Ophelia - il cacciatore di streghe

di namelessjuls
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 ***
Capitolo 2: *** 02 ***
Capitolo 3: *** 03 ***



Capitolo 1
*** 01 ***


Lo riconobbi, ed era lontano: ovunque andassi, lui era al mio fianco.
«Chi sei?» Gli domandai.
Lui mi guardò a lungo. Mi squadrò, mi cercò, mi scelse.
Alla fine, mi diede le spalle.
«Non ancora.»

Essex, 1654.

Stava per nevicare in quel quieto giorno di settembre.
Fra le foglie più base dell'acero solitario, spiavo le nuvole grigie muoversi sulla mia testa. Lo sentivo nell'aria, nella fredda erba che accarezzava le mie vesti lasciando orme umide: col tempo, certe sensazioni impari a riconoscerle solo nel tempo, nel modo in cui il sole sorge. Sfiorai una foglia arrossata sopra il mio volto, e subito questa si sbriciolò sul palmo della mia mano.
Così fragile per essere una vittima senza colpe.
Diciassette anni di vita passati a Salem mi avevano insegnato poche cose: mansioni da donna, come sopravvivere in un campo di grano e allevare i porci. Talenti utili da sempre, con una piccola eccezione in quel secolo: la gente aveva iniziato ad uccidersi.
«Ophelia!»
Una grande mano gelida piombò su di me, mozzandomi il respiro per pochi istanti. Per prima cosa, riconobbi un ammasso di capelli neri - poi, un volto serio e privo di affetto. Un altro dei suoi servi.
«Ti abbiamo cercato ovunque, sciagurata.» Il signor Brown mi trascinava con forza tenendomi per il braccio. Nemmeno mi guardava, figurarsi ascoltare le mie lamentele o le mie suppliche. Credevo di essere abbastanza lontana. «Adam è così in pena. Povero uomo: proprio con una canaglia simile doveva essere imparentato!»
Sentendo il nome di mio fratello, il sangue mi ribollì nelle vene. Me n'ero andata quella mattina, lasciando scritto che sarei tornata solo il giorno dopo: ovviamente, ero stata costretta ad invitarmi una scusa, ma lui non mi aveva creduta. Ero braccata dai suoi uomini, quasi non fossi altro che un animale da macellare. La sua preda prediletta.
«Signor Brown, la prego! Stavo solo raccogliendo delle erbe: mi lasci andare.» Il fattore non mi ascoltò.
Passammo la cinta muraria della città e salutò le guardie - queste, mi videro ma tacquero, rispettando la solita omertà tipica di Salem. Tutti vedevano, ma nessuno parlava.
«Signor Brown!»
Provai ancora a divincolarmi, ma, questa volta, il fattore mi strattonò con forza, facendomi quasi cadere. In quel momento, l'orologio per poco mi sfuggì dalla tasca: lo tenni stretto, cercandovi del coraggio.
«Ragazzina, cerca di stare zitta. Tuo fratello mi ha ordinato di riportati a casa e questo è il mio compito. Puoi urlare quanto vuoi, ma non servirà a nulla.»
Lo fissai con rabbia, quasi sperando di poterlo bruciare con un solo sguardo. Ero così furiosa che mi pareva di essere fuoco. «Sai bene cosa mi farà se mi riporti a casa.»
Nessuna traccia di pentimento dipinse il suo volto. Per l'appunto, scrollò le spalle, riacciuffandomi con prepotenza. «Io sono solo un fattore.»
Spezzata in due, mi feci trainare dall'uomo attraverso il centro del paese. Lui camminava serrato, ma sul volto notai la sua attenzione verso il traffico di cittadini in movimento. La folla si stava diluendo lasciando l'alto patibolo ben visibile ad occhio nudo: un singolo palo, piantato al centro della piazza, e circondato da legna secca e carbone.
Era una donna, un'altra.
Le vesti le erano state strappate e giacevano a terra, lontane dai carboni. Glieli avevano tolti per sfizio, per toglierle l'ultima vaga e triste traccia di onore. Spogliata della sua libertà, della sua anima di essere umano, e, infine, del suo corpo. Pochi sanno quanto può essere difficile descrivere i segni nascosti in un corpo morto, e ancor meno quelli di un corpo morto bruciato. Non restava nulla, nemmeno il sangue, ma una vaga traccia di una sagoma che non sa nulla di umano. Quel giorno, restavano le catene in ferro che l'avevano costretta alle fiamme, e un vago profilo di carne e ossa che culminavano in un viso sfigurato. I capelli, che ormai rassomigliavano a fieno, parevano appiccicati malamente al capo consumato. Era tutto nero, tutto cenere. E parlavamo di neve se pur tutti, in fondo, sapessimo che cosa fosse per davvero.
L'anima di una strega.
«La vedi quella?» Chiese il fattore. «Quella è la fine delle donne pazze che scappano. Un giorno, tuo fratello si stancherà di proteggerti e tutti vedranno chi sei davvero: una maladonna.»
Dicendo questo, si voltò verso di me, mal guardando le lunghe ciocche di capelli rossi sgusciare dal mio mantello. «Brucerai.»
Non osai parlare, rassegnata da quelle parole, nemmeno così nuove alle mie orecchie.
Gli uomini mi incolpavano - ci incolpavano - delle follie in cui erano certi li costringessero. Il mondo andava a rotoli, e la colpa non era che delle donne: loro, incantatrici e viziose, così piene di veleno da far perdere il senno ad un uomo con un solo bacio. In quel secolo, ci eravamo scoperte streghe. Ed io, con i miei lunghi capelli rossi, ero una sudicia macchia nel pudore del paese. Le vedevo - le persone - seguire il mio passaggio con chiacchiere e commenti languidi. Si dicevano tristi per la morte dei miei genitori ma nessuno mi aveva stretto la mano al funerale, e si preoccupavano per mio fratello - ormai l'uomo di casa - che era rimasto solo a domare la furia della sorella. Come al solito, tutti vedevamo ciò che gli faceva più comodo.
«Signor Rooney! Signor Rooney, siamo tornati!» Il fattore mi spinse dentro il giardino della mia abitazione. Feci appena in tempo a sentire il cancello chiudersi, che la porta si aprì.
«Ophelia.» Adam era lì, vestito dei suoi eleganti abiti da povero arricchito. Portava i capelli neri pettinati sulla fronte, ed i suoi occhi cerulei sbucavano appena sotto le ciglia folte. Mi bastò vederlo per sentire tutto il mio corpo raggelarsi. Ero come una foglia secca fra le sue dita.
«Grazie, signor Brown,» disse, avvicinandosi a me e prendendomi per il polso. Mi conficcò le dita nella carne, facendomi dolere, ma restai zitta. «Vi prego di tornare al vostro lavoro: questa sera, vi farò trovare il vostro compenso.»
Il signor Brown ringraziò con un gesto del cappello e ci lasciò soli. In un attimo, tutto cambiò, compreso il volto di Adam.
«Muoviti.» Prima mi trascinò, poi mi spinse dentro casa nostra, facendomi cadere a terra mentre chiudeva la porta alle sue spalle. Eravamo soli, di nuovo. Stava per nevicare. «Un'altra volta, Ophelia! Sei scappata un'altra volta! È la terza questo mese.»
Urlava, quasi paonazzo, e il suo viso peggiorava ad ogni parola. Diventava più brutto, più lontano, come se non fosse altro che uno sconosciuto. Di quel bambino con cui avevo condiviso una vita, rimaneva solo l'ombra peggiore.
«Ero nel bosco, cercavo delle erbe,» tentai di scusarmi.
«Erbe?» Canzonò il ragazzo, sarcastico. Mi afferrò per il braccio, costringendomi ad alzarmi, e mi sbatté contro il muro. Il sangue mi salì alla bocca, ma non ebbi il tempo di sputare, che le mani di Adam mi strinsero la gola, mozzandomi il respiro.
«Con chi eri? Chi è lui? Hai trovato un altra amante, stupida ragazzina.» Lo schiaffo arrivò gelido e silenzioso. «Dimmi il suo nome!»
Cauta, mi massaggiai la guancia stanca. Credevo che, col tempo, mi sarei abituata a tutto quello, ma non era mai stato così: le botte facevano ancora male. Non smettevano mai.
«Non c'è nessuno, Adam. Non c'è nessun altro.»
Occhi diversi ricambiavano il mio sguardo. Adam non era mai stato solo un fratello: sin da piccoli, dalla mia nascita, lui non aveva mai smesso di preoccuparsi per me. Mi seguiva, mi controllava, mi stringeva a sé. Per un tempo, aveva tentato di contenersi: i nostri genitori erano in vita e, di norma, ogni figlia apparteneva di diritto al padre. Lui decideva il suo presente e il suo futuro, compresa tutta la strada nel mezzo. Poi, erano morti, ed io ero passata di diritto ad Adam. Sapermi sua - sapermi legalmente sua - aveva fatto scattare qualcosa nella sua mente. Ero sempre stata una sorella, ma non ero mai stata sua, corpo e anima. Iniziò a fare cose che non aveva mai fatto, e ne aveva tutto il potere. La sua mano strinse il mio mento, alzandolo verso il suo. La sua pelle era calda, comprese le sue labbra. Sfiorò le mie, beandosi del sapore del mio profumo.
«Ophelia,» sussurrò. Non riuscivo a guardarlo, perciò fissavo il soffitto mentre sentivo le sue dita slegarmi il laccio del mantello. «Voglio che tu sappia che la colpa di tutto questo è solo tua. Sei così...disgustosa.»
Baciò il mio collo e strinse il mio fianco, spiando le curve sotto le mie vesti. «Dillo. Dillo che sei tu a volere tutto questo. Lo so che mi hai stregato, ma non dirò nulla se tu sarai gentile. Sarai gentile, non è vero?»
I suoi occhi mi tagliavano come lame, ma io non avevo parole. Restavo assente, non riuscendo a capire come fossimo arrivati a tal punto. Come, dal nulla, fossimo giunti a quella frenesia.
Porti sfortuna, Ophelia?
«Chi è?»
Adam si allontanò velocemente da me, sistemandosi gli abiti alla rinfusa. Io restai immobile, osservandolo avvicinarsi alla porta e uscire velocemente. Un altro dei suoi soliti ospiti. Mi sfilai con pesantezza il mantello, appendendolo al chiodo. Una manica mi era scesa lungo le spalla, lasciandola scoperta, e subito mi mossi per sistemarla. Come se nulla fosse, corsi in cucina, iniziando a preparare il pranzo. Tutto normale, dovevo convincermi che fosse tutto normale. Cominciai a piangere in silenzio, raggomitolata sulle stoviglie e un piatto di carne. Ero sconfitta, totalmente arresa: per quanto ci provassi, non sarei mai scappata da quella casa. Il mio nome mi perseguitava, Adam lo faceva e il mio stesso essere femmina. Il signor Brown aveva ragione: mi avrebbero uccisa.
«Oh, maledizione.» Sobbalzai, presa di sprovvista, quando notai di non essere più sola. Alle mie spalle, regalmente seduto sullo stipite della porta, un gigantesco cane nero mi osservava con i suoi occhi rossi. Corrugai la fronte e mi asciugai le guance, confusa. Non avevo mai avuto un cane: Adam li detestava e, ogni qual volta avessi tentato di salvare qualche vagabondo, mi aveva impedito di tenerlo con me. Me li strappava a forza e, davanti ai miei stessi occhi, li fucilava senza ritegno. Ogni volta, toccava a me ripulire il sangue.
«E tu chi dovresti essere?» Domandai, tirando un breve sorriso. Questo scomparve presto, notando l'insolita freddezza dell'animale. Se ne stava lì, stretto nella sua grandezza, e non si muoveva, continuando a fissarmi. Occhi rossi? Non avevo mai visto un cane con gli occhi rossi, né uno che mi guardasse come se volesse giudicarmi. Iniziai ad innervosirmi.
«Ophelia.» Sentendo il comando di Adam, mi diedi da fare ad ascoltarlo. Presi i lembi del mio abito, attraversai con cura la stanza, passando con cautela vicino all'animale. Ero certa che mi avrebbe morsa o, comunque, avrebbe fatto qualcosa, ma, invece, si limitò a fissarmi. Poi, mi seguì, restando un passo dietro a me.
«Adam?» Mio fratello era seduto al tavolo, ben piegato su un foglio di pergamena che leggeva fitto. Poco lontano da lui, un giovane uomo restava in piedi vicino al camino. Non credevo di averlo mai visto prima, ma il suo volto non mi piacque: tirato, severo, visibilmente nobile. Quando si accorse di me, alzò un sopracciglio biondo, mal vedendomi.
«È quindi questa la ragazza, mio signore?»
«Non credo di conoscervi,» ammisi, non capendo. Il cane, intanto, si era accomodato al fianco del giovane, condividendo il gelo. Insieme, facevano davvero paura.
«Ophelia,» mi zittì malamente Adam. Poi, rivolse uno sguardo torvo all'uomo, stringendo i denti.
«Voglio presentarti Uriah Donovan, il nostro nuovo moderatore.»
«Preferisco cacciatore di streghe,» intimò lui, altezzoso: «a quanto mi pare di vedere, Salem necessita della mia presenza.»
Ripensai al cadavere appeso al palo. Erano fini come quella che ogni donna temeva, ormai. Potevi essere inquisito per qualsiasi cosa, anche per aver cambiato abito. Ma Salem non aveva mai avuto un cacciatore di streghe, questo no.
«Io sono Ophelia.» Finsi un inchino, ma non abbassai lo sguardo. Uriah lo notò subito, ma tacque.
«Quindi siete voi la ragazza,» constatò tiepidamente: «ahimé, la fortuna è un dono di pochi.» Guardai Adam, cercando risposte che non riuscii ad avere. Cosa voleva quel uomo? Perché sapeva il mio nome?
«Non credo di capire, mio signore.»
«Vi assicuro che anche io vorrei non capire,» commentò con fatica il nobile. Malamente, sfilò la pergamena dalle mani di Adam. «Però, a quanto dice questo documento, voi siete mia moglie.»

Angolo
Buongiorno a tuti!
E' da tanto che non pubblico su efp e, ahimé, ho anche dimenticato come si imposta la pagina, quindi perdonate se non vado a capo ad ogni punto haha
Detto ciò, parliamo della storia: è una storia a carattere storico incentrata su una storia romantica e con temi fantasy - un pà un mischio, insomma :)
Detto ciò, saranno presenti diversi temi delicati, soprattutto riguardanti la situazione femminile :)
Spero che vi sia piaciuto il capitolo e di sapere cosa ne pensate, mi farebbe davvero piacere!!
A presto,
Giulia

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Capitolo 2
*** 02 ***


 

 

Sposarsi ai tempi della caccia alle streghe o, semplicemente, l'ennesima tortura all'animo femminile.

Le donne non avevano potere, né possessi - e come potevano? Sin dalla nascita, loro stesse appartenevano al padre e ogni loro decisione doveva essere approvata dallo stesso, compreso credo religioso, amicizie e, soprattutto, marito, a cui sarebbero state donate in seguito.

Eravamo corpi vuoti, involucri di carne che respiravano, parlavano, sorridevano ma, in realtà, sotto la pelle, non c'era altro che la mente di un uomo. Ci credevano troppo fragili, troppo esposte ai peccati della vita visto il nostro animo sentimentale: eravamo noi a tradire, noi a mal sopportare i problemi della vita. 

Credevano che togliendoci la nostra mente, noi non avremo mai sbagliato - eccoci, il modello di donna perfetta, controllata dall'ennesimo uomo.

E, nel caso questo non bastasse, potevano sempre denunciarci per stregoneria.

 

«Ophelia non si sposerà.»

 

Adam si era tirato in piedi e, come una muraglia, si era frapposto fra me e lo straniero, quasi a proteggerci. Guardai al suo volto, notando la piega corrugata della sua fronte e la vena del suo collo pulsare in tensione.

 

Uriah ci squadrò con una calma disarmante, e, con la stessa monotonia, porse di nuovo il foglio ad Adam. «Questa non è la firma di vostro padre?»

 

«Ho visto la firma,» lo zittì Adam, nervoso: «ma le cose non cambiano: nostro padre è morto ed ora la sua custodia è mia. Io non mi ricordo di voi e nemmeno di questo...patto. Quindi, mia sorella non si sposerà.»

 

Mio fratello sembrava pronto ad esplodere. Sapevo quanto Adam fosse poco incline al controllo e, ad ogni parola simil canzonatoria di Uriah, temevo che lo avrebbe ucciso. 

Lui non avrebbe mai permesso che mi portassero via, ci teneva troppo - era una salvezza e un'ossessione.

 

Un'ossessione potenzialmente mortale.

 

«Questo è un vero peccato,» commentò Uriah, con un sospiro pesante. Piegò con cautela la pergamena, infilandosela nel taschino. Quando risollevò lo sguardo, notai che mi spiò per un breve attimo.

 

Mi nascosi dietro le spalle di Adam, intimorita dalla sua attenzione. Cosa voleva da me? Perché a un uomo come lui - un lord - premeva di sposare una contadina arricchita? Secondo le leggi del buon vivere, tutto ciò non aveva senso.

 

«Credo che dovreste andare, ora,» accennò Adam: «i miei uomini mi attendono nelle campagne.»

 

«Campagne?» Chiese Uriah, accennando ad un sorriso viscido. «Possedete dei territori, quindi.»

 

«Posseggo dei territori,» confermò Adam, circospetto. «Perché lo volete sapere?»

 

L'uomo sospiro, perdendo tempo nell'osservare l'ora sul suo orologio a tasca. Inevitabilmente, era d'oro e carico di diamanti.

Senza rendermene conto, iniziai a rigirarmi nella tasca il mio vecchio orologio, sentendo il meccanismo ticchettare contro il palmo della mia mano.

 

Smisi sentendo il cane nero grugnire alle mie spalle. Lo guardai furtiva, nervosa, e lui mi stava ancora fissando.

 

«Sto cercando una soluzione, mio signore. Come voi stesso avete detto, io sono un moderatore, e il mio compito non è altro che mantenere la pace a Salem. Ma come farlo?» Uriah sorrise brevemente. Poi, ogni senso di leggerezza scomparì dal suo viso, lasciando il gelo. «Dando ad ognuno ciò che si merita.»

 

Il cane iniziò ad ululare di tutto fiato. Spaventata, quasi balzai dietro la schiena di Adam, ma, un ulteriore caos ci distrasse: letteralmente oltre le mura delle nostra casa, urla forsennate iniziarono a levarsi insieme all'indistinguibile suono di fucili e pistole messe in moto.

 

«Stanno sparando!» Urlai, sconvolta. Adam corse alla porta, pronto a correre in aiuto dei suoi uomini - a me bastò osservare dalla finestra. Degli uomini in divisa sera rincorrevano i nostri contadini, braccandoli a terra o sparando loro alle gambe, così da impedirgli di scappare.

Era una caccia all'uomo.

 

«Si può sapere che cosa state facendo?» Tuonò Adam, affacciandosi dalla porta. Dalla rabbia, il suo viso era diventato rosso e gonfio. Trattenni il respiro quando lo vidi estrarre il suo coltellino dalla cinta, ma anche quella sua breve spinta di coraggio si annullò quando il cane nero si alzò dal suo trono, parandosi a difesa del suo padrone con le zanne bianche in bella vista.

 

«Adam,» sussurrai, tremante, ma mio fratello non mi ascoltò. Guardava Uriah - lo voleva sfidare - eppure la sua mano vacillava.

 

«Quell sono i miei uomini, signore,» esclamò, duro.

 

«Lo so,» concordò Uriah, calmo come un cielo sereno. «E so che voi siete un uomo d'affari, per questo capirete il mio risentimento. Io sono venuto qui, quest'oggi, credendo di ottenere una moglie, ma voi mi private di questo mio diritto, quindi - suppongo - che mi spetti qualcosa in cambio.»

 

«Un cambio?» Ripeté Adam, paonazzo. «Tutti i miei averi?»

 

Uriah scosse le spalle. «Cerco di essere equo.»

 

«Voi non potete farlo! È contro la legge!» 

Adam puntò con più vigore il coltello verso il collo di Uriah che, comunque, non si sbilanciò.

 

E fu palese il suo sorriso divertito, languido e crudele, quando calò la sua sentenza. «Sono io la legge.»

 

Mio fratello sprofondò nella sua stessa perdita, ed io con lui. Stavo sudando freddo e ormai il cinturino del mio orologio si stava consumando contro le mie dita.

Quella non era stata altro che una trappola ben pensata: in ogni caso, noi avremo perso.

Solo, non capivo perché.

 

«Tenetevi pure vostra sorella, mio signore.» Uriah posò la mano sul capo del suo cane, calmando i suoi lamenti all'istante. «Io mi accontenterò della terra.»

 

Uriah si sistemò i capelli dalla fronte, piegando brevemente il capo. «Buona giornata.»

 

«Aspettate!» Adam gli bloccò l'uscita, ponendosi con forza davanti a lui. 

 

Uriah si finse sorpreso. «Sì?»

 

Lanciai uno sguardo a mio fratello, cercando di capire le sue intenzioni. Era tremante, con il suo solito sguardo da pazzo a spezzargli il volto. Ormai, aveva abbandonato il suo coltello al fianco, così come il mio sguardo.

 

«Prendete lei.»

 

Sgranai gli occhi, sconvolta. In un solo momento, ogni mia più chiara convinzione era stata demolita. 

Adam mi stava ripudiando. Lui, che avrebbe dato tutto per sapermi sua per sempre.

Lo avevo desiderato tanto - sentirmi libera da lui - eppure, non mi sentivo felice.

 

«Adam?» Chiamai fra i gemiti. Volevo il suo sguardo, volevo il suo pentimento, ma ciò non avvenne mai: mio fratello restò con lo sguardo basso e distante, sforzandosi di non piangere.

Del grande carnefice, era rimasto il vile traditore.

 

«Se questa è la vostra decisione,» sentenziò Uriah, come se nulla fosse. Si sporse verso la porta, richiamando un soldato posto a vedetta. «Io parto ora, devo andare in municipio. Voi aiutate i contadini feriti e lasciate che la signorina prepari i suoi bagagli. Se dovesse succederle qualcosa durante il viaggio, ti riterrò il diretto responsabile.»

 

Il soldato chinò il capo con rispetto. «Sarà fatto, mio signore.»

 

Uriah prese un respiro, voltandosi verso il suo cane, che subito andò al suo fianco, servizievole. Uriah se ne andò senza nemmeno guardarmi, come se non fossi altro che un oggetto appena conquistato. Aveva vinto la sua battaglia, ora toccava agli altri sistemare le cose.

 

Mi disgustò in modo stomachevole, ma mai quanto Adam, ancora perso nel dolore della sua scelta. Mi rivolsi a lui, avvicinandomi e contemplandolo con tutto il mio malessere.

 

«Guardami,» ordinai, ferrea, ma lui non mi ascoltò. Strinsi i denti, non sopportando una tale codardia.

Per anni, lui mi aveva spezzata e rovinata, lasciandomi a marcire nella sua ombra. Era stato tutto vano. «Tu non sei mio fratello.»

 

Adam singhiozzò, pentito, ma ormai era troppo tardi. Lo lasciai andare, rivolgendomi alla guardia che, sulla divisa, portava lo stemma del mio compratore - un corvo nero dagli occhi dorati. 

 

E d'oro sarebbe stata la mia nuova prigione.

 

Angolo


Continuo ad avere problemi con la stesura del testo, scusate :(
Comunque, ecco il secondo capitolo!
Uriah ha "vinto" il possesso di Ophelia, ma perché tanta premura? Cosa vorrà mai da lei? Un'intetesse strano..

Cosa ne pensate della storia? Vi piace?

Spero me lo facciate sapere!

 

Ora scappo

A presto,

Giulia

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Capitolo 3
*** 03 ***


Il soldato mi seguì ogni istante.

Fermo sulla mia porta, assecondò le mie mosse mentre preparavo i miei bagagli con minuzia, bloccandomi solo al suono delle urla provenienti dall'esterno.

Dentro di me, c'era la voglia di urlare. Era vero: avrei afferrato lo stupido bavero della guardia servizievole e l'avrei sbattuto con forza al muro. Lo avrei ucciso, lo avrei fatto sanguinare: forse così, la testa avrebbe smesso di girare.

 

Ma non feci nulla.

Finii le valigie e le lasciai alle altre guardie, che le trasportarono per me, sempre al mio seguito. Adam non c'era - non che mi aspettassi un chissà qualche manifestazione - e finsi che andasse tutto bene.

 

Ormai stava calando la sera e i cittadini erano già rinchiusi nelle loro abitazioni per la cena: restavamo noi col nostro corteo in nero, silenzioso come morti in viaggio verso l'inferno.

Attraversando la piazza, notai di nuovo il palo dell'esecuzione: questa volta, era stato ripulito e liberato, pronto alla prossima esecuzione.

Questa volta, sarebbe stata indetta da mio marito.

Il solo pensiero mi fece rabbrividire. 

Stavo finendo nella bocca della balena, stavo sprofondando verso il fuoco.

 

«L'entrata è qui, signorina.»

 

Il soldato mi mostrò la porta d'entrata della caserma - una ben curata abitazione appena fuori alla cinta interna, nascosta fra gli alberi del giardino boschivo. Solitamente, li abitava il comandate del piccolo esercito della città - un uomo basso e vecchio, ormai vicino alla morte: mi chiesi dove fosse finito.

 

«Non entrate?» Domandai, notando le guardie lasciare le mie casse sull'uscio di ingresso. Mi zittii quando un paio di servitrici corsero da noi, portandole via.

 

«Dovreste entrare.»

 

Strinsi le labbra, ormai consumate dai morsi, e guardai davanti nell'antro buio. La paura mi risucchio come un bacio notturno e, così, mi lasciai andare.

 

«Il signor Donovan è nel suo studio, signorina,» informò la cameriera che chiuse le porte alle mie spalle. Teneva una candela in mano, così da farmi strada: era anziana e le sue mani consumate dal lavoro, eppure manteneva quel barlume di bellezza di una gioventù lontana. Mi fece pena. «Vi accompagno nelle vostre stanze.»

 

Quella fu una piccola nota positiva. Uriah non voleva incontrarmi - non ancora, almeno - e questo mi donava un ultimo e breve momento di felicità. Per una notte ancora, potevo fingere che tutto andasse bene.

 

«Credevamo arrivaste prima, signorina,» commentò la donna, accompagnandomi al piano di sopra. «Il signore ci ha chiesto di preparare il pollo.»

 

«Detesto la carne,» sussurrai, ancora tremolante. La donna non commentò, se pur mi dedicò un breve sorriso.

 

«Questa porta dà ai vostri appartamenti,» mi informò ancora, dandomi accesso ad un corridoio laterale: «sulla destra, la camera da letto e una piccola libreria mentre sulla sinistra il bagno ed una piccola sala per il tè.»

 

La cameriera mi portò direttamente verso la camera da letto, prendendo ad accendere le candele in tutto l'ambiente. Illuminò un luogo freddo e spento, ben lontano dall'essere considerato abitato di recente: un letto ampio con lenzuola bianche, l'angolo per le acconciature e l'armadio, un piccolo leggio.

Provai ad aprire le finestre che davano sul balcone, ma non ci riuscii.

 

«Chiamerò qualcuno per sistemarla.»

 

La donna mi sorrise, così mi voltai verso di lei. «Come vi chiamate?»

 

«Dora, mia signora, Dora Wilson. Sarò la vostra collaboratrice personale durante la vostra permanenza.»

 

Trattenni un sorriso amaro. «Ne parlate come se fosse una vacanza.»

 

«Sono sommersa da positività,» commentò lei, cauta: «di questi tempi, è tutto ciò che ci resta.»

 

Dora aveva ragione, per quanto mi fosse difficile prenderla in parola. Fino a poche ore prima, mi ritenevo una vittima del mio stesso sangue, ed ora stavo per sposarmi con un cacciatore di streghe. Di male in peggio.

 

«Com'è lui?»

 

Davanti a quella richiesta, Dora prese a ridacchiare come se fossi una bambina scoperte con le mani nel vaso di biscotti. Mi sentii quasi in imbarazzo.

 

«Oh, credo che sia più saggio lasciarvi prendere le vostre decisioni.» Riprese la sua candela, avvicinandosi a me. «Vi serve aiuto per cambiarvi?»

 

Scossi il volto, cauta. «So fare da sola.»

 

Lei ne sembrò impressionata: si avvicinò a me, guardandomi con tenerezza, e dandomi una veloce carezza sulla mano. «Cara ragazza, davvero una cara ragazza.»

 

Continuò a ripetere quelle parole mentre usciva dalla camera, lasciandomi sola alla fioca luce delle candele. Mi sedetti sul bordo del letto, tastandone la dura comodità.

Poi, semplicemente, mi portai le mani al volto ed iniziai a piangere - un pianto soffocato e silenzioso, fin troppo carico di incomprensioni e pensieri funesti.

Cosa ci facevo in quella casa? Perché Uriah ci teneva tanto ad una povera schiava? Lenzuola, libri, ricchezze: quelle non erano cose che un uomo del suo rango avrebbe donato ad una giovane del mio.

Il suo desiderio non aveva senso, né giustificazioni: voleva un matrimonio, ma aveva scelto la ragazza sbagliata.

Presi dalla tasca il vecchio orologio dal cinturino di cuoio, lucidandolo per l'ennesima volta contro un lembo del mio vestito. Funzionava ancora, nonostante tutte le volte in cui Adam aveva cercato di distruggerlo: sapeva che era un dono di nostro padre, eppure non riusciva a tollerare la vista.

Voltai il quadrante, leggendo le poche lettere incise sul metallo spesso.

 

Nihil difficile amanti.

 

Sollevai lo sguardo, catturata da uno scricchiolio lontano. Nascosi subito l'orologio e mi rialzai, avvicinandomi all'alta porta di vetro, cercando di scorgere qualcosa fra le fessure scoperte.

La porta era ancora bloccata e non riuscii a vedere nulla, se non uno stralcio di bosco oltre il parapetto. 

Tornai a letto ancora carica di nervosismo, e mi infilai sotto le lenzuola senza nemmeno svestirmi. Serrai gli occhi con forza, sin quasi a farli dolore, e mi imposi di non riaprirli più.

 

-

 

Fu Dora a svegliarmi, il mattino dopo, e subito mi costrinse ad un'interminabile successione di torture: mi spazzolò, mi lavò, mi vestì e mi acconciò i capelli.

Passate le ore, mi sentivo già pronta per ritornare a letto - per fortuna, però, tutta quella confusione mi distrasse dal pensare.

Sapevo che non sarei potuta scappare per sempre e che quel momento era finalmente giunto: stavo per incontrare Uriah.

 

«Il padrone sta finendo un colloquio, ma sono certa che non gli arrecherà disturbo la vostra compagnia,» mi informò la donna, scortandomi per i corridoi della villa.

Ora, illuminata dai raggi del sole, questa sembrava prendere nuova vita: le pareti erano tappezzate da tinte accesse e calde, così come il mobilio rigorosamente in legno.

Era elegante ed accogliente, al contrario del suo proprietario.

 

«Un colloquio?»

 

Dora tirò un breve sorriso, fermandosi davanti ad una porta chiusa. «Quando avete finito, non stentate a chiamarmi.»

 

Fu lei a bussare per me, scappando subito dopo, così da evitare un possibile rimprovero. 

Sbuffai, innervosita, ed entrai non appena sentito il pesante invito dall'interno: distratta dall'inganno della cameriera, capii troppo tardi cosa avevo davanti, bloccandomi.

 

«Buongiorno, Ophelia,» salutò Uriah, poggiato con stanchezza sulla scrivania in legno. Sotto di questa, il cane nero riposava attento. «Hai passato una notte rilassante?»

 

Scioccata, non riuscii a trovare la parole per rispondere. Non ci riuscivo, era più forte di me: i miei occhi non lasciarono per un istante la donna legata e imbavagliata al centro della stanza, già ferita e ricoperta di sangue.

 

Sembrava svenuta, per questo non si rese conto della mia presenza. Giaceva con il capo molle, e le braccia le erano cadute dai braccioli della sedia.

Qualcuno le aveva mozzato le dita di una mano. 

 

«Sembrate sorpresa,» commentò Uriah, con un sorrisetto incantato. «Mai vista una strega?»

 

Angolo

 

Nuovo capitolo!

 

Ophelia è giunta nel regno di Uriah, ed ora, inevitabilmente, le cose giungeranno ad una svolta.

 

Vedremo se ci scapperà il morto😂

 

Detto ciò, la trama vi sta piacendo? Fatemelo sapere, mi farebbe molto piacere!

 

A presto,

Giulia

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