Azùcar

di AzucarScarlet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


-Posso almeno sapere cosa diavolo c’è in quella scuola che la signorina non gradisce?- mi chiede, sbattendo la mano sul tavolo a pochi centimetri dal mio viso.
 
La sua espressione alterata è quanto di più soddisfacente possa esistere, considerata la mia voglia irrefrenabile di irritarlo ogni qual volta mi è possibile, eppure per qualche ragione oggi qualcosa è diverso: non mi viene in mente nessun modo intelligente di ribattere, il mio tono da saputella e l’aria saccente che esibisco di solito sembrano essersi completamente volatilizzati.
 
-Olivia,- richiama la mia attenzione, distraendomi per un istante dal vespaio nella mia testa: un’accozzaglia disordinata e confusa di pensieri che vorticano da tanto, troppo tempo e mi fanno scoppiare il cervello. Quanto è passato da quando il primo di loro si è insinuato nella mia mente? Mesi? Forse anni
 
-¿Me escuchas, chica?-
-Claro- fingo uno sbadiglio per indurlo a pensare che lo stessi ignorando
volontariamente.
 
-Allora rispondimi, dannazione!-
-Cosa ti devo dire? Che mi trovo male con i compagni? Credevo che questo lo sapessi già!-
-Infatti è così, ma se il problema è solo questo non vedo perché arrivare a marinare la scuola, per giunta con quel coso, là, come si chiama...-
 
Non è una domanda, la sua. Infatti non ha il minimo interesse nel conoscere il nome del coso in questione, e io lo so.
 
Rimane in silenzio in attesa di una risposta con i palmi delle mani appoggiati sul tavolo di legno; le braccia tese a sostenere il peso del suo corpo mentre si sporge un po’ nella mia direzione senza smettere di trafiggermi con lo sguardo.
 
Osservo le sue dita callose e le vene un po’ in rilievo che solcando i dorsi delle sue mani coperte di pelle scura: assomiglia un po’ alla mia carnagione, la sua, ma nell’essere simili sono diversissime.
 
Mi guardo le mani senza pensarci: sono piccole, i palmi quasi completamente bianchi in netto contrasto con tutto il resto del mio corpo.
 
Trattengo a stento un sospiro e inizio a guardarmi i piedi, attaccati a delle gambe talmente corte da non permettermi nemmeno di sfiorare il pavimento con le dita, nascoste a malapena dalle infradito di gomma lilla, di almeno un numero più grandi.
 
Quanto tempo è passato dalla prima volta che ho desiderato avere un corpo più grande, più maturo, quanto basta per lasciare che le sue dita lo accarezzassero senza che nessuno dei due potesse farsi alcun tipo di domanda? E poi chi ha detto che è sbagliato desiderare le carezze di qualcuno? E i suoi baci, e le sue attenzioni? Come si permette quella vocina impertinente dentro di me di farmi sentire in colpa ogni volta che mi immagino al fianco di quell’uomo a cui devo così tanto? Come fa a convincermi sempre del fatto che non dovrei volere niente del genere? Che non è affatto normale che una bambina -perché sì, so di non potermi definire altro- formuli anche solo per sbaglio pensieri tanto carnali nei confronti di un uomo con almeno una ventina di anni in più sulle spalle?
 
-Ho detto che se avesse marinato con me, gli avrei insegnato qualche trucchetto con il computer- ammetto senza sollevare lo sguardo per non correre il rischio di incappare nei suoi occhi verde scuro -Lui ha accettato e allora l’abbiamo fatto. Abbiamo saltato lezione. Non so…- mi fermo un attimo alla ricerca di una giustificazione e poi eccola arrivare. Ma avrei capito solo dopo che non si trattava di una particolarmente brillante -...sarà che mi piace. Lui è l’unico con cui vado d’accordo-
 
Silenzio. È strano.
 
Quando mi decido a guardare Gabriel, incontro la sua espressione ancora più accigliata di prima: gli occhi ridotti a due fessure brillanti circondate dalle occhiaie scure.
 
Potrei passare ore a fissarli, quegli occhi, peccato che sappia perfettamente cosa significa quell’espressione:
-Ah, sì? Quindi stai marinando, per giunta per colpa di un mocciosetto di cui ti sei invaghita- ecco che arriva la decisione definitiva: riesco quasi a sentirla avvicinarsi, sporgersi sull’orlo della sua bocca sottile, per poi venire sputata con disprezzo da quelle labbra che vorrei coprire di baci e che mi domando che sapore abbiano.
 
-Smetterai di vederlo- mi dice freddo, glaciale -E mi assicurerò personalmente che non accada più, mai più, nemmeno una singola volta, che tu salti lezione. Sei in punizione-
 
Finisce di parlare, e mi riscuoto solo dopo qualche secondo. In punizione? Come sarebbe? E chi gli dà il diritto di impedirmi di frequentare un amico, l’unico che ho, tra le altre cose?
 
-¡¿Como?! ¡¿Porque?!
-È lui il tuo problema, o sbaglio? Ti sei presa una sbandata, perciò ora mi occuperò personalmente di eliminare il problema alla radice, e lo farò in questo modo, che ti piaccia oppure no, Olivia!
 
Non lo sto nemmeno più a sentire, scendo dalla sedia sbuffando e me ne vado in camera mia sbattendo la porta.
 
È passata un’ora, ormai, e ancora non si è fatto vivo: non è venuto a dirmi cosa c’è per cena, non è venuto a vedere come sto. Mi sento frustrata. È impossibile che non si renda conto di come mi sento, di quali sono i miei pensieri.
 
Un’altra ora: salto la cena. Vuole vedere chi cede per primo? Non sarò di certo io a farlo. Non ho alcuna intenzione di tornare in cucina ed essere costretta a scusarmi con lui per qualcosa che non ho fatto: sarebbe come dargliela vinta solo per quieto vivere, e avere l’orgoglio ferito è anche peggio che andare a dormire con lo stomaco vuoto… che in effetti è un po’ la filosofia con cui sono stata cresciuta proprio da lui.
 
Dopo altri dieci minuti, il mio cervellino ha escogitato un piano geniale: apro la finestra e, dopo aver annodato con cura una delle estremità delle lenzuola alla gamba del letto, mi calo dalla finestra usandole come corda: sì proprio come ho visto fare un miliardo di volte in TV, con l’unica differenza che non avevo la certezza potesse funzionare davvero.
 
Dopo pochi minuti di corsa raggiungo la casa di Ramirez e, appurato che nessuno sia nelle vicinanze, cerco di attirare la sua attenzione lanciando dei sassolini sul vetro della sua finestra.
 
Finalmente, dopo il terzo tentativo, lo vedo aprire le persiane:
-Olivia! Que te pasa? Ma lo sai che ore sono?
-Disculpame, Rami! Fammi salire, devo parlarti!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


-Fammi capire... Hai detto a tuo padr- cioè, a Gabriel che hai marinato con me perchè ti piaccio, e lui ti ha messo in punizione. E per giunta, se l’è anche presa con me... Si, pero porque hiciste asì!? Io non credo di capire: insomma... che senso ha avuto raccontargli quella frottola?

Abbasso lo sguardo colpevole: nemmeno io so perchè l’ho sparata così grossa. Afferro uno dei cuscini sul letto di Ramirez e ci ficco dentro la faccia, sbuffando frustrata.

-Come pensi di sistemare questo casino? Hai qualche idea..?

Scuoto la testa senza abbandonare quell’imbottitura morbida che al momento sembra essere l’unica cosa capace di darmi conforto.
Sento Rami sospirare, e non ha nemmeno lontanamente idea di quanto vorrei farlo anch’io per la centesima volta da quando sono lì.

-Nada..?- mi chiede insistente. È davvero così convinto che possa riuscire a farmi venire un’idea abbastanza furba di punto in bianco, magari per scienza infusa? Si sbaglia, e di grosso. Certo, di solito sono io la mente della coppia, ma questa volta le mie sinapsi non vogliono proprio saperne.

-Nada- rispondo seccata lanciando il cuscino che, cadendo, solleva una nube di piume bianche.
-E se gli parlassi semplicemente di quello che provi..?- mi propone con aria innocente.

Ma certo! Del resto Gabriel Reyes è la persona più umana e comprensiva del mondo, prenderà di certo sul serio le parole di una bambinetta viziata in piena crisi da complesso di Edipo.
Evito di dare in escandescenze e mi limito a guardarlo di traverso: ma possibile che non ci arrivi da solo, alla conclusione che è una pessima idea?

-Va bene, ho capito... Scusa, è stata una proposta stupida

Sarà meglio per lui che non apra più bocca, ma evito di dirgli anche questo per non risultare eccessivamente scortese.

-Ok, ora me ne torno a casa- sentenzio, avvicinandomi alla finestra per saltare giù -Mi metto a dormire e ci penserò domani, mi sta scoppiando il cervello...

-D’accordo. Comunque fammi sapere come va, d’accordo? Per qualsiasi cosa sai dove trovarmi...
-Bueno. Ti ringrazio- gli rivolgo un sorriso, stavolta sincero e riconoscente.
-E di che? Allora, buonanotte
-Buonanotte
Mi calo dalla finestra facendo molta attenzione considerato che l’illuminazione del quartiere non è delle migliori, soprattutto a quell’ora della notte. 
Una volta poggiato il primo piede sull’erbetta soffice, inizio la mia corsa verso casa.
Una volta arrivata, mi arrampico su per la corda di lenzuola ed entro dalla finestra, finendo sul pavimento della stanza buia con un tonfo sordo che spero con tutta me stessa non sia sufficiente ad insospettire Gabe.

Con tutta probabilità, però, sta già dormendo oppure si è appisolato sulla poltrona davanti alla TV come il vecchio (non ancora) pensionato che è.

Mi rimetto in piedi appoggiando cautamente i piedi sul freddo pavimento di legno cigolante e mi avvicino tentoni all’interruttore dell’abat-jour a forma di teschio rosa sul comodino.

-HIJO DE..!- mi porto una mano sul petto, gli occhi spalancati e il cuore a mille per lo spavento; butto fuori tutta l’aria che non mi ero resa conto di aver trattenuto e mi lascio cadere sulle ginocchia diventate improvvisamente di burro.

Lui è nella mia stanza, seduto sul letto con stampata in faccia l’espressione più spaventosa che abbia mai visto in vita mia. Molto probabilmente è stato lì per tutto il tempo ad aspettare che tornassi solo per cogliermi in flagrante.

-G-Gabe! Madre de Dios..! Mi hai fatto prendere un infarto!
-Sarebbe stato decisamente meno peggio di quello che ti aspetta per avermi disobbedito- scandisce con la voce roca e lo sguardo accigliato.

Uh, non è mai un buon segno quando vedo gonfiarsi quella vena lì, sulla fronte...

-Ehi, posso spiegare..! Sono solo uscita a prendere una boccata d’aria, tutto qui!
-Hai almeno una vaga idea di che ore sono? E poi sono quasi certo di averti detto che eri in punizione. È così o sbaglio?

Deglutisco rumorosamente mentre indietreggio alla ricerca della parete perchè che possa farmi da sostegno, ammesso che non si sciolga come le mie gambe.

-Beh, sì, ma...
-E allora per quale fottutissimo motivo devi sempre fare di testa tua!?- mi urla, alzandosi in piedi e avvicinandosi.

Chiudo istintivamente gli occhi nascondendomi dietro le braccia che sollevo nel tentativo di schermarmi il viso: non ha mai alzato le mani su di me, mai, ma questa è davvero la prima volta che lo vedo così arrabbiato, e per qualche motivo il primo gesto che mi viene in mente di fare è proprio questo: nascondermi da lui.

Lo sento inspirare con forza e poi buttare fuori l’aria in un sospiro frustrato, i suoi passi pesanti si arrestano immediatamente a pochi centimetri da me.

-Vai a dormire, Olivia.

Apro gli occhi lentamente e guardo in alto cercando di intravedere la sua espressione nella penombra; abbasso lentamente le braccia mentre lo guardo uscire dalla stanza.

Sbatte la porta, chiudo di nuovo gli occhi e arriccio il naso.

Butto fuori l’aria sperando con questo di aiutare il mio cuore a riprendere un ritmo normale. No, non batte così forte perchè avevo paura di lui o di quello che poteva farmi. È semplicemente colpa del fascino pericoloso che emana anche quando sembra che stia per eclissarmi dalla faccia della terra.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Mi sveglio presumibilmente tardi: non so che ore siano di preciso, ma la luce del sole è talmente forte da risultare fastidiosa persino da dietro gli spessi tendaggi della porta finestra.
 
Con uno sbuffo mi giro dall’altra parte e nascondo la testa sotto il cuscino: silenzio.
 
E poi un tonfo sordo al piano di sotto mi fa alzare la testa di scatto e tendere l’orecchio in attesa dell’imprecazione che seguirà quasi certamente.
 
-OLIVIA!
 
Sbuffo di nuovo, stavolta in modo più rumoroso, ed esco dalla stanza senza curarmi di mettermi addosso qualcosa -tipo i pantaloncini del pigiama o una maglietta.
 
Scendo in fretta le scale e mi precipito in cucina dove un Reyes coperto di farina dalla testa ai piedi mi guarda inferocito: non riesco a trattenere una sonora risata e mi copro la bocca con la mano per cercare di darmi almeno un po’ di contegno.
 
-¿¡Por qué diablos te estás riendo!? ¡Mierda!- mi urla mentre cerca come può di togliersi di dosso la polvere bianca che gli ricopre le spalle, un tempo piacevolmente brune, e di cui ora rimane solo un vago ricordo.
 
Mi avvicino in silenzio e gli do una mano -o meglio, due: è un’ottima scusa per tastarlo un po’ qua e là.
Gli spolvero le spalle nude con dei movimenti leggeri e delicati delle dita, dita che finalmente ho smesso di detestare da quando le mie mani sono diventate abbastanza grandi da poter essere considerate quelle di una donna. Fatta e finita.
 
Lo guardo di sottecchi e incontro il suo sguardo silenzioso a cui rivolgo un mezzo sorriso: -Guarda, ora potrebbero quasi scambiarti per un bianco- scherzo soffiando sui suoi capelli, anch’essi imbiancati dalla stessa sostanza -Oppure potrei nuttarti direttamente in padella, tanto sei già pronto...
 
Non sembra prenderla benissimo, ma abbozza qualcosa di molto simile ad un’espressione divertita, nonostante scuota la testa con fare arrendevole.
 
-Scherzi a parte, ma solo per poco, che stavi tentando di fare?
Rimane in silenzio per qualche secondo, poi dà una manata alla padella piena di olio ancora freddo:
-Frittelle, così forse ti saresti alzata da quel letto.
-Oh, ma sentilo, che dolce!- gli circondo il busto con le braccia e appoggio la guancia sul suo petto con fare innocente nonostante il tono ironico -Papito che mi prepara le frittelle~ Non avrei potuto chiedere di meglio
 
Gongolo un po’ mentre lui tenta senza successo di scollarmi di dosso spingendomi dalle spalle: per tutta risposta, butto la testa indietro e lo guardo dal basso con un sorrisetto divertito:
-Non ti libererai di me così facilmente, hombre~
 
-Perfetto, questo aggiungerà solo altro tempo all’attesa per la colazione
 
E va bene, ha vinto. Mi allontano quanto basta e rimango in silenzio in attesa di eventuali istruzioni.
 
-Hai intenzione di darmi una mano, per caso, o dovrò fare tutto io come sempre?
-Dipende. Se mi dici cosa devo fare...
-Magari evitare di fare casini, come prima cosa
-Non sono stata io ad aver rovesciato tutta la farina
-E la settimana scorsa non sono stato io a dar fuoco a metà cucina, ma tant’è...
 
Un altro punto per lui.
 
-Va bene, ho capito. Cosa faccio, allora?
-Intanto mettiti qualcosa addosso. Non ho intenzione di vederti girare per casa in mutande per tutto il giorno.
-È perchè ti metto in difficoltà?- cinguetto avvicinandomi al suo viso e appoggiando la guancia sulla sua spalla.
 
-No- mi risponde freddo -È perchè poi voglio vedere quanto frigni, se ti schizza l’olio addosso
-Comunue dovresti farlo anche tu, viejito- suggerisco, afferrando il grembiule e lanciandoglielo con l’intenzione di farlo cadere: lui lo prende al volo.
 
Gonfio le guance come la bambina che (non) sono e salgo le scale per andare nella mia stanza alla ricerca di qualcosa di comodo da indossare: opto per degli shorts e una maglietta a maniche corte: va bene evitare l’olio bollente, ma di questi giorni il caldo è davvero insopportabile.
 
E no, non è colpa della sua presenza, non questa volta almeno.

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