Water Stars

di Diana LaFenice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Agostino ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: La bambina nella rete ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Il Lago di Garda ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Farsi ben volere ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: Primavera per davvero ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: Castel Toblino ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7: La maledizione del lago di Toblino ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8: Per me il Paradiso è ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9: Canto nelle tenebre ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10: La minaccia di Amalia da Venezia ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11: Alleati contro un comune nemico ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12: Ospiti d'Inverno ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13: A caccia di cigni selvatici ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14: Madamigella Arya ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


Water Stars

                                                                                                                                                                                                                                                          PROLOGO


Nell’antichità le città erano collegate attraverso una fitta rete di bacini idrici che attingevano ai grandi laghi - ormai scomparsi - dell’Impero Romano. Secondo la leggenda furono le stelle nate dal bacio della luce sulla superficie dell’acqua, a spiegare all’uomo come imbrigliare e incanalare quel bene prezioso che era la loro madre. Allora più di ora, era considerata non solo un bene prezioso, ma una divinità vera e propria da rispettare e da temere. Grazie a loro gli uomini, una volta smesso parte del timore riverenziale, capirono che le vene e il sangue della Terra potevano essere controllate. Così svilupparono questi insegnamenti fino a che quest’ampia e secolare conoscenza non toccò il proprio apice con gli Antichi Romani. Essi riuscirono nell’intento con la loro imponente opera d’ingegneria. Gli Imperatori e il Senato stessi finanziarono queste costruzioni. E all’ombra di questi e altri monumenti meraviglie e, al tempo stesso, omaggio al genio umano in tutte le sue forme, il popolo prosperò. E delle stelle d’acqua non ci fu più bisogno.
Poi ci fu la Pax Augustea, la nascita del Cristianesimo e l’ammorbidimento dell’Impero. Ci furono le invasioni, i Regni Romani-Barbarici e quella grande fragile struttura che era l’Impero si sgretolò fino a crollare su se stessa, diventando polvere nel vento. E con esso crollarono anche buona parte delle loro opere e delle loro conoscenze. Orrore! Adesso nelle ex arene ci pascolavano le pecore. I cavalli si abbeveravano in antichi sarcofagi tolti dai loro monumenti e i templi venivano demoliti per lasciare il posto alle chiese del nuovo culto. E mentre l’uomo s’inoltrava nell’Età Buia al ritmo degli Hallelujah cristiani, nuove storie, leggende ed epiche battaglie di ben altro genere scrissero il nuovo capitolo della Storia.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Agostino ***


Capitolo 1: Agostino

R
ecitare i breviari era cosa da ricchi. Leggere e scrivere era per ricchi. Il sapere era dei ricchi. Arare e coltivare la terra era affare dei poveri. Pentirsi dei propri peccati era per i poveri. Ecco cosa gli ripeteva il suo caro padre ogni volta che si soffermava a guardare i figli e i nipoti del prelato. Oppure ogni volta che andavano a curare il giardino del Palazzo.
Per questo si costrinse a distogliere lo sguardo da quella visione e seguire il padre che stava uscendo dal mercato. E così non si accorse della pallonata che gli arrivò dritto in testa da uno degli amichetti. Protestò e si girò verso il bambino, che gli sorrise, mentre gli altri ridevano e gli fece la linguaccia. Agostino sorrise a sua volta. In fondo non si era fatto niente. E si lanciò addosso al ragazzino che lo schivò. E, tra le risa, il gioco si trasformò in chiapparello. Ma proprio allora: ‹‹Vieni Agostino. Finirai di giocare con i tuoi amici un altro giorno››.
‹‹Ma, ma papà!›› Balbettò il bambino tutto sudato e arrossato, fermandosi. Anche gli altri ragazzini mugolarono, scontenti. Il genitore lo squadrò e poi disse: ‹‹Niente ma. Ho finito tutte le compere da un po’ e si sta facendo tardi››.
‹‹Dai. Un ultimo tiro.›› Lo supplicò mettendo su un broncio infantile. Proprio ora che si stava divertendo. Di solito con la mamma funzionava. Ma il genitore non si lasciò intenerire. Quando era suo padre a scendere in città per portare le merci al mercato e comprare qualcosa, non c’era tempo per bighellonare.
‹‹Hai detto la stessa cosa tre tiri fa. Adesso basta. Saluta i tuoi amici e andiamo››.
Il bambino sbuffò ma obbedì. Si volse verso i ragazzini che erano lì. Uno di loro cingeva la palla con le braccia. Si salutarono e poi Agostino trotterellò dietro al genitore, che stava già caricando la spesa sul carretto.
L’asinella che lo trainava mosse la coda per scacciare le mosche che le ronzavano attorno.
Poi montò a cassetta e aiutò il bambino a salire prendendolo da sotto le ascelle. Poi, mentre il figlioletto sgattaiolava dietro assieme ai sacchi, prese le redini e partirono.
Il padre di Agostino, Guido da Monselice, era un umile contadino. Un tempo era un ex giardiniere. Ora passava la maggior parte del tempo nei campi ma se il giardiniere del nobile locale stava male, allora chiamavano lui. Aveva vinto quel posto grazie a un concorso indetto dal nobile sopraccitato. Era ovvio che il posto andasse a lui: in gioventù aveva servito presso abbazie e monasteri. Aveva curato serre, horti e hortus conclusus presso la Scuola Medica salernitana e il Re di Napoli, cui era giunta la sua fama. Gli hortus conclusus erano orti chiusi, circondati da mura che offrivano la riproduzione di un’immagine idilliaca. Un terreno pianeggiante di forma regolare cinto da alte mura, che racchiudeva al suo interno prati verdi, fiori, erbe e frutteti che facevano da cornice a una fontana d’acqua purissima sempre centrale. Che nei monasteri e le abbazie erano simboli di fertilità e omaggio della Madonna.
Suo padre gli aveva raccontato che cominciò a lavorare la terra in gioventù. Allora lui viveva vicino una rinomata abbazia della Lingua D’oca e i suoi famigliari avevano rapporti stretti con i monaci e l'abate. Così un giorno si era ritrovato col proprio padre a dare una mano ai monaci con gli horti e il chiostro. Quest’ultimo non dissimile da quello romano o tardo-romano a pianta rettangolare. Racchiuso in uno spettacolare colonnato a portici desunto dai parchi persiani, per questo chiamato paradiso. In questo spazio gli uomini del convento coltivavano piante per uso medicinale ed erboristico. Mentre i quattro angoli ai lati erano separati tramite divisioni curve e vi si coltivavano i fiori per l’altare, soprattutto i gigli tanto cari al padre di Agostino. Imparò pure che ogni cosa aveva il suo simbolo e il suo studio. Per esempio nei chiostri c’erano elementi simbolici ricorrenti: come l’acqua, il ginepro, i già citati gigli, ma anche le rose e gli iris. Spesso i monaci avevano dei giardini privati. Che Agostino era riuscito a vedere grazie all’immensa fama di suo padre.
Molto spesso l’intero giardino era perimetrato da basse siepi di bosso. E il giardino era diviso in quattro quadranti da due assi perpendicolari. Ma - sottolineava sempre - l’amore per quest’arte non era venuto da sé, si era sviluppato col tempo. Non era stato facile per lui lavorare quando voleva solo andare a giocare con gli amici. Fu grazie al monaco erborista che si appassionò. Costui gli insegnò, con molta pazienza, attingendo dalla ricca biblioteca del monastero ad apprezzarli e averne cura. Era abituato a insegnare ai monaci come aiuto maestro di botanica, a coltivare e curare le piante, ma non a creare un giardino. Ma poi, perfezionando metodi, conoscenze e approfondendo l’amicizia con il botanico, aveva potuto girare altre abbazie e monasteri della regione scoprendo che i giardini erano tutti uguali.
Mentre invece quelli nobili erano diversi ma avevano in comune con quelli conventuali una qual certa ricorrenza. Cioè il giardino era recinto e diviso da graticci, alberi da frutto e la presenza di un ruscello o una fontana. Il giardino cortese, inoltre, era ripartito in stanze differenti dove ci si riuniva o amoreggiare. V’erano muri e archi, graticci, tonneau, fontane a volte molto elaborate I più belli di questi giardini finivano addirittura nelle miniature o, meglio ancora, in quadri e arazzi. Sedili ricavati da un basso terrapieno ricoperti di prato e circondati da un basso muretto che faceva da schienale. I fiori erano disposti sul perimetro delle mura, dispersi nei prati o coltivati in parcelle rettangoli o quadrate allineate, spesso sopraelevate e circondate da un graticcio di legno morbido intrecciato di solito di salice. Quelli erano i veri locus amoenus, cioè, luoghi felici, ameni; ma nella loro zona era quasi mistico.
Tutte le volte che Agostino lo sentiva parlare così non poteva fare a meno di percepire la sua nostalgia per l’amata Francia.
Infatti Guido era sceso per lavorare per le corti italiane e da allora non se ne era più andato. Aveva girato l’Italia e imparato la lingua e qualche dialetto. E anche se ora parlava fluentemente l’italiano, si poteva sentire l’inflessione del suo accento francese. Aveva avuto anche lui il suo momento di gloria, ma poi era passato e lui si era ritrovato messo da parte dai nuovi giardinieri e le nuove innovazioni di questa neonata corrente denominata Umanesimo. Così in breve aveva perso la fama e si era ritrovato a coltivare la terra nella famiglia di quella che poi divenne sua moglie e la madre di suo figlio. Ogni volta che arrivava a questo punto, Agostino, che finora se ne era stato buono sulle ginocchia del padre, si metteva a saltellare e lo supplicava di raccontargli come aveva incontrato la mamma. E il padre lo accontentava con un sorriso.
Aveva trentadue anni quando era stato preso a lavorare lì dai futuri suoceri. Costoro erano dei proprietari terrieri da generazioni. Avevano un giardino privato, che avevano creato per la figlia, ma nessuno riusciva a farlo fiorire. E così chiese il permesso di occuparsene lui. I nonni non pensavano che ne fosse capace e ormai si erano rassegnati. Addirittura progettavano di distruggerlo definitivamente per ampliare la loro casa. Tempo tre mesi lui riuscì dove molti avevano fallito e la figlia di questi proprietari terrieri, incuriosita, volle imparare l’arte di prendersi cura delle piante.
‹‹Dimmi come era la mamma. Dimmi come era la mamma.›› Pigolò il piccolo tutto eccitato. Amava sentirgliela descrivere. Il padre sorrise e lo accontentò: ‹‹Oh, era bella. Allora il sole batteva solo su di lei quando sorrideva o si recava in visita da delle amiche. Soprattutto quando metteva i suoi abiti di velluto e si tirava su i capelli e li infilava nella reticella. I colori che le donavano di più erano il verde chiaro come l’erba appena nata e il rosso come il vino appena versato. E le perle, oh, le perle, quando se le metteva le risaltavano i denti››.
Poi tutto era cambiato.
Si erano innamorati, non riuscivano più a stare separati. E lei era già promesso al cugino di un signorotto locale. E i suoi genitori, quando li scoprirono non presero bene la loro tresca. Affatto. Ma nonostante tutte le minacce ricevute, la mamma non smise mai di amare Guido. Così, i genitori, esasperati e umiliati, la ripudiarono. Pensavano forse che sarebbero finiti a mendicare per la strada, ma si sbagliavano. Mentre viaggiavano vennero accolti da una famiglia che possedeva una villa e vennero presi per occuparsi di un piccolo appezzamento di terra, riconoscendo le abilità con le piante di Guido e le capacità intellettive della sua signora. Cosa molto rara per il periodo. E quando uno dei loro fattori morì la loro terra fu affidata a loro. Poco tempo dopo la coppia stava già aspettando Agostino ed era convolata a nozze col giardiniere, nonostante il secco rifiuto dei nonni.
La vita per loro non era stata facile ma erano riusciti a continuare a lavorare per loro e a tirare avanti con le loro forze. Anche se dopo di lui non avevano avuto altri figli. A volte, gli parve di capire, sembrava dispiacergli di aver trascinato sua moglie nella povertà e nella precarietà di quella vita che conducevano. Anche se al pensiero di non poter condurre la sua vita senza di lei, si sentiva morire. ‹‹Perché?›› Gli domandava il bambino, battendo le palpebre senza capire, nell’udire quelle parole aliene. Poi il padre sprofondava un istante nei suoi pensieri. E, rapidamente come ci era sprofondato, si risollevava e riprendeva il racconto. Animato da una nuova luce. Disse che non gli voleva mai dare retta perché: «Per me siete voi due la mia felicità e finché avrò voi sarò la donna più ricca del mondo».
Poi a racconto finito, suo padre gli faceva un bel sorriso, se lo caricava in spalla facendolo ridere e poi tornavano al lavoro.
La storia della mamma e del papà era la sua preferita e riusciva sempre a farlo sorridere.
La fattoria, occupante qualche ettaro, si trovava nei pressi di una foresta e spesso Agostino ci si recava per portare qualcosa sulla tavola nei periodi di magra.
Grazie a suo padre, infatti, conosceva bene ogni pianta e ogni angolo del bosco e non aveva paura di addentrarcisi da solo. Finora Agostino non aveva mai preso una zappa in mano. Prima suo padre aveva voluto educarlo ad apprezzare le piante e curare il giardino. Agostino si sentiva molto emozionato all’idea che poi avrebbe succeduto il padre nella cura delle piante e dei campi. Ormai era abbastanza grande per aiutarlo. Ma non quel giorno, pensò distrattamente mentre saliva sul carretto accanto al genitore e tornavano a casa.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: La bambina nella rete ***


Capitolo 2: La bambina nella rete


Q
uella mattina si era alzato presto, svegliato dal profumo del minestrone che la madre aveva cominciato a preparare subito.
Il bambino si alzò dal letto, si sciacquò rapidamente il visetto con l’acqua della bacinella sul comodino e raggiunse la madre in cucina che lo salutò amorevolmente. Poi gli servì la colazione e, quando ebbe finito di mangiare, lo mandò a raccogliere le castagne. Raccomandandosi di fare attenzione e dandogli un sacchettino con la frittata e la schiacciatina che aveva preparato per lui a mo’di pranzo, una borraccia con l'acqua fresca e il coltello per tagliare le mele e sbucciare i ricci.
Il bambino le baciò la guancia e promise che sarebbe tornato presto. Poi, prese la bisaccia e corse via a perdifiato. Animato dalla felicità e dalla spensieratezza tipiche della sua età.
L’autunno era la sua stagione preferita, per questo era così felice. Quante volte aveva giocato con le foglie coi suoi amici e i suoi genitori quando era più piccolo? Quante volte si era rotolato dalle dolci collinette per finire dentro un nido di foglie?
Così tante da perderne il conto. E ormai, a nove anni suonati, era abbastanza grande per cavarsela da solo.
In breve raggiunse il castagneto e cominciò la sua raccolta. I ricci facevano già da tappeto al sottobosco con le foglie e se non stava attento rischiava che qualcuno gli cadesse in testa. Cosa che era già accaduta quattro anni prima. Fortuna che il berretto aveva impedito che si facesse male.
Ma prima di cominciare si accomodò ai piedi di un albero ove si riposò e riprese fiato. Mangiò il suo pranzo e bevve fin quasi a svuotare la borraccia: dopotutto era mezzogiorno e ci aveva messo tre ore per giungere lì. Poi si mise all’opera. La raccolta delle castagne lo impegnò per tutto il pomeriggio. Si fermò solo per fare pipì.
Ormai le giornate erano rinfrescate e il sole calava prima. Perciò non aveva molto tempo, doveva essere abbastanza rapido da rincasare prima del tramonto. Non gli piacevano i boschi di notte. Erano il luogo ideale per tutti i mostri di cui aveva sentito parlare. Però a mamma e papà non sarebbe dispiaciuto affatto se avesse fatto un salto anche al noccioleto. Dopotutto non era troppo lontano da lì, giusto a mezz’ora di cammino. Perciò si avviò in quella direzione, tanto nel sacco c’era posto anche per delle manciate di nocciole. Forse avrebbe tardato un po’, ma non importava, era una così bella giornata che valeva la pena di buscarsi una ramanzina.
Arrivò a destinazione e si mise all’opera.
Quando la bisaccia divenne talmente pesante da sbilanciarlo, capì che era giunto il momento di tornare a casa. E doveva sbrigarsi. I passerotti e gli storni riempivano il bosco col loro chiacchiericcio e il cielo si era già tinto degli infuocati colori del tramonto, che illuminavano le poche fronde rimaste. Ma non se ne preoccupò troppo: poteva tranquillamente imboccare una scorciatoia.
A un tratto, mentre costeggiava la zona vicino al vecchio fosso sentì un pianto disperato portato dal vento. Il ragazzino sulle prime credette di avere di essersi sbagliato. Cosa ci faceva una bambina da sola nel bosco a quell’ora? A volte poteva succedere di scambiare un rumore per un altro, quando si era stanchi. Però continuava a sentirlo, e si convinse che c’era davvero qualcuno che piangeva. Poi la sentì implorare: «Aiutatemi» e la supplica si trasformò in un grido di paura che riecheggiò in tutta la valle. A quel punto non resistette più e uscì dal sentiero per correre in suo aiuto. Neanche si era accorto di essersi fermato.
Di quell’incontro avrebbe serbato un ricordo vivido e confuso al tempo stesso. Per esempio, avrebbe saputo dire come era la luce in quel momento, avrebbe saputo riferire quelle grida e quelle suppliche di «Aiuto, vi prego, non lasciatemi qui, ho paura, aiuto» ma non avrebbe saputo riferire se nella corsa avesse inciampato o si fosse ferito. O se fosse ruzzolato giù per il dolce pendio. Forse aveva risposto alla sua richiesta con un grido di «Dove sei? Non ti vedo» e forse anche «Resisti» perché lei prese a gridare «Sono qui, aiutami, sono qui» ma non si ricordava cosa gli aveva gridato.
A volte la voce gli pareva più fievole altre più intensa.
Ma quando sbucò dai cespugli la vide. Era imprigionata in una rete di spesse funi sollevata a qualche metro da terra. La rete era appesa a uno spesso ramo di pioppo a picco sul profondo canale sotto di lei.
A causa dell’altezza non riusciva a vederla bene ma a giudicare dalle mosche che le ronzavano intorno e dalle funi arrossate dal sangue secco, doveva essere lì da qualche giorno. Aveva la chioma chiara e aggrovigliata e la pelle di una sfumatura cianotica. Ma fu tutto ciò che riuscì a vedere. A parte gli arti feriti e arrossati dalle corde e forse da lame che lottavano per liberarsi. Ma non erano solo gli arti. Qualcuno l’aveva ferita come fosse un animale. E Dio solo sapeva cos’altro aveva subito quella poverina. Si stupiva che fosse ancora viva.
Forse era una strega.
Sapeva quello che si raccontava sulle streghe. E forse doveva lasciarla lì perché era giusto che meritassero la purificazione. Ma quella era troppo piccola per essere una di loro. E poi non recava marchi di alcun genere a quello che poteva vedere. Avrà avuto la sua età, forse un anno meno.
Il ramo oscillava a ogni strattone che lei dava.
«Per favore, aiutami» Riuscì a dire con voce roca prima che contraesse di nuovo la faccia in una smorfia di pianto.
«Non piangere. Non piangere. Ora ti libero. Come ci sei finita lì?» Domandò togliendosi la bisaccia lasciandola cadere a terra. Lei cercò di tirare su col naso e cercò di stropicciarsi i lacrimosi occhi. La faccia gonfia di pianto e sporca di muco rappreso e non. «Non lo so. Io non ho fatto niente. Non ho fatto niente di male. Stavo solo giocando e poi loro mi hanno presa e…Ti prego, tirami fuori.» Lo supplicò riprendendo a piangere. Ormai dalla sua gola uscivano solo versi isterici e pianto. Come se la paura avesse fagocitato e annientato ogni facoltà cognitiva. Rendendola non dissimile da una bestia in trappola e cancellando così la presenza di Agostino. Il quale dal canto suo prese il coltello e cominciò ad arrampicarsi sull’albero, rischiando più volte di perdere l’equilibrio e cadere a causa degli strilli più acuti che lei lanciava. «Stanno arrivando. Tornano. Verranno. Li sento. Mi faranno di nuovo del male. Aiutatemi, qualcuno mi aiuti! Lasciatemi stare!» Gridò isterica con voce stridula e assordante.
«Sta calma! Sta calma! Ti aiuto io, sta calma!» Esclamò il bambino, cercando di sovrastare quelle grida, prossimo a raggiungere il punto dove cominciava il ramo. E dire che giocava ad arrampicarsi spesso.
Si aggrappò al tronco, si concesse tre respiri prima di spostarsi cautamente verso l’inizio del ramo. E a causa dei movimenti della bambina fu costretto a strisciare, sempre con non poche difficoltà, fino alla corda. Tenendosi saldamente al ramo con le gambe cominciò a segare la corda, alternando rassicurazioni mezzo isteriche ad ammonimenti. E se lei si era accorta delle sue manovre, allora non gli facilitava la cosa, perché cominciò a dimenarsi e gridare sempre più. Era così spaventato anche lui che cominciò a credere di poter udire i passi e le grida degli uomini che l’avevano imprigionata lì. E la paura cominciò a farsi strada dentro di lui crescendo assieme alle grida dell’isterica. «Fai presto, arrivano, fai presto. Fai presto. Fai presto. Fai presto. Fai presto. Fai presto. Fai pre» Proprio allora la corda cedette e quest’ultima frase si trasformò in un urlo di sorpresa e terrore mentre la rete cadeva in acqua con un tonfo che sollevò schizzi che bagnarono ciò che restò della rete. Nella fretta del momento non aveva considerato che potesse cadere in acqua. Abbassò gli occhi e vide gli ultimi schizzi ricadere su se stessi e cominciò a gridare a propria volta mentre bolle d’aria scura s’infrangevano sulla superficie mescolandosi alle increspature e le gocce. E presto anche l’ultima bolla salì in superficie. Poi non ve ne furono altre. Tutto ciò che restava della bambina altro non erano quelle corde che si intravedevano nell’acqua scura. Ma di lei nessuna traccia.
La paura si impossessò di lui, mutando rapidamente in terrore. Che cosa aveva fatto? Cominciò a indietreggiare rapidamente per scendere e precipitarsi in suo soccorso. Anche se non sapeva nuotare.
Ma non aveva che raggiunto la base del ramo che qualcosa salì dal canale e riemerse dall’acqua. Era la bambina. Ma era diversa. I capelli scuri e sciolti, la pelle ancora cianotica ma già meno livida, anche se gli occhi e la faccia erano ancora gonfi. Le iridi erano di una sfumatura diversa che faceva pendant con il diadema a forma di mezzaluna con una pietra preziosa. E le creste frastagliate che circondavano lateralmente la sua testa, partendo lì dove dovevano esserci le orecchie. Lei prese un bel respiro profondo prima di guardarlo e cominciare a ringraziarlo, grata. Agostino - ancora impietrito contro l’albero, le ginocchia al petto - si limitò a fissarla, forse sorpreso o forse spaventato per quel miracolo? Era quella la parola giusta? O forse sortilegio? Che avesse davvero liberato una serva del demonio?
«Grazie. Grazie di cuore.» Continuò lei, raggiante di felicità, ignorando l’espressione allibita del suo salvatore. Il quale dal canto suo continuava a fissarla incredulo e pallido come un cencio. «Come ti chiami?» Gli chiese con un sorriso smagliante. E il bambino riuscì a farfugliare il proprio nome con un balbettio. Lei gli sorrise e continuò a ringraziarlo ancora per un po’. Se avesse potuto l’avrebbe abbracciato. Poi si tuffò nell’acqua.
«Aspetta!» Cercò di urlare Agostino tendendo una mano come a fermarla. Sgranò gli occhi e trasalì, impallidendo per il rinnovato terrore schiacciandosi completamente contro il tronco. L’ultima cosa che vide di lei fu la coda degli stessi colori dell’acqua torbida, striata orizzontalmente come il manto di una tigre culminante in una frastagliata pinna a ventaglio che scomparve nei flutti del canale. Solo allora Agostino urlò con tutto il fiato che aveva in gola liberando tutta la paura che provava. E mentre cercava di scendere mise un piede in fallo e cascò a terra sul fitto sottobosco di foglie che ammortizzò un poco la caduta, ma non lo salvò dalla perdita degli incisivi superiori. Il bimbo stravolto dalla paura, il viso rigato di lacrime che gli offuscavano la vista, il corpo dolorante e la bocca insanguinata, fu un miracolo se riuscì a ritrovare la strada di casa.
I genitori se lo videro piombare in casa come se avesse avuto Satana in persona e tutti i mostri della notte alle calcagna. Agostino si tuffò tra le braccia della madre che era seduta al tavolo e si era girata verso di lui. Il padre invece era balzato in piedi preoccupato.
I due genitori cercarono di calmarlo e di alleviare il dolore ai denti. Fortunatamente erano denti da latte, quindi non c’era pericolo per la sua dentatura, anche se per sicurezza il padre decise di farglieli estrarre e andò a chiamare il dottore che dovette estrargli i denti ed esigette un prezzo stratosferico per essere stato convocato proprio durante l’ora di cena. E lui aveva sei figli a carico da mantenere. Una volta che il medico finì di operarlo, fece preparare alla madre del piccolo una pozione per calmarlo e poi lo mandò a letto dopo avergliela fatta bere.
Agostino ci mise un po’per addormentarsi. Non fu facile perché il dolore non se ne andò via così facilmente e perché la paura sembrava acuirlo ancor di più.
La madre lo tenne stretto a sé cullandolo tutto il tempo, cercando di calmarlo con una cantilena. Mentre il padre confabulò un po'col dottore, scusandosi ancora per quell'ora tarda. Il medico annuì burbero e poi li salutò raccomandandosi di tenerlo d'occhio e di non fargli fare niente per il prossimo mese. Poi sarebbe tornato a visitarlo egli stesso tre giorni dopo.
Ci vollero cinque ore come minimo. Ma non gli chiese cosa era accaduto nella foresta. Se non quando il bambino si fu un po’calmato e il dottore se ne fu andato da un po’. ‹‹Piccolo mio, adesso lo puoi dire alla mamma. Cosa è successo nel bosco?››
‹‹Mi dispiace››.
‹‹Per cosa, tesoro?›› Domandò lei fermandosi un attimo per guardarlo, confusa.
‹‹Ho perso le castagne e le nocciole. Ero andate a prenderle e ho fatto tardi. Mi dispiace e poi...Poi è successo e...›› Il piccolo nascose il viso nel petto della madre continuando a mugolare frasi sconnesse e piene di paura. La donna lo strinse più forte e cercò di zittirlo, mentre il bambino sentiva su di sé gli sguardi del padre e del dottore. Anche se nella stanza oltre a loro c'era soltanto Guido. Sembrava che il dottore potesse scorgerlo attraverso i muri.
‹‹Non ti preoccupare, piccolo mio, papà andrà a prendere la borsa domani. Non ti preoccupare. Anzi no, ci andrete insieme, va bene? Dove l’hai lasciata?›› Ma era ovvio che non dicesse sul serio. Non avrebbe mai permesso al figlio di tornare nel bosco dopo quello che gli era successo.
‹‹Non lo so.›› Piagnucolò lui con la voce deformata dalle ferite, e dagli effetti delle pozioni soporifere, prossimo ad addormentarsi. Le giornate seguenti le passò a letto. Né la madre né il padre gli permisero di alzarsi per alcun motivo e, se doveva andare in bagno lo prendevano in braccio e lo portavano loro. Il dottore fu di parola e tornò per altre visite e medicamenti.
Il ragazzino beveva brodini con la ciotola e il padre, grazie alle conoscenze acquisite come giardiniere presso le abbazie, preparò per lui delle misture che ridussero il dolore ma che per contro lo fecero dormire quasi tutto il giorno.
Dopotutto, scoprì, la caduta gli aveva incrinato le costole e procurato numerose ecchimosi su tutto l’addome.
Aveva anche battuto le gambe e le mani ma i danni sembravano minori di quelli della pancia.
Di quei primi tempi Agostino ricordava la mamma che si allontanava dal fuoco dove si stava scaldando le mani per sedersi sul pagliericcio dove dormiva lui e sorridergli, scostandogli i capelli dalla fronte.
Due giorni dopo quella prima settimana, mentre il ragazzino dormiva, si sentì svegliare da una mano che lo scrollava delicatamente per la spalla e dalle voci dei genitori. Il bambino aprì gli occhi cisposi che si stropicciò e li salutò: «Cosa c’è?» Chiese poi, assonnato. Gli faceva ancora male muoversi, ma già un po’meno rispetto a due giorni prima. Con la lingua non faceva che tartassarsi le gengive ancora vuote, traendoci un macabro divertimento. Ma si trattenne per parlare con i genitori. «Noi andiamo a lavorare, staremo via tutta la mattina. Ti abbiamo preparato un brodino. E’ sul tavolo. Pensi di potercela fare ad alzarti per mangiarlo? Poi quando torniamo ti prepariamo la medicina, d’accordo? Mi raccomando, non aprire a nessuno.» Fece la madre.
«Sì».
«Hai capito?» Volle risapere lei.
«Sì.» Borbottò con la sua vocina impastata girandosi sul fianco e sibilò di dolore subito dopo. Ma strinse i denti e inghiottì tutti i gemiti e strizzò gli occhi per non piangere. «D’accordo».
La madre gli carezzò la testa e gli diede un bacio. Poi si alzò e raggiunse il marito che, nel frattempo, si era già avviato sulla porta. E il bambino, un po’più tranquillo, promise che l’avrebbe fatto. Poi tornò a dormire. E dormì finché non udì un bussare concitato alla porta, rumori di cavalli che scalpitavano e un cane che grattava e ululava contro le assi di legno e voci maschili che cercavano di chiamare la sua attenzione. «Ehi, di casa? C’è nessuno?» Il piccolo si svegliò, sbadigliò e andò ad aprire incuriosito e ancora intontito dalle braccia di Morfeo.
Il piccolo Agostino, un po’rintronato, andò ad aprire. E si ritrovò di fronte a tre uomini vestiti di nero che recavano le insegne della chiesa sotto la corazza da mercenario. Erano talmente imponenti da oscurare la visuale del bambino, già abbagliata dal sole che era entrato nella stanza. Quello che riuscì a capire fu che tutti e tre barbuti e tutti vestiti di colori scuri. Parevano quasi soldati di ventura e uno di essi portava un orecchino d’oro che catturò immediatamente l’attenzione di Agostino. Uno di loro recava con sé un cane e il mastino gli abbaiò contro. Forse gli si sarebbe scagliato addosso se non fosse stato per l’uomo che lo teneva al guinzaglio, che lo strattonò indietro ammonendolo con voce ferma e autoritaria. «Bimbo, dove sono i tuoi genitori?» Volle sapere quello in mezzo, che pareva il capo gruppo.
«Sono…» Cominciò lui poi farfugliò un po’nel tentativo di ricordare quello che gli avevano detto: «Nei campi e a lavare i panni, perché?»
«Vuoi dire che non c’è nessuno in casa oltre te?» Chiese lui con aria di rimprovero e Agostino sentì su di sé tutta la forza di quello sguardo di biasimo sulla sua pelle. La sua schienuccia rispose con un brivido di paura che la percorse per intero e capì di aver fatto una stupidata ad aprire a quelle persone. 
Dopotutto potevano essere briganti travestiti, o peggio.
Brivido che venne scambiato per uno di quelli causati dal freddo.
Il terzo compare continuava a calmare il mastino che cercava di saltare addosso al bambino, scusandosi col medesimo per il comportamento del cane. «Di solito non si comporta così. E sta buono, a cuccia. A cuccia, ho detto!» Esclamò tornando a rivolgersi al mastino.
Il secondo, invece squadrava l’interno della casa con interesse.
Ma nessuno dei tre mosse un passo avanti, né il bambino li fece entrare.
«Cercavamo i tuoi genitori. Dovevamo dirgli delle cose.» Spiegò il primo, esprimendosi di modo che anche lui potesse capirlo. «Potete riferire a me, se volete, gliele dirò quando tornano.» Sì offrì il piccolo, stringendo la mano sulla porta. La voce scossa da un tremito di paura. Aspettandosi il peggio. Il cavaliere si inginocchiò di fronte a lui e domandò, con voce dolce, come se stesse cercando di non spaventarlo: «Sicuro?» Chiese guardandolo con sguardo limpido, dello stesso colore di quelli del Cristo dipinto nella chiesina che frequentavano lui e la sua famiglia. Gli occhi di Agostino furono subito catturati da quello sguardo. L'uomo cominciò a riferirgli il messaggio: «Due giorni fa abbiamo catturato un demonio che infestava le acque di questi luoghi. A vederla sembrava una bambina, all’incirca della tua età, forse un anno meno. Ma non lo era. Essa impediva alle persone di attingere l’acqua dai pozzi e di lavare i propri panni o abbeverare gli animali. Qualcuno è addirittura morto. Ma qualcuno l’ha liberata. Le tracce portano a questa casa».
Agostino impallidì e deglutì rumorosamente mentre le membra prendevano a tremare.
«Sei stato tu?» Chiese l’uomo in tono basso, senza staccare gli occhi dai suoi. Quello che successe in seguito fu un vero e proprio miracolo, perché nemmeno il bambino seppe dove trovò il coraggio necessario per calmarsi e proferire quello che disse: «No. Io passavo da quelle parti perché lì vicino ci crescono gli alberi di nocciole e ho sentito delle grida. Ma ho visto tutto. Sono stati dei briganti. Hanno visto il demone e l’hanno catturato scambiandolo per un umano. Hanno tagliato le corde e l’hanno portato via dicendo che l’avrebbero ucciso e venduto le sue carni a qualcuno, un venditore di reliquie, o qualche stregone, credo».
«Poi che è successo?»
«Quando se ne sono andati mi sono arrampicato sull’albero per capire cosa avessero fatto. Volevo dire ai miei genitori quello che avevo visto e portarli lì, di modo che avvertissero il parroco.» Agostino non riusciva ancora a concepire un’autorità più alta e sacra del parroco. Continuò, recitando le sue preghiere mentalmente e pregando i santi del Paradiso di aiutarlo promettendogli in cambio qualunque cosa: «Quando poi ho sentito un colpo dietro di me, mi sono spaventato e sono caduto a terra. Per questo ho perso i denti, guardate.» Fece alzandosi il labbro superiore con un dito. Il leader del gruppetto disse: «Perché non sei corso subito dal prete, invece che indugiare?»
«Indugiare?»
«Restare».
Agostino cercò le parole adatte: «Ho avuto paura, messere. Mi dispiace. E mio padre mi dice sempre che sono un ometto e che non devo avere paura. Volevo che…» Tacque, imbarazzato e chinò il capo.
Il cavaliere lo fissò a lungo e poi disse: «Cos’è questa ciocca bianca?» Il bimbo trasalì e si spaventò. Rialzò il capo e domandò: «Quale ciocca bianca?» Il cavaliere gliela tirò leggermente con la grande mano guantata: «Questa. Ci sei nato?» Chiese incuriosito, lasciandogli la testolina, sempre con quel fare paterno che caratterizzò tutto quel colloquio.
«No.» Fece il piccolo spaventato. E gli ritornarono in mente tutte le dicerie che gli avevano riferito sulle ciocche bianche premature. E che alcuni venivano evitati proprio per questo. Poi si gettò ai suoi piedi e cominciò a singhiozzare, sia per il dolore delle ferite che per la paura: «Ho detto la verità, messere. Non chiamate l’inquisizione, non portatemi via. Vi supplico, non ho fatto niente di male. Non voglio lasciare la mamma e il papà. Vi supplico…» Piagnucolò.
Il cavaliere si chinò e gli batté la mano sulla schiena: «Su, su, calmati. Non è stata colpa tua. Su. Non chiameremo nessuno, stai tranquillo. Tranquillo.» Fece stringendogli le piccole spalle e il bambino si calmò a poco a poco. «Stai meglio?» Domandò il cavaliere mentre Agostino si puliva il viso con le mani e le braccia coperte dalla camiciola da notte, che di solito portava sotto i vestiti.
Annuì.
«Grazie per le informazioni, piccolo. Addio.» Ciò detto lo lasciò andare e i tre si voltarono, tornando alle loro cavalcature. Adesso che li vedeva si rendeva conto che tutti e tre avevano i capelli lunghi dello stesso colore scuro con riflessi mogano. Forse erano tre fratelli.
Agostino lo richiamò indietro dopo pochi passi e l’uomo si voltò: «La catturerete, non è vero?» Domandò con la sua vocina ancora spaventata.
«Certo.» Promise il cavaliere. Poi lo salutò di nuovo, con un cenno della mano e raggiunse i compagni, che lo attendevano poco distanti. Montarono in sella e galopparono via.
Agostino richiuse la porta e si ricacciò rapidamente sotto le coperte piangendo per la terribile prova appena superata. Ma un’altra terribile prova l’attendeva: doveva affrontare i genitori, perché prima o poi, sapeva, le voci di paese sull’arrivo di quei tre cavalieri, sarebbe giunta anche alle loro orecchie. E avrebbero preteso spiegazioni. E se le sarebbe buscate di santa ragione.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Il Lago di Garda ***


Capitolo 3: Il Lago di Garda

In quel primo anno i denti di Agostino erano ricresciuti, così aveva potuto smettere di cibarsi di brodini e pozioni soporifere. Le sue ferite erano guarite completamente e le costole si erano riaggiustate a modo, per cui non aveva dovuto subire ulteriori torture per rimetterle in sesto o la morte.
Il dottore lo visitò sempre più sporadicamente: buon segno, significava che la sua convalescenza stava procedendo bene. Anche se sarebbe significato un bel po’dal punto di vista monetario: il suo aiuto era molto costoso.
Non aveva mai parlato ai suoi genitori di quell’incontro di quella mattina. I due quando erano tornati verso l’una del pomeriggio. Vedendo il piattino ancora intatto, ormai freddo e coperto per impedire che i ratti se ne cibassero, si erano preoccupati. Ma poi l’avevano visto ancora sotto le coperte che digrignava i denti in preda a un incubo e l’avevano svegliato preoccupati. Il bambino a quel punto si era gettato tra le loro braccia e aveva raccontato di quel sogno coi tre cavalieri che lo condannavano al rogo. E i genitori l’avevano calmato anche se il padre aveva borbottato di recarsi in città e fare due chiacchiere coi genitori dei suoi amichetti, che gli ficcavano nella testa certe idee idiote. Soprattutto quando Agostino raccontò loro di quello che facevano ai bambini con i capelli bianchi. E aveva detto: «E’vero che ho i capelli bianchi?»
«No.» Aveva detto il padre. «Chi ti ha detto questa stupidata?»
«Me lo gridavano nel sogno. Era per questo che mi condannavano.» Aveva piagnucolato il piccolo.
«Ora basta, era solo un sogno, non ci pensare più».
‹‹Ma ce li ho davvero?›› Domandò ansioso. A quel punto il padre lo guardò dritto negli occhi per un tempo che parve interminabile e alla fine sospirò: ‹‹Sì.›› Agostino trasalì. La moglie lanciò un’occhiataccia al marito. Ma l’uomo non si scompose, tese una mano verso di lui e gliela pose sulla testa e disse: ‹‹So cosa stai pensando. Ma non sei maledetto. Qualunque cosa tu abbia visto quel giorno, ti ha solo spaventato a tal punto che ti sono venuti i capelli bianchi. Una volta accadde lo stesso a una mia vecchia conoscenza. Solo che a lei divennero completamente bianchi. Succede quando la paura è talmente forte che il corpo reagisce così››.
Il bimbo lo guardò stupito: ‹‹Davvero?››
‹‹Sì. Certo.›› Garantì il genitore.
‹‹Ma se...Se mi...Se il prete mi giudicasse per questi capelli?››
‹‹Parlerò io con padre Giuliano, e vedrai che non lo farà e anzi, farà in modo che nessuno possa farti del male››.
‹‹Sul serio?›› Fece il piccolo sgranando gli occhi, che adesso brillavano di una nuova luce.
La domenica che si recarono in paese per la messa Agostino ebbe la prova che suo padre aveva detto la verità e, rilassato cantò assieme a tutti i fedeli in chiesa, con una nuova gioia. Da allora però le cose cambiarono, quei nuovi capelli, che adesso portava tagliati corti erano fonte di curiosità per il popolo e i suoi amici. I quali accolsero quei capelli chiamandolo ‹‹macchietta bianca›› o ‹‹fiocco di neve››, ma nel complesso continuarono a trattarlo come sempre. Però il parroco disse che era stato effettivamente avvistato un mostro, un piccolo demone simile a una bambina che infestava le acque dei fiumi e dei canali vicini ma se ne erano già occupati gli inquisitori.
Perciò non fu quella la causa per cui si trasferirono presso il Lago di Garda, a Sirmione. Bensì lo sfratto che subirono dal signorotto locale a causa dei debiti della famiglia. La madre di Agostino provò a mandare una lettera ai genitori, supplicandola di aiutarla come ultimo disperato tentativo. Ma non seppe mai se la ricevettero o meno.
Passarono i giorni, le settimane e le tasse li costrinsero a vendere quasi tutto quello che c’era in casa, fino a vendere l’intera fattoria.
Il piccolo Agostino dovette dire addio ai suoi amici e i luoghi della sua infanzia.
‹‹Dove andremo, papà?›› Domandò al padre, che guidava il carro. Unico avere, assieme alla vecchia Giuditta, l’asinella, che era loro rimasto, assieme ai vestiti, i balocchi di Agostino e le provviste per il viaggio. ‹‹A Sirmione.›› Rispose egli con sicurezza mentre, seduto a cassetta, guidava l’asinella. ‹‹Ho un amico laggiù, che tempo fa mi disse che avrei potuto fare fortuna se fossi venuto a lavorare per lui››.
La moglie lo guardò incuriosita: ‹‹Non mi avevi mai parlato di costui. Chi sarebbe?››
‹‹E’ un fioraio che si è arricchito commerciando fiori che coltiva la sua famiglia. Si chiama Montino da Tripoli. Buona parte dei fiori che si vedono su al Nord sono suoi››.
‹‹Non sapevo esistessero commerci di questo tipo.›› Disse la donna. Anche Agostino si girò a guardarlo.
‹‹E’una cosa piuttosto recente. Mi ha sempre detto che in caso avessi deciso di tornare al Nord mi avrebbe accolto a braccia aperte. Perché non esiste miglior giardiniere del sottoscritto.›› Disse con candore. Guido da Monselice era una persona che non si vantava mai e se per caso succedeva, non faceva mai pesare la propria vanteria sul suo interlocutore, e il candore che metteva nelle sue parole aiutava molto. ‹‹Ho anche un fratello maggiore che vive non lontano da lì. Chissà se si ricorderà di me.›› Disse poi, pensieroso abbassando il tono di voce. Non fu un viaggio molto facile. Non solo perché la famigliola sbagliò strada almeno una decina di volte; i sentieri e le strade erano molto cambiate rispetto a vent’anni prima. E non tutti vedevano di buon occhio gli stranieri come loro. Durante il viaggio si fermarono in molte città e trovarono posto in qualche locanda ove passare la notte. Il padre di Agostino cedette a moglie e figlio il letto, accontentandosi di dormire sulla scomoda seggiola. Una mano alla cintura dove teneva il fidato coltello col quale si sbucciava le mele. Le locande non erano luoghi molto confortevoli allora, e il rischio di finire assaliti nel sonno non era raro. Inoltre il locandiere aveva una faccia poco raccomandabile che non era piaciuta fin da subito a Guido. Agostino lo capì quando il locandiere si sporse oltre il bancone e gli domandò, tutto sorridente, mettendo in mostra una fila di denti marci e gialli: ‹‹Ma chi è questo bel bambino?›› E suo padre pose le proprie mani ruvide e grandi sulle sue spallucce e, fulminando l’uomo con gli occhi, rispose perentorio: ‹‹Mio figlio››.
L’uomo si ritrasse spaventato e alzò le mani dicendo: ‹‹Scusate, messere››.
Alla moglie era andata meglio perché ancora coperta dalla cappa. Per cui per ora si era soltanto beccata qualche sguardo curioso dagli avventori, ma nessuno, anche grazie alla presenza delle prostitute presenti, l’aveva importunata. La stanza non era poi così differente dalla loro vecchia casetta. Il bambino non s’immaginava che potessero esistere abitazioni capaci di contenere la sua. E osservava spaventato tutto ciò con i suoi occhioni grandi mentre la madre dormiva al suo fianco.
‹‹Non dormi?›› Domandò suo padre con voce stanca e impastata, facendolo trasalire. E poi si immobilizzò perché credette di aver svegliato la mamma. Si rilassò quando si accorse che stava ancora dormendo profondamente. Persa in chissà quale sogno.
‹‹No.›› Disse poi, in un roco bisbiglio. ‹‹Tu perché non dormi con noi?›› Domandò poi.
‹‹Perché devo farvi la guardia.›› Rispose il genitore in tono benevolo. ‹‹Non vorrei che qualche mostro venga a disturbarvi. È compito di ogni uomo proteggere la propria famiglia››.
‹‹Perché ora sì e prima no?›› Chiese incuriosito.
‹‹Perché non siamo più a casa››.
‹‹Ma ci torneremo, un giorno?›› L’uomo ci mise un po’prima di rispondere. Nonostante il buio Agostino poté sentire lo sguardo di suo padre su di sé come se fosse una carezza. ‹‹Sì. Un giorno forse ritorneremo.›› Promise e il figlioletto sorrise. «Ora dormi. È tardi, domani riprenderemo il viaggio».
«D’accordo. Buonanotte, papà».
«Buonanotte.» Poi si rannicchiò nell’abbraccio della mamma e provò a dormire dopo quelli che gli parvero giorni d’insonnia.
Quella notte sognò per la prima volta il motivo per cui erano scappati e poi il sogno sfumò sull’immagine della bambina demone che lo ringraziava e gli cantava una canzone. Ma una volta sveglio, si ricordava solo pochissime parole della medesima: Scappa o il serpente nero ti prenderà. E alla fine si scordò pure di quelle.
Il mattino dopo vennero svegliati dalle campane del mattutino. Fecero colazione con un po’di pane e latte e poi ripresero il viaggio. Agostino era preoccupato per il genitore, esibiva delle profonde borse sotto gli occhi arrossati. «Papà, forse è meglio se oggi un po’.» Gli disse. Ma il genitore l’ignorò. Non poteva concedersi il meritato riposo perché era l’unico a conoscere la strada per la loro destinazione.
«Agostino ha ragione.» Gli dette manforte la mamma. «Riposati un po’, tesoro. Abbiamo tutto il tempo del mondo per riprendere il viaggio. Che sarà mai se per un po’di tempo starò io a cassetta? So guidare il carretto bene quanto te. Chiederò indicazioni e vedrai che non mi perderò. Per favore, riposati.» Fece lei posandogli con delicatezza una mano sul braccio. L’uomo reagì stizzito e sbraitò: «Io non mi riposo e tu stai al tuo posto, donna! Non puoi guidare. E’compito mio! Oggi guido io! Io so la strada, si fa come dico io e nessuno discute! È chiaro? E tu smettila di piangere, ormai hai dieci anni, sei grande, smettila. Comportati da uomo.» In effetti quel giorno, il piccolo Agostino compiva effettivamente dieci anni. E si era svegliato con un gran mal di capo, senza capire bene dove si trovasse, lì per lì, e poi era persino inciampato dalle scale mentre scendevano.
Ma non smise di piangere e il padre allungò una mano e gli tirò uno schiaffo che lo fece ammutolire. La guanciotta piena cominciò ad arrossarsi rivelando il segno del colpo. «E ce ne è anche per te se non stai buona, donna.» Esclamò l’uomo. Agostino ebbe sinceramente paura per la mamma, e per un attimo la stessa donna ci credette. Ma solo per un attimo. Perché si ricordava che Guido non era una persona violenta. Neanche nei momenti d’ira avrebbe mai alzato un dito su di lei e dubitava sinceramente che avrebbe cominciato ad alzare le mani su di lei proprio ora. La donna tenne fermo il figlioletto, che sembrava sul punto di alzarsi e correre via. Poi si rimise a sedere incurante degli sguardi degli avventori e del silenzio che a causa della sua sfuriata si era venuto a generare. Persino il locandiere parve indeciso se intervenire o meno, ma poi scelse di restarsene dietro il bancone e tornò a occuparsi delle sue faccende quotidiane. Mentre dalla cucina uscivano i pochi piatti destinati agli avventori come colazione.
L'argomento non venne più sollevato. Poi ripresero il viaggio, e, come i due avevano temuto, più volte Guido si addormentò alla guida. Perciò alla fine, con moine e una tazza di brodo caldo, madre e figlio lo convinsero a spostarsi dietro, nella calda paglia e coi bagagli e i pochi averi che gli restavano, e da allora fu la donna a stare a cassetta, col figlioletto seduto davanti. E proseguirono in viaggio accompagnati dal dolce sottofondo del russare di Guido. Dopo un po’i due cominciarono a soffrire di fastidio per quel fastidioso russare. ‹‹Non lo sopporto.›› Borbottò Agostino a un certo punto, stizzito.
‹‹Nemmeno io.›› Gli confessò la madre. ‹‹Ma non possiamo farci niente; è il suo modo di dormire››.
‹‹Prima non lo faceva››.
‹‹Capita a tutti superata una certa età.›› Gli spiegò dolcemente lei, poi aggiunse, soprappensiero: ‹‹Si chiama vecchiaia››.
Il piccolo sbuffò e incrociò le braccia, ancora infastidito: ‹‹Se è così spero di non invecchiare mai››.
E stavolta la donna volse il viso sconvolto verso di lui. Aveva lo stesso sguardo irato del padre quando l’aveva schiaffeggiato poche ore prima. Ma lei si limitò a fissarlo con rabbia e a sibilare, minacciosa: ‹‹Non dire mai più una cosa del genere. Hai capito? Mai più. Non sia mai che qualcuno Lassù decida di ascoltarti e strapparti via da me. A quel punto nemmeno io potrei fare qualcosa per salvarti. Lo capisci? Bene, allora non lo dire mai più.›› E quel sibilo fu mille volte più spaventoso dello schiaffo e dello sfogo del genitore. Il piccolo annuì con gli occhi pieni di lacrime di paura. Si fermarono solo per far riposare la povera asinella e per svolgere qualche funzione corporale. A un certo punto cucinarono qualcosa e solo allora Guido si svegliò e pranzò con loro. Poi, durante il pomeriggio i due coniugi si allontanarono per un po’dal carro intimando ad Agostino di fare la guardia e avvisarli con un grido caso mai fosse successo qualcosa. Quando tornarono qualche ora dopo erano un po’più scarmigliati, sudati e gli abiti erano più stropicciati. E una luce brillava negli occhi di entrambi. Ma alle domande del figlioletto non risposero per niente e alla fine accantonò la questione, tornando a concentrasi su altro.
Il resto del viaggio trascorse in pace finché non arrivarono a destinazione. Alla fine anche Guido dovette ammettere che la moglie non era così sprovveduta come pensava, per la maggior parte del tragitto, infatti, aveva dimostrato di possedere un ottimo senso dell’orientamento. Cosa della quale, era stupita lei stessa. Era come se conoscesse quei luoghi a memoria, anche se non li aveva mai visti prima. Il paesaggio era molto diverso da quello cui si erano abituati fino a quel momento. Si sentiva anche il clima mite dato dal lago. Pur essendo già autunno inoltrato sembrava di essere sul mare. O almeno la sensazione che provarono Agostino e la madre fu quella, perché, a parte Guido, né lei né il figlio avevano mai visto il mare. ‹‹Com’è il mare, papà?›› Chiese Agostino, incuriosito.
‹‹Il mare, è...eh...Come te lo posso spiegare?›› Ci provò, ma tutto quel che gli riuscì di dire fu una descrizione sconnessa, qualche dettaglio buttato lì a casaccio e due o tre farfuglii inudibili e parecchi tentativi infruttuosi di aprire bocca. Alla fine ci rinunciò, lasciandoli senza risposta. Agostino alla fine decise che non sapeva di sicuro cosa era il mare, ma un temporale lo sapeva distinguere benissimo, perché proprio in quel momento un violento acquazzone si rovesciò sulle loro teste. E continuò a martoriarli a quel modo per tutto il resto del viaggio, abbassando non solo la temperatura, ma rischiando pure di farli ammalare.
Era mattina presto quando videro per la prima volta il paesaggio del Lago. La sorpresa che si palesò sul volto di Agostino fu una delle più grandi emozioni che provò. Il Lago era grandissimo e l’acqua risplendeva della luce del sole di miriadi di riflessi. Tutto attorno alle sue sponde si potevano notare vigneti, frutteti e paesini arroccati attorno ai campanili e le chiesette. Le barche dei pescatori che scivolavano come cigni leggiadri sull’acqua lucente. Da quell’altura dove erano potevano vedere la sua grandezza. Non per niente era uno dei laghi più grandi del territorio. La parte settentrionale scompariva in una depressione che si intravedeva appena tra le Alpi e la parte meridionale, anch’essa visibile fino a un certo punto, occupava un’area dell’alta Pianura Padana ed era più semi circolare rispetto alla parte a nord. Il genitore poi indicò alla famigliola la cima Presanella, il Monte Adamello e il Monte Baldo. Quest’ultimo era visibile il succedersi di diversi tipi di vegetazione dalle sponde del lago, come Agostino poté vedere poche ore dopo nel pomeriggio. Anche se non riuscì a riconoscerli per via della distanza, gli bastò fermare qualche passante per farsi spiegare la sua storia. Storia tramandata da generazione in generazione che però riassumeremo così: in seguito ad un'alluvione avvenuta nel VII secolo, il limite della foresta si alzò e la vegetazione lacustre cominciò a caratterizzarsi in modo diverso: aumentarono le specie coltivate, in particolare il castagno, il noce, l’olivo, la vite e i cereali, ma aumentò anche la varietà delle specie selvatiche. Risalendo il Monte, celebrato fin dall'antichità e noto come hortus Europae, ovvero "giardino d'Europa", a causa del vasto patrimonio floristico e degli endemismi, cioè alcune piante e animali erano tipicamente esclusivi del territorio, c’erano le fasce vegetali. Alle altitudini inferiori si trovavano piante come le artemisie, gli astragali, i lauri, i lecci, i tassi e i terebinti. Tra i 400 e gli 800 metri, si trovava il tipico bosco di fascia media, composto da carpini neri, frassini ornielli, roverelle, e in misura minore bagolari, noccioli e peri. A questi ultimi due Agostino si illuminò perché li riconobbe.
Poi, continuò, c’erano gli aceri, altri carpini, frassini, noccioli e sorbi. Tra i 1000 e i 1200 metri la vegetazione era composta principalmente da faggi, e ad altezze poco superiori si trovavano gli abeti rossi e, più rari, gli abeti bianchi; a partire dai 1700 metri iniziava il clima alpino, con mughi, basse aghifoglie, rododendri e fiori di montagna. Anche da parte bresciana vi è una simile successione di vegetazione, anche se condizionata dalla significativa presenza di scogliere e dalla minore altezza, che vedeva il suo punto massimo nei 1975 metri del monte Tremalzo, contro i 2218 metri della cima Valdritta della catena del Baldo.
Si fermarono giusto per mangiare qualcosa e Agostino ne aveva approfittato per porre qualche domanda alle persone del posto che passavano. Il tutto sotto lo sguardo dei genitori, che si trovavano poco distanti.
E aveva trovato molte risposte in un’anziana signora di passaggio con un canestro di ricci di castagni appeso al braccio. L’anziana donna che gli stava spiegando tutto ciò s’interruppe, notando il visetto smarrito del bimbo. Si sciolse in una risata di fronte alla sua faccia buffa, e gli scompigliò i capelli con una mano, prima di salutarlo e riprendere il cammino. Tanto, come aveva detto suo padre quando erano scesi dal carro per riposarsi, avrebbero avuto tutto il tempo del mondo per esplorare la loro nuova casa.
Loro avrebbero alloggiato a Sirmione.
A pranzo continuò la sua storia. A sud del lago di Garda, continuò a spiegare l’uomo, sciorinando tutto il suo bagaglio culturale, si sviluppava un grande anfiteatro morenico, ovvero un susseguirsi di cerchie collinari con interposte piccole aree pianeggianti, in alcuni casi palustri, originatisi grazie all'azione di trasporto e di deposito del grande ghiacciaio del Garda. Purtroppo però dovette spiegare ai due di cosa stesse parlando perché da come lo guardavano sembrava che avesse parlato aramaico. Poi, una volta spiegata la faccenda in termini più comprensibili aggiunse che le colline erano dolci e dalle linee delicate; dai punti più alti era possibile avere la percezione dei rapporti che legavano le colline con le montagne oltre che della forma circolare ad anfiteatro degli andamenti collinari, i quali sembravano abbracciare la parte meridionale del lago. Inoltre, come aveva già capito Agostino, la vegetazione sarebbe stata quella tipica del Mediterraneo: ‹‹Non so quanto ti potrà aiutare a farti capire come è il mare, perché un conto e il mare e un altro saranno le sue rive, che un giorno spero tu potrai vedere. Ma almeno ti aiuterà a farti un’idea.›› Anche il clima sembrò diventare più dolce e caldo mano a mano che si inoltravano in quei territori. E rispose a tutte le domande del bambino che, ogni tre per due, si spenzolava dal carretto, attirando gli sguardi incuriositi dei passanti, per indicare alberi come olivi, viti, agavi, e altre piante che non aveva mai visto e altre che non credeva di rivedere. Oppure le case costruite in quello stile particolare e così diverso dalla loro cittadina.
Poi Guido lo mandò in estasi perché gli raccontò di aver lavorato per i monaci dell’abbazia sull’isola del Garda. Una delle cinque isole del lago, tutte di dimensioni piuttosto ridotte. La più grande, appunto, era l'isola del Garda, su cui nel 1220 San Francesco d’Assisi fondò un monastero. ‹‹Solo due secoli fa.›› Specificò il cicerone improvvisato. Ma né la moglie né il figlioletto erano capaci di considerare e concepire un lasso di tempo così lungo.
Non troppo distante da lì c’era la seconda isola per dimensioni, l’isola di San Biagio, detta anche “dei Conigli”per via delle lepri e conigli che offrivano cacce abbondanti.
Invece lungo la riva orientale si trovavano le altre tre del gruppo. Tutte di dimensioni modeste e site nei dintorni di Malcesine. La più settentrionale era l’isola degli Olivi, poi vi era l’Isola del Sogno e infine l’isola del Trimelone o Tremellone. Ma ad Agostino, che non l’aveva ancora vista, restò impressa la quarta isola per il nome e cominciò a sparare domande a raffica sulla medesima. Ma dove sarebbero andati loro ci sarebbero state le sorgenti termali. Anche se non erano molto frequentate a causa dell’odore di zolfo, e la buona gente del posto si teneva alla larga da quel posto, considerandolo una sorta di porta dell’inferno per il demonio. E molti lo pensarono davvero quando l’anno seguente, nel 1457 un monte sopra Salò si abbassò. Ma di questo parleremo dopo.
Una volta che anche costoro si furono riposati si rimisero in marcia. Dato che il sole stava calando, quella notte riposarono in una locanda di Sirmione e il giorno dopo, di primo mattino, andarono alla ricerca dell’amico del padre. Ma Sirmione in quei vent’anni era cambiata molto e dovettero faticare non poco per riuscirci.
Finché poi non riuscirono a trovarlo, dopo il mattutino. Fermarono un ricco borghese che usciva dalla chiesa.
Altre persone riccamente vestite che sfilavano dietro di lui scambiando quattro chiacchiere.
Costui aveva i capelli lunghi e scuri che gli cingevano il collo, un lungo pastrano nero che fasciava il corpo panciuto in tinta con le gambette secche che spuntavano da lì come tronchi d’albero e un capello in testa. Un bel monile d’oro gli cingeva il collo. Aveva il viso porcino e gli occhietti scuri e furbeschi. Guido si fece avanti e gli disse: ‹‹Scusate, buon uomo, sapete per caso dove posso trovare Montino da Tripoli?›› L’uomo lo guardò dall’alto in basso e rispose: ‹‹E voi chi sareste per cercarlo?››
‹‹Sono un suo vecchio amico e questi sono mia moglie e mio figlio››, disse indicandoli, ‹‹Montino tempo fa mi disse che se avessi avuto bisogno di un lavoro sarei potuto venire a cercarlo››.
‹‹E voi chi sareste, di grazia?››
‹‹Guido da Monselice››.
‹‹Mi dispiace, non lo conosco››.
Il giardiniere nascose a malapena il dispiacere: ‹‹Grazie comunque per il vostro tempo, messere››.
L’uomo fece un cenno del capo. E se ne andò. Guido tornò alla sua famiglia. La moglie gli aveva appena chiesto che cosa si fossero detti quando l’uomo li richiamò: ‹‹Avete detto Montino da Tripoli? Il fioraio?›› Fece accigliato come se non avesse capito bene. Le guance rubizze per l’insicurezza. O forse era semplicemente dovuto all’accento di Guido. Non tutti, infatti, avevano il coraggio di chiedergli se fosse francese o meno. ‹‹Sì.›› Fece Guido voltandosi verso di lui.
‹‹Ora che ci penso, provate a...›› Gli dette le indicazioni per raggiungere la sua casa. L’amico di Guido viveva in una delle zone più belle di Sirmione. Fu lo stesso Guido a bussare al pesante portone. E gli aprì una domestica: ‹‹Sì?›› ‹‹Buongiorno, signora, sono Guido da Monselice, sto cercando Montino da Tripoli, un mio vecchio amico. E’ in casa?›› La donna lo guardò un po’stranita per via dell’accento della sua parlata. Una voce maschile baritonale si fece sentire dall’interno dell’abitazione. ‹‹Siete fortunato, messere, il padrone stava uscendo proprio ora.›› Ma non ebbe il tempo di aggiungere altro che venne spinta di lato e un uomo grasso e corpulento col la barba brizzolata e gli occhi grigi comparve sulla soglia. Doveva avere all’incirca una ventina d’anni più di Guido. Era vestito con una tradizionale veste lunga fino a terra. Realizzata con un tessuto di cui Agostino ignorava l’origine e il nome, ma che pareva essere molto costosa. La giornea rivestiva la veste. Era aperta ai lati ma stretta in vita da una cintura che avrebbe formato fitte pieghe regolari, se non fosse stato per il ventre prominente. Il mantello dava l’idea di vedere uno strano appendiabiti con la berretta, un tipo di capello cilindrico, che camminava. A dare un po’di luce alla sua figura una catena ad anelli da collo su cui era ancorato un medaglione e anelli alle dita grassocce. Decisamente molto più elegante di quello di Guido: che portava solo il mantello e una camicia su una calza slacciata. I due uomini rimasero a fissarsi per un po’ prima che Montino da Tripoli aprisse bocca e gli occhi si inumidissero per la gioia: ‹‹Guido.›› Balbettò infine, sorpreso.
‹‹Montino.›› I due si abbracciarono. Montino fu il primo a staccarsi e a inondare il vecchio amico di domande su domande e commenti e rimproveri per non avergli mai scritto per tutti quegli anni. Guido balbettò qualche scusa, rosso come un peperone. Ma forse l’amico non lo udì nemmeno: spesso non gli lasciava neanche il tempo di parlare. L’ex giardiniere ce la fece appena a presentare moglie e figlio che l’uomo li condusse dentro la sua ricca magione. Non che fosse così diversa dalla loro vecchia casa, aveva solo i pavimenti puliti, niente paglia in terra, molti mobili e opere d’arte, e non dormivano con gli animali.
Agostino si calcò bene il berretto sulla testa. Non voleva far vedere anche a lui la macchia bianca dei suoi capelli. Montino fece portare alla famigliola qualcosa da mangiare e Guido gli spiegò che cosa erano venuti a fare lì. ‹‹Speravo che la tua offerta fosse sempre valida.›› Concluse alla fine, guardandolo come quando si sperava di aver detto la cosa giusta. Aveva immaginato che l’amico gli dicesse un sonoro no, e invece lo accolse a braccia aperte. ‹‹Mio caro ragazzo, ormai avevo perso le speranze da tempo che tu mi dicessi di sì. Ma certo che ti prendo a lavorare nei miei campi e tra i miei giardinieri! C’è sempre bisogno di una mano, non ti nascondo che stiamo allargando i nostri possedimenti e mi serviva proprio un giardiniere. Tu che hai tutta quella fantasia e quel pollice verde eccezionali mi sarai di grandissimo aiuto.›› Si sporse verso di lui e gli sussurrò, come se fosse un cospiratore: ‹‹Ho dovuto licenziare quello che si occupava dei gigli perché me li ha fatti appassire tutti e non è riuscito a curarli da una delle malattie delle piante. Quello aveva il pollice nero in confronto a te››.
‹‹Ma è fantastico, Montino. Cioè, che tu mi offra un posto così su due piedi, non per i tuoi gigli.›› Disse Guido.
‹‹E farò di più; tu e la tua famiglia sarete ospiti nella mia magione finché non avrai guadagnato a sufficienza per comprarti una casa tutta tua, Ester, mostra ai miei ospiti la loro stanza.›› Fece poi rivolto alla domestica, la quale si inchinò e obbedì con un: "subito, vostra eccellenza" appena mormorato.
Mentre salivano le scale la madre di Agostino prese il marito per il braccio e bisbigliò: ‹‹Ho paura››.
‹‹Di cosa, amore?››
‹‹Che voglia in cambio servigio di qualche tipo da me. Non mi è sfuggito il modo in cui mi guardava.›› Fece lei guardandolo negli occhi. Agostino che era qualche metro davanti a loro volse la testolina per cercare di capire cosa si dicessero. Il marito le cinse le spalle con un braccio e ridacchiò, prima di baciarle la tempia e fugare ogni suo dubbio: ‹‹Nah, non ti preoccupare, Montino ha altri gusti. Lo sanno tutti.›› La donna trasalì e lo guardò, spaventata, portandosi le mani al petto. Nei suoi occhi scorsero l'immagine di mille peccatori e quella di padre Giuliano che condannava la sodomia: ‹‹Qualche volta ti ha...››
‹‹Ma no, che cosa hai capito? Non hai visto come mi ha stropicciato tutto il tempo? Di te ha calcolato giusto gli abiti e la moda che seguiamo. Ma niente di più. A lui piacciono i fiori, i ragazzi giovani, ma ha un codice d’onore: non si permetterebbe mai di sfiorare un bambino. E neanche una persona adulta. E con le donne tende ad avere rapporti di semplice conoscenza. Rilassati, tra me e lui c’è sempre stata una splendida amicizia. Niente di più di questo, stai tranquilla. E poi se per caso mi sbagliassi non avere mai paura di venirmelo a dire, qualunque cosa possa minacciarti, che lo sistemo io.›› Promise cavallerescamente.
Lo sguardo di lei si addolcì. Quando tirava fuori quelle frasi sembrava davvero un vero cavaliere delle favole: ‹‹Sul serio?››
‹‹Certo, magari di duelli di cappa e spada non so niente, ma mi ricordo benissimo come si usa un randello.›› Scherzò lui. La moglie soffocò una risata e scosse il capo. Effettivamente la scena di Guido tutto arrabbiato che inseguiva Montino con un randello, assestandogli qualche colpo era troppo comica. ‹‹Vedrai.›› Promise lui mentre entravano nella loro stanza: ‹‹Ci troveremo bene››. Poi ringraziarono la serva, che si raccomandò di chiamarla se avessero avuto bisogno, e la mandarono via.

*Nota dell’autrice: non fustigatemi, la matematica non è il mio forte e non ne so quasi niente di misure medievali o rinascimentali. Che poi è proprio questo il periodo in cui è ambientata la storia. Ma penso che si sia capito. Tutto quello che so è che le unità di misura erano varie e che si utilizzavano i piedi, le braccia e le iarde. Per comodità uso il sistema metrico corrente, nell’attesa di eseguire un calcolo più preciso. Continuate a leggere la mia storia. A breve posterò anche i disegni.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Farsi ben volere ***


Capitolo 4: Farsi ben volere


I
primi tempi a Sirmione furono difficili per la famigliola. Come profetizzato da Guido, i gusti del suo vecchio amico non erano cambiati. E la donna poté così rilassarsi. Ma non completamente. Le persone cominciarono presto a spargere malelingue addosso a loro. E al fatto che Montino avesse ospitato gli stranieri in casa propria. E spesso venivano guardati con diffidenza. Diffidenza che poi mutò in astio quando videro i capelli di Agostino. Il bambino, a differenza dei genitori, riuscì subito a fare amicizia con gli altri bambini del posto. Era successo quando qualche settimana dopo, che gli avevano dato il permesso di andare a vedere le rive del Garda. Sua madre l’accompagnò restando qualche metro più indietro con la serva. Dopotutto non si poteva mai sapere. Ma il bambino si era riempito gli occhi smarriti di ogni dettaglio di quel nuovo posto e poi era sfuggito alle due. Le quali in quel momento stavano acquistando delle mele a una bancarella. Fortuna che era la serva a contrattare perché i mercanti locali non parevano molto inclini a commerciare con quella bella straniera che si accompagnava al figlio iperattivo.
Molti però, domandarono a Simonetta, così si chiamava la donna, chi fosse la sua nuova amica e così la giovane faceva le dovute presentazioni. Molte persone si sciolsero un po’, solo poche continuarono a restare diffidenti. Ma nel complesso nessuno si mostrò troppo scortese nei suoi confronti.
Poi, proprio alla bancarella del fruttivendolo, Agostino non aveva più resistito ed era corso via. E lì sulla spiaggia aveva trovato un gruppo di bambini che giocavano a mosca cieca. Aveva chiesto se poteva unirsi a loro e i piccoli l’avevano accettato. Gli avevano posto qualche domanda ma non erano stati crudeli con lui come aveva sospettato e temuto. Dopotutto non li aveva mai mostrato né a Montino né alla domestica che li assisteva per paura che chiamassero l’Inquisizione. Minaccia sempre costante.
Era stato grazie a loro che aveva scoperto che alcuni audaci facevano il bagno sulle rive del Garda d’estate. Pochi perché molti continuavano a pensare che l’acqua fosse portatrice di malattie e peccato. Non solo perché una leggenda locale voleva che quel Lago l’avesse creato il Diavolo o ci fossero le Guane. Bellissimi spiriti dell’acqua femminili che avevano un piede girato all’indietro. Ma ormai questa credenza stava andando scomparendo. E ormai neanche i sacerdoti ci credevano più o li ammonivano per questo. Anzi, a volte poteva succedere che loro stessi si concedessero una nuotata nel Lago e si unissero ai propri fedeli nelle gare. A volte facevano pure qualche regata. Chi aveva una barca poteva sfidare altre persone e chi vinceva gli veniva pagato un fiasco del vino e tutte le merci più costose alla festa di primavera. Una volta lì, raccontarono i bambini, ci passò una flotta di sei galere e venticinque navi che poi vennero trainate da 2000 buoi sul Baldo. Ma da allora non c’erano più state le guerre. «Però a volte», dissero i bambini con aria di timorosa riverenza, «il Lago si arrabbia e allora è meglio starci lontani perché fa davvero paura». E che sapevano nuotare un po’tutti lì. Era una cosa che imparavano da piccoli proprio grazie a quel posto.
«Agostino!» Lo chiamò improvvisamente la madre, facendo sobbalzare tutti. I quali si volsero verso di lei. Aveva fatto la strada a corsa reggendosi le sottane. E in quel frangente, con le gote arrossate e gli occhi lampeggianti, fece più paura lei del Lago stesso. Il bambino tremò. L’aveva fatta grossa, stavolta. La donna li raggiunse a grandi passi e gli dette uno schiaffo e lo sgridò di fronte a tutti per essere scappato via così. Poi lo trascinò via verso casa, continuando a sgridarlo.
Guido ebbe un po’ meno fortuna di sua moglie. Purtroppo il passare del tempo e la stanchezza l’avevano inacidito, quindi non riuscì a farsi immediatamente apprezzare. Si sentiva come una rondine intrappolata nella stagione sbagliata. Lui dopotutto curava le piante, e lì, a parte godere delle gioie della stagione invernale al Nord, cosa poteva fare?
Col passare dei mesi piano piano tra quest’ultima e Montino si sviluppò una bella amicizia. Il vegliardo, le ricordava una specie di nonno. E sembrava davvero felice di avere loro tre per casa. E viziava tutti e tre. Anche se per il momento con l’inverno ormai giunto era difficile, per non dire impossibile, curare le piante, Guido si era dovuto cercare un altro lavoro. E per il momento lavorava presso l’oste di Sirmione, un vecchio amico di Montino, che lo aveva personalmente raccomandato. Guido temette che Montino avesse resuscitato il lato borghese della sua sposa. Niente in contrario a questo, il problema era che nella situazione in cui erano messi, lui non avrebbe potuto provvedere a lei come ella avrebbe desiderato e meritato. La stanza dove li aveva alloggiati si era riempita di abiti di tutti i tipi e tutte le fogge. Così tanti che a volte la famigliola non riusciva più a ritrovare la mobilia e il letto.
Dalle camore, cioè il capo basilare del guardaroba femminile. Camicie, cioppe o pellande, come le chiamavano lì, cioè una sopravveste maestosa e fluente che conservava la linea trecentesca di aderire garbatamente al seno e ampliarsi a ventaglio nello strascico, segnando la vita. A volte quell’ampiezza di stoffa poteva essere raccolta in pieghe piatte o cannoncini, donando ricchezza all’abito. Le maniche lunghe e ampissime, foderate di seta o pelliccia. Cotte con file di bottoni o magliette in oro e argento e nastri che tutta la chiudevano. Molto aderenti mentre le maniche spesso di colore e stoffe differenti erano alleggerite da tagli che lasciavano uscire a piccoli sbuffi la camicia. Giornee da abbinare alle sopraccitate; sopravvesti assai simili alle guarnacche trecentesca aperte davanti e sui fianchi con maniche staccate o sprovviste di quest’ultima. Tanto Montino era abbastanza ricco per permettersele entrambe. E visto che era quasi arrivato l’inverno erano foderate di pelliccia. E mantelline corte e sfarzose chiamate sbernie. Poi c’erano agoraie, borse, guanti, orologi e gioielli, bottoni, spille, calze solate, caligae, pianelle e calcagnini.
Agostino era lì e rideva di fronte alle scenette che la madre e Montino tiravano fuori per farlo divertire.
L’aveva detto tante volte, eppure dirlo non serviva allontanare il problema, per niente. Temeva di essere lasciato in qualche modo da lei. Temeva che se avesse riscoperto quel lato di se stessa il loro matrimonio e il loro amore sarebbe finito. ‹‹Cos’hai papà?›› Domandava il bambino, cercando di interpretare quel nuovo sguardo disperato e frustrato sulla faccia del genitore.
‹‹Niente. Va a giocare››.
Agostino fingeva di obbedire ma invece si nascondeva per poter vedere i genitori. Vide la madre avvicinarsi al padre, che se ne stava appoggiato al davanzale della finestra con un’aria così sofferente che non gli aveva mai visto. ‹‹Amore, cosa succede?›› Domandava la donna, invece, che sopraggiungeva subito dopo, perché non le era sfuggito lo sguardo sofferente del marito. Agostino non seppe mai che cosa succedesse. Ovviamente Montino non riservò premure solo a sua madre, ma anche a lui, che E questo gli era palese sempre più, soprattutto quando la guardava provare gli abiti e i gioielli che Montino faceva arrivare apposta per lei. E che, se fosse stato donna, sicuramente avrebbe indossato anche lui. A volte lo scherzoso Montino ce l’aveva come vezzo, quello di vestirsi da gran dama durante il carnevale. Una volta li aveva beccati mentre Montino si mostrava a lei con il costume da carnevale e la moglie che rideva a crepapelle come non rideva più da molto tempo.
«Hai così poca fiducia in me, marito mio?» Chiese lei quando smise di ridere.
‹‹Non è questo, è che...›› Lui distolse lo sguardo da lei, imbarazzato e forse anche consapevole e colpevole di aver pensato questo della sua consorte. La donna capì e lo abbracciò. Lui ricambiò, esitando, come ogni volta che Guido sapeva di essersi sbagliato e se ne vergognava: ‹‹Io non vado da nessuna parte, ricordi? Io ho scelto te.›› Sussurrò lei, rassicurandolo. Il marito respirò il suo odore e poi disse, con un sorriso che spezzò l’atmosfera: ‹‹Profumi di sapone››.
La moglie rise e gli dette un buffetto scherzoso sul braccio: ‹‹Anche tu, sciocco, ma non vedo l’ora di sapere di nuovo di terra e fiori››.
‹‹Vorresti curare di nuovo i giardini con me?›› Chiese lui guardandola rapito, il tono che gli uscì sembrò quasi quello con cui la chiese in moglie. Ai suoi occhi sarebbe sempre sembrata bellissima come la prima volta che la vide.
Gli occhi di lei brillavano come stelle, mentre teneva le braccia allacciate al suo collo: ‹‹Ora e per sempre.›› E si baciarono ma vennero interrotti da Agostino, che in quel momento li vide e rise. La donna si staccò dalle labbra del marito ed entrambi si volsero verso di lui. ‹‹Davvero riprenderete a curare le piante?››
I due si guardarono prima che il genitore dicesse: ‹‹Sì. Certo. È per questo che siamo qui››.
Il bambino si mise a fare i salti di gioia: ‹‹Sì, insegnerete anche a me?››
‹‹Certamente. Vieni qui, sciocchino.›› Fece la madre tendendo la mano verso di lui e il bambino le si lanciò addosso. E si lasciò coccolare dai genitori. A volte la signora usciva per fare la spesa con le domestiche di Montino e Agostino andava con lei. E la gente stava cominciando a vincere un po’della sua diffidenza nei loro confronti.
Fu Montino a consigliare alla famigliola di adeguarsi ai costumi del luogo e indisse addirittura una festa per farli conoscere nel vicinato. Accorsero parte della borghesia nei loro abiti variopinti e con le loro chiacchiere e pettegolezzi di paese. E i tre Monselice, agghindati a festa con abiti signorili, non parvero affatto una famiglia di umili giardinieri. Anche se era palese, dal colore bronzeo della pelle della signora, parzialmente nascosto dal belletto. Tantomeno stranieri. Anzi, spesso danzarono anche loro. Fu difficile convincere la signora a intrecciare i capelli in una maniera diversa dal solito turbante che usava quando lavorava. La povera donna era arrugginita coi rapporti sociali, perciò non seppe come intavolare conversazioni con le donne. Invece Guido se la cavò un po’meglio di lei. Venne invitato da Montino a partecipare a una discussione e riuscì a stringere qualche amicizia. Ma se si sarebbero rivelate durature sarebbe stato tutto da scoprire.
Se per caso durante la festa saltò allo scoperto, non successe niente di sconvolgente, soprattutto perché conoscevano già Montino e il suo commercio floreale.
Quella festa non sortì gli esiti sperati da Guido ma Montino lo rassicurò dicendogli che intanto si erano fatti conoscere, e che i risultati sarebbero comparsi col tempo.
Ad Agostino andò decisamente meglio. L’unica cosa che dovette effettivamente cambiare fu il suo taglio di capelli: se avessero visto quella ciocca bianca così facilmente avrebbero cominciato a fare domande. Così gli accorciarono i capelli di modo che restassero abbastanza lunghi per coprirgli le orecchie e incorniciargli il viso. E la vecchia falda venne pettinata e tagliata anch’essa, di modo che potesse sempre tenerla sotto la berretta. Il piccolo aveva protestato un po’ma se ne era fatto una ragione e si era abituato sia alla leggerezza della testa, che al freddo che gli solleticava il collo. La madre che gli aveva tagliato i capelli lo aveva rassicurato con un sorriso: «Stai davvero bene coi capelli corti.» E il piccolo l’aveva guardata con due occhioni colmi di speranza e aveva chiesto conferme che gli erano arrivate sottoforma di un bacio e di un abbraccio.
In compenso riuscì a fare amicizia con molti bambini e così piano piano fece da apripista per i propri genitori. Però tempo per la messa di Natale, i Monselice erano stati, se non altro accettati dalla comunità.
Guido in seguito trovò lavoro come cameriere presso un’osteria e cominciò a portare a casa un po’di soldi nell’attesa che l’inverno finisse. Montino buttò giù un’allegra nota di biasimo ma d’altronde che ci poteva fare per quell’orgoglioso del suo amico? Perciò scosse il capo divertito e buttò giù qualche colpo di tosse. Da Natale si era buscato il raffreddore.
«Occhio a non tirare le cuoia, Montino.» Scherzava sempre Guido, beccandosi le occhiatacce di rimprovero della consorte. Sempre prontamente ignorate. Ma l’anziano replicava a tono dicendo che nessuno nella sua famiglia era mai morto per il raffreddore, tantomeno lui. Infatti guarì con le prime giornate calde.
Soltanto a primavera la famiglia Monselice poté cominciare a lavorare davvero. Montino possedeva davvero le più grandi floricolture di tutti i tempi. Anche se come a tecniche eravamo ancora molto indietro rispetto ai tempi moderni.
Addirittura aveva in mente di ampliare le proprie serre, il suo più ambizioso e grande progetto. E i Monselice gli furono davvero di grande aiuto. Addirittura non immaginava che anche la signora si intendesse di giardinaggio e floricoltura.
Ancora meno si aspettava che stessero insegnando al figlio. Il ragazzino ci metteva impegno e lena anche se ancora non gli avevano permesso di maneggiare armi contundenti al di fuori della zappa e della vanga. O di preparare il terreno. E quando giunse il momento di raccogliere i frutti del proprio lavoro, il risultato fu strepitoso e con la paga generosa ottenuta, poterono trasferirsi in una casetta abbastanza grande per tre persone e Montino dette una mano col trasloco e a comprare la mobilia. La casa aveva annesso un piccolo giardino e delle fioriere con cui adornare il terrazzo. E la famigliola non si lasciò sfuggire quell’occasione. E nel vedere la magnificenza di quel piccolo appezzamento di terra, i vicini chiesero alla famigliola di aiutarli anche con le proprie piante ornamentali. E i Monselice li accontentarono senza pretendere nulla in cambio. In breve tempo la via dove abitavano venne rinominata la via fiorita e la voce sul loro pollice verde si sparse.
I problemi veri arrivarono l’inverno seguente. Già da quell’estate Agostino si era accorto che la mamma mal sopportava l’aria del luogo e tutta quella umidità. Non ricordava quando era successo, probabilmente una domenica, visto che la mamma e il papà l’avevano accompagnato al lago. Poi si erano rintanati all’ombra di un albero e il padre di Agostino si era addormentato come un sasso per la stanchezza.
Agostino aveva giocato tutto il tempo con gli amici, che ormai erano abituati al suo aspetto. Quando era uscito dal lago dopo il bagno con gli amici che gli stavano insegnando a nuotare, e l’aveva vista seduta sotto l’albero ad aspettarlo, e nella penombra gli era parsa verdastra. E lo sguardo assente pareva quello di un cadavere. In quel momento il vento portò alle orecchie di Agostino le parole di una canzone:
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Se le hai viste dimmi dove sono, che sono in ritardo…

Al ragazzino lì per lì tornarono in mente le canzoni che aveva sentito alle fiere ma questa era completamente diversa da ognuna di quelle conosciute. Ma quando riconobbe la voce ebbe paura: era la stessa che cantava del serpente nero. E quando la sentiva non succedeva mai niente di buono. Un brivido freddo lo scosse e gli gelò il sangue.
Non posso andare a piedi nudi
«Mamma…» Disse il piccolo, preoccupandosi. La donna lo guardò e gli sorrise, e nel farlo le guance tornarono rosee e gli occhi le si accesero: «Cosa c’è?»
«Niente».
Ma non era vero e quando giunsero i primi freddi la donna si ammalò. Agostino e Guido la tennero a letto e la fecero visitare dal medico, che giunse con la sua maschera riciclata dall’ultima epidemia di peste. Il cappello nero e gli occhiali e l’abito scuro e triste e la borsa coi medicamenti. Ma la malattia che l’aveva colpita non era una semplice influenza: quella era polmonite.
Quell’inverno fu particolarmente rigido e ciò non contribuì affatto a ritemprare la donna che alla mezzanotte di capodanno morì, lasciando soli l’amato marito e il loro adorato figlio. Venne sepolta nel cimitero di Sirmione. Ma al funerale parteciparono solo poche persone.
Ma se per gli occhi di tutti era morta una madre, per Guido e Agostino era morto anche di più. Morendo, la mamma si era portata via anche una parte di papà. E Agostino non si era mai sentito né così solo né così smarrito. Il genitore passava le giornate a fissare il vuoto e le notti a piangere. Aveva lasciato perdere la casa e gli affari. Montino sulle prime gli aveva dato tutto l’appoggio e il conforto necessario per superare questa perdita. Ma non si era azzardato oltre la semplice amicizia. Da quando aveva rivisto Guido non aveva più visto il ragazzino che incontrò anni prima, ma quel figlio che avrebbe voluto avere. Avrebbe potuto adottare molti giovani bisognosi eppure non l’aveva fatto perché sentiva che l’unico che poteva effettivamente aiutare era proprio quell’uomo di trentaquattro anni che adesso sprofondava sempre di più nel dolore. E in Agostino vedeva il nipote che avrebbe avuto. Ma ormai era troppo tardi per adottarli, quindi l’unica cosa che fece fu dedicare qualche ora al giorno ai due e cercare di stare con loro e confortarli. L’unico, in città, che avesse sufficiente confidenza con loro per sbilanciarsi così tanto.
Tutti gli altri si limitavano a qualche parola mormorata alle loro spalle, qualche condoglianza di circostanza in chiesa. Luogo che purtroppo Guido sembrava intenzionato a lasciare per ritirarsi completamente in casa.
Agostino dal canto suo cercava di pulire la casa e di occuparsi del loro ospite, qualche volta aveva cercato di trascinare suo padre fuori dalle coperte, che, col passare dei mesi non solo cominciavano a puzzare ma anche a impolverarsi. Ma per quanto implorasse o tirasse gli sembrava di avere a che fare con un altro cadavere. Era contento delle visite di Montino, che pretendeva di essere trattato come un caro parente, nonostante non lo fossero affatto. Lo faceva accomodare nel salotto dove il caminetto acceso spandeva un piacevole calore e gli serviva un po’di cibo e del vino ma la nota dolente arrivava quando doveva chiamare il padre. Ormai si vergognava così tanto che non invitava neanche più gli amici a casa propria a giocare. Ancor più di far vedere che la casa stava andando in rovina. È strano come alcuni luoghi senza la presenza di una persona diventino improvvisamente più tristi e abbandonati. Pronti a collassare su se stessi come se avessero perduto la propria colonna portante. Ecco, questo era quello che era successo a casa Monselice.
E Agostino, per quanto sentisse forte il richiamo dei fiori, non si azzardava a lasciare casa per timore che suo padre lo lasciasse definitivamente.
Montino insisteva sempre perché gli preparasse una sedia nella camera padronale di fianco a Guido, sicché potesse vegliare su quel pover’uomo e parlargli. Solo allora l’orgoglio si ridestava in lui e si accaniva contro il bambino, urlandogli di scomparire immediatamente e di lasciarlo solo. ‹‹Non voglio nessuno. Nessuno!›› Poi urlava, rivolto a nessuno in particolare: ‹‹Vattene via, lasciami in pace››.
Ormai Agostino l’aveva capito perché spesso, quando lo guardava, sembrava che guardasse qualcun altro attraverso di lui. Ma chissà chi vedeva. Non era la mamma, più probabilmente Montino che gli diceva: ‹‹Ascolta. Ascoltami, guardami. Lo so che con la morte di Giulietta›› si chiamava così la moglie defunta; Giulietta Rifredi ‹‹credi di aver perso tutto. Ma non è vero. Tu non sei solo. Non hai davvero perso tutto. Hai ancora una casa, un tetto sulla testa. Hai me e hai ancora Agostino. Quel povero ragazzo ha solo undici anni e non hai idea di quanto soffra vedendoti così. Pensi che sia abbastanza grande per cavartelo da solo? Ti sbagli. Io non lo aiuterò come se fossi suo nonno perché non lo sono e non ne ho il diritto, per quanta compassione mi faccia. È figlio tuo, ci devi pensare tu. Non pensi a tuo figlio? Non senti che ti chiama?›› Una volta Montino gliel’aveva gridato in faccia afferrandolo per la camicia da notte con inusitata forza e l’aveva scrollato. ‹‹Cosa ne sai tu di quello che sto passando, vecchio pazzo?›› Aveva sibilato Guido scostando le sue mani con i polsi. Gli occhi lo fulminavano. Sulle sue labbra a malapena visibili sotto la barba lunga, lottavano anni di insulti contro di lui che solo in nome della loro vecchia amicizia stava trattenendo. ‹‹Vattene e non azzardarti mai più a dirmi come mi sento e quello che devo fare. Lo so da me quello che devo fare››.
‹‹Io lo faccio perché tu non lo fai. Hai consacrato la tua vita a lei, e lo so. Lo posso immaginare. Ma ora non sei più solo. Non puoi permetterti certi comportamenti irresponsabili.›› Fece Montino alzandosi in piedi, con voce delusa.
‹‹Vattene.›› Aveva ripetuto soltanto l’altro, la voce arrochita come se gli stesse raschiando la gola.
‹‹Tornerò domani.›› Dichiarò Montino con gli occhi lucidi. Ma Guido non poteva vederlo perché aveva chinato il capo e ora si fissava le mani sporche in grembo. Pareva il ritratto della miseria. ‹‹Non ci provare.›› Lo avvertì il padre di Agostino.
‹‹Sai che lo farò lo stesso››.
‹‹Non ti farò entrare››.
‹‹Ma se non ti alzi da quel letto››.
‹‹Dirò ad Agostino di non aprire la porta››.
‹‹Ma se non parli con tuo figlio.›› E stavolta l’uomo non gli rispose mentre Montino si chiudeva la porta dietro le spalle. L’uomo sospirò e si accorse del bambino. I capelli che gli erano ricresciuti, osservarlo esitante. ‹‹Non lo sentivo parlare da tanto.›› Disse con gli occhioni grandi.
‹‹Non abbiamo parlato. Quello non è parlare››.
‹‹Vorrei almeno provare anch’io a fare qualcosa per lui. Ma non so cosa. Ogni volta ho paura che...›› La voce gli si spezzò e inghiottì tutto quello che voleva dire. Se lo avesse fatto sentiva che sarebbe scoppiato in lacrime e non si sarebbe più fermato. L’anziano signore dovette reprimere l’istinto di posargli una mano sul capo. Non era da lui essere così compassionevole, lui, che per scelta era dovuto diventare forte. Anche quel bambino avrebbe dovuto diventarlo. Ma sentiva avvicinarsi la propria fine ancora più di prima. E se mai aveva nutrito l’illusione di recuperare la vecchia amicizia con Guido, allora si sbagliava. Il Guido che si ricordava ormai non esisteva più. Al suo posto c’era un uomo divorato dal dolore. Un uomo che lui non conosceva. Ma forse quel ragazzino di undici anni che gli stava davanti poteva ancora fare qualcosa. ‹‹Tuo padre ha perso la bussola.›› Disse soltanto. ‹‹Se c’è un modo per salvarlo io non lo conosco. Ma forse tu sì››.
Il ragazzino batté le palpebre sorpreso: ‹‹Io?›› S’indicò il petto con mano tremante. In qualche modo gi ricordò la conversione di Paolo. Come se gli avesse rivelato chissà quale disegno divino. O lo avesse insignito di una missione di chissà quale importanza. ‹‹Sì. Tu››. ‹‹Come, signore? Come posso essere io?››
‹‹Non lo so. Tu lo conosci bene. Forse meglio di me. Forse ci riuscirai››.
Si aspettò che il ragazzino dicesse qualcos’altro ma non successe. Meglio così. Non avrebbe saputo che dirgli.
L’undicenne si fece pensieroso e, quando il visitatore gli disse di scortarlo alla porta obbedì senza dire una parola. Una volta fuori di lì si strinse nel pastrano e si avviò a casa, pregando Dio che quel ragazzino riuscisse davvero a salvarlo.

Agostino richiuse la porta, ancora turbato. Il tono serio in cui glielo aveva detto sembrava lo stesso che immaginava usasse il Messia per rivolgersi ai propri seguaci. Il cuore gli batteva in modo anomalo. Si sentiva come se a parlare attraverso Montino fosse stato Dio in persona. Bè, se esisteva un modo per - non dico salvarlo, Agostino si sentiva troppo piccolo e impotente per tentare una simile impresa - ma riportarlo da lui, allora l’avrebbe trovato. ‹‹Io lo troverò.›› Disse e nel silenzio di quella stanza, rotto soltanto dallo scoppiettare del fuoco acceso, quelle tre parole parvero un giuramento solenne. Solenne quanto le promesse dei cavalieri che tanto ammirava.


*Nota dell'autrice
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=1540526789374491&set=pcb.1540527116041125&type=3&theater Così ho immaginato Agostino

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: Primavera per davvero ***


Capitolo 5: Primavera per davvero

L
e parole di Montino ronzarono ancora per molto tempo nella testa di Agostino. A tal punto che fece un sogno dove si vedeva cavaliere e salvava un re, stranamente simile al padre, dalle grinfie di un diavolo. E poi sognò la mamma correre divertita per un bellissimo giardino fiorito. Al risveglio, mentre puliva la casa, si era interrogato a lungo sul significato di quel sogno. Ma solo due settimane dopo era riuscito a capire. Si era consultato dapprima con Montino, ma non aveva ricavato granché. Poi con il dottore, che aveva prescritto al genitore un intruglio per calmarne gli umori. Intruglio che Guido si era categoricamente rifiutato di ingoiare. E poi con il sacerdote. Il quale gli aveva cavato qualche salmo e versetto della Bibbia e un rimprovero per suo padre per aver trascurato la messa. Secondo lui il Signore era adirato perché Guido anteponeva il proprio dolore all’amore per Dio. Questo spaventò il dodicenne, che si affrettò a recitare quante più corone di rosari possibili per scongiurare ogni possibile calamità. Non voleva che per questo Gesù additasse suo padre come un peccatore di superbia e lo condannasse all’Inferno. Per i primi tempi parve funzionare perché a volte Guido si alzava dal letto, si lavava, indossava abiti puliti, andava dal barbiere a rasarsi e andava fischiettando al lavoro. Ma questo stato durava per circa una settimana o due, perciò non c’era da fidarsi di questi moti d’allegria. Il genitore si accorse anche della nuova abitudine del figlio di pregare. E cominciò a prenderlo scherzosamente in giro. «Ma che ci vai a fare in chiesa a pregare continuamente? Ma che peccati credi di avere? Guarda che Dio non è mica un tintore, non ti ridarà mai il colore di prima». Era in quei momenti che Agostino era più felice perché gli pareva che il genitore fosse tornato da lui. Ma gli bastava aprire la cassapanca dove teneva i propri vestiti con quelli della defunta moglie per ripiombare nella depressione. Allora non era difficile vederlo in ginocchio, le spalle scosse dal pianto, e un vecchio abito che sapeva ancora un po’di lei, stretto al petto. E allora le speranze del giovane si frantumavano in una nuova sequela di suppliche. In un certo senso era come se fosse a lutto due volte. Il sacerdote avrebbe detto che l’influenza del Maligno era forte in lui. Ma Agostino non vedeva alcun Maligno. Al suo posto vedeva soltanto un uomo distrutto dal dolore che cercava con fatica di rimettersi in piedi. E allora il letto lo attirava di nuovo a sé. Ma verso maggio, all’ennesimo padre nostro e ave Maria, cominciò a sentirsi cretino. Suo padre era lì a marcire in un letto e le preghiere non avrebbero certo giovato a tirarlo fuori. Inoltre gli aveva detto che sarebbe andato al mercato. Non a perdere la sua giornata in chiesa. Provò un segreto moto di dispiacere per il Padre Eterno - se lo sentiva allora sì che sarebbero stati guai - ma non era così che avrebbe salvato il genitore. Avrebbe dovuto trovare un altro modo.
In quel momento gli venne fame, perciò si cucinò qualcosa da mangiare. Fortuna che aveva fatto la spesa poco tempo fa. Ma i soldi stavano finendo. Se suo padre non avesse ripreso presto a lavorare avrebbero potuto campare e permettersi la casa ancora per poco. Certo, anche lui era alle dipendenze di Montino, ma chi gli garantiva che suo padre non avesse tentato il suicidio se si fosse allontanato troppo? Già era lontanissimo da lui, come se in qualche modo stesse cercando di raggiungere l’adorata moglie ma al tempo stesso non volesse ancora distaccarsi dalla vita. Al pensiero gli si riempirono gli occhi di lacrime.
E fu allora che, ripensando a quel sogno che non aveva ancora dimenticato, che gli venne un’idea. Finora si era concentrato solo sulla parte mistico religiosa. Ma la mamma che correva divertita per il giardino fiorito? E se la soluzione fosse stata proprio quella? Lanciò un’occhiata fuori della finestra al piccolo appezzamento di terra che faceva loro da giardino. Era ridotto davvero male da quando l’avevano abbandonato a se stesso. Inutile girarci intorno, stava rapidamente andando in malora.
Ma la visuale dalla tavola da pranzo non era delle migliori. Perciò si alzò e raggiunse il davanzale e lo vide in tutta la non curanza in cui era caduto. E fu lì che vide la figura sempre più trasparente e piangente della mamma, che gli indicò il giardino, come a domandargli: «Perché?» Il dodicenne sgranò gli occhi: «Mamma! Aspetta, non…» Disse tendendo il braccio verso di lei come a fermarla. Poi si accorse che lì non c’era nessuno. E, battendo le palpebre, si ritrovò a guardare il giardino incolto.
Finora si era concentrato su quello che c’era da fare, ma non su quello che avrebbero voluto i suoi genitori. Dopotutto l’amore per i giardini e la cura delle piante era il filo conduttore che univa lui alla sua famiglia. Ma sarebbe stato saggio ripercorrerlo? Si domandò mentre tornava a sedersi alla tavola. Voglio dire, avrebbe potuto ridestare altri ricordi talmente belli da procurargli ancora più dolore di quello che già provava. Ma la mamma non avrebbe mai voluto vederli ridotti a quel modo. Però non poteva chiedere questo a suo padre. Non era il momento. Avrebbe dovuto pensarci da sé, così gli avrebbe fatto una sorpresa. Non c’era altra scelta. Si sarebbe preso cura lui del giardino. Animato da questa speranza si mise al lavoro quello stesso pomeriggio appena finito di mangiare. Lo ripulì dalle foglie secche e dalle erbacce e, frugando in magazzino prese un sacco di semi che seminò e piantò nuove piantine che sarebbero dovute sbocciare a metà giugno. Inoltre prese delle talee rimaste dal lavoro e le piantò nel loro piccolo appezzamento. Comprò anche dei gerani che mise nei vasi appesi ai davanzali delle finestre e dei bellissimi convolvoli viola e bianchi.
Nei primi due mesi estivi che passarono, Agostino ce la mise tutta per salvare il giardino. Ma non ci fu niente da fare. Il giardino opponeva una fiera resistenza e lui non aveva tutte le conoscenze necessarie per domare quel selvatico appezzamento di terra. In breve tempo la gramigna e altre erbacce erano proliferate senza che lui se ne fosse accorto. Ed erano diventate talmente alte da sommergere e uccidere le altre piantine che aveva piantato e seminato e tentato di curare fino ad allora.
Quel giorno a fine luglio, stava lavorando cercando di fugare il sogno dove la mamma gli indicava il giardino e scuoteva il capo mestamente prima di sparire. Significava che non era riuscito nel suo intento. Era quasi agosto e lui non era riuscito a curare il giardino come facevano suo padre e sua madre. Vedendo quel piccolissimo appezzamento di terra ridotto a quel modo dalle sue mani inesperte, si sentì un incapace. Eppure nelle coltivazioni di Montino quelle stesse mani compivano miracoli. Perché lì no?
Il ragazzino, stanco e disperato, cadde in ginocchio e scoppiò in un pianto, disperato. Stava ancora piangendo quando proprio allora sentì una profonda voce roca alle sue spalle: «Che sta succedendo?» Il bambino sobbalzò e si volse stupefatto verso chi aveva parlato. Era suo padre, incorniciato sulla soglia di casa che lo guardava preoccupato. «Perché piangi?» Gli domandò l’uomo coi vestiti stropicciati. Curiosamente quel giorno indossava gli abiti da lavoro, invece che la solita camicia da notte. Il ragazzino gli si gettò addosso facendolo vacillare per lo slancio. Se Guido non si fosse retto alla porta con la mano sarebbero certamente caduti. Il bambino, che ormai gli arrivava al petto, frignò scuse su scuse. «Il giardino della mamma. Non…Io…Non sono riuscito a…Mi dispiace».
L’uomo ritrovò un po’d’equilibrio e sorrise intenerito. Poi lo strinse a sé. «Non è così che si cura un giardino. Non ti preoccupare, è tutto a posto. È tutto a posto. Ti insegnerò io a prenderti cura delle piante. Eh? Che ne dici? Riprenderemo le lezioni. Così la mamma ti guarderà e sorriderà da lassù.» Gli promise. Il bambino - perché per Guido era ancora un bambino - alzò il viso lacrimoso su di lui e tirò su col naso. «Davvero?»
«Certo. Però non sarà mai felice se continuerai a piangere. Su, pulisciti la faccia, mangiamo qualcosa e mettiamoci al lavoro».
«Va bene!» Esclamò il bambino, animato da una nuova luce di speranza, incredulità e felicità. E di lì, piano piano, il padre parve tornare alla vita. Era come se le lacrime di Agostino avessero smosso qualcosa dentro di lui e gli avessero dato la forza di lottare. Nonché una nuova ragione per sopravvivere. O meglio, vivere. Se prima viveva solo per le piante e la sua famiglia, adesso più di ogni altra cosa, viveva per Agostino. Come se le parole di Montino avessero alla fine fatto effetto. Mantenne la promessa e non si lasciò mai più andare a quella depressione così nera. Certo, soffriva ancora per la perdita della moglie. Ma lei non avrebbe mai voluto vederlo così triste. Nel giro di un anno l’ormai tredicenne Agostino, fu in grado di affiancare pienamente il genitore nel suo lavoro. Anzi, si poteva quasi dire che l’avesse superato. Ma né Montino né Guido glielo dissero mai per evitare di farlo inorgoglire troppo. L’unico che ebbe un po’di coraggio per farlo inorgoglire fu il prete che gli chiese di curare lui i fiori della chiesa. Che li coltivava direttamente nel campetto adiacente alla struttura. Per questo se ne poté occupare tranquillamente Agostino. Meglio i fiori che pensare a quello che il genitore avrebbe potuto fare in compagnia di quelle donne. Ovviamente era cresciuto e con l’età stavano cominciando a sopraggiungere anche le fantasie e le voglie legate all’adolescenza. Ed era bene distrarsi un po’ a questo modo. Ma guai a parlarne con il sacerdote. Non pensava che fosse la persona più adatta per parlarne. Perciò con lui si limitava a parlare di piante e del tempo e raccogliere qualche pettegolezzo sul paese. Ovviamente aveva ricominciato a uscire con gli amici. Perciò non era raro vederlo a giro nei giorni in cui non lavorava o nei momenti di pausa.
Ovviamente Montino si era accorto delle signore che ronzavano attorno all'amico. Spesso e volentieri lo punzecchiava e lo incoraggiava a lasciarsi andare. Ma per quanto riguardava il prendere moglie, questo era un argomento ancora troppo spinoso. Era stato Montino a sollevarlo, un giorno che i tre stavano cenando insieme a casa dell’amico. In quell’anno Montino era dimagrito. Aveva perso peso. Quasi che anche lui avesse subito un lutto. In realtà si era preso una febbre estiva. Niente di grave. Era che Montino non aveva mai sopportato il clima del lago. E non per la prima volta, Agostino si ritrovò a pensare che Montino fosse una persona tutta strana. Ma se non altro, suo padre pareva dare lievi segni di miglioramento. E di questo anche l’amico pareva esserne felice.
Padre e figlio erano talmente felici che commisero lo sbaglio di insegnare l’arte di curare le piante ai loro nuovi compaesani. E alcune gentildame formularono addirittura qualche pensiero su di lui. Ma solo le più audaci ebbero il coraggio di avvicinarsi al giardiniere e osare parlarci, per rispetto del suo lutto. Ovviamente la voce si era sparsa in quei due anni. Ma anche se erano attratte dal padre di Agostino, avrebbero atteso pazientemente il periodo di lutto. Non furono dello stesso avviso alcuni genitori di costoro che proposero al vedovo la loro figlia in seconde nozze. Invece, le popolane di ceto medio basso erano le più audaci e si mossero esse stesse verso di lui. E anche se Guido era visibilmente turbato e colpito dall’audacia di quelle dame, ringraziò sempre con un sorriso e una cortesia che lo resero non troppo dissimile da quei cavalieri dei poemi cortesi dei trovatori della sua terra.
Un giorno, mentre lavoravano ai campi di Montino, Agostino si mise a canticchiare quelle strofe che aveva sentito pochi anni prima in riva al lago, nel tentativo di ricostruirle.
«Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Non le trovo, dimmi dove le ho lasciate.
Se le hai viste dimmelo, che sono in ritardo.
Non posso andare a piedi nudi, mi vergogno troppo».

Era un gioco che aveva cominciato a fare da poco. Ovviamente col tempo l’amore per le piante non era certo diminuito, nonostante la fatica. Adesso anche le sue mani erano piene di calli e vesciche per il lavoro. Alla fine si era ricreduto, non c’era niente di divertente nello zappare o arare un campo. Solo molta fatica. E dire che pensava di essere allenato, con tutte le piante che aveva aiutato a piantare nel corso degli anni. Non avrebbe potuto sbagliarsi più di così.
In quel momento Guido gemette di dolore e Agostino si volse e vide il genitore succhiarsi il dito. Si era tagliato con la falce. «Tutto bene, papà?»
«Sì, tranquillo».
«Ti sei fatto male?»
«E’ solo un taglietto, passerà. Con un po’di saliva passa tutto.» Lo rassicurò l’uomo succhiando e spuntando il sangue.
«Vallo a cauterizzare, papà».
«Sì, sì, ora ci vado. Ci pensi tu alle rose e ai gigli, Agostino?»
«Sì, ma tu vacci».
«Ricordi quello che ti ho insegnato su come si curano?»
«Sì, sì, mi ricordo.» Rispose il ragazzino roteando gli occhi di nascosto dal genitore.
«Allora vado».
«Vai».
Così si era occupato da solo delle piante. Si deterse il sudore dalla fronte e piantò le nuove talee canticchiando tra sé e sè. Ma ci rinunciò non solo perché aveva una pessima intonazione, ma non riusciva a coordinarsi con i movimenti. Fortuna che lavoravano sempre nelle ore più fresche, altrimenti avrebbero cotto se stessi e le piante.
Quell’estate Montino dette segno di sentirsi male. Ma fu a settembre che Guido lo sostituì come malato nel letto. Si era buscato un malanno che, col passare dei mesi non fece che peggiorare. Così, a causa di ciò, pochissime irriducibili restarono al suo capezzale a vegliarlo.
E poi, neanche loro quando, nel giro di un mese cominciò a tossire sangue e si rese necessario un ulteriore intervento del dottore. Per Agostino fu in incubo ancora peggiore, perché adesso che cominciava ad essere grandicello, poté assaporare la gravità della situazione con rinnovata mestizia e nuova consapevolezza.
Infatti quel malanno non era casuale. Suo padre si era beccato un’infezione disinfettando male una ferita che si era procurato un giorno al lavoro. Il ragazzino la ricollegò immediatamente a quel giorno in cui aveva cantato. Quando Agostino l’aveva saputo, mentre l’aiutava a lavarsi, quei pochi bagni mensili, lo aveva guardato malissimo. Il genitore si era scusato dicendo che gli era successo tante volte di farsi un taglietto. Ma che non avrebbe mai pensato che la sua morte sarebbe giunta per mano di un taglietto. «Non dire così, papà».
Il genitore mollava un colpo di tosse, poi girava la testa verso il figlio e con una mano gli tirava una guancia dicendogli: «Tranquillo, sto scherzando. Certo che non ho intenzione di andarmene così rapidamente, mica posso lasciarti così da solo.» Ed era così sincero e sorridente che Agostino ci credeva sempre. Anche se Guido aveva quarantaquattro anni non era ancora così vecchio. Nonostante presentisse già i segni dell’età.
Montino si recò spesso a far visita all’amico. Come un padre che visita il capezzale del proprio figlioletto malato.
«Non dovresti essere qui.» Lo rimbrottava l’amico allettato. Ma il suo rimprovero era talmente debole, e lui era talmente malato, che più che un rimprovero pareva un delirio. Infatti, spesso, a causa delle febbri, delirava. Neanche le cure allora conosciute sembravano bastare a curarlo.
«Ma ci sono».
«Lo so».
«Cos’hai, amico mio?» Chiese Guido scrutando il volto triste e smunto dell’amico. «E’ vero che deliro ma non che sono cieco.» Ci tenne a sottolineare prima che l’altro potesse dire altro.
«E’che mi sto chiedendo se ti riprenderai».
«La porta è chiusa?» Montino si volse a guardarla e poi annuì.
«Da un’altra mandata che non mi fido.» Fece Guido. E l’amico eseguì. Non era sciocco. Infatti Agostino era al di là della porta con un bicchiere incollato alle assi di legno per origliare meglio.
«Bene, non voglio che qualcuno ci senta».
«E chi vuoi che ti senta? Siamo praticamente barricati in questa stanza.» Scherzò amaro l’altro. Poi tacque e anche Guido non disse più niente. Forse si era addormentato. Eppure Agostino ebbe l’impressione che il genitore si stesse riferendo a lui e qualcosa gli disse che anche Montino l’aveva capito. Si domandò se sapessero che era lì fuori. Ma non ebbe occasione di sentire nient’altro perché le due volpi parlarono a bassa voce. Soffocò un’imprecazione e si diresse dabbasso. Non seppe mai che cosa si fossero detti i due uomini. Né Guido nei suoi deliri ne fece parola, e neanche Montino.
Pochi mesi dopo, nel cuore dell’inverno, Guido fece venire il notaio a casa propria. Mandò proprio Agostino a cercarlo. E fu allora che Agostino capì che il genitore aveva compreso che non avrebbe superato l’inverno. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Perché, Signore? Perché?» Domandò mandando giù numerosi improperi diretti all’Altissimo, mentre avvolgendosi nel mantello e nella giacca pesante si recò dal notaio.
Quando lo raggiunse al suo studio e lo pregò di recarsi a casa propria l’uomo obbedì, incuriosito. Era forse uno dei pochi di Sirmione e dintorni a non aver mai conosciuto i Monselice. Ma aveva sentito parlare della loro abilità nella cura dei giardini. «Una mia nuora si è fatta curare le piante da voi».
«Quale, signore? Quella con gli agavi in giardino?»
«Proprio lei. Non pensavo che te la ricordassi.» Fece ammirato l’uomo mentre lo seguiva. La cartella con gli attrezzi del mestiere sotto braccio. In realtà Agostino non se la ricordava neanche. E a Sirmione non era sicuramente l’unica ad avere gli agavi in giardino. A dirla tutta aveva tirato a indovinare.
Poi non si dissero più niente, anche se Agostino avrebbe voluto. Lo accompagnò fino alla camera del genitore, che aveva finito di mangiare da poco e ora stava seduto appoggiato ai numerosi cuscini. La luce della candela ne illuminava i tratti scarni. L’infezione lo aveva ridotto davvero male. Agostino lasciò solo i due uomini. Ciò che restò della sua vita, l’uomo lo passò tra il dottore, che cercò di fare quanto era in suo potere per salvarlo, e il notaio, che redasse il suo testamento.
Tempo dopo anche il padre passò a miglior vita.
Quel giorno era Natale. E Agostino pianse come non ebbe mai pianto in vita propria. Adesso era davvero solo.
Sulle prime lo odiò per averlo lasciato da solo. E a niente valsero le parole di conforto che ricevette. La verità era che era solo. E stavolta per davvero. Avrebbe voluto persino gridarlo in faccia al prete che fece una bellissima omelia per il defunto. Ma non ne ebbe il cuore. Dopotutto quello era il suo padre confessore. E accanto a lui, sulla panca, c’era Montino. L’uomo aveva cercato di offrirgli conforto, spingendo affinché per qualche tempo si trasferisse a casa sua, ma il tredicenne non aveva voluto. Così era rimasto nella sua vecchia casa. Adesso che anche papà lo aveva lasciato quella casa gli sembrava più vuota e spoglia. Cominciò ad avercela con Dio per avergli portato via così la sua famiglia. Poi ce la ebbe con la mamma per averli lasciati soli. Se lei non fosse mai morta anche papà non sarebbe mai morto. Aveva resistito finché aveva potuto, ma evidentemente amava troppo la consorte per restare attaccato alla vita. E adesso cosa gli restava? Tasse, una casa vuota, ricordi, il lavoro che avrebbe ripreso a primavera. Ma sarebbe bastato per permettergli di sopravvivere?
In quei giorni era stato Montino a occuparsi di lui e badare che non cadesse nella depressione più nera. Ed era grazie a lui se, a tre settimane dall’inizio dell’anno, era ancora vivo e con un minimo di cervello ancora sano in zucca. Non avrebbe mai permesso a se stesso di soffrire così tanto come suo padre. Non voleva passare dei mesi interi a crogiolarsi nel proprio dolore e chiudere fuori il mondo. Stava ancora arrovellandosi con queste domande, nel tentativo di distrarsi dal dolore quando un giorno bussarono alla porta. Ormai si era abituato alle visite giornaliere di Montino, che gli teneva compagnia tutto il tempo del pomeriggio, davanti al fuoco. Quel giorno aveva anche spazzato, perciò il vecchietto non avrebbe starnutito. Né si sarebbe lamentato dell’eccessiva incuria. Guardò l’orologio: puntuale come sempre. Andò ad aprire e sgranò gli occhi. Sulla soglia c’era sì Montino, ma dietro di lui c’era un uomo che non aveva mai visto prima. L’uomo sembrava la copia più vecchia di dieci anni di Guido da Monselice. E Agostino avrebbe pensato che suo padre era risorto dalla tomba, se non fosse stato per l’occhio cieco del visitatore che lo guardava, e le ricche vesti che si intravedevano da sotto il pastrano. «Agostino.» Esordì Montino. «Come stai?»
«Bene, Montino, non mi avevate detto che avremmo avuto ospiti, oggi».
«Infatti, quest’uomo ha fatto un lungo viaggio per venire qui e conoscerti».
«Per conoscere me?» Chiese il ragazzo scostandosi per farli entrare. I due uomini si tolsero i mantelli e le giacche pesanti e si accomodarono al tavolo vicino al fuoco. Fortuna che il fuoco aveva provveduto a scaldare la stanza a dovere. Il visitatore, intanto, non faceva che fissare Agostino. Anche quando si scaldò le mani al tepore del focolare, accanto a Montino, che si scostò un po'. Il giovane lo guardava invece un po’ a disagio, indeciso e ricambiare e sostenere quello sguardo oppure no. Perciò si concentrò sull’amico di famiglia e gli portò il latte e una fetta di torta presa dal pasticcere proprio quella mattina. Ne offrì anche all’uomo, che però chiese, invece del latte, del vino speziato. Aveva la voce simile a quella del padre. Il ragazzino, trattenendo le lacrime per il dolore e la nostalgia, glielo fece avere. Poi si servì anche per sé e si sedette davanti ai due.
«Agostino, questo è messer Etienne. È venuto fin qui da Castel Toblino, la sua tenuta, proprio per conoscerti. Messer Etienne, questo è Agostino da Monselice».
«E’ un onore conoscerti dopo tutto questo tempo, finalmente. Ma guardati, somigli tanto a tuo padre quando aveva la tua età.» Fece l’uomo, guardandolo nostalgico. Ora che Agostino ci faceva caso, anche nella voce di Etienne si sentiva l’accento francese, ma, a dispetto della voce di Guido, la sua era quasi più dolce. «Sono lusingato messere».
«Tuo padre mi ha mandato una lettera quando era malato», spiegò lo sconosciuto «mi ha chiesto di prendermi cura di te invece sua. Diceva che presto avrebbe raggiunto tua madre in Paradiso e mi ha pregato di non lasciarti da solo, visto che i tuoi nonni non sanno neanche che esisti. Non avevo notizie di Guido da anni. Avrei voluto che ci fossimo tenuti in contatto, e non riprendere a sentirci in queste circostanze». «Scusatemi, messere, voi conoscevate mio padre?»
«Sì, da quando era nato».
«Avete passato l’infanzia insieme?»
«Si potrebbe dire che l’abbia cresciuto io.» Poi lo guardò a lungo prima di dire «Agostino, ascolta, lo so che non mi conosci e ti sembrerà strano. Ma desidero che tu venga con me. Ho promesso a tuo padre che mi sarei preso cura di te qualora lui fosse venuto a mancare. E intendo farlo davvero, se Montino, il tuo tutore, me ne da il benestare, s’intende.» Disse guardando l’anziano signore. Anche se probabilmente avevano la stessa età, anche Etienne pareva figlio di Montino.
«Non è il mio tutore.» Disse Agostino quasi con asprezza. Non avevano mai avuto i soldi per permetterselo. Figuriamoci il suo padrino e la sua madrina. Quelli erano rimasti nel vecchio villaggio più a sud di lì dove vivevano prima.
L’amico di famiglia sospirò e si scusò con il nuovo venuto per la maleducazione del ragazzo. Il quale, dal canto suo, non voleva staccarsi più da lì. Quella era casa sua. Lì aveva una vita, un lavoro, una casa. E’ vero che era solo e che anche Montino un giorno sarebbe morto, ma non era impotente di fronte alle avversità della vita. «Posso cavarmela benissimo anche da solo. Non ho bisogno dell’aiuto di un perfetto sconosciuto filantropo».
«Agostino…» Intervenne Montino ma l’uomo lo fermò, sia con la voce che con una mano: «No. Lascialo stare. Ha ragione ad essere arrabbiato. Gli piombo così in casa tra capo e collo e gli dico di venire a vivere con me senza neanche essermi presentato come si deve. Scusami, era che pensavo che tuo padre ti avesse parlato di me. Ma a quanto pare mio fratello non è stato abbastanza accorto».
«Vostro fratello?» Fece stupito Agostino, guardandolo.
«Certo, Agostino. Guido da Monselice era mio fratello minore. Io sono tuo zio, Etienne da Monselice».

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Capitolo 7
*** Capitolo 6: Castel Toblino ***


Capitolo 6: Castel Toblino


S
uo zio.
Agostino lo fissò scioccato. L’uomo dall’occhio cieco ricambiò la sua occhiata. Il ragazzino si sentì in imbarazzo per il trattamento che fino a quel momento gli aveva riservato. «Mi dispiace. Vi prego di scusarmi per il mio comportamento. Sono desolato».
«Lo capisco.» Disse, ma le sue parole contrastavano con l’occhiata severa che gli lanciava. «Sei sconvolto.» Aggiunse, cercando di dire qualcos’altro. Ma per quanto si sforzasse non riusciva a trovare le parole adatte per offrirgli una consolazione più adeguata.
«Vi fermerete da qualche parte per la notte, zio?» Domandò il ragazzo. Proprio non riusciva a non dargli del tu. Né l’altro disse niente per correggerlo. Agostino si ritrovò a pensare che fosse meglio così.
«Certo. Ho fatto un lungo viaggio per giungere fino a qui e sono molto stanco. Non preoccuparti per la mia sistemazione, ho affittato una stanza alla locanda».
Il tredicenne annuì e tacque. In quel momento le campane suonarono il vespro.
«S’è fatto tardi.» Disse Montino e i due Monselice lo guardarono. «Devo recarmi a messa.» Spiegò poi guardò Agostino come a dire: vuoi accompagnarmi? Ma il ragazzino non colse l’invito. Anche Etienne si scusò con il padroncino di casa. «Devo andare. Domani dobbiamo partire, perciò stanotte raccogli le tue cose e aspettami. Verrò a prenderti verso le sette. Ci aspetta un viaggio abbastanza lungo.» Lo avvisò in tono autorevole.
Agostino s’accorse di aver distorto il viso in una smorfia di rabbia ma serrò la bocca. Urlò mentalmente tutti i suoi dinieghi e i motivi per cui sarebbe rimasto. Questa è casa mia, ho degli amici, un lavoro, c’è Montino che può aiutarmi. Ma questo pensiero non lo esternò mai. Né con le parole, e tanto meno con la forza che avrebbe voluto. Allora non si usava che un ragazzino si opponesse a questo modo a un parente. E un parente era pur sempre un parente, gli doveva il rispetto che gli si confaceva. Inoltre a quei tempi certe mancanze di rispetto venivano punite con punizioni corporali. Aveva sentito spesso gli amici lamentarsi delle botte che i genitori gli rifilavano. E lui ne era sempre stato abbastanza intimorito da non osare né disobbedire né sfidarli in tutta la sua vita.
Fece per ribattere «Ma io non ti...» quando intercettò lo sguardo di Montino. L’unico motivo per cui si limitò ad annuire fu lui. Non voleva fare una scenata di fronte a lui.
Lasciò che i due uomini si rivestissero e li accompagnò alla porta. Etienne disse ai due che alloggiava alla locanda. Poi salutò l’amico del fratello un’altra volta dopo aver gettato una lunga occhiata al nipote. Infine si decise ad annuire, impacciato, al ragazzino, voltargli le spalle e andarsene. Sembrava che conoscesse quella città come le sue tasche. «Io non voglio andarmene.» Fece Agostino in tono disperato, quando lo zio scomparve tra le vie della città. «Non voglio andare con lui, non so neanche chi è. Non so dove vuole portarmi. Non l’ho mai visto. Per favore, zio Montino, aiutami.» Non l’aveva mai chiamato così prima d’ora e il vecchio amico di famiglia sussultò. Poi lo guardò. Gli prese il viso tra le mani e disse: «Guardami.» Il ragazzino sfilò il viso. Non amava più da un pezzo questi contatti fisici, lo facevano sentire un bambino. Ma lo guardò: «Perché non posso restare con te?» Gli chiese.
«Perché non mi resta molto da vivere. Io sono vecchio, tu sei giovane, devi farti la tua vita. Tuo padre lo sapeva e, prima di morire, ha cercato di darti una sistemazione migliore.» Spiegò l’uomo.
«Ma ho fatto qualcosa di sbagliato? Ho curato male le piante?»
L’amico di famiglia scosse il capo: «No, mio caro, no.» Mormorò con voce dolce per rasserenarlo. In fondo era ancora un bambino sperduto in questo grande mondo, in cerca di rassicurazioni.
«Allora perché non posso restare con te?»
«Perché io non sono tuo parente».
«Ma potresti...» Non ebbe il tempo di finire la frase che l’anziano signore lo anticipò: «No. Guido non ha voluto» ma nel suo tono al ragazzino parve di leggere un accenno di bugia «Ha scomodato suo fratello apposta per te. Non puoi mandarlo via così. Sono le ultime volontà di tuo padre. Non pensi che gli causeresti un grande dispiacere se tu rifiutassi di andare con lui? Dammi retta, è meglio così, e poi io non posso mantenerti in eterno. Ultimamente ce la faccio a malapena a mantenere me stesso.» Pose le sue mani coperte dai guanti sulle spalle. Si era sparsa la voce che l’azienda di Montino fosse in crisi, ma, fino a quel momento, Agostino non ci aveva mai voluto credere. Però quando chiese perché non gliel’avesse detto, il suo interlocutore distolse per un attimo lo sguardo. Poi, quando lo guardò di nuovo, disse: «Non è rimasto niente. Nemmeno i bulbi. Sono stato costretto a mandare via molti miei sinceri e affezionati lavoratori. E credimi, vorrei tanto non doverlo fare, ma anche tu devi andare via. Devi cercare fortuna altrove. Qui a Sirmione non c’è niente per te».
Agostino lo osservava coi suoi occhi verdi sgranati: «Non puoi dire sul serio.» Mormorò.
«Credimi, vorrei non dirlo...» Ma s’interruppe guardando quelle iridi verdi scure piene di spavento.
«Quindi domani devo andare via.» Ma lo disse con lo stesso tono di una persona che domanda: quindi mi hai venduto al miglior offerente. «Sì».
«Perché proprio domani? Perché non può farmi aspettare qualche giorno?»
«Perché è un uomo molto impegnato. Capisce che stai male, lo capisce bene, dopotutto era suo fratello...»
«Non parlare di mio padre a quel modo!» Sbottò Agostino. «Ho capito! Ho capito quello che mi vuoi dire! D’accordo! Sono solo un peso, me ne vado!»
«No, aspetta, Agosti...» Ma non fece in tempo a dire altro che il ragazzino aveva sbattuto la porta. Montino provò a bussare e richiamarlo ma si arrese quasi subito e se ne andò.
Il ragazzino si appoggiò alla porta scaldandosi le mani come meglio poté. In quei pochi minuti passati là fuori non si era neanche accorto della gelida morsa dell’inverno. Ma ora che era di nuovo in casa la sentiva tutta. Doveva riscaldarla di nuovo per l’ultima volta.
Il cuore gli batteva forte in petto per la rabbia, ma per la prima volta gli occhi erano aridi e senza lacrime, nonostante l’intensità delle sue emozioni. La rabbia soprattutto, ma anche la sensazione di tradimento. Questi sentimenti dentro di lui non erano dissimili da un fuoco ardente che avrebbe voluto sprigionare per distruggere il mondo. Ma non poteva, perciò si limitava a logorarsi e imprecare sonoramente contro le ingiustizie che gli erano capitate. Prima la ragazzina-strega che aveva salvato, poi la chiazza bianca sulla sua chioma, il trasferimento, la morte della mamma, quella di suo padre e ora lo sfratto e un altro trasferimento. Avrebbe mai trovato un luogo dove piantare radici ed essere felice una volta per tutte?
Quando ebbe ritrovato un po’di serenità si accostò di nuovo alle fiamme e le ravvivò gettandoci qualche ciocco.
Si cucinò la cena e mangiò da solo dopo aver detto la preghiera di rito. Mentre mangiava e borbottava imprecazioni con se stesso, pensò a cosa avrebbe potuto fare il giorno dopo. Avrebbe anche potuto non aprire la porta, avrebbe potuto scacciarlo. Ma Montino era stato chiaro. E poi chissà cosa diavolo aveva combinato alle loro spalle tutto quel tempo. Chi poteva sapere che costui non avesse venduto la casa a qualcun altro, nel frattempo? Dopotutto quella casa apparteneva a lui. Il ragazzino e la sua famiglia erano stati dei semplici ospiti. No. Decise. Non mi sposterò. Invece con sua grande sorpresa, una volta finito di mangiare e pulito i piatti e le pentole, si mise a fare i bagagli. Riempì un intero baule, meravigliandosi che la sua vita potesse entrare tutta in un cassone.
Poi, una volta pronto, decise di avventurarsi anche nella stanza che fino a pochi mesi prima era appartenuta a suo padre. Essendo una famiglia con un reddito decente, tecnicamente non avevano più né bisogno di dormire sulla paglia, ma in letti veri e senza per forza doverle condividerla. Era stata una tortura per lui, all’inizio, che era abituato a dormire assieme ai genitori. Ma in quei due anni si era abituato. Ma non era niente in confronto alla paura che provava in quel momento. Non apriva quella porta da quando era morto. Chissà come si era ridotta quella stanza. Alzò una mano per posarla sulla maniglia ma all’ultimo la ritrasse.
Il coraggio gli era venuto meno. Perciò se ne andò, con la faccia distorta in una smorfia di pianto. Si preparò per la notte e si coricò facendosi come promemoria di mettere in valigia anche le coperte. Alla fine però non resistette più e scoppiò a piangere.
Quando si svegliò al suono del mattutino, il ragazzo si stropicciò gli occhi come un bambino e si alzò. Poi scese in salotto. Prese la teiera sulla brace ardente che aveva lasciato lì da quando era andato a dormire e la portò di sopra dove si riempì una bacinella e la usò per lavarsi. Poi si vestì, fece colazione e si mise a fare le valige. E poi attese. Etienne gli aveva detto che sarebbe giunto a prenderlo di lì a poco. Ma erano già passate delle ore e il campanile segnava già le nove. Magari chissà, si era scordato di lui. Montino gli aveva parlato e se ne era andato. Poi, proprio mentre ci stava sperando con tutto se stesso, ecco arrivare una carrozza. Una di quelle da nobili, cioè chiusa. Non era esattamente un esperto di carrozze, ma quella veronese, ossia una carretta chiusa con un’unica cassa appoggiata sull’asse, recava stendardi nobiliari che non riconobbe. Però, nonostante l’inusuale mezzo di trasporto che si trovò davanti, si accorse che era piuttosto disadorna, rispetto a come le immaginava. Ma sicuramente non poteva essere suo zio, sicuramente era qualcuno che si era perso. Ma restò stupefatto quando quella si fermò davanti a lui. Ancor di più quando il cocchiere fermò il cavallo e si volse verso la carrozza. Ne scese subito lo zio di Agostino. «Spero di non averti fatto aspettare troppo» Si scusò. Poi fece le presentazioni: «Armando, questo è Agostino, Agostino questo è Armando.» L’uomo seduto a cassetta inclinò il capo e salutò il ragazzo con un sorriso. «Verrà a vivere con noi».
Il ragazzino pensò: Forse era questo che intendeva Montino quando mi ha detto che poteva offrirmi un futuro. Già osservava la carrozza stupefatto, non immaginava che lo zio sarebbe arrivato da lui con addirittura una carrozza. «Su, carica le tue cose nella cassa e andiamo.» Ordinò spiccio lo zio. Il ragazzino eseguì, ma i bagagli più piccoli poté tenerli con sè nella carrozza.
Il viaggio fu diverso rispetto alla volta scorsa. Non strano, non difficoltoso, solo diverso. Per prima cosa si accorse che lo zio non era un tipo loquace. Dalle poche domande che faceva e dalle molte risposte che elargiva a una domanda sola, poteva sembrare il contrario. Ma dopo averti detto tutto, lui era capace di sprofondare in un silenzio di tomba. Il modo migliore per togliersi di torno gli scocciatori - secondo lui - era dirgli tutto quello che volevano sapere e poi lavarsene le mani. E forse considerava il nipote allo stesso modo. Infatti durante tutto il viaggio non aprì mai bocca. Salvo per rispondere alle poche domande che lui gli fece: «Com’era mio padre da giovane?»
Lo zio lo guardò a lungo con l’unico occhio sano e poi disse: «Ti somigliava molto. Era allegro, dove andava lui tutto s’illuminava. Quando tua nonna venne a mancare e il nonno si risposò, fui io a occuparmi di lui».
«Vuoi dire che ho altri parenti oltre a voi?»
«Non saprei, la seconda moglie del nonno non riuscì mai a generare un figlio. E io non so se tuo nonno avesse delle amanti da qualche parte. Dovremmo avere dei cugini in Austria o Prussia, non ricordo bene. Li ho visti solo una volta. Tu dimmi, invece, sei nato con quella chiazza bianca o ti è venuta dopo?» Disse accennando con uno svolazzo della mano alla sua chioma che spuntava da sotto al berretto. Agostino arrossì e distolse lo sguardo, calcandoselo in testa: «Mi è venuta dopo...Un...un brutto spavento». Lo zio si appoggiò allo sportello con fare annoiato e mormorò: «Capisco.» Ma non disse nient’altro. Per un considerevole lasso di tempo non si dissero niente. Ognuno perso nei suoi pensieri. Poi Agostino disse: «Voi che lavoro fate?» Proprio non ce la faceva a dargli del tu.
«Io sono maggiordomo di palazzo di una tenuta estiva di un nobile veneziano. Ma forse questo termine è troppo antiquato. Proviamo così: sono il ciambellano di un nobile veneziano.» Rispose lo zio senza guardarlo. Suo padre una volta glielo aveva accennato, quando Agostino, da piccolo, gli aveva posto qualche domanda. Chi veniva investito dell'incarico assumeva un potere pari quasi a quello del proprio signore: ne era il consigliere personale, assisteva alle udienze, ne svolgeva le veci in caso di assenza, di malattia, o di morte - in attesa dell'investitura del successore. Grazie a questa grande libertà di azione, con l'andare del tempo i maggiordomi assunsero un potere via via crescente, sia in ambito politico sia amministrativo, arrivando a occuparsi, in vece del sovrano, di tutte le attività politiche e militari, fino in alcuni casi a sostituire lo stesso Re. O nobile, in questo caso. Al momento i suoi datori di lavoro erano impegnati a Venezia e quindi avevano delegato a lui il compito di occuparsi di tutto. Agostino non immaginava che lo zio ricoprisse una carica tanto elevata e prestigiosa. Non riuscì a togliersi dalla faccia un’espressione ammirata. Normalmente il ragazzino sarebbe stato un tipo curioso, eppure con quel parente da poco conosciuto, non provava quella stessa curiosità che lo portava a fare amicizia. E poi non gli sembrava che fosse granché socievole. Ma forse era solo timidezza. Dopotutto cosa si dice a un parente mai visto e conosciuto?
«E quanto dista da qui a là?»
«Pochi giorni. Montino mi ha detto che hai quattordici anni».
«Li compio quest’estate».
Agostino annuì e poi non si dissero più niente. Si fermarono soltanto la notte in qualche locanda e poi ripartirono. Soltanto una sera la loro quiete fu quasi minacciata, e cioè quella che dovettero sostare a Bologna per ripararsi da un nubifragio. Presero in affitto due stanze in una locanda del loco. In realtà non era strettamente necessario che passassero da quella città, ma era una delle strade più sicure che avessero potuto percorrere. Non che i pericoli non esistessero anche altrove, ma quella era una delle più controllate e sicure. Al momento della separazione, Etienne da Monselice disse ad Agostino che Giacomo, così si chiamava il cocchiere, avrebbe fatto la guardia. L’uomo, infatti, si era appostato su una sedia tra le due porte delle camere e aveva annuito.
Agostino restò tutto il tempo alla finestra della sua stanza. Invece lo zio ne approfittò per schiacciare un pisolino e scendere a bere qualcosa di caldo, una volta sveglio. Quella pioggia era così fitta e violenta, e il clima così freddo, che i due viaggiatori non si recarono nemmeno in chiesa per la messa. Ma al ragazzino non dispiacque più di tanto.
Quando il tempo si fu un poco placato, Etienne bussò alla sua porta. Quando il ragazzino gli aprì, gli annunciò di dover recarsi al mercato per comprare delle merci che servivano al castello. E gli domandò se avesse voluto accompagnarlo. Agostino alzò le spalle e disse: «Non vedo perché no. In fondo non ho mai visto questa città».
E quando un uomo di malaffare cercò di rapinarli, lo zio di Agostino, per tutta risposta, lo minacciò con un piccolo scoppietto, modificato, che trasse da sotto il mantello. Gli scoppietti erano la prima arma da fuoco portatile della storia dell'umanità, creata collocando un piccolo cannone o una piccola bombarda alla sommità di un'astile ligneo che permetteva allo "schioppettiere" il trasporto di questo pezzo d’artiglieria di ridotte dimensioni. E che fino a quel momento lo aveva costretto a una posizione alquanto scomoda quando viaggiavano. «Ripetete. Messere.» Fece con un tono serio e lo sguardo minaccioso: «Non ho sentito bene».
Il malvivente impallidì per la paura: «Mi dispiace di avervi importunati. Devo aver sbagliato persona. Scusate, scusate.» Fece il ladro prostrandosi più volte e arretrare prima di darsi alla fuga.
Agostino osservò sbigottito lo zio riporre l’arma e guardarlo con aria soddisfatta: «Me lo regalò un vecchio amico quando eravamo nell’esercito francese, molto tempo prima che diventassi maggiordomo. Direttamente dalla Cina. È da lì che vengono, sai? Me lo sono fatto modificare perché mi sento molto più sicuro quando ce l’ho appresso, in viaggio.» Spiegò con nonchalance, come se stesse parlando di tutto, fuorché di un’arma da fuoco. «Normalmente sarebbero lunghi due metri.» Aggiunse poi, come se non fosse chiaro, ed evidentemente non lo era, dato che il giovane non ne aveva mai visto uno. Agostino comprese, da come guardava la sua arma e che riponeva al sicuro, che lo zio amava le armi da fuoco. «Ora che ci penso, bisognerà comprare qualcosa anche a te. Immagino che tu non sia armato, dico bene? Non pretenderai mica che ti salvi la vita tutte le volte, spero.» Fece in tono piccato. «Non ci sarò sempre io a pararti il culo.» Aggiunse brusco. Eppure al ragazzino parve di scorgere una nota di preoccupazione in quelle parole. Il ragazzino annuì, arrossendo per la vergogna. «Bene, allora provvederemo anche a questo. Non ti preoccupare. Ma per adesso puoi tranquillamente appoggiarti a me. Avremo tutto il tempo che vogliamo per rimediare a questa tua lacuna».
Si recarono al mercato seguendo le indicazioni che gli vennero fornite da un carrettiere e, dopo aver acquistato la merce che gli serviva, tornarono alla locanda.
La pioggia continuò a imperversare sulle loro teste per tre giorni, rendendo loro impossibile il viaggio e ingrossando i fiumi e altri corsi d’acqua. In compenso Agostino fece uno strano sogno. Sognò di essere sott’acqua, forse stava facendo il bagno dentro a uno di questi fiumi quando a un tratto qualcosa gli nuotò affianco. Ma tutto quello che riuscì a ricordare fu una ragazza che nuotava assieme a lui. Ma di lei riusciva a scorgerne soltanto la schiena nuda. E poi l’enorme luccio che la inghiottì in un sol boccone. L’unica cosa di lei che restò fuori fu una mano candida, che venne portata via dalla corrente, sulla scia delle squame variopinte di nero, marrone, blu, indaco, viola, azzurro, verde scuro e verde germoglio del pesce che sfrecciò immediatamente via. Il ragazzino boccheggiò mentre riprendeva il contatto con la realtà. Si prese il viso tra le mani: «Era solo un sogno, uno stupidissimo sogno» Si ripeté.
Per la prima volta ebbe la sensazione di essere perseguitato. Doveva essere così, perché altrimenti non si spiegava quella sensazione che provava. Non era solo un incubo. Era come se qualcosa gli stesse dicendo che gli aspettavano giorni ancora più duri di quelli passati. Che si sarebbe cacciato nei guai. Ma non era neanche quello. Si sentiva osservato, come se in quella stanza non fosse solo. Come se il mostro del suo sogno fosse vicino e stesse per raggiungerlo. Non era che liberando quella strega si fosse addossato una maledizione? E che quella chiazza bianca nella sua chioma ne fosse la prova? Si sfregò le braccia per scaldarsi e darsi conforto. Proprio in quel momento lo zio bussò alla porta, facendolo sobbalzare: «Agostino?»
Il tredicenne sobbalzò. «Agostino?»
«Sì?»
«Io scendo a fare colazione, poi partiamo. Preparati. Agostino?» Domandò di nuovo, non udendo risposta.
«Sì, sì. Sta bene.» Rispose e attese che se ne andasse. Poi guardò fuori della finestra. Non era abituato alle finestre di vetro. Il vetro era simbolo di ricchezza, la sua vecchia casa, al massimo aveva le finestre di pergamena. Ma volgere lo sguardo oltre il vetro, per la prima volta lo trovò quasi rassicurante. Perché così poté vedere il cielo azzurro e le tortore che svolazzavano fuori della medesima. E quella visuale bastò per restituirgli il sorriso. Poi uscì dal letto.

Tempo pochi giorni erano già giunti alla mèta: il castello di Toblino. Il castello si trovava nella Valle dei Laghi. Era una bellissima valle del Trentino sud-occidentale. Appartiene al tratto più settentrionale al bacino dell’Adige, dove il tributario principale è il torrente Vela. Mentre in quello centro meridionale al bacino del Po, per tramite di corsi d’acqua secondari che si gettano nel Sarca. Sembra una valle a U asimmetrica, in parte geologicamente impostata su una sinclinale con piano assiale inclinato. Costituisce un antico alveo dell’Adige che, verso la fine del Pliocene e l’inizio del Quaternario, in corrispondenza della soglia di Terlago transitava dall’anticamente sbarrata Valle dell’Adige verso la depressione del Garda. Modificato il corso dell’Adige per cattura fluviale verso l’attuale percorso, essa è rimasta a nord quale valle relitta e sospesa, dove tra la Paganella e il monte Bondone si affaccia su Trento. Viene chiamata così per via dei numerosi laghi che vi sono. In seguito, e per tutto il Quaternario, è stata interessata da un'evoluzione poligenica venendo modellata da almeno quattro cicli di esarazione glaciale e seguente sovralluvionamento legati alle ultime glaciazioni e relativi periodi interglaciali, come testimoniato da un sistema di terrazzi sospesi riconoscibili a diverse quote.
Di particolare interesse sono le Marocche di Dro, un grandioso sistema di antiche frane postglaciali per crollo e scorrimento, l'ultima delle quali di età storica. Le Marocche di Dro costituiscono, per estensione e volume, il più imponente fenomeno di frana per crollo e scorrimento di materiale lapideo a livello europeo. La valle dei Laghi costituisce grande interesse per la varietà delle specie faunistiche e botaniche, queste ultime spazianti dall'orizzonte vegetazionale submediterraneo a quello subalpino. Meritevole di menzione il bosco delle quote più basse e attorniante i laghi principali, dove prospera il leccio, alcuni esemplari dei quali sono i più settentrionali d'Europa. La valle dei Laghi, della quale importante settore è occupato dalla valle di Cavedine (detta anche val del vent), è caratterizzata dalla regolare presenza di un vento che percorre la valle a partire dal Lago di Garda. Tale brezza, denominata “Orda del Garda”, inizia a spirare nella tarda mattinata fino al pomeriggio inoltrato.
In particolare vengono ricordati il lago di Lamar, il lago Santo, il lago di Terlago, il lago di Santa Massenza, il lago di Lagolo, il lago di Cavedine, e la loro mèta: il lago di Toblino.
Il lago di Toblino - Tobliner See in tedesco - è un piccolo lago alpino di fondovalle circondato da un rigoglioso canneto e da una vegetazione particolarmente interessante. Ma allora la zona attorno al castello, lago compreso, erano di proprietà della tenuta ed era curata con particolare attenzione. Il lago si trova in una condizione singolare, dal punto di vista climatico: mentre le montagne vicine manifestano le tipiche caratteristiche delle zone alpine, nel fondovalle l'azione del lago e le ultime propaggini del clima mite gardesano consentono lo sviluppo di specie submediterranee o addirittura, in coltivazione, di specie mediterranee. Come poté vedere il ragazzino quando scesero dalla carrozza.
Inoltre vi erano pini, lecci, salici e querce. Nella zona più bassa, gli disse lo zio per evitare che scappasse ad esplorarla, vi erano gli allori e i rosmarini, i limoni e gli olivi, ma anche i canneti, i lamineti e le ninfee. Agostino desiderò fortemente vederle, anche perché non aveva mai visto una ninfea. Invece nel lago si potevano pescare le trote e dar la caccia alle anatre, ai cigni, alle folaghe, ai germani reali. Poi c’erano anche gli usignoli di fiume, gli svassi maggiori e gli aironi cinerini. Oltre alla classica fauna prealpina. Insomma, quel posto scoppiava di vita e di bellezza. Il castello invece, venne costruito nel XII secolo. Agostino rimase sconvolto: non aveva mai visto prima un castello lacustre. Si era immaginato tante cose, durante il viaggio, ma mai e poi mai si sarebbe immaginato uno scenario più bello. Addirittura il ragazzino volle scendere per ammirarlo. Anche se era inverno, si poteva facilmente immaginare tutta la bellezza che sprigionava nella calda stagione. E fu allora che gli occhi gli si riempirono di lacrime commosse. Se i suoi genitori avessero potuto vedere quel posto, se ne sarebbero innamorati sicuramente. E lo stesso stava succedendo a lui.
Lo zio lo raggiunse proprio in quel momento e cercò di buttare lì qualche parola di conforto. Ma la verità era che non sapeva proprio come rapportarsi a quel ragazzino. Il quale, in quel momento, lo calcolava meno di zero.
Agostino tutto si aspettava fuorché quel castello. Gli alberi spogli tutto attorno suggerivano la loro rigogliosità e non era difficile immaginare le fronde splendere sotto al sole della bella stagione. La bella stagione, il periodo in cui i suoi genitori… Contrasse il viso in una smorfia di pianto ma si trattenne appena. Lo zio cercò di fare qualcosa ma proprio in quel momento passò al trotto vicino a loro un drappello di cavalieri. L’ultimo di loro, un uomo dal viso rubizzo e i capelli e la barba paglierina, tornò indietro e fermò il cavallo accanto a loro: «Tutto bene?» Domandò senza troppi preamboli. Gli occhi scuri assottigliati per il sospetto.
Etienne impallidì spaventato ma rispose: «Sì, mio signore.» E pose le mani sulle spalle del nipote, scrollandolo leggermente. Si rivolse a quest’ultimo e disse: «Agostino, per favore, smetti di piangere, va tutto bene. Non è successo niente. Su, su…» Ma il giovane non lo ascoltò e non si chetò.
«Perché piange?» Domandò accennando con il mento al giovane. Lo sguardo sempre più sospettoso.
«E’ mio nipote. Ha perso i genitori da poco, e io l’ho preso con me. Stavamo facendo una sosta perché voleva vedere il lago quando è crollato.» Spiegò il maggiordomo, preoccupato. Poi riprese a cercare di rassicurare il nipote.
Il cavaliere sgranò gli occhi. Non si aspettava certo una risposta del genere. «Condoglianze.» Fece.
«Vi ringrazio per la vostra comprensione anche a nome di mio nipote.» Poi continuò a occuparsi del ragazzino, i cui gemiti di dolore andavano piano piano attenuandosi. Il cavaliere parve arrossire ancor di più, lo salutò con un tono di voce secco e spronò il cavallo, che non era stato tranquillo tutto il tempo, a raggiungere il resto del gruppo. Etienne lo accompagnò con lo sguardo finché gli fu possibile. Poi rimproverò il nipote, ormai stufo: non era un tipo molto paziente. «Agostino! Adesso basta!» Il tredicenne smise di piangere istantaneamente per lo spavento e lo stupore. «Bravo, ora pulisciti la faccia e andiamo. Non farmi fare altre brutte figure.» Disse porgendogli un fazzoletto che tirò fuori dalla propria manica.
Il ragazzino eseguì e lo seguì di nuovo sulla carrozza, accompagnato dallo sguardo del silente Armando.
Poi il viaggio riprese e finalmente giunsero al castello. La struttura è arroccata su una piccola e protetta penisola bagnata dall'omonimo lago. La sua collocazione ha evidenti motivi di strategia difensiva che qui sfrutta sia le condizioni naturali del terreno, La forma quadrangolare del complesso trova uno dei segni di maggior interesse nel grande mastio di forma circolare, certamente la più evidente delle preesistenze medievali. L'ampia cinta che circonda l'intero complesso e il grande parco circostante la residenza aggiungono un ulteriore carattere distintivo. Fin dal 1100 il castello fu proprietà di vassalli del principe vescovo di Trento. La famiglia dei Da Campo ne entrò in possesso nel XIII secolo. E tutt’ora l’avevano affidata a quel lontano ramo veneziano della famiglia che se ne occupava.
«Bè, Agostino, benvenuto alla tua nuova casa.» Fece lo zio mentre la servitù, che nel frattempo li aveva raggiunti, li aiutava coi bagagli e a riprendersi dal viaggio. I due vennero portati in cucina e Etienne si dimostrò un buon padrone di casa perché cominciò a dispensare gli ordini e fece sì che i servi si occupassero di loro. In tutto quel via vai di persone, il maggiordomo ne approfittò per presentare il nipote al resto dei sottoposti. Ma quasi nessuno prestò subito molta attenzione a lui. Ma pazienza, col tempo si sarebbero conosciuti. Cosa che invece non andò molto giù allo zio, il quale disse, in tono vagamente irato: «Per oggi e domani non farai niente.» Ma si capiva benissimo che la sua ira non era riservata a lui. Continuò: «E’stato un lungo viaggio e sei stanco, in questi giorni ne hai passate di cotte e di crude. Ti presenterò gli altri a tempo debito. I pasti ti verranno serviti nei miei appartamenti e starai lì finché non ti verrà preparata una stanza.» Lo guardò e tacque, rendendosi conto che il nipote non lo ascoltava più. Perso ad osservare il maniero mentre entravano.
I cuochi cominciarono immediatamente a cucinare mentre altri servi andarono a preparare un bel bagno ristoratore per i due.
La giornata nel complesso si svolse come aveva detto.
La stanza dello zio era grande e ben arredata. L’arredamento era molto sobrio. Però avevano un armadio dove sicuramente lo zio ci riponeva le armi e una cassapanca di legno pregiato e finemente lavorato. Era così ben fatta che restò ad ammirarla a lungo come se si fosse trovato dinanzi a un’opera d’arte piuttosto che a una comune cassapanca. Davanti la finestra c’era un tavolo di legno massiccio con una sedia decorata e ornata dove sicuramente lo zio lavorava. Il letto lo colpì perché era matrimoniale ed emanava un odore di pulito. Eppure al castello non aveva veduto la moglie dello zio, ammesso e non concesso che ne avesse una e che avesse anche dei figli.
Invece le pareti della stanza erano adorne di pitture. Non c’era solo un quadro raffigurante la madonna posta a capo del letto. Bensì meravigliosi arazzi in stoffe di Fiandra ritraenti rispettivamente una battuta di caccia e una scena mitologica. Già gli era parsa magnifica la casa di Montino, quando, tre anni prima, si trasferirono a Sirmione, ma quella stanza da sola, la superava di gran lunga. Nella stanza però, si accorse anche della presenza di una grossa tinozza con l’occorrente per lavarsi. Appena gli occhi si posarono su di essa la porta si spalancò ed entrò una donna rubiconda e in carne, dalla faccia allegra e simpatici ricci a cavatappi. Perché la forma dei medesimi somigliavano proprio alla lama di quello strumento. «Santo Cielo.» Esclamò stupefatta appena lo vide.
Il ragazzino trasalì e la guardò incerto e confuso. Si rese conto che la signora, una domestica, recava con sé l’occorrente per il suo bagno e dei teli per asciugarsi. «Mi dispiace, madama…Mio zio ha detto che potevo stare qui, per oggi.» Cercò di giustificarsi lui, arrossendo. «Certo che puoi restare qui.» Fece quella atteggiando la bocca a una comica o. «Desideravo tanto incontrarti e ora eccoti qui.» Disse lei entrando. Posò la roba sul tavolo e gli si avvicinò. Gli prese il viso tra le mani grassocce e rovinate dal lavoro. Indossava una gamurra e un guarnello dalla linea molto simile alla cotta. I capelli lunghi e arrotolati erano bendati in due torciglioni annodati all’estremità del capo. «Cielo che gli somigliate. Pari quasi uno dei nostri figli.» Fece la donna con aria materna, continuando a sorridere. Lui la guardava sempre più confuso. «Figli?»
«Oh, che cattivo, mio marito non ti ha parlato di me? Sono Maria Patrizia, la moglie di Etienne da Monselice». Quindi quella era sua zia? Perché non gliene aveva neanche accennato? «Sei davvero un bel giovanotto, oh, quasi mi pare di vedere il bell’uomo che diventerai. Ma che hai fatto ai capelli? Perché li porti così corti?»
«Ah, eh, non mi stanno bene troppo lunghi.» Inventò, imbarazzato. La signora parve farselo bastare che poi batté le mani e lo sospinse vicino alla tinozza. «Dai, su, su, che devi farti il bagno.» Ciò detto si avvicinò alla tinozza lei stessa e ci immerse un dito dentro. Il nipote di Etienne non si era neanche accorto che la vasca da bagno era piena d’acqua: «Accidenti si è raffreddata. Vado a prendere un po’d’acqua calda in cucina. Tu intanto sistemati pure. Va bene? Torno subito.» Quasi sbatté contro la porta tanto non gli staccava più gli occhi di dosso. In pochi minuti era già tornata e rovesciava un intero secchio d’acqua calda nella tinozza. «Ecco qua. Accomodati pure.» Disse voltandosi verso di lui.
«Vi ringrazio».
«Non darmi del voi, sei in famiglia. Dammi pure del tu.» Fece la signora, allegra. Sembrava sprizzare felicità da tutti i pori.
«Ehm…Io dovrei…»
«Oh, scusami, certo, esco. Gli asciugamani sono sul letto e ti vado subito a procurarti dei vestiti.» Fece lei scattando verso la porta come una specie di marionetta che aveva visto in un teatrino durante una fiera. Rimasto solo il ragazzino si decise a fare il bagno. La zia entrò con dei vestiti della sua taglia mentre lui era ancora nella vasca. Si dimostrò più discreta e meno invadente del previsto. Si limitò a posargli i vestiti sul letto e scoccargli un sorriso. Poi si defilò.
Quando Agostino fu pronto, accese il camino e si asciugò con le sue fiamme. Infine prese gli abiti che la zia gli aveva portato. Non ne aveva mai visti di così sontuosi. Però si rivelarono anche caldi e comodi. Indossò il corto farsetto e le calze solate, che allacciò al primo, poi, sopra di essa le vesti, che era una gonnella realizzata con stoffe pregiate e decorazioni sfarzose. Avrebbe indossato anche la berretta, se avesse portato i capelli un po’più lunghi.
Passò tutto il tempo così, a scaldarsi, rimirare il paesaggio fuori della finestra - almeno quel poco che poteva vedere - e badare al fuoco. Era stato riposante, anche se da un lato si sentì molto solo. Di solito le persone erano curiose, si immaginava che qualcuno sarebbe venuto a salutarlo e fare la sua conoscenza. Ma non venne nessuno. Gli parve strano, ma poi pensò che da quelle parti fosse normale. Ne aveva già avuto un assaggio quattro anni prima.
Ma in questo caso era il nipote del ciambellano. Era impossibile che nessuno venisse a trovarlo. Per un istante sprofondò nella tristezza più assoluta. E gli tornò in mente il tradimento di Montino, il viaggio, e l’incubo che lo aveva colto a Bologna. Cercò di distrarsi più che poté e provò a frugare dappertutto per trovare un passatempo. Anche un libro sarebbe andato bene, sebbene non sapesse né leggere né scrivere. Cosa avrebbe dato per poter uscire da quella stanza… Poi si accorse della finestra e si affacciò, restando meravigliato: la bellezza del paesaggio parve ripagarlo un po’di questo silenzio angosciante e salvarlo dai suoi tormenti. In fondo - si ritrovò a considerare dopo una lunga riflessione - non era un brutto posto, avrebbe anche potuto abituarsi.
Quando il sole calò e le fiamme dipinsero di arancione la stanza, donandole un calore che il giorno non le dava, Maria Patrizia tornò. Recava con sè un vassoio di cibo come non ne aveva mai visti in tutta la sua vita. Infatti depose sul tavolo un arrosto di maiale condito con spezie e foglie d’alloro su una grossa fetta di pane. Una coppa di vino e due mele. «Mio marito ha detto che avresti mangiato qui, stasera, chissà perché».
«Forse è per via della stanchezza del viaggio.» Disse il ragazzo.
«Vuoi che ti faccia compagnia?» Propose la donna dopo che ebbe sistemato il vassoio sul tavolo. Si pulì le mani al grembiule che indossava. Ma il ragazzo stiracchiò le labbra in un sorriso e scosse il capo. «No, grazie molte, ma non è necessario».
La zia parve restarci male: «Sei sicuro?» E Agostino, paventando già un possibile rimorso nei confronti di quella parente appena conosciuta cambiò idea: «No. Per favore, resta pure, se ti va.» In fondo erano mesi che non cenava con qualcuno. La donna sorrise e si accomodò sulla sedia accanto cui prese posto il nipote ma non toccò cibo, asserendo che si era riempita a sazietà fino ad ora. Perciò lui ebbe il pasto tutto per sé. Il ragazzo ringraziò segretamente il Cielo di quella fortuna e mangiò il pasticcio di erbe e i cappelletti alla cortigiana con gusto. Quasi che non toccasse cibo da giorni. Non immaginava che la cucina fosse ancora più buona, salendo. Poi bevve il vino nella coppa. In tutto questo trionfo di papille gustative, non si accorse neanche che la zia lo fissava estasiata, quasi si beasse di lui. «Come vorrei che i tuoi cugini potessero conoscerti.» Disse a un tratto.
Il ragazzo mandò giù il vino e la guardò: «Perché non sono venuti?»
«Oh, sono rimasti giù in cucina con il resto della servitù. Pensa che Etienne ha fatto una fatica del diavolo per convincerli a restare di sotto invece che venire a tartassarti in camera.» Ridacchiò la donna e Agostino non poté non assimilarla a una perpetua. Anche se non seppe spiegarsi il perché. Ma se non altro, adesso sapeva perché nessuno era venuto a fargli visita. «Sono così vivaci?» Domandò afferrando un pezzo di pane che cominciò a usare per ripulire le scodelle.
«Molto.» Confermò la donna con una risatina che coprì portandosi la mano grassoccia alla bocca. Forse per coprire un dente marcio o mancante. Non si sarebbe stupito, per questo. «Ma tuo zio gli ha ordinato di non farlo perché stavi riposando».
«Veramente non ho dormito per niente.» Si lasciò sfuggire il giovane e lei lo guardò stupefatta.
«Oh? E allora che hai fatto tutto il tempo?»
«Niente.» Mentì. Non se la sentiva di parlare con la zia di quello che aveva fatto dopo essersi stufato di rimirare il paesaggio. Dopotutto era appena entrato nell’adolescenza vera e propria, col cavolo che le avrebbe raccontato tutte le sue manovre intime - che aveva ripulito usando ciò che restava del suo bagno - e non. Ma quello non l’avrebbe raccontato neanche ai suoi, se fossero stati vivi. «Avrei potuto dormire, ma non avevo sonno.» Buttò lì, poi. Lo stomaco gli rumoreggiò e la donna disse: «Hai ancora fame? Mi dispiace, se me lo dicevi prima avrei provveduto a portarti qualcos’altro».
«No, per stasera penso che possa andare bene così».
«Ma non hai mangiato moltissimo. Vuoi che ti porti qualcos’altro, caro?» Fece lei posandogli delicatamente una mano sulla spalla. Il giovane sussultò per via della scossa che ricevette. E lei ritrasse la mano. «Mi hai dato la scossa.» Disse ridacchiando, toccandosi la parte lesa. E anche lei ridacchiò, incerta e la mano salì a coprirle la bocca. Poi tornò seria: «Davvero, se vuoi che ti porti qualcos’altro non hai che da chiedere.» E lo disse con un tono così materno e convinto che qualcosa dentro il ragazzo si sciolse immediatamente. Si girò verso la zia con occhioni grandi e imploranti. «Posso sul serio?» Domandò, maledicendosi mentalmente per il tono da bambino che gli uscì e la faccia piena di infantile speranza che doveva avere. «Certo, il cibo non ci manca.» Sorrise la donna con fare accomodante e il nipote notò che i suoi denti erano praticamente perfetti. Perché coprirli quando rideva, allora? Ma non glielo chiese. Si limitò a domandarle: «Allora potresti portarmi una fetta di torta e una coppa di latte, per piacere?»
La signora balzò in piedi con uno scatto inaspettato, data la sua mole, batté le mani e disse: «Ma certo, vado subito a prendertele.» Ciò detto eseguì e dopo pochi minuti tornò con quanto richiesto dicendo: «Scusa se ci ho messo molto, ho fatto scaldare il latte e l’ho fatto condire con il miele. Ho fatto bene?» Disse, accigliandosi.
«Hai fatto benissimo, zia.» Sorrise il giovane, divertito e lei rilassò la sua espressione. Il tredicenne mangiò tutto di gusto e poi lasciò che la zia portasse via i vassoi coi piatti e le coppe. La donna gli augurò la buonanotte e si accomiatò con un sorrisone. Anche il nipote ricambiò. Poi si tolse i vestiti, cercò nella cassapanca una camicia da notte, la indossò e si coricò sotto le pesanti coltri invernali. E, per la prima volta, si sentì di nuovo circondato dal calore di una famiglia e molto meno solo. E, ben presto, cullato dalle sensazioni lasciategli dalla zia, si addormentò.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7: La maledizione del lago di Toblino ***


Capitolo 7: La maledizione del lago di Toblino


C
ol tempo ebbe anche modo di conoscere il resto della servitù e della sua famiglia. Come promesso dalla zia, i cinque cuginetti che un giorno incontrò in cucina a pranzo, lo tartassarono.
Ricordava che stava mangiando il proprio panunto con provatura fresca quando si ritrovò circondato. Il panunto si otteneva facendo rosolare nel burro già caldo le fette di pane, precedentemente arrostito. Poi messo su ognuna una fetta di mozzarella e grigliate. Quando il formaggio era fuso e dorato, veniva spolverato sui crostini con una miscela di zucchero e cannella tritata, spruzzati di acqua di rose e serviti ben caldi. Non che amasse particolarmente quel cibo. Però ritrovarsi quei cinque bambini allegri che a tratti somigliavano alla zia e altri lo zio, lo sconcertò. Anche perché gli erano arrivati alle spalle senza che se ne fosse minimamente accorto. Se si accorse di loro fu solo perché li sentì ridacchiare. Perciò, quando si volse e li vide, sobbalzò scatenando le loro aperte risa. I bambini in questione non erano più grandi di lui. Il maggiore avrà avuto al massimo dieci anni, mentre il più piccolo sei. Erano tutti maschi. Ma portavano la chioma lunga ed erano vestiti tutti allo stesso modo. E alcuni di loro avevano la boccuccia sdentata tipica dei bambini di quell’età. Poi il più grande prese l’iniziativa e disse, con la sua vocetta stridula: «Tu sei il cugino Agostino!» E subito gli balzò in grembo per abbracciarlo, seguito dagli altri fratellini, che fecero quasi a gara per accaparrarsi una parte del ragazzo, neanche fosse stato una fetta di pane col formaggio. Suo malgrado il ragazzo non si mosse nel timore di far loro del male. I bambini cominciarono a stropicciarlo tutto. Agostino sentì delle manine pizzicare e giocare con le sue guance, altre che gli tirarono le orecchie. Gli facevano domande cui al momento non era importante rispondere. Perché poi uno di loro cominciò a dire: «Giochi con noi?» E tutti gli altri fecero subito eco. Il poveraccio fu costretto a dire di sì.
Il resto della servitù guardava quella scena divertita. Quelle piccole pesti avevano trovato un nuovo giocattolo da vessare. Addirittura, il più audace della nidiata si era arrampicato sullo schienale e adesso aveva sottratto il cappello al cugino, scoprendo la sua chiazza bianca. Il ragazzo se ne era accorto troppo tardi e ora stava cercando, invano, di recuperare il cappello. Suscitando stupore e meraviglia nei bambini. I quali presero a tempestarlo di domande fino a rintronarlo. Finché poi il capobanda non si era separato dal gruppo con un balzo, si era girato verso di loro e aveva urlato: «Nascondino!» I piccoli avevano urlato il loro assenso e avevano coinvolto anche il cugino. Fecero contare proprio lui. Non gli dettero nemmeno il tempo di finire la colazione che lo trascinarono subito nel gioco. Il poveretto provò a cercare di svincolarsi ma non ce la fece proprio. Quelle piccole pesti l’avevano messo con le spalle al muro. «Ma non so neanche come vi chiamate! Come faccio a riconoscervi?» Doveva ammettere che, nonostante le differenti età ed altezze, tra quei cinque non c’erano moltissime differenze. Il secondogenito li presentò tutti: «Io sono Basilio, questo è Antonino, questo è Gregorio, questo è Gervasio e lui è Alcibiade. Ora ci riconosci. Giochiamo!» Dichiarò a gran voce con lo stesso tono che se avesse detto: «Facciamo festa!»
Due pesti si misero a saltellare mentre Agostino roteava gli occhi e si volgeva verso il muro e cominciava a contare. «Fino a quanto?» Domandò, interrompendo il conto.
«Trenta!» Sentì esclamare in risposta.
Roteò gli occhi, scosse il capo e tornò a contare. Il problema era che sapeva contare a malapena fino a venti. Perciò, una volta che ci arrivò riprese il conto e finì per contare fino a quaranta.

Proprio in quel momento arrivò in cucina lo zio con in mano il libricino di tutti i suoi conti. Al suo fianco stava il fido Armando. Stavano discutendo degli affari di palazzo quando videro quella scena: il povero Agostino costretto dai cinque a giocare a nascondino. Uno si nascose sotto al tavolo. Uno sgattaiolò dietro Armando e gli fece cenno di stare zitto. Un altro ancora uscì dalla cucina e si nascose di fianco alla porta. Uno si nascose dietro la catasta di legno e il più piccolo di loro sotto le sottane dell’anziana Tea, che ridacchiò sotto ai baffi, indecisa se essere divertita o imbarazzata, ma stette al gioco. Lo zio restò di stucco quando sentì il nipote contare due volte venti invece che fermarsi a trenta. Ma si sedette al tavolo e uno dei figli approfittò della situazione per nascondersi tra le gambe del padre, infilate sotto al massiccio tavolo. Armando si accomodò davanti a lui e osservò a sua volta il nipote del maggiordomo senza dire niente, mentre i cuochi e qualche domestico servivano loro la colazione.

Agostino finì di contare e poi, quando si volse, trovò la cucina come prima che arrivassero i masnadieri. La differenza erano le occhiatine e i sorrisetti divertiti dei cuochi e dei servitori. Il giovane li cercò vagamente con gli occhi, nel vago tentativo di individuarli. Ma non ci riuscì. Perciò si arrese e cominciò a cercarli. In realtà non aveva molta voglia di giocare. Doveva ambientarsi ed era sicuro di aver appena dimostrato alla servitù la sua scarsissima cultura scolastica. Non sapeva neanche scrivere il proprio nome. Il massimo che poteva fare era tracciare una X su un foglio. E anche lui lo sapeva. E, a causa di questo pensiero, non si accorse che le pesti gli sgattaiolavano alle spalle e gli facevano degli scherzi. Uno, addirittura, osò nascondersi sotto le sottane di una delle anziane cuoche. Ma si vedeva benissimo che era lì, nonostante le precauzioni. E la signora guardava il poveraccio come se lo sfidasse a sollevarle l’abito per verificare l’esattezza della sua teoria. Agostino non provò mai un imbarazzo più grande di quello che provò in quel momento. Molte cose da piccolo avrebbe potuto fare un’anziana, tirarle i capelli o scioglierle il grembiule di nascosto per il semplice gusto di farglielo cadere. Ma arrivare a sollevarle la gonna così, mai. A salvarlo fu proprio lo zio. «Quando hai finito di importunare la povera Tea, vieni qui, per favore».
Il ragazzo sussultò. E lo zio quando era entrato? «Da quanto siete lì?» Domandò, colto alla sprovvista.
«Abbastanza per vedere quello che combini».
«Non è colpa mia, i miei cugini mi hanno chiesto di giocare a nascondino.» Disgraziatamente si era già dimenticato come si chiamavano. Altrimenti li avrebbe nominati.
«Bè, allora finisci in cinque secondi di cercare e poi vieni qui».
«In cinque secondi? Ma è impossibile».
«Davvero? Basilio e Antonino, tornate qui, Gervasio, esci da sotto al tavolo,» ciò detto mollò un calcetto al figlioletto che era proprio sui suoi piedi. Il poveretto batté la testa contro il tavolo e lanciò un versetto di dolore. «Gregorio, per amor del cielo, dimmi che non ti sei nascosto dietro la catasta di legno e Alcibiade, per favore, non mettere in imbarazzo tuo cugino. Esci fuori dalle sottane di Tea!» E un coro di cinque bambini al quale era appena stato rovinato il gioco si fece sentire mentre la masnada si radunava protestando scontenta contro il genitore. Il piccolo che aveva battuto la testa uscì da sotto al tavolo massaggiandosela. Gli occhi lucidi di lacrime trattenute. Il genitore lo prese in braccio e il bambino si ritrovò a guardare male il genitore. Ma non disse niente.
«Ci hai rovinato il gioco.» Fece Antonino incrociando le braccia con una smorfia infantile buffissima. «Perché, padre?» Fece un altro dei cuginetti. Alcibiade si ficcò il pollice in bocca. E a seguito di un piccolo gesto del maggiore, tutti e cinque si accanirono contro il genitore. Il quale però non si lasciò intimidire e li rimise in riga alzando di un’ottava la voce.
Agostino osservò sbigottito i ragazzini tacere immediatamente. Improvvisamente attenti. «State tranquilli. Per oggi devo parlare con lui e basta, solo cinque minuti. Poi ve lo restituisco.» Ciò detto si rivolse al nipote: «Perché hai contato due volte fino a venti?» Il ragazzo non capì bene la domanda. «Come, scusate?» Fece battendo le palpebre.
«Non è una domanda così difficile, ti ho chiesto perché non hai contato fino a venti. Che c’è?» Agostino si aggrappò al legno e abbassò lo sguardo, arrossendo. E ora come glielo diceva? «Avanti, rispondi.» Lo incoraggiò lo zio, guardandolo incuriosito.
«E’ che, che io…Ehm…» L’uomo lo guardò aggiustando meglio la presa sul bambino che teneva sulle ginocchia. Il quale si volse a guardare prima il cugino e poi il genitore. Incuriosito. I fratellini sembravano non nutrire molto interesse per lui. «Io…Io non so scrivere».
«Però sai contare».
«Solo fino a venti.» Ammise con un certo sforzo. Il viso in fiamme. Temeva che qualcuno scoppiasse a ridere. Ma soltanto i cinque sogghignarono sotto ai baffi. Era umiliante essere superato così persino da dei ragazzini. Anche se quei ragazzini erano i suoi cuginetti.
«Ma con il tuo conto ho visto che sei riuscito ad arrivare fino a quaranta».
«Un mio vecchio amico mi insegnò questo trucco, quando avevo sei anni. Suo padre spostava i sacchi di grano che coltivavamo e aveva incaricato lui, che frequentava la scuola dei frati, di tenere il conto.» Raccontò. Ciò detto il silenzio cadde su di loro come una cappa. Silenzio rotto soltanto dal lavoro nella cucina.
«Sai leggere, almeno?» Domandò a un certo punto Etienne, che con l’altra mano non aveva fatto altro che carezzarsi il mento col pizzetto tutto il tempo. Si vedeva che stava riflettendo.
«No, signore».
«Però hai buona memoria. Per esserti ricordato una cosa del genere dalla tenera età di sei anni».
«Sì, credo, suppongo di sì. Se lo dite voi».
«Padre.» Intervenne a quel punto il bambino seduto sulle sue ginocchia. Il genitore, il cugino, i fratelli e il cocchiere lo guardarono. Il piccolo disse, con una vocina supplicante: «Adesso possiamo tornare a giocare?»
«Certo. Andate pure.» E ciò detto fece scendere il bambino dalle sue ginocchia mentre gli altri quattro cominciavano ad esultare. E due di loro si tuffarono sotto al tavolo per sbucare dall’altra parte, dove era accomodato Agostino. E cominciarono a tirarlo per le maniche della camicia, incitandolo ad alzarsi. Il quale guardò spaesato i cuginetti e cercò con gli occhi l’approvazione dello zio, che alla fine gliela concesse: «Vai anche tu, Agostino. Per oggi non ti darò niente da fare. Pensa a divertirti ed esplorare il castello. E non vi preoccupate, avete il mio permesso per farlo.» I bambini esultarono. Il ragazzo ringraziò, incredulo. Non ricordava più quando era stata l’ultima volta che aveva avuto una giornata libera. «Io… Grazie.» Riuscì a sorridere alzandosi. I cuginetti con l’argento vivo addosso, lo trascinarono via immediatamente, reclamando subito la sua attenzione. «E vedete di non rompermelo troppo. Quando si sarà ambientato un po’ lo metterò subito al lavoro.» Si raccomandò lo zio prima che la masnada uscisse dalle cucine.
Agostino non ebbe neanche il tempo di domandare cosa intendesse che si ritrovò a far da balia a quei piccoli scalmanati. Cambiavano gioco ogni cinque minuti e lo costrinsero a giochi che non aveva mai visto. Completamente inventati di sana pianta. Non gli davano il tempo di abituarsi alle regole che eccoli cambiare di nuovo. Non capiva neanche più a che stessero giocando. Il peggio arrivò quando giocarono a palle di neve tra i frutteti. Ed erano sleali, e molto. Più di una volta riuscirono a farlo inciampare, non gli dissero dove erano le buche, non lo aiutarono quando scivolò, e non gli dettero neanche il tempo di aggiustarsi i vestiti pesanti addosso. Che aveva indossato alla bell’e meglio uscendo, sotto quelli di foggia elegante che la zia gli aveva fatto trovare quella mattina appena alzato. Ormai irrimediabilmente fradici di neve. Persino sulla schiena, visto che gli infilarono una palla di neve nel colletto a sua insaputa, facendolo saltellare per il freddo come un pesce fuor d’acqua. Boccheggiava persino come un pesce fuor d’acqua. Poi i piccoli gli si gettarono addosso e lo seppellirono sotto al peso dei loro corpi, facendolo affondare ancor più nella neve. Ma proprio allora gli tornò in mente un gioco simile che aveva fatto anche lui, molto tempo prima. Per un attimo fu come se il tempo si fosse riavvolto su se stesso. E si ritrovò per le colline della sua infanzia coi suoi amici, in inverno, che giocavano con le prime nevicate della stagione. Così secche e farinose da somigliare più a brina che a neve vera e propria. E poi sentì le voci dei suoi genitori chiamarlo. Il ragazzo si rizzò a sedere di scatto facendo cadere i cuginetti che lo guardarono spaesati. Il cuore che gli batteva forte in petto. Si guardò attorno cercandoli con gli occhi. Ma il paesaggio era diverso e quella non era casa sua.
E il rimpianto e il dolore si fecero sentire più che mai proprio allora.

Agostino però restò chiuso nel suo mutismo. I cuginetti non capivano che cosa avesse e cercavano di parlargli e di coinvolgerlo ancora nei loro giochi. Il piccolo Alcibiade era quello che esternava la sua preoccupazione più degli altri: infatti piangeva a dirotto e domandava: «Che cosa abbiamo fatto? Perché Agottino» non riusciva ancora a dire bene alcune parole «non gioca più con noi?» E la madre non sapeva che cosa rispondergli. Si limitava a guardare il marito in una muta supplica ma neanche lui sapeva che cosa fare. Per questo di solito rispondeva: «Abbiate pazienza, vedrete che è solo un brutto periodo. Si riprenderà».
«Ma quanto dura un periodo?» Chiese Antonino.
Maria Patrizia prese in braccio il più piccolo della nidiata. Il quale la guardò succhiandosi il pollice. E la madre gli dette uno schiaffetto. Intimandogli di smetterla a mezza voce. Il piccolo obbedì.
«Non lo so; dipende da persona a persona.» Rispose il genitore intingendo il pane nel vino.
«E il suo?»
«Non lo so.» Ripeté laconico il genitore. Poi non aggiunse più nulla e si concentrò sulla masticazione. E il piccolo domandò alla cuoca se per caso fosse rimasto un po’di panettone. Visto che lei ne preparava sempre uno in più.
Il panettone, per chi non lo sapesse, affondava le sue radici nel 1200 - 1300 circa. Non era così raro che qualcuno ne conoscesse la ricetta anche allora. E Tea era la migliore cuoca della regione. «Non a pranzo, Alcibiade!» Esclamò la madre.
Il bambino emise un piccolo lamento.
Etienne inghiottì, cercando di estraniarsi dalla vita famigliare. Di solito gli riusciva abbastanza bene. Ma non quel giorno. Non sapeva da dove venisse quel dolore che avvolgeva il nipote come la nuvola di fumo il suo vulcano. Poteva solo immaginarlo, anche se non poteva averne la certezza. Non era mai stato molto affettuoso. Da che ricordava non lo era stato più di tanto neanche con suo fratello. Era sempre stato un tipo più pragmatico che sentimentale. Ci aveva messo tantissimo per affezionarsi ai propri figli, ma solo perché i primi mesi e i primi anni di vita erano molto incerti per dei bambini. Adesso si pentiva di non essersi concesso prima il lusso di amarli fin da subito. Ma persino lui arrivava a capire che se l’avesse lasciato sprofondare ancor più di così avrebbe dovuto presagire il peggio. E sinceramente non desiderava la morte di un altro membro della sua famiglia. E doveva salvarlo. Capiva che farlo partecipare alla vita famigliare non sarebbe bastato. Anche metterlo al lavoro nel castello non sarebbe bastato. Doveva approfittare di quei momenti per dargli un’istruzione. Il confronto con un’altra persona poteva essergli utile. D’altronde anche lui era stato molto affezionato al suo vecchio maestro.
Bevve un sorso di vino dal suo calice, si alzò, baciò la moglie e i figli e andò al lavoro. Fortunatamente che aveva già mandato un messaggio a un suo vecchio amico che viveva a Bologna. Era un professore universitario e gli aveva chiesto di venire.
Si sistemò alla scrivania e cominciò a sfogliare le varie scartoffie che ingombravano la sua scrivania. Il fido Armando sempre accanto a lui. Era il suo migliore amico e l’unica persona di cui davvero si fidasse. E poi, mentre lavoravano, un servo bussò alla porta. I due uomini dissero «Avanti» all’unisono e si guardarono divertiti, mentre il giovane entrava. Si chiamava Uberto ed era stato assunto da poco come sguattero. «E’giunto questo messaggio per voi, mio signore.» Annunciò.
L’uomo seduto alla scrivania si alzò, fece il giro del tavolo e si appoggiò di fronte al medesimo, incrociando le braccia e le caviglie. Era una posa che aveva appreso tempo prima dal suo vecchio maestro. Funzionava sempre per intimidire i giovanotti di primo pelo. E lui amava scherzare a quel modo. Il giovane, non sapendolo, sussultò e lo guardò incerto, torcendosi la berretta direttamente sulla chioma riccia.
Lo fissò a lungo e poi disse: «Grazie, Uberto, e, per favore, non chiamarmi mai più mio signore. Non son degno di lucidare gli stivali alla famiglia Da Campo neanche se mi mettessi in ginocchio e baciassi la terra dove camminano».
Il giovane si tolse la berretta e cominciò a stropicciarsela tra le mani: «Sì, signore, cioè, scusatemi, Mastro Etienne».
«Così va meglio. Puoi andare».
Il giovane, incerto, fece un piccolo cenno col capo che doveva essere un inchino, e se ne andò.
«Ci provi proprio gusto a terrorizzarli così.» Commentò l’amico quando la porta fu chiusa. L’altro curvò le labbra in un sorriso beffardo.
Etienne aprì il messaggio e lo lesse: era la risposta che attendeva dal suo amico professore. Con suo sommo dispiacere non sarebbe potuto recarsi da lui. Non era più uno studentello come tutti gli altri. Adesso era un docente e non poteva insegnare a qualcuno fuori dell’università. Però, aggiungeva anche, che gli avrebbe mandato il suo assistente: Lucenzio Fosari. E che quest’ultimo era già in viaggio e sarebbe giunto a castel Toblino in poco tempo.
Etienne alzò le spalle.
«Qualcosa non va, Etienne?» Chiese Armando avvicinandosi, che non si era perso nessuna espressione dell’amico. Era raro, infatti, che lo zio di Agostino leggesse a voce alta i messaggi che riceveva e che si consultasse con lui. E di solito accadeva solo per i fatti più gravi. Ma evidentemente quello non doveva essere uno di questi.
«Niente, soltanto una fastidiosa bega con un mio vecchio amico. L’avevo invitato a insegnare ad Agostino ma dice che non può venire. Invece sua ci manda il suo assistente, Lucenzio Fosari.»
«Mai sentito».
«Ad ogni modo sta arrivando. Penso che sia il caso di preparare un’altra stanza anche per lui. Non credi?» E lo guardò con una lunga occhiata obliqua. La voce carica di sottintesi che l’altro non afferrò: «Certo.» Poi, accorgendosi del modo in cui lo guardava fece: «Oh, intendevi dire che me ne devo occupare io?»
«Ne sarei lieto, sì. E anche mio nipote».
L’amico lo guardò stupefatto: «Ma, scusami, che importanza ha occuparsi della stanza di un maestro che oltretutto non verrà mai a sapere chi l’ha sistemata?»
«Nessuna, per te. Ma penso che sia un buon modo per cominciare a far fare qualcosa in concreto ad Agostino».
«E lo stai mettendo sotto le mie direttive?»
«Precisamente».
«Ho capito.» Sospirò l’altro, infastidito. Ma dallo sguardo che gli rifilava si capiva che era offeso e che non avrebbe chiesto niente di meglio che sferrargli un pugno sul naso. Tanto gliel’aveva già rotto una volta. Parecchi anni prima ed Etienne aveva dovuto farselo raddrizzare. Che differenza avrebbe fatto se glielo rompeva un’altra volta? Ed Etienne, che non aveva smesso di guardarlo, lo sapeva, ma non ne tremava.
«Vuoi che gli faccia fare anche qualcos’altro, dopo che avrà sistemato?» Domandò.
«Vedi te se ti sembra necessario».
«D’accordo, allora vado.» Disse lasciando il suo fianco.
«Buon lavoro».
L’altro uscì dalla stanza salutandolo sarcastico e il maggiordomo rispose alzando il dito medio, poi tornò a occuparsi delle proprie faccende. Appuntandosi come promemoria di scrivere una lettera di ringraziamento all’amico, quando avrebbe finito.

Il giovane stava pranzando quel giorno, quando a un certo punto Armando venne da lui e gli disse che quel giorno lo avrebbe aiutato nei lavori domestici. Il giovane lo aveva guardato perplesso ma, alle parole: «Ordini di tuo zio» non aveva fiatato. Aveva smesso di mangiare, si era pulito le mani alla casacca e aveva domandato, quasi sospirando: «Ditemi cosa devo fare». «Ora finisci di mangiare, e quando hai finito raggiungimi nel mastio. Lì ti spiegherò tutto».
Quando finì lo raggiunse e rimase stupito di sapere cosa avrebbe dovuto fare. «Ma io non so come si tiene una casa!» Protestò quasi indignato. Soprattutto quando gli venne ficcato in mano un secchio pieno d’acqua con uno straccio per pulire e una scopa. A malapena era riuscito a tenere la sua prima che intervenisse lo zio e lo portasse via da lì. Armando alzò le spalle e gli disse: «Imparerai. Qui c’è tanta gente disposta a insegnarti».
Gli spiegò brevemente quello che avrebbe dovuto fare e poi lo lasciò lavorare. I servi attorno a lui che lavoravano alacremente per arredare la nuova stanza. «Ma chi deve alloggiarci, qui?» Domandò il ragazzo. Ma nessuno gli rispose e quei pochi che si volsero a guardarlo alzarono le spalle: «Non lo sappiamo. Ci hanno solo detto di pulire quest’ala».
Il giovane lavorò di buona lena. Alla fine della giornata aveva le mani arrossate. Fortuna che era abituato al lavoro. Anche se a un lavoro di tutt’altro genere. E si compiacque nel vedere gli altri servitori stupirsi della sua mancanza di fatica a quelle nuove faccende. Sapeva anche lui delle malelingue che avevano cominciato a girare nel castello da quando era arrivato. «Il nipote del maggiordomo», «chissà quali privilegi.» Dicevano. Per quel che gli riguardava non ne aveva visto neanche mezzo. A volte rimpiangeva la sua vita come floricoltore e giardiniere. A volte gli capitava di sognare di occuparsi di nuovo dei suoi amati giardini.
Una volta finito svuotò il secchio dalla finestra, rischiando di bagnare le guardie, le quali, per lo spavento, si girarono e gliene urlarono di tutti i colori. «Ma che diavolo!», «E sta un po’più attento!», «Razza di idiota!», «Guarda quello che fai!», «Che schifo!» Ma anche; «Ma guarda qui, non bastavano l’umidità e la neve, adesso ci mancava anche il freddo». Il ragazzo urlò, di rimando, imbarazzato: «Scusatemi!» E si affrettò a richiudere la finestra e con essa gli strepiti delle guardie centrate in pieno: «Belle scuse!», «Ma guarda qui…» Sperò che poi le suddette non cercassero vendetta. Sospirò.
«Ehi, ragazzo!» Si sentì chiamare e sobbalzò. Era Armando: «Quando hai finito vieni qui che abbiamo ancora molto da fare». Lo fece sgobbare tutto il giorno.
A fine giornata aveva la schiena e le mani a pezzi. E la lingua piena di bestemmie che indirizzava tutte contro l’amico dello zio. Il quale, dal canto suo, ignaro, l’aveva incoraggiato a pregare per allietare le proprie fatiche. «Proprio come i monaci.» Aveva scherzato. Forse scherzava a questo modo con le fantesche. Ma lui non era né una fantesca né una donna. A dir la verità non era neanche un fedele eccellente. Gli mancava proprio il dono della fede così come la maggior parte delle persone intendeva.
Peccato solo che ad Agostino venissero più facilmente in mente tutti i coloriti improperi appresi durante quel suo breve arco di vita che le preghiere. Si domandò persino se suo zio sapesse della vena tirannica del suo amico - e forse braccio destro.
A fine giornata, mentre accendevano le candele, il suddetto ispezionò il suo lavoro e gli sorrise compiaciuto: «Dovremmo farti pulire più spesso: non ho mai visto questa zona risplendere così tanto».
Il ragazzo si morse la lingua per evitare di rispondere. Ma lo fissò malissimo. Poi Armando scoppiò a ridere, scosse il capo e se ne andò, scendendo le scale. Dritto verso le cucine.

Un giorno, per la precisione una domenica sul finire di febbraio giunse al castello il precettore. Il suo arrivo gettò il castello nella curiosità.
Quella mattina Agostino si era appena svegliato. Era stato trasferito dalla stanza che l’aveva ospitato la prima notte a un’altra, che divideva con altri servitori. Molti di quegli uomini erano giovani, ma più grandi. E a volte capitava che qualcuno proprio non venisse a dormire. Se non dopo parecchie ore.
Agostino se ne chiese spesso il motivo. Finché quella mattina, prima dell’arrivo del maestro di scuola, non ne parlò con Santiago, lo spagnolo vicino di letto. Era un ragazzo di diciotto anni coi capelli neri, ricci che gli coprivano le orecchie, il naso adunco e gli occhi color ambra sulla pelle brunita dal sole. L’uomo rise: «Si è fatto una bella scopata.» Il ragazzo arrossì confuso. Ma la sua espressione spaesata non sfuggì al ragazzo che cominciò a sbeffeggiarlo: «Come, non ti sei mai fatto una scopata?»
«No».
«Ma ti sei masturbato qualche volta?» Il ragazzino arrossì di brutto. Ma che glielo andava a dire fare? Sembrava che quegli occhi della stessa luce del caminetto gli stessero leggendo dentro. Oh, come si stava pentendo di aver posto quelle domande. Il suo interlocutore, sembrava deciso a carpirgli ancora più segreti per farsi beffe di lui alle sue spalle. Perfetto. Così in breve tempo tutta la Valle dei Laghi avrebbe scoperto che era ancora vergine e, soprattutto, inesperto.
E sicuramente sarebbe riuscito a fare di meglio di così, se poi non fosse arrivato il trambusto.
I due ragazzi si voltarono cercando di capirci qualcosa. «Che sta succedendo?» Chiese Santiago. Una serva gli rispose: «E’ arrivato il precettore.» E poi andò verso l’uscio. I due ragazzi invece andarono alla finestra e da lì lo videro entrare.
«Il precettore?» Chiese Santiago mentre Agostino, mezzo arrampicato sulla sua spalla, cercava di intravedere l’uomo che stava scendendo da cavallo, avvolto nel mantello pesante da viaggio e lo zio che gli andava incontro e che cominciava a confabulare con lui. «Sarà sicuramente per uno dei suoi figli.» Sputò Santiago dopo aver buttato lì una mezza imprecazione nella sua lingua natia. «Sei spagnolo?» Domandò il giovane per cambiare discorso, guardandolo. Ne aveva incontrati quattro o cinque nella sua vita, fino ad ora. L’altro sporse indietro il collo e, senza staccare gli occhi dalla sua postazione annuì: «Di Santiago de Compostela. Guardalo là, il maggiordomo» sputò con livore la parola «Come parla con il maestro. L’avrà chiamato sicuramente per uno dei suoi figli, ah, come se sperasse che uno di loro possa prendere il suo posto».
«Che hai contro i suoi figli?» Chiese tra l’incuriosito e l’arrabbiato. Non gli piaceva sentir parlare male della sua famiglia. «Niente. E’solo che quell’uomo non ha una sola goccia di sangue nobile nelle vene e si atteggia a nobile quale non è. Posso sopportare di servire e lavorare alle dipendenze di una famiglia nobile. Ma lui ha i pasti migliori e sta in cima alla catena alimentare. Non sopporto che usi il denaro per arricchirsi così».
Agostino si arrabbiò con quel ragazzo. E lo fulminò con gli occhi, stringendo le dita sulla spalla di lui. Ma il giovane non se ne accorse. «Dimmelo se cadi, non appigliarti alla mia camicia, me la strappi.» Disse invece. In effetti lo spagnolo era molto più alto di lui. «Che ti prende? Sembra quasi che ti abbia offeso.» Aggiunse quando lo guardò. Agostino continuò a fissarlo, irato. L’altro gli domandò: «Che ti prende? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» Domandò, perplesso.
Il ragazzino si staccò da lui. «Stai zitto e non ti azzardare mai più a parlare della mia famiglia a quel modo».
Lo spagnolo sgranò gli occhi: «La tua famiglia? Aspetta…Ma tu…»
«Io sono nipote di Etienne da Monselice. Mi chiamo Agostino da Monselice!» Urlò e molte persone si volsero verso di lui. Molte con sguardo smarrito e altre che cominciarono a ridacchiare per quella scena. Doveva sembrare assolutamente ridicolo. Ma in quel momento non gli importò. Santiago aveva la faccia di chi cade tra le nubi. Però era completamente pallido, slavato come un cencio. Il ragazzino non trovò altro da dire e gli volse le spalle, andandosene. Poteva soprassedere su un mucchio di cose. Per esempio sul suo soggiorno lì. Poteva anche capire che lo zio avrebbe favorito i figlioletti invece sua. Ma sentire un perfetto idiota offendere la sua famiglia no, questo no. Ma non era solo questo. Avrebbe voluto, per un attimo, che quel maestro fosse per lui. Che fosse lui a imparare a leggere e scrivere. E di questo, almeno di questo, era geloso.
Proprio in quel momento passò di lì lo zio con il precettore al seguito: «Oh, Agostino. Giusto te cercavo.» Il ragazzo si fermò sulle scale e al cenno d’invito e le parole dello zio: «Vieni, vieni qui»; si avvicinò. Il precettore aveva i capelli biondi e gli occhi verdi. Era poco più alto dello zio, aveva all’incirca una trentina d’anni e un bel sorriso sulle labbra. «E’questo il ragazzo?» Chiese con cortesia e curiosità.
«Sì.» Confermò lo zio. Il tredicenne dal canto suo si limitò a guardare prima l’uno e poi l’altro battendo le palpebre, perplesso. Il giovane maestro gli strinse la mano mentre lo zio continuava. «Agostino, questo è il tuo nuovo precettore, Lucenzio Fosari. Lucenzio, questo è mio nipote Agostino da Monselice. Agostino, Lucenzio è venuto qui da Bologna per insegnarti le arti del quadrivio e le nuove correnti umanistiche e filosofiche. E’ quadrivio, giusto?» Chiese poi all’uomo che confermò, divertito.
Il ragazzino fissava lo zio sgranando gli occhi. «Non guardarmi così o gli occhi ti schizzeranno fuori delle orbite. Comincerete tra tre giorni, il tempo che ci vuole affinché il nostro ospite riposi. Ora saluta e va da Armando, ti affiderà le commissioni per oggi».
Il nipote parve riscuotersi, salutò il suo maestro e lo zio e poi andò a cercare Armando mentre la sorpresa si agitava ancora in lui come le fiamme di un caminetto.
Lucenzio fu una gradita sorpresa per il giovane. Almeno finché non cominciò la prima lezione. Agostino non era mai stato a scuola prima di allora e non sapeva come comportarsi. Anzi, addirittura, quando si presentò senza pergamene o penne e calamaio, il maestro lo guardò stupefatto e mancò poco che lo schernisse per la sua stupidità. Perciò lo spedì a cercare qualcosa con cui scrivere. Il ragazzo tornò due ore dopo e, quando si sedette, e il maestro gli domandò di vedere i palmi, si beccò una canna sulle mani: «Ahio! E questo per cos’era?»
«Per ricordarvi di essere puntuale».
Poi gliene mollò un altro: «E ora che ho fatto?»
«Per ricordarvi di portare tutti gli strumenti.» Poi si pose seduto sulla sedia posta accanto alla sua e cominciarono la lezione. Purtroppo però si accorse un po’in ritardo che il ragazzo non aveva la più pallida idea di quello che stava dicendo: era, infatti, partito dalla filosofia, volendo essere ancora più precisi dall’humanitas. Solo allora l’aveva guardato in faccia e si era accorto di quella smorfia di stupore e confusione che aveva dipinta in viso.
«Aspettate, ma voi sapete leggere?» Agostino scosse il capo quasi meccanicamente e le vertebre gli scricchiolarono. «Sapete almeno scrivere?» Ancora una volta il ragazzino scosse il capo, mortificato. Lucenzio si alzò in piedi: «Con permesso. Torno subito.» Ciò detto uscì dalla porta. Non tornò esattamente subito. Ci mise un’ora. E quando tornò aveva un’espressione infastidita dipinta in volto. Evidentemente nessuno gli aveva mai detto che sarebbe dovuto partire dalle basi. «Va bene, facciamo finta che questo tempo non ci sia mai stato, anche se mi sembra uno spreco. E partiamo dall ABC. Mi raccomando, mi aspetto di vedere olio di gomito prodotto dalla vostra materia grigia, ragazzo».
Ciò detto cominciò a insegnargli tutto a partire dalle basi.
In un certo senso Agostino trovava quasi rilassanti quelle lezioni, nonostante la severità del maestro. Il quale, dal canto suo, non si sentiva pagato abbastanza, a giudicare dal fastidio che tutto ciò gli provocava. Ma il tredicenne non se ne curava. Ormai si era abituato a piacere a poche persone. Solo molto tempo dopo, ad aprile inoltrato, decise di uscire dalla sua tristezza. Pensò fosse il caso di provare a fare qualcosa di diverso e, per un po’aiutò questo zio, ancora per molti versi sconosciuto, nella gestione del castello. Dopotutto ormai aveva capito come si scriveva e riusciva a compitare le parole. Anche se ogni giorno si allenava a leggere per un’ora con una foga che spaventava chiunque. Fortunatamente esisteva la biblioteca dentro al castello. Non era una delle più grandi, e neanche una delle più fornite. Ma grazie a quella biblioteca poté fare pratica di scrittura e lettura. I suoi romanzi preferiti erano quelli medievali. Come La leggenda di Tristano e Isotta, il Ciclo Bretone. Un po’meno quello Carolingio e le Chanson de geste. Ma l’opera che proprio in quel momento stava leggendo, era quella del Tristano e Isotta. Aveva cominciato a leggerla con Lucenzio. Dopo l’ennesimo, infruttuoso tentativo di fargli leggere l’Africa di Francesco Petrarca e la Vita Nova di Dante Alighieri. «E’incredibile, non capisce un accidente dello Stil novo e pretende di imparare a leggere sulla traduzione di una leggenda medievale.» Borbottava l’uomo, sconfitto.
Quando il giovane sentì di aver acquisito un po'più di sicurezza si recò dal parente e disse di volerlo aiutare. A dispetto degli ammonimenti del maestro. Lo zio, invece, trovò molto bello che il nipote volesse aiutarlo. Ma alla prima difficoltà lo rispedì immediatamente a studiare. Non era ancora pronto per aiutarlo. Non prima però di avergli chiesto di contare fino a trenta prima, e quarantacinque poi. Il ragazzo, un po’imbarazzato eseguì senza errori e lo zio lo congedò. Armando commentò: «E’migliorato molto dall’inizio, però, non ti sembra?»
«Sì. Ho idea che se va avanti di questo passo diventerà un perfetto scolaro in poco tempo».
«Credi che un giorno ti sostituirà come maggiordomo?» Chiese Armando succhiandosi il dito. Quel giorno si era tagliato con un coltello e non la smetteva di sanguinare. «No. Non credo. Vai a medicarti, Armando, non vorrei che tu mi sporcassi di sangue i documenti.» Disse poi, scherzoso.
«Come no, tanto a te non da fastidio, no?»

Agostino covò ancora per un po’il sogno di aiutarlo e mostrargli i suoi progressi. E poi smise. A dir la verità smise abbastanza presto, quando giunse la bella stagione. E, come una rondine che fa ritorno al proprio nido in primavera, anche lui fece ritorno alla sua vera, antica vocazione: venne attratto dal giardino.
Il giorno che lo scoprì si era perso dopo aver bevuto un po’troppo vino e aveva sbagliato strada. Invece che dei soliti corridoi aveva imboccato uno diverso e si era ritrovato in quella selva. Era quasi in rovina, tant’è che credette di sognare di essere dentro una foresta.
«Ma dove…» Si chiese guardandosi intorno. Girò lentamente su se stesso, come a controllare che la porta fosse ancora lì.
Poi non ricordava come fosse tornato indietro. E anche quando smaltì la sbornia il giardino non scomparve dalla sua testa.
Un giorno, mentre lui e una domestica rassettavano una delle stanze reali lo scorse di nuovo. Allora non se lo era immaginato. Ma faceva uno strano effetto osservarlo da una prospettiva completamente diversa. Allora era quello che vedevano gli uccelli, dall’alto dei loro voli. Si disse e, incuriosito, aprì la finestra. Il giardino era quasi una giungla. E forse solo un miracolo avrebbe potuto rimetterlo in sesto.
«Cos’è quell’appezzamento di terra incolta?» Chiese incuriosito alla serva che stava lavorando con lui.
«Oh, quello?» Chiese l’anziana donna ripiegando una coperta. «Una volta era il giardino principale. Ci venivano date molte feste, poi lentamente è stato abbandonato a se stesso».
«Perché?» Domandò il giovane voltandosi verso la donna che ora stava lisciando le lenzuola e le coperte e spolverando le tende del baldacchino. Lei rispose senza guardarlo: «Una principessa ci annegò».
Il giovane intuì che non gli stava dicendo tutto. E che dalla gravità del tono con cui proferì quelle parole capì che si stava avventurando in un territorio pericoloso. Il territorio dei tabù. Ma non riuscì comunque a trattenersi. «Perché annegò?» «Chiudi le finestre. È circolata anche troppa aria».
«Voglio sapere perché.» Ripeté.
«Chiudi le finestre. Fa freddo, ci farai ammalare tutti.» Rifece invece la vecchia.
«Io chiudo le finestre se tu mi dirai che cosa è successo a quel giardino.» Negoziò il giovane. La donna sospirò e poggiò le mani sulle coperte di velluto rosso. Capì che la donna non poteva rischiare: le finestre erano di vetro e il vetro era molto costoso e raro. Ed era stato fatto istallare solo trent’anni prima, quando era una giovinetta. Perciò si piegò alla sua volontà: «Accadde nel giugno di trentaquattro anni orsono. Lo ricordo come se fosse ieri. Il castello allora apparteneva a un visconte e non ai Da Campi come ora. Il giovane rampollo del visconte venne a passare l’estate qui, per via della sua salute cagionevole. Qui indisse feste ove invitò la nobiltà locale. E tra le gentildame che si presentarono rispose anche una castellana. Fui io a occuparmi di lei. Era giovane, con le chiome bionde come il sole quando tramonta e gli occhi azzurri. Era molto graziosa e pareva come immaginavo essere le principesse delle favole, per questo per me lei sarà sempre una principessa. In breve tempo lei e il padrone divennero amanti.» La sua voce si spezzò e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Agostino si pentì istantaneamente di averle ordinato di raccontarglielo. «Poi che successe?» Mormorò, cingendosi il busto con le braccia.
«Lei restò incinta. Ma il padrone non volle prendersi la responsabilità della madre e della creatura. Ben altro matrimonio aveva in mente, ed era già stato concordato dalla nascita con una famiglia di baroni. Lei si suicidò per la disperazione e il disonore proprio l’ultima notte d’estate. Durante l’ultima festa che il padrone indisse, prima di tornarsene a casa propria. Lei fece in modo che tutti la vedessero e si gettò nelle profonde e fredde acque del lago. Non prima di aver maledetto il giovane e il giardino che li aveva fatti incontrare. Il cadavere non fu mai ritrovato».
Agostino era sbiancato. Ma la vecchia continuò ancora, implacabile: «Da allora nessuno rimise mai più piede in quel giardino. E’ rimasto tutto come allora, anche se le torce sono spente, il cibo è scomparso, divorato dagli animali o saccheggiato dai servi e le tovaglie muffite. Adesso chiudi le finestre.» Fece con occhi lampeggianti di odio e tristezza.
Agostino obbedì celermente. Mai come allora aveva sentito aleggiare attorno a sé la presenza della morte.
Lanciò un’occhiata alla finestra alle sue spalle. Ora che si era spostato non poteva vedere ciò che c’era oltre, però era un peccato. Un parco così grande, un giardino incolto che un tempo doveva essere stato bellissimo…

«Che hai, Agostino?» Domandò uno dei suoi colleghi di lavoro quella sera a cena. Il ragazzo si riscosse dai suoi pensieri. Non aveva fatto altro che masticare un pezzo di pane tutto il tempo, e, a lungo andare, era divenuto una poltiglia nella sua bocca. La inghiottì e si scusò con l’uomo: «Scusa, Donato, è che sono soprappensiero.» L’uomo annuì, rassicurato. Quel servo in particolare aveva una paura terribile delle malattie. Al punto che non riusciva a restare nella stessa stanza di una persona malata neanche se fosse stato malato lui stesso. La cosa strana era che se era lui il malato, allora non aveva paura della sua condizione. Dieci a uno che aveva creduto di averne fiutata una proprio in lui in quel momento, prima di rivolgergli la parola. Il tredicenne roteò gli occhi. Proprio allora si accorse dello sguardo che gli stava rifilando Santiago, quasi dall’altro capo della tavola. Il ragazzo si accigliò, ricambiandolo e il diciottenne distolse il proprio, tuffandosi nel suo pasticcio di pollo e frattaglie. Anche l’altro volse la sua attenzione altrove. Infatti, Donato lo stava ancora fissando: «Non preoccuparti, Donato, sono sano come un pesce. È che stavo pensando».
«A cosa, di grazia?» Fece interessato l’uomo, inclinando la testa di lato.
«Al giardino».
«Quale?»
«Quello principale».
«Il giardino maledetto?» Fece l’altro sgranando gli occhi. Poi si sporse verso di lui e gli domandò, con aria confidenziale: «Ma non le hai sentite le storie?» In realtà Agostino stava guardando i lacci della camicia dell’uomo che strusciavano sul cibo posto in mezzo a loro. E alla zaffata di birra che gli arrivò. «Certo. Però…»
«Però?»
«Però io sono un giardiniere.» Concluse, come se con quella frase avesse potuto spiegare tutto di sé e della sua natura.
«Un giardiniere? Sul serio?» Fece quello sgranando nuovamente gli occhi per lo stupore. Poi si profuse in una risata che fece voltare verso di loro i vicini. Agostino non si unì a lui. «Un giardiniere, sul serio? L’augusto nipote di Etienne da Monselice, un umile giardiniere? Non stai scherzando, spero». «Da tutta una vita.» Ribatté l’altro con serietà. Il sorriso dell’altro si affievolì per essere sostituito da una smorfia di stupore. Poi tornò serio e bevve un sorso della propria birra: «Uao.» Fece quando rimise giù il boccale: «Non ti facevo un giardiniere. Non ne avevi la faccia».
«Neanche io ammetterei mai che tu sei il terzo in ordine d’importanza qui dentro. Ma non te lo vengo certo a dire.» Ammise il ragazzo ad alta voce con nonchalance. Il suo interlocutore parve trovare la sua frecciata molto spiritosa perché disse: «Un giardiniere. Ma dai, sei sicuro?»
«Sì, mio padre e mia madre mi hanno insegnato tutto quello che so e ho lavorato presso…» «No, io intendevo, vuoi sul serio occuparti di quel giardino?»
«Sì».
«Bè, allora perché lo stai dicendo a me? Non dovresti andarlo a chiedere a tuo zio?»
«Lo farò. E’ solo che…» Il ragazzo roteò il bicchiere.
«Che?»
«Non ho…Cioè, non so come dirglielo».
«Bè, trovale in fretta, ragazzo. Non sarò certo io a farlo per te».
Il giovane annuì. Ma non era facile. Suo zio gli aveva concesso molte cose da quando era giunto lì. Dubitava fortemente che gli avrebbe concesso anche questo. Però era anche vero che amava prendersi cura dei giardini. E che in quel momento udiva la voce del giardino chiamarlo. E non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto resistere. O meglio, avrebbe voluto resistere. Sapeva che per lo zio era importante la sua educazione, ma era anche vero che lui aveva delle passioni. E non vedeva l’ora di fare qualcosa di davvero utile e dilettevole al tempo stesso.

«Vorresti occuparti del giardino?» Domandò lo zio guardandolo stupito. Era seduto alla scrivania e si lambiccava sui conti e le spese del castello, quando lo aveva raggiunto e gli aveva esposto il suo desiderio. Agostino sapeva che i signori del castello stavano attraversando un momento di crisi. Momento che li aveva già costretti a vendere alcune proprietà. E temevano che la prossima sarebbe stata quella.
«Non abbiamo denaro per pagare un giardiniere…» Cominciò ma il nipote lo interruppe: «Ma non dovrete ingaggiare un giardiniere, posso pensarci io».
«Tu?»
«Io. Mamma e papà - che Dio li abbia in gloria - mi hanno insegnato tutto quello che so sulle piante e sulla cura dei giardini. Prima che arrivassi a casa mia, lavoravo come floricoltore per Montino da Tripoli.» Ce la fece un po’di più di prima a non sputare quel nome. Il tradimento dell’amico di famiglia gli sarebbe bruciato ancora per molto.
«Ma è un pezzo di terra molto grande e d’estate pullula di zanzare, ci sono le nutrie, i topi e altre bestie come vipere e bisce d’acqua tra quelle piante ed erbacce incolte.» Il giovane si spostò di fronte alla scrivania. Lo zio lo seguì con gli occhi.
«Non mi spaventano due animaletti.» Dichiarò il ragazzo.
«Ma non abbiamo gli attrezzi e i servi non sanno niente di giardinaggio.» Gli fece notare l’uomo con l’occhio cieco.
«E i frutteti e i giardini circostanti la tenuta?»
«Sono i contadini che se ne occupano. Noi ci limitiamo ad amministrare loro».
«Perfetto. Chiamate loro, metteteli sotto al mio comando e riporterò il giardino alla sua gloria passata, se non di più».
«Ma le piante sono lì da anni. Non puoi sradicarle e portarle via per piantarne altre. La stagione della semina è già passata da un pezzo».
«Coltivare i campi e aver cura di un giardino sono due cose completamente diverse, zio. Fidatevi di me, vedrete che ci riuscirò».
L’uomo si sporse verso di lui, sulla scrivania. Lo guardò a lungo negli occhi verdi scuri, prima di dire: «Ne sei certo?»
«Sì».
«E come pensi di giostrarteli, sentiamo.» Fece mettendosi di nuovo a sedere. Le mani intrecciate sotto al mento. «Giostrarmeli?» Domandò il nipote accigliandosi. Non aveva mai sentito quella parola prima di allora. E le uniche giostre che gli venivano in mente erano quelle di alcuni tornei che si tenevano ancora ogni tanto a Trento durante le occasioni di festa. «Sì, gestirteli. Vorranno essere pagati per i loro servigi, non credi?» Il ragazzo restò senza parole e senza idee. In effetti quello era un problema che non aveva considerato. Non aveva affatto pensato che i contadini avrebbero lavorato per denaro invece che per amore delle piante. Come non avrebbe neanche saputo come pagarli. Era un bel problema. Incrociò le braccia e cominciò a riflettere, distogliendo lo sguardo dal parente. Il quale, dal canto suo lo fissò a lungo prima di venire in suo soccorso: «Non riesci a pensare a niente se non a quel giardino, vero? Oh, e io che speravo di affidare a te la gestione di questa magione. Che sciocco illuso che sono. Tale e quale a tuo padre. Va bene. Manderò una lettera al marchese dove gli esporrò la tua richiesta.» Ciò detto aprì un cassetto dal quale estrasse un foglio di pergamena e intinse la penna nella boccetta d’inchiostro.
«Marchese?» Ripeté Agostino, aggrottando nuovamente la fronte.
«Sì.» Fece lo zio, guardandolo come a dire: non dirmi che non lo sapevi, «Questo castello è stato acquistato da un ricco marchese veneziano dieci anni fa. Io lo servo da quindici. Non rifiuterà la tua richiesta se formulata in modo diverso».
La stretta delle braccia di lui si sciolse e l’espressione sul suo viso divenne di puro stupore.
«Grazie, zio!» Esclamò il giovane, sorridendo. «Aspetta a dirlo. Non ho ancora scritto niente.» Lo redarguì bonario l'altro prima di cominciare a cercare una pergamena pulita in mezzo al mucchio di fogli che ingombravano la sua scrivania.

***Nota dell'autrice***
Eccoci qui al settimo capitolo. Vi ringrazio per aver seguito la mia storia fino a qui. Non temete, la parte fantasy sta arrivando. Perciò non demordete. 
I disegni dei personaggi principali li trovate sul mio account istagram susannapucci94. 
Buona lettura e spero che vi piacciano.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8: Per me il Paradiso è ***


Capitolo 8: Per me il Paradiso è...

I
l ragazzo aspettò pazientemente per giorni e giorni. Ogni giorno si recava dallo zio chiedendo la notizie della risposta. Ma lo zio ogni volta, con pazienza, lo mandava via dicendo: «Quando arriverà te la farò avere», oppure, «Quando arriverà ti manderò a chiamare».
Allora il ragazzo annuiva, imbronciato, ma eseguiva.
Cercava di concentrarsi sulle lezioni del suo precettore. Il quale si dimostrò piuttosto paziente e costante, sia nei suoi insegnamenti che nel suo comportamento. Le lezioni preferite del ragazzo erano quelle che si tenevano proprio sulle rive del lago. Allora c’erano dei massi che fungevano da scoglio a picco sull'acqua. Una sorta di penisola rocciosa ove i bambini di solito andavano per giocarci con le barchette di legno o fingere di essere i re della montagna sul masso più alto. E vi aveva portato anche lui.
Quando era piccolo aveva sentito dire da alcuni amici che i maestri erano le creature più lunatiche della terra. Ma se avessero visto Lucenzio si sarebbero ricreduti. Si stupì nel constatare che ormai non ricordava quasi più i loro volti. Erano quasi sfocati, come i vetri quando c’era la brina al mattino presto. A essere un po’discontinuo, semmai era lui. Soprattutto a lettere. Mentre nelle scienze se la cavava abbastanza bene, tutto sommato. Compensando così lo scoramento che da una parte provocava al proprio maestro.
La vita al castello procedeva come al solito mentre la primavera scivolava sempre più verso l’estate. Giorno dopo giorno le giornate erano più belle e più calde, nonostante il tempo incostante e l’orda del Garda non dava più così fastidio ad Agostino. Non si poteva dire lo stesso di Lucenzio, che ogni volta che quel soffio di vento si metteva a scompigliargli i capelli e gli appunti, si metteva a imprecare. Infatti, il ragazzo, sebbene avesse finito gli studi, aveva continuato a studiare. Diceva che quella zona gli piaceva, gli ricordava molto i giardini dell’università dove si recava per riposare, quando aveva voglia di svagarsi o studiare in pace. Quel giorno per esempio, erano seduti ai piedi di un pioppo. Il maestro appoggiato di schiena contro il tronco e l’allievo seduto a gambe incrociate davanti a lui. Stavano chiacchierando. Agostino adorava questa abitudine che andava istaurandosi. In quei momenti Lucenzio gli pareva quasi un amico con cui parlare del più e del meno. Erano così le lezioni che più amava, perché con Lucenzio era tutta una lezione. Anche se ovviamente, anche il suo maestro diventava allievo quando Agostino cominciava a parlare di piante. Era accaduto pochi giorni prima, durante una bella giornata di sole. «Mi hanno detto che sei un giardiniere, è vero?» Aveva domandato mentre passeggiavano per raggiungere il loro posto preferito. Ormai passavano talmente tanto tempo fianco a fianco che il giovane maestro era passato a dargli del tu senza quasi accorgersene. Il giovane, per rispetto, aveva deciso di continuare a usare un tono più formale. «Sì.» La voce si era sparsa in fretta.
«Quindi saprai tutto sulle piante».
«Sì».
«Conosci anche le loro proprietà medicamentose?» Aveva indagato interessato il suo precettore e il ragazzo si affrettò a negare. Poi spiegò: «Conosco qualcosa ma niente di così approfondito. So come prendermene cura, cosa possono simboleggiare dentro a un giardino. Come farle fiorire oltre ogni dire, come renderle ancora più belle di quello che sono e come strapparle dalla morte.» Erano conoscenze apprese anni prima, eppure, nel decantargliele, si stupì nel costatare che non se ne era scordata neanche mezza. Non credeva che certi insegnamenti si fossero radicati così in profondità nel suo cuore e ciò gli diede sicurezza per spiegare tutto ciò che sapeva e rispondere alle domande del suo precettore. Il quale, dal canto suo, lo ascoltava così interessato, da dare l’idea che pendesse dalle sue labbra. «Non avrei mai creduto che avrei avuto qualcosa da imparare dal mio primo allievo.» Disse infine, quando il ragazzo ebbe soddisfatto tutte le sue curiosità. E lui, dal canto suo, non aveva mai avuto la gola così riarsa.
Col tempo imparò persino a conoscere meglio il suo maestro e il medesimo si ammorbidì un poco nei suoi confronti. Lucenzio veniva dal ceto medio e amava studiare. Pareva fatto per contemplare i libri, nonostante che suo padre avesse pensato di indirizzarlo alla carriera politica militare della propria signoria. Ma, «purtroppo per lui», aveva detto ridendo il giovane «non è andata così.» Allora aveva provato a indirizzarlo alla carriera ecclesiastica ottenendo un secco rifiuto seduta stante. Purtroppo amava troppo la vita per rinchiudersi da qualche parte e cantare lodi al Signore. Anche se ciò significava privarsi di una vita tranquilla passata ad eterna contemplazione di manoscritti e sapere. «Ci sono molte altre forme di sapere» per esempio l’università. E lui ci si era iscritto e si era sentito subito a casa: poteva studiare e al tempo stesso avere una vita al di fuori di un qualche convento. Era fantastico. Inoltre, vivere lì gli dava una sensazione strana ma magnifica. Era in pace, era felice, nonostante l’ansia per gli esami. Ma erano soprattutto i libri ciò che amava più di ogni altra cosa. Al punto che «Una notte sognai il mio tipo ideale di paradiso: una biblioteca piena di libri...»
Il giovane lo interruppe: «Io avevo sentito dire che il Paradiso è un posto dove gli angeli cantano al Signore. Dove si è in pace, dove si canta con gli angeli, si vola e si suona l’arpa tutto il tempo al cospetto di Dio».
Il maestro aveva ribattuto: «A me sembra un po’triste, invece, tutte quelle nuvole, il cielo aperto. Ognuno ha il suo tipo di Paradiso. Poi magari è come dicono i teologi, però io, se potessi andarci, vorrei trovarci i libri, e che fosse una biblioteca. Perché per me è quello il Paradiso. E tu? Com’è il tuo Paradiso?» Il ragazzo non ci aveva mai pensato: «Ancora non lo so.» Ammise dopo un lungo silenzio imbarazzato. Perciò si limitò ad ascoltare il continuo del discorso appassionato di Lucenzio. I libri. Il crepitare dei rotoli e delle pagine. Il sapere che fluiva attraverso di lui come solo la luce e la conoscenza potevano fare. Erano loro la sua idea di paradiso, anche se, ovviamente, non disdegnava le osterie. E una volta, alla domanda del ragazzino sul perché gli piacessero così tanto, rispose: «Quanti anni hai?» «Quattordici.» Li aveva compiuti solo qualche giorno prima. «Sei quasi grande. Un giorno ti porterò con me alle osterie. Chissà che non troverai delle bravi insegnanti anche laggiù».
«Insegnanti?» Aveva chiesto il giovane senza comprendere. Anche se la parte inferiore di se stesso pareva invece aver capito benissimo. Perciò si affrettò a pensare ad altro, onde evitare di essere scoperto. E non era che con solo la camicia e il farsetto potessero coprire più di tanto le sue calze slacciate. Anche quelle piuttosto aderenti.
«Certo, insegnanti.» Confermò l’altro con un sorriso malizioso e gli occhi luccicanti di sottintesi. Però il giovane decise di continuare a non capire. Forse involontariamente o forse no: «E chi sono?» Volle sapere.
«Devo proprio dirtelo o ci puoi arrivare anche da solo? Sono prostitute, ragazzo.» Ci poteva arrivare anche da solo, visto che aveva veduto gli animali anche lui, nella sua vita. «E se a me non interessasse?» Insinuò.
«E’impossibile che non ti interessino. A meno che non ti piacciano gli uomini. Dimmi, Agostino, ti piacciono gli uomini?» Indagò, incuriosito. Il giovane fece una faccia disgustata. «No. E’che non sento il bisogno di…»
«E’impossibile, lo senti per forza. La tua verga dovrebbe essersi destata da un po’ormai.» Fece il suo maestro sorridendogli e dandogli un buffetto sul gomito. Poi tornò ad appoggiarsi al tronco dell’albero e sospirò: «Non sei un santo, tantomeno un monaco, Agostino. E arriverà un giorno in cui un giardino non basterà più per soddisfarti e appagarti. Credo che soltanto il Giardino dell’Eden possa farlo davvero. Fa parte di noi. Dio ci ha creati così, altrimenti la vita morirebbe. Non hai nulla di cui vergognarti. Sei giovane, e hai ancora molte cose da imparare, non voltare le spalle alla vita per due o tre stupidi pettegolezzi. Presto avrai anche tu l’occasione di mettere a giro nuove voci sul tuo conto».
Il ragazzo lo guardò sgranando gli occhi smeraldini. Dal giorno in cui Santiago aveva scoperto che era il nipote del maggiordomo, si era sparsa per il castello l’imbarazzante conversazione sul suo conto che lo voleva ancora vergine. E, purtroppo, questa voce aveva varcato addirittura i confini del castello. Aveva sperato con tutto se stesso che il suo maestro non venisse mai a conoscenza di essa, ma si era sbagliato. Eppure, negli occhi dell’uomo, non lesse il riso, bensì la saggezza e la compassione e ciò lo fecero apparire ancora più vecchio di quel che era in realtà. Lo aveva scoperto a proprie spese quando era finalmente riuscito a chiedere un appuntamento alla figlia del mugnaio. La ragazza era carina, coi capelli ramati e gli occhi azzurri e la pelle cotta dal sole. Avevano passeggiato per un po’, anche se non erano riusciti a conversare di niente. C’era un naturale blocco tra di loro. Blocco che lui aveva cercato di infrangere traendola a sé e baciandola, ma costei si era messa a ridere e, staccatasi, mentre rotolavano sull’erba, gli aveva chiesto: «Ma davvero è la tua prima volta?» E si stavano solo baciando, pensate un po’. Poi aveva aggiunto: «Non si parla altro da settimane».
Perciò l’unica cosa che gli venne in mente fu quella di riaccompagnarla a casa e non farsi vedere mai più. E ignorare stoicamente tutti gli sguardi che a messa gli venivano rifilati. Con gran sconcerto di qualche suo conoscente all’interno del castello, che gli aveva domandato: «Come fai a resistere?»
«A cosa?»
«Alla voglia di pestarli, di smentire queste voci?»
«Resisto.» Mentì. La verità era che aveva cercato di smentirle in tutti i modi. Ma quelle voci parevano troppo ghiotte per quei campagnoli. Così non c’era stato niente da fare. L’unica cosa che gli sovvenne, quando andò a confessarsi e chiese consiglio al parroco, fu di smettere di strepitare. Non fu affatto facile, considerato il neo temperamento battagliero di Agostino. Ma si piegò al consiglio del sacerdote. Perciò riprese la sua vita di sempre, destreggiandosi tra vita quotidiana e studio e famiglia. A proposito della quale, si domandava se per caso lo zio avesse davvero scritto quella lettera. Ormai era passato troppo tempo perché non cominciasse a sospettare di qualcosa. Il pensiero che non l’avesse affatto ascoltato lo stava quasi divorando. Al punto che una sera, seduti al desco per la cena, si rivolse allo zio e gli chiese spiegazioni. Lì per lì lo zio non capì a cosa si stesse riferendo. Poi ci arrivò e disse: «C’è stato un contrattempo con il messaggero. Ma non ti preoccupare, la lettera l’ho spedita».
«Ma sapete se vi ha risposto?»
«Bè, no, ma lo scopriremo quando arriverà».
«E se non arrivasse?»
«Arriverà».
«Non potremmo mandargli qualcuno incontro?»
«No. Non manderò nessuno incontro a un messaggero che non hanno neanche mai visto. Non sia mai che venissero attaccati da dei briganti, o peggio.» Replicò l’uomo. Agostino si alzò dal posto dove si era seduto e disse: «Bè, io ve l’ho detto. Non fa niente, continuerò ad aiutarvi con le mansioni al castello.» Si pulì la bocca intonsa con un fazzoletto e poi si accomiatò sotto lo sguardo incredulo della zia. Fortuna che c’era la vita al castello a distrarlo. Per esempio, Gervasio stava perdendo un altro dente e non faceva che torturarselo con la lingua. Oppure, Maria Patrizia chiedeva il suo aiuto per tagliare i capelli e le unghiette ai figli. E il nipote l’aiutava, anche se pensava che sarebbe stata una pessima idea. Invece non fu poi così diverso che potare una pianta. La zia e molte altre persone, alla fine si erano abituate alla stranezza della sua chioma, perciò, quando venne il suo turno di tagliarsi i capelli, e lui si levò il cappello dalla testa, nessuno disse niente. E neanche lui: ormai si era abituato all’idea che quella chiazza l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Gli unici rimproveri in merito che riceveva, erano gli insulti di pessima lega di Santiago e i rimproveri della zia per avere il vizio di portare il cappello quasi sempre.
A volte andava al mercato a comprare la carne. Altre aiutava ancora la servitù sotto la direzione di Donato e Armando. E, a proposito di quest’ultimo, aveva imparato a riconoscere il piglio scherzoso, nascosto dai modi un po’bruschi. Anche se, quando lo faceva sgobbare, le preghiere che Agostino recitava, non erano variate per niente dalle prime che Armando gli strappò.

Alla fine anche maggio stava scivolando verso giugno. Agostino stava studiando con Lucenzio quando arrivò la missiva di risposta. A portargliela fu lo zio in persona. Il quale bussò alla porta ed entrò con un sorriso sotto al viso coperto di barba: se la stava facendo crescere ed era sale e pepe come i suoi capelli. I due si alzarono ed Etienne porse la busta al nipote annunciando: «E’ arrivata la risposta del marchese».
E stavolta fu il turno di Agostino a non capire a che cosa si stesse riferendo. «La lettera per il giardino che aspettavi tanto. Non guardarmi così, pensavi sul serio che non avrei accolto la tua richiesta e che il marchese non si sarebbe incuriosito almeno un po’?» Gli sorrise: «Ti concede di occuparti dei suoi possedimenti come meglio credi, però alla condizione che facciano invidia a tutti i signorotti locali. Il lato finanziario non ti deve preoccupare, ti manderà tutto ciò di cui hai bisogno».
Proprio in quel momento fece irruzione un’urlante zia Maria Patrizia. La faccia arrossata e il fiato grosso: «Agostino! Agostino! Non puoi immaginare quello che è successo! Il marchese ti ha risposto! Ti ha mandato la risposta!» Etienne pose la mano sulla spalla della consorte e questa lo guardò stupita, mentre ansimava per recuperare il fiato. Il viso ancor più rubizzo per la corsa. E lui da quando era lì? «Calmatevi, cara, gliel’ho appena detto io».
«Oh, accidenti!» Sbottò la donna con fare poco signorile che fece ampliare ancor di più gli occhi già sgranati di Agostino. «Ma perché devo sempre arrivare seconda nel portare le notizie?»
«Perché siete troppo impacciata, mia signora.» La prese garbatamente in giro il consorte. E lei incrociò le braccia e mise su una smorfia infantile che mal si addiceva alla sua età. Poi salutò i parenti e uscì. Etienne tornò a guardare il nipote. Il quale dal canto suo lo fissava allibito e commosso: «Ora però non metterti a piangere.» Lo schernì bonario il maggiordomo. Il ragazzo gli si avvicinò, ancora con quell’espressione: non aveva ancora capito che lo zio gli aveva fatto una sorpresa. Il maggiordomo alzò un dito e glielo agitò davanti al naso: «Però ora ti pongo io una condizione: devi continuare i tuoi studi, d’accordo? Un servo, oltretutto mio parente che non sa né leggere né scrivere è una vergogna. E se vuoi mantenere la tua promessa dovrai recarti spesso dai monaci: sono loro che hanno gli scritti sulle piante e il giardinaggio che ti servono. Perché al livello in cui verti ora ti occorrerà un miracolo per occuparti di questi possedimenti tutto da solo. Bè, che c’è? Perché mi fissi così?» Agostino era poco distante da lui, ancora incredulo per quella gentilezza e la sorpresa. Si accorse di essere lì lì per abbracciarlo quando si fermò. Non sapeva come avrebbe potuto reagire quello zio ancora sconosciuto sotto molti punti di vista. E francamente non gli era mai parso molto dolce nei confronti di nessuno. Arrossì e chinò il capo. Così non si accorse che lo sguardo dell’uomo si era addolcito. Aveva capito tutto. Così ci restò ancor più di sorpresa quando lo sentì allungare il braccio per dargli due pacche sulla spalla. E poi lo sentì dire con un sorriso paterno: «Ora datti da fare, ragazzo».

Organizzarsi come lo zio desiderava non fu affatto facile. Per prima cosa, la mattina seguente, subito dopo colazione, dovette fare un’ispezione nel castello e si accorse che non c’erano zappe a sufficienza. Visto che il parco era abbastanza grande, contava di reclutare almeno altre cinque o sei persone che l’aiutassero. «Come vuoi realizzare questo giardino?» Gli aveva chiesto il suo precettore, incuriosito, mentre il ragazzo cercava tutte le attrezzature necessarie. Aveva un’aria un po’scontenta, però l’aveva seguito lo stesso. «Non come quello dei monaci, e neanche come quelli dei palazzi».
«Allora come?»
«Voglio che somigli al Giardino dell’Eden.» Dichiarò il ragazzo suscitando la sua risata poco convinta. Il maestro, infatti, appoggiato alla parete, aveva osservato il suo concitato andirvieni. E gli domandò se fosse serio: «Certamente.» Replicò il giovane, le attrezzature sotto braccio, fermandosi davanti a lui. «Mai stato più serio di così in vita mia».
«Perché?»
«Perché è così che immagino che sia il mio Paradiso.» Il maestro lo guardò stupito: non si aspettava che il ragazzino si ricordasse della loro conversazione, e che alla fine avesse trovato anche lui il suo paradiso ideale. «Ma lo sai che nessuno ha mai visto il Giardino dell’Eden?» Gli fece notare lo studioso universitario, divertito. «Sì. Ma voglio provarci lo stesso.» Dichiarò risoluto il ragazzo finendo di sistemarli. L’uomo sbuffò e si staccò dalla parete: «D’accordo, ti do una mano anch’io. Tu dimmi che cosa devo fare.» Il quattordicenne lo guardò incuriosito. Anche se Lucenzio amava i fiori, non gli aveva mai dato l’impressione di essere in grado di occuparsi di loro. «Avanti, non restare imbambolato, parla.» Lo esortò il maestro. E il ragazzo si riscosse. Una volta che ebbero radunato abbastanza attrezzi e constatato che alcuni erano da riparare e altri da ricomprare, i due si recarono verso il giardino in questione. Lucenzio si guardò attorno un po’spaesato mentre seguiva il suo allievo. «Non avevo mai visto quest’ala del castello.» Commentò. «Io l’ho scoperta quasi per caso, pensa un po’». Appena ritrovò la porta - perché sbagliò anche corridoio e si ritrovarono in una torre - il ragazzo gli dette il benvenuto nel giardino. Se mai c’era stato un giardino che più di tutti sembrava uscito da un libro di favole, era quello. Ma non perché fosse splendido, semplicemente perché sembrava una foresta. Una foresta così fitta che non lasciava neanche intravedere il lago e le mura del palazzo. Non si sarebbero stupiti se da un momento all’altro fossero saltati fuori un cervo o dei lupi. «Ma siamo ancora dentro al castello?» Domandò il suo maestro, spaesato. «Sì, state tranquillo.» Lo rassicurò il ragazzo.
«Bene, hai già qualche idea?»
«Ci sto pensando.» Rispose l’allievo scrutando la vegetazione incolta, che, a loro volta, pareva fissarli incuriosita. «Intanto direi» disse dopo averci rimuginato per un po’: «di cominciare a chiedere l’aiuto degli abitanti del castello».
«Non ti ascolteranno.» Disse il suo maestro, con aria di saperla lunga.
«Nah, vedrete che qualcuno mi ascolterà.» Ribadì invece l’altro, convinto. Ma come scoprì ben presto, non fu così facile farsi ascoltare dal resto della servitù. Alcuni, di fronte al suo progetto inorridirono e si segnarono. Altri invece dissero, più pacati ma non meno terrorizzati: «Ci penseremo.» Ma il massimo che ottenne fu che Santiago, Andrea e compari lo schernissero, tre giorni dopo che la notizia si fu propagata per tutto il castello: «Ehi, sbarbatello, ho sentito dire che vuoi occuparti del giardino maledetto tutto da solo. E’vero?»
«Sì, Santiago.» Aveva sorriso il nipote di Etienne. «Hai davvero fegato, allora.» Continuò Santiago. Mentre Lucenzio, confuso, chiedeva spiegazioni a mezza voce al proprio allievo. «Come, non lo sapete, illustre maestro? Nessuno vi da una mano perché il giardino di cui vi occupate è avvolto da una maledizione.» E gli raccontò tutta la storia ignorando gli avvertimenti e le proteste di Agostino. «Ma non è tutto, il vostro allievo è diventato talmente lungo e talmente goffo che potete usarlo direttamente come pertica per le vostre misurazioni. Tanto il suo cervellino è buono solo per quello, visto che la sua verga è immobile e afflosciata come un cencio appeso allo stendino. O magari vi piace stare sotto o siete reversibili tu e il tuo maestro che ti sta sempre accanto?» Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Potevano passare un mucchio di cose. Ed era vero che la sua crescita era accelerata da quando aveva compiuto quattordici anni e che adesso era alto quanto lo zio. Ma questo, questo no. Non avrebbe mai permesso che Lucenzio venisse insultato. Per questo alla fine, si scagliò contro di lui e cominciò a tempestarlo di pugni. Lo spagnolo, colto alla sprovvista, non reagì prontamente e si ritrovò con il naso rotto. Lucenzio strappò di dosso al poveretto il proprio allievo mentre gli amici di Santiago si occupavano di soccorrere il loro capo. Lo spagnolo venne portato via, mentre berciava insulti e minacce nella sua lingua natia e Lucenzio rimbeccò il proprio allievo, il quale, fino a quel momento, non aveva fatto altro che dimenarsi come una furia. «Smettila!» Ma dovette ruggire quest’ordine quasi quattro volte prima che il giovane si chetasse e lo guardasse con sguardo implorante: «Vi ha offeso, maestro. Non potevo permettere che dicesse una sola calunnia in più su di voi e sul giardino».
Il maestro continuò a tenerlo stretto onde evitare che al giovane saltasse in mente di inseguire l’offensivo collega e andasse a finirlo. «Questo ti fa onore ma non dovevi picchiare così quello stolto. Credi sul serio che io smetta di aiutarti e fugga come il resto di questi villici per una diceria?»
«Ma non è una diceria. E’successo davvero.» Tanto valeva che vuotasse il sacco.
«Certo che ho capito che è successo davvero. E’ la storia del fantasma ad essere una diceria. Credevi che non lo avessi capito? Quanto sei immaturo, ragazzino. Maledizione o non maledizione, fantasma o non fantasma io ti aiuterò. Non credo alle maledizioni né alle leggende. Sono un accademico, io credo nei fatti. Non mi faccio spaventare per così poco. E’chiaro?»
«D’accordo».
«Non è questa la risposta».
«Chiaro».
«Così va meglio. Adesso ti lascio andare. Non ti azzardare a correre da quell’idiota. Oppure sarò io a farti vedere i sorci verdi in tutti i sensi. D’accordo?»
«D’accordo.» Promise il ragazzo e Lucenzio lo lasciò andare. Il giovane restò lì a guardarlo.
«Ci voleva tanto?» Chiese il maestro, retorico. Il ragazzo non rispose, anche se era palese ciò che pensava. Il precettore intanto continuò: «No. Fai dei bei respiri profondi e calmati, adesso. Stai meglio, ora? Visto che non ci voleva molto? Ora andiamo a occuparci di questo giardino».
Ciò detto vi si avviarono.
«Maestro.» Fece dopo un po’il ragazzo «Come pensate di fare per la maledizione?»
«Se i nostri colleghi qui sono troppo spaventati dal giardino, faremo venire il sacerdote a benedirlo. Così almeno staranno più tranquilli.» Sbuffò. Il ragazzo si domandò perché non ci avesse pensato prima. Poi si domandò se il sacerdote avesse avuto davvero tutto il coraggio necessario per farlo. Dopotutto loro due erano i primi che si opponevano alla maledizione del giardino del castello.

Gli arnesi rumoreggiarono sul bancone del mercato. «Prendiamo questi.» Dichiarò Lucenzio. Il venditore lo guardò un po’stupito: non avrebbe mai detto che un maestro comprasse attrezzi agricoli come quelli. Gli disse il prezzo e poi, mentre l’uomo pagava, domandò, incuriosito: «A cosa vi servono, vostra grazia?»
«Il mio allievo qui presente è un giardiniere.» Iniziò il maestro indicando il ragazzo accanto a sé che aveva scelto personalmente gli attrezzi. «Oh, il nipote di Etienne da Monselice. Sì, vi ho visto qualche volta a messa. Non vi avevo riconosciuto.» Interruppe l’altro, beccandosi un’occhiataccia dal precettore. Il quale poi continuò: «Ci servono questi attrezzi perché abbiamo intenzione di riportare il giardino del palazzo alla sua antica gloria». Purtroppo la storia del giardino maledetto era famosa anche in città, perciò l’uomo impallidì. «Vi siete bevuti il cervello?» Domandò terrorizzato. «No».
A quel punto si intromise il ragazzo, che disse: «Non preoccupatevi. Abbiamo già fatto benedire il giardino tre giorni fa.» E il venditore si tranquillizzò quasi immediatamente. Lucenzio invece lo guardò stupito. «Adesso non c’è più niente di maligno laggiù. E’ solo un giardino tenuto malissimo».
«Bè, se è così capisco che vogliate rimetterlo a nuovo. E’stata una lotta tremenda? Immagino che il Maligno non abbia voluto lasciare così facilmente il giardino.» Chiese in vena di pettegolezzi e rassicurazioni. «Mah, neanche più di tanto: tempo tre ore ed era praticamente andato via.» Replicò il giovane. Poi, di fronte allo sguardo del precettore si sporse verso il mercante e gli confidò: «Non fate caso alla faccia del mio precettore: è che non crede nel Diavolo e nelle maledizioni».
«Bè, dovrebbe. Mio cugino si è dovuto farsi togliere il malocchio.» E prese ad elencare i sintomi. E ottenne di far sbottare lo studioso: «Era scarlattina! Il demonio non c’entrava niente!» Il mercante lo guardò ad occhi sgranati e proprio allora Agostino raccolse gli acquisti e disse: «E’stato un piacere parlare con voi, spargete la voce che cerchiamo gente interessata a collaborare con noi. Buona giornata e addio». «Villici.» Borbottò schifato il precettore mentre si recavano a un’altra bancarella per le sementi e poi dal fioraio. Agostino preferì non replicare. Invece si concentrò sugli acquisti e le trattative. Ormai era abituato a fare la spesa e solitamente si trovava più a suo agio parlare coi fiorai. Infatti l’uomo lo ascoltò e gli disse che non vedeva l’ora di cominciare a collaborare. E che sarebbe giunto a palazzo tra tre giorni per dare una mano e oltre.
Sulla via del ritorno l’uomo gli domandò perché si fosse inventato quella balla a proposito del giardino: «Quale?»
«Quella sulla benedizione del sacerdote. Noi non abbiamo chiamato proprio nessuno».
«Ma non è una balla, l’abbiamo chiamato davvero».
«Ah. Perché non l’ho visto?»
«Stavate schiacciando un pisolino.» A volte gli capitava, soprattutto dopo pranzo. Perciò non fece altre domande.
Una volta al castello, la prima cosa che fecero fu di andare a occuparsi del giardino. Il piano prevedeva di potare le piante, falciare l’erba, togliere tutti i mobili e i resti della festa che erano lì da anni, sradicare eventuali infestazioni di qualsiasi cosa e piantare nuovi fiori e tagliare gli alberi malati. Se ce l’avessero fatta, voleva provare a trapiantarci delle ninfee. Agostino indossò i guanti di cuoio e prese le cesoie e cominciò a tagliare i rami di alcuni cespugli di rovi. «Datemi una mano con questi.» Disse all’uomo, il quale si affrettò a obbedire. Ferendosi ovviamente alle mani. «Andate a prendere la zappa.» Disse allora: «Avrò bisogno che mi aiutate a sradicare la pianta di rovi».
«Sradicarla? No, devi darle fuoco, non sradicarla».
«Se do fuoco a tutto il giardino non mi durerà che un anno quando deciderò di piantarci altre coltivazioni. Poi dovremo lo stesso rivoltare il terreno, non credetevi, perciò avrò bisogno del vostro aiuto ora più che mai».
L’uomo lo guardò sbalordito: «Coltivazioni? Pensavo che ci avremmo piantato direttamente le talee».
«Non tutte le piante che ho intenzione di metterci sono talee.» Spiegò Agostino. Poi si guardò intorno e mormorò che alcune delle piante che voleva metterci ormai le avrebbe dovute mettere l’anno seguente, ora era tardi. Non poteva permettersi di piantare nuove piantine in mezzo a tutto quel lavoro da fare: probabilmente avrebbero finito per calpestarle. Avrebbero usato le piante e i rami tagliati come legna per il camino e cenere per concimare assieme al letame e altri concimi naturali. «Mano alla zappa e giù di olio di gomito, maestro.» Fece il ragazzo con un sorrisetto di scherno. L’uomo rise verde ma lo accontentò. «E un’ultima cosa: vi consiglio di vestirvi diversamente.» Disse il ragazzo mentre lavoravano.
«Perché?»
«Perché il vostro abbigliamento non è adatto per il lavoro che facciamo. Finirete per rovinarvelo.» Spiegò il giardiniere indicando la veste del suo maestro. L’uomo non ci dette peso più di tanto. Ma tempo poche ore di lavoro che cominciò a puzzare di sudore come una fogna a cielo aperto. Inoltre molto spesso aveva bisogno di riposo. Non era abituato a svolgere tutti quei lavori. Agostino scosse il capo e ridacchiò sotto ai baffi. Che si aspettava che fosse, quella? Una passeggiata? Oh, no. Al contrario. Il maestro ci mise un po’per comprenderlo. Ma in una settimana si era adeguato, sia alle vesciche, che ai dolori, che alla fatica che al vestiario. Agostino ci mise un po’per riconoscerlo, a colazione, quando gli si presentò vestito come uno della servitù. «Mi son fatto prestare gli abiti da alcuni colleghi.» Spiegò con un sorriso orgoglioso. Agostino si appuntò mentalmente di scendere in paese per farsi prendere le misure dei nuovi abiti: quelli che aveva non gli stavano più. Ma per ora, per lavorare, andavano bene.
Ma i lavori procedevano a rilento. Intanto Agostino faticava a buttare giù un progetto effettivo del giardino. Prima cosa aveva cercato di disegnarlo su carta. Aveva scoperto che non era poi così diverso che disegnare nella polvere con un bastoncino. Anzi, era pure più comodo. Ma se non altro, cominciava ad avere un’idea di come strutturarlo. Il che era già qualcosa. Ma il problema più impellente era: «Abbiamo bisogno di gente.» Diceva Agostino a pranzo, una mano sulla sua fronte e i gomiti sul tavolo. Il maestro, ancora un bagno di sudore, si ritrovò d’accordo con lui. «Ma che possiamo fare? Qui tutti hanno paura del giardino».
«Mi sembra assurdo.» Sbottò il giovane giardiniere mollando un pugno sul tavolo che fece sobbalzare i vicini. Ma presto fu dimenticato. «Ma non avevi detto che il giardino era stato purificato?» Disse il maestro cacciandosi in bocca una fetta di pane. «Sì.» Rispose il ragazzo dopo un po’, incerto. «Ma sembra che loro non lo sappiano.» Aggiunse poi. «Ma gliel’hai detto?»
«Sì».
«Allora, se permetti un consiglio da parte mia, dovresti insistere un po’di più».
«E come?»
«Bè se qui non funziona allora prova altrove, in città».
«Ci ho provato».
«E?»
«Hanno accettato solo tre persone».
«Bene! E dov’è il problema?»
«Che speravo che fossero quelli del castello ad accettare. E che lo facessero senza che dovessi elargire per forza una paga».
«Non ti facevo così avaro».
«Non lo sono. E’ che…Pensavo che anche loro amassero le piante».
«Oh, mio giovane allievo, hai ancora molto da imparare su come funziona il mondo. Le persone raramente si muovono per interesse personale o solidarietà. Più spesso è più facile che si muovano per denaro, perché denaro significa sopravvivenza e cibo. E non tutti sono così fortunati da vivere in un castello. A quanto hai detto che ammonta la paga?»
«Qualche ghinea».
«Per ora dovremo accontentarci. Il vero lavoro verrà l’anno prossimo. Non pensi?»
«Sì».
Meglio che niente.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9: Canto nelle tenebre ***


Capitolo 9: Canto nelle tenebre

E
i mesi passarono portandosi dietro le stagioni.
Per quell’estate si limitarono a mantenere il giardino pulito e in ordine e a togliere i resti di quel banchetto finito male. Dovettero togliere persino un nido di vespe. Per farlo le affumicarono con il fumo di un fuoco e poi si disfecero di quel nido. Controllarono che non ci fossero altri nidi simili e si curarono dalle varie punture ricevute. Fortunatamente né Agostino né Lucenzio erano allergici alle vespe. Non si poté dire lo stesso di due dei braccianti. I quali morirono. Il primo per la puntura di una vespa e il secondo perché cadde da una scala mentre stavano lavorando. E questi incidenti non fecero che fomentare di nuovo le voci sulla presenza del Maligno nel giardino.
Perciò i lavori si fermarono per due giorni a causa del terrore e della superstizione popolare.
Però il ragazzo, che ricordava ancora il discorso fatto col proprio maestro, aveva capito una cosa: le persone amano il denaro. Perciò, per sostituire i due lavoranti, a cena saltò sul tavolo e agitò una scarsella verso i presenti. Tutti gli occhi furono immediatamente catalizzati su di lui. Il corollario di espressioni che si dipinsero su quei volti furono la cornice perfetta per quegli occhi strabuzzati. Il giovane oratore si sentì scaldare il viso come se fosse stato dinanzi al camino: «Ascoltate! Offro un lavoro a chi è interessato a guadagnare un po’di più. Aiutatemi nel giardino del palazzo e questi soldi saranno vostri!»
Subito la sala si riempì delle grida delle persone che cominciarono a urlare: «Dalli a me! Dalli a me!» Alcuni si offrirono persino di ricambiare in natura. Persino Santiago si dimenticò dell’astio che correva tra loro e si unì al coro di quelli che accettavano il lavoro. Ma vennero subito interrotti dallo zio che si alzò in piedi e tuonò «Silenzio!» Per ristabilire l’ordine. E tutto il parapiglia che si era venuto a creare si chetò. Un’aura d’inquietudine e incertezza si propagò per la sala. Come se il maggiordomo fosse capace di zittirli solo con l’imposizione di una mano. O meglio, di uno sguardo. «Chi ti ha dato il permesso di saltare sul tavolo? Dovrei farti rinchiudere per questa mancanza di rispetto alla tavola! Cosa credevi di fare? Scendi immediatamente da lì! Non sei una scimmia! Ti ho dato il permesso di lavorare a quel giardino. Non di fare lo sciocco. Se vuoi qualcosa vieni a chiederla a me. E adesso scendi e metti via quei soldi. Anzi no, dalli a me. Così almeno sarò sicuro che nessuno cercherà di tagliarti la gola, stanotte, per rubarteli.» Il nipote glieli lanciò, il viso distorto in una smorfia di rabbia. Lo zio li prese con una mano sola con una destrezza inaspettata per essere una persona con un occhio cieco. Poi scese a malincuore. Ma non si trattenne, che andò in camera propria.
Il giorno dopo il maestro andò a chiedere spiegazioni al diretto interessato sul perché non stesse lavorando. «Avete sentito mio zio, no? Mi ha tolto la possibilità di lavorare».
«Veramente vostro zio ha detto che qualunque cosa ti serva devi andare da lui.» Lo corresse.
«No. Non è vero».
«Permettimi di dissentire e di non farti scaldare troppo. Vai da tuo zio».
«Perché dovrei?»
«Perché se non lo fai mi fa pensare che quando hai detto che il Giardino dell’Eden che vuoi ricreare è il tuo Paradiso, non sia vero. E per guadagnarsi il Paradiso bisogna lottare».
Il ragazzo sbuffò ma si arrese di fronte all’evidenza di quelle parole: «D’accordo, vado».
«Prima però fatti un bagno.» Gli consigliò l’uomo. «Puzzi troppo, per i miei gusti.» Il ragazzo si annusò le ascelle e appurò che aveva ragione.
Dopo aver fatto il bagno e indossato gli abiti puliti, si recò dallo zio. Temeva che lo avrebbe punito di persona, invece lo ascoltò, anche se lo guardava come a dire: spicciati, ho di meglio da fare. Sembrava stanco, e a castello girava voce che la sera si attardasse a dormire perché ascoltava il canto del lago. Una leggenda minore voleva che una volta quel lago fosse stato abitato da una fata, forse una guana o un’arnica, che si era innamorata di un principe lunare. E che cantava per lui tutte le sere della bella stagione. Dall’equinozio di primavera all’equinozio d’autunno. Il giovane l’ascoltava incuriosito tutte le sere. Dapprima beandosi del canto, poi domandandosi chi fosse e infine innamorandosene. Però non poteva scendere e lei era troppo bella, fragile e delicata per essere lasciata da sola. Perciò inviò un drago d’acqua a proteggerla da eventuali assalitori. E quando anche lei morì, il suo innamorato mandò uno stuolo di cigni bianchi a prenderla. E, con loro, la fata, salì sulla luna, dove viveva tuttora con il suo amante. Ancora adesso, per udirla bisognava stare desti fino a notte fonda. E comunque di non farsi scoprire altrimenti finivano uccisi dal mostro del lago, inviatole dal suo amante, che le faceva la guardia. E lì erano pochissime le persone che avevano udito quel canto.
Agostino aveva deciso di non dare troppo credito a queste voci. Molte volte erano sbagliate e spesso i portatori di tali voci erano dei noti ubriaconi. La ragione dell’aspetto dello zio doveva essere sicuramente meno leggendaria e più terrena. Perciò ignorò il suo aspetto e si concentrò su ciò che era venuto a dirgli. Il ragazzo gli fece le sue scuse per il proprio comportamento, anche se gli ci volle un po’per arrivarci e per bloccare il proprio temperamento impulsivo. Lo zio lo ascoltò e poi alla fine, il nipote riuscì persino a sfogarsi. Era vero che era un giardiniere abilissimo, ma era anche vero che non aveva mai curato uno spazio così ampio. E aveva bisogno di braccia in più. «Per questo sei saltato sul tavolo come una scimmia e hai sventolato la scarsella neanche tu fossi un novello Robin Hood dinanzi al Principe Giovanni.» Ribadì lo zio mantenendo l’espressione arrabbiata.
«Sì.» Ammise il giovane vergognandosi.
«Tuo padre ti ha lasciato troppo tempo allo stato brado.» Sospirò l’uomo, quasi rassegnato. Alla fine chiuse gli occhi, celando così lo sguardo pieno di rabbia trattenuta: «D’accordo, ti darò una mano: ti mando qualcuno io, e sta pur certo che queste persone ti obbediranno.» Promise. Il ragazzo ringraziò e lo zio lo cacciò fuori in tono burbero. Non prima di avergli detto: «Posso suggerirvi di suddividere il terreno in appezzamenti? Così farete prima».
Il ragazzo sorrise, grato: «E’una bella idea, zio. Grazie».
«Ricordati che un giorno dovrai imparare a fare tutto da solo e a guadagnarti il rispetto del resto della servitù. Io non ci sarò per sempre. Adesso sparisci, ho da fare».
Alla fine aveva avuto ragione il suo maestro. Il ragazzo lo mandò a chiamare da un servo di passaggio raccomandandosi anche di farsi portare una pertica. Visto che nel castello non ne trovarono neanche una, maestro e allievo furono costretti a scendere in città e la trovarono dal falegname. Il quale gliela cedette a noleggio dopo una lunga trattativa. I due lavoratori, quando se ne andarono, non fecero che coprire di insulti lui e la sua spilorceria. «A cosa ci serve?» Chiese l’uomo, incuriosito, mentre la trasportavano nel giardino, attirandosi dietro non pochi sguardi incuriositi. Il giovane gli spiegò l’idea. Avrebbero preso le misure del perimetro e, con un rapido calcolo dell’area l’avrebbero suddiviso in appezzamenti da cominciare a lavorare. La buona notizia era che tutto ciò per ora sarebbe stato un lavoro più cartaceo che fisico. Ma quando aggiunse che di aree non ne sapeva niente e che avrebbe avuto bisogno anche del suo aiuto, gli parve di sentirlo borbottare che non lo pagavano abbastanza per questo genere di fatiche. Ovviamente subito dopo scivolò su un gradino e rischiò di finire con il sedere per terra. E lo rimbeccò: «Nessuno vi ha chiesto di aiutarmi. Siete voi che state facendo tutto da solo».
«Tristemente vero.» Gemette l’altro mentre si rialzava e continuavano il percorso. Appena arrivati videro nello spiazzo tre persone che li attendevano. Quale fu la sorpresa di Agostino quando vide che le tre persone in questione erano Santiago, e i suoi compari Andrea Comparini e Ottavio Giovannoni. Quest’ultimo, che era seduto a terra, si alzò. E il capobanda sbuffò, scontento: «Allora, ragazzino, che cosa dobbiamo fare?»
«Vi ha mandato qui mio zio?»
«Certo, che cosa ti aspettavi?» Replicò con gli occhi di uno che non avrebbe chiesto niente di meglio che sgozzarlo con le proprie mani. Evidentemente quella doveva essere stata un’idea di suo zio, una sorta di punizione per quello stronzo. Ma non ci sperò troppo. Suo zio era ancora un mistero per molti e certi versi. «Dateci una mano a togliere tutte le erbacce e i rovi rimasti, intanto. Poi ci occuperemo delle misurazioni. Andate a prendere dei guanti di cuoio, vi serviranno. Lucenzio terrà i conti io e voi misureremo la zona. D’accordo? E poi la divideremo e ognuno di noi si occuperà del pezzo che gli verrà assegnato».
«Ma noi non ci siamo mai occupati di un giardino.» Disse Andrea, spaesato, guardandolo con un lampo dei suoi occhi azzurri, che comparivano appena sotto la zazzera riccia e ramata. Dimostrava all’incirca ventinove anni, anche se la leggera barbetta sulle guance gli conferiva un’aria stupida. Ottavio invece aveva ventisette anni e gli unici aggettivi con cui lo si poteva descrivere erano stupido, porcello e basta. Ed erano solo i più gentili. Perché aveva la faccia porcina sempre sporca di qualcosa, che esprimeva soltanto stupidità. Era così stupido che lo prendevano in giro perché cantava alle piante. Spesso neanche parlava a causa di chissà quale trauma infantile subito, ma era un buon lavoratore, se lo si teneva d’occhio e gli si spiegavano con chiarezza i concetti. «Bè, da adesso sì. Non temete, se avrete bisogno di una mano vi insegnerò tutto ciò che so».
«Piuttosto che lavorare sotto le tue direttive così per cinque ghinee al giorno, mi butto nel lago e vado a fare compagnia al fantasma!» Sbottò Santiago, con un’audacia che li spiazzò tutti. Lucenzio sgranò gli occhi. Andrea e Ottavio invece cercarono di farlo ragionare, ma Agostino lo lasciò parlare: «No che non taccio, voglio dieci ghinee e gli darò una mano».
«Per quel che mi riguarda puoi andare a nuotare coi pesci.» Replicò Agostino, furioso. «Ora vattene via.» Disse indicandogli la direzione con l’indice. Santiago non se lo fece ripetere due volte. Anzi, parve molto soddisfatto di essere stato cacciato a quel modo. Gli altri due invece restarono e lavorarono. Si fermarono solo per pranzare e per assistere alle frustate che Santiago si beccò dal maggiordomo. Poi ordinò che lo spagnolo venisse portato via e curato e che venisse mandato a pulire le latrine e che ne uscisse soltanto una volta che fossero tornate pulite e linde come al momento della costruzione del castello. A cena, una fantesca riferì che Santiago, per tutto il tempo della punizione, non aveva fatto altro che sorridere. «Sembrava come posseduto. Avreste dovuto vedere come brillavano quegli occhi. Non ho mai avuto così tanta paura».
Agostino si domandò se dovesse prepararsi al peggio. Da quella sera in poi, quando si addormentava nel suo letto, il ragazzo imparò a temere per la propria incolumità. Santiago sembrava il tipo di persona che poteva effettivamente sgozzare qualcuno nel sonno. Per questo, ogni volta che si coricava non riusciva a dormire più serenamente come prima. Spesso si svegliava per verificare che Santiago non fosse lì e che andasse tutto bene. Di solito finiva per addormentarsi all’alba. Questo finché non decise di cambiare stanza e andò a dormire in un’altra ala del palazzo. Cioè assieme al proprio precettore. Il quale, venuto a conoscenza dei fatti, fece trasportare lì il giaciglio di Agostino. E allora andò decisamente meglio in molti sensi. Nel frattempo i lavori procedettero. E presto anche la primavera lasciò il posto all’estate. E arrivò il Solstizio d’Estate. C’era una tradizione, che allora veniva osservata. Oltre alla classica festa, tutti erano tenuti a portare la legna per i falò della notte di mezza estate. Li chiamavano fuochi di San Giovanni. Tradizione voleva che venissero saltati. Le persone dovevano arrampicarsi sulla catasta in fiamme e saltare giù esprimendo un desiderio.
Il paese fece festa e Agostino poté divertirsi in paese assieme alla famiglia e a Lucenzio. «Fortuna che le nuvole ci hanno dato tregua.» Sentì dire alla zia prima che si immergessero nella folla: «Temevo che a causa del mal tempo l’avrebbero rimandata.» In effetti fino al giorno prima il cielo era rimasto coperto da una spessa coltre di nubi grigie.
A un tratto Lucenzio scomparve. Agostino restò a godersi i festeggiamenti. I musicanti si misero a suonare e Agostino vide il suo maestro danzare con una fanciulla che non avrà avuto né più meno che tredici anni. Era vestita di verde chiaro e aveva la chioma bionda sciolta sulle spalle. Ma i capelli le coprivano le scapole e rideva come una bambina, mentre danzava con il maestro. Il quale, a sua volta, sorrideva felice, ma anche dolce. In un modo che al giovane ricordò moltissimo suo padre quando lo faceva giocare. Non avrebbe mai creduto di veder sorridere così anche Lucenzio. Sembrava solo un ragazzo anche lui mentre le faceva fare la giravolta. Poi vennero accesi i fuochi e qualcuno, uno degli appiccanti, gridò alla folla: «Chi salterà per primo?»
E visto che la folla pareva non muoversi, anche se molti erano tentati, fu proprio la ragazzina vestita di verde ad avvicinarsi. Molti l’applaudirono e persino lo sfidante la guardò meravigliato. Però l’aiutò ad arrampicarsi sulla catasta in fiamme. Raccomandandosi di fare attenzione al vestito. La ragazzina neanche lo considerò e cominciò ad arrampicarsi sotto le esortazioni della folla, che prese a fare il tifo per lei. Arrivata in cima saltò. Forse il terreno era troppo lontano per le sue gambe, fatto sta che quando toccò il suolo perse l’equilibrio e cadde carponi. Ma si rialzò immediatamente mentre le persone applaudivano.
Anche Agostino partecipò a questa tradizione per la prima volta e il suo desiderio fu quello di riuscire a creare il suo personale Giardino dell’Eden. Le persone applaudirono quando atterrò, incolume, a piedi uniti e vacillò appena. Fece un inchino al proprio precettore e ai collaboratori che erano lì.
Poi il maestro disse qualcosa alla sua compagna di ballo e si allontanò.
Il ragazzo attese di vedere come si sarebbero svolte le cose, mentre si rimetteva nella folla e incitava altri saltatori. Dopo qualche minuto eccolo di ritorno con un sorriso e una corona di fiori intrecciati. Si avvicinò alla fanciulla con l’abito verde e le mostrò la corona. Lei sorrise e disse qualcosa, tutta contenta. Il maestro allora, continuando a sorridere, gliela pose sul capo. Infine lei fece una riverenza e si accomiatò. Il giovane uomo non tentò neanche di fermarla.
Se Santiago, man mano che passava il tempo, si dimostrava sempre più astioso nei suoi confronti, lo stesso non si poteva dire dei suoi ex compari. I quali avevano preso, non tanto ad apprezzarlo, quanto piuttosto a tollerarlo quando lavoravano insieme. Per il resto raramente gli rivolgevano la parola al di là del giardino. Anche se il timore che Santiago facesse qualche stronzata non era svanito. Ma più passava il tempo più non succedeva niente. A volte il ragazzo aveva temuto che lo spagnolo approfittasse della notte per distruggerglielo dandogli fuoco. E spesso la notte si era svegliato per verificare di essersi sbagliato. Con suo grande sollievo.

I giorni passarono e, salvo quando dovettero smettere di lavorare per via di qualche temporale, il lavoro procedette bene. Addirittura, verso metà luglio, giunse a palazzo la famiglia dei Da Campo in vacanza con il proprio seguito. Agostino non aveva mai visto così tanti nobili tutti insieme. Come neanche aveva immaginato che esistessero vesti ancor più ricche di quelle che aveva veduto finora. Le donne avevano i capelli raccolti in morbidi chignon, o trecce laterali molto elaborate. Oppure lunghe o centrali, tutte schiarite col the che conferiva loro un colorito ramato. Queste acconciature erano fissate con reticelle dorate adorne di perle e gioielli di varia fattura. Oppure erano ornate di sottilissimi veli colorati e velette. Il ragazzo rimase incantato da quei capelli: erano così diversi dai turbanti e dai torciglioni della zia. Per non parlare della scollatura quadra e dell’attaccatura bassa alle spalle che mettevano in risalto il collo, il seno e il petto incipriato e imbellettato. Anche se le dame più giovani avevano una scollatura meno ampia. La vita era sottolineata da un rigido bustino e la gonna arricchita di pieghe era vaporosa e voluminosa sostenuta dalla faldiglia - una sottogonna imbottita e tesa a campana. E la cintura seguiva la linea del busto, scendendo a triangolo sul ventre e pendeva con un solo capo al centro fino a terra.
Quelle donne, tutte, dalla prima all’ultima, gli facevano pensare: ecco, queste sono delle vere dame, non le donne dell’osteria. Osò persino chiedersi come avesse potuto trovarle così belle, quelle meretrici che stavano allietando le sue notti.
Se avesse avuto una minima conoscenza artistica avrebbe rimpianto di non essere un pittore per dipingere quelle meraviglie. Ma non ce l’aveva.
Invece gli uomini parevano quasi i loro regali custodi. Con quei visi sbarbati e il collo e la nuca nudi e la zazzera lunga. Parevano ancor più uomini al fianco delle loro consorti. I più anziani portavano le tradizionali vesti lunghe fino a terra. I più giovani indossavano farsetti e calze solate. Le vesti, non troppo dissimili dalle gonnelle trecentesche, erano comuni a tutti, anche se le stoffe dei signori erano decisamente più pregiate delle loro. Invece i vestiti lunghi fino a metà coscia, erano più pesanti, erano usati come soprabiti e parevano renderli ancora più virili e imponenti. Alcuni addirittura indossavano la gavardina. Invece le calze erano allacciate al farsetto. Ma il ragazzo notò che indossavano la calzabraga. Uno di questi gentiluomini completava il tutto col la pellanda, realizzata con tessuti ricchissimi, aperta davanti e ulteriormente arricchita di svariati modelli di manica, spesso ampia. Solo che questa era più corta. E altri ancora la giornea. Un paio di loro indossavano il mazzocchio, una specie di cappuccio che assumeva una forma particolare grazie al drappeggio. O la berretta. E poi i mantelli svolazzanti conferivano loro ancora più grazia e magnificenza di quanta già non ne avessero. Infine i gioielli come le catene ad anelli con medaglione o le pietre preziose sugli anelli, o i cammei, le spille e i fermagli, li facevano ancora più regali. A guardarli era persino facile dimenticarsi che erano stanchi e reduci da un viaggio da Venezia alla loro proprietà.
Si ritrovò a farsi orrore, accanto a costoro, per essere vestito solo con la camicia e la casacca che gli sfiorava i polpacci e la calza divisata, cioè metà di un colore e metà di un altro. Persino le cortigiane che erano con loro erano vestite ancor più riccamente di loro.
A completare il corteo ci pensarono gli schiavi. I quali trasportarono i bagagli della famiglia. E anche i servi, sotto le direttive di Armando, cominciarono a lavorare per sistemare i cavalli nella stalla e le carrozze.

L’uomo dall’occhio cieco ricevette direttamente i padroni con mille inchini e salamecchi e si comportò come un perfetto padrone di casa per tutta la durata della permanenza. Per Agostino fu strano vederlo vestito con vesti ancor più ricche delle solite che usava portava. E ancora di più fare la conoscenza in prima persona dei Da Campi, quella sera a cena. Il patriarca era curioso di conoscerlo da quando aveva ricevuto la lettera del proprio ciambellano. E ora eccolo lì. Notando la sua chioma corta e di due colori domandò sì cosa gli fosse accaduto, ma anche: «Avete intenzione di destinarlo alla carriera militare?» Perché soltanto i militari portavano la chioma corta.
«Oh, no, mio signore, no. E’che purtroppo i capelli lunghi stonano coi suoi lineamenti.» Spiegò Etienne.
«Quindi questo è il giovane che si sta occupando del nostro giardino?» Disse il capo famiglia dei Da Campo, squadrandolo. Poi gli disse di rialzarsi dall’inchino in cui si era profuso e Agostino obbedì. Era quasi imbarazzante essere più alto di lui. E colse una scintilla di fastidio nel padrone che lo fece impallidire. Evidentemente non amava guardare qualcuno dal basso. Non si sarebbe affatto sorpreso se avesse avuto problemi con la propria altezza.
«Certo. E dovreste vedere quanta passione ci sta mettendo per riportarlo in auge».
A quel punto Agostino intervenne, facendo sentire per la prima volta la propria voce: «Oh, no, signore. In realtà non è mia intenzione riportarlo in auge, voglio farlo diventare ancora più bello di così».
Etienne lo fulminò con gli occhi ma l’altro lo guardò incuriosito e interessato: «Più bello di così?» Domandò.
«Precisamente. Voglio realizzare una specie di Giardino dell’Eden proprio qui».
«Oh, è un progetto molto audace da parte vostra, ragazzo. E come sta procedendo?»
«Ce la stiamo mettendo tutta.» Disse cauto. Suo zio pareva sul punto di svenire. Ma i due interlocutori continuarono a ignorarlo, come se non esistesse: «Quanti anni avete?» Domandò il marchese.
«Quattordici, mio signore».
«Quattordici? Davvero. Bè, siete molto giovane per assoggettarvi un incarico del genere.» Constatò l’uomo, ammirato.
«Curo piante e giardini da tutta una vita.» Spiegò il giovane: «Mio padre e mia madre, quando erano vivi, mi insegnarono tutto ciò che so. Erano molto bravi. A Sirmione, dove abitavamo, curammo le piante di tutta la città».
«Mi duole ammettere di non essermici mai recato.» Fece l’uomo. A quel punto intervenne Etienne che disse: «Mio fratello minore, che Dio l’abbia in gloria, era uno dei migliori giardinieri d’Europa. Sicuramente avrete sentito parlare anche voi del giardino della Scuola Medica Salernitana. Se ne occupò lui personalmente.» Un guizzo di riconoscimento scintillò negli occhi del marchese. Ne aveva sentito parlare. Poi si rivolse al nipote del ciambellano: «E ora dove sono i vostri genitori, che mi piacerebbe molto conoscerli?»
«Sono morti, signore, qualche mese fa.» Spiegò Agostino, in tono più triste. L’uomo arrossì per la gaffe. Evidentemente doveva essersi perso la parte del discorso in cui lo avvisavano che erano passati a miglior vita; cosa che, a volte, gli succedeva quando la conversazione non lo prendeva più di tanto. E per uscirne disse: «Bè, datevi da fare ragazzo. Sono davvero curioso di vederlo quando sarà ultimato».
Il giovane sorrise, mesto e chinò il capo: «Sarà fatto, signore».
Poi il marchese lo congedò e il giovane, con un inchino, raggiunse il proprio precettore, che lo stava aspettando seduto alla tavola assieme agli altri ospiti. Era strano un po’per tutti rivederlo con gli abiti da precettore e maestro. Quasi non si credeva che appartenesse a un ceto più alto del loro. «Allora che ti ha chiesto?» Domandò all’allievo quando questo si sedette accanto a lui. Essendo il nipote del ciambellano aveva diritto a sedere assieme a loro. Prese qualche coscia di cinghiale e si riempì il piatto sotto gli occhi astiosi del resto della servitù tirata a lucido esclusivamente per quella visita importante.
«Niente di che, ha fatto domande sul giardino».
«Bene. Gesù, non vedo l’ora di togliermi questi abiti.» Borbottò poi Lucenzio e il ragazzo, mentre mangiava lo guardò alzando un sopracciglio. Inghiottì e lo schernì allegro: «Ma come? Non eravate voi che amavate il vostro abbigliamento?»
«Ti confesso che ormai sono così abituato a vestire in una maniera diversa che ora mi sembrano estranei. E prudono».
«Forse sono le tarme.» Lo prese in giro il quattordicenne, godendosi l’espressione sgomenta e preoccupata che si stampò sul volto dell’altro: «Dirò a Tea di metterci dell’amido».
Poi prese un calice di vino e bevve. Solo allora si accorse che una delle dame li stava fissando. Era vestita di un abito di raso velluto color rosso come il sangue e spiccava in mezzo alle altre dame che erano vestite di blu chiaro. Dalla scollatura e dai modi non era difficile intuire che quella fosse una cortigiana e che, soprattutto, ce l’avesse a morte con loro. Un momento, non con loro. Ma solo con Lucenzio. Si volse a guardare il maestro che, in quel momento, stava bevendo anche lui. Una giovane serva dalla chioma bionda era ritta in piedi accanto a lui. A vederla non poteva avere più di tredici anni. Agostino le lanciò un’occhiata distratta. Poi si accorse che era la medesima ragazzina cui Lucenzio aveva regalato la corona di fiori. Non l’aveva riconosciuta in livrea e coi capelli raccolti. Neanche pensava che lavorasse al castello. Chissà se poi si era occupata anche delle voglie del suo maestro? «Volete altro da bere?» Domandò lei, ignara di questi pensieri. Il giovane si accorse che teneva tra le mani una caraffa piena di vino. Il maestro si volse verso di lei mettendo giù il bicchiere e disse: «No, grazie, vai pure a servire qualcun altro.» La giovane fece una piccola riverenza e obbedì.
Agostino si accorse che il suo precettore faceva di tutto per ignorare la cortigiana. Oppure, forse, non si era neppure accorto di lei. Eppure doveva essersene accorto. Quello sguardo rovente di odio lo percepiva persino lui sulla sua stessa pelle. Tornò a guardare la donna nel momento esatto in cui costei girava la testa per parlare con la vicina; mentre i camerieri servivano tutto attorno a loro, e i musici e i cantori, allietavano il banchetto.
Agostino si domandò che cosa stesse succedendo. Poi scosse il capo e tornò a concentrarsi sul banchetto. L’indomani avrebbe dovuto lavorare. Eccome se avrebbe dovuto. Sperò solo che il resto dei propri collaboratori non si stesse dando alla pazza gioia proprio in quel momento.
I Da Campo e seguito sostarono a palazzo per tutta la durata dell’estate. Dopo il colloquio avuto con il marchese, il ragazzo non ebbe più altri contatti. Neanche con la parte femminile della famiglia, che pure l’aveva affascinato così tanto quella prima volta che li aveva visti.
La prima parte del giardino ad essere pronta per i semi e le nuove piante fu l’appezzamento di Andrea. Per quel giorno si limitarono a tenerlo pulito e Agostino ordinò che così doveva restare finché tutto il giardino non avesse raggiunto lo stesso grado. Poi sarebbero passati al lavoro vero e proprio. Quella sera festeggiarono e Lucenzio portò la comitiva alle osterie. Come fece a convincere lo zio restò una specie di mistero. Fatto sta che anche lui poté recarsi in paese. Quella fu la prima volta che Agostino vide delle prostitute e i suoi colleghi e il suo maestro darci dentro. Lui stesso si ritrovò tra le braccia di una di quelle meretrici, la quale, intenerita dalle parole di Lucenzio, per quella sera fu sua maestra. Era una donna coi capelli castani e un vestito giallo e scollacciato. Ci prese così tanto gusto che alla fine mise a tacere le voci che lo volevano vergine, impotente e inesperto. Bè, oddio, magari sull’inesperto ci poteva ancora stare, visto che era stato iniziato al sesso da poco. Ma sicuramente non impotente. E, anche se tra le braccia non aveva la marchesina che lo aveva colpito tanto, si divertì lo stesso.
Quando tornò alla realtà, ancora stordito dalla potenza delle sensazioni, sulle prime si era preoccupato che suo zio venisse a saperlo, e di essere punito in qualche modo. O peggio, che venisse a saperlo sua zia e che gli facesse una ramanzina sulla morale. Ma poi si ricordò di non essere una ragazza e si rilassò. Allora la morale era parecchio rigida per quanto riguardava le donne. Di qualunque ceto fossero. Oddio, magari avrebbe dovuto fare comunque attenzione: non fosse mai che il buon nome dei da Monselice fosse stato macchiato dalle sue scappatelle. Suo zio gli dava l’impressione di non aver mai giaciuto con delle prostitute, ma che fosse, oltretutto, quel genere di uomo che condanna un rapporto simile. Anche se, in mezzo alla comitiva di uomini che puzzavano di donnine allegre, era difficile stabilire chi avesse l’odore di chi.
Una sera, mentre si divertiva, gli parve di vedere una sagoma nera camminare vicino a lui e la sua compagna e un profumo di fiori e acqua dolce. Accompagnati da un sibilo serpentesco che gli fece rizzare i peli sulla nuca e lo fece voltare. Interrompendo così il bacio della donna seduta sulle sue ginocchia. La quale cercò di reclamare di nuovo la sua attenzione. Tanto Agostino era quel tipo di ragazzo che già in giovane età pareva un uomo, perciò non fu così scandaloso a vedersi. «Mi è parso di aver visto un’ombra».
«Io non ho visto niente».
«Me lo sarò sognato».
Ciò detto tornò a occuparsi di lei.
Quella sera sognò una fanciulla seduta sui massi in riva al lago, col capo incoronato di fiori che rideva felice. E poi si tuffava nel lago e quando ne riemergeva, illuminata dai delicati raggi lunari, si metteva a cantare una canzone.
Quando tornarono al castello sul tardi, con la luna piena che si specchiava sull’acqua, gli parve effettivamente di udire un’allegra risata femminile. Ma per quella sera non ne ebbe paura. Probabilmente qualcuno nel castello stava divertendosi.

Anche se occuparsi del giardino gli portò via molto tempo, rimediò ai suoi studi alla sera. Quelle volte che non andava con Lucenzio e gli altri alle osterie. Dedicando qualche ora prima della mezzanotte allo studio con Lucenzio. Il quale, essendo un tipo più diurno che notturno, non apprezzò più di tanto quella scelta. Anche perché non aveva una buona capacità di recupero. Per ogni notte di bagordi gliene servivano tre per recuperare l’energia necessaria. Diceva di essere sopravvissuto all’università grazie all’ansia ante esame, che gli ricordava sempre di essere desto. Ma si adeguò. Alla fin fine si era rivelato un tipo piuttosto lasco.
Per prima cosa dovettero potare le piante. E non fu facile. Affatto.
Una sera il ragazzo raccontò al proprio maestro la leggenda sul lago ove il castello si specchiava. Il maestro rise e disse: «Questa è un’assurdità bell’e buona».
«E’ quello che ho detto anch’io. Però…» Si fermò e si fece meditabondo. «Però sarebbe bello incontrare una creatura del genere, non pensate?»
«No. Io trovo che se mai esistessero ne sarei terrorizzato».
«E riguardo la fata del lago, che mi dite?»
«Non so se sia davvero una fata o una persona in carne ed ossa. Ma se ha una voce così bella allora mi sembra strano che canti solo di notte. Dovrebbe cantare per tutti, non nascondersi così. Se esiste. Sottolineo il se esiste. Ma io penso più che non esista. E’impossibile che una fanciulla si metta a cantare così, per un principe che vive sulla luna, di notte. Sanno tutti che la luna non è che una manifestazione della volontà divina e che non è come la Terra.» Allora andava ancora di moda la teoria geocentrica e il sistema tolemaico.
Agostino si grattò un orecchio: «Sì, forse avete ragione voi, maestro.» In fondo era solo una leggenda, no?
Era molto più facile avere accesso alle stanze dei membri femminili della famiglia che servivano. Quelle belle donne esercitavano su di lui un fascino che non si sapeva spiegare. E anzi, ogni giorno che lavorava, sperava di incrociarle per i corridoi o di incontrarle per le stanze. Magari mentre cucivano, oppure mentre si esercitavano con il liuto o prendevano lezioni di canto.
Era riuscito a incontrare almeno un paio di volte una delle più giovani, che aveva all’incirca un paio d’anni più di lui. Ma era talmente graziosa, quasi come una bambola di porcellana, che era soltanto riuscito a collezionare una figuraccia dopo l’altra. Però, anche se avesse potuto stabilire un contatto con loro, non sarebbe durato affatto, e avrebbe portato solo guai. Infatti, gli aveva spiegato lo zio quando l’aveva beccato a fissare Maddalena Giovanna - così si chiamava la ragazza - la situazione poteva essere rischiosa. E non solo per via della cortigiana che aveva fissato male Lucenzio, e della dama di compagnia, che le stavano sempre appresso. Sin dall'infanzia le bimbe venivano sorvegliate, perché non avessero troppi contatti con i servi o gli schiavi, persone poco raccomandabili. «E tu sei un servo.» Gli aveva detto, guardandolo con serietà. «Che intendete, zio?» Aveva chiesto il giovane senza capire.
«Per quanto ricopriamo una posizione elevata nella nostra scala gerarchica, siamo comunque dei servitori. Se tu osassi intaccare la purezza della giovinetta, verresti punito».
Per evitare questo tipo di inconvenienti, erano mandate in convento, dove potevano studiare e stare al riparo dalle cattive compagnie, fino agli undici-dodici anni. «Ma ora lei ha sedici anni».
«Diciassette.» Lo corresse. «E sta imparando i propri doveri di donna per diventare una perfetta sposa».
«Oh, volete dire che è già promessa?» Ma omise di dire che venivano promesse in età più giovane. «Certamente e da tre anni».
Il ragazzo fece una faccia come dire: ah, ecco. Ma poi si riscosse e domandò, battendo le palpebre: «A chi, se posso chiedere?»
«Un mercante molto ricco di Padova. Come sai, i nostri padroni, per quanto amino fingere di navigare nell’oro, hanno urgente bisogno di rimpinguare le proprie casse dopo l’ultimo naufragio di una delle loro navi mercantili che trasportava un ingente carico di ricchezze. Non chiedermi come abbiano fatto a convincerlo a legarsi a lei perché me lo chiedo persino io.» Era risaputo che, essendo i matrimoni combinati, lo sposo l’avesse scelta tra tutte, per la propria dote. Oltretutto in base ai consigli dei membri anziani della propria famiglia. «Ti consiglio di puntare i tuoi occhi altrove. Una così non potrai raggiungerla neanche tra un milione di anni.» Gli disse lo zio in tono compassionevole. Il giovane si sentì invaso dal dispiacere. Poi lo zio gli dette una pacca sulla spalla, come se lo capisse.

Forse avrebbe continuato a pensare alla giovane delle sue ossessioni, se una di queste sere non fosse accaduto un fatto straordinario. Quella sera stava ancora studiando. Se non poteva trovare consolazione ai suoi dispiaceri, poteva almeno rifugiarsi nello studio. Era stato difficile, all’inizio. Perché continuava a rivederla anche sulle pagine. La vedeva ridere, felice e, molto probabilmente, ignara dei suoi sentimenti per lei. Però, si accorse, che era facile ignorare quelle immagini, se concentrava su altro la propria mente. Era molto migliorato rispetto a sei mesi prima, a suo parere, anche se il suo maestro non l’avrebbe pensata allo stesso modo. La sua grafia era ancora sgraziata, tremolante e infarcita di errori d’ortografia. Però lui non se ne preoccupava, e sicuramente neanche il suo maestro, soprattutto a quell’ora. Ormai giunta la mezzanotte, e forse sarebbe andato avanti fino all’alba, se il campanile non avesse battuto i consueti dodici rintocchi. Ormai era aprile e la notte a volte non era più così fredda come nei mesi precedenti, perciò studiava con la finestra aperta. Gli piaceva il sottofondo della notte ai suoi studi.
Fu proprio quella sera che, dopo il dodicesimo rintocco, accadde qualcosa di strano. Sentì infatti una soave voce femminile trasportata dal vento, cantare:
Con una chiamata audace e improvvisa
la nostra storia è finita.
Ricordi di noi? Fummo come l’acqua e la luce:
aprimmo i nostri cuori
e mescolammo i nostri colori
in un turbine che non scorderò più.
E ci dicevano leggenda quando la leggenda non era ancora sbocciata.
Erano altri tempi e io non ero ancora nata, per cui non ne serbo ricordo, ma vorrei esserci stata.
Quello che so in un racconto si trasformò.

Lì per lì il giovane non ci fece caso, anzi, credette di esserselo immaginato. Pensò di smettere di studiare e andare a letto, ma si accorse che mancava ancora poco e avrebbe finito per quel giorno. Così, con uno sbadiglio, continuò. Dopotutto, pensava che fosse un segno di stanchezza. E poi aveva davvero sonno. Perciò si stropicciò gli occhi con la mano e mise da parte i fogli con un rumoroso sospiro. Ma la voce non scomparve, anzi, persistette. Non era nella sua mente, e neanche nelle sue orecchie. Il giovane s’immobilizzò in quella posizione, ancora seduto alla scrivania. Un leggero brivido di terrore gli risalì la schiena e gli scosse le membra mentre la voce continuava, ammaliandolo e spaventandolo al tempo stesso. Si volse lentamente verso la finestra dalla quale proveniva la fredda e delicata luce della luna; ma non osò schiodarsi dalla sedia. Chi poteva mai cantare a quell’ora?
Ricordi come ci amammo?
Mentre tuo fratello uccideva mio fratello
Il nostro amore divenne leggenda nel dolore.
Dovemmo scappare per salvarci
ma non fummo perdonati e un mostro ci inseguì.
Viaggiammo notte e giorno coi cavalieri
ma non ero stanca perché avevo te:
«Andiamo avanti, non guardar indietro o il serpente nero ci prenderà».
Ma mentre t’imploravo, sopra i racconti, trasognato
il tuo sguardo, le tue fantasie e sogni li notavo,
ed erano così forti che mi baciasti e dicesti «tornerò»…

Il giovane non sentì nient’altro perché il vento improvvisamente cessò. Rimase a fissare la penombra rischiarata dalla fredda luce argentea con gli occhi sgranati, come se lo stessero minacciando con un coltello. Alla fine balzò via dalla sedia e corse a chiuderla con un impeto tale che mancò poco che spaccasse il prezioso vetro. Poi corse alla propria stanza che condivideva con molti altri. Il giovane passò tutta la notte in bianco, tormentato da quella voce e i ricordi che gli aveva suscitato. Erano le stesse parole che gli avevano annunciato la morte dei suoi famigliari. Sigillò gli occhi con forza e pregò sottovoce: «Oddio, no. Ti prego, no».
Altro che maledizione del lago e del giardino, avrebbero dovuto farlo a lui la benedizione. Non era possibile che il suo peggior incubo l’avesse trovato anche lì. Pregò con tutto se stesso che il Signore non si accanisse più su di lui. E si pentì di aver mentito a Lucenzio e gli altri: non l’aveva mica fatto benedire per davvero quel giardino. Si ripromise, l’indomani, di farlo benedire per davvero.
Quando giunse l’alba si alzò e sentì su di sé gli effetti dell’insonnia e della paura. Si sfregò il viso, la pelle morta impolverata che veniva via come niente e si lasciò sfuggire un lamento. Si sciacquò il viso e le ascelle, poi si vestì e scese dabbasso per la colazione. I cuochi e i servitori erano già in fermento mentre si davano da fare.
Il ragazzo si sedette al tavolo e si lasciò andare a un sonoro sbadiglio. Poi si sfregò gli occhi con una mano.
«Buongiorno.» Si sentì salutare alle spalle. Sia lui che la cuoca si volsero e vide lo zio di Agostino, fresco come una rosa. La donna ricambiò il saluto con un sorriso. L’uomo aggirò il tavolo e si pose davanti a lui con il proprio piatto della colazione. Poi gli mise davanti anche il suo. Di solito non lo faceva mai. O era di buonumore o Agostino era troppo distrutto per riuscire a provvedere a se stesso come suo solito. L’uomo parve accorgersene e gli domandò se avesse dormito bene: «Hai l’aria stanca.» Disse poi, accigliandosi. Si appoggiò al tavolo, incuriosito e preoccupato, mentre la cuoca continuava a fare domande. Essendosi anche lei accorta della brutta cera del ragazzo. «Per caso hai fatto un brutto sogno?» Il giovane si massaggiò un sopracciglio, più assonnato che mai: «No…No, io…Io non ho proprio dormito».
Le persone lo guardarono tra il preoccupato e l’incuriosito: «Perché?» Chiese Tea, con la faccia di chi teme di conoscere già la risposta. Tutti erano a conoscenza dell’infatuazione di Agostino per la marchesina. Ma quello che disse cancellò quest’espressione dalle loro facce: «Ho sentito una voce».
«Bè, è logico, viviamo in un castello gremito di persone, che di notte alle volte vanno al bagno. È normale che tu abbia sentito una voce.» Disse lo zio con un sorriso, mentre mangiava. Mentre l’anziana signora domandava, invece, perplessa e un filo spaventata: «Una voce?» Agostino scosse il capo: «No. Non era una voce di uno di noi, del castello. Ormai le conosco tutte. Se no non mi sarei mai spaventato così tanto. Era una voce femminile, molto giovane, penso». «Hai bevuto, ieri sera?» S’informò l’uomo in tono pratico mentre la cucina si animava tutto attorno a loro.
«No. Io ieri sera stavo studiando».
«Allora era stanchezza!» Concluse, poi: «Non te la prendere; troppo studio fa male.» Scherzò con un sorrisetto mentre il nipote mangiava. E ridacchiò dell’occhiataccia di risposta che gli venne rifilata. Ma aggiunse, in tono più comprensivo: «Forse era solo un sogno ad occhi aperti».
Il quattordicenne inghiottì: «No, era reale. Lo so come adesso sono qui».
Lo zio incrociò le braccia e sbuffò, più della serie: diamo ascolto al matto; che: d’accordo, ti ascolto: «D’accordo. Allora, di cosa trattava la tua misteriosa voce?»
«Veniva da fuori della finestra, credo dal lago. La portava il vento. Parlava di una dama abbandonata e di una guerra e di un serpente nero.» Si trattenne dallo svelargli che erano anni che udiva sempre il verso del serpente nero e continuò: «E l’ho udita verso mezzanotte e mezzo, l’una».
Adesso sul volto dello zio c’era dipinta un’altra espressione: adesso pareva quello di una persona preoccupata per qualcosa. Come se Agostino avesse scoperto il suo più grande segreto: «Me la puoi cantare?» Chiese, titubante.
«No, faccio schifo col canto. Ma te lo posso recitare. Diceva…»
«Non importa», lo interruppe lo zio ancora prima che cominciasse, «lascia stare, era solo un incubo.» Il giovane, troppo assonnato, lasciò correre. Ma se fosse stato nel pieno delle sue facoltà mentali avrebbe ammesso che c’era qualcosa che non tornava. Solo che non avrebbe saputo dire che cosa.
In ogni caso la giornata nel castello era iniziata, e lui non aveva scusanti per sottrarsi al suo lavoro quotidiano. Se c’era un lato positivo in tutto questo? Almeno suo zio lo pagava. Agostino stava cominciando ad accumulare un piccolo tesoro. Quello stesso pomeriggio, dopo pranzo, mentre Agostino riposava, finalmente cheto e con la pancia piena, sognò. Sognò il serpente nero e le ninfee del lago. Poi sognò di mani femminili che suonavano un’arpa e infine una voce femminile. Non ricordava cosa stesse dicendo, però ricordò benissimo che un’altra, maschile, si sovrappose alla prima e lo chiamò per nome. Poi una mano lo scosse per la spalla, ricordandogli molto i tempi passati, perduti, della sua infanzia. Al punto che credette che quegli anni non fossero mai trascorsi. Che fosse stato soltanto un incubo e che suo padre e sua madre non fossero mai morti. Si girò su un fianco. «Ehi, Agostino. Agostino. Mi senti? Svegliati, Agostino».
«No. Lasciami dormire ancora cinque minuti, papà.» Bofonchiò cercando di scacciarlo con una mano. Proprio ora che dormiva così bene affondato nell’erba. Gli pareva quasi di essere abbracciato da essa. E non era molto propenso a separarsene. «Papà? Agostino, svegliati.» Disse la voce divertita. «Sono io, lo zio».
Il ragazzo aprì gli occhi e arrossì mentre tornava al presente. Si volse verso il fratello maggiore del defunto padre, e lo vide smettere di sorridere: «Un brutto sogno?» Chiese costui allontanando la mano con fare preoccupato. «No, va tutto bene, zio.» Si mise seduto e si stiracchiò, facendo scricchiolare la colonna vertebrale: «Cosa volevi dirmi?» Domandò.
Quelle parole parvero risvegliarlo da un qualche strano incanto, perché mise di fissarlo con quella faccia preoccupata e rispose: «Sono arrivati gli aiuti dal villaggio per il giardino che ti avevo promesso. Dovresti, anzi no, devi supervisionare i lavori e i nuovi arrivati».
«Non potreste farlo voi?» Dopotutto non aveva dormito che pochissime ore. E quella bella giornata di inizio agosto era fresca a sufficienza per conciliargli il sonno sotto a un albero.
«No. Tu hai espresso il desiderio di occuparti del giardino e tu te ne occuperai. Ora muoviti, in piedi. Hop, hop, hop.» Lo spronò battendo le mani come se il nipote fosse un cane. Poi, mentre il nipote si alzava cominciò ad avviarsi ma si fermò dopo tre passi, si volse verso di lui e aspettò. Le mani sui fianchi. «Poi devi mostrarmi i tuoi disegni sul giardino.» Li aveva trovati in biblioteca mentre lui e il maestro lavoravano e si era incuriosito. Stando al maestro, che si era appassionato delle correnti filosofiche neoplatoniche e umanistiche, doveva rappresentare l’uomo. Per cui stava cercando di farglielo fare attraverso gli assi prospettici. Si erano spartiti il progetto apposta. Agostino avrebbe buttato giù il progetto e poi, Lucenzio, di comune accordo, avrebbe aggiustato quanto necessario. Purtroppo per loro avevano scoperto che per quanti sforzi facessero, il giardino sembrava incompleto. Mancava di qualcosa. Di vita. Serviva l’aiuto di un terzo uomo dotato di buon gusto e fantasia e, nei dintorni - strano a dirsi - di Santiago. Se c’era una cosa su cui tutti concordavano all’unanimità, era che Santiago era la persona con più buon gusto di tutto il castello. Ma quello non si sarebbe mai abbassato a parlare con loro, figuriamoci lavorarci, dopo i loro trascorsi.
Il quattordicenne borbottò, insolente e indolente, qualcosa che lo zio non sentì e si alzò in piedi, poi, grattandosi il sedere, lo seguì. Dopotutto i braccianti e i giardinieri improvvisati stavano aspettandolo.
Gli uomini scelti lo stavano attendendo nel giardino assieme a Lucenzio e qualcun altro. Il giovane maestro aveva appeso il progetto del giardino a una lavagna e l’aveva trasportata lì. E ora, armato di bacchetta, stava tentando di spiegare loro cosa avrebbero fatto. Il servo accanto a lui che rideva. Infatti l’uomo non si era accorto che il linguaggio con il quale si esprimeva era troppo alto per loro. Non si era neanche accorto che lo guardavano con una faccia ebete. Per la serie: ma che dice questo?
Agostino trovò la cosa molto buffa e non riuscì a trattenersi dal ridere. Gli uomini si volsero verso di lui e Lucenzio, vedendolo, disse: «Oh, Agostino, grazie al Cielo eccoti. Queste persone sembrano non volermi ascoltare».
«Non è che non vi ascoltano, è che non capiscono quello che state dicendo. Costoro non hanno compiuto lo stesso percorso di studi che avete fatto voi. Siate paziente.» Aveva udito vagamente uno stralcio di discorso. Lucenzio stava illustrando il giardino in prospettiva area a dei contadini. Che ne sapevano dei contadini di prospettiva aerea?
«Non è vero.» Protestò una voce femminile, stizzita. Tutti si volsero verso di lei e Agostino si rese conto che colui che aveva considerato per sesto, era in realtà una ragazza. Non era molto alta, gli arrivava poco più giù della spalla. Era più giovane di lui, si vedeva. Doveva avere all’incirca tredici anni o giù di lì. Aveva i capelli biondi platino adorni di quella che pareva essere una feroniere con delle perline color ambra che le scendevano ai lati della chioma. Gli occhi di un insolito viola. Indossava un abito verde salvia scuro dalle maniche ampie e bianche allacciate ai polsi. Quegli occhi sostenevano senza paura lo sguardo del giardiniere. «Come, scusa?» Data la sua giovane età gli venne naturale darle del tu.
«Ho detto che non è vero che non capiamo niente.» Ribatté quella, incrociando le braccia. I braccianti risero della sua audacia, anche se con preoccupazione. Poteva seriamente cacciarsi nei guai mostrando un tale atto di insubordinazione al proprio principale. Agostino fece un sorriso sarcastico. Anche se in realtà non aveva alcuna voglia di conversare con quell’antipatica: «Davvero tu hai capito tutto ciò che ha cercato di spiegarvi?»
«Naturalmente».
Il ragazzo inarcò le sopracciglia. Poi scosse il capo. Non poteva dire la verità, era sicuramente una fanfarona. Poi domandò, sfregandosi un occhio: «Chi ha mandato qui questa sapientona?» La sbeffeggiò senza molte energie, anzi, con tono annoiato. Ci mancava soltanto questa. La giovane arrossì per l’offesa mentre gli altri cinque, adesso, ridevano a crepapelle. «Vostro zio.» Replicò lei in tono irato. Il giovane lo cercò con lo sguardo, ma l’uomo, senza farsi vedere, si era già defilato. Probabilmente anche da un pezzo. Si ripromise di fare due chiacchiere con lui. Ma per il momento si sarebbe tenuto quella scorbutica. «D’accordo. Sai come curare un giardino?» Tutto si sarebbe aspettato fuorché che gli rispondesse: «Naturalmente, so come si cura un giardino.» In tono sprezzante ma estremamente sicuro di sè. un tono che Agostino non aveva mai udito per bocca di una ragazzina. Ma che gli parve molto famigliare. Ma ciò non diminuì il fastidio che lei gli suscitava. «Bene, suppongo che tu abbia fatto pratica con quello di casa tua. Perché mio zio ha mandato proprio te? Avevo richiesto sei uomini, non cinque uomini e una ragazzina».
«Perché il sesto uomo è malato e mi sono offerta volontaria.» Rispose lapidaria alzando il mento come a volerlo sfidare. «E mio zio ha accettato.» Disse lui senza muovere le labbra e senza guardarla. Lei annuì con un gesto secco del capo. Pareva quasi che lo sfidasse. Un altro giorno magari avrebbe raccolto la sfida, e l’avrebbe destinata alla stessa sorte di Santiago. Ma quel pomeriggio era troppo stanco per darle corda. Anche se ne andava del suo onore. Voglio dire, si stava facendo mettere i piedi in testa da una ragazzina. Oltretutto insolente. Però era anche vero che era già agosto, che l’estate non sarebbe durata a lungo e che si erano già verificati troppi incidenti. Non poteva permettersi altri ritardi. «D’accordo. Non ho voglia di discutere con te. Non ne vale la pena.» Poi si avvicinò al maestro. Il quale era arrossito, forse per la calura del pomeriggio, visto che stavano sudando tutti, e disse: «Bè, comunque è imbarazzante».
«Non ve la prendete, ora ci penso io».
«Sicuro?» Gli bisbigliò quando il giovane l’affiancò: «Mi sembri assonnato».
«Sto bene».
Si volse verso di loro e li guardò uno ad uno. Erano un filo di più di quelli che si era aspettato. Intanto erano tutti giovani, tra i quindici e i trent’anni. Gli parvero in forze e in salute dal primo all’ultimo. Il problema era capire se fossero altrettanto forti anche di comprendonio. Ma a giudicare dagli sguardi stupiti che gli arrivarono, comprese che erano tutti a posto con la testa. Ormai ci stava facendo l’abitudine con a quegli occhi. Chissà perché si aspettavano sempre qualcuno di più vecchio. Suo padre aveva cominciato a creare giardini a un’età ancora più tenera della sua. Anzi, secondo il suo punto di vista, lui era già in ritardo. Perciò, di che si stupivano? Lasciò perdere questi pensieri, divertito, e fece le presentazioni. Poi spiegò come si sarebbe svolto il lavoro.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10: La minaccia di Amalia da Venezia ***


Capitolo 10: La minaccia di Amalia da Venezia


U
na volta Agostino avrebbe continuato a occuparsi solamente del giardino e non si sarebbe più lasciato distrarre da nulla. Dopotutto voleva creare una sorta di Eden terreno, anche se non aveva ancora ben chiaro come. Per adesso si limitavano a tenere pulito il giardino. Ora era troppo tardi per fare qualcosa in più. Perciò per quei giorni si limitarono come poterono. Non solo per via dei nugoli di zanzare e moscerini che a settembre ricominciarono a infestare le rive. Uno dei braccianti fu punto da una di queste e si prese una febbre malarica. Un altro invece morì a causa di un’infezione procuratasi con un taglietto in cucina. E questo impedì il completamento del giardino stesso. Una parte, infatti, rimase interdetta e incolta. Fatalità del caso volle, che fosse proprio quella dove la giovane castellana fu vista l’ultima volta prima di affogarsi.
A peggiorare la situazione ci si mise anche la presenza di quella petulante ragazzina. Non solo aveva intaccato i suoi momenti preferiti, quelli cioè in cui si occupava delle piante. Ma adesso che l’aveva notata, se la ritrovava quasi dappertutto. A messa, al castello mentre puliva assieme al resto della servitù, durante i pasti. Era una cosa snervante. Non solo perché gli sembrava che quegli occhi lo stessero continuamente sfidando. Fosse stata più docile e formosa c’avrebbe anche fatto un pensierino: ma era antipatica e piatta come un’asse. Inoltre sospettava che se la intendesse con Lucenzio. E questo gliela rendeva ancor più disgustosa.
Fortunatamente quella notte non la passò nuovamente in bianco perché andò a dormire prima. Salvo poi scoprire, al risveglio, che si sentiva mancante di qualcosa. E si accorse quasi subito che questa mancanza era dovuta alla curiosità che gli aveva suscitato quel canto udito solo un giorno prima. Nonostante il terrore che potesse essere la fata della leggenda, o il fantasma, quella voce gli aveva smosso qualcosa dentro. E capì: era delusione. Era rimasto deluso dal non poterla udire anche quella sera. «Non importa, mi rifarò questa notte.» Si ripromise. Mentre si vestiva e si lavava si domandò come fosse la proprietaria di quella voce e i suoi pensieri corsero alle donne più giovani del castello. Ovvero la marchesina e, sfortunatamente, La Scorbutica. E si ritrovò a pensare, soprattutto e stranamente, all’oggetto del suo odio. Scese dabbasso per la colazione e, sulle scale, a un tratto, venne affiancato proprio da lei. Emise un verso di fastidio e roteò gli occhi: «Parli del diavolo e ne spuntano le corna».
«Scusa tanto se non ho trovato il pettine, stamani.» Bofonchiò lei. Indossava ancora lo stesso vestito del giorno prima. La guardò: non indossava la feroniere con le piccole perle e i capelli erano arruffati. «In effetti la tua testa sembra una balla di fieno».
«Grazie per avermelo ricordato, ma a vedere la tua, sei messo peggio di me.» Fece lanciandogli una vaga occhiata. Neanche Agostino si era pettinato. Possibile che più ci parlasse più le ricordasse un cane idrofobo? «Non ti conviene fare tanto l’antipatica con me, oggi andrò a parlare con mio zio a proposito del tuo comportamento di ieri sera.» L’avvisò.
«Pomeriggio.» Lo corresse con un sibilo offeso.
«Quando mi hai sfidato.» Specificò lasciandole d’intendere che non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Si avviarono nella cucina e lei volse la testa di scatto verso di lui. Gli occhi svegli e pieni di rabbia. «Sfidato? Tu ci hai offeso gratuitamente. Quelle persone frequentano la scuola della parrocchia, sanno leggere e far di conto! Sono loro che portano i rifornimenti al castello! E voi, anzi, no, tu, sei stato ingiusto con loro.» Agostino sospirò e si domandò perché diavolo l’avesse provocata. Salvo poi ricordarsi che questo sarebbe stato soltanto un incentivo in più a farla buttare fuori. Però non riuscì a trattenersi dal ribattere, mentre entravano in cucina: «Tu non dovevi ribattere. Sono io il capo giardiniere, non tu. Tu sei solo una volgare contadinotta che non conosce neanche le tabelline».
Per tutta risposta lei lo guardò e sibilò, rabbiosa: «Due per tre sei. Tre per sei diciotto. Quattro per otto trentadue, quattro per sette ventotto, nove per cinque quarantacinque. Cinque per cinque venticinque, sette per otto cinquantasei devo andare avanti o cominci a leccarti le ferite?» Il ragazzo la guardò stupefatto. Tutto si aspettava fuorché che lei gliele declamasse. «Bè, che c’è? Sei senza parole? Strano, eppure non sono io quella seguita da un precettore e che vive come un pascià all’interno del maniero.» Lo sfidò lei dopo aver alzato le braccia al cielo e averle fatte ricadere lungo i fianchi. In una parvenza di trionfo. Ormai tutta la cucina era caduta nel silenzio e assisteva alla sfida verbale tra i due. Il ragazzo la fissò con astio. Quella lo mandava in bestia. Ma se non avesse avuto il piatto della colazione già in mano l’avrebbe afferrata per i polsi e glieli avrebbe stritolati finché lei non fosse scoppiata in lacrime e invocato pietà. Ma si limitò a stringere la ciotola tra le mani, cocendo di rabbia. Alla fine sibilò, incatenando i propri occhi a quelli di lei: «Attenta a te, ragazzina. Sono pur sempre in una posizione più avvantaggiata della tua. Però credimi, se avessi le mani libere ti avrei già schiaffeggiata. E se gli dicessi della tua insubordinazione, se gli dicessi che hai osato mancarmi di rispetto e che per questo dovrei farti buttare fuori. Se ne parlassi con mio zio, chi credi che darà ragione, a me o a te?» Vide passare un lampo di paura in quelle iridi. E poi la sentì dire, come se si fosse resa conto di aver tirato troppo la corda: «Non puoi farlo».
«Tu dici?» Ribatté Agostino con un sorriso di trionfo. Certo di avere lui il coltello dalla parte del manico. Non gli piaceva comportarsi così. Ma era così liberatorio poter mettere paura a quella arrogante. A interrompere il contatto visivo tra loro fu Tea, che disse: «Stella, vieni qui, c’è da portare la colazione ai marchesi.» La Scorbutica - così aveva deciso di ribattezzarla ufficialmente - si girò verso Tea e disse: «Eccomi.» Poi gli passò accanto e si avviò dalla cuoca. Solo allora il ragazzo si accorse del silenzio piombato nella sala e sbottò, mettendosi seduto a tavola. «Che c’è?» Domandò fulminandoli con gli occhi. E tutti, più o meno ridanciani o incuriositi, tornarono alle loro occupazioni.

«Non puoi farlo.» Disse lo zio senza alzare gli occhi dai documenti. Il fido Armando li metteva in ordine, apparentemente concentrato sul proprio lavoro.
Quel giorno Etienne aveva fatto colazione assieme ai Da Campo, che lo trattavano alla stregua di un parente. Pertanto si era destato un po’ più tardi. Agostino aveva chiesto spiegazioni ai parenti e Maria Patrizia, scontenta, aveva risposto: «E’sempre così, quando arrivano i Da Campo, lui viene sempre invitato a trascorrere il tempo assieme a loro grazie all’amicizia con il patriarca della famiglia. In quei giorni è praticamente irraggiungibile per me. A volte penso che non si renda conto che anche i suoi figli soffrano per questo».
«Perché no?» Disse Agostino, mettendo a tacere il ricordo per concentrarsi sul presente.
«Perché Stella è una, anzi no, è la serva preferita della famiglia Da Campo nonché una delle persone più intelligenti che tu possa sperare di trovare a palazzo. Pensa che Guidobaldo Fabriano, il giovane figlio di Antonio Casso Da Campo», così si chiamava, infatti, il marchese, «pretende sempre che sia lei a servirlo, nonostante la sua giovane età.» Enfatizzò bene l’articolo determinativo femminile perché lo capisse bene. Agostino dal canto suo cercò di ricollegare quel nome al volto. Aveva intravisto il marchesino un giorno, mentre si allenava col maestro di cappa e spada nell’altro giardino. Un ragazzo biondo scuro con gli occhi castani dall’aria altezzosa. Gli aveva suscitato immediatamente una viva antipatia. Doveva avere su per giù sedici anni. «Posso immaginare quali servizi.» Bofonchiò il nipote incrociando le braccia. La mente gli restituì l’immagine dei due corpi intrecciati e gli venne un conato di vomito. Che si sforzò di trattenere.
«Non è come pensi, è che quei due si conoscono dalla più tenera età di dieci anni. Fin da quando il marchese pretese che gli venissero portati dei compagni di giochi per il figlio. Tra loro c’era anche Stella. E fu l’unica che riuscì a diventare amica dell’impetuoso marchesino. Pensa un po’! Tra tutti proprio una servetta!» Scosse il capo con un mezzo sorriso al ricordo; «Quando li scoprii stavo quasi per prenderla a bastonate, ma il marchesino mi fermò. Allora intervenne il padre, che aveva sentito le sue grida e chiese spiegazioni. Anche se l’amicizia che nacque tra quei due non gli andò giù, se ne fece una ragione e mi disse di non punirla. Ammise che era stata colpa sua se gli aveva chiesto di giocare con il figlio e che non sapeva che fosse una serva. E allora disse che da quel momento in poi sarebbe diventata la cameriera personale del figlioletto. Sicché avessero potuto giocare insieme e al tempo stesso che lei lavorasse. Da allora ogni estate che giungono in vacanza qui, la mandano sempre a chiamare perché Fabriano chiedeva continuamente di lei».
«Se al marchesino piace così tanto, perché non se la porta via?»
«Perché Stella appartiene al castello e lui non ha mai espresso il desiderio di averla per sé alle proprie dipendenze. Sono stato io ad assumerla, quando arrivò qui tre anni or sono. E poi perché neanche gli altri Da Campo mi hanno mai sottoposto una simile richiesta. Ma non sarò certo io a privarmi della sua forza lavoro solo perché a te non piace. Poi non capisco perché, raccolgo solo consensi da parte di tutti, per lei. Persino quello scorbutico di Santiago la trova simpatica.» Agostino faticò moltissimo a credere che tutti adorassero quella fastidiosa smorfiosa: «E lei è una delle ragioni per cui il giovane Da Campo non ci procura grane. Capisci ora che se mi azzardassi a punirla come Santiago, Fabriano e i suoi parenti non me lo perdonerebbero mai; e io non voglio guastare decenni di amicizia e il mio sodalizio lavorativo per un tuo capriccio».
«Non è un capriccio, quella Scorbutica, arrogante ragazzina mi ha offeso davanti a tutti».
«Agostino!» Lo ammonì il parente con un tono che stava a dire: non mi costringere a pestarti.
«Mi state dicendo che quella Scorbutica ricopre una posizione più elevata della mia?»
«Sì, sto dicendo proprio questo. Ti consiglio di fartela amica.» Disse lapidario. E il nipote non faticò a figurarselo come un vecchio caporale. «E se non volessi?» Lo sfidò incrociando le braccia, quasi senza accorgersi di aver imitato la sua nemica.
«Non è un ordine, ma un consiglio da zio a nipote. Ora vai al lavoro. Ah,» lo richiamò e lui si volse, in attesa, «poi devi farmi vedere questi progetti.» Il ragazzo annuì ma non disse niente. Salutò e uscì. Una volta fuori della porta, che si chiuse dietro le spalle, fece un respiro profondo, che non gli servì a niente per calmarsi. Poi batté i piedi in terra e si avviò da Lucenzio, che lo attendeva in biblioteca, a grandi passi. Il maestro lo accolse immediatamente con una domanda, quando il ragazzo giunse da lui: «Come è andata? Ho sentito che c’è stato un po’di trambusto stamane in cucina».
«Male. La Scorbutica resta a lavorare con noi.» Annunciò sedendosi di fronte a lui al tavolo. Si tolse il berretto e si scompigliò i capelli, che avevano bisogno di una lavata, con una mano. Poi si sfregò la faccia con le mani come se avesse potuto togliersela con quel gesto.
«La Scorbutica?» Domandò il precettore senza capire. Effettivamente era la prima volta che la chiamava così a voce alta di fronte a lui.
«Sì, quella di ieri, Stella, come diavolo si chiama.» Fece un gesto come a scacciare una mosca molesta. Il maestro si limitò a fissarlo con quegli occhi intelligenti, prima di domandargli, incuriosito e vagamente dispiaciuto: «E perché dovresti aver cercato di buttarla fuori?» «Perché mi sta sul cazzo».
«Non letteralmente».
«No, ma mi sta sul cazzo lo stesso».
«Linguaggio. Perché hai cercato di buttarla fuori? Solo perché ha osato ribattere alle tue parole?»
«Sì. Ma anche perché è arrogante e antipatica e non sa stare al suo posto. Inoltre stamani mi ha umiliato di fronte a tutti».
«E come?»
«Con le tabelline» E appena lo disse la vergogna lo assalì. Non solo, gli sembrò una motivazione idiota. Eppure non si capacitava, come aveva fatto a centrare l’unico suo punto debole nel quadrivio? Chi gliel’aveva detto? Faceva sempre un sacco di confusione con le tabelline, mentre lei, una stupida servetta, gliele aveva sciorinate alcune con una precisione invidiabile. Infine si decise: con un verso stizzito gli raccontò tutto per filo e per segno. Alla fine del racconto Lucenzio rise. «E’una ragazza molto intelligente e con un gran bel cervello. Mi piacerebbe fare quattro chiacchiere con lei. Già quando mi ha servito il vino alla festa mi ha dato quest’impressione, e anche prima, da quando si occupa della nostra stanza».
Il giovane stava per dire: spero che siano veramente quattro chiacchiere. Ma poi recepì bene le sue parole e strabuzzò gli occhi: «La nostra stanza? Volete dire che è lei che ci pulisce la stanza?» Domandò incredulo. Oddio…Anche questo no. «Non possiamo richiedere un’altra fantesca?» Chiese, timoroso che dopo questo e altri battibecchi, lei potesse attentare alla sua vita in qualche modo. «Nah, lei va benissimo». «Lo dite solo perché è giovane?» Domandò l’allievo beccandosi un’occhiata di rimprovero.
«Per tua norma e regola non mi piacciono così giovani. Preferisco le donne formose e più grandi di quella. E poi non mi permetterei mai di invischiarmi coi Da Campo, tantomeno con la sua più ristretta cerchia di servi».
«Già, paiono tenerla su un piatto d’argento.» Ed era per questo che la odiava.
«Forse dovresti farlo anche tu. Dopotutto hai detto che sta simpatica a Santiago.» Suggerì pacato il suo interlocutore. Agostino fiutò un sottinteso nelle sue parole: «Sì, e allora?» Fece aggrottando le sopracciglia. Già, Santiago. Chissà se il suo periodo detentivo era finito?
«Non avevamo bisogno di lui per la realizzazione del giardino?» Gli ricordò il suo precettore con la delicatezza di un aratro, accavallando la gamba. Di delicato, infatti, quella frase aveva solo il tono con cui venne proferita. Era vero, gli era completamente sfuggito di mente. Ma l’idea di avere sia lei che l’altro nel giardino gli provocò soltanto ribrezzo. Perciò disse: «Ci penserò, dopotutto, per questa stagione è andata così. Sarà per la prossima che avremo davvero bisogno di loro.» Dichiarò. Per il momento non aveva affatto voglia né di confrontarsi con lei, né con Santiago. Batté le mani una volta e disse: «Su, mettiamoci al lavoro. Questo giardino non può farsi da solo».
Lavorarono fino a che non fu ora di mangiare e i loro stomaci li avvertirono di dover scendere. C’era una piccola fortuna nel non dover servire i Da Campo: potevano mangiare e continuare a svolgere il loro lavoro senza interruzioni. Il lato negativo fu la strigliata che si beccò dalla zia per non essere andato a messa. Essendo così occupato col lavoro, il giovane da Monselice si era scordato che giorno era. Così per rimediare promise alla zia che ci sarebbe andato quel pomeriggio e si sarebbe confessato. In realtà doveva ammettere che non sentiva affatto il bisogno di partecipare alla messa. Ancora meno quello di confessarsi. Perché poi doveva farlo? E cosa avrebbe dovuto raccontargli? Della sua cotta per la marchesina Maddalena Giovanna Da Campo? Oppure dei suoi rapporti con le prostitute all’osteria? Né dell’una né dell’altra si sentiva minimamente in colpa. E lui, superata l’emozione e l’incertezza iniziale, non si vergognava più di niente. Inoltre le sue maestre lo elogiavano perché stava diventando sempre più bravo.
Poi ripensò al viso furibondo della zia e decise, almeno, di confessarsi. Perciò andò in cerca del prete. Quando l’ebbe trovato gli spiegò che voleva una confessione e l’uomo l’accontentò conducendolo nel confessionale. I due si inginocchiarono, separati dalla grata. Dopo che il prete ebbe detto la formula rituale e si dichiarò pronto ad ascoltarlo e assolvere i suoi peccati, Agostino esordì con la formula conclusiva: «Perdonatemi, Padre, perché ho peccato».
«Cosa hai fatto, figliolo?» Il prete era una delle poche persone all’infuori dello zio a dargli del tu.
«Non ho partecipato alla messa di stamattina».
«Questo è grave. E perché non hai potuto?»
«Sto lavorando al giardino di Castel Toblino e non mi sono accorto del tempo che passava».
«Quel giardino?»
«Lo conoscete?»
«E’maledetto, chiunque qui conosce la storia di quel giardino.» Rispose allarmato quello dall’altra parte della grata. «Perché non mi avete ancora chiamato per esorcizzarlo?» Fece poi sempre col medesimo tono. Agostino si morse il labbro inferiore e distolse lo sguardo, ringraziando di essere già semi nascosto dalla penombra del confessionale. Non voleva ammettere che non l’aveva ritenuto necessario. Ancor meno che avesse mentito ai suoi dipendenti per convincerli a lavorarci. Però si sforzò di rispondere: «Perché non penso che ci sia una maledizione. Padre, se davvero lì ci fosse il Maligno, cosa mi dovrei aspettare?» L’uomo non rispose, colto alla sprovvista. Annaspò alla ricerca di parole ma poi disse: «Creature lontane dalla grazia di Dio, malattie, demoni maligni».
«E più in concreto? Che cosa farebbero?» L’uomo ci pensò un po’prima di cominciare a fare l’elenco di un possibile scenario: «Seminerebbero discordia e sventura nel castello. Ucciderebbero innocenti e turberebbero i giovani o possederebbero le fanciulle. I Da Campo sono qui, ho visto.» Disse cambiando improvvisamente discorso. Tutti in paese sapevano che i Da Campo trascorrevano lì l’estate. «Sì».
«Non gliel’avete detto, suppongo».
«No. Pensavamo che l’aiuto divino fosse l’ultima carta da giocarci.» Ammise il giovane, sentendosi scaldare il viso per la vergogna.
«Pochi giorni fa ho celebrato i funerali di alcuni braccianti che avete chiamato a lavorare da voi…»
«E’stato un incidente.» Lo interruppe lui. Non gli piaceva ricordare quei momenti. Ancora si domandava perché diavolo quei due non si fossero lasciati medicare. Perché si erano lasciati convincere da qualche stolto che due preghiere sarebbero bastate per salvare le loro vite? Adesso sarebbero ancora a lavorare invece di stare in una tomba. Troppe persone la morte gli stava portando via. Quando avrebbe smesso di accanirsi contro di lui?
«Era opera del Diavolo».
«E’stato un incidente. Voi non c’eravate, io sì.» Fece infervorandosi.
«Dio è dappertutto.» Lo redarguì l’altro in tono calmo, ma autorevole, come a ricordargli che sapeva ogni cosa. Che quel giorno lui c’era. «Ma voi non siete Dio, Padre.» E sapevano tutti che Padre Orlando amava spadroneggiare sulla sua parrocchia proprio come se fosse Dio. Era lui quello che dettava legge e faceva il bello e il cattivo tempo. E tutti lo seguivano muti e obbedienti come un gregge di pecorelle. Il paese, compresa Maria Patrizia, avrebbe baciato la terra dove camminava il curato, se soltanto gliel’avessero chiesto. A quelle parole il sacerdote ammutolì. «Sarebbe una cosa che non mi sognerei nemmeno, sarebbe una blasfemia.» Disse quando ebbe ritrovato le parole. Il ragazzo sospirò e glissò su un altro argomento: «Mi perdoni, Padre, è un periodo nero. Ma a dir la verità qualcosa è successo.» Sentì l’altro mettersi in una posizione più comoda per aguzzare meglio le orecchie. Proprio come una comare di paese. Il ragazzo prese un sospiro e gli rivelò che: «Di notte qualcuno canta nei pressi del lago, proprio dalla zona che dicono dovrebbe essere maledetta. Una ragazza. Non sono ancora riuscito a vederla. Ma ha la voce più bella che abbia mai udito in tutta la mia vita. Neanche le voci del coro la eguagliano. Neanche quella…» Si avvicinò alla grata per bisbigliare «Neanche quelle della marchesina e della sua dama di compagnia possono anche lontanamente avvicinarsi alla bellezza di quella voce. È come essere trasportati in un altro mondo».
«Questa è una cosa molto inquietante, figliolo».
«Ma non credo sia opera del Diavolo».
«Il Diavolo ha molte esche per attirare a sé i suoi pesci».
«Ma noi siamo pecore o pesci?»
«Né l’uno né l’altro».
«Sta bene. Dicevo, questa voce è bellissima. Avete mai provato a immaginare i cori angelici? Bene, se poteste sentirla pensereste che anche lei ne faccia parte».
Questo parve attirare la curiosità dell’uomo, il quale domandò: «E’ davvero così bella?»
«Sì. Secondo voi c’è qualcosa in quel lago?» Correvano molte leggende sul lago, a quel tempo.
«No. Ma se ci fosse, stando a quel che mi dici, sarebbe proprio un angelo. Non credo che il Maligno manderebbe un essere capace di cotanta meraviglia. Non penso ne sia capace. No, quello è un angelo del Signore mandato lì a proteggervi. Te lo garantisco io, ho fiuto per queste cose.» Fece il sacerdote con un sorriso rassicurante. Agostino sorrise, rinfrancato: «Grazie, Padre.» Il curato gli disse di recitare il rosario e poi gli diede l’assoluzione. Agostino si segnò, salutò e tornò a castello.

Quella sera decise di riprovare. Le parole del sacerdote gli erano rimaste impresse. Anche se una parte di sé non ci credeva. Voleva dimostrare a se stesso che ciò che era accaduto era solo una fatalità del caso. I suoi genitori non potevano essere morti per via di quella voce. Una creatura con una voce così bella non poteva essere malvagia. Perciò quella notte restò in attesa. E, verso mezzanotte, la voce si fece udire, anche se dovette tendere molto bene le orecchie per riuscire a captarla.

Una notte comparve un uomo nella mia casetta
«Vieni con me», disse, «ti porto in un bel posto».
Lo guardai rammaricata e risposi «solo una servetta».
«Non ha importanza, per queste sciocchezze non c’è posto».
Convinta dal sorriso accettai e mi condusse alla sua goletta.
Nel suo regno in mezzo al mare
Era sempre primavera oppure estate.
L’acqua luceva come mai la vidi fare
Era il paradiso terrestre, curato dalle fate
E fu a me che lo volle mostrare.
Oh, se solo tu avessi potuto vederlo,
se tu avessi potuto sentirlo,
anche un bruto si sarebbe ingentilito
sotto quel cielo credetti che ogni uomo potesse essere buono
Sotto quel cielo blu…
Sulla musica delle cicale e il ruggito dei leoni,
Leggiadre fanciulle curavano alberi e fiori
Aitanti giovani si sfidavano in singolar tenzoni
Però quando sbarcammo ci accolsero con tutti gli onori.
Persino io, che non avevo titolo o nomi.

Fu fatta festa nel suo palazzo d’oro e d’argento
E poi fui fatta riposare, con l’augurio di dolci sogni.
E il re mi coprì col suo mantello affinché non patissi il vento
E quando chiusi gli occhi, temetti fossero solo sogni
che prima o poi mi dovessi svegliare e lavorare a stento.
Oh, se solo tu avessi potuto vederlo,
se tu avessi potuto sentirlo,
anche un bruto si sarebbe ingentilito
sotto quel cielo credetti che ogni uomo potesse essere buono
Sotto quel cielo blu.
Ringraziai il Cielo quando al risveglio non cambiò niente
Chiesi al mio ospite di restare per poter esplorare il suo regno
E quando acconsentì piansi di gioia, ma non potei farci niente,
Maledicendomi per essermi lasciata andare così, senza ritegno.

Il Re del Sole parve comprendere e sorvolò sull’ “incidente”
Come una principessa mi adornaron di veli, seta la pelle
Nei Suoi occhi mille parole riflesse sulle mie vesti variopinte,
dalla consistenza di petali di giglio e le ali di farfalle.
E le labbra di rosso mi furono dipinte.
Non ero più una serva, ero come le sue leggiadre fanciulle
Oh, se solo tu avessi potuto vederlo,
se tu avessi potuto sentirlo,
anche un bruto si sarebbe ingentilito
sotto quel cielo credetti che ogni uomo potesse essere buono
Sotto quel cielo blu.
Mi fecero giocare tutto il tempo e indossar le loro vesti
I cavalieri cortesi vegliavano il mio cammino
Parevo esser nata lì per quei paesaggi agresti
Mentre mi mostravan le meraviglie del giardino.
Facendomi l’inchino, il baciamano e mi declamavano armoniosi testi
Ma poi la nostalgia cominciai a patire
Nonostante i nostri cuori fossero legati
E a malincuore, il Re mi fece ripartire
Mi baciò promettendo che per l’eternità ci saremmo amati
Poi, piangendo, sulla goletta mi fece salire
Oh, se solo tu avessi potuto vederlo,
se tu avessi potuto sentirlo,
anche un bruto si sarebbe ingentilito
sotto quel cielo credetti che ogni uomo potesse essere buono
Sotto quel cielo blu.
Non prima di avermi dato un regalo:
Un nastro d’oro, un libro argentato
Profumati speranza e di legno di sandalo,
con la promessa che un giorno mi avrebbe chiamato
e che non avrei più sofferto a causa di uno squalo

Eh, sì, era davvero più bella di quelle di Amalia e di Maddalena. Se era la fata della leggenda, non si stupì che il principe si fosse innamorato di lei. Non si concesse altre distrazioni e tornò a prestare orecchio alla canzone e al mondo che stava dipingendo.
Quando mi destai nel mio letto nella mia povera casupola
Piansi lacrime che non durarono che un segno
Perché mi ero sentita così felice,
come se fossi su una nuvola?
Mi sentii presa in giro nonostante il nostro impegno
Non poteva essere reale ma io c’ero cascata credendola una favola
Ma poi lo rividi in un dipinto, mentre facevo spese
Chiesi spiegazioni al pittore e questi mi disse
Che era il Re del Sole e quello il suo Paese.

Che abbia scelto una consorte, a cui donar amor e stelle fisse
E il Paradiso, che la stia aspettando a braccia protese
Oh, se solo tu avessi potuto vederlo,
se tu avessi potuto sentirlo,
anche un bruto si sarebbe ingentilito
sotto quel cielo credetti che ogni uomo potesse essere buono
Sotto quel cielo blu.
Nel suo regno in mezzo al mare
Era sempre primavera oppure estate.
L’acqua luceva come mai la vidi fare
Era il paradiso terrestre, curato dalle fate
E fu a me che lo volle mostrare.
Salgo sulla goletta e a lui faccio ritorno
So che mi aspetta sull’isola dove splende sempre il sole
Le sue braccia, il suo cuore, sono ciò che voglio intorno
In quel paradiso terrestre, dove cantano le allodole
Mi aspetta e non credo più sia un sogno.
Nel suo regno in mezzo al mare
Era sempre primavera oppure estate.
L’acqua luceva come mai la vidi fare
Era il paradiso terrestre, curato dalle fate
Fu a me che lo volle mostrare...
E il suo cuore mi volle donare.

Poi la voce tacque e Agostino non poté non trattenere un sorriso. Andò a dormire e, per la prima volta in quell’estate, piombò in un sonno profondo e senza sogni. Il pomeriggio seguente, mentre lavoravano al giardino, tenne gli occhi bene aperti. Voleva fare attenzione affinché nessuno si ferisse. Fortunatamente non accadde nulla. E, sollevato, riprese a lavorare con la sua solita lena. Ma c’era ancora un problema: Stella. Fare amicizia con Stella. Fosse facile. Non era come la piccola di casa Da Campo, che, nonostante tutto, gli era entrata nel cuore dei suoi pensieri e da lì non se ne voleva andare. La marchesina, quando aveva saputo che Agostino stava progettando i giardini, li aveva raggiunti la mattina seguente. E quale sorpresa era stata quando, aprendo la porta, si erano visti arrivare la giovane col proprio seguito. L’avessero saputo prima si sarebbero vestiti e sistemati meglio per ricevere una dama del suo rango.
Le tre dame, tutte quante, erano avvolte in una nube di profumo che rammentò a tutti un giardino fiorito. Avevano tutte i seni sodi anche se di diverse grandezze, lunghi capelli e le sopracciglia curate che spiccavano sulla pelle lattea. Una di loro indossava un vezzo di perle con un basso scollatura di seta di diaspri con broccato. E aveva i capelli rischiarati col thè, ma divisi sulla fronte che scendevano in due bande lisce sulle tempie raccolte sulla nuca in morbide trecce. Le quali, a loro volta, che formavano dei rotoli che lasciavano scendere qualche ciocca sulle guance. Non era più una fanciulla, però quella pettinatura le dava un’aria molto giovanile. Al collo corto indossava un crocifisso e una collana formata di fili di gemme intervallate da piastrine di metallo lavorato che le valorizzava il decollette. Il resto del corpo un po’pasciuto, pareva quasi gridare di essere liberato dalla veste vermiglia e aderente che lo avvolgeva. Un’imponente e maestosa spilla decorava l’acconciatura già citata prima. Invece Amalia era vestita di un abito dal colore rosso deciso. Di bassa scollatura anch’esso, ma con le maniche ampie decorate di fiori neri da cui facevano capolino le belle mani dalle dita ingioiellate. Maniche che si sforzava di nascondere perché gialle: il colore delle prostitute. Eppure nonostante ciò apparve più bella, più solenne e più desiderabile della dama prima descritta. Indossava una collana che le girava due volte attorno al collo più lungo della compagna vestita di vermiglio, che finiva di adagiarsi sul suo petto con un rubino circondato a sua volta di perle. Altri pendenti di perle e zaffiri completavano il monile. Adagiato sulla testa, una veletta arancione che quasi nascondeva la chioma castana dai riflessi di thè, piegata in una semplice acconciatura adatta a tutte le occasioni. E cioè con la chioma raccolta in alto sul capo che lasciava scendere due ciocche sulle tempie. Purtroppo il massimo che sarebbe riuscita a ottenere dai vari trattamenti. Se il giovane riuscì a distinguere questi colori, fu grazie al proprio occhio. Avendo passato molto tempo a osservare i colori dei fiori, aveva imparato che non tutti i boccioli della stessa pianta erano carichi allo stesso modo o dello stesso colore. In una rosa poteva scorgerci diverse sfumature data dalla luce o dall’ombra, ma anche dagli agenti atmosferici o la malattia. Da questo punto di vista, le donne non erano poi così tanto diverse. Ma se sulle piante non aveva dubbi, sulle donne ne aveva ancora moltissimi e moltissimi ne stavano sorgendo.
Invece la padroncina al centro aveva la chioma biondo miele sciolta sulle spalle, ma era adorna di nastri rosei più chiari dell’abito ma coordinati, fissati a piccole ciocche. Stava al centro quasi fosse la regina era riccamente vestita di damasco verde e indaco dalla scollatura alta. I colori della castità. E lo sguardo più malizioso che mai. Era come se stesse scegliendo la carne al mercato. Quando parlò disse: «Voi siete il giardiniere?» Disse rivolgendosi a Lucenzio, sventolando leziosamente il suo ventaglio di piume tinte. Ma fu Agostino a intervenire: «No. In realtà sono io».
La giovane sgranò gli occhi e smise di sventolarsi: «Voi? Ma siete così giovane».
«Ma ho molta esperienza dalla mia; avete mai sentito parlare dei fiori di Sirmione?»
Gli occhi di lei brillarono nel dire: «Certo! Quando le mie orecchie udirono tali meraviglie cercai di scoprirne di più. Siete dunque voi l’artefice di tutto ciò?» Il giovane arrossì di piacere e contentezza, finalmente qualcuno che gli riconosceva la propria bravura: «Oh, in realtà soltanto in parte. Allora lavoravo assieme ai miei genitori. Mi insegnarono tutto loro.» La giovane chiuse il ventaglio con un gesto del polso. Era talmente preso da quella conversazione che non si accorse che il maestro accanto a lui scuoteva la testa. «Allora avete avuto degli ottimi insegnanti.» Continuò la giovane ammaliatrice. «Mostratemi il progetto.» Comandò poi tendendo il ventaglio, con un gesto elegante del polso, verso il tavolo. Agostino si affrettò ad ubbidire e la invitò ad avvicinarsi. Le tre donne obbedirono come se fossero una persona sola. Cosa che al giovane non andò molto giù ma si sforzò di dissimulare mentre spiegava con voce sempre più sicura il suo piano. A un tratto la padroncina gli sfiorò la mano con la propria per indicare una zona del progetto che era stata cancellata e rifatta più volte: «Questa zona sembra stata cancellata, perché?»
Il giovane sussultò al contatto al contatto e si pietrificò. Tutti gli sguardi furono catalizzati addosso a lui. E Amalia dovette accorgersi di cosa gli passava per la testa perché lo fissò con vivo astio. «Oh, quella zona è molto difficile da realizzare. Il giardino segue i canoni dell’umanesimo e…»
«Madamigella Maddalena»; interruppe la donna e tutti la guardarono. Ma lei continuò a rivolgersi alla diretta interessata «dobbiamo andare, siamo in ritardo per la lezione di ricamo e voi sapete quanto sia importante».
La giovane la fulminò con gli occhi ma convenne con lei: «Sì, avete ragione, madama. Andiamo. Grazie per la spiegazione, mastro Agostino, maestro.» Rivolse a Lucenzio un cenno col capo e l’uomo rispose con un altro cenno e un sorriso. E, con queste parole, la dama si congedò: «Spero che potremo vedere presto la vostra creazione ultimata. Ora il dovere mi chiama, addio, mastri».
E si avviò verso la porta, seguita dalla dama in vermiglio. Ma Amalia non si mosse e la richiamò: «Padroncina,» Maddalena e la dama si volsero per metà verso di lei. Le mani intrecciate in grembo: «Permettetemi di trattenermi qui qualche secondo. Debbo riferire un paio di parole ai nostri giardinieri». «Concesso. Vi attendiamo nel chiostro.» Ciò detto si volsero nuovamente e uscirono. La donna le seguì con lo sguardo. Poi si girò e inchiodò Agostino con lo sguardo feroce. «Cosa avete intenzione di fare, mastro?»
«Scusate?» Fece il quattordicenne senza comprendere, smettendo di fissare l’uscio.
«Non fate il finto tonto con me. Mi sono accorta di come ronzate attorno alla marchesina. Non nascondetelo, vi vedo. Li so riconoscere quelli come voi! Voi attirate le giovani vergini inesperte nel vostro letto con parole mielate, facendo sfoggio della vostra cultura e intelligenza. Poi una volta deflorate le buttate via! La mia marchesina sarà anche abbastanza inesperta da non riconoscere questa trappola ma io sì. Perciò vi avverto, se vi rivedo avvicinarvi a lei io vi farò passare dei guai. Molti guai. Così tanti che rimpiangerete di essere nato. Avete capito? Non vi permetterò di disonorarla come fosse una contadinotta del paese. Vi terrò d’occhio. E voi, maestro» la parola le uscì fuori come se fosse un insulto «mi meraviglio di voi. Pensavo che insegnaste anche l’educazione al vostro allievo. Invece state a perdere tempo dietro a giovanette che non valgono neanche la metà del vostro tempo e della vostra paga.» Doveva averlo visto conversare con la servetta. Ma Lucenzio non si scompose, e replicò: «Ho compreso perfettamente, mia signora,» anche queste due parole parvero un insulto, nonostante il tono mellifluo «vi chiedo perdono. Non accadrà mai più».
La donna fece un gran respiro profondo come a calmarsi. Ma anche se l’espressione rabbiosa del suo viso si distese, la rabbia non abbandonò i suoi occhi fiammeggianti. Se avesse potuto li avrebbe uccisi entrambi con lo sguardo: «Bene.» Fece con voce normale «Spero che un simile inconveniente non si ripeta mai più. A buon rendere, signori.» Ciò detto si volse e se ne andò. I due uomini restarono a fissare la porta ancora per un po’, prima che Agostino prendesse l’iniziativa e la chiudesse. Il cuore in gola: beccato. Accidenti. Un silenzio carico di tensione calò su di loro come una cappa. Si aspettò di sentire dire qualcosa a Lucenzio, ma costui non disse niente. Perciò domandò: «State bene?»
«Sì, ma tu devi imparare due cose, la prima ad essere più discreto. La seconda, a distogliere le tue attenzioni dalla marchesina».
«Non è vero che m’interessa la marchesina.» Mentì.
«Se ne sono accorti perfino i muri che stai mentendo. Ti consiglio di dimenticarla».
Il giovane lo guardò spaventato: «Sarebbe come cercare di dimenticarsi di amare. Come dimenticarsi della primavera e dell’estate in favore del gelido inverno e del triste autunno. Come dimenticarsi il canto degli uccelli e il calore del corpo di una donna.» Farfugliò, alla ricerca delle parole giuste. Il maestro scosse il capo e poi disse; «No, fidati, questo non si dimentica. Si riscopre. Ma non si dimentica. E poi sei giovane, vedrai che proverai emozioni ancora più intense e vere di questa. Se tu l’amassi davvero avresti ribattuto per le rime ad Amalia. In fondo anche lei non è che una serva».
«Anche voi, maestro».
«Io non sono mica innamorato.» Ribatté l’uomo con tono pratico andando a scostare le tende dalla finestra. La luce stava cambiando.
«Però si riferiva a La Scorbutica; non è così?» Chiese infastidito l’allievo. Non amava che il suo maestro parlasse con quella là. Ancor meno - sospettò - che facesse qualcosa con lei. La faccia assunse una smorfia di disgusto e lo stomaco gli si rivoltò mentre qualcosa dentro di lui ruggiva la sua furia.
«Ascoltami, Agostino. Le mie intenzioni con Stella non sono quelle che immagini. Mi sento come se fossi suo padre. Lei mi ha chiesto di aiutarla a perfezionare la propria cultura e ne ho parlato anche con tuo zio e con Santiago. Persino lui non l’ha trovata una pessima idea». «Che c’entra Santiago?» Possibile che non potesse fare il suo nome senza sentire quello del suo avversario abbinato al medesimo? L’uomo non si volse neanche per guardarlo in faccia. Ma dal tono che usò per dire «Te lo racconterà lei, se ci parlerai» comprese che il discorso era concluso.

Quella notte faticò ad addormentarsi. Persino sfogare le sue voglie con la mano non gli dava soddisfazione. Perciò si sedette sul davanzale della finestra così com’era, in camicia da notte, e si mise ad osservare fuori della finestra. Scoprì ben presto che se non fissava le fonti luminose come le torce, era capace di indovinare i profili delle mura, dei tetti, del giardino e del lago, dolcemente rischiarati dalla mezzaluna crescente, che a volte veniva nascosta dalle nuvole passeggere. Al posto di studiare aveva deciso di fantasticare un po’ sull’oggetto del suo amore non corrisposto. Amore, perché era di questo che probabilmente si trattava. Non sapeva perché ma da un pezzo a quella parte il sonno l’aveva abbandonato. Perciò passava intere ore della notte a fantasticare e fingere di parlare con Maddalena Giovanna. Però la maggior parte delle volte, più che altro, si immergeva nei ricordi della giornata che lei aveva allietato col proprio canto.
Oh, se solo fosse stato un'altra persona… E poi, a una cert’ora, il fantasma della giovane nobile venne spazzato via dalla voce che aveva udito cantare poche sere prima. Improvvisamente tutto parve diventare chiaro e scosse il capo, ridendo di se stesso. Ma chi voleva prendere in giro? Non era per la ragazza dalle ricche vesti e il collo profumato che faceva le nottate, ma per la proprietaria di quella voce. La stessa voce che adesso cantava alla notte. E che aveva sperato potesse appartenere alla marchesina, anche perché non l’aveva mai udita cantare. Gli piaceva ingannarsi così, sebbene sapesse che quella voce risuonava nel lago da molto tempo prima dell’arrivo dei Da Campo.
A un tratto captò qualcosa con la coda dell’occhio. Volse il capo in quella direzione e fu allora che si accorse che una finestra del castello era ancora illuminata. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia e guardò con più attenzione e scorse una sagoma maschile che si stagliava sul davanzale. Allora non era l’unico a udirla e ascoltarla. Ma non capì chi potesse essere il misterioso ascoltatore: ormai aveva imparato a capire a chi appartenessero le stanze nelle varie ali del castello. Ma quella finestra gli era estranea. E da lì non poteva distinguere altro che la sagoma della persona che guardava il lago. Silhouette che non si era accorta di essere spiata. Meglio così - si disse - non voleva dare spiegazioni a qualche curioso.

Passò una settimana. Prima che le interdissero la zona, la marchesina aveva preso l’abitudine di sostare alla finestra dei piani superiori al giardino. E lì allietava i pomeriggi dei lavoratori con le sue lezioni di musica e canto. A volte il ragazzo aveva alzato gli occhi dal proprio lavoro e l’aveva vista seduta sul davanzale, che cantava. E si era imbambolato a fissarla, con occhi persi. A guastare quell’attimo però, o sopraggiungeva quell’acida della sua cortigiana che la richiamava, oppure uno dei braccianti. Una volta stava potando una pianta quando l’aveva sentita cantare e L’Antipatica, che alla fine si era pure dimenticato di licenziare, gli aveva impedito di continuare afferrandolo per il polso. Il giovane aveva sussultato e si era accorto di lei. Aveva liberato il polso con uno strattone e aveva domandato, fissandola con livore: «Che stai facendo?» La tredicenne non aveva fatto neanche in tempo ad aprire bocca che l’aveva subito freddata con queste parole: «Torna immediatamente al lavoro.» Lei lo aveva guardato con dispiacere ma aveva obbedito. Una volta scomparsa dalla propria visuale, il ragazzo con gli occhi verdi aveva alzato la testa verso la finestra della marchesina, e l’aveva vista ridere dietro una manica. Arrossì per la vergogna e tornò al suo lavoro, maledicendo la propria sfortuna.
Oppure Lucenzio. Ma le interruzioni di Lucenzio erano quasi sopportabili, al confronto. Alla fine aveva scoperto il nome di quella cortigiana: Amalia da Venezia. «Avevo capito che a occuparsi dell’educazione della marchesina fosse la madre. Com’è che qui se ne occupa costei?» S’informò Agostino, confuso.
«Semplicemente perché Amalia da Venezia, oltre a essere una cortigiana dei Da Campo, è anche la cantante più rinomata di tutta Venezia. In città non c’è nessuno che possa anche solo sperare di eguagliare la sua voce e le sue abilità canore, quindi hanno affidato a lei la sua educazione canora. Anche se si sono premurati di imporle di non insegnarle altro.» Spiegò Lucenzio appoggiandosi alla zappa e tergendosi la fronte sudata con il polso. Infatti alle volte gli era capitato di udire anche la voce di un’altra donna. Non pensava che fosse proprio la sua. E, doveva ammetterlo, era davvero bella. Però… «Non è vero che è così brava».
«Che intendi dire?» Domandò stupito il suo precettore, guardandolo.
«Che non è così brava. Cioè, ho sentito di meglio».
«Di meglio? E’impossibile. Oppure ti riferisci alla marchesina? Agostino, credo che nel tuo caso sia la tua ossessione a parlare. Ora ti sembra che la tua marchesina sia tutto, per te. Che ogni cosa che lei faccia ti sembri bellissima. Che abbia i capelli più belli o la voce più bella. Ma non è così. Sei caduto nella trappola dell’amore cortese».
Il ragazzo lo guardò perplesso e vagamente offeso. E il maestro continuò: «Dammi retta, lascia perdere, quelle come lei sono inaccessibili per quelli come noi. Quest’amore a senso unico porterà solo dolore».
«A senso unico?»
«Non ti è evidente? Secondo me non ti ricambia, anzi. Non vede l’ora di metterti nei guai».
Il ragazzo era furioso per tutte quelle insinuazioni, ma non lo diede a vedere. «Non vi facevo così esperto di donne».
«Non sono mica nato ieri, Agostino. Mi sembrava di averti detto che dovevi dimenticarla.» Aveva ribattuto il maestro con un’alzata di spalle e un sorriso pieno di vanto. Ma all’ultima frase tutto ciò era stato sostituito dalla rassegnazione. «Ma dammi retta, quella porta guai, non lasciarti rovinare la vita da una come quella».
«Quella è la marchesina…» Cominciò, ma l’uomo con la chioma bionda lo interruppe: «E tu un servo. Non lo dimenticare. I Da Campo non sono tuo zio. Se la deflori lei non troverà mai marito e suo padre come minimo ti farà impiccare.» Lo avvertì, serio. L’allievo impallidì, si pose istintivamente una mano sulla gola ad occhi sgranati. Per quanto potesse piacerle alla vita ci teneva ancora. Solo adesso cominciava a capire quanto fosse grave l’interesse della donna per lui. I suoi ormoni da adolescente gli avevano annebbiato il cervello. Perciò cambiò argomento, cercando di stemperare la drammaticità della situazione. Però non gli venne in mente niente finché non udirono la voce di Amalia risuonare da fuori della finestra. Visto che era estate tenevano le finestre aperte per far circolare un’po’d’aria fresca. E si appigliò proprio a questo per ritrovare il filo del discorso principale: «Comunque, a proposito di voci…Io ne ho sentite di migliori».
In quel momento si avvicinò La Scorbutica con una borraccia d’acqua in mano e domandò se volessero da bere. Poiché era una ragazza, Agostino l’aveva relegata a mansioni più leggere. Lei non ne pareva per niente entusiasta ma si era accontentata. «Davvero?» Rise il maestro mentre ringraziava con cortesia la giovanetta. La quale lo ricompensò con un bel sorriso che fece stupire Agostino. Non la credeva capace di aprirsi in sorrisi così belli. Poi lei si rivolse anche a lui, sempre sorridendo. Chissà come faceva Lucenzio a mutarla a quel modo. Di fianco a lui non sembrava più così battagliera come si era dimostrata il primo giorno. «E voi, signore? Ne volete?»
«No, grazie, sono a posto così.» Ed era vero. Aveva già bevuto prima. Anche se non gli sarebbe dispiaciuto un altro sorso. Ma considerando chi era la portatrice di quella panacea, bè, non si fidava. Però poteva sempre… «Aspetta, ho cambiato idea.» Lei gli porse la borraccia e lo vide versarsi il contenuto della medesima sul capo, rinfrescandosi. Poi gliela restituì. «Ecco, ora puoi portarla via.» Lei osservò la borraccia come se gli avesse porto un serpente velenoso. E non era che in quella stagione non ce ne fossero. Anzi, mentre lavoravano ne avevano stanati tre o quattro. Non ricordava se erano bisce o vipere. Forse entrambe. Ma non la prese. Il ragazzo la osservò con sguardo perplesso e poi lei - sempre con quello sguardo terrorizzato - si decise a prenderla. La manica del vestito che adesso le copriva la mano. Proprio in quel momento, la nobile allieva riprese a cantare e tutta l’attenzione di Agostino fu catalizzata verso la finestra. Sperò di scorgerne almeno la schiena ma lei si era rifugiata al suo interno. Il giovane pareva quasi che si abbeverasse di quella voce come un assetato a una fonte. A ridestarlo fu La Scorbutica che sbuffò, infastidita: «Ma non può andare avanti così. Sapete che c’è? Vado a parlare coi Da Campo».
Il quattordicenne si volse di scatto verso di lei: «Cosa? Perché?»
«Perché disturba il nostro lavoro!» Esclamò guardandolo.
«Ma no, ci allieta le giornate. Non c’è bisogno che tu vada a disturbare suo padre per così poco».
La ragazza lo fissò a lungo prima di sbottare, irata: «Ma tu dove diavolo vivi? Pensavo che ci fosse un po’più di sale in quella zucca vuota!» Il ragazzo, offeso, l’afferrò per il braccio e lei trasalì mentre lui diceva, in tono fermo. Lo stesso che usava lo zio quando ordinava: «Non andrai a dirglielo.» Stava imparando a farsi valere e lei lo sapeva. Lo vedeva dai suoi occhi spaventati. Ma forse doveva essere dura di comprendonio, visto che non la smetteva di sfidarlo. A quel punto Lucenzio si frappose tra i due e strappò la mano dal braccio di lui dal braccio di lei. «Ehi, smettetela. Smettetela. Agostino, non costringermi a picchiarti.» Ordinò e la bionda ne approfittò per eclissarsi. Agostino se ne accorse e fece per seguirla ma venne trattenuto da Lucenzio, così si limitò a seguirla con gli occhi e urlarle: «Ehi, tu! Non andare a dirglielo! Mi hai sentito? Non andare a dirglielo!» Ma quella era già sparita oltre la porta senza degnarlo di una risposta. Cercò di divincolarsi per raggiungerla ma gli arrivò un ceffone da parte del suo maestro. Il ragazzo, incredulo, si toccò la parte lesa e pulsante e lo guardò mentre l’uomo continuava ad agguantarlo per l’altro braccio. «Smettila! Hai capito? Smettila! Adesso stai oltrepassando il limite! Ma guardati, trattare così una ragazzina!» Il giovane dagli occhi verdi cercò di protestare: «Ma l’avete sentita? Ha…» Il maestro lo interruppe con un’esclamazione: «Sì che l’ho sentita, e penso che abbia ragione!»
A quelle parole il ragazzo si staccò da lui, incredulo: «Non è possibile che siate d’accordo.» Disse, guardandolo come se non lo riconoscesse. Poi se ne andò. Non si fece vedere per un’ora. Un’ora che passò per metà a cercare di calmarsi e l’altra metà a cercare La Scorbutica e fermarla. Non voleva farle del male. Ci avrebbe litigato sì, poteva succedere, e con lei succedeva spesso, ma non l’avrebbe mai sfiorata neppure con un dito. La violenza contro le donne non era nella sua natura. Alla fine sospirò e non gli restò altro da fare che tornare al giardino. Approfittando della sua assenza, gli uomini si erano presi una pausa e sicuramente già spettegolavano sul suo conto. Roteò gli occhi e pensò: "Uomini, donne, date loro qualcosa di cui parlare e si trasformeranno tutti in perpetue." Però li rispedì subito al lavoro. Anche Lucenzio si alzò da terra e prese un paio di cesoie, e si avviò alla siepe che stava potando prima, senza considerarlo. Il ragazzo lo seguì con lo sguardo mentre potava la pianta. Supervisionò tutti i lavoratori. Ma alla fine tornò da lui e si scusò e ci tenne a specificare che non voleva farle del male. Come neanche che intendeva mancare di rispetto a qualcuno. Tanto meno a lui. Improvvisamente si ricordò che il suo maestro aveva comunque la facoltà di licenziarsi. E lui non voleva che se ne andasse. Inoltre riconobbe che aveva tirato un po’troppo la corda. Alla fine l’uomo lo guardò e disse, magnanimo: «Dimentichiamo questo spiacevole incidente e parliamo di altro. Chissà, magari potrei anche dimenticare che mi hai fatto arrabbiare, col tuo spettacolino».
«Dicevo», disse riprendendo il filo del discorso, «che ho udito qualcuno di migliore».
«Stai continuando a ripetere la stessa frase da mezz’ora, ormai».
«Non esagerare, saranno appena cinque minuti. Comunque vi ricordate di tre settimane fa? Il giorno in cui i braccianti sono giunti a lavorare con noi? Quand’era, sì, l’altro ieri. Ecco, quella sera non avevo dormito per via di una voce femminile.» Adesso il maestro lo guardava interessato. «Una voce femminile? Interessante».
«Sì. Ma non è questo il punto. Ho creduto che fosse lo spirito della castellana che si uccise, perché per prima cosa l’udii in piena notte, per seconda cosa, era la voce più bella che avessi mai udito. Non so come descriverla, non penso esistano neanche parole per descriverla. Dico sul serio».
«Addirittura?»
«Sì. Superava persino Amalia e la marchesina messe insieme e…Cosa fai ancora qui? Vai a fare qualcos’altro.» Ordinò perentorio a La Scorbutica, rendendosi conto che essa era di nuovo lì. Doveva essere tornata zitta zitta. E che lo guardava ad occhi sgranati e il viso più pallido che mai. Lei si riscosse e arrossì, mormorò un remissivo «Scusate» ad occhi bassi e corse via. Solo dopo si rammentò di ciò che era appena accaduto e mormorò uno scusate al maestro. «Poveretta, non dovresti trattarla così.» Lo redarguì invece l’altro, dispiaciuto per lei. «Riconosco la mia stupidità ma mi sta antipatica. Non mi piace.» Ribatté lui, convinto delle proprie sensazioni. «Ma ciò non significa che si meriti tutto questo.» Osservò l’altro, ragionevole, mentre riprendevano a lavorare. La voce di Maddalena Giovanna riprese a cantare per poi interrompersi immediatamente. E poi non riprese più. Agostino temette che in quel breve lasso di tempo, La Scorbutica fosse riuscita a conferire con i Da Campo. E questo sospetto divenne certezza quando non la sentirono più cantare a lungo. Troppo. Si domandò quanto tempo fosse passato mentre lavoravano sotto al sole d’agosto e la pena cresceva dentro di lui. Se avesse avuto ancora gli abiti bagnati avrebbe provato a stabilirlo, ma si era asciugato in fretta per via della calura. Perciò non gli fu possibile: «Ha mantenuto la parola. Senti che silenzio.» Disse il suo precettore. Il ragazzo sentì solo il vuoto che la mancanza di quella voce aveva lasciato. «Sì, ma a che prezzo? A me non dava fastidio. A darmi fastidio è lei quando ribatte e mi interrompe mentre lavoro. Ieri per esempio stavo potando il cespuglio quando lei mi ha bloccato il polso.» Disse invece.
«Se ieri non l’avesse fatto, tu ti saresti tagliato un braccio.» Rivelò l’uomo mentre raccoglievano le frasche e le portavano via. Il giovane si fermò e lo guardò sgomento: «Cosa?»
«E’così. Quando la marchesina si è messa a cantare tu hai cominciato a prestare sempre meno attenzione al mondo che ti circondava. Credo soprattutto nella speranza di vederla. Non ti eri accorto di aver messo il braccio sul ramo che avresti dovuto tagliare. Devi ringraziare lei se hai ancora tutte e due le braccia.»Tacque per un momento prima di dire, ancora più serio: «Non hai capito che tuo zio l’ha messa a lavorare con noi per evitare che la marchesina ci distragga e ci facciamo male? Oh, la marchesina è tanto gentile e onesta all’apparenza, ma non puoi immaginare quanto detesti, per non dire odii, questo posto e tutti i suoi abitanti.» Poi rise, di fronte alla faccia del suo interlocutore: «E tu hai pensato che fosse una seccatura.» Lo schernì.
«Piuttosto, che cos’ha contro di voi Amalia? Da quando è qui mi da tanto l’idea che non vi sopporti.» Osservò Agostino, cercando di cambiare discorso. «Vi conoscete, forse?» Chiese incuriosito. Il giovane maestro non lo guardò nemmeno in faccia quando negò: «No. Mai vista prima in vita mia».

***Nota dell'autrice***
Bentornati, miei cari, lettori. Lo so, la narrazione è un po'lenta, ma se mi seguirete allora capirete perché. E tranquilli, la parte fantasy esiste eccome, perciò abbiate pazienza. Questa storia abbraccia un arco di vita, è normale che abbia questo ritmo. Ma se siete sopravvissuti alle cosiddette mattonate come la saga di Eragon di Christopher Paolini, Il conte di Montecristo, Notre dame de Paris e i Miserabili di Victor Hugo, il ciclo de I pilastri della Terra di Ken Follet, La dama e l'unicorno e La ragazza con l'orecchino di perla di Tracy Chevalier e molti altri, allora non avrete problemi a sopravvivere anche a me.
Alla prossima :D

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Capitolo 12
*** Capitolo 11: Alleati contro un comune nemico ***


Capitolo 11: Alleati contro un comune nemico

C
ome temeva Agostino, la sua nemica era veramente riuscita a conferire coi padroni del castello. E, costoro, l’avevano ascoltata. Perciò punirono la figlia impedendole di avere a che fare sia con Agostino che col resto della servitù. Il quattordicenne si legò al dito questo dispetto della ragazzina. Poteva capire perché lo faceva, ma arrivare a impedirgli di cavarsela da solo no. Questa non gliela perdonava. Perciò non le rivolse neanche più lontanamente la parola. E lei fece lo stesso. Invece cercò di recuperare i contatti con l’oggetto dei suoi desideri. Dapprima cercando di incrociarla per i corridoi o offrendosi volontario per servire ai banchetti. Il risultato è che ottenne sì di incontrarla piuttosto sporadicamente. E che più di una volta fu lo zimbello del castello finché lo zio non gli consigliò di tornare a occuparsi esclusivamente del giardino. Come quella volta che, portando un vassoio, inciampò nei suoi stessi piedi a causa degli occhi dolci che la giovane rampolla dei Da Campo gli fece. Inutile dire che fine fece il cibo che portava e delle fragorose risate che suscitò. E restò lì a cercare di raccogliere ciò che restava delle pietanze come un perfetto scemo finché lo zio non accorse e, prendendolo per un gomito lo trascinò rapidamente via da lì. «Ma...Ma io voglio lavorare.» Aveva protestato il ragazzo.
«E non lo stai già facendo?» Fece lo zio mentre lo scortava fuori dalla sala. Giunsero rapidamente sulla porta e lo zio lo sospinse fuori. Il giovane si volse verso di lui e cercò di farfugliare: «Sì, ma...» Nell’occhio buono dello zio lesse una velata minaccia che gli fece serrare immediatamente la bocca. Ma poi quest’ultimo disse soltanto: «Torna in cucina e restaci. Se smani di fare qualcos’altro dirò ad Armando di accontentarti».
A quelle parole il ragazzo impallidì e cominciò a scuotere freneticamente il capo: «No, no. Armando no».
Lo zio comprese e sospirò. Poi disse, senza infervorarsi: «Vai in cucina».
Il ragazzo filò. Quella fu l’ultima volta che provò a servire a banchetto. O fare qualcosa di diverso dalle sue mansioni. Anche perché poi il cinquantacinquenne gli sguinzagliò davvero il proprio braccio destro alle calcagna, il quale, col suo solito sorrisetto - stavolta mancante di un dente, perso chissà come - lo sommerse di lavoro. Forse sarebbe stato meglio essere pestato, avrebbe sofferto di meno che sgobbando a quel modo. Sotto le risate della servetta preferita dei Da Campo che lo canzonava dicendo «Ora sai che cosa provo» e di Santiago «Non è più tanto comoda la vita, eh, nipote di maggiordomo?» e molti altri. Persino suo zio, però, nonostante i modi bruschi e il tono burbero, ridacchiava sotto ai baffi.
Credeva di essere abituato alla fatica, ma questa era persino peggiore di quella che conosceva. Ma al quinto giorno di punizione, andò da lui, che lavava i pavimenti, e gli disse: «Spero che tu abbia imparato la lezione. Finisci qui e va a riposare».
«Ho appena finito.» Ed era vero, aveva appena finito di lavare l’ultima mattonella. Prese il secchio e si avviò verso la cucina. Poi da lì imboccò la via per la sua stanza e, quando fu lì, si gettò sul letto a peso morto. Un lamento si levò dalla sua faccia spiaccicata contro le coperte. Non poteva rischiare di essere trattato come uno schiavo solo per quella marchesina. Eh, no! Questo no! Di lì decise che si sarebbe limitato ad accontentarsi di vederla e salutarla quando la incontrava nel castello.

Quando giunse settembre i Da Campo se ne andarono. E, con loro il seguito che aveva riempito le camere e le cassapanche vuote del castello. Però la cortigiana che non poteva soffrire Lucenzio rimase con loro. A quella notizia Agostino aggrottò le sopracciglia. E anche il resto della servitù: era strano. Non era mai accaduta una cosa del genere. Il ragazzo chiese spiegazioni a una serva ma fu il maestro a fornirgliele: «Ha espresso la volontà di rimanere. Dice che il soggiorno le è piaciuto così tanto che vuole sostare qui ancora qualche mese». «Una cortigiana?» Fece Agostino guardandolo. «Ma siamo sicuri?»
Lucenzio alzò le spalle: «Di solito non do retta ai pettegolezzi, ma questo è quello che si racconta». «Per me è successo qualcosa coi Da Campo e hanno deciso di lasciarcela a noi.» Borbottò Agostino. Ricordava benissimo lo sguardo di fuoco che rivolgeva sia al maestro che a Stella. Doveva essere una bella gatta da pelare, e neanche una delle più docili. Un po’ne aveva già avuto un assaggio quando era venuta ad avvisarlo di tenersi alla larga dall’oggetto dei suoi desideri. Tra sé e sé considerò che era molto pestifera. Già gli aveva impedito qualsiasi contatto con la marchesina quell’estate. Chissà mai che avrebbe combinato al castello, adesso?
In quel momento arrivò anche L’Antipatica e si unì al gruppo. Vide quello che stavano guardando, poi guardò loro e, dai loro visi, intuì l’argomento perciò incrociò le braccia. Schioccò la lingua contro il palato e commentò: «Sarà un autunno molto lungo».
«E un inverno ancor più lungo.» Le fece eco Lucenzio. I due giovani lo guardarono sgranando gli occhi: «Perché? Temete che possa restare anche per l’inverno?» Domandò Agostino, anticipandola. Il maestro rispose con un cenno affermativo del capo. La servetta impallidì. Si strinse nelle spalle come a darsi coraggio e si aprì in un sorriso forzato: «No, non può essere…Non può restare qui. Non ce la vogliamo». «Non spetta a noi decidere di cacciarla fuori, mi dispiace, ragazzi.» Fece il maestro poggiando una mano sulla spalla di Agostino. I due lo guardarono scontenti. Poi si diresse in cucina, lasciandoli soli.
«Forse non andrà così. Forse ci sbagliamo.» Tentò La Scorbutica, aggrappandosi a una vaga speranza. Il conoscente le lanciò un’occhiata compassionevole e rispose: «Per una volta spero che tu abbia ragione.» Poi seguì il precettore.
Ovviamente la previsione si rivelò esatta. Già dai primi tempi la cortigiana dettò legge. Fece rinnovare i vecchi paramenti nel castello, con addobbi alla moda del tempo e fece bruciare quelli vecchi. Inoltre cominciò a far venire i mercanti direttamente dentro al castello per esaminare la mercanzia di persona. Ovviamente soltanto i mercanti di vestiti, i calzolai, e i gioiellieri. Progettava assieme a loro gli abiti da indossare, ordinava le cosmesi migliori e ci teneva a far sì che spiccasse in mezzo a tutti loro. Esigeva sempre che ogni superficie brillasse e che fosse sempre linda e pulita. Che le lenzuola venissero lavate e stirate ogni giorno e pretese persino la colazione al letto, come se fosse la padrona.
Approfittando del fatto che i Da Campo l’avevano lasciata a supervisionare il posto, ci stava prendendo gusto a fingere di essere la padrona. Solo nelle prime due settimane prese a fare la mecenate non autorizzata di alcuni artisti locali, commissionando opere d’arte di vario tipo. E convocò a sé qualche intellettuale per formare un circolo letterario. La cosa che più sorprese la servitù, fu che costoro risposero. Forse attirati dalla possibilità di far parte di una cerchia, per quanto piccola, di qualcuno di influente. Una specie di trampolino di lancio, si potrebbe dire. E ciò non sfuggì a quei pochi servitori dotati di abbastanza sete di denaro e manie di grandezza e potere che si posero immediatamente al suo servizio. Ovviamente anche lì esistevano persone che ambivano a diventare qualcuno. Persone la cui fantasia li portava a straordinari voli pindarici. E che avrebbero svenduto la propria madre per farlo. Perciò nel castello cominciò a serpeggiare la paura di queste persone. Fu una sorpresa generale il fatto che Santiago, ormai scagionato dalla punizione, non si fosse unito a costoro. Per una coincidenza Agostino si era ritrovato seduto accanto a Stellaria, la quale stava chiacchierando con il suo avversario, che era accomodato dall’altro lato della tavola. E lei gli aveva domandato perché non avesse seguito l’esempio di quelle persone.
«Sarò anche arrogante e pieno di difetti, ve lo concedo;» disse rivolgendosi soprattutto ad Agostino, quella sera a cena, «ma non sono stupido. La gloria che promette e lo sfarzo di cui si circonda hanno un costo e lei non ha tutto il denaro che serve per pagare. E noi qui non è che ce la passiamo meglio. Di questo passo non vedremo neanche più le nostre paghe, altro che dimezzamento. Quella porta guai». «Perché dite sempre così? Ho sentito dire la stessa cosa della marchesina.» Ribatté allora Agostino, punto sul vivo, trovando il coraggio di rivolgergli la parola dopo quei mesi. Santiago però parve non fare caso a ciò, forse perché mitigato dalla presenza di Stella, o forse perché aveva accantonato ogni proposito di vendetta. O più probabilmente aveva capito che gli serviva aspettare, invece che agire seduta stante. Fatto sta che gli rispose: «Perché vedo come ci tratta. E ho udito anch’io le voci che si rincorrevano a proposito della tua infatuazione per la padroncina. E tutto il vespaio che avete provocato nei mesi scorsi. Non ti credere, anche giù per i cessi si ascoltano voci interessati.» Fece trapassandolo con un lampo degli occhi dorati. Il giovane abbassò gli occhi. Santiago bevve dal suo calice e continuò, serio. Gli occhi fissi nel bicchiere: «Ad ogni modo sono qui da molto più tempo di te, ragazzino, perciò puoi fidarti di quello che ti dico. Permettimi di darti un consiglio: non provare a immischiarti coi Da Campo. La marchesina ci gode un sacco a provocare la servitù, soprattutto quelli giovani e inesperti. Dall’alto della sua posizione sa di poterlo fare e sa di poter fare il bello e il cattivo tempo. Non hai idea di quanto si diverta a suscitare zizzania e far licenziare i poveracci che prende di mira. Da quando sono a servizio di quella famiglia ne avrà fatti scacciare almeno otto.» Poi si sporse un poco verso di lui e disse: «Se mai ti ha dato l’impressione di provare qualcosa per te, allora non è così. Se pensi che le interessi quello che fai, non è così. Se pensi che voglia scopare con te, forse è così, ma il prezzo è troppo alto persino per lei. Per quanto ami far disperare i suoi parenti, non si svenderà mai così facilmente».
«Quindi è solo per fargli un dispetto che si è avvicinata a me?»
«E che ha seminato zizzania finché la nostra Stellina non è andata a parlare coi suoi ricchi genitori? Esattamente.» Completò il suo interlocutore con un brillio negli occhi da gatto. Poi svuotò il contenuto del bicchiere. «Dammi retta, quella frigida marchesina non ha nessun desiderio che il male altrui».
«Sembra quasi che tu stia parlando per esperienza personale.» Costatò il ragazzo.
«Quasi. Mio fratello venne licenziato un paio d’anni fa a causa sua.» Spiegò l’altro, rabbuiandosi a causa del ricordo. Poi indicò la vicina di sedia del suo interlocutore e disse: «Se non ci credi chiedi pure a Stella. Conosce bene la storia tanto quanto me.» Il giardiniere si girò a guardarla e la vide annuire con aria seria, quasi grave. «Cosa è successo dopo?» Chiese, maledicendo se stesso per averlo chiesto. «Adesso lavora come macellaio a Trento e ci porta la carne al castello quando ci sono banchetti e feste. Ma ci ha messo un po’perché le malelingue smettessero di perseguitarlo. Strano sentirsi dire da me di stare in guardia, vero?» Domandò con un sorriso affilato, notando l’espressione del proprio interlocutore. «Già.» Rispose quest’ultimo, ancora stupito e intimorito. Un conto era sentirselo dire dagli amici. Ma se persino lui, che era la sua antitesi prima di Stella, cercava di metterlo in guardia, doveva essere per forza vero. Fu allora che si accorse che sia il suo maestro, che suo zio, Santiago, e persino la ragazzina che gli sedeva vicino, non avevano fatto altro che cercare di proteggerlo per tutto il tempo. Dopo questo cercò di togliersi dalla testa il più presto possibile quella ragazza. Non gli ci volle molto per trovare una distrazione. Gli bastava alzarsi la mattina, pensare al giardino e insegnare ai giardinieri qualche trucchetto, come per esempio quali bulbi interrare in autunno e a che profondità. «Ecco perché non hai voluto che li piantassimo subito quando ce li hai fatti comprare!» Fece stupita La Scorbutica. Il ragazzo sorrise: era bello superarla in qualcosa, di tanto in tanto. Quell’estate aveva fatto loro comprare dei bulbi di anemone, croco, ranuncolo, di giunchiglie, giacinti, iris e narcisi. Ma - come aveva evidenziato la sua collaboratrice - non li aveva fatti piantare. Mentre si occupavano delle aiuole, spiegò a tutti come piantarli e quando. Cioè a novembre. Per il momento si sarebbero limitati a fare l’inventario e dissodare il terreno. Neppure Lucenzio si aspettava, per esempio, che i narcisi andassero piantati in buchette profonde quattordici centimetri, o che gli iris andassero piantate in buchette da dieci. «A primavera dovrebbero sbocciare.» Disse con sicurezza.
Andrea, uno dei braccianti, gli si avvicinò e disse, piantando la vanga nel terreno per appoggiarcisi: «Non so come funzionassero le cose a Sirmione, ma come pensi che l’inverno non ghiaccerà il terreno?» Il giovane ammise a se stesso di non averci pensato. Nessuno lì era meteorologo. «Troveremo il modo di scongelarlo.» Rispose con sicurezza continuando a guardare i lavoranti chini sull’ultima aiola. La sua mente che già vagliava varie possibilità.
Altro incentivo a dimenticarsi della giovinetta, oltre a immergersi nella routine quotidiana, fu subire, come tutti, gli angherie di Amalia. La quale, era chiaro che era rimasta lì per tenerlo d’occhio. Forse doveva aver pensato che Agostino potesse scrivere alla marchesina. O era così o altrimenti non si spiegava la presenza di quella strega alle sue lezioni, oppure, spesso, quando faceva i compiti assegnatigli da Lucenzio. Ma poi, cominciò a vessare anche il povero maestro a quel modo, e mandò così all’aria la teoria che si era fatto in proposito. Molto spesso non potevano fare niente che spesso se la ritrovavano alle spalle. A volte capitava persino che li mandasse a chiamare per delle commissioni. Invece altre volte, quando li aveva davanti, si dimenticava perché li avesse fatti chiamare e li rispediva indietro, solo per richiamarli una volta che erano già tornati nell’altra ala del castello. Una volta giocò con loro a questo modo dodici volte. Se si era fermata era stato solo perché il gioco aveva finito per annoiarla. E la noia, in una residenza estiva nella Valle dei Laghi, per una donna abituata ai ritmi di Venezia, non tardò a entrare a far parte della sua vita. Resistette due settimane prima di cominciare a svagarsi. E per farlo indette delle feste e dei banchetti e invitò la nobiltà locale. Per gli abitanti del castello significava solo una cosa: ancora più lavoro e meno soldi. Inoltre i giorni diventavano sempre più freddi. Le giornate si appesantirono e al tempo stesso si accorciarono ulteriormente. Soprattutto quando l’angelo cessò di cantare e quando giunse ottobre.
Quel mese portò con sé i primi freddi della stagione e l’influenza stagionale. A quel punto le conoscenze semi mediche di Agostino tornarono molto utili, soprattutto contro la tosse. Se non altro, grazie a tutto ciò, poté restare fuori molto a lungo. E non solo per fare la legna. Fu una strana esperienza per lui tornare a fare la legna nei boschi della Valle. In un certo senso, addentrarsi tra quegli alberi, lo riportò indietro all’infanzia, quando scorrazzava per le colline e si rotolava nelle foglie. Ma era tardi, ormai, si disse. Aveva appena risalito una delle colline quando sentì le grida divertite di alcuni dei giovani colleghi. Incuriosito le seguì e quale fu la sua sorpresa nel vedere Stella, due serve e qualche altro domestico un po’più grande giocare con le foglie e ridere come bambini. Mentre i bambini effettivi - ovvero i cuginetti di Agostino - saltellavano loro attorno come leprotti. «Non vi dimenticate la palla come l’ultima volta.» Fece Maria Patrizia ai figlioletti, con tono severo ma divertito. Agostino restò di stucco nel vedere la zia per quei pendii. Non s’immaginava che fosse abbastanza agile da giungere fino a lì. Anche perché non vi erano cavalli nelle vicinanze. Poi La Scorbutica - raggiante - e le serve fecero a gara a chi rotolava più velocemente per la collina e atterrava in un mucchio di foglie. Giunte alla base le tre si fermarono e cominciarono a ridere come pazze. Anche se le loro risate risuonarono un po’frammentate per via del fiatone. Una discesa simile percorsa a quel modo, un po’ lo faceva venire. Uno dei servi si accorse di lui e, sorridendo, gli fece cenno col braccio di unirsi a loro: «Che fai lassù? Vieni a giocare!» Urlò. Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Mollò la fascina di legno e si unì ai giochi. Tanto chi vuoi che gliela rubasse? Fu bello godersi quell’attimo di spensieratezza prima di tornare alla triste realtà quotidiana. Si sorprese che la tredicenne che non poteva soffrire avesse ancora così tanta energia da vendere. Perché quando non c’erano né Lucenzio né Agostino da vessare, la cortigiana si rifaceva sulla povera bionda. Così era venuto a sapere che lei non era simpatica ad Amalia. L’aveva sentita lamentarsi un giorno mentre cucinavano il pranzo. Lei, i capelli legati in una treccia, stava preparando gli la pasta per i pasticci di frattaglie di luccio, mentre lui puliva il pesce davanti a lei. A un tratto si era interrotta per via di una fitta di dolore e aveva sibilato: «Gesù, quella strega mi sta massacrando».
«Tu?» Aveva replicato il ragazzo, fermandosi. Lei aveva annuito. Una mano dietro la schiena che le doleva: «Pensavo che tu stessi simpatica ai Da Campo».
«Amalia» quando non erano in sua presenza evitavano le formalità. Nessuno in quel castello osava parlare dei padroni in modo formale, se costoro non erano presenti «mi odia. Forse quasi quanto odia te e mastro Lucenzio. Anche la marchesina mi detesta. Solo gli altri Da Campo mi stimano e rispettano sempre la mia opinione.» Lo illuminò lei, cogliendolo di sorpresa: quindi non aveva davvero la simpatia di tutti al castello. «Non puoi immaginare quanto sia disordinata. Hai presente i porcili? Bene, sono molto più ordinati delle stanze di quella là. O anche soltanto di un posto che ha subito il suo passaggio. Penso persino che le scrofe siano molto più educate di quella là. Una mattina l’ho persino sorpresa mentre un suo amante si stava rivestendo. E poi se la presero pure perché ero entrata. Ma se mi aveva chiamato lei per pulire solo dieci minuti prima! Mi ha fatto fustigare con la bacchetta di mastro Lucenzio “in considerazione della tua giovane età”.» Disse più piano, cercando di imitarla: «Altrimenti avrebbero usato il frustino e sulla mia schiena. Me l’ha fatta prendere personalmente.» Ecco perché era fuori posto, quella mattina. Pensò il giovane, ma non la interruppe: «E avresti dovuto vedere come sorrideva soddisfatta. Quella sorride sempre così quando mi vessa. Gode da morire nel farmi del male. Poi mi ha sfiorato dolcemente la guancia con la mano e mi ha cacciata. Per poi punirmi poche ore dopo costringendomi a pulire i vetri del castello. Non si è ritenuta soddisfatta finché non è giunto mezzogiorno. Me li ha fatti pulire due volte, dall’interno e dall’esterno. Ho avuto le mani spellate per giorni e già sono callose per via del lavoro.» Fece dispiaciuta guardandosi una mano sporca di farina. Effettivamente sarebbero state molto più belle, se avesse potuto curarle di più. I suoi occhi si fecero vacui, mentre si perdeva in chissà quali pensieri.
Il ragazzo soffiò tra i denti per solidarietà e con quel suono gli occhi di lei si rianimarono. «Anche le mie sono callose per il lavoro.» Disse. E fu solo allora che lo guardò negli occhi e gli sorrise, comprensiva e restarono a guardarsi, riconoscendosi l’uno nell’altra. Improvvisamente uno dei cuochi li richiamò a gran voce, facendoli sussultare: «Che fate voi due? Si batte la fiacca? Al lavoro! Datevi una mossa! I pasticci di pesce non si fanno da soli! Muovetevi!» e i due obbedirono mettendoci ancor più lena di prima. Quando la ragazza si volse, Agostino si accorse della chiazza bianca lasciata dalla sua mano sulla schiena. Soffocò una risata finché poté. Ma era maledettamente difficile. Così difficile che divenne paonazzo. E lo stesso fecero tutti i presenti, finché lei non se ne accorse e, rossa come un peperone, si affrettò a ripulirsi con uno strofinaccio.

Il lato positivo dell’autunno fu la bellezza delle foglie che cadevano e i colori che assumevano. Il negativo fu che dovettero rastrellarle via dal giardino. Di solito il ragazzo si limitava a buttarle altrove, tanto sarebbero marcite sotto la neve. Ma stavolta pensò di farci un bel rogo di fine stagione. Rogo al quale parteciparono quasi tutti gli abitanti del castello, con una strana solennità. Come se con quel gesto stessero dicendo addio all’estate. Persino Amalia partecipò da una delle bifore ai piani superiori, però. Ma neanche il freddo o la malattia di chi viveva lì la distolse dai suoi propositi di baldoria. Ogni volta che qualcuno tossiva in sua presenza, lo faceva cacciare via. In questo era simile a Donato, e infatti, lui la trovò molto simpatica solo per questo. Se non lo pestarono quando proclamò la propria simpatia a gran voce in cucina, fu solo perché erano troppo stanchi e provati dalle fatiche per replicare. Nonostante che il maggiordomo cercasse di arginare tutta quella pazzia ricordandole i debiti che accumulava. Ma lei si volgeva verso di lui e, sdegnata, rispondeva: «Non osate rivolgervi a me con quel tono! So benissimo quello che faccio. Tutto ciò ci tornerà indietro con gli interessi!»
Etienne da Monselice, forse spaventato, forse affascinato, rispondeva: «Come desiderate, madama.» E la lasciò continuare. E quando lo fece, cominciò a spargersi la voce di un dialogo tra due servi. Diceva più o meno così: «Sembra che si ripeta la storia del fantasma del castello.» Iniziava uno. «Che sia posseduta?» Osò domandare il secondo.
Il primo rispose: «Non lo so. Ma se andiamo avanti di questo passo rischieremo sicuramente di avere un altro fantasma.» Ovviamente queste parole furono udite nel momento sbagliato dalla persona sbagliata, che andò a riferire tutto alla dama. La quale fece fustigare a sangue i due. Inoltre non sopportava di avere intorno i bambini, anche se a messa faceva l’elemosina a tutti i poveri che le si avvicinavano. A novembre aveva addirittura cercato di trasferire altrove la povera Maria Patrizia con la relativa prole. Solo perché i cuginetti di Agostino stavano rispettivamente perdendo i denti, ammalandosi, avevano difficoltà a dormire, e contraendo i pidocchi. Soltanto Basilio si salvava: non aveva ancora preso niente. Ragion per cui la povera Maria Patrizia era sempre indaffarata e non poteva prestare attenzioni alla signora del castello. Una sera la donna sentì uno dei bambini tossire e si arrabbiò. Chiamò subito tutti i servitori del castello nella sala grande. Disse che non importava che fossero vestiti o meno, li voleva lì tutti. E così fu. Fortunatamente si recarono lì tutti vestiti da notte. Maria Patrizia si teneva i bambini stretti a sé. A parte Antonino, che era quello malato ed era rimasto in camera, al caldo. Basilio, che si era preso i pidocchi, si grattava la testa come un ossesso.
Etienne - ancora vestito normalmente perché lavorava fino a notte fonda - era vicino alla moglie. Agostino e Lucenzio li raggiunsero e chiesero spiegazioni. «Non lo so.» Rispose lo zio, preoccupato.
A un tratto Agostino si accorse che Alcibiade, quello che stava perdendo i denti, era sgattaiolato verso di lui e ora gli tirava la manica. Il giovane guardò il cugino che gli tese le braccina con aria implorante. E così si chinò e lo prese in braccio. Poi il bambino, i grandi occhioni verdi, gli domandò, con la sua vocetta incerta: «Tino, che succede?» Era l’unico dei bambini a chiamarlo così. Il ragazzo cercò di mostrarsi rassicurante e gli fece un sorriso: «Niente piccolo, niente.» Mentì. Ma la bugia non andò a segno perché il bambino domandò: «Pecché Vasio dice che dobbiamo andare via? Pecché mamma piange?» Il ragazzo non seppe che rispondergli, a parte: «Non è niente, vedrai. Tutto si aggiusterà. Tutto si aggiusterà.» E abbracciarlo più forte.
Intanto la matrona fece la sua comparsa in sala e cominciò a parlare e tutti si zittirono, attenti: «Vi ho convocati qui perché ho deciso di fare una riduzione del personale. Siccome non ce la facciamo a tirare avanti col solito ritmo, ho deciso di licenziare qualcuno di voi.» A quelle parole la sala si riempì di un brusio che crebbe fino a che qualcuno urlò. Ma Amalia, le guardie e i suoi fedeli li richiamarono all’ordine e così lei poté continuare: «La scelta ricade sui membri più anziani e lenti del castello e su» gli occhi si spostarono sulla famiglia Monselice. Un brivido freddo corse lungo la spina dorsale di Agostino. Poi la megera parlò: «i Monselice».
«Cosa?» Esclamò Agostino.
«No!» Urlò invece Etienne e molti altri gli fecero eco, agitandosi. Molte persone si strinsero attorno ai Monselice e Alcibiade si strinse al collo di Agostino piangendo. Il ragazzo cercò di tranquillizzarlo strofinandogli una mano sulla schienuccia. Se non l’avesse tenuto in braccio sarebbe stato quello che avrebbe urlato con più foga.
Per quanto avessero provato a protestare tutti, la donna era stata costretta a prendere una casa in paese e trasferirsi lì con la famiglia solo perché uno dei bambini l’aveva infastidita mentre disquisiva di letteratura con uno degli intellettuali del circolo. A niente erano servite le scuse dei due genitori e Etienne era furibondo. Fu la prima volta che perse veramente le staffe: «Non potete fare questo! E' la mia famiglia! Non potete mandarli via!» Ruggì. Lei alzò un sopracciglio con fare studiato. Un vago sorriso di trionfo dipinto sul viso truccato.
«Posso e lo farò!» Dichiarò con dolcezza.
Agostino, che era presente, aveva cercato di ribattere ma suo zio ebbe un lampo di genio. Avanzò verso di lei e il ragazzo tacque immediatamente. Le guardie gli sbarrarono il passo ma l’uomo con un ordine secco le fece scostare e si avvicinò alla donna. Le parole che le disse, anche se quasi sussurrate, rimbombarono nella sala per via dell’eco: «Se mandate via loro, vado via anch’io. E dopo voglio proprio vedere chi vi salverà il regale sedere quando i marchesi sapranno di tutti i debiti che avete accumulato in loro assenza. Di tutte le feste non autorizzate, di tutte le merci comprate che non vi siete premurata di riferirgli. O quando i conti non quadreranno. O quando non avrete più soldi neanche per pagare l’ultimo degli schiavi. E quando questo castello andrà in rovina. Allora dovrete fare i conti con i Da Campo e con tutte le persone che avete vessato. E credetemi, c’è un intero castello che non vede l’ora di farvi provare sulla vostra stessa pelle ciò che state imponendoci. E vi garantisco che non troverete nessuno che ci sostituirà. Vi faremo terra bruciata. Racconteremo a tutti di quanto siete perfida, senza cuore e spendacciona e vi garantisco che non avrete vita facile.» In quel mentre tutti gli abitanti del castello annuirono sia a voce che a cenni. Facendo fronte comune contro quella maledetta donnaccia. Tutti, ovviamente, a parte i fedeli della donna, troppo codardi per schierarsi con la maggioranza e troppo affamati per staccarsi dalla “padrona”. Costoro si limitarono a restare dietro di lei e a guardare il tutto con aria preoccupata. Incerti se darsi subito alla fuga o meno.
Amalia impallidì, percependo la verità dietro quelle parole e le tremò il labbro: «Non oserete...»
L’uomo dall’occhio cieco inarcò un sopracciglio e la sfidò: «Non oserò? Provate a togliermi il mio lavoro, madama, provate a scacciare sia me che tutta la mia famiglia. Provateci. E vi garantisco che nulla mi tratterrà, perché mi renderete uno di quegli uomini di cui tanto parlate: uno che non ha niente da perdere. Provateci, provateci a continuare a spadroneggiare e manderò una lettera ai Da Campo.» Quest’ultima minaccia in particolare fece il suo effetto perché lei cambiò atteggiamento. «Non potete farlo.» Sibilò con voce tremula, di modo che fosse solo lui a sentirlo. Il viso pietrificato in quella smorfia di trionfo che aveva esibito fino a quel momento. «Vogliamo vedere?» Domandò il maggiordomo, senza paura alcuna. Agostino provò una grande ammirazione per lui, in quel momento.
Maria Patrizia non resse più e cominciò a piangere in ginocchio. Le mani premute sul viso.
Invece, a quelle parole la dama aveva contratto il volto in una smorfia di rabbia. Le lacrime le uscirono dagli occhi e le scivolarono sul viso: «Vi detesto.» Disse rabbiosa a denti stretti, battendo le palpebre. Un vistoso erpes labiale venne quasi svelato da sotto al trucco. Poi distolse lo sguardo da lui e disse a voce più alta: «Va bene, potete restare».
E mentre il resto del castello festeggiava il maggiordomo, la donna rientrò nelle proprie stanze, scornata. «Agotino.» Fece il piccolo Alcibiade ancora in braccio a lui. Era talmente euforico da dimenticarne in parte il peso. Il cugino lo guardò. «Non andiamo più via?» Chiese innocentemente il bambino. «No, Alcibiade, no. Non andate più via!» Fece il ragazzo gioioso. A quelle parole anche il cuginetto urlò di gioia. Poi i due raggiunsero lo zio, che stava accompagnando a letto la famiglia mentre tutti sciamavano alle proprie stanze. Una volta che gli fu vicino gli disse: «Siete stato formidabile». L’uomo dall’occhio cieco smise di rassicurare momentaneamente la moglie e fece un sorriso mesto, senza però guardare il nipote e il bambino che portava in braccio. «No, sono stato fortunato, Monna Amalia non conosce la sottile arte dell’eloquenza.» Poi guardò il nipote e gli tese un braccio dicendo: «Vieni, Alcibiade, andiamo a letto».
Ma il bambino si strinse al collo del ragazzo e scosse il capo, mettendo su il broncio: «No! Voglio stare con Tino!» Protestò e quelle parole gli fecero provare un gran moto d’affetto per il bambino. «Starai con Agostino domani. Ora vieni». Il piccolo s’impuntò: «No!» Il maggiordomo lasciò ricadere il braccio. Fece per aprire bocca, ma il quattordicenne accorse in aiuto del cuginetto: «Zio, pensavo, che stasera potrei rimanere a dormire assieme a voi. A mastro Lucenzio non dispiacerà se per stanotte non restò a dormire nella nostra stanza». L’uomo, che fino a quel momento li aveva seguiti, si affrettò a spalleggiare l’allievo e confermò: «Se è così, vi auguro buon riposo, Mastro Lucenzio.» Disse il capo della servitù. L’uomo salutò il giovane allievo, che ricambiò, e se ne tornò nella direzione dalla quale erano venuti. Dopotutto anch’io ho rischiato di… Non riuscì a pensarlo. Quel verbo, quell’eventualità ancora gli mettevano paura. E non poteva immaginare quanto fosse sollevato nell’avere ancora lì tutto ciò che restava della sua famiglia. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Non voleva perdere anche loro. E fu così che si rese conto che ormai non si sentiva più estraneo come all’inizio. «Va bene.» Acconsentì l’uomo mentre si avvicinavano sempre più alla loro stanza e Maria Patrizia lentamente si calmava. Poi tese nuovamente il braccio e stavolta cinse, impacciato, le spalle del nipote.
Passarono diciassette giorni buoni prima che la dama ricominciasse, anche se un po’meno assiduamente di prima, la sua routine. Solo a ripensare a questo evento, Agostino, elevò gli occhi al cielo plumbeo e si domandò come mai non l’avessero ancora fulminata. E perché invece avesse fatto ammalare Stella. La ragazza aveva cominciato a stare male il giorno seguente, proprio quando dovevano piantare i bulbi e le talee. Aveva la febbre, per fortuna però non era niente che non sarebbe passato con un po’di riposo e delle medicine prese dall’erborista. Avrebbe dovuto gioire del fatto che La Scorbutica stesse male, eppure scoprì di non riuscirci, anzi, di provare solo compassione per lei. Lui non si ammalava più da quando aveva compiuto dodici anni; ovviamente se si escludevano lievi raffreddori e qualche attacco di tosse dovuti agli sbalzi di temperatura. Ma niente di eclatante. Per uno strano caso, però, quel giorno, che faceva più freddo del solito e la neve cadde tutto il giorno, nessuno volle scendere in paese a comprare i medicinali necessari dallo speziale. A cose normali ci sarebbe andato Santiago, ma né lui né la sorella - fino a quel momento il giardiniere non sapeva che Santiago avesse anche una sorella - non si erano voluti staccare da Stella. Era fondamentalmente lei che si occupava dei malati del castello, affiancandosi al medico. Aveva anche lei i capelli scuri, ma ricci, e la carnagione di natura poco più scura della sua, e gli occhi dorati. Il suo nome era Charo. Inoltre si prendeva cura di Stella quasi che fosse la sua vera madre, assieme a Santiago. Altro che simpatia, come aveva detto lo zio. Non permise a nessuno di vederla, durante la malattia e neanche di portarle qualcosa con cui lavarsi. Ogni volta che glielo proponevano Charo rispondeva che ci avrebbe pensato lei e che i malati non andavano lavati. Agostino ci scambiò solo poche parole, e solo per portare una bacinella piena d’acqua e gli asciugamani per la sua nemica. In realtà non doveva farlo lui, ma la domestica che se ne occupava era indaffarata e così ne aveva approfittato.
Era stata la sorella di Santiago ad avergli aperto la porta. E il giovane aveva esordito immediatamente dicendo: «Ecco gli asciugamani e l’acqua. Come sta?» Ma l’altra aveva proprio ignorato la domanda. Lo aveva ringraziato, preso l’occorrente e chiusogli la porta in faccia. Che strana donna. Pensò. Per questo restò sorpreso quando lei domandò a tutti chi se la sentisse di scendere in paese. E, come abbiamo già detto, non si offrì nessuno. Nessuno a parte Agostino. Il quale, dopo essersi guardato intorno e aver valutato la codardia del resto della servitù disse: «Oh, d’accordo, datemi i soldi, ci vado io.» E così fece. Ma al ritorno consegnò le medicine a Santiago, invece che alla sorella. Il ragazzo stava portando una cesta di vestiti puliti in una delle camere quando il nipote del maggiordomo lo raggiunse e gli consegnò le medicine dicendogli: «Ho fatto il prima possibile».
Il diciottenne aveva sgranato gli occhi mentre gli permetteva di metterle in cima alla pila: «Perché le dai a me?» L’altro arrossì e distolse lo sguardo nel balbettare un «Tua sorella mi mette paura» che lo fece sganasciare dalle risate. Risate che, ovviamente, fecero voltare anche altri inservienti di passaggio nella loro direzione. Poi lo spagnolo rispose: «Fa quest’effetto a tutti.» Poi, sempre ridendo, andò a portare le medicine alla sorella e continuare il giro.

Al termine di questi diciassette giorni Agostino, mentre studiava in biblioteca, venne chiamato. Quella era già una brutta giornata di suo. Le nuvole erano talmente scure che oscuravano ogni raggio del sole e pareva che fosse notte anche se era pieno pomeriggio. E adesso ci si metteva persino la megera.
«Cosa succede?» Domandò al ragazzo che gli aveva riferito il messaggio. Il quale alzò le spalle e rispose: «Non me lo chiedere. Non me l’ha voluto dire.» Il giovane posò la penna e si domandò che cosa volesse, adesso. Però si alzò e andò a mettersi qualcosa di più pulito addosso. Quella strega non sopportava che le persone attorno a lei puzzassero. Ma che ci poteva fare lui se il profumo non sempre bastava per coprire l’odore delle sue ascelle? Che poi, ad essere onesti, problema adolescenziale a parte, non era che amasse più di tanto i profumi, si sentiva più a suo agio col vero odore della sua pelle. Anche se certe volte riconosceva pure lui che un bagno era d’obbligo. Ma per conferire con quella strega, un rapido cambio d’abito sarebbe andato più che bene. Poi la raggiunse nelle sue stanze. Le sue stanze erano molto luminose e accoglienti, e da lì si poteva godere di una bella vista sulle montagne innevate. Non era la sua camera da letto, bensì il suo studio privato. Allora ignorava che le nobildonne disponessero di uno spazio ricreativo simile.
La donna alzò il viso dal suo lavoro di cucito e disse: «Eccoti qua, stavamo giusto parlando di te.» A quelle parole Agostino si accorse con sgomento che, assieme a lei c’era la zia. La quale, anche se cercava di dissimulare al meglio, non sembrava particolarmente entusiasta di ricamare assieme alla donna che solo poco tempo prima aveva tentato di buttarla fuori. E anzi, alla vista del nipote, la zia si sentì ancora più a disagio. E Agostino sempre più preoccupato e imbestialito. Perché era lì? Cosa stava architettando? E cosa stava facendo alla zia? Ormai a forza di passare il proprio tempo a fare attenzione ai fedelissimi di Amalia e a cercare di carpire qualcosa che potesse tornargli utile, anche il suo cervello si era adeguato. Ma vedere sua zia lì era destabilizzante. «Maria Patrizia, lasciateci.» Ordinò con dolcezza la signora. La zia di Agostino mise da parte il proprio lavoro e si alzò, fece una riverenza - che le costò un enorme sforzo - alla dama e se ne andò rapidamente. Agostino l’accompagnò con lo sguardo e poté giurare di averla vista contrarre il viso in una smorfia di pianto, prima di chiudere la porta e lasciarli soli.
«Allora, Agostino, siediti.» Lo invitò gentilmente la dama seduta sui cuscini adagiati sulla cassapanca sotto la finestra. Il ragazzo la guardò e vide che gli stava indicando una sedia, la stessa che prima aveva occupato la zia. Sul tavolo vicino c’era un vassoio ricco di leccornie dolci, frutta e bevande calde. Le riconobbe per quelle che aveva contribuito a preparare poco prima. Invece di sedersi disegnò un inchino e domandò, in tono più formale possibile: «Mi avete fatto chiamare?»
«Certo, siediti, ti prego.» Disse in tono gentile. Il ragazzo raddrizzò la schiena e obbedì. Stella aveva ragione, quella donna era strana. «Posso domandarvi cosa ci faceva qui mia zia?» «Mi stava aiutando a ricamare. Siccome non sono molto brava nelle opere di cucito ho chiesto che mi fosse mandata qualcuna per aiutarmi ed è arrivata lei».
«E cosa stareste cucendo, se posso chiedere?» In realtà non gli interessava affatto il suo lavoro. Sperava soltanto che non le prendesse un raptus e le conficcasse l’ago in un occhio e si inventasse che l’aveva aggredita. Ma lei quel giorno non sembrava dell’umore per fargli uno scherzo simile. Anche perché mise da parte il proprio lavoro e disse: «Una volta facemmo un viaggio nelle fiandre,» cominciò a raccontare, una luce nostalgica le illuminava il volto, «e fummo ospitati in un palazzo dalle sale piene di splendidi arazzi. Oh, se mi innamorai di quegli arazzi. Anche la mia padrona, ma lei non poté comprarne neanche uno per via del prezzo eccessivamente alto richiesto. E il padrone la persuase definitivamente ricordandole i vari rischi che avrebbe potuto correre durante il viaggio. Questo non mi ha certo fatto smettere di amare quegli arazzi. Da allora abbiamo fatto di tutto per cercare di imparare a tesserli noi stesse, ma con scarsi risultati. Il massimo che potevamo ottenere era il punto croce. Insegnatoci, peraltro, dalla nostra stessa padrona. Ma io continuo ad allenarmi e a perfezionare la mia tecnica.» Agostino non capiva dove volesse andare a parare. Poi la vide alzarsi e si recò al tavolo, dandogli le spalle. Quando si girò gli porse una fetta di torta. Il ragazzo dagli occhi verdi la prese un po’sorpreso. Non si aspettava un simile gesto. Poi si accorse che lei recava nella mano un altro pezzo di dolce. La cortigiana si risedette al suo posto e cominciò a sbocconcellare il dolce. Agostino fece altrettanto e scoprì che era buonissimo. Quando ebbero finito di mangiare lei tornò al tavolo ove si pulì le mani con uno straccetto che gettò di lato sulla tavola e quando si volse di nuovo gli porse anche una tazza di quella bevanda calda e fumante. Guardandone il contenuto scoprì che si trattava di latte e cannella. «Bevi, o si fredderà.» Si raccomandò la donna con fare materno. Il ragazzo le lanciò un’occhiata sospettosa e obbedì. Quando finì e mise giù la tazza la donna le porse un fazzoletto, lo stesso che aveva lanciato di lato sul tavolo poco prima. In ogni caso si pulì la bocca con un angolo libero. «Tornando a noi, come ogni allievo anch’io ho bisogno di aiuto.» Fece lei, riprendendo il filo del discorso. E qui la sua voce si fece più affilata. Adesso i suoi occhi brillavano, come se stessero cercando di incantarlo: «E io ho bisogno del tuo. Vedi, immagina che ogni persona sia un filo di un arazzo. Un filo intrecciato ad altri. E su quell’arazzo ci sono intessute le immagini che io sto cercando di cucire. Ma senza l’aiuto dei fili, un tessitore non può fare molto. Soprattutto se i fili che rispondono meglio ai suoi comandi sono quelli meno importanti dell’arazzo. Quindi io ti chiedo di aiutarmi».
«Cosa volete che faccia, signora?»
«Voglio che tu spii tuo zio per me. Voglio che tu mi dica dove ha messo quella lettera con la quale pensa di incastrarmi e me la consegni.» Disse la donna con voce suadente. Fortuna che - come diceva lo zio - quella donna non era una maga delle trattative e della diplomazia. Agostino la guardò stupefatto molto a lungo prima di rispondere con un secco: «No!»
Credeva che sarebbe bastato così poco per farlo capitolare? Nossignora; non avrebbe mai svenduto la sua famiglia per una stupida lettera, della quale non conosceva neanche l’effettiva esistenza. «No, mia signora. Non lo farò.» Disse il ragazzo con decisione. «Se proprio desiderate quella lettera, andatevela a prendere.» Rispose alzandosi in piedi. Poi le fece un inchino e si avviò alla porta, fregandosene di non essere stato congedato. Non fece in tempo ad aprirla che lei ribatté, rabbiosa: «Come osi, stupido servo, a usarmi questo comportamento? Ti farò frustare così tanto che non ti alzerai per settimane!»
Il ragazzo si ricordò di quello che aveva detto lo zio tempo prima, quella notte che Amalia aveva provato a scacciarli. Era un’idea rischiosa, ma doveva tentare. S’impose di parlare il più normalmente possibile mentre rispondeva senza voltarsi: «Mio zio potrebbe scrivere anche questo nella lettera».
Poi uscì e se ne tornò rapidamente in biblioteca. Una volta lì si sedette e si prese la testa tra le mani con un sospiro. Chiuse gli occhi, provato. «Ti ha mandato a chiamare?» Domandò una voce femminile da dietro le sue spalle. Il giovane sobbalzò da seduto e si volse in quella direzione. Il cuore che batteva forte. Poi tirò un sospiro di sollievo quando la vide: era Stella. «Sì.» Indossava una camicia da notte sotto due coperte di lana pesante adagiate sulle sue spalle a mo’di mantello. Recava un lume ad olio nella mano.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12: Ospiti d'Inverno ***


Capitolo 12: Ospiti d’Inverno


E
’facile parlare di alleanze quando in realtà non si ha neanche la minima idea di come organizzarsi. Eppure i due ragazzi ce la fecero. Non avendo moltissimi punti d’incontro però, e non conoscendosi abbastanza bene, la loro alleanza subì una fase di stallo nel periodo immediatamente successivo. Non solo perché fu il tempo che richiese la guarigione della sua nemica non più così nemica. Trovarono modo di cementificare quest’alleanza quando, un pomeriggio che si era completamente ristabilita, servì al giardiniere e il maestro qualcosa da mangiare. I due la ringraziarono e lei, pulendosi le mani al grembiule che indossava, domandò, osservando i fogli sul tavolo: «Quelli non sono i progetti del giardino?»
«No, sono gli esercizi di matematica di Agostino.» rispose Lucenzio. Poi la guardò: «Mi è giunta voce che tu l’hai umiliato con questa disciplina».
Il giovane, seduto lì accanto, arrossì mentre lei lì per lì non riuscì a rammentarsi dell’episodio: «Non mi ricordo».
«Effettivamente è successo qualche mese fa. Quando ti sei offerta volontaria per lavorare al giardino». Cercò di istradarla l’insegnante. La ragazza frugò nella memoria ma scosse il capo desolata: «Mi dispiace, non ricordo proprio». Agostino tirò un sospiro di sollievo che fece voltare i due verso di lui e il poverino arrossì. «Che c’è?»
«Che sospiri?»
«Che sospiro? Quale sospiro? Io non ho sospirato affatto!» I due decisero che quel giorno era strano e tornarono a ignorarlo. Il maestro scrollò le spalle e sorrise: «Non fa niente. Hai ancora la corona di fiori che ti ho regalato per San Giovanni?» Anche questa volta lei scosse la testa, dispiaciuta: «Purtroppo si è seccata, ho dovuto buttarla via».
«Non fa niente, per il prossimo San Giovanni te ne prenderò un’altra.» promise l’uomo e lei s’illuminò: «Dite sul serio, signore?» Il maestro le garantì di sì con un cenno d’assenso e un sorriso. La giovane ringraziò tutta sorridente disegnando ripetuti inchini poi, si congedò e se ne andò. Agostino trattenne un conato di vomito tutto il tempo. Quando l’altro si girò di nuovo verso di lui, fece molta fatica a non fulminarlo con lo sguardo e a rivolgersi a lui a male parole. Quella sera decise di sostare un po’in biblioteca. Purtroppo aveva scoperto che l’angelo del lago cantava solo durante la primavera e l’estate e che per la stagione invernale non si faceva udire neanche per sbaglio. Tra una scusa e l’altra non aveva più avuto tempo per dedicarsi alla lettura. Perciò voleva riprendere da dove si era interrotto. Stava cercando un libro, aiutandosi con una delle tante candele del loco quando sentì la voce de La Scorbutica: «Sei ancora sveglio?» Si volse verso di lei. Stavolta non era spaventato, l’aveva sentita arrivare. «Non mi va di dormire subito.» Si sforzò di non sorriderle. Non aveva ancora dimenticato il colloquio che aveva avuto con Lucenzio quel pomeriggio.
La bionda si avvicinò dicendo: «Io leggo tutte le sere prima di addormentarmi.» poi si mise a scrutare nella scansia accanto a lui. «I Da Campo ti hanno insegnato a leggere e scrivere?» Domandò il ragazzo. E, lei confermò con un cenno del capo: «E’stato il marchesino a insegnarmi». Rivelò con voce carica d’affetto per l’amico. Lui la guardò, non pensava che la sua voce potesse diventare così calda. «Vi tenete spesso in contatto?» La ragazza si guardò attorno con aria guardinga, poi gli rivelò, a voce bassa: «Almeno una volta ogni tre mesi, ma non lo sa nessuno. Una volta ci scrivevamo molto più spesso, ma non sta bene che una serva intrattenga rapporti epistolari con il figlio di un marchese.» finì con voce piena di tristezza. Fortunatamente Amalia non ne era a conoscenza. Lui provò un po’di pena per la giovane. «Almeno siete ancora in contatto, io non ho più sentito nessuno degli amici che avevo prima di trasferirmi qui».
«Mi dispiace».
«Anche a me. Ti manca?» Domandò cercando di cambiare discorso. Non voleva ripensare a loro: non l’avevano mai cercato nel corso di quell’anno, né dalla morte del padre né dal suo trasferimento. Begli amici, davvero. S’impose di non pensarci. «Un po’.» ammise la giovane. Poi trovò finalmente ciò che cercava e si diresse al tavolo. Anche Agostino trovò l’oggetto delle sue letture e la imitò, accomodandosi vicino a lei, ma non aveva più molta voglia di leggere. Il ricordo di quel pomeriggio ancora ben vivido nella sua testa. E forse parlò con un tono un po’troppo geloso, quando disse: «Però vedo che hai tanti amici qui, e che te la intendi con Lucenzio.» L’amica del marchesino lo guardò con l’aria di chi cade dalle nubi: «Me la intendo? In che senso?» Il ragazzo coi capelli di due colori diversi s’impappinò. Forse aveva preso una cantonata colossale. Ma ormai l’aveva detto, lei lo incalzava a rivelare tutto, e quindi continuò: «Gira voce che tu sia l’amante del mio maestro, è vero?» Chiese arrossendo ancora di più di quello che probabilmente doveva già essere. La giovane seduta di fronte a lui lo fissò a lungo con gli occhi sgranati prima di scoppiare in una fragorosa risata. Il quattordicenne la guardò stupefatto, vergognandosi. Tenne fermo il candelabro prima che i suoi colpi lo facessero ribaltare. «Smettila!» Le intimò. Se continuava così, avrebbe svegliato tutto il castello! Mentre lei si teneva la pancia con una mano e batteva il pugno sul tavolo, cercando di articolare una frase di senso compiuto: «Tu hai pensato che… io e Lucenzio fossimo… Questa è bella, no, questa è veramente bella. Non ho mai riso sì tanto in vita mia!»
«Ho capito! Ho capito! Mi sono sbagliato! Adesso smettila! Smettila!» Fece lui sentendo il sangue fluire alle orecchie e al collo, cercando di farsi udire sopra quegli sghignazzi sguaiati. La tredicenne si calmò, si pulì gli angoli degli occhi col dorso della mano e poi, venne scossa dalle ultime risa. «Sarà perché sei tu, ma se fosse stata un’altra persona l’avrei sbranato senza pensarci due volte. Tra me e mastro Lucenzio non c’è niente del genere. Da quando è arrivato qua, mi ha preso in simpatia in questo modo; dice che gli sono famigliare, che gli ricordo una sua sorellina, e anch’io provo la stessa cosa. Non so cosa sia, non mi era mai successo con nessuno, fatto sta che è molto gentile con me. Ma non ha mai osato sfiorarmi neppure con un dito.» lo rassicurò. Agostino sperimentò un fenomeno curioso: un po’della rabbia che aveva provato fino a quel momento scemò. Però fu subito sostituita dalla preoccupazione: «Stai attenta, anche se è gentile è pur sempre un uomo adulto, mentre tu…»
«Io?»
«Tu sei ancora vergine». E, a questa frase, anche parecchio scurrile persino per loro due, lei si accigliò: «E allora?» Ribatté in tono completamente diverso, offesa. «Stai attenta». Si raccomandò Agostino, esternando così ciò che pensava e provava: «Non voglio che tu finisca male. Sai cosa si dice sull’ingenuità delle fanciulle e di come gli uomini se ne approfittino facilmente. Poi sei una servetta, mentre lui è istruito, gli ci vuole niente per portarti a letto. L’ho già visto succedere». Fece quasi un balzo indietro sulla sedia quando lei lo trapassò con lo sguardo. Gli occhi ridotti a due fessure: «Credi che Santiago, Charo, i Da Campo e persino tuo zio non mi abbiano fatto la predica per questo? E, che non mi tengano d’occhio anche quando parlo con te o con qualsiasi altro membro maschile della servitù? Lo sai che non posso rivolgere la parola agli schiavi perché temono che loro, più di tutti, mi aggrediscano? E, che persino Amalia non abbia cercato di mandare all’aria quest’amicizia da quando è giunta qua? Credi che non ci stia provando persino adesso? Non ti ci mettere anche tu!» Urlò a voce sempre più alta, balzando in piedi e andandosene, lasciando il libro lì sul tavolo. Agostino si alzò: «Aspetta!» Esclamò ma troppo tardi, lei era già uscita e stava avviandosi a grandi passi verso la propria stanza.
L’indomani, una bella giornata di sole, lei non gli rivolse la parola per tutto il giorno. Neanche quando uscirono a fare la legna e stavolta venne anche Lucenzio. L’uomo, che aveva compiuto gli anni proprio tre giorni dopo Natale, aveva detto di non aver mai visto i boschi in inverno. Accorgendosi di come la ragazza li ignorava palesemente chiese spiegazioni ad Agostino, che si era lasciato sfuggire un sospiro che si condensò per via del freddo. «Che cosa è successo?»
Il giovane arrossì e mentì: «Niente, tutto come sempre; lo sai che siamo come cane e gatto e non ci sopportiamo». Poi si chinò a raccogliere un ramo nella neve.
«Mi era parso che in questo inverno i vostri contrasti si fossero appianati.» osservò.
«Bè, non è stato così.» lo superò e andò a raccogliere altri pezzi di legno. Bagnati com’erano, non potevano bruciare, però se li avessero lasciati vicino al caminetto si sarebbero asciugati. Lucenzio assottigliò gli occhi e allora provò un’altra strada: «Che cosa le hai detto?» Il ragazzo scattò come una molla e si volse verso di lui, terrorizzato; «Perché pensate che sia colpa mia?»
«Ha ignorato anche me, non solo te». Gli fece notare senza scomporsi.
«Niente».
«Sicuro? Guarda che lo vedo che mi stai mentendo.» non era difficile accorgersene: si agitava talmente tanto da andare nel pallone. Il bello era che lo stesso Agostino non lo sapeva, tantomeno immaginava: «No, ti assicuro che non ti sto mentendo». Il maestro lo squadrò a lungo prima di decidere di rispondere. «D’accordo.» concesse senza crederci lo stesso. Poi entrambi ripresero a camminare nella neve, verso una salita.
Se quei due tornarono a parlarsi fu perché Lucenzio alla fine chiese delucidazioni alla serva sull’accaduto. E quando quella sera lo seppe, fulminò l’allievo con lo sguardo: «Hai pensato che io e lei avessimo una relazione? Ma è una bambina! Non potrei mai abbassarmi a tanto!» Fece seriamente irato, quando lo trovò. Il ragazzo si stava scaldando alle fiamme del camino in camera loro. «Al castello si vocifera così...» squittì lui senza avere il coraggio di guardarlo in faccia. E gli occhi del maestro si assottigliarono ancor di più: «Ti ho già detto che me ne accorgo quando menti. Come ti è passato per la testa che io e lei potessimo anche solo lontanamente scopare? Eppure mi sembrava di essere stato chiaro già qualche mese fa!» Disse senza mezzi termini. E, il poveretto esplose: «Vi ho visto a San Giovanni e anche dopo e, quando le avete domandato della corona di fiori, ho pensato...»
«Ah, quindi non sono voci che girano, è farina del tuo sacco.» Lo interruppe e il ragazzo capì di essersi scoperto. Il ventiseienne sospirò, si schiacciò una mano sul viso e scosse il capo: «Mi meraviglio di te, Agostino, ora spargi veleno come una fantesca. Ti manca solo di metterti a rubare gioielli e spettegolare come una fantesca».
A quel punto il ragazzo balzò in piedi, offeso e sbottò, i pugni stretti e le braccia rigide lungo i fianchi: «Le ho solo detto di stare attenta e che non mi fido di quando degli uomini le ronzano intorno!» E, con maschi si riferiva, ovviamente, a lui. Il diretto interessato, da arrabbiato, scoppiò a ridere in una risata sguaiata, lasciandolo interdetto. E, sì che si era aspettato delle bacchettate per aver osato alzare la voce con lui. Anche se avevano un rapporto molto stretto, quasi fraterno, Lucenzio restava sempre il suo maestro. Però che strano, quella reazione era la stessa che aveva avuto Stella. Solo che stavolta, invece di preoccuparsi che lo sentissero, preferì girarsi verso il camino. Quando l’uomo si calmò, spiegò: «Stella? Le hai detto che io starei cercando di attentare alla sua verginità? Questa è bella, aspetta che me la segno».
«Perché, non è così?» Domandò il giardiniere, guardandolo incerto, mentre prendeva consapevolezza di aver sollevato quel vespaio per niente. L’altro negò: «E’una bambina e a me sembra di essere suo padre. Mi sento in dovere di proteggerla dalle angherie di Amalia. Non sai neanche lontanamente quanto quella donna l’abbia con lei. Posso sopportare che l’abbia con me, e lo posso anche capire, ma non con lei, che è solo una bambina. Le ho promesso di aiutarla a combattere Amalia, capisci?» E, questo spiegò come mai erano così uniti. Questo ad Agostino non bastò: «Quindi perché a San Giovanni le avevate comprato quella corona di fiori?»
«Perché il suo cagnolino era morto quella mattina perciò le ho fatto quel regalo per tirarla su di morale. Non mi è sembrato giusto che passasse un giorno così bello a piangersi addosso.» spiegò. «Il tutto sotto gli occhi di Santiago e Charo.» aggiunse. Agostino ammise a se stesso di non averli veduti ma, considerando gli sguardi cattivi che gli aveva lanciato Charo quando aveva provato a chiedere di Stella... «Ma poi avete anche fatto il tifo per lei quando ha saltato i fuochi.» disse invece, come se questa potesse essere una prova di colpevolezza. Il maestro sbuffò, irritato: «Se non l’hai notato, stavamo facendo tutti il tifo, e l’ho fatto anche per te.» poi aggiunse «Comunque, se proprio ci tieni a saperlo, dopo quest’episodio ha passato tutta la giornata con Santiago e Charo, mentre io sono rimasto assieme a te. Questo te lo dovresti ancora ricordare». Se lo ricordava. Il giovane, sconfitto, e col viso rosso come lingue di fuoco, chinò il capo: «Perdonatemi, io...» Il maestro lo prevenne dicendo «Non ti scusare, Agostino, sei solo geloso».
Agostino lo guardò, sorpreso: «Geloso? Ma di che parlate?»
Il maestro biondo lo guardò divertito: «Ancora non...Ah, non sarò certo io a infilarmi nelle tue beghe amorose». Poi gli volse le spalle e tirò fuori la camicia da notte da sotto il cuscino. Cominciò a spogliarsi dicendo: «Faremo bene a metterci a letto, domani ci aspetta una lunga giornata.» Il ragazzo concordò con lui e decise di imitarne l’esempio. Eppure sentiva che c’era qualcosa che non andava. Di solito il maestro non parlava mai quando spegnevano la lucerna e si coricavano nei rispettivi letti. E loro potevano dirsi fortunati perché nelle altre stanze c’erano altre sette o otto persone, come minimo. Soltanto le camere nobiliari erano singole. Eccezione fatta per i servitori più fedeli, che dormivano in lettini con loro. Invece quella sera era in vena di chiacchiere perché non la finiva più di parlare a ruota libera. «Maestro?» Lo chiamò a un tratto Agostino. «Sì?»
«Qualcosa vi turba, maestro?»
«Cosa ti fa pensare che io sia turbato?»
«Vi conosco un po’, voi non parlate mai prima di coricarvi, a parte per le preghiere la domenica». L’uomo tacque a lungo prima di sospirare un sofferto: «Sì».
«Riguarda quello che ho detto?» Chiese l’altro timoroso. Non gli piaceva che l’uomo potesse avercela con lui. «No, non è quello, neanche più di tanto, in realtà».
«Allora cos’è?» L’altro tacque così a lungo da fargli pensare che si fosse addormentato: «Amalia».
Il ragazzo si mise seduto sui gomiti, e lo cercò al chiarore delle fiamme che andavano consumandosi, ma l’uomo era sdraiato su un fianco e in ogni caso, da dove si trovava, non riusciva a vederlo: «Che vi ha fatto?» Chiese preoccupandosi, con voce chiara. Stranamente non aveva più molto sonno come prima. In altri tempi avrebbe avuto la voce già impastata di sonno. «Vuole che le insegni l’arte dell’eloquenza.» rispose Lucenzio con tutto il disgusto che poteva esprimere. «Chiaramente una mossa per tenerci d’occhio e per separarmi da te e da Stella». «Pensavo che voi non rientraste nelle mire di Amalia». Un fruscio dal letto gli annunciò che si era seduto, incuriosito, e il giovane si affrettò a rimediare «Cioè, pensavo che le persone che considerasse suoi nemici fossero solo Stella, mio zio Etienne ed io, non pensavo che anche voi foste un suo nemico».
«Invece è così.» sbuffò l’altro come se la conversazione stesse diventando troppo pesante. Ormai mille interrogativi stavano sorgendo nella mente di Agostino. «Perché?» Domandò. L’uomo sospirò, chiuse gli occhi e si pizzicò la radice del naso. E sempre in quella posa, disse, in tono da discorso chiuso: «Un giorno la curiosità finirà per ucciderti».
«Ma… Sì, maestro. Scusatemi».
Poi entrambi si coricarono davvero. Agostino però non riuscì a prendere sonno e passò molte ore a guardare le fiamme del focolare spegnersi.

Le lezioni che Amalia richiese a Lucenzio si svolsero la mattina. E, in gran segreto al suo circolo letterario del quale era anche mecenate. Non voleva che sapessero che non ne capiva un accidente. E, questo, col procedere, finì per rendere il giovane maestro stizzoso più che mai. A lezione finita si lamentava tutto il tempo della sua nuova allieva. Per imparare l’arte della retorica dovevano ripercorrere la filosofia e la letteratura, doveva cioè, ampliare il suo pensiero e il suo vocabolario. Si domandò come la sua cerchia d’intellettuali non si fosse accorta di questa sua lacuna. Dopo solo cinque lezioni, gli parve evidente che la testa della sua nuova allieva era come un portone rinforzato, chiuso con lucchetto e catenaccio, oltre che col chiavistello. E, lui, per quanto si sforzasse, al momento non riusciva a trovare la giusta chiave per aprirlo. Il lato positivo, diceva, era che neanche lei era così entusiasta di fare lezione con lui. Era evidente che se avesse potuto avrebbe chiamato qualcun altro.
La minaccia di Etienne e degli altri era ugualmente costante, perciò si dovette accontentare. «Tuo zio mi dovrà pagare molto, e con gli interessi.» fece il giovane uomo sedendosi a tavola in cucina con Agostino per il pranzo. Poi, gomiti sul tavolo, prese a massaggiarsi le tempie con la punta delle dita. Aveva scritto in faccia le parole: se potessi, la ammazzerei di botte; ma non poteva. Non solo perché la violenza non era nella sua natura. «Abbiate pazienza, maestro.» cercò di incoraggiarlo Etienne, che era accomodato di fronte a lui e lo stava guardando con occhi pieni di pietà. Perciò fino a quel momento aveva taciuto. «Facile per voi, dirlo, vero?» Lo canzonò il biondo guardandolo di sbieco mentre gli era servito un abbondante piatto di pasta ripiena. Poi l’uomo si fiondò sul cibo. E, dopo aver bevuto un po’di sidro di mele, si volse verso il suo allievo e gli domandò se avesse fatto pace con Stella. Il giovane scosse il capo, contrito: «Non ci sono riuscito. Lo farò stasera».
Quella sera la trovò in biblioteca, seduta al tavolo. Stava scrivendo qualcosa su delle pergamene e a volte alzava lo sguardo per consultare un libro e tornava agli appunti. «Che cosa scrivi?» Domandò il giovane senza annunciarsi. Lei sobbalzò e lo guardò, spaventata: «Non si bussa più?»
«Scusami».
«Per cosa? Lo spavento?» Chiese lei accigliandosi. Il ragazzo gesticolò con una mano nel dire: «Anche».
«D’accordo.» ma il suo tono aspro era rimasto immutato. Solo allora, come se gli avesse dato il via libera, si accostò al tavolo e le sedette di fronte: «Cosa scrivi?» Domandò inarcando le sopracciglia, cercando di fare conversazione. Anche se si era scusato, sentiva che il rimorso non se ne era ancora andato. «Sto trascrivendo il Tristano e Isotta. Non so perché ma me li ricordo meglio se li trascrivo.» Disse lei senza staccare gli occhi dal proprio lavoro. «Davvero? Interessante, io lo sto leggendo».
«L’hai già finito?»
«No, in realtà non ricordo neanche più a che pagina sono.» restarono in silenzio per un po’. Si sentiva soltanto il rumore della penna sulla pergamena. Infine Agostino si scusò anche per aver insinuato che lei e il maestro avessero una relazione. Soltanto allora lei si addolcì e lo perdonò. Fecero pure per dire qualcosa in contemporanea e risero di ciò. Poi fu lui a offrirsi di dettarglielo. Così avrebbe potuto continuare la lettura anche lui. La ragazza la trovò una splendida idea. E così cominciarono queste serate, durante le quali i due trascrissero il libro.

Solo una sera le cose parvero tornare come prima che stringessero quell’alleanza. Cioè quando giunsero a castello dei cavalieri. I quali chiesero di poter passare lì un paio di giorni per riprendersi dalle fatiche del loro viaggio. Amalia li accontentò, ma guardò Etienne come a dire: «Almeno questo lo posso fare?» Siccome non era riuscita a piegarlo alla propria volontà, tantomeno a strappargli la lettera. La presenza dei cavalieri fu una buona scusa per una tregua tra di loro. Agostino era molto eccitato nel vedere dei cavalieri da vicino. L’ultima volta che era accaduto era stato il giorno del suo arrivo a castel Toblino, ma era ancora sopraffatto dal ricordo dei genitori per pensare ad altro. Finalmente poté vederli da vicino. Stella invece non ne fu molto entusiasta, anche se, quando lui gli chiese perché, non rispose.
Perciò li fecero entrare e la dama indisse un banchetto per i loro ospiti e comandò alla servitù di ristorarli e rifocillarli come si conveniva, giacché erano pur sempre dei cavalieri al servizio della Santa Chiesa. Il drappello di cavalieri era composto di sei persone: un uomo alto e massiccio come un vichingo, dalle spalle larghe, i capelli mossi biondi platino e la faccia rossa, uno dai lineamenti vagamente volpini e gli occhi scuri. Uno che pareva siciliano, a giudicare dall’accento. Uno scozzese e due guardie pontificie. Vederli lì tutti e sei senza cotta di maglia e armatura con le insegne della Chiesa faceva uno strano effetto. Parevano quasi persone comuni. Se non fosse stato per le cicatrici e i racconti che narravano.
Amalia indossò per loro le sue vesti migliori e il suo trucco più bello, anche se poi un cavaliere, con poco tatto, le fece notare che l’erpes era comunque visibile, facendo così scompisciare il resto del drappello e parte dei servitori presenti. La donna avvampò interdetta prima di sciogliersi in una risatina a sua volta. E, inaugurando così la serata, li invitò nella sala dei banchetti e li fece accomodare alla lunga tavolata. I servitori cominciarono a servire le varie portate.
«Ditemi, miei signori, cosa vi porta in queste terre?» Domandò "la padrona di casa" mentre dei servi servivano loro da bere e i musici allietavano la serata. Erano cavalieri che avevano appena sterminato una delle tante sacche eretiche che imperversavano per l’Italia settentrionale, per la precisione nel Tirolo e ora stavano compiendo il viaggio di ritorno. Poi raccontarono delle loro imprese di cappa e spada per conto della Chiesa, probabilmente infarcendo un po’la verità con un po’di fantasia, giusto per le gentili orecchie che stavano udendo le loro fole. Agostino si mise a chiacchierare con il biondo, tanta era l’ammirazione che provava per i cavalieri. Avrebbe tanto desiderato diventarlo anche lui. E l’uomo sembrò ben felice di rispondere a tutte le sue domande. «Essere cavaliere non è facile, devi essere fedele alla Chiesa, a Dio. Quando agisci in Suo nome, quando mulini la tua spada sui servi del Male, ecco, lo Senti vicino a te. È una sensazione indescrivibile. Anche se a volte non è facile perché devi commettere atti estremi.» raccontò.
«Vi capita anche di scontrarvi con eretici?» Chiese Lucenzio, che sedeva a tavola di fronte a loro.
«Oh, loro sono i peggiori. Sono coloro che in primis hanno rifiutato la Parola del Signore».
Lo studioso parve diventare una statua di sale, tanto s’immobilizzò. Infine domandò, con un sorriso forzato sulle labbra: «Cosa ne pensate dei fedeli delle altre religioni?» L’uomo bevve un sorso di birra. Lo sguardo già annebbiato. Ruttò sonoramente, facendo rabbrividire Lucenzio per lo schifo, prima di rispondere: «Degli Ebrei, intendete?»
«Sì.» rispose Lucenzio lentamente, quasi che accarezzasse quel monosillabo, ancora schifato e pietrificato nella stessa posizione. Non amava che gli si ruttasse in faccia mentre mangiava. Invece il giovane allievo stravedeva per lui. Come se vedesse un cavaliere cortese delle leggende che tanto amava, e non un uomo in carne e ossa con tutti i suoi difetti. Infatti, non si sa con quale coraggio, riuscì a ignorare la risposta non poco razzista del cavaliere: «Trovo che stiano bene dove stiano e che abbiano ancora da scontare molti peccati prima di ricevere il Perdono di Dio e della Chiesa; mi dispiace solo che andranno tutti all’Inferno per le loro mancanze e per essere senza Dio». «Quindi, secondo vossignoria dovrebbero...»
«Essere riconvertiti tutti. Inoltre non mi piacciono, sono troppo avari, pensano solo al denaro e ai gioielli e i loro traffici. Non si riesce a farli parlare d’altro, anzi, con loro non si può proprio parlare». Lucenzio alzò le sopracciglia e guardò in basso a destra con la faccia che diceva chiaramente: oddio, ma cosa sto sentendo? Lo sapevano di trovarsi nel 1461 e che ormai era l’umanesimo? Era l’epoca in cui l’uomo tornava a essere al centro dell’universo. E, gli Ebrei non erano forse uomini come loro? Dov’era la differenza? Tentò di instaurare una difesa in onore di quel popolo cui dovevano molto: «Ma tra loro esistono anche valenti medici ed erboristi e studiosi».
«Se la intendono con il Demonio e non se ne accorgono. E’ per questo che siamo qui, per riportarli sulla retta via».
«E, la scienza?» Chiese con un certo sforzo Lucenzio, sempre più sgomento, anche se lo nascondeva bene. L’uomo per tutta risposta tracannò un altro po’ del suo boccale di birra, prima di biascicare: «Datemi retta, la scienza non è che una delle tante menzogne degli alchimisti.» E, di nuovo fu sbeffeggiato dai colleghi. I quali gli gridarono che era per via della sua paura dei dentisti che odiava la scienza in generale. Il cavaliere biondo berciò una rispostaccia e si pulì assai poco educatamente il viso bagnato di birra col dorso della mano. «Tutto quello che c’è da sapere, lo dice il Santo Padre, lui non sbaglia mai».
«Agostino, per favore, vattene via.» ordinò improvvisamente il maestro, gli occhi dardeggianti d’ira trattenuta. Il ragazzo parve risvegliarsi dalle sue fantasie e disse, guardandolo scontento: «Cosa? Ma perché?»
«Fa come ti ho detto, obbedisci». Ribatté il maestro trapassandolo con gli occhi. Il ragazzo sobbalzò, non l’aveva mai visto così irato come in quel momento. «Non sono discorsi che un ragazzo dovrebbe sentire».
Stranamente la loro conversazione fu intercettata dalle orecchie fini di Amalia, che, con gentilezza domandò: «E, perché non dovrebbe restare ad ascoltare? È giusto che conosca quello che succede al di fuori di queste quattro mura. Un giorno se ne dovrà andare da qui, e trovare la sua strada, no?» Il maestro le scoccò un’occhiataccia e cominciò a parlare con lei, spiegandole la ragione del suo ordine. E, forse ci sarebbe riuscito meglio se non fossero stati interrotti da un altro cavaliere, il quale assestò una poderosa pacca sulla spalla dell’uomo con la rosacea e lo canzonò: «Non dar retta a questo contafrottole! Lui non ha mai scovato neanche una volpe nella sua tana».
L’altro volse il capo verso di lui per scoccargli un’occhiataccia ma il siciliano continuò, già alticcio: «Non riuscirebbe a trovare una strega neanche se gliela mettessero sotto al naso. Una volta stavamo dando la caccia a dei valdesi o dolciniani, non ricordo, insomma, gliene sfilano due davanti e lui non solo non se ne accorge, ma addirittura li aiuta a passare i confini del paese! Fortuna che li abbiamo recuperati in tempo. Quando il nostro amico qui l’ha saputo, è stato messo alla gogna. Che ridere. Oh, che ridere.» E, si sganasciò dalle risate, seguito dal resto del gruppo il quale prese a elencare i suoi disastri. Eppure ciò non tolse fascino alla figura di cavalieri protettori che incarnavano tutti loro. E quando ripartirono due giorni dopo, Agostino aveva ancora quella luce d’adorazione negli occhi che nessuno riuscì a togliergli per molto tempo.

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Capitolo 14
*** Capitolo 13: A caccia di cigni selvatici ***


Capitolo 13: A caccia di cigni selvatici


C
on la con la bella stagione tornarono a galla vecchie abitudini e nuovi problemi. Con l’equinozio l’angelo del lago ricominciò a farsi sentire la notte. E, Agostino si sentì invaso da una nuova speranza. Ma il giardino, per esempio, pareva aver riacquistato nuova forza e ora opponeva resistenza con ancor più tenacia di prima. Ma poco dopo l’equinozio di primavera, era ormai pronto. O meglio, lo sarebbe stato, se non fosse stata proprio per quella parte che nessuno riusciva a curare. Erano passate tre settimane ancora e i risultati non erano cambiati. E indovinate un po’qual era quella parte che proprio non voleva farsi cambiare? Esatto: quella dove si era suicidata la castellana. E nessuno voleva occuparsene a causa dell’ignoranza e della superstizione. Tutti asserivano che il fantasma della giovane si aggirasse ancora per quelle sponde e, stando ai testimoni oculari, finisse sempre per buttarsi in acqua, in lacrime.
Come ad avvalorare questa tesi, il terreno stesso non voleva farsi lavorare. Strano a dirsi, ma era proprio così. Agostino non ci voleva credere e aveva già licenziato tre braccianti, l’ultimo dei quali urlava a squarciagola di chiamare il parroco per effettuare un esorcismo. E, poi aveva urlato anche qualcosa a proposito di voci femminili che cantavano e che sua moglie aveva veduto una specie di serpente tuffarsi nelle acque del lago. «E’ il mostro! Vi dico che è il mostro!» La povera donna era mancata poco prima che cadesse in pasto al mostro. Il giovane giardiniere aveva dovuto chiamare le guardie affinché li scortassero via. E con queste parole, Agostino si era giocato tutti gli aiuti possibili. Persino Lucenzio smise di aiutarlo. Ma non perché credesse anche lui a quelle fole. Bensì perché gli aveva mentito. E adesso giocava a ignorarlo. Da allora aveva cercato di occuparsene lui stesso di persona. Ma era una porzione così ampia che persino lui si ritrovò in difficoltà. Anche cercare di dividere il terreno in appezzamenti più piccoli e occuparsene in altri momenti ancora era una follia.
Si stava arrendendo quando gli venne in mente di pregare. Ma chi? Andava a messa tutte le domeniche, si confessava e pregava regolarmente. Ma non succedeva niente. Però c’era ancora una cosa, un’entità che non aveva ancora pregato: il lago. Quel giorno prese coraggio e si mise a passeggiare da solo per le sue sponde. Quando fu sufficientemente lontano da orecchie indiscrete si fermò. Si guardò attorno mordendosi le labbra, poi, non vedendo nessuno, guardò le acque che lambivano le rive ai suoi piedi e cominciò, le mani dietro la schiena : «Forse sto impazzendo, se mi riferisco proprio a te. Se prego te. Io non so più cosa pensare, non so cosa fare, né a chi rivolgermi. Sono proprio arrivato alla frutta, non è così? Sì. Dev’essere così. Il fatto è questo: io sto cercando di riportare un giardino al suo antico splendore, anzi, di trasformarlo nel giardino più bello di tutti. Il più bello che sia mai stato realizzato. E non ci riesco. Per colpa tua. Per questo giardino così ingovernabile, per questa storia, perché mi impedisci di sentirmi vicino ai miei genitori? Perché è di questo che si tratta! I miei genitori amavano le piante al punto che se ne sono occupati per tutta la vita e hanno trasmesso anche a me la loro passione. Hanno insegnato anche a me a prendermene cura.» più parlava più si sentiva il viso caldo e gli occhi annebbiati di lacrime. Si sentiva a un soffio dal completare il suo sogno, e non ci riusciva. Dopo tutti gli sforzi fatti, i sacrifici, non ci riusciva. Era frustrante. Era come vedersi assegnare un premio e poi scoprire che in realtà apparteneva a qualcun altro. «Ad amarle. Potrei fare un mucchio di altre cose ma non lo faccio, perché quando mi occupo del giardino, metto in pratica la loro arte, li sento di nuovo con me. Il giardinaggio è tutto ciò che mi resta di loro e tu me li stai portando via. Me li stai portando via!» Urlò e cadde in ginocchio. Pianse apertamente, prendendosi la testa tra le mani: «Che razza di mostro fa una cosa del genere? Ascoltami…» Cercò di ritrovare un po’di calma. Respirò finché non si calmò un po’ e tirò su col naso, prima di guardare quelle acque calme con occhi seri: «Ascoltami, lo so. So cosa ti è successo e mi dispiace. Mi dispiace tantissimo, ma non posso farci niente; d’accordo? Senti, è successo trentacinque anni fa! Io non c’entro niente con la tua storia. Voglio solo occuparmi del giardino. Hai il cuore spezzato e sei umiliata ma non per questo devi trascinare tutti noi nel tuo dolore. Ognuno ha il proprio fardello da portare e credimi, il mio è già abbastanza pesante di suo. Non so se sono capace di sopportare anche il tuo. Conosco la tua storia ma non so cosa hai provato e passato e non lo posso immaginare perché non ho gli strumenti per farlo. Io non ti conosco. Io non so niente di te e mi ritrovo a confidarti il mio più grande, segreto dolore. Ma tu sicuramente non mi starai neanche ascoltando, dall’alto della tua superiorità e della tua vendetta. Perché è di questo che si tratta; vendetta, vero? Altrimenti perché lo faresti? Perché ti accanisci così tanto su di me e su questo giardino dopo tutto questo tempo? Non puoi affogarci tutti a questo modo. Guardaci. Guarda il mondo che ci circonda! C’è così tanta bellezza nella Creazione che non puoi sopraffarla con la Distruzione! Ma a te cosa te ne importa? Ormai sicuramente con gli angeli vendicatori!» Urlò e la valle gli restituì la sua eco. Sospirò e volse le spalle al lago. Poi, sconsolato, tornò sui suoi passi. «Ma tu guarda quanto sono stupido, parlo coi laghi. E poi cosa faremo, Agostino? Parleremo alle anatre? Ai quadri?» Borbottò mentre tornava a casa. Eppure, lentamente, si fece strada dentro di sé la sensazione di essere stato ascoltato. Ma ascoltare non significa fare. Perché nonostante il suo sfogo la situazione non migliorò. Non migliorò affatto.
E, proprio dopo la fine di aprile, mentre il giovane stava lottando contro i rami del roseto che aveva piantato, armato di un robusto paio di cesoie, giunse al castello la risposta alle sue preghiere.

Quell’anno i Da Campo giunsero con qualche settimana d’anticipo: «Per recuperare i mesi che si erano perduti l’anno prima.» Fu la giustificazione. Ma in realtà qualcuno era riuscito comunque ad avvisarli che Amalia stava sperperando le loro ricchezze. Quando la donna seppe del loro arrivo si preparò al meglio e si presentò al loro cospetto rivestita di un’umiltà che non le si addiceva. I Da Campo la rimproverarono aspramente. Molti servi gongolarono a quella scena.

Erano passate tre settimane e tra tre giorni sarebbe giunto il Solstizio d’Estate e i Fuochi di San Giovanni. Le persone stavano già cominciando ad ammassare le varie cataste per il solito rito. Rito che Stella, Agostino e tutti i giovani non vedevano l’ora di ripetere. Stavolta però si sarebbe aggiunto anche mastro Lucenzio. L’aveva annunciato ai due mentre stavano discutendo sulla disposizione dei gigli bianchi nel giardino. I due l’avevano guardato con tanto d’occhi: non lo facevano così audace. E quella sparata fu sicuramente un bell’intermezzo in un’altra dura giornata lavorativa.
Ovviamente la marchesina aveva provato, anche se con meno lena dell’anno prima, a disturbarli con le sue lezioni di canto. Ed era pure migliorata, ma i lavoratori avevano trovato un modo per disturbare lei: cantavano a loro volta. A guidare il coro era mastro Lucenzio, che, tra tutti, pareva conoscere parecchie canzoni e che a volte ne componeva alcune sul momento grazie a un gioco che facevano. Il gioco era nato per caso: una persona diceva una parola tipo annaffiatoio, elefante o pallone e queste parole andavano inserite nella canzone. Mastro Lucenzio poi non era un cantante, ma era intonato perciò non era poi così sgradevole sentirlo cantare o unirsi a lui. Il risultato, per esempio poteva essere:
«La bella lavanderina
Che lava i fazzoletti
Ha esagerato coi funghetti
E ha visto un elefante inciampare nel mio annaffiatoio
Mentre giocava a pallone con un formicaio...»
Saltavano fuori certi obbrobri goliardici che riempivano e allietavano le loro giornate e facevano dimenticare la fastidiosa marchesina e la sua dama da compagnia. Secondo Agostino il Decameron di Boccaccio - che ovviamente Lucenzio gli stava facendo leggere - era nato così perché altrimenti non se lo spiegava.
C’erano stati dei giorni in cui la rampolla dei Da Campo era più battagliera del solito, ma anche i lavoranti. Ormai Agostino si era bell’e dimenticato di lei, al punto che adesso trovava la sua presenza quasi fastidiosa. Anzi, forse non l’aveva mai neppure amata perché, a ben pensarci, non aveva sofferto per la sua partenza. Oppure per la notizia che si sarebbe sposata di lì a poco, visto che la sua educazione era quasi giunta al termine. E se mai aveva provato anche una punta di dolore per quel suo infelice amore, non se la ricordava minimamente. Di solito si soffermava a pensarci quando la marchesina cantava, ma, di solito, veniva sottratto a quei pensieri dalla voce di Stella, che si metteva a cantare a sua volta. Aveva già assaporato la sua bella voce e la sua bravura, ma sentirla mentre interrompeva la marchesina non aveva prezzo. Il bello era che non cantava canzoni scollacciate o di giovani che vendevano la propria verginità per due ghinee e l’illusione di un amore. No, lei cantava le sue composizioni. E anche se non erano all’altezza dell’angelo del lago erano comunque molto belle e orecchiabili.
Stavi ancora pensandoci quando passò davanti a una stanza e, con la coda dell'occhio vide ciò che non avrebbe mai voluto vedere. Si fermò e guardò meglio. E, scoprì di non essersi sbagliato: suo zio stava pomiciando con Amalia. L'uomo si accorse del nipote sulla soglia e si staccò dalle labbra della donna: << Agostino! >> Lei guardò il giardiniere e si schiacciò ancor più contro tuo zio anche se questo cercò di togliersela di torno. Il ragazzo dagli occhi verdi contrasse il volto in una smorfia di disgusto e se ne andò ignorando i richiami dello zio: «Ehi, dove vai?» «A prendere una boccata d’aria fresca. L’aria è davvero pesante in quest’ala del castello.» Spiegò lui senza voltarsi, facendogli il verso. Non poteva crederci. Non tanto per quello, quanto per il fatto che quella creatura disgustosa adesso stesse traviando suo zio. Visto che non era riuscita a traviare lui per spiare Lucenzio e Stella, adesso si vendicava così. Ma doveva essere per forza così, perché sembrava fatto apposta.
Afferrò il proprio mantello e uscì dal castello e si avviò al suo posto preferito. Quello dei massi dove d’estate a volte giocava con le barchette. Aveva compiuto quindici anni da poco, è vero, ma ancora non si sentiva di voler smettere. Si sedette sulla sponda e sbuffò. Proprio allora, mentre osservava il riflesso della luna sull’acqua, che in quella stagione era visibile anche di giorno, sentì cantare una canzone. Ormai aveva imparato a riconoscere la voce dell’angelo del lago. Ma era la prima volta che era così vicino da poterla udire chiaramente. No, a ben udire, non era proprio la stessa, anche se era molto armoniosa. Ed era vicina a lui. Incuriosito si alzò e ne cercò la fonte. E vide Stella, sul masso più alto, che cantava una canzone che aveva sentito in paese per la fiera della primavera. I capelli biondi smossi dalla brezza, la feroniere con le perline d’ambra e il vestito verde scuro. Poi lei chiuse la bocca e lui, capendo che la canzone era finita, domandò: «Si batte la fiacca?» Lei strillò per la paura e si volse di scattò verso di lui, gli occhi che ormai aveva imparato a conoscere, sgranati. «Agostino! Perché ci provi così tanto gusto nel farmi prendere un colpo?» Esclamò irata.
«Mi dispiace, madamigella,» scherzò lui, ridendo, mentre le faceva un inchino: «non era mia intenzione».
Lei roteò gli occhi, piccata: «Non sono una damigella, mastro, non è il caso di essere tanto formali». Solo allora rammentò che la ragazza si teneva il più possibile distante dall’acqua. Che cosa ci faceva lì?
«Perché cantavi?» Domandò invece. Lei fece spallucce: «E’la mia passione. Amo cantare». Non l’aveva mai sentita prima di ora: «Pensavo che sapessi soltanto comporre» durante quelle sere di trascrizione l’aveva anche vista comporre poesie. Poesie che però lei non le aveva fatto leggere. «Mi dispiace deluderti, so anche cantare.» Sorrise lei. «E tu come mai sei qui?» Gli domandò, un po’diffidente. Che fosse mestruata? S’interrogò sospettoso il giovane. Anche se non sembrava i giardinieri erano molto superstiziosi. Lui personalmente non lo era, ma se gli altri lavoravano evitandola, doveva essere successo qualcosa. Ma poi gli tornò alla mente che lei era fatta così. Poi gli balenò in mente un’idea: «Ascolta, ti va di continuare ad aiutarmi col giardino?»
«Mi sembrava che lo stessi già facendo da un po’.» Sorrise la ragazzina, mentre con agilità lo raggiungeva sulla terraferma, sollevando appena il vestito per non essere impacciata nei movimenti. Solo che nel farlo scoprì le gambe fino ai polpacci. Lo sguardo di lui si fissò su di esse: era la prima volta che le vedeva. E, le trovò molto belle. Poi, si rinvenne, scosse il capo e riprese il filo del discorso: «Ascolta, pensi che se glielo chiedessi tu Santiago accetterebbe di occuparsi del giardino assieme a noi?» Dopotutto, per realizzare il suo giardino aveva ancora bisogno di tutto l’aiuto possibile, adesso che Lucenzio era impegnato con la strega tutti i pomeriggi.
«Certo che sì.» Garantì la servetta. Poi, senza quasi che se ne accorgessero, cominciarono ad avviarsi verso il castello. E mentre camminavano il suo amico le rivelò i suoi dubbi e le sue perplessità: «Scusa se te lo chiedo così, adesso, ma dove sono i tuoi genitori?» Lei si rabbuiò un po’, però glielo disse: «Non lo so. Tutto ciò che ricordo non va prima dei nove anni di età e già allora loro non figuravano nei miei ricordi. Come se non ci fossero mai stati. Quando giunsi qui ed Etienne mi prese a lavorare come sguattera, comandò a Santiago e Charo di aiutarlo a prendersi cura di me. Per quel che ne so sono loro due la mia mamma e il mio papà. Ma a volte mi domando anch’io chi sono davvero e spesso non riesco a trovarne la risposta. Un giorno spero di andarmene da qui e riprendere il mio viaggio. Vorrei trovarli, sapere di loro, e probabilmente dovrò frugare tutta l’Europa per riuscirci. Ma ce la farò».
«Santiago e Charo lo sanno?»
«Sì. Loro preferirebbero vedermi sistemata con qualcuno, mettere su famiglia e farmi una vita. Non che col tempo qualche pretendente non abbiano cominciato a scegliermelo. Pensa che Charo mi sta cucendo il corredo: sperano ancora che un giorno mi sposi. Ma Toblino e dintorni non hanno niente da offrirmi e io finirei solo per sentirmi in trappola. Ma anche se finissi per essere promessa a un porcaro o a un fabbro o che so, a un tintore di guado, non sono così disperata comunque da svendermi al primo che passa».
«Perché no?» Chiese il ragazzo, incuriosito e desideroso di poterla aiutare in qualche modo. Avvertiva l’ingiustizia che gravava su di lei, ma non riusciva a comprendere perché non scappasse via, se la sua vita le stava stretta.
«Una vita normale non è quello che mi è stato concesso. La mia vita è strana.» Fece quasi parlando a sé stessa, guardando di fronte a sè. «Strana?» Domandò il giovane senza capire.
«Guardami. Lavoro da quando ero piccolissima, amo la natura, ti sto aiutando con il giardino, voglio viaggiare, ho amicizie importanti, sto raggiungendo livelli che non mi sarei mai sognata, e il tutto continuando a tenermi stretta la mia verginità. Ma qualunque cosa io faccia resto sempre una serva. Anche se mi spostassi da qui, per ora, e forse anche altrove, finirei solo per diventare serva in casa d’altri. Un po’come Amalia, del resto. Neanche lei può aspirare ad essere di più, anche se continua a sbatterci la testa».
«Non sei strana, io trovo solo che tu sia una grande lavoratrice. Vedrai che andrà bene, qualsiasi cosa tu decida di fare».
Lei gli indirizzò un sorriso pieno di speranza: «Lo spero davvero. Ci sono delle volte in cui il mondo mi fa paura. Molta paura. A volte ho incubi tremendi di guerre e sangue e fuoco. E spero tanto che non siano sogni premonitori, perché nessuno mi difende in questi sogni.» Gli confidò. Il giovane si accigliò, confuso. Ma che stava dicendo? «Ma tu sei già al sicuro, ci sono già tante persone che ti difendono.» La ragazza rispose con un sorrisino mesto, però annuì.
«Per modo di dire. Non credere che non mi sia accorta di come mi guardano le persone quando cammino per strada. Vedrai, presto arriveranno al castello i miei pretendenti. Sai che bellezza.» Sbuffò. Non aveva proprio voglia di pensare già adesso al matrimonio e affini. «A volte mi piacerebbe vivere la mia gioventù, la mia ingenuità, la mia fantasia, vedere il mondo come lo vedi tu, pieno di damigelle in pericolo, principesse canterine e cavalieri senza macchia e senza paura in armature scintillanti. Ma non posso. Io sono diversa.» Mormorò ma in queste parole c’era un peso. Un peso segreto che lui non riuscì a carpire. Perciò si aggrappò al discorso di prima e la canzonò dicendole: «Vorresti farti monaca?»
«Neanche per sogno! Lui non mi ha chiamata al suo servizio e, anche se lo facesse non risponderei mai. Tra tutte le miriadi di persone che ci sono non può e non deve scegliere una come me. Se è Onnipotente come dicono allora Sa anche che mi sentirei in trappola, se dovessi rinchiudermi in un convento e Servirlo a questo modo fino alla fine dei miei giorni. Scusami, ho parlato troppo.» Disse poi, timorosa della sua reazione, come se avesse temuto di urtare la sua sensibilità. E probabilmente doveva esserle già successo prima per avere un simile regresso.
«Non preoccuparti, non sono un uomo di Chiesa.» E per la prima volta da che si conoscevano Agostino la guardò davvero. E si accorse che gli occhi non erano viola, bensì azzurri con venature verdi che, per uno scherzo della luce, assumevano una colorazione violacea. Aveva già visto occhi simili da qualche parte, solo che non sapeva dove. Però li trovò molto belli e affascinanti. Per la prima volta si accorse che era cresciuta. Il viso stava diventando un ovale perfetto, e le sue ciglia si erano infoltite e allungate. Le sue labbra si erano fatte più piene e le sue fattezze stavano diventando sempre più femminili. Cosa strana per una serva, ma le sue sopracciglia erano sempre perfette e ordinate e i capelli sempre puliti, così come il resto della sua persona, cosa abbastanza strana per una ragazza del suo rango. Nemmeno lui era così pulito, anche se qualche volta si lavava. Inoltre aveva la pelle perfetta e curata a differenza della propria, punteggiata qui e là di qualche brufolo. Madre Natura l’aveva favorita così. Però tutto ciò, invece che abbellirla, la rendeva intrigante. Inoltre adesso gli arrivava all’altezza della spalla. Mentre prima le arrivava giusto a metà braccio. Non ci aveva fatto molto caso prima d’ora perché era abituato ad averla sempre sotto gli occhi. Fu la domanda che gli rivolse a risvegliarlo dal suo incanto: «Tu invece? Cosa vuoi fare, poi?»
«Eh? Oh...A dir la verità non ci ho ancora pensato. Per ora spero solo che le cose si sistemino.» Disse. Non gli andava di rivelarle ciò che aveva appena scoperto. Ma lei parve arrivarci perché domandò, cambiando totalmente espressione: «Amalia?»
«Già».
La ragazza sbuffò, annoiata: «Che ha combinato stavolta?»
«Niente d’importante.» Mentì il ragazzo. Non voleva che sapesse che suo zio era appena passato al nemico. Però si limitò a raccomandarle di fare ancora più attenzione quando scriveva le sue lettere. E di non farle vedere a nessuno. Nemmeno ad Etienne. Non poteva credere che suo zio, che stimava così tanto, fosse divenuto l’amante di quella strega.

La cortigiana di palazzo aveva indetto una festa per la Notte di Mezza Estate. Un tempo il castello era stato famoso per le grandi feste che vi si tenevano. E lei volle riportare in auge questa tradizione. Forse anche per tentare di tornare nelle grazie dei padroni. I quali mostrarono di apprezzare quest’iniziativa.
Quel giorno i due amici lavorarono alacremente nelle cucine per preparare quei manicaretti che alla signora dalla pelle d’avorio piacevano così tanto. «Solo cucina veneziana.» Aveva espressamente detto. Inoltre prepararono persino i cibi preferiti dei padroni e ai servi fu ordinato di servirli per primi. E non mancava giorno che Agostino e Stella non le facessero il verso. Poi uno dei due fingeva di esaminare con occhio critico e una lente d’ingrandimento immaginaria, la mercanzia che la donna si faceva recapitare al castello.
Poi, nel bel mezzo della festa, Agostino si accorse che i figli dei signorotti locali e il giovane Fabriano, stavano svignandosela. Li aveva visti confabulare tra loro per un po’ e per un po’avevano partecipato alle danze. Addirittura Fabriano aveva scambiato qualche parola con l’amica di penna e l’aveva fatta ridere mentre li serviva. Lì per lì il nostro amico aveva assottigliato gli occhi: anche se il marchesino era cresciuto e aveva accorciato i capelli di modo che ora gli coprissero solo le orecchie, continuava a non stargli affatto simpatico. Forse per il modo in cui gli parve che i suoi occhi indugiarono sulle nuove curve della ragazza. Per un momento gli sovvenne pure che il giovane sangue blu avrebbe anche potuto stringerla a sé brevemente, se fossero stati in un’osteria. E di questo il giovane patrizio era ancora consapevole. Perciò si limitò a salutarla e farla tornare al proprio lavoro. E lui riprese a gozzovigliare. Poi il giovane Fabriano, che quell’anno si era portato degli amici, parlò con loro e, di comune accordo, sgattaiolarono verso la porta della sala. Incuriosito e preoccupato per gli allegri ubriaconi, li seguì senza farsi vedere e udì i loro discorsi e le loro risate: «Visto? Che vi avevo detto? È stato un gioco da ragazzi!»
Strano. Per essere ubriachi parlavano ancora piuttosto fluidamente e senza singhiozzi o biascichii tipici della sbronza. Qualche volta si era ubriacato anche lui, perciò lo sapeva, ma non gli era piaciuto un granché, soprattutto il dopo sbornia.
Invece questi, a sorpresa, erano ancora tutti e tre molto più sobri di quanto si aspettasse.
«Non pensavo che lo fosse davvero!» Commentò ridacchiando uno dei ragazzi, quello che si chiamava Baldassarre e aveva i capelli neri e gli occhi verdi e il viso da faina su un corpo alto e secco. Se il Diavolo avesse avuto un volto - aveva sempre pensato Agostino - avrebbe avuto il suo. Oppure quello di Amalia, anche se lei era guarita dall’erpes già da qualche mese.
«Zitto o ci farete scoprire!» Lo ammonì ridanciano Tebaldo, un altro amico del giovane, rosso e riccio con gli occhi verdi chiari. Più basso e robusto. Fabriano li riprese allegramente tutti e due: «Ma andate a quel paese, se vi sembra difficile questo figuriamoci a Venezia!»
«Ehi! Mastro Fabriano, voi esagerate sempre. È come se vi piacesse farci cagare in mano per provare la vostra superiorità.» Esclamò Tebaldo come a dire esagerato. E Fabriano si fermò per dirgli qualcosa ma prima che i due cominciassero a litigare Baldassarre si mise in mezzo e disse: «Non cominciate! Piuttosto, siete sicuro che l’armeria sia libera a quest’ora?» L’armeria? Pensò Agostino accigliandosi. Che ci andavano a fare a quell’ora nell’armeria?
«Certo che lo è! Seguitemi, conosco la strada.» Garantì il padroncino di casa.
«Avete detto la stessa cosa tre minuti fa a me sembra di girare intorno.» Fece in tono vagamente intimorito.
«Avete forse paura, mastro Baldassarre?» Lo sfidò il marchesino.
«Io? Macché. È che questo castello mi sembra strano. Non so, mi sento come se qualcuno mi stesse guardando».
«Sono i quadri. Effettivamente sono molti e molto diversi da quelli che rammentavo, non ricordavo che mio padre avesse permesso che la tenuta venisse ridecorata e ammodernata. A lui è sempre piaciuto lo stile tarmato del secolo scorso. Oh, quello stile, oh quei vecchi tristi drappi, parevano quelli di una parata funebre; so io cosa ci avrei fatto con quei drappi! Una bella vomitata e via, tutto risolto!» Gli altri due ridacchiarono e Agostino dovette mordersi la lingua per evitare di essere scoperto. Poi tornarono seri e Baldassarre disse; «Non è per questo. E’che mi sento…Sento come una strana energia».
«Un fantasma, intendete?»
«No, più come se questo loco fosse pieno di energia. E’inquietante. Mi sembra che da un momento all’altro stia per succedere qualcosa, come nelle leggende che aleggiano su questo luogo, le conoscete?»
Uno dei ragazzi sospirò e poi un altro disse: «Dovreste farvi vedere da un medico, e da uno bravo, invece di ammorbarci con le vostre insensate paure. L’anno prima ve ne eravate uscito che i corridoi e le stanze sono troppo ampi. Tutto perché abitate nel bel mezzo della vostra città». E quest’informazione gettò Agostino nella confusione: di quale città parlavano? Trento non era poi così grande. E non ricordava di averli mai visti in quella città quando ci si recava per il mercato o le fiere. Forse non erano davvero signorotti locali come aveva pensato.
«Anche voi abitate in città.» Li rimbeccò Baldassarre «E mi fa meno paura venire a casa vostra in visita che avere a che fare col castello del lago maledetto».
«Sì, sì, sì, come vi pare; le conosco anch’io queste storielle» rispose con il tono nauseato di chi ne ha le tasche piene di sentirsi ripetere le stesse litanie «ma non ci do peso. Sono solo dicerie di contadini superstiziosi e ignoranti».
«Vi dico che sto benissimo. Aspettate!» Esclamò poi e si fermarono. Agostino li imitò immobilizzandosi ad occhi sgranati. «Cosa c’è?»
«Ho sentito dei passi!» Poi si voltò e Agostino, che già era all’erta e coi nervi a fior di pelle, si tuffò in un cono d’ombra e cercò di farsi il più piccolo possibile per scomparirvi dentro. Strizzò gli occhi più che poté pregando di non essere visto e cercando di chetare il proprio povero cuore spaventato. Pulsava così forte che gli pareva quasi di avere una gran cassa battente in petto. «Siete sempre il solito fifone, mastro Baldassarre, non vedete che non c’è nessuno?» Lo canzonò l’amico di Stella mentre il terzo rideva sotto ai baffi. Agostino si tranquillizzò un poco e ringraziò il Cielo: «Eppure avrei giurato…»
«Smettetela, messere, siete solo influenzato dalle dicerie di questo posto.» Fece Tebaldo, di gran lunga più gentile di Fabriano, che lo prese in giro senza pietà: «Se non vi avessi visto all’opera con le baldracche giurerei che siete una femminuccia fifona».
«Femminuccia a chi?»
«Non a me stesso di sicuro, io non strillo nel cuore della notte per uno spiffero sul collo o perché un’ombra mi è passata accanto o le nubi hanno oscurato la luna.» Ribatté il giovane capogruppo, spavaldo.
«Come vi permettete, marrano! Io vi prendo a pugni e vi farò bere brodini a vita!»
«Adesso?» Sorrise l’altro come a dire fatti sotto e si mise in posizione a sua volta.
«Ehm, ragazzi?» S’intromise Tebaldo. I due lo guardarono e dissero in coro, ancora sul piede di guerra: «Che c’è?»
«I cigni selvatici...» Balbettò il poveretto, capendo di trovarsi in mezzo a due fuochi. Senza sapere di non essere l’unico ad esserci finito in mezzo. Solo che messer Tebaldo rischiava assai di meno di quello che rischiava lui, povero nipote di maggiordomo.
«Giusto. È vero.» Disse Baldassarre raddrizzandosi.
«Giusto, dobbiamo sbrigarci. I cigni selvatici non si cacciano da soli e non vorrei che qualche paesanotto fosse arrivato prima di noi. Qui vanno pazzi per la carne di cigno.» In realtà, come tutte le persone di classe inferiore, andavano matti per la carne in generale e l’episodio a cui si stava riferendo risaliva a otto anni prima. Il ragazzo coi capelli bianchi lo sapeva perché glielo narrarono quell’inverno. In sostanza quell’anno la carestia a causa della guerra fu così tremenda che le persone fecero fuori quasi tutti i cigni del lago.
Ripresero il cammino per l’armeria.
Agostino aspettò che avessero svoltato l’angolo prima di uscire dal suo nascondiglio, tanto sapeva dov’erano grazie alle ombre proiettate sui muri dalle candele e le lucerne. Perciò non gli fu difficile seguirli. Non era mai stato in quella parte del castello. Eppure l’aveva girato tutto, così concluse che doveva essergli sfuggito.
Quando giunsero di fronte alla porticina si nascose dietro mobile, cercando di farsi piccolo piccolo. Fu agevolato dalle tenebre perché il gruppetto non si accorse di lui e, ridendo e cercando di zittirsi a vicenda, Fabriano tirò fuori il mazzo di chiavi e cominciò ad armeggiare con la serratura. «Dove le avete prese?»
«Le ho rubate al maggiordomo quest’oggi. Quel vecchio caprone non ha ancora imparato che non si devono nascondere le chiavi nei cassetti.» Provò un’altra chiave e questa girò. «Ecco ci siamo!» E la porta si aprì.
No, pensò Agostino, vagamente offeso: quel vecchio caprone ve le mette a vostra disposizione tutte le volte che venite in vacanza, altrimenti le più importanti le affida alla zia o al suo primogenito. Altrimenti se Amalia le avesse avute a propria disposizione, avrebbero già ricevuto tutti una pistolettata. Poi gli tornò in mente il tradimento dello zio ed ebbe un moto di disgusto tale che gli fece increspare il viso in una smorfia.
Uscì armato di archibugi e spingarde. Il giardiniere si sporse e si domandò che diavolo volessero fare quegli sciocchi. E li seguì, tenendosi sempre a debita distanza. Volevano davvero dare la caccia ai cigni selvatici a quell’ora della notte? Ma erano impazziti o era diventato sport nazionale cacciare a quell’ora? Oppure era per via dei fuochi d’artificio che avrebbero coperto il rumore degli archibugi? Probabilmente era proprio quest’ultima. Fatto sta che tutto ciò gli sembrò terribilmente famigliare, esattamente come il suo sogno. Poi si ricordò anche dell’angelo del lago e sperò che non decidesse di farsi vedere in quel momento, altrimenti sarebbe morto. E lui non voleva.
I ragazzi scomparvero e fu allora che dalle acque emerse qualcosa. Agostino restò col fiato sospeso finché i giovani non cominciarono a sparare, coperti dai botti dei fuochi d’artificio. Ma rompendo irrimediabilmente la magia di quel luogo. Non aveva mai pensato che esistesse un modo così barbaro di uccidere quelle magnifiche creature. Ma aspettò ancora, finché non fu sicuro che avessero finito. Poi il gruppetto ridanciano se ne tornò al castello portandosi dietro le prede. Fu allora che il ragazzo si accorse che un’altra creatura era uscita dall’acqua. Che uno dei cigni fosse riuscito a salvarsi? In ogni caso doveva essere ferito lo stesso. Impietosito estrasse il coltello dal fodero. Si sporse oltre i canneti per vedere meglio ma invece di un cigno vide qualcos’altro. Somigliava a un grosso serpente nero per come guizzava a pelo dell’acqua. Ma c’era qualcos’altro. Che avesse delle pinne? Poteva anche darsi che fosse solo un grosso pesce.
Poi la creatura uscì dall’acqua e Agostino si sentì arrossire quando qualcosa nei suoi pantaloni si mosse. Era una ragazza. Ma era strana e alla luce della Luna non riuscì a distinguerla molto bene. E poi quando la giovane si arrampicò strisciando sulla roccia, Agostino si sentì gelare il sangue nelle vene. Al posto delle gambe aveva una lunga coda di pesce nera e frastagliata. La osservò spiazzato e il coltello cadde a terra, sull’erba. Tra tutte le cose che si era aspettato di vedere, mai si sarebbe aspettato una sirena. Era quello l’angelo del lago? No. Non poteva essere! Gli angeli hanno le piume, non le squame! Non era così che se l’era immaginato. Non così straordinariamente simile alla strega che liberò da piccolo. Anche stavolta fu invaso dal terrore. Fece per fuggire quando la sentì cantare.
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Dimmelo che non le trovo, che sono in ritardo.

Il giovane si bloccò immediatamente, riconoscendo all’istante quella voce: era quella dell’angelo del lago. Quella che aveva udito per tutto il tempo e anche prima di allora. E non appena cantò, tutto parve animarsi con un fruscio, come se rispondesse al suo canto.
Guarda dove l’ultima volta, la cara Maab non può avertele sottratte.
Arrivano i gitani, li senti? Accordan gli strumenti.
è tempo di far festa.
Danzeremo alla luce dei falò con aitanti giovanotti
Sulle note dei violini e al ritmo dei tamburi.

Il vento carezzò l’erba, i fiori e le fronde degli alberi, come pure i canneti e le piante lacustri. E dall’erba smossa si levarono i brillii delle lucciole, che salirono dolcemente in volo; illuminando la notte come tante stelline fosforescenti. Improvvisamente Agostino non ebbe più paura; ma anzi, restò affascinato da quel prodigio. Ancora di più quando si accorse che i colori attorno a lui si fecero più vividi e scintillanti nonostante l’oscurità.
Su! Corriamo
Su! Corriamo alla festa,
non ti preoccupare, chiunque è il benvenuto.
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Dimmelo che non le trovo, che sono in ritardo.
Arrivano i gitani, li senti?
Accordan i violini e suonano i tamburi.
Lo senti questo profumo? Eccoli, sono qui gli gnomi,
e le loro pietanze appetitose.

Dobbiamo sbrigarci, la Regina delle Fate ci chiama.
Hanno cominciato a suonare.
Non dar retta a quel caprone di tuo padre, stanotte vieni con noi.
Vieni a divertiti.
Vieni che arrivano i gitani.
Vieni che presto arriveranno gli elfi e le fate.
Su! Corriamo
Su! Corriamo alla festa,
non ti preoccupare, chiunque è il benvenuto.
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Dimmelo che sono in ritardo.
La festa sta per cominciare e non posso venire a piedi nudi.
Ecco, sento la musica, sbrigati, non importa.
Presto; presto, saliamo la collina e uniamoci alla festa.
Presto, ancora più presto.
Dai danziamo e cantiamo tutti insieme.
Non ti preoccupare per le scarpe, domani ne avrai di nuove.
Ecco guarda, nessuno ci fa caso.
Non ti preoccupare per la sporcizia andrà via da sè.
Vedi che persino i fiori lascian la tua pelle intatta?
Su! Corriamo
Su! Corriamo alla festa,
non ti preoccupare, chiunque è il benvenuto.
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Dimmelo che non le trovo, che sono in ritardo.
Arrivano i gitani, li senti? Accordan i violini e suonano i tamburi.
Ecco che danzano gli gnomi e si uniscono a loro i leggiadri signori.
Come foglie e sassi danzano nel vento sul tappeto di fiori
Sollevate nell’impeto.
Su! Corriamo
Su! Corriamo alla
festa,
non ti preoccupare, chiunque è il benvenuto.

La voce di lei che riempiva la notte e gli scaldava il cuore. Come se lei fosse vicina a lui e non a decine di metri di distanza.
Arrivano i gitani, li senti?
Accordano i violini e suonano tamburi.
Ecco che alle danze si uniscono le fate, le vesti bagnate di rugiada
Mentre le rose cantano per il loro diletto sotto la luna e la stellata.
Accordan gli strumenti
è tempo di far festa.

Danzeremo alla luce dei falò con aitanti giovanotti
Sulle note dei violini e al ritmo dei tamburi.
E davvero non importa del ritardo o se son scalza.
Di questi tempi, per star con questa gente
non c’è bisogno di scarpe

Come aveva potuto avere paura di una creatura simile, se cantava come un angelo? Anzi no, se lei era il suo angelo? Nella sua mente risuonarono gli antichi ammonimenti del parroco della sua infanzia sulle trame e le maschere del Demonio. Eppure più vedeva quella creatura, più ne ascoltava il canto, più si convinceva che quella non era una serva del Male. Se il Male era Distruzione, perché a lui quella canzone suscitava quelle emozioni così intense e coinvolgenti? Perché gli batteva forte il cuore e si sentiva il viso in fiamme?
Arrivano i gitani, li senti? Accordan gli strumenti.
Arrivano i gitani, è tempo di far festa.
Danzeremo alla luce dei falò con aitanti giovanotti
Sulle note dei violini e al ritmo dei tamburi.
Accordan gli strumenti. è tempo di far festa.
Danzeremo alla luce dei falò con aitanti giovanotti

Sulle note dei violini E al ritmo dei tamburi.
E davvero non importa del ritardo o se son scalza.
Di questi tempi, per star con questa gente
non c’è bisogno di scarpe

Era così incantato a guardarla che quando la sentì zittirsi e la vide scivolare di nuovo in acqua e sparirci, si sentì improvvisamente solo e abbandonato. Come quando ci si risveglia da un sogno bellissimo e si scopre che è solo un sogno.
Il giorno seguente non toccò né cibo né acqua né a colazione né a pranzo. E anche quando aiutò a riordinare e smantellare la festa lavorò senza quasi proferire parola con nessuno. Il suo angelo del lago era una sirena.

La sera seguente tornò al lago e, puntuale come un orologio, la sirena emerse da quelle acque. La sentì sospirare di piacere e felicità mentre si riavviava con le dita i lunghi capelli. Poi la sentì canticchiare allegra tra sè e sè. Grazie alla luce della luna riuscì a vederla un po’meglio e contemplarla. Aveva la pelle candida e setosa e perfetta risplendente di goccioline d’acqua. Indossava un velo legato al collo che le cingeva diagonalmente il busto coprendole le spalle ma lasciandola scoperta sui fianchi. Invece il bacino era avvolto in un pareo da gitana allacciato lateralmente sul fianco destro. Quest’ultimo, da quel poco che riuscì a vedere, aveva l’orlo argentato decorato con dei pendenti a forma di stella a otto punte. Un laccio di cuoio decorato con dei dischi tondi faceva il giro attorno alle anche. I bei polsi erano cinti da tre sottili bracciali, e portava degli orecchini con gli stessi pendenti del pareo. O almeno pensò che fossero orecchie. In effetti gli parve strano che potesse adornarsi le corna con degli orecchini. Portava sui capelli una feroniere sottile ed elegante con lunghi filamenti laterali che le scendevano sulle spalle, finendo per confondersi coi capelli fino a scomparirci. Al collo la collana più complicata che avesse mai visto. Si pettinava con gesti lenti e delicati e Agostino, mezzo incantato, si domandò come avrebbe potuto rivolgerle la parola senza farla scappare via. O senza essere ucciso.
Aveva provato a cercare qualcosa in biblioteca ma non aveva trovato niente. Inoltre non aveva neanche avuto il coraggio di parlarne con qualcuno per farsi dare consigli. Ma consigli di che? Era una sirena, non una ragazza. Al limite gli avrebbero consigliato di farsi vedere da qualcuno. E poi, anche se l’avessero ascoltato, probabilmente avrebbe scatenato il panico più totale e causato una nuova caccia alle streghe. E sinceramente non era quello che voleva. Anche perché poi avrebbe dovuto partecipare ai riti di purificazioni per rimuovere il “malocchio” della creatura. Perciò decise di non parlarne con nessuno.
Sospirò e la sirena si immobilizzò per un secondo. Il giovane strabuzzò gli occhi. Mannaggia: non pensava di essere stato così rumoroso. Si immobilizzò. Lei si volse verso di lui e Agostino si accucciò ancor di più tra i canneti. Ma ugualmente troppo tardi perché lei lo vide: «C’è qualcuno?» Domandò, improvvisamente guardinga e spaventata, con voce vibrante. Agostino trattenne il fiato, il cuore che batteva all’impazzata. Poi cercò di arretrare lentamente ma le erbe lo tradirono con il loro fruscio: «Allora c’è qualcuno!» Esclamò lei, adesso soltanto spaventata e con un guizzo si allontanò da lì. Agostino allora si raddrizzò e tese di scatto una mano dicendo: «No, aspetta, fermati!» Ma lei non l’ascoltò che si tuffò immediatamente in acqua e scomparve nelle profondità dello specchio d’acqua.
Il ragazzo si lasciò sfuggire un verso di frustrazione e affondò un pugno nell’acqua, sollevando uno schizzo che lo centrò in viso. Accidenti, l’aveva fatta scappare. Sconsolato e con le gambe ormai mangiate e desensibilizzate dal freddo, uscì dall’acqua e se ne tornò al castello. Però non si arrese.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14: Madamigella Arya ***


Capitolo 14: Madamigella Arya

 

Erano passate solo poche ore dal secondo incontro con la sirena che già non vedeva l’ora che giungesse la notte. Anche prima aveva sperato che giungesse per poterne udire il canto, ma adesso che aveva visto la proprietaria di quella voce, il solo canto non gli bastava più. Inoltre temeva che adesso lei non si sarebbe più fatta vedere per la troppa paura. In effetti, ammise, anche lui si sarebbe spaventato se fosse stato al suo posto. Forse avrebbe dovuto cercare di raccontarle qualcosa per convincerla delle sue buone intenzioni. Ma cosa? Un fabliaux di bassa lega e di dubbia origine? I fabliaux erano storielle popolari di origine orientale - o almeno così si vociferava - che trattavano di sessualità (soprattutto adulteri), inganni, disavventure di villani con qualche eccezione di aristocratici. La leggenda dell’unicorno? A quella possibilità scosse il capo. Bella questa! Gliel’aveva insegnata il suo maestro come metodo per rimorchiare le ingenue fanciulle. Come se non fosse chiaro il parallelismo tra cavallo con il corno con gli organi genitali maschili e il gioco della seduzione. E certo, funzionava, ma con una creatura che già di per sé era leggendaria, era come parlare di sgombri con un luccio. Ammesso e non concesso che i pesci parlassero.
E così si ritrovò a fare prove di dialoghi di fronte al suo riflesso alla finestra. E che scartava appena arrivava a punti a dir poco inverosimili nella loro assurdità.  
Si ritrovò persino a pensare che forse non gli avrebbe fatto tanto male ripassare qualche poesia che il suo maestro cercava di inculcargli. E meglio ancora, forse avrebbe dovuto presentarsi a lei con un dono. Ma che cosa si dona a una sirena che vive sul fondo di un lago? Gli domandò una vocetta fastidiosa dentro la sua testa. Bella domanda. Di certo non poteva donarle un libro: lo avrebbero frustrato. Degli abiti? Ancora peggio. Non sapeva perché, ma più che piccole cose, sentiva di volerle donare un castello intero. Perché, poi, non se lo seppe affatto spiegare.
Alla fine decise di portarle soltanto un pettine e un po’di cibo. Almeno uno dei due l’avrebbe accettato sicuramente. Al pensiero di poterla rivedere, il giovane sentì il cuore accelerare. Ma si impose di darsi una calmata. Altrimenti con tutta l’agitazione che si portava dietro, avrebbe finito per farla scoprire.

Quando arrivò l’ora X si appostò dove l’aveva vista l’ultima volta. Ma la voce di lei gli giunse dalla riva opposta del lago. Maledizione, aveva sbagliato un’altra volta. Restò seduto sulla riva del lago ad ascoltarla, sconsolato. Alla fine si guardò le mani che tenevano ancora il fagotto di cibo e se lo mangiò lui.

 Quella mattina faceva un caldo talmente spietato che Agostino faticò a concentrarsi sul lavoro. Un po’ per colpa della sua mente: infatti, senza che lui lo volesse, continuava a ripensare alla sirena lacustre. Migliaia di domande e pensieri incoerenti affollavano la sua mente aggrovigliandosi tra loro. «Sei sicuro di star bene?» Continuava a dirgli preoccupata, lei.
«Sto benissimo».
«Sei sicuro? È tutto il tempo che sei distratto e hai la testa altrove».
«Sto benissimo, ho detto».
Era seduto al tavolo in giardino e stava dando gli ultimi ritocchi al progetto in compagnia di Stella e di Lucenzio quando la porta si spalancò e il marchesino fece la sua comparsa.
I tre alzarono gli occhi dai progetti, attirati dal rumore, e lo stesso fecero gli altri lavoratori mentre il marchesino col proprio seguito si guardava attorno. Il giovanotto, capelli scuri legati con un laccetto, indossava una camicia leggera e delle calza braga con una braghetta, una borsa portata sull’inguine a coprire il pube. Agostino non ne comprese il motivo finché non si accorse del maestro di spada. Solo allora strabuzzò gli occhi: «Ha intenzione di allenarsi qui?»
«A quanto pare.» Mormorò Stella stupita quanto lui.
«Tu non lo sapevi?» Gli domandò il giardiniere.
Lei scosse il capo.
«Pensavo che ti dicesse tutto». Lei si limitò a scuotere nuovamente la testa. Ultimamente era diventata piuttosto guardinga e laconica. Ma che le prendeva?
Dalla porta uscirono anche i suoi amichetti che si lamentarono dell’assenza di sedie e si accomodarono in terra. Il giovane nipote di Etienne ci mise un po’per riconoscerli senza gli abiti sfarzosi. Intanto degli schiavi reggevano un parasole per schermarli dal forte sole di giugno e un altro faceva loro vento con un grosso ventaglio. I due parlavano fitto fitto a proposito forse del loco e poi si rivolsero al compare per dirgli: «Oh, poi si fa quel torneo di cui parlavamo».
«Certo; potete anche accomodarvi adesso, se desiderate.» Li sfidò il giovane con un sorriso. Anche se dava le spalle al quindicenne, si sentiva dal tono di voce che sorrideva.
Lei sbuffò: «Ora non mi dice proprio tutto e non è che abbia intenzione di dirmi quello che fa proprio sempre sempre».
«Non dovrebbe stare qui, potrebbe essere pericoloso.» fece il giovane, cambiando discorso mentre i suoi occhi si posavano sul giovane che cominciava alcuni esercizi di riscaldamento. «Dovremmo dirglielo.» Disse poi, nella speranza che i due comprendessero appieno le sue parole ed eseguissero. Ma nessuno dei due si mosse. Così il poverino fu costretto a fare tutto da solo. E ovviamente, non cavò un ragno dal buco. Il giovane marchesino, infatti, si pose la spada in spalla e lo guardò con fare interessato mentre il quindicenne spiegava. A volte annuiva persino alle sue parole. Ma poi, una volta finito di parlare, il giovane arrogante gli rise in faccia e gli fecero eco i suoi compari.
«Se vi diamo così fastidio, mastro, perché non ve ne andate voi?»
«Forse non avete capito, ma qui noi dobbiamo lavorarci».
«Anche noi. Ma disgraziatamente stanno ridipingendo la sala dove di solito il mio maestro e io ci alleniamo, perciò, come vedete...» Lasciò cadere la frase in sospeso. Il giovane dovette fare leva su tutta la propria tranquillità per cercare di non aggredirlo sul posto. Alla fine si costrinse a inchinarsi e a dire: «D’accordo, messere».
Così si allontanò sperando che il giovane nobile non desse troppo fastidio e non si mettesse nei guai. Ci mancava solo che somigliasse anche soltanto un po’alla sorella. Al pensiero di essere messo nei guai a causa di quel diciassettenne borioso - che cominciava ad allenarsi per davvero col proprio maestro, il quale alternava consigli a movimenti ed esercizi - si sentì male. Agostino cercò di concentrarsi sul lavoro e mandò i due collaboratori più fidati a fare delle commissioni. Lui invece restò lì a supervisionare i lavori e ad aggiustare il progetto: c’era un’area del giardino che proprio non voleva farsi lavorare in nessun modo. L’aveva ribattezzata Lo Zoccolo Duro e lui non riusciva a vederci il progetto finito, vedeva solo gli ultimi rovi e le erbacce che gli avevano dichiarato guerra. Il peggio era che nessuno voleva lavorarci. Fu distratto dal clangore delle spade e dal verso del ragazzo che si allenava. Sempre troppo vicino per i suoi gusti. A proposito di lavori rallentati per quanto ne aveva ancora? Erano appena passati cinque minuti e già si pentiva di non essere riuscito a farsi valere sul marchesino. Di questo passo non solo avrebbe rallentato i lavori, ma li avrebbe addirittura danneggiati e fermati. «Occhio alle aiuole!» Esclamò allarmato quando i vandali furono troppo vicini alle medesime. «No! Lì ho appena piantato le begonie, fermi! Uscite subito da lì! Uscite!» A malapena Lucenzio e Stella ce la fecero a trattenerlo quando impugnò il rastrello con tutta l’intenzione di sbatterglielo sulla testa. E poi, dulcis in fundo, il marrano e il suo maestro di spada si spostarono esattamente dove era il tavolo dei progetti.
Il povero giardiniere non ce la faceva più. Dovette persino ordinare ai lavoranti di fermarsi, altrimenti Dio solo sapeva cosa sarebbe successo. E non avrebbero davvero dato fastidio più di tanto, se poi non solo non si fossero allargati fino al tavolo e oltre, ma se avessero usato le spade con meno rabbia. Era la prima volta che delle armi cozzavano a pochi passi da lui e il rumore delle lame taglienti che cozzavano l’una sull’altra era inquietante, peggio di due coltelli sfregati insieme. E non si era mai accorto prima che mandavano scintille ogni volta che si scontravano. Invece di restarne completamente affascinato, una parte di sé ebbe paura. 
Solo a ripensarci rabbrividiva.
Due paia di gambe fasciate da calzabraghe azzurre macchiate di terra comparvero nella sua visuale «Ehi, che combini?» Gli chiese la voce di Andrea. In quell’anno era cambiato, aveva accorciato i capelli, che ora gli coprivano le orecchie e portava la barba più corta. Ma la pancetta da birra si intravedeva lo stesso da sotto la camicia.
Agostino era seduto sul pontile con i fogli del progetto sulle gambe incrociate. Però guardava il lago e, inevitabilmente, gli arrivò alle narici una zaffata dell’aroma dei piedi del conoscente.
«Niente».
«Stai guardando i progetti?»
«Sì».
«Sul pontile? Ma non hai paura di cadere in acqua e mandare a puttane il tuo lavoro?» Rilevò l’altro, stupito. In effetti sarebbe bastata anche solo una folata per far diventare quei fogli cibo per pesci.
Il ragazzo arrossì di brutto. In effetti, ora che se ne rendeva conto, non era il posto più appropriato per stare: «È l’unico posto dove il marchesino non si azzarda a venire per i suoi esercizi di scherma. La volta scorsa mancò poco mi balzasse sul tavolo.» Spiegò colto da un’illuminazione. Poi, a pensarci bene, si accorse che era anche uno dei posti dove neanche Stella si azzardava a frequentare.
L’uomo assunse una faccia scettica e divertita e si accucciò alla sua altezza. Gli avambracci poggiati sulle ginocchia: «Sei davvero sicuro che sia questa la ragione?»
«Ce ne dovrebbero essere altre?»
«Non lo so. Dimmelo tu, perché io personalmente, non mi rintanerei in un posto dove verrei facilmente punto dalle zanzare e rischiare un’insolazione».
«Non c’è niente da dire.» ribatté il ragazzo senza però trovare il coraggio di sostenere il suo sguardo. Il collega tacque per un po’, poi disse: «Allora stasera vieni?»
«Sì, vengo».
Poi gli arrivò un buffetto sulla guancia e il ragazzo lo guardò stranito. L’uomo, invece, sorrideva, per nulla turbato; «Su, andiamo all’ombra, non vorrai prenderti davvero un’insolazione. E non temere, adesso il marchesino se ne è andato.» Disse scherzoso. Però i suoi occhi esprimevano il disgusto per il tono paterno che gli era uscito. Andrea era quel genere di persona che si considerava sullo stesso piano di tutti e si mescolava con tutti. Perciò rimproverarlo affettuosamente a quel modo lo faceva sentire vecchio. Agostino gli fece la linguaccia.

Quella sera stessa andò all’osteria con Lucenzio e Andrea. Se non altro avrebbe fatto qualcosa di diverso invece di gelarsi il sedere sull’erba e a prendere umidità sulle rive di un lago. Meno male che il suo corpo era giovane e forte, altrimenti sarebbe stato bloccato nel castello dai reumatismi.  Però fu quella sera che gli venne un’idea. Un’idea stupida, ma pur sempre un’idea. A suggerirgliela fu proprio Andrea, che trovò per sé e per lui un paio di donnine allegre. Tra cui una nuova leva che aveva pressappoco l’età di Agostino. Costei era alla sua prima esperienza ed era piuttosto intimidita. Indossava un abito giallo con la scollatura troppo ampia per quel suo seno un po’cadente e misero. Era coperta di lentiggini e aveva i capelli ricci e rossicci, il viso ancora infantile e gli occhi di un azzurro spento che non esprimevano altro che tristezza per la sua sorte. Doveva essere stata venduta dai genitori al bordello quasi sicuramente per pagare dei debiti. Fu presentata al loro tavolo da Carmela, la maitresse. Le teneva le mani sulle spalle mentre le diceva di salutare come se la giovane fosse stata sua figlia. La ragazzina obbedì ma la voce non le uscì. Arrossì per la vergogna e chinò immediatamente il capo.
Carmela sorrise e cercò di mettere una pezza: «Non fateci caso, è molto timida. È la sua prima volta».
Andrea rise e si rivolse alla giovane inesperta: «Non è un così grande problema, anzi, Agostino sarà felicissimo di stare in sua compagnia per stanotte. Vieni qui, avanti, non avere paura, non morde. Su, fatti vedere».
La ragazzina guardò la collega più anziana in cerca di sostegno e, al tempo stesso, come a chiederle il permesso, e costei annuì. Allora guardò nuovamente Andrea e avanzò un po’meccanicamente verso di lui e la mano che le aveva teso. Solo dopo incrociò lo sguardo di Agostino, che le sorrise. Lei distolse subito lo sguardo.
Il ragazzo si dispiacque di questo suo terrore, non aveva voglia di fare alcunché, gli sarebbe andato bene anche parlare un po’. Le fece posto sulla panca e Andrea fece le presentazioni, poi offrì un altro giro e li lasciò da soli.
Agostino non capiva perché si stesse comportando così, dopotutto quella era una baldracca, non una fanciulla. E glielo chiese sporgendosi per dirglielo all’orecchio. Come l’amico riuscì a udirlo in mezzo a quel frastuono restò un mistero. Gli rispose che per lui erano tutte donne e come tali andavano trattate, anche se esercitavano il mestiere più antico del mondo.
«Sei ancora troppo piccolo per capire. Ma non preoccuparti, se non te la senti va bene lo stesso». Disse poi.
Il giovane si domandò se tutto ciò avesse a che fare con la madre di Andrea, della quale aveva udito parlare a palazzo. E cioè che fosse stata una prostituta e lui un figlio di nessuno. Ma il giovane uomo pareva non fare caso a questi pettegolezzi e le malelingue. A vederlo, poi, non si sarebbe mai detto che aveva delle origini così umili. Forse si era promesso di trattarle tutte a questo modo memore della madre, che non sempre aveva avuto gentilezza e rapporti sereni dai suoi clienti. Infatti, la donna era stata uccisa solo otto anni prima da un cliente. E anche di questo, aveva udito parlare.
Ma - si rese conto - la stessa cosa valeva anche per lui.
«Di cosa parlate?» Chiese la giovane, guardandoli perplessa e intimorita. 
«Mi ha chiesto quando è che una ragazza diventa donna. Oh, suvvia, non guardatemi così, è una bella storia. La conoscete?» La riccia scosse il capo con aria desolata mentre stringeva il boccale di birra tra le mani.
«No, mia giovane amica? Allora rimediamo subito». Ciò detto si mise a raccontargliela con tale dolcezza che piano piano la titubanza l’abbandonò. E anche lei cominciò a raccontare che ne conosceva una simile. Sempre piano piano Andrea si estraniò dalla conversazione, lasciando solo loro due.
E Agostino prese a raccontarle di quello che faceva. Dei fiori. Alla fine fu la giovane stessa a prendere l’iniziativa e baciarlo. Il viso paonazzo per la timidezza e l’emozione. Agostino ebbe un lampo di genio. Se persino quella ragazzina si era sciolta allora anche la sirena… Improvvisamente non gli parve più così irraggiungibile. Si alzò immediatamente, la ringraziò, le dette dei soldi e corse di nuovo al castello.

La sera seguente si avvolse nel mantello, prese una lanterna e uscì dalla propria stanza. Sospirò nel tentativo di calmare il battito del suo cuore impazzito e di tenere insieme le budella che sembravano sul punto di sciogliersi. Fortunatamente si ricordò di passare dalla biblioteca per prendere il tomo che gli serviva. Se lo ficcò sotto l’ascella e riprese il suo cammino.
Fortunatamente le guardie alle porte non gli fecero domande: si erano abituate a vederlo uscire la sera. E suo zio si fidava abbastanza da lasciarlo uscire da solo la sera, a patto che tornasse in tempo e non si trattenesse troppo alla locanda quando era da solo. Perciò, neanche lui avrebbe posto domande e poi era estate! Solo un pazzo non si sarebbe fatto una passeggiata notturna in quella stagione. Inoltre, celato sotto al mantello, il libro non si vedeva. Se solo avessero saputo che la sua mèta era un po’diversa dalla solita, chissà come avrebbero reagito. Si affrettò a cancellare dalla mente quei pensieri nel timore che qualcuno indovinasse le sue intenzioni. Esisteva dappertutto qualcuno dotato di quel potere e non voleva rischiare di essere beccato.
Perciò, imponendosi la calma, si recò in riva al lago, proprio sulla cima dello scoglio dove lei si era arrampicata poche sere prima. Lì attese e, nei pressi di mezzanotte, cominciò a recitare ad alta voce uno dei romanzi che stava leggendo. Quasi non si accorse del rumore dell’acqua tanto la sua stessa voce lo stava trasportando in altri mondi.
Ma quando alzò gli occhi si accorse della sua spettatrice illuminata dalla fievole luce della lucerna. La sirena, la schiena eretta, lo guardava ad occhi sgranati. Il suo viso sembrava dire che tutto si poteva aspettare, fuorché quel pazzo - perché questo doveva sembrare ai suoi occhi - che recitava un intero romanzo al buio più totale. 
Lui alzò gli occhi dal libro e le fece un bel sorriso, accompagnandolo con un cenno del capo: «I miei rispetti, madamigella. Spero di non avervi arrecato alcun disturbo». Salutò sciorinando tutto il suo vocabolario cortese. Lei aprì la bocca per dire qualcosa ma si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Solo dopo qualche secondo si riebbe: «No, è che mi stavo domandando come poteste leggere al buio». Se ne uscì alla fine, con tono più sicuro. Ma la sua suonava tanto come una scusa cui si era aggrappata sul momento.
«Infatti non sto leggendo, sto declamando».
Il suo viso si increspò in una smorfia divertita: «Declamando?»
«Certo. Ho l’abitudine di declamare i miei versi alla luna. È una perfetta ascoltatrice, anche se non è molto loquace.» sorrise il giovane, poi le domandò: «E voi? Che cosa stavate facendo?»
La sirena lo guardò stupita dalla domanda e poi balbettò, distogliendo lo sguardo in basso a sinistra e cingendosi le spalle, che affioravano fuori dell’acqua, come se avesse potuto coprire delle nudità che non si vedevano affatto: «Io… Io stavo…».
Il giovane venne in suo soccorso: «Nuotando, forse?»
Sembrava che lei stesse cercando in tutti i modi di scappare via e lui non voleva. «Sì, qualcosa del genere.» rispose. Stavolta il ragazzo non si lasciò incantare e continuò: «Non avete freddo, madamigella? Le acque devono essere gelate». Per non parlare delle correnti, a forza di giocare con le barchette assieme ad altri ragazzi del paese, ormai stava cominciando a conoscerle anche lui. Fortunatamente per lei, in quel punto non erano forti. La giovane scosse la testa: «No, in realtà le trovo piuttosto calde».
«Ah, dovete essere una di quelli che non soffrono il freddo neppure d’inverno!»
Per tutta risposta ricevette un sorriso imbarazzato. Agostino si disse di aver esagerato e, notandone l’espressione un po’titubante, corse ai ripari: «Vi sto importunando?»
L’altra si riscosse e scosse il capo: «No, no. È che non sono abituata a conversare molto». Farfugliò.
«Oh, non vi preoccupate, se lo desiderate potete conversare con me tutto il tempo che volete».
«Grazie ma non posso.» si scusò arretrando, sempre restando in posizione eretta.
Il giovane si domandò come facesse. Ma poté notare chiaramente che adesso i suoi occhi erano pieni di paura. Forse temeva che fosse una trappola. Provò la tentazione di fermarla, ma se l’avesse fatto sarebbe andato tutto a monte. Aggrottò le sopracciglia e domandò, cercando di restare il più immobile possibile per non spaventarla. Troppo memore delle volte scorse: «Non potete, cosa?»
Lei non lo guardò quando disse, mesta: «Avere amici.» Specificò in fretta, come se stesse sperando di non essere catturata. Però, da questo punto di vista, Agostino non aveva rassicurazione alcuna: «Avete un nome?» Chiese invece, battendo le palpebre.
«Sì».
«Come vi chiamate?»
«Arya».
Il giovane lo saggiò e decretò che gli piaceva, «molto bello. Molto poetico. Vi sta d’incanto. Io sono Agostino, lieto di fare la vostra conoscenza, madamigella». Lo disse con così tanto trasporto che le strappò una risatina. La vide portarsi una mano alla bocca e poté vederne il bel polso. Desiderò poterlo sfiorare mentre quel suono delicato gli allargava il cuore. Sorrise a sua volta, contento: «Visto? Non è così difficile, adesso avete un amico».
La ragazza lo guardò, gli occhi risplendenti di una domanda che evidentemente non voleva porgergli. Qualunque cosa fosse animò il suo sguardo, dapprima di speranza e poi di tristezza.
«Perché non salite quassù?» Domandò lui tendendogli gentilmente la mano, ma senza spostarsi di un millimetro nel timore che scappasse.
«Non credo che sia una buona idea». Rifiutò cortesemente.
Il ragazzo ritrasse le dita battendo le palpebre: «Oh, siete forse nuda?» Chiese provando un moto d’imbarazzo, anche se sapeva benissimo che non lo era. Lei arrossì e si coprì nuovamente il busto con le braccia. «Impudente! Non sono domande da porre!»
Agostino si pentì immediatamente di averlo chiesto. Divenne paonazzo per l’imbarazzo.
Chiuse definitivamente il libro che finora aveva tenuto nell’altra mano e se lo ficcò sottobraccio: «Avete ragione, scusatemi, vi sto spaventando, forse è meglio che me ne vada. Non sia mai che possa ledere al vostro onore dicendo a qualcheduno di avervi veduta, madamigella Arya».
Lei sussultò e lo guardò con due occhi grandi così.
Il giovane sorrise: aveva abboccato, ma cercò di continuare su quella scia «Lo vedo persino da qui che sono di troppo.» Cominciò ad alzarsi mentre lei prese a richiamarlo: «Aspettate, vi prego, fermatevi!»
Ma Agostino, facendosi luce con ciò che restava del suo lume, stava già saltellando sui sassi come aveva visto fare a Stella. O almeno stava provandoci. Non era così facile di notte.
La sirena lo seguì circumnavigando il masso: «Aspettate, fermatevi. Fermatevi o metterete un piede in fallo!»
Il quindicenne obbedì: «Dite sul serio?»
La ragazza sospirò, grata che si fosse fermato. Con la coda dell’occhio la vide portarsi una mano al cuore e chiudere gli occhi per un secondo: «Voi non vedete dove state andando, ma siete troppo vicino al bordo.» Lo avvisò.
Il giovane si bloccò istantaneamente. «Dite?» Chiese stavolta, un po’allarmato, ma cercò di non darlo a vedere. Non se ne era accorto.
«Da qui lo vedo benissimo. Ascoltate me, vi guiderò io».
«Sono nelle vostre mani». Concesse.
Lei lo aiutò a spostarsi leggermente verso destra, cioè il centro dello scoglio e poi gli disse quanti passi fare per raggiungere il prossimo e così via. Quando Agostino giunse sull’erba sano e salvo, si volse verso di lei e si profuse in un inchino: «Grazie, madamigella. Senza il vostro aiuto sarei già a mollo. E per quanto lo ami, non sono molto incline a volermi bagnare adesso».
La giovane per tutta risposta rise divertita e lo mandò via: «Adesso andatevene, su. Non avete più niente da fare qui». Mosse persino la mano fuori dell’acqua per scacciarlo. Esattamente come una nobildonna. Probabilmente doveva essere una principessa di chissà quale regno incantato, pensò Agostino mentre alzava le sopracciglia, meravigliato dal gesto.
«Voi non uscite?» Chiese poi.
«Non adesso, voglio godermi il lago in santa pace e poi come osate? Ci siamo appena conosciuti!» Rispose fingendo un’acidità decisamente stonata col tono sorridente con cui proferì quelle parole. Anche il giovane rise: «D’accordo, mia signora. Buonanotte e addio!» Si profuse in un inchino e se ne andò, seguito dalla voce di lei che ricambiava il saluto.
Un sorriso gli increspò le labbra e il suo cuore accelerò ancor di più. Quando fu sicuro che lei credesse che se ne fosse andato, spense la lucerna e si assicurò di essere invisibile nella notte, favorito dalle chiome dell’albero basso sotto al quale si era nascosto e, silenziosamente cercò di tornare indietro. Lei nel frattempo era scomparsa. Ma di lì a poco, lo sperò, si sarebbe messa a cantare. Le sue preghiere furono esaudite.
Agostino sorrise e volse il capo nella direzione della voce, mentre il suo cuore batteva ancora più forte.
Esattamente come era accaduto le altre volte, l’ambiente circostante si illuminò di quel chiarore fosforescente. Le piante cominciarono a crescere a vista d’occhio. Adesso vedeva persino il sentiero davanti a sé ma non lo percorse. Non adesso. Voleva restare ad ascoltare. Improvvisamente cominciò a soffiare il vento. Lo stesso che poche ore prima aveva animato le fronde degli alberi e dei cespugli ma che non aveva smosso quelle lucciole. Adesso era sicuro che quelle creature non fossero affatto lucciole. Poi il chiarore, il vento e le luci, come sempre, scomparvero. Agostino si guardò attorno con un sospiro. E si accorse del miracolo che era accaduto attorno a lui. Il volto gli si aprì in un sorriso e mormorò un «Uao» di meraviglia. Poi, con la gioia nel cuore, ritornò al castello.  

«Possibile che queste piante crescano così in fretta?» Si lamentò uno dei braccianti mentre lavoravano al giardino. Agostino che era lì vicino per poco non trasalì. Era strabiliante: sebbene dormisse assai meno di prima, riusciva a non provare la benché minima stanchezza.
«Io non capisco! È come se durante la bella stagione cercassero di recuperare il tempo sprecato a dormire d’inverno. Ma tutte! Proprio tutte, compresi gli abeti e i pini! Oh, ma io proprio non le capisco! Dove avranno da andare poi, lo sanno solo loro». Esclamò un altro.
Il ragazzo soffocò una risata e scosse il capo divertito mentre si chinava a togliere le erbacce dall’aiuola. In quel periodo doveva fare molta attenzione alle piante: rischiava di andare a dormire con un bel giardino e di svegliarsi per ritrovarselo invaso da una selva di erbacce. Il peccato era che la maggior parte delle piante che amava lui, in quel periodo seccavano o perdevano la loro bellezza. Per esempio il glicine originario della Cina - e si era fatto spiegare dal mercante stesso come coltivarla - che aveva fatto piantare sotto la facciata che dava sul giardino ma che era continuamente bersagliata dagli afidi e dagli acari. Ma la parte più bella, per lui, era quella che avevano adibito ai meli e ai ciliegi, di cui si occupava con Stella. Stranamente, da quando le aveva affidato la zona incolta che opponeva resistenza, lei era riuscita, con chissà quale tattica, a renderla coltivabile. E così avevano piantato quegli alberelli che curavano assiduamente e che adesso stavano crescendo  che era una meraviglia, il tutto circondati dagli arbusti di biancospino che lei aveva provveduto a recintare con dei bellissimi ciottoli bianchi di misteriosa provenienza: «Dove li hai trovati?» Gli aveva chiesto Agostino. Lei aveva sorriso e aveva detto, mentre lavorava, seduta sui talloni: «In riva al lago».
«Oh, ci passo molto tempo anch’io in riva al lago, perché non li ho visti?»
La bionda tacque a lungo prima di articolare una risposta: «Non lo so. Non so cosa guardi tu del lago».
Il giovane si morse la lingua per non rispondere, anche se era alquanto divertito dalla situazione. Ma forse era merito del giardino: era talmente bello da fargli dimenticare il tono scontroso della sua amica. Ed ebbe voglia di farle uno scherzo, così, si avvicinò in punta di piedi, stando attento a non fare rumore. Ma solo quando le fu molto vicino le parlò: «E tu?» Lei si girò verso di lui e si ritrovò a fissargli le ginocchia e sobbalzò. Il giovane rise. Lei arrossì e lo guardò di traverso. Poi Agostino sentì un colpo alla coscia che gli strappò un gemito di dolore e una risata. Solo allora lei rispose, pacata: «Io guardo tutto del lago».
Il giovane sorrise: «Allora hai una buona vista».
Lei finì di disporre gli ultimi ciottoli e si sfregò le mani sporche l’una con l’altra mentre si rialzava e gli domandava cosa ne pensasse. Il giovane l’osservò e constatò che quel piccolo angolo di paradiso sembrava uscito da un sogno: «È bellissimo.» si limitò però a dire coi sensi assuefatti, arrossendo e poi sentendosi un emerito imbecille per averlo detto: non era questo ciò che voleva dirle, anche se era la verità. Anche perché, più che riferito al giardino, sembrava un complimento indirizzato a lei. La quale si irrigidì e poi annuì anche se aggiunse, le guance colorate da una vampata di rossore: «Ora sarà meglio che mi allontani da qui, ci ho lavorato così a lungo che mi fanno male gli occhi».
«Come, i tuoi occhi non sono abituati a cotanta bellezza?» La provocò seguendola. Un sorriso da spaccone gli animava il volto, se ne rendeva conto lui stesso. Ma che poteva farci? L’incontro gli aveva lasciato una luce dentro.  
La giovane lo guardò inarcando un sopracciglio per lo stupore, ma balbettò: «Ti riferisci a te o al giardino?» Quella domanda lo spiazzò. In effetti, si accorse, era come se ci stesse provando con lei. A quel pensiero il viso della sirena inondò il suo campo visivo. Inorridito pensò che cosa stava facendo? Ammetteva a se stesso che era una bella ragazza, ma non era quella che desiderava: «Al giardino, che domande.» fece cambiando tono. Poi la sorpassò e lei restò un attimo impalata, gli gridò dietro di continuare il progetto. Ma il ragazzo non riuscì a spiccicare parola, ancora in imbarazzo. La giovane allora venne in suo aiuto, ma anche con tutta la buona volontà del mondo, non riuscì a formulare una frase di senso compiuto.
Quando arrivò mastro Lucenzio a riferire loro qualche miglioria che secondo lui si poteva apportare al giardino e anche oltre, fu come se avesse spezzato l’atmosfera. Fu come se la sua presenza avesse tagliato una specie di velo di seta che li avvolgeva entrambi nel suo abbraccio. Lasciando al suo posto il freddo. Agostino non si accorse neanche di star fulminandolo con gli occhi. Ma Stella sì e gli pestò un piede per farlo smettere. Il ragazzo gemette di dolore e Lucenzio sgranò gli occhi. «Che è successo?»
«Oh, Agostino aveva un calabrone sul piede e io ho cercato di scacciarlo.» s’inventò.
Il maestro guardò l’allievo allarmato e cominciò a tempestarlo di domande: «Un calabrone? Santo Cielo, Agostino, non ti ha punto, vero? Non sei mica allergico?»  
«No, tutto a posto, è volato via.» sibilò lui con un sorriso contrastante la smorfia di dolore: ci aveva messo troppa forza.  

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