposizione di colori caldi e freddi, lo sfondo nero pece, questa notte senza stelle che avvolge il paesaggio urbano in cui emerge l’edificio di mattoni rossi; adoro come l’artista ha sfumato le varie tonalità di arancione per rendere l’effetto delle luci al neon che costituiscono l’insegna luminosa..
Secondo voi sta piovendo?
Io credo di sì: se notate, gli idranti sono circondati da alcune pozzanghere, sulle quali si riflette il luogo in cui state per essere risucchiati.
Godetevi lo spettacolo, e lasciatevi rapire da una delle allucinazioni più forti e sconvolgenti che potrete mai vivere: “L’Hotel Grassi”.
 
Tela numero tre: L’Hotel Grassi.
 
Judith osserva la logora metropolitana mentre rallenta, per poi fermarsi davanti di lei.
Non c’è nessuno a quella fermata, quella è l’ultima corsa.
Nell’esatto momento in cui le porte si aprono, un tanfo acido la raggiunge e la investe, facendole lacrimare gli occhi e obbligandola a coprirsi naso e bocca con la mano.
Detesta la città, detesta i mezzi pubblici; abituata com’è alla vita in campagna e agli spazi aperti, venire fin lì in una Metropoli come quella le causa non pochi fastidi.
E ansia.
Prende posto su un sedile pieno zeppo di graffiti, si aggiusta lo scialle sulle spalle e  inizia il conto mentale delle fermate che la separano da quella alla quale deve scendere; quella che la condurrà in hotel.
L’Hotel Grassi, quello che le ha indicato sua zia nel biglietto, permette il check – in fino a l’una di notte.
Per qualche strana ragione, nel suo testamento, la zia ha esplicitamente chiesto che la giovane si recasse in quel preciso hotel, senza aggiungere altre esplicazioni se non quella che il notaio, un certo Dottor Rosemberg, ha l’ufficio nell’edificio accanto.
Judith tiene la valigetta stretta tra i polpacci, ha sentito parlare di borseggiatori e delinquentelli che bazzicano abitualmente quegli ambiente; non può permettersi di essere rapinata, lì dentro ha il biglietto di ritorno per Salt Lake City.
Di fronte a lei, nota che ci sono tre persone sedute: due donne di mezza età, che le sorridono gentilmente, e un terzo individuo tra loro, incappucciato e con la testa china sul proprio petto; deve essersi addormentato, o devi sentirsi poco bene.
Le due donne lo tengono su per le braccia, sembrano così tranquille e serene che, pensa Judith, probabilmente sono abituate a quegli attacchi di improvvisa sonnolenza.
Manca una fermata alla sua meta, quando all’improvviso si sente scuotere dalle spalle: “ Signorina, deve scendere”, le fa un giovane di appena trent’anni, gentilmente ma con decisione.
Judith scuote la testa, gli indica con un dito che la sua fermata è la prossima, eppure non batte ciglio e si alza immediatamente quando il giovane, a denti stretti, le sussurra: “l’uomo seduto di fronte a lei è deceduto”.
 Nel esatto momento in cui le porte si aprono, il giovane estraneo si catapulta fuori dalla metro, tendendo la mano alla ragazza che, voltatasi ad osservare meglio le due donne, nota che queste stanno ora sghignazzando di tutto gusto.
Il cuore le batte all’impazzata, non può davvero credere a ciò che ha appena visto.
“Sta bene, signorina?”, le chiede l’uomo, passandosi una mano tra i folti capelli corvini.
Judith annuisce, la bocca dischiusa in un’espressione di shock.
“Mi scusi, non ho potuto non trascinarla fuori. Sono un medico e ho notato subito che c’èra qualcosa che non andava: prima che trovassero da sedersi, ho tastato di nascosto il polso dell’uomo. Non batteva.”
Judith deglutisce, vorrebbe chiedere al medico perché non ha chiamato la polizia, o è intervenuto in qualche modo.
Vorrebbe, ma preferisce non estrarre il taccuino dalla sua giacca.
“Dove deve andare? Non mi fraintenda, è che lei si trova in una zona particolarmente malfamata. Mi sento in dovere di accompagnarla fino a un taxi”.
A quel punto, Judith estrae l’indirizzo dell’Hotel Grassi, e lo porge all’uomo.
“Oh, conosco la zona. Non è propriamente il posto dove passerei la zona se fossi una ragazza da sola…non che io volessi dire…cioè non pensi che le stia dando della…naive”, l’uomo arrossisce, e Judith ride silenziosamente.
“Lei, signorina…parla la mia lingua?”.
Judith annuisce, per poi tastarsi la gola in un gesto emblematico.
L’uomo comprende immediatamente: mutismo.
“Dalla nascita?”, chiede, con imbarazzo.
Judith scuote la testa, un’espressione triste le attraversa il candido volto.
L’uomo decide che è meglio non indagare oltre: “ Mi chiamo Matthew, sono un medico forense. Sono in ferie ma sa, gli orari… per me è difficile uscire di giorno e dormire di notte.
Credo che diventerò allergico al sole, come un vampiro”.
Judith sorride di nuovo, estrae il suo taccuino e scrive su una pagina bianca: “Judith, piacere mio”.
I due si stringono la mano.
“Venga, l’Hotel che sta cercando è a meno di un chilometro di strada”.
I due risalgono in superficie e iniziano a percorrere la strada che conduce all’hotel, tentando di ripararsi dalla pioggia fine che ha iniziato a cadere.
Matthew è incuriosito da Judith, questa minuta ragazza mormone che, completamente sola, si avventura in un quartiere a dir poco raccomandabile.
Judith spiega, scribacchiando velocemente sulle pagine del taccuino, che si trova lì per il funerale di sua zia Mary, la sorella del padre.
Mary se n’era andata dalla comunità quando Judith era poco più che una bambina, e da allora non l’aveva mai più rivista; ciò nonostante, a discapito delle avvertenze della madre sui pericoli di una città come quelle, Judith aveva deciso di recarsi al suo funerale quando le era arrivata la lettera da parte del testamentario della zia.
Coraggiosa, è stata molto coraggiosa, le dice Matthew, un po’ per galvanizzare questa giovane donna che appare così chiusa e spaesata.
Finalmente, giungono di fronte all’Hotel Grassi.
Un palazzo grigio con le pareti tappezzate di muffa, le inferiate alle finestre del piano terra e una scalinata sulla cui superficie erano spiaccicati diversi mozziconi di sigaretta.
Le luci al neon lampeggiano irregolarmente, probabilmente stanno per fulminarsi del tutto.
In lontananza si ode una volante della polizia, e Judith avverte uno strano brivido correrle lungo la schiena.
Matthew le chiede se è sicura di voler passare la notte lì; potrebbe trovarle un posto migliore, o farla dormire a casa sua: per una notte, lui non avrebbe problemi a dormire sul divano.
C’è qualcosa, in quell’ostentata gentilezza, che infastidisce non poco Judith: gli fa cenno con la testa che è arrivata, come per fargli capire che è il momento che se ne vada.
L’unica cosa che la giovane vuole fare, adesso, è farsi una doccia calda e stendersi sul letto per qualche ora.
Matthew si accomiata, poco convinto, e le augura buona fortuna.
“Cazzo, cazzo”, pensa tra sé Matthew: fino ad allora aveva accompagnato persone anziane, reietti della società… Era con quelli che si faceva lo scambio, persone inutili di cui nessuno avremmo sentito la mancanza.
Non gli era mai capitata una ragazza come lei.
“Pazienza, non posso farci nulla”, si ripete, mentre torna a casa.
 
Judith lo osserva allontanarsi, crucciata, per poi decidersi a salire la piccola rampa ed entrare nell’edificio.
L’Hotel Grassi presenta una hall abbastanza piccola, con moquette verde pino, pareti bianco sporco, pregne in alcuni punti di macchie di muffa verdastra.
Sedute su delle poltrone ricoperte da una trapunta di lana merino dai colori sgargianti, vi sono due donne che giocano a carte.
Judith si sporge per vederle meglio in faccia ma, all’improvviso, ode una voce chiamarla:
 “ Signorina Judith Dawson?”.
Un uomo tarchiato, dal volto greve e con pochi, radi capelli grigi, la fissa con espressione annoiata.
Il sottogola è flaccido e cadente, le sopracciglia sono folte e grigie, e le labbra sono talmente tanto fini da conferire al receptionist l’aspetto di una foca.
Judith annuisce, estrai la lettera che le ha indirizzato sua zia e attende pazientemente mentre l’uomo controlla nell’archivio: “Sì, Judith Dawson. Sua zia le ha pagato la stanza 106 per questa notte. Colazione, lenzuola e asciugamani inclusi.
L’acqua ci mette spesso un po’ a venir giù limpida, quindi le conviene aspettare sempre un po’ prima di mettere le mani nel lavello…in ogni caso non la beva neanche quando sembra bella chiara”.
Judith annuisce di nuovo,  a disagio.
“Secondo piano”, la incalza l’uomo, come se volesse togliersela dai piedi.
Dopo aver firmato e avergli restituito la penna, la giovane prende la valigetta e si appresta a salire le scale, quando un dettaglio cattura la sua attenzione: la chioma rosso fuoco di una delle due donne sedute alle poltrone, la risata di entrambe.
Sono le donne della metropolitana?
No, impossibile, è semplicemente stanca e disorientata; suggestione.
Ha bisogno di stare sola, chiudersi nella sua stanza, pregare e dormire.
Spera che il momento in cui siederà sull’autobus diretto a casa arrivi molto, molto presto.
Mentre sale le scale a chioccola, il cui corrimano è pieno zeppo di polvere e ragnatele, nota una bambina che sta scarabocchiando con i colori a cera su di un foglio di carta assorbente.
La foga con cui preme i bastoncini sul foglio fa pensare che la piccola sia nervosa, o arrabbiata.
Judith si inchina di fronte a lei, e le sorride.
Quando la bambina alza lo sguardo, Judith ha un moto di disgusto: il volto della ragazzina è completamente ustionato, le labbra sono inesistenti e lasciano intravvedere le gengive rosa e una fila di denti bianchissimi, come porcellana; la pelle del viso è raggrinzita, due piccoli buchi simmetrici hanno sostituito il naso, e uno dei due occhi ha perso completamente la vista.
Judith deglutisce, tenta di ricomporsi e di fingere di non essersi spaventata.
“Il mio fratellino era morto. Mamma mi diceva sempre di non giocare così, che anche le formiche erano delle creature. Io volevo solo farlo divertire, piangeva sempre. Non pensavo che avrebbe preso fuoco.”
La voce della bambina è roca, il tono è pacato e velato di senso di colpa.
Judith fa per salire le scale, ma la bambina le tira la gonna e la costringe a girarsi: “ Adesso però il mio fratellino sta bene. Il suo volto è liscio, il suo corpo è cresciuto ed è sano e forte. Credo che adesso abbia la tua età”.
Con uno slancio, Judith sale due scalini in uno e cerca di percorrere il più velocemente possibile la scala che la separa dal secondo piano.
Quella bambina doveva avere qualche squilibrio, forse l’incidente in cui era stata coinvolta doveva aver compromesso le sue facoltà cognitive.
O forse aveva semplicemente bisogno di attirare l’attenzione.
Povera piccola, abbandonata a sé stessa.
Ancora visibilmente scossa, Judith attraversa lo stretto corridoio, in cerca della stanza 106.
Il pavimento è appiccicaticcio, il linoleum è incrostato, come se qualcuno vi avesse versato sopra dello sciroppo che ora si è seccato.
Sua zia ha scelto un posto molto economico, non c’è che dire.
Quando finalmente arriva davanti alla sua stanza, infila la chiave nella toppa e aspetta di udire lo scatto metallico della serratura; eppure, la porta è già aperta.
Mentre sta per varcare la soglia, una risata squillante la sorprende alle spalle.
“Ahha, Mary aveva una pecorella”, inizia a cantare la donna che le si è avvicinata da dietro.
Ora Judith ne è sicura, si tratta della donna coi capelli color del fuoco che sorreggeva il morto in metropolitana.
Guardandola bene in volto, Judith nota che la donna avrà almeno novant’anni, nonostante il suo corpo appaia snello, agile e la pelle delle mani sia liscia…come quella di una vent’enne.
“Mary aveva una pecorella, sei tu la sua pecorella? La pecorella di Mary? Dai amore, canta con me! Mary aveva una pecorella…”.
Judith non può fare a meno di osservare quella strana donna mentre piroetta su se stessa, ridendo sguaiatamente e accennando dei passi di danza; sente il terrore camminarle sulla schiena, ma è come paralizzata e non riesce a muoversi.
Conosce bene quella sensazione, è la stessa paralisi che la colpisce ogni volta che è molto spaventata.
La stessa che l’ha colpita il giorno che…
Scuote la testa, non vuole pensarci.
“amore, perché non parli? Il gatto ti ha mangiato la lingua?”.
Una lacrima riga il volto della ragazza.
“Oh, amore, sarà la tua condanna”.
Judith stringe gli occhi così forte da sentire le tempie pulsare violentemente, vorrebbe muovere le gambe e chiudersi in camera ma non ce la fa, proprio non ce la fa.
Una volta riaperti, nota che la donna dalla chioma rossa è sparita.
Tremante, riesce a infilare a porta e, come entra nella stanza, se la richiude alle spalle, girando a doppia mandata.
Un respiro profondo, due respiri profondi, ed è tutto passato.
I membri della comunità l’avevano avvertita, la città ha mille intrighi e le persone che la abitano sono maligne e perverse.
Avevano ragione, ma Judith sa che deve avere fede e sopportare.
Sono passati dodici anni da quando sua zia se ne è andata, e il ricordo di quel giorno la tormenta da allora; sa che la zia, in punto di morte, l’ha perdonata, altrimenti non l’avrebbe menzionata nel suo testamento.
Judith non vuole soldi o beni materiali, vuole solo sentire le ultime parole di sua zia, sapere che è morta con il cuore libero dal peso del rancore.
Si sciacqua la faccia, estrae il libro delle preghiere e inizia a leggerlo, muovendo le labbra a ritmo delle parole, senza che un solo suono le salga alla gola.
D’un tratto, nota un foglietto ripiegato sul cassetto, arrecante una scritta: “ A Judith”.
Perplessa, la ragazza lo prende in mano e inizia a leggerne il contenuto: “Judith, se stai leggendo questo biglietto significa che ti sei recata all’Hotel Grassi, e te ne ringrazio. Ho vissuto alcuni mesi in questa stanza, meditando e pregando. Spero che potrai presto avere chiaro ogni cosa. Cordialmente, Mary Dawson”.
Tutto qui.
Va bene, un pensiero gentile.
Sua zia ha ragione, domani mattina, quando andrà dal notaio ogni cosa verrà spiegata..
“Toc Toc”.
Una voce di bambina dall’altra parte della porta.
Deve essere la piccolina di prima, pensa tra sé la ragazza, che vorrebbe far finta di nulla ma, mossa dalla compassione, si alza e va ad aprire.
Sulla porta, non c’è nessuno.
Divertente, pensa tra sé con tono sarcastico, finché un particolare non cattura la sua attenzione: seduto per terra, accanto a un vecchio ascensore apparentemente in disuso, vi è un uomo dai vestiti logori; sta piangendo, e tira delle testate alla parete.
Con il cuore in gola, Judith gli si avvicina.
“ Perché, perché? Io non lo meritavo, mi dispiace tanto. Non volevo, io…io non l’avevo visto, non l’avevo visto!”.
L’uomo è in evidente stato di shock, non fa altro che farneticare e singhiozzare; Judith è colpita, non sa come comportarsi.
Forse la soluzione migliore è andare alla reception e dire che un ospite non si sente molto bene.
“Secondo te è giusto? Non è giustizia questa, non è così che vanno le cose!”, ora l’uomo si sta rivolgendo a Judith, e il suo tono è alquanto aggressivo.
“Faccio il camionista da ormai tredici anni, ok? Tredici, merdosissimi anni, a trasportare verdure nel cuore della notte. Poi, quel figlio di puttana mi attraversa la strada all’improvviso, era ubriaco. Che dovevo fare? Ho provato a schivarlo, Dio sa che ci ho provato! Sono stato dichiarato innocente, e allora perché mi trovo qui? perché?”.
Ok, ufficialmente Judith crede che si chiuderà in camera e non ne uscirà fino al mattino seguente e, mentre si dirige a passo svelto verso la sua stanza, l’uomo le appare magicamente davanti, facendola sussultare: “Non lasceremo mai questo posto, lo capisci? Hanno fatto un patto, uno scambio. Lui è fuori, io sono qui. Non ce ne andremo mai da questo posto”.
Con sua stessa sorpresa, Judith trova la forza e il coraggio di spingere via l’uomo, per poi chiudersi in camera.
Stavolta non ne uscirà per nessun motivo al mondo, a meno che l’edificio non vada in fiamme.
Che razza di scherzo è mai questo? Vogliono spaventarla? L’innocente mormone che non ha mai messo piede fuori dalla cittadina? Bè, non è divertente, e verranno puniti da Dio per questo.
Dannati cittadini, dannato Hotel.
Avevano ragione i suoi, avrebbe dovuto stare a casa, dimenticare.
Ma non ce la fa, non riesce a dimenticare.
I ricordi di quel giorno la attanagliano, vuole solo essere libera da quei mostri che di notte la divorano.
Si butta a letto, vestita, esausta, con un mal di testa assurdo, stringendo a sé il suo libro delle preghiere; per caso, rivolge lo sguardo al cassetto.
Un altro biglietto, forse non lo aveva visto prima?
Con vorace curiosità, Judith lo afferra e inizia a leggerlo: “Judith, scusami ma non riesco proprio a chiamarti ‘cara’. Mi hai tradito, hai tradito la mia fiducia. Non dire che eri solo una bambina, anche i bambini possono essere perfidi. Tu non sai in che inferno sono precipitata dopo che sono stata costretta ad abbandonare la comunità. E’ qui che mi sono ammalata, qui dove portavo gli uomini. Era l’unico modo per mantenermi, per sopravvivere. Mi hanno costretta a fare cose che tu, lurida e piccola mocciosa, non puoi nemmeno immaginare. Chi fa queste cose si ammala, non lo sapevi? E’ qui che sono morta, sola e lontana da tutti. Me lo devi, me lo devi piccola bastarda”.
Judith lancia via il pezzo di carta e si raggomitola su se stessa, piangendo e stringendosi le ginocchia al petto.
Non è colpa sua, non è colpa sua.
Continua a ripeterlo all’infinito, dondolandosi su se stessa e pregando Dio di assolvere i suoi peccati.
Per questo l’ha fatta venire lì? Per umiliarla? Per ripeterle di come le abbia rovinato l’esistenza?
Vorrebbe che i ricordi non riaffiorassero, ma ormai non può più contenerli: ricorda quando ha scoperto la zia Mary, all’epoca vent’enne e sposata con lo zio John, assieme a un giovane ragazza fuori dalla comunità.
Ricorda il volto del padre quando gliel’ha raccontato, e il processo per disonore della zia; ricorda la paralisi, gli arti e le braccia immobilizzati, mentre la zia le si avventava contro, picchiandola fino a farle sputare sangue.
Dopo quell’episodio, zia Mary era scappata, e nessuno aveva avuto più notizie di lei.
I suoi genitori avevano provato a farsi raccontare l’accaduto, sapevano che eri stata lei a ridurre Judith così.
Ma da allora, Judith non aveva più aperto bocca, nemmeno per urlare quando la notte sognava la zia Mary avventarsele contro e strapparle i capelli, colpirla al viso.
Aveva appena cinque anni.
“Toc Toc”, di nuovo la voce dalla bambina alla porta, però questa volta Judith non è intenzionata ad andare ad aprire; sarebbe stata in hotel qualche altra oretta, cercando di dormire e, alle prime luci dell’alba, sarebbe tornata a casa.
Non vuole più sapere nulla di sua zia, del testamento, nulla!
“Toc toc”, Judith si alza e sferra un pugno alla porta, in maniera tale da mandare via la bambina, ma questa non demorde: “Aspetta, ti devo parlare. Devi sapere molte cose di questo posto”.
Nonostante cerchi di ignorarla, alla fine la ragazza cede e spalanca la porta: di fronte a lei, la piccola dal volto ustionato.
“Nel 1998, io la mamma e Thomas vivevamo qui. Thomas è il mio fratellino, anche se credo che ormai abbia quasi vent’anni. In che anno siamo adesso?”, chiede la piccola con candore, e Judith, pietrificata, scrive “16” sul suo taccuino.
“Oh, già nel 2016, allora ne ha vent’uno..”, risponde la bambina, per poi prender per mano Judith e accompagnarla lungo il corridoio.
Con sua sorpresa, la giovane Mormone nota che, adesso, ogni stanza ha la porta spalancata, e uno o più ospiti sono presenti.
Fino a pochi muniti fa, era convinta che vi fossero al massimo solo due persone su quel piano.
“Vedi, in quella stanza abitavamo io, la mamma e Thomas. Ora ci sta quella vecchia signora, Rose. Rose ha più di cent’anni, mentre suo figlio era morto di cancro all’età di quarantadue anni. Non so chi gli abbia parlato di questo posto, so solo che, quando stava per morire, il figlio ha deciso di prendere quella camera. Poi hanno fatto lo scambio; ora credo che stia bene, spero che non si ammali più o non so se avrà la fortuna di praticare un altro scambio”.
Judith non riesce a capire una sola parola di quello che la bambina sta dicendo, ogni cosa è sconnessa e senza senso; quando passa davanti la stanza della signora Rose, nota che la donna è priva di capelli e sopracciglia.
Proprio come un malato terminale.
“Vedi, non si sa bene perché, non lo sa nessuno come funziona qui… So solo che si può fare, è ammesso. Non so nemmeno se esistono altri posti come questo.”
Judith si arresta, si inchina di fronte alla bambina e inizia a scuoterla per le spalle, piangendo: vuole che la smetta di dire quelle idiozie, e la lasci in pace.
“mi fai male, Judith”, piagnucola la bambina, e la ragazza si arresta all’istante.
Come conosce il suo nome?
Ha forse spiato i registri?
Come se la bambina le avesse letto nel pensiero, prosegue: “Sei una di noi ora, tutti noi ti conosciamo bene. Non temere, Mary se n’è andata, sta bene ora… Grazie a te ”.
Con gli occhi pieni di terrore e insofferenza, Judith inizia a guardarsi a destra e a sinistra, notando come tutti gli ospiti del secondo piano la stiano fissando, chi con amarezza e chi con sadico divertimento.
“Non puoi più fare nulla ormai, hai firmato lo scambio”, le ripetono tutti, all’unisono.
 
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Nota: Ciao a tutti, questa è la prima parte della storia che si cela dietro la tela numero tre; essendo un po’ più lunga delle altre ho preferito dividerla. Mi sono ispirata al breve racconto “1408” di Stephen King, ad “American Horror Story Hotel” e a un incubo che ho fatto più e più volte da piccola. Segue sempre il filone dell’horror velatamente nonsense (anche se poi molti elementi trovano spiegazione). Intanto godetevi questa parte, a breve la seconda con epilogo.

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Capitolo 4
*** Hotel Grassi SECONDA PARTE ***


“ La mamma non mi ha mai perdonato per quello che è successo. Lei non lo ha mai ammesso ma io so che ha sempre preferito Thomas a me. Era più piccolo, più indifeso…le ricordava tanto il papà”.
La bambina fissa un punto indistinto di fronte a sé, parlando con tono catatonico, come se non si stesse rivolgendo a Judith, che l’ascolta col cuore in gola.
“ Mi piaceva rubare un po’ di alcol etilico e dar fuoco alle formiche, lo trovavo divertente. Ora il fuoco mi fa paura. Quel giorno, mamma stava lavorando, e io e Thomas ci eravamo messi sugli scalini e io avevo dato fuoco ad alcune formiche per farlo ridere..credo avesse quasi quattro anni, ormai il tempo qui non passa.
La manica di Thomas ha preso fuoco subito, e io piangevo. Non sapevo cosa fare, piangevo, e poi tutti sono usciti dall’hotel e sono venuti a vedere cosa succedeva.
Thomas è stato in vita due giorni.
Mamma non mi parlava, non mi rivolgeva la parola.
Un giorno, ho visto che parlava con la donna dai capelli Rossi, lei è la proprietaria”.
La donna dai capelli rossi, pensa tra sé Judith, sconvolta.
“Lei si occupa degli scambi. Deve essere una strega, per forza. Fa strani riti, dice che lei aiuta le persone.
Dice che l’Hotel è una creatura viva e per continuare a vivere deve mantenere invariato il numero di ospiti.
Non mi ricordo quanti siamo qui..”
Judith estrae il taccuino e vi scrive velocemente: “ Parlami degli scambi”.
A fatica, la bambina dal volto ustionato decifra le parole, per poi riprendere il suo discorso: “ dopo che Thomas è morto, la signora è venuta da mia mamma, e le ha parlato….hanno portato, di nascosto, il corpo del mio fratellino qui, nella stanza della strega.
Non so cosa si siano dette, non so che cosa faccia la strega. So solo che, poche ore dopo, la faccia mi faceva male. Mi grattavo, sentivo tanto caldo sulle guance. Mi sono sciacquata, ma più mi bagnavo e più bruciava, bruciava tanto.
Adesso non brucia più, per fortuna.
Ho visto mia mamma e il mio fratellino, sano e privo di piaghe, prendere un taxi e andare via.
Non ho saputo più nulla di loro.
La vecchia strega dice di aiutare le persone, dice che lei riequilibra le cose, mette a posto le ingiustizie.
Per la vita di Thomas, si sono presi la mia”.
Judith si alza di scatto e tira un pugno al muro.
Basta, ne ha davvero avuto abbastanza di quelle storie di fantasia e di quegli strambi ospiti che, a quanto pare, sembra vogliano solo spaventarla per farla tornare nella sua comunità.
Benissimo, se ne andrà subito.
 A costo di starsene seduta su un marciapiede lercio per alcune ore; l’importante è andarsene di lì.
La giovane rientra nella sua stanza, sistema in velocità le poche cose che si è portata appresso e…
Una lettera.
Un’altra lettera sul comodino.
Non le importa.
Prende il pezzo di carta, lo strappa e lo lancia fuori dalla finestra.
Avevano ragione, avevano tutti ragione, non avrebbe mai dovuto venire lì.
In tutta fretta, sistema le sue cose e spalanca la porta, pronta a correre giù per le scale fino ad imboccare l’uscita; nell’esatto momento in cui mette il piede fuori dalla stanza, avverte subito uno strano odore.
Pungente, dolciastro, un odore così intenso che la costringe a tapparsi il naso con la manica.
Il lungo corridoio dell’Hotel Grassi non c’è più; al suo posto, vi è un vicolo cieco, buio e nauseabondo, in cui escrementi umani e rifiuti sono ammassati agli angoli di un edificio fatiscente.
Appiccicato al muro di mattoni, un biglietto.
Lo stesso biglietto che poco prima Judith aveva strappato?
Impossibile, qualcosa di strano sta accadendo.
Glielo avevano detto, le avevano detto che talvolta i malviventi usano polveri e sostanze che possono alterare la percezione, così da approfittarsi delle ragazze innocenti.
Sta sicuramente avendo un’allucinazione.
Con mano tremante, stacca il biglietto dal muro e, stavolta, decide di leggerlo: “ Voglio farti vedere quello che mi è successo, quello che ho vissuto per causa tua. Guardati le spalle”.
Cosa intende dir..?
Il colpo alla nuca arriva improvviso.
Judith cade a faccia a terra, sentendo delle mani forzute che la afferrano per i capelli, facendole uscire le lacrime.
Un uomo tozzo e all’alito mefitico, inizia a palpeggiarla dappertutto; Judith è paralizzata, non riesce a muoversi.
“Parla cara, una sola parola, e l’uomo scomparirà”.
La donna dai capelli rossi è in piedi accanto a lei, e la osserva con un sorriso compiaciuto dipinto sulle labbra secche.
Judith non riesce a respirare, sente quelle dita ruvide su tutto il corpo, non riesce a respirare e il suo corpo è pietrificato; la paralisi, quella dannata paralisi che le impedisce di muoversi, di ribellarsi, di proferire anche solo una parola o di urlare con tutto il fiato che possiede.
La donna la osserva, la osserva sinceramente compiaciuta, come se la visione della giovane che viene malmenata le desse piacere.
Continua a ripeterle di parlare, di dire anche solo basta, e l’uomo scomparirà.
Judith, invece, continua a essere pietrificata, anche quando l’estraneo le preme le mani sulla gola, facendole avvertire un sapore ferroso in bocca.
Nel momento stesso in cui la giovane realizza che sta per essere uccisa, improvvisamente avverte una sensazione di libertà.
L’uomo è scomparso, così come la donna dai capelli rossi.
Attorno a sé, riconosce i muri incrostati dell’Hotel Grassi; tutto è silenzioso.
Mentre tenta di rialzarsi a fatica, Judith si porta una mano al collo: le fa malissimo, non riesce nemmeno a deglutire e la gola brucia terribilmente.
Di fronte a sé, la bambina dal volto ustionato: “ Fa così, la padrona del Grassi. Pareggia i conti dice. Lei stessa è intrappolata qui, almeno credo. Si spiegherebbe il volto rugoso sul corpo giovane”.
Judith si asciuga le lacrime, è in preda a un vero attacco di panico: non riesce a respirare, le gambe le tremano e la testa le gira; è un incubo, deve assolutamente svegliarsi.
Prima di svanire nel nulla, la bambina le indica un biglietto, affisso a uno specchio.
La giovane si avventa sul foglietto, vuole leggerne il contenuto e capire a che gioco stanno giocando: “ La comunità aveva ragione, il mondo fuori è terribile. Ho voluto darti un assaggio di quello che ho passato io, anche se la padrona è clemente e non ha fatto concludere l’uomo. Pagherei per ogni piaga che questo mondo mi ha inferto”.
La crudeltà di quel messaggio è sconvolgente; Judith vorrebbe inginocchiarsi, supplicare di essere lasciata, ma sa che l’unica forza può essere solo in Dio.
Con calma, mentalmente, cerca di ripetere più preghiere possibili, mentre percorre le scale che la porteranno (almeno spera) alla hall dell’Hotel Grassi.
Improvvisamente, avverte un crampo al basso ventre; non ci fa caso, sarà sicuramente l’agitazione, unita alla corsa frenetica.
Poi però, il dolore si fa più intenso.
Judith porta la mano al ventre e avverte uno strano gonfiore: la pancia sta iniziando a dolerle terribilmente, e toccandola appare sempre più gonfia e dura, finchè l’ultima fitta non la mette in ginocchio.
Poco prima di cadere a terra, si sente sollevata da due braccia: una signora sulla sessantina, vestita con un camice sporco di sangue raffermo, la sta conducendo verso un improvvisato ambulatorio medico.
Vi macchia di sangue sul pavimento, apparecchi ostetrici sparsi su un tavolo di alluminio ammaccato, e una lampadina che oscilla dal soffitto illumina malamente quell’angusto garage impolverato.
“Dove mi trovo? Che cosa succede ora?”, pensa tra sé Judith, allarmata.
“Tranquilla, adesso facciamo tutto va bene? Respira, Mary, tra poco sarà tutto finito”.
Mary? No, no lei è Judith, che razza di scherzo è mai questo? Dove si trova, che accade al suo corpo? Perché è gonfia e perde acqua e sangue dalle sue…zone impure?
La donna fa stendere Judith sul tavolo, e la incita a spingere.
Spingere cosa?
Oh Dio, è il dolore peggiore che abbia mai provato in tutta la sua vita, come se le viscere le venissero strappate a forza, e pian piano realizza cosa le stanno facendo.
Più spinge, più sente che le sue interiora vengono brutalmente tirate, e spera solo che Dio sia così Clemente da portarla con sé.
Quando finalmente il dolore cessa, guarda davanti a sé, scoprendo un grumo di sangue tra le sue cosce.
“Mi dispiace così tanto, Mary”, le dice la donna, con le lacrime agli occhi.
Di colpo, Judith si ritrova nella Hall dell’Hotel Grassi.
La sala è gremita di persone, tutte che la osservano con sguardo duro.
Sul tavolino di vetro, accanto a delle carte da gioco, l’ennesimo biglietto: “E’ stata tutta colpa tua”.
No, non è vero, non è stata colpa sua.
Era solo una bambina, non poteva sapere.
Non è stata lei a farla cacciare, ma la sua condotta immorale; non è stata lei a farla violentare, non è colpa sua se il suo bambino è nato morto.
Cercando di non far caso agli sguardi colmi di rimprovero, Judith cerca di imboccare la porta, ma scopre che questa è bloccata.
“E’ colpa tua” le urla il portinaio.
“E’ colpa tua”, le ripete una donna seduta al tavolo accanto.
Basta, basta! Pensa tra sé Judith, esausta e dolorante.
Prova più volte a scuotere la porta, ma senza successo.
Si volta, notando che il numero di ospiti, o qualsiasi altra entità siano, è aumentato.
Corre verso una finestra, ma presenta delle pesanti sbarre d’acciaio.
“E’ colpa tua” le ripete asetticamente un giovane al quale sono stati asportati i bulbi oculari.
Judith lo scansa con grinta, correndo di nuovo su per le scale: proverà a calarsi da una finestra.
“E’ colpa tua”, le sussurra una donna sulla quarantina, talmente magra da non riuscire nemmeno a reggersi sulle proprie gambe.
Judith la spinge via, continuando a correre a perdifiato.
Quando arriva al terzo piano, l’unico senza barre alle finestre, inciampa sul tappeto e sbatte addosso alla porta di una stanza, spalancandola.
Dentro, sdraiata sul letto, c’è sua zia Mary.
Il volto è chiazzato da macchie bluastre, il corpo è ridotto a pelle ed ossa; quella che un tempo era stata una giovane dai lineamenti delicati e gradevoli, ora sembra una creatura risalita dal ventre degli inferi.
Deve essere morta da qualche giorno, l’odore nella stanza è irrespirabile.
Judith si lascia cadere a terra, singhiozzando silenziosamente.
Che facciano quello che vogliono di lei, non ce la fa più; prega solo che tutto finisca, che Dio la prenda con sé.
“Dio, mia piccola? Il tuo Dio non esiste”, la voce che le sussurra alle spalle le è ormai inconfondibile.
La donna dai capelli rossi si avvicina a Judith e le afferra il volto tra le mani: “Dimmi, se Dio esistesse, permetterebbe simili scempi?”, la donna indica il corpo tumefatto della zia Mary, scuotendo la testa lentamente.
“ Chi viene accolto nell’Hotel Grassi, sa che potrà contare sulla mia protezione, sulla mia giustizia. Per questo luogo, un’anima vale l’altra. Perché mai risparmiare te e lasciare la povera Mary in quello stato?”.
Judith afferra la donna per i polsi stringendoli con forza e piangendo con disperazione.
“Oh tesoro, non devi preoccuparti. Io sono Clemente, lo scambio è equo. Do una seconda possibilità a chi, per colpa degli incidenti altrui, ha visto la propria vita infrangersi come le onde del mare su uno scoglio frastagliato; e dono ai “penitenti” la possibilità di dimorare qui, in pace, per sempre.
Judith si mette le mani tra i capelli, strappandosi alcune ciocche, ingoiando le sue stesse lacrime.
“Se tu avessi conosciuto la morte, sapresti che lo scambio è più che equo. Vuoi sapere com’è, dopo che sei morto?”, le domanda con dolcezza la donna dai capelli rossi.
“ E’ freddo. Un freddo innaturale”, risponde una seconda voce.
La zia Mary è in piedi di fronte a Judith, la pelle levigata e bianca come il latte, i lunghi capelli corvini raccolti in una crocchia e il volto rotondo e pieno, come se nulla fosse accaduto: “ Ti penetra nelle ossa e non ti lascia più. Ti pare di essere umido, bagnato. Non c’è luce, solo buio e silenzio. Un silenzio che ti rimbomba nella testa, come se il vuoto attorno a te fosse anche dentro di te. Non capisci, non pensi, vivi sospeso. Non esiste Dio, non esiste al di là. Non c’è nulla. E il nulla, è spaventoso.”
Judith scuote la testa, ma ormai non ce la fa più.
La zia Mary si accovaccia davanti a lei e, con un sorriso sornione esclama: “Ora ti ho perdonato”.
 
“Judith”.
La voce della bambina la coglie alle spalle.
Judith osserva, dalla finestra dell’Hotel Grassi, la zia mentre si allontana lungo il marciapiede, fino a mescolarsi con la calca del mattino.
“Sì, piccolina”, le chiede, sforzandosi di sorridere.
“Vieni, giochiamo a nascondino. Io mi nascondo”.
“Va bene”, risponde mestamente.
“La tua voce è strana”, le fa la bambina.
“Non l’ho usata per tanto, tanto tempo”, risponde Judith, tentando di schiarirla con dei leggeri colpi di tosse.
“Beh, adesso puoi parlare. Non sei più colpevole”.
Judith annuisce, facendosi sfuggire una lacrima.
Quando osserva il suo riflesso allo specchio, ha un sussulto: la pelle giallognola e raggrinzita, i capelli radi, il corpo magro al limite dell’anoressia. Quindi è così che è morta la zia, deve essere stato terribile.
“Non osservarti allo specchio, vedrai che te ne dimenticherai”, la rassicura la bambina, per poi correre via.
Judith si trascina lungo il corridoio, ripetendo a fior di labbra: “Non è stata colpa mia”.
 

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Capitolo 5
*** La nuova opera ***


“Fantastica, veramente superba. Così vera, così intensa e sconvolgente. Sicuramente una delle mie opere preferite, in grado di fornire un’esperienza di sopraffino terrore e malvagità; nulla da dire, l’artista senza nome in questione è assolutamente un genio, un genio vi dico!
Signore, signori! Siamo giunto alla fine del nostro tour, e come promesso avete potuto vivere tre viaggi davvero sorprendenti.
Un masochismo ai più alti livelli, psicologico eppure fisico, immaginario ma percepito come se fosse reale.
Siete disgustati, siete nauseati, siete stanchi e doloranti, e la vostra mente non ne può più di tutto questo dolore.
Ma miei cari ospiti, non è ancora finita.
Vogliamo portarvi, noi artisti senza nome, ad un livello così alto di follia da provocarvi una vera e propria alienazione dei sensi e della coscienza; vogliamo che voi respiriate l’arte, che voi diventiate arte.
Sì, perché anche io sono un artista senza nome e, in esclusiva per voi, realizzerò una tra le più assurde, tra le più imponenti, tra le più perverse opere di arte occulta mai viste fino ad oggi.
Una scultura, per l’esattezza; una forma d’arte di cui al momento il museo è sprovvisto.
Avete mai sentito parlare di isteria collettiva?
Bene, questa notte, voi diventerete parte del nostro museo.
Per sempre.
Osservate il blocco di marmo alle mie spalle: osservatene la purezza, lasciatevi catturare dal limpido bianco; non avete mai visto un colore così candido, così incontaminato.
Sì, siete ipnotizzati, siete stanchi e vi state lentamente distaccando dal vostro corpo.
Vedo già molti di voi ruotare gli occhi, vedo le vostre facce assorte.
E ora, miei cari ospiti, lasciatevi andare.
Sì, esatto, lasciate uscire queste risate primitive, spingete il diaframma fino a buttare fuori tutta l’aria dai vostri polmoni; ridete miei cari, ridete.
Ridete finchè le vostre interiora non si attorcigliano, ridete fino a perdere il respiro, ridete… le vostre risate sono dolorose, i vostri corpi sono in preda allo spasmo.
Ridete, ridete, e lasciate che le lacrime di dolore righino il vostro volto.
Ridete fino a sentire le cervella scoppiare, vedo i vostri volti piegati in un’espressione grottesca, vedo lo stupore e l’ossigeno che non arriva più ai vostri encefali, vedo la vostra figura pietrificarsi, imprimersi nel marmo in una sconvolgente posa animalesca.
 
Cinque mesi dopo
 
“Buona sera, miei gentili ospiti. Il museo delle anime vive vi da il benvenuto. Per favore, seguitemi, sono il signor Où e vi guiderò in questo tour notturno alla scoperta delle migliori opere d’arte occulta che siano mai state realizzate.
Alla vostra destra, una scultura davvero particolare, si intitola: “ Estasi”.
Notate i corpi scolpiti in un’innaturale posizione, le braccia contorte, i volti sfigurati da una sinistra risata, al limite tra il piacere e il dolore. Come dice, signore? Le sembra un soggetto esageratamente crudele e raccapricciante?
Oh bè, prima di esprimere giudizi affrettati, aspetti di concludere la visita”.
 

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