L'eredità di Kurtz

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Disclaimer: I personaggi e le ambientazioni appartengono agli aventi diritto, di mio ci sono solo gli interludi.
Nella storia uso dei dialoghi originali del film e la canzone "The End" dei Doors, che ne è il tema conduttore.
Non accampo i diritti di nessuno dei due.


Questa storia partecipa all' "I don't remember driving here" Challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart [https://www.facebook.com/groups/534054389951425/?ref=group_header]

Buona lettura ^^
 
Non sapevo da quanto tempo mi trovassi lì, chiuso in quella gabbia, lasciato a macerare nella palude. 
 
Lost in a Roman wilderness of pain
And all the children are insane
All the children are insane
 
 
Giorno e notte si erano confusi in un vortice indistinto mentre la vista mi si faceva sempre più appannata e la testa sempre più pesante. Tutto il mio mondo consisteva di quei pali di legno, quella sorta di filtro tra me e il mondo esterno, era attraverso i loro spiragli che potevo vedere lo svolgersi della vita di quella comunità perversa. 
I miasmi del fiume e della giungla si mescolavano all’odore malsano dei cadaveri in decomposizione mentre cori e danze si susseguivano ininterrotti in un rito orgiastico che non sembrava conoscere fine. In un primo momento riuscivo ancora a distinguere la testa bionda di Lance nel groviglio di membra esagitate, poi persi anche lui.
 
Nemmeno Kurtz si era più fatto vedere, oscuro sacerdote di quel culto osceno osservava il suo popolo dall’alto del suo tempio.
Non so quanti tempo trascorsi in quello stato, sospeso in un limbo tra la coscienza e l'oblio, tentando di impedire a quest ultimo di prendere il sopravvento. Finché fui costretto ad arrendermi e per me fu solo buio. Nemmeno mi accorsi del vietnamita che mi sollevò la testa. Non mi resi conto di nulla finché non avvertii un sapore dolciastro sulle labbra. Mi venne da vomitare ma all'improvviso venni assalito da una sete tremenda e trangugiai tutto.
Non potevo sapere che grave errore avessi commesso.
 
 
 
 
A pochi metri dalla gabbia di Willard, il fotoreporter era intento a rollarsi una sigaretta, che aveva opportunamente tagliato con delle erbe secche che sapeva avere proprietà allucinogene.
Fino a qualche mese prima anche lui aveva avuto un nome, una professione e uno scopo. Ora era semplicemente uno dei tanti. 
Scattava foto e faceva interviste solo perché non avrebbe saputo che altro fare del suo tempo.
Non ricordava nemmeno più per quale testata dovesse scrivere. Però aveva ancora addosso le macchine fotografiche e immaginava che dovessero essere importanti. Faceva domande a chiunque e fotografava qualunque cosa reputasse interessante.
I movimenti dei nativi che andavano a liberare il capitano americano attrassero la sua attenzione.
Sigillò in fretta e furia la sigaretta e corse attraverso il pantano per registrare la scena: “Magnifico! Magnifico! Un vero quadro semovente!”
 
I suoi obiettivi catturarono il viso pallido e sudato di Willard, le sue membra inerti tra le braccia dei nativi, i suoi occhi semichiusi e le labbra tremanti. 
Sovraeccitato dalla novità prese a saltellare intorno al gruppo, incurante delle proteste e degli insulti degli improvvisati barellieri. Alcuni cercarono di calciarlo via, uno addirittura tentò di morderlo ma lui proseguì imperterrito, alla ricerca dello scatto perfetto. 
A nulla servirono tuttavia i suoi schiamazzi: “Voi due, lì davanti, tiratelo su! Voglio che si veda bene il viso. No, no, no, non così! Maledizione! Non avete alcun senso dell’arte!”
 
I nativi non lo capivano o preferivano ignorarlo, perché proseguirono imperterriti nella loro mansione, sordi ai suoi richiami.
Il fotoreporter non aveva idea di cosa stesse succedendo ma immaginava che il Capo avesse in mente qualcosa di grosso, perché stava facendo trasportare l’americano nel suo tempio.
A questo punto era ansioso di scoprire di cosa si sarebbe trattato.
 
 
 
 
Sentii degli schiamazzi all’esterno e capii che presto Willard sarebbe stato di nuovo in mia compagnia.
Avevo fatto preparare per lui un giaciglio dove potesse riposare e dato istruzioni alle mie giovani attendenti perché lo lavassero e gli dessero da mangiare. Doveva rendersi conto di essere tra amici, capire che il vero nemico non ero io ma il tarlo che lo rodeva dall’interno. Presto l’infuso avrebbe fatto effetto e avremmo potuto parlare alla pari. Presto anche lui avrebbe compreso.
 
Mi sciacquai nella bacinella e terminai di radermi.
Il viso che mi scrutava dallo specchio non mi apparteneva più degli stracci che indossavo. Avrei dovuto riconoscere i suoi lineamenti ed il suo sguardo ma in verità mi era del tutto estraneo. Quell’uomo, semmai fosse esistito, aveva cessato di esistere molto tempo fa. 
Presi la ciotola della cenere e la sciolsi nell’acqua, poi v’intinsi tre dita e me le passai sul volto, coprendo gli occhi come forse ero stato addestrato a fare in un’altra vita. Rivedendomi allo specchio mi riconobbi per quello che ero diventato: un figlio della giungla, un uomo i cui occhi avevano finalmente abbracciato la verità e rifiutavano di privarsene. Intorno a me brandelli di uniforme, equipaggiamento militare e medaglie giacevano sparsi sul pavimento di pietra, informi vestigia di un’ identità perduta. Me n’ero spogliato come una falena della crisalide, per liberarmi dal peso del mondo ed accedere ad una realtà superiore. 
Dentro di me però sentivo che le forze mi stavano abbandonando e sapevo di non avere molto tempo. Dovevo trovare qualcuno che sopperisse alla mia mancanza. Dovevo trovare un erede.
Willard, il giovane e forte Willard, era il dono che la giungla mi aveva portato nel momento del bisogno. La sua venuta era un segno degli dei. 
Il momento era giunto.
 
 
 
 
Desperately in need of some stranger's hand
In a desperate land
 
Ripresi lentamente i sensi per ritrovarmi disteso su una stuoia accanto ad una finestra a strapiombo sulla giungla. Dei cuscini mi sorreggevano la schiena e due giovani mi stavano lavando con delle spugne. 
Avevo le vertigini e chiusi gli occhi, lasciando che le loro abili mani mi ripulissero del fango e della lordura incrostatesi sulla mia pelle nei lunghi giorni di prigionia. Con ogni respiro sentivo salire la febbre: sentivo gli occhi caldi e gonfi sotto le palpebre chiuse. Le vene della fronte mi pulsavano ad ogni battito e mi sembrava di avere il cranio stretto in una morsa. Anche i denti mi facevano male e solo sentendoli stridere mi accorsi di averli stretti.
Respiravo a fatica, sentivo sulla pelle il fastidio del sudore appiccicoso, che mi s’incollava addosso non appena le spugne bagnate lasciavano il mio corpo. Non riuscivo a muovere un muscolo e sentivo le membra pesanti, come se fossero fatte di piombo. 
Tentai senza successo di alzare una mano per asciugarmi il sudore dalla fronte ma fallii miseramente. Non riuscii nemmeno a muovere un dito.
Poco dopo accolsi con sollievo la frescura di una pezzuola umida sulla mia fronte rovente mentre qualcuno mi asciugava il sudore ed alleviava il tormento della febbre. 
 
Socchiusi le labbra per ringraziare il mio anonimo benefattore ma dalla mia gola riarsa non uscì che un gemito soffocato, subito seguito da un attacco di tosse secca. Quella mano senza volto abbandonò lo straccio sul mio viso per scivolarmi dietro la nuca e sollevarla con dolce fermezza.
Sentii che mi veniva accostata una ciotola di legno alla bocca e percepii la dolce freschezza dell’acqua,  accompagnata da un sapore sconosciuto, dolce ed invitante. Arso dalla sete e dalla febbre bevvi avidamente, assaporando quel benedetto sollievo.
La mano che mi reggeva la nuca si mosse lentamente sulla mia pelle, come un accenno di carezza, e riconobbi la voce di Kurtz: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori.”
 
Quelle frasi mi suonavano al contempo famigliari e distanti, come l’eco lontana di una vita passata, qualcosa che avrebbe dovuto appartenermi ma non mi rappresentava più.
Le parole che seguirono lasciarono le mie labbra in un sospiro, quasi senza che me ne accorgessi: “Lei mi ricorda qualcuno.”
“Chi, Willard?”
“Qualcuno che aveva promesso ci sarebbe sempre stato.”
Fu così, in un momento di delirio sospeso tra sogno e realtà, che gli raccontai di mio padre.
Quando mi sollevava tra le braccia, da bambino, e mi faceva volare in alto. 
Quando costruivamo insieme barchette di legno per gareggiare nello stagno.
Quando la sera mi prendeva sulle ginocchia e mi raccontava delle storie per farmi dormire. 
Quando partì per la guerra, per non tornare mai più.
Quando finii ero talmente debole da essere scosso dai brividi e da avere le lacrime agli occhi. Kurtz mi asciugò le palpebre con la pezzuola umida e, dopo averla bagnata di nuovo, riprese a passarmela sulla fronte con una dedizione che avrei potuto scambiare per affetto in un’altra persona.
 
Qualcuno mi stese addosso una coperta leggera, per proteggere il mio corpo nudo dal freddo umido della notte e dagli insetti. Mi abbandonai al dormiveglia mentre il mio infermiere mi raccontava una favola della buonanotte: “In una radura nel cuore della giungla c’è un baule e in quel baule c’è lei, Willard, e non ha la chiave. Sente un fruscio provenire dall’esterno e si avvicina alla serratura per guardare fuori. Dal buco per la chiave vede un coniglio bianco che bruca nel prato. Pensa di essere nascosto, che lui non la veda ma lui in qualche modo si accorge di lei: tende le orecchie, smette di mangiare e la guarda fisso negli occhi. Poi inclina la testa di lato e le volta le spalle, girandosi indietro per invitarla a seguirlo. A quel punto si rende conto che il baule è solo una sua prigione mentale e che in realtà è stato libero tutto il tempo perché esce passando dalla serratura come il cammello dalla cruna dell’ago. Ed è così che si ritrova in mezzo alla foresta, il baule abbandonato alle sue spalle non è che un vuoto relitto. Allora il coniglio s’incammina verso il cuore della giungla, fermandosi ogni tre passi ad aspettare che lei lo raggiunga. Segua il coniglio bianco, Willard! Sprofondi nel cuore della giungla e apra la mente. Solo così sarà veramente libero.”
 
Non appena Kurtz terminò il suo discorso le membra mi si fecero ancora più pesanti e la testa prese a girarmi in un vortice sempre più rapido. 
Da qualche parte del mio cervello una fugace scintilla di razionalità mi fece sorgere il dubbio di essere stato drogato ma non avevo le forze né la coerenza per ragionarci, in quel momento. 
Di nuovo, il mio mondo sprofondò nel buio.
 
 
 
 
Osservai Willard cedere al sonno e venni sopraffatto da un’inesorabile ondata di compassione, nel vederlo prostrato ai miei piedi, debole e vulnerabile.
Aveva il viso madido di sudore ed inumidii di nuovo la pezza nella soluzione di acqua ed aloe prima di stendergliela sulla fronte. Pur incosciente, emise un gemito per il sollievo che quel misero brandello di stoffa gli aveva apportato. 
Nel profondo del cuore provai una fitta di dispiacere nel vederlo così fragile, soprattutto perché mi rendevo conto di essere stato io a ridurlo in quelle condizioni. 
Scacciai però immediatamente quel pensiero, ricordando a me stesso che il mio erede avrebbe dovuto essere temprato dalla sofferenza: il suo corpo avrebbe dovuto essere mortificato perché la sua mente potesse elevarsi. Del resto anch’io avevo raggiunto l’illuminazione in conseguenza delle febbri notturne.
 
L’infuso che gli avevo somministrato lo avrebbe aiutato a raggiungere lo stato ottimale per iniziare il suo processo di rinascita e presto avrebbe iniziato a fare effetto.
Era passata forse un’ora dall’ultima dose ma già cominciava a manifestare i primi sintomi.
Tutto il suo corpo s’inarcò in violenti spasmi e venne scosso da brividi profondi, tanto forti da fargli battere i denti. 
A quel punto gli si contrassero i muscoli del torace ed iniziò respirare affannosamente. Iniziai dunque a bruciare delle foglie di stramonio e mi assicurai che ne inalasse i vapori schermando il braciere con uno straccio: oltre a dilatargli i bronchi avrebbero aumentato l’efficacia dell’infuso.
Lentamente i miasmi delle erbe fecero il loro lavoro e Willard prese a tossire violentemente, per poi accasciarsi tremante sui cuscini.
 
Sopraffatto dalla mistica sacralità del momento, acuita dai tamburi e dai fuochi delle danze, mi ritirai in meditazione mentre attendevo che l’infuso compisse il suo dovere fino in fondo.
Rallentando il respiro chiusi gli occhi per concentrare il mio sguardo spirituale sul cuore della giungla.
Il battito dei tamburi riecheggiava il pulsare del mio cuore e a poco a poco diventai un tutt’uno con il fuoco che illuminava la notte.
Diventai uno con il fiume, che scorreva inesorabile nel suo letto secolare.
Fui uno con gli alberi e la brezza che riverberava tra le loro foglie. 
Fui ognuno dei miei seguaci e al contempo nessuno.
Fui tutto e fui nulla allo stesso tempo, respirando la giungla e con la giungla. Esistendo in sincrono con ogni albero, ogni foglia, ogni creatura che la popolava. 
Lottai disperatamente per soffocare in me lo spirito della Madre per evitare che mi pervadesse. Lo spirito della giungla è lo spirito della madre Gaia, una primordiale ed inarrestabile forza generatrice.
Essa mi rafforzava nell’animo e rinvigoriva la mia forza vitale ma andava dominata perché non prendesse il sopravvento. Doveva essere sottomessa perché io potessi essere Padre per il mio erede, perché avessi la forza di assistere alla rinascita della sua anima senza diventarne la nutrice.
Willard aveva bisogno di una guida nel suo viaggio, non di una madre. 
Gli dei avevano previsto anche la mia lotta interiore e, nel momento esatto in cui fui pronto un rumore mi richiamò alla coscienza.
 
In un primo istante pensai che Willard si stesse rigirando tra le coperte in preda all’estasi mistica, ma aprendo gli occhi mi accorsi che era in piedi sul cornicione. Al suo fianco era inciso l’altorilievo di un uomo che stava curvo sopra un altro per proteggerlo dalle frecce dei nemici, che si erano conficcate sulla sua schiena anziché nella carne del compagno che giaceva a terra.
Quell’incisione, illuminata dal fuoco proprio nel momento in cui Willard si piegava in avanti, giù, sempre più giù, fu il segno che stavo aspettando: avrei dovuto salvarlo dalla morte perché lui era davvero il mio erede. La sua venuta era stata predetta anche dalle antiche sculture del tempio.
Balzai dunque in avanti, i miei muscoli concentrati nell’unico sforzo che erano stati concepiti per sostenere, e mi avventai su di lui.
Lo spirito vitale della giungla scorreva potente nelle mie membra e afferrai Willard nel momento esatto in cui stava per precipitare di sotto. Con una forza che non mi apparteneva affondai le dita nelle sue carni e lo sollevai nonostante tentasse disperatamente di divincolarsi. Vidi le nostre ombre proiettate sul muro e ricordai di una statua che avevo visto a Firenze: una giovane sabina si contorceva nel vano tentativo di liberarsi dalla presa ferrea di un soldato latino. 
Una statua del Rinascimento, anch’essa simbolo della rinascita di Willard.
Un passo indietro e allontanai il mio erede dal pericolo immediato. Reggendolo tra le braccia arretrai fino al suo giaciglio, dove lo avvolsi con la coperta e me lo posi sulle ginocchia, tergendo la sua fronte madida con la pezzuola per rassicurarlo. Una scena di Pietà, anch’essa indispensabile per il compimento della rinascita.
Inconsciamente, quel giovane disperato si strinse a me e io lo lasciai fare, comprendendo il suo bisogno di rassicurazione e conforto.
 
Cullandolo sul mio petto lasciai scorrere lo sguardo verso il cuore della giungla, nel suo intimo più profondo, dove nemmeno il fuoco dei miei seguaci riusciva a rischiarare le tenebre.
Era giunto il momento di spiegare il mio ruolo a quel giovane, di come avendo raggiunto l’illuminazione lo avrei guidato fuori dalla caverna e lo avrei liberato da quelle catene che lo costringevano ad osservare ciò che lui riteneva essere la verità, inconsapevole di stare vedendo solo ombre fugaci, proiettate sul muro del suo sguardo da un burattinaio perverso.
 
 
 
 
Ride the king's highway, baby
Weird scenes inside the gold mine
 
Davanti ai miei occhi apparve una figura misteriosa, che in un primo momento faticai a mettere a fuoco. 
Quando vi riuscii rimasi senza fiato: era una donna bellissima. Si presentò a me completamente nuda, la sua pelle d’avorio riluceva in contrasto con la sua folta capigliatura rossastra. Aveva fiori nei capelli e altri sembravano generarsi dalla sua pelle. Sembrava del tutto indifferente al mio sguardo, assorbita com’era dai due infanti dai capelli scuri che si stringeva al petto.
Sul viso e sul corpo erano assenti i segni della gravidanza e del parto ed ella sembrava riposare serena con i suoi piccoli, intenta anche nel riposo a generare la vita. 
Qualcosa al contempo dentro e fuori di me mi disse che stavo osservando Gaia, la Madre primordiale e la Fonte della Vita. La Madre della giungla a cui noi apparteniamo.
All’improvviso mi resi conto che quella che stavo vedendo non era altro che un’ombra proiettata su un muro di creta, che avevo polsi e caviglie intrappolati da pesanti catene.
Tentai di divincolarmi ma non vi riuscii finché non vidi una figura avanzare verso di me e tendermi una mano. Il suo volto avrebbe dovuto essermi famigliare e forse una parte di me ricordava di aver attraversato il Vietnam per trovarlo, ma non riuscivo a ricordare il perché.
 
L’uomo venne alla luce e mi accorsi che all’altezza degli occhi il suo volto era coperto da una tintura mimetica, che nascondeva i suoi lineamenti come una maschera. Allora capii: quell’uomo, il Re-Sacerdote, era stato trasfigurato dalla verità ed era venuto per liberarmi dalle mie catene. 
 
Accolsi il suo arrivo con sollievo e lui mi prese le mani, sciogliendo le mie catene come neve al sole prima di guidarmi verso l’uscita della caverna.
Rimasi accecato dalla luce che si trovava all’esterno e per un momento mi parve di scorgere qualcosa.
Poi precipitai di nuovo nel buio.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Disclaimer: stesso del capitolo prima. 
Qui faccio un uso maggiore dei dialoghi del film, ripeto di non accamparne i diritti, come per la canzone citata. I frammenti della leggenda di Cao Bien sono presi dal libro "Il dramma del Viet-Nam" di Roberto Ricci, Edizioni di Crémille,1971.

Un sentito grazie ad Old Fashioned che si è gentilmente prestato come vittima sacrificale beta reader e si è sorbito tutto questo polpettone in anticipo.
A lui e ad i suoi neuroni un sentito ringraziamento.

A tutti, buona lettura ^^


Il sole nascente tinse la giungla di rosso.
Gli alberi, le piante, la terra ed i suoi abitanti. Anche il fiume si tinse di rosso, come a voler emulare il suo omonimo nel nord del Paese.
I profani, gli estranei, avrebbero pensato che fossero i depositi di basalto nel terreno a tingere le acque di quel colore, ma i nativi sanno che è il sangue del drago guardiano del fiume, ferito dal re e stregone Cao Bien. Egli aveva tentato di rimuovere con esorcismi le rocce sul letto del fiume ma aveva esercitato troppa forza ed aveva ferito il sacro guardiano: è quindi il suo sangue a tingere l’acqua del fiume.
Per me era chiaro a quel punto che la giungla mi avesse scelto come erede di Cao Bien: anche io, nella notte, avevo ferito a morte il guardiano del fiume ed il suo sangue aveva tinto le acque di rosso. Lo avevo colpito prima che potesse invocare l’Onnipotente. Perché ciò che doveva compiersi si sarebbe compiuto, ma solo a tempo debito.
Ed il momento non era ancora giunto.
“Questa terra appartiene ad un genio potente e non mi riuscirà di restarci per molto tempo.” Affermai osservando la distesa della giungla che si tingeva del rosso dell’aurora.
Il rosso del sole è come quello del sangue: entrambi possono significare vita o morte per chi ha il privilegio di vederli.

Mi chinai ad osservare il volto pallido del mio erede, che dopo una notte di tormenti riposava stremato nel suo giaciglio. Spostai la pezzuola bagnata dalla sua fronte e vi stesi sopra il palmo.
Mi rasserenai sentendo la sua pelle un poco più fresca: Willard era ancora giovane e forte e presto si sarebbe ripreso abbastanza da assolvere il suo compito.
Intinsi di nuovo la pezza nella bacinella e la strofinai con le foglie di aloe prima di posarla di nuovo sui suoi occhi chiusi. La accolse con un sospiro di sollievo e mi trattenni a stento dall’accarezzargli i capelli. Meglio lasciarlo dormire: lo aspettava un compito difficile, per cui doveva essere in forze.
Mi ritirai nella mia alcova a leggere.
Ride the snake
He's old
And his skin is cold

Ero avvolto da una coltre di buio e, per la prima volta dopo giorni, mi sentivo tranquillo.
Le mie membra erano doloranti e pesanti, pur incosciente avevo un senso di vertigine.
Ovunque, intorno a me, riverberava una voce che avrebbe dovuto essermi famigliare ma che per qualche motivo a me sconosciuto non ero in grado di riconoscere.
Non so quanto tempo trascorsi in quello stato, se fossero ore o giorni.
Quando finalmente trovai le forze di aprire gli occhi scoprii di trovarmi ancora nell’antro di Kurtz, ma lui non era nel mio campo visivo. Sicuramente era nei paraggi: sentivo la sua presenza incombere su di me, pur non vedendolo.
Fu allora che capii: la voce che sentivo era la sua.
Ciò che tuttavia sfuggì alla mia comprensione fu il fatto che mi sembrasse assurdamente rassicurante e, in un certo senso, affascinante.
Sembrava che le sue parole mi riguardassero personalmente ma non riuscivo a capirne il motivo.
Trovai un pacchetto di sigarette accanto al mio giaciglio e ne accesi una: la fumai silenziosamente, guardando la giungla.
In quei momenti ebbi l’impressione che tutto combaciasse: la giungla, i tamburi, le statue e la voce di Kurtz.
Tutto era esattamente come avrebbe dovuto essere.

La febbre non era ancora passata: sentivo i dolori ed il disagio che essa comportava rodermi nel profondo.
Mi avevano lasciato una bacinella ed uno straccio e mi tamponai la fronte per avere un po’ di sollievo.
Fu allora che le parole di Kurtz cominciarono ad avere un senso logico.
Con uno sforzo immane mi tirai a sedere, per ascoltare meglio: “Noi siamo gli uomini cavi. Noi siamo gli uomini impagliati, appoggiati l’uno all’altro. La testa piena di paglia, ahimè! Le nostre voci disseccate che bisbigliano tra loro. Sono sorde e prive di significato come il vento sull’erba rinsecchita. O sangue di topi sotto frammenti di vetro.”
Ero talmente rapito nell’ascolto da non accorgermi che quel disgraziato di un giornalista mi si era avvicinato di soppiatto.
 

Il Capo era assorto nella lettura e, forse a sua insaputa, molti indigeni si erano radunati nel palazzo e lo ascoltavano affascinati.
La magia del suo dire aveva catturato anche la mente del giovane capitano Willard, che era in qualche modo riuscito a sedersi e appoggiarsi ad una colonna, il volto madido rivolto verso la voce del Capo.
Poiché gli sembrava confuso, il fotoreporter decise di accovacciarsi al suo fianco e spiegargli la situazione: “Adesso lui è lontano: molto lontano.”
“Volume senza forme, ombre senza colore. Forza paralizzata, gesto senza movimento.”
Allora il fotoreporter si ricordò di un qualche esame che doveva aver sostenuto nel primo anno della scuola di giornalismo: “Sai che sta dicendo? Lo sai? Questa è... questa è dialettica! Semplicissima dialettica!” Poi gli sovvenne un articolo sulle recenti esplorazioni spaziali “Conti da uno a nove e… nessun forse, nessuna supposizione, nessuna frazione. Non ci vai nello spazio senza… senza qualche frazione. Su che cosa atterrerai ? Un quarto e tre ottavi? E che cosa farai quando andrai… da qui a Venere. Insomma, questa è dialettica! Fisica, ok? La logica della dialettica è che c’è solo amore e odio, o hai amore per qualcuno o lo odi.”

“Stupido!” proruppe Kurtz, evidentemente infastidito dalla sua interpretazione, e gli scagliò addosso un sasso che rovesciò la bacinella di Willard “Brutto stupido!”
Allora il fotoreporter ebbe un’epifania e si rese conto di non essere particolarmente benvoluto in quel momento: “Questo è il modo in cui finisce questo mondo del cazzo! Guarda in che merda del cazzo ci troviamo!” Strillò agitando le braccia, per poi sussurrare con un dito premuto sulle labbra “Non con un boom ma con un gemito. E con un gemito io mi tolgo dalle palle, ragazzo!”
In un batter d’occhio raccolse i suoi ammennicoli e corse verso l’esterno, dove si sarebbe fatto una canna per distendere i nervi e permettere ai suoi neuroni di assaporare meglio la conoscenza appena acquisita.
Lo sguardo intenso, forse anche un poco divertito, che Kurtz rivolse a Willard passò del tutto fuori dal suo radar.
 
The end
Of our elaborate plans
The end
Of everything that stands
The end


Sul fiume pensavo che appena lo avrei visto avrei saputo che cosa fare.
Ma non fu così.
Rimasi giorni là dentro con lui, senza sorveglianza: ero libero. Ma lui sapeva che non sarei andato in nessun posto.
Sapeva più lui di quello che avrei fatto di quanto ne sapessi io.

Osservai la sua divisa e presi in mano la custodia con le sue medaglie e l’anello: un tempo per lui dovevano essere stati i possedimenti più preziosi, ma ora erano abbandonati a sé stessi. Consumati dal tempo e dalla polvere, perché le priorità del loro proprietario erano altre.
Se i generali laggiù a Natrang avessero potuto vedere quello che vedevo io, avrebbero ancora voluto che lo uccidessi?
Più che mai, probabilmente.
E che cosa avrebbero mai voluto i suoi, a casa, se avessero mai saputo quanto si era allontanato da loro?
Si era staccato da loro e poi da sé stesso. Non avevo mai visto un uomo così distrutto, così a pezzi.
Quella fu la mia impressione in quel momento, non potevo sapere quanto mi stessi sbagliando.
 

Vidi il mio erede trafficare con le mie cianfrusaglie e, sapendo il valore che quei vuoti vessilli ancora avevano per lui, mi avvicinai in silenzio.
Percepii tutti i suoi dubbi, le sue domande. Come un bambino che apra la porta della stanza da letto e vi trovi sua madre con uno sconosciuto.
Capii che doveva sentirsi smarrito, confuso, forse anche spaventato. E compresi che era giunto il momento di confidargli i miei segreti perché sapevo che quanto stavo per dirgli lo avrebbe sospinto sulla strada giusta.
“Io ho visto degli orrori. “ Iniziai, avvicinandomi a lui “Orrori che ha visto anche lei, ma non ha il diritto di chiamarmi ‘assassino’. Ha il diritto di uccidermi, ha il diritto di far questo. Ma non ha il diritto di giudicarmi.”
Mi allontanai dall’alcova e dietro di me avvertii i suoi passi incerti. Non ne avrei avuto bisogno: sapevo che mi avrebbe seguito.

“E’ impossibile trovare le parole,” proseguii “per descrivere ciò che… è necessario a coloro che non sanno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna farsi amico l’orrore. Orrore, terrore morale e dolore sono i tuoi amici, ma se non lo sono essi sono nemici da temere: sono dei veri nemici!” sapevo che mi stava ascoltando, e che capiva quanto gli stavo dicendo ma decisi di raccontargli qualche aneddoto per fargli meglio comprendere il messaggio “Ricordo quando ero nei corpi speciali… sembra migliaia di secoli fa. Andammo in un campo per vaccinare dei bambini. Lasciammo il campo dopo aver vaccinato i bambini contro la polio. Più tardi venne un vecchio correndo, a richiamarci: piangeva, era cieco. Tornammo al campo: erano venuti i Vietcong ed avevano tagliato ogni braccio vaccinato. Erano là, in un mucchio: un mucchio di piccole braccia.”
A quel punto non vedevo più Willard, o il palazzo, o la giungla vedevo solo l’orrore: l’orrore puro. E le parole mi vennero meno: “E… e mi ricordo che… ho… ho… ho pianto… pianto…  come… come… come una madre. Volevo strapparmi i denti di bocca: non sapevo più che volevo fare. E voglio ricordarlo, non voglio mai dimenticarlo. Non voglio mai dimenticarlo.” Gli spiegai come fu proprio in quel momento che raggiunsi l’illuminazione “Poi mi sono resi conto come fossi stato colpito… colpito da un diamante: una pallottola di diamante in piena fronte. E pensai: ‘Mio Dio! Che genio! Che genio c’è in questo. Che volontà per far questo! Perfetto, genuino, completo, cristallino. Puro!” E così mi resi conto che loro erano più forti di noi. Perché loro la sopportavano. Questi non erano mostri: erano uomini, q che combattevano con il cuore, che avevano famiglia, che fanno figli, che sono pieni d’amore. Ma che avevano la forza… la forza di far questo. Se io avessi dieci divisioni di questi uomini i nostri problemi qui si risolverebbero molto rapidamente. Bisogna avere uomini con un senso morale e che allo stesso tempo siano capaci di utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passione, senza… discernimento! Senza discernimento. Perché è il voler giudicare che ci sconfigge.”
Mi persi per un momento con lo sguardo nel volto di Willard e come lui nella notte ricordò suo padre, io in quel momento ricordai mio figlio: “Mi preoccupa che mio figlio possa non capire ciò che ho cercato di essere. E se dovessi essere ucciso, Willard, vorrei che qualcuno andasse a casa mia e dicesse a mio figlio… tutto. Tutto quello che ho fatto, tutto quello che ha visto. Perché non c’è niente che io detesti di più del fetore delle menzogne. E se lei mi capisce, Willard, lei farà questo per me.”
Tutto era compiuto.

Sapevo che lui avrebbe compreso il mio messaggio e raccolto la mia eredità. Anche se la sua coscienza ancora rifiutava di accettarlo, sapevo che avrebbe agito di puro istinto ed avrebbe portato a termine la sua missione. 
Poco dopo lo osservai avviarsi lungo un sentiero che lui pensava fosse celato alla vista e dirigersi verso il fiume. Il genio potente che domina queste terre aveva sottomesso il mio predecessore Cao Bien, e presto avrebbe sottomesso anche me.
Non mi restava che attendere.
 
The killer awoke before dawn, he put his boots on
 

Sulla barca trovai ad attendere quello che rimaneva del cadavere di Chef, e quel buffo cucciolo che Lance aveva recuperato dal cesto della vietnamita.
In nostra assenza il piccoletto aveva scovato le nostre razioni e ne aveva fatto incetta. Lo trovai che dormiva tranquillo, rannicchiato al calduccio su una cuccetta.
Per un momento, invidiai la sua innocenza.
Onnipotente continuava ad inviare trasmissioni ma io avevo altro a cui pensare. Rimasi disteso nella penombra osservando un coltello, la lama splendeva alla luce della luna come la pallottola di diamante che aveva trafitto la fronte di Kurtz.
Mi avrebbero promosso maggiore per questo, e non ero neanche più nel loro esercito del cazzo.
Tutti volevano che lo facessi: lui più di ogni altro.
Sentivo che lui era lassù, in attesa che io lo liberassi dal dolore. Voleva solo morire da soldato: in piedi. Non come un povero rinnegato, perso e stracciaculo.
Persino la giungla lo voleva morto. E comunque da essa, in verità, lui prendeva gli ordini.
 
He took a face from the ancient gallery
And he walked on down the hall

Mi coprii il volto con il fango del fiume ed emersi lentamente sulla riva.
Si era scatenato un temporale e gli adepti di Kurtz si erano scatenati in un qualche rito sacrificale: nessuno mi avrebbe visto arrivare.
Strisciai in silenzio lungo i corridoi, uccidendo le guardie che lo proteggevano, badando a non farmi scorgere da nessuno.
Nessun altro avrebbe capito.
And he came to a door...and he looked inside
"Father?"
 "Yes, son."
"I want to kill you."

Kurtz era lì, chino su una trasmittente, intento ad urlare il suo ultimo disperato richiamo: “Addestriamo i nostri ragazzi a scaricare napalm sulla gente ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere ‘cazzo’ sulle pareti del loro aereo perché è osceno!”
Si voltò verso di me, ed io lo colpii.
 

 

Mentre attendevo l’arrivo del mio erede, rilessi la leggenda di Cao Bien, concentrandomi in particolare sul suo finale: “Quel giorno, guardando dal lato sud-est della città di La Thahn, Cao Bien scorse, emergente dalle acque del fiume Lo, un personaggio circondato da un’aureola splendente, che dominava con la sua gigantesca statura i flutti sconvolti. Cao Bien non osò ricorrere ai suoi poteri di stregone per scacciare l’apparizione. Quella notte, in sogno il personaggio gli apparve dicendo: “Io sono il genio di questa terra, cercherai invano di scacciarmi.”
All’indomani Cao Bien innalzò gli altari e pregò per tre giorni di seguito, per cercare di esorcizzare l’apparizione; ma un uragano si scatenò e polverizzò gli altari. Cao Bien sospirò: “Questa terra appartiene a un genio potente, non mi riuscirà di restarci per molto tempo.”

E quella era la sera perfetta: una tempesta sconvolgeva il firmamento ed il rito sacrificale sarebbe stato celebrato invano.
Ebbi appena il tempo di terminare le ultime disposizioni che Willard apparve, circondato da un’aura luminosa e con il volto nero del greto del fiume.
Tutto si compiva secondo la profezia.

Non tentai di difendermi ma non mi sarei arreso senza lottare.
Fuggii per la stanza, mentre lui imperterrito continuava a colpirmi. Finché non crollai a terra.
L’orrore.
L’orrore.
 

Mi accasciai a terra, sopraffatto dall’orrore per quanto avevo appena fatto.
Ero stravolto dalla sofferenza e dal senso di colpa: Kurtz non mi aveva mai fatto del male e non aveva fatto nulla per meritare di essere ucciso a tradimento dall’uomo che aveva accudito e curato.
Mi presi il volto tra le mani, tentando di reprimere le lacrime. Non sapevo più che fare.
Come inebetito mi risollevai e presi a vagare per quell’alcova maledetta.
Trovai un manoscritto che Kurtz aveva battuto a macchina. Su una facciata, in matita rossa, aveva scritto: “Gettate la bomba! Sterminateli tutti!”
Non sapevo più che fare.
Invocare l’Onnipotente e massacrare un qualche centinaio d’innocenti?
O tornare a Saigon e riferire che la mia missione era compiuta?

Qualcuno doveva aver dato l’allarme, perché quando uscii dal palazzo trovai gli adepti che mi fissavano attoniti.
Davvero non sapevo come avrebbero reagito, ma se avessero voluto linciarmi che facessero pure!
A quel punto non me ne sarebbe importato nulla.

Invece s’inginocchiarono, riconoscendomi come l’erede del loro Re-Sacerdote. Io però non ero Kurtz, e non sapevo che farmene di tanta venerazione.
Scesi le scale e gettai il machete. La folla si aprì al mio passaggio come le acque del Mar Rosso, e tutti deposero le armi ai miei piedi.
Tra i tanti volti sconcertati riconobbi quello di Lance e lo presi per mano, accompagnandolo come avrei fatto con un bambino, con un fratello piccolo.
Lui mi seguì docilmente, senza fare storie. Proprio come un bambino piccolo si affida al più grande.
L’Onnipotente continuava a trasmettere, ma io lo misi a tacere.
Non volevo sentire o vedere nulla: pensavo solo all’orrore.
L’orrore.
 


Il fiume torbido scorreva intorno al nostro natante, trasportandoci sempre più lontano dal covo di Kurtz e dai riti orgiastici che i sui adepti non avevano cessato di celebrare.
Mi chiesi, per un breve momento che cosa ne sarebbe stato di lui. Che avrebbero fatto del suo corpo?
Lo avrebbero dato alle fiamme, celebrando la sua dipartita con danze e sacrifici?
O lo avrebbero seppellito in una fossa, restituendolo alla giungla a cui apparteneva?

La giungla.
Per un istante mi pentii di non aver attivato l'Onnipotente. Di non aver a disposizione centinaia, migliaia di Onnipotenti, per dare alle fiamme quella maledetta giungla e gli orrori che conteneva.
Ma poi mi cadde lo sguardo su Lance che, ignaro di tutto, giocava con il suo cucciolo e lo vezzeggiava, lasciandosi addirittura mordere il naso.
Allora ricordai la cura che Kurtz aveva avuto per me: mi aveva asciugato il sudore dalla fronte, mi aveva dissetato e imboccato. Mi aveva dato tutto quello che aveva e io, in cambio, lo avevo morso.
Fu allora che capii.

Kurtz era morto perché voleva morire. Quando mi ero avventato su di lui non aveva tentato di difendersi né di fuggire. Eppure sarebbe bastato un suo grido perché i ribelli mi agguantassero e mi sgozzassero come il bue nella radura. E invece non aveva fatto nulla, se non consegnarmi quelle ultime parole: "L'orrore... l'orrore..." Il suo testamento.
Ricordai i giorni precedenti quando, debole e febbricitante, avevo ascoltato i suoi discorsi sul sacrificio ed il capro espiatorio.
Lui era stato il mio capro espiatorio. Lui, il Re-Sacerdote figlio della giungla, aveva accettato che mi rivoltassi contro di lui e lo tradissi. Aveva lasciato che lo abbandonassi e lo uccidersi.
Solo per liberarmi dal fantasma della giungla.
Ed in quel momento, alla guida di quell'imbarcazione disgraziata, con lo sguardo fisso verso l'orizzonte, mi sentii lucido come non lo ero stato da mesi.
Quel peso e quell'angoscia che mi avevano tormentato dal mio arrivo in Vietnam erano scomparsi.
Kurtz era morto e aveva portato la giungla con sé. A me non restava che tornare a Saigon.
Cazzo, ancora Saigon.
 
 
It hurts to set you free
But you’ll never follow me

The end of laughter and soft lies
The end of nights we tried to die

This is the end

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