Con la testa nel Bolide.

di AdhoMu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Is This Love? (Due antefatti fondamentali). ***
Capitolo 2: *** Could You Be Loved (and be loved)? ***
Capitolo 3: *** 'Cause every little thing is gonna be alright! (o quasi) ***
Capitolo 4: *** (I don’t wanna) Wait In Vain (for your love). ***
Capitolo 5: *** Turn Your Lights Down Low. ***
Capitolo 6: *** Stir It Up! ***
Capitolo 7: *** So much things to say (right now!). ***
Capitolo 8: *** Catch a fire! ***
Capitolo 9: *** Guiltiness (rest on their conscience). ***
Capitolo 10: *** (There's a) Natural Mystic (blowing through the air). ***
Capitolo 11: *** Get up, stand up! (Don't give up your fight!) ***
Capitolo 12: *** Saying’, (this is my message to you-uh-uh). ***



Capitolo 1
*** Is This Love? (Due antefatti fondamentali). ***


1. Is This Love?
(Due antefatti fondamentali).

 
Narrami, o Divino Zaion, di quella volta in cui Lee “Ziggy” Jordan smarrì la sua regale testa coronata di dreadlocks, in senso sia metaforico, sia (quasi) letterale;
Narrami – e che testimoni del fattaccio siano le Divinità Caraibiche tutte – di quella volta in cui la Regina della terra del Dragone Rosso si trasformò in un Cupido di Bolide armato;
Narrami, o combattivo Xangô, orishá della Guerra dalla rilucente corazza, di quando il tuo giovane e spavaldo protetto scese in battaglia, munito soltanto della sua lingua affilata;
Narrami, o Supremo Marley, di come un mazzolino di innocenti nozioni di Erbologia si trasformò alfine nella carta vincente.
 
Hogwarts, novembre 1991
Dalla catena montuosa che contornava la valle spirava un’aria oltreché gelida: se tutto fosse andato secondo previsione, i giocatori della partita Tassorosso – Corvonero sarebbero stati premiati con una bella nevicata.
Harry Potter si infagottò ben bene nel suo caldo mantello e scese di corsa i gradini consunti della scala a chiocciola che portava dai dormitori maschili alla Sala Comune. Quindi, con un paio di ampie falcate frettolose, si avvicinò all’eterogeneo gruppetto in attesa accanto al camino.
- Oh, Harry – il Capitano gli rivolse un sorriso bonario. – Sei pronto?
- Sì, Oliver – rispose il ragazzino, senza sforzarsi minimamente di mantenere celata l’eccitazione che lo pervadeva. – Andiamo.
La discesa al campo fu breve e così, in men che non si dica, l’allegra combriccola si apprestava a sistemarsi sulle tribune montate tutt’intorno all’ovale che in quella stagione, al posto dei fili d’erba brillante come smeraldo, presentava un deprimente fondo di terra battuta e umidiccia dall’aspetto inquietantemente palustre.
- Mi hanno detto che quest’anno è più in forma che mai – stava commentando Angelina Johnson, mente i compagni non si perdevano una sua sola parola nonostante l'intenso brusio di fondo.
- E pare che quest’estate abbia fatto allenamento con le Harpies – aggiunse Alicia Spinnet, imbaccuccata in un pesante poncho di lana di pecora australiana. Harry sorrise: Aussie Spinnet detestava il freddo, povera lei, e l’inverno era solo agli inizi.
- E dicono – riferì subito George Weasley, guardandosi intorno circospetto – che, durante un’amichevole con i Magpies, abbia fatto fuori un paio di setti nasali in un colpo solo.
- Forte! – esclamò Fred, sinceramente ammirato. – Del resto, il modo in cui tiene la mazza...
Harry si girò stupito verso Oliver.
- Ma di chi stanno parlando?
Il Capitano ricambiò il suo sguardo con un’enigmatica occhiata di circostanza e, per una manciata di secondi, se ne rimase zitto.
- Jones di Tassorosso – rispose infine, corrugando gravemente la fronte. – Un asso dei Bolidi, per Merlino. Alla mia prima partita mi ha colpito dopo due soli minuti di gioco... e mi sono risvegliato al San Mungo dopo aver trascorso un paio d’ore in stato d’incoscienza.
- Oh – mormorò Harry, incuriosito e allarmato.
Tanta stima e soggezione da parte di Oliver Baston potevano significare una e una sola cosa: quel Jones doveva essere un tipo davvero in gamba, e anche piuttosto temibile, per giunta. Harry giocava a Quidditch da poco tempo (anzi, fino a poco più di un mese prima neanche sapeva che cosa diavolo fosse, il Quidditch), ma aveva già accumulato esperienza sufficiente da sapere che i battitori sono, di solito, soggetti dotati di considerevole forza fisica e, nella maggior parte dei casi, di aggressività ragguardevole.
Nel frattempo, mentre il giovane Grifondoro si trovava assorto nelle sue riflessioni tattico-esistenziali, le due squadre avevano inaugurato la discesa in campo e Lee Jordan, l’amico dei gemelli Weasley e cronista ufficiale della Hogwarts Cup, aveva preso a declamare a gran voce i nomi dei giocatori.
- Con le divise blu notte bordade d’argento, i prodi Corvonero dall’ingegno aguzzo!
Seguì una ola rumorosa da parte del quadrante Corvonero, che ribollì sugli spalti come il mare in una notte d'inverno.
- In porta: Robbie Ackerley! Cacciatori: Roger Davies, Rowena Abercrombie e Sally Swann! Battitori: Randolph Burrow e Marcus Belby! E infine, incaricata di agguantare il boccino, la Cercatrice anziana, nonché graziosa assai: Nevena Turpin!...
La Turpin scosse la testa con grazia, compiaciuta per il complimento dello speaker.
- Ed ora, fieri e determinati nelle loro uniformi giallonere, ecco a voi i Tassorosso!
La folla rumoreggiò; Oliver si fece attento.
- In difesa degli anelli: Winston Zeller! Cacciatori: Ross Cadwallader, Heidi McAvoy e Nicholas Madley!...
Harry si accorse che i compagni tendevano il collo e scrutavano il campo, impazienti. Katie Bell, che sedeva accanto ad Angelina, si lasciò sfuggire una risatina nervosa.
- In difesa, Oswald Pilkington in compagnia della mazza più micidiale del momento: parlo di lei, ovviamente, la formidabile, incomparabile, fantastica Capitana... Gwenog Jones!
"Una femmina?!"
Un boato assordante percorse l’intero stadio mentre Harry, incredulo, osservava la ragazza filiforme dalla pelle ambrata che, impugnata la scopa con piglio deciso, si guardava intorno con aria di sfida e decollava a tutta velocità.
Lee Jordan, dal canto suo, sembrava alquanto infervorato.
- Davvero una giocatrice fuori dal comune, la Jones: una delle più sfolgoranti promesse del Quidditch gallese e, nonostante la giovane età (ha appena iniziato il suo sesto anno qui ad Hogwarts), già pre-scritturata dalle celeberrime Holyhead Harpies. Senza contare il fatto – e qui Harry ebbe l’impressione che il sorriso di Jordan si fosse fatto più ampio e sfavillante che mai – che si tratta di una ragazza eccezionalmente bella: guardate come...
- Jordan! – il ringhio della professoressa McGranitt interruppe bruscamente l’entusiastica descrizione del ragazzo. – Vogliamo finirla?!
- Ah sì, professoressa... mi scusi – Lee tossicchiò e scosse la testa in un turbinio di dreadlocks freschi di acconciatura (proprio quell'estate la bisnonna gli aveva permesso di rimpiazzare lo stile Black Power in favore delle tanto agognate treccine). – Dicevo: insieme alla divina Jones (ahia!) abbiamo Pilkington ed, infine, il bravissimo Cercatore giallonero: Cedric Diggory!...
Presentazioni fatte, giocatori in campo.
Al fischio prolungato di Madama Bumb, la partita cominciò.
Ed Harry vide.
Vide che Gwenog Jones, con la sua figuretta sottile e armoniosa, poteva anche non corrispondere ai connotati tipici di un battitore standard: eppure, più di una volta, il ragazzino si ritrovò a pensare che un Bolide colpito dalla mazza della giocatrice gallese sarebbe stato in grado di disarcionare dalle rispettive scope anche avversari due volte più grossi di lei, e che un suo colpo ben assestato sarebbe certamente stato causa di traumi cranici mica da ridere.
Gwenog Jones era... bravissima.
Lo si vedeva che era una destinata al quiddismo professionale, e che non era una semplice giocatrice amatoriale o da torneo scolastico. Era veloce, precisa, (quasi chirurgica nel suo rigore sottile, in netto contrasto con la grossolanità tipica dei colleghi più brutali) e, nella sua veste di battitrice, feroce il giusto.
Harry si ritrovò più di una volta a sudare freddo mentre i Bolidi, scagliati dalla Tassorosso con violenza inaudita, facevano il pelo ai Cacciatori avversari (Roger Davies, terrorizzato all’idea di farsi frantumare il suo bel nasino, aveva addirittura cominciato a volare basso, attirando su di sé le ire della Capitana Turpin); andò avanti così a fremere e sussultare per tutta la partita mentre Oliver, accanto a lui, digrignava i denti per la tensione fin quasi a consumarseli e scribacchiava furiosamente una serie di appunti disordinati sul suo quadernetto di Tattiche di Gioco.
Il match infuriava.
Nel frattempo, Lee Jordan sproloquiava come un predicatore.
- Ecco il Boccino... sì... no... Diggory l’ha visto! Il Tassorosso accelera... oh! Nevena Turpin gli taglia la strada... ecco che si avvicina... Merlino!... il Bolide della Jones colpisce la coda della scopa... Nevena scivola, sta per cadere... Accidenti, che mazzata!... Attenzione, tutti quanti: Bolide sciolto!... Ai ripari!... Ma dove diavolo...?
Lee Jordan tacque all’improvviso, istantaneamente impietrito.
- Oh, merda – ebbe soltanto il tempo di dire (e Harry avrebbe potuto giurare di averlo visto, per la prima volta da quando lo conosceva, pallido e serio), prima che la professoressa McGranitt avesse modo di redarguirlo.
Il Bolide lo centrò in pieno, e grazie tante.
 
Foresta di Dean, estate 1994
I Mondiali di Quidditch, come è da tutti risaputo, si tengono ogni quattro anni.
Parteciparvi non è da tutti, ma anche presenziarvi è, senz’ombra di dubbio, privilegio di pochi.
La partita si era svolta col massimo furore di popolo; il risultato era riuscito assai gradito ai più e così, alla chiusura dei cancelli, era seguita una nottata di festeggiamenti e libagioni.
I due ragazzi, seduti un po’ in disparte rispetto al gruppo di giovani festanti che non la smettevano di saltellare e schiamazzare attorno ad un grande falò, chiacchieravano allegramente, i denti candidi che spiccavano sui visi scuri e assorbiti dalle ombre danzanti del bosco.
- Davvero ti ricordi di me?!
La domanda del ragazzo, un giovane alto con il capo coronato da una folta criniera di treccine rasta, risuonò incredula alle orecchie della sua compagna, che gli scoccò un’occhiata divertita. La ragazza aveva occhi castani profondi e belli e, notò lui, nonostante l’espressione tutto sommato gioviale, abbastanza intensi da far capire che non era il caso di contrariarla.
- E come no – borbottò lei a mo’ di vaga risposta, tirando via una foglia che le era rimasta attaccata alla stoffa del golfino di lana gialla. “Come se fosse importante” aggiunse poi fra sé e sé, premurandosi però di non esprimere i suoi pensieri ad alta voce.
Il giovanotto le piaceva.
Ad una prima occhiata il suo viso le era parso familiare, ma non era riuscita ad inquadrarlo. Sembrava piuttosto giovane – forse un pochino troppo, in effetti – tuttavia, per la barba di Merlino, nel quesito sbaciucchiamento sapeva perfettamente il fatto suo.
“Peggio per te, cretino di un Ludo” pensò ancora la giovane, mordicchiandosi il labbro e stringendo gli occhi. “Te la sei voluta tu, scommettitore da quattro soldi”.
Tornò a voltarsi verso il ragazzo che si trovava seduto accanto a lei e che non aveva smesso un solo istante di fissarla con un’espressione fra il reverenziale, lo stupito e il deliziato.
- Dove eravamo rimasti?
Lui le sorrise di rimando, leggermente intimorito ma per nulla imbarazzato.
- Oh, beh.
Lei gli si accostò e gli fece scivolare le braccia intorno al collo, premendo le labbra sulle sue con una verve accentuata che, lì per lì, gli fece girare la testa.
Perché, evidentemente, era difficile, molto difficile crederci.
Lee “Ziggy” Jordan aveva atteso spasmodicamente il momento di recarsi ai Mondiali di Quidditch per tutto il mese di luglio, facendo quasi impazzire la sua solitamente paziente bisnonna a casa della quale, come ogni anno, trascorreva le vacanze estive. Quella era stata la prima volta in cui, da che mondo era mondo, il ragazzo aveva desiderato ardentemente che il momento di ripartire da Kingston finalmente arrivasse.
E quando, alla fine, agosto era giunto, Lee aveva lasciato la Giamaica in uno stato di completa euforia. Ora: se, per caso, in uno di quei lunghi pomeriggi trascorsi a giocare a pallone sulle spiagge caraibiche in compagnia dei suoi numerosi cugini magici e babbani, qualcuno gli avesse predetto che i Mondiali gli avrebbero riservato una sorpresa speciale, lui non ci avrebbe creduto.
Eh sì che la bisnonna, dopo aver lanciato i búzios sulla sua tavoletta di legno incerata, lo aveva avvertito:
- Fai attenzione quando ti troverai ai Mondiali, figlio mio – gli aveva detto tutta seria, mentre le sue zie gli si affaccendavano intorno per sistemargli i dreadlocks un po’ troppo cresciuti.
- A cosa devo fare attenzione, nonnina? – aveva domandato distrattamente lui, il cervello impegnato in fantasiose congetture.
- I búzios parlano chiaro – era stato il responso. – Un attimo di disattenzione e zum! si perde la testa!
Lui le aveva indirizzato una risata cristallina e (grave errore!) aveva immediatamente archiviato il caso.
Cosicché, mentre il corpo tonico di Gwenog Jones si stringeva contro il suo e, con una forza insospettabile per delle membra così flessuose, lo faceva cadere supino sul tappeto di muschio che ammantava il bosco, la testa di Lee elucubrava freneticamente e sembrava davvero in procinto di staccarglisi dal collo da tanto la situazione era surreale e fantastica.
Perché, ancor più evidentemente, il fatto di avere trascorso le ultime ore a baciarsi furiosamente con la superstar delle Harpies era un fatto assolutamente Oltre Ogni Previsione, roba da far esplodere la nutrita schiera di inutili sfere di cristallo della Cooman e da indurre qualsiasi Centauro allo stato confusionale.
Lee tentava disperatamente di ricostruire come accidenti si fosse giunti a quel punto, ma il caos la faceva da padrone nelle sue coronate cervici. Ricordava soltanto di essersi aggregato ad un gruppetto di amici (i soliti: Oliver, George, Fred, Alicia, Angelina e Katie) i quali, a loro volta, si erano poi uniti ad altri conoscenti di Hogwarts. Fra cui, sorpresa delle sorprese, si trovava anche la divina Gwenog in compagnia della sorella maggiore Hestia e della sorellina minore Megan.
E insomma alla fine, come è comune fra i giovani spensierati che si divertono a gozzovigliare di lieve e a trascorrere le nottate estive in allegra compagnia, tutti loro avevano mandato giù un sorso di una qualche Pozione Ilare e poi lui, fresco fresco di Giamaica, aveva generosamente messo a disposizione di tutti il modesto raccolto che gli era riuscito di sottrarre al per nulla innocuo orticello magico della bisnonna.
E Gwen, che a inizio serata ostentava un cipiglio granitico e un’espressione tutt’altro che amichevole, si era per puro caso ritrovata seduta accanto a lui e più tardi, non si sa bene come, loro due si erano ritrovati seduti in disparte, labbra contro labbra e premuti l’uno all’altra come due disperati.
“Davvero inspiegabile” pensarono entrambi mentre, dopo un considerevole lasso di tempo trascorso a baciarsi con foga, i loro corpi reagivano all’attrito prolungato e le cose rischiavano seriamente di degenerare in vie di fatto assai meno innocenti.
Una cosa, comunque, era certa.
In quel momento, "Ziggy" Jordan si sentiva esattamente come quella volta in cui Gwenog Jones, durante la partita Tassorosso-Corvonero, lo aveva accidentalmente investito con un colpo di Bolide. Ebbene sì: per la seconda volta nella sua vita, quella benedettissima gallese era riuscita a fargli perdere (quasi) del tutto la testa.
 
Piccola premessa post-scritta.
Sono sotto pressione, stressata, oberata ed eccezionalmente irritabile. E così, per tentare di ovviare all’eccesso di adrenalina in circolo, ho cominciato ad ascoltare reggae ad oltranza;e fra un giro di basso e l’altro ecco che, come per magia, risalta fuori una mia vecchia conoscenza.
Lee Jordan è stato il protagonista di una mia vecchia storia non più on-line, “Agli Antipodi”, in cui il simpatico Grifondoro dal candido sorriso faceva pairing sentimentale con la bella Alicia “Aussie” Spinnet. Poi le cose hanno preso una piega diversa e il povero Lee è rimasto nel cassetto, zitello e in attesa di nuovi sviluppi. Morale della favola: una storia tutta per lui, prima o poi, gliela dovevo.
Come nuovo pairing per il nostro valoroso River, che io ho sempre immaginato di discendenza giamaicana e, pertanto, appassionato di reggae e moderato consumatore di erbette esotiche, ho scelto lei, la feroce Gwenog Jones, battitrice delle mitiche Harpies e titolare nella Nazionale del Galles (la cui bandiera riporta, appunto, un drago rosso su sfondo bianco e verde).
Funzionerà?!
P.S.Non si sanno molte cose su Gwenog, ma credo di avere letto da qualche parte che sia nata nel 1968. Io però ho deciso di renderla un pochino piú giovane, quindi in questa storia l’intrepida gallese sarà della classe 1975, e cioè di circa tre anni più anziana del caro Jordan.

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Capitolo 2
*** Could You Be Loved (and be loved)? ***


2. Could You Be Loved (and be loved)?
 
Pontwelly, Galles, 31 agosto 1994
Ludovic Bagman la seguiva con lo sguardo mentre lei, veloce come una saetta, zigzagava nel cielo. Raggiunto e affiancato il Bolide che lui le aveva lanciato, la giovane tirò indietro il gomito, prese la mira e lo colpì con forza, rispedendolo al mittente.
“Eccolo che arriva”.
L’ex battitore degli Wasps arrestò l’incedere della feroce sferetta con un provvidenziale Arresto Momentum; il contraccolpo, però, si fece sentire tutto da tanto il lancio della ragazza era stato potente. Ludovic avvertì uno scricchiolio sospetto al polso che reggeva la bacchetta, tanto che quasi se la lasciò sfuggire di mano.
“Vacci piano, Ludo” si disse “non sei più un diciottenne”.
Già.
Gli anni erano passati anche per lui e tutto, per ciò concerne le sue prestazioni sul campo da gioco, lo rivelava con una veridicità impietosa.
Ciononostante, però, la cosa non gli aveva impedito di accaparrarsi la graditissima compagnia di quella specie di bomba volante che in quel momento, dopo aver descritto un’elegante curva ad alta quota, tornava indietro a tutta velocità.
Ah, Gwenog.
Gwenog, Gwenog, Gwenog.
Una pura, vera, autentica e indiscussa forza della natura, sia sul campo da Quidditch che al di fuori di esso. Ottima, anzi no, eccellente giocatrice, fenomenale nel gestire le mazze, tosta da far paura, determinata come pochi oltre che dotata di innegabile bell’aspetto e – e qui veniva la parte davvero piacevole – irrimediabilmente infatuata di lui e della sua eterna fama di Leggenda Viva nel mondo delle scope.
Ludo sorrise fra sé e sé, compiaciuto.
Gwenog Jones, che stando alle cronache non aveva mai toccato il suolo se non per iniziativa personale, era letteralmente caduta ai suoi piedi quando lui, qualche mese prima, si era fiondato al campo d’allenamento delle Harpies per vedere con i suoi occhi le miracolose evoluzioni della giovane promessa del Quidditch gallese
Era brava, davvero brava, ma ciò non le aveva impedito di soccombere al fascino dell’ex battitore più famoso degli ultimi anni e così, fra un consiglio tecnico ed un drink nei più glamourosi locali magici di Londra, Ludo si era astutamente aggiudicato l'ambita possibilità di godere delle grazie di quella femmina più esplosiva della magidinamite irlandese.
Con la quale, però, il direttore dell’Ufficio per i Giochi e gli Sport Magici si guardava bene dal farsi vedere in giro, consapevole del fatto che i circa quindici anni di differenza intercorrenti fra loro sarebbero probabilmente stati male interpretati dai perbenisti del Ministero, rivelandosi quindi letali per la sua carriera in rapida ascesa.
A lei diceva di mantenere la relazione in segreto solo ed esclusivamente per il suo bene, per evitare che tabloid, paparazzi ed esponenti del magigossip interferissero negativamente nel suo sfolgorante successo professionale. In realtà, però, Ludovic Bagman pensava soltanto a se stesso.
Un morbido swishh lo distolse dai suoi pensieri.
Gwenog era atterrata delicatamente sull’erba e, infilata in quella tuta gialla aderente che metteva in risalto il suo bel fisico scolpito dagli allenamenti, si dirigeva verso di lui a passo deciso. Il giallo (che lei portava spesso in omaggio alla sua ex Casa) le stava proprio bene e poi, pensò Bagman sorridendole allegramente, si abbinava perfettamente al colore che usava molto anche lui ma, nel suo caso, come reminescenza del suo passato di superstar delle Vespe di Winbourne.
Lo sguardo che Gwenog gli rivolse era duro, leggermente accusatore e, se Ludo non fosse stato sicuro di poterla piegare con un paio di moine ben piazzate, sarebbe stato capace di farlo sudare freddo.
“Benedetta ragazza” pensò, quando lei gli piantò la mazza fra le mani e lo oltrepassò senza troppi complimenti. Non l'aveva ancora perdonato del tutto per il fatto di averla piantata in asso durante la Finale dei Mondiali; anche se poi chissà perché, quando nel cuore della notte era andato a cercarla nella sua tenda, Ludo non l’aveva trovata.
Nervosa e rancorosa come pochi, quella gran bellezza di una battitrice.
Ma quanto accidenti gli piaceva?!
 
Hogwarts, novembre 1994.
Sala Comune dei Grifondoro.
- Che cosa vorresti dire?!
Cormac McLaggen assunse un’espressione ovvia e accavallò ostentatamente le gambe (a quel gesto, le ragazze presenti distolsero velocemente lo sguardo per evitare di imbattersi in scomode verità circa le abitudini mutandesche degli scozzesi), per poi rassettarsi attentamente le pieghe del kilt.
- Voglio dire – spiegò concitatamente il giovane – che uno, o l’ha fatto, o non l’ha fatto.
Katie Bell, che era praticamente cresciuta insieme a lui e lo considerava un fratello con il quale andarci giù pesante, gli rise in faccia:
- Ooooh!... Ha parlato la voce dell’esperienza!...
- Ha-ha – la punzecchiò Cormac, facendole una linguaccia. – Mentre tu, invece, vanti grandi passi avanti col tuo bel portierone...
Katie sgranò gli occhi, subitamente inviperita.
- Non ti azzardare a tirare in ballo Oliver!...
- Che non ti tocca nemmeno con un guantone...
La Bell digrignò i denti e sfoderò la bacchetta, facendo serpeggiare fra i presenti un’onda di panico misto a eccitazione.
- Ma Katie ha ragione – tagliò corto Angelina Johnson la quale, sebbene solitamente gli concedesse poca confidenza, non aveva peli sulla lingua. – Non mi risulta tu abbia molto da dire, su questo argomento...
Aussie Spinnet sospirò, rimuginando fra sé e sé.
“Ma perché mai” si chiese la ragazza, che era d’indole naturalmente riservata “bisogna sbandierare certe cose ai quattro venti?!”
Non la pensavano tutti come lei, ovviamente.
E difatti subito dopo, inoppurtuno come una grandinata su un campo di ciclamini appena sbocciati, George Weasley se ne saltò fuori con un indelicatissimo:
- Beh, magari il baldo Jordan ci potrà dire la sua in proposito!
I volti dei ragazzi e delle ragazze integranti il gruppetto si girarono all’unisono verso Lee che, in quel momento, si trovava accovacciato accanto ad un lustro magigrammofono, in procinto di far levitare sopra il piatto un vinile di reggae accuratamente selezionato.
- Ebbene, Ziggy? – lo incalzò Fred, sorridendogli incoraggiante.
- Ebbene cosa?
- Racconta.
- Racconta cosa?!
George gli si avvicinò e gli assestò fra le costole magre una gomitatina lieve.
- Di quest’estate, no?! Della tua esperienza nelle fratte.
Lee agitò la mano, come a minimizzare.
- Ancora con questa storia, suvvia...
Si vedeva lontano un miglio che non aveva la minima voglia di tornare sull’argomento; troppo tardi, però: l’insinuazione dei gemelli aveva portato alla luce un qualcosa di troppo succulento da poter essere accantonato così facilmente.
E Cormac, manco a dirlo, sbavava di curiosità.
-  Come-come-come? Jordan si è infrattato?!
- Così pare...
- Piantala, George – sbuffò il chiamato in causa, scrollando il capo coronato da treccine.
- Ma quindi?!
- Quindi niente, Cormac! – Lee sembrava piuttosto seccato. – Ho solo...
- Si è imboscato con una signorina misteriosa, dopo la Finale – spettegolò Fred, apparentemente orgogliosissimo del suo amico.
- Sì, ma...
- E come è stato?!
- Beh, per dire il vero – mugugnò Lee, imbarazzato (si sentiva gli occhi di tutti puntati addosso e la cosa, contrariamente a quando faceva la cronaca delle partite, lo metteva a disagio) – non c’è stato il tempo di... insomma, sapete com’è: il Marchio Nero...
Sul viso di Cormac si dipinse la delusione più profonda.
- Ah. Quindi nisba.
- Mah, insomma – ribattè Lee, piuttosto ferito nel suo orgoglio di giovane maschio sessualmente (in)attivo. – Io credo che, se il Marchio Nero non fosse apparso, probabilmente avremmo...
- Ma non è successo – lo stoppò lo scozzese, caustico.
- No, ma è quasi successo...
- “Quasi” corrisponde a “non” – puntualizzò Fred che, quando voleva, riusciva ad essere più pignolo di suo fratello Percy. – Se Gazza dice “vi ho quasi beccati”, vuole dire che “non ci ha beccati”. Giusto?
- Beh, sì... però...
- E comunque – s’intromise a quel punto Angelina, alzando un dito – non ci avete ancora rivelato il particolare più sugoso.
- E sarebbe?
- Chi è mai la fortunata?
Sull’allegra combriccola calò un silenzio gravido di aspettativa, subito infranto da Fred che, in tono cospiratorio, bisbigliò:
- E qui risiede l’arcano, signori e signore.
- Già, perché vedete – continuò George, mentre Lee si lasciava andare ad una serie di borbottii di protesta – su questo dettaglio, contrariamente a quanto accaduto quella sera, il caro Jordan non si sbottona.
- Adesso basta, Weasley – lo redarguì Alicia, che avrebbe detestato trovarsi al centro di un simile polverone. – Non mi sembra proprio il caso di...
- AHA!
L’esclamazione di Leanne Kaplett, che fino a quel momento se n’era stata zitta zitta e immersa nella lettura dell’ultimo numero del Settimanale delle Streghe, fece sussultare l’intera compagnia.
- Quel Bagman!...
- Quello stordito di Bagman – la corresse Angelina alla quale, proprio come a quasi tutti gli amici riuniti quella sera intorno al caminetto, Ludo Bagman stava poco simpatico (ed era anche normale visto che, alla Finale dei Mondiali, il direttore dell’Ufficio per i Giochi e gli Sport Magici ed ex Battitore dei Winbourne Wasps, aveva spillato un bel po’ di galeoni a destra e a manca con le sue subdole scommesse). – Che cosa combina, di bello?
- È stato visto in giro in compagnia di una gentil donzella.
- No! E di chi si tratta?
- Indovina?!
- Spara, Kaplett.
Gwenog Jones!...
- Oddio, “gentil donzella” non direi proprio... – commentò Fred, serio.
- Gentile o non gentile, questa sì che è una notizia succulenta! – esclamò Katie, lanciando un ceppo di legno nel caminetto con precisione di cacciatrice.
- Esatto – grugnì Cormac, anche lui scosso dalla ridarella. – Altro che l’amante immaginaria di Jordan...
Alle sue parole, tutti gli altri si unirono a lui in un'esplosione di ilarità generale.
 
Beh, non proprio tutti, a onor del vero.
Non Jordan, per esempio, che alla battuta di Cormac si era alzato in piedi e, fatta richiudere con un colpo di bacchetta la ribalta del grammofono, se n’era andato senza premurarsi di salutare.
E non Alicia che, dopo averlo visto rimanere immobile per una manciata di secondi, l’aveva seguito con lo sguardo mentre lui marciava alla volta del vano della scala a chiocciola immersa nella penombra.
La ragazza saltò in piedi.
- Non ce n’era davvero bisogno – sibilò all’indirizzo dei sei che ancora ridacchiavano di gusto, per poi affrettarsi a seguire l’amico.
Dovette affrettare il passo per stare dietro alle sue lunghe gambe e, quando lo raggiunse, lo trovò affondato in una delle poltroncine del salottino maschile, intento a tormentarsi la punta di uno dei suoi rasta sfuggiti al nodo con cui soleva tenerli legati in alto sulla nuca.
- Aussie – la salutò lui, non appena Alicia ebbe fatto ingresso nel suo campo visivo.
- Posso sedermi?
- Accomodati.
Lei gli sedette dirimpetto e si sporse in avanti, in un lieve ondeggiare della folta chioma colore del grano. Lee si accorse subito che Alicia aveva intenzione di dirgli qualcosa, ma la ragazza non si decideva a prendere parola.
- Che succede? – le domandò allora.
- Sono io che lo chiedo a te – replicò lei, scuotendo la testa. – Sei strano. E lo sei da un po’.
Lee le sorrise, grato.
Era proprio una cara, cara amica quella piccola folgore bionda venuta dall’altro capo del mondo. Una presenza costante, sulla quale aveva potuto contare fin dal primo giorno di scuola quando, dopo aver preso posto per caso nella stessa carrozza, si erano conosciuti a bordo dell’Espresso di Hogwarts.
- Niente di che, Aussie – le rispose, sforzandosi di suonare neutro. – È solo che a me, dopo un po’, certi discorsi stufano.
- A chi lo dici – rise lei, che aveva sempre detestato sbandierare in giro i suoi affari personali. – Però guarda che, anche se non ti va di parlarne, io ti credo.
Lui le rivolse un’occhiata interrogativa.
- Beh – chiarì Alicia, sincera. – Non ritengo tu abbia avuto un flirt immaginario, ecco.
- Oh. Ti ringrazio.
- E penso davvero – proseguì lei, decisa ad andare a fondo  con quella storia - che abbiano esagerato anche se, a voler dire le cose come stanno, non è proprio da te prendersela per una cosa così.
Lui alzò i caldi occhi castani su di lei e la fissò per un paio di secondi.
- Ma infatti – le disse poi, in tono cauto – non è per quello che me ne sono andato.
Alicia sgranò gli occhi.
- Ah no?
- No.
- E perché diavolo, allora...
- La notizia su Bagman mi ha fatto girare le palle.
Alicia rimase interdetta per un lungo attimo; attimo nel quale i suoi ingranaggi cerebrali girarono vorticosamente in cerca di un significato da attribuire alle parole di Lee, e che fu seguito da un’interiezione australiana particolarmente enfatica non appena tale significato le si affacciò con insistenza alla testa.
- Oddio. Non vorrai dirmi che... che ti sei imboscato con Gwenog Jones?! – gli chiese, esterrefatta; e la sua espressione doveva essere talmente sbigottita che Lee non seppe trattenere un accenno di risata.
- Beh, diciamo che...
- CAZZO, JORDAN!
Lee si guardò intorno velocemente e le fece cenno di abbassare la voce, affrettandosi poi a precisare:
- Sì; ma non è che abbiamo... insomma: c’è stata quella storia del Marchio Nero...
- Va beh, però comunque... cioè: è Gwenog Jones, cazzo!...
- Lo so benissimo!
- Cazzo!...
- Cazzo davvero.
Alicia saltò in piedi e gli scoccò un’occhiata in tralice.
- E quindi?
- Quindi cosa?
- Come la mettiamo?
Lee sbuffò.
- Semplice. Non la mettiamo.
E all’amica, che lo guardava con le labbra risucchiate all' indentro per l’agitazione, disse poi:
- Con ‘sta storia di Bagman, poi...
- Ma lei, Ziggy, ti piace?
Lee le indirizzò un sorriso sognante.
- Sinceramente? Mi fa andare giù di testa!
- Oh, per Godric!...
Alicia si premeva le mani sulla bocca spalancata e saltellava tutt’intorno; non sembrava neanche più lei.
- Devi fare qualcosa!
- Ma dai. Ma che cazzo vuoi che faccia?!...
- Non so, devi...
- Aussie – la interruppe lui, zittendola con un mini-languelingua. – Ma mi vedi? Non sono che un moccioso, al suo cospetto.
- Oh.
Alicia si risedette, pensierosa.
Perché Jordan aveva perfettamente ragione, accidenti a lui. Al confronto dei diciannove anni compiuti di Gwenog, i quasi diciassette di Ziggy lo facevano risultare una specie di poppante. Eppure, per qualche oscura ragione, lei lo aveva baciato. Quindi chissà che una qualche speranza, alla fin fine, non ci fosse.
Sempre che, ovviamente... ah! Dannato Bagman! Alicia, che pure non era mai stata un tipo aggressivo, si sentiva prudere la bacchetta dalla voglia di affatturarlo.
- Un’idea ci verrà, dai – gli disse in tono rassicurante, puntando i piedi calzati da scarpette da quidditch sul bordo della poltrona. – Nel frattempo, passando ad argomenti più terra-terra...
- Beh, piú terra-terra di così... mi ha riempito di muschio...
- Scemo. Dicevo: e il Ballo del Ceppo?
- Ah, ecco – il ragazzo sedette più dritto. - Dunque: stavo pensando di chiedere ad Angelina...
- Off-limits, mio bel fair dinkum. Ci va già con Fred.
- Oh – si rammaricò Lee. – Sono proprio uno sfigato.
- Ma smettila.
- E tu, con chi ci vai?
Alicia rise di gusto.
- Con te.
Lui la guardò piuttosto sorpreso. Carina com’era, si era aspettato che Alicia fosse già impegnata da mesi.
- Non sapevo fossi sola.
- Detesto quel tipo di evento mondano, lo sai. Stavo giusto pensando di passare la serata sotto al piumone con Uluru (*) – dichiarò lei, fingendosi disgustata. - Che poi, le Sorelle Stravagarie manco mi piacciono. Vuoi mettere con gli AC/DC?
- Ah, Gwen le adora. Me l’ha detto quella sera, sai.
- Oh, Merlino caro. “Gwen” – commentò lei, alzando al cielo le iridi chiare. - Sei proprio stracotto, amico.
- E tu sei una tesorona, Aussie – le disse lui, strapazzandola in un abbraccio strizzaossa.
 
Post-scriptum:
(*) Uluru, nel mio HC, è l’ornitorinco domestico di Alicia.
Titoli dei capitoli (bellamente copiati dalle canzoni del vecchio Bob) a parte, preciso che le caratterizzazioni dei personaggi collaterali che inserisco qui corrispondono all’headcanon che ho sviluppato nelle mie precedenti storie, nel corso del tempo. E così, per esempio, Cormac va in giro col kilt, Katie e Oliver si sono messi insieme all’ultimo anno di lui, Alicia è australiana (da cui la sua predilezione per il gruppo rock di Sidney) ed il cognome di Leanne è Kaplett. E Lee e Alicia sono amici, amici, amici, per Salazar e per la gioia di quel niente affatto garrulo pozionista di Basteen MacDandee (goooood vibes, maaan!!!)
Approfitto di questa seconda batteria di note per invitare tutti i lettori a fare un salto nella sezione “Aggiungi personaggi”, gentilmente segnalatami da Ems, ed inserire un voto affinché Gwenog Jones ed Eloise Midgen entrino ufficialmente a far parte della lista dei personaggi!

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Capitolo 3
*** 'Cause every little thing is gonna be alright! (o quasi) ***


3. ‘Cause every little thing is gonna be alright! (o quasi)
 
Pontwelly, Galles, 24 dicembre 1994.
Lo specchio le restituì l’immagine di una giovane donna piacente, inguainata in un abito lungo del colore della notte e aderente a sufficienza da mettere in risalto tutta una serie di curve e controcurve che neanche lei sospettava di possedere.
Gwenog strinse le labbra, contrariata.
Non per quello che aveva visto, anzi. Nonostante la scarsa dimistichezza con il jetset del mondo della Magimoda, il risultato sarebbe stato talmente sorprendente da indurre anche una come lei a rallegrarsi per il suo bell’aspetto. No: il problema era un altro però, e di gran lunga meno superficiale.
“Come sei caduta in basso, Gwen” si disse astiosamente la ragazza, puntando le pungenti iridi castane nei doppioni perfetti che la fissavano dalla superficie vetrata. Un’ombra di disappunto le rabbuiò il viso; i lineamenti aggraziati s’indurirono all’istante. E la metafora del “cadere in basso”, per una come lei che fin da giovanissima si era abituata a vivere sospesa nell’aria e a sfiorare le nuvole con la punta delle dita, le parve particolarmente calzante, dura e dolorosa.
“Scema che non sei altro”.
Gwenog Jones era mortalmente delusa da se stessa. Volitiva ed orgogliosa com’era sempre stata (“una vera macchina da guerra” l’aveva definita ridendo il professor Lumacorno, suo vecchio insegnante di Pozioni, che l’adorava), la sola idea di abbassarsi a tali miseri sotterfugi la mortificava oltremodo.
Ma non aveva scelta.
Non ce l’avrebbe fatta a rimanersene tranquilla e serena in casa, quella sera, neanche se qualcuno l’avesse provvidenzialmente graziata con una Fattura Calmante. Doveva agire, accidenti; doveva fare qualcosa, o la tensione e il nervosismo l’avrebbero fatta esplodere come una pentola a pressione babbana rimasta sui fornelli per qualche ora di troppo.
E la prospettiva di una Gwenog Jones in procinto di deflagrare, si sa, non poteva essere sinonimo di nulla di buono.
Gwen sospirò.
Ludovic Bagman l’avrebbe fatta impazzire, ormai ne era certa.
Eppure all’inizio, quando si erano conosciuti, era stato capace di renderla così felice... la ragazza scosse la testa, rattristata dal ricordo dell’euforia che aveva provato quando lui, proprio lui, il più eccezionale battitore della storia del Quidditch contemporaneo, si era dichiarato colpito dalla sua bravura dopo averla vista all’opera sul campo d’allenamento delle Holyhead Harpies e poco dopo, complice la sua indiscussa esperienza, si era messo a corteggiarla con metodo.
E lei, che qualche flirt l’aveva anche avuto in passato ma che, fino a quel momento, aveva dedicato al Quidditch la stragrande maggioranza dei suoi pensieri, delle sue energie e del suo cuore, ci era cascata come una pollastra particolarmente ingenua.
E se ne rendeva perfettamente conto, Gwen; e tale consapevolezza rendeva la situazione ancor più drammatica.
Ma non poteva farci niente.
Dopo poco tempo che si frequentavano, Ludo si era fatto schivo, sfuggente.
Non solo evitava di farsi vedere in giro con lei, comportamento che lui giustificava allegando di farlo per il suo bene. Lo stridore di denti si intensificava quando lui scompariva per intere settimane lasciandola lì, in attesa come una sciocca fidanzatina, per poi rifarsi vivo di punto in bianco senza degnarsi di darle un brandello di spiegazione. Quando lei tentava di metterlo alle strette, con le buone o con le cattive, lui le sorrideva benevolo e la fissava con i tondi occhi chiari, complimentandosi con lei per la sua abilità durante l’ultima partita; e la baciava; e lei si sentiva come chi ha appena ricevuto una mazzata in testa, sospirando felice e, al tempo stesso, sentendosi una rammollita, sommamente irritata con se stessa.
La Finale dei Mondiali di Quidditch, tanto per citare uno dei peggiori esempi, era stata un disastro.
Dopo settimane di tira e molla a dir poco sfibranti, alla fine Gwen l’aveva convinto a lasciarla assistere alla partita insieme a lui.
- Ma sarò molto occupato – aveva tentato di svicolare lui, nascondendosi dietro il suo titolo di Direttore dell’Ufficio per i Giochi e gli Sport Magici. – Dovrò anche fare la cronaca della partita...
- Non me ne importa un purvincolo secco, Ludo – aveva tagliato corto lei, stringendo in denti in un modo che lo aveva indotto a capitolare. – Facciamo così, allora: ci vediamo subito dopo.
Cosa che, manco a dirlo, non era successa.
Al termine della Finale, Ludo si era praticamente volatilizzato; e a nulla era valso, all’ormai furibonda Gwenog, cercarlo rabbiosamente qua e là.
Alla fine, scornata, la ragazza si era imbattuta nelle sue sorelle che, a loro volta, l’avevano convinta ad unirsi ad un gruppo di studenti ed ex alunni di Hogwarts. E la serata, iniziata in modo tanto infausto, aveva poi preso una piega inaspettata... quasi piacevole si era detta Gwenog, un po’ stupita e, a onor del vero, perfino un po’imbarazzata all’idea di essersi lasciata andare ad effusioni con quello che, per quanto simpatico e belloccio e buon baciatore, aveva tutta l’aria di essere un ragazzino un po’ troppo giovane per lei.
A proposito: come diavolo le aveva detto di chiamarsi, costui?
Non riusciva proprio a ricordarlo, per tutti i Tassi della divina Tosca.
“Linn”, “Leon” o qualcosa di simile; un nome corto, in ogni caso, che lei aveva smarrito quasi subito nelle pieghe del cervello, annebbiato dall’aroma di erbe caraibiche di quella sigarettina lunga e sottile che lui le aveva offerto con un sorriso.
La pendola in anticamera batté le nove: la giovane donna riflessa nello specchio strinse gli occhi, nuovamente vigile e concentrata.
“Dannato, dannatissimo Ludo”.
Non gli avrebbe permesso di spassarsela ad un ballo come quello; un evento mondano dal quale lei, di regola, si sarebbe tenuta religiosamente lontana ma la cui prospettiva, in quelle circostanze, la metteva in allarme e la gettava nel più cupo sconforto.
Ludo non si era fatto sentire per mesi e, dopo che aveva preso servizio come membro della giuria al Torneo Tremaghi, era letteralmente svanito nel nulla.
Gwenog era stata messa al corrente del Ballo del Ceppo per puro caso, un pomeriggio in cui si era recata in visita a casa dei genitori. Vi aveva trovato sua madre ed Hestia che finivano di assemblare un grosso pacco da spedire a Megan, la sorellina minore che ancora studiava ad Hogwarts.
- È il vestito per il gran Ballo che si terrà la Vigilia di Natale – aveva commentato Hestia, rispondendo al muto interrogativo di Gwenog.
- Che ballo?
- A te farebbe vomitare, Gwen – aveva riso la sorella maggiore. – Per fortuna ti sei già diplomata, o Hogwarts rischierebbe di vivere una seconda Notte dei Cristalli!...
E le due donne erano scoppiate a ridere, immaginando la devastazione che Gwenog serabbe stata capace di produrre in Sala Grande.
A lei, però, quella notizia aveva fatto male; le aveva fatto ribollire le viscere di gelosia.
Ludo si sarebbe divertito quella sera, quasi sicuramente attorniato da tante signorine graziose e sorridenti. Era un pensiero che non risuciva a tollerare.
Gwenog era così furiosa (principalmente con se stessa, per quel suo comportamento da mocciosa isterica) che la sera stessa, durante la partita contro il Puddlemere United, aveva fatto strike di giocatori al puro scopo di sfogare la sua ira; e il suo comportamento in campo era stato così scorretto da procurarle, dopo appena mezz’ora di gioco, un’espulsione memorabile.
E il pensiero, nei giorni successivi, era andato avanti ad assillarla ad  oltranza.
Che fare?
Non poteva certo andare avanti così, ne andava della sua tanto preziosa carriera.
E così alla fine, grazie alle sue conoscenze (Gwenog era molto amica del chitarrista Kyrley Duke, figlio dell’allenatrice delle Harpies - nonché ex Cercatrice Catriona McCormak – e membro delle Sorelle Stravagarie, che quella sera avrebbero suonato alla festa) era riuscita a procurarsi un invito.
- Time to go – si disse la ragazza, lanciando un’ultima occhiata critica al suo riflesso nello specchio.
- Ma dove vai vestita come una banshee dalle tendenze vampireggianti?! – le domandò stupita sua madre seguendola con lo sguardo, mentre lei si dirigeva verso il camino con un’andatura che ricordava quella delle Furie Buie in procinto di attaccare. – Non potevi scegliere qualcosa di più... gioviale?
Lei fece spallucce, più cupa che mai, per poi gettare nelle braci una manciata di Polvere Volante.
No: definitivamente, niente giallo quella sera.
In occasione del Ballo del Ceppo, Gwenog Jones avrebbe indossato il nero, colore che più di qualunque altro si abbinava alle tinte fosche del suo stato d’animo intriso di rabbiosa amarezza.
 
Hogwarts, stessa data
La Sala Grande scintillava come la vetrina di una pasticceria della Parigi Belle Epoque.
Studenti e studentesse, eccitatissimi, facevano capannello, bevevano, ballavano, flirtavano e si divertivano. L’amore, complice l’atmosfera ancor più fatata del solito, era nell’aria quella sera; si formavano coppie, crepitavano baci, zigzagavano occhiate.
Non tutti, però, erano presenti sul posto.
Tre elementi, infatti, mancavano all’appello.
Ziggy Jordan, Aussie Spinnet e Kitty (così era solito chiamarla Oliver Baston la cui assenza, quella sera, era percepibile ad un livello quasi fisico) Bell si trovavano all’esterno, nei Giardini del Castello, seduti sull’erba a ridosso di una folta siepe di bosso opportunamente rinfoltita tramite apposito incantesimo allo scopo di nasconderli meglio.
Chiacchieravano allegramente, i tre amici; si scambiavano battute, ridacchiavano e sfumacchiavano.
- Sarà ancora tutto intero? – domandò Alicia vagamente preoccupata, le iridi verdi attraversate da uno sprazzo di senso di colpa
- Ma sì – minimizzò Katie dando un tiro di sigarettina ricreativa, per poi ripassarla delicatamente a Lee. – Cormac se la cava sempre, ve lo dico io che lo conosco come le mie tasche.
- Per tutti i voodoo della bisnonna, però – commentò il ragazzo, assorto. – Cormac ha fegato, parola mia.
L’”incidente” di cui parlavano era avvenuto poco prima.
Lee e Alicia si erano accordati per andare al ballo insieme; e Katie, non potendo contare sulla presenza del fidanzato Oliver, aveva finito per andarci con Cormac il quale, guarda caso, non era riuscito ad aggiudicarsi uno straccio di accompagnatrice.
- Oliver non avrà nulla da ridire su di te – aveva concluso Katie alla luce dei rapporti fraterni che la legavano all’amico; e così, poco prima dell’inizio del ballo, i quattro ragazzi si erano ritrovati in Sala Comune per scendere assieme.
Nonostante le loro magre aspettative, il quartetto si era divertito.
Avevano mangiato, bevuto, accennato qualche passo di danza nonostante l’espressione critica di Alicia, avevano fatto commenti caustici sulle ragazzine infiocchettate che giravano per la sala con il piglio di principessine esaltate e avevano riso assai.
Nel complesso, ogni piccola cosa era andata bene.
Finché, ovviamente, la situazione non era precipitata da un secondo all’altro.
Uno studente di Durmstrang, un tizio dotato di un paio di scure sopracciglia irsute e visibilmente alticcio, si era avvicinato di soppiatto al gruppetto e aveva picchiettato sulla spalla di Katie.
- Ciao, pella – le aveva detto. – Me lo concedi un pallo?
- Grazie, no – aveva cinguettato lei, facendo ondeggiare soavemente la frangetta corvina in gesto d’inequivocabile diniego.
- Appunto, pollo – aveva rincarato Cormac. – Fuori dalle palle.
Quello gli aveva rivolto un’occhiataccia torva.
- Ke fuoi, tu?
- La lady è impegnata.
- Ooooh! – aveva strillato Katie, drammatica, alzando il polso per mantenere celata la bocca piegata in una risata irrefrenabile mentre Lee e Alicia, senza premurarsi minimamente di nasconderlo, già sghignazzavano di gusto  - Difendimi da questo bruto, mio impavido Highlander!...
- Hai sentito, barbaro dell’estremo Est?
- Ma kome permettiti?!!
E la zuffa era scoppiata.
Katie, Alicia e Lee erano sgattaiolati fuori dalla Sala Grande, tenendosi con le mani le pance scosse dall’eccesso di risa, e si erano diretti di corsa alla volta dei Giardini.
 
- Le ginocchia?!
- Oh sì – rispose seriamente Alicia, annuendo decisa e scacciando col palmo della mano una nuvoletta di fumo. – L’uomo perfetto deve possedere ginocchia su-bli-mi.
Lee ridacchiò, scuotendo la testa.
- Con tutte le cose che l’uomo ideale avrebbe da offrirti, tu stai a guardare le ginocchia?
- Certo. Sono una conditio sine qua non – sentenziò lei, in tono definitivo.
- Quelle di Cormac non sono male – osservò Katie, decisa ad argomentare in favore dell’amico. – Capi di vestiario come i kilt valorizzano parecchio certi dettagli.
- Non male, è vero – concordò Alicia, dando un tiro. – E fra parentesi, gli scozzesi non mi dispiacciono affatto, in realtà. Ma le ginocchia di Cormac, purtroppo, non sono abbastanza... eleganti.
Katie fece tanto d’occhi.
- Mi chiariresti il concetto di ginocchia eleganti?!
- E che ne so – la giovane australiana si alzò con un salto un po’traballante. – Quando finalmente ne vedrò un paio, te lo saprò dire. Nel frattempo – aggiunse poi, stiracchiandosi voluttuosamente - che ne dite di mettere qualcosa sotto i denti? Sto coso mi ha fatto venire una fame...
- Affare fatto – concordò Lee, alzandosi a sua volta in piedi ed aiutando Katie a tirarsi su. – La fame chimica va sempre assecondata, si sa.
Insieme alle due amiche, il ragazzo si diresse quindi verso una porta-finestra della Sala Grande che era stata lasciata aperta, del tutto ignaro del fatto che, nel giro di pochi secondi, si sarebbe imbattuto in un’imprevedibile sorpresa.
Non avevano dato neanche un passo all’interno del salone, infatti, che Aussie Spinnet si fermò di colpo. Gli altri due, che procedevano dietro di lei, le andarono quasi a sbattere addosso.
- Ma per Godric, Aussie!...
- Ho le traveggole – mormorò lei, strofinandosi gli occhi con il dorso delle mani. – Che cosa accidenti ci hai messo in quel benedettissimo affare, Jordan?!
- Ma che cosa diavolo stai... – incominciò lui, per poi zittirsi all’improvviso.
Seguendo distrattamente lo sguardo di Alicia, anche lui aveva alfine avvistato ciò che l’aveva lasciata tanto sbigottita; e la visione, troppo incredibile per non essere frutto delle erbette della bisnonna, gli aveva provocato l’effetto preciso di una capocciata contro ad un muro di pietra particolarmente dura.
A poca distanza da loro, infilata in un vestito nero tanto aderente e scollato da fargli immediatamente seccare la saliva, c’era lei.
Lei: Gwenog Jones, in tutto il suo cupo splendore.
 
- Wohaaa – fu il primo commento di Alicia, subito seguito da un incredulo: - Ripper, maaan!
E posizionatasi alle spalle di Lee, che era rimasto impietrito come una longilinea statua di sale, gli assestò una rude spinta in avanti.
- Datti da fare, spiffy guy!
- Calma-calma-calma – intervenne Kitty Bell, colta alla sprovvista. - Che cavolo sta succedendo?
- La Jones!... l’One Love di Ziggy!...
- Che cosa?! – urlò Katie, sbalordita. – La tipa misteriosa... era lei?!
- Adesso – esclamò allegramente Lee, reso spavaldo dalla seduta fumogena di poco prima – vado là e le parlo.
E sottolineò i suoi propositi con un'energica scrollata di rasta.
- Fatti sotto, Ziggy! – lo incitò Alicia, infervorata.
- No! – Katie, istantaneamente ricolma di una misteriosa dose di buonsenso scovata chissà dove e terrorizzata all’idea di una reazione violenta da parte della Jones, cercava invano di fermarlo, trattenendolo per la manica – Non sei in te, Lee!... Ci farai una figura di merda....
- Non rompere le uova nel paniere, Bell!...
Ma non ci fu bisogno che Lee desse neppure un passo.
Fu Gwenog Jones, il bel viso adormbrato da un’espressione indefinibile, a muoversi a passo di marcia nella loro direzione.
 
Era letteralmente fuori di sé, Gwenog.
Si era sentita ferita e umiliata come non mai quando tutto ciò che Ludo aveva visto bene di dirle, trovandosela davanti dopo mesi che non la vedeva, era stato:
- Gwen?! Ehi, tu non dovresti essere qui!...
E lei si era sentita sciocca, sciocca, sciocca; una vera e propria cretina per Tosca, un’illusa, una debole. E così, resistendo all’impulso di spaccargli seduta stante la faccia con un manorovescio dei suoi, la ragazza aveva girato sui tacchi e si era allontanata fra la folla.
- Gwen!...
Ludo, probabilmente accoprtosi della sua indelicatezza, l’aveva richiamata; ma lei aveva proseguito imperterrita, troppo orgogliosa per piangere e furente come non mai.
E mentre, travolgendo al suo passaggio ignare studentesse agghindate come damine settecentesche, percorreva a grandi falcate il pavimento lucido della Sala Grande, uno spiraglio fra la folla si era aperto davanti a lei.
E Gwenog l’aveva visto.
Alto e di bell’aspetto, abbigliato con un’ampia tunica dai vivaci colori africani; un sorriso bianco come la neve e naturalmente simpatico sul bel viso color del caramello; e infine, annodati alti sulla sommità del suo capo a formare una corona dall’aspetto regale, morbidi dreadlocks decorati da cerchietti d’argento e palline di legno colorate.
Gwen lo fissò per un secondo, indecisa.
Dove l’aveva...?
Oh.
Il tizio della Finale.
Il ragazzo le sorrise, un po’ stupito, e Gwenog ebbe la fugace e insipegabile impressione che stesse aspettando proprio lei (e in un certo senso era vero, anche se lei ancora non poteva saperlo).
Istintivamente, avanzò ancora di qualche passo e lo raggiunse.
- Gwenog.
La mano di Ludovic Bagman si strinse intorno al suo polso, arrestando il suo incedere.
- Che cosa accidenti vuoi?! – ringhiò lei facendo accapponare la pelle di Katie e Alicia, che osservavano la scena col fiato sospeso. – Sono impegnata.
Bagman socchiuse gli occhi chiari e le rivolse un’occhiata codiscendente che la fece andare fuori dai gangheri.
- Ah sì?
- Sì – rispose lei, digrignando i denti. – Con lui.
E prima che Lee avesse il tempo di dire buonasera gli si accostò, gli allacciò le dita dietro al collo per tirarlo giù e lo baciò davanti a tutti.
 
Ad evitare l’esplosione del pandemonio più bieco, inaspettatamente, intervennero Fred e George Weasley.
Erano mesi e mesi che i due davano la caccia a Bagman a causa dell’oro dei Lepricani con cui lui, alla finale dei Mondiali, aveva pagato il suo debito di gioco con loro; e destino volle che i ragazzi, quella sera, avvistassero Bagman proprio mentre questi, in piedi al centro del salone gremito di gente sbalordita, osservava basito la piacente battitrice delle Harpies che baciava con trasporto il loro comune amico Ziggy Jordan (il quale, per dovere di cronaca, aveva risposto egregiamente all’iniziativa dell’audace donzella e, stese in avanti le mani per cingerle la vita sottile, si stava dando da fare con impegno encomiabile).
Certo: la scena in sé sarebbe valsa mesi e mesi di speculazioni succose e variamente ispirate, ma si sa: gli affari sono affari. E così, messi da parte gli istinti pettegoli, i due gemelli si buttarono a pesce sull’ex battitore degli Wasps nel tentativo di recuperare il maltolto.
Quello, fu, il vero motivo del pandemonio che fece seguito al fattaccio.
E quello fu, parimenti, il motivo che diede occasione a Lee Jordan, strappato alle labbra di Gwenog Jones dalla bisticciata in corso fra i suoi amici e il riottoso Ludo, di distinguersi ancora una volta per la sua prontezza di spirito.
- Vieni con me – disse il giovane Grifondoro alla sua improbabile accompagnatrice, dopo essersi sciolto dal suo abbraccio ed averle afferrato la mano. – C’è troppo chiasso, qui.
Senza attendere un suo cenno di consenso, se la tirò dietro fra la folla.
 
Il panorama che si godeva dalla torre era superbo, tantopiù in una notte stellata bella come quella.
I due giovani, in piedi uno accanto all’altra con i gomiti appoggiati al parapetto della finestra, guardavano lontano scambiandosi ogni tanto qualche rapida battuta.
In compagnia di quel ragazzo così semplicemente simpatico e positivo, brillante senza volerlo essere a tutti i costi, Gwenog era finalmente riuscita a calmarsi. Fu proprio lei a riprendere la parola, dopo qualche minuto di silenzio. La sua voce, bassa e un po’ roca, venne subito assorbita dalla coltre di buio che li circondava.
- Ti chiedo scusa.
Lui si strinse nelle spalle e sorrise nell’ombra, consapevole del fatto che, ad una tipa tosta e orgogliosa come la Jones, una semplice richiesta di scuse come quella appena proferita doveva essere costata parecchio.
- Mica mi offendo, io – le rispose allegramente, cercando di sdrammatizzare. – Lee Jordan sarà sempre al tuo servizio, se in questo modo ti potrà essere utile.
Lei si voltò verso di lui, intrigata dalla sua simpatica spavalderia che, sotto sotto, la fece sorridere.
- Lee Jordan, hai detto?
Lui le rivolse un’occhiata corrucciata.
- Non... non lo sapevi?!
- No.
Diretta come un Bolide, per Godric.
- Fa niente. Adesso lo sai. E puoi anche chiamarmi Ziggy, se preferisci.
- Cercherò di ricordarmelo – gli rispose lei, socchiudendo gli occhi in una smorfia di sufficienza.
- Brava.
Lee aveva intuito che Gwenog non era un tipo con cui scherzare, ma averla lì ad un tiro di schioppo era un evento più unico che raro, un’occasione che non poteva permettersi il lusso di perdere. La luce della luna illuminava la pelle ambrata delle braccia e del decolletée della ragazza, mettendo in risalto le forme armoniose del suo bel corpo fasciato dall’abito scuro.
Lee, manco a dirlo, si sentiva sobbollire a fuoco lento.
Cosicché, spinto dalla sua coscienza in veste di mini-Aussie seduta sulla sua spalla, il ragazzo decise di osare.
Mal che la vada, mi becco uno scappellotto.
- Ti posso lasciare una Ricordella? – le chiese allora, a bruciapelo.
- No, grazie. Ho la brutta abitudine di frantumarle a colpi di mazza, sai com’è.
- Allora facciamo così – propose lui, staccandole i gomiti dal parapetto per inserirsi fra lei e la parete. – Te lo ricordo in un altro modo, se per te va bene.
Le sollevò il viso con delicatezza e la tirò a sé per farsela ricadere addosso; poi, chinatosi in avanti, premette con decisione le labbra sulle sue.
E Gwenog, andando oltre la più rosea delle previsioni, non se ne andò.
Lo baciò di rimando, invece, con quella furia un po’ brutale che gli faceva smarrire la lucidità spingendolo ad agire d’istinto; e gli si strinse contro, lasciandolo confuso ed infervorato. Quando però le mani del ragazzo, un po’ tremanti, si insinuarono sotto le spalline del suo abito del colore dell’ombra, Gwen si tirò indietro e si allontanò da lui.
- Dio, Gwen!... – boccheggiò Lee, tentando invano di trattenerla.
- No – lo freddò lei.
- Oh, ma per Godric... Non stavo...
Lei gli rivolse uno sguardo severo ma, sotto sotto, permeato di una (quasi impercettibile) vena di dolcezza.
- Sei un bravo ragazzo, Ziggy Jordan – gli disse, carezzandogli lentamente la guancia con due dita. – Fin troppo bravo, per me. E troppo giovane.
- Ma ho compiuto diciassette anni il cinque dicembre! – protestò lui, affannato e scompigliato come un polpo coi tentacoli in disordine.
Gwenog, però, non aggiunse altro; lanciatagli un’ultima occhiata si allontanò lungo il corridoio, trascinandosi dietro quella sua sbalorditiva silhouette ( troppo appetitosa per essere vera) mentre Lee, le lunghe dita infilate fra i rasta nel vano tentativo di darsi un tono, la osservava sbuffando fuori boccate di aria calda.
 
Post-scriptum.
Eppur si muove!... Sì, dai, qualcosa si smuove. Poco, ma si smuove.
Lee, invece, si smuove parecchio hehehe.
Dovevo approfittare di questi pochi giorni di stacco perché, fra poco, si riprende a pieno ritmo. Spero di riuscire a procedere quanto prima!...

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Capitolo 4
*** (I don’t wanna) Wait In Vain (for your love). ***


4. (I don’t wanna) Wait In Vain (for your love).
 
Notizie dal fronte Kingston-Hogwarts (1994-1996)
A nulla valse, nei mesi successivi all’increscioso (ma sublime, almeno dal punto di vista dell’irrimediabilmente infatuato Ziggy Jordan) episodio del Ballo del Ceppo, tentare di ristabilire i contatti con Gwenog.
Lee le tentò tutte, ma proprio tutte: dalla posta via gufo all’aeroplanino di carta incantato, ai mazzi di fiori sottratti alle serre della professoressa Sprite ai dolciumi e regali acquistati nei negozietti di Hogsmeade con i pochi spiccioli che possedeva.
Niente.
Nessuno dei suoi tentativi di riprendere il discorso lasciato in sospeso la vigilia di Natale ebbe il minimo successo. Lui puntualmente, ad ogni invio, arrivava a sperarci davvero, per poi ogni volta, altrettanto inesorabilmente, scontrarsi con la dura realtà.
Lee non riusciva a capire il perché di cotanto ostinato silenzio.
Era vero: Gwenog l’aveva allontanato e gli aveva fatto capire di non essere il tipo giusto per lei. Al tempo stesso, però, l’aveva baciato per ben tre volte e l’aveva addirittura scelto come coadiuvante per farla pagare a quel cretino di Bagman (di che cosa diavolo fosse successo fra loro Lee non ne aveva la minima idea; ma qualcosa di grave era senz’altro accaduto, e tanto bastava).
Nonostante tutte le considerazioni e speculazioni e riflessioni che la mente accelerata di Lee riuscì a partorire, e che lui ripeteva incessantemente a se stesso e agli amici che, stoicamente, lo stavano a sentire, di risultati non ce ne furono.
Dal Versante-Gwenog silenzio assoluto, calma piatta, assenza totale.
E fu così che, man mano che il rigore dell’inverno scavallava piano piano nelle tiepide giornate di inizio primavera, l’umore del ragazzo subì tutta una serie di mutamenti variabilmente preoccupanti, che andarono dall’agitazione all’impazienza, dall’impazienza al nervosismo, dal nervosismo al risentimento e dal risentimento all’ira.
Le avvisaglie di una svolta avvennero al termine delle vacanze di Pasqua, che Lee trascorse a Londra in compagnia dei suoi familiari e con qualche provvidenziale visita da parte di Alicia (gli Spinnet possedevano un piccolo appartamento nella Capitale, usato per brevi soggiorni quando il viaggio di andata e ritorno dall’Australia sarebbe stato spropositato per i pochi giorni a disposizione).
Una volta rimesso piede ad Hogwarts, Lee si premurò di disdire l’abbonamento a Tuttoquidditch e alle altre riviste sportive di cui era da anni fedele abbonato; risoluto, rimosse tutti i poster di Gwenog che aveva affisso sulla parete vicino al suo letto a baldacchino e fece strage dei suoi preziosissimi album di figurine dai quali, con somma indignazione da parte di Angelina Johnson e di Ginny Weasley, strappò via con chirurgica precisione tutte le pagine occupate dalla squadra delle Harpies. Dopodiché, fatto di tutte quelle dolorose carte un unico fascio, si autoproclamò Capo Inquisitore, le processò e le condannò al rogo dietro agli spogliatoi del campo da Quidditch senza possibilità di appello.
Assistettero all’esecuzione i Grifondoro tutti, ciascuno di loro ostentando una contrizione che non provava, ma che ognuno si diede da fare a simulare per amore dell’amico. Lee non fece un passo indietro neppure quando le fiamme attaccarono la fotografia di Gwenog che, raggiante, sollevava il trofeo della vittoria in Campionato; il colpo, tuttavia, dovette pesare molto per lui perché quella sera, al termine della sua estrema dimostrazione di forza, il ragazzo fu visto arrotolarsi una canna delle dimensioni di uno Schipodo Sparacoda adulto.
Se lo sarebbe fumato tutto, probabilmente, se il tripo punitivo costituito da Angelina, Alicia e Katie non glielo avesse impedito. Le tre ragazze, preoccupate dalla sua assenza a cena in Sala Grande e, più tardi, in Sala Comune, l’avevano cercato in lungo e in largo; l’avevano alfine trovato rintanato in un’aula vuota mentre, completamente solo, si accingeva a dare fuoco alle polveri.
Con una precisa ed impietosa sequenza di Accio, Expelliarmus e Aguamenti le tre amiche gli ruppero le uova nel paniere, salvandolo però da un’intossicazione assicurata. Lui, lì per lì, s’indignò e protestò a gran voce; poi però, quando si fu un po’ calmato e ravveduto, non poté fare altro che ringraziarle di cuore.
- Ho chiuso con quella stronza – annunciò categorico ad Alicia qualche sera dopo, sedendosi accanto a lei sul divanetto della Sala Comune.
- Forse è meglio così, anche se la cosa mi rattrista – convenne lei, depositando delicatamente sulle sue ginocchia l’ornitorinco Uluru il quale, giratosi a pancia in su con le quattro zampette palmate aperte a stella, reclutò immediatamente il ragazzo per una sessione intensiva di grattini.
Per tutto il resto dell’anno scolastico, Lee si astenne rigorosamente dal tornare sull’argomento.
 
Poi di punto in bianco, chissà perché, le cose cominciarono a muoversi.
Le prime ad accorgersi che Ziggy Jordan era cresciuto furono le sorridenti damigelle di Kingston.
Al suo arrivo in Giamaica costoro l’avevano accolto con un sorriso più caldo del solito; l’avevano osservato con un interesse più accentuato del solito e alla fine, dopo appena qualche giorno trascorso a studiare diligentemente i cambiamenti avvenuti nel suo fisico e nel suo carattere, gli avevano rivolto coccole e vezzi decisamente più significativi del solito e, definitivamente, assai diversi da quelli che gli venivano elargiti quand’era ancora un bambino.
Non seppe bene neanche lui come si fosse passati da un semplice ciao caro ad una stretta di gomito, da un invito a danzare al lento ritmo del reggae ad un bacio inatteso ed infine a qualcosa di più serio; sta di fatto che, quell’estate, gli eventi fecero il loro corso e Lee Jordan, piuttosto sorpreso ma comprensibilmente entusiasta, si ritrovò piacevolmente conteso fra sorrisi di perla, mani delicate dalle unghie rosse laccate, riccioli morbidi come seta e pelli di velluto color del cioccolato.
 
Si dice che le donne possiedano un sesto senso per certe cose, ed effettivamente così è.
I cambiamenti avvenuti durante l’estate, com’era prevedibile, non passarono inosservati agli occhi delle donzelle di Hogwarts.
Lee vi aveva fatto ritorno piì simpatico e spigliato del solito; più maturo, fisicamente interessante e, soprattutto, più sicuro di sé. Non fu quindi una sorpresa il fatto che, durante il suo ultimo anno trascorso fra le mura del Castello, il ragazzo godette alfine di una certa inedita popolarità. Non che si fosse di punto in bianco trasformato in un conquistatore seriale, per carità: velleità di quel tipo lui preferiva lasciarle all’appannaggio di soggetti più spregiudicati e scafati come Roger Davies, però insomma, qualche flirt e appuntamento gli toccarono inevitabilmente in sorte e lui, com’era giusto che fosse, non se li fece sfuggire.
Il settimo anno trascorse fra alti e bassi, in un clima un po’malinconico di addio imminente mano a mano che i MAGO si avvicinavano. Ad spargere in giro un po’ di sana adrenalina ci pensarono  una new entry ed una old entry ugualmente inattese e rispondenti, rispettivamente, ai nomi di Dolores Umbridge e Sebastian Macnair.
La prima, esponente di spicco del Ministero della Magia e bramosa di potere, aveva in tempi brevissimi istituito una sorta di dittatura tirannica che aveva spinto un drappello di studenti (capitanati da Harry Potter in persona) ad organizzare la controffensiva: era così nato l’Esercito di Silente, del quale Lee e i suoi amici erano subito entrari a far parte.
Il secondo, ex studente di Hogwarts e rientrato a scuola nelle vesti di Assistente del professor Piton alla Cattedra di Pozioni, aveva creato scompiglio su un piano più personale che istituzionale ma Lee, che pure non era coinvolto in prima persona nei fattacci connessi alla figura dell’ex Prefetto Serpeverde e giovane elemento di spicco nel mondo dei calderoni, aveva risentito parecchio della sua presenza al Castello.
Le cose stavano in modo assai semplice: Aussie Spinnet, il suo tanto agognato paio di ginocchia eleganti, l’aveva trovato. E l’aveva trovato, guarda caso, sotto al tessuto carissimo dei pantaloni cuciti a mano dell’Assistente Macnair il quale, va detto, non avrebbe potuto chiedere di meglio dalla vita visto che Alicia gli piaceva da tempi immemorabili. Il problema, però, era che fra Macnair e la Spinnet (e, di conseguenza, fra lui i gli amici più stretti della ragazza) non correva esattamente buon sangue, e le origini di tale ostilità risalivano ai tempi in cui il controverso giovanotto si divertiva a strapazzare Uluru, l’ornitorinco domestico.
Per Alicia prendere coscienza del fatto che, dopo anni trascorsi a temerlo e detestarlo, Macnair cominciava a piacerle fu motivo di grande sgomento e confusione; e le cose naufragarono in maniera quasi irrimediabile a gennaio, in seguito ad un appuntamento segreto (Alicia, riservata com’era, non glielo rivelò mai ma Lee, che la conosceva troppo bene per non essersi accorto di nulla, si rese subito conto che qualcosa non andava) dagli esiti disastrosi.
Sinceramente dispiaciuto per il profondo disagio vissuto dalla sua amica, le cui cause non gli erano state rese note ma che lui aveva ricostruito, unendo l’osservazione all’empatia, con un’approssimazione sorprendentemente precisa, Lee si era interrogato a lungo sull’eventualità di intervenire. Alla fine, senza avere il coraggio di consultarsi con Alicia (la quale, probabilmente, gli avrebbe intimato di farsi gli affari suoi) ma deciso a mettere bene in chiaro certe cose, il ragazzo aveva preso una decisione ed era andato a trovare il giovane professore al termine di una delle sue lezioni.
Lee, Pozioni, non la frequentava più dalla fine del quinto anno perché Piton non l’aveva mai considerato un alunno da Eccezionale; e ricalarsi nei sotterranei fra tutte quelle boccette raccapriccianti non gli piacque granché. Strinse però i denti e, dopo avere varcato la soglia della classe, si avvicinò a Macnair che, elegantissimo e nerovestito, gli rivolse un’occhiata artica.
- E lei sarebbe?...
- Lee Jordan.
- E?
- Sono qui per un’amica.
Macnair strinse gli occhi eccezionalmente chiari, facendolo raggelare.
- Immagino di intuire di chi si tratta.
- Bravo – rispose Lee che, quando voleva, sapeva essere immensamente irritante. – Venti punti a Serpeverde.
- Grazie – replicò l’altro, senza degnarsi di dargli soddisfazione. – Ed ora, se non le dispiace...
- Stammi bene a sentire, MacNoir – sibilò Lee, sforzandosi di apparire minaccioso. – Se fai qualcosa di male ad Aussie... ti faccio fare un voodoo che la metà basta.
Macnair lo fissò impassibile, in un misto di sorpresa e sufficienza.
- Oh, per Salazar. Ho già i brividi.
- Ti conviene, maaan – Lee gli puntò contro un indice accusatore e poi, con una scrollata di rasta, girò sui tacchi. - Buonasera.
Il pozionista rimase fermo a guardarlo mentre lui, impettito come un principe bantu, lasciava l’aula a prandi passi.
“Un certo fegato ce l’ha, dai” ammise il cupo professore, aggiustandosi meticolosamente la cravatta.
Le cose, manco a dirlo, erano andate di male in peggio; su questo punto, però, avremo modo di tornare più avanti.  
 
Redazione di Tuttoquidditch, Londra. Agosto 1996
- I miei più sentiti complimenti, signor Jordan.
L’espressione del signor Dillinger, direttore della famosa testata sportiva, era di puro incoraggiamento. Lee si sistemò più dritto sulla poltrona nella quale, poco prima, era affondato mollemente in attesa del responso che, chissà perché, si aspettava infausto.
- Vorrebbe... vorrebbe dire che...
- Che l’assumiamo, sì. Se sarà capace di portare a termine il suo primo incarico, beninteso.
- Oh, ma è meraviglioso...
- Puoi dirlo forte – annuì bonario il direttore, saltando a pié pari dal contegno del “lei” ad un informalissimo “tu” – Ma del resto, il tuo test attitudinale non poteva non convincermi.
- Oh... oh – Lee gli rivolse un sorriso grato. – S-sono c-con...
- Oh, ma per la Barba di Merlino, ragazzo – lo zittì il signor Dillinger, ruvido. – Cos’è: mi balbetti proprio sul più bello? Non vorrai mica farmi cambiare idea...
- Ma certo che no!
Lee scattò in piedi, facendo ondeggiare vivacemente la sua imponente corona di rasta.
- Sono pronto. Che cosa devo fare?
- Bravo bambino: questo è lo spirito.
Dilliger scartabellò fra i faldoni e gli appunti che gli intasavano la scrivania, spostandoli qua e là con rapidi colpi di bacchetta che risultarono in una pioggia disordinata di foglietti e post-it.
- Dunque, vediamo. Ci sarebbero da coprire i ricevimenti inaugurali della stagione. Credi di potercela fare?
- Assolutamente sì – rispose precipitosamente lui per poi aggiungere, un po’titubante. – Ehm. Di tutte le squadre?
- No, solo di una.
- Oh, benissimo. Quale?
Dillinger fece mente locale, alla ricerca di una squadra ancora priva di corrispondente.
- Le Harpies vanno bene?
“Oh per Godric, Zaion e Selassié santissimi”.
 
Sede delle Holyhead Harpies, Agosto 1996
Ricolmo di imperscrutabili presagi, Lee ci mise un’eternità a prepararsi per il suo debutto in qualità di addetto stampa.
Certo: di acqua sotto i ponti ne era passata parecchia dall’ultima volta in cui si erano visti.
Eppure quando, in quella serata di fine agosto, Ziggy Jordan e Gwenog Jones si ritrovarono finalmente l’uno davanti all’altra, l’impressione di entrambi fu quella di essersi appena lasciati.
Lee, suo malgrado e nonostante tutti i suoi buoni propositi di comportarsi stoicamente, l’aveva individuata subito; le sue pupille si erano posate su di lei non appena il ragazzo aveva messo piede nel salone decorato in tinte verde-oro al seguito della novella Harpie Angelina, con la quale era subito entrato in contatto dopo il colloquio con Dillinger e che si era gentilmente offerta di presentarlo ai pezzi grossi del Club.
Gwenog era graziosa come la ricordava e forse anche un pochino di più; e Lee era rimasto fermo per una decina di secondi ad osservarla mentre lei, i grandi occhi castani fissi su di lui, gli sorrideva un po’ incerta.
Bella, elegante e letale come un felino capace di mantenere celata la sua forza sotto le movenze aggraziate e l’espressione vagamente sorniona. Al cospetto della sua figura che attirava il suo sguardo come una calamita, Lee aveva sentito la lingua farglisi secca e il cuore accelerargli nel petto come quello di un pivellino imberbe; poi, carezzando con lo sguardo le sue forme armoniose e la soffice texture della sua pelle ambrata, aveva subito sentito anche altro, proprio come nella scena descritta in uno dei suoi reggae preferiti in cui il cantante dice alla ragazza:
 
Standing across the room I saw you smile
I said I want to talk to yo-o-ou, for a little while
But before I make my move my emotions start running wild
My tongue gets tied and that's no lie
I'm looking in your eyes, I'm looking in you big brown eyes…

Ooh yeah, and I've got this to say to you, hey
 
“Ma per tutte le sottovesti di Madama Rosmerta” pensò Lee, inclinando la testa di lato e preparandosi psicologicamente ad affrontare la serata. “Questo avrei da dirti, Gwen: -“
Ops! Modera il (seppur mentale) linguaggio, mio giovane guerriero creolo, ché questa è una storia a rating arancione!
 
Post-scriptum.
Sulle vicende sentimentali di Aussie Spinnet non mi dilungherò oltre dato che, probabilmente, le conoscono già tutti a mendatito. Se qualche eventuale nuovo lettore avesse voglia di approfondire, lo potrà fare mettendo mano alla long L’Assistente di Pozioni e alle OS ad essa collegate.
Questo capitolo, me ne rendo conto, non è un granché... è corto e meccanico; in effetti si tratta di un capitolo di transizione, atto a traghettarci verso il piano temporale nel quale si ambienterà la storia vera e propria senza dover ricorrere a cesure un po’ troppo drastiche.
Ringrazio tutti per la dose extra di pazienza; nel frattempo vi lascio con la raccomandazione di ascoltare il brano (“A la-la-la-la Long” degli Inner Circle) che ha ispirato il riincontro fra Ziggy e Gwen!...

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Capitolo 5
*** Turn Your Lights Down Low. ***


5. Turn Your Lights Down Low.
 
Notizie dal fronte Londra-Pontwelly (dicembre 1994 – giugno 1995)
L’anno e mezzo trascorso dalla Vigilia di Natale 1994 era stato tutt’altro che facile per Gwenog Jones.
Di tutte queste cose Lee non era al corrente perché, oltre ad avere disdetto l’abbonamento a Tuttoquidditch subito dopo Pasqua 1995, il ragazzo aveva visto bene di farsi apporre da Angelina, che era bravissima con gli Incantesimi, un Muffliato Puntuale (o Incantesimo di Udito Selettivo, che permette di mantenere fuori dalla mente ciò che non vuoi sentire) e di maneggiare materiale quiddistico come riviste e simili solo ed esclusivamente indossando un paio di Seleziocchi, speciali occhiali in sperimentazione presso la Tiri Vispi Weasley che ti fanno leggere solo quello che ti va di sapere (Fred e George li stavano mettendo a punto per risparmiare agli studenti i dettagli pallosi dei libri di testo, come le note a pié di pagina e le didascalie delle tabelle, ma supplirono più che bene anche ai propositi del risolutissimo Ziggy).
Cosicché, deciso a mantenersi all’oscuro dalle vicende che vedevano coinvolta colei che gli aveva (quasi) spezzato il cuore, Lee aveva finito per perdersi la trafila di scandali e sventure che l’avevano vista protagonista.
 
Gwen aveva lasciato Hogwarts passando dal camino della Sala Comune di Tassorosso cui lei, in qualità di ex studente, aveva ancora accesso; era filata direttamente a casa dei genitori e, incurante dell’espressione sbigottita che si era dipinta sul volto di sua madre quando questa l’aveva vista riemergere dal focolare domestico con le scarpe in mano, il rossetto sbavato e più scarmigliata che non al termine di una partita contro i Falmouth Falcons, era andata a stramazzare nel suo vecchio letto.
Inutile dire che, come regalo di Natale, la campionessa gallese aveva ricevuto un buon numero di insistenti richieste di intervista da parte di tabloid e rotocalchi scandalistici ingolositi dalla succulenta notizia che Gwenog Jones era stata vista baciare platealmente uno studente di Hogwarts forse ancora minorenne. Lei, ingrugnita (“Smettila di scocciare, ma’! Il tipo ha compiuto diciassette anni all’inizio del mese!” “Tu ti sei bevuta il cervello, Gwen!” “Ah, tutta colpa dei Bolidi che si becca in testa...” “Piantala anche tu, babbo!”), aveva rifiutato qualsiasi contatto e così, piccati, i magigiornalisti c’erano andati giù pesante pubblicando una serie di articoli che avrebbero fatto drizzare i capelli anche agli esponenti più liberal del Mondo Magico.
Tutto questo polverone, giocoforza, finì per agitare le acque al punto che la signora Jones, stufa di farsi quasi incendiare il salotto a causa delle Strillettere ignorate, dovette sigillare casa sua con un Fidelius rinforzato, il che però non impedì agli ufficiali giudiziari inviati dal Wizengamot per verificare l’eventuale "abuso su minore" di rintracciare Gwen alla sede centrale delle Harpies, cosa che fece imbestialire oltremodo la direzione del Club.
Insomma: se non si fosse trattato di una giocatrice eccezionalmente brava, Gwenog sarebbe probabilmente stata buttata fuori. Visto che però si trattava, per l’appunto, di un talento fuori dal comune, la sua “bravata” venne archiviata al prezzo di una ramanzina e di un paio di sbuffi malcelati.
Ma il Ballo del Ceppo e gli inghippi ad esso connessi erano stati soltanto l’inizio.
La situazione era rimasta in stallo all’incirca fino a Pasqua (periodo che era coinciso con l’auto-estraniamento da parte di Lee), per poi precipitare in maniera assolutamente allarmante nel decorso della primavera. I mesi di aprile e di maggio erano trascorsi in una sequenza di gravi sanzioni amministrative da parte della Federazione Magiarbitri ai danni di Gwen che, durante gli incontri, aveva spesso ecceduto in comportamenti aggressivi e antisportivi guadagnandosi anche un paio di espulsioni. Alla fine, per evitare la sua assenza per squalifica in finale di Campionato (nonostante i casini, le Harpies ambivano nuovamente al titolo), l’allenatrice McCormak aveva stabilito che Gwen non avrebbe partecipato a nessuna delle partite disputate nel mese di giugno.
Per una giocatrice sanguigna come lei, ovviamente, rimanere in panchina era stata una vera tortura, e più di una volta le colleghe in riserva avevano dovuto impedirle di avventarsi in campo armata di mazza.
 
Motivo di tanto disagio – anche se, a conti fatti, a collegare i fatti erano stati davvero in pochi - era stato l’annuncio pubblico, a metà marzo, dell’imminente matrimonio di Ludovic Bagman, che in estate sarebbe convolato a nozze con una certa Minnie Bobbins, presentata alla stampa nelle vesti di “fidanzata storica rimasta nell’ombra per motivi di riservatezza”.
Gwenog l’aveva appreso direttamente dai giornali e, quando l’aveva saputo, era letteralmente andata fuori di testa; e per fortuna che, quel giorno, sua sorella Hestia (una delle poche persone al mondo capaci di tenerla a bada) si trovava con lei. La reazione di Gwen aveva fatto sudare sette camicie alla stoica e coraggiosa Auror che, alla fine, era pure stata costretta ad impastoiarla per evitare la completa distruzione di un intero settore di Londra. Cosicché inevitabilmente, a fare le spese di tanta furia, erano stati gli sfortunati membri del Puddlemere United che, il giorno dopo, erano scesi in campo per affrontare le Harpies.
“Quella Jones è da rinchiudere” aveva dichiarato a fine partita Oliver Baston, il Portiere riserva della squadra gialloblu. “Mi sa che, vista la frattura scomposta ed esposta che ha procurato a Ritter, nella prossima partita agli anelli dovrò esserci io”.
Il tracollo definitivo era avvenuto a fine giugno, in occasione dalla Finale.
Da qualche giorno, inspiegabilmente, Ludo si era rifatto vivo e, con una certa insistenza, tentava di riallacciare i ponti con Gwen inviandole fiori, biglietti e regali (carissimi, ovviamente, come si confaceva ad un astro della sua portata). Lei però, per quanto disturbata e annebbiata, non era affatto una stupida e così, decisa a vederci chiaro, aveva finto di abboccare all’amo e l’aveva invitato nel suo piccolo appartamento londinese.
C’era però una cosa che Ludo non sapeva di lei, e cioé il fatto che Gwen era stata un’alunna molto brava in Pozioni: fatto che, unito alla sua più recente fama di Regina dei Bolidi, le aveva procurato un posto speciale nel cuore dell’ormai anziano professor Horace Lumacorno. E proprio a lui si era rivolta la ragazza alla vigilia dell’incontro con il suo ex affair; e dalla casa di costui, Gwen era uscita stringendo fra le dita un’ampollina di apparentemente innocente liquido chiaro.
- Accomodati Ludo – aveva sorriso Gwenog quando l’ex Battitore degli Wasps aveva fatto capolino dal suo caminetto decorato con ceramiche giallo zafferano.
Lui aveva fatto qualche passo, guardandosi intorno tutto sicuro di sé; aveva accettato il bicchiere di acqua fresca che Gwen gli porgeva e poi aveva notato la confezione di Cioccolatini Premium inviatale un paio di giorni prima, che ancora giaceva intatta sul tavolinetto del soggiorno.
- Credevo fossero i tuoi preferiti – aveva balbettato, un po’ a disagio.
- Oh, lo sono – aveva risposto lei stringendo appena gli occhi. – Ma domani gioco, sai com’è...
- Beh, ma almeno uno... che male potrà mai fare?...
Gwen gli si era avvicinata; lui aveva percepito una sottile sensazione di pericolo.
- Per-ché – aveva allora sillabato lei – vuoi tanto che io li mangi?
L’avava visto tossire e annaspare, nel vano tentativo di trattenere le parole che il Veritaserum gli spingeva letteralmente su per la laringe.
- Ho... ho... sco-sco-scommesso...
- Che cosa hai scommesso? – l’aveva incalzato Gwenog, gelida.
- Che... che... che le Harpies pe-pe-perderanno la pa-pa-partita – aveva biscicato Bagman, tentando disperatamente di tapparsi la bocca con le mani. – Ma con te in campo...
- Che cosa ci hai messo?
Il tono di Gwen ricordava quello della carta vetrata passata su una porta di vetro smerigliato: faceva accapponare la pelle.
- Infuso di Confondella! – aveva urlato lui saltando in piedi.
Gwen gli si era parata davanti, un’espressione terribile dipinta sul volto.
- Che cosa?! Come hai potuto, brutto bastardo...?!
- Ma... l’effetto sarebbe durato solo due giorni, massimo tre... – Ludo Bagman tremava e la fissava con i tondi occhi azzurri, disperato. – Ti prego, Gwen, cerca di capire... ce li ho addosso tutti... il Torneo Tremaghi... non è andato come doveva andare!... Ho un debito che...
Il pover (!) uomo non aveva avuto il tempo di finire la frase.
Un secondo dopo, Ludo Bagman giaceva col naso rotto sul tappeto del salotto di Gwenog Jones che, all’apice dell’ira, gli aveva appioppato un manorovescio dalla letalità catalogabile come XXXX.
Il giorno dopo, in campo, la battitrice gallese aveva dato il meglio di sé e le Harpies si erano aggiudicate la Coppa.
Lei, però, non aveva festeggiato con il resto della squadra.
Si era trascinata stancamente fuori dal campo, lontano dei flash e dai riflettori, ed era andata a sedersi sulla panca nello spogliatoio. Le sue compagne, rientrate dopo il giro trionfale dello stadio, l’avevano trovata riversa sul pavimento, scossa da brividi e semiaffogata in un lago di lacrime.
Gwenog Jones, povera ragazza, era ufficialmente esaurita.
 
Sede delle Holyhead Harpies, agosto 1996
“Lee Jordan” fu il suo primo pensiero al vederlo entrare nel salone al seguito della Johnson, la sua nuova collega. “Ma posso chiamarlo Ziggy”.
Gwenog Jones sorrise fra sé e sé, un po’ stupita dal fatto di ricordare simili dettagli. Eppure quello era proprio Lee Jordan detto Ziggy: l’aveva riconosciuto subito.
Lui non ci aveva messo molto ad accorgersi della sua presenza; anzi, in un certo senso sembrava quasi che fosse stata sua precisa intenzione cercarla. Gwen ebbe quell’impressione perché, una volta che lo sguardo vivace del ragazzo aveva incontrato il suo, non se n’era più spostato.
Senza muoversi dalla sua postazione, la ragazza lo osservò con un interesse e una curiosità che, per una persona che aveva trascorso tutto l’ultimo anno ostinatamente sintonizzata sulle sole frequenze del Quidditch, avevano un che di quasi miracoloso.
“È cresciuto” fu il suo secondo pensiero, subito seguito da un terzo pensiero che la fece sentire un po’ sciocca, ma che Gwen non poté proprio fare a meno di formulare.
“Ma che gran bel sorriso, per Tosca”.
Già.
Lee Jordan aveva proprio un bel sorriso, con quei suoi denti bianchi come la neve che spiccavano alla perfezione sulla pelle color del caramello, messa in risalto dai colori vivaci dei suoi abiti; e guardando bene, di bello, Gwenog si avvide che il ragazzo aveva molt’altro: gli occhi sorridenti, il profilo affilato, le mani dalle dita affusolate, le proporzioni del corpo alto e sottile, la corona di soffici dreadlocks annodati alti sul capo. Era assolutamente incantevole, tutto quanto, ohibò.
Il quarto, il quinto e il sesto pensiero la raggiunsero impietosi, scuotendola  con violenza dal suo rarefatto stato di muta ammirazione.
“Gli ho dato il due di picche”.
“È qua con la Johnson”.
Game over”.
Ad impedire lo scoperchiamento definitivo del suo flusso di coscienza, però, ci pensò Lee stesso. Il quale, dopo avere ricambiato il suo sguardo senza accennare ad abbassare gli occhi, si mosse dalla sua postazione e si diresse verso di lei con la sollecitudine di chi, per una volta, vuole trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
 
Sayin' ooh, it's been a long, long (long, long, long, long) time
I kept this message for you, girl
But it seems I was never on time
Still I wanna get through to you, girlie
On time, on time!...
(1)
 
- Ehilà.
- Ciao, Leejordanchepossochiamareziggy.
Lee proruppe in una risata cristallina.
- Ti ricordi di me?!
- Evidentemente.
Gwenog odiava le domande ovvie, ma gli rivolse un mezzo sorriso cui lui rispose appellando un paio di bicchieri da un vassoio di passaggio.
- Diretta come un Bolide.
- Sempre e comunque.
- Ottimo. Posso offrirti da bere?
- Visto e considerato che sei ospite del mio Club, volentieri – replicò lei afferrando saldamente lo stelo per poi domandargli: – Dov’è andata Angelina?
Il suo messaggio era chiaro: “Attento. So che sei qui con una ragazza”. Lui, però, sembrò non dare peso alla cosa e le rispose con una trasparenza disarmante:
- Sta cercando di introdurre di straforo un Weasley di mia conoscenza.
- Weasley, dici? Gran Cercatore, quel Charles.
Lee scosse la testa.
- Non quel Weasley. Un altro. Battitore, come te.
- Interessante.
- Beh, non bravo come te, ovviamente.
Gwenog era abituata all’adulazione; quando sei una supercampionessa del più popolare sport del Mondo Magico, capita sempre che qualcuno si voglia accapararre il tuo benvolere per poi approfittarne. Le parole che Lee le aveva rivolto, però, erano suonate incredibilmente sincere; e la cosa, per tutti i Tassi di Tosca, non mancò di imbarazzarla leggermente.
- E tu? – gli disse allora, per cambiare argomento. – Sei entrato anche tu di straforo?
- No – le rispose lui, tirando fuori dal taschino della camicia il tesserino di riconoscimento. – Sono qui in qualità di addetto stampa.
Gwenog strinse gli occhi, sospettosa.
Il fatto di aver trascorso l’ultimo anno lontano dalle luci della ribalta, concentrandosi solo ed esclusivamente sul suo lavoro, non le impedì di provare un moto di insofferenza nei confronti della classe giornalistica che più di una volta in passato, con le sue penne sferzanti, le aveva fatto mandare giù un bel po’ di bocconi amari.
- Scrivo per Tuttoquidditch – si affrettò ad aggiungere Lee che, probabilmente, aveva percepito il suo irrigidimento e non voleva che lei lo ritenesse un giornalista da gossip. – Dovrei coprire il ricevimento inaugurale... ehm, dal punto di vista... tecnico, sai.
Il suo tentativo di apparire serio e professionale la fece sorridere.
- Tuttoquidditch è una testata seria – gli disse allora, gentilmente. – Devi essere molto in gamba se ti sei fatto assumere così... ehm, giovane.
- Beh, per la verità – ammise lui, sorvolando diplomaticamente sul “giovane” e spostando il peso da un piede all’altro – mi assumono solo se riesco a portare a termine il mio primo incarico.
Gwenog si lasciò sfuggire una risata bassa.
- Quel vecchio volpone di Dillinger... – e senza pensarci, a Lee, che le rivolgeva un’occhiata alla “eh, che cosa vuoi farci”, la più famosa Battitrice della Lega Irlandese e Britannica di Quidditch si ritrovò a proporre: - Ti do una mano io a mettere insieme l’articolo, se vuoi. Che cosa ti serve?
 
Brisbane, Australia, fine settembre 1996.
Il gruppetto di giocatori ambosessi si diresse verso l’uscita del Club.
Sulla parete alle spalle dei due addetti alla reception, una scritta a caratteri cubitali recitava: "Wallgong Warriors”.
Dopo aver lanciato un’occhiata distratta a giovani che passavano davanti al bancone, uno dei segretari si alzò in piedi;
- Spinnet.
La ragazza dai lunghi capelli del colore del grano ancora umidi di doccia si fermò.
- Mi dica, signor Reyner.
- C’è posta per lei – le rispose quello, allungandole un aeroplanino di carta plastificata dall’aspetto piuttosto malconcio.
Mentre afferrava il piccolo velivolo e lo riponeva con cura nel borsone, Alicia sorrise. Conosceva soltanto una persona che si avvaleva di quel tipo di mezzo per recapitare una lettera. Chissà che non vi fossero buone notizie in arrivo dall’emisfero Nord.
 
Cara Aussie,
prima di tutto sappi che mi aspetto una tua lettera di almeno 56 centimetri, contenente le tue prime impressioni sul tuo esordio in Campionato Oceanico. E non osare rispondermi con tre righe striminzite giustificandoti con un banalissimo “ho poco tempo” o con uno dei tuoi deprimenti “sono solo una riserva”, sennò m’incazzo.
Qui a Londra le cose vanno bene, molto bene: tieniti forte perché la notizia che ho da darti è boombastica... Ebbene sì: mi hanno preso!!! Assunto a tempo indetrminato a Tuttoquidditch, ci crederesti?!
Sono davvero al settimo cielo, Aussie, come ben potrai immaginare.
Il signor Dillinger ha molto apprezzato il mio articolo sulla ripresa del Campionato; pensa che ora, per “premiarmi”, mi ha riempito di lavoro. Ma io sono contentissimo, eh, ci mancherebbe altro. Soprattutto considerando il fatto che parte del merito lo devo ad una certa Gwenog di nostra conoscenza.
So che questo particolare accenderà la tua curiosità come la miccia di una di quelle diavolerie irlandesi del vecchio Seamus Finnigan, ma per ora non posso proprio sbottonarmi oltre. Ti racconterò tutto nella prossima lettera, promesso.
Nel frattempo ti mando un bacione, sperando che la brezza del Pacifico ti stia facendo bene. Lasciali perdere i damerini inamidati; procurati un bel battitore maori che è meglio. E non fare la brava.
Lee
PS. Mi manchi. Mi sembra un secolo che ci siamo salutati al Terminal Passaporte Intercontinentali.
 
Londra, inizio ottobre 1996
- Ci siamo.
Lee si guardò alle specchio e alzò le mani; mentre con una teneva fermo il lungo rasta appena lavato, con l’altra faceva scivolare intorno ad esso uno spesso anellino d’argento brillante, l’ultimo di una serie di sette pezzi giunti il giorno prima a casa sua all’interno di un piccolo pacco proveniente dalla Giamaica.
“Sono nelle tue mani, nonnina” pensò il ragazzo, osservando il proprio riflesso con occhio critico. I sette anellini erano sistemati a regola d’arte; ora, tutti insieme, dovevano solo fare il loro lavoro.
“Ricordati, figlio mio” gli aveva scritto la bisnonna sul bigliettino inserito nella piccola scatola. “Tutti insieme fanno miracoli; sistemali bene”.
Aveva un disperato bisogno di sentirsi sicuro, Lee. Perché quella, proprio quella e nessun’altra, sarebbe stata la Serata della Svolta. E quindi, che la magia caraibica gli fosse complice, per Godric.
A fine agosto, come concordato, Gwenog lo aveva aiutato a comporre l’articolo che gli era valso l’assunzione; poi però, seppur esaurita quella scusa, entrambi si erano dati da fare per cercare altri pretesti e passare del tempo insieme.
- Credi che a Dillinger potrebbe interessare un trafiletto sul nuovo magiristorante macrobiotico appena aperto a Diagon Alley? – gli chiedeva lei, sprizzando un'ostentata professionalità da tutti i pori. – Gli sportivi lo adorano.
- Ma certo! – rispondeva serissimo lui, pur sapendo che il direttore di Tuttoquidditch l’avrebbe butatto fuori a calci se lui avesse osato proporgli un pezzo del genere. – Dobbiamo andarci assolutamente.
E così, calcando volutamente la mano al puro scopo di avere ogni giorno un motivo per vedersi, lui e Gwenog si erano frequentati per tutto il mese di settembre. Lee l’aveva seguita in lungo e in largo, sempre fingendo di prendere appunti su argomenti di cui non fregava niente a nessuno, e Gwen lo aveva trascinato incessantemente qua e là sforzandosi di scovare temi di cui, in realtà, non importava nulla neppure a lei ma che, in compagnia di Lee, riuscivano sempre a rivelare risvolti interessanti e divertenti.
Dai campi da gioco ai luoghi frequentati abitualmente dalle Sport Celebrities, l’inizio dell’autunno era stato per Lee il momento di toccare con mano quello che era, davvero, l’ambiente in cui si muovevano le superstar del Quidditch: un ambiente scintillante e patinato dove i Galeoni scorrevano a fiumi, e al tempo stesso un territorio insidioso e a tratti meschino.
Al seguito di Gwen, che lo presentava ai suoi famosissimi conoscenti come “il mio amico Ziggy di Tuttoquidditch”, il ragazzo ebbe modo di intrattenersi con alcuni dei più celebrati giocatori del momento e di aggiudicarsi interviste esclusive, che gli fecero guadagnare un sacco di punti agli occhi di Dillinger.
E Lee era felice, molto felice e professionalmente appagato; dall’altra parte, però, avvertiva la pungente mancanza di qualcosa; un qualcosa di sempre più urgente e pressante mano a mano che i giorni passavano.
Gwenog gli piaceva.
Al di sotto della sua scorza ruvida e dei suoi modi talvolta un po’ bruschi, che lui equilibrava alla perfezione con il suo pacato buonumore, Lee l’aveva scoperta simpatica e leale, sollecita e, a suo modo, anche affabile. E la trovava attraente, ovviamente, eccezionalmente attraente; soprattutto quando la vedeva indossare quelle belle tute da Quidditch un po’ aderenti e in grado di mettere in risalto il suo bel fisico sodo.
Oh sì, Gwen gli piaceva.
Gli piaceva da morire, in realtà; e la sua vicinanza costante non faceva altro che attizzargli instancabilmente il cuore e le membra. Aveva cominciato a desiderarla in maniera quasi intollerabile, e spesso e volentieri si perdeva via ad immaginare quali leggiadri capi di biancheria lei indossasse al di sotto delle sue tute elasticizzate del colore del sole.
Non aveva mai tentato nulla, però, e dopo un po’ aveva anche capito come mai.
Non era per paura di beccarsi un pacco. Non era uno stupido, Lee, e ormai lo aveva capito che, se non avesse nutrito un minimo di interesse nei suoi confronti, Gwenog non gli avrebbe mai dato corda. Si trattava più che altro del fatto che, in fondo, negli ambienti che frequentavano lui non riusciva a sentirsi del tutto a suo agio. Non era il suo mondo, quello. Aveva bisogno di trovarsi nel suo territorio per fare la prima mossa.
E così, risoluto, l’aveva invitata a trascorrere una serata in un posto dei suoi.
- Okay – aveva risposto semplicemente lei, annodandosi i capelli sulla testa. – Dove mi porti?
- Da Cataboo.
 
Il locale, che avevano raggiunto scendendo un paio di gradini dopo aver svoltato in un’anonima traversa di Diagon Alley, era piccolo e scuro, gremito di gente.
Il sottofondo di musica reggae era assordante e vagamente ipnotico.
Uno sguardo rapido tutt’intorno e Gwenog si era accorta che la maggior parte dei presenti usava ampi abiti colorati e grandi cuffie fatte a maglia, dalle quali spuntavano trecce rasta chilometriche. La comunità magica caraibica si ritrovava al Cataboo da tempi immemorabili e ciò era universalmente risaputo, ma lei non ci aveva mai messo piede.
Sorrisi bianchi lampeggiavano nella penombra, accompagnati da occhiate pungenti e un po’liquide; qualcuno la guardò con curiosità, qualcun altro sicuramente la riconobbe, ma nessuno si azzardò ad abbordarla. Le regole non scritte erano chiare: una signorina accompagnata, per quanto carina, non si tocca.
Gwen rivolse un’occhiata di sottecchi al suo, di accompagnatore.
Alto e di bell’aspetto, Lee faceva proprio una bella figura; i sette piccoli anelli d’argento scintillavano sul suo capo scuro, riflettendo la luce e catturando gli sguardi. E lui le indirizzò un sorriso caldo e poi, avvicinatosi per sovrastare il frastuono dei bassi che facevano rimbombare l’intero isolato, le disse:
- Questo brano è molto bello.
- Io non so ballare – replicò lei, completamente fuori contesto.
- Lo sospettavo – la rimbeccò lui, mettendosi a ridere in modo contagioso. - M
a io mica te l’ho chiesto, giusto?! 
Lei sorrise.
La vita condita col buonumore era, senza alcun dubbio, molto ma molto più interessante. Senza riflettere troppo, gli prese la mano e lo strattonò.
- Perché non mi insegni?
Gwen non avrebbe mai dimenticato lo sguardo che Lee le rivolse quando lei avanzò la sua proposta. Sentì che gli occhi del ragazzo la carezzavano per intero, facendola rabbrividire e desiderare di stringersi contro al suo corpo caldo, profumato di cacao, tabacco e vento di mare.
E lui si fece serio, si morse il labbro; poi le strinse la mano nella sua e, senza proferire parola, se la tirò dietro fino al centro della pista affollata.
 
Turn your lights down low
Never try to resist, oh no!
Oh, let my love come tumbling in
Into our life again!

 
Lentamente, al ritmo della musica, le prese le mani, una ad una, e se le posò sulle spalle. Le sue, di mani, le strinse invece intorno alla vita sottile di Gwenog avvicinandola a sé, aggiustandosi alle sue forme e guidandola delicatamente nel ballo.
Lee chiuse gli occhi e respirò fondo prima di abbassare leggermente il capo ed accostare la fronte a quella della ragazza. E poi piano piano, sempre lasciandosi condurre dalla voce profonda del basso, scivolò con il naso lungo quello di lei, mentre Gwen gli si stringeva contro più strettamente e gli infilava le dita nella morbida criniera per tirarlo giù, andando infine ad arrestare il suo incedere discendente nel momento il cui le loro labbra, dopo essersi dapprima sfiorate e riconosciute, si premevano con forza le une sulle altre.
 
Post-scriptum:
(1) Brano di Turn Your Lights Down Low, nella versione interpretata da Ziggy Marley.
Bene!
A questo punto direi che è fatta :) E bravo il nostro Buffalo Soldier che compatte il mondo a colpi di buonumore!

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Capitolo 6
*** Stir It Up! ***


6. Stir It Up!
(rigorosamente nell’Original Album Version)

 
It's been a long long time 
Since I've got you on my mind (uh uh uh uuuh)
And now you are here
I say it's so clear
To see what we can do, baby, just me and you!

 
Londra, ottobre 1996
Questo era ciò che Gwenog Jones portava al di sotto delle sue tute da Quidditch color giallo zafferano: una fascia elastica.
Una fascia elastica particolarmente stretta che Lee, con estremo zelo, l'aveva aiutata a svolgere facendola ruotare velocemente su se stessa e che lei usava per tenere compresso il seno, evitando così che questo le desse fastidio in campo. Lo stesso seno che il neo-diciassettenne Ziggy aveva sbirciato di sfuggita la sera del Ballo del Ceppo attraverso la scollatura dell'abito nero per nulla morigerato (chiedendosi, in effetti, dove lo tenesse nascosto di solito), e sul quale la mano del ragazzo, in quella notte ottobrina di musica e di baci, posava a riposo.
La loro serata danzante al Cataboo era finita in modo assolutamente prevedibile per due giovani sentimentalmente liberi e reciprocamente attratti; dalla pista da ballo del locale caraibico alle bianche lenzuola di lino del letto di Gwen, conservando come unica costante il fatto di trovarsi, seppure in diverse modalità, l'uno fra le braccia dell'altra.
"Niente scandali, Gwen" si era detta la ragazza, sforzandosi di mantenere fermi i suoi propositi. "Te ne sei appena tirata fuori".
Poi però, un'occhiata qua, un bacio là e, soprattutto, la logorante tortura dei loro lenti strusciamenti a ritmo di reggae le avevano fatto irrimediabilmente perdere la bussola; quella bussola che dal canto suo Lee, per quanto stoico, aveva già perso da un pezzo ma la cui assenza, aggrappandosi tenacemente al suo animo cavalleresco, il ragazzo aveva visto bene di ignorare. 
Ma tant'è: quando si hanno una ventina d'anni di media e, come nel caso di Gwenog, si staziona da troppo tempo in uno stato di autoimposta dieta forzata, certe derive sono inevitabili.
Cosicché dopo un po', mandate bellamente al diavolo tutte le sue buone intenzioni, la battitrice gallese aveva infine rantolato una specie di ringhioso:
-  Oh, al diavolo. Andiamocene.
- Awwh. D-dove...?
- Da me. Ora o mai più.
- Oh, che Godric sia lodato.
In men che non so dica erano quindi usciti di corsa dal locale, si erano Smaterializzati sulla soglia dell'appartamentino londinese di Gwenog e, una volta all'interno, si erano letteralmente divorati a vicenda.
"Forse un po' troppo in fretta, in effetti" riuscì a cogitare l'esigua parte attiva del cervello un po'annebbiato di Lee, il cui restante 96,2% circa sonnecchiava ancora piuttosto inebetito.
Il ragazzo si mosse appena e si stiracchiò piano piano, ancora succube di un torpore denso come colla a caldo. Il suo movimento, seppure lieve, funse da geolocalizzatore, facendogli ritrovare a poco a poco la percezione del luogo in cui si trovava.
Sdraiato su un fianco, col petto accostato alla pelle ambrata di una schiena tiepida e profumata di soave cera d'api (quella che lei usava per lucidare il manico della sua strabiliante Firebolt Celtic); lunghi capelli scuri a solleticargli le narici; un avambraccio snello premuto sul suo polso; la sua mano scura posata su una superficie tondeggiante, calda e morbida, dell'esatta consistenza di un...
"Oh, Merlino caro".
La coscienza ritornò indietro tutta in una volta, riversandoglisi fragorosamente nella testa mentre il suo corpo, decisamente più propenso della sua mente all'elaborazione di certi concetti, inevitabilmente reagiva inducendo anche Gwenog a riscuotersi dal suo stato di beato dormiveglia. 
La sentì che si irrigidiva impercettibilmente contro di lui, sfiorandogli la pelle con la sua. A quel contatto Lee si spinse d'impulso in avanti, andando ad affondare il viso nella massa scarmigliata dei suoi capelli e strofinando il naso contro al suo collo sensibile; e la sentì sbuffare piano e inarcarsi di lieve quando con la mano, guidata dal puro istinto, si mosse per carezzarla lentamente, dapprima con delicati movimenti circolari e poi, piano piano, giù verso il basso lungo il suo addome piatto da atleta.
La sentì fremere deliziosamente al suo tocco; dischiudere appena le cosce per indurlo a proseguire e poi, improvvisa e irruente, se la sentì ruotare fra le braccia mentre Gwen si girava di scatto verso di lui, spingendolo per fargli perdere l'equilibrio ed inchiodarlo con le spalle sul materasso, lungo e disteso sotto di sé.
Ed era bella, Gwen, così bella che Lee dovette sbattere un paio di volte le palpebre per convincersi di essere del tutto sveglio (e no, non aveva fumato: era dai tempi della scuola che non lo faceva); e poi proprio non seppe trattenere una risata, da tanto era felice di trovarsi lì, in quel momento: lì insieme a lei.
E mentre Gwen si curvava in avanti per avvicinarglisi, sulle sue labbra troppo spesso serrate in una stretta severa (ed ora inequivocabilmente piegate all'insù), Lee riconobbe il suo stesso sorriso; tese allora le braccia per stringerla a sé, un po' abbagliato dalla bellezza data dal contrasto fra i loro toni di pelle; le carezzò la schiena, i fianchi snelli e i bei glutei rotondi mentre lei, impaziente come suo solito, si muoveva sopra di lui e lo cercava, catturandolo infine in maniera così intensa e vigorosa da fargli quasi perdere il senno.
E così qualche volta, per qualche strana ragione, una seconda volta riesce a rivelarsi ancor più speciale ed indimenticabile della prima; e nel caso di Gwen e Ziggy, per l'appunto, quella loro meravigliosa seconda volta, vissuta al tempo stesso con furore e lentezza, fu la scintilla della consapevolezza da parte di entrambi (fintanto appena sospettata) di essere nati l'una per l'altro.
 
Okay.
Puoi anche essere prossimo ai diciannove e ritenerti in gran forma ma alla lunga, onestamente, un incontro romantico con una battitrice professionista, una che passa ore ed ore ad allenarsi incurante di qualsivoglia condizione atmosferica e che, definitivamente, non si stanca, può rivelarsi un filino sfiancante.
E difatti, il mattino dopo, Lee Jordan si sentiva alquanto spossato (“a pezzi” le disse ridendo, cosa che le strappò una risata bassa e assai ghiotta), ma anche assurdamente felice. Soprattutto visto e considerando il fatto che, essendo la domenica mattina di un finesettimana senza partite di Campionato in programma, lui e Gwen avrebbero potuto trascorrere insieme l’intera giornata.
Cosicché si alzarono tutti allegri, si docciarono (“Ma ciascuno per conto suo, per pietà, o potrei non sopravvivere” la pregò Lee, facendola ridere a crepapelle) e sedettero in cucina per fare colazione.
Il raggi del sole autunnale filtravano dalle tendine leggermente scostate della portafinestra, illuminando le piastrelle esagonali del pavimento in un arabesco di riflessi morbidi e caldi. Laggiù, al pianterreno, gli alberi del giardino avevano già cominciato a colorirsi di mille screziature gialle, rosse e marroni che Gwen, a Lee che l'ascoltava interessato, raccontò di apprezzare moltissimo.
Mentre i due imburravano e spennellavano di marmellata un intero plotone di toast (“Ho bisogno di calorie, bello!” “Oh, anch’io!”), la ragazza accese con un colpo di bacchetta la radio, sintonizzata su una Magistazione solitamente dedita a notiziole di poco conto e musica leggera. Quel mattino, però, una voce eccitata stava proclamando in tono stridulo una notizia apparentemente imperdibile.
“...ci troviamo ancora qui a Kensington, all’esterno dell’appartamento della battitrice gallese Gwenog Jones, star indiscussa delle Holyhead Harpies e personaggio arcinoto all’interno della Lega Anglo-Irlandese di Quidditch. Bene: stando a quanto riportato da fonti sicure, nella tarda serata di ieri la Jones sarebbe rincasata in compagnia di un soggetto sconosciuto, con il quale avrebbe passato la notte”.
Impietriti coi cucchiaini a mezz’aria, Gwen e Lee si scambiarono un’occhiata allibita mentre la speaker proseguiva a ruota libera.
“Implicata in gravi scandali fuori e dentro dai campi durante tutta la primavera 1995, la Jones conduce da più di un anno un’esistenza che potremmo definire monastica, interamente dedicata alle sue attività di quiddista professionista. Potrete capire, quindi, quanto prema al nostro pubblico l’idea di rivederla impegnata con qualcosa di ben più succulento di una mazza e di un paio di bolidi, se mi passate l’allusione forse poco elegante...”
- Merlino santissimo! – si lasciò sfuggire Lee, inorridito dalla pessima metafora.
“Eccoci qui, pertanto: accampati davanti alla residenza della controversa giocatrice e in fervida attesa di carpire notizie più precise da passare a tutti voi!”
- Oh, merda.
Gwen si era avvicinata di soppiatto alla finestra e aveva dato una sbirciata; e il risultato, evidentemente, non le era piaciuto.
- Sono... sono là sotto?! – le chiese Lee, titubante.
- Puoi scommeterci – rispose lei (e la sua voce suonò più bassa e graffiante che mai). - Loro e un’altra trentina di paparazzi.
- Oh, ma per tutti gli elefanti d’Etiopia.
Gwen tornò sui suoi passi, si lasciò ricadere pesantemente su una sedia e, con un gesto rabbioso, allontanò da sé il piatto ancora pieno.
- Mi hanno fatto passare la fame – ringhiò, cupa.
Lee la fissò per un lungo attimo; poi, curvatosi in avanti, le prese le mani.
- Eddài, Gwen... è il prezzo della notorietà... Chissà quante volte ti è capitato!... – le diede una lieve stretta e fece per tirarsi su. – Finisco il mio toast e levo le tende via Metropolvere, dai, così la smettono di scocciarti.
- Non fraintendermi, Lee – si affrettò a replicare lei, stringendogli le dita intorno ai polsi per impedirgli di alzarsi. – Io non ho alcun problema a farmi vedere in giro con te.
- E quindi que pasa, girlie?
- Beh, per prima cosa mi dà sui nervi l’idea che comincino a fare la posta anche a te – borbottò lei, sbuffando irritata. Aveva capito che Lee, nonostante il carattere aperto e gioviale, era un tipo piuttosto riservato: le dispiaceva renderlo un bersaglio per le malelingue. – Io ci sono abituata, oramai, ma tu...
- Sì, effettivamente è una cosa odiosa, ma credo di potercela fare  – convenne lui stringendo le labbra e facendole cenno di proseguire. – E poi?
- E poi boh, mi ero illusa che oggi avremmo trascorso una bella giornata facendoci i fatti nostri – sul bel viso di Gwen, un misto di fastidio e amarezza. – Ma loro non ce lo permetteranno: ci daranno la caccia in ogni dove, pur di accaparrarsi lo scoop!
Lee rimase in silenzio per qualche secondo, immerso nei suoi pensieri; poco dopo, però, sul suo viso passò il lampo allegro di chi ha appena avuto una grande idea.
- Non riusciranno a rovinarci la giornata, se non sanno dove cercarci!
 
Amesbury, ottobre 1996
- Che cosa diavolo...
L’espressione di Oliver Baston era talmente sbigottita che i due ragazzi dovettero trattenersi con tutte le loro forze per impedirsi di scoppiargli a ridere in faccia.
Il Portiere del Puddlemere United (titolare, ormai, fin dai tempi dell’infortunio del suo sfortunato collega Ritter), infilato in una vecchia tuta gialliblu piuttosto simile ad un pigiama, li fissava attonito dalla soglia del suo cottage dal tetto di paglia, immerso nella quiete delle campagne del Wiltshire. Gwenog, che era abituata a trovarselo davanti in ben altre vesti, notò immediatamente che Baston non aveva un bell’aspetto: e difatti, poco dopo, il ragazzo infilò il naso screpolato in un fazzoletto e starnutì fragorosamente.
- Fortuna nostra che sei in casa, amico – esclamò Lee tutto allegro, facendo un passo in avanti per stringere la mano dell’ex compagno di Casa. – Possiamo entrare?!
Mentre si scostava di lato per lasciarli passare, Oliver rivolse all’amico un’occhiata eloquente:
“Che cosa accidenti ci fa lei qui?!”
“Te lo spiego dopo” fu la muta risposta di Lee, riassunta in un’occhiata altrettanto espressiva subito seguita da una strizzatina d’occhio piuttosto esplicita.
 
- La famiglia di Oliver discende dai druidi che, millenni fa, abitavano in questa regione – spiegò Lee mentre, in compagnia di Gwen, percorreva i sentierini spontanei che zigzagavano fra le imponenti steli di pietra di Stonehenge. Il ragazzo manteneva un tono di voce basso e confidenziale, per evitare di farsi sentire dai numerosi turisti babbani che sciamavano intorno a loro. – Sono loro che, tradizionalmente, si prendono cura del Circolo Magico.
Gwenog lo seguiva, curiosa e intrigata.
- I tatuaggi di Baston – osservò la ragazza alludendo alla miriade di simboli magici che disegnavano le braccia del Portiere gialloblu – ho notato che si tratta di rune e soggetti celtici...
- Esatto: sono tutti legati alla protezione di questo luogo.
- In Galles abbiamo alcuni Cerchi Magici, ma non grandiosi come questo – disse lei ammirata, accarezzando con il palmo della mano la superficie macchiata di licheni di una grossa pietra caduta.
- Questo posto è incredibile – convenne Lee, annuendo con la testa. – Ci sono venuto alcune volte durante l’estate, in compagnia di tutta la cricca – le raccontò, per poi correggersi subito: - Beh, non c’erano proprio tutti: Alicia era già partita.
- Ti riferisci ad Alicia Spinnet? – volle sapere Gwenog, che ricordava di aver disputato alcune partite contro la giovane Grifondoro australiana.
- Già.
- Siete... siete molto legati, tu e lei? – lo sguardo di Gwen aveva un che di vagamente inquisitore che lo fece sorridere fra sé e sé.
- Oh sì – le rispose semplicemente Lee – Ma non devi preoccuparti: Alicia è la mia sorella sbiadita. E poi – aggiunse con un sorriso – le mie ginocchia, per i suoi parametri, non sono abbastanza attraenti!
Gwenog non sapeva come interpretare la storia delle ginocchia, ma il tono del ragazzo non dava adito a dubbi. Era davvero eccezionale, Lee Jordan: così trasparente e veridico, capace di rassicurare chiunque con un unico sguardo.
- Beh, a me piacciono – gli disse allora, tendendo la mano per intrecciare le dita alle sue.
- Oh, benissimo – replicò lui con un bel sorriso candido. – Allora siamo a posto!
 
Una volta terminata la visita a Stonehenge, raggiunsero a piedi il villaggio di Amesbury e pranzarono in una piccola locanda affacciata sulla piazzetta principale; poi, giusto per mandare giù il lauto pasto a base di carne di montone intinta nel burro, si dedicarono a percorrere un’altra mezza dozzina di viottoli contornati da bassi muretti di pietra.
Nel tardo pomeriggio l’aria frizzante li convinse a fare ritorno al cottage, all’interno del quale si godeva di un piacevole tepore.
Oliver  aveva avuto il tempo di riprendersi un minimo e li aspettava con tre spesse caraffe di Burrobirra calda e densa, appena spillata, che appellò dalla cucina mentre loro si accomodavano sul divano trapuntato del salottino inondato di luce.
La compagnia si rivelò subito più piacevole del previsto: il Capitano e Gwen chiacchierarono (quasi) amabilmente del più e del meno, ora accanendosi contro i giornalisti impiccioni (“È per questo che ho messo il Fidelius su casa mia: sennò non mi lasciano vivere!”), ora speculando sulle probabilità delle rispettive squadre in Campionato. Lee, nel frattempo, li stava ad ascoltare in un raro silenzio intriso di contentezza, una mano stretta intorno al manico della caraffa e le dita dell’altra affondate nella coda di cavallo di quella che aveva già cominciato a considerare la sua ragazza.
- No, ci abito da solo – stava dicendo Oliver, rosso in viso a causa degli effetti coniugati della Burrobirra e del malanno. – I miei genitori, da qualche anno, si sono trasferiti nel sud della Francia. L’anno prossimo, però...
Con un cenno del capo, Oliver indicò il focolare. Dalla mensola sopra il camino, la foto di Katie Bell li osservava sorridendo, frangetta al vento, e faceva ruotare una Pluffa sulla punta dell’indice.
- È la tua ragazza?
- Sì: l’anno prossimo si trasferirà qui.
- Mi sembra di conoscerla...
- Si chiama Katie - rispose subito lui, un sorriso a trentadue denti ad illuminargli il viso. –Giocava (anzi, gioca) nella squadra di Grifondoro...
- Ma certo. Katie Bell, giusto? – Gwen la ricordava molto bene. – La tua Cacciatrice. Molto brava.
- Oh – rise Oliver, occhieggiando verso la fotografia con affetto. – Quando le riferirò il tuo commento, partirà per la tangente...
Lee gli indirizzò un’occhiata divertita. Era sempre la stessa storia: Baston era un duro ma, quando c’era in ballo Katie, l’eterno Capitano di Grifondoro diventava più tenero di una gelatina.
- Ah, l’amour...
- Oggi c’era in programma una gita ad Hogsmeade, sapete. – raccontò Oliver, la fronte aggrottata per il disappunto. - Avrei dovuto incontrarla là, ma sta stronza di un’influenza mi ha tarpato le ali...
Crack.
Un rumore di vetri infranti lo interruppe improvvisamente.
I tre ragazzi si girarono verso il camino, sorpresi, e si trovarono davanti una scena strana. Senza che nessuno (né mano umana, né zampa animale, né corrente d’aria) l’avesse toccata, la cornice contenente la foto di Katie aveva dapprima vacillato un paio di vole e poi, senza alcun preavviso, era precipitata dalla mensoletta.
- Oh, cribbio!...
Oliver si alzò di scatto e raggiunse il camino, facendo levitare con la bacchetta l’oggetto distrutto per evitare di tagliarsi con i cocci. Il vetro era andato in mille pezzi e la cornicetta di legno colorato era tutta scheggiata. Nulla che un buon Reparo non sarebbe stato in grado di rimediare, comunque; Lee e Gwenog, però, si accorsero che il ragazzo era sbiancato.
- Che succede, Ol?
- La foto – rispose quello in un sussurro incerto. – Non... non si muove più.
Rimasero tutti di sasso, perché mai era accaduto loro di imbattersi in una fotografia magica che aveva smesso di muoversi. Il fatto, pensò subito Lee, aveva dell’inquietante, ma nessuno di loro fu in grado di fornire una spiegazione plausibile.
Oliver, poveretto, sembrava molto scosso.
- Mando un gufo ad Hogwarts...
- Buona idea, Ollie – gli disse Lee, imponendosi di ignorare il brutto presentimento che aveva cominciato a pervaderlo. Gwenog, seduta accanto a lui, non diceva nulla, limitandosi ad osservare la fotografia inanimata. Poco dopo, la ragazza si alzò in piedi.
- Forse è meglio se togliamo il disturbo... – disse a Lee, che si affrettò as imitarla.
Oliver però rivolse loro un’occhiata un po’ sperduta, che li indusse a fermarsi.
- Non... non è che vorreste...
Era nervosissimo, e lo si vedeva. Forse non era il caso di lasciarlo solo. E poi, poverino, era anche ammalato.
Scambiatisi uno sguardo d'assenso, Lee e Gwenog decisero di rimanere al cottage per fargli compagnia. Sedettero di nuovo sul divano, uno accanto all’altra, in attesa di un gufo che non sarebbe mai arrivato.
 
Una scampanellata vigorosa li risvegliò di soprassalto. Si erano addormentati in salotto, tutti e tre. Oliver si alzò in fretta e raggiunse la porta incespicando, seguito a ruota da Gwenog e Lee.
- C-carbry?...
In piedi sulla soglia c’era un ragazzo alto, con grandi occhi grigi molto simili a quelli di Katie e gli stessi capelli scuri e lucidi un po’ spettinati. Indossava un kilt quadrettato e fra le dita della mano destra, che tremava leggermente, reggeva una sigaretta accesa.
Oliver non ebbe il tempo di procedere alle presentazioni che subito il giovane, il volto rabbuiato in un’espressione maledettamente seria, gli disse:
- È successa una disgrazia, Ol. Devi venire al San Mungo, subito.
 
Post-scriptum:
Bene, bene (circa).
La nostra coppietta è ormai assemblata ed ora, giusto per smuovere un po’ le acque, è tempo di introdurre qualche altro filo narrativo. Da parecchio tempo morivo dalla voglia di scrivere di nuovo di Oliver e Katie e così ho pensato di approfittare di questa storia per farlo. Partendo, ovviamente, da quello che immagino essere stato uno dei momenti più tragici della loro storia: la maledizione della collana di opali.
Spero davvero che al nostro intrepido Capitano non venga un coccolone...

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Capitolo 7
*** So much things to say (right now!). ***


7. So much things to say (right now!).
 
Diagon Alley, Londra, ottobre 1996
Non ebbero molto tempo per riordinare le idee: in men che non si dica Oliver, Lee e Gwenog si smaterializzarono a Londra, al seguito di Carbry Bell.
Il giovane scozzese non si era pronunciato oltre: visibilmente agitato si era limitato a riferire loro che Katie, al ritorno dalla gita ad Hogsmeade, era rimasta vittima di un incantesimo oscuro molto, molto grave, che l’aveva quasi uccisa.
- C’era di mezzo una collana, di perle mi pare... non so, non ci hanno spiegato bene... – disse ai tre, che lo guardavano attoniti.
- Una collana di perle?! – Gwenog era esterrefatta. Chi mai avrebbe consegnato una collana di perle ad una studentessa così giovane, al puro scopo di assassinarla?
Oliver, dal canto suo, era così scosso da non riuscire neanche a proferire verbo. Cosicché, quando il quartetto si materializzò in una traversa di Diagon Alley poco distante dal San Mungo e, sbirciando oltre l’angolo del palazzo di mattoni che occludeva loro la vista della strada principale, avvistò di lontano un folto gruppo di magigiornalisti stipati al di fuori della porta dell’Ospedale, Lee aprì di scatto le braccia per fermare l’incedere dei compagni.
- Fermi tutti!
- Ma cosa diavolo...
- Stanno aspettando te, Oliver – grugnì il ragazzo, le lunghe treccine rasta che gli tremavano per l’indignazione.
Gwenog si affacciò oltre l’angolo per dare una veloce occhiata circospetta.
- Oh, accidenti – gemette la ragazza, che conosceva bene quel tipo di assedio. – Hanno fiutato la notiziona... ti stanno facendo la posta, Baston!...
- I tabloid devono aver saputo dell’incidente – spiegò Lee a Carbry, che fissava stupito l’assembramento di giornalisti. – E devono aver saputo anche che Katie e Oliver stanno insieme. Stanno aspettando il suo arrivo per carpire le sue prime reazioni...
Oliver si appoggiò al muro e strinse i pugni in un moto di pura insofferenza.
- Tenetemi fermo – bofonchiò, in tono sepolcrale – perché se vado là, glielo faccio vedere io lo scoop.
Carbry, nel frattempo, si era acceso una sigaretta per aiutarsi a pensare.
- In America le cose non vanno in modo molto diverso, ma le superstar del Quodpot non si lasciano rovinare la vita – commentò con voce calma, per poi spiegare a Gwenog (Lee, essendo molto amico di Katie, lo sapeva già) di avere studiato ad Ilvermorny e di avere, quindi, trascorso molti anni negli Stati Uniti. – Dobbiamo solo trovare il modo di fargliela sotto il naso.
- Sembra l’assedio a Fort Apache – biscicò stancamente Oliver, che era un appassionato di letteratura babbana. – Non passeremo mai.
Gli altri assentirono, piuttosto scoraggiati: il manipolo di giornalisti sembrava crescere ogni minuto di più. Lee si rivolse un po’amareggiato a Gwenog, che era rimasta in piedi accanto a lui.
- Riusciamo proprio ad essere una categoria molesta noi dei giornali, vero? – le disse, sbuffando seccato.
Lei non gli rispose; ma guardandola, con sua grande sorpresa, Lee si accorse che la ragazza stava sorridendo. In quel suo modo lievemente inquietante, con quell’espressione un po’truce di chi sta pianificando una qualche indefinita bravata, certo; eppure quello, inequivocabilmente, era un sorriso.
- Sai, Baston – esordì quindi la ragazza, dopo aver intercettato lo sguardo interrogativo di Ziggy. – Essere famosi è noioso. Ma ti garantisco – aggiunse, mettendo su un’espressione assolutamente indisponente – che essere superfamosi lo è anche di più!...
- Non mi sembra il momento di fare a gara per vedere chi si aggiudica più interviste – ringhiò Oliver, sarcastico.
Lee, però, aveva subito intuito quale poteva essere il piano ordito da Gwen.
- Sei sicura di voler...? - le chiese allora, dubbioso.
- Se anche tu sei d’accordo, io direi di procedere – rispose tutta vispa lei, stringendo la mano che lui le porgeva. – Tanto, prima o poi, lo verranno comunque a sapere.
- E sia – concordò Lee, per poi rivolgersi agli altri due. – Ragazzi, io e Gwen creeremo... un diversivo... E mi sa che ce li ritroveremo addosso in men che non si dica. Voi, nel frattempo, ne approfitterete per entrare.
E a Gwenog che, stoica, lo attendeva all’angolo del palazzo:
- Pronta?
- Andiamo.
Il piano, manco a dirlo, fu un successo.
Non appena i due ragazzi svoltarono in Diagon Alley, mano nella mano come una tenera coppietta di piccioncini, una magigiornalista drizzò le antenne e li avvistò.
- Ehi!... ma quella è Gwenog Jones!... – urlò, eccitatissima.
- Ed è in compagnia di un uomo!... – esclamò un altro, facendo immediatamente girare tutti gli altri.
Gwen lanciò loro un’occhiata in tralice e diede una lieve stretta alla mano di Lee.
- Hanno abboccato – gli sussurrò, accostando graziosamente il capo alla spalla del ragazzo. I primi flash cominciarono a scoppiettare.
Lui annuì, continuando a camminare come se nulla fosse.
– Fase due? – bisbigliò ancora lei, indirizzandogli di soppiatto un’occhiata furbesca.
- Fase due? - Lee corrugò la fronte, incerto. - Sarebbe a dire...?
Gwenog si fermò si scatto e gli si parò davanti.
- Se vuoi giocare d’astuzia, fuori o dentro il campo, fallo bene – gli disse, con una rapida strizzatina d’occhio. - Regola Numero Uno del Quidditch Attraverso i Secoli.
E senza dargli il tempo di indagare oltre gli aderì contro, si alzò sulle punte dei piedi e, fattegli scivolare le braccia intorno al collo, gli assestò un bacio da prima pagina.
Inutile dire che, in quel momento, avrebbe potuto fare ingresso al San Mungo perfino un battaglione di Ungari Spinati tinti di rosa, che i paparazzi non se ne sarebbero minimamente accorti.
 
Regent’s Park, Londra, dicembre 1996
Il caratteristico scoppiettio del camino pronto ad ospitare un arrivo distolse la sua attenzione dai fogli di pergamena che, piano piano, venivano ricoperti d’inchiostro grazie all’affaccendarsi di una laboriosa Penna Redattrice (la versione da bella copia di una Penna Prendiappunti, tanto per intenderci). Subito dopo, l’inconfondibile bagliore di fiamme verdi proiettò sulle pareti del salotto attiguo allo studiolo ombre mobili simili ad alghe smosse dalle acque.
Lee tirò indietro la sedia e alzò le braccia per stiracchiarsi pigramente; dopo l’intero pomeriggio e la nottata trascorsi chino sulla scrivania, il ragazzo era tutto incriccato. Ma tant’era: Dillinger non ammetteva ritardi, per nessuna ragione al mondo anche se effettivamente, in un paio di occasioni, il fatto di essere ufficialmente fidanzato con una rappresentante del pantheon quiddistico nazionale aveva procurato a Lee indiscutibili attenuanti.
- Bentornata – disse a Gwenog che, nel frattempo, aveva fatto capolino dalla cappa del caminetto. – Com’è andata?
- Ciao bello – lo salutò lei, agitando allegramente le scarpe col tacco che, come suo solito al termine delle feste, reggeva fra le mani. – La solita manfrina.
Lee rise di gusto e abbandonò la sua postazione.
- E allora perché insisti ad andarci?!
- Ah, sai com’è – bofonchiò lei, facendo scattare sull’attenti il bollitore del tè con un colpo di bacchetta. – Horace ci tiene tanto...
- Immagino – la provocò bonariamente lui, andando a stravaccarsi sul divano ricoperto da un telo di stoffa coloratissima, tessuta per lui dalla zia Prunisinda. – Una festa di Natale del Lumaclub senza Gwenog Jones sarebbe un completo fiasco...
- Ma piantala – replicò lei, allungandogli uno scappellotto mentre passava dietro il divano.
“Santi rasta” ridacchiò Lee fra sé e sé, grato alla sua folta capigliatura per aver assorbito dolcemente il colpo.
- E comunque – continuò Gwenog, afferrando la tazza di tisana che era giunta da lei levitando placidamente – quest’anno, forse, la tua presenza sarebbe stata utile.
- Perché?
Gwen gli si avvicinò e si sedette accanto a lui, andando poi ad appoggiare la schiena contro il suo petto.
- C’era un tizio, uno della tua Casa...
- Eh?! Chi?
- Un tizio grande e grosso, biondo e ricciuto, vestito con un kilt.
Lee sgranò gli occhi. Aveva capito subito a chi Gwenog si riferisse.
- McLaggen – il ragazzo sbuffò fuori l’aria, irritato; nel frattempo, la sua testa si invischiava in pensieri poco benevoli che coinvolgevano il suo povero amico e bamboline infilzate con spilli e spilloni di lunghezza variabile. – Ci ha provato con te?
Gwen scoppiò a ridere con tanto brio che quasi si strozzò con la tisana.
- Provato?! – tossicchiò, girandosi verso di lui con le lacrime agli occhi. – Ma va. Non credo ne avrebbe avuto il coraggio – gli disse, mettendo poi su un’aria da dura. – Ma era in crisi nera. Mi è toccato starlo a sentire per tutta la serata, lui le sue lamentele da cuore spezzato... oh, vita grama.
Lee si addolcì e ridacchiò. Non immaginava nessuno al mondo meno adatto di Gwen a rivestire il ruolo di assistente sentimentale.
- E come mai era in crisi, stavolta?
- Bah, una tipa della festa gli ha tirato un pacco – rispose Gwen, sorseggiando con noncuranza la sua tisana di rabarbaro. – Una morettina, piuttosto carina anche ma, a mio parere, un po’troppo altezzosa e piena di sé (1).
Lee si strinse nelle spalle.
- Nessuna ragazza nel pieno delle sue facoltà mentali andrebbe ad una festa con Cormac – commentò, tendendo il braccio per abbracciare Gwenog e avvicinarla nuovamente a sé. – La tizia in questione deve essersene accorta.
- Già.
- Già.
- E tu? – gli domandò lei, facendo levitare a ritroso la tazza vuota verso il cucinotto. – Hai finito l’articolo?
- Hum. Quasi.
- “Quasi”, a casa mia, significa “no”.
- Oh, per Godric. Questa l’ho già sentita- replicò lui, sorridendo nell’ombra. – Ma sono stanco, ho la schiena a pezzi.
- Vuoi un massaggio? – propose lei, piena di buona volontà (anche troppa, forse). – Ce n’è uno che i fisioterapisti delle Harpies...
Lee mise le mani avanti.
- Ma sei matta? Mica voglio finire al San Mungo – le rispose, fingendosi terrorizzato. – Non si potrebbe avere qualcosa di leggermente più soft?
- Hum – Gwen scosse la testa, come a dire “sei sempre il solito”. – Per esempio?
- Per esempio: questa graziosa vestina gialla non la conoscevo. Fammela vedere bene, dai.
 
Regent’s Park, Londra, maggio 1997
E così fra un allenamento, una full immersion giornalistica, una sessione di racconti reciproci a fine giornata, una gita fuoriporta sotto mentite spoglie, qualche turno di assistenza al San Mungo e tante altre appaganti attività di coppia, la loro convivenza procedeva.
Lee e Gwenog avevano deciso di condividere la stessa abitazione in novembre quando, ormai stufi delle continue interferenze ed intromissioni dei magigiornalisti, si erano resi conto che continuare ad utilizzare la residenza della battitrice significava ormai vivere costantemente in una situazione di assedio.
E così, decisi a mantenere il più possibile in sordina la loro vita privata, avevano provveduto a trasferire in gran segreto tutti gli effetti personali di Gwen a casa di Lee, premurandosi di allargarla quel tanto che bastava con un paio di incantesimo d’Estensione ben congegnati e, ovviamente, di schermarla previamente con un bell’incanto Fidelius super-rinforzato.
Cosicché alla fin fine la stampa, che pure concedeva loro rari momenti di tregua (quando si era saputo che Lee Jordan lavorava da Tuttoquidditch, s’era praticamente aperto il cielo ed erano fioccati articoli su articoli dai più svariati toni), aveva dovuto rassegnarsi e lasciare in pace la loro oasi domestica che nessuno, visto che gli amici che ne erano al corrente si mantenevano rigorosamente incorruttibili, aveva scoperto dove diavolo fosse ficcata.
Nonostante si trattasse di un appartamento molto piccolo, a Gwenog la location era subito piaciuta. Lee, quando ci era andato a vivere da solo al termine della scuola, lo aveva arredato un po’ a casaccio; tuttavia, gli oggetti e le tappezzerie etniche che aveva portato dalla Giamaica regalavano all’ambiente un tono esuberante ed allegro che le era riuscito immediatamente gradito.
E poi, naturalmente, c’era la questione della vista a renderlo impagabile.
L’appartamentino, infatti, si trovava nel sottotetto di un antico palazzo prospiciente Regent’s Park: dal tetto, facilmente raggiungibile attraverso un lucernario e sul quale Gwenog adorava trascorrere ore ed ore appollaiata, incurante del gelido vento invernale che castigava i comignoli di Londra, si ammirava un panorama a dir poco superbo.
Fra quelle quattro mura, sul quel piano inclinato a stretto contatto col cielo (l’aria era il suo elemento, c’era poco da fare) e, soprattutto, in compagnia di quel concentrato di energie positive che era Lee ‘Ziggy’ Jordan, la super-celebrata battitrice gallese si sentiva a casa; stava bene; era felice.
Era felice anche se questo significava doversi aspettare visite strampalate ad ogni ora del giorno e della notte, perché sì, i rapporti quasi fraterni che legavano gli appartenenti alla Casa di Grifondoro implicavano che, spesso e volentieri, l’appartamentino di Lee servisse da approdo per i più disparati componenti della Casa rosso-oro.
Vi si recava spesso Oliver quando, fra un turno e l’altro, si concedeva una manciata di ore di riposo e non aveva voglia di stare solo nel suo cottage in Wiltshire; e il divano letto, ormai, era suo, perché il portiere del Puddlemere United, per poter aiutare la signora Bell e Carbry nell’assistenza a Katie, aveva chiesto un’aspettativa a tempo indeterminato ai dirigenti della squadra, e così trascorreva la maggior parte del suo tempo nella Capitale.
All’inizio di febbraio, Gwen vi aveva trovato Charlie Weasley (gran bel ragazzo, con quei riccioli rossi ribelli e le braccia muscolose, oltre che gran bravo Cercatore, ovviamente, aveva pensato lei osservandolo con occhio professionale), appena giunto dalla Romania su richiesta dei suoi fratelli Fred e George, che lo avevano mandato a chiamare in tutta fretta un paio di giorni prima quando i Guaritori del San Mungo, dopo aver sottoposto la collana maledetta (che era fatta di opali, e non di perle come aveva detto inizialmente Carbry) ad una serie di test con reagenti animali, avevano fatto loro sapere che il gioiello era intriso di veleno di drago. Argomento di cui, com’era risaputo, il secondogenito Weasley era esperto indiscusso.
E un bel giorno di metà marzo, Gwen vi aveva trovato nientepopodimeno che Alicia Spinnet, la “sorella pallida” di Lee, che vi si era presentata fresca fresca d’Australia in compagnia di un’anziana strega dall’aspetto alquanto esotico.
- Ciao – le aveva detto la ragazza, rivolgendole un timido sorriso.
- Ciao – aveva bofonchiato Gwen, studiando attentamente le fattezze graziose di quella giovane Cacciatrice australiana, la cui bionda bellezza riluceva come una spiga di grano in un campo di sterpi.
A rompere il ghiaccio, inaspettatamente, ci aveva pensato Uluru, l’ornitorinco domestico. Il quale, dopo essere zampettato di soppiatto fino ai piedi di Gwenog, le aveva battuto con molto garbo la coda piatta sul polpaccio.
- E tu chi sei?!
- Ehm, sai – aveva mormorato Alicia, piuttosto rossa in viso. – Uluru è tuo fan...
- Esatto – aveva esclamato Lee, tutto allegro. - Sì, ecco, perché sai: il cestino dove Uluru dorme è sempre posizionato sotto al tuo poster!...
- Oh, in questo caso – aveva sorriso Gwenog, sollevando delicatamente fra le mani l’animaletto che emetteva acuti stridii deliziati (neppure il più duro dei cuori resiste al fascino di un Ornitomagico Australiano, si sa) – ti meriti un bel bacetto sul becco, piccolo coso.
- Questa ragazza è una fair dinkum – aveva commentato bonariamente la vecchia strega che si trovava insieme ad Alicia, e che si era poi presentata come Hanya Zahu, stregona aborigena di IIIª classe.
- Madama Hanya si trova qui per curare Katie – aveva poi detto Lee a Gwen, tirandola discretamente da parte mentre, dal caminetto, cominciavano ad affiorare altri amici, prontamente giunti per salutare Alicia.
Gwenog aveva fatto tanto d’occhi.
- Davvero?!
- Sì. Ti ricordi quando è venuto qui Charlie e, insieme, avevamo pensato di fare dare al padre di Alicia un’occhiata alla collana?
Il signor Spinnet lavorava per la Gringott nell’entroterra australiano, presiedendo all’estrazione di preziosissime opali magiche.
- Erano davvero opali australiane?! – aveva voluto sapere sapere Gwen.
- Sì. E c’è dell’altro – le aveva raccontato Lee, il bel viso scuro illuminato da un sorriso entusiasta. – Il veleno di drago con cui la collana era stata maledetta proveniva appunto da un drago nativo dell’Australia (2)...
- Oh...
- E Madama Hanya, che è molto amica della famiglia Spinnet, sapeva esattamente dove procurarsi l’antidoto... Charlie e Alicia l’hanno aiutata, ed ora...
Gwenog non era riuscita a trattenere un saltello di gioia.
- Ma è fantastico! – aveva esultato, buttandogli le braccia al collo. In tutti quei mesi si era affezionata ad Oliver, in compagnia del quale aveva bevuto più di una tazza di tè, e aveva fatto amicizia con Carbry e con la signora Bell, ai quali era stata capace di trasmettere molta forza (“Quella ragazza è un trattore” diceva sempre Carbry, tirando lente boccate di fumo).
 
E fu così che una sera di metà maggio, rincasando dall’allenameno giornaliero in compagnia della sua collega (e ormai amica) Angelina Johnson, Gwenog si imbatté in una vera e propria riunione di ex-compagni del suo fidanzato e di altre persone apparentemente assemblate a caso. Nel piccolo salotto, ad occupare tutte le superfici orizzontali disponibili, le due ragazze incapparono in una nutrita schiera di ospiti, tutti seduti e intenti a scambiarsi frasi concitate.
C’erano Fred e George Weasley in compagnia del fratello Charlie, c’era Alicia Spinnet con Madama Hanya, c’erano Carbry Bell e sua madre, e insieme a loro una biondina rispondente al nome di Morag McDougall e Cormac McLaggen, amici d’infanzia dei Bell e mandati a chiamare da Hogwarts per prendere parte al grande evento. Poco oltre, Gwenog riconobbe il sorriso ammaliatore di quella simpatica canaglia di Roger Davies, ex Capitano di Corvonero e parecchio amico della combriccola di Grifondoro, attorniato da due o tre suoi compagni di Casa; e poco più in là, i volti sorridenti di Heidi McAvoy e Ross Cadwallader, che lei conosceva piuttosto bene in quanto ex componenti della Casa di Tassorosso.
- Sono già arrivati? – chiese Angelina a Lee, che si era avvicinato per abbracciarle entrambe.
- Dovrebbero essere qui a momenti.
E difatti, poco dopo, una fiammata smeraldina annunciò il loro arrivo: la frangetta corvina di Katie, che procedeva sorretta premurosamente da Oliver, si affacciò dalla bocca del piccolo focolare.
Immediatamente, i due furono accolti da un’esplosione collettiva di pura felicità.
 
Post-scriptum:
(1) In HP6, quando Hermione torna dalla festa di Lumacorno, racconta a Ron di averci incontrato Gwenog Jones e la  descrive come “un po’troppo piena di sé” (cosa che Gwen, in effetti, un po’è). Mi diverte immaginare che la nostra battitrice abbia avuto la stessa impressione di Hermione, e che sia stata incastrata da Cormac e dalle sue lamentazioni scaturite proprio dal pacco tiratogli dalla sua improbabile accompagnatrice.
(2) Per chi volesse sapere di più circa la leggenda delle Opali Maledette, consiglio la lettura del capitolo Chlamydodraco Australis Salsus, inserito nella raccolta Cavillo Geographics.

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Capitolo 8
*** Catch a fire! ***


8. Catch a Fire!...
 
Stadio delle Holyhead Harpies, Londra, metà luglio 1997
Vento caldo nei capelli, nuvole lanuginose, il riverbero del sole.
Lo skyline di Londra, oltre il bordo ovale del campo di Quidditch, la salutò in un tremolio di afa e di bagliori di luce riflessi nei vetri dei palazzi.
Accelerò, spronando la scopa, ancora e ancora, per gustare a fondo il familiare brivido dell’alta quota. Laggiù, sotto i suoi piedi sospesi nel vuoto, lo stadio gialloverde delle Harpies si allontanava a velocità vertiginosa.
Gwenog tese il braccio, preparandosi a colpire.
Un rapido sguardo tutt’intorno; un sibilo:
“Eccolo che arriva”.
Non ci fu neppure bisogno di voltarsi a guardarlo: la ragazza tirò indietro le due braccia (Lee si dichiarava sempre terrorizzato quando la vedeva mollare la scopa) e poi, con una mossa fulminea, affondò la mazza e lo batté con tutte le sue forze.
Il Bolide, colpito, invertì la sua rotta e fischiò verso terra, con lei che lo seguiva con lo sguardo.
Gwen si assestò sul manico e si preparò a ricevere la seconda sfera, ma un movimento strano laggiù sull’erba attirò la sua attenzione. La ragazza strinse gli occhi, nel tentativo di vedere meglio.
“Oh, per Tosca”.
Catriona McCormak, l’allenatrice della squadra, stava gesticolando concitatamente rivolgendosi ad un paio di figuri (“Loschi”, non poté esimersi dal catalogarli Gwen mentre, intrapresa la discesa, si avvicinava a tutta velocità) completamente vestiti di nero.
Non che ci fosse bisogno di presentazioni, ovviamente; ultimamente, quel tipo di gente spuntava un po’ ovunque, come uno strano ed inquietante prezzemolo ammorbato d’oscurità. Ma sul campo da gioco delle Harpies, no: Gwen non si sarebbe mai aspettata di vederli comparire.
Imprimendo al manico una brusca sterzata, la battitrice raggiunse il suolo e atterrò con un salto sull’erba appena irrigata. Erba che, non poté fare a meno di notare la ragazza, contrariata, quei due tizi stavano impunemente schiacciando con le suole dei pesanti stivali.
-. .. non esiste alcuna legge che preveda.. .- stava dicendo la McCormak, rossa in viso.
Il più anziano dei due, un individuo che portava appesa alla schiena una sacca da cui spuntavano strani oggetti allungati che a Gwen, lì per lì, parvero manici di mazze, l’interruppe bruscamente.
- Il Decreto in questione sta per essere varato -  disse, secco. - L’Ufficio Purezza Ematica del Ministero si sta solo portando avanti -.
- Benissimo - rispose l’allenatrice, spingendo il mento in avanti. - E allora, caro signor...?
- Mulciber.
- ... e allora, caro signor Mulciber – riprese lei, scandendo bene le parole - le chiedo cortesemente di tornare da me quando le disposizioni saranno divenute ufficiali.
Quello le rivolse uno sguardo di pietra che a Gwen parve eterno e che, suo magrado, la fece rabbrividire come una fanciulletta; poi, senza aggiungere altro, girò sui tacchi e, nel passare accanto al suo compare, gli fece cenno di seguirlo.
- Andiamo, Aidan.
Il più giovane, un ragazzo dai capelli neri un po'unti, tenuti lunghi, si affrettò a trotterellargli dietro. Non prima, però, di aver rivolto a Gwenog, che nel frattempo si era avvicinata alla donna, un’occhiata di apprezzamento piuttosto fastidiosa ed un mezzo sorrisetto ancor più spiacevole.
L’allenatrice McCormak non li perse di vista un attimo mentre, col fiato sospeso per l’indignazione, seguiva la loro uscita di scena.
- Chi accidenti erano? – le domandò subito Gwen, stringendo involontariamente le dita intorno al lucido manico della sua Firebolt Welsh. - Che cosa volevano?
La donna sbuffò.
- Robe da matti – le rispose mentre le sue guance, finalmente, riprendevano la loro consueta tonalità rosa pallido.
 
Regent’s Park, Londra, stesso giorno.
- C’era da aspettarselo – fu il commento di Lee quando, quella sera, Gwenog gli ebbe raccontato dell’accaduto. – Dovevamo prevederlo che, con la morte di Silente, la situazione sarebbe degenerata in fretta.
- Già.
Lee la guardò.
Sdraiata sul letto, lo sguardo fisso oltre il vetro del lucernario (era una bella serata: nel riquadro di cielo aperto sopra di lei si scorgeva una fettina di luna), Gwen era ancora piuttosto agitata. Fremeva di rabbia, lo si vedeva, e poco importava che dalla visita dei due Mangiamorte allo stadio delle Harpies fossero già trascorse diverse ore.
Il ragazzo si avvicinò, spense la luce con un colpo di bacchetta e sedette accanto a lei.
- Preferisci che non parta?
- Ma va – rispose precipitosamente lei, scuotendo la testa. – Che cosa cambierebbe?
- Beh... che so: potrei farti compagnia – buttò lì lui, conciliante. – Mi sembri ancora piuttosto scossa.
- Beh, ma lo ammetterai anche tu – replicò lei, ruotando su se stessa per girarsi verso di lui. – Non succede mica tutti i giorni che due coglioni vestiti di nero si presentino così, di punto in bianco, e richiedano la lista completa delle giocatrici corredata di informazioni sul loro status di sangue.
- No davvero – ammise lui dopo un attimo di silenzio. – Per questo, pensavo...
- Senti Ziggy – gli disse Gwen, risoluta. – Non c’è nulla che possiamo fare, in questo momento. Abbiamo già inoltrato la raccolta di firme al Ministro. Non ci resta che sperare che Scrimgeour invalidi il Decreto.
- Sì, ma:
- No, ascolta: - Gwen gli posò la punta dell’indice sulle labbra. – Se tua nonna...
- “Bisnonna”.
- Okay. Se la bisnonna ti ha chiesto di andare da lei, un motivo ci sarà.
- Sì, certo. Ma tu...
- Io niente – i lineamenti di Gwenog si addolcirono in un abbozzo di sorriso, che il ragazzo percepì come se potesse vederlo. – Me ne starò buona buona, promesso. Tutta allenamenti e casa. Okay? Tu vai là, vedi cosa succede e torna presto.
Lee le sorrise di rimando, i denti candidi che luccicavano nella densa penombra della stanza.
- Mi mancherai – le disse, tendendo le mani per avvicinarla a sé.
- Anche tu – mormorò lei, aspirando a pieni polmoni il suo aroma di cacao misto a salsedine.
- Sono solo dieci giorni.
- Ma sì, dai.
Le loro labbra trovarono al buio il sentiero per riunirsi; quanto v’era da dire era stato detto: e il resto, in cuor loro, già lo sapevano. E, per quanto riguarda ciò rimaneva da fare, non c’era alcun bisogno di parole.
 
Stadio delle Holyhead Harpies, Londra, fine luglio 1997
Un ultimo risciacquo e le ultime bolle di bagnoschiuma sparirono gorgogliando nella griglietta di scarico.
Gwen tese la mano e chiuse il rubinetto, per poi scrollare i capelli e appellare in un colpo solo asciugamano e accappatoio. Mentre la salvietta le si avvolgeva strettamente intorno al capo, la ragazza rabbrividì di piacere al contatto con la spugna profumata che le avviluppò il corpo.
Sorrise, soddisfatta.
Se l’allenamento era andato bene, la doccia fresca era stata un vero e proprio toccasana.
Le compagne, nei cubicoli accanto, canticchiavano ciascuna un motivetto diverso. Quelle che avevano già finito, chiacchieravano animatamente nello spogliatoio.
Accadde tutto molto in fretta.
Gwenog si stava accingendo a raggiungere gli armadietti quando, inaspettata, le giunsero all’orecchio una salva di esclamazioni indignate e la voce di Angelina Johnson che, sdegnata, urlava:
- Ma come vi permettete? Fuori di qui!...
Una serie di tonfi provocati dalle suole di stivali pesanti non diedero adito a dubbi; Gwen, spalancati gli occhi, agì d’istinto e si infilò nel cubicolo attiguo.
- Zitta – intimò sottovoce a Jenna Jenkins, sua compagna di squadra e, purtroppo per lei, Nata Babbana. – Mettiti questo e sparisci – le disse, ficcandole in mano la sua divisa sudata.
La ragazza, una giovane Cacciatrice di notevole abilità, la fissò spalancando gli occhi e aprì la bocca per parlare.
- Sono venuti per te – soffiò Gwenog, scuotendola per il braccio e ringraziando Tosca che quel giorno l’altra giocatrice dallo stato di sangue incerto, Wilma Puig, aveva provvidenzialmente saltato l’allenamento. – Spicciati.
Nel frattempo, all’interno dello spogliatoio, la discussione proseguiva.
- È assolutamente inammissibile... – stava gridando l’allenatrice McCormak, fuori di sé.
Jenna tremava di paura, ma riuscì lo stesso a vestirsi e, dopo aver rivolto un ultimo sguardo a Gwenog, si smaterializzò all’esterno dello stadio e sparì fra le stradette di Londra.
La battitrice contò fino a tre, poi afferrò la sua fedela mazza, che era rimasta appesa fuori dalle docce, e si precipitò nello spogliatoio.
Il caos regnava sovrano: era in atto, in quel momento, una vera e propria cagnara, con Angelina e la McCormak, supportate dalle altre giocatrici, che sbraitavano come delle ossesse all’indirizzo di cinque o sei Mangiamorte (tutti uomini, per la sottana di Tosca!) abbigliati di tutto punto.
- Il Decreto è ora valido a tutti gli effetti – stava dicendo quel tale, Mulciber, che si era già presentato la prima volta. Fra le mani, l’uomo reggeva una pergamena che, in calce, recava la firma del Ministro Scrimgeour – Alle giocatrici e ai giocatori Nati Babbani (e qui risulta che, in questa squadra, ce ne sono ben due), oltre ad essere proibita la partecipazione in Campionato, si richiede di seguire i qui presenti ufficiali dell’Ufficio Purezza Ematica per fornire chiarimenti in merito.
Gwenog avanzò di un passo.
- Non c’è nessuna giocatrice Nata Babbana, qui – disse, dura, alzando la voce per farsi sentire.
I presenti si voltarono verso di lei e la fissarono, piuttosto sorpresi.
Avvolta in quell’accappatoio giallo con tanto di turbante verde in testa, Gwen si sentì ridicola, ma non abbassò lo sguardo.
- Sarebbe a dire?...
- Sarebbe a dire – continuò lei, stringendo appena gli occhi e facendo roteare la mazza (uno dei Mangiamorte più giovani indietreggiò di un passo, tanto per stare al sicuro) – che le persone che cercate non sono qui. Quindi, non avete alcun motivo per trattenervi.
Per tutta risposta, il giovane nerovestito che, durante la prima visita, era stato chiamato “Aidan” da Mulciber, si fece avanti.
- Signorina Jones – le disse, sfoggiando quel suo sorriso odioso. – Non è questo l’unico motivo per cui ci troviamo qui.
- Preparati alla bomba, Gwen – le bisbigliò Angelina che, nel frattempo, le si era avvicinata di soppiatto.
Lei fece una smorfia di muta interrogazione.
- Siamo qui per fare un appello – proseguì quell'Aidan, sprezzante. – Perché vede: una squadra composta da sole streghe, quasi tutte Purosangue per giunta, non si confà alle regole di moralità imposte dall’odierna organizzazione politica.
Gwenog strinse la mazza fra le dita, facendo vagare lo sguardo sull’inopportuno manipolo di ospiti indesiderati. Uno di loro, un giovane dagli occhi eccezionalmente chiari che lei ricordava vagamente di avere visto in giro ad Hogwarts quando ancora frequentava la scuola, le restituì un’occhiata glaciale.
- Le streghe Purosangue hanno il dovere di contribuire al rafforzamento del sangue magico.
Un silenzio innaturale era calato sullo spogliatoio; le compagne e l’allenatrice osservavano la scena trattenendo il fiato. Alcune scuotevano testa, incredule.
– Vi esortiamo caldamente, pertanto, a ritirarvi dai campi e di prendere marito per provvedere alla perpetuazione della specie magica; senza perdere altro tempo in attività ludiche discutibili.
Gwenog era scandalizzata; con la coda dell’occhio, la battitrice vide che Angelina digrignava i denti, furiosa.
Concluso il suo discorso, il giovane Mangiamorte dai capelli corvini fece per avvicinarsi alle due ragazze.
- Un altro passo – ringhiò allora Gwen, inferocita, sollevando la mazza – e ti giuro che te la faccio assaggiare, nel senso più letterale del termine.
Quello si incupì, ma non osò proseguire oltre.
- Ne riparliamo fra un paio di settimane, carina – le disse con voce intrisa di scherno, per poi girare su se stesso e allontanarsi in compagnia degli altri suoi scagnozzi.
 
Ministero della Magia, Londra, inizio settembre 1997
Augustus Rookwood gli rivolse un’occhiata carica di disprezzo, che lo fece sudare copiosamente. Rivoli liquidi discesero lungo la sua schiena, facendo aderire la stoffa della camicia alla sua pelle umidiccia.
- Ti ho... ti ho detto che non posso... che non voglio... – balbettò allora lui, dimenandosi sulla sedia come un Nargillo accalorato.
Sul ripiano della scrivania tutta in disordine, il cartellino con su scritto “Ludovic Bagman, Capo dell’Ufficio per i Giochi e gli Sport Magici” giaceva rovesciato, a testa in giù.
Rookwood gli si avvicinò con fare minaccioso, raggiungendolo in un paio di falcate.
- Stammi bene a sentire, razza di pusillanime – gli disse, alitandogli sul viso.
Ludo chiuse gli occhi, scosso da tremiti convulsi.
- Ti ho salvato il culo due volte: la prima, quando ti ho tenuto fuori dai casini dell’81. E la seconda, quando ho convinto Malfoy a saldare i tuoi debiti di gioco.
- Lo... lo so, e te ne sono grato...- pigolò Bagman, a disagio.
- Piantala di piagnucolare – la voce di Rookwood era un soffio sordo. – Credi che Azkaban sia un villaggio turistico?
- No, no di certo...
- Preferisci fare un bel giretto dai Folletti, allora?
Ludo sgranò i tondi occhi azzurri, subito attraversati da un velo di terrore.
- Il debito ce l’hai con me, ora. Ricordatelo. Me lo devi.
- Ma io... No!... Non lo voglio il Marchio, ti prego!...
- Inutile discutere. Mulciber sta arrivando coi ferri per la marchiatura. Se vuoi continuare a dirigere questo ridicolo ufficetto, l’adesione al partito è d’obbligo.
Ludo scosse la testa, cercando freneticamente una soluzione.
- A-aspetta, Augustus...
Quello lo guardò con insofferenza, evidentemente scocciato dal fatto di essere stato chiamato per nome.
- E se... se ti facessi un favore...
- Ah! E che favore saresti mai in grado di farmi tu, essere inutile?
- La... la Radio sovversiva... ho-ho sentito che ne parlavi con Macnair e Le-Le-Lestrange l’altro giorno...
“Manco il nome di Rodolphus riesce a pronunciare, senza farsela sotto” pensò Rookwood, schifato, ma facendosi immediatamente attento.
- Radio Potter, intendi dire?
- Sì, sì: proprio quella.
- E?
- E n-niente... di-dicevate di sospettare che quel tizio, quel g-giornalista di Tuttoquidditch...
Rookwood lo fissò, inducendolo a proseguire.
Ludo sentì il cuore che gli esplodeva nel petto e si vergognò di quanto stava per fare. Tuttavia, spinto dal terrore allo stato puro che quell’uomo gli incuteva, sputò il rospo.
- Io... io non so dove si trovi quel tizio, ma... ma c-credo di conoscere qualcuno che v-ve lo saprà dire.
 
Wiltshire, Cottage di Oliver anche detto “Il Covo”, quella sera stessa
Due colpi pausati, seguiti da tre colpetti in rapida sequenza.
Il segnale di riconoscimento.
Lee si tirò su di scatto dalla sua postazione accanto al grammofono e diede un’occhiata alla pendola appesa sulla parete dirimpetto, posando sul divano il vinile di reggae appena selezionato.
Le settimane precedenti erano state massacranti, far i racconti sempre più allarmati di Gwen, la battaglia al matrimonio di Bill e Fleur, la fuga di Harry e la decisione di fondare, insieme agli amici, un canale radiofonico dissidente pe mantenere alto l’umore degli oppositori al regime, appena instaurato, del Signore Oscuro.
- Dev’essere Gwen! – urlò attraverso la sala per avvisare Katie che, nel frattempo, era corsa alla porta.
Pochissime persone conoscevano l’ubicazione del cottage di Oliver, che era stato scelto come quartier generale di Radio Potter per potersi avvalere del Cerchio magico di Stonehenge come mega radiotransistor. Ne erano al corrente i due padroni di casa (Katie, al termine della scuola, si era trasferita a casa del fidanzato), Lee, Gwenog, la famiglia Weasley, Angelina, Alicia (che in quel momento, però, si trovava fuori sede) i membri dell’Ordine della Fenice e pochi altri.
Un Fidelius Maximum proteggeva l’intera area da sguardi indiscreti mantenendola al sicuro; come per magia, dalla metà di agosto in poi, una nebbia spessa e densa era calata sulle campagne del Wiltshire celando a chiunque la vista del cottage e del più famoso monumento megalitico del sud dell’Inghilterra.
Un parlottare concitato richiamò l’attenzione di Lee che, incuriosito, si avvicinò al portone d’ingresso.
Non era con Gwenog che Katie e Oliver, nel frattempo sopraggiunto da un sopralluogo alle millennarie steli di pietra, stavano parlando.
In piedi accanto a loro c’era una giovane strega con i capelli neri e le guance rosa, che il ragazzo riconobbe subito come Hestia Jones, Auror, membro dell’Ordine e sorella maggiore di Gwen.
- Ho subito dovuto abbandonare la postazione al rifugio segreto dei Dursley – disse Hestia, non appena lo vide. – Mamma è fuori di sé...
Lee si sentì montare nel petto un’angoscia pulsante.
- Che... che cosa... – biascicò, confuso.
- L’hanno presa, Lee – gemette Hestia con voce strozzata, mentre Katie si tappava la bocca con le mani. – I Mangiamorte hanno preso Gwen.
 
Post-scriptum:
Ovviamente, visto il periodo, il clima alla Sense and Sensibility dei capitoli precedenti non poteva durare.
Ed ecco che i nodi del passato ambiguo di Ludo Bagman vengono al pettine, e che il suo legame con Augustus Rookwood, del quale (come da canon) si era sospettato fosse informatore ai tempi della 1ª G.M. risalta fuori.
Lascio la questione in sospeso e accetto ogni sorta di suggerimeto.
Buona Pasqua!...

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Capitolo 9
*** Guiltiness (rest on their conscience). ***


9. Guiltiness (rest on their conscience).
 
Ministero della Magia, Londra, qualche giorno prima della Cattura.
- Gwenog Jones, dici?
Lo sguardo di Augustus Rookwood era tagliente come la selce scheggiata. Ludo abbassò il capo, rosso in viso per la vergogna di quanto aveva appena fatto e per il disprezzo che, ormai costantemente, nutriva nei confronti di se stesso.
- S-sì – mormorò, nauseato. – Lei e quel Jordan stanno insieme...
Uno sbuffo sarcastico ruppe il silenzio, subito accompagnato dal clangore sospetto di oggetti metallici che sbattevano l’uno contro l’altro. Posata a terra la sacca contenente i ferri per la marchiatura, Ares Mulciber si era alzato in piedi.
- Che informazione inutile – dichiarò costui, facendo ulteriormente sgranare gli occhi azzurri e tondi di Bagman. – Quanto ci riferisci non porta a nulla.
- Pe-perché...?
- Perché la Jones è pur sempre una figura pubblica – il tono di voce di Mulciber, basso e raschiante, faceva accapponare la pelle. – Non la si può semplicemente prelevare. Non ancora, per lo meno.
- Ma... ma...
Aidan Avery che, fino a quel momento, era rimasto in disparte, nell’ombra, con le spalle appoggiate al muro, si lasciò sfuggire un improperio.
- Maledetta sgualdrina traditrice della Causa – sbraitò, e si capiva lontano un miglio che gli sarebbe piaciuto da matti punire a dovere l’imperdonabile trasgressione della Jones. La sua voce intrisa di follia fece sobbalzare Ludo, che si voltò a guardarlo, doppiamente allarmato. Quel giovane costantemente fuori dalle righe gli metteva i brividi; e immaginare Gwenog fra le sue grinfie gli fece venire un conato di vomito ma ormai, putroppo per lei, era troppo tardi per tornare indietro.
Mors tua vita mea. Non era forse questa, fin dai tempi antichi, l’antifona dei campi da gioco?
- Datti una calmata, Avery.
La voce afona e un po’ rasposa di Bastian Macnair diede a Bagman il colpo di grazia. Perché certo, quelli erano tutti dei pazzi invasati: Rookwood che lo teneva in pugno, Mulciber coi suoi orribili ferri, Avery con la sua violenza incontrollata. Ma Macnair, così inesorabilmente gelido, era capace di spandere tutt’intorno a sé un disagio ed un’inquietudine tali da farlo letteralmente uscire di senno.
- Ci... ci vorrebbe un pretesto... – pigolò, sentendosi la nuca intrisa di sudore gelido.
Rookwood lo guardò torvo.
- Un pretesto?
- E-esatto...
- Ha!
L’esclamazione di Avery, accompagnata da un pugno che fece volare tutt’intorno i miseri oggetti fintanto posati sul ripiano della scrivania a soqquadro, richiamò l’attenzione di presenti e condusse Bagman all’anticamera del collasso nervoso.
Il giovanotto nerovestito rideva, facendo ondeggiare la chioma corvina perennemente in disordine.
Mulciber gli rivolse un’alzata di sopracciglio insistentemente interrogativa.
- La cara e vecchia Resistenza a Pubblico Ufficiale – chiarì quello, guadagnandosi un’occhiata di approvazione da parte di Rookwood, che aveva immediatamente afferrato il concetto. – Prendi pergamena e inchiostro, Bagman, da bravo.
 
Stadio delle Holyehead Harpies, il giorno della Cattura.
L’autunno, con la sua aria frizzante, era ormai alle porte.
Gwenog si tirò su la zip della felpa, accingendosi poi a raccogliere i lunghi capelli scuri in uno chignon spettinato. Bisognava sempre fare attenzione con i primi freddi: un raffreddorino a settembre era capace di trascinarsi per tutto l’inverno, lo si sapeva, rischiando di compromettere irrimediabilmente l’intero Capionato.
“Sempre che ci sia ancora, un Campionato da disputare” rimuginò fra sé e sé la ragazza, amareggiata.
La situazione degenerava ogni giorno di più.
Prima l’estromissione dei giocatori Nati Babbani, poi i continui inviti ai vertici delle squadre della Lega di far ritirare le giocatrici, in virtù di matrimoni convenienti al rafforzamento della stirpe magica. E le Harpies ovviamente, per il fatto di essere una squadra totalmente femminile, erano le più colpite dalla Politica di Moralità imposta dal nuovo Regime.
Mentre Gwenog tendeva la mano per afferrare la scopa, una serie di acuti schiamazzi provenienti dal campo da gioco richiamò la sua attenzione.
“E adesso cosa...?”
Un grido acuto e adirato fendette l’aria.
La ragazza mollò la scopa e si precipitò fuori, seguita da alcune compagne ritardatarie. La scena in atto all’esterno le fece subito ribollire il sangue per la rabbia.
Da una parte l’allenatrice McCormak, una decina di giocatrici e alcune esponenti della direzione del club. Dall’altra, un manipolo di Mangiamorte , i neri mantelli mossi dalla brezza gelata. E in mezzo a loro, con il viso cristallizzato nella tipica espressione di chi vorrebbe trovarsiovunque tranne lì, quel farabutto di Ludo Bagman.
- ...si decreta, pertanto, la chiusura del Club... – stava declamando a gran voce il solito Mulciber, impegnato nella lettura di una breve pergamena.
- Che cosa sta succedendo? – chiese sottovoce Gwen ad Angelina, che era uscita sul campo poco prima di lei.
La compgana la guardò tristemente.
- Decreto Ministeriale. Le Holyhead Harpies sono dichiarate ufficialmente sciolte.
- CHE COSA?!
L’urlo di Gwen interruppe bruscamente la lettura.
- Chi diavolo pensate di essere? – la battitrice era furiosa. – Non... non potete venire qui ed estinguere la squadra!...
Ares Mulciber le lanciò un’occhiata torva.
- Ma certo che possiamo – le disse, agitandole la pergamena davanti agli occhi. – Disposizioni ufficiali.
- Ufficiali? – ringhiò Gwen, incredula – Ufficiali di chi?
- Del Capo dell’Ufficio per i Giochi e gli Sport Magici – soffiò Mulciber, additando la firma di Ludo Bagman che, in quel mentre, tentava disperatamente di nascondersi nel mucchio.
Gwenog aprì la bocca, letteralmente fuori di sé.
- Maledetto bastardo!...
Si slanciò in avanti e fece per avventarsi su Bagman, inferocita; i Mangiamorte però, che sembravano non aspettare altro, le furono addosso tutti insieme e la disarmarono in quattro e quattr’otto.
Il consueto accompagnatore di Mulciber si fece avanti.
- Signorina Jones – ghignò Aidan Avery, riponendo la bacchetta di Gwenog nella tasca interna del mantello. – La dichiaro in arresto per Resistenza e Oltraggio a pubblico ufficiale.
Gwenog si irrigidì e si morse il labbro, guardandosi intorno con un’espressione un po’sperduta. Angelina, in piedi poco lontano, la guardava atterrita.
- Sei contenta, ora? – sussurrò Avery, avvicinandosi a Gwen per sospingerla all’esterno dello stadio.
- Non azzardarti a toccarmi! – strepitò lei, a voce altissima.
- Ti conviene seguirmi, credimi –proseguì imperterrito lui mentre, in sottofondo, le componenti della squadra protestavano a gran voce. – O preferisci vederlo dato alle fiamme, questo bello stadio?
 
Ufficio Purezza Ematica, Ministero della Magia, fine settembre 1997
Il caso Jones languiva e la cosa, chiaramente, non mancava di infastidirlo immensamente.
Il giovane nerovestito si tirò indietro i capelli corvini con un gesto stizzito, dimenandosi sulla sedia con un’impazienza quasi incontenibile.
- Per tutta la stirpe di Salazar Serpeverde...
Contrariato.
Aidan Avery era contrariato, assolutamente contrariato.
Se non si fosse trattato di precise disposizioni da parte del suo Signore, ci avrebbe pensato lui, con i suoi metodi altamente convincenti, a risolvere la situazione una volta per tutte.
E invece no.
- Se ne occupa Sebastian – aveva ordinato Lord Voldemort in persona, affidando il caso Jones a Bastian Macnair. Cosa che ovviamente, a lui, non era andata affatto giù.
Quella Jones si trovava sotto la loro custodia già da due settimane e Macnair, strano ma vero, non era riuscito a cavare un ragno dal buco. Tutta colpa dei suoi metodi, troppo morbidi secondo Avery, nonché della sua ostinata tendenza a non volersi accorgere di quanto Gwenog Jones fosse, oltre che una testimone preziosa, una preda assolutamente succulenta.
Ah, se avesse potuto metterci mano lui...
Ma fino a quel momento, purtroppo, niente da fare.
Avery aveva dovuto tenersi per sé le sue sordide elucubrazioni, che mescolavano in maniera assai poco ortodossa i concetti di giustizia, punizione, pensiero pruriginoso e bramosia carnale.
Chissà però che, alla luce degli insuccessi del compagno (che lui, ligio come era alla Causa, aveva visto bene di riportare alle alte sfere, con estrema dovizia di particolari), le cose non fossero in procinto di cambiare...
E difatti.
Un leggero grattare proveniente dalla finestra richiamò la sua attenzione. Oltre il vetro smerigliato, il ragazzo scorse una forma scura e indistinta, che aveva tutta l’aria di essere un gufo. Saltato agilmente in piedi, si affrettò quindi ad aprire.
Il messaggio era chiaro e succinto, inequivocabilmente vergato dallo stimatissimo pugno del suo Signore e Padrone.
Agisci pure c’era scritto, semplicemente.
Con uno sgradevole sorrisetto trionfante dipinto sul viso, Aidan Avery uscì baldanzoso dalla stanza.
 
Ufficio Purezza Ematica, Ministero della Magia, poco dopo.
Bastian Macnair rimestava lentamente nel caderone, assorto nelle sue riflessioni.
Incredibile come, nonostante il turbine di pensieri che si agitava all’interno della sua mente, quel semplice movimento circolare aveva da sempre il potere di calmarlo.
Il cigolio della porta che si spalancava, però, annunciò l’arrivo di Avery (“Manco bussa, quello sbruffone”) e lo riportò bruscamente alla realtà. L’ espressione altamente compiaciuta del nuovo arrivato, pensò Macneair, non lasciava presagire nulla di buono.
- Ehilà, Bastian – lo salutò Avery, con falsa allegria.
- Salve – rispose lui, laconico.
- Che cosa combini, vecchio lupo di calderone?
A Bastian Macnair, definitivamente, la pazienza faceva difetto; quindi, deciso a venire subito al punto, lo interruppe freddamente.
- Che cosa vuoi?
Avery, evidentemente, non aspettava altro.
- Passaggio di testimone, caro mio. Il Capo mi ha autorizzato a sostituirti nel caso Jones.
“Merda”.
Macnair digrignò i denti fra sé e sé, ma non lasciò trasparire nulla e gli restituì un’occhiata impassibile.
- E quindi?
- E quindi niente – replicò l’altro, in evidente solluchero. – Mi presti un po’ di Veritaserum?
Macnair strinse gli occhi chiari come l’acqua, indispettito.
Il fatto di venire a chiedergli in prestito il Veritaserum, ovviamente, altro non era che un pretesto per sbattergli in faccia la sua vittoria. Perché i metodi di Avery erano ben altri, e ben meno sottili. E lui, a ragione, cominciava a temere che dopo un paio di sessioni la Jones, per quanto fosse una dura, avrebbe finito per parlare. E avrebbe quindi rivelato il nascondiglio di quel Jordan e, di conseguenza, avrebbe finito con l’esporre anche...
“No”.
Gwenog Jones aveva assolutemante bisogno di una spintarella, di un piccolo aiuto.
C’era poco da fare.
- E perché non te lo fabbrichi tu? – gli chiese allora, al puro scopo di guadagnare tempo.
- Suvvia, Bastian – rise Avery, provocatorio come non mai. – Il grande pozionista sei tu...
Macnair lo fissò per un altro paio di secondi e poi accennò col capo ad un bacile posato su di un trepiede accostato alla parete. Il liquido all’interno del recipiente sobbolliva placidamente, spandendo nell’aria un soave aroma di eucalipto che però Avery, evidentemente, non poteva percepire.
- È quello lì.
Con un lento movimento di bacchetta, Macnair comandò al mestolo di riempire un bicchiere di cristallo, che fece poi levitare alla volta di Avery. Quello, afferrato lo stelo, rivolse al compagno un’occhiata assai divertita e altamente fastidiosa.
- Grazie infinite, MacNoir. Ci vediamo.
- Ma fottiti – rispose sottovoce quello, mentre l’altro si richiudeva la porta alle spalle. Poi, con una bassa risata afona, il pozionista si rimise al lavoro. – Ti do cinque minuti, massimo dieci, coglione.
Se aveva ben interpretato di che pasta era fatta la Jones anche meno, forse.
 
Celle di detenzione, Ministero della Magia, poco dopo ancora.
Richiamata dal rumore del chiavistello che ruotava nella serratura, Gwenog staccò la fronte dagli avambracci posati sulle ginocchia e alzò stancamente il capo.
Gli aveva detto quanto desiderava sapere: che Alicia Spinnet era viva e stava bene, e che la sua sortita in Australia, realizzata allo scopo di portare in salvo in genitori di Hermione Granger, era andata a buon fine. Macnair non aveva voluto sapere altro; nelle restanti sessioni di interrogatorio, si era limitato a restarsene immerso nel silenzio più completo.
Che cosa accidenti voleva ancora, da lei?
La pesante porta si aprì e il cuore di Gwen perse un battito.
Perché non era Macnair, quello.
La ragazza strizzò un paio di volte le palpebre e poi scattò in piedi, in allarme, mentre Aidan Avery si introduceva a passo lento nella cella e, con un colpo di bacchetta, si richiudeva l’uscio alle spalle.
“Oh, Tosca Santa”.
Gwen non era abituata a provare paura.
Era sempre stata un tipo impavido e (talvolta inopportunamente) tendente alla spavalderia. In campo non esitava mai, neanche se questo significava affrontare avversari ben più grossi e forti di lei. Il timore, semplicemente, non albergava nel suo cuore; al contrario, era quasi sempre lei che incuteva soggezione agli altri.
Eppure quando, quel giorno, lo vide sollevare gli occhi su di lei e guardarla in quel modo, la battitrice si sentì gelare e desiderò ardentemente di avere con sé la sua fedele mazza. Speranza del tutto vana, ovviamente, altresì infranta dal fatto che Gwen, oltre che priva di mazza, si trovava anche sprovvista di bacchetta.
Avery posò il bicchiere sul tavolino e poi rimase fermo davanti a lei per una lunga manciata di terribili minuti, osservandola con attenzione, gustandosi a fondo la sua espressione incerta e accarezzando con lo sguardo le curve armoniose del suo corpo da atleta. Involontariamente, col cuore che le esplodeva nel petto, Gwen retrocedette piano piano fino ad un angolo della cella, passo dopo passo, finché le sue spalle non s’imbatterono dura consistenza della parete.
Così scarmigliata, la divisa da gioco gialloverde tutta spiegazzata, il respiro affannoso e lo sguardo velato di apprensione, la Jones era davvero un bel vedere, pensò Avery compiaciuto.
- Ora ce la vediamo noi due – le disse quindi, avoce bassissima.
Lei spalancò gli occhi e strinse le labbra.
Avery ridacchiò.
Adorava bearsi dell’espressione terrorizzata delle sue vittime, respirare a pieni polmoni la loro inquietudine; l’aroma della paura, definitivamente, aveva da sempre il potere di eccitarlo oltre misura, soprattutto quando c’era in ballo un insieme di curve piacevoli come quelle. E Gweong Jones, con quella graziosa tutina colore del sole che metteva in risalto dettagli deliziosi della sua superba corporatura, era a dir poco appetitosa.
Le fu addosso in pochi passi, facendo rimbombare le pareti della cella con i tonfi sordi degli stivali neri di pelle di drago.
La raggiunse e le afferrò i gomiti, impedendole di sgusciare via.
- Lasciami!
Il tono di Gwen suonava più rabbioso che impaurito ma lui, che certe cose le fiutava come un segugio attratto da un osso, vi riconobbe ugualmente una punta di timore che gli fece ribollire il sangue. Spingendosi in avanti con violenza la schiacciò quindi fra la parete e il suo petto, comprimendole di scatto la cassa toracica e facendole espellere l’aria, tutta in una volta.
- Stai ferma...
- No!
Gwen lottava come un leone; e Avery, per quanto fosse più grosso e pesante di lei, sudava sette camicie per tenerla a bada. Stretta fra lui e la parete la ragazza si dimenava, tentando in tutti i modi di divincolarsi e finendo, inevitabilmente, per strusciarglisi contro e lasciarlo, alfine, doppiamente infervorato.
Ansimante, divertito ed eccitato da morire Avery alzò una mano e gliela strinse sul collo per costringerla a fermarsi. Colta alla sprovvista Gwenog spinse indietro la testa, serrando gli occhi nel tentativo di regolarizzare il respiro ed evitare di soffocare. All’altezza del ventre, la ragazza percepiva la pressione contundente del corpo di lui laddove questo, all’apice dell’euforia, le si premeva addosso.
Il giovane tirò indietro i capelli con uno scatto della testa e si chinò in avanti, accostando il viso a quello di lei.
- Mi sono sempre domandato – le alitò sulle labbra, avvicinandosi pericolosamente – quanto deve essere appagante sbattersi una battitrice.
Una mano le si insinuò al di sotto della maglietta, tastando avidamente la sua pelle nuda e risalendole lungo il fianco. Completamente fuori di sé per l’orrore, Gwen spalancò gli occhi e agì d’istinto, mossa dalla pura disperazione.
Con un colpo di reni si staccò dal muro, facendo leva con un piede e imprimendo nella spinta tutte le forze che possedeva (e non erano poche); nel frattempo, con uno scarto deciso riuscì a sottrarsi alla morsa che le serrava il collo e a scivolare di lato.
Fu un attimo.
Un attimo dettato da anni e anni di allenamenti volti ad affinare i suoi riflessi di giocatrice di Quidditch. Gwen scattò in avanti e raggiunse con un salto il centro della cella mentre Avery, dietro di lei, imprecava inferocito e si voltava nella sua direzione, pronto a fargliela pagare.
- Adesso ti...
Lei non gli diede il tempo di formulare la frase e raggiunse con un balzo il tavolino sul quale lui, entrando, aveva posato il bicchiere di Veritaserum. Afferratolo (era il primo oggetto che si era trovata fra le mani), glielo scagliò contro con tutto lo slancio che, solitamente, dedicava alla battitura dei Bolidi. Il bicchiere sibilò verso l’assalitore ad una velocità pazzesca; Avery però, altrettanto pronto di riflessi, fu abbastanza lesto da estrarre la bacchetta e ordinare un secco:
- Arresto momentum!
Il calice di vetro frenò la sua corsa e si arrestò a mezz’aria
Non così, tuttavia, il suo contenuto che, al contrario, proseguì lungo la traiettoria impostagli da Gwenog e, raggiunto Avery, gli si schiaffò sulla faccia con la potenza di un’onda anomala e gli si riversò all’interno della bocca ancora aperta. Immediato e improvviso, un delizioso aroma misto di tabacco, cacao delle Antille e salsedine oceanica si spanse nell’aria ma Gwen, troppo impegnata per dare il dovuto peso alla cosa, non ci fece caso.
Colto alla sprovvista dalla bevuta non pianificata, Avery strabuzzò gli occhi e prese a tossire convulsamente, semistrozzato dal liquido che gli si era riversato in gola rischiando di farlo soffocare
- Male... maledetta...
Lei lo guardava sputazzare, dimenarsi come un pazzo e lanciarle occhiate miste di odio e di confusione. Lui andò avanti così per un po’, fra colpi di tosse, ingiurie e bestemmie della peggiore specie finché, di punto in bianco, qualcosa non lo fermò.
Perplessa, Gwen vide distintamente che le pupille gli si dilatavano all’improvviso mentre lui, subitamentee quieto, ammutoliva e la fissava a bocca aperta, trasognato. Risoluta, la ragazza afferrò la ribalta del tavolino e lo sollevò oltre il capo, pronta a spaccarglielo in testa al primo segnale di avvicinamento.
Avery, però, non si muoveva. Continuava a guardarla, inebetito.
Proprio in quel momento, probabilmente attirato dal chiasso, Ares Mulciber fece capolino da uno spiraglio della porta. La scena che gli si parò davanti agli occhi, con Gwenog Jones che reggeva il tavolino in alto sopra la testa e Avery fermo a guardarla imbambolato, gli parve quantomeno bizzarra.
- Per tutte le bacchette di Salazar – abbaiò l’uomo, accigliato. – Che cosa accidenti...
Aidan Avery si voltò verso di lui, un’espressione confusa nelle iridi scure. Aprì e richiuse un paio di volte la bocca, senza però riuscire ad articolare alcun suono comprensibile.
- Stavo... – riuscì finalmente a gracchiare, un tempo che risultò eccezionalmente lungo. – Stavo per uscire, Ares. Sì. Per uscire. Ho... ho finito.
Con una vigorosa scrollata di testa, il ragazzo si avvicinò alla porta, dalla quale Mulciber lo osservava, alquanto insospettito.
- Andiamo. Andiamo pure, Ares.
Prima di chiudersi la porta alle spalle, però, Aidan Avery si rivolse a Gwenog – che ancora lo fissava con le braccia alzate e il tavolino in bilico sopra la testa – e, dopo essersi profuso in una goffa riverenza, si accomiatò da lei con l’eleganza di un marchese.
- Le... le auguro una lieta serata, cara signorina Jones.

But: Woe to the downpressors:
They'll eat the bread of sorrow!
Woe to the downpressors:
They'll eat the bread of sad tomorrow!


 
Post-Scriptum:
Come sempre, in questa eviterò di dilungarmi in dettagli sulla vicenda Spinnet-Macnair per non eccedere in tediosi spiegoni; ulteriori informazioni sono però disponibili in L’Assistente di Pozioni e Le Prodigiose Sorprese in un Armadio Svanitore.
Non posso però esimermi dal commentare che Bastian, in veste di sabotatore del regime, l’ha fatta grossa... e che quindi, nonostante il periodo cupo, ci sarà presto da ridere. Perché no: quel bastardo di Aidan Avery non sarà mai bistrattato a sufficienza.

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Capitolo 10
*** (There's a) Natural Mystic (blowing through the air). ***


10. (There's a) Natural Mystic (blowing through the air).
 
(...) Di tutti i filtri d’amore, l’Amortentia è il più potente e pericoloso, capace di prosciugare gli oceani e di spostare le montagne. La personalità di coloro che l’assumeranno verrà completamente stravolta: i timidi si faranno audaci, gli spavaldi diverranno miti, i coraggiosi proveranno paura e i saggi si trasformeranno in stolidi. Se ne consiglia la fabbricazione da parte di personale altamente qualificato (...).
[Phineas Bourne, De Potentissimis Potionibus.]
 
Stonehenge, Wiltshire, fine settembre 1997
Completamente avvolto dalla bruma che ammantava le campagne, Lee sedeva sul terreno gelato, la schiena china sulla stele coricata al centro del Cerchio Magico di Stonehenge.
Poteva sentirle frusciare intorno a sé, in un incessante rimpiattino di echi e sussurri che riverberavano sugli immensi triliti di pietra macchiata dai licheni. Erano lì, intorno a lui; e poco importava che si trattasse di anime legate a tradizioni completamente estranee al suo passato: gli spiriti dei druidi celtici gli giravano intorno, invitandolo ad agire.
La bisnonna aveva già previsto tutto da tempo, ovviamente.
Quando, lo scorso luglio, lo aveva chiamato a sé per consegnargli solennemente la scatolina di legno contenente i búzios, l’anziana strega gli aveva comunicato che, ben presto, se ne sarebbe dovuto servire.
- Per che cosa li dovrò usare, nonnina? – aveva chiesto lui, tamburellando col dito sul coperchietto intagliato.
- Questo non te lo so dire, figliolo – aveva risposto lei, enigmatica. – Gli spiriti mi hanno solo incaricato di consegnarti i búzios, tutto qui.
- Ma io non li so leggere, i búzios.
La bisnonna lo aveva guardato fisso negli occhi, espirando lentamente una boccata del suo grosso sigaro.
- Al momento giusto li saprai leggere, invece – gli aveva detto, rassicurante. – Gli spiriti ti daranno una mano, vedrai.
“Gli spiriti degli stregoni Yoruba, forse no” pensò Lee un po’ scoraggiato, incerto sul da farsi. Immerso in un contesto così diverso da quello in cui abistualmente si muoveva la bisnonna, il ragazzo si chiedeva se le divinità afrocaraibiche sarebbero state in grado di raggiungerlo senza smarrirsi fra le dense nebbie del sud dell’Inghilterra.
Come a volergli fornire una risposta, un raro raggio di sole fendette la bruma e venne a depositarsi sulla stele sacrificale assopita davanti a lui, facendo brillare i cristalli di quarzo che costellavano la superficie lapidea.
Sotto lo sguardo incantato del ragazzo, la pietra divenne calda; come per magia (e di certo lo era, per Godric), sul pianale segnato dall’incalzare dai millenni cominciarono a disegnarsi eteree linee luminose che presero a fluire, intrecciandosi in un disegno intricato simile ad una spirale tricefala.
Le spalancò di scatto gli occhi, folgorato.
“Triskele”.
Non c’era alcun dubbio: era proprio lei, la triplice spirale tanto cara ai popoli celtici, uguale e identica a quella che Gwenog, da brava strega gallese qual era, portava appesa al collo infilata in una sottile catenella d’argento.
E Lee comprese.
Gli spiriti dei druidi lo avrebbero aiutato. Per una volta sarebbero stati loro, e non gli orishás, a guidarlo nella lettura dei búzios. Gli avrebbero suggerito il giusto cammino; con il loro aiuto, sarebbe riuscito a ritrovarla.
Risoluto, il ragazzo aprì di scatto il coperchio della scatolina ed estrasse il sacchettino di cotone colorato in cui le piccole conchiglie bianche, simili a piccole bocche corrugate, sonnecchiavano tranquille. Allentati i cordoncini, Lee immerse la mano e ne tirò fuori una manciata abbondante.
Poi, senza più esitare, le lanciò sul pianale di pietra.
 
Avey House, Belfast, ottobre 1997
Aidan Avery si posizionò davanti allo specchio e, con occhio critico, esaminò per l’ennesima volta la sua immagine riflessa nel cristallo. La superficie lucida gli restituì l’immagine di un ragazzone alto, impettito e (per quanto gli fu dato di giudicare) elegante come un principe. Con un gesto misurato della mano, il giovanotto si tirò indietro la chioma scura che, fatto inedito, aveva lavato e, fatto ancor più inedito, aveva pettinato con cura. C’era un capello fuori posto, notò con un certo disappunto; Avery si affrettò a sistemarlo e poi, ugualmente meticoloso, passò a revisionare il vestiario.
La famiglia Avery figurava fra le più antiche, importanti e tradizionali dinastie magiche nord-irlandesi; Aidan e suo fratello Eean (la buon’anima) erano nati ricchi, schifosamente ricchi, il che aveva sempre garantito loro privilegi principeschi e pressoché enormi possibilità di dispendio.
Cosicché quando, qualche giorno prima, si era messo in testa di dover assolutamente rivoluzionare l’intero suo guardaroba (basta, basta con tutti quei capi eternamente neri, dal rigido taglio militare: era tempo di rinnovamento!), il ragazzo non aveva esitato e si era buttato a capofitto nelle più roboanti e rinomate sartorie del Mondo Magico londinese, dalle quali era uscito al termine di un pomeriggio intensivo di shopping lasciandosi letteralmente alle spalle l’equivalente di una piccola fortuna.
Manco a dirlo si era tirato dietro Macnair che, da che mondo era mondo, era sempre stato un indiscusso modello di eleganza per la Casa di Salazar tutta; durante la sessione di acquisti, però, costui si era limitato a starsene seduto con noncuranza sui divanetti delle boutiques, sorseggiando Whiskey scozzese e bofonchiando di tanto in tanto qualche rara espressione di disapprovazione quando il gusto discutibile di Avery rischiava di scadere in ridicoli eccessi. Perché c’è poco da fare: la grana, da sola, non è necessariamente sinonimo di classe; e di questa singolarissima (ma assai diffusa, purtroppo, pensava Macnair con rammarico) verità Avery era sempre stato un esempio oltreché lampante.
Alla fine, dopo averlo dissuaso dal comprarsi una vaporosa gorgiera di pizzo che, secondo lui, lo faceva sembrare un tacchino sul tavolo imbandito del Giorno del Ringraziamento, Bastian Macnair aveva spudoratamente abbandonato la nave e se n’era andato, un’espressione vagamente disgustata dipinta sul volto.
Aidan era rimasto per un altro po’, mortalmente combattuto se scegliere il completo di velluto color bacche di ribes o quello di camoscio a rigoni verdi e argento; alla fine, per dare un taglio all’indecisione, li aveva comprati entrambi, aggiungendovi vieppiù uno stupefacente smoking cangiante di pelo di dugongo.
“Arrivederci, Madama McClain” aveva detto alla titolare del negozio al momento di andarsene, facendosi levitare alle spalle una quantità assurda di pacchi e pacchetti accuratamente infiocchettati.
La strega lo aveva a sua volta salutato con il garbo che si riserva a clienti di tale levatura (e di risaputa pericolosità); soddisfatta, aveva fatto due conti giungendo alla gradevolissima conclusione che, col denaro appena guadagnato, avrebbe anche potuto chiudere baracca e burattini e ritirarsi a Mauritius per trascorrervi gli anni che le rimanevano.
Con la coda dell’occhio, si era poi accorta di un fogliettino che giaceva sul pavimento, probabilmente caduto dalla tasca di Aidan Avery nel momento in cui questi si apprestava ad uscire. Madama McClain si era affrettata a raccoglierlo da terra e aveva aperto la bocca per richiamare il cliente.
- Signor Avery, ha...
La sarta s’era interrotta, stupefatta.
Perché mai, mai avrebbe pensato di associare un simile oggetto ad un tipo losco come quello.
Quella fra le sue mani altro non era che una figurina. Una figurina delle Cioccorane.
Dalla superficie di carta patinata, Gwenog Jones le aveva rivolto un’occhiata trionfante.
 
Castel Lestrange, coordinate imprecisate, ottobre 1997
- Una sudicia cella del Ministero non-è-luogo-appropriato per lei.
Aidan Avery era stato irremovibile su questo punto; e tanto aveva detto, tanto aveva fatto e tanto aveva scassato le balle che alla fine, esasperati, Mulciber e Rookwood avevano acconsentito al trasferimento di Gwenog Jones a più confortevoli locali.
Non prima, però, di essersi lamentati a gran voce con Avery Senior il quale tuttavia, dal canto suo, abituato com’era a cedere da sempre ai capricci del nipote, aveva dato loro l’ordine di procedere.
- Se Aidan insiste tanto – aveva dichiarato con un’alzata di spalle – deve avere i suoi motivi.
C’era poco da fare: il vecchio mago adorava quel suo rampollo che, secondo lui, incarnava alla perfezione gli ideali di rigore e tradizione, nonché di assoluta fedeltà al Signore Oscuro, che si confacevano ad una stirpe magica onorata come la loro. Non come quel mollaccione di Eean, disgraziato ragazzo che, non a caso, era prima stato smistato in Tassorosso e poi, crescendo, lo aveva mortalmente deluso distanziandosi dalla Causa, per poi convolare a nozze con quella traditrice del suo sangue di Keira Caroline Greta Montague, che lo aveva definitivamente irretito inducendolo alla diserzione. Alla fine, per fortuna, l’onta alla famiglia era stata lavata col sangue; il fattaccio, però, ancora bruciava e Avery Senior, punto sul vivo, aveva raddoppiato il suo affetto nei confronti di Aidan.
Che era testardo, bello e capriccioso, bizzoso, oscuro e volitivo come si coviene ad un Avery (per Salazar!). E che, quando esigeva qualcosa, andava assolutamente soddisfatto.
“Sì” aveva pensato Mulciber, scuotendo la testa “me li immagino, i buoni motivi”.
Tuttavia, impossibilitati a discutere le disposizioni del Mangiamorte anziano (le gerarchia era una cosa seria), lui e Rookwood si erano visti costretti a cedere e avevano predisposto il trasferimento.
 
E così, man mano che quel buio e gelido autunno procedeva avvicinandosi inesorabilmente all’inverno, Gwen si era ritrovata rinchiusa fra le spesse mura dell’antico maniero dei Lestrange, fra arazzi tarmati, strati di polvere spessi come Ere geologiche e traballanti mobili mortalmente fiaccati dai tarli.
“Non che si siano dati molto da fare” aveva pensato la ragazza non appena arrivata, osservando l’affaccendarsi scomposto degli elfi domestici che servivano la famiglia. Il castello, in effetti, era in uno stato pietoso ma, evidentemente, ai suoi proprietari andava bene così. Proprietari che, peraltro, non si erano mai fatti vivi (e per Gwenog, senz’altro, era stato meglio così), preferendo soggiornare nei ben più confortevoli alloggi messi loro a disposizione presso la residenza dei Malfoy.
A lei era stata assegnata una camera da letto che, se non fosse stato per i decenni d’incuria che le avevano irrimediabilmente conferito un aspetto sudicio e dimesso, sarebbe stata poca cosa definire lussuosa. Per il resto, alla ragazza era permesso spostarsi per il Castello a suo piacimento; disarmata com’era, infatti, non le sarebbe stato possibile fuggire da quelle solide mura schermate da incantesimi potentissimi.
La pendola appesa in corridoio batté le cinque.
Gwenog trasse un profondo sospiro, ormai rassegnata all’inevitabile.
E difatti un secondo dopo, puntuale come un purgante, la testa bruna di Aidan Avery fece capolino dal caminetto di pietra del salottino.
- Buon pomeriggio, Gwenog cara – cinguettò il giovanotto, rivolgendole uno sguardo intriso di puro affetto. Quel pomeriggio, probabilmente intenzionato a fare colpo, Aidan indossava un completo a giacca ricamato d’oro zecchino (“un’autentica cafoneria” l’avrebbe sicuramente definito Macnair, che detestava le esagerazioni) i cui riverberi le ferirono gli occhi.
- Bu...buon pomeriggio – borbottò lei, recalcitrante all’idea di ricalarsi nei panni della fragile donzella, ma imponendosi di farlo. – Come stai oggi, Aidan carissimo? (“Ti spaccherei la teiera in testa, brutto coglione”).
- Decisamente meglio, ora che ti vedo.
- Oh, che caro – commentò lei, un’espressione assassina immediatamente smorzata e un conato di vomito subito represso. - Vieni, siedi qui: ho preparato il tè...
- Sei assolutamente eccezionale, o divina Gwenog – acclamò lui, prendendo posto sul divano di velluto sdrucito.
Rimasero in silenzio per qualche tempo, lui ad osservarla compiaciuto e lei a rigirare furiosamente il cucchiaino nella tazzina.
“Stai calma, Gwen” si diceva la ragazza, imponendosi un forzato autocontrollo (quesito nel quale, a onor del vero, non era mai stata molto brava). “Tieni a mente il messaggio”.
Già, il messaggio.
Un breve scritto sibillino recapitatole da un’enorme e misteriosa cornacchia nera il giorno in cui Mulciber e Rookwood l’avevano condotta a Castel Lestrange.
Stai al gioco, c’era scritto semplicemente, e aspetta il momento buono.
Gwen non sapeva chi diavolo glielo avesse mandato, ma era abbastanza acuta da comprendere che in quelle poche parole risiedeva la sua speranza di salvezza. E così, sforzandosi di mantenere celato il disgusto e la rabbia, aveva visto bene di fare la sua parte.
Ed era stata anche abbastanza brava in Pozioni da aver intuito quasi subito che, alle spalle del brusco mutamento caratteriale di Avery, c’era in ballo un ben noto preparato magico conosciuto come Amortentia. Una pozione che lei, per quanto piuttosto abile nel maneggiare ampolle e alambicchi, non sarebbe mai stata in grado di preparare ma di cui qualcun altro, evidentemente ben più competente in materia di lei, le aveva fatto avere – sempre tramite cornacchia – un discreto quantitativo.
Ricordati di inserirvi un tuo capello c’era scritto sulla bottiglietta di vetro verde e odorosa di cacao, tabacco e salsedine (l’aroma di Lee, che lei aspirava con struggente nostalgia), rammentandole che, in assenza di quell’ultimo ingrediente, la pozione non avrebbe funzionato. Gwen, ligia, eseguiva.
E tutti i pomeriggi, quando quell’imbecille di Avery veniva a farle visita, non esitava a servirgli una bella tazza di té preparatagli con tanto, tanto amor...tentia.
 
Gli effetti collaterali della pozione avevano sovvertito il suo carattere sanguigno, violento ed esplosivo, trasformandolo in un garrulo e romantico galantuomo d’altri tempi. Non in tutti i frangenti, beninteso. Sul lavoro e nelle spedizioni punitive, infatti, Aidan Avery continuava ad sbadilare la proverbiale crudeltà che lo contraddistingueva.
Con Gwenog, però, il giovane Mangiamorte si comportava come un agnellino di prima lana.
Ogni giorno le portava regalini (quasi sempre orridi, ma da centinaia di galeoni ciascuno), fiori, cioccolatini e amenità del genere; e poi le sorrideva gioioso, guardandola trasognato. Chiaramente non si era mai più permesso di sfiorarle neppure un capello, atteggiamento che lei fomentava il più possibile, assumendo un contegno a dir poco virginale.
Le rare volte in cui Aidan, estasiato, si era azzardato a stringerle delicatamente le mani fra le sue e a sospirare per un suo bacio, lei aveva abbassato gli occhi con falso imbarazzo e gli aveva detto:
- Certe cose, le streghe onorate le fanno solo dopo il matrimonio, Aidan caro...
- Oh, oh, ma certo... perdona il mio ardire, te ne prego.
Se ne andava scornato, col cuore in tumulto e la mente attraversata da pensieri poco ortodossi laddove la sua vera personalità tentava disperatamente di affiorare, ed apprestandosi a trascorrere le ore notturne in preda alla smania e al bollore.
La voleva, eccome se la voleva.
Ma non osava toccarla nel timore di contrariarla; oh! l’amava troppo per poter anche solo pensare di riuscirle sgradito!...
Cosicché, febbrile e insoddisfatto, Aidan Avery viveva nell’eterno purgatorio del puro tormento.
Fu quindi inevitabile che, in quel freddo pomeriggio di ottobre, la situazione giungesse alfine al punto del non ritorno. Deciso a risolvere la spinosa situazione una volta per tutte, il giovane si era infine ripromesso di agire, e così fu.
- Gwen cara – le disse allora, dopo aver trascorso una buona mezz’ora  raccimolando il coraggio.
Lei lo guardò perplessa, insospettita nel riconoscerlo roseo e imporporato.
- Che c’è?
- Ascolta...
E sotto lo sguardo esterrefatto della ragazza, ancora seduta sul divano con la tazza del tè stretta fra le mani, il giovanotto si inginocchiò al suo cospetto ed estrasse dalla tasca della giacca una scatolina di raso verde come il più sfolgorante trifoglio d’Irlanda, contenente un anello d’oro spesso come una ciambella e sormontato da un diamante delle dimensioni di un cubetto di ghiaccio extralarge.
- Gwenog Jones – le disse, con un respiro profondo – mi renderesti l’inestimabile onore di diventare mia moglie?
 
Cottage di Oliver detto “Il Covo”, ottobre 1997
Intento a sistemare i dischi che avrebbero costituito la colonna sonora del prossimo programma di Radio Potter, Lee rimuginava senza sosta.
I búzios erano stati chiari: il loro messaggio risaltava sul pianale di pietra senza dare adito a dubbi; eppure, purtroppo, il responso era stato così sibillino da risultare incomprensibile.
Il cigno e il giaguaro dicevano le nivee conchigliette; Lee, nel tentativo di vederci chiaro, le aveva lanciate e rilanciate più volte, ma l’arcano persisteva, impedendogli di rintracciare Gwen.
La voce un po’roca di Katie che lo chiamava dal corridoio lo indusse ad alzare il capo.
- River.
- Sono arrivati?
- Sì.
Il ragazzo si alzò in piedi e seguì l’amica nel piccolo salotto del cottage che, quel giorno, era particolarmente affollato. La rete di dissidenza imbastita da Radio Potter si ampliava ogni giorno di più, inglobando nelle sue maglie altri nuclei della resistenza. E proprio come rappresentanti di uno di questi nuclei alternativi, quel pomeriggio, due personaggi a lui ben noti erano infine approdati al Covo.
Capelli neri lucidi come vinile, occhi allungati e pelle di porcellana.
Capelli altrettanto lucidi, sguardo scanzonato e sorriso di perla.
- Chang, Davies. Come ve la passate, ragazzi?
 
Post-scriptum:
Nella recensione all’ultimo capitolo, Gatty mi ha giustamente chiesto com’è che Bastian sapeva che Gwen non avrebbe bevuto l’Amortentia durante l’interrogatorio di Avery. Beh, non so esattamente come funzioni questo tipo di pozione, ma ipotizzo che, per renderla effettiva, debba esservi aggiunto un pezzettino della persona che diventerà oggetto d’amore da parte di colui che la berrà (tipo la Polisucco, per intederci). Quindi, nel momento in cui ha servito ad Avery il bicchiere da portarsi dietro, Bastian deve averci messo un capello di Gwen precedentemente estratto, o qualcosa di simile... Oltretutto, conoscendo i metodi del suo “amico”, Bastian sapeva che Avery non avrebbe usato il presunto Veritaserum e che, nel caso improbabile in cui Gwen avesse bevuto la pozione, l’effetto sarebbe stato nullo (salvo forse innamorarsi ancora un pochino di più di se stessa, hehehe).

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Capitolo 11
*** Get up, stand up! (Don't give up your fight!) ***


11. Get up, stand up!
(Don't give up your fight!)


Cottage di Oliver Baston detto “Il Covo”, ottobre 1997
- Con questo, intendete dire... – il tono di voce di Lee era basso, poco più di un mormorio vibratile curiosamente simile alle frequenze emesse da un gatto quando fa le fusa; il suo sguardo sottile, tuttavia, tradiva tutta la preoccupazione che, da settimane, pervadeva i pensieri suoi e dei compagni.
- ...esattamente quello che hai capito, amico – gli rispose Roger con fare eloquente.
Il Corvonero si annodò i lucidi capelli castani in una crocchia alta sulla nuca e tornò a sedersi sul divano del Covo, posizionandosi accanto a Cho Chang che, fino a quel momento, oltre ai saluti iniziali non aveva proferito altro verbo.
Katie Bell, che si trovava seduta in terra, accoccolata su un voluminoso cuscino ricoperto da una federa sferruzzata all’uncinetto (sul bordo si intravedeva la scritta “Buon Fidanzamento, Kitty e Ollie! Con amore, Molly”), rivolse alla graziosa ex-Cercatrice avversaria un’occhiata di seria ammirazione.
Essendo dello stesso anno, le due ragazze si erano spesso affrontate sul campo e avevano seguito insieme diverse lezioni. Nel corso degli anni, Katie si era fatta un’idea piuttosto positiva di Cho che, prima di perdere il fidanzato in quel torneo assurdo, era sempre stata una ragazza brillante e vivace. In seguito al fattaccio della Edgecombe, con conseguente delazione dell’ES, però, la buona opinione che nutriva nei suoi confronti era notevolmente calata. Eppure ora, alla luce delle nuove rivelazioni sdoganate da Davies, la Grifondoro dovette riconoscere che il suo metro di giudizio andava rivisto.
- Ti stai comportando in modo molto coraggioso, Chang – disse gentilmente alla ragazza che, dal canto suo, le restituì uno sguardo determinato.
- Glielo devo.
Cho Chang non specificò a chi fossero dovute le sue azioni, ma tutti i presenti compresero senza bisogno di spiegazioni. Cedric Diggory mancava molto a tutti coloro che lo avevano conosciuto, e la sua morte prematura pesava ancora sui cuori di quanti non si rassegnavano dinnanzi alla crudeltà dei fatti.
- Ecco, però... – s’intromise Oliver, chinandosi in avanti per posare le grosse mani sulle spalle esili di Katie, che sedeva ai suoi piedi - se posso dire la mia, Chang, ti raccomanderei di stare attenta. Fare il doppio gioco in Ministero, di questi tempi, mi sembra fin troppo rischioso.
Roger Davies alzò gli occhi al cielo e scosse la testa con fare sarcastico.
- Quante volte credi che gliel’abbia ripetuto, Baston? - l’ex Capitano Corvonero si accostò allo schienale del divano e fece passare il braccio intorno alle spalle della sua giocatrice, abbraccioandola in un gesto protettivo. – Dieci? Cento? Mille? Non è servito a niente, te l’assicuro.
Cho gli afferrò la mano e la strinse con affetto.
- Non corro chissà quali rischi, in realtà – affermò, con voce calma e controllata. – Sono solo una tirocinante; e, come tale, sono praticamente invisibile.
- Non credo proprio.
Fred Weasley si lasciò sfuggire una risatina; fuori luogo, forse, ma assolutamente veridica. E agli altri, che lo guardarono straniti, il ragazzo spiegò, aggrottando la fronte in un’espressione ovvia:
- Son quasi tutti maghi adulti, là dentro; e insomma, definire invisibile una strega graziosa come la Chang mi pare un po’ troppo ottimista.
Roger Davies sbuffò.
- Le ho detto anche questo, infatti. Le ho detto: una chica tán guapa...
Leggermente più intensa di prima, la voce di Lee tornò ad imporsi sul brusio di fondo:
- È pericoloso, certo. I tempi, però, lo richiedono, e sapere che vi sono altri nuclei di Resistenza oltre al nostro mi rincuora – meditò il ragazzo, rigirandosi fra le mani la custodia giallo-rosso-verde di un vinile inciso in terre lontane. – Ma tornando al discorso di prima: che cos’è che hai scoperto esattamente, Chang?
Cho scavallò le gambe e si sporse in avanti.
- Il mio contatto...
- ... che è, fra parentesi, quello sfigato di Stan Picchetto – si premurò di precisare Roger, con noncuranza -  che le sbava dietro, come un molosso al cospetto di una parrilla...
- Piantala, Roger! – lo zittì lei fra i denti. – Dicevo: questo contatto mi ha riferito che, fra una settimana esatta, si celebrerà un matrimonio dell’alta società magica...
- ... e le ha detto (ma si potrà?!): “mi ci accompagni, Chang?”
Cho lo ignorò.
– Insomma: a me ovviamente non importava niente della cosa in sé, però mi sono detta: magari è importante. E infatti...
- ... ma dico: si è guardato al retrovisore di quel suo trabiccolo?!...
- Chiudi il becco, Rog! – sbottò lei, irritata dalle continue interruzioni. – Scusate. Dicevo: e difatti, era importante, perché sentite qua: Aidan Avery, il rampollo preferito di uno dei più prestigiosi pezzi grossi della cerchia di Voi-Sapete-Chi, ha chiesto e ottenuto la mano di...
- Questa è una bomba, chicos – rincarò Roger alzando il dito indice, serio.
Cho gli rivolse un’occhiata assassina e parve lì lì per affatturarlo, ma alla fine decise di completare la frase:
- Ha chiesto e ottnuto la mano di Gwenog Jones.
Un silenzio attonito e costernato calò sulla sala, subito infranto dall’urlo di Lee che, scarmigliato come una palma schiaffeggiata da un tornado, era saltato in piedi come una molla.
- CHE COSA?!
- Calma, amico – George e Angelina gli si affiancarono immediatamente, trattenendolo per le maniche della tunica colorata.
- La sta... non è possibile. – Lee tremava e straparlava; sembrava sconvolto. – Gwen non acconsentirebbe mai... deve averla stregata... maledetto...
- Suvvia, Jordan – s’inserì Roger, rivolgendogli un sorriso rassicurante. – Pensa al lato positivo.
Lee si fermò e lo guardò, perplesso.
- Perché, c’è?
- Certo che c’è – gli rispose il Corvonero. – C’è sempre un lato positivo; e anzi, in questo caso, direi che ce n’è più d’uno. Tanto per cominciare, il fatto che noi fossimo al corrente della sparizione della tua ragazza, cosa che, grazie allo spirito d'osservazione di Cho, ci ha permesso di fare due più due.
- Aham... - commentò Lee, poco convinto. - E poi?
- E poi – continuò Roger, mordicchiandosi il piercing che gli adornava il labbro inferiore – il fatto che...
Stavolta fu Cho ad interromperlo, con un rapido sorriso furbesco:
- ... il fatto che, una volta venuta a sapere chi si sposava, ho deciso di accettare l’invito di Stan. Il che significa che conosciamo esattamente data, luogo e orario della celebrazione.
Lee rimase in silenzio per una manciata di secondi, chiamando a raccolta le idee. Poi, con un colpo di bacchetta, appellò dalla stanzetta attigua una voluminosa lavagna seguita a ruota da una flottiglia di gessetti levitanti.
- Abbiamo un matrimonio della High Class da mandare a monte – commentò soltanto, mentre gli altri gli si stringevano attorno. – Qualche idea?
- Meglio chiamare i rinforzi – suggerì Cho, mentre lei e Roger estraevano le bacchette e, pronunciato all’unisono un Incanto Patronus, liberavano nell’aria i loro animali-guida per inviarli alla Raven House e convocare i loro amici. Stando a quanto dissero, Grant Page, Randy Burrow, Duncan Inglebee e Marietta Edgecombe erano rimasti in trepida attesa di loro disposizioni. – Più siamo e meglio è. E poi, diciamocelo, un po’ di sano intelletto Corvonero non guasta mai.
- Sì, certo, certo... però, Chang – chiese Katie, con grande delicatezza – è proprio il caso di chiamare anche Marietta?...
- È tutto a posto, Katie – sorrise Lee, osservando con il cuore gonfio di speranza l’aggraziato uccello luccicante e il fiero felino argenteo che si precipitavano fuori dalla finestra. – I búzios della mia bisnonna l’avevano previsto. Il cigno e il giaguaro. Ci possiamo fidare ciecamente sia di loro che dei loro amici.
“Finalmente ti ho trovata, Gwen”.
 
Avery House, Belfast, novembre 1997
Non poteva essere vero.
Doveva essere un incubo, o l’effetto di un Confundus particolarmente potente appioppatole a tradimento da qualcuno.
Gewnog si guardò allo specchio, sconsolata; l’enorme superficie riflettente le propinò la sua figura avvolta in un abito di organza sovraccarico di pizzi e trine che la rendeva simile ad una spumiglia colossale, opulenta e cafona come poche cose al mondo. Mai, in vita sua, la celebrata campionessa delle Harpies aveva desiderato prendere marito (con Lee, la semplice convinenza andava più che bene, e tanto bastava); tanto meno, poi, aveva progettato di sposarsi con indosso una simile bruttura e, men che meno, con un uomo che non solo non amava, ma che, altresì, detestava con tutta se stessa.
Eppure, l’ennesima analisi della situazione le rivelò, ancora una volta, di non avere scelta; condizione, questa, che le era stata chiara fin da subito, fin dall’istante che aveva fatto seguito alla sconvolgente proposta di matrimonio rivoltale da Aidan Avery poco più di tre settimane prima.
“Ha pensato a tutto, quell’infame” si disse la ragazza, angosciata. “Ha fatto tutto lui”.
Dall’anello alla location, dalle bomboniere agli inviti, dal celebrante alle decorazioni della festa (“Sfere di cristallo decorative, mia cara! Roba all’ultimo grido!”).
Persino l'(orrendo) abito da sposa.
- Non ti voglio tediare con i preparativi, mia cara – le diceva, quando lei, al puro scopo di prendere tempo, si manifestava intenzionata ad “aiutarlo” nell’organizzazione dei dettagli.
- Oh, ma che dici – pigolava invano lei, resistendo alla tentazione di strangolarlo a mani nude. – Ci terrei moltissimo, invece, a scegliere con te...
- Suvvia, suvvia – tagliava corto lui, zittendola amorevolmente e guardandola con il tipico sguardo di chi già pensa a quel che combinerà a voti scambiati, invitati dispersi e porte finalmente chiuse. – Ci metteremmo troppo, troppo tempo. A volte voi streghe vi perdete via in quisquilie... ah! Gwenog cara: non vedo l’ora di poterti chiamare ‘signora Avery’!...
A Gwen si torcevano le budella per il disgusto, ma faceva buon viso e cattiva sorte.
“Tieni duro, Gwen” si diceva, sforzandosi di essere ottimista “e stai in campana. Una porta aperta, un camino incustodito...”
Di occasioni adatte per tagliare la corda, però, non se n’erano presentate.
E così, non solo le era toccato assistere, del tutto impotente, ai preparativi per il proprio matrimonio, ma al momento stabilito – e cioè quando mancavano tre giorni alle nozze – era stata costretta a trasferirsi da Castel Lestrange alla residenza nordirlandese degli Avery.
Quando l’aveva vista, Avery Senior aveva corrugato la fronte con fare scettico (l’aspetto di Gwen, così esplosiva, abbronzata e traboccante salute, non poteva essere più distante dai canoni estetici della rigorosa tradizione purosangue, fissato su figure femminili esili, arrendevoli ed esangui), ma non aveva fatto commenti.
- Jones, dico bene?
- Precisamente, nonno – aveva annuito Aidan, estatico e orgoglioso.
- Non esattamente una delle Sacre Ventotto – aveva osservato il vecchio, con quell’espressione rammaricata di chi, per il suo discendente più amato, avrebbe desiderato nientemeno che la créme de la créme, ma che si rassegna pur di vederlo felice. – Ma tutto sommato, accettabile. Sangue puro gallese, a quanto sembra. Può andare.
- Ne sono lieto, nonno.
Gwenog aveva saggiamente deciso di tacere, concentrandosi invece sulle figure nerovestite che li attorniavano e che la scrutavano minacciose, probabilmente in attesa di un suo passo falso o di una sua reazione non convenzionale. Fuggire da Avery House sarebbe stato ancor più difficile, lo sapeva. E difatti, le ore succssive erano trascorse velocemente e, alla fine, il giorno stabilito per le nozze era arrivato.
Lo sconforto non era decisamente da lei che, eccezion fatta per il periodo in cui la sua insana relazione con Ludo Bagman l’aveva quasi fatta ammattire, era sempre stata abituata ad affrontare il mondo a testa bassa; eppure in quel momento, al cospetto della sua immagine abbigliata in quel modo che, in altri contesti, avrebbe senz’altro giudicato ridicolo ai limiti del possibile, Gwen si sentì sprofondare nella disperazione.
E non era tanto l’idea delle nozze in sé a turbarla.
A peggiorare le cose, il trasferimento ad Avery House era stato così repentino che la ragazza non era neanche riuscita a recuperare la fornitura di provvidenziale Amortentia, che lei conservava celata sotto le assi del pavimento della sua stanza da letto. Era riuscita a portarne via solo un misero quantitativo, che teneva con sé per eventuali emergenze, nascondendolo in una provetta infilata nella fascia elastica giallo sole che le avvolgeva il busto. Si trattava di poche dosi, purtroppo, l’ultima delle quali Gwen aveva somministrato ad Aidan la sera precedente, prima di accomiatarsi da lui.
- Domani sera, a questa stessa ora, non saremo più costretti a separarci, Gwenog cara – le aveva detto il giovinotto tirandole indietro una ciocca di capelli, mentre i suoi occhi scuri brillavano di malizia nell’accarezzare le sue forme invitanti.
Gwen gli aveva sorriso, ma aveva deglutito a secco.
Avendo già avuto un discreto assaggio di Aidan Avery in assenza di Amortentia, la prospettiva di ritrovarselo davanti in pieno possesso della sua vera personalità l’atterriva. Tanto più che, a peggiorare le cose, tutto indicava che tale circostanza (oh, Tosca, che cosa ho fatto di male in questa vitaccia!?) si sarebbe verificata in concomitanza nintepopodimento che con la sua prima notte di nozze.
 
*
 
- Oh, sì, sono davvero splendidi.
Stan Picchetto sorrise sdilinquito (con quanta invidia l’avevano squadrato i collghi, quando aveva fatto la sua comparsa insieme a lei!), completamente stordito dalla bellezza sfolgorante di Cho Chang che, in piedi accanto a lui, faceva grande sfoggio di sé, infilata in quello strepitoso kimono bluargento che la fasciava come l’involucro di un cioccolatino. Lei gli sorrise di rimando, scrollando con grazia la chioma lucida come ossidiana; al di sotto dell’espressione soave stampata sul suo viso di porcellana, tuttavia, la ragazza era seriamente preoccupata.
Al momento di elaborare il piano di salvataggio di Gwenog, lei e gli altri sovversivi avevano immaginato che Avery House sarebbe stata schermata da incantesimi ad altissima protezione. Per fare fronte a questo inconveniente, i gemelli Weasley erano entrati in contatto con Bill, loro fratello maggiore, che lavorava come Spezzaincantesimi; e lui, in maniera molto efficiente e didattica, aveva spiegato loro come eludere la maggior parte di essi.
Fare irruzione alla festa, quindi, non sarebbe stato un problema.
Il vero inghippo, in realtà, era la quantità pressoché spropositata di invitati potenzialmente oscuri presenti alla cerimonia: così tanti che difficilmente un manipolo di oppositori, sparuto com’era il gruppo misto di Radio Potter + Raven House, sarebbe stato in grado di contrastarli.
“Sarà una cerimonia per pochi intimi” le aveva detto Stan Picchetto, evidentemente per vanagloriarsi con lei del fatto di essere stato invitato. Lei non ci aveva creduto neppure per un istante; ciononostante, la quantità di gente presente a quella specie di Grosso Grasso Matrimonio Irlandese era davvero fuori dal comune. E così, con la scusa di ritoccarsi il trucco, Cho si era chiusa in bagno e aveva mandato un Patronus ad avvertire Roger; ed ora, a celebrazione ormai iniziata, la ragazza sorrideva radiosa a qul gonzo del suo accompagnatore ma, al tempo stesso, lanciava in giro sguardi rapidi e un po'apprensivi, in attesa di un qualsivoglia segnale dell'arrivo dei suoi compari.
 
- Vuoi tu, Gwenog Morgana Jones, unire la tua vita a quella di Aidan Nathan Avery, nei poteri che Salazar e Tosca vi hanno concesso in sorte?
- Ehm...
- Vuoi tu, Aidan Nathan Avery, unire la tua vita a quella di Gwenog Morgana Jones, nei poteri che Merlino e Circe tramandano ai loro discendenti?
- S-sì.
Un lieve irrigidimento, nulla più. Che però a Gwenog, abituata a fiutare le minime vibrazioni presenti nell’aria per intercettare i Bolidi più insidiosi, non sfuggì.
Tesissima, la battitrice si azzardò a ruotare impercettibilmente il capo verso il suo quasi-sposo, che si trovava in piedi accanto a lei, alla sua destra. Il giovane ricambiò il suo sguardo, sbattendo le palpebre con fare vagamente confuso. L’espressione sul suo viso era indefinibile, ma Gwenog notò immediatamente che qualcosa, nel consueto brillìo degli occhi di Avery, stava rapidamente cambiando. All’inizio vi fu appena un piccolo lampo, simile alle scintille che scaturiscono dalle pietre focaie. Subito dopo, però, una rapida presa di coscienza parve propagarsi nelle sue iridi scure, neutralizzando in un battito di ciglia l'espressione trasognata che lo aveva contraddistinto nelle ultime settimane.
“L’Amortentia” gemette Gwenog fra sé e sé. “L’effetto sta passando”.
- Promettete voi di amarvi fedelmente, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di sostenervi magicamente l’un l’altra per tutti i giorni della vostra vita?
Avery bofonchiò qualcosa di incomprensibile.
- Portate le bacchette – ordinò il celebrante in tono solenne, mentre un paggio avanzava recando fra le mani un cuscino di raso verde smeraldo sormontato da un'imponente campana di vetro.
Gwenog sgranò gli occhi, incredula.
Non aveva mai preso parte ad un rito Purosangue Ortodosso e quindi non sapeva che, per sancire a tutti gli effetti i voti nuziali, ci sarebbe stato bisogno della bacchetta. Inattesa e dirompente, la ragazza avvertì la speranza propagarsi con forza dentro di lei, proprio come quando il Cercatore annuncia la cattura del Boccino d'Oro quando ormai la partita si riteneva perduta.
Uno sguardo di sottecchi ad Aidan, però, le annunciò il peggio.
Il viso del giovane era terreo, e i suoi lineamenti avevano cominciato ad indurirsi in un’espressione a dir poco feroce. Il paggio avanzò lungo il tappeto e posizionò la campana di vetro alle spalle del celebrante, troppo distante dal punto in cui si trovava lei. E Gwenog si sentì sprofondare quando si rese conto che, in realtà, i voti sarebbero stati pronunciati al cospetto delle bacchette, e non tenendole in mano.
- I Grandi Druidi del Passato benedicano il consenso che avete manifestato davanti al Ministero e vi ricolmino della loro benedizione. Il Mago non osi separare ciò che la Magia unisce.
Avery si voltò di scatto verso Gwenog, guardandola in cagnesco.
- Ma che cosa accidenti...
- Vi dichiaro Marito e Strega – acclamò il celebrante. – Complimenti!
Le dita del giovane Avery si strinsero intorno al polso di Gwen, che tentò invano di indietreggiare rischiando di incespicare nella gonna di organza e di stramazzare indecorosamente a terra.
- Che cosa diavolo mi hai fatto fare, maledetta sgualdrina...
- Signor Avery! – il celebrante sembrava seriamente scandalizzato. - È questo il modo di rivolgersi alla sua sposa novella?
Gwenog scattò indietro, in preda al panico; poi, immediatamente conscia del fatto che la presa di lui sul suo polso era troppo stretta, optò per mettere in atto una strategia alternativa - e di gran lunga più offensiva. Facendo leva sulle ginocchia si slanciò quindi in avanti a testa bassa, imprimendo in quella folle spinta tutte le sue forze disperate.
- Toglimi le mani di dosso, canaglia! – urlò, all’apice della disperazione e del furore.
Lo schiaffeggiò a piene mani, facendogli quasi saltare via la testa e obbligandolo così a mollarle il polso; e quando, finalmente, si vide libera, la Battitrice tirò su la gonna alla bell'e meglio e corse, corse, corse a perdifiato fino al cuscino sul quale erano adagiate le due bacchette, che il paggio stava facendo levitare via. Quando lo ebbe raggiunto, Gwen afferrò la campana di vetro e la sbattè a terra, fracassandola fra le urla degli invitati, per poi impossessarsi di entrambe le bacchette.
- Lascia subito la mia bacchetta, dannatissima vacca giallonera! – gridava Avery, con le guance gonfie di schiaffi e un occhio chiuso e tumefatto.
- Vai al diavolo! - stridette lei, infervorata.
Servendosi a mo’ di mazza di una tavoletta di legno raccattata a casaccio, Gwen cominciò a scagliare tutt’intorno a sé le ‘sfere di cristallo decorative’ con forza inaudita. Gli invitati si abbassavano urlando e, fra un Protego e un Accipicchia, tentavano  invano di schivarle; nel frattempo, incantesimi e maledizioni avevano cominciato a fioccare qua e là nel marasma generale.
- Cosa ti è saltato in mente – ringhiò Avery Senior all’indirizzo del nipote prediletto – di portarmi in casa quell’indemoniata?! – E poi, ai suoi servitori e accoliti: - Acciuffatela, idioti!
Facile a dirsi, impossibile a farsi.
Gwenog, infatti, era riuscita ad impossessarsi di una scopa da corsa di ultimo modello, lucida di cera d'api, probabilmente appartenente ad uno degli invitati; sistematasi alla bell’e meglio l’ampia gonna bianca e ingombrante le era saltata sopra a cavalcioni e, in men che non si dica, si era dileguata alla velocità della folgore.
Quando, pochi minuti dopo, la Squadra di Salvataggio fece irruzione alla festa, i membri di Radio Potter e di Raven House si trovarono immersi nel pandemonio più selvaggio. Il caos era talmente assoluto che nessuno, a parte un'eccezionalmente spettinata Cho, si accorse della loro presenza; prontamente la ragazza li chiamò a raccolta annunciando la ritirata e, a Lee che, preoccupatissimo, le aveva subito chiesto dove fosse Gwenog, la Corvonero rispose con un costernato:
- Ha fatto tutto da sola, Jordan. Lo vedi questo casino primordiale?! Ha fatto tutto lei!...
La situazione non era affatto rosea, ma a Lee scappò da ridere.
- Ah, la mia girlie. È proprio da lei.
- Non è la tua girlie – sibilò Cho, prima di smaterializzarsi lontano insieme a lui e al resto della cricca. – È la signora Avery, adesso... e lasciatelo dire: è una pazza furiosa!
 
Post-scriptum.
Chi non muore si rivede... ed è proprio il caso di ribadirlo, perché l’ultimo postaggio di questa storia risale a tantissimo (troppo) tempo fa. Non ho mai smesso di pensare a Lee e Gwen, però, e così in questi ultimi giorni, a piccole dosi e ogniqualvolta la vita frenetica me lo ha permesso, ho messo giù un pezzettino di quest’undicesimo capitolo.
Ultimamente ho poco, pochissimo ttempo per scrivere, e ho sempre la long Bestie che sgomita per emergere. Però ecco, in questo periodo un po’ ombroso ho un certo bisogno di scrivere anche di cose non troppo pesanti, e così ho pensato di procedere un pochino su queste righe.

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Capitolo 12
*** Saying’, (this is my message to you-uh-uh). ***


12. Saying’, (this is my message to you-uh-uh).
 
China in avanti, il viso sprovvisto di occhialoni protettivi sferzato dal gelido vento novembrino, le mani serrate intorno al manico della scopa fino a farsi diventare bianche le nocche, Gwenog guadagnava rapidamente quota, allontanandosi a tutta velocità da Avery House, dal ricevimento nuziale ormai in preda al caos e, soprattutto, dal suo novello sposo, il cui solo pensiero la ricolmava di orrore.
Nel volo su scopa Gwen era sempre stata molto abile, ma il modello di cui era riuscita ad appropriarsi non era certo dei migliori: lei era abituata a veleggiare su manici professionistici, generalmente fabbricanti dalla Nimbus o dalla Firebolt (ah! Se avesse avuto con sé la sua adorata Celtic!); quella, invece, era una Silver Arrow vintage dall'aspetto retrò, una sorta di pezzo d'epoca più adatto ai capricci di un collezionista che non alle manovre sul campo. E definitivamente, del tutto inadatta per essere cavalcata da una donzella in fuga, vieppiù infilata in un abito assai poco aerodinamico, con quelle maniche a sbuffo che frenavano la risalita e quell'immensa gonna che qualcuno, da sotto, avrebbe potuto scambiare facilmente per un paracadute.
Le condizioni meteo, oltretutto, non erano quel che si suol dire delle migliori. Laggiù, a terra, il giardino degli Avery era stato incantato con una serie di fatture Riscaldanti e Primaveribili al fine di garantire il buon esito della festa e l'agio degli invitati; ad alta quota, però, il freddo era intenso e, tutt'intorno a Gwen, avevano cominciato a fioccare mulinelli di nevischio sodo e insistente.
Lei, complice il fatto che le basse temperature non l'avevano mai disturbata più di tanto, teneva duro e non smetteva un solo istante di spronare la scopa; tuttavia, dopo un po', il rigore dei venti che, implacabili, le schiaffeggiavano volto, capelli e vestito, si fece insopportabile. Tenacemente aggrappata al manico Gwen tremava da capo a piedi ma, testarda come un muflone, stringeva i denti e continuava, conscia del fatto di non potersi fermare.
Lontano, centinaia di metri sotto di lei, il mare in burrasca spumeggiava senza sosta, producendo boati sordi che la raggiungevano nonostante la distanza e il fischiare ininterrotto del vento: al momento della fuga da Belfast, infatti, Gwen si era diretta ad Est senza pensarci due volte. Imboccando il cammino inverso a quello che l'avrebbe portata nell'entroterra nordirlandese, aveva invece intrapreso la traversata del braccio di mare che separava l'Irlanda dalla Scozia. Era stata una decisione dettata dal puro istinto e, come tale, parecchio avventata; se da una parte, infatti, allontanarsi dai domini degli Avery avrebbe potuto considerarsi sensato, dall'altra, volare in condizioni tanto avverse significava rischiare grosso.
Certo: l'ideale sarebbe stato poter estrarre la bacchetta e tentare una smaterializzazione d’emergenza, che le avrebbe immdiatamente consentito di trovarsi al caldo e all’asciutto. Gwen, però, era sufficientmente esperta da sapere che le condizioni erano troppo critiche e che, in quel momento, non poteva permettersi di compiere passi falsi. Le raffiche di vento erano troppo forti, e il vestito, inzaccherato e reso sdrucciolevole dalla pioggia e dal nevischio, rischiava ad ogni metro di farla scivolare dalla scopa a causa del peso eccessivo.
Doveva resistere, quindi, almeno fino a quando non avrebbe toccato terra. Una volta raggiunta la Scozia avrebbe potuto spostarsi utilizzando la magia; non prima, però.
"Tieni duro, Gwenny" si disse la battitrice, intensificando la presa delle mani intorpidite (erano talmente gelate che non se le sentiva più) sul manico ormai ricoperto di brina biancastra.
 
Lee non ci poteva credere.
Attorniato dagli amici, altrettanto perplessi, il ragazzo camminava incessantemente su e giù per l'esiguo salotto del Covo, in un inquieto viavai di dreadlocks spettinati.
- Sparita nel nulla. Volatilizzata - continuava a ripetere, incapace di rassegnarsi.
- Letteralmente, direi - concordò George mentre Angelina, seduta fra lui e Fred, si rigirava fra le mani la punta di una delle lunghe treccine brune e, pensosa, seguiva con lo sguardo l’andirivieni dell’amico.
- Certo è - osservò in tono vagamente ottimista la ragazza - che non avrebbe potuto tagliare la corda in modo più adatto alle sue capacità. Gwen è un asso delle scope. Se la starà cavando alla grande.
Aussie Spinnet non sembrava dello stesso avviso.
- Nope. È molto brava, certo - ammise, stringendosi nell’immancabile sponcho di lanuginosa pecora australiana che, fin dai tempi del suo primo approdo sulle Terre di Albione, le faceva compagnia nella sua strenua crociata contro i geli del Nord. – Ma concorderete con me: fa troppo freddo per volare nei cieli del Nord con indosso soltanto un abito da sposa, per quanto mastodontico.
- Esagerata - la rimbeccò (per puro principio) Oliver che, quando era stato suo Capitano a Grifondoro, le aveva spesso rimproverato l'indole eccessivamente freddolosa. - Non è che faccia poi così...
- Per te, forse - replicò Alicia, rabbrividendo - che sei una specie di colosso abituato alle nevi e ai ghiacci.
- Ma per piacere - Oliver fece una faccia come a dire "panzane subequatoriali". – E poi, con tutto il rispetto per le preferenze di Jordan, la Jones non è esattamente quel che si suole definire una margheritina di campo. Pensate che una volta, durante una partita contro il Puddlemere....
- ... ha fatto a pezzi Ritter, Ollie caro. Lo sappiamo - lo interruppe svogliatamente Katie, che conosceva a menadito quella storia da tanto gliel’aveva sentita ripetere. - Il che, fra parentesi, ti ha permesso di soffiargli il posto come Portiere titolare. Dico bene?
Oliver si tinse di porpora.
- L'hai mai ringraziata per questo? - rincarò Angelina in tono provocatorio.
I presenti in sala si lasciarono andare ad un chiacchiericcio concitato, scandito da risatine nervose e gesti scattosi, simili a tic.
- Sta di fatto, comunque - decretò all’improvviso Lee, tornando ad imporsi sul brusio generale - che non sappiamo dov'è. E che dobbiamo assolutamente trovarla, prima che a farlo siano altri.
Alicia gli rivolse un’occhiata intrigata.
- Idee a riguardo, Ziggy?
- Non proprio – rispose lui, un po’ scoraggiato. – Ma mi auguro di tutto cuore che, con l’aiuto di Radio Potter, qualche pista salti fuori.
 
Le raffiche di vento spazzavano il cielo, dando vita a mulinelli insidiosi che le schiaffeggiavano impietosamente il viso paonazzo per il freddo.
Una volta resasi conto che dell’inutilità di proseguire nella ricerca, aveva immediatamente tentato di smaterializzarsi; purtroppo per lei, però, la sua stanchezza era tale da non permetterle di raccogliere la concentrazione necessaria per formulare l'incantesimo.
Gwenog si guardò intorno, facendosi scudo con la mano per cercare di scorgere qualcosa oltre il bianco turbinio che le sbarrava il passo, ma la nevicata non accennava a scemare e, anzi, si faceva ad ogni istante più fitta.
- Tosca Santa...
Alla vista della Tana completamente messa a soqquadro la battitrice sospirò, contrariata nel rendersi conto dell'ennesimo insuccesso del suo piano d'azione.
L’idea di recarsi in Galles non le era neanche passata per la testa, perché sospettava che la casa paterna a Pontwelly potesse essere in qualche modo sorvegliata e non voleva mettere a rischio la sua famiglia - anche perché Megan, la più giovane delle Jones, si trovava ad Hogwarts per frequentare l’ultimo anno, e lei temeva eventuali ritorsioni da parte del Nemico sulla sorella più giovane.
E così, una volta approdata in suolo scozzese, Gwen non aveva esitato e si era subito smaterializzata alla volta di Londra per ricongiungersi con Lee, la cui mancanza le bruciava nel petto tanto quanto i cristalli di ghiaccio che ora le scalfivano la pelle del viso. Una volta giunta al loro appartamentino però,per suo enorme sgomento, l'aveva trovato immerso nella confusione più completa, come se fosse stato saccheggiato...
“...o peggio, perquisito” aveva pensato Gwen deglutendo a secco, sconsolata alla vista del disastro: i vasi di fiori ridotti in frantumi, il divano e i puf gialloneri crudelmente sventrati, le vivaci tappezzerie giamaicane lacerate da strappi magici, evidentemente irricucibili...
E nel bel mezzo di tutto quella confusione sconcertante, nessuna traccia di Lee – il che poteva essere un segnale sia positivo che negativo, in effetti.
Nel dubbio, per mantenere la calma, Gwen aveva douto dare fondo a tutto il suo scarso autocontrollo da battitrice sanguigna.
“Ragiona, Gwennie” si era detta, respirando fondo. Se Lee non si trovava a casa, e a meno che non avesse tagliato la corda e se la fosse svignata a Kingston (cosa che lei, conoscendolo, sapeva essere assai improbabile, se non impossibile), c’era soltanto un luogo dove avrebbe potuto trovarsi.
“Il Covo, naturalmente”.
Senza temporeggiare oltre, Gwenog si era spostata ad Amesbury, nelle campagne del Wiltshire dove, a poche decine di metri dal Cerchio Magico di Stonehenge, il cottage di Oliver Baston alloggiava le fila dei dissidenti.
 
L’escursione ad Amesbury, però, si era rivelata un assoluto fiasco.
Gwen lo aveva anche presupposto, che i sistemi di sicurezza di Radio Potter fossero stati intensificati con l’aggravarsi della situazione; quel che proprio non immaginava, tuttavia, era che, una volta materializzatasi sul posto, si sarebbe imbattuta nel vuoto assoluto.
Stonehenge era scomparsa.
- Che cosa sta succedendo? – aveva domandato ad un gruppo di babbani che, appena scesi da un lustro pullman turistico, si guardavano intorno disorientati, gli obiettivi delle macchine fotografiche puntati verso il nulla. Quelli l’avevano guardata con fare perplesso, sorpresi nel trovarsi davanti una giovane donna vestita da sposa con una scopa in mano, spuntata da chissà dove.
- È sparito... – le aveva risposto una donna dall’espressione incredula che, intorno al collo, recava un cartellino con su scritto “Mary Shelby. Guida Accreditata”. – Se l’è inghiottito la nebbia...
Gwen si era guardata intorno.
Effettivamente la nebbia, pur così frequente da quelle parti, quel giorno aveva assunto una densità simile a quella di un bicchiere di orzata. E cercare – la battitrice lo aveva compreso subito – sarebbe stato inutile, perché quella, evidentemente, non era una nebbia normale, ma una foschia eccezionalmente spessa e impenetrabile indotta con la magia. Stonehenge non sarebbe mai saltato fuori, neanche se i turisti babbani avessero battuto le campagne palmo a palmo.
Gwen non aveva perso tempo, neppure per tentare un timido Revelio. Poco oltre la spessa e mutevole coltre di nebbia che circondava lei e i babbani, infatti, aveva avvistato il movimento ondulatorio di un lembo di mantello nero, probabilmente appartenente a qualcuno che, come lei, stava cercando di risalire all’ubicazione del Cerchio Magico e, per associazione, al Covo.
Meglio non dare troppo nell’occhio e tagliare la corda, prima di farsi sorprendere.
Consapevole del fatto che le alternative a disposizione si stavano assottigliando in modo allarmante, ma supportata dalla sua consueta tenacia, Gwen si era quindi recata laddove sperava persone amiche le avrebbero dato asilo, mettendola finalmente sulla buona strada per ricongiungersi con Lee e gli altri e, magari, far pervenire sue notizie ai suoi familiari che, di sicuro, dovevano essere preoccupatissimi.
“A Ottery St. Catchpole!” aveva recitato, prima di smaterializzarsi di nuovo, stavolta alla volta della Tana.
 
La progressiva ripresa di coscienza le rivelò che il suo corpo si trovava adagiato su un letto soffice, coperto da un caldo piumino d’oca che la rinfrancava come un abbraccio.
Gwen sbattè le palpebre, sorpresa, e tirò su leggermente la testa.
La stanza era tiepida, immersa nella penombra; oltre la finestra chiusa e schermata da tende color giallo zafferano, il vento ululava, e le raffiche di neve castigavano i muri che la tenevano protetta. Poco lontano da lei, da una cornice posata sulla superficie lustra di una scrivania di legno di pino chiaro accanto ad un flacone di Ossofast, il volto rassicurante di un bel ragazzo dai lineamenti gentili occhieggiò al suo indirizzo, sorridendole con affetto.
- Per tutti i Boccini...
La battitrice si tirò su a sedere di scatto, osservando stupita le pareti di quella stanzetta sconosciuta e accogliente. Appeso alla parete, proprio sora al letto, uno stendardo di Tassorosso le riempì le pupille, che subito fremettero di emozione nel posarsi su una serie di fotografie posizionate poco sotto. Da una di esse, l’immagine di una se stessa di qualche anno più giovane e attorniata da un gruppetto di ragazzi e ragazze le rivolse una trionfante “V” di vittoria.
- Oh, accipicchia...
Gwen tornò a fissare la cornice appoggiata sulla scrivania, sforzandosi di ricordare come fosse giunta lì. Il giovane della fotografia le sorrise di nuovo, in un lampo giocoso nelle morbide iridi castane. Le stesse che...
L’aveva trovata, la Tana. Peccato, però, che, analogamente a quanto accaduto all’appartamentino suo e di Lee, essa fosse completamente distrutta.
Fiaccata dal tanto cercare, Gwen non aveva saputo dire se per magia o per davvero; aveva bofonchiato un debole Rivela Incanto, tanto per fare un tentativo, ma nulla era successo.
“Ora sì che sono nei guai” si era detta, rassegnata ma tenacemente decisa a non fare ritorno in Galles, per non mettere a repentaglio le vite dei suoi cari.
Non aveva neanche avuto il tempo di chiamare a raccolta le idee che un lampo di luce verde, scaturito da chissà dove, le aveva fatto il pelo. Gwen era saltata indietro, ringraziando mentalmente Tosca per i riflessi pronti che, nonostante il freddo, la fame, lo sfinimento e lo scoramento continuavano ad animarla.
- Ferma dove sei, lurida traditrice del tuo sangue!
Una voce dal timbro sprezzante che lei, suo malgrado, conosceva fin troppo bene, le aveva intimato di arrendersi; cosa che lei, chiaramente, si era ben guardata dal fare. Incapace di affrontare una semplice smaterializzazione (figurarsi un combattimento), Gwen era saltata sulla scopa ed era scappata via, rituffandosi nella tempesta di neve.
Purtroppo per lei, la fuga era durata poco.
La maledizione di Aidan Avery aveva centrato in pieno la coda di saggina della scopa, mandandola a fuoco. La Silver Arrow aveva cominciato a perdere quota, sbandando pericolosamente, finché una raffica di vento più forte delle altre non era finalmente riuscita a disarcionare l’ormai esausta battitrice.
La caduta era stata violenta, il dolore al braccio destro quasi insopportabile laddove l’osso si era rotto nell’impatto con la lapide di marmo di quel piccolo cimitero di campagna; Gwen si era impedita di gridare, per non rivelare la sua posizione, ma sapeva che Avery e i suoi scagnozzi si trovavano lì vicino e che, presto o tardi, l’avrebbero trovata.
E mentre se ne stava lì cercando stoicamente di non svenire, in quel limbo oscillante fra veglia e incoscienza, a stringersi il braccio rotto fra le dita ormai insensibili della mano sinistra, una figura indistinta, che compariva e scompariva fra i fiocchi di neve impazziti, si era chinata su di lei riempiendola di meraviglia.
“Andiamo, Gwenog” le aveva detto il giovane dall’evanscente sciarpa giallonera. “Seguimi, prima che arrivino”.
Gwen era esausta, malridotta e sconcertata. Ciononostante, si era tirata su a fatica e lo aveva seguito senza fare commenti, né chiedere spiegazioni per quel fatto insipegabile.
“Mai arrendersi” aveva soggiunto il ragazzo con un sorriso incoraggiante, mentre lei arrancava nella neve alta per non perderlo di vista. “Prima regola, sul campo e nella vita. Me lo hai insegnato tu, Capitana”.
- C-cedric...
Gwen distese di scatto il braccio per afferrare la cornice dalla quale lui la guardava, continuando a sorridere. Il movimento, eccessivo per il suo braccio rotto all’interno del quale l’Ossofast, durante la notte, aveva cominciato a fare il suo lavoro, le strappò un urlo di dolore. La porta della stanza in cui si trovava si aprì immediatamente, mentre la voce di una donna dal viso stanco, subito accorsa, riecheggiava nel silenzio della casa:
- Amos! Si è svegliata!...
 
Nonostante l’inestinguibile senso di perdita che vi aleggiava, la casa dei Diggory era calda e accogliente.
Grata e rinfrancata, Gwenog vi si trattenne per qualche giorno in attesa di recuperare le forze; nel frattempo, il signor Amos stava cercando di mettersi in contatto con mamma Jones – che lui e la moglie, essendo stati entrambi suoi compagni di Casa a Tassorosso, conoscevano molto bene.
- Sintonizzarsi con i nuclei della Resistenza e con coloro che hanno protetto le loro abitazioni tramite Fidelius è molto difficile, ultimamente, ma sono sicura che Amos, grazie ai suoi contatti, ce la farà – le diceva la signora Diggory, fra una fasciatura e l’altra. – Purtroppo neppure i Patroni sono molto sicuri, di questi tempi: ci è giunta voce di un paio di intercettazioni finite male...
- Vorrei solo fare sapere loro che sto bene... – mormorava lei, stringendo fra le dita una pallina magica che l’aiutava a ritrovare i movimenti.
- Ti stanno cercando tutti, mia cara – sorrideva tristemente la donna. – Quel tuo fidanzato, per esempio: non fa terminare un solo programma di Radio Potter senza prima aver fatto un appello per ritrovarti...
Gwen distoglieva lo sguardo, leggermente imporporata, il cuore gonfio di nostalgia di Lee e della sua allegria contagiosa- il più prezioso dei balsami, per il corpo e per la mente.
Col passare dei giorni, almeno, il braccio migliorava.
- Purtroppo non siamo Medimaghi – si schermiva il signor Diggory, desolato per non poter fare di più.
- Non vi ringrazierò mai abbastanza, invece – rispondeva Gwenog, grata.
I coniugi Diggoy non mancavano di rivolgerle quei loro sorrisi un po’ tristi e, con gli occhi lucidi, le rispondevano.
- Dovere, Gwen cara. Hai fatto così tanto per lui...
Lei si sentiva invadere il petto da un dolore profondo, pur sapendo che mai avrebbe attinto i picchi che affliggevano loro.
- Gli volevo bene. Impossibile non volergliene.
Per discrezione, aveva evitato di raccontare loro dell’apparizione che l’aveva guidata fuori dal cimitero di Ottery St. Catchpole per poi portarla al sicuro. Non voleva creare false speranze, né rimestare nel torbido, né comportarsi in modo inopportuno. Eppure, ogni tanto, aveva l’impressione che i Diggory, qualcosa, avessero intuito, soprattutto dopo che, una volta, la mamma di Cedric l’aveva sorpresa in un fitto dialogo a senso unico con il ritratto del figlio.
 
E fu proprio grazie al ritratto di Cedric che, quella sera di fine novembre, Gwen ebbe finalmente modo di ritrovare i suoi cari.
Si era da poco ritirata in camera sua, dopo essersi intrattenuta per un po’ in salotto, dopo cena, in compagnia dei signori Diggory. Prima di avere il tempo di infilarsi a letto e spegnere il lume, però, si era accorta che il ritratto del giovane Cercatore si era messo a fissare con insistenza la radiolina appoggiata sulla scrivania. Guardava Gwnog, le faceva cenno con la testa, e poi guardava di nuovo la radiolina.
- Vuoi che l’accenda? – aveva domandato infine lei.
La fotografia di Cedric assentì con la testa.
- Okay, Ceds...
Gwen non si pentì affatto di averlo accontentato.
L’inconfondibile giro di basso di uno dei brani reggae più amati da Lee si spanse nella stanza, congelandola sui due piedi; subito dopo una voce (la sua! La sua, Tosca benedettissima!) le rimbombò nella testa e nel cuore, riempiendola di speranza e di gioia:
- Buonasera a tutti, streghe e maghi del Mondo Magico Libero; River e gli altri membri di Radio Potter rivolgono un caloroso "bentrovati" a tutti coloro che hanno rintracciato le nostre onde radio avvalendosi della parola d’ordine Algabranchia. Prima di cominciare, la password per la prossima trasmissione, che ci verrà fornita dalla nostra nuova collaboratrice, esperta in magicriptografia.
Una voce femminile giovane, dal marcato accento gallese, pervase l’etere. Quando la udì Gwen fece un saltello, come se uno spillone le si fosse materializzato dietro alle chiappe.
"Megan?! Che cosa accidenti ci fa quella scriteriata fuori da Hogwarts?..."
- Buonasera, River, e grazie per l’invito. Dunque: per ascoltarci su queste stesse frequenze fra sette giorni esatti, salvo inconvenienti, il nuovo codice segreto è: Nimbus1980.
Gwen aggrottò la fronte, sedette sul bordo del letto e proseguì nell’ascolto.
- Molto bene, Enigma - continuò Lee - e grazie a te per la partecipazione a questa trasmissione e, soprattutto, per averci aiutati a perfezionare i nostri sistemi di sicurezza, che saranno il principale tema trattato oggi.
 
(...)
 
- ...quindi, ricapitolando: servendovi della Tabella Aritmantica Elementare e avvalendovi di calcoli che, come vedete, sono facilmente realizzabili...
Non proprio, nanerottola” bofonchiò Gwenog, suotendo la testa. “Solo per te, forse...”
- ... potrete potenziare i vostri Fidelius in termini mensurabili e di gran lunga più sicuri.
- Davvero impressionante – disse Lee, ammirato. - Un brindisi alla cara professoressa Vector, che spero ci stia ascoltando: non avrei mai pensato che l’Aritmanzia potesse offrire applicazioni così utili e diverse.
- Cin-cin – intonò Megan. - E... ecco, ci sarebbe dell’altro...
- Ah sì?
- Sì. Se invece dell’Incanto Patronus tradizionale pronunciate la formula Ex√Pecto!πatronuS2, il vostro animale parlerà in un codice comprensibile soltanto all orecchie del legittimo destinatario. Provare per credere!
Seguì un breve silenzio allibito, cui Gwen, che aveva sempre detestato l’Aritmanzia, non potè fare a meno di associarsi.
- Oh. Fa- fantastico. Grazie mille per le dritte, Enigma – disse Lee,
- Di nulla.
- Molto bene. Ed ora, prima di chiudere, il consueto appello: Gwen, se...
Il cuore di Gwen si riempì di tenerezza. Era tutto vero, quindi. La signora Diggory era stata sincera, quando le aveva detto che Lee non aveva mai smesso di cercarla. Tutta la sua accorata emozione, però, venne immediatamente spazzata via dall’intervento repentino di Megan:
- Ehm, River....
Lee si interruppe.
- Vuoi aggiungere qualcosa?...
Si udì uno sbuffo malcelato.
- Assolutamente sì, River. Quello che voglio dire è questo: Gwen, se vengo a sapere che ci stai ascoltando e che, ciononostante, non ti fai viva, la prossima volta che ti vedo ti prendo a mazzate, hai capito!?...
La costernazione dello speaker dovette essere fin troppa, perché dalla bocca di Lee non fuoriuscì il minimo commento. Megan, però, non aveva ancora finito.
- Siamo tutti preoccupati da morire per te, va bene? – sbraitò la più piccola delle Jones, con voce incrinata dall’apprensione. - Fatti viva, Gwen; e vedi di non fare la stronza, per una volta!
 
Gwen sbattè le palpebre, riscuotendosi dallo sconcerto di sentirsi minacciata in pubblico.
“Sei un genio, nanerottola” pensò soltanto, prima di afferrare la bacchetta e brandirla con decisione.
Le ci vollero un paio di tentativi, dovuti alla complessità della formula, ma alla fine l’incantesimo le riuscì.
Il falco pellegrino argentato diede un paio di rapidi giro intorno alla stanza, per poi dileguarsi attraverso il muro perimetrale della stanza.
Gwen spostò lo sguardo al ritratto di Cedric, che le strizzò l’occhio di rimando mentre il Patronus criptato partiva alla ricerca di Lee.

 
Post-scriptum:
Il rapporto di odio/amore fra le sorelle Jones (Megan e Gwen, nella fattispecie, perché con Hestia vanno d’accordo tutte e due), così come la caratterizzazione di Megan – coetanea di Harry, ottima Battitrice come la sorella nonché abilissima in Artimanzia – mi sono stati gentilmente concessi da Ems, cui va tutta la mia gratitudine (grazie anche per avermi indicato il suo nome in codice).
Sono molto contenta che vi sia ancora qualcuno a seguire le avventure di Lee e Gwen, che da tanto tempo dormicchiavano nel mio PC fra le righe di bozze confuse e che con un po’ di fatica, in questi giorni, finalmente, sto riuscendo a ritirare fuori.
Spero davvero di riuscire presto a donare loro la giusta conclusione.

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