A Fever You Can't Sweat Out

di LionConway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Ragazzi Sono Tornati ***
Capitolo 2: *** Vogliono Starti Vicino ***
Capitolo 3: *** Uccidere Un Usignolo ***
Capitolo 4: *** Con la testa tra le nuvole ***



Capitolo 1
*** I Ragazzi Sono Tornati ***


 
A FEVER YOU CAN'T SWEAT OUT 
 
 


I. 
I Ragazzi Sono Tornati 

 

Guess who just got back today
Them wild-eyed boys that had been away
Haven't changed that much to say
But man, I still think them cats are crazy 

( Thin Lizzy - The Boys are Back in Town ) 



 

Il lungo sbadiglio di Michael al di sopra della propria tazza di cereali non passò inosservato al signor Vronsky. Figurarsi. Era una volpe, quell'uomo, più che mai quando si trattava di esternare osservazioni nei confronti del figlio diciottenne.

«È inutile che fai tanto lo zombie quando sei arrivato a casa alle quattro del mattino.»

Da che pulpito, poi, dall'uomo che beveva birra scadente già dalle sette e trenta. Ma questo Michael non lo disse. Si limitò a giocherellare un po' con i cornflakes nella tazza, prima di sollevarne una manciata col cucchiaio e buttarseli in bocca. Saggia decisione, riempirsela di cereali piuttosto che di merda come il suo vecchio. La verità era che lui era più simile a Piotr Vronsky di quanto gli piacesse ammettere, ma era da quell'estate che si era reso conto che sfidare l'autorità patriarcale non aveva più il sapore agrodolce di un tempo, quando mamma interveniva ad ammansire le loro stupide liti. Adesso, quando discutevano, nessuno dei due era in grado di placare l'altro. Avrebbero potuto continuare per giorni, senza sosta, e il tutto sarebbe sfociato in qualcosa di drammatico, di asfissiante. Sì, era così che si era fatta l'aria nel loro stupido caravan, ormai: opprimente, soffocante, perciò Michael si premurava di passare il meno tempo possibile in casa, bazzicando per Clairton con quegli sbandati dei suoi amici e limitando le interazioni con suo padre. Così facendo, limitava anche i danni.

Piotr, evidentemente, comprese l'antifona perché evitò di infierire oltre.

A volte Michael si domandava se suo padre si comportasse da stronzo perché si sentiva triste. Doveva pur essere così, ma non si azzardava a chiederglielo perché sapeva perfettamente che il vecchio avrebbe tagliato di netto il discorso o, nel peggiore dei casi, sbottato malamente in preda ai fumi dell'alcol.

Non lo aveva mai visto piangere. Da piccolo, lo aveva sentito urlare nel cuore della notte, in preda alle allucinazioni e ai ricordi del Vietnam. Aveva prestato servizio per due anni, congedato in seguito a una pesante ferita al femore che lo aveva lasciato un po' zoppo, eppure non si era mai sognato di parlare delle mostruosità a cui aveva assistito in guerra.

Faceva l'operaio nell'acciaieria di Clairton. Gli piaceva andare a caccia sulle colline che circondavano la piana di Allegheny. Il sabato sera, non disdegnava una bevuta al bar dei Pushkov, dov'era solita riunirsi la comunità russa della cittadina; più di una volta, Michael si era adoperato a portarlo a casa sulle proprie spalle, completamente sbronzo. Un allenamento fisico che gli aveva irrobustito il corpo, avvicinando il suo aspetto a quello dell'età segnata sul proprio documento falso. Quell'estate, aveva pensato pure di farsi crescere la barba. Gli stava bene, rossastra e curata e, soprattutto, utile a nascondere i brufoli che ancora si annidavano sul suo mento.

Michael finì i cereali in fretta e in silenzio.

«Posso prendere la macchina?» domandò, senza guardare in faccia suo padre, mentre sciacquava la ciotola nel lavandino.

Come previsto, Piotr grugnì alle sue spalle. «L'hai già presa ieri sera» gli fece presente. «La benzina costa.»

Michael sospirò. La ciotola era limpida, ma lui si ostinò a passare le dita bagnate lungo la superficie di ceramica, strofinandola come se dovesse eliminarne il colore. «Lo so» disse, «dirò ai miei amici di tirare fuori qualcosa. È il nostro ultimo primo giorno e poi loro non hanno l'auto e pensavamo...»

«Va bene, va bene» tagliò corto Piotr. «Comunque, potresti fare così più spesso. Chiedere, anziché sgattaiolare fuori e rubare le chiavi di nascosto.»

Le labbra del ragazzo si arricciarono lievemente all'insù. «Se te l'avessi chiesta, avresti detto di sì?»

«No, se avessi saputo che saresti uscito a far baldoria fino all'alba.»

«Papà, era l'ultimo giorno di vacanza. Erano tutti in giro.»

Neanche lui e i suoi amici avessero fatto chissà cosa. Si erano ingozzati di hot-dog, avevano ascoltato musica, commentato il culo di qualche ragazza. Più che altro, avevano fatto tardi per stare dietro alle menate di Steven sulla sua Angela. Era seriamente convinto che il Senior sarebbe stato l'anno in cui lei avrebbe finalmente ceduto a uscire con lui.

«Devo andare.» fece Michael, lanciando un'occhiata all'orologio appeso al muro.

Si asciugò le mani in uno strofinaccio e corse in camera sua a prendere lo zaino con i libri.

Fuori, grossi nuvoloni cavalcavano il cielo, minacciando un'imminente pioggia, e il vento sferzava le chiome rossastre degli alberi. Michael amava l'autunno, a parte il ripetitivo inizio della scuola. Non era esattamente uno studente modello, anzi: negli anni precedenti aveva fallito in più materie, così da ritrovarsi con un appuntamento dalla consulente scolastica a ridosso del suo ultimo anno. Doveva fare in modo di recuperarle tutte, se voleva evitarsi i corsi estivi –quelli dei perdenti totali, mentre i compagni celebravano il diploma con tuniche e cappelli dal dubbio gusto. Aver fatto comunella con una banda di fattoni scalmanati non lo aveva certo aiutato a conquistarsi le simpatie dell'elite della Clairton High, composta dalla squadra di football e dalle cheerleader. Entrambi traguardi che Steven Pushkov, il suo migliore amico, seduto sul sedile del passeggero a rollarsi una canna, annunciò di voler risolutamente conquistare in quel trimestre.

«È il nostro ultimo anno» osservò, accendendo l'estremità della sigaretta di canapa. «Dovremmo cercare di godercelo al meglio, anziché tenerci la scritta SFIGATI sull'annuario scolastico.»

L'abitacolo dell'auto si riempì ben presto dell'odore di marijuana. Michael tirò giù il finestrino per farlo uscire: ci mancava solo che suo padre scoprisse che ci fumavano l'erba! Era un gioiellino di macchina, una Cadillac coupé Serie 62 del '59 che Piotr aveva finito di pagare nei primi anni Settanta. Si curava più di quell'auto che del figlio e, ogni tanto, Michael si domandava perché non abitassero lì piuttosto che in quel fottuto caravan. Sarebbe stato più dignitoso. Avrebbe potuto valere una fortuna ma Piotr non l'avrebbe venduta nemmeno se lo avessero minacciato di morte. Piuttosto, aveva pagato il funerale di mamma con la propria assicurazione sulla vita.

«Oh, Mike, ci sei?»

«Parli come se l'unico motivo per cui ti interessa alzare la tua posizione sociale a scuola non fosse che vuoi entrare nelle mutande di Angela.»

«Forse» ghignò Steven, allungandogli la canna. «Ma devo ammettere che mi sono anche rotto le palle di essere sempre schifato da tutti. In ogni caso, sei tu quello che si accontenta dello status quo. Ma non mi pare ti abbia portato a sbirciare sotto le gonne delle cheerleader. Con il loro consenso, intendo.»

Michael diede un tiro allo spinello e si strinse nelle spalle. «Non è che muoio dalla voglia di uscire con le cheerleader con la puzza sotto il naso.»

«A proposito, quando farai la tua mossa con Linda?»

«Oh, Signore, ancora questa storia?»

Michael discese la collina a tutta velocità, fermandosi al primo semaforo. «Quante volte devo dirtelo? Siamo solo amici!»

«Ma dai, Mike, vi piacete un sacco, si vede.»

Il verde scattò e Michael pigiò sull'acceleratore, forse un po' troppo rabbiosamente. Tutte cazzate. Linda era la sua migliore amica, erano praticamente cresciuti insieme quando erano ancora vicini di casa, ma non si era mai sognato di vederla in un altro modo. Il solo pensiero lo faceva scoppiare a ridere. Era assolutamente ridicolo.

«E da cosa si vedrebbe?»

Steven portò le mani dietro la testa, incrociando le dita sulla nuca. «Ma che ne so» disse, «dai vostri sguardi, dalla vostra complicità...»

«Grazie tante. Ci conosciamo da quando siamo bambini, ci mancherebbe solo non essere complici.»

Michael scosse la testa e svoltò a destra, senza mettere la freccia. L'automobile dietro di lui suonò giustamente il clacson.

Con la coda dell'occhio, vide Steven sporgersi in avanti e osservare qualcosa oltre il parabrezza. «No dai!» rise. «Guarda chi c'è! È tornato il frocio!»

Sapeva perfettamente a chi il suo amico si riferiva: Arthur Kirkland, un ragazzo con un paio d'anni più di loro. Era da un po' di tempo che non lo si vedeva a Clairton, l'ultima notizia che Michael aveva avuto su di lui era che fosse impegnato con gli studi di Giurisprudenza a Baltimora.

«Ma dove?» chiese Michael, con nonchalance, come se non l'avesse appena visto maneggiare una gomma dell'auto parcheggiata nel suo vialetto d'accesso. Aveva i capelli più lunghi dell'ultima volta che lo aveva visto e indossava una t-shirt bianca troppo leggera per il clima autunnale della Pennsylvania.

Steven ghignò: «Sarà tornato per l'Homecoming. Facciamogli uno scherzo!»

«Ah, dai, piantala!»

Michael accelerò prima che all'amico venisse in mente qualche strana idea, tipo lanciare ad Arthur i rimasugli delle lattine di birra che si erano scolati la sera precedente. Lanciando uno sguardo fugace allo specchietto retrovisore, si assicurò che il ragazzo non li seguisse od osservasse in maniera sospetta. «Parli tanto di dare uno svolta alla tua vita ma mi pare che intendi restare lo stronzo di sempre. Arthur non ci ha mai fatto niente e noi l'abbiamo tormentato per un anno intero, con quel pettegolezzo.»

Diceria che non era nemmeno stata provata: era stato quel coglione di Stanley a metterla in giro. Aveva il chiodo fisso dei froci, lui, ce li aveva in bocca pure ogni volta che Michael sosteneva che ragazza X non fosse poi quel gran bocconcino che tutti i suoi amici sostenevano. Quelle, però, erano burle rimaste sempre tra di loro. Il pettegolezzo su Arthur, invece, si era misteriosamente diffuso per tutta Clairton a macchia d'olio, quando lui aveva appena finito il liceo. Aveva scelto di prendersi un anno sabbatico per lavorare e pagarsi il college e loro glielo avevano praticamente rovinato: nessuno aveva voluto assumerlo e, una volta, un gruppo di ragazzini si era divertito a imbrattare la fiancata della sua macchina con insulti scritti con bombolette spray. Michael si sentiva un verme per tutta quella storia.

«Io non ho niente contro di lui» disse Steven, finendo la canna e lanciandone i rimasugli fuori dal finestrino, «basta che se ne resti anni luce dal mio culo.»

«Non ti preoccupare. Se fosse, credo che comunque ad Arthur piacerebbero i bei ragazzi.»

Michael ghignò quando Steven trasalì. «Mi stai dicendo che non sono un bel ragazzo?»
 

 

§§§ 



 

«Ding! Il servizio taxi Vronsky termina qui la sua corsa! Vi ringraziamo per aver scelto la nostra compagnia!»

Michael passò in rassegna i volti di tutti i suoi fidati passeggeri: Steven, accanto a lui, e gli altri due della combriccola sul sedile posteriore. Axel teneva quasi tutto l'abitacolo, facendo sembrare Stanley spiaccicato contro il finestrino. «Cacciate cinque dollari ciascuno, grazie!»

I ragazzi presero a lagnarsi, ma Michael fu irremovibile sulla questione. «Ho promesso a mio padre che vi avrei spremuti. O questo o in bicicletta, la prossima volta.»

«Magari si sollevano in volo e arriviamo prima» disse Stanley, colpendo il palmo aperto di Michael con una banconota da cinque.

«Sì, mettiamo te nella cesta, però» ribatté Axel. «Sei quello che più somiglia a E.T., tra noi.»

«Ah, vaffanculo!»

Risero, mentre scendevano dall'autovettura.

Michael lanciò un'occhiata intorno a sé, mentre si muovevano lungo il parcheggio della scuola, alla ricerca di Linda, ma nessuna delle chiome bionde che passarono sotto il proprio sguardo appartenevano all'amica. Si sistemò meglio lo zaino sulla spalla e annunciò agli amici di dover andare.

Axel inarcò un sopracciglio. «Manca ancora mezz'ora prima delle lezioni!»

«Lo so. Ho un appuntamento con la consulente scolastica.»

«Oh» mormorò Stanley, «per cosa?»

A Michael non piacquero gli sguardi carichi di apprensione dipinti sui volti degli amici. Sapeva perfettamente a cosa stessero pensando e si affrettò ad alzare le mani. «Sto bene, razza di fichettine!» esclamò. «Non è per mia madre! Devo discutere del programma di recupero delle materie.» 

I ragazzi rilassarono le spalle, apparentemente sollevati. Michael non sapeva mai come prendere l'atteggiamento che i suoi amici adottavano non appena si affrontava l'argomento della morte di sua madre. Ovviamente, era stato loro grato quando gli erano rimasti vicini nel lutto, cercando di distrarlo e fare in modo che potesse trascorrere un'estate decente, così come quando capivano che non era giornata e aveva bisogno di starsene da solo con i suoi pensieri, chiuso in camera a piangere contro il cuscino o seduto sulla collina del belvedere, dove lui e mamma erano soliti passeggiare nelle sere d'estate, dopo che avevano finito di cenare nel cortiletto davanti al caravan. Lo aveva fatto spesso, come per illudersi che fosse ancora lì con lui a schiacciare le zanzare che mordevano loro le braccia o ad ascoltare il canto dei grilli in mezzo all'erba alta, mentre gli ultimi raggi del sole scomparivano oltre l'orizzonte e, sotto di loro, Clairton s'illuminava di luci artificiali. Con le ginocchia strette al petto, canticchiava Can't take my eyes off you, la canzone preferita di lei, e pensava a quanto gli mancassero i suoi abbracci parsimoniosi, il suo sorriso color pesca, le lentiggini spruzzate su tutto il viso, il collo, le spalle; gli mancavano persino i suoi rimproveri e le sbottate da genitore preoccupato per un figlio adolescente, l'accento che prendeva quando parlava in fretta, alterandosi. Gli mancava la sua buona cucina russa, le sue trovate per rendere sfiziosa la selvaggina che papà portava a casa, il suo entusiasmo nell'aggiornare i suoi ricettari che, a volte, Michael sfogliava solamente per vedere la sua calligrafia. Ma, soprattutto, gli mancava il suo profumo, un odore che Michael non sarebbe stato in grado di definire se non come "profumo di mamma"; gli mancava così tanto che, una sera, all'insaputa di papà, era entrato nella loro stanza da letto, aveva preso una camicia da notte dal cassettone con le cose di lei e si era addormentato con il naso immerso nella seta morbida, talmente era bisognoso di sentire ancora quel profumo lì con sé. E lo faceva ancora, ogni singola notte, la tirava fuori da sotto il cuscino e l'annusava fino a quando non crollava dal sonno, e piangeva, inondando la stoffa di lacrime, chiedendosi perché la vita avesse dovuto fargli uno scherzo così crudele. Perché, fra tutte le persone al mondo che Dio avrebbe potuto prendersi, aveva scelto proprio sua madre. Cazzo, aveva ancora bisogno di lei! Era solo un ragazzino, dannazione!

Mentre sostava al proprio armadietto, liberandosi dei libri che non gli sarebbero serviti per le prime ore,  Michael dovette fare uno sforzo sovrumano per cacciare indietro le lacrime che minacciavano di sgorgare dai suoi occhi nocciola.

L'ufficio di Miss Heidelberg, la consulente scolastica, era interno alla segreteria studenti, così come anche la presidenza.

Un ragazzo che Michael non conosceva era già seduto sulle sedie di plastica appoggiate al muro, che ricordavano tanto quelle nei corridoi degli ospedali. Teneva gli occhi fissi su una pila di fogli, forse documenti, e faceva schioccare la lingua di tanto in tanto.

«Consulente o preside?» gli domandò Michael, sedendosi accanto a lui.

Quando il ragazzo alzò lo sguardo in sua direzione, gli parve di avvertire qualcosa in prossimità della bocca dello stomaco, ma si convinse fosse solo fame (d'altronde, una ciotola di Cheerios non era sufficiente a sostenere tutti i suoi squilibri ormonali). Quello che aveva di fronte, comunque, era il viso più particolare che avesse mai visto, dagli zigomi piuttosto pronunciati e grandi occhi di un azzurro ghiacciato ma colmi di vitalità. Il tutto contornato da capelli biondi lunghi appena sopra le spalle, leggermente ondulati.

«Preside» rispose il ragazzo, accennando a un sorriso. «Sono nuovo, mi chiamo Nick.»

Aveva un aspetto un po' moribondo, da cantante new wave britannico, più che mai con quel giubbotto di pelle che indossava. Michael gli afferrò la mano che il ragazzo gli porgeva e si presentò a sua volta. «Ultimo anno?»

Nick annuì. «Giusto per chiudere in bellezza» sospirò. «Ma non sono particolarmente nervoso.»

«Andrà bene» ridacchiò Michael. «Ti direi "se mai avessi bisogno di qualcosa, non esitare a venire da me", ma rischierei subito di rovinarti la reputazione. I nuovi arrivati suscitano un interesse particolare all'apice della piramide alimentare.»

Anche Nick rise, divertito. «Ah, non sono così superficiale» disse. «Vengo da New York e frequentavo una scuola pubblica. Lì la catena alimentare è controllata dai leoni, non dagli sportivi.»

Michael fece per rispondergli, ma una porta si aprì e ne fece capolino il preside Walker, con la sua familiare mezza pelata e l'orrido cardigan che gli si vedeva sempre addosso. Probabilmente, pensava fosse il suo capo più elegante. I suoi occhietti maligni scrutarono Michael per qualche istante. «Niente barba, Vronsky» lo riprese subito. «Conosci la nostra politica su aspetto e abbigliamento. Non è igienico. Domani non voglio vedere un pelo su quel mento.»

Michael fece per grugnire, ma, sorprendentemente, Nick venne in suo soccorso: «Signore, devo dissentire. La barba protegge da microbi ed eventuali infezioni. L'importante è tenerla sempre pulita e curata.»

Ma, soprattutto, aiutò Michael a nascondere il sorriso sghembo che suscitarono in lui quelle parole, oltre che l'espressione rigida che si dipinse sul volto di Walker. «Sei Chevatorevich?» chiese il preside, rivolto a Nick.

Lui annuì, alzandosi in piedi. «Sì, signore, Nikanor Chevatorevich.»

Michael spalancò gli occhi: anche lui era russo? Una bella coincidenza.

«Igienico o non igienico, comunque, la politica scolastica non ammette questo tipo di aspetto. E ora entra, ragazzo.»

«Udachi.» gli disse Michael. [₁]

A quell'augurio, Nick si voltò verso di lui e gli riservò un sorriso complice. «Spasibo»[₂] rispose, prima di sparire dietro la porta della presidenza.

Le guance di Miss Finch erano pomelli colorati dal fard, un colore che però si sposava bene con i suoi boccoli biondi e la base di pelle lattea. Michael un po' le invidiava quell'aspetto così pimpante di prima mattina a quasi cinquant'anni, mentre lui si era trascinato nel suo ufficio strascicando i piedi e sbadigliando ancora in preda al sonno. Ma, probabilmente, la consulente non aveva fatto le ore piccole, a differenza sua. Saggia decisione.

«Come stai, Mike?» fu la prima cosa che gli domandò, mentre lui prendeva posto alla scrivania. «Hai passato una buona estate?»

Michael sollevò le spalle. «Discreta» rispose, facendo velocemente mente locale. Mamma era morta ad Aprile. Maggio e Giugno erano stati i mesi peggiori, quelli in cui aveva fallito gli ultimi compiti in classe, quelli in cui passava il resto delle giornate chiuso in camera sua. A Luglio aveva ricominciato a mangiare più o meno regolarmente, a parlare con Linda al telefono, ad andare a casa di Steven, ogni tanto, per guardare una videocassetta. Ad Agosto e Settembre si era sentito pronto a trascorrere la maggior parte del tempo fuori casa, più che altro per sfuggire al malumore di papà, ma frequentare di nuovo tutto il gruppo gli aveva fatto bene.

Miss Finch decise di andare subito al punto. Tirò fuori un fascicolo con i suoi pessimi voti degli ultimi due trimestri passati e, nell'ammirare la prova scritta del proprio fallimento, Michael sentì lo stomaco sprofondare. Avrebbe dovuto recuperare tutto se sperava di diplomarsi in tempo, oltre che portare avanti il programma regolare del Senior. Come cavolo avrebbe fatto?

«Non ti spaventare» tentò di rassicurarlo subito Miss Finch che, probabilmente, aveva captato l'aria di disperazione che aleggiava intorno a lui. «Abbiamo dei corsi pomeridiani per gli studenti che non possono permettersi ripetizioni private.»

Il ché significava dover rinunciare al club di teatro e a quello audiovisivo. Automaticamente, Michael rinunciava ai crediti formativi.

Scosse la testa. «Non posso» disse, «io... mi servono quei crediti. Sono la mia unica per via per il college.»

Non voleva fare l'operaio come suo padre per il resto della sua vita, alternativa che, invece, Piotr si era spesso impuntato di fargli prendere. Non voleva fare l'impiegato all'acciaieria.

Miss Finch pareva scettica. Lui la capiva.

«Si tratta senz'altro della possibilità più economica» osservò, parsimoniosa, «ma non devi darmi una risposta adesso, hai ancora una settimana di tempo per pensarci. Ti prenoto un appuntamento per lunedì prossimo e per quella data mi comunicherai la tua decisione, va bene? Dunque, sul foglio hai segnate le materie da recuperare: i tuoi insegnanti ti daranno tutti i programmi su cui dovrai prepararti.» 

Michael fece finta di dare una fugace occhiata all'elenco, prima di infilare il foglio nello zaino. 

«A un buon anno scolastico, caro» sorrise Miss Finch, mentre lui si congedava in tutta fretta, giusto in tempo per la prima campanella. 

Attraversando la segreteria, prima di uscire, Michael si voltò con un movimento automatico a guardare la porta della presidenza. Si aspettava di vederla aprirsi e sputare fuori Nikanor, invece, una segreteria gli si piazzò davanti per fare delle fotocopie, impedendogli la visuale. 

Michael scosse la testa e si affrettò a uscire in corridoio. 


 



 

[₁] - Buona fortuna in russo (con grafia nel nostro alfabeto perché non credo che molti sappiano leggere il cirillico). Premetto che non sono russa né parlo la lingua (perciò dovrei evitare, ma non lo farò), quindi vi prego di perdonarmi caldamente per qualche errore e, soprattutto, farmelo presente in modo da poter correggere.  

[₂] - Grazie
 


 
Dunque, ragazzi, ciao se siete arrivati fin qui. Facciamo che salto la parte in cui dico che questa è l'ennesima long che non avrei dovuto scrivere sì, lo sappiamo tutti. Era ciò di cui avevo bisogno in questo periodo però: una storia teen ambientata in una cittadina anonima, una fan fiction e, soprattutto, una fan fiction crossover su due film a me molto cari, "Il cacciatore" e "... E giustizia per tutti". Inutile dire che con i film sopracitati c'entrano poco e nulla, la storia è infatti una AU che mantiene solo i personaggi (Mike e la sua compagnia per "Il cacciatore", Arthur per "E giustizia per tutti") in età però tra il liceo e il college. Perciò è leggibilissima come originale. L'ennesima mia trovata per accoppiare un personaggio di De Niro con uno di Al PAcino, oltre che uno sciocco ma divertente esperimento che, comunque, mi sta piacendo molto scrivere. E spero piaccia anche a voi. 
Perdonatemi per eventuali errori e sviste, ho riletto piuttosto velocemente perché volevo pubblicare il prima possibile. 
Un bacione e grazie se avete deciso di seguirmi in questa nuova stupida avventura! 

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Capitolo 2
*** Vogliono Starti Vicino ***


II. 
Vogliono Starti Vicino
 

On the day that you were born the angels got together
And decided to create a dream come true
So they sprinkled moon dust in your hair of gold and starlight in your eyes of blue
That is why all the girls in town 
Follow you all around 
Just like me, they long to be 
Close to you

( The Carpenters - Close to You ) 

 

 

Stanley sbocconcellava i maccheroni ormai freddi. «Quindi» disse, «ci pianterai all'A.V. Club pure tu?»

Michael fece roteare gli occhi, mentre si metteva in bocca una carota. Il tono inquisitore dell'amico lo infastidiva, quasi volesse accusarlo. Eppure, lui non aveva ancora deciso niente. «Non so ancora cosa farò» rispose, e puntò un dito su Steven. «Anche se decidessi di seguire le ripetizioni pomeridiane, non sono comunque io quello che vuole lasciare la band per Yoko.»

«Oh, molto divertente.» Steven storse la bocca in una smorfia. «Sono già in ritardo rispetto al mio piano! Hai visto come il nuovo arrivato si è conquistato le grazie di Angela e compagnia in meno di una mattinata?»

Lo aveva visto eccome, Michael, ma questo avrebbe significato dover ammettere di aver trascorso tutte le lezioni in comune con Nick a fissare intensamente il suo profilo. Cosa che tornò a fare non appena tutti e tre i suoi amici puntarono gli occhi in direzione dei tavoli centrali della mensa, dove, solitamente, la squadra di football troneggiava sugli altri studenti e le cheerleader ronzavano loro intorno come groupie di una rock band. Qualcuna, effettivamente, veniva sfoggiata dall'atleta di turno come trofeo umano. Quel giorno, tuttavia, la maggior parte delle ragazze era riunita intorno a Nick che parlava cordialmente con loro, forte di quel sorriso angelico che aveva riservato a Michael in segreteria –e, a dirla tutta, anche prima dell'inizio dell'ora di inglese.

In mezzo a loro, c'era pure Linda, seduta alla destra di Nick. Non che fosse ufficialmente una ragazza pon-pon (nonostante, quella mattina, Michael l'avesse beccata a firmare il foglio delle audizioni appeso in bacheca), ma l'amicizia di lunga data con Angela, che si era conquistata l'uniforme al secondo anno, l'aveva aiutata a non dover trascorrere il momento del pranzo in mezzo agli sfigati.

«Beh, per Angela sembra che puoi stare ancora tranquillo, Stevie» fece Axel. La sua manona guizzò in aria per un attimo, prima di abbattersi energicamente sulla schiena di Michael. Il ragazzo si sentì mozzare il respiro e dei pezzi di carota volarono fuori dalla sua bocca, colpendo il vassoio. «Mi pare che sia Linda quella interessata all'acquisto! Mike, fa' qualcosa!»

«Piantala.»

Michael inghiottì un lungo sorso di Coca-Cola, eliminando i residui di ortaggi nella laringe, prima di riservare uno sguardo truce all'amico. «Non mi piace Linda, quante volte devo ripetervelo?»

Sembrava non entrare mai loro in testa. Specialmente a Steven.

«Non capisco cos'altro dovrebbe fare o avere Linda per piacerti» sibilò, sporgendosi in avanti sul tavolo. «Ha la faccia di un angelo, un fisico perfetto, il massimo dei voti ed è l'unico essere di sesso femminile che ti considera davvero. E poi, è la migliore amica di Angela! Se tu la invitassi fuori magari potremmo riuscire a organizzare un appuntamento a quattro!»

Michael spalancò gli occhi, esterrefatto. «Un appuntamento a quattro? Ma non senti quanto sei patetico? Alza il culo e va' a chiedere ad Angela di uscire voi due. Cazzo, Stevie, sembra che non vi siate mai parlati!»

Angela abitava letteralmente di fronte a casa di Steven. Alle medie erano tutti buoni amici, se i loro destini avevano finito per dividersi era perché, semplicemente, erano cresciuti maturando interessi diversi. Non si erano mica tolti il saluto!

Steven addentò un dolce. «Mi sentirei semplicemente più sicuro se riuscissimo ad arrangiare qualcosa tutti insieme» bofonchiò. Con le guance così piene somigliava a un criceto riccioluto.

Michael scosse la testa, incredulo per tutte quelle sciocche scuse che tradivano semplicemente il nervosismo di Steven e la sua incapacità di comunicare con la ragazza che gli piaceva. Con la coda dell'occhio, intravide Stanley che lo fissava al di sopra del piatto di maccheroni. «Cosa c'è, Stan?»

Lui scosse la testa. «Stavo pensando» mormorò, «Stevie ha detto che Linda ha ottimi voti. Perché non chiedi aiuto a lei per le ripetizioni?»

Axel estrasse un panino dal suo sacchetto e lo aprì, contemplando il prosciutto. «Dov'è il grasso?»

«Mangialo senza fare storie» lo ammonì Michael, prima di rispondere alla proposta di Stanley con un'alzata di spalle. «Sì, potrei, ma avrà i cavoli suoi da fare e da studiare per quest'anno. No, la cosa migliore sarebbe trovarmi un insegnante...»

«... che, molto probabilmente, non ti chiederà mai meno di dieci dollari l'ora» concluse Stanley. «Secondo me, sei fottuto, amico.»

Michael emise un mezzo piagnucolio dall'alto della sua lattina. Il suo compare aveva ragione. Se fosse stato in grado di lavorare, quell'estate, avrebbe potuto mettersi da parte i soldi che gli sarebbero serviti per le ripetizioni private. Invece, con quattro materie da recuperare non avrebbe avuto nemmeno il tempo di cercare qualcosa da fare nel weekend. Papà era l'unica fonte di reddito in casa, ma l'idea di scroccargli anche solo la minima percentuale di denaro era un pensiero che gli provocava la nausea: sapeva che, alla prima ubriacatura, Piotr gli avrebbe rinfacciato tutta la sua negligenza. Da sobrio, invece, sarebbe tornato alla carica sul fatto che la cosa migliore per lui sarebbe stato piantare gli studi e seguirlo a lavorare nell'acciaieria. Che un vero uomo si formava solo attraverso il duro lavoro manuale, sostentamento primario di tutta l'economia del Paese. Magari aveva pure ragione, ma Michael ancora non si sentiva di raccogliere in prima persona le prove di quella filosofia di vita. Desiderava perlomeno diplomarsi. Avere più porte accessibili, davanti a sé, non una sola strada da seguire obbligatoriamente.

Per farlo, aveva assolutamente bisogno anche delle attività extrascolastiche. Rinunciarvi non era nei suoi piani.

«Va bene» si arrese, alzandosi in piedi. «Tentare non nuoce. Vado a domandarglielo.»

Poteva sentire i respiri dei suoi migliori amici venire trattenuti alle sue spalle. Michael li ignorò e si diresse a passo spedito verso il chiassoso tavolo. Evitò di dare importanza agli sguardi indagatori degli atleti e si piazzò alle spalle di Nick, attirando l'attenzione della sua amica.

«Ehi, Mike!»

A quel saluto, si voltò pure Nick. «Oh, privet, tovarisch!» [¹] disse, inclinando le labbra in un ghigno amichevole. Michael si domandò perché gli venisse così naturale fissarsi sui lineamenti duri del suo viso. Non avrebbe saputo dire se Nick fosse considerabile un bel ragazzo, ma certo non passava inosservato. Somigliava un po' a un vampiro, compresa l'aurea di fascino che sembrava aleggiare intorno a lui, attraendo le persone come un fiore con le api. Nick era un fiore atipico in un giardino quasi monocolore, ma forse era quello a renderlo speciale.

Linda ridacchiò, provocando in Michael l'automatico sollevamento di sopracciglia: da quando era così civettuola? Solitamente, tendeva ad avere in bocca più parolacce che saliva. «Ma che cosa gli hai detto?» chiese, allungando le unghie laccate di rosso sulla spalla di Nick.

«Spiacente, non possiamo tradire i segreti di Madre Russia» bisbigliò lui. Si voltò nuovamente verso Michael e gli fece l'occhiolino.

«Sta' attento» lo ammonì il ragazzo, affrettandosi a ignorare il senso di calore che avvertiva alla base del collo. «Walker sarebbe in grado di sospenderti anche solo per il tuo cognome.»

«Sì, l'ho notato dall'interrogatorio che mi ha fatto in presidenza. Non importa, comunque: sono abituato a essere visto come una spia.»

Michael allungò un piede e colpì lievemente la caviglia di Linda. «Posso parlarti in privato?» le domandò, quando lei alzò lo sguardo scocciato. Con un'occhiata, Michael le fece capire che si trattava di un'urgenza.

«Scusami» fece Linda, rivolta a Nick, alzandosi dalla panca, «torno subito.»

Michael la trascinò nel vicolo tra gli spogliatoi e la mensa, uno spiazzo infestato da erbacce dove andavano spesso a fumare prima delle lezioni pomeridiane.

Linda piazzò i pugni sui fianchi e assunse un'espressione severa. «Spero tu abbia una buona scusa per avermi portata via dal sexy ragazzo nuovo.»

«Ma se sembra un veterano del Vietnam che si è dato alla roulette russa» [²] ghignò Michael. Omise il fatto che lo considerasse un pregio: gli piaceva che Nick non si uniformasse ai bellocci medio-borghesi creati con lo stampino da Madre Natura e dagli steroidi. Ma gli piaceva di più infastidire Linda.

«Sei solo invidioso che sia appena arrivato ed abbia più attenzioni di te» lo canzonò l'amica. Incrociò le braccia sotto al seno e si appoggiò al muro di mattoni della mensa. «Allora, che cosa vuoi?»

«Sono nella merda.» Michael l'affiancò, lasciando che il proprio sguardo si perdesse lungo il campo da football deserto. «Devo recuperare le insufficienze degli ultimi trimestri e non posso frequentare i corsi pomeridiani.»

«Perché no?»

«Il teatro! E poi dobbiamo assolutamente cominciare a organizzarci per il cineforum dell'A.V. Club. Sai quanto mi servono quei crediti.»

Linda annuì: ovviamente era a conoscenza dei suoi problemi economici, così come Michael sperava che immaginasse il perché non gli sarebbe andata a genio l'idea di mettere al corrente tutta la squadra di football.

«Quindi» disse lei, «immagino tu sia qui per chiedermi di darti una mano, visto che sono splendida, intelligente, studiosa...»

«... modesta, soprattutto.»

I due amici ridacchiarono.

«Che cos'hai da recuperare?» chiese Linda.

«Inglese, matematica, spagnolo... e geografia europea.»

Con la coda dell'occhio, vide l'amica sollevare gli occhi al cielo. «Perché diavolo ti sei iscritto a geografia europea?»

«Tutto fa curriculum, va bene?»

«Non credo di poterti aiutare, Mike. Ho il lavoro, ricordi?»

Lui annuì: nei weekend, Linda lavorava come cameriera a una tavola calda. Le faceva bene, poi, vista la sua situazione con il padre. Piotr, almeno, sapeva essere gentile quando non beveva.

Linda si staccò dalla parete e lo studiò per qualche secondo. «Credo di sapere chi può darti una mano, comunque» disse.

A quelle parole, che suonavano tanto come il dolce suono delle campane domenicali, Michael batté le palpebre. «Chi?»

«Arthur, il mio vicino. Mia cugina ha preso ripetizioni da lui per tutta l'estate, le ha fatto un buon prezzo. Scommetto che può aiutarti perfino con geografia europea!»

Le spalle di Michael si afflosciarono per la delusione. Improvvisamente, il tunnel buio lungo il quale arrancava alla cieca aveva chiuso lo spiraglio dal quale aveva visto filtrare la luce. Arthur non avrebbe mai accettato di aiutarlo e ne aveva ben donde.

«Non esiste» rispose, «sai com'è tra me e Arthur.»

«Oh, andiamo, Mike!» esclamò Linda. «Ancora con questa storia? Chiedigli scusa e andate avanti! E poi, non sei nemmeno tu quello che dovrebbe farsi perdonare!»

«Un cazzo. Ho partecipato alle spedizioni punitive pure io, quando era il momento di lanciargli cose addosso.»

«Eri alle medie! Le persone crescono, maturano... non credo che Arthur sarebbe tornato se avesse voluto chiudere tutti i ponti con Clairton. Chiacchieravamo spesso quest'estate, sai? Mi ha pure invitato a mangiare a casa sua, una sera. Un raggio di sole.»

Michael sollevò un sopracciglio. «E non mi hai mai accennato al fatto che fosse tornato?» chiese. «Io e Steven lo abbiamo praticamente scoperto questa mattina.»

Per tutta risposta, Linda si strinse nelle spalle. «Beh, non è che io te ci siamo visti spesso, quest'estate» mormorò.

Aveva ragione. Lei aveva lavorato per tre mesi interi e l'ultima volta che avevano trascorso più di mezz'ora insieme era stato al funerale di mamma, quella primavera. Parlavano spesso al telefono, ma non si dicevano granché. Più che altro, Linda lo ascoltava sproloquiare di questo o quest'altro programma televisivo, come se sentisse il bisogno di lasciarlo sfogare, pensare ad altro. Quando poi aveva ripreso a uscire, lo faceva con i ragazzi. Ed evidentemente, nemmeno Arthur aveva messo piede fuori casa molto spesso, se non lo avevano mai incontrato in città.

Arthur Kirkland. Paradossalmente, in quel momento, gli pareva l'unico accenno di salvezza.

«Dovrò pagarlo comunque» osservò Michael.

Linda sogghignò. «Facciamo così: io ti anticipo il primo mese di lezioni... se tu mi dai una mano con Nick.»

Michael storse il naso. «Mi sembra che con Nick tu te la stia cavando già alla grande.» Non sapeva perché, ma pronunciare quelle parole lo infastidì senza apparente motivo.

«Sì, sono riuscita a placcarlo già al primo giorno.» Linda scosse la testa, facendo svolazzare la lunga chioma bionda. «Ma non l'ho ancora conquistato e con le cheerleader è una fossa di leoni. A lui sembri piacere: potresti metterci una buona parola per me.»

Michael fu lì lì per interrogarla circa il suo interesse nell'entrare in squadra, ma cambiò subito idea. «Una buona parola?» ripeté, invece.

«Sì, insomma, se ti chiede di me durante le lezioni, quando non ci sono... oppure tu puoi tastare il terreno e vedere se c'è qualche interesse di fondo... »

«Va bene, va bene.» Michael tagliò corto. «Gli chiederò se vuole un passaggio fino a casa, oggi. Quando andiamo da Arthur?»

«Quando tu porterai anche me a casa, dopo scuola!»

«Non se ne parla!» esclamò Michael. «Ci sono anche gli altri, in macchina! Dove li metto, nel bagagliaio?»

«Sono sicura che possano stringersi un po' tutti.» Linda allungò le mani, poggiandole sulle spalle di Michael. «Ci parlo io con Arthur» tentò di rassicurarlo. «Ho economia domestica, tra poco. Scommetto che gli piacciono i dolci.» 


 

§§§§ 


 

Arthur viveva nella casa più grande dell'isolato, una pittoresca villetta edoardiana costruita in mattoni rossi. Michael sapeva che l'abitazione apparteneva a suo nonno, un simpatico vecchietto con le orecchie a sventola che, solitamente, trascorreva i pomeriggi seduto, insieme ad altri anziani, su una panca fuori dal negozio di alimentari dietro l'angolo. Si rese conto che quell'estate non aveva mai visto in giro nemmeno lui: che fosse malato? Il ricordo più vivido che Michael possedeva dell'uomo risaliva a tre anni prima, quando lui e altre matricole erano fuggiti pedalando a tutta velocità verso la salvezza, dopo aver lanciato rifiuti nel loro cortile, mentre il signor Kirkland li inseguiva bestemmiando e brandendo minacciosamente il bastone da passeggio. Era il periodo in cui tutti i ragazzini del circondario si divertivano a importunare Arthur.

Il pensiero di essere stato così sciocco dal farsi trascinare in quelle bravate tormentava Michael come uno spillo invisibile che si dilettava a penetrarlo fin sotto la cute. E ora eccolo lì, seduto in nella propria auto sovraffollata, ad osservare penosamente le tende verdastre che nascondevano al mondo la vita privata di Arthur, quella in cui lui si era arrogato il diritto di ficcare il naso, di ergersi a giudice di un decantato pudore che, in fondo, nemmeno condivideva.

Nick, spiaccicato tra altre tre persone sul sedile posteriore (Stanley si era messo in braccio ad Axel), si sporse in avanti. Il suo respiro solleticò il lobo dell'orecchio di Michael, provocandogli un forte brivido lungo il collo.

«Secondo voi» disse, «è tutto coperto perché ha una madre che soffre di forti emicranie mentre lui pratica la tassidermia?»

Se Linda, seduta sul sedile del passeggero, avesse riso un po' più acutamente, il cervello di Michael si sarebbe liquefatto, cominciando a fuoriuscirgli dal naso e dalle orecchie come una purulenta sostanza ectoplasmatica. «Ma da dove le tiri fuori, queste perle?»

«Da Hitchcock» replicò Michael, guadagnandosi da Nick una strizzatina amichevole sulla spalla.

«Menomale che qualcuno capisce i miei riferimenti cinematografici.»

«A.V. Club.» Michael incontrò lo sguardo di Nick nello specchietto retrovisore e gli fece l'occhiolino. «Ogni anno organizziamo un cineforum. Chiedi a Stanley per maggiori informazioni.»

Ma Stanley, in quel momento, aveva altre priorità: «Mi raccomando, Mike, se ti invita in casa, sempre culo contro il muro.»

«Disse quello che sta cavalcando Axel.»

«Cosa c'entra? Lui mica è frocio.»

«Non dire frocio» lo riprese Nick, «è villano.»

Michael sistemò lo specchietto retrovisore, e vide Stanley aggrottare le sopracciglia. «Scuuusa» disse, agitando le mani. «Non avevo capito che fossi un loro amico.»

«Ho solo questa bizzarra convinzione che tutti gli uomini siano stati creati uguali» ribatté Nick. «Parole di Thomas Jefferson.»

«Ma Jefferson non era un misogino?» fece Linda.

«Nessuno è perfetto.»

«Beh, io non sono d'accordo» sbottò Stanley. Michael cominciò ad accarezzare l'idea di prendere il crick nel bagagliaio e tirarglielo in testa. «Non sono uguale a un pervertito che si scopa i ragazzini, mi dispiace.»

«Adesso stai veramente esagerando, Stan!» esclamò Linda. «Arthur è una brava persona! Non ti è bastato rovinargli un anno di vita per uno stupido pettegolezzo? Vuoi ancora infierire? Sei da denuncia!»

Michael si rese conto di aver tenuto gli occhi fissi sul riflesso di Nick per tutto quel tempo. Lo vide sollevare lo sguardo, aggrottare le sopracciglia bionde e passare in rassegna i volti di tutti i presenti. «Rovinato?» chiese. «Che è successo?»

«Storia lunga» bofonchiò Steven.

«Basta stronzate.»

Finalmente, Linda parve tornare la scaricatrice di porto di una volta. Afferrò la scatola bianca che aveva poggiato sul cruscotto e spalancò la portiera della Cadillac. «Muovi il culo, Mike.»

Lui fece roteare gli occhi, prima di seguirla fuori dall'autovettura.

«Chiappe al muro!» gridò Stanley, ma Michael tagliò corto richiudendo rudemente la portiera.

La sua amica gli smollò violentemente la scatola che si portava appresso.

Sul vialetto d'accesso di casa Kirkland, il vento faceva danzare le foglie intorno alle loro caviglie. Il legno degli scalini del portico scricchiolò sotto il loro peso. Mentre Linda suonava il campanello, Michael si guardò nervosamente attorno, come a voler trovare la più efficace via di fuga se Arthur avesse deciso di vendicarsi delle sue malefatte brandendo un coltello alla Michael Myers. Di fronte a lui, appeso a una trave, un dondolo oscillava mosso dal vento, sbattendo contro la parete rustica della casa. Un cane abbaiò in lontananza. Quella quiete era a dir poco spettrale ed erano solo le tre del pomeriggio.

Sussultò, afferrando il polso di Linda, quando udì il gancio della porta venire sciolto. Arthur aprì e mosse un piede sul portico. Era ancora vestito come Michael lo aveva visto quella mattina, con i jeans chiari e la maglietta bianca che, ora, presentava una grossa chiazza di sudore sul davanti. Non lo ricordava mica così robusto, tantomeno così virile. Il tempo, tuttavia, non era stato particolarmente generoso con lui in quanto ad altezza.

«Ciao, Linda.» Sorrise alla ragazza, mentre ignorò del tutto Michael come se fosse un insetto. Nonostante lo sovrastasse di almeno dieci centimetri, il ragazzo si sentiva davvero piccolo in sua presenza.

Linda rispose al sorriso. «Ciao, Arthur!» esclamò, raggiante, prima di stritolare la spalla di Michael in una morsa. «Ti ricordi il mio amico Mike?»

Le labbra carnose (troppo carnose) di Arthur non sembrarono volersi incurvare subito verso il basso, quando i suoi occhietti scuri si mossero su di lui. Che avesse davvero deciso di lasciarsi il rancore alle spalle? «E chi se lo scorda?» rispose, appoggiandosi allo stipite della porta. Incrociò le braccia sul petto e squadrò Michael da capo a piedi. «Mi ha quasi spaccato uno specchietto dell'auto.»

Come non detto. L'espressione volpina sul volto di Arthur era solo una facciata colma di sarcasmo e vecchi livori. Stavano solo perdendo tempo.

Linda, evidentemente, fiutò il pericolo nell'aria, perché si premurò di venire subito in suo aiuto.

«A tal proposito» disse, facendosi più vicina a Michael. «Non sapeva che fossi tornato, altrimenti sarebbe passato prima! Ci teneva davvero tanto a chiederti scusa per quello che è successo, sai... tutta quella brutta storia... Mike si sente davvero in colpa.»

«Davvero» ripeté lui. Una gomitata di Linda nelle sue costole lo costrinse a porgere la scatola ad Arthur. Lui sollevò un sopracciglio, scettico, prima di afferrarla e aprirla.

«Carini» commentò, afferrando uno dei muffin al cioccolato sul quale era impressa una S di pasta di zucchero. Affiancati tutti insieme, formavano la scritta I'M SORRY all'interno del pacco.

«Li... li ho fatti io... » mentì Michael, come da copione. Per essere nel club di teatro da quattro anni, si sentiva un pessimo attore. «Faccio economia domestica, questo trimestre.»

«Ovviamente.» Arthur richiuse la scatola e sospirò. «Dai, entrate. Vi faccio il caffè.»

L'ingresso odorava di naftalina, una buffa essenza che, fin da piccolo, Michael aveva imparato ad associare ai nonni. Anche se la loro casa puzzava di cavolo. Alcune lampade a muro erano l'unica fonte di luce nel corridoio, ma la cucina era più luminosa grazie alla grossa vetrata sopra il lavandino.

Arthur posò i muffin sul bancone e cominciò a maneggiare con la macchina del caffè.

«Allora» esordì, mentre Michael e Linda prendevano posto al tavolo. «Dove lo vuoi fare?»

Michael sobbalzò, preso alla sprovvista da quella domanda. «Cosa?» disse: non era sicuro di aver capito bene.

Arthur si voltò verso di lui, una mano posata sul fianco. «Sei qui per farti sverginare, no? Sei il quinto che mi suona alla porta, questa settimana. Sai, visto che ho così tanta domanda ho pensato di aprire un business.»

Michael spalancò la bocca così tanto che temette potesse cadergli la mascella. Era serio? Davvero pensava...?

«Io... io non sono... cioè, non credevo....»

La risata di Linda accanto a sé, tuttavia, gli fece capire che Arthur lo stava prendendo in giro. Richiuse la bocca, prendendo a tormentarsi le mani, mentre lui finiva di preparare il caffè e posava due tazze e una zuccheriera di fronte a loro.

«Ripetizioni, uh?» domandò Arthur, sedendosi sul tavolo. «Quanto sei messo male?»

Michael grugnì e fece una piccola pausa per mandare giù qualche sorso di caffè bollente. «Molto» rispose, flebilmente. «Sono... sono indietro di quattro materie... e, in più, devo seguire il programma regolare di quest'anno...»

Posò la tazza e si mise a frugare nello zaino, in cerca dei fogli con i programmi che i professori gli avevano consegnato quella mattina, e li consegnò ad Arthur.

Lui estrasse un paio di occhiali e li inforcò per leggere meglio. «Geografia europea...» bofonchiò. «Sei proprio nella merda, eh?»

Michael si inumidì le labbra insaporite dal caffè, tenendo gli occhi fissi sul ripiano del tavolo. I colori vivaci della tovaglia di nylon si fecero presto sfocati. «Ho avuto dei problemi...»

«Lo so. Ho sentito di tua madre. Condoglianze.»

Lui si strinse nelle spalle. Sotto il tavolo, la mano di Linda trovò parsimoniosamente la sua.

Evidentemente, i suoi problemi famigliari addolcirono Arthur perché, a una certa, saltò giù dal tavolo e annunciò che accettava di dargli una mano. Ora, però, veniva la parte dolente. «Faccio due ore di lezione il martedì e il giovedì» spiegò Arthur. «Quindi, per me possiamo iniziare già domani. Sono quindici dollari l'ora.»

«Cazzo» sibilò Michael, ma Arthur lo udì comunque.

«Pensavi che sarebbe stato gratis?»

«Non puoi fargli un po' di sconto?» intervenne Linda. Ogni tanto, Michael avrebbe desiderato avere una faccia tosta come quella dell'amica. «So che ai miei zii hai fatto un prezzo molto più basso.»

«Tua cugina andava alle medie e aveva solo una materia» le fece presente Arthur. Poi, dopo qualche istante, scosse la testa e aggiunse: «D'accordo. Facciamo dieci. Prendere o lasciare.»

Un forte pizzicotto di Linda fece capire a Michael che sarebbe stato meglio per lui accettare. Così, alla fine, annuì alla proposta: in qualche modo, avrebbe raccattato venti dollari per il giorno dopo. Magari, Linda sarebbe stata fedele alla parola datagli fuori dalla mensa.

«A che ora posso venire?» domandò, mentre si muovevano nuovamente nell'ingresso. Davanti a loro, Arthur sbocconcellava il muffin con la S.

«Vieni pure appena finisci scuola» rispose, aprendo la porta per farli uscire. «E comunque i tuoi muffin fanno proprio schifo.»

Uscendo sul portico, Michael riservò un ghigno a Linda. «Lo so.» 

 


 

[¹] – Ciao, compagno. Again, se vedete che ho fatto qualche castroneria linguistica, non esitate a farmelo notare. Mi diverto troppo a far parlare Mike e Nicky in russo!

[²] – Sono molto simpatica, perciò ho deciso di inserire una citazione al film originale. Nella pellicola, Nick rimane in Vietnam e diventa un professionista della roulette russa (gioco a cui era stato sottoposto anche durante una prigionia insieme a Mike e Steven). Morirà quando Mike proverà a convincerlo a tornare a casa.


Allora, io non so se si è notato, ma sono veramente presissima da questa storia! E spero che piaccia a voi tanto quanto sta piacendo a me. Ci tenevo a dirvi, soprattutto ai più timidi, che mi farebbe davvero piacere un commento ai capitoli, giusto per sapere che cosa ne pensate. Ricordate che i feedback fanno sempre la felicità di una scrittrice <3 E, poi, sono davvero curiosa: a primo impatto, cosa siete? Team Nick o Team Arthur? Io non saprei chi scegliere, Mike e Nick sono una mia grandissima otp ma trovo che Mike e Arthur siano un'interessantissima accoppiata. Sicuramente entrambi faranno dannare parecchio quel poverino eheheh.  
Beh, spero davvero che questa storia possa allietarvi un po' la quarantena e il periodaccio che tutto il mondo sta passando. Facciamoci forza e cerchiamo di distrarci quando possiamo, io farò del mio meglio per portare dei contenuti che possano aiutare un po' in questo. Alla prossima, vi abbraccio virtualmente e spero di rivedervi presto anche con 
Bridge Over Troubled Water, la mia long principale. 

 

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Capitolo 3
*** Uccidere Un Usignolo ***


III. 
Uccidere Un Usignolo
 


 

Atticus non andava mai nemmeno a caccia; diceva che i fucili non gli interessavano. E quando, per Natale, ricevemmo i fucili ad aria compressa, lasciò allo zio Jack il compito di insegnarci a sparare. Un giorno, disse a Jem: - Preferirei che sparaste ai barattoli di latta, nel giardinetto, ma so già che andrete a caccia di uccelli. Sparate pure a tutte le ghiandaie che vedete, se riuscite a colpirle, ma ricordatevi che è peccato uccidere un usignolo. -

Fu l'unica volta che lo sentii dire che era peccato fare qualcosa, perciò chiesi chiarimenti a Miss Maudie.- Tuo padre ha ragione - disse. - Gli usignoli non fanno nient'altro che donare musica agli uomini. Non divorano gli orti della gente, né fanno il nido nelle madie; non fanno altro che cantare per noi con tutta l'anima. Ecco perché è peccato uccidere un usignolo "

Nelle Harper Lee – Il Buio Oltre la Siepe ) 
 



 

Quando Michael richiuse l'armadietto, vide un raggiante Nick camminare nella sua direzione e sventolare una mano in segno di saluto. Istintivamente, si guardò intorno: non erano rare le volte in cui gli era capitato di ricambiare un cenno non rivolto a lui. Si sentì doppiamente scemo quando Nick gli si piazzò di fronte, ridacchiando di quella sua reazione. 
 

«Scusi, lei spaccia?» chiese, appoggiandosi con una spalla alla fila di armadietti. Quel giorno indossava una camicia celeste quasi in tinta con i suoi occhi. Il giubbotto di pelle del giorno prima gli penzolava da un braccio.

Michael fece in modo di ricomporsi in fretta e sorrise, dando un colpetto al proprio Jansport color salmone. «Ho qualcosa in fondo allo zaino» bisbigliò, in caso qualche insegnante passasse di lì proprio in quel momento.

«Bene.» Nick ghignò, mettendo in mostra gli incisivi. Sì, aveva un ché del Lestat di Intervista col Vampiro: Michael non si sarebbe sorpreso se i suoi canini fossero stati più affilati della norma. «Quindi, ti passi quest'ora buca a fumare con me?»

«Oh, in realtà... non so se è il caso...» tentennò Michael. «Avevo pianificato di usarla per cominciare a studiare qualcosa...»

Non che l'idea lo allettasse in particolar modo, anzi: trascorrere un'oretta in completa solitudine con Nick rientrava decisamente di più nella sua concezione di divertimento. Il giorno prima gli aveva dato un passaggio a casa e aveva scoperto che non vivevano poi così lontani: a Michael sarebbe bastato attraversare il campo dietro la collinetta del belvedere per raggiungerlo a piedi. Nick lo aveva ringraziato con la promessa di invitarlo a merenda nel primo weekend possibile. Gli aveva pure chiesto informazioni sul cineforum dell'A.V. Club, al quale pareva essere sinceramente interessato. Insomma, era una persona piacevole. Tecnicamente, avrebbe dovuto farci amicizia per conto di Linda, ma la verità era che Michael smaniava sinceramente dalla voglia di conoscere più a fondo il nuovo arrivato. Un amico in più gli avrebbe fatto solo bene.

D'altro canto, aveva un sacco di lavoro da fare e sentiva il bisogno di portarsi avanti il più possibile. A quella risposta, Nick arricciò le labbra, apparentemente contrariato. «Oh, andiamo» lo esortò, «non cominci oggi le lezioni con Arthur Radley?»

«Kirkland» lo corresse Michael.

«Lo so. Era una citazione. Mai letto Il Buio Oltre la Siepe

Michael scosse la testa: lo conosceva di nome e aveva un vago ricordo del film in bianco e nero con Gregory Peck, ma lo aveva visto passare in tv quando era molto piccolo.

«Beh, c'era un tizio che non usciva da questa casa spettrale da venticinque anni» spiegò Nick, spostando il giubbotto di pelle su una spalla. «Si chiamava Arthur pure lui, ma tutti lo chiamavano Boo perché pensavano fosse un fantasma. In realtà era solo una persona molto timida e molto fragile. E c'è tutta una metafora col razzismo e le ingiustizie. Se non sbaglio, dovrebbe essere nel programma di quest'anno.»

Michael alzò gli occhi al soffitto: «Qualcuno ti ha raccontato di come ci siamo comportati con Arthur, vero?»

«Axel è un chiacchierone, sull'autobus.»

«Mi sento uno schifo ad avergli chiesto aiuto, dopo tutto quello che gli ho fatto.»

Nick allungò una mano, posandola dolcemente sul suo bicipite. Un tocco consolatorio. «Non crucciarti troppo» disse, «eri un ragazzino che seguiva il branco. Non ti scusa del tutto, ma almeno ammetti di aver sbagliato. Questo è il primo passo per sistemare le cose.»

Michael rimase come imbambolato per qualche secondo a fissare le dita di Nick premere lievemente intorno al suo braccio. Alla fine, si arrese al farsi trascinare da lui sugli spalti del campo di football.

Una classe di matricole aveva l'ora di educazione fisica. Nick fece qualche commento a proposito dell'altezza dei ragazzini ma Michael, leggermente stordito dall'erba, era troppo intento a osservare il suo profilo affilato, gli zigomi pronunciati e i capelli color miele che il vento si divertiva a scompigliare, creando una danza ipnotica in cui i propri occhi lucidi si persero con facilità. Si riprese solo quando Nick gli sventolò la mano davanti al viso, riportandolo alla realtà.

«Oh, ci sei?»

Michael scosse la testa, come per ridestarsi da un sogno, e gli passò la canna. «Scusa» bofonchiò, guardando le labbra sottili dell'altro chiudersi intorno alla cartina. «Fa' piano, è roba forte, questa.»

«Non così tanto» ribatté Nick. Appoggiò il collo sull'orlo del gradino dietro di sé -quello su cui stava seduto Michael-, gli occhi color ghiaccio rivolti al cielo plumbeo. «Si vede che non sei abituato agli allucinogeni.»

«Ne hai mai presi?»

«A New York non è certo difficile reperirli.»

Nick ridacchiò e gli restituì la sigaretta. Per un attimo, la sua lingua guizzò lungo il labbro superiore, eppure a Michael parve di vedere quella minuscola azione come a rallentatore. Era assurdo come gli veniva semplice memorizzare ogni singolo movimento di Nick, anche quello apparentemente più superfluo.

«Dimmi un po'» fece il ragazzo, poggiando il mento sul suo ginocchio. Michael sentì il suo braccio circondargli la gamba. Il suo unico pensiero fu che Nick fosse un po' fatto e ciò lo rendesse particolarmente incline al contatto fisico. A lui non dispiacque. «Che cosa c'è di divertente da fare, qui?»

Michael ponderò per qualche secondo la propria risposta. Già, che cosa c'era da fare, rispetto a una metropoli eccitante come New York? Il massimo della vita di Clairton si concentrava intorno al centro commerciale aperto tre anni prima, che era stato un po' la morte delle piccole attività nel centro cittadino. Era lì che la gente socializzava, di solito: c'era un cinema multisala, fast-food, caffetterie e ristoranti, una sala giochi, negozi di abbigliamento e alimentari a prezzi stracciati. 

«Beh, noi di solito facciamo campagne di Dungeons and Dragons nel seminterrato di Stevie. A volte, durano anche per tutto il weekend» rispose Michael, sentendosi l'essere umano più sfigato sulla faccia della terra. Effettivamente, lui e i suoi amici avevano una stramba concezione di vita sociale. «E facciamo la caccia al cervo, quando è stagione.»

«Oh!» Nick, evidentemente, non si aspettava una tale confessione perché ne sembrò sorpreso. «Non avrei mai immaginato che ti piacesse cacciare. Sembri un tale tenerone!»

Lo sembrava? Michael decise di ignorare quel commento, qualunque cosa volesse dire.

«La mia è una sorta di caccia etica, comunque» si affrettò a spiegare.

«Esiste una caccia etica?»

«Un colpo solo.» Michael diede un ultimo tiro allo spinello e lo passò a Nick, lasciando che lo finisse. «Tu devi contare su un colpo solo. Il cervo non ha il fucile, deve avere la possibilità di sopravvivere. Altrimenti non è leale.» [₁]

Vi fu un attimo di silenzio, durante il quale Michael si concentrò sulla corsa delle matricole. Avevano la sua stessa insegnante, la professoressa Rizzo, che Stanley aveva amorevolmente soprannominato Adolfa per via dei suoi rudi incitamenti allo sforzo fisico: ogni volta che contava, difatti, sembrava intenta a istruire la nuova gioventù hitleriana.

Michael avvertiva su di sé lo sguardo freddo di Nick, ma non si azzardò ad abbassare gli occhi. Era ancora concentrato sul suo braccio intorno alla propria caviglia. Infine, lo sentì allentare la presa.

«Perdonami» disse Nick, spegnendo ciò che rimaneva dello spinello sul metallo degli spalti, «non sono molto sicuro di credere a questa cosa.»

«Cioè?»

«Metti che colpisci il cervo con l'unico proiettile che hai, ma non muore. Lo becchi in un punto non fatale che gli provocherà atroci sofferenze. Come ti comporti?»

Michael si strinse nelle spalle. «Non mi è mai capitato di non riuscire ad abbattere un cervo con più di un colpo.»

«Ah, sei un professionista, allora» ridacchiò Nick, tradendo un tono svampito a causa dell'erba.

Certo che non lo era. La verità era che sparare era un talento di Michael: aveva imparato all'età di undici anni. Vi era stato un periodo in cui Piotr, ogni mattina, all'alba, lo costringeva a scivolare fuori dal letto e lo trascinava sulla collina a sparare a una fila di lattine di birra da lui stesso svuotate. Aveva smesso solo in seguito alle pesanti proteste di mamma. I suoi avevano litigato di brutto perché Piotr, paranoico come non mai, credeva che qualcuno li spiasse e sosteneva che Michael dovesse imparare a difendersi. A quel punto, comunque, lui era già in grado di tenere una pistola in mano. E la cosa peggiore era che gli piaceva. Amava la sensazione di controllo, di onnipotenza che solo imbracciare un fucile sapeva dargli. Amava inerpicarsi su per i pendii scoscesi delle montagne e trovarsi faccia a faccia con una maestosa preda. Muso a muso con un cervo dal palco regale, con i suoi occhi scuri così simili ai propri, Michael si sentiva un po' animale anche lui. Quante volte aveva desiderato sparire dalla società e vivere immerso nei boschi, nel rifugio di montagna dove passavano la notte durante le battute di caccia. Solo lui, un uomo allo stato primitivo, libero da imposizioni sociali e guidato esclusivamente dall'istinto di sopravvivenza, l'unica cosa su cui un essere vivente potesse contare.

«Fucili e cervi» sentì borbottare Nick.

Questa volta, Michael abbassò lo sguardo su di lui, per incontrare quei penetranti occhi ghiaccio che gli sorridevano luminosi. Ma forse era solo l'effetto dell'erba. «Non sembra così diverso dall'uccidere un usignolo.»

«Eh?»

«Leggi quel fottuto libro!» 

«Va bene, va bene!» Michael rise e alzò le mani in segno di resa. «Se davvero è così bello, andrò a cercarlo in biblioteca.» 

Nick si arrampicò sulla sua gradinata, sedendoglisi vicino. Molto vicino. Le loro anche si sfioravano e a Michael parve che la temperatura si fosse alzata di molti gradi in meno di un secondo, nonostante la coltre di nubi all'orizzonte e il forte vento autunnale che aveva invaso tutta la piana di Allegheny alla fine dell'estate. 

«Mi insegneresti a sparare?» chiese Nick, a un certo punto. «Magari vengo a caccia con voi, ogni tanto. Sempre se avete bisogno di un altro uomo.» 

Michael si voltò a guardarlo, come a voler capire quanto fosse potenzialmente portato alle armi, ma il suo cuore ebbe un sussulto quando si trovò a guardarlo dritto negli occhi azzurri, a così pochi centimetri di distanza.  Gli venne da deglutire, domandandosi perché quello sciocco muscolo nel petto avesse reagito a quel modo, sobbalzando e sprofondando più o meno in prossimità dello stomaco, dove un nugolo di farfalle si liberò dalle proprie crisalidi. Dovette distogliere lo sguardo in fretta e furia e posarlo su Adolfa per riprendere a pensare lucidamente e formulare una risposta: «Sì, ma certo. Quando vuoi ci mettiamo d'accordo.» 

Nick sollevò una manica della camicia. Controllò l'orologio da polso che indossava e disse che sarebbe stato meglio cominciare a incamminarsi per le prossime lezioni. 

Michael lo seguì lungo i bordi del percorso di atletica. Nick gli chiese quale sarebbe stata la sua prossima lezione. 

«Il corso di falegnameria.» 

«Oh, sei un tuttofare!» lo prese in giro Nick, dandogli un colpo di fianchi. Michael fece finta di barcollare e risero, mentre si muovevano in direzione dell'edificio scolastico. 

«Magari ci si becca a pranzo» provò a dire, speranzoso, ma Nick si strinse nelle spalle. 

«Vediamo. Linda mi ha invitato al tavolo con Angela e gli altri.» 

«Ah, capisco.» Michael tentò di nascondere la delusione, distogliendo lo sguardo e lasciandolo vagare lungo il campo da football. Ogni tanto si domandava se Linda si vergognasse di lui. 

Probabilmente, quel pensiero attraversò anche la mente di Nick perché gli domandò: «Tu e Linda non siete amici, scusa?» 

«Già, ma non pranziamo mai insieme. Lei sta sempre dietro Angela.» 

«Ho capito, ma se ti vuoi sedere con noi, vieni e basta. Non devi mica chiedere il permesso a lei o a qualcun altro.» 

Stavolta, fu Michael a scrollare le spalle. Il discorso di Nick era giusto, eppure sapeva che non sarebbe mai stato in grado di darvi retta. Era troppo introverso e, soprattutto, troppo legato a quella banda di rincitrulliti che si portava appresso. Forse erano un branco di sfigati, ma almeno erano i suoi veri amici. Non era sicuro che Nick avesse fatto amicizia con la squadra di football, nonostante si ostinasse a mangiarci insieme. D'altro canto, se Nick voleva frequentare i ragazzi popolari, non era affar suo. Ma allora perché gli aveva proposto di passare del tempo insieme? 

«Non fa niente» rispose, mentre rientravano a scuola. «Non è male passare l'ora del pranzo ad ascoltare le barzellette sconce di Stan.» 

«Immagino» ridacchiò Nick. Ancora una volta, i suoi occhi presero l'aspetto di due cristalli. 

 

§§§§ 
 

 

 

Quel pomeriggio, dopo la scuola, Michael dovette pedalare fino a casa di Arthur da solo. Linda era rimasta in palestra a farsi dare una mano da Angela per una coreografia: la sua audizione per entrare nelle cheerleader era imminente e aveva assolutamente bisogno di perfezionare le ruote. La notizia era trapelata alle orecchie di Steven che mai nella vita avrebbe perso l'occasione di ammirare Angela fare acrobazie mettendo le chiappe all'aria. Nick, Stanley e Axel avevano subito deciso di dargli manforte, dimostrare solidarietà fraterna. O forse anche loro speravano solamente di spizzare l'orlo di qualche mutanda. 

«Pervertiti» li aveva apostrofati Michael, prima di saltare in sella alla bici. 

Anche quel giorno, il vento soffiava con impertinenza lungo le stradine della città. Quando Michael parcheggiò nel vialetto di Arthur, le guance parevano esserglisi atrofizzate a furia di pedalare controvento. 

Quando venne ad aprirgli la porta, Arthur non si degnò di fargli nemmeno mezzo cenno di saluto. Si limitò a condurlo su per le scale, in una stanza adibita a studio. Al centro del pavimento campeggiavano una scrivania in mogano e una lavagna bianca, di quelle su cui era possibile scrivere con un pennarello e cancellare in seguito. 

Una grossa libreria laccata in nero teneva tutta la parete a sinistra della porta. 

«Li hai letti tutti?» domandò Michael, indicando l'enorme quantità di libri che abitavano gli scaffali. 

Arthur non rispose: stava smanettando con le batterie di un timer da cucina. 

Ancora fermo sulla soglia dello studio, Michael spostò nervosamente il peso da una gamba all'altra. Sapeva che il padrone di casa aveva ben più di una ragione per non voler parlare con lui più del necessario, ma quel silenzio assordante lo stava facendo dannare: doveva trovare il modo di sciogliere il ghiaccio, spezzare la tensione, altrimenti sarebbe sopraggiunto un attacco di panico, Michael ne era certo. 

«Hai una bella casa» provò a dire, deglutendo subito dopo. 

Inaspettatamente, Arthur alzò gli occhi dal timer. «Grazie» rispose, semplicemente, girando la manopola. «Hai intenzione di restartene lì per tutto il tempo?» 

Michael interpretò quelle parole come un invito. Mosse piccoli passi all'interno della stanza, poggiando timidamente lo zaino sulla scrivania e prendendo posto a una delle sedie. 

Arthur finì di impostare il timer e lo posizionò su una mensola. Indossava gli stessi jeans celesti del giorno prima, ma con un felpa grigia pulita. Sotto i folti capelli corvini portava una fascia rossa, di quelle che usavano gli istruttori di aerobica nelle videocassette di Linda. Lo sguardo di Michael, comunque, rimase imbambolato a contemplare le sue labbra: sembravano quasi due canotti! Istintivamente, il pensiero di ciò che poteva aver fatto Arthur con quella bocca si fece strada nella sua mente; il ragazzo avvertì un'ondata di calore invadergli le guance. Com'era possibile che si mettesse a pensare una cosa del genere? 

Grazie al cielo, Arthur non sembrò accorgersi del suo imbarazzo. Si appoggiò alla scrivania e lo osservò dall'alto verso il basso. Da quella posizione, pareva un gigante. «Ho dato un'occhiata al tuo programma per organizzare le lezioni» esordì, sgranchendosi le dita delle mani. «Direi di iniziare con algebra. Mi sembra la materia con cui stai messo peggio.» 

Michael emise un mezzo grugnito e abbassò gli occhi sulla superficie del tavolo, annuendo, imbarazzato. La matematica sarebbe sempre stata la sua dannazione eterna. A cosa gli sarebbe poi servita l'algebra nella vita, quello rimaneva un mistero. 

Sobbalzò quando udì Arthur battere energicamente le mani. «Bene, cominciamo!» esclamò, mettendosi in piedi e raggiungendo la lavagna, su cui scrisse un'equazione, tecnicamente, basilare. «Sai darmi la definizione di equazione?»

«No» mormorò Michael, tremando nel vedere i caratteri scritti col pennarello nero. Certo sapeva cosa fosse un'equazione, ma la definizione esatta non sarebbe riuscita a spiegarla nemmeno nella maniera più semplicistica possibile. Figurarsi essere in grado di risolverla. 

Tuttavia, Arthur non sembrava un tipo capace di farsi scoraggiare con tanta facilità. Anzi, al ricordo di tutte le malefatte che gli erano state rivolte anni prima, Michael si chiese come potesse pensare che fosse sprovvisto di pazienza. 

«Le equazioni sono uguaglianze tra espressioni matematiche in cui compaiono una o più incognite» rispose, e fin lì il giovane riuscì a seguirlo. «Risolvere un'equazione significa determinare i valori numerici che, sostituiti al posto dell'incognita, rendono vera l'uguaglianza.» 

Per tutta la prima mezz'ora di lezione, Arthur dovette sforzarsi a fargli entrare in testa i maledetti principi di equivalenza e un semplice (a sentir lui) procedimento per la risoluzione delle equazioni di primo grado. 

«Non ci capisco un cazzo!» sbottò Michael, a una certa, lanciando per aria il pennarello. «Perché è una frazione, adesso?» 

Era a tanto così dal mollare tutto e darsi alla prostituzione. Almeno non avrebbe avuto a che fare con incognite e altre stronzate. 

Arthur raccolse il pennarello da terra e, con una calma inaudita che sembrava tanto il preludio  a un'orribile uccisione a sangue freddo, gli indicò la frazione che stavano risolvendo insieme. «Per applicazione del secondo principio» rispose. «Che cosa stiamo ripetendo da un secolo? Enuncialo.» 

Michael se l'era già dimenticato, perciò dovette improvvisare: «Qualcosa a proposito di una divisione...» 

«È possibile dividere o moltiplicare i due membri per una stessa quantità diversa da zero.» Arthur indicò i denominatori. «Così ti basta semplificare. Davvero, non è difficile quando impari ad applicare i principi. Ma devi conoscerli. Allora, semplifica i due membri.» 

Michael fece l'operazione. Qualcosa cominciò ad avere effettivamente senso, quando il risultato diede x = 3. L'aver risolto una prima equazione, comunque, non gli risparmiò il resto delle preoccupazioni. «Okay, ma questa era basilare» osservò. «Lo hai detto tu. In classe ne facevamo di molto più difficili.» 

«Il progetto di una casa comincia dalle fondamenta, non dal tetto, Mike. Prima impariamo a risolvere quelle semplici, in seguito ci occuperemo di quelle più articolate.» 

Con la coda dell'occhio, Michael vide Arthur inforcare gli occhiali e sfogliare le pagine del suo eserciziario di algebra. Si ritrovò a fissarlo più intensamente di quanto avrebbe voluto: la montatura scura e la fronte aggrottata, segno della sua concentrazione, lo facevano sembrare più vecchio dei suoi ventidue anni. Michael non lo ricordava così casual, anzi, lo vedeva spesso la domenica in centro sempre ben vestito e pettinato, con un portamento elegante. Oppure, al contrario, lo intravedeva mentre attraversava la strada a tutta velocità per sfuggire alle provocazioni dei compagni, le spalle ricurve che lo facevano sembrare ancora più piccolo, le mani affondate nelle tasche come nella speranza di scomparire dentro ai vestiti. Lì per lì, invece, aveva un'aura di confidenza invidiabile che lo rendeva piuttosto fico. 

Quando Arthur risollevò lo sguardo su di lui, Michael si sentì arrossire, colto sul fatto. «Non volevo fissarti!» esclamò, come per giustificarsi. 

«Non ho detto niente...» replicò lui. 

Quello avrebbe dovuto essere il momento in cui Michael lasciava perdere; invece, proseguì a scavarsi la fossa da solo nell'imbarazzo, impossibilitato a chiudere la bocca nell'attimo più adatto. «È che pe-pensavo...» balbettò.  «Non ti avevo mai visto così... così...» 

La parola che aveva pensato era sexy ma non aveva il coraggio di dirla ad alta voce. A dirla tutta, si rifiutava persino di averla pensata: non era neanche minimamente concepibile una cosa del genere, meno che mai con Arthur. Sicuramente stava sbagliando qualcosa, proprio come quelle dannate equazioni. 

«... così sicuro di te!» 

Ci aveva impiegato qualche secondo, frazione di tempo durante la quale Arthur non aveva smesso di fissarlo come se gli fosse cresciuta una seconda testa; ma, alla fine, era riuscito a concludere la frase alla meno peggio. D'altronde, il concetto che desiderava esprimere era quello. Giusto?

Arthur scrollò le spalle e tornò a sfogliare l'eserciziario. «Che vuoi che ti dica?» rispose. «Sarà l'aria di città che mi trascino addosso ultimamente.» 

«Ti dona.»

Altra occhiata. Michael, a quel punto, avrebbe potuto tranquillamente distendersi nella fossa, colpire le pareti e aspettare che il cumulo di terra spostata lo seppellisse vivo. Perché non era mai in grado di starsene zitto? E, soprattutto, perché gli occhi di Arthur su di lui gli facevano uno strano effetto, quasi come se gli piacesse? 

«Va bene» tagliò corto lui. «Adesso concentrati sulle equazioni. Risolviamo qualche esercizio insieme, ad alta voce, dopo di ché te ne preparo qualcuna da fare da solo e vediamo come te la cavi.» 

Michael inspirò ed espirò profondamente, prima di annuire, come per arrendersi. Fare gli esercizi sotto la supervisione di Arthur non faceva sembrare la matematica come un problema insormontabile; tuttavia, nel momento in cui venne lasciato faccia a faccia su un quaderno a risolvere le equazioni da solo, gli sembrò di essere abbandonato in mezzo a un bosco di notte, disarmato e in mezzo ai lupi affamati. Nessuno dei suoi risultati combaciava con quelli sull'eserciziario. 

«Magari è sbagliato il libro» provò a sdrammatizzare Michael, mentre Arthur correggeva i suoi procedimenti. 

«Sì e se mia nonna avesse le ali, farebbe il piccione viaggiatore» commentò l'altro. Con la matita andò a indicargli un passaggio sul foglio. «Perché qui hai moltiplicato?» 

«Beh, hai detto che si può dividere o moltiplicare...» 

«No. Ti ho detto di moltiplicare quando il valore è negativo.» 

«Ah.» 

Troppe regole e troppe eccezioni. Non gli sarebbero mai entrate in testa. 

Quando scattò il timer, Michael si sentiva come se qualcuno gli avesse pigiato un piede sopra la testa con forza, schiacciandogli il cranio e il cervello. Grazie al Cielo, Arthur propose una pausa caffè. 

Appoggiato al bancone della cucina, Michael si strofinò gli occhi: numeri, lettere, simboli di più e meno ballonzolavano nel suo campo visivo. Gli sembrava di aver bevuto vodka. 

«Dobbiamo continuare con matematica, dopo?» mugolò, quando Arthur gli porse il caffè. 

Lui annuì. «Sì, sei una frana» disse, aprendo il frigo. «Ti auguro di non essere così terribile con le altre materie.» 

«Di solito, una sufficienza alla fine dell'anno riuscivo sempre a strapparla.» Michael allungò la tazza, lasciando che Arthur vi vuotasse dentro un po' di panna. «Ma questa volta non sono proprio riuscito a recuperare tutto in tempo. Non avevo la forza di studiare.» 

Vi fu qualche secondo di silenzio, durante il quale entrambi sorseggiarono i propri caffè. Alla fine, fu Arthur a parlare per primo.  «Mi dispiace davvero molto per tua madre» mormorò. «Mi piaceva. Era sempre gentile con me.» 

Le labbra di Michael s'incurvarono in un sorrisetto malinconico. «Era gentile con tutti» bisbigliò, tenendo gli occhi sulla superficie marrone della bevanda. 

«Beh, con me lo è stata in un periodo in cui nessuno lo era.» Arthur si sedette sul tavolo, fronteggiando Michael e lasciando penzolare le gambe, e bevve un lungo sorso di caffè. «Andavo spesso da Welch» disse. Welch era il diner dove mamma lavorava come cameriera, alle porte di Clairton, lo stesso dove aveva trovato lavoro Linda. Era lì che si poteva mangiare i migliori hamburger della città. «Una sera, appena arrivato, mi resi conto che non avevo con me il portafogli. Così tornai indietro fino a casa. Lo cercai per quasi un'ora, ma alla fine dovetti arrendermi all'evidenza di averlo perso. Così chiamai il ristorante e feci annullare il mio tavolo. Dopo un paio d'ore, qualcuno venne a suonare alla mia porta: era tua madre, con una porzione gigante di alette di pollo e due birre per me e il nonno.»

Michael sollevò gli occhi su Arthur, rendendosi conto di averli pieni di lacrime quando vide i contorni della sua figura tremendamente sfocati. 

«Offro io, mi disse» sorrise Arthur. «Scoppiai a piangerle davanti e ne fu così sorpresa che rimase con me fino a quando non mi calmai. Le dissi che l'ultima volta che qualcuno aveva suonato alla mia porta, era stato per lanciarmi un cartone del latte in faccia.» 

Le mani di Michael avevano preso a tremare. Sua madre non gli aveva mai detto di conoscere Arthur. La tazza che stringeva s'inclinò e ne fuoriuscì qualche goccia di caffè, cadendo sulla punta delle sue scarpe e macchiando per terra. 

«Cazzo» esclamò, mentre Arthur si alzava per prendere un pezzo di carta e pulire. «Mi dispiace. Mi dispiace così tanto....» 

E non parlava del caffè. Non aveva nemmeno più il coraggio di alzare gli occhi su Arthur. Non era sicuro che sarebbe riuscito a sopportare la sua espressione, qualunque essa fosse. Lo sentì affiancarsi a lui contro il bancone, ma i propri occhi rimasero immobili sulla superficie liquida del caffè. 

«Hai...» balbettò Michael, sentendosi tremare come una foglia. «Insomma... tu le hai mai....?» 

«No» rispose Arthur. «No, non le ho mai detto che eri stato tu.» 

Michael tirò su col naso. Ormai le lacrime avevano abbandonato i suoi occhi e gli solcavano copiosamente le guance. «Perché no?» gli chiese. La voce gli uscì più strozzata di quanto avrebbe desiderato. 

Udì Arthur sospirare al suo fianco: «Non volevo darle un dispiacere.» 

Già, il dispiacere di avere un figlio stupido. Non era così che Michael avrebbe voluto essere. Non era così che mamma lo aveva cresciuto. Se era vero che i defunti guardavano ancora i propri cari dall'aldilà, che cosa mai avrebbe pensato sua madre di lui, in quel momento, messo davanti alle proprie colpe, ai propri altarini? Poteva quasi intravedere il suo cipiglio contrariato. Anzi, no: deluso. E fu quell'immaginaria delusione che gli diede, finalmente, la forza di asciugarsi il viso al meglio e voltarsi verso Arthur. 

«Sono serio» disse, cercando di mantenere il controllo della propria voce, di non lasciare che si spezzasse. «Mi dispiace da morire. Per lo specchietto. Per il fottuto latte. Per tutte le cose che ti ho gridato seguendo il coretto. Sono stato un coglione... ma non voglio più esserlo. Non voglio.» 

Michael era migliore di così. Sapeva che poteva esserlo. Ma, soprattutto, sapeva che quella sarebbe stata l'unica occasione che avrebbe avuto per sistemare le cose. Le proprie e quelle con Arthur. Qualcuno dall'alto aveva deciso di donargli una chance per mettere a posto la propria vita e non l'avrebbe sprecata. Non poteva. 

Per qualche attimo, Arthur evitò di guardarlo negli occhi, concentrandosi solo sul proprio caffè. Michael si domandò se stesse considerando di accettare quelle scuse o meno. Sperò che fosse così, anche se non si sarebbe stupito del contrario. «Va bene» rispose, infine, restituendogli lo sguardo. «Va bene, mettiamoci una pietra sopra, per il quieto vivere. Ho come l'impressione che dovrai venire qui spesso se vuoi passare quegli esami.» 

«Già» bofonchiò Michael, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Davvero, mi dispiace.» 

«Okay, Mike, adesso stai rompendo un po' le palle.» 

«Sono stato uno sciocco. Un arrogante. Un bullo. Mi sento... mi sento come...» Michael inspirò profondamente «... come se avessi tentato di uccidere un usignolo.» 

Arthur ridacchiò. «Almeno hai letto Il Buio Oltre la Siepe» osservò, portandosi la tazza alle labbra. 

«A dir la verità no» ammise Michael. 

Arthur sputò il caffè. «Cosa?» squittì. «Non esiste! Si tratta di un pilastro della nostra letteratura! Com'è possibile che tu non l'abbia letto?» 

«Ma che ne so?» bofonchiò Michael, sentendosi imbarazzato: possibile fosse una mancanza così assurda? «A quanto ho capito, comunque, dovrebbe essere nel programma di quest'anno...» 

«Quel libro mi ha fatto venire il sogno di diventare avvocato.» Arthur si scostò dal bancone e portò la tazza nel lavello. Michael finì il proprio caffè e gli porse la sua. «Diciamo che, per ora, non ho ancora abbandonato l'ambizione.» 

Tornarono al piano superiore, nello studio, dove Arthur impostò nuovamente il timer da cucina. A fine lezione, Michael si era alleggerito dei venti dollari prestati da Linda ed era riuscito a risolvere una sola equazione, ma ne fu comunque felice: lo aveva fatto da solo, senza la supervisione di Arthur. Si trattava comunque di un inizio, no?

Mentre sistemava il materiale nello zaino, prima di uscire, Arthur gli sventolò un libro sotto il naso. Michael lo afferrò: il titolo Il Buio Oltre la Siepe campeggiava in nero su di uno sfondo ocra, sopra il disegno di un uccellino. 

«Cos'è, mi dai pure i compiti?» ghignò il ragazzo, ma lo infilò comunque dentro il Jansport, in mezzo ai quaderni. 

«Leggilo quando hai tempo» gli consigliò Arthur, prima di scortarlo nuovamente nell'ingresso. 

Sul portico, Michael si voltò a guardarlo: si era a malapena reso conto che non indossava nemmeno più gli occhiali. I capelli erano più disordinati, come se avesse fatto ginnastica. Sì, decisamente gli piaceva quel look sbarazzino su di lui. 

«Giovedì alla stessa ora, quindi?» chiese, stringendo le labbra: era quasi come se avesse paura di sentire Arthur negare. Dirgli che tutta quella situazione era assurda e lui avrebbe fatto meglio a trovarsi un altro insegnante. 

Ma Arthur annuì. «Sì. Continuiamo con algebra fino a quando non avrai le date dei test.» 

Il pensiero provocò in Michael un moto di nausea, ma capiva che migliorare le proprie doti matematiche era essenziale e doveva accadere il più in fretta possibile. 

Si congedò, lasciando che Arthur chiudesse la porta alle sue spalle, e si diresse verso la bicicletta, rabbrividendo e desiderando di avere con sé un giacchetto. Si era già fatto buio. 
 


 

 [₁] - La frase è riportata quasi accuratamente dal film originale. Piccola nota: sono contraria alla caccia e non ho assolutamente intenzione di "romanticizzarla". Nel film ha senso perché viene inserita come metafora della guerra e, successivamente, della roulette russa a cui Mike, Nick e Steven vengono sottoposti. Qui, in ogni caso, ci tenevo a mantenere il fatto che Mike fosse sempre un cacciatore e che abbia maturato l'idea del colpo solo a una giovane età. Purtroppo, in America, soprattutto nelle cittadine, è molto facile trovare adolescenti già affascinati dalle armi, capaci di acquistare e utilizzare una pistola o un fucile. Mi piaceva mostrare questo lato dei giovani made in USA senza sfociare in inutili paternali, nonostante io sia assolutamente contraria alla libera circolazione delle armi. 
 



Sarò veloce perché ho il terrore che mi si spenga il computer a random. Ringrazio di cuore tutte le persone che recensiscono, giuro che stavi per rispondervi uno a uno ieri ma guess what?? mi è morto il pc all'improvviso perché si surriscalda troppo facilmente. Se riesco, vi rispondo da tablet. Vi mando un bacione enorme, spero che questa ficcyna vi stia piacendo tanto quanto piace a me <3 

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Capitolo 4
*** Con la testa tra le nuvole ***


 
IV. 
Con la testa tra le nuvole 

 

Something happens and I'm head over heels
I never find out till I'm head over heels
Something happens and I'm head over heels
Ah, don't take my heart, don't break my heart
Don't, don't, don't throw it away

Tears for Fears - Head over heels 
 



 

Il resto della settimana trascorse quasi in completa tranquillità. I ragazzi stabilirono il mercoledì come giorno fisso per le attività dell'A.V. Club, mentre Michael si lavorò per bene Miss Darbus, l'insegnante di teatro, [1] per convincerla a prenotare l'auditorium lunedì e venerdì. Così avrebbe facilmente avuto un programma settimanale che non sarebbe andato a intaccare le ripetizioni con Arthur.

Alle luci delle loro ultime confessioni e della tregua ormai -apparentemente- stabilita, Michael si sentiva più leggero, quel giovedì, mentre pedalava verso casa Kirkland, con due tavolette di cioccolato infilate in una delle tasche del giacchetto. Eliminata l'ansia, la sensazione di essere di troppo, perfino le sue performance matematiche sembrarono avere un piccolo miglioramento, quel pomeriggio.

«Non ho ancora cominciato a leggere il libro» ammise, mentre Arthur gli correggeva gli esercizi durante la loro pausa caffè. «Però ho inserito il film nella lista dei titoli per il cineforum di quest'anno. Abbiamo deciso di inserire solo film anni Sessanta e Settanta. Tra l'altro, sai cosa sarebbe interessante? Proporre film stranieri, perché è stupido parlare della Nuova Hollywood senza menzionare la Nouvelle Vague francese, o il neorealismo italiano o la Nová vlna...» 

Arthur sollevò lo sguardo su di lui, spingendo indietro gli occhiali che gli erano scivolati sulla punta del naso. «Cos'è quella roba che hai appena pronunciato?» chiese.

Michael ridacchiò: «Oh, è una corrente cinematografica cecoslovacca. Fu sviluppata dagli studenti dell'università di Praga come risposta artistica al regime comunista. L'asso di picche è il mio film preferito.»

Non aggiunse che lo era perché gli ricordava la propria situazione con il padre, a partire dal nome del protagonista. Invece, chiese ad Arthur quale fosse il suo film preferito.

Lui posò la penna e bevve un sorso di caffè, prima di rispondere: «The Wicker Man

Michael emise un lungo fischio, stiracchiandosi sulla sedia della cucina. «Leggerino» commentò. «Non ti facevo tipo da horror sofisticato, sai?»

«Perché no?»

«Boh, di solito quelli che portano le fasce tra i capelli sono fan dei Goonies e basta. Ahia!» 

Arthur lo aveva punzecchiato forte su una mano con la punta della penna. «Che stronzetto con la puzza sotto il naso» sogghignò -e quella era la prima volta che Michael lo vedeva divertito. Faceva una cosa con la punta della lingua, appoggiandola dietro l'arcata superiore dei denti. Era sensuale, sotto un certo punto di vista. Ipnotico. «Consideri veri cinefili solo quelli che hanno tempo e voglia di stare dietro ai mattoni cecoslovacchi?»

«Non ho detto questo.» Michael si passò un dito sulla piccola macchia d'inchiostro rosso che gli aveva lasciato la penna di Arthur. Ma, in realtà, sentiva il bisogno di distogliere lo sguardo da quell'espressione da serpe che gli faceva titillare qualcosa in prossimità della cintura. «Però, se effettivamente ti consideri un amante del cinema dovresti provare a dare una chance a qualunque cosa.»

«Che è un po' come dire se ti piace il baseball dovresti provare a tifare tutte le squadre

«Perché no? Se mi piacciono i Giants non posso saper riconoscere la capacità di gioco dei Red Sox?»

Per qualche attimo, Arthur parve rimuginare su quelle parole, mentre si accarezzava pensierosamente il mento. «Touché» disse, infine, e tornò indietro di una pagina sul quaderno di Michael. «Ho una notizia buona e una cattiva. Quale vuoi sentire per prima?»

«Quella buona.»

«La buona notizia è che lo svolgimento della prima equazione è perfetto.»

Michael esultò, lanciando in aria le braccia. Peccato che Arthur non avesse ancora finito di infierire sui suoi sentimenti.

«Quella cattiva è che tutte le altre sono miseramente sbagliate.»

Michael tornò ad afflosciarsi sulla sedia. «E ti pareva» bofonchiò.

L'ultima ora del venerdì prevedeva Educazione Fisica. Normalmente, l'avrebbe trascorsa con Steven, Axel e Stanley a nascondersi dalle grinfie di Adolfa e a sfondarsi di canne dietro i gabinetti della palestra, ma, sempre per la propria precaria condizione scolastica, quel giorno non gli pareva il caso. Così, per un'ora, strinse i denti e finse entusiasmo nel correre per il percorso a ostacoli che la Rizzo aveva imbastito intorno al campo di football.

Grazie al cielo, se l'era sempre cavata con la ginnastica, complice anche la propria predisposizione fisica naturale che lo aveva fatto grosso e atletico. Il problema di Michael era la pigrizia nei confronti delle cose che non lo entusiasmavano.

Mentre osservava Nick saltare gli ostacoli con l'agilità di una gazzella e beveva un po' d'acqua dalla propria borraccia, udì Linda sospirare accanto a lui: «Non è il culo più bello d'America?»

Michael sputò l'acqua e cominciò a tossire nel tentativo di fermare le risate.

«Vronsky!» lo riprese subito la professoressa. «Tocca a te, muoviti!»

Mentre Michael si asciugava la bocca e posava la borraccia, giunse un coretto dagli spalti. I suoi cosiddetti amici avevano rubato i ponpon blu e bianchi delle cheerleader dall'attrezzeria della palestra e si erano messi a improvvisare un balletto scoordinato.

«Datemi una V, datemi una R!» Axel cantava e scalciava, agitando i ponpon.

Stanley gli andò subito dietro: «Datemi una O, datemi una N

«S, K, Y!» esclamò Steven. «Perché Vronsky è il nostro re

«Ogni due ne salta tre!» [2]

«Scendete da lì, deficienti!» tuonò Adolfa, mentre, dietro di lei, la classe rideva a crepapelle.

Michael scosse la testa, domandandosi perché frequentasse gente del genere, e cominciò a correre. Gli ostacoli erano fin bassi, per lui, spingersi e portare la gamba oltre la sbarra di metallo era estremamente semplice. In meno di qualche secondo, giunse quasi alla fine del percorso quando, incrociando lo sguardo con Nick, vide che il ragazzo gli sorrideva. Il piede sinistro di Michael si scontrò violentemente contro l'ultimo ostacolo e lui inciampò, cadendo rovinosamente in avanti e rotolando per qualche centimetro in mezzo alla polvere.

Ci vollero un paio di secondi prima che il suo cervello registrasse quanto appena accaduto e, una volta scaricata l'adrenalina, si rese conto di quanto gli facesse male il ginocchio destro. Doveva essere atterrato proprio male.

Le orecchie gli fischiavano, ma ancora poteva sentire le urla e le risate sguaiate dei propri amici.

«Che figura di merda!»

«Sceee-moSceee-mo!» [3]

Michael sbuffò, sollevando una nuvoletta di polvere, e tentò di mettersi almeno a sedere per constatare i danni alla gamba. Qualcuno si accucciò di fronte a lui.

«Stai bene?»

Era Nick. Chino su di lui, i suoi occhi color ghiaccio erano intrisi di preoccupazione. Michael si sentì avvampare e sperò che lui non se ne accorgesse, che scambiasse il proprio rossore come conseguenza della corsa e dell'incidente appena avvenuto. Il cervello non sembrava voler collaborare.

«I-il ginocchio...» fu l'unica cosa che riuscì a balbettare, prima di volgere lo sguardo al danno. Si era strappato il pantalone grigio della tuta e un rivolo di sangue colava da una ferita aperta che gli bruciava come l'inferno.

Istintivamente, Michael fece per toccarsi il ginocchio, ma la mano di Nick fermò subito la sua.

«Non toccarlo» lo ammonì, e a Michael parve di sentire i suoi polpastrelli accarezzargli il palmo. «Potrebbe esserci finita della polvere, bisogna disinfettarlo subito.»

L'ombra della professoressa Rizzo si materializzò sul terreno. «Tutto bene, Vronsky?»

Fu Nick a rispondere per lui. «Si è tagliato il ginocchio, professoressa» disse. «Posso accompagnarlo in infermeria?»

«Andate. Nel frattempo, io sistemo quei tre imbecilli lassù.»

Michael si scambiò un sorrisetto d'intesa con Nick, prima di farsi aiutare a mettersi in piedi. Si sentiva un po' in imbarazzo per tutte quelle premure... ma, al tempo stesso, gli piaceva tenere il braccio intorno suo collo, appoggiarsi a lui come una stampella, sentire il suo braccio che gli circondava i fianchi, tenendolo saldo per non rischiare di farlo cadere.

«Sei più forte di quanto pensassi» osservò, mentre zoppicava in direzione dell'edificio scolastico. «So che non sono esattamente un peso piuma.»

«Scusa se ti ho distratto» rispose Nick. «Non volevo farti capitombolare. Mi ha sorpreso vederti correre così veloce.»

«Stai dicendo che sono grasso?»

«Sto dicendo che hai un bel fisichino, razza di boscaiolo rude che non sei altro. Pure senza barba sembri un orso!»

«Lo prendo come un complimento.»

«Lo è.» Salirono la rampa e aprirono la porta antincendio. «Gli orsi sono carini.»

Michael poté giurare di essere nuovamente arrossito. 
 

 

§§§§ 


 
 

Arrivò il weekend e con esso tornò il sole e una temperatura piacevolmente estiva. Quel pomeriggio, Michael, visto l'infortunio del giorno prima, ne approfittò per fare un po' di limonata e sdraiarsi su una branda in cortile a leggere. Il libro lo aveva preso così tanto che, in pochi giorni, aveva finito la prima parte e ora gli abitanti di Maycomb, Alabama, si preparavano al processo che avrebbe cambiato molti aspetti della loro vita quotidiana.

Piotr scese dalla rampa di cemento che portava alla porta del caravan e mosse qualche passo verso di lui. Michael, con gli occhi nascosti dietro le lenti degli occhiali da sole, non sollevò lo sguardo dal libro.

«Scendo in città» annunciò suo padre.

«Va bene» rispose il ragazzo, voltando pagina.

«Non so per che ora tornerò.»

«Come vuoi.»

«Ti ho lasciato dei soldi sul tavolo, se vuoi ordinarti la cena. Altrimenti c'è ancora il riso di ieri da scaldare.»

«Lo farò.»

E Piotr se ne andò, sgommando sulla strada con la Cadillac. Probabilmente, sarebbe rientrato ubriaco fradicio alle tre di notte, con Michael che fingeva di dormire nella propria stanza. Oppure avrebbe dormito in macchina, nel parcheggio dietro al bar dei Pushkov. Come se l'avesse invocato, il telefono prese a squillare dentro casa.

Mugugnando, Michael si cacciò giù dalla branda e, zoppicando, andò a rispondere. Era Stanley, che annunciò una riunione straordinaria a casa di Steven. «Dobbiamo aiutarlo a chiedere ad Angela di andare con lui al ballo.»

«Mancano tre settimane!» esclamò Michael. L'isteria di massa che infettava l'intera scolaresca nel periodo antecedente l'Homecoming era imbarazzante.

«Lo sappiamo bene» ridacchiò Stanley, «ma lui dice che se aspetta troppo non riuscirà ad invitarla per primo. E vuole fare le cose in grande, perciò dobbiamo aiutarlo.»

«Okay, okay» si arrese Michael, spostando il peso da una gamba all'altra, pentendosene subito quando avvertì una fitta lancinante al ginocchio monco. «Senti, perché non venite qua da me? Papà è fuori per tutto il giorno e ho preparato la limonata.»

«Perché no? Portiamo qualcosa da mangiare. A dopo!»

Sbuffando, Michael riagganciò la cornetta e andò a prendere bicchieri e tovagliette in cucina. Mentre apparecchiava il tavolo in cortile, vide Nick sbucare fuori da dietro un albero. A Michael quasi cadde un bicchiere nel tentativo di ricambiare il suo saluto. Cautamente, Nick attraversò la strada e si appoggiò alla recinzione che circondava il cortile. «Che combini?»

«Stiamo per avere un convegno su come aiutare Steven a chiedere ad Angela di andare al ballo con lui. Vuoi unirti?»

«Stevie spreca il suo tempo» lo informò Nick. «Angela è già stata invitata da cinque persone, ieri, e ha detto di sì a Todd Lancaster.»

«Oh no!»

Michael sbatté un bicchiere sul tavolo. Buttava male, malissimo: Todd Lancaster era il quarterback della squadra di football. Steven avrebbe dovuto sperare in un miracolo per avere ancora un barlume di possibilità con la propria bella. «Stevie non la prenderà bene.»

Difatti la prese a dir poco tragicamente. Scoppiò a piangere nel bel mezzo del giardino e cominciò a tirare calci a un vecchio copertone, recitando una lunga serie di «Cazzo!», intramezzati da «Blyat!» e «Fanculo!» vari. I ragazzi lasciarono che si sfogasse e, una volta sfinito, Steven si lasciò cadere sul gradino della passerella, il volto arrossato dalle lacrime e le mani affondate nei riccioli castani. Se non avesse pianto, a Michael una reazione del genere avrebbe fatto ridere di gusto. Invece, gli dispiacque terribilmente vedere il suo migliore amico ridotto in quel modo, e si sentì in colpa per aver sottovalutato i suoi sentimenti nei riguardi di Angela.

Stava per alzarsi e andare a consolarlo, quando Nick lo precedette, portandogli un bicchiere colmo di limonata fredda. «Dai, Steve, non ne vale la pena.»

«Facile dirlo per te!» lo rimbeccò Steven. Gli tremava leggermente la mano e la limonata fuoriusciva qua e là dai bordi del bicchiere di plastica. «Sei arrivato da una settimana eppure hai già l'intera squadra di cheerleading ai piedi! Io frequento la stessa scuola da quattro anni e Angela non mi parla dalle medie!»

«Questo non è vero» replicò Axel, agitando in aria una delle patatine al bacon che stava mangiando. «Ti ha sempre invitato alle sue feste.»

«Ci mancherebbe, le abito praticamente di fronte!»

«E l'anno scorso avete lavorato a quel progetto di scienze insieme...»

«Già, e poi non gliene è più fregato di cercarmi!» Steven posò il bicchiere a terra e cominciò a tastarsi i jeans alla ricerca di qualcosa. Alla fine, le sue mani trovarono l'accendino e l'astuccio argenteo dove teneva le canne già preparate.

Stanley si stiracchiò sulla sedia e sbadigliò sonoramente. «Non lo hai ancora capito, Steve? Sono tutte uguali!» esclamò. «Le donne, dico. Ti considerano solo quando hanno un disperato bisogno d'aiuto. Sono brave, manipolatrici nate, perché la natura le ha rese più deboli degli uomini, succubi fin dall'alba dei tempi, e allora hanno imparato queste strategie per farci piegare alla loro volontà. Battono un po' le ciglia, inarcano le labbra all'ingiù, magari spingono un po' il petto in avanti e zam!, il gioco è fatto! E noi, lì, sempre ad abboccare come i poveri pesci lessi che siamo.»

Il suo discorso era delirante, ma la sua imitazione di un pesce all'amo, rappresentato da un dito in bocca, li fece morire tutti dal ridere. Quando smise di boccheggiare, Stanley prese un po' di limonata. «Fidati, non è diverso con Todd Lancaster. Adesso, Angela ha bisogno di lui per essere la reginetta della scuola, ma vedrai. Quando finirà la stagione, lo butterà nell'indifferenziata, insieme a te, insieme a tutti gli altri scarti organici del genere femminile. Qui è il povero Todd a essere una vittima.»

«Come la fai drammatica, Stan» osservò Nick. «Mai pensato, invece, che ad Angela possa piacere Todd, anziché Steven? Purtroppo, non sempre le persone che ci piacciono ricambiano.»

Michael spostò lo sguardo su di lui. Per un solo, minuscolo momento, fu quasi certo che gli occhi di Nick avessero guizzato nella sua direzione, mentre affermava ciò. Scosse la testa e si grattò una guancia ruvida: con ogni probabilità se lo era solo immaginato.

Axel accartocciò rumorosamente il pacchetto di patatine ormai vuoto. «Cambiando un attimo discorso» disse, «tra due settimane apre la caccia al cervo. Dovremmo cominciare a organizzarci.»

«A proposito» fece Nick, sorridendo timidamente. «Ho chiesto a Mike se ha voglia di insegnarmi a sparare. Se vi va, mi piacerebbe unirmi a voi.»

Stanley ridacchiò. «Sicuro che poi non ti metti a piangere davanti a Bambi morto?»

«Piantala, Stan.» Michael fece subito in modo di tagliare corto. Si alzò dalla sedia e, zoppicando, si diresse verso l'entrata del caravan. «Vieni con me, Nicky.»

Il ragazzo si alzò e lo seguì dentro casa.

Michael afferrò il fucile più piccolo da una mensola sopra il divano e si mise alla ricerca di una scatola di proiettili nella credenza.

«Come va il ginocchio?»

Si voltò e vide che Nick gli sorrideva dal divano. Michael si ritrovò a deglutire, domandandosi perché diamine quegli occhi luminosi avessero su di lui l'effetto di rincitrullirlo come non mai. «Meglio» mormorò, sedendosi accanto a lui, sul bracciolo, la canna del fucile stretta tra le mani. «Grazie per avermi accompagnato in infermeria, ieri.»

«Mi sentivo un po' responsabile. E poi è sempre bello finire Ginnastica prima del tempo.»

Risero e, per qualche attimo, a Michael parve che l'aria in casa propria fosse tornata a quel calore che permeava quando lui e mamma trascorrevano insieme i pomeriggi piovosi. Gli piaceva Nick. Gli piaceva la sua presenza, gli piaceva la sua voce, gli piaceva quella sensibilità che lasciava trasparire ma di cui, al tempo stesso, sembrava quasi vergognarsi. Come se, in qualche modo, dovesse giustificarla. No, non ce lo vedeva ad ammazzare un cervo.

«Ho iniziato il libro, sai?»

«Davvero?»

«Sì, l'ho... l'ho preso in biblioteca» mentì Michael. Per qualche strana ragione, non aveva ancora voglia di raccontare dei suoi pomeriggi a casa di Arthur. Forse perché, in fondo, gli piaceva pensare che stessero cominciando a coltivare un'amicizia che poteva avere tutta per sé. O forse si stava solo illudendo: d'altronde, erano state appena due lezioni. «Ho già finito la prima parte. Sono arrivato alla morte della signora Dubose.»

«Adoro quella parte» confessò Nick. Inclinò di poco la testa all'indietro e i suoi occhi parvero illuminarsi nuovamente. «Il momento chiave della maturazione di Jem. La morte di una persona anziana che coincide con la morte della sua infanzia stessa. La trovo una cosa molto profonda.»

Michael si sistemò meglio sul bracciolo. «Non ci avevo fatto troppo caso» ammise, sentendosi un po' in imbarazzo rispetto alla capacità dell'altro di leggere così profondamente tra le righe. Lui si stava limitando a godersi un buon libro. «Ero solo un po' contento di essermi tolto una vecchia rompiscatole.»

«Devi andare un po' più a fondo di così, se vuoi comprendere a pieno il senso di uno scritto» rise Nick. «Ma non fa niente, ci arriverai. Ti piace?»

«Mi piace moltissimo.»

«Ne sono felice. Allora, mi insegni a usare quel coso?»

Michael annuì e gli fece cenno di alzarsi e di seguirlo in camera di papà e mamma. Nick imprecò quando vide la testa di un cervo impagliato appesa sopra il letto. «Quanto cavolo è grosso?»

«La tagliata di cervo migliore della mia vita. Vieni qui.»

Si piazzarono ai piedi del letto e Michael gli passò il fucile, ovviamente ancora del tutto scarico. Michael si adoperò per correggergli la postura.

«Ruota il corpo a tre quarti» disse, posandogli le mani sui fianchi stretti. Avvertiva un lieve imbarazzo, mentre aiutava Nick a prendere la giusta posizione di tutto: i piedi, le braccia, la testa. Un imbarazzo che cominciò a essere sostituito da un certo calore, quando si ritrovò a circondare il suo corpo esile con le braccia muscolose, sovrapponendo le proprie mani alle sue sul fucile. La sua pelle era calda e levigata, piacevole al tatto.

«Tieni... tienilo ben stretto sotto l'ascella» mormorò Michael, avvertendo una serie di brividi scorrergli lungo tutto il corpo. Le gambe presero a formicolargli. «Altrimenti ti becchi tutto il rinculo sulla spalla e fa un male cane. Sì, così... ora cerca di portare la mira sulla fronte del cervo. Gli occhi sempre perpendicolari alla bindella...»

«Ci sono un sacco di cose da ricordarsi» osservò Nick.

Michael, intrappolato tra il comò e il corpo del compagno, deglutì. La schiena di Nick premeva forte contro il suo petto. Le proprie labbra gli sfioravano l'attaccatura dei capelli. Era impossibile che lui non avvertisse tutti i suoi tremori. Stava impazzendo. Gli girava la testa e... oh no. Oh, merda.

«Cazzo!» esclamò, prima di spingere malamente Nick in avanti, facendolo cadere sul letto.

Lui se n'era accorto. Ovviamente. Era impossibile che non l'avesse sentito, aveva una coscia praticamente attaccata al suo inguine. E rideva.

«Ti percepisco entusiasta, Mike!» lo prese in giro.

Michael, istintivamente, si sedette sul letto con le mani sopra il pube, tentando di nascondere il più possibile l'evidente erezione sotto la stoffa dei propri pantaloncini.

«Io non volevo... insomma, mi dispiace, io... adesso mi passa!» esclamò, avvertendo il rossore invadergli le guance. Dio, che figura di merda storica! Com'era possibile che si fosse eccitato in quel modo? No. Non si era eccitato. Era solo... il richiamo della foresta, tutto lì. Gli capitava spesso, a dirla tutta. L'ultima volta gli era successo a lezione d'inglese, solo perché aveva pensato che quel giorno vi erano i tacos a mensa. «Cristo!»

Come se gli avesse letto nel pensiero, Nick sembrò volerlo consolare. «Non fa niente» disse, mettendosi a sedere e appoggiando il fucile a terra. «Succede, è il contatto fisico. Se ti dicessi con cosa mi eccito, a volte, mi prenderesti per il culo da qui fino alla fine dei miei giorni.»

«No, dai, dimmelo» lo esortò Michael, combattendo contro ogni impulso di toccarsi. «Magari mi aiuta a farlo calmare.»

«Va bene. L'altra sera stavo guardando un documentario sull'Africa e mi è venuto durissimo quando hanno cominciato a parlare degli ippopotami.»

Non andava bene! Non funzionava per niente, anzi, era anche peggio ora che Michael s'immaginava Nick, seduto su un divano a fare esattamente quello che avrebbe voluto fare lui in quel momento.

«No» bofonchiò, accavallando le gambe. «No, non funziona.»

Nick ridacchiò e gli diede un buffetto sulla spalla. Gravissimo errore. «Mike, vai in bagno e fatti una sega» gli consigliò, a bruciapelo. «Non dico niente agli altri.»

Ci mancherebbe, pensò Michael, disperato, e, scusandosi mille volte, si fiondò in bagno alla velocità di un missile.

Sollevò il coperchio del gabinetto e si abbassò i pantaloni e le mutande, prendendo a masturbarsi freneticamente. Non furono esattamente i minuti migliori della propria vita. Dovette coprirsi la bocca con la mano libera per soffocare i gemiti, ma ancora avvertiva la terribile morsa dell'imbarazzo che gli impediva di godersi a fondo quel momento.

Più ci pensava, più si rendeva conto che non era sicuro gli sarebbe successo con qualcun altro. Con Axel, Stanley e Steven gli veniva un po' da ridere e un po' da vomitare solo a pensarci. Ma con Nick... Michael ancora avvertiva la propria presa su quei fianchi così morbidi, quasi femminei. Il pensiero gli andò alla testa e si ritrovò a sorridere nel pensare a Nick, disteso sul letto dei suoi genitori, accanto a lui... no, non accanto. Sotto di lui, a incrociare le loro gambe, a strusciarsi l'uno contro l'altro. Quello lo portò vicino, molto vicino, ma non era abbastanza... non ancora. S'immaginò di baciarlo. Un bacio lungo, passionale, come quello che vedeva nei film. Pensò a Nick che prendeva l'iniziativa, che ribaltava le loro posizioni e, oddio, sì, che prendeva a scoparlo.

Michael dovette spiaccicarsi la mano contro la bocca per non far sentire ai suoi amici, agli animali del bosco, a tutta Clairton, che stava urlando mentre veniva, pensando a un altro ragazzo.

Rimase piegato in avanti per qualche secondo, cercando di riprendere fiato, appoggiato alla cassetta del gabinetto. Alla fine, prese un po' di carta igienica e si pulì meglio che poteva.

Mentre si lavava le mani e il viso, incontrò il proprio riflesso nello specchio sopra il lavandino. Non ricordava di essere mai stato così rosso in volto, così ansimante, nemmeno dopo una lunga e sfiancante corsa.

«Va bene» disse, rivolto alla propria immagine. Raddrizzò la schiena, inspirò profondamente ed espirò a lungo. «Va bene» ripeté, mentre si dirigeva alla porta. «Va tutto bene.» 
 


 

[1] - sì, ho davvero chiamato l'insegnante di teatro di Mike come quella di High School Musical. Non ho fantasia con i cognomi dei prof, perdonatemi.

[2] - un saluto ai fan di Harry Potter ❣️

[3] - so che è probabilmente una cosa estremamente italiana, ma faceva troppo ridere per non inserirla.
 


💕 ANGOLO AUTRICE 💕

Ciao, carissimi!! 
Spero con tutto il cuore che questo capitolo non sia troppo cazzaro, anzi, peggio: troppo adolescente, ha! Anyway, sono in pieno periodo Mike/Nick in questi giorni, ma vi prometto che avremo un po' più di Arthur nei capitoli a venire ❤️ 

Spero che stiate tutti bene 💕 Restate in casa, uscite solo se dovete, supportate le storie belle su Wattpad e GUARDATE THE DEER HUNTER. Come al solito ringrazio tutti quelli che leggono e recensiscono, sono sempre il solito culo a (non) rispondere (perdonatemi è che generalmente leggo le recensioni da telefono e come sapete il mio utilizzo del pc è limitato), ma sappiate che apprezzo davvero tantissimo il supporto che date a me e alle mie storie!  

Pizza, carbonara, ciao 💖

 
 

 

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