Family...

di Melanto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ...warnings ***
Capitolo 2: *** ...gossip ***
Capitolo 3: *** ...forgiveness ***
Capitolo 4: *** ...concerns ***
Capitolo 5: *** ...comprehension ***



Capitolo 1
*** ...warnings ***


Family... warnings

Note Iniziali: Famiglia.

Questo è il tema principale della raccolta che avete appena aperto e che sarà brevissima: solo TRE one shot (già tutte scritte), per tre aspetti diversi delle dinamiche famigliari.

Vedremo vari personaggi in azione per ogni storia e renderemo più solida la base su cui poggerà la long che ho in mente per questa serie (e che la chiuderà).

Va subito detto che queste storie non erano previste… però mi sono capitate in testa e allora le ho buttate giù XD

 

Cominciamo quindi ad affrontare il primo tema: i ‘moniti’.

 

Buona lettura :*

 

 

...warnings

Soulmate series - #5.6.1

 

 

 

 

– Fai attenzione sulla strada.

«Tranquilla, tanto sono imbottigliato nel traffico.»

– E tu stai attento lo stesso.

«Sì, mamma.»

Mamoru sorrise mentre parlava al cellulare. Era incolonnato, quindi si era permesso di rispondere alla telefonata pur senza avere l’auricolare. La sera bruciava nello sprazzo dell’ultimo tramonto e lui era in viaggio da meno di un’oretta.

La mancanza di Yuzo era come quel brandello di sole che spariva oltre l’orizzonte alle sue spalle: bruciava con una luce rossa che feriva gli occhi, mentre la guardava dallo specchietto retrovisore. Al di là della linea sembrava che il mondo stesse andando a fuoco, e lui non poteva più raggiungerlo. Guidando verso Yokohama, Mamoru appariva come quello che era in fuga dall’inferno e tentava di mettersi in salvo da qualcosa che avrebbe finito per ustionarlo. Eppure, gli bruciava anche dentro ed era pericoloso da qualsiasi punto lo guardasse, a qualsiasi distanza fosse.

Yuzo gli mancava.

Gli mancava la follia che lo coglieva quando erano insieme, così istintiva e animale, a volte. Così docile e desiderosa di avvolgersi tutta attorno al portiere in altre.

Gli mancava il corpo, gli mancava l’odore della pelle, gli mancava il calore, gli mancavano gli occhi, gli mancava la voce, gli mancava il sorriso del primo mattino. Una mancanza nata ancora prima di partire, era bastato trovarsi sulla soglia e sapere di stare andando; forte a tal punto da scegliere di salutarlo lì, senza farsi accompagnare fino a dove aveva parcheggiato: doveva mettere un freno ai sentimenti che pascolavano nel cuore a briglia sciolta. Controllarli, serrarli. E scongiurare l’istinto che l’avrebbe colto se si fossero trovati insieme accanto alla sua macchina: l’avrebbe caricato al lato passeggero e l’avrebbe portato a Yokohama con sé, o nel primo love hotel sulla strada.

Voleva farci l’amore. Ancora. Dopo aver passato un intero week-end a non fare altro; l’intera loro vita concentrata tra mura e lenzuola, e divano, e pavimento, e corridoio, e bagno. Ma ora che era in macchina e la crisi d’astinenza si consumava come una candela dimenticata accesa, si era chiesto se non stessero bruciando tutto troppo in fretta.

D’accordo, si erano rincorsi per anni nelle convinzioni sbagliate, avevano castrato quello che provavano lasciando che gli crescesse dentro fino a riempirli, ma era possibile che non finisse ancora di strabordare? Che non si calmasse almeno un po’ e desse loro modo di vivere quella storia in maniera ordinata e regolare?

In quel week-end, di Yuzo aveva avuto quasi paura per un momento, sconvolto dal modo in cui fosse pronto a farsi fare di tutto, accettare che potesse perdere la testa. E poi aveva avuto paura di sé stesso e di quel controllo mandato alle ortiche come mai prima.

Mamoru aveva sempre potuto vantare una chiara conoscenza di sé, ma con Yuzo stava scoprendo di avere un fondo buio e ignoto che lo portava oltre, e parlava lingue che non aveva mai ascoltato e a cui non sapeva rispondere. Non con la mente, almeno, mentre il corpo aveva eseguito alla lettera.

Lui si era spento e il corpo acceso come una lampadina.

Per Yuzo era stato lo stesso, lo aveva sentito, e anche il suo corpo aveva risposto a richiami sconosciuti in maniera immediata e precisa. La sintonia su cui viaggiavano era così esatta da frastornarlo, imbarazzarlo addirittura. Lui che non si imbarazzava praticamente mai.

Dio, se solo pensava a come era stato farlo senza preservativo…

– Aspetta che Sen che ti voleva salutare.

La voce di sua madre gli fece distogliere all’improvviso lo sguardo dallo specchietto retrovisore. Una macchia luminosa a forma di semicerchio era rimasta impressa nella retina. Mamoru sbatté le palpebre più volte e il traffico non si era snellito più di tanto: la colonna aveva messo una breve distanza tra lui e la vettura che lo precedeva, così accelerò leggermente.

– Nii-san!

«Ehi, quale onore, Puffo Pastrocchio

– Sono cresciuto di altri quattro centimetri.

«Tieni il conto, ché devi crescere ancora per superarmi.»

– Vedrai se non divento più alto di te! Ti mangerò in testa!

«Come no. Tutto okay a casa?»

– A posto. Papà è impegnato nelle cose sue, starà fuori un paio di settimane. Mamma sta disegnando la nuova collezione.

«Tutto regolare allora.»

– Perché non sei passato per Nankatsu?

Mamoru tirò il fiato e non rispose. Una frase del genere se la sarebbe aspettata da sua madre, non da suo fratello.

– Eri troppo impegnato a sbaciucchiarti con Yuzo-nii per farti vedere? –  Sen lo insinuò in maniera sfacciata e lui storse le labbra.

«Vedi di non mettere i manifesti, stupido.»

– Tanto sono da solo, mamma è tornata nello studio a disegnare. E comunque era per lei che ho detto di farti vedere, le sarebbe piaciuto. Sei fuori da tanto, non sei tornato mai, neppure per un giorno.

L’espressione di Mamoru virò in una colpevole che lo specchietto retrovisore riflesse senza pietà. «A volte si deve scegliere. Quando sarai più grande e avrai una ragazza ci arriverai pure tu.»

– E diventare scemo appresso a qualcuno? Non sono mica te! A me non frega niente di queste cose. Mamma e papà vengono prima.

«Sì, certo, per te viene prima la tua stanza!»

– Gnèèè. Comunque, a proposito di Yuzo-nii… sai che non ho più visto suo fratello in giro per Nankatsu?

«E non ce lo vedrai.» Mamoru passò una mano sulla faccia e alzò gli occhi al tettuccio.

– Perché?

«Si è trasferito da Yuzo, a Shimizu-ku.»

– A fare che?

«Per fare il tatua-ehi! Perché me lo chiedi?! Ti ho detto di stargli alla larga o sbaglio? Non l’avrai mica cercato?!»

– No! Era per dire! Non l’avevo visto e mi era sembrato strano. Tutto qua! Perché parti in quarta?!

«Perché quello è una fottuta piaga, okay? Adesso vive da suo fratello, immagina la mia gioia!»

– Oh! Tu e Yuzo-nii non avete potuto fare i piccioncini?

«Piantala! E comunque ci vuole molto di più che un fratello tamarro per fermarmi. Impara questo, fratellino: quando gli Izawa vogliono qualcosa, non mollano l’osso fino a che non l’hanno ottenuta!»

– Sì, okay. E senti… ma li porta ancora i capelli tutti colorati?

«Perché vuoi saperlo? Non ti avrà già influenzato male, vero?! Cazzo, lo sapevo! Ci sei stato a contatto due minuti e ti ha contaminato con la sua tamarraggine! È come i virus!» Mamoru si era irrigidito e agitava a caso l’indice. «Chiariamo subito, Sen Izawa: non sognarti di presentarti a casa combinato in quel modo o vengo dritto da Yokohama a rasarti a zero! È chiaro?!»

– Uffa, quanto sei pesante. Sono certo che mamma e papà non direbbero niente.

«Mamma e papà hanno altro cui pensare che stare dietro alle tue cretinate da moccioso, quindi sono io a dirtelo e sono tuo fratello maggiore! Scordatelo o vedi che succede, sei avvisato! Non voglio che diventi un teppistello da quattro soldi; con un pessimo gusto, per giunta! Dai capelli colorati al tatuaggio è un attimo! Ci mancherebbe solo quello.»

– Se voglio colorarmi i capelli saranno affari miei? Il fatto che a me piacciano cose diverse dalle tue non significa che le mie facciano schifo!

«Ma che ti sei messo in testa?! Hai solo undici anni!» Mamoru non capiva quell’impuntarsi ribelle di Sen: per anni aveva vissuto chiuso nel suo eremo – la cameretta – e ora veniva fuori per battere i piedi su una cosa tanto futile quanto assurda. E poi… perché prendere ispirazione proprio da uno come Shuzo?! Aveva sempre snobbato i suoi amici, criticandoli con una certa sufficienza e infine… puff! Il tamarro! Un normalissimo fratello minore avrebbe voluto prendere esempio dal fratello maggiore, soprattutto se di successo come Mamoru sapeva di essere. Sen era davvero strano, chissà che diavolo faceva tutto il giorno chiuso in camera a smanettare tra pc e videogame, la testa sempre infossata nel cellulare. Avrebbe dovuto trascinarlo fuori da quelle mura più spesso, fargli respirare un po’ d’aria.

– Niente, niente. Lascia perdere. Ciao, okay? Ciao.

La chiamata chiusa senza dargli modo di aggiungere altro. Mamoru guardò la schermata luminosa del display di nuovo sulla home del telefono.

Sen gli aveva chiuso il telefono in faccia.

Strabuzzò gli occhi e poi lanciò il cellulare sul seggiolino con un moto seccato e uno sbuffo. E Yuzo che aveva anche il coraggio di dire che suo fratello era tanto carino; certo! Lui era abituato con la piaga, quindi tutto il resto gli sembrava oro, ma anche Sen stava mettendo su un caratterino niente male. Fantastico.

…e se davvero si fosse presentato a casa con i capelli come uno spaventapasseri punk?

Mamoru crollò sul volante, poggiandovi la fronte, mentre restava fermo in un tratto qualunque della strada per Yokohama.

«No, vi prego, questo no. Due tamarri in famiglia non potrei mai reggerli.»

D’improvviso, il fatto che Shuzo si fosse trasferito a Shimizu-ku non gli risultò più tanto detestabile: almeno suo fratello non avrebbe preso altra ispirazione dal Morisaki sbagliato.

Perfetto, ironizzò sprofondando il viso in una mano, la mia solita fortuna.

Allora guardò fuori il paesaggio immobile e le macchine che si muovevano a passo di lumaca nel traffico della sera, tutto rigido e ordinato in colonne. Desiderò avere quello stesso ordine anche nel proprio cuore, dove tutto era un guazzabuglio d’incertezze e fratelli porta-guai. Ma poi pensò a Yuzo e un sorriso involontario gli distese le labbra.

Sullo strisciare della sera, non avrebbe mai creduto che anche il caos potesse divenire così calmo. 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: E i fratelli Izawa hanno avuto l’onore di aprire questa brevissima raccolta con i loro ‘moniti’! XD

O meglio: i moniti di Mamoru nei riguardi di Sen e quel rimarcare, vita natural durante, che deve stare alla larga da Shuzo Morisaki. XDDDD

Mamoru è terrorizzato all’idea che Sen possa venire influenzato dal suo Nemico Numero Uno. Se davvero tornasse a casa con i capelli arcobaleno, gli prenderebbe un colpo secco (a lui solo, però! Perché i genitori non accuserebbero più di tanto XD Diciamo che il problema in sé per sé è solo di Mamoru, ecco! LOL).

 

Anche se la storia è breve, possiamo avere un altro assaggio del rapporto che c’è tra i fratelli: a distanza. Si vogliono bene, questo è scontato, ma si conoscono molto poco e nessuno dei due fa un reale passo per andare più a fondo. Sen è vittima della fama di Mamoru, che diventa sempre più abbagliante ogni giorno che passa e preferisce restare nell’ombra. Mamoru è più grande e ha tante altre cose cui pensare e si ferma all’apparenza che vede suo fratello riservatissimo, e anche un po’ nerd, così non scava più a fondo, non pone le domande giuste e, anzi, tende a essere un po’ troppo ‘impositivo’ nei suoi confronti.

 

Nella prossima shot affronteremo un altro aspetto dei rapporti famigliari: il ‘perdono’. E non penso sia difficile indovinare tra chi. :3

 

Stay tuned! :D

 

 

 

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Capitolo 2
*** ...gossip ***


Family... gossip

Nota Iniziale: …urgh. Cambio di programma! XD

Oggi avremmo dovuto trovare il capitolo che aveva come tema il ‘perdono’, ma sono successe delle cose – che ho spiegato nelle note finali – e quindi, niente… si va di superfrivolo (ma neppure tanto!) con un altro aspetto dei legami famigliari: i pettegolezzi!!! XD

Questa shot è temporalmente consequenziale a quella precedente! :D (anche per questo ho dovuto pubblicarla subito XD)

 

Buona lettura :*

 

 

...gossip

Soulmate series - #5.6.2

 

 

 

 

Mae sgattaiolò in punta di piedi nello studio, dopo essere rimasta nascosta dietro la porta il tempo necessario per origliare ciò che le interessava. Era così strano che Sen chiedesse di parlare al telefono con suo fratello che era convinta che ‘gatta ci covasse’, sotto sotto. Il fatto che fosse sempre molto indaffarata con il lavoro non significava che non si accorgesse di come il suo fenicotterino stesse crescendo ed entrando in quella fase difficile che era l’adolescenza – però le si era stretto il cuore nel sentirgli chiedere a Mamoru di tornare a casa per lei. Eppure, nonostante fosse stata convinta di scoprire qualche segreto del suo piccolo pulcino, era spuntato fuori qualcos’altro sul bellissimo falcone che già da un po’ era volato via dal nido. Non se l’era aspettato e le erano luccicati gli occhi per l’emozione.

Mae si sedette al tavolo da disegno che aveva nello studio, appoggiò i gomiti sul supporto e affondò il viso nelle mani sollevando in alto un sorriso sognante.

Chissà se finalmente poteva sperare che Mamoru fosse maturato nelle ‘relazioni sentimentali’.

Era sempre stato troppo selvatico, da quel punto di vista; quasi mercenario. Le affrontava senza cedere spazio ai sentimenti, come se fosse alla perenne ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare, e allora nel frattempo si concedeva il ‘contentino’.

A tredici, quattordici anni iniziavano curiosità e piccole scoperte, e poi si faceva esperienza, si capivano i propri gusti e cosa si volesse; cosa volesse il proprio corpo. Il cuore veniva sempre dopo, e lei credeva che, ormai, a diciannove anni avesse iniziato a farlo funzionare. Ma da quando si era trasferito non aveva più potuto vedere da vicino i suoi cambiamenti, provare a interpretarli, ed era rimasta col dubbio che ora che era lontano da casa tutto fosse a briglia sciolta, con il cuore costantemente messo da parte.

Sen, invece, da quel punto di vista era ancora lontano anni luce. Non faceva domande, non era curioso, non diceva mai se gli piaceva qualcuno e, sentendolo parlare con Mamoru, era ancora alle battutine. Un pulcino nel suo ovetto, anche se stava diventando lungo lungo proprio come un fenicottero.

Mae sospirò, poi la porta dello studio venne aperta e lei si finse al lavoro.

«Tieni, ma’.»

Sen appoggiò il cellulare sul tavolo e subito fece per andarsene, camminando sempre con la testa bassa e quel broncio di chi è seccato col mondo solo perché esiste.

«Che ti ha detto tuo fratello, tesoro?»

«Niente, le solite cretinate.»

Dalla smorfia, Mae capì che era finita in bisticcio. Sospirò. «Smettetela di litigare sempre.»

«Dillo a lui.»

«Lo dico anche a te, signorino!»

Ma Sen si chiuse la porta alle spalle su un masticato ‘sì, sì’.

Mae sospirò di nuovo. Sì, proprio un ovetto. Da fare alla coque.

Prese il telefono abbandonato lì accanto e questi le vibrò tra le mani all’improvviso.

Monamour, scritto tutto attaccato, compariva sul display e il sorriso mostrò i denti con naturalezza e una virgola maliziosa al tempo stesso. Ottimo tempismo, pensò.

«Ti stavo per chiamare, lo sai?»

– Passano gli anni, ma noi siamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda, ma chère.

Mae rise, accarezzando distrattamente la nuca scoperta dal taglio corto e mosso come onde del mare. Un mare che un tempo era stato d’inchiostro nerissimo e che ora mescolava al nero l’eccentricità dell’argento naturale.

«Stai andando al lavoro? Che ore sono lì? Hai fatto colazione?»

– Sì alla prima e all’ultima, qui sono già le undici passate. E c’è un bel sole sulla Senna. Indovina dove mi trovo.

«Non lo so, ma vorrei essere lì.»

– Anch’io lo vorrei. Il Quartiere Latino non è lo stesso senza di te.

«Oh, Taikan.» Mae sprofondò il viso nella mano e socchiuse gli occhi. Si rivide nel riflesso della vetrina di una libreria mentre addentava con gusto il primo gaufre da che erano cominciate le sfilate e diceva a Taikan che la linea non era importante quanto quella indiscutibile dose di zuccheri e felicità. La bocca e la punta del naso sporche di un velo bianco e Taikan che rideva, si specchiava nella vetrina al suo fianco e le chiedeva se per caso, tra una dose di felicità e l’altra, volesse anche sposarlo.

E tu perché mi stavi già per chiamare? Di solito ci sentiamo più tardi.

«Ah! Ho scoperto una cosa!»

– Hai origliato, – insinuò Taikan.

«Che importanza ha? Ascoltami: credo che Mamoru abbia un ragazzo.»

E dove starebbe la novità? Ne ha pure fin troppi. Forse dovremmo dargli una regolata, siamo sempre stati troppo permissivi. Okay la libertà sessuale e il ‘vivila come ti pare basta che sei protetto’, ma forse dovremmo, non so, dargli un freno?

«Penso se lo sia dato da solo», si inorgoglì Mae. «Credo abbia un ragazzo fisso.»

– A diciannove anni e vivendo da solo a Yokohama? Nah, impossibile.

«È così, invece. Ho sentito Sen che ne parlava con lui a telefono.»

– Si è fatto addirittura sgamare da Sen?! Sta perdendo colpi.

«No, è Sen che sta crescendo», sospirò Mae; Taikan la imitò all’altro capo, nella voce aveva una leggera malinconia.

– Si nota così tanto?

«Sempre di più. Soprattutto a causa del caratteraccio che sta tirando fuori. Non mi piace come risponde, è scontroso e in lite col mondo.»

– È nella pre-adolescenza, è già tanto se non diventa un serial killer…

«Sì, ma dovremmo farci un po’ un discorsetto. Tutti e due, intendo. Lui e Mamoru non fanno che battibeccare su ogni cosa.»

– Non che prima fosse diverso. E poi Mamoru ci si diverte, lo fa di proposito per farlo arrabbiare.

«Credi che non lo sappia? Comunque, ritornando al nostro bambino numero uno-»

Taikan ridacchiò. – Ha diciannove anni, si guadagna da vivere e ha una viva attività sessuale. Non è più bambino, ormai.

«Come se questo facesse la differenza. A ogni modo, credo che la cosa vada avanti da un po’…»

– Un po’ quanto?

«Almeno da Natale. Non ti era sembrato strano al rientro dal ritiro con la Nazionale?» Mae lo aveva notato subito: passava molto più tempo al cellulare, quando di solito lo guardava giusto lo stretto necessario, e stava sempre con quel sorrisino a mezza bocca quando scriveva – e scriveva tanto! Messaggiava di continuo come non aveva mai fatto prima.

– Ah, no… – Taikan tentennò. – Sai che quel periodo è sempre costipato di impegni tra la festa natalizia e la Cena di Capodanno. Era già tanto se mi ricordavo di respirare. Tu che hai notato?

«Tante piccole cose, in verità… sembravano di poco conto, e invece… Ad esempio: la sera del primo gennaio, ricordi che non ha dormito a casa?»

– Vagamente.

«Be’, sappi che è venuto da me prima di uscire, ben due volte, per chiedermi un parere sull’abbigliamento. Gli ho visto cambiare almeno tre outfit diversi! Non è da Mamoru. Lui sa sempre cosa vuole, anche per un semplice vestito.»

Mae sentì il chiacchiericcio di Parigi in sottofondo e Taikan che mugugnava qualcosa.

– Se anche fosse, cinque mesi non sarebbero comunque tanti per cantare vittoria.

Lei si imbronciò un po’. Le era piaciuta l’idea che suo figlio potesse finalmente farsi coinvolgere in qualcosa che fosse sentimentale e non solo fisico. Qualcosa che lo educasse anche all’amore e non solo alle meccaniche del piacere.

«Per un attimo mi era sembrato addirittura che Mamoru rimproverasse Sen di non farsi scoprire a parlarne… e così ci ho sperato. Ma hai ragione, è presto. Solo che… sono così curiosa di sapere di più di questo Yuzo! Credo che lo conosca perfino Sen! Non sopporto di essere tagliata fuori.»

– Aspetta, hai detto ‘Yuzo’?!

«Sì, perché?» Mae si appoggiò allo schienale della sedia; all’altro capo il silenzio di suo marito, divorato dal frastuono della Ville Lumière, la preoccupò. «Taikan? Ci sei ancora? Che succede?»

Un rumore di passi più svelti e la confusione che scemò leggermente.

– Io non credo si tratti di mesi… – riprese l’uomo dopo qualche istante di incertezza. Doveva essersi appartato in un angolo, perché non lo sentiva più camminare. – Ma di anni.

«Anni?!»

– Qualche annetto fa, non ricordo con precisione ma di sicuro un paio, sentii Mamoru al telefono con Hajime o Teppei.

«Hai origliato.» Gli fece il verso Mae con una punta di malizia.

– Senti da che pulpito.

«Io sono giustificata, sono la mamma!»

– E io sono il papà! Ne ho diritto quanto te.

«Non provarci, Taikan Izawa! Io l’ho tenuto in pancia per nove mesi, ho vinto a prescindere!»

– Ehi, così non vale! –

Lei ridacchiò. «E allora? Che disse Mamoru al telefono?»

– Che le cose non sarebbero mai cambiate con questo Yuzo Morisato… Moritaka… Morinasa… qualcosa del genere, e che era inutile sperarci. Lì per lì credevo stesse dando un consiglio al suo amico… e invece forse parlava di sé.

Mae si portò una mano al petto e sentì gli occhi inumidirsi. Dunque, il tempo lo stava già educando all’amore come aveva sperato e d’improvviso le parve che una luce abbagliante si accendesse sulla contrapposizione forte tra le sensazioni di ‘ricerca’ e ‘contentino’. Tutto le sembrò chiaro nella sua incredibile semplicità.

«Adesso sono ancora più curiosa…»

– Mamoru ha buon gusto; tutto suo padre.

«Oh, certo, i miei sono pessimi, invece, vero? Ti ricordo che se non avessi avuto anche io buon gusto, ti avrei detto di no quel giorno al Quartiere Latino.»

– Per fortuna hai detto sì.

«Sciocco.» Mae abbassò il viso sulle bozze di disegno dove tratti di matita fuggivano nell’accenno di una gonna lunga fino alla caviglia priva di piede. Nascose un sorriso nella cornetta, come una ragazzina, e una piccola emozione le salì alle guance. Nella voce calda di Taikan c’era sempre la sensualità della loro giovinezza. «Dici che ce lo presenterà, prima o poi?»

– Se è una cosa davvero seria, sì. Mamoru non ha mai avuto segreti con noi.

E lei era felice di quel rapporto di fiducia che erano riusciti a creare. Avrebbe voluto che anche Sen si aprisse di più, ma aveva un cuore schivo e sottochiave, più di quello di Mamoru.

«Chissà di che tipo si è innamorato nostro figlio… Credo di non conoscere affatto i suoi gusti, da questo punto di vista.»

– Neppure io, ma sono certo che non sia uno qualunque. Sai, noi Izawa abbiamo un pessimo vizio.

«Quale tra i tanti?»

– Ci innamoriamo solo di persone davvero speciali.

 

 

 

 


 

 

Note Finali: Sì, va be’, cos’è che avevo detto la storia precedente? Tre one-shot, raccoltina finita, yuppy-yei?

Ecco. Aggiungete pure un ‘COR CAZZO!’ e avrete il quadro generale della faccenda.

Lunedì scorso, dopo la pubblicazione della prima storia, c’è stata una sorta di ribellione da parte di tre personaggi che hanno reclamato uno spazio per loro che non era stato considerato. Si sono sentiti tagliati fuori e non gli è piaciuto, quindi, ecco che da tre la raccolta passa a CINQUE one shot piuttosto brevi.

Due dei personaggi che si sono risentiti li avete appena conosciuti – o ritrovati, sarebbe più giusto 😉 – Mae e Taikan, i genitori di Mamoru. :3

 

Avete appena letto i Family… gossip (tutte famiglie impiccione, qui! XD)! E a chi altri potevano essere affidati se non ai genitori di Mamoru? ** Loro sono molto frivoli, sopra le righe e vivono in un mondo patinato che sui pettegolezzi un po’ ci vive. Ma pur nella loro libertà e stravaganza si preoccupano molto dei figli per i quali vorrebbero solo il meglio.

Chissà se Mamoru porterà davvero Yuzo a casa per presentarlo a mamma e papà… e chissà loro che faccia faranno… chiiissààà! 😉

Intanto, ci ritroveremo la prossima settimana con il famoso aspetto del ‘perdono’ che avremmo dovuto trovare oggi! XD

Le vie delle ficcyne sono infinite! LOL!

 

 

 

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Capitolo 3
*** ...forgiveness ***


Family... forgiveness

Note Iniziali: ed ecco finalmente la shottina sul ‘perdono’ che sarebbe dovuta arrivare la settimana scorsa. XD

Ma qua le storie fanno quello che vogliono, mi mettono nei guai e io devo correre ai ripari!

Che pazienza! \O/

 

Buona lettura :*

 

 

...forgiveness

Soulmate series - #5.6.3

 

 

 

 

Per tutto l’allenamento era stato nervoso.

Parte della sua testa – e il cento per cento del suo corpo – era rimasta ancorata alla presenza di Mamoru, al suo profumo, alla voce, al tocco delle mani. L’altra parte era stata occupata dal rientro a casa di quel pomeriggio: quando avrebbe aperto la porta e avrebbe trovato di nuovo suo fratello.

Non si erano più sentiti, neppure per messaggio, dal sabato mattina in cui l’aveva raggirato alla stazione. Era stato tentato di chiamarlo, ma poi la presenza di Mamoru e la voglia di passare insieme ogni istante aveva assorbito tutte le sue attenzioni. Infine, doveva ammettere di avere una paura fottuta di trovare Shuzo arrabbiato, offeso o comunque risentito nei suoi confronti. Certo, suo fratello si era scusato nel messaggio che gli aveva mandato mentre era sul bus, ma poi… E se l’avesse detto tanto per dire e il rapporto tra loro fosse cambiato? Magari divenuto più freddo, distante.

Anche nelle migliori famiglie ci si spezzava con un niente.

Per tutto questo, Yuzo era rimasto teso come una corda di violino, tanto che addirittura il preparatore dei portieri gli aveva fatto notare la sua legnosità.

Troppo riposo, eh? Aveva ridacchiato, sornione. Se solo avesse saputo che sì, si era felicemente intrattenuto, ma con Mamoru Izawa, per un giorno e tre quarti in cui l’unica attività non sessuale che avevano fatto era stata mangiare, magari gli sarebbe preso un colpo. O gli avrebbe fatto l’applauso.

Anche a quello aveva ripensato durante l’allenamento, ma non era diventato legnoso per colpa di un durello!

Lui e Mamoru erano stati imbarazzanti. Forse a causa del fatto che non si vedessero da tre mesi e avessero le pile caricate a palla, ma davvero non si erano dati tregua. E, come sempre accedeva quando Mamoru si prefiggeva un obiettivo, lo portava a termine: avevano quindi fatto sesso dappertutto, in quella casa, varandola come con una nave. In cucina, sul divano, nella vasca, a terra, contro il muro del corridoio, in camera. Non c’era stato un posto che non si fosse salvato dalla loro passione. Tanto che quando si erano salutati sulla porta e lui si era proposto di accompagnarlo almeno al parcheggio, Mamoru aveva rifiutato, abbozzando un sorriso.

«Meglio di no. O finisce che ti carico in macchina e ti porto via.»

Anche lui aveva sorriso, con la tentazione di dargli un ultimo bacio, ma erano già sulla soglia di casa; c’era il mondo fuori, a cominciare dai vicini. Aveva avuto la sensazione che Mamoru desiderasse quell’ultimo contatto e allo stesso modo si aspettasse di non riceverlo. La separazione era stata devastante, più del sesso. Si era sentito così solo da desiderare di avere attorno suo fratello, ma chiamarlo sarebbe stato egoista visto che era stato proprio lui a mandarlo via. Così aveva vagato per casa, sistemato, pulito, cambiato le lenzuola del letto e fatto il bucato. Eppure, l’odore di Mamoru era rimasto, lui era riuscito a percepirlo ovunque, anche addosso dopo aver fatto la doccia. Ed erano rimaste le memorie che avevano richiamato momenti di fuoco per tutta la casa. Ovunque si girava, divampava l’incendio.

Quella notte non era riuscito a dormire. Sarebbero dovuti trascorrere un paio di giorni prima che tutto tornasse alla usuale e solitaria normalità. Poi, il mattino aveva portato la ventata d’ansia dovuta al rientro di Shuzo, giusto perché non aveva già abbastanza cui pensare.

«E così mi è capitato di incontrarla fuori dall’ospedale, mentre andavo a trovare il mio nipotino, e con la scusa di farglielo vedere, ne ho approfittato per fare due chiacchiere.»

«E…?»

Takeshi nascose il sorriso imbarazzato nel girare il viso dal lato opposto con finta distrazione. «L’ho invitata a uscire.»

«Finalmente!» Yuzo rivolse un rassegnato sospiro al cielo. Aveva il borsone caricato sulla spalla, mentre camminavano lungo la via di casa dopo l’allenamento. La vita a Shimizu-ku aveva fatto loro compagnia nel gradevole traffico serale del centro, dove fila di macchine andavano e venivano da Shizuoka City.

«Non era così facile come credi.»

«Invece sì. Ti è bastato chiederglielo e lei ha accettato.»

«Sì, ma non sei tu quello innamorato perso di lei.» Takeshi sospirò. «Ero convinto mi dicesse no.»

«Ma se ti abbiamo sempre detto che Kumi chiedeva di te quando non c’eri?»

«Be’, ma che c’entra? Magari chiedeva per cortesia.» Takeshi scrollò il capo. «E poi siamo usciti solo due volte… una cena, un gelato. Non credo sia cambiato molto.»

«Non fasciarti la testa. Vedi come si evolvono le cose e nel frattempo che sei qui chiamala e scrivile. Così le fai capire di essere davvero interessato.»

«Lo farò, questo è certo.» Takeshi annuì. «Con tanti ringraziamenti a mia sorella che ha partorito con un tempismo perfetto! Mio nipote mi ha portato fortuna!»

«Allora dovrai essere un ottimo zio.»

«Farò del mio meglio. Ma dimmi del tuo week-end: com’è andato?» Takeshi gli diede di gomito e lui si irrigidì. «Ti ho visto un po’ stanco. Ti sei tenuto impegnato?»

«Ah, i-io… ecco… è che è arrivato mio fratello.»

«Ma non doveva trasferirsi il prossimo mese?»

«Sorpresa.»

«Dai! Grandioso! Lo troveremo a casa, allora?»

«Credo di sì, non so se è già in giro. Devi capire che è un tipo un po’ particolare.»

«A me non è sembrato tanto male.»

Ovvio, pensò Yuzo, solo perché Takeshi era un semplice ‘amico’, quindi suo fratello non aveva avuto motivo di sfoggiare il peggio del proprio repertorio.

Arrivati davanti casa, le luci accese del salotto confermarono che Shuzo era tornato e Yuzo prese un profondissimo respiro. Takeshi lo anticipò nell’aprire sia il cancello che la porta, quindi fu il primo a entrare in casa.

«E se questo profumo non è di cibo preso al take-away, direi che quello più felice di saperti con noi sarò io!» esordì. «Tra te e Yuzo, penso di essere finito nella migliore cucina casalinga in cui potessi sperare. Non rimpiangerò mia madre!»

Takeshi rise, Shuzo gli andò incontro per accoglierlo. Lui ebbe un sussulto.

«Bella, Takeshi. Felice di rivederti.»

«Mai quanto me, credimi. Che hai cucinato?» Si scambiarono un ‘cinque’ blando che sfumò in pugno. Takeshi aveva già il naso per aria.

«Sto facendo takoyaki e shirataki udon con verdure e salsa tom-yum

«Gli dèi benedicano i fratelli Morisaki. Ragazzi, sono disposto a pulire il cesso due volte a settimana, purché cuciniate voi! Farò crepare di invidia Ryo! Urabe dice che è negato in maniera totale.» Takeshi sghignazzò, poi si soffermò su un particolare. «Ehi! E questa sobrietà di colori? Non avevi un arcobaleno in testa fino a poco tempo fa?»

Fino a sabato, avrebbe voluto sottolineare Yuzo, ed era il motivo per cui era trasalito appena entrato in casa: Shuzo aveva tagliato i capelli in un mohawk molto ordinato e sfumato, non troppo lungo. Della tinta arcobaleno mezza slavata non era rimasto nulla. Sembrava quasi una persona seria e, soprattutto, la loro somiglianza ne era uscita ancora più marcata.

«Sì, ma oggi ho parlato con il maestro.» Shuzo si strinse nelle spalle. «Abbiamo chiarito un po’ di posizioni riassumibili in: lui ordina, io eseguo

«Ahia! Non suona per niente bene, sembriamo noi col mister. Benvenuto nella vita da subordinato!» Takeshi gli diede una pacca al braccio e lo superò muovendosi verso le scale. «Vado a posare la roba e a fare una telefonata. Se non sono ancora sceso per quando è pronto, datemi una voce!»

Il difensore della S-Pulse sparì in fretta al piano superiore, mentre quello inferiore divenne solo loro. Yuzo era fermo con le spalle alla porta di casa, mentre Shuzo aveva infilato le mani nelle tasche dei pantaloni della tuta e lo fissava con quell’aria arrogante di chi si aspettava la prima mossa. L’aveva uguale a quando era bambino: sogghigno, mento sollevato. Un’espressione che il proprio specchio non avrebbe mai restituito. Shuzo sapeva sempre come fargli pesare l’errore, anche senza dire nulla.

Yuzo passò una mano dietro al collo, schivò lo sguardo inquisitore. «Mi spiace per i capelli.»

«Pazienza.»

«Allora è davvero così severo il maestro?»

«Mah, più che severo, è il prototipo dei rompicoglioni vecchio stile, sai, quelli che non si mangiano una risata nemmeno pregando gli dèi.» Shuzo gli passò davanti, deviò per la cucina e riempì l’aria con un gesto della mano che riassumeva noncuranza.

Yuzo gli tenne dietro, dopo aver lasciato il borsone accanto alla porta. Osservò Shuzo raggiungere i fornelli e dare una rigirata agli udon, prima di spegnere la fiamma. Poi passò la mano sopra la piastra dei takoyaki per valutarne il calore. Ci spruzzò dell’olio alla rinfusa e lo distribuì in maniera più uniforme con un pennello da cucina. Yuzo si fermò poco distante, rimase a osservarlo. Ai fornelli erano piuttosto bravi, per tutte le volte che avevano aiutato la mamma quando era impegnata tra clienti e lavori. Erano diventati autonomi in fretta e in cucina si erano sempre divertiti parecchio – compresi i tentativi involontari di mandare tutto a fuoco.

«Severo o no, non voglio che cerchi di cambiarti.»

«Ma non vuole cambiarmi.» Shuzo lo guardò con una luce di sfida negli occhi. «Vuole vedere fino a quanto resisto. Sta testando la mia volontà, il che significa che la faccenda dei capelli è stata solo l’inizio. Ma se pensa che io molli così in fretta, vuol dire che starà a me insegnargli la testa dura della nostra famiglia.»

«Lo hai messo in guardia?»

«Sei matto?! Se alzo troppo la cresta è capace che mi prende a bastonate!» Shuzo scosse il capo, lanciando pezzi di polipo nelle formine semisferiche della piastra. Ci sparse sopra manciate di erba cipollina sminuzzata, zenzero rosso e del tenkasu, prima di ricoprire con mestolate di pastella. Riempì l’intera piastra e tutto sembrava galleggiare in una forma indistinta. Appoggiò entrambe le mani sul bordo del ripiano e tornò a guardarlo. «Okay che io sono stronzo e tendo a mettermi sempre contro chi è più grande di me, ma contro di lui, col cazzo proprio.»

Yuzo trattenne a stento la risata. «Non ne avrai mica paura?»

«Eccome!» Shuzo recuperò delle bacchette dal cassetto delle posate e le lasciò accanto alla piastra. L’impasto sfrigolava, si levava qualche bolla. Shuzo gli diede le spalle e incrociò le braccia al petto. «Dovessi vedere che gente gira nel locale.»

«Poco di buono?»

«Vecchi yakuza.»

«Non mi piace…»

«Ma se è una figata!» Gli occhi di Shuzo brillavano di aspettative; lo stesso entusiasmo che aveva avuto lui quando aveva firmato per la S-Pulse. «Mori-horishi li tiene in riga con uno schiocco di dita. A volte penso che lo sia pure lui… ma col cazzo che glielo vado a chiedere!» Sospirò, abbassò lo sguardo al pavimento. «Vedessi che lavori fa…»

Yuzo studiò meglio il profilo di suo fratello, a partire da quel taglio di capelli tanto ordinato quanto aggressivo in cui non soffocava la propria personalità, ma la teneva a bada, disciplinata. Si soffermò poi sullo sguardo dagli occhi ben aperti su un punto imprecisato del pavimento: ci vedeva oltre, già; ci vedeva il futuro, e infine il mezzo sorriso di chi smaniava per mettersi al lavoro. In pochi minuti, aveva dato al suo maestro del musone, del retrogrado e dello yakuza; aveva detto che gli faceva paura e che di sicuro lo avrebbe preso a mazzate una volta o l’altra, eppure continuava a sorridere e ad aspettare il giorno dopo per poter iniziare il suo percorso di apprendista tatuatore.

«Lui ti piace.»

«Mori-horishi?» Shuzo si girò. L’impasto sfrigolava vivacemente e lo separò con abilità lungo la linea centrale; poi, con la bacchetta e movimenti rapidi, iniziò a rigirare ogni formina affinché i takoyaki prendessero la loro classica forma sferica. «Lo ammiro: ha un’abilità incredibile. I suoi movimenti sono eleganti e precisi; e il suo pessimo carattere ha trovato pane per i suoi denti col mio. Insomma, non è quel genere di pessimo che ti fa dire: ‘cazzo, zio, sopprimiti!’. È più un tipo autoritario, molto vecchia scuola, per quanto credo abbia l’età di papà, o giù di lì; ed è imperturbabile come le montagne. Non posso dire che mi faccia impazzire, ma… non mi dispiace.» Shuzo tornò a dare le spalle alla piastra dopo aver girato tutte le palline. Gli lanciò di nuovo lo sguardo supponente, accompagnandolo con un’occhiata in cui lo squadrava dall’alto in basso che tornò a mortificarlo. «Piuttosto, avete recuperato come si deve, questo week-end? So che non ci sarebbe bisogno di chiederlo, visto che quel succhiotto parla abbastanza da solo.»

«Eeeh?! Cosa?! Dove?!» Yuzo coprì d’istinto il collo con la mano. Gli avvertimenti a Mamoru di non lasciare segni in posizioni troppo visibili non erano serviti un granché.

Shuzo girò il viso verso il pavimento, ridacchiò. «Fesso.»

«Ehi, la cosa è seria. Mi sono addirittura trattenuto più a lungo in campo per poter fare la doccia da solo! Ho costretto quel poveraccio di Takeshi ad aspettare un sacco di tempo!»

«Credi davvero che avessi voluto sapere i particolari trucidi di quello che hai fatto con il maniaco? Era piuttosto palese come sarebbe finita; quello non vedeva l’ora di saltarti addosso.» La coda dell’occhio di suo fratello tornò a colpirlo come uno spillo. «Carino il trucchetto alla stazione.»

«…sei arrabbiato?» Yuzo abbassò lo sguardo e inclinò leggermente il capo come un cane bastonato.

«No.»

«Sicuro? Non è che lo dici, però poi non ti fidi più di me?»

«Veramente sei tu che hai detto di non fidarsi più.»

«Ce l’avevo con te…» Yuzo avanzò di un paio di passi per arrivare a essere uno di fronte all’altro. «Sai che non lo penso affatto.»

«Sì, e so di essermelo meritato. Sono stato stronzo a intromettermi così tanto, però… vedermi scalzato da quel tipo mi fa davvero incazzare.» Shuzo arricciò le labbra, sollevò lo sguardo al soffitto. «Hai preferito lui e fregato me. Non posso sprizzare gioia nel sapere di essere al secondo posto.»

«Non ci sono posti! Voi due siete sullo stesso livello, ma in modi differenti. Tu sei mio fratello, mentre Mamoru…»

Già, Mamoru cos’era? Che ruolo occupava davvero nel suo cuore? Yuzo avrebbe potuto rispondere, ma a che serviva imbucarsi in un senso unico? Abbassò il braccio che aveva sollevato nel gesticolare e sospirò.

La notte di Natale, la mattina dopo e ogni volta che si vedevano Mamoru diceva delle cose bellissime, lo toccava e guardava come fosse davvero prezioso, come fosse importante. La notte di Capodanno glielo aveva anche detto, e gli aveva detto di essere geloso dei suoi ex… ma lui perché non riusciva ad adagiarsi su quei gesti, discorsi e rassicurazioni?

«Mentre Mamoru?» Shuzo lo incalzò, dimostrandogli un affetto così radicato da non avere alcuna pietà per i suoi sforzi. «Credevo fosse chiaro cosa significasse per te.»

«Lo è, infatti. Ma non so quanto io significhi per lui.»

«Come sarebbe? Mi ha minacciato lo stesso giorno che ci siamo conosciuti! Direi che abbia delle certezze. Ma se non sei sicuro, significa che invece avevo ragione io, dopotutto. No?»

«Non lo so. È tutto così perfetto, adesso, che sembra debba spezzarsi da un momento all’altro. Non posso dargli un nome che magari non accetterebbe.»

«E questo ti sta bene?» Shuzo fece un passo verso di lui. Occhi negli occhi alla stessa altezza, precisa al millimetro. Stesso colore, stessa forma. Luci e ombre completamente diverse. «Una relazione a tempo determinato non suona bene per un tipo come te. Vedi che ti fai male.»

«Ne sono consapevole, però… è mio, ora, capisci? Ci siamo girati attorno convinti di disprezzarci a vicenda, e invece volevamo solo avvicinarci il più possibile. Forse va bene che non sia ‘per sempre’, l’importante è che sia ‘adesso’.» Perché ora non poteva farne a meno. Probabilmente anche in futuro, ma sembrava così lontano. Quando sarebbe stato futuro se nel momento in cui arrivava diventava presente?

«Non hai mai rischiato tanto per gli altri, né hai mai preso in giro me. Questo dovrà pur significare qualcosa, e la risposta è abbastanza ovvia. Allora, se credi di esserne capace, vivila come ti pare. Io me ne starò in un angolino.» Shuzo lo canzonò, e poi fermò le mani ai lati del suo viso. «Resterò nei paraggi per qualsiasi cosa, fratello, se ne avrai bisogno. E anche se non ne avrai. Ma se poco poco farà lo stronzo, lo ammazzerò. Patti chiari.»

Yuzo sorrise e si sentì rincuorato dal sapere che Shuzo sarebbe sempre stato al suo fianco, gli diede la dose di sicurezza di cui aveva disperato bisogno. Rimboccarsi le maniche, essere positivo, pensare al presente e vivere la sua relazione come stava facendo: lasciandosi travolgere ogni giorno dai sentimenti che aveva dentro e beandosi della voce di Mamoru, anche se filtrata da un telefono.

Shuzo si girò di scatto nello sfrigolare troppo forte della piastra. Imprecò, dando un’ultima girata a tutti i takoyaki alla velocità della luce. «Merda! Per poco non li faccio attaccare! Hai visto? Mi hai distratto!»

«Grazie, bro!» Yuzo lo abbracciò mentre gli dava ancora le spalle.

«Ehi! Ehi! Non vedi che sto lavorando?! Ruffiano. Sei un ruffiano.»

«Solo un po’.»

«Un po’ tanto!»

«Scusate se ci ho mes-… uoh!» Takeshi si fermò a un passo dalla porta della cucina. Inarcò un sopracciglio su un mezzo sorriso di disagio. «Non riesco ancora a capire in che misura mi disturbi questa immagine di voi due abbracciati. Ma giuro che in questo momento il pensiero che ho avuto mi ha fatto sentire sporco dentro.»

Shuzo era piegato dal ridere; lui non lo mollava.

«Esagerato. Anche tu hai una sorella.»

«Sì, ma siamo un po’ allergici a tutto questo affetto. E poi lei ha sei anni in più di me.»

«È lui il ruffiano», precisò Shuzo indicandolo col pollice.

«Scusami tanto se ti voglio bene!»

«E io mi sento di nuovo sporco dentro. Facciamo che vi aspetto in salotto, okay?» Takeshi fece dietro front e lasciò la cucina con lo stesso passo deciso di come vi era entrato.

«Aspetta! Ti aiutiamo ad apparecchiare! La cena è pronta! Oh-… e mollami, bro

«No!»

«Ruffiaaano.»

Yuzo si lasciò trascinare come faceva fin da bambino: le braccia al collo del fratello e la testa tra le spalle. Aveva finanche le punte dei piedi che strisciavano sul pavimento, e seguitava a ridacchiare di quello sprazzo di infanzia che li coglieva a momenti alterni; un po’ lui, un po’ Shuzo. Nel frattempo, pensò che Takeshi avrebbe dovuto abituarsi in fretta se avesse voluto sopravvivere all’affetto dei fratelli Morisaki, ma forse sarebbe stato meglio parlarne con la pancia piena.

 

 

 

 


 

 

Note Finali: dopo gli Izawa bros, mancava l’altra coppia di fratelli! :D

I Morisaki hanno un rapporto molto affettuoso tra di loro, anche a livello fisico: si abbracciano, fanno la lotta, cercano il contatto. Insomma, il modo in cui dimostrano la loro unione è a 360° gradi.

Yuzo sa di poter contare su Shuzo per qualsiasi cosa, e viceversa. Si coprono a vicenda, si consigliano a vicenda e si raccontano praticamente tutto, senza alcuna remora; diversamente dai fratelli Izawa, in cui vige una leggera disparità dovuta anche agli anni di differenza tra Mamoru e Sen. I Morisaki, invece, per quanto abbiamo caratteri differentissimi ne discutono e si confrontano di continuo: i piani su cui viaggiano sono gli stessi.

E i fratelli sanno sempre perdonare un inganno, se è a fin di bene! X3

 

Infine… a chi sarà dedicata la penultima shot di questa brevissima raccolta?

Dopo i ‘moniti’, i ‘pettegolezzi’ e il ‘perdono’ ci ritroveremo la prossima settimana per scoprire i ‘Family… concerns’, cioè le ‘preoccupazioni’. :3

Stay tuned! :D



PS: non ricordo se lo avevo spiegato, ma 'horishi' è il termine tecnico con cui si identifica il maestro tatuatore; cioè è proprio specifico di quel mestiere.

 

 

 

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Capitolo 4
*** ...concerns ***


Family... concerns

 

 

...concerns

Soulmate series - #5.6.4

 

 

 

 

Baiko guardò l’orologio e si accigliò, poi alzò il viso sul negozio che aveva davanti: piccolo, con porta d’ingresso e una sola vetrina dal vetro opaco, decorata dal disegno di un Misshaku Kongo, la cui bocca spalancata era un monito di minaccia e violenza. Fuori dalle villette si metteva il cartello ‘attenti al cane’ e qui, invece, c’era un Agyo. In alto, l’insegna in legno aveva tutti i suoi anni e la scritta in nero vergata a mano, da un maestro calligrafo.

Mori no Kokoro.

Un nome molto poetico per lo studio di un tatuatore; anche se chiamarlo ‘studio’ faceva troppo moderno. Bottega pensò gli si addicesse di più, perché, da come aveva capito, il suo proprietario aveva scelto di crearsi una bolla temporale in cui isolarsi dal progresso per mantenere viva la tradizione nella sua purezza originaria. Ammirabile, avrebbe detto, molto nazionalista, se non fosse che non sapeva che pensiero nutrire verso il maestro che la portava avanti. Un uomo che aveva visto solo da lontano, nelle volte che aveva pedinato Shuzo e nelle altre che era tornato da solo, ma di cui conosceva tutto. Prima di andarci a parlare, però, si era preso del tempo, aveva atteso che suo figlio fosse stato sicuro della propria scelta. Ora che stava per iniziare il percorso di apprendista non aveva potuto rimandare ancora. Il momento che Baiko e il maestro Mori si conoscessero era arrivato e lui si era presentato in anticipo di venti minuti, la serranda era ancora alzata, per questo era accigliato. Guardò ancora l’insegna e trovò che l’uguaglianza del kanji ‘mori’, presente nel cognome di entrambi, fosse quasi di buon auspicio. Ci sperò, e di solito le sue sensazioni fallivano poco, così entrò con un po’ più di serenità e fiducia, ma non avrebbe abbassato la guardia: sapeva bene chi avrebbe avuto davanti.

I campanelli sulla porta tintinnarono quando l’aprì e richiuse. La prima cosa che gli arrivò dell’interno fu l’odore di incenso e tabacco, più una nota particolare che non riuscì a inquadrare, perché coperta dalle altre. Un ambiente non troppo grande e spartano: banco dell’accettazione accanto all’ingresso, divanetti antichi – per non dire vecchi – tanto quanto l’aria che si respirava nel locale addossati alla vetrata opaca che non permetteva di sbirciare dall’esterno e viceversa. Un separé con il Monte Fuji, riproduzione di una stampa dell’epoca, divideva la sala centrale: da una parte i già citati divanetti d’attesa, preceduti da un tavolino in bambù, e dall’altra… non lo sapeva; il separé precludeva la visuale. Scorse solo la porta scorrevole in carta di riso sul fondo, che creava un’ulteriore separazione dalle salette private, dove il maestro effettuava lavori più complessi e lunghi che richiedevano una certa intimità. E proprio da quella porta vide emergere il motivo della sua visita. L’horishi, il maestro tatuatore.

La somiglianza fisica che correva tra loro l’aveva colpito fin da che aveva visto una sua foto, all’interno del vecchio e corposo fascicolo relativo al Clan Narasugawa. Akio Mori era più alto, una struttura fisica più imponente e occhi scuri scuri, ma le linee del viso, il taglio della mandorla, finanche la linea del naso – che loro avevano sempre avuto così caratteristica da essere rara – richiamava l’aspetto di entrambi. L’unica differenza sostanziale era che per quanto Mori avesse un paio di anni in meno di lui, ne dimostrava dieci in più. Oh, e i tatuaggi. Anche se ben nascosti dallo yukata scuro che indossava, Baiko sapeva che ne aveva coperte entrambe le spalle a partire dai gomiti.

«È in anticipo.» Mori lo fece presente subito dopo aver gettato uno sguardo all’orologio appeso sopra il banco dell’accoglienza. Ancor prima di dargli il ‘benvenuto’.

Baiko minimizzò il sorriso in una stretta di spalle. Le mani ben affondate nelle tasche del lungo impermeabile.

«Ho terminato il lavoro prima del previsto», mentì, «e ho deciso di passare comunque, per non farle perdere tempo.»

Akio si fermò a un passo e Baiko l’osservò con attenzione e discrezione al contempo; il collo lungo, messo in risalto dai capelli tagliati molto corti e la linea allentata dello yukata, lo faceva sembrare ancora più alto di quei reali cinque/sei centimetri in più che aveva nei suoi confronti. Forse sette.

«La puntualità è rispetto, dicevamo noi un tempo, anticipare è paura.» L’horishi infilò i pollici nell’obi e lo guardò dritto negli occhi senza fare una piega. «La innervosisce avere a che fare con uno yakuza

«È per mio figlio che sono preoccupato.»

Akio abbozzò e si fece da parte. Con il braccio indicò verso il fondo del locale. «Si accomodi, ispettore.»

Baiko lo superò di un paio di passi, cercando di imporsi un’andatura rilassata e sicura, ma si guardò alle spalle dove vide Akio chiudere a chiave l’ingresso, in modo che nessuno potesse disturbarli. Andando avanti, scoprì due lettini, dietro al separé, dallo schienale regolabile. Adagiate sui braccioli movibili c’erano delle macchinette per tatuare. Poi, la porta scorrevole e dall’altra parte iniziava il tatami. Sopra vi oscillava un noren color avorio su cui guizzavano carpe oro, nere e rosse nel passare da un pannello all’altro.

Baiko tolse le scarpe e le appoggiò nella piccola scarpiera posta subito all’interno dello stretto corridoio che si snodava in una sola direzione nel retro del negozio.

«Entri nella seconda stanza a sinistra.»

La voce cavernosa e un po’ rauca di Akio Mori lo seguiva alla distanza di un passo e mezzo. Non gli piaceva avere uno yakuza alle spalle, ma si sentiva abbastanza sicuro dei propri mezzi e della ristrettezza del posto in cui si trovavano per reagire a qualsiasi gesto inatteso. Eppure, sapeva che quella tensione fosse solo dovuta alla sua abitudine nel trattare con i criminali e non frutto di un reale pericolo. Akio Mori non aveva atteggiamenti minacciosi nei suoi confronti, anzi, era molto educato. Avrebbe detto ‘signorile’.

Passando davanti alla prima camera, che aveva il pannello d’entrata leggermente aperto, Baiko notò un piccolo futon aperto e, di sfuggita, colori e strumenti lunghi dal manico in legno, guanti di lattice usati e appallottolati e dei fazzoletti sporchi di inchiostro nero. Lì doveva essere dove praticava la tecnica tebori sui clienti che la richiedevano, come quello che aveva visto uscire cinque minuti prima che entrasse lui. Il suo anticipo doveva averlo sorpreso, impedendogli di mettere tutto in ordine.

La stanza successiva, invece, quella in cui venne fatto accomodare, era riassumibile come un piccolo monolocale di foggia quadrata. Un armadio occupava per intero la parete di sinistra. Al centro vi era un tavolino basso e due sedie zaisu dai cuscini consumati. Sulla parete destra erano appoggiati un frigorifero, una piccola libreria e un cucinino. La televisione sopra il frigo era spenta e silenziosa come tutta la casa. Vi aleggiava un rigore d’altri tempi; freddo, solitario. Nemmeno la luce, che di giorno sarebbe dovuta entrare dalla finestrella sul fondo, doveva essere sufficiente a rendere quel luogo ‘accogliente’ e ‘vissuto’. Sembrava che da un momento all’altro un fantasma avesse dovuto attraversare le pareti e scivolare via.

«Mi dia pure l’impermeabile. Posso offrirle qualcosa? Tè, sakè

Baiko tolse la giacca e gliela lasciò. «Tecnicamente sarei ancora in servizio», rispose, prendendo posto in una delle sedie.

«Vada per il sakè

Gli venne da ridere. «Non accetta i rifiuti, Mori-san?»

«Solo quelli inutili.»

Da una piccola credenza, alla base dell’altrettanto piccola libreria – tutto in quella casa era piccolo se relativo alla sfera personale; come se, della vita privata, Akio Mori non avesse altro che briciole da voler conservare – recuperò una bottiglia e due bicchieri.

Doveva ammetterlo, si era aspettato qualcosa di molto diverso dall’uomo che prendeva posto davanti a lui e gli allungava un bicchierino: lo riempì di sakè fin quasi all’orlo e fece lo stesso col proprio.

Li sollevarono, accennarono l’un altro un principio di brindisi e bevvero. Baiko solo un sorso, Mori ne vuotò poco più della metà e tornò a riempirlo.

«Era da parecchio che non leggevo il nome dei Narasugawa da qualche parte. Capirà la mia sorpresa quando ho visto il suo legato a quello del clan di Yujiro ‘lo scorticatore’

Akio gorgogliò una risata. «Yujiro-sama non ha mai scorticato nessuno. Ero presente quando si è guadagnato quel soprannome e, mi creda, non è per ciò che immagina né per inenarrabili torture inflitte ai suoi nemici. I nomignoli sono fatti anche per gonfiare storielle sciocche.»

«Ciò non cambia che il clan sia stato al centro di numerosi fatti, come la scalata al Gruppo Amazu, o i ‘cementati di Mabuchi’.» Quell’ultimo, soprattutto, era rimasto nelle memorie di chi quegli anni li aveva vissuti. Lui era stato agente semplice, già desideroso di fare carriera. Nel quartiere di Suruga ci era stato mandato e i ‘cementati di Mabuchi’ – come erano stati ribattezzati dai media – li aveva visti con i propri occhi: gente murata viva nel cemento usato per edificare alcuni palazzi abusivi, poi abbattuti. Baiko tornò a bagnarsi la gola, questa volta con maggiore veemenza. Strinse leggermente gli occhi per il forte dell’alcool e Mori gli riempì di nuovo il bicchiere.

«Da allora è passato troppo tempo, neppure ricordo dove fossi, ma ciò che è stato non cambia ciò che è ora: il Clan Narasugawa è finito. Io sono l’ultimo rimasto: alla mia morte, anche il clan morirà.» Mori arrischiò una smorfia sorridente. «E comunque anche per me è una sorpresa sentirlo nominare dopo tutti questi anni.»

«Mi risulta strano credere che tutti gli affiliati siano passati a miglior vita.»

«Non lo sono infatti. Chi è ancora vivo si è unito ad altre famiglie e gruppi. Io non amo i cambiamenti, e non mollo la scuderia solo perché il cavallo di razza è diventato troppo vecchio. Non sono mai stato chissà quanto uomo di azione al tempo, ma di sicuro sono stato leale.»

«È questo che vorrebbe insegnare a mio figlio?» Baiko affilò lo sguardo.

«La lealtà è un valore onorevole, dentro e fuori dalla yakuza, ma, no, non voglio insegnargli la vita criminale, se è questo che teme. Sono anni che neppure io la pratico. Con il crollo del clan sono diventato un semplice tatuatore, come il mio horishi prima di me. Ho raccolto la sua eredità e ora la insegnerò a Shuzo. Se riuscirà a tenere il passo.» Mori ruotò il bicchiere sul tavolo. «Già che ci siamo, mi dica: è la spina in culo che sembra o è tutta apparenza?»

Baiko per poco non sputò il sorso di sakè che aveva bevuto. Soffocò una risata in mezzo ai colpi di tosse. «Un po’ tutti e due, ma è un bravo ragazzo.»

«Questo l’avevo capito, altrimenti non avrei scelto di tatuarlo e, soprattutto, non avrei scelto lui come apprendista.»

«Glielo avevano già chiesto?» Baiko poggiò le mani sulle gambe per concentrarsi solo sul maestro. Da ciò che avrebbe visto e sentito avrebbe dovuto trarre la scelta: permettere o meno a suo figlio di affidarsi a quell’uomo, permettere o meno ad Akio Mori di stare a contatto con Shuzo.

«Svariati nel corso degli anni. Li ho rifiutati.»

«Ma ha accettato mio figlio. Cosa l’ha convinta?»

«La storia che voleva gli raccontassi addosso.»

Baiko tirò indietro il mento e Mori ne sorrise. Adagio il maestro si alzò e scostò appena l’anta dell’armadio alle sue spalle. Quando tornò a sedersi, sul tavolo appoggiò un borsello di pelle nera consunta dall’uso, attaccata a un lungo contenitore laccato lucido, su cui era disegnata in oro la sagoma di un airone. Akio non l’aprì subito; vi incrociò sopra le mani.

«Cosa crede che siamo, noi, ispettore? Tra tutto quello che pensa la stupirà sapere che siamo anche narratori. Io non tatuo chiunque me lo chiede. È per questo che la nostra arte sta sparendo a poco a poco sommersa da quella più spicciola, consumistica e anche narcisista delle sole macchinette. Noi siamo silenziosi, e chi decidiamo di tatuare non è spinto dalla necessità di mostrarsi come un trofeo: la storia che vuole raccontare apparterrà a lui soltanto.»

«La storia…»

«Sì. La storia. Per questo siamo narratori. Credeva che io tatuassi gattini?»

«Che storia voleva raccontare mio figlio?»

«Ha visto il suo tatuaggio?»

«Sì.»

«Allora la conosce già e meglio di chiunque altro. Non giriamo attorno al motivo per cui Shuzo abbia deciso di chiedere proprio a me di fargli da horishi, tanto l’abbiamo capito entrambi.» Akio aprì l’astuccio laccato. La kiseru aveva il corpo centrale in bambù colorato di nero, e le due estremità in ottone. Anch’essa aveva i suoi anni, vissuti come tutto ciò che circondava Akio Mori.

L’ultima volta che Baiko aveva visto una pipa tradizionale come quella era stato molti anni prima, quando era andato a trovare un vecchio zio che abitava in campagna. Della campagna riconobbe anche il modo in cui Akio la teneva: noumin, lo stile usato dai contadini, che la afferravano per l’estremità anteriore.

«Shuzo ha una buona mano», continuò il maestro, pizzicando una manciata di tabacco dalla borsetta di pelle. La pressò nella testa della pipa. «Migliore di chiunque lo abbia preceduto, e una visione che guarda indietro, ma non solo, e poi guarda avanti senza essere presuntuoso. Per questo l’ho scelto.»

Una storia, una visione equilibrata, un talento. Baiko abbassò gli occhi sulle proprie mani e si chiese se avesse mai davvero notato, con tale profondità e acutezza, le capacità di quel figlio scapestrato che stava iniziando solo adesso a trovare la propria strada. «Crede ch’io lo stia sottovalutando?»

«No. È solo preoccupato, perché è suo padre. Fuma?»

«No, grazie.»

Akio sfregò la testa del fiammifero contro il bordo del tavolino. La fiamma accese subito il tabacco. Un paio di boccate veloci e poi il fumo venne esalato con una nuvola sottile verso l’alto. Tra le volute, Baiko riconobbe lo stesso aroma particolare che aveva percepito appena entrato nel locale, ma stavolta non c’era l’incenso a falsarne l’odore. Aggrottò le sopracciglia.

«…marijuana?»

«Medica», precisò il maestro, divertito dalla sua sorpresa. «Vuole arrestarmi?»

I segnali, le parole, la calma di Akio Mori, Baiko le osservò da una prospettiva che non aveva considerato, perché non raggiunta da ciò che narravano i fascicoli dell’archivio, ormai fermi da anni.

«No», scandì adagio.

«Per quanto riguarda il carattere di Shuzo, che definire ‘di merda’ sarebbe fargli un complimento, ci sto già lavorando. È venuto da me questa mattina e per tutta risposta gli ho detto che se fosse voluto diventare mio allievo, avrebbe dovuto liberarsi dell’arcobaleno che si porta in testa.»

«Niente più capelli colorati?!»

«No.»

«Ma mi piacevano…»

«Anche a me.»

«E allora perché gli ha detto di toglierli?»

«Disciplina.» Il maestro agitò la pipa con severità. «La disciplina è fondamentale; senza sei una mina che vaga alla cieca aspettando di esplodere e poi divenire rottame. La disciplina ti focalizza, ti regola, a partire dalle cose più insignificanti come un taglio di capelli. Shuzo deve imparare a disciplinare sé stesso, se vuole davvero fare questo lavoro. Una volta che ci sarà riuscito, potrà fare ciò che vorrà, che sia del proprio aspetto o della propria vita.» Akio bevve ciò che restava del sakè, ma non se ne versò altro. «Ad ogni modo, se può consolarla, capisco le sue preoccupazioni, ispettore. Anche se non ho figli.»

«Per scelta o destino?»

«Tutti e due. Mia moglie non ha mai goduto di buona salute e una gravidanza sarebbe stata pericolosa. Lei avrebbe voluto rischiare, io no.»

E anche se queste domande non facevano parte dell’interrogatorio che stava portando avanti, Baiko le pose lo stesso, per conoscere meglio quell’uomo che non aveva paura di vivere con lentezza il tempo troppo veloce che gli scorreva attorno.

«È mancata da molto?»

«Circa nove anni.»

«E lei vive qui?»

«Ormai, sì. Essendo solo, non ho grandi bisogni o necessità. Il Mori no Kokoro è tutto ciò che reputo importante.»

«È un bel nome per un locale.»

«Lo ha scelto mia moglie, io sarei stato molto meno romantico.» Entrambi sorrisero di quella complicità maschile. «Ho visto l’altro suo figlio in televisione. Non seguo molto il calcio, ma è capitato. Gli dèi si dovevano essere sentiti parecchio in colpa con lei. La loro somiglianza è impressionante; Shuzo lo nomina spesso.»

«Sono molto legati. A volte troppo. Shuzo è convinto di doverlo difendere dall’universo.»

«È un bel pensiero ed è importante che i fratelli si guardino le spalle a vicenda. Quando succede, significa che la famiglia li ha cresciuti bene.»

«Lo speriamo. Anche se la maggior parte del merito va a mia moglie. Il lavoro non mi ha mai permesso di essere molto presente.»

«Non è la quantità del tempo che trascorre con loro, ma la qualità.»

Per Baiko, quello era sempre stato un cruccio: nonostante amasse il proprio lavoro di poliziotto, le assenze da casa gli erano pesate. Le feste mancate, i momenti importanti sentiti raccontare. Aveva vissuto, con costante rammarico e senso di colpa, la crescita dei suoi figli che in fretta divenivano autosufficienti. Forse era per questo che non si era arrabbiato più di tanto quando aveva scoperto che Shuzo si era tatuato ben prima della maggiore età: era già più adulto dei suoi diciassette anni. Ora ne aveva diciannove e il suo tempo era lì, era già iniziato.

«Mori-san, lei è convinto di poter essere il maestro adatto a mio figlio?»

«Sì.»

Una risposta secca e ferma. Akio Mori non aveva mostrato mezza incertezza da che lui aveva messo piede al Mori no Kokoro. Nelle sue parole, tutte, c’era stata una confidenza nei propri mezzi e nei propri valori pressoché totale.

«Allora le chiedo di prendersi cura di lui.» Baiko si inchinò fin quasi a toccare il bicchiere di sakè con la fronte.

«Lo farò.» Akio rispose all’inchino con un solo cenno del capo. «Vuole chiedermi qualcos’altro?»

«No, non serve. Ed è meglio che vada, mi attende ancora un po’ di strada prima di arrivare a Nankatsu.» Si alzò, sgranchendo le gambe, e recuperò da solo l’impermeabile.

«È stato piacevole scambiare due parole. Credo che l’ultima volta che qualche genitore si sia presentato da me, sia stato per maledirmi di aver tatuato i loro figli.»

«Non tutti comprendono certe storie, anche se ben raccontate.» Baiko aveva di nuovo le mani affondate nelle tasche; sentiva il duro del distintivo che aveva tolto prima di entrare nel locale. Lo avrebbe rimesso solo una volta fuori.

«È vero, non sono per tutti. Esca pure dal retro: arriverà prima alla macchina che ha parcheggiato fuori dal vicolo.»

Baiko si fermò sulla soglia aperta della stanza, girò adagio la testa: Akio stava esalando una sottile nuvola di fumo; ancora nessuna macchia nel modo che aveva di fissarlo, ma si concesse di snudare i denti in un sorriso che diceva anche quello che aveva taciuto.

Sì, si somigliavano molto e Shuzo non aveva lasciato nulla al caso nella propria decisione.

Mentre si lasciava alle spalle il Mori no Kokoro, con i suoi silenzi e il suo fumo, pensò che adesso fosse tutto nelle mani di quel testimone invisibile che aveva assistito alla conversazione con Akio Mori: il tempo avrebbe deciso del futuro di suo figlio. Lui sarebbe tornato a preoccuparsi a distanza, come facevano tutti i padri: perché non importava se gioiello o spina nel culo, avrebbe sempre tenuto gli occhi puntati sulle schiene dei suoi figli, per non lasciarli mai da soli lungo le strade che avevano scelto di percorrere.

 

 

 

 


 

 

Note Finali: ed ecco le ‘preoccupazioni’. E quali preoccupazioni possiamo avere se non quelle di un papà verso i propri figli? :D

Dite un po’, vi sareste aspettati di trovare Akio e Baiko a confronto?! XD Nella serie Soulmate non voglio farmi mancare proprio niente e visto che ad Akio mi sono affezionata davvero tantissimo, sono riuscita a trovare un modo per inserirlo… e per essere ancora una volta accanto a Shuzo, in un ruolo comunque importante e segnante: quello del Maestro!

Akio Mori, ex-yakuza, vedovo, ultimo rimasto del clan Narasugawa. Un uomo severo, dal carattere duro e l’incredibile talento nell’arte tebori. Lui ha tatuato Shuzo per la prima volta e lui gli insegnerà il mestiere. *-*

Da buon padre e ispettore di polizia, Baiko è preoccupato all’idea di suo figlio nelle mani di un ex-criminale! Ma direi che hanno saputo fare parecchia comunella! XDDDD

 

Prossima settimana ci troveremo con l’ultimo capitolo di questa raccolta e tra moniti, pettegolezzi, perdono e preoccupazioni chiuderà la fila la ‘comprensione’. :3

E sotto a chi tocca! :D

 

 

 

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Capitolo 5
*** ...comprehension ***


Family... comprehension

 

 

...comprehension

Soulmate series - #5.6.5

 

 

 

 

…Sen?

 

“Il piccolo Izawa ha sempre quell’aria disinteressata. Non so che fare per coinvolgerlo di più nelle attività scolastiche o con i compagni…”

“Sì, l’ho notato anche io. Suo fratello non era affatto così.”

 

…ci sei, Sen?

 

“A Izawa-kun non frega niente di nessuno, sarà per questo che ha solo tre amici contati. Deve essere proprio antipatico.”

“Per me è solo snob, con noi ragazze non parla mai.”

“Invece avete visto suo fratello quanto è figo?!”

“Sì! È bellissimo!”

“Ma non poteva assomigliargli di più? Rispetto al fratello, Izawa-kun sfigura di brutto!”

“Già! Praticamente scompare!”

“Cerchiamo di tenercelo buono, magari riusciamo a incontrare Izawa-senpai!”

 

«…Oh! Ma mi ascolti, cavolo?!»

Sen strabuzzò gli occhi allo scossone. Si guardò attorno e vide Kaede con un sopracciglio inarcato e la mano ancora stretta alla sua spalla.

«Sì. Scusa. Che dicevi?»

«Seee, ciao.»

«È tutto okay?» chiese Nobuyuki, sporgendosi un po’ in avanti. Si era fatto buio e loro erano in ritardo per tornare a casa. Finiva sempre così quando sceglievano di andare in sala giochi dopo la scuola: le partite con gli arcade divenivano senza tempo. «Sei strano, oggi. Non hai detto quasi niente per tutto il pomeriggio e a Tekken hai fatto pena! E dire che quando usi Dragunov non ti si batte mai facilmente. Shota c’è riuscito addirittura tre volte di fila, che succede?»

Sen sollevò le spalle. «Niente. Oggi non avevo molta voglia.»

«Avresti potuto dirlo, saremmo andati da qualche altra parte.»

«Ma sì, tanto è uguale.» Non aveva voglia neppure di raccontare i discorsi che si era trovato ad ascoltare quel giorno tra gli insegnanti o tra le compagne di classe, tanto erano sempre i soliti di cui non gli importava niente. Però non riusciva a capire perché quella sera non parevano volerlo lasciare in pace, restando attaccati alle orecchie più a lungo del solito. Forse perché, a conti fatti, si era accorto che non fossero poi così diversi dai rimbrotti continui dei suoi genitori o di suo fratello. A volte sembrava di essere al ristorante e trovarsi davanti un menù fisso.

E aveva sempre un atteggiamento scorbutico.

E stava sempre chiuso in stanza.

E doveva smetterla di litigare con suo fratello.

E non doveva stare sempre al computer.

E aveva dei pessimi gusti.

E non doveva colorarsi i capelli o fare i buchi alle orecchie.

E aveva un brutto carattere.

Sen pareva non ricordare un solo momento in cui gli avessero fatto i complimenti per qualcosa che aveva fatto, ma seppur ci fosse stata avrebbe finito sempre per essere oscurata da Mamoru. Il perfetto di casa era lui, chi trasformava in oro tutto ciò che toccava era lui, chi era destinato ad avere solo successo, a essere il migliore, ad andare sempre bene in tutte le sue scelte era sempre e solo lui. Sen, a confutare quella specie di dogma, non ci si impegnava neppure più, perché tanto nessuno si aspettava nulla da lui. Per tutti andava bene così e la sua voce solitaria avrebbe finito col perdersi in fretta; lo faceva già, per tutte le volte che cercava di dire qualcosa e si sentiva solo rimproverare con risposte da disco rotto: ‘sei troppo piccolo, non puoi fare/capire/parlare’.

Sei troppo piccolo e hai un brutto carattere.

«Sentite…» Sen si fermò qualche passo avanti agli amici, mantenendo lo sguardo a terra e serrando la mano attorno al manico della cartella. «Secondo voi il mio carattere fa così schifo?»

«E questa come ti esce, adesso?» Kaede inclinò la testa. «La fame ti fa dire stronzate. In sala giochi non hai mangiato niente.»

«Sì, forse. O forse mi esce a caso, come tutte le altre cose. Lasciate stare.»

«Qualcuno ti ha detto qualcosa? È per questo che sei arrabbiato?»

«E chi ha detto che sono arrabbiato, Nobu?»

«Be’, se avessi avuto un carattere tanto di merda, noi non saremmo mica amici. Ti avrei già mandato a cacare.» Kaede gli diede una manata alla spalla e a lui scappò un mezzo sorriso nel sollevare appena il viso verso il compagno.

«Mio padre dice che il carattere non si eredita, te lo formi.»

«E cioè tu non hai nemmeno la scusa di essere scemo di natura, Shota? Che sfiga!»

Shota e Kaede si rincorsero, usando lui e Nobu come percorso a ostacoli, solo perché erano i più alti. Nobu ben più di lui, ormai. Sen non pensava sarebbe mai arrivato a quei livelli, ma sentiva di stare crescendo in fretta e una parte di sé sperava di potersi prendere almeno quella rivincita sul perfetto Mamoru.

«Se ti acchiappo, vedi, Kaede!»

«Cosa? Se mi acchiappi le prendi e di brutto!»

E da che Shota stava rincorrendo Kaede, d’un tratto si trovarono a parti invertite con il primo che filava veloce come un’anguilla e l’altro che agitava la cartella nel tentativo di colpirlo.

«Ohi! La piantate di fare casino? Vi sentite solo voi!»

Sen si guardò attorno e la strada, per quanto non fosse deserta, era davvero attraversata da un educato chiacchiericcio e rumore di passi veloci. La sera era inoltrata e i lampioni già accesi. Diede un’occhiata al cellulare e si accorse che le sette erano passate da un pezzo.

«Diavolo! Ma è tardissimo!» Esclamò saltando fuori dal circuito che i suoi amici avevano improvvisato. «Raga, se non torno a casa immediatamente, mamma mi falcia! Ci vediamo domani, okay?»

Gli altri si sbracciarono per salutarlo e poi tornarono a ridere e scherzare, rincorrendosi per tutto il quartiere. Lui, invece, avrebbe dovuto quasi attraversare mezza città e tutto perché i suoi l’avevano mandato alla Nankatsu fin dalle elementari, invece di scegliere la blasonata e più vicina Shutetsu, la scuola elementare del suo quartiere.

«Fategli fare il percorso completo alla Nankatsu, ha più senso»

La frase detta da suo fratello che aveva deciso per intero il suo futuro.

Ovviamente, era colpa sua e della sua arroganza di sapere sempre tutto, credere che ogni sua scelta fosse la migliore. Qualcuno si era per caso premurato di chiedere a lui cosa ne pensasse? Magari sarebbe voluto andare alla Shutetsu e ritrovare i suoi amichetti della scuola materna.

Che poi alla Nankatsu avesse incontrato Shota, Nobu e Kaede era un altro discorso; ne era felicissimo, ma si trattava di una questione di principio. E per principio a lui non chiedevano mai niente.

Voleva bene a suo fratello, ammirava che fosse un campione, ma non sopportava il piedistallo da cui lo guardava e gli imponeva la via da seguire. Lui avrebbe voluto fare da solo, poter decidere, ma alla fine si trovava a dire di sì a tutto ciò che volevano mamma e papà, per non sentirsi rimproverare.

Mentre correva con la cartella sotto al braccio per le strade di Nankatsu, pensò che solo una persona l’aveva trattato da adulto, o comunque non da bamboccio, anche se gli aveva ripetuto di esserlo in continuazione. La sua durezza l’aveva sorpreso, tanto da non riuscire a dimenticarla, né a dimenticare il tono, il modo di storcere la bocca e di inchiodarlo al muro con lo sguardo. Ci aveva pensato molto nei mesi successivi al giorno di Capodanno, ci aveva riflettuto e aveva capito che avrebbe voluto avere almeno un briciolo di quella sicurezza e strafottenza. Saper alzare la voce per farsi sentire e farsi valere, non avere paura di chi era più grosso, né risentirsi dei commenti degli altri che gli dicevano di continuo, anche a mezza bocca, di non essere all’altezza di suo fratello.

Per mesi aveva camminato per le strade di Nankatsu con gli occhi ben aperti nella speranza di vedere di nuovo quei capelli multicolore comparire da qualche parte, ma non era stato fortunato. E dopotutto, si era detto, se non l’aveva mai notato prima, perché adesso avrebbe dovuto essere diverso?

Ora però sapeva con certezza, grazie a Mamoru, che si era trasferito e non ci sarebbe stata proprio a prescindere alcuna occasione di incontrarlo e magari parlarci ancora un po’, farsi insegnare qualcosa di utile. Accidenti!

Lo squillare del telefono interruppe i suoi pensieri appena prima dell’imbocco del parco che gli avrebbe fatto accorciare il percorso, tagliando per una parte del quartiere Mizukoshi.

Sen strinse i denti sotto un’imprecazione, pronto a ricevere la strigliata. Leggere che fosse Pooja-auntie, la loro governante, e non la mamma non lo rassicurò un granché.

– Chellam! Si può sapere dove sei?! È tardissimo, devi tornare subito a casa!

«Sto arrivando, auntie; sono a dieci minuti da casa…» che non era proprio verissimo, ma minuto più minuto meno… era meglio accorciare.

– Avresti già dovuto essere qui! Per fortuna che la signora non si è ancora accorta di che ora sono, perché presa dal lavoro, altrimenti sarebbero stati guai. Lo sai, questo? Se non torni subito, ti aspetterà una bella punizione.

«Sì, auntie. Sto arrivando, promesso.»

– Allora fai in fretta. Non farmi stare in pensiero, si è già fatto buio. Non sta bene che tu sia ancora in giro a quest’ora.

Sen si mortificò per il tono accorato di Pooja e infossò un po’ la testa tra le spalle. «Scusa…»

Imboccato il piccolo parco, rallentò fino a fermarsi e riprendere fiato. Guardare lo schermo del telefono dopo aver chiuso la conversazione. Per quanto la sua governante si arrabbiasse, almeno era l’unica che stava a sentire le sue idee e opinioni, dandogli qualche consiglio e senza metterlo subito all’angolo facendo i paragoni con Mamoru. Con lei si sentiva più a suo agio che con il resto della famiglia, ma ormai era diventato fin troppo bravo a non sbottonarsi troppo, dando giusto qualche input mirato al momento opportuno e con le singole persone, quelle di cui si fidava di più. A parlare a briglia sciolta, forse, si trovava bene solo con sé stesso.

O con il fratello di Yuzo-nii. Con lui aveva alzato addirittura la voce, gli aveva posto domande che non aveva posto a nessuno. Sen credeva che sarebbe riuscito a dirgli molte più cose, se ne avesse avuta l’occasione. Ma adesso, il problema principale era tornare a casa prima possibile. Se avesse corso di nuovo, ci avrebbe messo un altro quarto d’ora, così riprese a camminare decidendo che avrebbe attraversato il parco a piedi per recuperare il fiato. Magari sarebbe stato fortunato e sulla strada avrebbe trovato un autobus.

Il parchetto era piccolo, con pochi lampioni strategici per illuminare il percorso. Alla fine, sembrava più un grande giardinetto con qualche albero, che un parco vero e proprio. C’era il quadrato dalla sabbia tutta smossa, c’erano delle altalene, un paio di scivoli e poi panchine e aiuole, con alti alberi di ginko dalle chiome che sembravano ancora più folte, nell’oscurità della sera, e stormivano alla brezza di maggio. Non c’era praticamente nessuno, a parte lui e una signora minuta che camminava una ventina o poco più di metri avanti.

Vista da dietro, gli sembrò fosse un po’ in difficoltà. Aveva due buste piene, e all’apparenza pesanti, nella mano destra, e una gonfia e grande in quella sinistra. Si fermava ogni dieci passi per appoggiare le due buste piene a terra e tirare un po’ su la borsa che tendeva a caderle dalla spalla.

Pensò a Pooja-auntie, alle volte che andava a fare la spesa e tornava sempre carica di acquisti, nonostante portasse il carrello con sé. Lei gli aveva ripetuto più volte che bisognava sempre aiutare le persone in difficoltà, quando si era nella condizione di poterlo fare, ma se si fosse fermato avrebbe fatto ancora più tardi e una punizione non gliel’avrebbe tolta nessuno, per davvero.

Un po’ a malincuore e sentendosi spiacevole a sé stesso, Sen accelerò il passo per superare la donna a testa bassa, fingere – nemmeno troppo – di essere di fretta, e correre via.

Il ragazzo con il cappuccio tirato sulla testa spuntò all’improvviso con la sua stessa fretta tagliando per una delle aiuole. Urtò la signora così forte da farle perdere il già precario equilibrio. Da una delle buste pesanti, le mele rotolarono ovunque quando lei si trovò a terra con un’esclamazione di sorpresa e spavento insieme.

«Cazzo, guarda dove vai!» sbraitò il ragazzo dopo averla squadrata. Le mani affondate nelle tasche dei pantaloni che per poco non gli cadevano dal sedere.

Sen sgranò gli occhi, restando immobile.

No, quello no. Quello non poteva fingere di non averlo visto, e dentro di sé, nell’angolino più profondo del suo spirito, stava sbraitando a tutto andare contro quel teppista maleducato. Ma da fuori non si sentiva nulla, perché soffocato dalla presenza più ingombrante e antipatica della sua natura: quella codarda. Era la stessa che aveva permesso ai bosozoku, il giorno di Capodanno, di inchiodarlo al muro per il terrore, era la stessa che era stata pronta a dare loro soldi e cellulare senza fiatare… era la stessa che sperava di poter imparare, dal fratello di Yuzo-nii, come alzare la testa e non farsi chiudere all’angolo.

Alzare la testa.

Shuzo-nii gliel’aveva detto con un tono così duro che allora aveva tenuto la testa altissima, tanto da sentire il collo duro come la pietra una volta tornato a casa. Ma ora la stava nascondendo un’altra volta e così le soluzioni tornavano a essere due, secondo la sua mente analitica e razionale: far finta di niente e tirare dritto oppure fermarsi ad aiutare la signora con la spesa rovesciata.

Quanti cazzo di anni hai?! I piscialetto frignano! Tu sei grande abbastanza per alzare la cazzo di testa. Alza la testa!

Nei rimproveri di ferro di Shuzo-nii c’era stata anche una terza scelta: affronta il bullo.

«Ehi!» esclamò a gran voce e pugni stretti. A passo svelto raggiunse la signora, frapponendosi fra lei e il teppista. «Chiedile scusa! L’hai urtata tu, è colpa tua!»

Il teppista si fermò. Piano fece scivolare il cappuccio dalla testa e una chioma di un colore indefinito tra il biondo sporco e il verde slavato fece capolino sotto la luce di un lampione.

Sen respirava con affanno neppure avesse corso per chilometri, e solo in quel momento si rese conto di aver parlato sul serio, quando, cioè, si trovò l’occhiata torva e deforme del teppista che lo fissava come fosse stato una pulce. Una pulce che aveva osato alzare la voce.

Sì, affronta il bullo, diceva Shuzo-nii…

e spera che non ti faccia a fettine.

Sen deglutì e tirò indietro la schiena quando il tizio tornò verso di lui, tanto che iniziò a sudare anche sotto le piante dei piedi.

«Che hai detto, marmocchio?»

«C-che devi scusarti. Hai urtato oba-san e non l’aiuti neppure ad alzarsi.»

«Sai quanto me ne fotte della zietta.» Il teppista sogghignò, squadrandolo dalla testa ai piedi. Aveva la stessa aria poco raccomandabile dei bosozoku con cui aveva avuto a che fare, ma allora c’era stato il fratello di Yuzo-nii ad aiutarlo. Ora, invece, era solo. «Ma magari dovrei dare una lezione a te, che dici? Ti pare questo il modo di rivolgerti a un adulto?»

Sen si sentì pungere sul vivo e abbassò la testa di scatto. Quella non era per niente la sua giornata, cominciata a male e destinata a finire anche peggio. E poi si stupiva se nessuno gli dava grande fiducia in famiglia. Lui al massimo sapeva come peggiorare le situazioni.

Gli inetti piangono! Sei un inetto?! Eh?! Lo sei?!

L’eco della frase rimbombò di nuovo con la stessa voce imperiosa e lui si sentì scuotere come avesse di nuovo i suoi occhi davanti.

«Ehi! Mi hai sentito? Non mi sembrava avessi la lingua tanto corta, poco fa. Cos’è? Te la stai già facendo nei pantaloni? Un buon inizio per una sonora sculacciata-»

«Tu toccami», Sen alzò la testa, «e Malerba lo verrà a sapere.»

Sul viso del teppista passò un guizzo, poi esplose in una risata che riempì l’intero parchetto; gli puntò l’indice sotto al naso tanto che poté vedere bene l’unghia mangiucchiata. «Vorresti farmi credere che un nanerottolo come te abbia a che fare con Malerba?! E in quale barzelletta?!»

«In questa.» Sen, il mento ben sollevato e le braccia che venivano conserte adagio sul petto buttato in fuori. «Perché suo fratello sta con il mio.»

Sul volto del teppista, ora, passò più di un guizzo. Sotto i lampioni, la paura scivolò tra le ombre delle sue espressioni che persero in fretta il sogghigno divertito, per lasciare spazio a un’espressione perplessa: valutava.

Tra loro passò un lungo istante senza che nessuno dei due facesse o dicesse nulla. Sen non distolse lo sguardo né si mosse, ma nella sua testa stava pregando in tutte le lingue che conosceva e anche in quelle che ignorava.

«Ah… sì? In questo caso… La prossima volta stai più attento. E non rivolgerti così con chi è più grande.» Il teppista fece un passo indietro, stringendosi nelle spalle. Saettò lo sguardo attorno e infine accennò un inchino nei riguardi della donna. «Mi scusi.»

Poi andò via con un passo così veloce che ci mise meno di due minuti per sparire alla loro vista.

Sen era ancora immobile e frastornato, con gli occhioni sgranati e la bocca semi aperta.

«Ha funzionato…» mormorò trasformando lo sconcerto in sorriso smagliante, mentre stringeva i pugni al petto.

Non aveva frignato, aveva risposto a tono… e aveva imbrogliato, ma che importava? Aveva funzionato davvero! Aveva alzato la testa. L’aveva tenuta su, su, su.

«È stato molto sciocco rispondere a un poco di buono come quello, lo sai? Avrebbe potuto essere pericoloso.»

L’entusiasmo di Sen venne smorzato dal rimprovero che arrivò alle sue spalle. La signora, ginocchia a terra, sta raccogliendo una delle mele rotolate via. Lui infossò un po’ la testa, consapevole di aver fatto una cosa avventata. Sollevò una spalla senza guardarla negli occhi.

«Quelli fanno la voce grossa, ma se qualcuno la fa più grossa di loro si spaventano. E poi non era giusto…»

«Non importa, non avresti dovuto lo stesso», aggiunse lei in tono fermo che lo fece sentire di colpo meno figo di quanto si era sentito fino a un attimo prima.

Una mano sotto al mento, però, lo invitò con dolcezza a sollevare il viso e Sen rimase sorpreso da quel contatto diretto e inaspettato.

La donna sorrideva e lui rimase rapito per un istante dai grandi occhi scuri e dalla curva affettuosa delle labbra. Forse un po’ più grande della sua mamma, ma con lo stesso calore nei gesti e nelle espressioni che non lo fece sentire a disagio nel venire toccato così apertamente da un estraneo.

«Però, grazie per avermi aiutato, gioia. Sei stato avventato, ma molto carino.»

Sen sentì il viso diventare caldo sulle guance. Annuì e distolse lo sguardo. Fece per sollevare la busta che conteneva tanta frutta e verdura e si accorse che uno dei manici era rotto; forse a causa dell’urto con il teppista o nello strattone mentre la donna cadeva a terra.

Guardò anche le altre buste e si accigliò.

«Se quella si è rotta, come farà a portare tutto?»

«Oh, troverò un modo, un po’ alla volta. Non ho fretta.»

Sorrideva ancora nonostante tutto e Sen non capì come facesse a non arrabbiarsi. Lui avrebbe già perso la pazienza, prendendosela con il teppista sparito ormai da un secolo e con chissà chi altri. Forse aveva davvero un brutto carattere, dopotutto…

«Posso aiutarla?»

«Non è un po’ tardi per te? A casa ti staranno aspettando, quanti anni hai?»

«Be’, sì, però… Ne ho undici.»

«Solo undici? E sei così alto.» La donna gli accarezzò la testa. «Tra qualche anno, il mondo avrà una prospettiva tutta nuova per te.»

Sen sorrise e prese la busta rotta tra le braccia prima che potesse farlo lei. «Posso accompagnarla per un pochino; almeno fino all’incrocio che c’è fuori del parco. Tanto vado da quella parte anche io.»

La donna valutò e alla fine approfondì il sorriso. «D’accordo. Ma poi devi promettermi che correrai subito a casa. La tua famiglia non ti starà aspettando per la cena?»

Sen sollevò le spalle, mentre riprendevano a camminare. «Papà è fuori per lavoro e mamma sarà ancora immersa nel suo. Mio fratello si è trasferito in un’altra città.»

«E tu sei rimasto solo soletto.»

«Scherza? Meglio solo che con lui attorno!»

«Non andate d’accordo?»

«Pretende di avere sempre ragione su tutto. E poi è più grande e non fa che ripetermi che io, invece, sono troppo piccolo. Lo dicono sempre tutti…»

«È la verità: hai solo undici anni.»

«Sì, ma ho anch’io i miei pensieri e non hanno meno valore dei loro!»

«Anche questo è vero, ma mettila così: pensa ai videogame. A te piacciono?»

Sen strabuzzò gli occhi. «I… videogame? Sì…»

«Okay, allora immagina che le altre persone siano giocatori. Tu sei al Livello1 e loro al Livello20, o 30 o 40. Che succede quando affronti una missione molto superiore al tuo livello?»

«Che nel migliore dei casi muoio?»

«Game over», annuì la donna. «Non puoi competere con quelli a un livello più alto del tuo, se hai appena iniziato a giocare. Devi fare esperienza, migliorare le tue abilità poco alla volta e affrontare piccole missioni più semplici per poterti avvicinare a quelle più difficili. Non è così?»

«Sì…»

«In altre parole: devi crescere.»

Sen girò il viso per guardare la strada. Di tanto in tanto abbassava gli occhi sulla verdura tra le sue braccia. Strinse le labbra e iniziò a capire il discorso della bella signora così come le posizioni dei suoi genitori. Un po’ meno quella di Mamoru, perché era a un livello non troppo lontano dal suo, però le cose stavano acquisendo un senso che prima non aveva capito: gli erano sembrate solo imposizioni belle e buone e dittatoriali.

«Mi piace questo paragone», approvò, accennando un leggero sorriso.

Lei fu più aperta nella propria risata, tanto che la smorfia le fece arricciare la sommità del naso, conferendole una bellezza così solare da farlo arrossire un’altra volta.

«Ho dei figli anch’io!»

«E vanno d’accordo?»

«Sì e no, come tutti i fratelli. Quando erano piccoli, per quanto si cercassero di continuo, si facevano un monte di dispetti, erano tremendi. Poi sono cresciuti, hanno imparato a conoscersi e poco alla volta sono diventati ancora più inseparabili. Questo non significa che abbiano smesso di litigare: sono solo cambiati i modi e le cause. Ma non importa quanto possano discutere, so che si ameranno sempre.»

Sen pensò che il legame con suo fratello fosse stato forte solo quando lui era molto piccolo e il rapporto più giocoso. Crescendo, qualcosa si era perso. Troppa differenza di età, forse, gusti troppo diversi e caratteri che finivano per cozzare di continuo. Mamoru aveva un atteggiamento da comandante; a volte era più impositivo del loro papà, ma a lui non stava bene per niente. Quindi non avevano mai sentito la necessità del cercarsi, e anche se Sen a volte avrebbe voluto trascorrerci del tempo, Mamoru ma non faceva che prenderlo in giro e criticarlo più o meno velatamente, così sceglieva di rinunciare alla sua compagnia più spesso di quanto accettava qualche sfottò in più pur di stare insieme. Forse un simile livello di unità, loro due non erano destinati a raggiungerlo.

«Capisco…»

«Credi che tuo fratello non ti voglia bene?»

«Mi considera una palla al piede, perché io non sono come lui e non mi piacciono le cose che piacciono a lui», ammise con veemenza. «Mi prende sempre in giro per i miei gusti e mi fa arrabbiare…»

«I bisticci sono normali, te l’ho detto, non te ne libererai mai. Ma questo non significa che lui non ti ami e non farebbe qualsiasi cosa, per te, se ne avessi bisogno.»

«No, non credo. Si arrabbierebbe, invece, e mi direbbe che faccio solo casini. Comunque, adesso vive a Yokohama; non sono più un suo problema.»

«Io dico che è l’esatto contrario.» La donna si fermò appena furono fuori dai cancelli del parco. «Ora che è lontano, e non può vegliare su di te come faceva prima, sono certa che sia preoccupato il doppio.»

Sen non trattenne la risata che gli esplose tra le labbra, forse in maniera troppo maleducata. «Non Mamoru! Noi della famiglia siamo sempre stati in coda.»

«Te lo ha detto lui?»

«Non ce n’è bisogno.»

«Allora non giudicarlo male.» Nel sorriso della donna a Sen parve di riconoscere qualcosa di familiare ma indefinito. Non era un singolo particolare, quanto l’intera espressione. «Molte volte, gioia, le persone non dicono tutto quello che passa loro per la testa o nel cuore. A volte lo mascherano facendo gli sbruffoni, sta a te interpretarli.»

«Lo fanno anche i suoi figli, oba-san

La donna ci pensò. Sollevò lo sguardo e poi un altro sorriso fece capolino per arricciarle il naso. C’era più affetto in quell’espressione che in tutte le parole che avrebbe potuto dire, Sen lo percepì. E percepì quanto volesse bene ai suoi figli. Anche la mamma gliene voleva a lui e Mamoru, ma non aveva idea se sorridesse in quello stesso modo quando parlava di loro con degli estranei, o se di lui elencasse solo i difetti.

«Uno. Vuole sempre far credere di essere un gran duro e combina solo disastri, ma per suo fratello sarebbe disposto a rinunciare a qualsiasi cosa, compresi i suoi sogni. Certo, non lo dice a gran voce, ma abbiamo imparato a capire i suoi silenzi. Tu sei certo di saper leggere nei silenzi di tuo fratello?»

I silenzi.

Che erano un po’ ciò di cui lo accusavano, ovvero di non parlare mai e stare per i fatti suoi.

Si era mai accorto, invece, delle cose che Mamoru non diceva?

Sen non ci aveva mai pensato, né aveva osservato suo fratello con così tanta attenzione. Lui vedeva solo ciò che veniva mostrato, si basava su quello, ed erano tutti successi. Ma su cosa, invece, suo fratello restava in silenzio?

Su quel quesito rimasto sospeso squillò il cellulare della sconosciuta signora.

«Oh! E vedi che succede a parlare del diavolo?» disse, mentre ravanava nella borsa, senza riuscire a trovare il telefono, nemmeno fosse stato inghiottito in un’altra dimensione. Le ricordò sua madre, perché faceva lo stesso. Doveva essere una cosa solo delle mamme, quella di infilare l’impossibile nella borsa e riuscire comunque a perderlo. Poi la zietta estrasse lo smartphone.

«Tesoro di mamma!» esclamò prendendo la chiamata. «Sono secchi o freschi?» Il traffico copriva i mormorii della voce all’altro capo. «E allora devi metterli a bagno tutta la notte. In acqua fredda e copri la ciotola con un panno… Sì, e poi usalo per setacciare se non hai altro, sai che deve venire una pasta asciutta. Ma ricordi tutti gli ingredienti? Altrimenti ti mando una foto quando arrivo a casa… Va bene, ma poi fammi vedere il risultato, sono curiosa! Buonanotte, gioia, e non fare esaurire tuo fratello!»

E quello quale figlio è?, si chiese Sen. A giudicare dal saluto finale, avrebbe detto quello che si voleva comportare da duro.

«Visto? Anche i miei ragazzi vivono ormai fuori casa, ma nel momento del bisogno è sempre qui che tornano, perché qui c’è casa e loro lo sanno. Lo saprà anche tuo fratello, e lo saprai anche tu, quando sarai grande e prenderai la tua strada.»

Ripresero a camminare per raggiungere l’incrocio dove le loro strade si sarebbero separate e a Sen un po’ dispiacque che quella conversazione finisse già. Per quanto si trovasse a disagio a parlare di sé stesso con le persone, con lei non temeva di sentirsi giudicato, perché aveva un sorriso che lo faceva sentire a suo agio.

«Tanto che io ci sia o meno non fa molta differenza. Nessuno se ne accorge.»

«Non sottovalutare la super-vista di una mamma o di un papà: sanno vedere anche quando non stanno guardando.»

E, proprio con tempismo perfetto, nel momento in cui si sarebbero dovuti separare perché arrivati al famoso incrocio, a squillare fu il suo di cellulare e gli partì un’imprecazione che rimase solo nella testa.

Questa volta, però, a cercarlo non era Pooja e non era una buona notizia.

«Mam-»

– Che cosa ti avevo detto quando ti ho permesso di uscire con i tuoi amici dopo scuola? Mi sembrava di essere stata chiarissima.

«Sì, ma-»

– Non ci sono ‘ma’, tu a quest’ora avresti dovuto già essere a casa. Hai visto che è buio? Avevi detto a Pooja che saresti arrivato in dieci minuti: be’, sono passati e non sei ancora qui! Dove sei?!

«Sono quasi arrivato, ho dovuto-»

– L’unico tuo dovere è obbedire alle mie regole, non accampare sempre delle scuse, Sen. Non è la prima volta che fai tardi senza avvertire. Ora torna subito a casa e parleremo della tua punizione.

Come al solito, non ebbe neppure la possibilità di spiegarsi e difendersi. Aveva disobbedito? E allora la punizione sarebbe stata assicurata, poco importava se a monte c’era stata una buona causa. Chissà perché non ricordava che avessero mai punito suo fratello in passato, eppure non era mai stato un ragazzo modello. Al solito, la sua vita era fatta di due pesi e due misure che finivano di togliergli le parole che non diceva mai. Sen afflosciò le spalle.

«Sì, arrivo…» concluse e fece sparire il cellulare in tasca. Si accorse del modo in cui la sconosciuta piegasse un po’ la testa in avanti. Anche lei doveva aver sentito sua madre che sbraitava.

«Si è arrabbiata tanto?»

Lui fece spallucce. «Quando si tratta di me, o si arrabbiano o mi dicono di non intromettermi. Sono indietro di troppi livelli per poter competere.»

Cincischiò col fondo di plastica della busta che reggeva tra le braccia e poi la passò alla donna, aiutandola a sistemare tutti i pesi che aveva con sé. Era carica, ma nonostante fosse bassina e piccola di corporatura, sembrava essere perfettamente in grado di portare tutto senza alcuna fatica.

Accennò un inchino di saluto e fu lì per congedarsi, quando lei gli chiese, dopo averlo osservato in silenzio: «Come ti chiami?»

«Sen.»

«Non essere triste, Sen.»

«Non sono triste, sono solo…»

«Amareggiato?»

Sollevò ancora le spalle e abbassò il viso a terra, ma la mano gentile della sconosciuta glielo fece alzare ancora, pizzicandogli il mento tra indice e pollice. Mani da lavoro, avevano la pelle ruvida.

«Non devi esserlo, anche se ti fa arrabbiare venire rimproverato o sei certo che nessuno ti ascolti. Non è così, gioia. La tua mamma si preoccuperà sempre e a volte sarà severa proprio per questo. Così come il tuo papà o tuo fratello. E quando avrai davvero bisogno, loro ci saranno, senza rimproveri né incomprensioni. Loro ci saranno, perché ti vogliono bene, ma devi fare in modo che ti capiscano, quindi non aver paura di parlare o far valere le tue idee. La tua famiglia è lì per te.»

Sen sentì gli occhi pizzicare senza una vera ragione. Le lacrime affollate tutte insieme sulla sommità del naso e sotto le palpebre. Per quanto fosse nient’altro che una sconosciuta, quella donna lo aveva trattato come fosse stato di famiglia. Nella gentilezza dei modi, nell’onestà dei ragionamenti. Lo aveva fatto sentire un pochino più grande del suo livello.

Annuì e il tocco della mano passò dal mento alla guancia, in una carezza affettuosa.

«Sei proprio un ragazzo, Sen. Corri a casa, e grazie per avermi aiutata.»

Sen non riuscì a replicare, perché il groppo che sentiva alla gola bloccava ogni cosa. Però si inchinò ancora una volta e dopo stava di nuovo correndo per le strade di Nankatsu.

 

Haruko aspettò che il bambino, Sen, fosse al sicuro dall’altra parte dell’attraversamento pedonale e si mischiasse con la folla che rincasava, prima di dirigersi verso casa.

Sorrideva; una smorfia che non si sarebbe tolta dalla faccia facilmente perché più ci pensava, più si approfondiva. Di quella giornata piena di lavoro, non si sarebbe mai aspettata un simile finale, però era stato divertente.

E chissà che faccia avrebbe fatto Shuzo, quando avrebbe saputo che un bambino si era fatto scudo con il suo nomignolo. Almeno per una volta, la fama di Malerba che suo figlio si portava dietro era servita a qualcosa di buono.

Suo fratello sta con il mio.

Oh, be’ be’. Tra caso e fortuna lei avrebbe preferito chiamarlo destino, perché solo quest’ultimo avrebbe potuto mettergli sulla strada proprio Sen Izawa.

Il sorriso si approfondì; che carino che era.

Mae Yamatogawa aveva due bei figli; educati e di buone maniere, ma lei era curiosissima di conoscere il famoso Mamoru solo che Yuzo non si decideva a portarlo a casa, neppure per un pranzo in amicizia. Non pretendeva certo che glielo presentasse come fidanzato – conoscendo suo figlio, probabilmente non l’avrebbe fatto neppure sotto minaccia di morte – ma almeno farglielo conoscere come amico. Era stancante fare finta di non sapere le cose. Per fortuna che poteva contare sui pedinamenti discreti di Baiko e sulle soffiate distratte di Shuzo.

Eh, sì.

Il piccolo Sen ignorava quanto complicato fosse il ruolo di una madre.

Bisognava essere attente, ma non oppressive. Essere discrete, ma non invadenti. Concedere il giusto, ma non essere permissive. Ed essere severe, senza passare per cattive. Bisognava bilanciare l’amore tra i figli, il marito e anche sé stessi, affinché non vi fossero squilibri.

Non era facile, ed era certa che Sen lo avrebbe capito, con il tempo… e qualche livello in più nell’esperienza.

Haruko camminò senza fermarsi fino a casa, ed era così presa dai propri pensieri che non si accorse neppure delle luci accese nell’abitazione. Solo quando aprì la porta, un profumo di carne e spezie la raggiunse e le fece alzare la testa con sorpresa.

All’ingresso, c’erano le scarpe di suo marito.

«Baiko? Sei tornato presto!»

«E tu hai fatto tardi, stasera. Ma-… ehi! Quanta roba hai con te?» Baiko arrivò di corsa dalla cucina e le tolse subito la busta rotta dalle braccia. «E questa verdura e frutta? Sei andata da Kobayashi-san, vero? Avresti potuto chiamarmi, sarei passato a prenderti. Guarda qui come sei carica.»

«Ho faticato un po’, lo ammetto, ma… ho avuto un grazioso aiutante lungo la strada.»

«Ah, sì?»

«Già.»

«Perché… stai sorridendo in quel modo? Mi fai un po’ paura quando hai quell’espressione. È la stessa che fa tuo figlio, quello scemo, quando sta per fare danno!»

Da sorriso, la smorfia si trasformò in una risata che le arricciò il naso. Una risata luminosa e pericolosa al tempo stesso.

«Tu non indovinerai mai chi ho incontrato stasera.»

 

 

 

 


 

 

Note Finali: e fine! XD

Ecco l’ultima chiacchierona che voleva dire la sua: Haruko XD

Insomma, se ho fatto parlare i genitori di Mamoru e Baiko, era giusto che anche Haruko avesse voce nella vicenda e qui il caso o destino ci ha messo lo zampino! X3

Quindi, Haruko sa chi ha davanti, ma Sen lo ignora del tutto. Povero stellino! XDDD Non sa di aver aiutato la madre del suo idolo tamarro! XDDD L’avesse saputo, oltre a sprofondare dalla vergogna, un po’ si sarebbe sentito anche orgoglione di sé stesso XD Tipo, come far impennare l’autostima.

Ma invece, più che darsi un tono, finisce con il confessarsi con lei, alla ricerca di quella figura adulta che riesca ad ascoltarlo senza il timore di venire messo a confronto con l’aura ingombrante del fratello. <3

Nell’adolescenza pensi proprio che nessuno ti capisca e le incomprensioni, se non risolte, finiscono con il trascinarsi a lungo e riuscire a trovare una quadra solo in là nel tempo. :3

 

Tutto questo, però, è un’altra storia! ;)

 

Ora due parole sulla serie Soulmate: sono rimaste ancora cinque one-shot da scrivere prima di iniziare ad approcciarmi alla long che chiuderà l’intera serie e che non credo inizierò quest’anno. Ma conto, invece, di riuscire a terminare le shot mancanti! Per la long… se ne parlerà nel 2021. :3

 

Grazie a tutti voi che continuate a seguire le mie storie – non soltanto questa serie.

Siete preziosi.

Grazie! <3

 

 

 

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