Per le vie di Firenze - Mia

di Restart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Incontri ravvicinati del terzo tipo ***
Capitolo 3: *** 2. Quando tutto ha cominciato ad andare male ***
Capitolo 4: *** 3. Le dure convivenze ***
Capitolo 5: *** 4. Mai dire gol ***
Capitolo 6: *** 5. Sempre venerdì: finirà mai questo giorno? ***
Capitolo 7: *** 6. Avrò fatto un errore? ***
Capitolo 8: *** 7. La verità ***
Capitolo 9: *** 8. Il matrimonio dell'anno ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Mia: Orgoglio e pregiudizio
Prologo: cioè vi spiego tutto quello che è successo prima.
Gennaio 2015
«Allora, Mia, mi vuoi sposare?» mi chiede Gabriele, il mio ragazzo storico, in ginocchio davanti a me, con Palazzo Vecchio alle sue spalle. Attorno a noi si è formato un capanello di persone e alcuni stanno perfino facendo il video con il loro cellulare. Come se fossimo dei fenomeni da baraccone.
Io fisso gli occhi chiari del mio ragazzo e tentenno un po’, non sapendo cosa rispondere. Accidenti alle domande a bruciapelo.
Okay, analizziamo la situazione.
Ho conosciuto Gabri quando avevo vent’anni. O meglio, ci conoscevamo di già grazie ai soliti amici comuni. Lui era proprio carino all’epoca. Anche ora ovviamente, anzi forse meglio (grazie barba). Comunque, non deviamo dalla strada principale.
Io venivo dal Linguistico e lui era uscito dall’Alberghiera ed aveva iniziato a lavorare insieme a qualche chef qui a Firenze. Cioè, faceva il lavapiatti. Ma è normale quando hai ventidue anni.
Gabriele è nato a Roma e io ho sempre detto che è stato un dono del cielo incontrarlo, perché la Capitale è la mia seconda città preferita al mondo, dopo Firenze, ovvio.
Quindi un punto a favore per il sì.
Secondo punto a favore: io lo amo. Okay, allora questo dovrebbe essere il primo punto a favore, no? In realtà non lo so nemmeno io. Sto insieme a Gabriele da così tanto tempo che neanche io riesco a capire i sentimenti che provo per lui. Amore? Semplice affetto? Abbiamo sempre avuto un’affinità particolare, ci siamo sempre capiti alla prima occhiata, siamo stati migliori amici prima di stare insieme. Ci siamo messi insieme perché sembrava la cosa migliore da fare. O almeno io l’ho percepito così. A quanto pare lui mi ama. È sempre presente, ha sempre cinque minuti per me, per coccolarmi, per aiutarmi quando ho bisogno. Quindi col tempo ho iniziato ad adorarlo e avere bisogno della sua presenza al suo fianco. E questo io lo definisco amore.
Gabriele è stato proprio un bel respiro a pieni polmoni dopo la strana storia che ho avuto a quasi fine liceo. Io lo amavo profondamente e anche lui, ma tutto è finito velocemente, e io non riuscivo nemmeno a respirare senza lui. Per fortuna c’era il mio migliore amico al mio fianco. Quello con cui avevo condiviso tutto, che c’era sempre stato. E io mi sono letteralmente tuffata nelle sue braccia. Ed ora sono qui.
Quindi, che rispondere? Premettiamo che non sono ancora pronta per un matrimonio: ho trentun anni, ma mi sento ancora un po’ acerba. Se penso che alla mia età mia madre era già sposata con un pargolo, mi viene da scappare e andare in Messico.
Non mi sento ancora pronta per un passo del genere.
Eppure il buonsenso continua a martellarmi, a dirmi che devo dire sì, che non devo fargli fare una figuraccia davanti a mezza città, non posso ferirgli i sentimenti, che lui è un ragazzo così fragile…
Mi inginocchio di fronte a lui, sorridendo più che posso. Guardo i suoi occhi luminosi, brillanti, pieni di speranza. Mi avvicino al suo orecchio e sussurro un debole sì, un sì che possa essere solo nostro, che non possa appartenere a quegli sciacalli attorno a noi. Lo vedo letteralmente esplodere di gioia. Mi abbraccia stretto e inspiro a lungo il suo profumo nuovo, quello che gli ho regalato io per Natale. Mi bacia ripetutamente sulle labbra, sul viso, sulle guancie, ma io sembro più un fantoccio. Non reagisco, se non per dei sorrisi fin troppo deboli per questa situazione.
Solo alla fine m’infila l’anello al dito. Lo riguardo a lungo e mi ripeto mentalmente “sono fidanzata”. Va bene, coscienza convinta. Ma ho una sensazione strana, avrò fatto la cosa giusta?

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Capitolo 2
*** 1. Incontri ravvicinati del terzo tipo ***


Giovedì 3 Dicembre 2015
Incontri ravvicinati del terzo tipo (con attori che non sognavo nemmeno di incontrare).
Okay, facciamo con calma. Bisogna rimanere rilassati. Non può andare così male, no?
Guardo il portone di ciliegio e sento la gamba destra fremere dalla paura. Non solo la gamba. Ho anche un buco allo stomaco.
Sono interamente attanagliata dalla paura. Con lentezza infilo la chiave nella toppa e faccio scattare un paio di volte. Dentro pare non esserci nessuno. Perfetto, via libera.
Neanche il tempo di mettere il piede dentro che la vedo arrivare a corsa sulle scale. Ha gli occhi infiammati e la bocca serrata. Era troppo bello per essere vero.
«Mia! MIA! Ti devo parlare subito» si posiziona davanti a me con gli occhi ridotti a fessure e le mani appoggiate sui fianchi. E, giustamente per completare il tutto sta battendo la punta dello stiletto firmato sul pavimento. Mi chiudo la porta alle spalle e sospiro. Niente vie di fuga, ormai sono in trappola.
«Dimmi mamma» cerco di far finta di niente anche se so di cosa vorrà parlare. Aspetto con finta calma che lei parli.
«Mi ha chiamato Benedetta» si prende una pausa tattica per farmi salire l’ansia, come se non lo sapesse che ne sto già morendo. «Mi ha detto che non sei passata a provarti l’abito, che non hai ancora preso quello delle damigelle e che non hai ordinato i fiori» scandisce piano, come al suo solito. Sebbene viva da più di quarant’anni in Italia non ha perso questa abitudine di parlare piano, studiare ogni parola, ogni frase prima di dirla.
«Posso usare la giustificazione che ci sono un sacco di turisti qui in questo periodo?» tento di usare la scusa del lavoro. Che poi alla fine è la verità. Ogni giorno enormi gruppi di persone arrivano a Firenze per vederla sotto Natale, per ammirare la città di giorno con tutte le sue bellezze artistiche e la città di notte, illuminata da centinaia di luci che la rendono magica. Se non ci vivessi trecentosessantacinque giorni all’anno (moltiplicato per i miei trent’anni di vita), anche io ci verrei in questo periodo.
A mia madre s’infiamma ancor di più lo sguardo e scuote con forza la testa. Okay, ci ho provato.
«Non hai scusanti» enuncia severa. «Lo sai che mi sto facendo in quattro per organizzare il tuo matrimonio? E a te non importa per niente».
«Lo sai, anzi lo sapete sia tu che la Benedetta, che io e Gabri non abbiamo mai voluta una cerimonia in grande» replico con calma, cercando di non arrabbiarmi. La odio quando è così. E lei è così. Sempre.
«Già, ricordo. Voi volevate sposarvi senza neanche invitarci. Senza neanche uno straccio di abito o di ricevimento» ricorda acidamente. Questa cosa che secondo me e il mio fidanzato non è importante la cerimonia non le è mai andato giù. Per lei non è un matrimonio. E nemmeno per la mia terribile suocera Benedetta. Allora hanno deciso di loro spontanea volontà che la dovevano organizzare loro la nostra cerimonia, sennò che avrebbe pensato la gente? Io e Gabriele avevamo anche architettato una fuga per andarci a sposare in segreto a Roma. Ma ovviamente abbiamo rinunciato, perché sennò chi le sopportava quelle due?
«Mia, darling, why are you acting like this? Io mi ci metto d’impegno e tu non sembri apprezzare i miei sforzi, e nemmeno quelli di tua suocera. Sembra che ci si tenga molto più noi che tu e Gabriele» si lamenta e io non posso non sbuffare annoiata. Me l’avrà detto almeno cento volte questa cosa. Non ce la fa a capire che a noi non interessa quel certo tipo di cerimonia, a quanto pare.
«Devo farmi una doccia adesso» cambio discorso aspramente. «Sono stata invitata ad un gala agli Uffizi stasera, e sono già in ritardo» cerco di superarla ma lei mi si para nuovamente davanti.
«Promettimi che domani andrai almeno a provarti l’abito e scegliere quello delle damigelle. Mancano quattro settimane, Mia, le sarte non ce la faranno mai a confezionare due abiti se perdi ancora tempo» domanda con le mani congiunte davanti al petto come una vecchietta che sta recitando i rosari. Okay, niente vie di fuga. Devo accettare.
«Alright mom» sospiro e lei si lascia sfuggire un sorrisetto compiaciuto.
«Divertiti stasera. Io ora torno a casa» mi lascia un frettoloso bacio sulla guancia e dopo aver preso la borsetta esce di casa.
Libertà, finalmente.
Mi dirigo verso il bagno, sentendo il forte bisogno fisico di fare una bella doccia bollente. Per tutto il percorso lascio indumenti sparsi per terra. Appena infilo il piede nel box doccia il telefono squilla. Mai un minuto di pace, eh?
«Pronto?» rispondo stancamente.
«Ciao Mia» l’accento vagamente laziale di Gabriele mi arriva piano e lontano. Mi era mancato
«Ciao Amore» lo saluto con poca voglia di parlare. Ho solo bisogno di sentire l’acqua scivolare sulla pelle, sono congelata dalla punta dei piedi a quelle dei capelli. Sono gli inconvenienti del mestiere: stare tutto il giorno all’aperto non è un granché né d’inverno né d’estate. Oppure quando piove. O tira vento. Cioè in pratica mi va bene per circa venti giorni all’anno.
«Senti sarò veloce che sta per arrivare il treno. Torno martedì, perché alla fine ci sono voluti meno giorni di quanto Paolo pensasse, quindi niente,ti volevo avvisare di questo. Prendo l’aereo da Berlino alle sette la mattina, dovrei essere a Firenze per le nove, forse le dieci. Lo potresti dire anche a mia madre almeno si calma? Un bacio amore, devo andare» Chiude la chiamata non appena io gli rispondo. Facile per lui andare a Berlino per due settimane quando manca meno di un mese al matrimonio. Così io mi sono dovuta sorbire l’isteria di mia madre e della sua insieme. Poso il telefono e finalmente mi posso godere i miei meritati minuti di calma e relax.
Merda.
Mentre mi sciacquo i capelli ho un’illuminazione: ho dimenticato di prendere il vestito per stasera in lavanderia. Finisco di togliere le ultime tracce di sapone tra le ciocche rosse e mi muovo ad uscire. Do una sbirciata alla sveglia posta sotto la finestra. 18:00.
«Cazzo» impreco sottovoce mentre mi dirigo a piedi nudi verso la camera da letto. Acciuffo il telefono e cerco il numero di Viola tra i contatti.
Squilla.
«Pronto?» risponde lei, con la sua classica voce sempre tranquilla in ogni occasione.
«Vì, senti, mi devi fare un favorone» comincio velocemente. «Mi passeresti dalla Luisa a ritirare il vestito rosso?»
«Quale vestito dici? Quello di seta con le spalline?»
«Sì, esatto. Lei ti conosce, ci conosce bene entrambe, non ti farà storie se non hai la ricevuta. Dille che gliela porto domani». Risponde con un veloce “sì” e attacca di colpo, senza lasciarmi il tempo di ringraziarla. Non ce n’è bisogno. Io lo avrei fatto per lei come lei l’ha fatto per me
Un quarto d’ora più tardi sento già suonare il campanello. Strano, deve aver dimenticato le chiavi.
Mi infilo di fretta la maglietta bianca di Gabriele abbandonata sulla sedia dello studio e vado velocemente ad aprire.
Ma quello che non vedo non è il sorriso smagliante di Viola.
Una figura alta e magra, coi capelli piuttosto lunghi e neri come l’ebano e con occhi sottili e felini. Ha un sorriso sbilenco. Massimo. Il mio odioso vicino.
«Che vuoi?» chiedo scocciata. È proprio la ciliegina sulla torta di una giornata di merda.
«Che ce l’hai un po’ di zucchero?» domanda senza salutare. Non è che io l’abbia accolto nei migliori dei modi, lo ammetto, però lui non saluta mai.
«Vieni. Muoviti però, che c’ho da uscire» lo avverto conducendolo in cucina. Lui mi segue con passi pesanti e lenti. Lo odio. Deve sempre da farmi degli spregi.
«Sai stasera vengono i miei genitori e voglio accoglierli con un dolce fatto da me e Fede e…» comincia lui, mentre ci dirigiamo verso la cucina.
«Non t’ho chiesto come va la tua triste vita. Dimmi quanto zucchero vuoi e poi levati di torno» mi allungo per prendere il barattolo di vetro che tengo sulla mensola. Mossa sbagliata. Mi rinvengo troppo tardi di avere indosso solamente la maglietta di Gabri e le mutande. E non delle mutande normali, certo che no. Un odioso perizoma che mi metto solamente quando devo indossare abiti come quello rosso. Con la coda dell’occhio lo vedo abbassare lo sguardo e approvare con un silenzioso cenno del capo.
Accecata dalla rabbia agguanto lo zucchero e lo faccio battere sul tavolo della cucina. «To’, prendilo anche tutto, ma riportami il barattolo» gli dico indicandoglielo. Lui lo prende con il solito sorrisetto dipinto sulle labbra e se ne va, ringraziandomi con un grazie borbottato. Quando sbatte la porta sento la stizza che mi provoca ogni volta, andarsene piano piano. Stasera devo restare tranquilla.
Neanche cinque minuti dopo sento la chiave girare nella porta e vedo la chioma ramata di Viola sbucare. Tiene in mano il sacchetto con il mio vestito dentro e un altro con quello che presumo sia il suo.
«Ciao Lola» la saluto dal lontano del mio divano dove sono collassata esattamente tre minuti fa. Lei avanza spedita verso di me, arrancando appena per via dei sacchetti.
«Ci si prepara insieme» annuncia allegra, buttando gli abiti sul divano ed sbuffando appena per la fatica che ha impiegato nel salire le cinque rampe di scale.
Ecco se dovessi trovare un difetto al mio appartamento grande, elegante e in centro a quella che io reputo la più bella città del mondo, sarebbe la pesante assenza di un ascensore. È un cruccio che dobbiamo sopportare noi che viviamo in un palazzo antico.
«Forza, che manca poco e bisogna fare ancora tanto lavoro» dice Viola tirandosi su le maniche e indicando con gesto eloquente i miei capelli.
«Sei la miglior cognata che abbia mai avuto» la ringrazio con un sorriso ebete.
«Sono la tua migliore amica da tempi immemori» ricorda lei, mentre rovista accigliata nel beauty nero e argento che aveva ficcato nel borsone di pelle marrone. «E la tua unica cognata da sempre».
Estrae la piastra di ultima generazione con un sorriso soddisfatto. La attacca alla spina in bagno e mi fa cenno di andare lì.
Che il supplizio abbia inizio.
Un’ora dopo sono pronta. Io ho indossato il mio abito bordeaux di seta che arriva fino alla caviglia. Mi sono fatta presentare le pump nere lucide da Caterina. Io le chiamo le Suicidio, perché ogni volta che qualcuno se le mette, vuole suicidarsi. Ma stasera ce n’è bisogno per fare figura.
Il trucco invece non è tanto carico. È molto basico, fondotinta, correttore, cipria e un leggero velo di blush sugli zigomi. E poi il rossetto che mi sono regalata per Natale che è dello stesso colore dell’abito. Alla fine Lola si è dovuta arrendere e mi ha fatto l’acconciatura che volevo io: delle morbide onde retrò che adoro tanto.
Lei invece è sempre chiusa in camera mia. Non ha voluto farmi vedere l’abito. Ha detto che è un regalo di Leonardo, il suo compagno, per Natale.
«Vi, muoviti, che tra due minuti arriva il taxi» la chiamo mentre cerco di infilare il mio cellulare dentro la minuscola pochette nera. Quando sono ad un passo per farcela sento la porta della mia stanza aprirsi. Ne esce la mia migliore amica e io boccheggio nel vederla.
Ammetto che sono sempre stata invidiosa del suo aspetto e fisico da modella. Quando avevamo sedici anni le ho consigliato di andare a Miss Italia. Lei ha ribattuto che odiava quei tipi di programmi. Insomma è sempre stata bellissima.
Ha un abito nero lungo fino a terra, con uno scollo piuttosto generoso sul davanti, decorato con dei leggerissimi volant di pizzo scuro, gli stessi che si vedono sulle maniche. Ha i capelli ramati raccolti in una crocchia morbida e un trucco non troppo pesante. Ha messo in evidenzia le sue sopracciglia folte per far risaltare anche i suoi meravigliosi occhi verdi. Sulle labbra invece ha il rossetto fucsia che le ho già visto diverse volte.
Un’apparizione dunque.
«Sei uno schianto» commento e lei sorride timidamente. «Ancora non mi spiego come mio fratello sia andato con quella melanzana di nome Giulia».
«Si era stancato delle puppe flosce e di questa pancia non più tonica. Purtroppo io ho avuto due gravidanze, Giulia è sempre bella, giovane e soda» risponde triste, con gli occhi lucidi dalle lacrime pronte a scendere.
Per quanto io ami mio fratello, non lo perdonerò mai per la scelta che ha fatto. Viola era l’amore della sua vita, la madre dei suoi figli e l’ha lasciata per quel fico secco. La sua attuale compagna ha dieci anni meno di lui ed è l’apologia dell’antipatia. Mia madre non la può vedere, anche perché lei, come me, ha sempre nel cuore Viola che reputa la miglior nuora che una donna possa desiderare. Bella, intelligente, sveglia, simpatica, brava con i figli. Non a caso quando facciamo dei pranzi in famiglia la invitiamo sempre.
La stringo in un abbraccio e le porgo un fazzoletto di carta. «’Un ti sciupa’ un trucco così ben fatto per questa serata così importante. E poi Leo è cento volte meglio di Tommaso» la consolo mentre la stringo tra le mie braccia. Lei tira su col naso e ridacchia.
Non l’ho detto solo per consolarla. Leonardo è effettivamente cento volte meglio di Tommaso. Bello, affascinante, intelligente e simpatico, cattura l’attenzione non appena entra in una stanza. Certe volte invidio la sua disinvoltura. Viola mi sorride appena. «Okay, andiamo, il taxi dev’esse qui a momenti» dice, tirando ancora una volta su col naso. Prendiamo il cappotto ed usciamo lentamente (sì lentamente, perché se mi dovessi mettere a correre adesso farei un ruzzolone giù per le scale). Mentre mi adopero a chiudere la porta, dall’appartamento vicino al mio escono tre figure.
No, che palle.
«Oh, vicina, guarda come sei bella stasera» il vago accento romano di Massimo arriva forte e chiaro alle mie orecchie, magari con un leggero rimbombo dovuto alla tromba delle scale tra di noi.
«Ciao Massimo» lo saluto senza voltarmi, armeggiando ancora con la serratura difettosa che mi sono sempre rifiutata di far vedere e sistemare. Lo sento avvicinarsi, facendo battere ritmicamente i tacchi delle scarpe nuove sul pavimento antico. Con la sua mano calda, prende la mia e inizia ad armeggiare con le chiavi. Trenta secondi dopo la porta è chiusa e lui sorride soddisfatto e orgoglioso di sé.
«Non c’è di che» mi rende il mazzo di chiavi e si riavvicina a quella coppia di persone con lui. Con la coda dell’occhio li scruto e per poco non mi strozzo con la mia stessa saliva. Mi volto a guardare Viola e noto che ha gli occhi sbarrati.
«Dimmi che non sono l’unica che ha notato che quelli sono Mara e Augusto Rossi» mormora a labbra strette e io annuisco di scatto.
«Dio, Mia, lui è il mio attore preferito fin da quando son piccina. Gli posso chiede’ l’autografo? Ce l’hai un foglio? Una penna?»
«Ma certo, li tengo dentro questa immensa borsa» le rispondo sarcastica mostrando quel quadratino dove c’è entrato a forza il cellulare del museo e un mazzo di chiavi.
«Beh, allora muoviti a rientrare in casa a prenderli, sennò vanno via» mi dice incitandomi ad aprire velocemente la porta. «No via, sei troppo lenta, fammi fa’ a me. Te intrattienili» con un paio di scatti energici apre il portone di legno scuro e io sento il sudore freddo scendermi sulla schiena. Premetto che non è la prima volta che incontro li incontro. Però ogni volta mi si attorciglia lo stomaco dall’emozione. Mi chiedo che c’entrino con Massimo che sembra (anzi è) uno schifoso latin lover che ha ereditato a culo la libreria Fiore davanti a Santa Maria Novella e l’appartamento in Via San Gallo da uno zio morto otto o nove anni fa.
Mia, oh, riprenditi, se ne stanno per andare via. Pensa testa a pinolo, pensa.
«Testa a pinolo!» strillo e tutti e tre si voltano a guardarmi. Figura a merda fatta.
«Che hai detto, voisine?» chiede turbato Massimo che cerca di trattenere una risata. Adora quando faccio delle figurette. Cavoli quanto lo odio. Okay cerchiamoci di ricomporci. Pensiamo a qualcosa di intelligente da dir…
«TROVATI» un urlo si leva da camera mia e vedo Viola venire vittoriosa verso di me con un foglio stretto in mano. Quando arriva tutta ansimante non posso che trattenere una risata per la situazione comica che si è creata. Con la coda dell’occhio vedo che anche la signora Mara sembra divertita.
«Scusate, per questa entrata in scena, ma io sono una grandissima fan e lo so che magari vi stancherà però vorrei chiedervi, se non vi dispiace, se mi potete firmare questo. Giuro che capirò se non lo farete. La situazione è già epica così di suo, lo posso raccontare ai miei figli, a mia madre» Mara ride di gusto e annuisce vigorosamente, mentre il marito si limita a mostrarci un sorriso dolce.
«Ma certo! È sempre un piacere incontrare persone che apprezzano il nostro lavoro!» la donna fa cenno di darle il foglio e la penna. Mentre i due firmano, con dedica per Viola, il foglio, io mi avvicino a Massimo. È leggermente scuro in volto (di che mi meraviglio? Il 90% delle volte è così. Il restante 10 ha un sorrisetto strafottente dipinto sulle labbra) e non sembra gradire tutto questo apprezzamento per la coppia di attori.
«Che hai vicino?» chiedo scherzosamente, ma lui sembra non apprezzare il mio tono di voce.
«Non mi ci abituerò mai a essere figlio loro» borbotta, e accenno un sorriso. È una delle poche cose che ci accomunano: dei genitori un po’ troppo ingombranti ed essere i figli che hanno rifiutato la loro fama.
« Per fortuna il mio cognome è abbastanza anonimo. Se fosse stato Mastroianni o Gassman sarebbe stato un po’ più difficile» alza le spalle, continuando a guardare la coppia di attori. Viola li sta tempestando di domande, soprattutto la signora, che risponde gentilmente e con entusiasmo. Il marito se ne sta un po’ in disparte ad osservare la moglie. Riesco a leggere nei suoi occhi un profondo amore per la donna. Amore, ammirazione. Lui è uscito dai riflettori, si è messo dietro la macchina da presa solo per dare più spazio a lei.
«Mamma, bisogna andare» le interrompe ad un certo punto Massimo con un tono di voce appena infastidito. La donna gli regala un velato sguardo di rimprovero, ma poi annuisce.
«Scusate ragazze, dobbiamo essere agli Uffizi tra…» dà un’occhiata all’orologio che porta al polso e sobbalza. «Adesso, siamo in terribile ritardo. Scusate ancora. Se vivete qui, potremmo vederci altre volte per parlare»
«Molto volentieri» trilla tutta sorridente Viola. «Ci vediamo al museo, tanto. Anche noi andiamo lì». Lo sguardo dell’attrice s’illumina di colpo.
«Che cosa meravigliosa. Augusto hai sentito? Potremmo accompagnarle noi le ragazze» l’uomo si limitò ad annuire bonariamente e regalarci un sorriso.
«Bene, perfetto. Venite con noi allora»
«Signora, non vogliamo disturbare…» comincio io, cercando di nascondere l’eccitazione. Rettifico quello che ho detto prima. Altro che giornata di merda. Oggi è il giorno migliore della mia vita. Vorrei mettermi a saltare e urlare, così come Viola che l’ho vista impallidire appena e fremere.
Massimo invece no. È accigliato e guarda la madre con disapprovazione. Non ci vuole. Beh se è per questo neanche io voglio stare vicino a lui per dieci minuti senza via di fuga.
Però quando mi ricapita un’occasione del genere? Quando mi ricapita di essere in macchina con due divi del cinema nostrano?
«Ma state scherzando? L’auto è abbastanza grande per tutti» protesta lei, gesticolando appena. Io e Viola ci guardiamo sorridenti. Un sogno che si avvera.
«Grazie mille» ringraziamo all’unisono. Ragazzi che serata!
 
 

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Capitolo 3
*** 2. Quando tutto ha cominciato ad andare male ***


Venerdì 4 Dicembre
La mattina dopo mi risveglio con un forte mal di testa, un terribile martellio che mi tiene compagnia tutto il giorno e diventa il mio migliore amico. 
Decido che sarei rimasta a letto fino almeno alle dieci, quando sarà troppo tardi per cazzeggiare. Mi rigiro tra le coperte rosa chiaro, pensando che è arrivata l’ora di cambiarle. Lo annoto mentalmente nella lunghissima lista di cose che devo fare oggi e che non riuscirò mai a completare. Almeno non tutte. 
Mi volto dall’altra parte, ma un debole spiraglio di luce filtra dalle persiane e mi colpisce in pieno viso. Quando si dice la sfiga. Ritorno alla posizione di prima e provo a riaddormentarmi ma niente. 
No, è ufficiale: non riesco a dormire di più. Non riesco mai a godermi il giorno off. Mi devo, sempre e comunque, svegliare alle sette e trenta, come tutti gli altri giorni. 
Dopo venti minuti ci rinuncio ufficialmente, ed è allora che comincio a ripensare alla notte appena passata. Lo champagne buonissimo, le scarpe che mi fanno male, il cibo delizioso, la compagnia interessante, Mara e Augusto Rossi, gli occhi di Massimo che spesso ho ritrovato addosso a me, quasi fastidiosi. Sentivo spesso il suo sguardo sulle mie spalle. Ha provato a parlarmi un paio di volte, ma l’ho evitato. Non riesco a sopportarlo. 
Solo una volta ci siamo scambiati due parole. O almeno ho provato a chiedergli delle cose, ma lui è diventato scuro in volto e ha cambiato discorso. Come sempre. 
Per la rabbia tiro un pugno sul cuscino e vi premo forte la faccia. Lo conosco da una vita ormai, e lui continua a trattarmi come una preda, come un animale. È uno stronzo, uno stronzo. Non ha nessun rispetto di me. E lo odio per questo.
Okay, sono ufficialmente furiosa. Per colpa sua mi sono già rovinata il giorno di festa. Mi alzo rabbiosamente dal letto e mi dirigo in cucina, sperando di trovarci ancora una bustina di thé agli agrumi che mi ha riportato mio fratello da Londra. Dopo qualche minuto di ricerche la scovo in un barattolo per biscotti. Sorrido vittoriosa e mi preparo la tisana. Appena riesco a berne un paio di sorsi sento la tensione diminuire, mi sento più calma e rilassata, pronta ad affrontare quella pila di foto che mia madre e mia suocera mi hanno preparato per scegliere gli abiti delle damigelle, i fiori, i centrotavola, i segnaposti, le tovaglie…
Va bene, mettiamoci a lavoro. Accendo la radio per avere un po’ di compagnia e inizio a sfogliare gli album, annotandomi tutto ciò che credo sia più interessante e utile. 
Verso le dieci, ho selezionato quattro tipi di centrotavola e composizioni, cinque abiti per le damigelle, due colori per la tavola che potrebbero andare bene con la sala. Uno è meraviglioso perché a tema natalizio (adoro! Ma sono sicura che Gabriele me la boccia, come vederlo) e uno tutto blu e argento; forse un po’ scontato, ma sicuramente questo mi viene passato anche dallo sposo (un altro era tutto sul bianco, nero e argento, ma a Gabri sarebbe presa una sincope se fosse entrato in una sala juventina. Al massimo si poteva fare giallorossa. Senza al massimo, sono sicura che l’avrebbe amata. Ma nein.).
Mi distendo sulla sedia e stiro i muscoli. Sono orgogliosa di me. Come premio posso concedermi una bella colazione da Vittorio, sull’Arno. 
Mando un messaggio a mio fratello proponendogliela e lui risponde tempestivamente. 
Come se ci fosse bisogno di chiedermelo
Sorrido: conosco i miei polli.
Mi alzo, non curandomi di rimettere a posto i raccoglitori e vado a farmi una doccia veloce per uscire.
Alle dieci e mezza sono davanti al bar di Vittorio (mio zio) a tremare per il freddo. Mio fratello è in ritardo. Tanto per cambiare. 
Me lo vedo arrivare solamente qualche minuto dopo, col cappotto aperto e i ricci al vento. 
«Alessio stava male, sono dovuto andare a prenderlo a scuola» si scusa, lasciandomi anche un bacio sulla guancia. «Mi volevi dire qualcosa di importante, o questo è solo uno sfizio?»
«Prima di tutto non me la bevo la storia di Ale perché oggi avevano programmata una gita al museo e Viola mi ha mandato le prove fotografiche. Se volevi rimanere a letto a poltrire con l’oca bastava che tu me lo dicessi. Punto secondo: ho una proposta da farti, ma non dopo un cappuccino, sto svenendo solo al pensiero.» Tommaso accusa il colpo e si limita ad annuire.
Ci sediamo al nostro tavolo e senza che nessuno dica niente, ci vengono servite due paste. Le nostre paste, quelle che mangiamo da quando abbiamo tirato fuori i primi denti. 
«Comunque, smetterete mai di chiamare Giulia “l’oca”? Tu e mamma. Siete veramente odiose» puntualizza Tommaso tra una cucchiaiata di crema e l’altra. 
«Sì. Abbiamo anche altre varianti lo sai? Melanzana, fico secco…»
«Ok, mi arrendo. Siete un caso perso. Mi chiedo cosa vi abbia fatto mai. È gentile, simpatica…»
«Tom, non arriva mai. Se arriva sempre due minuti dopo. Non ne prende mai una»
«Beh, meglio tardi che mai» ci prova, ma a me viene da ridere. In fondo ha ragione, ma come ho già detto, per lui era perfetta solo Viola. Io non ho proprio idea di cosa gli sia passato dalla testa di tradirla. Soprattutto con Giulia, che per l’amor del cielo, tanto cara, ma un po’ lenta dai. E poi non so di cosa possano parlare, visto che teoricamente non hanno niente in comune.
«Tommy, lei uccide tutto quello in cui credi. Ha anche ideali completamente all’opposto dei tuoi..»
«Mia gli opposti si attraggono»
«Smettila di scherzare, sai cosa intendo, io..»
«Mia, basta. Avete rotto. Ogni volta mi fate lo stesso discorso. So che vuoi sapere i motivi per i quali ho lasciato Viola. Lo capisco, è la tua migliore amica. Ma te l’ho già detto centinaia di volte. Non ci amavamo più. Punto. E poi io amo veramente Giulia. Se solo aveste un minimo di pazienza in più non sareste così. Ora, so che non mi hai chiamato per dirmi questo, quindi spara.» finisce in un sorso il suo caffè amaro.
«Ti volevo dire un paio di cose: Uno, Giulia è invitata al matrimonio»
«E questo l’avevo già dato per scontato» mi sorride maliziosamente. Vorrei rispondergli a tono, ma sorvoliamo. Teniamo il mio Jerry Polemica quieto per il momento.
«Sì, vabbé. Poi, la parte più importante. Volevo chiederti di farmi da testimone» lo vedo illuminarsi. Sorride, si avvicina e mi abbraccia. 
«Non aspettavo altro Mì. Lo sapevano già tutti ufficiosamente e io struggevo. Anche perché il matrimonio è a breve e mi pareva strano tu non avessi scelto il testimone» mi sorride un’altra volta, dandomi un bacio sulla guancia. 
«Ti voglio bene» mi dice prima di bere un lungo sorso del suo cappuccino. «Anche quando mi fai arrabbiare come prima». Guarda il suo orologio e sbuffa piano.
«Devo andare Mia, sono sicuro che in studio Anita stia già sclerando. Ci vediamo domani da mamma, ok?» mi lascia un altro bacio e si allontana di corsa. 
Intanto io allungo la mano verso la mia borsa ed estraggo la mia agenda. Gran parte delle cose che dovevo fare oggi sono spuntate, ne mancano solo un paio, tra cui andare a fare la spesa. Quando Gabriele non è a casa vado spesso e volentieri a mangiare da mia nonna perché le uniche cose che riesco a fare sono la pasta al burro e pane e formaggio. Sono talmente impedita ai fornelli che una volta, dopo un esperimento finito male mi sono bruciacchiata le sopracciglia. Però sono un’ottima forchetta, questo non me lo toglie nessuno.
Comunque, c’è da rifornire un po’ il frigo, visto che le uniche cose che ci sono rimaste sono un vasetto di marmellata e la pasta d’acciughe. Eh già, sono stata molto impegnata. 
Con la coda dell’occhio guardo fuori e vedo che ha iniziato a fare qualche fiocco di neve. Improvvisamente mi sento riempita di una gioia infantile che è difficile da sopraffare. Evvai! Erano anni che non vedevo Firenze innevata, cioè al massimo della sua bellezza. 
«Zio, segna, io devo scappare» con un sorso veloce finisco il cappuccino e mi infilo velocemente il cappotto. Devo arrivare al supermercato prima che la situazione possa diventare problematica con la neve. 
Dopo un’ora sono sotto il portone di casa mia, ma non so come scendere dall’auto. Il vento è aumentato terribilmente e la neve oscura quasi completamente la visuale. Diciamo che sono un po’ impaurita. Sposto nervosamente lo sguardo dal finestrino ai sacchetti strapieni. Che sfiga: una volta che vado a fare la spesa viene giù il mondo. 
Aspetto ancora qualche minuto e poi mi decido a uscire. Ora o rischio di rimanere bloccata qui per chissà quanto. Stringo a me i sacchetti e la mia borsa (grazie al cielo ho deciso di prendere quella con i manici lunghi che non mi scappano continuamente, sennò sarei stata del gatto) e guardo con aria di sfida i tre metri che devo percorrere. 
«Ce la puoi fare Mì» mi ripeto a mò d’incoraggiamento. Inspiro ed espiro un paio di volte e alla fine mi decido ad aprire la portiera. Un vento terribile mi prende in pieno e mi fa sbandare. La scatola di cereali vola via. Pace, sopravvivremo uguale. Mi lancio di corsa verso il portone e apro con difficoltà, un po’ per la mano congelata un po’ perché sto tenendo in equilibrio i due sacchi con l’altra mano. Quando sono dentro tiro un sospiro di sollievo. Il peggio è passato. Siamo al sicuro.
Mi incammino su per le scale lanciando ogni tanto delle occhiate fuori, come per controllare la situazione meteorologica. La tempesta (se mi è concesso chiamarla così) non accenna diminuire. Quando arrivo all’ultimo gradino tiro un sospiro di sollievo. Missione compiuta in maniera quasi eccelsa. Ad un tratto salta perfino la luce sulle scale. Meraviglioso. Di bene in meglio. Con la coda dell’occhio scorgo una figura seduta, forse addormentata, davanti al mio portone. Massimo.
«Che fai qui fuori al freddo e al gelo?» domando tirandogli un colpetto leggero alla gamba per svegliarlo. Lui mi guarda con gli occhi di chi si è appena svegliato e un sorriso da ubriaco.
«Ciao vicina» biascica tirandosi su. «Ti stavo aspettando»
«L’avevo notato» sottolineo, facendomi spazio per aprire la porta. «Che ci facevi qui?». Lui sbuffa e si passa una mano dietro la nuca. 
«Sirius mi ha chiuso fuori di casa e quindi speravo di passare dal tuo balcone per entrare in camera mia. Ma evidentemente tu non c’eri. E quindi ti ho aspettato qui fuori» si blocca per guardarsi attorno. «Che è successo? Perché non c’è la luce?»
«Guarda fuori dalla finestra genio. È l’apocalisse» gli dico invitandolo ad entrare e ad affacciarsi alle finestra. Anche in casa non ho il coraggio di togliermi il piumino. C’è l’Antartide. E questo perché mi sono stupidamente dimenticata di accendere il termosifone prima di uscire.
«Madonna, e io come faccio ad andare a prendere Fede? Mia posso usare il telefono per chiedere ad Anita di andarci lei?» faccio un debole sì con la testa. 
«Tommaso mi ha detto che stamani era abbastanza nervosa, quindi non fare come al tuo solito» gli dico, ma lui non sembra ascoltarmi. Un minuto dopo sta litigando con la sua ex moglie sul suo, secondo lui, essere per niente irresponsabile. Pf. Povero illuso. Solo uno come lui si sarebbe fatto chiudere fuori di casa dal suo cane, che tra parentesi è cieco. E anche un po’ sordo. 
Mentre sto sistemando la pasta sugli scaffali lo vedo riapparire.
«Sono riuscita a convincerla a mandarci suo padre» comunica lasciandomi il cellulare sul bancone di acciaio. «Mi dovrò decidere a studiare per prendere la patente.»
«È anche ora ciccio. Non puoi continuare a usare solo la bicicletta. In emergenze come questa…»
«Sono una persona che inquina in meno. Non la userei mai l’auto. Se devo andare a lavoro vado in bici o col tram, Fede torna sempre con il pullmino, dai miei vado col treno. Stop. La mia vita è tutta dentro questa città» si giustifica, gesticolando quasi arrabbiato.
«Sì ma datti una calmata Greenpeace. Ho capito il tuo punto, non c’è bisogno di arrabbiarsi»
«Scusa. È proprio una giornataccia. Ci mancava solo rimanere chiuso fuori casa» si siede sconsolato e tuffa la testa nelle braccia incrociate.
«Hai chiamato il falegname? Per farti aprire la porta» suggerisco, mentre finisco di svuotare l’ultima borsa.
«No. Posso usare ancora il tuo cellulare?» mi chiede tirando su la testa. Annuisco e lo osservo allontanarsi. Cammina ancora tutto storto, con quel braccio penzoloni. Ma sembra che le sue spalle siano un po’ più muscolose. Deve aver cominciato la palestra. Nah, non è da lui.
Ritorna poco dopo, lo sguardo ancora più afflitto di prima. 
«Brutte notizie. Almeno per te. Gigi è chiuso nel negozio. Mi ha detto di chiamare i pompieri. Oppure di usare la carta di credito» annuncia infastidito. «Ma sicuramente i pompieri oggi avranno di meglio da fare e non ho carte di credito o lastre… Ma poi che diavolo vuol dire?» alza le braccia al cielo innervosito e io sorrido. 
«Max, tu hai letto tanto, ma in realtà vissuto poco. Non sei mai entrato abusivamente in una casa? Come un ladro? Nemmeno quando avevi quindici anni?»
«Ma che razza di compagnia avevi a quindici anni?»
«Una con cui ci si divertiva» gli rivolgo un sorrisetto orgoglioso. «I ladri per entrare in casa fanno così, fanno passare la carta di credito per la fessura e… tac» gli dico mimando tutta l’azione sotto i suoi occhi divertiti.
«Vai allora mago del crimine, fammi vedere come si fa. Magari prendi una carta scaduta» mi dice in tono di sfida. Eh sì! Che sfida sia. Cerco la mia vecchia carta e con una torcia in mano mi dirigo verso la sua porta, con lui che mi segue a ruota.

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Capitolo 4
*** 3. Le dure convivenze ***


Sempre Venerdì.

Dico a Massimo di tenermi alta la pila mentre io cerco di fare mente locale e di ricordarmi di tutti i passaggi. In realtà non l’ho mai fatto, ma Viola tantissime volte. E io altrettante volte l’ho studiata attentamente. Faccio passare lentamente la carta nella fessura, ma quando arrivo alla serratura mi blocco. Ok, fa niente, si riprova. Anche la seconda volta succede lo stesso.
Sento l’agitazione e il nervosismo salirmi lungo la schiena. Anche le cinque volte successive non succede niente. Inizio a sudare freddo.
«Sei sicura di farcela?» domanda lui cercando di soffocare una risata. Merdaccia. Ci riprovo. Questa volta mi sembra diverso; quando arrivo alla serratura ho l’impressione che qualcosa stia succedendo. Sono già pronta con il mio sorriso vittorioso sul viso. Sento un tac ma non è quello sperato.
Massimo scoppia in una risata che gli lascia poca aria nei polmoni. Il sorriso mi si è gelato sulle labbra. Guardo tristemente la carta spezzata nella mia mano. Intanto lui è in deficit respiratorio per le risate.
«Il mago… haha… del crimine! Oh cielo, Mì, sei veramente forte!» mi appoggia una mano sulla spalla, ma io la scrollo infastidita. Con una scossa di stizza, avanzo a lunghe falcate verso casa mia e chiudo la porta, lasciandolo fuori sul pianerottolo.
«Dai Mia, stavo scherzando…» sento la sua voce piano, da oltre la porta.
«Ora rimani lì per punizione» annuncio e lo sento ridere.
«Starai scherzando spero. C’è il gelo polare qui fuori»
«No sono serissima»
«Cazzo Mia, qui ci gelo. Apri, dai per favore» sta battendo al portone, ma faccio finta di non sentirlo. Facciamo sbollire la stizza prima. Mi guardo un po’ attorno e decido che per qualche minuto mi metto a sistemare i cartolari per il matrimonio.
«Miaa, aiutami per favore. Io sono il tuo Jack, non mi lasciar morire di ipotermia qui fuori. Aiuto..» mi fermo un secondo come se avesse detto la parola magica. Mi avvicino al portone e poggio la mano sulla maniglia. Aspetto qualche secondo prima di tirarla giù. Massimo è seduto di fronte alla porta, la testa appoggiata alla colonnina di legno del corrimano.
«Mi odi ancora così tanto?» mi chiede piano, ma io non rispondo.
«Entra vai» rispondo gelida. Lo vedo annuire lentamente ed alzarsi.
Per le seguenti due ore non dice molto; si limita a stare seduto sul divano, la coperta sulle spalle e un libro che ha pescato dalla mia libreria tra le mani. E a me tutto sommato va bene così: non cercavo compagnia oggi. Avevo bisogno di una giornata per me, non per fare la badante al mio vicino di casa fastidioso. Ogni tanto gli lancio un’occhiata e lo trovo sempre nella stessa posizione. Intanto io mi sistemo al tavolo in cucina, col computer davanti. Ogni tanto alzo lo sguardo dal mio lavoro e gli lancio degli sguardi. Mi ritrovo ad osservarlo più volte di quanto credessi. Ad osservare quegli zigomi alti, spigolosi, gli occhi affilati, felini, le labbra carnose, i capelli riccioluti rigorosamente tenuti dietro le orecchie.
Mi fermo a pensare alla prima volta che l’ho visto ed era esattamente come adesso. Solo che i ricci erano più corti, le lentiggini sulle guance ancora più marcate. E poi quelle deboli rughette che ora iniziano a spuntare attorno agli occhi non c’erano ancora. Come non c’era ancora quel caratteraccio che si ritrova. Non era così prima. Era simpatico. Era uno con cui si poteva ridere di tutto, era dedito solamente alla sua amatissima letteratura. Ora invece, ho l’impressione che non ci sia neanche più niente che gli interessi.
Improvvisamente, come se sentisse i miei occhi su di lui, si volta e mi guarda. Delle profonde pieghe si formano sulla sua guancia sinistra. Io cerco di distogliere lo sguardo ma lo sento sempre fissarmi. Chiude il libro e viene verso di me.
«Che ci mangiamo?» mi sussurra all’orecchio e io per la sorpresa faccio un salto sulla sedia. Sicuramente non mi aspettavo che mi dicesse qualcosa.
«Imbecille» sbuffo, leggermente stizzita. Faccio finta di sistemare qualche cartella sul tavolo. «Comunque io al massimo ti posso fare una pasta al burro o all’olio». Massimo fa una faccia schifata e ridacchia.
«Menomale vivi con Masterchef sennò moriresti affamata.»
«Ah-ah»
«Vabbé dai, oggi ti metto al corrente delle mie eccellenti doti culinarie. Altro che Masterchef.» prende il grembiule e lo indossa, facendomi poi segno di andarmene.
«Mi concentro e lavoro meglio quando sono solo in cucina» sorride. «Grazie». Sbatto le palpebre scioccata e poi meccanicamente raccolgo le mie cose e le porto in camera. Mi siedo sul letto ancora disfatto e cerco un modo per spiarlo. Lo sento canticchiare Jovanotti e spentolare e mi scappa un mezzo sorriso. Anche Gabriele è sempre così felice quando cucina, ma non l’ho mai sentito cantare. Il che dopotutto è un bene visto che è più stonato di una campana.
«Posso almeno apparecchiare?» gli chiedo dalla mia stanza.
«No».
Ma che cavolo. Come ho potuto permettergli di impossessarsi di casa mia? Mi affaccio alla porta e un debole profumo di curry arriva dalla cucina. Chissà dove l’ha trovato, non mi ricordavo di averlo comprato…
«Dai posso apparecchiare?» mi guarda con la coda dell’occhio e mi accenna un mezzo sorriso.
«Mh, va bene. Ma non fare danni» acconsente divertito. Non fare danni. Tz, come se non fosse tutta roba mia.
«Dove e quando hai imparato a cucinare?» gli chiedo con falsa nonchalance.
«Grazie a Fede. Dovevo pur sfamarlo» commenta serio. In effetti non riesco a concepire come quel povero bambino sia sopravvissuto otto anni con un individuo del genere. Ma soprattutto perché vive con lui e non con Anita, sua madre e rispettabilissima collega di mio fratello. Cercherò di indagare meglio sull’argomento. Magari Viola sa qualcosa.
«Pronto!» esclama orgoglioso, mostrandomi quello che ha preparato. L’odore buonissimo mi fa rivoltare lo stomaco, ricordandomi che ho fame.
«Non l’avrei mai detto Max, ma è invitante» lui non risponde e si limita a sorridermi. Ci sediamo e iniziamo a mangiare in un silenzio angosciante. La mia mente sta andando a duemila per cercare di trovare uno straccio di argomento che si possa sostenere con lui senza che finisca in litigio e prese per il culo.
«E insomma, quanti anni ha Fede?» wow Mia, che inventiva. Ti daranno il Nobel per questo.
«Nove» mi risponde frettolosamente tra un boccone e l’altro.
«Caspita com’è grande» commento piano, decidendo tra me e me che se la conversazione deve proseguire su questo binario, tanto vale rimanere in silenzio.
«Già. È impressionante quanto cresca in fretta» caspita, sta continuando, non l’avrei mai detto. So che non gli piacciono tanto le chiacchiere a perditempo. Si vede che sta invecchiando e sta diventando più pettegolo. «Vorrei fermare il tempo. Sai quando hai un figlio, percepisci sempre di più il tempo che passa. È angosciante». Si ferma un attimo a guardare nel vuoto, come se stesse finalmente soppesando tutti gli anni passati insieme a suo figlio.
«Non l’avrei mai detto che sarei cambiato così per un bambino» continua piano, inforchettando qualche pezzetto di pollo, infilandoselo in bocca, forse per evitare di parlare. Invece no.
«Tu e Cracco state pensando già ai figli?» chiede poi e io per poco non mi strozzo.
«Facci sposà prima, e poi se ne riparla. Forse.» concludo frettolosa, gelida. Mi osserva accigliato, cercando di decifrare le mie parole. Ma mi pare di essere abbastanza chiara.
«Io credevo che tu…»
«No. No.» confermo, fissandolo negli occhi. Sento il mio labbro vibrare debolmente, così anche la mia mano. Vedi un po’ di non metterti a piangere ora. Soprattutto davanti a lui. Max annuisce e abbassa lo sguardo.
«Posso sapere come mai no?» domanda piano, senza alzare gli occhi dal piatto. Una scossa mi percorre tutta la spina dorsale. Mi sento combattuta. È il mio segreto, il mio piccolo grande segreto e non voglio dirlo a nessuno. Ma sento il bisogno di liberarmi, perché da piccolo che era, sta diventando un fardello sempre più grande. E non credo di essere in grado di sopportarlo. Incontro le sue iridi scure che hanno perso quel velo di ironia amara e ora sembrano più familiari, più cordiali.
«No». Max annuisce. «Ricordati che noi ci detestiamo». Non dice altro e alla fine a me sta bene così. Non ho più voglia di parlare e in silenzio posso concentrarmi meglio su come organizzare i prossimi giorni. Ma ormai le sue iridi scure e curiose sono scolpite nella mia mente. Non riesco più a concentrarmi.
Per fortuna finisce prima di me di pranzare. Si alza a sparecchia il suo piatto.
«Posso mettermi a leggere su nello studio? Così ti puoi occupare delle tue cose senza rompimenti» mi dice piano e io mi limito ad annuire. E lui così fa, prende un paio di libri nella libreria e se ne va su, nelle camere, senza dire altro.
E io cerco di lavorare, di organizzare il possibile. Rispondo a qualche mail, faccio un giretto su internet per cercare una meta per la luna di miele. Eh già, è proprio un casino organizzarla. Ci sono un sacco di posti che vorrei vedere e sono tentata di fare come Becky Bloomwood. Vorrei tanto lasciare tutto e partire per un anno a giro per il mondo, lasciandomi dietro mia madre e tutta la mia vita a Firenze. Prendere una boccata, ma di quelle lunghe. Alla fine ci rinuncio, lasciando in prima posizione il Portogallo, evidenziato in rosa e giallo.
Mi metto a rassettare un po’ il salotto e la cucina, ma lascio perdere dopo qualche minuto, svogliata. Non mi rimane altro che fissare il soffitto desolata, affogata in una noia di cui è complice anche la tempesta fuori. Decido di andare poi su, a dare un’occhiata a Max. Lo trovo seduto sulla poltrona dello studio, concentrato su una lettura che io non sono mai riuscita a portare a termine (Anna Karenina, ndr. Mi dispiace, ma è troppo lungo, mi sono scocciata poco prima di metà).
«Che fai? Sbirci?» mi chiede senza alzare gli occhi dal libro. Mi avvicino e mi butto sulla poltrona davanti alla sua. Tiro su le gambe al petto e mi butto la coperta addosso.
«Mi sto rompendo un poco» borbotto, coprendomi la bocca; in realtà non voglio che senta. Ma lui lo fa e sorride divertito..
«Stai per ammettere che è meglio la mia compagnia? Wow Mia, sei messa maluccio» ridacchia, cambiando pagina.
«Non lo sto ammettendo, sto solo dicendo che mi sto rompendo» puntualizzo facendo schioccare la lingua sul palato.                                                                                 
«Leggi un libro, ne hai centinaia, scommetto che non ne hai mai letto uno»
«Che palle Max. Alcuni li ho letti, anche un paio di volte»
«Sì, I delitti del BarLume» commenta acido.
«Ei, sono divertenti e mi fanno scervellare il giusto» sottolineo, cercando di riprodurre il suo tono da saccente. «Non tutti sono in grado di leggere zeppe per tavolini». Chiude il libro sonoramente e mi fissa negli occhi.
«Tu sei in grado, ma non ne hai voglia» asserisce, puntando un suo dito ossuto verso di me, e con lo sguardo serio.
«Semplicemente io quando leggo voglio distrarmi e non voglio impegnarmi più di tanto» appunto. «Non continuiamo questa conversazione, perché sappiamo entrambi che finiremo a parare nel punto sbagliato e quindi a scannarci.» Lui sembra non ascoltarmi, tant’è che continua senza mai guardarmi.
«Sei sempre alla ricerca di cose impattanti, forti, istantanee. Non sai goderti una lettura lenta, avvolgente» ecco, ha cominciato la manfrina.
«Max, abbiamo già fatto questa discussione. Io sono team arte, tu sei team letteratura. Se continuiamo si finisce per prenderci a botte. Non svegliar can che dorme».
«Io veramente non capisco come tu possa limitarti al visivo, la lettura dà centinaia di sensazioni, mille sfumature…»
«Dio, sei proprio limitato delle volte; fai tanto l’aperto di mente, ma non riesci ad apprezzare un quadro, ti sei addormentato alla National Gallery! Sei uno senza speranza. Un uomo di lettere come te come non può apprezzare la pittura, la scultura? Come non puoi sentire il cuore che ti batte mentre sei dentro la Cappella Sistina? Sei di marmo solo te?»
«Ti posso fare lo stesso discorso. Sei una donna che vive d’arte e sono sicuro hai mai letto l’Oeuvre di Zola?»
«Sì, ce lo propinò la professoressa di francese e io ci ho messo anni per digerire quel mattone. Preferivo vivere senza. E forse vivevo meglio» okay, abbiamo decisamente superato il limite. Me ne accorgo perché siamo entrambi in piedi e ci fissiamo con gli occhi furenti. Lo abbiamo fatto di nuovo. La conversazione ha degenerato nuovamente in discorsi senza capo né coda, solo per il gusto di attaccarsi. Veramente, mi stupisco veramente come non riesca ad avere una conversazione sensata, dove ci parliamo normalmente, senza incazzarsi via.
Massimo si risiede con un tonfo e si guarda le dita pensoso. Io decido che forse era meglio fissare il soffitto in silenzio. Raccolgo la coperta e me ne vado.
«Dai Mia, scusa…» tenta di raggiungermi, ma allungo il passo
«Vaffanculo» e sbatto la porta del corridoio.

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Capitolo 5
*** 4. Mai dire gol ***


Nel caso non l’aveste capito: è sempre Venerdì.

Sono le tre e sono esattamente cinquanta minuti che sto fissando il soffitto. La rabbia è sbollita quarantasette minuti fa, ma il mio orgoglio è grande quanto Firenze, quindi col cavolo che ritorno su. E neanche lui verrà giù a scusarsi viz-à-viz, visto che se il mio orgoglio è come Firenze, il suo è grande come Roma o Milano. Questo passerà alla storia come il giorno allo stesso tempo strano e palloso di sempre.
All’improvviso sento le scale scricchiolare, ma non voglio guardare. Voglio tirarmela ancora un po’. Così arriccio il naso e aggrotto le sopracciglia, mentre le mie braccia si incrociano sul petto. Lo sento piazzarsi davanti a me e prima che possa dire qualcosa inizia a cantare.
«Tu- tu tua
Patatina mia
Non titillare la mia fantastia.
Allora, rucolina mia
La notte è buia
No, non andare via»
Ma che cazz… alzo la testa e lo vedo ballare scimmiottando Michael Jackson.
«Com’è bello il nostro amore,
senti come sale
è bello solo se ci sei tu,
sotto questa luna
dimmi cosa pensi di me»
E allora lì, gutturalmente, di stomaco proprio, mi sale Vanette. Mi alzo in piedi, mi smuovo un po’ i capelli e mi trasformo. Prendo in mano la spazzola per capelli e canto
«Che sei una merda
Inequivocabilmente merda,
ma proprio mer..»
Neanche a dirvelo non sono riuscita a finire di cantare per le risa che mi salivano. Anche Massimo sta ridendo di gusto, ha perfino le lacrime agli occhi.
«Olmo era veramente l’unica cosa che potesse alzarmi il morale» riesco ad articolare tra le risa. Lui si limita ad annuire, pulendosi gli occhi dai lacrimoni che ricoprivano le sue guance.
«Come ti è venuto in mente…» la domanda rimane sospesa non appena riesco a metterlo a fuoco realmente.
«Dove l’hai trovata la camicia?» il mio tono è totalmente cambiato. Ci sono delle sfumature rabbiose, incredibile come sia riuscita a cambiare completamente umore nel giro di mezzo minuto (neanche). Lo vedo zittirsi e le sue guance colorarsi di un lieve rosso.
«L’ho trovata in uno scatolone lì nello studio.. c’erano un sacco di cose, ehm, vecchie» ammette, con lo sguardo sfuggente. Mi sento sprofondare. Non doveva trovarlo, era l’unica cosa che non doveva trovare; che imbecille che sono. Come posso essermi scordata di nasconderlo?
«Perché hai tenuto tutta questa roba?»
«La vera domanda Massi che devi fare è: perché mi sono messo a rufolare in roba non mia?»
«Perché quando te ne sei andata, sbattendo tutte le porte che trovavi, mi sono buttato sulla poltrona e una scritta su uno scatolone ha attirato la mia attenzione “Olmo e Vanette”. Non è molto usuale trovarlo. È vero, ho curiosato nelle tue cose, mi dispiace, avrei dovuto mettere le mani a posto. Ma non credevo che tu te ne ricordassi e soprattutto che tu avessi tenuto…» si tocca la camicia e sorride, piano, cercando di non farsi vedere. «questa».
A2. Colpita e affondata.
Mi sento esattamente come un sommergibile in battaglia navale. Boccheggio, senza voce. Non so veramente cosa dire. Non ho una vera risposta alle sue domande, l’ho fatto e basta.
Forse circa dieci anni fa non ce la facevo a liberarmene, ma neanche ora sarei in grado. Mi si stringe lo stomaco e le parole mi muoiono tutte in bocca. O magari non proprio tutte.
«Beh, non ti sorprendere. Alla fine sei stato importante nella mia vita. In un modo o nell’altro» sussurro piano, più a me stessa che a lui. Max si gela, gli occhi sbarrati, fissi su di me. Visto così, con quella camicia rosa anni ’70 un po’ sgualcita sembra una statua del museo delle cere.
«Non credevo così tanto» dice piano, la sua voce è più vicina a me però. Mi prende una mano nella sua e mi costringe a guardarlo. «Non tanto quanto me almeno. Non ti ho mai dimenticato veramente.»
«Credevo ci fossimo lasciati come amici. Perché allora tu mi hai trattato come una merda in questi anni?»
Esita. I suoi occhi fanno un guizzo sofferente e la sua bocca si distorce in una smorfia quasi dolorosa.
«Sono stato parecchio male dopo che tu sei partita. Soprattutto sono stato male quando sei tornata con Gabriele» ha iniziato a piangere. Due lacrime mi cadono sul palmo della mano e io tiro su la testa. D’istinto faccio una cosa di cui penso mi pentirò. Lo abbraccio. Forte, stringendo le mie braccia al suo collo, inspirando il suo odore pungente, vagamente familiare.
«Mi sei mancato Max. Io cercavo veramente di averti al tuo fianco. Volevo che il mio amico tornasse, come al liceo. Tu ti sei chiuso nel tuo bozzolo come al solito» mi stringe anche lui, forse più del dovuto. Lo sento inspirare profondamente, affondare il viso nell’incavo tra il collo e la spalla e bagnarmi il maglione.
«Sei mancata tanto anche a me» dice piano, alla lana rossa del mio pullover. Poi tira su la testa di scatto e mi sorride.
«Non sono più tanto lo stronzo cinico di cui parli sempre a tutti vero? Se mi vedessero ora così…» mi viene da sorridere. Gli scosto i capelli dagli occhi e lui mi rivolge un occhiata da rivoltare le budella.
«No, forse no. Questo è il Massimo che conosco io e che…» mi fermo prima di dire una cavolata. Lo stavo per dire, lo stavo per dire. Merda. I miei occhi guizzano sul suo volto e lo vedo dipinto da un’espressione scioccata. Ha capito. Merda, ha capito.
Sono io che invece non riesco a capire come possa essermi uscita una cosa del genere. Potrebbe rovinare la mia vita. Completamente. Okay, tentiamo di recuperare in corner.
«… a cui ho voluto tanto bene» la luce di speranza che si era accesa nelle sue iridi scure si affievolisce piano. Ma la bocca si piega in un debole sorriso.
«Possiamo recuperare undici anni di ghigni e vaffanculo?» domanda piano e io mi limito ad annuire.
«Allora, intanto grazie per questa risposta. Mi ero già preparato a dormire sul pianerottolo» sorride. «Perciò, visto che mi hai perdonato la camicia, mi perdonerai anche questo» si allontana a grandi falcate e ritorna su. Pochi secondi dopo riappare con in mano lo scatolone. Lo posa ai miei piedi e inizia a smuovere tutto quello che c’è dentro. Ne estrae una cassetta (sapete di quelle risalenti più o meno alla preistoria? Esatto, una di quelle. Per fortuna il mio lettore funziona ancora alla grande) e la infila nel lettore.
«Questa è storia» annuncia, guardandomi con gli occhi che gli brillano. La prima immagine ha me come protagonista. Una me molto diversa da quella di oggi. Una me con i capelli biondi, lunghi fino a metà schiena. Una me truccata come una Barbie brutta. Siamo al mare, a Viareggio. Riconosco la casa dei nonni di Viola. Siamo noi, il gruppo che eravamo. Avevamo poco più di diciott’anni. Ci sono Gabriele e Massimo che giocano a biliardino, Tommaso e Viola che si stuzzicano cercando di non essere visti da me. C’è Cate che balla insieme a Marco, suo fratello. E poi ci sono io che aiuto Stefano, all’epoca il fidanzato della stessa Caterina, in cucina. Appena lo vedo sento lo stomaco chiudersi e l’aria sembra sempre più rarefatta.
Massimo si accorge del mio stato, perciò si avvicina e mi passa il braccio sulle spalle. Mi ero quasi dimenticata i suoi ricci castani e quegli occhi profondi, bellissimi che avevano stregato tutte noi, soprattutto Cate. Si rivolge alla telecamera e biascica qualcosa in pugliese, mentre si infila in bocca un pezzo di pane e prosciutto.
«Non mi ricordo chi stesse facendo il video…» dico piano, non staccando lo sguardo dalla tv.
«Andrea, tuo cugino, ti ricordi? Stava con Anita all’epoca..» le ultime parole le dice piano, quasi sussurrandole. E io capisco subito perché. Andre l’ha odiato profondamente quando ha scoperto che Anita era incinta di Max. E loro erano sempre fidanzati.
L’immagine ad un certo punto diventa nera, per poi mostrarci di nuovo mio fratello.
«Ora, cari nipotini miei, ecco a voi la mamma e il babbo quando erano belli e giovani» fa segno di far silenzio e va verso la terrazza, dove ci siamo io e Max che parliamo abbracciati e mentre guardiamo le stelle. Sento le mie guance stanno diventando di un fastidioso rosso. Con la coda dell’occhio noto che anche Max è diventato così.
«Ehm, non mi ricordavo ci fosse anche questa parte» balbetta, evitando il mio viso.
Ok, forse è meglio terminarla qui, so come continua. E sicuramente non è adatta per dei bambini. Che imbecille mio fratello. Glielo devo rinfacciare questo quando lo rivedo.
«Ehm» mi schiarisco la voce. «Ce n’è un altro. Quello del karaoke». Allungo il braccio dentro la scatola alla ricerca dell’altra cassetta. Max sembra non aver ancora realizzato di quale stia parlando. Ma ad un certo punto lo vedo sbiancare.
«No, non ci credo» si porta una mano davanti agli occhi, evitando di guardare. Ah-ah tanto bastano solo le orecchie.
Questa volta l’immagine è ancora più vecchia. È l’estate del ’99. La nostra prima estate insieme. Io avevo sedici anni, una bambina insomma. Era la sera prima del compleanno di Viola e avevamo preso l’impianto perché sapevamo quanto lei odiasse il karaoke (anche se ha una voce spettacolare).
E quello era il turno di Massimo a cantare. Era salito sul palco perché spinto da Tommaso ed era arrossito. Si era guardato imbarazzato attorno e poi aveva incrociato i miei occhi. Me lo ricordo ancora lo sguardo che mi rivolse. Un misto tra “aiutami tu” e “voglio buttarmi”. Sorrisi. E poi partì la base di Bella, di Jovanotti. La mia canzone preferita. Con la coda dell’occhio notai il viso soddisfatto di mio fratello che mimò un “questo è per te”.
«Che figura di merda» commenta Max cercando di non guardare. Invece io sono presa. Ho già visto il filmato di nascosto altre volte, cercando di domandarmi come fossimo finiti da lì, da quel luglio del ’99, ad oggi, che non possiamo neanche guardarci. Quella sera sentii per la prima volta qualcosa per un ragazzo, per quel ragazzo timido, quel ragazzo con quegli zigomi alti e gli occhi seducenti che mi fece perdere la testa. Fino a quel momento era stato solo il migliore amico di mio fratello. La sua voce profonda riempie la stanza.
Arriva un suo commento soffocato (soffocato dal cuscino che si sta premendo sul viso per non vedere):
«E comunque canto meglio Olmo». Mi scappa da ridere, ma trattengo. Okay facciamo un commento serio.
«Ho una cassetta anche di Olmo e Vanette». Mi alzo e questa volta vado verso lo scaffale dove tengo i dvd e tra questi ce n’è uno che ho camuffato con la scritta “Matrimonio Nathalie e Roberto Conti” per evitare che Gabriele lo aprisse. Al suo interno ci sono due dvd, ma il primo lo salto direttamente. Sarà meglio che non lo guardi ancora. Inserisco il secondo nel pc e glielo piazzo davanti.
Questa volta è Carnevale. 2003. Siamo a casa mia, quella in campagna. Il tema era, neanche a dirlo, Mai dire Gol. Il video fa prima una panoramica di tutti gli invitati (sempre i soliti, manco a dirlo. Ah no, dimenticavo: c’era anche il fratello minore di Andrea, Mattia). Avevamo allestito un piccolo palco, dove ognuno di noi doveva fare un’imitazione del personaggio da cui ci eravamo travestiti. Ci facciamo delle grandi risate, alcune di divertimento, altre di nostalgia. I bei vecchi tempi, quando eravamo solo un gruppo, quando non c’era bisogno di tre mesi di anticipo per trovarsi e mangiare una pizza insieme. Bastava Gabriele che passava sotto casa nostra con la sua Graziella arrugginita e il montgomery logoro.
Alla fine arriviamo io e Max. Lui con la sua assurda camicia rosa con le becche lunghe e io con una parrucca orrenda. E attacchiamo a cantare. Malissimo, ma non importava. Ci fissiamo, ci sorridiamo, e a me, in questo momento, quasi tredici anni dopo, viene da piangere. Cerco di pulirmi velocemente il viso, tentando di nascondere ogni forma di piagnucolio.
«Bene, abbiamo già visto abbastanza» dico ad alta voce, battendo le mani. Ma lui pare immerso in una strana forma di contemplazione. Fissa quasi ipnotizzato lo schermo della tv. Poi vedo una piccola lacrima scivolare sulle sue guance e lui non fa niente, non gliene importa. Alza gli occhi verso di me e mi rivolge un sorriso amaro.
«Cosa ci è successo?» domanda, ma la sua voce è piuttosto dura. «Perché abbiamo permesso che tutto questo accadesse, eh Mia?» Si alza in piedi e si piazza davanti a me. Il suo respiro è affannoso, lo sento sul mio viso. Ha le labbra strette e sembra che stia per combattere una guerra con se stesso.
«Perché ci siamo persi Mia?» gli manca l’aria, boccheggia. «Perché te ne sei andata?»
Mi sento colpita in pieno. Sono sicura che ho smesso di respirare. Non mi ha mai fatto granché bene ripensare a quel periodo.
«Lo sai benissimo perché me ne sono andata» balbetto piano, evitando il suo sguardo.
«No, non lo so» replica duro. Ma poi sembra pentirsi del tono di voce. «Mi hai lasciato da solo al Piazzale. Ti ho aspettato per tutto il pomeriggio. E quando sono tornato a casa di te c’era rimasta solo una lettera… quella lettera» si allontana da me e inizia a girare frustato attorno al divano. «L’ho consumata per le tante volte che l’ho letta. La so a memoria. E nonostante questo non sono ancora riuscito a capire appieno il significato di quelle parole. Non sono ancora riuscito a capire perché mi hai lasciato dall’oggi al domani. Me lo puoi spiegare? Eh? Per favore». Mi stringe le braccia delicatamente e mi guarda supplichevolmente negli occhi.
«Lo sai. L’ho scritto in quelle righe. Avevo bisogno di fare le mie esperienze Max. Avevo ventun’anni e non sapevo niente. Non avevo fatto niente. E tu parlavi già di matrimonio. Mi sentivo soffocare, sentivo che la mia vita stava prendendo una piega che io non avevo previsto» sbotto quasi rabbiosamente. Ma lui non sembra nemmeno toccato da quello che ho detto.
«Non è questo. Lo so, ti conosco, ti conosco meglio di tutti gli altri. Non lasci mai niente a metà, se non per cause di forza maggiore»
«No! Tu non mi conosci! Tu conoscevi la vecchia Mia, la Mia che è partita da Firenze con delle scelte dure da fare. La Mia che era sempre una ragazzina. Sono cresciuta in Inghilterra. Sono diventata una persona diversa, con esigenze diverse. Sono diventata indipendente» alzo la voce, buttando fuori tutto quello che mi tengo dentro da più di dieci anni. «Ho dovuto fare delle scelte difficili, ho dovuto rinunciare a te e ad un’altra persona…» mi fermo, mi manca il respiro. Sto per dirglielo. Sto per dirglielo dopo tutto questo tempo. Sono pronta? Forse no. Ma sono sicura che se me lo tenessi dentro per tanto ancora potrei esplodere. Lui sembra improvvisamente aver capito.
«Mia…» mi prende la mano. «Non dirmi che è quello che penso»
«Quel pomeriggio mi ero decisa di venire al Piazzale e dirti che ero incinta. Erano due settimane che mi tormentavo su come tu avresti potuto reagire e ero terrorizzata dall’idea che mi avresti lasciato. Ma poi, poco prima di uscire di casa, mi sono sentita male. Mi ha aiutato Tommaso ad andare in ospedale. Avevo avuto un aborto spontaneo. Ed è stato sempre Tommaso ad aiutarmi a partire per il Devonshire da mia nonna. Avevo bisogno dei miei spazi, avevo bisogno di riprendermi» sputo tutto d’un fiato, senza pensare troppo a quello che dico. Sembra che gli sia crollato il mondo addosso.
«E non hai pensato a me? Non hai pensato che forse anche io meritavo di sapere tutto questo, visto che magari, ma magari dico eh, ero io il padre?» punta quello sguardo felino su di me e mi sento mortificare.
«Vorrei che tu capissi che ero giovane. Che ero terrorizzata. E che per colpa di quell’incidente probabilmente non potrò mai avere altri figli» prendo fiato, forse per pensare bene alle parole che sto per dire, forse per cercare di respingere delle lacrime indesiderate. «Gabriele tutto questo non lo sa, non lo sa ancora. E vorrei dirglielo con calma. Quindi, per favore, tienilo per te. Ma soprattutto buttatelo alle spalle, come ho fatto io. Non ci si può piangere per qualcosa che non è ancora cominciato» concludo, cercando di tenere il mio tono più fermo e determinato possibile. Max apre la bocca un paio di volte, come se dovesse dire qualcosa, ma alla fine decide che il silenzio d’accettazione è la migliore scelta.
«Grazie per aver capito, o almeno credo» sussurro al suo orecchio, lasciandogli un lieve bacio sullo zigomo ruvido. E questa è forse la cosa più naturale che ho fatto oggi. Ho sentito arrivarmi dallo stomaco il bisogno di farlo. Di sentire di nuovo il contatto con lui.
«È meglio che metta a posto camera mia. Tu fai pure quello che vuoi» indico con un debole cenno la stanza e mi allontano, cercando di evitare il contatto visivo.
 

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Capitolo 6
*** 5. Sempre venerdì: finirà mai questo giorno? ***


Ho finalmente finito di sistemare l’immensa pila di vestiti che avevo sedia e adesso guardo scoraggiata la stanza quasi in ordine. Non so se sono pronta a ritornare di là, risentire tutto il dramma legato al passato crollarmi addosso. Per questo l’ho allontanato a tempo debito. Avevo bisogno di vivere comodamente, nei miei spazi, evitare di crogiolarmi nel passato. Non riesco a capire quando la mia vita è diventato materiale da telenovela. È tanto difficile avere una vita semplice, senza troppe pretese, che scorra liscia come l’olio? Io stamattina ero semplicemente una trentenne che come unico pensiero aveva quello di organizzare il matrimonio con un ragazzo splendido, e invece bada lì che straccio sono diventata.
La luce fuori sta scomparendo sempre di più e la tempesta sembra desistere dallo smettere. Dei grossi fiocchi si sono perfino appiccicati al vetro e mi par d’essere in uno di quei film strappalacrime che Viola si spara una sera sì e l’altra anche.
«Mì?» la sua voce rompe le quasi due ore di silenzio che avevano dominato la casa. Si affaccia in camera e mi mostra un sorriso conciliante.
«Facciamo pace? Ho preparato una merendina» con la testa indica il piccolo tavolo davanti al divano dove troneggiano due piscine di tè (non possono chiamarsi tazze quelle) con un piatto pieno di biscotti. Deve aver fatto piazza pulita di tutti i pacchetti che mi erano rimasti.
«Dài, fa’ in modo di perdonarmi. Non puoi dire di no al tè, te proprio no» mi prende per una mano e mi invita ad alzarmi. Lo faccio mal volentieri, ma decido di mettere un piede davanti l’altro e arrivare fino al divano a mo’ di peso morto.
«Il tuo preferito. O almeno credo visto che c’era solo questo in dispensa»
«Era l’unico in offerta al supermercato» prendo un lungo sorso e per poco non mi ustiono la gola. Dire che è bollente sarebbe un eufemismo. 
«Effettivamente quando esce il vapore vuol dire che è tiepido» commenta sarcastico, buttandosi un frollino per intero in bocca. Lo fulmino con gli occhi e lui ammicca un sorriso divertito.
«Gigi mi ha appena mandato un messaggio. Stanno passando con il gatto delle nevi. Vede se riesce a raccattare un passaggio clandestino» scoppio a ridere senza motivo. Mi guarda stranito e per osmosi forse comincia anche lui a ridacchiare.
«Sei strana Mi, sei troppo strana» cerca di dire, tra una risata e l’altra. E allora, mentre ci fissiamo negli occhi, sento che la cosa più naturale del mondo è sentirlo tra le mie braccia. E quell’abbraccio, ne sono sicura, è stato il gesto più spontaneo che abbia mai fatto.
«Anche te sei strano Max» dico, con il viso spiaccicato contro il suo petto. «Dopo l’inferno che ti ho fatto passare, te sei ancora qui. Sei ancora accanto a me ad abbracciarmi» lui non risponde, ma sento il suo cuore battere all’impazzata. Questo fa smuovere anche quella palla di pietra che ho al posto del mio, che inizia ad agitarsi ansiosamente. Non provavo questa angoscia mista a leggerezza da molto tempo. Neanche quando Gabri mi ha chiesto di sposarlo forse. Forse quando l’ho baciato per la prima volta. Sì, quella volta avevo il cuore pronto a scapparmi dal petto. Era stato a lungo tempo il mio migliore amico e mi stava baciando. Mi stava dando un lungo bacio da togliere il fiato e io ero in un brodo di giuggiole. Era la sera di ferragosto e io ero da poco tornata dall’Inghilterra. Avevo cercato di riunire il gruppo, ma non avevo fatto i conti con il tempo. Ero scomparsa per tre anni, in tre anni le persone cambiano, crescono. Max era allora sposato con Anita e lei era incinta, così come Viola. Andrea si era appena sposato con un’americana. E poi c’erano Cate e Stefano, anche loro da poco sposati. Perciò, era rimasto Gabri, solo lui non era cambiato. Solo lui era rimasto lo stesso ragazzo che avevo lasciato. Abbiamo ballato tutta la notte e sulla strada del ritorno lui mi ha preso la mano, l’ha baciata e mi ha guardato in un modo che mi ha fatto tremare le gambe. “Ho da dirti una cosa che tengo per me da tanto tempo” si è avvicinato e senza dire altro mi ha baciata. E io mi sono lasciata trasportare dall’onda di emozioni che mi ha preso in pieno. Sono passati quasi dieci anni da quella notte. E io continuo a sentire per lui quel trasporto, quello stesso trasporto che mi ha smosso completamente.
Con Max invece è diverso, è diverso in un modo che forse non riesco a spiegare. Lui c’è sempre stato nella mia vita, nel bene e nel male. È sempre stata una sicurezza, anche quando non potevo vederlo, o almeno non riuscivo a vederlo cresciuto e maturo insieme ad un’altra donna. Aveva promesso a me quelle cose e in solo pochi anni era riuscito a dimenticarmi totalmente. Sarà egoistico, ma non sono riuscita a sentirmi in altro modo.
«Cosa facciamo quindi per ammazzare il tempo? Ho calcolato che più o meno gli ci vorrà una mezz’oretta»
«Mi potresti raccontare quella storia che mi piace» gli sorrido e anche lui lo fa.
«Non so neanche se me la ricordo…» dice vagamente, cercando di evitare i miei occhi.
«Oh andiamo, lo sappiamo entrambi che non è vero» mi sdraio, poggiando la testa sulle sue cosce e lo guardo dal basso. «Forza, comincia» ridacchia, si passa una mano sul viso e comincia a parlare.
Era il 1946, in un paese della costiera amalfitana. Una ragazza di diciotto anni passeggiava sulla spiaggia. Aveva una pelle abbronzata che metteva in risalto i suoi occhi verdi, verdissimi. Era alta, aveva un fisico che creava una lunga fila di corteggiatori. Era la più piccola delle sue sorelle e sua madre non aspettava altro che darla in sposa al primo riccone che si presentava. E se ne erano presentati tanti. Ma lei non ne voleva sapere. Ora che la guerra era finita poteva finalmente rivedere il ragazzo che era partito qualche anno prima per il fronte e lei tremava dall’eccitazione di rivederlo. E lo rivide. Ma stringeva la mano di una bellissima ballerina tedesca. Non sembrava neanche ricordarla. La nostra beniamina, che si chiamava Ada Lina, non riuscì a trattenere il dispiacere e il dolore e scappò, scappò lontano, in un posto che non conosceva e che la divorò. Roma. Si trovava in una città che non conosceva, con pochi mezzi, e una semplice sacca di tela dove ci aveva messo giusto quattro vestiti, gli unici che aveva. La prima notte vagò per la capitale senza fermarsi, anche se i sandali con il tacco le divoravano i piedi. All’alba si fermò in un bar in Via dei Coronari. Non c’era nessun altro in quel posto se non un uomo che dimostrava meno di quanto avesse. “Come ti chiami?” chiese lui con un accento particolare che lei non riuscì a decifrare. “Ada” disse con voce strozzata mentre cercava di buttare giù una limonata in cui si era scordata di metterci lo zucchero. Era l’inizio di maggio ma già un caldo soffocante aveva invaso Roma. L’altro annuì, capendo che di più non poteva parlarci. Le offrì la limonata e si sedette accanto a lei. Ada aveva paura, una paura che le faceva tremare le gambe. Aveva paura perché in una situazione del genere si era già trovata quando era più piccola. Ma quella volta era stato provvidenziale l’arrivo di sua madre, una donna tutta d’un pezzo che si era portata un’intera famiglia sulle spalle, perfino suo padre, un poco di buono. Ada invocò tutta la forza di sua madre per assisterla, per aiutarla ad affrontare una mossa scomoda. Ma lo straniero non si mosse, semplicemente continuò a studiarla, ad ammirare i suoi lineamenti selvaggi, felini ma allo stesso tempo stupefacenti. “Mi chiamo Fabrizio Neri, e lavoro a Cinecittà” si presentò, porgendole la mano. “Sei bellissima, lo sai? C’hai una bellezza che le americane ti potrebbero invidiare”. Ada fece scattare lo sguardo su quello straniero e su quella proposta che la impauriva e che l’allettava allo stesso tempo. “Non sono solo bella. Ho anche un cervello” disse d’impulso, sfidandolo con gli occhi, i suoi profondi occhi di giada. Lui si leccò le labbra lentamente e sorrise, un sorriso quasi malefico, felino anch’esso. “Non l’ho mai messo in discussione” fece una breve pausa. “Vuoi venire a vedere dove lavoro?” Ada si sentì messa al muro. Avrebbe voluto dire di sì, ma temeva che lui non fosse chi diceva di essere, che le facesse del male. “Come faccio a sapere che vuoi solamente farmi vedere quel posto? Come faccio a fidarmi di te?” Lui fece un’altra volta quel sorriso che fece gelare il sangue nelle vene della ragazza. “Ho avuto la prova che hai davvero un cervello. Bene, meglio così. Facciamo una cosa” si voltò e chiamò alla ragazzina che scribacchiava continuamente su un grande quaderno rosso. “Lucì, questa è Ada. Portala da Nicoletta. Lei saprà cosa farne” si rivolse ad Ada “Sei più sicura se io non ti sono attorno?” e la ragazza annuì. Neri si schiarì la voce e si alzò con calma. “Spero che tu possa accettare la mia proposta, anche se non sei obbligata ad andare. Ma io vedo un brillante futuro davanti a te” e se ne andò senza aggiungere altro. Lucia, senza perdere la sua compostezza, invitò Ada ad alzarsi e fece in modo che la seguisse. Ada mentre camminava continuava a rimuginare sulla scelta che aveva fatto. Era proprio sicura che quella non sarebbe stata una trappola? Se avessero voluto solamente approfittare di lei? Presa dalla paura di perdere quelle poche lire che aveva le mise velocemente nella tasca che si era creata nel reggiseno. In realtà non cambiava niente, ma si sentiva più sicura ad averli attaccati al corpo. Quella bimbetta che le faceva da guida camminava come una gazzella, leggera e a passi veloci. Arrivarono in fondo alla via o almeno quasi e si posizionarono davanti ad un portone che aveva vissuto il suo periodo migliore qualche decennio prima. “Nicolé? Nicolé! C’ho ‘na ragazzetta che te manda Fabbrì” sbraitò Lucia alla finestra del primo piano. Una donna sulla trentina si affacciò. “Che te urli a quest’ora?” la rimbeccò con tono duro. Poi il suo sguardo si posò sulla figura statuaria di Ada. “Anvedi…” disse sottovoce, prima di farle salire. “Poi me dici dove l’ha trovata una così quel buono a nulla di mio marito. Madonna, questa va fatta vede’ a Vittorio. O a Roberto. Questa ce fa fa li milioni” l’ultima frase la disse sottovoce, a se stessa, ma Ada la captò ugualmente. E fece una smorfia d’orgoglio. Nicoletta la cambiò, le mise uno degli abiti che stava preparando. Era di una seta così morbida che ad Ada non le parve reale. E poi, con l’aiuto di Lucia la truccarono, le pettinarono i capelli. Quel pomeriggio Ada, forse un po’ drogata dalla bellezza in cui si trovava, quasi come in un sogno seguì quelle donne, allentando un po’ la tensione. La portarono nell’ufficio di Fabrizio Neri che dopo venne a sapere essere un produttore. Lo chiese un paio di volte cosa quello significasse. C’è da aggiungere che all’epoca Ada sapesse a malapena leggere e scrivere. Insomma quel Fabrizio la portò diretta da un paio di registi che rimasero impressionati da quella giovane selvaggia. “Potresti cambiare nome” le suggerirono diverse volte, ma lei rispose non un no secco ogni volta. Le fecero fare vari provini, talmente tanti che la sera sentiva i muscoli del viso indolenziti. La presero per una coppia di film. Non le sembrava vero. Continuava a tirarsi i pizzicotti, perché era abbastanza sicura che quello fosse un sogno. Ma si faceva soltanto male. Quella sera baciò perfino Neri sulle guance per la gioia. Ma se ne pentì. “Sei sposato, mi dispiace” e lui le rivolse il suo sorriso felino. “Mia moglie non si fa problemi” e la baciò, senza che lei potesse replicare. Se la portò a letto e lei non disse niente. La mattina dopo, attanagliata dai sensi di colpa, chiamò Nicoletta. Lei non si scompose “Non sei la prima, né l’ultima, fattene una ragione, così come ho fatto io. Mio marito ha tante amanti, ma torna sempre da me” e chiuse la telefonata. Ada fu colpita dalla sua reazione e decise di prendere alla lettera le parole di lei. La relazione con Neri sarebbe stata di affari.
Un anno dopo era una star. Arrivavano richieste anche dall’estero. Ma Ada non si sentiva al meglio. Fabrizio era distante e sicuramente aveva un’altra amante. Lei si era innamorata, sebbene si fosse ripromessa di non farlo mai più dopo quello che le aveva fatto Carlo, il fidanzato che l’aveva lasciata per la ballerina. Una sera girò tutta Roma a piedi. Ormai la conosceva bene. Era la sua casa. E anche quella notte fece l’incontro che le cambiò la vita. Uno sconosciuto, ancora una volta, che fumava solitario su di un ponte. Lei si mise in bocca una sigaretta e gli si avvicinò. In un anno aveva perso il pudore infantile e era diventata donna. Gli si mise vicina, con i gomiti che si toccavano e chiese da accendere. Non tremava più quando era accanto ad un uomo, si sentiva sicura di sé, dei suoi mezzi. Lui invece sentì le ginocchia ballare. Mai nessuna ragazza aveva parlato così con lui. Le avvicinò tremolante il suo accendino e quando l’accese poté vedere meglio quei lineamenti ombrosi della ragazza. Gli occhi verdi brillarono alla luce del fuoco. Pensò per un attimo di avere la Madonna davanti. “Maria…!” esclamò piano, sconvolto in viso e dentro di sé. Lei sorrise beffarda. “No, Ada” e gli porse la mano decisa. Lui, un po’ meno deciso la strinse. “Giovanni”. “Mi pare d’averti già visto” disse lei, cancellando il contatto visivo per portare lo sguardo alla cupola di San Pietro. Lui guardò il profilo elegante di lei che fumava, aspettandosi una risposta, un qualcosa. E poi realizzò, realizzò di averla vista in quel cinema dove non si respirava dal caldo, dall’odore di naftalina misto a quello delle Popolari o forse delle Nazionali, non si riusciva a capire bene. Si ricordò di essersi innamorato di quegl’occhi di giada che l’avevano appena fissato dal primo momento in cui apparvero sullo schermo. “Sei quell’attrice, no?” chiese lui tremolante. Lei sorrise. “No, io sono Ada” replicò. Si dovette accontentare di quella risposta, almeno per il momento. Da quella sera e negli anni avvenire avrebbe dovuto tenere spesso a mente quella risposta, per ricordarsi che la donna che aveva al suo fianco era solo Ada. Anche se si comportava da diva al pubblico, anche se lo faceva infuriare, vicino a lui era solo Ada. Lei non capì subito che quello a cui aveva chiesto del fuoco, con cui si voleva divertire un po’ vedendolo così spaurito in mezzo ad una città pronto a divorarla, così come aveva fatto con lei, sarebbe stato l’unico punto fisso di tutta la sua vita. Non parlarono molto quella notte e nessuno dei due si ricorda se si dissero arrivederci, addio, se si salutarono insomma. Non lo fecero perché dentro di loro sapevano che si sarebbero visti di nuovo. Una settimana dopo, per essere esatti. A Trastevere. Lei, stranamente da sola, beveva una birra fredda in un piccolo tavolo fuori da un bar. Lui aveva appena svoltato, accompagnato da un paio di tizi che non le piacquero per niente. Le sorrise timido. Lei ricambiò. Le si sedette accanto, ignorando le proteste dei due uomini ingessati. “L’amore della mia vita” disse lui. Lei si immobilizzò. Lui ridacchio. “La birra ghiacciata”. Si sciolse. “Se è per questo, è anche il mio” e ne ordinò un’altra. Passarono il pomeriggio insieme anche se non avrebbero dovuto. Lui doveva incontrarsi col suo manager, lei con il suo nuovo agente. Ma se ne fregarono. Lui si era finalmente sciolto, lei era ritornata ad essere una normale diciannovenne. “Ti porto a mangiare la migliore carbonara di tutta Roma domani, eh?” lei non esitò ad acconsentire. La sera dopo la fece salire su una terrazza dove non c’era altro che un tavolo sgangherato e due sedie forse un po’ zoppe. Lui arrivò con una padella piena di spaghetti. “Et voilà” sorrise, e sorrise anche lei. Si sentì di nuovo come dentro una di quelle storie di principesse a cui si era appassionata. Era una principessa anche lei e aveva trovato il suo principe.
Massimo smette di raccontare e mi guarda sorridente. «Ti mette sempre di buon umore questa storia» dice piano, continuando a mantenere il contatto visivo con me.
«Sempre. È la storia d’amore più bella che abbia mai sentito»
«Mia nonna ha sempre voluto che sembrasse una di quelle. Me la raccontava quando ero piccolo. Diceva sempre che io ero in grado di ascoltarla e apprezzarla ed era sicura, anzi, è sicura che prima o poi sarò in grado di metterla per iscritto» c’è una vaga ombra nei suoi occhi.
« È da quando che ti conosco che stai cercando di scrivere quel libro. Non hai ancora trovato il modo? »
Scuote la testa. «Ho bisogno di un’ispirazione per creare per bene la figura di Ada. È così complessa e stratificata che non riesco a renderla mai bene» mi guarda ancora, questa volta con più intensità. Ricambio. Sento lo stomaco stringersi. Alla fine facciamo ciò che pensavamo di fare fin dall’inizio, senza più girarci attorno, senza più raccontarci balle.
Lui mi bacia, o forse io lo bacio, non lo so, ma so che è bello. È bello come tornare a casa dopo un lungo viaggio, ritrovare una persona dopo una lunga assenza. Ecco cos’è.
E poi il campanello suona fastidiosamente.

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Capitolo 7
*** 6. Avrò fatto un errore? ***


Martedì 8 Dicembre
Avrò fatto un errore?
È questo quello che mi ripeto da qualche giorno. Una litania terribile, angosciante.
Lo devo dire o no a Gabriele?
Mi viene incontro con un sorriso smagliante, quello che si dovrebbe fare al futuro coniuge dopo qualche settimana di assenza. Io sembro avere una paralisi facciale invece. Ho un sorriso falso come le labbra di mia zia. Anche se in realtà da una parte sono sollevata. Avere il mio fidanzato accanto in qualche modo stabilizzerà la mia vita. E a supporto di questo c’è da aggiungerci che per fortuna Max è a Roma dai suoi per il ponte dell’Immacolata. Almeno fino a domani sera non dovrò vederlo.
«Ciao Mì» mi bacia sulle labbra e io cerco di fare la naturale. Cerco di camuffare il fatto che beh, teoricamente, l’ho tradito una manciata di giorni fa. Chiudo gli occhi e provo a ritornare a quella sera.
Gigi è arrivato beccandoci con le zampe nel sacco. O meglio, non ha visto niente, solo interrotto il momento. Ci siamo ricomposti un attimo e poi gli abbiamo aperto. Il tempo di preparare un caffè e lui aveva già aperto il portone di Max. Gigi ci ha mollato un’ora dopo perché ha attaccato bottone come fa sempre. E poi, quando siamo rimasti un’altra volta da soli ci siamo solo guardati negli occhi per qualche minuto, riflettendo sulla cazzata che avevamo appena fatto. Io ad un passo dal matrimonio, lui ad un passo dal divorzio. E poi volete metterci anche tutta la storia che c’è stata tra noi? Mi ha detto che doveva andare a recuperare Federico e se ne è andato. Io non me ne sono accorta, ma sono rimasta a fissarlo mentre si allontanava tutto dinoccolato, con il passo sgraziato e quel cappotto marrone che possiede da una vita. Ho anche sorriso, forse, ma ora non ricordo. Ero già attanagliata dall’ansia per il ritorno di Gabriele, per come sarei riuscita a tenere per me questo segreto. Che brutta l’ansia di quando fai le corna. Soprattutto quando le fai a mezzo, ad un uomo che ti è stato accanto no matter what e te lo sfanculizzi così, tranquilla.
«Tutto pronto per il grande giorno?» mi chiede quasi distrattamente, mentre controlla il cellulare.
«Mh, mia madre e tua madre mi stanno alle costole, da una parte non vedo l’ora che sia passato. Sto vivendo in un periodo di ansia costante». Bella scusa Mia. Ti vuoi salvare in calcio d’angolo.
«Ho chiamato Michel, dobbiamo discutere del menu, ma ho quasi ultimato tutto» mi dice, continuando ad evitare il mio sguardo. Meglio così. Non riuscirà a percepire la mia angoscia.
Per il resto non ci diciamo niente, lui non mi racconta niente di Berlino e beh, io forse è meglio se sto zitta. Non c’è niente che possa interessargli. O almeno non positivamente.
*
Roma
Max stava quasi sdraiato sulla poltroncina di vimini, cercando di catturare qualche raggio di timido sole dicembrino. Solo due giorni prima a Firenze era immerso nella neve fino al ginocchio e adesso stava prendendo un po’ di sole sulla terrazza dei suoi. Era quasi caldo (forse a malapena dodici gradi, ma la temperatura perfetta per mettersi solo un maglioncino infeltrito di un rosso sbiadito e le Converse scolorite pronte a essere rottamate). E poi, preso da un estro di fantasia aveva voluto prepararsi uno Spritz, leggermente troppo alcolico, ma perfetto per cercare quel vago senso di annebbiamento che gli provoca un po’ di alcool a stomaco vuoto. E così, con un bicchiere tra le dita, una sigaretta rollata non benissimo e i suoi occhiali che arrivavano direttamente dagli anni novanta, Max Rossi, come ai vecchi tempi, si era spiaggiato sul terrazzo dei suoi, cercando di fare il meno possibile. O almeno cercare di scordarsi della cazzata che aveva fatto solo qualche giorno prima. Non sapeva che pensare, non riusciva a comprendere se quello che aveva fatto, quel bacio, fosse stato positivo o negativo. Sul momento poteva sembrare la cosa più normale e bella di tutta la sua vita, ma ripensandoci (anzi, rimuginandoci, come era sua abitudine, fino a consumarsi il fegato), rischiava di mandare all’aria un matrimonio per una cazzata. O meglio, non del tutto una cazzata, però qualcosa che lui non era solito fare. Quasi. Sapeva cosa significava essere l’altro, quello con due corna che sfioravano il soffitto e quindi, avrebbe dovuto regolarsi. Ma era sicuro, cioè si sentiva sicuro del fatto che Mia non gli permetteva di mantenere il controllo. Non l’aveva mai fatto.
Si passò infastidito la mano sul viso e tra le dita scorse gli occhi felini di sua madre.
«Non sei cambiato per niente. Dopo tutti questi anni sei sempre su quella poltrona a rimuginare. Prima dei quarant’anni ti friggi il fegato bello mio» non c’era neanche una nota di dolcezza nella voce di sua madre. Stava solo facendo quello che aveva sempre amato fare: rimbeccarlo per ogni cosa facesse. Ma era comprensibile visto che era l’unico figlio a cui potesse stare accanto. Sua sorella Rebecca, una vera vipera, non la voleva vedere da quasi vent’anni.
«A quanto pare pensare è l’unica cosa che mi viene bene, che mi è sempre venuta bene» disse lui, tirandosi su seduto e rivolgendo un sorriso ironico alla madre.
«Io ci aggiungerei anche quel bambino che sta facendo ammattire sua zia giù sotto» si sedette accanto a lui e gli passò una mano dietro la schiena. «Che hai combinato questa volta?» Max scosse la testa. Non aveva voglia di parlarne con lei, era sicuro che gli avrebbe fatto una partaccia, ricordandogli quanto fosse brutto essere l’amante, che lei l’aveva fatto per tanti anni e così via.
«Stavo pensando a come riordinare la casa al mare. La vorrei affittare per luglio, tanto non ci vado mai» mentì, o almeno in parte. Era una delle sue priorità sistemare quella villetta meravigliosa sulla costiera amalfitana che aveva avuto in eredità dalla sua prozia da parte di madre, in quanto unico nipote che potesse vedere (si ritorna sempre lì, Rebecca era mal sopportata da tutta la famiglia di sua madre, tranne che da sua madre).
«Oh bene, anche io ci avevo fatto un pensiero… La zia Etta avrebbe voluto sistemarla. Quando abbiamo un po’ più di tempo libero ne parliamo. Ora fammi il favore di venire giù che ci stiamo per mettere a tavola. E per l’amor di Dio cambiati codesto maglione, mi sembra che tu abbia solo quello!» esclamò tirandogli una leggera pacca sulla spalla. Poi si alzò e con grande eleganza ritornò giù a gestire come un caudillo la casa.
Max rimase un’altra manciata di minuti a rimirare il profilo di Roma, così bello e suggestivo, tanto da fargli venire le lacrime agli occhi. La sigaretta ormai si era finita tra le sue dita senza che potesse fare più di due tiri. Si alzò piano e sempre piano scese le scale per andare in sala da pranzo dove l’aspettava una parte della sua famiglia.
«Oh, finalmente si vede arrivare il nostro filosofo!» era la voce di sua sorella Letizia ad accoglierlo, mentre procedeva verso il tavolo con un vassoio di ravioli burro e salvia fumanti. «Ti stavi per perdere i ravioli di nonno». Gli dette un paio di baci sulla guancia. «Salut mon frère».
Da lì iniziò a dare e ricevere baci da quelli che erano la sua famiglia più stretta, vale a dire circa una ventina di persone. Quattro fratelli, i rispettivi coniugi e una marea di nipoti di cui non si ricordava sempre i nomi. E poi c’erano due persone, forse quelle più importanti nella sua vita: i suoi nonni, i genitori di sua madre. Se ne stavano seduti a battibeccare sul divano con ancora la luce negli occhi.
«O Massimino, come sei sempre più magro…» era la prima cosa che gli aveva detto suo nonno con un sorriso raggiante sul volto. Per un breve istante però si ammutolì e lo sguardo si fece serio. «Che succede Massimino? Hai conosciuto una bella ragazza, eh?».
«Più o meno» rispose Max vagamente, cercando di sviare. Già troppe persone erano riuscite a capire cosa stesse pensando. Com’era possibile che in una famiglia di attori lui fosse l’unico che non sapeva mentire manco per sbaglio?
«Dov’è papà?» chiese a Vittorio mentre gli passava velocemente davanti. Il fratello lo guardò di sfuggita e alzò le spalle.
«Penso sia nello studio a parlare con Tiziani. A quanto pare hanno avuto un problema con la protagonista…» disse sua nonna sistemandosi un po’ i capelli prima d’infilarsi una sigaretta in bocca.
«Mara, ce la faccio a fumarne una?» chiese velocemente. La faccia di Mara si contrasse in una smorfia infastidita.
«Mamma, è tutto pronto, anche no dai. Massi vai a chiamare il papà?» ma appena finì la domanda si vide arrivare Augusto Rossi con la sua camminata lenta e un po’ goffa. Aveva un sorriso stampato bene sul viso, ma non sembrava felice. I suoi occhi s’illuminarono non appena incrociarono quelli di Massimo.
«Finalmente! Credevo tu volessi prendere la residenza sulla terrazza…» gli dette una pacca sulla spalla e lo fece sedere accanto a sé, come aveva sempre fatto. Non era un segreto che Max fosse il figlio preferito di Augusto; d’altronde era quello che aveva dovuto e voluto proteggere da tutto e tutti, soprattutto dai riflettori e anche un po’ dai fratelli più grandi. Era quello che portava sempre con sé sul set, quello che faceva sedere sulle ginocchia mentre lui lavorava. Gli altri quattro fratelli erano molto più grandi di lui, ma nonostante questo c’era sempre stata in loro una punta di gelosia. Soprattutto Letizia, visto che fino all’arrivo di Max era la vera regina della casa. Non aveva vissuto quasi mai con suo padre fino a che non ha avuto quindici anni che si è dovuta trasferire da Parigi a Roma. Max era sempre stato il prediletto, il figlio del suo grande amore per Mara.
«Se dopo si riesce ad essere cinque minuti da soli ce la faccio a parlarti?» chiese Massimo abbassando la voce. Suo padre sorrise affettuosamente dandogli una pacca sulla spalla.
«Solo se si tratta di cose belle» si prese una pausa per scrutare gli occhi verdi del figlio che si erano improvvisamente scuriti. «È una cosa bella?». Massimo non seppe rispondere. La sua testa diceva, no, non è per niente bella, ma sentiva il suo cuore pulsare talmente forte che gli parve che stesse urlando “sì, è la cosa più spettacolare della mia vita”. Il suo volto probabilmente lo tradì, perché vide lo sguardo di suo padre alleggerirsi ancora di più e le labbra stendersi in un sorriso pieno d’amore e comprensione.
«Dopo ne parliamo» e lo invitò a sedersi a tavola davanti a Simone, il suo secondogenito. D’un tratto Massimo si sentì nuovamente bambino. Il più piccolo ad un tavolo di persone che lo trattavano come un principino, ma allo stesso tempo che lo consideravano il giusto perché ancora troppo ingenuo. E forse un po’ di quell’ingenuità ce l’aveva sempre dentro di sé, era quella che gli permetteva di vivere ancora serenamente, o almeno di farlo la maggior parte del tempo. Questa storia di Mia l’aveva reso adulto tutto d’un colpo. Si era reso conto che non basta l’amore puro, cristallino, per poter ottenere tutto quello di cui si ha bisogno. I suoi occhi scivolarono sui volti adulti di tutti i suoi fratelli per cercare gli occhi di Federico. Non aveva bisogno di lui: in mezzo a tutti i suoi cugini era l’intrattenitore, il fulcro, l’unico che unisse quelli più grandi, già laureati a quelli più piccoli. Max vide in suo figlio qualcosa che non gli era mai appartenuto, ma che era certo avesse preso dalla madre: il carattere affascinante. Era quello che aveva fatto innamorare Max di Anita. E il proprio carattere infantile ha portato la loro storia alla fine. Fissò a lungo il viso dolce e paffuto del figlio e lo invidiò. Anche lui voleva tornare bambino, voleva non avere più problemi.
«Dimmi, come procede il mercato del libro?» fu la voce di Simone a risvegliarlo dalla catalessi in cui era finito. Perciò fu costretto a girare gli occhi per incontrare quelli di ghiaccio del fratello.
«Male, si vende sempre meno» borbottò controvoglia, preparandosi mentalmente allo sfottò sulla sua professione che i suoi fratelli gli riservavano ogni volta.
«Mi chiedo come mai tu non abbia mai continuato a scrivere. Eri bravo, avresti fatto fortuna» inforchettò un paio di ravioli e l’infilò in bocca. Max lo fissò a lungo, sfoderando uno sguardo di sfida. Si chiese come potessero essere tanto rompicoglioni delle volte.
«Non mi interessa far fortuna. E poi non è così facile. Non schiocchi le dita e improvvisamente hai il libro già pronto»
«Ma come? Vittorio mi aveva detto che ne avevi già uno pronto ad essere pubblicato, eh? Vittò, è vero?» l’altro fratello, quello più timido e introverso, si girò mostrando il suo viso rosso come un pomodoro.
«No, macché, non ti avevo detto niente del genere» la sua bocca stava dicendo una cosa, ma i suoi occhi alludevano ad altro. Alludevano ad uccidere seduta stante Simone. Max si ruotò per guardare il fratello. Vittorio era sempre stato il suo miglior alleato, forse perché era quello più vicino d’età, anche se aveva dieci anni più di lui. «Senti Massi, scusa, ma cercavo una penna qualche tempo fa e ho trovato una bozza di un tuo libro. E lo sai, sono curioso e ho dato un’occhiata. Una storia meravigliosa se posso permettermi». Max lo fulminò con lo sguardo.
«Non è un libro pronto» asserì profondamente, col tono più duro che riuscisse a tirar fuori.
«Ma se mi permetti, ci sono solamente un paio di aggiustamenti da fare, ma pochissimi e poi sarebbe da mandare in stampa. Potrebbe venirci fuori una sceneggiatura interessante fuori, se vuoi…»
«No.» Max sbatté il pugno sul tavolo, zittendo tutti gli altri commensali. «Non voglio. Non posso raccontare una storia del genere. Basta ora» e riprese a mangiare, cercando di far finta di non sentire tutti quegli sguardi addosso pregando che il discorso si spostasse su altri argomenti. E forse per una volta le sue preghiere furono ascoltate. Tutti gli occhi erano rivolti verso Marta, la figlia di Simone, che aveva appena avuto una bambina. La voce roca, ma al tempo stesso dolce della nipote riempì la stanza e Max poté finalmente estraniarsi da quel gruppo di persone di cui si sentiva la pecora nera. Tutti i suoi fratelli avevano delle carriere da fare invidia, e poi c’era lui, che aveva preferito la solitudine al successo. Per un breve istante si chiese se le sue conquiste in amore sarebbero potute andare meglio se lui avesse approfittato della fama dei suoi genitori. E dei suoi nonni. Ma poi pensò che le uniche due donne che aveva mai amato in vita sua l’avevano amato per il suo essere solo Massimo Rossi, non “il figlio di…”.
Arrivarono al dessert che Max non aveva ancora spiccicato parola dopo la mezza discussione con Simone. Ma nessuno si era mai impegnato a coinvolgerlo nelle conversazioni. I suoi nonni dall’altra parte del tavolo l’osservavano ogni tanto, spingendo Augusto a parlargli, ma quest’ultimo sapeva che il figlio aveva bisogno di sbollire. E quando finirono il pranzo Max fu il primo ad alzarsi ed andarsene, andarsene in terrazza, lasciando che tutti i suoi parenti sparlassero di lui. Non gliene importava più di tanto. Gli importava di finirsi il pacchetto sgualcito di sigarette. Si riposizionò sulla sua poltrona e se ne accese una. Il cielo era cambiato: delle nuvole grigie coprivano il sole, un vento gelido si era alzato. Max sentì un brivido corrergli lungo la schiena, ma pensò che era meglio avere freddo piuttosto che tornare giù. Anche andare in camera sua sarebbe significato incontrare almeno uno dei suoi fratelli. Ma la solitudine non durò a lungo. Sentì dei tacchi rimbombare nelle scale e dal passò s’immaginò la figura un po’ goffa del padre. E in effetti ci azzeccò.
«Volevi parlare, ma sei sparito» disse l’anziano, cercando di riprendere fiato. Aveva il viso paonazzo e un’espressione quasi comica in volto.
«Scusa, non respiravo più là sotto» fece Max tra un tiro e un altro. «Lo sai che non sopporto quei discorsi campati in aria. E poi non mi aspettavo una caduta di stile del genere da parte di Vittorio»
«Tutto quello che hanno fatto o detto i tuoi fratelli era con buone intenzioni, lo sai» suo padre si sedette accanto a lui e lo guardò dolcemente.
«Cosa c’è che ti turba Massi?» i suoi occhi erano diventati scuri come il cielo. D’improvviso suo padre sembrava invecchiato di cinque anni. Gli succedeva sempre quando si faceva serio; gli veniva una profonda ruga tra le sopracciglia che intimoriva Max fin da quando era piccolo.
Il figlio si mise a sedere per poter incrociare lo sguardo del padre e si passò una mano tra i ricci bruni.
«È rientrata nella mia vita. Così, di botto. E questo mi ha scombussolato e non poco» sentì gli occhi bruciargli, sentì le lacrime pizzicargli le palpebre. «E io non so come comportarmi». Finì l’ultima frase con un debole piagnucolio. Il padre si avvicinò ancor di più a lui e gli passò una mano sulla spalla. D’un tratto gli sembrò di essere tornato a una decina d’anni prima quando lei, Mia, era al centro delle loro conversazioni. E allora gli chiese quello che gli sembrava più giusto.
«Ma tu provi sempre qualcosa per lei, vero?»
Max alzò gli occhi e li fissò in quelli scuri del padre. Era la domanda che più aspettava. E si era preparato a rispondere, sicuro che lo era. Ma le parole non gli uscivano dalla bocca, gli rimanevano intrappolate in gola, ferme, fisse, fastidiosamente fisse lì.
Augusto sorrise debolmente: era il figlio che sicuramente gli somigliava più caratterialmente. Avevano entrambi avuto numerose storie, relazioni, ma l’amore erano riusciti a trovarlo veramente poche volte.
«Non voglio farti un lungo discorso, voglio solamente dirti una parola: coraggio. Devi farti coraggio Massi, e quello che sto per dirti ti sembrerà macinato già tante volte, ma sappi che non c’è più grande verità. Hai solo una vita e meriti di viverla al massimo, devi star bene. Se tu rimanessi chiuso in te stesso per paura che lei ti faccia star male come aveva fatto tempo fa, staresti peggio. Quindi, coraggio. Fatti coraggio, dille quello che senti. E se sarà tanto sfacciata da rifiutarti un’altra volta, beh allora tu un’altra volta ricomincerai a costruire la tua vita senza di lei. Magari troverai l’amore della tua vita. A me è successo così» gli batté una mano sulla spalla e si alzò, andandosene, sapendo che non sarebbero servite altre parole per convincerlo. Era un insicuro di base, ma sapeva quando un ragionamento filava e non poteva dargli torto.
Perciò Max si decise ad alzarsi e fare la cosa giusta.

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Capitolo 8
*** 7. La verità ***


Martedì 15 Dicembre
La verità
Mia
Prendo la mia biro preferita e traccio sul diario un bel “-4 giorni” sorridendo come un’ebete. Ormai è già tutto pronto, tutti sono elettrizzati, non stanno più nella pelle. Gabriele lo vedo salterellare da ogni parte, sembra tenuto in vita da una scarica elettrica di agitazione ed eccitazione. Ormai non c’è più niente di cui occuparsi. C’è solamente un’unica, piccolissima commissione che devo fare: andare a provarmi il vestito per l’ultima volta. Il mio vestito finito.
Ora penserete: che male c’è? È solo un vestito che ti sei già provata una dozzina di volta (sì, avete letto bene, una dozzina, perché ogni volta che lo provavo mi consigliavano delle modifiche spettacolari e io non riuscivo a dire di no), devi solo essere tranquilla. Respirare. A lungo. A lungo Mì, non è difficile.
Di colpo un’immagine di Max che mi dice di respirare a lungo mi balza in mente. L’avevo rimosso: lui prima del mio esame di maturità. Mi guarda negli occhi e sorride. “A lungo Mì, non è difficile”. E questo turba tutta la mia giornata. Ne sono sicura.
Okay, bella, focalizzati solo su una cosa. Focalizzati sul vestito. Sulla seta bianca. Focalizzati sul tulle del velo. Focalizzati su qualsiasi altra cosa che non sia Massimo. Per favore. Fallo per la tua sanità mentale.
Mi alzo e frettolosamente mi cambio per uscire. Ho bisogno di sortire di qui, respirare aria fresca. E quando sto per aprire la porta mi arriva un messaggio di Viola che mi chiede di fare un brunch insieme. Grazie a Dio.
Viola mi aspetta davanti alla chiesa di S. Lorenzo. È elegante come sempre nel suo cappottino nero fino alle ginocchia. Ha i capelli raccolti in una coda bassa super chic e un basco verde scuro, perfetto col rosso acceso della sua chioma. Al suo fianco c’è anche Caterina, al cellulare come sempre.
«Ciao Mì» Viola mi abbraccia e io vengo investita dal suo profumo fin troppo dolce per i miei gusti. Poi manda un’occhiata triste verso Caterina. «Maria. Sta facendo la bastarda un’altra volta. È per quell’articolo sulla rivista». Guardo una delle mie migliori amiche urlare al telefono con le lacrime agli occhi e mi sento praticamente impotente. Ma lasciate che vi spieghi: Maria è sua suocera (ex), una stronza che non ha lasciato respirare Caterina da quando Stefano se ne è andato. Prima sulle proprietà che aveva lasciato e ora per tutti gli articoli che escono su di lui, sulla sua famiglia che non l’ha mai appoggiato e sulla sua nuova famiglia che si era creato in Toscana.
«Basta, Maria, basta chiamare. Per favore» non urla nemmeno più, le parole le escono tra un singhiozzo e l’altro. E decide di attaccare.
«Scusate, mi ha rovinato la giornata e ora io la sto rovinando a voi» si pulisce il viso e cerca di sorridere. «Vogliamo andare a vedere questo famigerato vestito? Poi andiamo a mangiare che sto per svenire» mi prende sottobraccio e si avvia con passo spedito e io non posso fare altro che procedere seguendo lei.
C’è un piccolo intoppo prima di arrivare alla boutique: lo so che starete pensando “wow, che novità”, ma ei, non sono io a decidere. Insomma, il negozio si trova poco sopra la libreria di Max. Eh già, un colpo da telenovela. Ma non posso dire che la mia vita non abbia dei tocchi da soap. Così cerco di andare più velocemente possibile e guardandomi le punte delle scarpe.
E quando arrivo davanti alla vetrina della boutique tiro un leggero sospiro di sollievo. Mi ricompongo, cercando di sfoggiare il mio falso sorriso migliore e guardo le mie amiche.
«Forza belline, c’è da farsi due risate con il vostro abito» le incito ad entrare. Okay, sono realmente eccitata nel vedere le loro reazioni al vestito che ho scelto per loro. Blu, maniche lunghe, semplice ed elegante. Come sono loro.
E infatti, come previsto le vedo illuminarsi. Era l’unico che potesse andare bene con i loro stili talmente diversi, talmente lontani l’un l’altro.
Le vedo uscire dai camerini, entrambe raggianti, entrambe meravigliose. Mi viene da saltare dalla gioia. Finalmente sta succedendo. Sono veramente ad un passo dallo sposarmi, ad un passo dal cominciare la mia vita da persona adulta. Per davvero, nero su bianco. Legata ad un uomo per la vita.
Oh cazzo
Mi sta venendo un attacco di panico. Gesù, lo sento tutto. M’irrigidisco, mi manca l’aria. Ora svengo. Si, si, ora svengo. Davanti a me tutto diventa scuro.
«Oh cazzo! Mia che fai!» la voce di Cate è l’ultima cosa che riesco a sentire. E poi un busso per terra.
Quando riapro gli occhi, mi ritrovo davanti quelli di Viola. 
«Non me lo dire…» biascico, strusciandomi la mano sul viso. Lei sorride e annuisce appena.
«E caddi come corpo morto cade…» decanta, ridacchiando. «Eh già amica mia, ti sei dantizzata. Vieni su, devi essere al massimo della forma per il tuo vestito» mi alzo ma sono ancora molto debole. Però poi mi mettono davanti il mio abito, il mio meraviglioso abito bianco e per poco non perdo il respiro. Un’altra volta.
«Dai sbrigati che sto morendo di fame» mi esorta Cate prendendo in mano un’altra volta il cellulare. Okay l’abbiamo persa di nuovo. Anche se in realtà è durata più di quanto pensassi.
Concentriamoci piuttosto nell’entrare in quell’abito di seta.
Nel camerino sono sola, sola con quelle luci fastidiosamente malefiche, quelle che ti fanno vedere la cellulite della cellulite. E passo la mano sul tessuto morbido, osservando ogni singolo dettaglio di quel vestito. Ho un breve flash di quando passai una notte intera a disegnarmi il mio vestito da sposa. Avevo diciannove anni, qualche settimana prima di lasciarmi con Max. Mi ricordo che glielo mostrai la mattina dopo e lui mi ridicolizzò tutto il tempo. E alla fine si tenne il disegno, anche se io ne avevo una copia. Ed è proprio quella copia che sono andata a cercare qualche mese fa. Ora ce l’ho davanti agli occhi. Lentamente mi spoglio e me lo faccio scivolare sulle cosce. E non appena le spalline toccano le mie spalle sento arrivare la commessa a chiuderlo. Mi viene da piangere, di nuovo. Vediamo di ricomporci un po’ eh.
Faccio la mia sfilata fino davanti alle mie amiche e le trovo già in un pietoso lacrimare.
«Tesoro!» Viola mi viene incontro e mi abbraccia.. «Togli il fiato» ma da sopra la sua spalla vedo la vetrina. E davanti alla vetrina c’è lui, in modalità stalker. Non ha nemmeno il cappotto addosso nonostante il freddo sferzante di questi giorni; è solo lì, in piedi, gli occhi fissi su di me, le mani infilate nelle tasche dei jeans, le labbra screpolate, le sue labbra sempre morbide, rosee.
«Ma che diavolo…» mi sciolgo dall’abbraccio con la mia migliore amica per avvicinarmi al vetro. Ma lui se ne è già andato. Forse ho le allucinazioni.
«Che succede Mì?» domanda Caterina. «Tutto ok? Possiamo andare adesso? Scusa tesoro, ma Giulio esce prima oggi e lo devo passare a prendere». Mi passa una mano tra i capelli e cerca di fare un timido sorriso. «Scusa se ti rovino una delle migliori giornate della tua vita con i miei problemi» alzo le spalle e sorrido anche io.
«Stai tranquilla, mi cambio» e me ne ritorno in camerino, non prima di aver lanciato un’occhiata alla strada.
*
Quando Max tornò a casa da lavoro quel pomeriggio, si diresse velocemente in camera sua. Aveva un pallino fisso nella mente, e aveva bisogno di ritrovare quel foglio. Cercò i vari diari che custodiva gelosamente nel fondo del suo armadio e li aprì tutti. Tutti, fino al 2003. E c’erano tutti, tutti sistemati ordinatamente in quel grande scatolone, eccetto uno. Quello dell’estate 2003, quello che riuscì a riempire a tempo record, scaraventandoci tutti i suoi sentimenti, tutta la sua voglia di rivedere Mia ancora una volta. Quello che aveva in mezzo il sogno che entrambi coltivavano per il loro futuro e che non è mai stato realizzato. Per un attimo Max sentì le lacrime pizzicargli gli occhi, pronto a piangere per il nervosismo. Ma poi realizzò che quel quadernino verde l’aveva sempre tenuto in un nascondiglio ancora più top secret, sotto il letto. Non che avesse mai brillato per queste missioni da agente segreto, ma non riusciva a pensare ad un posto migliore. Il foglio spiegazzato e un po’ ingiallito veniva fuori dalle pagine. Lo prese lentamente e lentamente lo aprì. Notò con una punta di dispiacere che i contorni fatti a lapis stavano sbiadendo. Eppure lui era sempre lì, con le sfumature azzurrognole ai bordi, la firma svolazzante di Mia.
“Me lo sono sognata la scorsa notte e ho pensato che ti sarebbe piaciuto averlo. Sicuro lo troverò nel tuo cestino nel giro di mezzo secondo, ma lasciami immaginare che l’hai tenuto, magari conservato in uno di quei brutti diari che tieni nell’armadio. Un bacio, l’amore della tua vita –M”.
Max non si accorse nemmeno di sorridere. Un bel sorriso da deficiente stampato sul volto, e le lacrime che gli rendevano gli occhi lucidi. E poi sentì una stretta allo stomaco che gli bloccò il respiro come qualche ora prima, quando aveva visto quello stesso vestito addosso a lei.
Si stese sul letto e cercò di inspirare ed espirare a lungo, profondamente, evitando di pensare a quanto fossero luminosi gli occhi azzurri di Mia con quell’abito addosso. Cercando di non pensare a lei. Ma gli parve pressoché impossibile. Ovunque girasse lo sguardo ecco che il suo volto gli appariva sempre più vivido. E fu quando la vide perfino riflessa nel suo specchio, decise che non poteva essere un semplice segno o coincidenza. Doveva agire e doveva farlo in fretta. E allora a grandi falcate raggiunse la porta d’ingresso, attraversò il corridoio, trovandosi davanti al portone scuro di casa sua. Preso da un inspiegabile impulso e coraggio bussò varie volte. Ma nessuno rispose, nemmeno quando suonò il campanello. Non gli rimase altro che lasciargli una lettera, a suo rischio e pericolo che Gabriele la trovasse, la leggesse e lo piegasse dalle botte. Sorrise. Gabriele non sarebbe mai stato in grado di fare una cosa del genere; si sentiva in colpa anche ad uccidere le zanzare. Perciò tornò in casa e sfoderò la sua arma migliore, la stilografica di suo padre, e rovesciò sul foglio tutti i suoi sentimenti, tutto quello che aveva provato negli ultimi anni, del suo amore per lei e di come la neve a Firenze fosse riuscita a riportarlo a galla. Paradossalmente, per lui la neve non aveva coperto niente come in T. S. Eliot, ma aveva risvegliato le sue emozioni. L’inchiostro scivolava veloce, talmente tanto che Max non si rese conto d’aver scritto per più di un’ora, riempiendo cinque pagine. Si sentì orgoglioso di ogni parola su quei pezzi di carta. Sorrise, sentendo il cuore scoppiargli nel petto. Stava per fare una cosa terribile, stava per rovinare il matrimonio a due persone, ma nonostante questo non sentiva nessuna colpa. Piegò la lettera accuratamente, scelse una busta color panna e scrisse il nome di Mia sul davanti, cercando di camuffare la sua calligrafia. Sebbene fosse sicuro che Gabriele non l’avrebbe picchiato, preferiva che non l’aprisse in nessun caso.
Attraversò nuovamente il corridoio, ma questa volta scese giù fino all’ingresso per infilare la busta nella cassetta delle lettere di Mia. E ritornò su a grandi falcate.
*
Quella sera torno a casa completamente distrutta. Il mio giorno libero l’ho speso a frullare da un negozio all’altro, dedicandomi alle più stupide frivolezze che dovrebbe fare una donna qualche giorno prima del matrimonio. Cose che, come avrete immaginato, ho odiato con tutta me stessa.
Quando chiudo il portone in fondo di scale mi sento improvvisamente rigenerata. Mi aspetta una tranquilla serata all’insegna di schifezze e film romantici. Da sola, completamente sola.
Faccio qualche passo e con la coda dell’occhio noto qualche volantino colorato spuntare dalla mia cassetta delle lettere. Aprendola mi si rivoltano tutti ai piedi. Ma non sono gli unici. C’è anche una busta chiara, senza niente scritto sopra, senza francobollo né altro, solo il mio nome in nero. Uhh un ammiratore segreto forse? Ma non sono troppo vecchia per una cosa del genere? Decido di portarmela in casa per leggerla sul divano in comodità. Magari con un bel bicchiere di Morellino di Scansano.
E così, dopo essermi versata il vino apro la busta misteriosa. E vengo colpita dalla scrittura: è come un doloroso schiaffo in pieno viso. La riconoscerei tra migliaia la calligrafia di Max; elegante, allungata. Una parte di me mi sta dicendo di buttarla via, di metterla nel fuoco, cestinarla, qualunque cosa, basta non leggerla. Ma l’altra parte decide di non ascoltarla e comincio a leggere.
Quando finisco sento gli occhi andarmi a fuoco dalle lacrime, e il cuore mi esplode nel petto. Per tutto quello che faccio dopo incolpo maggiormente il vino che ha offuscato la mia capacità d’intendere e di volere. Attraverso il corridoio alla velocità della luce e mi ritrovo a bussare furiosamente alla porta di Max.
«Bastardooo» urlo tirando fuori il Giacomo Poretti che è in me. “Aprimi”. E quando mi apre la prima che faccio, quasi come reazione involontaria, gli tiro un pugno sulla spalla.
«Sei uno stronzo! Come ti permetti di dirmi cose del genere! COME? Lo sai che mancano pochi giorni al mio matrimonio? Eh? Rispondi!!» continuo a urlargli contro, ma lui sembra impassibile. Accenna solamente un mezzo sorrisetto ironico che mi fa ancora più innervosire.
«Non potevo resistere. Non potevo stare in silenzio quando sentivo di provare ancora qualcosa per te» risponde con calma, una calma incomprensibile, visto che l’ho riempito di pugnetti per due minuti buoni.
«E quindi hai avuto la meravigliosa idea di venire a scrivermi questa meravigliosa lettera d’amore. Cosa ti frullava per il cervello, eh? Come credi che avrei reagito? Sarei crollata tra le tue braccia senza esitazione? Max, sono fidanzata con Gabriele, io amo lui. Io e te non stiamo insieme da più di dodici anni. Va’ avanti, per favore»  devo ammettere che sto parzialmente mentendo.
«Hai detto che è una lettera meravigliosa» commenta, con un debole sorriso sulle labbra.
«Sì, Max, è la cosa più bella che qualcuno abbia mai scritto per me. Mi ha tolto il fiato. E in maniera positiva. Dio, Max come hai potuto farmi una cosa del genere? Io amo Gabri. Io amo lui» piagnucolo, cercando di non versare neanche una lacrima. Non è il momento per frignare. Lui sembra non essere nemmeno sfiorato dalle mie parole continua a rimanere lì impalato come uno stupido, guarda nei miei occhi con lo sguardo perso, forse leggermente ferito. Vedo che vuole dire qualcosa, ma le parole gli sono rimaste intrappolate dalle labbra carnose.
«Non hai niente da dire?» il mio tono di voce è vagamente disperato, forse dentro di me coltivo la speranza che lui mi chieda di non sposarmi, di ritornare da lui. Nutro la speranza che mi abbia perdonato per averlo lasciato tredici anni fa, per essere scomparsa senza proferire parola, di averlo lasciato a Firenze con il cuore spezzato e un anello tra le dita, anche se sapevamo entrambi che sarebbe stato troppo presto per un matrimonio. Ma sarebbe comunque stata una promessa di vita insieme, una vita piena di alti e bassi, ma tutto sommato colma d’amore. Per tutto il tempo passato da mia nonna nel Regno Unito ho egoisticamente sperato che lui mi perdonasse quello che avevo fatto. E questa lettera sembra finalmente un perdono. Ma quindi cosa sto aspettando? Perché mi sono bloccata così, ho smesso di amarlo forse? Non credo, sennò l’avrei ignorato, sicuramente non l’avrei baciato qualche giorno fa. È forse quel lieve senso di dispiacere che provo nei confronti di Gabriele? Alla fine mi è stato accanto tutti questi anni…
I miei occhi si spostano nuovamente sulla figura longilinea di Massimo. Il suo volto si è oscurato, sta facendo fatica a dire una parola che sia una, forse fa fatica anche a respirare.
«Max…» non mi lascia nemmeno iniziare che poggia le sue labbra sulle mie e sento il mio cuore fare salti mortali. Ma dura pochissimo, lui si stacca subito.
«Volevo darti l’ultimo bacio prima di dirti addio per sempre. Devi sposare Gabriele, Mì, noi non saremo completamente felici insieme» lo dice con una tristezza che mi spezza il cuore in due. La sua mano calda mi carezza delicatamente la guancia e sento le lacrime pungermi gli occhi. Le sue non si sono vergognate a mostrarsi e adesso stanno rigando il suo volto punteggiato da una spruzzata di lentiggini. Rimaniamo una manciata di secondi così e poi lui si allontana, chiudendosi alle spalle il portone di legno.

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Capitolo 9
*** 8. Il matrimonio dell'anno ***


Sabato 19 Dicembre
Lui è qui.
È arrivato alla fine.  
Ci siamo.
Il grande giorno, il mio grande giorno. Quello che, a detta di mia madre, mi ricorderò per tutta la vita. Il giorno migliore della suddetta vita.
Bah.
Io spero solo finisca il prima possibile. Devo togliermi questo cerotto, passare al dopo. Voglio già togliermi questo vestito che d’un botto è diventato pesante, soffocante.
Mia madre, Viola, Caterina non sembrano pensarla così. Mi saltellano attorno da qualche ora ormai, tutte sprizzanti gioia, allegria, un’allegria apparentemente incontrollabile. Ci sono già passate prima, sanno cosa hanno alle mani. Ed io mi sento come totalmente abbandonata a loro, alle loro mani veloci che mi aiutano a pettinarmi, ad infilarmi il vestito, a truccarmi. E nel frattempo parlano tra di loro, bevono champagne e se la ridono, se la ridono tantissimo. Io non riesco a fare un mezzo sorriso spontaneo.
Dentro di me sento che sto per fare un passo sbagliato. Forse il più grande errore della mia vita. Eppure non riesco a prendere quel briciolo di coraggio per annunciare che io non amo Gabriele come amo quel cretino che abita a venti metri da me, quello che nonostante tutto quello che è successo tra di noi è pronto a ritornare insieme a me, a baciarmi, a scrivermi delle splendide lettere d’amore. O almeno era questa l’impressione che mi aveva dato prima di lasciarmi in lacrime sul pianerottolo, proprio un attimo dopo avermi dato il bacio più intenso della mia vita. Un bacio d’addio come non ne avevo mai dati. Come non ne avevo mai ricevuti.
«Mì, inclina un pochino la testa che devo verificare di averti dato per bene il fondotinta anche sulla mandibola» la voce profonda di Viola mi distrae appena dal mio flusso di pensieri che Joyce scansate. Inspiro a fondo, decidendomi di affrontare tutta questa situazione con una delle mie caratteristiche preferite, ma che ultimamente sto lasciando un po’ andare: il sarcasmo e l’ironia.
Se lo vogliamo fare, almeno abbandoniamo l’atmosfera da telenovela brutta e facciamola diventare una commedia romantica. Una cosa alla Notting Hill. Oppure alla Quattro matrimoni e un funerale. (Qualunque cosa che abbia Hugh Grant dentro che sprizzi il suo essere british da ogni poro va bene).
«Via giù Lola, mi sembra già di essermi coperta di quella schifezza abbastanza da sembrare una Kardashian» mi scanso dal suo ennesimo sforzo d’incipriarmi il naso e quindi lei si arrende, abbandonando la cipria sul cassettone.
«Quanto manca mamma?» chiedo, mentre osservo dubbiosa l’estetista mentre si impegna a farmi le unghie quantomeno presentabili.
«Un’oretta» risponde dopo una veloce occhiata all’orologio. Però poi sembra ripensarci. «Facciamo mezz’ora, togliendo però il tempo di arrivare in centro da qui con tutto questo casino di gente».
Un’ora al mio addio definitivo alla vita da single e felice. Cioè da persona non sposata perché ormai single non lo sono da sette anni. Tra un’ora mi devo per sempre legare ad una persona di cui non sono nemmeno sicura. E allora perché lo sto facendo? Perché sacrificare la mia intera vita per stare con qualcuno che non amo completamente? Un dilemma del genere manco i personaggi di Jane Austen. Eppure io vivo nel 2015, potrei tranquillamente farmi avanti e dire “Gabri, scusa ma non sei te quello che voglio sposare”. Troppo facile, non vi pare? Infatti è impossibile. Soprattutto per un cuor di leone come me. E poi ci vogliamo mettere anche mia madre che continuerà a rompermi i coglioni finché campo? Ma non ci penso nemmeno. A maggior ragione perché Max, la mia unica scelta, l’unico uomo con cui sono sicura di passare la mia vecchiaia si è tirato indietro. Preso da un attacco di strizza, ha deciso che non se la sentiva di buttare tutto all’aria per una cosa inutile come l’amore. Le sue parole mi sono rimaste impresse: “non saremo mai felici insieme”. Forse ha ragione. Forse noi abbiamo avuto il nostro momento, il nostro attimo, ma non siamo riusciti a coglierlo come si deve, non siamo riusciti a far sviluppare la relazione, forse perché troppo egoisti, forse perché troppo fifoni. Ma immagino che non conosceremo mai la risposta.
«Vì aiutami col vestito dai, che non voglio essere in ritardo come al mio solito» chiedo, cercando di far smettere il flusso di pensieri.
«Mì, ma ce la facciamo, dai, vai tranquilla… e poi la sposa si deve far attendere» penso di averla involontariamente fulminata con lo sguardo perché non appena finisce la frase fa un piccolo sussulto.
«Voglio che questo giorno passi il più velocemente possibile» mi lascio fuggire questo mormorio che fa storcere il naso a Viola, ma che silenziosamente continua ad aiutarmi a mettere il vestito. Si avvicina poi al mio orecchio.
«Tienile per te queste frasi. Fai almeno finta di essere contenta di sposarti, di essere felicemente al centro dell’attenzione. Passerà più veloce di quanto tu non creda» sussurra con lo sguardo oscurato, il viso segnato da una smorfia di disapprovazione, disappunto. Non ha mai nascosto di preferire Gabriele a Massimo, anzi in più di un’occasione mi ha fatto notare quanto il primo mi adori, mentre con l’altro era una lotta continua per tutto. “Finirete a ottant’anni che non riuscirete neanche più a parlarvi, a guardarvi negli occhi”.
Non le rispondo niente, ma lei sa che il messaggio è arrivato.
«Bene tesoro, siamo pronti, no? Mancano solo le scarpe, giusto?» mia madre sembra quasi tremare da quanto è elettrizzata. Il sorriso le illumina il viso e quindi mi sforzo anche io di sembrare anche vagamente vicino a lei come stato d’animo. La vedo salterellare verso l’uscita e mi appresto a seguirla ma una mano mi blocca.
«Mì se vuoi fare la cazzata, falla ora. Ora o mai più» il tono è serio, da fare ballare le ginocchia. «Pensaci bene però. Devi scegliere qualcuno che ti terrà al sicuro per sempre, o chi ti farà stare sempre un po’ in pensiero. E credimi Mì se ti dico che la seconda scelta è bella solo in apparenza. Con Tommaso è stato così».
Non so cosa rispondere. Ma, razionalmente, non posso che essere d’accordo con lei. Razionalmente. L’ho vista stare parecchio male, l’ho vista quasi toccare il fondo e per questo il dubbio mi nasce: sarei in grado di sopportare quello che ha dovuto sopportare lei? No.
Eppure c’è quella piccola vocina che mi ricorda di quanto Max sia sempre stato pronto a stare con me. Sempre. Che non abbia mai tremato davanti alle difficoltà.
Quindi che dovrei fare? Dovrei abbandonare? Lasciare Gabri sull’altare come uno stupido e scapparmene?
Sarei pronta a passare quello che ha passato la mia migliore amica? No, assolutamente.
Ed è questa la ragione per cui decido che attraverserò la navata con un meraviglioso sorriso sul volto e dirò sì. Sì, cento volte sì. Ho bisogno di regalarmi una vita tranquilla e felice. Me lo merito.
*
La chiesa è immersa in un debole chiacchiericcio, ma tutti si quietano quando mi vedono arrivare al portone. Gabriele si gira e sorride dolcemente. Sembra la persona più felice del mondo. Quando faccio i primi passi, il silenzio inizia a calare per lasciare posto al rimbombare dei miei tacchi sul pavimento. Sembra di camminare in una nuvola di autocompiacimento con tutte quelle persone che mi guardano, che mi sorridono a mo’ di approvazione. Sono tutti estremamente felici di vedere quella povera sciagurata finalmente sistemarsi con un “ragazzino ammodo” e forse rimediare agli errori del passato. Ma forse sono ancora più deliziati solo al pensiero della cena dopo, dell’alcol, soprattutto mia zia Maria che ha già gli occhi che le brillano al solo immaginarsi il bicchiere di vino riempito non-stop. O forse le brillano perché ha già buttato giù un paio di sorsi di prosecchino?
Okay  Mia, concentrati. Fissa il tuo obiettivo, l’altare. Fissa l’uomo che ti aspetta lì, trepidante, pronto a starti al fianco per il resto della vita. Per il resto della vita. Che ansia.
No Mì, fissati. Mira i suoi occhi verdi, grandi, dolci, e il suo sorriso un po’ sbilenco ma così adorabile. È l’uomo di cui sei innamorata, è il tuo migliore amico, è la persona che ti sarà vicino non importa cosa. Non importa chi, non importa come, dove. Per un attimo però gli occhi si assottigliano, gli zigomi si alzano e il sorriso diventa sfacciato, sensuale. Per un attimo ho davanti a me la figura longilinea di Max. Ma è solo un attimo di sballo, niente che un veloce battito di ciglia non possa spazzare via.
Mi sforzo anche io a mostrare un timido e imbarazzato sorriso mentre mi avvicino al mio futuro marito. Lui mi prende la mano e io cerco in questo contatto la stessa scintilla che ho sentito quando Max mi ha toccata per la prima volta dopo tanto tempo. Ma non c’è niente. Lui mi guarda con gli occhi che brillano, i denti bianchissimi incorniciati dalle labbra carnose. Ma non sento niente. Ci giriamo e il parroco inizia a blaterare, e io non ne sento neanche una parola. Mi siedo e mi alzo come se fossi un automa. Poi, con la coda dell’occhio cerco di scrutare Gabriele e lui sembra aver perso tutta la luce che illuminava prima. Lo sguardo si è vagamente scurito e sembra tormentato da qualcosa. Cerco di stringere ancora di più la sua mano, ma sembra non sentire nemmeno il mio tocco.
«Posso dire una cosa?» la sua voce interrompe il prete che lo guarda scioccato. Mentirei se non dicessi che mi sta per scappare una mezza risata. (Ho la risata nervosa, non mi posso fare niente. Quando sono in difficoltà mi scappa da ridere). Gabriele si gira verso di me e mi costringe a guardarlo.
«Non possiamo sposarci Mì. Non posso farlo sapendo di portarmi un grosso peso sulle spalle»
«Come un “ovo sodo che non va né su né giù?” » ironizzo e lui ridacchia. Ma dura poco, ritorna praticamente subito serio. Oddio, sta succedendo davvero?
«Mì, sei la mia migliore amica e sono sicuro che convivremmo benissimo, proprio come abbiamo fatto negli ultimi anni. Ma io non posso continuare a starti vicino sapendo di averti tradito. Ti voglio bene, ti amo forse, ma in quelle settimane a Berlino ho capito che per me è ancora troppo presto per sposarci» mi sorride dolcemente, un po’ nervosamente. E io che vi posso dire? Mi sento stranamente più leggera.
Mi avvicino al suo orecchio: «Grazie per averlo detto. Mi hai tolto un peso in realtà. Se devo essere completamente sincera non ero proprio sicura di sposarti » sorride di nuovo e mi dà un bacio sulla guancia.
«Ho trovato la lettera. So che neanche te volevi fare questo passo e sarei solamente un egoista e uno stupido a voler continuare questo rapporto sapendo che non ci sei, proprio come non ci sono io. Ti auguro una buona vita Mia, sarai sempre la mia migliore amica» mi lascia una debole carezza sulla guancia. «Salutami quello stupido» e ridacchiamo insieme. Poi si gira verso tutti i nostri parenti e amici che già hanno la mandibola a terra. E inizia a parlare.
«Mi dispiace tanto, ma oggi non ci sarà nessun matrimonio. Io e Mia abbiamo deciso di comune accordo di lasciarci in maniera amichevole…»
Non sento neanche le sue parole. L’eccitazione mi ha sta caricando a molla e per questo sto sfoggiando un sorriso da demente a tutti gli invitati che scioccati mi osservano uscire a grandi falcate dalla chiesa.
Quando varco il portone mi sento una persona nuova. Inspiro profondamente l’aria vagamente inquinata e gelida di Firenze, carica per quello che ho deciso di fare.
Per fortuna la macchina era già pronta per andare via e il mio tassista di fiducia mi stava aspettando.
«Renato mi porteresti alla “Fiore” per favore?» lui sembra non capire, ma subito mi fa un occhiolino complice. Ma prima che riesca a partire, lo sportello posteriore si apre e mio fratello si siede accanto a me.
«Voi siete dei deficienti» dice col tono di voce di uno psicopatico. «Potevate deciderlo un po’ prima che volevate rimanere solo amici? Eh? Mia ma dove vuoi andare??»
Nel vederlo così fuori di testa non riesco a trattenere una risata nervosa (io ve l’avevo detto).
«Ho scazzato così tanto eh? Ma che ti posso dire Tommaso, me lo sentivo che non avremmo dovuto sposarci, e lui si è trovato nella stessa situazione. Almeno non è rimasto nessuno sull’altare ad aspettare come un torsolo e ci siamo lasciati come quelli che siamo. Due ottimi amici. Ora se non ti dispiace, devo andare a parlare con una persona».
«Tu e Max vi siete lasciati tempo fa, l’hai lasciato tu, l’hai lasciato Mia, fattene una ragione» mi attacca, ma non mi scalfisce.
«Mi dispiace Tom, è l’amore della mia vita, non me lo posso lasciar scappare»
«Ma è anche il mio migliore amico! E io so quello che ha passato per colpa tua, vi sto proteggendo entrambi nel caso tu non l’avessi capito.»
«No Tommaso, tu non vuoi proteggere nessuno di noi due, tu tieni solamente a te stesso. Tu vuoi che io rimanga con Gabriele perché è la strada più semplice. Perché io e lui non litighiamo mai, perché andiamo d’accordo su tutto, proprio come te e Giulia. Ma io adesso mi sento in grado di fare la scelta coraggiosa che non ho fatto dodici anni fa, scelgo di stare con la persona che forse non è la più semplice con cui stare, ma anche io non sono facile e noi due ci troviamo, ci critichiamo e ci aiutiamo a vicenda. Io mi sento perfetta e imperfetta allo stesso tempo con lui accanto. Mi sento completa. Proprio come tu ti sentivi con Viola. E non lo negare che ancora ti tremano le ginocchia quando la vedi. Quindi per favore Tommaso, sposati che ora ho qualcosa di più importante da fare piuttosto che rimanere qui a discorrere con te» mio fratello si ammutolisce e continuiamo il tragitto in silenzio.
Prima di quanto immaginassi siamo davanti alla libreria di Max. C’è una piccola folla al suo interno e non posso negare che questo mi trattenga un poco. Siamo onesti via, una sposa che si fionda a fare una dichiarazione d’amore in una libreria s’è vista solo dentro i film. Sono una Julia Roberts in Notting Hill ma con l’ingombrante vestitone bianco.
Sono pronta a farlo? Sì!
Porto la mano sulla maniglia, ma mi fermo. In realtà il motivo non lo so neanche io. Che mi voglia godere il momento? Ma a chi la vado a raccontare. Me la sto facendo sotto dall’ansia.
Ora io vado lì, davanti a lui, in mezzo a tutti i clienti, a dirgli che lo amo, che è l’amore della mia vita e tutte quelle stronzate, ce l’ho il fegato sufficiente? Ma neanche per sogno.
«Mia stiamo bloccando il traffico» mi ricorda duramente Tommaso. E dopo qualche momento in cui la situazione non cambia neanche di un pelo, lui si sporge e mi apre la portiera.
«Fatti coraggio, ne hai tanto. E in culo alla balena» mi sorride dolcemente e io ricambio. È arrivato il momento Mia, non tirarti indietro.
Apro la portiera e non appena metto un piede fuori dalla macchina, un gruppo di signore gira gli occhi su di me. Forza e coraggio.
Quando entro in libreria cala il silenzio e si sente solo I’ll stand by you dei Pretenders alla radio.
Cammino piano alla ricerca di Max con la nostra canzone come colonna sonora. Il sorriso mi aumenta ogni passo che faccio, ogni poco che mi avvicino alla sua voce che sta diventando sempre più chiara, sempre più forte. Mi fermo a pochi metri da lui. È davanti alla sezione dei classici e sta litigando con un ragazzino che non appena mi vede s’ammutolisce. Max invece continua imperterrito a sostenere la sua tesi, approfittando del silenzio del giovane. Solo quando questo gli fa cenno di girarsi, si zittisce.
«Mì, ma che ci fai qui…» la voce gli esce debole, spezzata.
«Eh, sono qui per comprare Il cucchiaio d’argento. Mi voglio dare alla cucina, ampliare i miei orizzonti» commento sarcasticamente, cercando di apparire più sciolta possibile. In realtà me la sto facendo sotto dalla strizza.
Max cerca di reprimere un mezzo sorriso che avrebbe dovuto essere la risposta alla mia battuta per niente simpatica.
«Io e Gabriele ci siamo lasciati. Non potevamo scegliere momento peggiore, ma comunque l’importante è averlo fatto» i suoi occhi sembrano farsi improvvisamente più grandi.
«Max in questi giorni non ho fatto altro che pensare a quello che mi hai scritto, a quello che abbiamo passato insieme, sia quel pomeriggio, sia quando eravamo poco più che adolescenti. E io voglio continuare a sentire a provare quelle emozioni per il resto della mia vita. Voglio spendere ogni secondo della mia vita al tuo fianco, voglio ridere con te, voglio piangere, voglio amarti, voglio odiarti, voglio baciarti, voglio criticarti. Voglio sbuffare quando inizi una filippica sull’ennesimo classico della letteratura che non ho letto, voglio rimproverarti perché non mi stai mai a sentire quando parlo di arte contemporanea. Voglio addormentarmi abbracciata a te sul divano, voglio girare il mondo con te. Max sei l’unica persona che voglio, che ho sempre voluto e spero che tu possa perdonarmi se sono passati così tanti anni prima che lo capissi. Che capissi quanto sei vitale per me e che per quanto possa sforzarmi non posso starti lontana. Ma soprattutto non voglio starti lontana».
Attorno a noi c’è un silenzio quasi inquietante; sono tutti in attesa di una risposta di Max. Ma lui sembra troppo intento a trattenere le lacrime.
«Mì… che dire» si passa una mano sugli occhi per poi guardarmi diritto in viso. «In effetti sei sempre stata un po’ lenta a capire». Mi scappa una risata ed è allora che lui si avvicina per baciarmi. E tutto attorno a noi si sente applaudire e fischiare a mo’ di approvazione.
«Ma quindi vuoi anche te tutte quelle cose?» domando, staccandomi. Diventa improvvisamente serio, ma non riesce a trattenere quella faccia a lungo: che pessimo attore. «Sì, le voglio» conferma con un sorriso.
 
 

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