Fratelli

di NeveDelicata
(/viewuser.php?uid=1133859)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fratelli ***
Capitolo 2: *** parte II ***
Capitolo 3: *** parte III ***



Capitolo 1
*** Fratelli ***


Questi personaggi non mi appartengono, sono di proprietà di Mann Yzawa. Questa storia è stata scritta senza fini di lucro.


La corsa campestre dei cavalli stava sollevando un polverone nelle vie di Londra, ma la cosa più fastidiosa era che la lunga fila di cavalli al galoppo aveva fatto la sua irruenta quanto sconsiderata comparsa anche tra le vie signorili; destando non poco scompiglio nonché indignazione, per il fatto che una simile dimostrazione fosse stata autorizzata, quanto permessa, in zone altolocate.
Per più di un lord si sarebbe dovuta correre esclusivamente nella città bassa, ovvero la zona popolare, dove i nobili avrebbero potuto se di loro gradimento andarla a vedere senza incorrere nel disagio di modificare i propri tragitti nonché interrompere le proprie passeggiate; avendo una intollerabile limitazione nei propri spostamenti.
Se Irwin Dangering aveva precisato il suo fastidio per quell’evento, durante la discussione con suo padre, il duca, avvenuta quella mattina, s’era come tanti trovato impreparato a quel putiferio di polvere che gli salì agli occhi sgradevole proprio sulla soglia del cancello di casa mentre s’apprestava a salire nella propria carrozza.
Andare a prendere la sorella Maria, per il bello e raffinato giovane, quel giorno sarebbe stato più che una seccatura e, sia per lui, come per il ragazzo che gli era accanto, avrebbe significato veder conciare di polvere il proprio costoso soprabito dalla mantella a campana, in maniera disdicevole.
Eppure nell’animo del ragazzo più giovane, che affiancava Irwin, quella corsa apparve come una lirica per il cuore.
Per Cain, come tutti credevano si chiamasse veramente quel ragazzo, dai bei lineamenti e lo sguardo triste e malinconico, quei cavalli che li sorpresero con il loro passaggio, fuori del cancello della sontuosa residenza dei Dangering, dove ora viveva, erano niente meno che meravigliosi.
Erano stalloni bellissimi, dal manto lucido, dalle forme aggraziate eppure muscolose; avevano tendini fluidi, che si stiravano nella corsa.
Da loro emanava libertà. Quella libertà che a Cain era negata.
Il ragazzo avrebbe voluto cavalcare con loro, galoppare veloce via da quell’incubo che lo intrappolava in una realtà fittizia e dal futuro incerto.
Restò incerto di salire in carrozza, pregando di riuscire ad ammirare il loro sfilargli davanti agli occhi nonostante la polvere che saliva dal fondo della strada.
Portatemi via con voi! avrebbe gridato il ragazzo con tutta l’anima, ma restò muto a guardarli.
Il suo cuore lacerato e privo di speranza.
Finché un nome attirò la sua attenzione.
Un nome: il suo, Quello vero.
“Arthur!” il suo nome fu chiamato; gridato chiaro e distinto, dal fondo della via. Una voce che anticipava il passaggio della più sostanziosa fiumana di stalloni, e che si librava da un cavallo più scalpitante rispetto agli altri.
La voce concitata che lo chiamava, era quella di suo fratello. Il suo amato fratello.
Abel. Colui che da sempre era stato il suo eroe e l’aveva sempre protetto dagli abbattimenti, dai traumi delle disgrazie successe alla sua famiglia; persino da un attacco di feroci lupi.
Abel. Abel. Il suo Abel.
Gli era così vicino e, lo chiamava per salvarlo. Arthur doveva solo riuscire  a dargli la mano. Correre verso di lui e lanciare la propria mano perché l’afferrasse.
I suoi occhi azzurri vedevano avvicinarsi il cavallo in corsa.
Vedevano il viso risoluto di suo fratello, dagli occhi blu come l’oceano, privo di timore nel suggerirgli di fidarsi della presa della sua mano, una volta sorpassata la carrozza, che avrebbe schermato la sua  azione.
Abel sarebbe stato pronto a trarlo in salvo.
La polvere ch’era salita agli occhi di Arthur non sarebbe stata sufficiente a intralciargli la vista, nonostante i suoi occhi lacrimavano per l’insofferenza delle ciglia. Bastava solamente afferrasse quella mano, che tuttavia sarebbe stata per pochi istanti alla sua portata. Forse già lontana per permettergli di afferrarla nella veloce corsa del purosangue.
Arthur si bloccò tra cancello e carrozza.
“Cain” si sentì richiamare. Sentì la mano di Irwin muoversi nel tentare di afferrargli la mano sinistra che teneva ancora lungo il fianco: un tentativo delicato e cordiale ma allo stesso tempo ferreo e autoritario per farlo decidere a spicciarsi nel salire in carrozza.
Arthur si voltò scosso ed impaurito verso quel giovane: i suoi occhi azzurri come il cielo fronteggiavano quelli verde scuro di Irwin che sembravano sorvolare ironici di quella ribellione.
Il ragazzo negò col volto, disprezzò il sorriso mellifluo che si celava sotto quegli occhi verde scuro, negò di voler restare come un uccellino in attesa che la gabbia rimasta aperta si chiudesse nuovamente.
Arthur negò, proprio per ricacciare indietro ogni indecisione, allontanandosi di scatto da quella mano che non voleva più sentire su di sé, da cui per forza doveva fuggire.
A costo d’essere travolto da quei cavalli in corsa avrebbe tentato di raggiungere la mano di suo fratello, lanciando se stesso, l’intero suo corpo verso di lei.
Scattò avanti a sé, come in un balzo senza ritorno. Focalizzò i suoi occhi su quella mano che ora gli era così prossima, non pensando al baratro sotto ai suoi piedi ma alla distanza che doveva colmare con un salto.
Sentì di venir stretto saldamente, come se la forza di suo fratello fosse racchiusa in quella mano, che con una forza inaudita lo traeva per portarlo a sé. Con sé.
Arthur sentì tutto il proprio corpo tremare quando strinse in vita suo fratello con entrambe le braccia. Allacciandosi a lui.
Si artigliò a lui come un naufrago ad un legno galleggiante nell’oceano. Chiuse gli occhi, temendo di aprirli, temendo fosse solo un sogno. Temendo che da sogno il suo si sarebbe tramutato in un incubo. Ma sentiva l’aria sferzargli il viso, entrare tra i risvolti della mantella, così incredibilmente piacevole. Era come se fuggisse su di una nuvola, una nuvola veloce.
Strinse gli occhi al riecheggiare vicino al suo orecchio di uno sparo a cui tuttavia non ne seguirono altri, svoltata la via.
Solo il rumore degli zoccoli, che procedevano veloci. Non una parola.
Arthur stringeva solo la vita di suo fratello, si appoggiava alla sua schiena, la testa raccolta all’altezza del suo cuore di cui sentiva l’accelerato battito.
Sentì d’un tratto una mano rassicurare le sue, che ancora incrociavano la vita di Abel. Calda, fraterna.
“Abel.” In quel nome racchiuso ogni sua parola di gratitudine, di gioia. Le lacrime che ne bagnavano involontariamente la schiena.
Solo una risposta “Sei al sicuro. Va’ tutto bene!”.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** parte II ***


 
 
 
“Dobbiamo proseguire a piedi” avvertì suo fratello Abel: parole stringate e urgenti. Un tono che chiedeva pronta ubbidienza.
Abel indirizzò verso di lui la mano destra per aiutarlo a scendere, quasi a spicciarlo perché facesse in fretta; esortandolo tuttavia con affetto e accogliendo i suoi dubbi con una voce comprensiva, “Forza”: una voce capace di sostenere.
Arthur eseguì, impacciato per via del lungo cappotto, non adatto a cavalcare ma obbligatorio nel presentarsi davanti ad altezzosi aristocratici, come aveva imparato nel breve periodo in cui era stato obbligato a fingersi tale.
Arthur si guardò attorno confuso: erano ai margini di quello che sembrava un mercato, in cui venivano accolti da rare bancarelle che via via, in lontananza, si facevano più fitte.
“Ottimo lavoro, bello!” si congratulò sorridente suo fratello al cavallo, dandogli una carezza che scompigliò la nera criniera. Lasciarono quel cavallo in un vicolo. Suo fratello non si voltò più indietro, procedendo con aria sicura, conducendo Arthur con sé: tenendogli la mano, con la stessa cura di un genitore con un figlio piccolo.
La camminata di suo fratello era veloce. Abel procedeva sicuro tra le persone del mercato, come se avesse una meta prefissata da raggiungere nel più breve tempo possibile; comprensibile dopo la loro fuga.
Arthur veniva quasi trascinato da Abel a seguirlo, ma come dargli torto. Abel doveva aver capito fosse disorientato da quel continuo svicolare, che non  dava loro neppure il tempo di sbirciare i banchi, immersi tra una moltitudine di visi e parlate. La Londra con cui Arthur sfortunatamente non aveva mai potuto scontrarsi o fortunatamente visto i tanti indigenti che si paravano davanti e ai lati di suo fratello, per chiedere loro elemosina. Arthur notò che Abel fosse cresciuto ancora: il fisico divenuto più solido, i lineamenti fattisi più decisi nella maturità acquisita. L’aspetto distinto e curato, era accentuato dal mantello di una stoffa pregevole. Abel non doveva essere benestante ma sicuramente il suo tenore di vita doveva essere di gran lunga sopra la media dei presenti.
Decisamente Abel se la sapeva cavare in ogni contesto, rifletté Arthur, che l’aveva sempre creduto.
Come un bimbo spaesato strinse la mano di Abel: non era più abituato alla confusione. Ogni sguardo lo spaventava, pure quello delle anziane donne che sembravano sbirciarli di traverso, mentre tagliavano i gambi delle verdure, contenendole nei grembiuli. Sperava di non scorgerne uno in particolare…
Tutti sembravano gridare qualcosa e magnificare qualcosa “Cipolle”, “Guanti”, “Fiammiferi”.
Il fiato di Arthur s’era accorciato. Per lui erano finite le sorridenti corse a per di fiato.  Iniziò a faticare a mantenere il passo del fratello, ma non appena la sua mano allentò la stretta, Abel con vigore la rinfrancò “Manca poco”, quasi anticipando un’infantile domanda.
Non ci fu per Arthur il tempo di scusarsi di rallentarlo, del resto Abel aveva agito per salvarlo. Continuarono mentre i resoconti della gara campestre dei cavalli si facevano più incalzanti tra i banchi. Dovevano essere passate più di due ore, ma non sembravano esserci stati strascichi imprevisti alla loro fuga: nessuno sembrava averli seguiti, nessuno sembrava precederli per ostacolarli. Che il duca Dangering potesse affidarsi unicamente ai suoi scagnozzi? Di certo non poteva sporgere denuncia alla polizia per rapimento, a meno che non ce ne fosse di corrotta. Arthur sudò freddo perché probabilmente ce n’era: non voleva farsi illusioni.
Nel mentre dei suoi pensieri, Arthur si sorprese all’arrivo davanti un edificio che dava sul mare: una costruzione in calce bianca. Pochi gradini salivano verso quelli che sembravano più uffici che appartamenti. La struttura era ben tenuta, l’uscio e il marciapiede perfettamente puliti. Una scritta “Ufficio di ingegneria navale Allen”.
“Siamo arrivati” aprì la porta suo fratello, entrando e chiudendo la porta dietro di loro. Salirono al piano superiore. Una camera accogliente apparve davanti agli occhi di Arthur.
Era curata, pulita, ordinata. Rispecchiava proprio il carattere metodico di suo fratello e soprattutto le sue passioni: su di un ampio scrittoio carte nautiche e disegni di navi saltarono subito agli occhi di Arthur. Un pappagallo intento a sgranocchiare biscotti da sopra una gruccia li degnò di un solo sguardo, sembrando offeso dell’intrusione nel suo regno.
“Abiteremo qui” avvertì Abel cordiale, per metterlo al corrente della nuova situazione e per metterlo soprattutto a suo agio “E’ casa tua, non farti scrupolo di chiedere qualsiasi cosa”.
“Cosaaaa” borbottò il pappagallo guardando Abel in modo truce che a sua volta lo sgridò “Non parlavo con te Deegery-doo. Cerca di non essere villano” scherzò poi con il pennuto che si girò nuovamente al proprio biscotto.
Suo fratello si tolse il mantello appendendolo ai lati della porta. Arthur rimase fermo, seguendolo con lo sguardo. Una finestra era aperta e la tenda accostata al lato. Abel liberò la tenda dal cordino di fermo per mascherare l’interno della stanza alla strada “Meglio essere prudenti” disse soltanto, provocando in Arthur non poco turbamento.
Vedendolo smarrito, per metterlo a proprio agio, Abel gli impartì cosa fare “Togli il mantello”.
Arthur annuì. Lo fece lentamente. Non realizzava ancora di essere fuggito dall’incubo in cui s’era ritrovato.
Il pappagallo si strofinò le ali e, Arthur restò incantato ad osservarlo nel suo biancore, finché suo fratello non si avvicinò e l’abbracciò cauto: in quel momento si sciolse ogni paura che albergava nel cuore di Arthur.
Abel lo strinse forte “Sei al sicuro: Ti proteggerò io!”: un calore che avvolgeva il minore in un’ala protettiva. Un abbraccio caldo e accogliente che lo fece cedere alle lacrime. Lacrime di cui non si vergognava, lacrime che volevano lavarlo, purificandolo di tutta la sporcizia che si sentiva addosso. Iniziò a singhiozzare forte, confortato da quel “E’ tutto finito” di suo fratello, che lo accarezzava amorevole come mamma Mary.
“Tu non sai…” si sfogò Arthur prima che arrivasse un groppo in gola che gli troncò la voce. Una voce che non voleva confessare ciò che era inconfessabile. Sperò che suo fratello non avesse udito quelle parole: si vergognava troppo. Forse non lo erano state, nella voce troppo rotta dai singhiozzi: quella la speranza di Arthur.
Lui piangeva e singhiozzava forte e, Abel là a sorreggerlo apparentemente senza lacrime mentre prometteva che non gli sarebbe più successo nulla e si scusava con amarezza per essersi imbarcato su due piedi, senza riflettere, preda di un egoismo che ora il fratello maggiore disprezzava. Per Arthur ora non avevano più importanza quei discorsi.
A chi importava quello che era scaturito da quell’evento?
A lui.
Un gemito convulso gli segnalò che il suo malessere interiore voleva subdolamente uscire dando spiegazioni: lui lo ricacciò nell’intimo.
Abel lo accompagnò a sedere sul letto, anzi lo invitò a stendersi “Dovresti riposare ora”.
Arthur negò col capo “No!”, scuotendo la testa da un lato all’altro a precisare che non voleva “Se è un sogno non voglio dormire. Al mio risveglio potrebbe...”. Seguì l’eco del pappagallo che gracchiava “No! No!” e sbatteva le ali nervoso, pur non sollevandosi in aria.
Abel pur sorpreso dalla sua reazione, corrucciò la fronte ma non osteggiò le sue mani che tentavano di tenerlo a distanza. Cautamente il maggiore ammise “Come vuoi. Faremo come vuoi” e, con le mani lo invitò a sedersi su un piccolo divano, accompagnando quel consiglio ad una voce mite “Prendi posto e rilassati. Non insisto ma per lo meno siedi”. La voce di Abel era così calda che Arthur si rilassò e ubbidì.
“Forse…”, aveva ragione Abel ma lui non l’avrebbe ammesso; la sua era stata una continua ribellione a ordini e prepotenze in quei mesi ed ora sentiva di non riuscire a fare altro che ribellarsi. La sua testa scoppiava nel pensare a ciò che aveva vissuto.
“Faccio un tè ” disse cordiale suo fratello, stupendosi dell’essere aggredito da un nuovo ferreo e quasi collerico “No. Non lo voglio”.
Arthur sentì il cuore pompare in petto, così accelerato da togliergli il fiato. Gli faceva male il volto di suo fratello che non capiva il suo stato e il suo rifiuto di una premura che sembrava ordinaria. Abel era spiazzato dalle sue reazioni. Tutto sembrava un’esagerazione per Arthur e suo fratello non se ne capacitava. Pure il pappagallo sembrava più equilibrato di lui, rifletté con se stesso Arthur.
Abel andò a sedersi sul letto, tenendosi a distanza, lasciandogli spazio fisico; Arthur del resto quando lo vide seduto si fiondò all’angolo opposto della stanza, prima rasentando il muro per coprire le spalle, scendendo poi a sedersi, rannicchiato a terra, stringendo con le mani le ginocchia: solo poche parole  “Lasciami qui”. Poggiò la guancia sulle ginocchia, il volto obliquo che con occhi guardinghi fissava il volto di Abel, cercando di anticiparne una reazione.
A suo fratello Abel sfuggì un sospiro, distolse lo sguardo da lui girandolo alla finestra. Abel non disse nulla e lui chiuse gli occhi. Li chiuse perché era stanco. Sentiva la tensione alle spalle sciogliersi; gli occhi volevano restare chiusi. Riprese veloce coscienza, disprezzandosi di essere rimasto vulnerabile. Un rumore di metallo infastidì le sue orecchie: un tintinnio, un cozzare di qualcosa di metallico su altro metallo.
Arthur si destò di scatto, alzando il capo, ma una calda coperta lo avvolgeva morbida e quel rumore apparve per quello che realmente era: inoffensivo.
“Spero di non farti rimpiangere lo stufato della mamma” ammise suo fratello che davanti alla piccola stufa armeggiava su una pentola borbottante.
Gli occhi di Arthur si fecero immensi: non aveva sognato! “Ma allora è tutto vero! Abel sei tu!”. Si alzò energico raggiungendolo, con la mano lo strinse al braccio come per sincerarsi fosse reale e non una beffarda illusione.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** parte III ***


 
Forse fu l’alzarsi di scatto o l’imprimere forza sul braccio del fratello, concentrando le poche forze che il sonno non gli aveva restituito, che gli fece vedere nero. Per un istante tutto sembrò svanire proprio come in un incubo.
Sentì le spalle sciogliersi e si trovò a cadere come un sacco che s’afflosciava su se stesso.
Un fastidioso sferragliare gli arrivò distinto quanto fastidioso alle orecchie: la pentola finita a terra, gli schizzi, il calore del vapore che saliva dalla carne sparsa sul pavimento.
“Mi dispiace” tentò di dire con voce fievole, sentendosi in colpa.
Suo fratello non aveva per un solo istante pensato al tegame che aveva in mano, pronto invece a sorreggerlo. Arthur si sentì trasportare e distendere con attenzione sul divano.
La testa dolcemente accompagnata, la guancia guidata a lato sul tessuto che, tutt’altro che pregiato, nel calore familiare di suo fratello sembrava il posto più sicuro e confortevole del mondo.
L’aria sapeva di casa e a lui bastava.
Bastava per stare bene, nonostante tutto. Respirava piano, gli mancava un po’ l’aria, ma la presenza di Abel lo ristorava.
Sapeva il proprio volto fosse spento, ma poteva permettersi di pensare solo a se stesso e non a proteggersi, senza temere nulla oltre il malessere che lo attanagliava.
Sentiva il tocco di suo fratello ai capelli; leggera la voce spaesata “Cosa ti succede?”, poi l’arrivare a ipotizzare un aiuto, com’era tipico di Abel “Sei stanco… Ho richiesto troppo alle tue forze.” si colpevolizzava.
Arthur gli strinse la mano a rassicurarlo “Se ora sono qui, lo devo a te.” ammise senza incertezza, anche se il suo tono era basso, quasi bisbigliante.
Abel raccolse la sua mano e la strinse: la sua forza era decisa, ma delicata.
Tutto sembrava troppo bello per essere vero: fuggito da un incubo come non avrebbe mai creduto fosse possibile. Ed era solo grazie ad Abel, alla sua determinazione e perché no, anche alla sua avventatezza, perché si sarebbe potuto cacciare davvero in un grosso guaio.
“Riposa e non pensare a nient’altro!” suggerì Abel, come se il resto potesse attendere. Lo disse serio, ma poi gli apparve sulle labbra un sorriso screanzato “Salvo alla cena!” che rovesciata a terra era tutta da rifare.
Vide Abel drizzarsi sulla schiena e quasi stirare le membra per darsi nuovo vigore, mentre ondulava il capo facendo danzare i capelli quasi fosse sotto la pioggia e volesse scrollarsi l’acqua di dosso.
Lui restò incantato a guardarlo. La stessa devozione che si rivolge ad un eroe. Una devozione che facendolo concentrare e distogliere dal torpore che l’aveva avvolto, gli aveva dato una scrollata, una nuova linfa vitale, che gli imponeva di reagire e non lasciarsi andare e, seguire quell’esempio.
“Per prima cosa, sistemiamo questo disastro!” lo sentì imporsi e valutare da che parte cominciare, con lo stesso cipiglio con cui probabilmente iniziava la progettazione di un disegno navale. Abel allargò le braccia, come se fosse stato per la prima volta in vita sua preso alla sprovvista.
Il pappagallo approfittò di quello stallo per fiondarsi a terra dando il via ad una scena quasi comica. Abel iniziò a scacciarlo, allarmato sparpagliasse in giro il sugo rappreso, balzando sulle punte per acciuffare il volatile e al contempo evitare lui stesso di finirci sopra.
Arthur sorrise e si coricò disteso concedendosi per la prima volta un’espressione serena, tanto da far suggerire ad Abel di fare il gesto del silenzio al pappagallo che svolazzò sul pomolo della spalliera della sedia quietandosi, iniziando una toeletta al piumaggio.
Si rilassò per riposarsi un altro po’ e stava per riuscirci se non ché un bussare screanzato gli sconquassò le orecchie al grido di “Fratello apri! Sono io!”.
Io chi? Fratello? si chiese di colpo Arthur per quella voce che senz’altro apparteneva ad una bambina nel suo timbro vivace.
La sentì armeggiare sulla maniglia, indispettita non si aprisse “Ma hai chiuso a chiave?” mentre dava calcetti pungolanti alla porta come ci tenesse a chiarire si sentisse offesa.
“Joy… ci mancavi solo tu a creare confusione!” ammise con un espressione tra l’affranto e lo spazientito Abel, assediato dai troppi problemi stringenti: le mani alzate ad aggredire l’aria,  mentre precisava “Ora apro! Apro, ma non scardinarmi la porta!”.
Quella che era una bambina, bassetta e magrolina, gonna lunga e lanoso scialle sulle spalle, si fiondò dentro la stanza con la stessa furia di un calesse impazzito “Non sai che spavento! Trovare la porta chiusa a chiave…” precisò il proprio timore portandosi una mano sul cuore.
“Mi sono detta che te n’eri andato…” la vide girare a vuoto nella stanza, lo sguardo ai piedi riflessiva. “Ma poi mi sono ricreduta.” la sentì precisare mentre raccoglieva più aria possibile in un lungo respiro. “Senza salutare?” continuò il suo piagnucolio.
“Così ho bussato più forte!” si giustificò, mentre Abel faceva una smorfia di disappunto ironizzando “Bussato”.
Lei aggredì Abel con una linguaccia fino alla punta del mento, continuando a ciondolare in cerchio forse con l’obbiettivo di far venire il mal di testa ai presenti.
“Sai il signor Allen, poveretto… ci sarebbe rimasto male…” le si incupì il viso, tornato subito solare al pensiero “perciò non lo faresti mai?”.
Ancora preda dei propri pensieri, la bambina mano al mento riflessiva, ammise quanto un poliziotto in piena indagine “Non senza ritrovare tuo fratello…” e nel farlo si guardò finalmente attorno.
Arthur per non spaventarla si portò seduto, mentre lei diceva “Ah, mai l’hai trovato…” la voce che si abbassava sempre più di un tono.
Al suo timido inclinare la testa nel dirle “Ciao”, lei urlò “L’hai trovato!” ammutolita da Abel che le aveva tappato la bocca prima che tutta Londra ne venisse a conoscenza.
“Joy! Insomma.” l’ammonì Abel e la fermò con le mani sulla testa come fosse una trottola da immobilizzare di corsa in un punto “Stai ferma un attimo!” le consigliò gentile “E zitta soprattutto.” lo sentì ridere vivace.
Una risata contagiosa che fece ridere anche lui. Da quanto tempo non rideva così.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3892181