Herz aus Stahl

di Saelde_und_Ehre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ~ Blitzkrieg ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ~ Feuer Frei! ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ~ Nach Drill und Dreck, gibt's Erbsen mit Speck ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ~ Alte Kameraden auf dem Marsch durch's Land ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ~ Die Wilde Jagd ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ~ Dort, wo die Sterne stehn am Waldesrand, es blüht die neue Zeit ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ~ Mit unserer Fahne ist der Sieg (parte prima) ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ~ Nur wer die Sehnsucht kennt, weiß, was ich leide. (parte seconda) ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ~ Wir wollen keine Pause, wir wollen noch am Ziel ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ~ Zum Nahkampf vom Schicksal erkoren (parte prima) ***
Capitolo 11: *** Capitolo IX ~ Zum Nahkampf vom Schicksal erkoren (parte seconda) ***
Capitolo 12: *** Capitolo X ~ Der Kampf geht weiter in diesem Krieg... ***
Capitolo 13: *** Capitolo XI ~ Der Preußische Ritter ***
Capitolo 14: *** Capitolo XII ~ Die Würfel sind gefallen ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIII ~ Noch so ein Sieg, und wir sind verloren. ***
Capitolo 16: *** Capitolo XIV ~ Denn die Sehnsucht nach Dir hält mich gefangen... (parte prima) ***
Capitolo 17: *** Capitolo XIV ~ ... bis Du mich aus meiner Sehnsucht erlöst (parte seconda) ***
Capitolo 18: *** Capitolo XV ~ Der Mann aus Eisen ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVI ~ Wenn alle untreu werden... ***
Capitolo 20: *** Capitolo XVII ~ ... so bleiben wir doch treu ***
Capitolo 21: *** Capitolo XVIII ~ Treu wie die deutschen Eichen, wie Mond und Sonnenschein ***
Capitolo 22: *** Capitolo XIX ~ Der gute Kamerad ***
Capitolo 23: *** Capitolo XX ~ Offenbarung ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXI ~ Das Opfer, das die Liebe bringt, es ist das teuerste von allen (prima parte) ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXI ~ Doch wer sein Eigenstes bezwingt, dem ist das schönste Los gefallen. (seconda parte) ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXII ~ Meine Ehre heißt Treue ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXIII ~ Der dem Tod ins Angesicht schauen kann, der Soldat allein ist der freie Mann ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXIV ~ Die Kapitulation ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXV ~ Aus dem stillen Raume, aus der Erde Grund, hebt mich wie im Traume dein verliebter Mund. ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXVI ~ Kameraden auf Leben und Tod ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ~ Blitzkrieg ***


PREMESSA

Era da tanto tempo che volevo scrivere qualcosa su questo periodo storico, che come tutti i periodi della Storia non è da vedersi come un blocco megalitico, bensì come un caleidoscopio in cui si alternano luci e ombre.
Tuttavia, più che come un romanzo storico tout-court (personaggi e vicende sono frutto della mia fantasia, pur essendo inseriti in un contesto storico immediatamente riconoscibile), vorrei che consideraste questa storia come un tributo a tre delle mie più grandi passioni: la storia militare, la cultura germanica e l’amore eroico di tradizione classica, basato sull’immortale connubio tra Eros e Thanatos.

 
Questa storia è, come credo sia chiaro dall'introduzione, raccontata dal punto di vista di un gruppo di soldati e ufficiali tedeschi al fronte.
Siccome il tema è stato trattato svariate volte, e sempre in un'ottica di denuncia, stavolta ho voluto stravolgere le prospettive e analizzare il fenomeno attraverso gli occhi di chi invece ci credeva, tralasciando proclami politicizzati e propaganda di vario genere.
Chiaramente non sarà questo il tema principale della storia, né il "messaggio" che intendo veicolare attraverso le righe: qualsiasi presa di posizione da parte dell'autrice è totalmente assente dalla narrazione, né credo debba essere oggetto di discussione in questa sede.
Questa è solo una storia di guerra come tante altre e spero che vediate l'umanità dei personaggi senza soffermarvi sulle uniformi che indossano.
Se però queste tematiche proprio vi disturbano, se non riuscite ad approcciarvi a cuor leggero alla lettura, fermatevi pure qui.
Se invece, date le premesse, avete comunque deciso di continuare, buona lettura.

Ringrazio fin da subito chiunque avrà voglia di seguirmi in questa nuova avventura.
 
***
 

So silent before the storm 
Awaiting command 
few has been chosen to stand 
As one outnumbered by far 
The orders from high command
Fight back, hold your ground!

In early September it came 
war unknown to the world 
No warning they entered that land 
That is protected by Polish hand 
Unless you are forty to one 
Your force will soon be undone

Sabaton - 40:1


 

I.
Blitzkrieg


 

Una striscia infuocata lambì la linea dell’orizzonte, incontrando il cobalto del cielo e infiammando le nuvole basse, mentre una densa cortina di polvere accompagnava la ritirata delle forze polacche.
“Torneranno, signori, torneranno”, borbottò il maresciallo Walther Eichmann dalla propria postazione, l’onnipresente binocolo che gli pendeva dal collo.
Il caporal maggiore Schneider si portò una sigaretta alle labbra e la accese, senza far caso alle occhiate torve dei serventi dell’obice da 105. “Domani è un altro giorno”, proclamò, soffiando assorto una boccata di fumo.
Eichmann non replicò. Si sistemò gli occhiali sul naso, si sporse al di là della barriera di sacchi imbottiti e puntò il binocolo verso la macchia di alberi sparuti oltre la quale si era rifugiata la fanteria polacca. “Scommetto che sono andati a cercare rinforzi da qualche parte, signori. Ci piomberanno alle spalle quando meno ce lo aspettiamo.”
“Stanno ripiegando verso Lodz, in attesa dell’intervento di Francia e Inghilterra”, disse con calma il capitano Fromm, intromettendosi nella conversazione, “non riescono più a contenere gli attacchi congiunti della fanteria, delle divisioni corazzate e della Luftwaffe.” Levò uno sguardo verso il cielo che imbruniva e alzò la voce per farsi sentire da tutti i presenti: “Possiamo iniziare a sgomberare il campo, dopodiché ci avvieremo verso i baraccamenti. Eichmann, Grünewald, Böhmer, a voi il compito di supervisionare le operazioni. I comandanti di plotone a rapporto da me entro cinque minuti.”
A quelle parole, il tenente Friedrich von Kleist si risollevò dalla scomoda posizione in cui era rimasto costretto per ore, vicino alla mitragliatrice pesante MG 08, e si ripulì i pantaloni sporchi di terra e fili d’erba. Settembre era appena iniziato, e con esso la guerra, ma il caldo di fine estate non accennava a diminuire. Fece scorrere uno sguardo sugli uomini del suo plotone: qualcuno dei mitraglieri si era tolto la giubba dell’uniforme ed era rimasto in camicia.
Il sottotenente Kühn, l’ufficiale aggregato al suo plotone, si sganciò l’elmetto per tergersi il sudore dalla fronte e si avvicinò ai soldati per aiutarli a smontare la pesante mitragliatrice da campo.
Quel gesto spontaneo provocò un leggero sorriso a von Kleist, che ripose le munizioni nell’apposita cassetta e si rialzò in piedi per sgranchirsi le ginocchia e i gomiti, troppo a lungo tenuti puntati contro il duro suolo. Quel giorno, la compagnia di Fromm non aveva riportato significativi progressi: c’era stato qualche scontro a fuoco con la fanteria polacca, azioni di disturbo che avevano tenuto bloccati i due schieramenti sulle due sponde opposte del fiume, ma niente che potesse dirsi veramente risolutivo per l’esito dell’avanzata tedesca. In compenso, però, Friedrich aveva avvertito distintamente il suono stridulo e raccapricciante delle trombe di Gerico, mentre gli Stuka volavano a stormi compatti sulle loro teste e si gettavano in picchiata per sganciare bombe sul suolo polacco, incuranti delle difese terrestri. Quasi tutti confidavano nel fatto che la guerra lampo si sarebbe conclusa in fretta, ma il suo ottimismo si manteneva ancora cauto.

Il capitano Klaus Fromm li attendeva con le braccia incrociate sul petto e la schiena appoggiata al fianco di una Kübelwagen. Quando li vide avvicinarsi e mettersi sull’attenti, raccolse una mappa dal sedile posteriore del veicolo, la srotolò e la appoggiò sul cofano. “Allora, signori”, esordì senza mezzi termini, indicando col dito un punto contrassegnato con una X, “noi ci troviamo qui, mentre la compagnia del capitano Bentheim è attestata qui, oltre quei rilievi montuosi a ridosso del bosco. I polacchi che abbiamo respinto si sono diretti verso nord-est, oltre il fiume, e ho buone ragioni per credere che abbiano deciso di abbandonare quest’area.”
“Abbandonare quest’area,” ripeté il tenente Wessel, pensoso, “per consegnarla nelle nostre mani dopo nemmeno due giorni? I polacchi ci odiano a morte, signore, non credo che basti una scaramuccia di poco conto per indurli alla resa.”
“Non una resa, Wessel, ma una ritirata strategica. Non abbiamo ancora incontrato il nerbo dell’esercito.”
L’altro annuì, fece un passo avanti e si chinò a sua volta sulla mappa, per poi alzare lo sguardo sul comandante della compagnia. “Il resto della Ostpreußen dove si trova, signor capitano?”
“Sono già in cammino per raggiungere la decima armata, cosa che avremmo dovuto fare anche noi prima che cause di forza maggiore ci trattenessero qui.”
“Quali sono, dunque, i piani per i prossimi giorni?” s’informò il tenente Körner, passandosi nervosamente le dita tra i corti riccioli castani.
“Fino a nuovo ordine, ci atterremo alle disposizioni del maggiore Bühler. Stasera incontreremo il capitano Bentheim e domattina ci metteremo in marcia. Ci ricongiungeremo col resto della divisione qui,” – indicò un punto sulla mappa, tracciandovi un segno deciso con la stilografica che aveva tratto dal taschino – “e proseguiremo lungo il corso del fiume Warta. Qui, se tutto va bene, incontreremo parte della decima armata e il generale von Salza, per procedere con le manovre di accerchiamento.” Mentre parlava, osservò ad uno ad uno i suoi quattro sottoposti: Wessel ancora chino a studiare la mappa, Körner, il giovane Hartmann rigido e impettito sull’attenti, e von Kleist che si limitò a ricambiare il suo sguardo. “Tutto chiaro, signori?”
“Sissignore,” rispose Wessel, seguito a ruota da Hartmann e Körner.
Von Kleist rimase a fissare la mappa per un istante inquantificabile, poi rispose con un secco cenno d’assenso. “Tutto chiaro, signor capitano.”

Quando finalmente abbandonarono il campo di battaglia per dirigersi ai baraccamenti, del Sole non restava altro che una vaga striscia di luce. I soldati marciavano allineati coi fucili in spalla, canticchiando Erika a gran voce.
Solo il tenente von Kleist, in testa al suo plotone, rimase in silenzio, perso nelle sue meditazioni.
“Il capitano ha detto che domani ci mettiamo in cammino per ricongiungerci con l’uomo di ferro e col resto del battaglione”, bisbigliò il caporal maggiore Schneider, rivolto al sergente Hoffmann.
Nell’udir nominare quell’epiteto, Friedrich drizzò le orecchie e si mise in ascolto, cercando di non farsi notare.
Hoffmann emise un fischio. “Se l’uomo di ferro ti becca un’altra volta a fumare vicino alle bocche da fuoco…”
“Già,” borbottò il graduato, portando una mano alla tasca in cui teneva il pacchetto delle sue sigarette, “ma io se non fumo divento nervoso, e poi chi lo sopporta lui che sbraita.”
Il sottufficiale gli batté una manata sulla spalla. “Basta che non lo fai incazzare e lui sta zitto.”
Schneider imprecò qualcosa tra i denti e si fece scivolare il fucile sull’altra spalla, ma trovò più saggio non dargli ulteriore corda, e dopo averlo superato di qualche passo si accese l’ennesima sigaretta.
“Se non ci fosse lui, signori…” sentenziò Eichmann, dopo qualche istante, “Bühler è giovane ma sa il fatto suo. Vorrei vedere voi, diventare maggiore a nemmeno trent’anni, prendere cento fucilieri e sfondare i fianchi della cavalleria polacca…”
Friedrich von Kleist dovette trattenersi dal lanciare di sottecchi un’occhiata torva al vecchio maresciallo. Com’è che quel vecchio gufo sa sempre tutto prima di me?
Si voltò verso il sottotenente Kühn, quasi come se si aspettasse una spiegazione che conosceva già. Nonostante avesse solo diciannove anni, il giovane lo superava in altezza di almeno un palmo e aveva una costituzione di gran lunga più robusta e poderosa; i suoi capelli color grano, scompigliati dall’elmetto, gli incorniciavano il volto annerito dal fumo. “Ne sa sempre una più di tutti gli altri”, rispose il ragazzo, stringendosi nelle ampie spalle.
Il tenente annuì; ormai era abituato ad apprendere dalle allusioni del maresciallo notizie che sarebbero dovute pervenire prima agli ufficiali. A proprie spese aveva appreso che Walther Eichmann era occhi e orecchie del plotone: era sconvolgente quante informazioni potessero captare quelle sue orecchie sporgenti, quante cose potessero vedere quei suoi acuti occhietti scuri. Ogni tanto, si faceva strada in lui il timore che neanche il suo segreto fosse al sicuro, nonostante tutto l’impegno che ci metteva per non lasciar trapelare nulla. Gli altri ufficiali lo bollavano come un lupo solitario, un tipo ombroso e poco incline a stare in compagnia, ma von Kleist era sempre stato orgoglioso della propria riservatezza – che, tra l’altro, spesso si era rivelata un’alleata preziosa.
Con una scrollata di spalle, riprese a camminare guardando dritto di fronte a sé, oltre i fitti alberi che si protendevano verso il cielo come una corona nero pece.
Le note allegre di Westerwald scandivano il ritmo della marcia, accompagnate dal chiurlare degli uccelli notturni, dallo scalpiccio degli stivali militari e dai sommessi fruscii del bosco.
Friedrich non poté fare a meno di sorridere tra sé e sé, a sua volta rinfrancato dal buonumore dei suoi soldati.

La colonna di fanti varcò l’ingresso dell’accampamento intonando Schwarzbraun ist die Haselnuss; i feriti bisognosi di assistenza furono subito smistati nella tenda adibita a infermeria, gli altri si avviarono verso la mensa per ricevere il rancio.
Solo il tenente von Kleist, anche dopo che il suo comandante lo ebbe congedato, si trattenne sul piazzale e si accostò alla barricata che delimitava il perimetro del campo. Le bandiere di guerra del Reich in rosso, bianco e nero ondeggiavano dolcemente sui pennoni, gli stendardi della Divisione pendevano dalle aste: in campo bianco, la croce del Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici sormontata da un’aquila nera che tra gli artigli stringeva una svastica.
Dalla sommità della spianata su cui avevano montato le tende si poteva spaziare la vista per diversi chilometri: in lontananza, nella vallata tagliata dal fiume, emergevano dal buio le luci di una città e alcuni fuochi, probabilmente accampamenti militari tedeschi e polacchi; le stelle si specchiavano sul pelo dell’acqua come tanti piccoli diamanti immersi nella pece liquida. Friedrich von Kleist appoggiò entrambe le mani alla palizzata, socchiuse gli occhi e inspirò il pungente odore dei pini silvestri, lasciando che la brezza vespertina gli scompigliasse appena i capelli biondi. Mentre il pomeriggio era stato infiammato dalle tempeste d’acciaio e dall’eco delle esplosioni, adesso tutto era quiete e sussurri.
Und meine Seele spannte
weit ihre Flügel aus,
flog durch die stillen Lande
als flöge sie nach Haus…
1
Inevitabilmente, il suo pensiero tornò alla Patria che aveva lasciato, settimane addietro, per raggiungere la linea del fronte in attesa di dare il via alle ostilità. Pensò ai soldati del suo plotone che avevano dovuto lasciare mogli, figli e fidanzate in Germania, e le sue riflessioni sul Bund e tutto ciò che comportava iniziarono ad acquisire un senso ancor più profondo. Si attardò ancora un po’ a fissare i fuochi assorto, immaginando che da qualche parte ci fossero anche lui e il resto del battaglione, poi volse le spalle alla vallata e si avviò verso la mensa, pur sapendo che probabilmente il pasto sarebbe stato già freddo.

Friedrich oltrepassò le tende dei soldati con aria svagata, realizzando che la maggior parte di loro erano ancora riuniti nel tendone che fungeva da refettorio e sala comune.
Varie torce da campo, appese a un lungo filo, pendevano da un albero all’altro e spandevano per terra una luce giallastra che attirava falene e altri insetti notturni; alcuni soldati erano seduti su un cumulo di sacchi imbottiti e bevevano del vino direttamente dalla stessa bottiglia, mentre si raccontavano aneddoti riuniti intorno a un falò. Uno di loro, appena lo vide, scattò in piedi e si mise sull’attenti per salutarlo.
Il tenente lo blandì con un gesto indulgente. “Comodo, soldato. Sto cercando il capitano Bentheim, qualcuno lo ha per caso visto?”
“No, signor tenente. Ha provato in mensa?”
Egli scosse impercettibilmente il capo, ringraziò e si congedò. Si affacciò al grande tendone, dove scorse il sottotenente Kühn di spalle, in fila per ricevere il rancio, mentre il capitano Fromm, seduto a una lunga tavolata, s’intratteneva insieme a Helmut Wessel, Hermann Körner e gli altri ufficiali – ma di Bentheim nemmeno l’ombra, anche se un paio di giorni prima si era accordato con lui per consumare insieme il pasto serale non appena la loro sistemazione glielo avesse concesso.
Possibile che…? Per un istante, gli balenò per la mente il pensiero che potesse essere ferito, o che per qualche altra ragione fosse stato trattenuto in infermeria. Aggirò la tenda con la croce rossa e chiese di lui a un tenente medico che fumava un sigaro vicino all’entrata, ma questi si sistemò gli occhiali sul naso affilato, si rassettò il camice bianco e si strinse nelle spalle: “Era qui fino a mezz’ora fa, per prestare assistenza ad alcuni feriti della sua compagnia.” Sollevò le sopracciglia con aria disinteressata, l’aria di qualcuno che sta per ribadire l’ovvio. “Ha provato a cercarlo in mensa, tenente?”
“Ho già controllato, ma non c’è”, rispose von Kleist a mezza bocca, trattenendosi dall’esprimere ad alta voce i propri pensieri.
A quel punto, rifletté mentre si allontanava, l’unica possibilità era che Bentheim fosse tornato alla propria tenda per prepararsi. In quell’accampamento c’erano solo il primo battaglione e due compagnie del terzo, quindi non fu difficile districarsi tra i padiglioni per individuare il settore occupato dalla compagnia di Bentheim, proprio a ridosso della parete rocciosa che s’innalzava a precipizio per un paio di decine di metri sopra di loro, come una protezione naturale.
“Friedrich!” esclamò una voce familiare alle sue spalle.
Prima che potesse individuarlo, nel campo visivo del tenente comparve la figura di un ufficiale alto, con le spalle larghe e i capelli neri come l’ala di corvo. Sulle spalline dell’uniforme portava le mostrine di capitano e la croce di ferro simbolo della Divisione, e gli occhi di un grigio chiarissimo spiccavano sul volto pallido e sporco di fuliggine.
“Konrad, ti stavo cercando!” lo salutò von Kleist, squadrandolo da capo a piedi. “Ma che ti è successo? Sembri un minatore della Ruhr.”
Bentheim si ripulì la manica con noncuranza e volse uno sguardo al tendone della mensa. “Ti spiegherò tutto di fronte a una scodella di cibo caldo. Vado a darmi una sistemata e ti raggiungo, tu aspettami pure qui.”

“E quindi, Tiedemann è rimasto ferito nell’esplosione di una granata e tu hai dovuto sostituirlo,” ripeté von Kleist, rigirando la forchetta nella scodella.
Seduto di fronte a lui, diversi posti vacanti a separarli dagli altri ufficiali, il capitano Bentheim annuì. “Ecco perché ci ho messo tanto. Siamo arrivati prima di voi, ma lo smistamento dei feriti ci ha preso un bel po’ di tempo. Sai com’è, mi sono preso l’impegno di dirigere personalmente le operazioni…”
“È grave?”
“No, per fortuna è stato colpito solo di striscio.” Il capitano sorbì un sorso d’acqua. “Ma i medici gli hanno consigliato di stare a riposo per un paio di giorni e lontano dai campi di battaglia per almeno una settimana. Domani marcerà con noi, ma finché non sarà nuovamente in grado di combattere mi occuperò io delle sue unità.”
“Per noi è stata una giornata relativamente tranquilla. Niente di rilevante”, interloquì il tenente. “Mi pare di aver capito che per voi, invece, sia stato l’esatto contrario.”
“Sì, ma ci ha dato delle soddisfazioni. Ci siamo scontrati frontalmente con un settore di fanteria e con qualche mezzo corazzato, ma nonostante la minoranza numerica siamo riusciti ad aver ragione delle truppe polacche prima del tramonto. Poter gestire le operazioni in autonomia ha i suoi vantaggi.”
Von Kleist cercò di immaginarsi l’amico mentre si destreggiava tra le file di soldati, schivando le grandinate di piombo e i pezzi d’artiglieria vagante, con un orecchio rivolto ai portaordini e gli occhi puntati sull’obiettivo da colpire. “Sei partito con le idee molto chiare.”
“Ci mancherebbe,” rispose l’altro pacatamente, con una scrollata di spalle e un lieve sorriso.
Continuarono a mangiare in silenzio per qualche minuto, circondati dal brusio di molte voci e dal tintinnio delle posate. Inevitabilmente, la mente di Friedrich tornò alla persona che più di tutte avrebbe voluto al proprio fianco.
Certi sottufficiali dicono che anche Hans abbia avuto successo sul campo”, disse infine, in tono allusivo.
“Cinque chilometri sulla linea del fronte, in un solo giorno”, rispose Bentheim, “hanno messo in fuga un’intera ala di cavalleria e si sono scontrati con un contingente corazzato. Si avvicinano sempre di più alla decima armata e al resto della Divisione.”
Con aria assorta, von Kleist si passò una mano tra le ciocche bionde e leggermente ondulate. Da quando avevano messo piede su suolo polacco, non si erano più incontrati col loro comandante di battaglione, tuttavia quella notizia non lo stupì particolarmente: sapeva bene, forse più di chiunque altro, di che stoffa fosse fatto il maggiore Hans Bühler. “Così deve essere,” disse semplicemente, mentre le sue labbra s’incresparono in un leggero sorriso. “Siamo qui per questo.”
Il capitano Bentheim scostò da sé il piatto ormai vuoto e tacque, assorto nei suoi pensieri. Friedrich non gli disse nulla e si limitò a rivolgere la propria attenzione all’ambiente circostante: il volume del chiacchiericcio si era abbassato, e all’interno della mensa non erano rimaste che poche decine di soldati che si attardavano a conversare a piccoli gruppetti.
“È tutto così diverso dall’Accademia e dalle sessioni di addestramento, vero, Fritz?”
Alle parole dell’amico, von Kleist quasi sussultò. Si guardò ancora una volta intorno, poi alzò di nuovo gli occhi su di lui e disse: “Già. Ma credo che sia questa la vera essenza della vita da soldato… non certo i circoli esclusivi di aspiranti ufficiali, rampolli della nobiltà prussiana.”
Konrad annuì in silenzio, e Friedrich comprese che anch’egli stava ripensando alla Preußische Kriegsakademie di Potsdam dove, seppur a distanza di un paio d’anni l’uno dall’altro, entrambi avevano ricevuto la formazione come ufficiali: una poderosa costruzione di fine Settecento, dove il rigore marziale della disciplina quotidiana incontrava l’eleganza misurata dell’estetica neoclassica. Pavimenti a scacchi bianchi e neri, candide colonne marmoree e statue di eroi della mitologia adornavano i corridoi più antichi, mentre gli edifici che ospitavano gli allievi – quasi tutti provenienti dalla vecchia aristocrazia prussiana ormai in declino – rispecchiavano i canoni spartani del Nazionalsocialismo. “È così”, convenne infine il capitano. “Qui, sul campo, non contano più i titoli nobiliari, le conoscenze altolocate o i successi conseguiti in Accademia.”
“Per fortuna,” disse il tenente, a denti stretti. Friedrich Hartwig, il conte von Kleist, era molto riservato quando si trattava di parlare di sé e delle sue origini. “Non immagini l’imbarazzo quando il colonnello Wolff mi ha chiesto se ero davvero figlio di quel colonnello von Kleist…” Abbassò la voce, anche se ormai nessuno avrebbe potuto sentirlo. “E poi è venuto fuori che conosceva mio padre perché avevano combattuto insieme a Tannenberg, nel ‘14, anche se si trovavano in disaccordo quasi su tutto… le sue nostalgie monarchiche non gli hanno procurato una buona fama, a quanto pare.”
“Anche su di me girano delle… voci.” In pochi, oltre a Friedrich, sapevano che il vero nome del capitano era Konrad Wilhelm Fürst von Bentheim und Steinfurt, ed egli non aveva alcun interesse a farlo sapere in giro. “Tuttavia, credo che la cosa migliore da fare sia sorridere con indulgenza e lasciar correre: la gente spesso si immischia negli affari altrui perché non ha nient’altro d’interessante da fare, non perché gli interessi davvero.”
“E parla degli altri perché non ha nient’altro d’interessante da dire,” completò von Kleist.
“Esatto.” Bentheim fece scorrere lo sguardo attraverso la sala vuota, poi si alzò e disse: “Ma andiamo fuori a parlare, ti va? Gli inservienti ci stanno guardando male da un bel po’.”
Friedrich annuì, raccolse il berretto e seguì l’amico fuori dal tendone.

Spirava un vento leggero, che faceva tremolare i fuochi e animava la foresta di mille sussurri. Da qualche parte nel folto degli alberi, un gufo emetteva il suo cupo richiamo, e nel silenzio si poteva udire anche il placido gorgogliare di un ruscello.
Von Kleist e Bentheim rimasero per un po’ in silenzio a osservare le luci lontane, ognuno apparentemente assorto nei propri pensieri. Si conoscevano così tanto bene, e da così tanto tempo, che a Friedrich bastò uno sguardo per capire che il suo amico stava indugiando in qualche ricordo lontano.
“Mi chiedo che cosa penserebbero gli altri ufficiali, se sapessero”, disse infine Bentheim, quasi parlando tra sé.
Il tenente aprì la bocca per dire qualcosa, ma l’altro lo prevenne con un gesto di diniego: “Forse è meglio rimanere col beneficio del dubbio e concentrarci sull’obiettivo presente,” concluse, cambiando discorso. “Sai, ieri ho visto Paul von Seydlitz mentre era in ricognizione.”
“Ah, sì? E che dice?”
“Mah, non abbiamo avuto molto tempo per parlare… però propone di incontrarci per una bevuta tutti insieme, non appena ci ritroveremo operativi nella stessa zona.”
“E del maggiore von Bülow e del tenente von Falkenstein-Kurzbach, hai notizie?”
“Niente che tu già non sappia: i vari reparti della Ostpreußen sono sparpagliati nel raggio di cinquanta chilometri, e le comunicazioni per radio o staffette sono riservate alle situazioni di emergenza… è probabile che ci ricompatteremo soltanto quando raggiungeremo il generale lungo la strada per Varsavia.”
Friedrich annuì. “Mio cugino mi deve ancora la rivincita. Spero se lo ricordi.”
L’altro si voltò verso di lui, alzando un sopracciglio. “Rivincita per cosa?”
“Duello con la sciabola”, rispose il giovane, con un guizzo negli occhi. “Sarà stata anche un’occasione amichevole, ma ne va del mio onore.”
Il capitano rise, memore degli innumerevoli episodi di rivalità cavalleresca tra i due. “Se lo ricorderà sicuramente. Paul non è tipo da dimenticare certe cose.”
“Oh, se lo so. Con mio fratello ne combina di peggio, e lui gli dà pure corda. Anzi, di solito è proprio lui quello che salta fuori con le idee più strampalate. Hai presente, no?” Friedrich sorrise con indulgenza: lui, Manfred von Kleist e Paul Joseph von Seydlitz erano amici d’infanzia, cugini cresciuti quasi come tre fratelli nonostante le differenze caratteriali, e non perdevano mai occasione per sfidarsi – che fosse nelle discipline marziali, negli sport all’aperto o nei giochi di società, faceva poca differenza.
“Mesi fa mi ha raccontato che una volta avete tentato di attraversare a nuoto il lago della sua tenuta… in pieno inverno”, disse Bentheim, inarcando le sopracciglia. “E poi siete finiti entrambi a letto con la febbre.”
Von Kleist si schermì. “Fu un’idea sua… naturalmente.”
“Ma tu non rifiutasti.”
“Eravamo dei ragazzini. E nonostante si vantasse dei suoi successi nelle gare sportive, fui io il primo a giungere sull’altra sponda.”
“Nientemeno”, commentò l’altro.
Continuarono a passeggiare lungo il perimetro della palizzata discorrendo di amenità, Bentheim con le braccia intrecciate dietro la schiena e Friedrich con le mani in tasca. Di tanto in tanto, il più giovane lanciava sguardi oltre la cortina di alberi, verso i fuochi degli accampamenti lontani, curandosi di non lasciar riaffiorare la sua nostalgia e i suoi più intimi pensieri.
Si sollevò una folata di vento, che fece ondeggiare le cime degli alberi e garrire le bandiere alle loro spalle. La luna era ormai alta in cielo, e molti dei soldati si stavano avviando ai baraccamenti. Uno di loro caracollò ubriaco e inciampò nella corda di una tenda, ma due suoi commilitoni intervennero tempestivamente per impedirgli di cadere lungo disteso, ridendo e motteggiando nel loro dialetto locale.
Quasi simultaneamente, Konrad e Friedrich si volsero l’uno verso l’altro. “Che ne dici, andiamo a dormire anche noi?” propose il primo. “Durante la marcia, domani, avremo tutto il tempo per parlare.”
Il tenente rispose con un tacito cenno d’assenso, pur sapendo che avrebbe preso sonno solo dopo la mezzanotte inoltrata: nella sua tenda, avrebbe trovato un buon libro ad attenderlo, qualche ora di solitudine da dedicare alle sue riflessioni e un giaciglio su cui stendere le membra stanche.
Così si separarono, dandosi appuntamento per l’indomani.

Il maggiore Hans Bühler si lasciò alle spalle la compagnia gaudente e uscì nella placida notte d’inizio settembre. Camminò per un po’ avanti e indietro, poi appoggiò i gomiti alla staccionata e fece vagare lo sguardo attraverso il paesaggio immerso nell’oscurità. Lontano dalle luci della fattoria e dal chiacchiericcio dei soldati, l’immensa campagna appariva come un mare di alti steli che ondeggiavano al vento, lambiti appena dal chiarore della luna. In lontananza, su un’altura prospiciente il fiume, l’ufficiale intravide i fuochi di un accampamento, che – se i suoi calcoli erano giusti – ospitava il primo battaglione e le due compagnie che mancavano ancora all’appello, compreso von Kleist. Per la prima volta da quella mattina, il pensiero che presto lo avrebbe rivisto gli procurò un leggero sorriso, che però disparve quasi subito, inquinato dal ricordo della giornata campale appena trascorsa: per lui c’era ben poco da festeggiare, nonostante la vittoria sul campo.
Trasse una sigaretta dall’astuccio di metallo che portava nella tasca dell’uniforme, se la mise tra le labbra e l’accese, soffiando nervosamente il fumo dal naso.
“Signor maggiore?”
Bühler si voltò in direzione della voce, trovandosi di fronte un uomo robusto sulla trentina, coi capelli biondi cortissimi e un imponente naso aquilino. “Capitano Schwieger”, disse semplicemente, porgendogli il pacchetto come in un rituale consolidato. “Una sigaretta?”
“Volentieri, signore.”
Hans rimase in silenzio a guardare il suo subalterno che si appoggiava con la schiena alla staccionata, volgendo gli occhi al cielo scuro. Günther Schwieger, di un anno più anziano di lui, era un suo commilitone di vecchia data, e spesso si trovavano a ricercare la reciproca compagnia. In un certo senso si fidavano l’uno dell’altro, nonostante l’inconciliabilità di certe loro visioni.
“Non si unisce ai soldati, signor maggiore?” chiese l’altro, dopo un lungo silenzio.
Egli si strinse nelle spalle con indifferenza. “Lei ormai mi conosce, Schwieger: sul campo sono sempre presente per i miei soldati, ma non amo il chiasso e la vita mondana.”
Il capitano lo scrutò di sotto in su. “Se mi permette, signore, vorrei chiederle che provvedimenti ha intenzione di prendere.”
“Prego?”
“Il sottotenente Schultz,” specificò l’altro, senza preamboli.
Il maggiore si irrigidì e gettò la cicca con un gesto sdegnato, schiacciandola sotto il tallone. “Alla prossima infrazione lo mando a pulire le latrine per un mese,” ringhiò, a denti stretti. “I miei ordini erano ben precisi.”
Schwieger tacque, impressionato da quell’improvviso impeto di rabbia.
Bühler si accese un’altra sigaretta e riprese a camminare avanti e indietro, come un animale in gabbia. Cercava sempre di non farsi vedere dai suoi subalterni quando perdeva le staffe, ma quella volta mantenere un tono di voce normale gli costò una fatica sovrumana. “Dai miei ufficiali non sono disposto a tollerare un simile comportamento, capitano.” La vampata che gli era salita al volto parve acquietarsi, ed egli si appoggiò alla staccionata, ricomponendosi. “Questi ragazzotti sono stati inviati al fronte appena usciti dalla Hitlerjugend. Con che faccia tosta pretendono di poter dirigere operazioni campali? Gli avevo detto chiaramente di seguire il tenente Wagner e di non prendere per nessuna ragione iniziative personali. E invece Schultz che ha fatto? Quando Wagner è rimasto ferito, lui ha preso il comando del plotone e l’ha condotto in una zona pericolosa… che cosa si aspettava, una decorazione al valore?” Le ultime tre parole gli uscirono dalla bocca come una sfilza di dardi ghiacciati. “Non sono disposto a tollerare un’altra bravata del genere. Ha rifiutato la mia offerta d’aiuto. Ha detto che i polacchi erano meno di cento e che sarebbero stati perfettamente in grado di respingerli da soli… invece erano più di trecento, e li hanno quasi sopraffatti!”
“Probabilmente sperava di attirare la sua attenzione,” osservò Schwieger, dopo aver ponderato con cautela le sue parole. “Se ne sarà accorto anche lei, di quanto gli ufficiali più giovani si prodighino per cercare di compiacerla. Sanno che lei è giovane, che apprezza l’eroismo…”
“Questa è incoscienza, non eroismo”, ribatté il maggiore. “Ha rischiato di condurre cinquanta soldati al macello.”
Il capitano annuì in silenzio, la sigaretta tra le labbra. Soffiò l’ultimo tiro, poi gettò via il mozzicone a sua volta, scrutando il suo comandante da sotto le sopracciglia: ogni tanto la sua apparenza severa e imponente lasciava riemergere la giovane età e il peso dell’inesperienza in quel ruolo che gli era stato affidato poco prima dell’inizio della guerra, ma con altrettanta rapidità riusciva a recuperare la lucidità e il controllo delle situazioni.
Senza far caso al suo sguardo, il maggiore si passò una mano sul viso, ravviandosi all’indietro una ciocca di capelli castani. “Abbiamo sfiorato il disastro,” proferì lapidario. Ancora una volta, appoggiò entrambe le mani alla staccionata e si perse a contemplare la campagna, prestando un orecchio distratto al lontano sferragliare di un treno sulle rotaie. “Non sono disposto a passarci sopra,” decretò. Drizzò le spalle, si volse verso di lui e lo fissò dritto negli occhi. “Da domani la assegnerò alle retroguardie, affidandole il compito di sorvegliare personalmente l’operato del sottotenente Schultz.”
“Sarà fatto, signore.”
“Molto bene.” Bühler gli rivolse un leggero cenno d’approvazione. “Conterò su di lei, Schwieger.”
“Entro quanto tempo stima di ricongiungerci col resto del battaglione?”
“Massimo due giorni.”
“La vedo fiducioso.”
“Abbiamo degli ufficiali che sanno fare bene il loro lavoro.”
Per un istante, il suo pensiero tornò al tenente Friedrich von Kleist. Gli parve quasi di vederlo, di rievocare quel suo guizzo baldanzoso negli occhi color del ghiaccio: lui non aveva mai cercato di compiacerlo, non si era mai piegato a quegli squallidi trucchetti. Eppure, era stato davvero l’unico in grado di colpirlo positivamente fin da subito.
“Anche loro si metteranno in marcia domani…” concluse, incamminandosi verso la fattoria occupata dai soldati. “Sempre che non incontrino altre seccature lungo la via.”


  1. Mondnacht, Eichendorff: “E la mia anima spiegò / le ali, spiccò il volo / attraverso la landa silenziosa, / come se volasse verso casa…”↩︎

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Capitolo 2
*** Capitolo II ~ Feuer Frei! ***


II.
Feuer Frei!


“Giù!” si sentì gridare.
Il tenente von Kleist si gettò a terra fino quasi ad affondare il viso nel fango, ricaricò l’MP38 e rispose al fuoco dei fanti in avvicinamento. Subito dopo, un obice da artiglieria campale fendette l’aria greve e impattò contro il fianco del crinale, sollevando schizzi di mota e detriti. L’odore acre della polvere da sparo invadeva le narici e faceva pizzicare gli occhi, il fumo delle esplosioni aveva sollevato una caligine bollente che si andava sempre più addensando. In sottofondo qualcuno bisbigliò un’imprecazione, subito soffocata dalle rampogne del maresciallo capo Eichmann.
Friedrich si tirò su e scivolò dietro l’ostacolo naturale costituito da un tronco caduto, lasciandosi cadere il mitra sulle ginocchia. Le raffiche di proiettili erano momentaneamente cessate, e per un po’ nell’aria risuonò soltanto il rombo cupo delle detonazioni. Il giovane appoggiò la schiena al riparo improvvisato e si passò una mano sul viso: il sudore gli scendeva dalla fronte in sottili rivoli, mischiandosi alla polvere che gli imbrattava le guance. Aveva le mani solcate da graffi e i pantaloni bucati in più punti, mentre l’uniforme grigioverde era chiazzata di fango.
Sganciò la borraccia dalla cintura e trangugiò un generoso sorso d’acqua, svuotandola per metà, quindi si fece di nuovo scivolare l’arma sulla spalla, si alzò in piedi e inforcò il binocolo per avere una visione più ampia del campo. Vide Kühn accanto a una delle mitragliatrici pesanti e Hartmann che trafficava intorno all’obice da campo, forse nella speranza di scroccare un pacchetto di sigarette da Schneider; Körner si guardava intorno con l’aria di una bestia braccata e Wessel osservava la mappa insieme al capitano, le braccia incrociate dietro la schiena. Acquattati tra i ciuffi d’erba alta, soldati armati di fucile e sottufficiali che ricaricavano le mitragliatrici leggere MG 34 in attesa dell’attacco successivo.
“Obiettivo individuato, signor tenente,” annunciò Walther Eichmann, con la sua solita flemma.
“Quanti?” chiese von Kleist.
“A occhio e croce, direi due compagnie.”
“Plotone, ai propri posti!” ordinò secco il tenente, alzando la voce.
Lanciò, attraverso le lenti, un ultimo sguardo ai soldati polacchi avvolti nella caligine, poi approfittò del riparo fornito dagli alberi per strisciare di nuovo al fianco del sottotenente Kühn: di solito i comandanti di plotone e di compagnia prendevano parte alle battaglie da una posizione più riparata, ma l’orgoglio di von Kleist gli impediva di tenersi troppo a lungo lontano dalle prime linee.

L’aria, gravata dal tanfo delle deflagrazioni, era irrespirabile, e gli ordini dei comandanti di compagnia si udivano appena al di sopra del frastuono prodotto dall’artiglieria e dal crepitio delle sparatorie. La postazione del tenente Friedrich von Kleist, una misera barriera di sacchi di sabbia accatastati l’uno sull’altro, era crivellata da diversi colpi.
Il giovane si abbassò per schivare una bordata di proiettili e ricaricò per l’ennesima volta il mitra, rendendosi conto che le munizioni appese alla sua bandoliera stavano per esaurirsi. “Maledizione,” ringhiò tra sé, con voce appena udibile. Frugò nelle cassette di legno sparpagliate ai suoi piedi, nella speranza di rimediare qualche caricatore, ma fu costretto a mandare una giovane recluta a recuperarglieli.
Rimase per qualche istante a guardare il ragazzo che si allontanava trotterellando, poi sollevò la testa, schermandosi gli occhi con la mano per proteggersi dai raggi del sole che filtravano tra le foglie: l’astro diurno era già alto in cielo, ma l’orologio che portava al polso segnava a malapena le undici del mattino. Qualcosa gli suggeriva che sarebbe stata una lunga giornata.
“Ecco a lei i caricatori, signore.” La voce adolescenziale del soldato Schreiber, di nuovo di ritorno, lo riscosse dai suoi pensieri.
Von Kleist rispose con un cenno d’assenso. “Grazie, Peter, puoi lasciarle qui.”
Il ragazzo gli consegnò le cassette e rimase fermo, come in attesa di un ordine.
“Forza, va’ ad aiutare il sottotenente Kühn. Non c’è tempo da perdere!”
“Signorsì,” esclamò il più giovane, mentre un sorriso impacciato gli disegnava due fossette sulle guance; salutò militarmente e si dileguò.
Questa giornata non è ancora iniziata, altroché, pensò rassegnato l’ufficiale, ricaricando la sua arma.

“Signore, abbiamo una comunicazione urgente dal primo battaglione!” tuonò all’improvviso l’operatore radio Hofmeister.
Il capitano Bentheim, senza lasciare la sua postazione di comando, si mise in ascolto. “Mi dica, sergente.”
“Il maggiore Lützow è rimasto ferito in uno scontro a fuoco con la fanteria polacca, e richiede un urgente intervento di soccorso!”
“Un intervento di soccorso… di che entità?”
Hofmeister ripeté la domanda e rimase in attesa che gli pervenisse la risposta dall’altro capo della trasmissione. “Riferiscono che uno o due plotoni dovrebbero essere sufficienti, signor capitano,” rispose poi, abbassando le cuffie.
“Dove si trovano, precisamente?”
“Nei pressi di un villaggio a circa due chilometri da qui, signore.”
Bentheim rifletté per qualche secondo. “Resti in linea e mi lasci conferire brevemente col capitano Fromm. Dopodiché ci accorderemo sul da farsi.”
“Sissignore.”

La Kübelwagen procedeva sobbalzando sul terreno irregolare e sterrato, dove le impronte ancora fresche dei carri armati avevano lasciato profondi solchi circondati da zolle di terra. Seduto sul sedile posteriore della vettura, un braccio appoggiato al finestrino, il maggiore Hans Bühler scrutava il paesaggio verdeggiante, che pareva estendersi a perdita d’occhio in qualunque direzione egli guardasse: dolci rilievi irti di alberi rendevano frastagliata la linea dell’orizzonte, mentre le nubi incombenti nascondevano alla vista gli aerei da caccia che sorvolavano il cielo.
Dopo un po’ abbassò lo sguardo sulla cartina che teneva dispiegata di fronte a sé e confrontò il paesaggio con le linee che vi aveva tracciato in precedenza.
“Dove ci troviamo esattamente, signor maggiore?” domandò il capitano Schwieger dal sedile accanto al suo, più per un tentativo di intavolare una conversazione che per compensare una lacuna che non aveva.
Senza alzare la testa, Bühler indicò un punto col pennino della stilografica e seguì l’andamento serpeggiante dell’itinerario. Uno stormo di aerei in volo verso est passò sulle loro teste a gruppi di tre, accompagnato dal suo basso e inconfondibile ronzio. Hans riconobbe le ombre sottili e affusolate dei caccia Messerschmitt Bf 109.
“Ho ricevuto in mattinata un messaggio urgente dal colonnello Wolff,” disse poi. “Francia e Inghilterra hanno ufficialmente dichiarato guerra alla Germania.”
“Mi perdoni, signore, ma la notizia era nell’aria già da giorni: ne stavamo soltanto attendendo la conferma,” osservò Schwieger.
“E l’abbiamo ottenuta.” Hans arrotolò la cartina e la ripose nel portadocumenti che teneva assicurato alla cintura, poi tastò il portasigarette di metallo come per accertarsi che fosse ancora lì e prese a tamburellare nervosamente le dita sulla coscia: si era svegliato con uno strano presentimento, ma non riusciva ancora a capire di cosa si trattasse.
Schwieger cercò ancora una volta di intavolare con lui una conversazione, parlando del più e del meno e ponendogli domande di circostanza a cui il maggiore rispondeva con frasi brevi e tronche. “Spero che questa guerra finisca presto,” disse poi.
Hans si strinse nelle spalle, ma non replicò: se anche avesse desiderato tradurre i suoi pensieri in parole, non avrebbe potuto farlo, e in ogni caso non ne aveva mai sentito alcun bisogno.
“Quando sono partito, mia moglie mi ha lasciato queste.” Schwieger infilò una mano nel taschino dell’uniforme e ne trasse due fotografie sgualcite: una lo ritraeva con la divisa delle SA, in compagnia di una donna bionda vestita di bianco che gli teneva il braccio; l’altra era il primo piano di una bambina sui cinque anni, coi boccoli dorati e le gote paffute. “Questi siamo io e mia moglie Helga il giorno del nostro matrimonio… questa invece è mia figlia, Lotte.” Nel menzionarla, gli occhi celesti dell’uomo si accesero di entusiasmo. “Era così felice al pensiero che il suo papà avrebbe combattuto per la Patria!”
Bühler, disorientato da quell’improvviso slancio, stirò le labbra in un tenue accenno di sorriso. “Rivedrà presto sua moglie e sua figlia, ne sono sicuro.”
Schwieger diede un’ultima occhiata alle fotografie, poi le rimise nel taschino. “Non gliel’ho mai chiesto, signor maggiore… lei non ha mai pensato di accasarsi?”
A quella domanda, Bühler aggrottò le sopracciglia e si irrigidì in un moto involontario, come ogni volta che percepiva qualche domanda come un tentativo d’intrusione nella sua sfera privata. Scosse la testa e ammise: “Non credo di essere fatto per il matrimonio, capitano.”
Per nulla meravigliato da una simile reazione, il capitano annuì: Bühler eludeva sempre discorsi del genere, e aveva un carattere così schivo e riservato da procurargli, in caserma, il soprannome uomo di ferro. Guardava fisso di fronte a sé e i suoi occhi assumevano alla luce del sole una tonalità calda e ambrata. Dall’aspetto sembrava ancora più giovane di quanto non fosse, tanto che chi non lo conosceva lo scambiava per un capitano e si accorgeva dell’errore solo dopo aver visto le mostrine intrecciate sulle spalline della sua uniforme, ma doveva essere un uomo molto solo se non concepiva altra vita al di fuori di quella militare.
Comprese tuttavia che forse era meglio non indagare ulteriormente sulla vita privata del suo commilitone e si volse dalla parte opposta.
Hans appoggiò la guancia al pugno chiuso e tornò a guardare fuori dal finestrino; ogni volta che qualcuno gli rivolgeva simili domande, la sua risposta era sempre, invariabilmente quella. Vivere nell’elusione non era peggio che vivere nella menzogna, ma quella non era che una mezza verità. Egli credeva fermamente che la vita militare fosse l’unica dimensione in cui l’Eros potesse sublimarsi: mentre l’unione tra uomo e donna aveva una natura tellurica, finalizzata alla procreazione e alla prosecuzione della razza, il Bund risvegliava nell’uomo il genio creativo e gli impulsi eroici. Era così che aveva deciso di abbandonare gli agi borghesi in cui era cresciuto; era così che lui e il tenente von Kleist, superati gli ostacoli iniziali, erano andati ben oltre i rapporti camerateschi.
Una colonna di fumo nero che si levava lenta in lontananza lo ridestò da quelle considerazioni. Scattò prontamente in piedi, incurante dei sobbalzi della vettura, afferrò il binocolo che teneva appeso al collo e scrutò la pianura.
“Reparto di fanteria motorizzata polacca in avvicinamento,” esordì, con lo stesso tono pacato che avrebbe potuto usare per annunciare l’arrivo del postino. “Suppongo che dovremo prepararci a combattere.”

Le strade del villaggio, un agglomerato di modeste casupole che s’inerpicava lungo il fianco di una collinetta, erano quasi completamente deserte. Non c’era traccia dei bimbetti biondi e cenciosi che il sottotenente Erich Kühn si sarebbe aspettato di trovarvi, né di vecchi contadini di ritorno dai campi col cappello di paglia in testa e la vanga sulla spalla; probabilmente, tutta la popolazione era stata evacuata prima ancora dell’arrivo delle truppe della Wehrmacht. La quiete innaturale che regnava per quelle calli dava l’impressione di star attraversando un paese fantasma, ma il fragore dello scontro armato era così forte da far tremare i vetri delle abitazioni, e per terra si scorgevano bossoli di proiettili che lasciavano presagire che qualche scontro isolato si fosse propagato fin lì.
Friedrich von Kleist guidava il gruppo, procedendo guardingo e controllando ogni anfratto, il fedele mitra che gli pendeva dalla spalla. Erich lo seguiva a qualche passo di distanza, in silenzio. Alle loro spalle si udiva lo scalpiccio dei soldati che marciavano e il rumore metallico delle ruote degli obici da 105, trascinati da Schneider e dalla sua squadra. L’unico a mormorare, paventando l’ennesima sventura, era il maresciallo Eichmann.
All’improvviso, un cane da pastore sbarrò loro la strada ringhiando e appiattendo le orecchie. Sembrava un incrocio tra un pastore tedesco e una qualche altra razza locale.
“Ehi, bello.” Un soldato si chinò e schioccò le dita per attirarlo, Krause emise un fischio. “Vieni, bel cagnolone!”
Per tutta risposta, l’animale abbaiò scuotendo vigorosamente la coda.
“Mi sa che non capisce il tedesco,” borbottò il soldato Bauer.
“I cani sono territoriali”, replicò asciutto il maresciallo Eichmann, con l’aria di proferire una verità rivelata. “Fino a prova contraria, questo è il suo territorio.”
Erich Kühn si fece avanti, raccolse da terra un legnetto e lo lanciò. Come rispondendo a un istinto consolidato da un lungo addestramento, il cane scattò di corsa, lo afferrò tra le fauci e glielo riportò docilmente. “Bravo, Otto.” Il ragazzo sorrise e si abbassò per elargirgli una grattatina tra le orecchie, che la bestia ricambiò con una vigorosa leccata sul viso.
“È riuscito a conquistarlo, sottotenente”, osservò Krause, con un fischio.
Friedrich von Kleist lo affiancò, guardandolo sbalordito. “Otto? Come Bismarck?”
“È il primo nome che mi è venuto in mente, signore. Gli stava bene”, disse il sottotenente, con un sorriso che accentuò le fossette sulle sue guance. Accarezzò ancora una volta la testa della bestia, che strofinò il muso contro la sua gamba. “Adesso da bravo, Otto, lasciaci passare.”
L’animale uggiolò e agitò la coda con più vigore, rivolgendo ai due ufficiali uno sguardo implorante.
“È affamato, signore,” constatò gravemente l’operatore radio Heinz Lindemann.
Kühn e von Kleist si scambiarono un’occhiata, poi il sottotenente rovistò nello zaino, tirò fuori una scatoletta di carne e gliela offrì.
Mentre il cane affondava il muso nell’inaspettata razione di cibo, i soldati riuscirono ad approfittare della sua distrazione per passare; ma quando si voltò di nuovo indietro, il ragazzo si accorse che li stava seguendo.
Avevano percorso appena un centinaio di metri quando il cane si fermò all’imboccatura di una viuzza tra due case, si sedette sulle zampe posteriori e riprese a uggiolare. Voltatosi verso di lui, il tenente von Kleist si avvicinò di un passo, la mano che sfiorava la fondina della pistola. “Che succede, Otto?”
La bestia gettò la testa all’indietro ed emise un ululato straziante, poi si accostò a una sagoma scura che giaceva per terra e la spinse col muso, tirandola e mordendola tra i guaiti. Erich Kühn si sporse in avanti e aguzzò la vista; in un angolo, ombreggiata da un albero ad alto fusto e dalla chioma frondosa, intravide la figura scomposta di un ragazzo in uniforme, sotto di lui un’ampia pozza di sangue che imbrattava l’erba e un fucile abbandonato poco distante: forse il padrone del cane.
“È un cadavere”, osservò, a bassa voce. “Un soldato polacco.”
“Poveraccio,” mormorò il sergente Hoffmann, scuotendo la testa.
Hanke si fece il segno della croce, nessun altro fiatò.
Richiamarono il cane a sé e la marcia tra le strade deserte proseguì in silenzio fin quando non si imbatterono in due soldati tedeschi che trascinavano a spalle un commilitone ferito. Li videro attraversare la stradina che avevano appena imboccato e dirigersi verso la piazza del villaggio, per poi adagiare il camerata sotto il sagrato di una chiesetta intonacata di bianco. Con la coda dell’occhio, Erich notò che proprio al centro della piazza era stata parcheggiata un’ambulanza e che già diversi feriti erano radunati intorno a essa.
“Signor tenente, potrebbero essere soldati del primo battaglione,” disse, rivolto a von Kleist.
L’altro guardò nella stessa direzione, poi rispose con un cenno d’assenso. “Allora sapranno sicuramente dove si trova Lützow.”

“Dobbiamo sfruttare l’effetto sorpresa,” disse il tenente von Kleist, scrutando l’ampia campagna da dietro un muretto a secco. Quelli che un tempo dovevano essere dei campi coltivati erano ridotti a una distesa di terra smossa ed erba bruciacchiata, dove le turbe confuse di soldati tedeschi, assediate su due fronti, si distinguevano dagli avversari in verde e marrone per il caratteristico colore Feldgrau delle uniformi. “Attaccheremo la fanteria polacca da tergo, in modo da coprire la ritirata del maggiore Lützow che al momento si trova al centro dello schieramento.”
Restituì il binocolo ad Eichmann e si volse verso i suoi sottoposti: era la prima volta che comandava un’operazione militare sul campo, nonostante le innumerevoli esercitazioni al fianco dell’allora capitano Bühler e i compiti che quest’ultimo gli affidava, e voleva accertarsi che comprendessero e rispettassero le sue indicazioni. Voleva che riponessero in lui la loro fiducia.
“Lindemann?” L’interpellato avanzò di un passo, mettendosi sull’attenti. “Si tenga nelle retrovie, pronto con la radio.”
“Signorsì, signor tenente”, rispose l’uomo, infilandosi le cuffie.
“Sergente Böhmer, faccia sistemare le mitragliatrici leggere a intervalli regolari, sfruttando la protezione del muretto.”
“Sissignore.”
Friedrich rimase per un istante a guardare i mitraglieri che approntavano le loro postazioni, poi si voltò verso la squadra di Schneider. “Caporale, attestare le bocche da fuoco in copertura all’ombra degli alberi. Tutti gli altri vengano in prima linea coi fucili, Hoffmann insieme a me. Alla mitragliatrice pesante staranno Kühn e Schreiber.”
“Sissignore!” risposero diverse voci all’unisono.
“E infine, Eichmann: si sistemi dietro una postazione di sacchi imbottiti e tenga d’occhio il centro dello schieramento, tenendomi informato di qualsiasi cambiamento significativo.”
Asciutto, il maresciallo annuì. “Sarà fatto, tenente.”
Friedrich si sentì scuotere da un leggero fremito di soddisfazione quando vide i suoi uomini disporsi senza indugio esattamente come indicato. Anche il cane, che dopo la morte del padrone si era unito a loro, si accucciò docilmente ai suoi piedi come in attesa di un ordine.
“Il suo plotone dovrebbe bastare. Conto su di lei, von Kleist”, gli aveva detto il capitano Fromm, e il tenente sperò con tutto se stesso di non deluderlo, di riuscire a portare a termine il compito che gli era stato affidato e di tornare al comando di compagnia insieme a tutti gli uomini che lo avevano accompagnato fin lì. Attese che tutti i soldati fossero ai propri posti e si sistemò dietro il muretto.
“Feuer frei!” ordinò infine, alzando la voce per sovrastare i sordi boati delle esplosioni. Il fallimento non era contemplato.

Fitte gragnole di proiettili guizzavano e crepitavano in un secco botta e risposta, il tonfo sordo dei mortai squassava la terra brulla. Ogni tanto, da quella cacofonia s’innalzava un’imprecazione, l’ordine urlato di un ufficiale o il flebile lamento di qualche ferito.
“Concentrare il tiro sulle linee più avanzate!” ordinò Friedrich von Kleist, l’eco degli spari che copriva la sua voce. “Gli obici puntino a neutralizzare le bocche da fuoco nemiche!”
Dal coro di ‘signorsì’ si levò un’unica voce discordante, quella roca e baritonale di Walther Eichmann. “Signor tenente…”
Friedrich si voltò verso di lui e lo trafisse con un’occhiata glaciale, ma il sottufficiale si limitò ad annuire sbrigativamente, apprestandosi a eseguire gli ordini; tuttavia, il dissenso che invano cercava di non lasciar trapelare era fin troppo palese.
Il tenente strinse i denti e rinsaldò la presa intorno al calcio della sua arma. Comprendeva perfettamente il senso di quell’implicita obiezione: avevano coperto le spalle al maggiore Lützow e sfoltito le retroguardie polacche come richiesto, e la priorità assoluta era raggiungere il capitano Fromm e il resto della compagnia. Ma come Eichmann non poteva permettersi di discutere apertamente i suoi ordini, neanche lui avrebbe potuto di propria spontanea iniziativa decidere di trattenersi sul teatro degli scontri, indipendentemente dalle motivazioni.
Me ne assumerò le responsabilità. Non ci vorrà ancora molto…
“Abbiamo assolto con successo il compito che ci era stato affidato, tuttavia ritengo che sia un atto di viltà ritirarci mentre dei nostri camerati sono in evidente difficoltà”, chiarificò poi, in tono intransigente. “Torneremo indietro quando la situazione si sarà stabilizzata.”
Senza attendere la replica dei suoi sottoposti, voltò loro caparbiamente le spalle e si avviò verso la propria postazione di comando.
Gli parve di udire il vecchio gufo borbottare qualcosa, ma lasciò che quelle parole si perdessero come un sussurro in quel clamore. In linea teorica, il maresciallo aveva ragione, ma egli era fermamente convinto che obbedire ciecamente agli ordini del capitano e abbandonare il primo battaglione in una situazione così delicata fosse molto peggio che tardare al rapporto. Gli uomini del suo plotone non potevano far altro che attenersi alle sue disposizioni.
Animato da questi pensieri, si sistemò l’elmetto sulla testa e si sporse oltre il muro: sembrava che la linea di fanteria che aveva ingaggiato lo scontro con loro si stesse diradando, ma erano ancora molti i caschi e le canne di mitragliatrice che si vedevano spuntare al di là della trincea naturale costituita dalla proda del campo.
Lo facciamo per una giusta causa, si disse.

L’aria fu lacerata da un sibilo assordante. Si udì uno scoppio, e una pioggia di sassi e schizzi di fango si abbatté sui serventi del 105, che furono costretti a buttarsi a terra per evitare di venire colpiti da un proiettile d’artiglieria.
“Dannazione,” ringhiò il caporal maggiore Schneider. Si voltò, e notò che alle sue spalle si era aperta una voragine di ragguardevoli dimensioni, al centro della quale giaceva l’ordigno ancora intatto. Il soldato Horn era finito in ginocchio ed era scosso da violenti colpi di tosse, mentre Schwarz si stava ripulendo i capelli neri dalla sporcizia che vi si era depositata.
“Tutto a posto, laggiù?”
Schneider lanciò un’occhiata in tralice al tenente von Kleist, che si era avvicinato di qualche passo per sincerarsi che nessuno si fosse fatto male, e gli rispose con un secco cenno d’assenso.
“Bene. Tornate ai vostri posti!” ordinò il giovane ufficiale, conciso.
Testardo come un mulo, pensò il graduato, aggrottando le sopracciglia, ma era ai suoi ordini da così tanto tempo che ormai non se ne stupiva più. Guardò la sua squadra che si ridisponeva per armare l’obice e si sollevò sulle punte dei piedi per analizzarne la canna di metallo, passando le dita sulla scalfittura. “Io lo dico che l’uomo di ferro s’incazza…” brontolò, parlando fra sé.
Schwarz si lasciò scappare una risata secca, retorica, il pesante proiettile sottobraccio. “Lei dice, caporale?”
“Oh, sì, dico”, rispose Schneider. “Lo conosco da quando era tenente, quindi so com’è fatto.” Si asciugò la fronte con la manica della giubba e si accese un’altra sigaretta. “Adesso, però, bando alle ciance. Vediamo di restituire il favore al bastardo che ci ha rovinato questo gioiellino!”
Il cannone brandeggiò verso l’obiettivo più vicino, poi vi fu un boato che squarciò la coltre densa. Dallo schieramento nemico si levò una nube di fuoco e fiamme.
“Centro!” esultò Horn, indicando il relitto fumante e ormai inservibile dell’obice da campo nemico. I soldati dell’equipaggio lo abbandonarono di corsa, piccoli come formiche da quella distanza, misero mano ai fucili e andarono a rimpinguare le file della fanteria.
“Questi polacchi sono agguerriti, signori”, osservò il maresciallo Eichmann.
La sua voce fu inghiottita dall’ennesima, lacerante detonazione.
“Prima linea, attenzione!” gridò il tenente von Kleist rotolando per terra e coprendosi la testa con entrambe le mani, poco prima che un proiettile d’artiglieria impattasse contro il muretto facendone crollare una larga porzione. Erich Kühn abbandonò la mitragliatrice pesante, agguantando la collottola del soldato Schreiber per trascinarlo via, e il ragazzo finì con la faccia nell’erba mentre il sottotenente gli faceva scudo col proprio corpo. Frammenti di pietra e calcinacci schizzarono in varie direzioni, i latrati furiosi del cane-soldato si sovrapposero ai gemiti dei feriti.
Il tenente e il suo subalterno furono i primi ad alzarsi: il primo aveva perso l’elmetto e i suoi capelli biondi erano sporchi di fango e fuliggine, il secondo aveva le ginocchia dei pantaloni sfondate e i palmi delle mani sbucciati.
“Hansen!” urlò allarmato von Kleist, notando uno dei fucilieri riverso per terra, mentre il cane abbaiava e gli leccava il viso. Il sergente Böhmer era stato colpito alla gamba da una scheggia di ferro e faticava a reggersi in piedi, mentre Holzwarth si teneva il fianco con una mano per arginare l’emorragia che gli colava tra le dita, stringendo i denti per non urlare. “Lindemann! Si metta in contatto coi medici da campo, presto! Abbiamo un’emergenza!”
“Signorsì, signor tenente!” rispose solerte l’operatore radio.
Parzialmente occultato dalle colonne di fumo, il cielo del tardo pomeriggio scolorava in una fosca tonalità grigiastra, presaga di pioggia.
“Siamo nella merda,” sentenziò lapidario il caporale Schneider.

Doveva essere da poco passata la metà del pomeriggio, e l’atmosfera appariva velata da una lontana nube di fumo, opaca e sempre più densa, che si confondeva con la tonalità bigia del cielo.
Il capitano Bentheim salì in piedi su un sasso che dava su una sporgenza del crinale, regolò le lenti del binocolo e scrutò la linea dell’orizzonte. A una prima impressione, gli parve che quella massa scura vibrasse e palpitasse in un moto convulso. Aggrottò le sopracciglia e strizzò gli occhi, solo per ricevere la conferma che attendeva e temeva. “Tenente Mertens!” chiamò poi, rivolgendosi al comandante di plotone più vicino.
Il giovane si fece avanti e si mise sull’attenti. “Problemi, signor capitano?”
“Richiedo tutti i comandanti di plotone e i sottufficiali a rapporto da me entro due minuti. Ah, e dica a Hofmeister di mettersi in contatto col capitano Fromm”, rispose Bentheim, senza staccare gli occhi dalle sagome dei carri armati che si stagliavano contro la plumbea coltre di nebbia. “Vedo una folta schiera di 7TP in avvicinamento da nord, e ho buone ragioni per supporre che abbiano tutta l’intenzione di dare battaglia.”
“Signorsì”, rispose il tenente, allontanandosi a grandi falcate.
Il capitano rimase assorto a pianificare la strategia mentre i suoi sottoposti giungevano alla spicciolata, chi con aria allarmata, chi fremendo d’esaltazione marziale; poi, quando furono tutti presenti, si lasciò ricadere il binocolo sul petto e ripeté quanto annunciato poco prima a Mertens. “Ritengo che tra dieci minuti, un quarto d’ora al massimo, saranno abbastanza vicini da costringerci a contrattaccare.”
Era la prima volta che si trovavano in condizioni di affrontare una sezione corazzata, per di più senza l’adeguato supporto dell’artiglieria controcarro. “Le unità corazzate partono sempre con l’errata convinzione di essere nettamente superiori alla fanteria. Questo costituisce per noi un vantaggio non indifferente, signori”, osservò, forse più per convincere se stesso che per rassicurare i suoi interlocutori.
Lanciò un’ultima occhiata torva all’orizzonte, poi si volse verso gli ufficiali radunati intorno a lui: il più giovane tra tutti, un sottotenente dall’aspetto efebico, si stava guardando intorno con aria smarrita, come cercando conferme nei suoi parigrado più anziani. “Ziegler, la affido alla sezione comandata dal tenente Mertens”, gli disse il capitano.
Il ragazzo accolse quella notizia con un sorriso raggiante e andò subito ad affiancare il collega.
Bentheim sorrise a sua volta. “Molto bene. Koch, faccia avanzare gli obici da campo.”
“Sissignore!” scattò il tenente, schizzando verso il centro dello schieramento come un veltro aizzato.
“Mertens, faccia distribuire le granate anticarro alle prime linee di fanteria!”
“Signorsì, signor capitano.”
“Per qualsiasi altra cosa, attendete un mio segnale. Forza, non c’è tempo da perdere!”

Senza scendere dal sasso che gli garantiva una visione privilegiata, Konrad von Bentheim riprese in mano il binocolo per tenere d’occhio la corazzata polacca. Gli sembrò che l’aria fosse diventata rovente, satura dello sferragliare di decine di cingoli. Li contò: erano otto carri, un paio di plotoni.
Dovremmo farcela da soli, rifletté, riservando un’occhiata circolare all’intero schieramento.
La sua compagnia si stava già preparando per fronteggiare l’inaspettato attacco, e probabilmente stava facendo lo stesso anche quella di Klaus Fromm, attestata a poche centinaia di metri da lì. Non si sentiva particolarmente in apprensione per l’esito dello scontro, anche se un sottile nervosismo si irradiava in tutte le sue membra, provocandogli un leggero tremito alle mani. Tuttavia, aveva fiducia nei suoi collaboratori, coi quali aveva condiviso la vita di caserma e la durezza dell’addestramento anche in tempi di pace: la divisione Ostpreußen era un’unità d’élite, nota in tutto lo Heer per lo sfiancante rigore a cui tutti, ufficiali compresi, erano costantemente sottoposti. E di conseguenza, per i forti vincoli di cameratismo che s’instauravano tra i suoi membri.
Mentre indugiava in simili considerazioni, il capitano raccattò una mezza dozzina di granate e se le infilò nella cintura, per poi avvicinarsi alle prime linee. Si riparò dietro un albero per poter prendere parte più attiva alla battaglia, sorvegliando al contempo l’operato del plotone mortai pesanti attestato poco distante da lì. Frattanto, i carri si stavano avvicinando sempre di più, sollevando una nuvola di polvere che sembrava volerli ghermire.
“Fuoco!” tuonò il capitano. Subito le cupe detonazioni dei pezzi d’artiglieria risposero all’ordine, riecheggiando da un capo all’altro del bosco.
“Offro una birra al primo che ne fa fuori uno!” si sentì esclamare.
Bentheim rimase in attesa, vigile come un falco. Appena il carro più avanzato si assestò sulla spianata e brandeggiò il cannone verso uno degli obici da campo, scoprendo il fianco, egli prese la mira e scagliò la granata. Travolto in pieno dal lampo aranciato della deflagrazione, il mezzo barcollò, si impennò raspando i cingoli nel pantano e si rovesciò emettendo un ululato straziante. I tre uomini dell’equipaggio lo abbandonarono di gran carriera e corsero al riparo.
Aveva appena realizzato ciò che era appena accaduto quando lo raggiunse un portaordini, le guance rosse e i capelli sporchi di terra. “Signore! Signor capitano!” gridò trafelato. “Il capitano Fromm rende noto che la sua compagnia ha intercettato e ingaggiato uno scontro a fuoco con un reparto di mitraglieri nei pressi della foresta!”
Bentheim si alzò e annuì. “Lo immaginavo, le unità corazzate non vengono quasi mai senza adeguato supporto di fanteria. Vorrà dire che ci penseremo noi a tenerli a bada, sempre che non abbiano in serbo altre sorprese.” Fece per congedarlo, ma l’altro rimase fermo. “C’è dell’altro, soldato?”
L’uomo esitò, poi abbassò la voce. “Il plotone del tenente von Kleist non ha ancora fatto ritorno, signore.”
“Avete provato a contattarlo via radio?”
“Sì, signor capitano… il caporale Lindemann ha riferito che il plotone si trova ancora al villaggio.”
“E il maggiore Lützow?”
“Ha raggiunto l’ospedale di campo più vicino poco prima delle due del pomeriggio.”
Bentheim controllò l’orologio da polso e aggrottò le sopracciglia: erano passate più di due ore. “Sono stati trattenuti dall’esercito polacco?”
“Sì, signore… cioè, non proprio. Ordini del tenente.”
Quando il soldato se ne fu andato, Konrad si passò una mano tra i capelli corvini ed esalò un profondo sospiro. Conosceva Friedrich così bene da non stupirsi affatto di certe sue iniziative. Probabilmente, il giovane aveva deciso di trattenersi più del dovuto, e per qualche ragione il suo plotone si era trovato sopraffatto dalla superiorità numerica dei nemici. Scosse la testa.
Lui e il tenente erano sempre stati legati da una profonda amicizia, fin dai tempi dell’adolescenza. Avevano condiviso molte cose al di fuori della vita militare, confidenze che nessun altro avrebbe mai dovuto ascoltare. Dopotutto, certi legami si consolidavano quando le persone in grado di comprendere, le uniche a cui poter concedere la propria completa e assoluta fiducia, spiccavano come vene d’oro in una miniera di metalli vili. Friedrich era l’unico ad aver conosciuto tutta la verità su di lui, l’unico di cui si fidasse a tal punto da confessargli i suoi più intimi tormenti.
Sperò con tutto se stesso che non gli fosse successo nulla.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ~ Nach Drill und Dreck, gibt's Erbsen mit Speck ***


 
III.
Nach Drill und Dreck, gibt's Erbsen mit Speck



 

Allertato dal lontano rombo dei motori, che in quel silenzio si udiva amplificato, il maggiore Hans Bühler distolse lo sguardo dalla cartina che stava consultando, sollevò il binocolo e scrutò la spianata che si estendeva ai piedi dell’altura. Di tanto in tanto, il Sole faceva capolino da dietro le nuvole, irrorando l’atmosfera di una luce lattescente e fastidiosa. “Peggio del previsto”, grugnì tra sé e sé, riservando un’occhiata accigliata alla nutrita schiera in avvicinamento. Da quella distanza, i camion sembravano giocattoli che si muovevano su un plastico, ma ciò che lo preoccupava era il loro numero.
I suoi soldati si erano già schierati in formazione da battaglia lungo il rilievo boscoso, per attendere il nemico in posizione strategica. Bühler aveva pianificato tutto nei minimi dettagli, sicuro della riuscita: si era offerto volontario per andare incontro alle schiere polacche al posto del tenente colonnello von Rauheneck – quello che, tra tutti i suoi superiori, aveva osteggiato con più vigore la sua precoce promozione – e adesso non poteva deluderlo per nessuna ragione. Aumentò ancora di più la messa a fuoco e increspò le labbra, per osservare meglio i convogli e farsi un’idea di quanti fanti potessero contenere.
Cercando di fare in fretta il punto della situazione, si chiese per l’ennesima volta se il piano che aveva elaborato presentasse qualche falla che lui, troppo preso dall’urgenza di agire, non era ancora riuscito a individuare.
“Di male in peggio,” borbottò nuovamente.
Il maresciallo Fuchs, che passava da lì trascinandosi dietro una pesante cassetta di munizioni, si fermò a pochi passi da lui. “Prego, signor maggiore?”
L’ufficiale non lo degnò di uno sguardo. “Credo siano almeno un reggimento,” proferì, a denti stretti.
Fuchs parve non capire. “Contro due battaglioni?”
“Un battaglione e mezzo, per la precisione.”
Il sottufficiale, che doveva avere almeno il doppio degli anni del giovane comandante, lo scrutò da sotto le folte sopracciglia inarcate. “Non dovrebbe essere un problema per dei soldati della Ostpreußen, signor maggiore.”
“La vittoria arriva solo alla fine della battaglia,” replicò l’uomo di ferro.
“Senz’altro, signore.”
Bühler congedò il maresciallo lasciandogli detto di convocare a rapporto i comandanti di compagnia, poi trasse dalla tasca un taccuino e si mise ad annotare con la sua grafia nervosa tutte le informazioni che aveva raccolto sul reparto nemico. Quando si voltò, Schwieger e Walkenhorst, giunti sul posto, salutarono militarmente.
“Riposo,” disse il maggiore con un gesto sbrigativo, faticando ancora ad abituarsi al pensiero che quelli che fino a due mesi prima erano i suoi parigrado fossero adesso ai suoi ordini. Fece loro cenno di avvicinarsi alla cartina e i due ufficiali lo affiancarono, uno da un lato e uno dall’altro. “I nemici vogliono arrestare la nostra avanzata, ma saremo noi a far retrocedere loro”, dichiarò, con serena risolutezza. “Mentre aspettiamo che il tenente colonnello von Rauheneck ci raggiunga col quarto battaglione, il piano è questo.”
E iniziò a spiegare.

La battaglia infuriava. Tra i fitti alberi della foresta aleggiava la tetra bruma sollevata dalle esplosioni, perforata in più parti dalle traiettorie dei proiettili.
Appena ebbe terminato di riportare sulla mappa i progressi dell’offensiva, Bühler si avviò verso le prime linee, dove i mitraglieri e i fucilieri si erano ordinatamente schierati in una trincea abbandonata, protetti da barriere di sacchi imbottiti. Qualcuno dei soldati trasalì vedendolo passare proprio accanto a loro con le mani dietro la schiena, ma la forza dell’abitudine li portò a scrollare le spalle.
L’ufficiale non ci fece caso. “Allora, Hauer, come vanno le cose?” chiese dopo un po’, fermandosi vicino a un tenente che colpiva il caricatore inceppato del mitra.
“Alla grande, signore!” rispose convinto il ragazzo, rivolgendogli un sorriso a trentadue denti.
Egli riservò un’occhiata agli altri soldati del plotone per sincerarsi di persona che tutto andasse per il meglio, poi si congedò e continuò il suo giro di routine nel solco della trincea. Scambiò qualche facezia con un paio di sergenti, si fermò a rivolgere parole d’incoraggiamento a un ferito e raccolse da terra il fucile abbandonato da quest’ultimo, per dotarsi anch’egli di un’arma che non fosse la pistola d’ordinanza.
“Forza, lavativi!” ruggì il capitano Walkenhorst, riparato dietro una barriera accanto a due giovani sottufficiali che maneggiavano una mitragliatrice pesante. Bühler li raggiunse mentre inseriva le cartucce nel fucile. “Non abbiate paura di sprecare quei proiettili!”
“Signorsì!” esclamò un sergente, affrettandosi a ricaricare il nastro della sua MG 34. Il crepitare degli spari si fece ancora più fitto e serrato di quanto già non fosse; la controparte nemica rispose con altrettanta foga.
I due ufficiali si scambiarono uno sguardo d’intesa e il maggiore ghignò.
“Siamo in guerra, non a una battuta di caccia al fagiano!” li incalzò Walkenhorst. “Devo forse venire io a premere il grilletto per voi?”

Il soldato Schütze si aggirava per la trincea con falcate nervose, scrutando ogni volto nella speranza di scorgere quello del comandante di battaglione. “Dov’è il maggiore?” urlava, interpellando ogni singolo soldato che gli si parasse di fronte. Non era infrequente che Bühler sparisse nel bel mezzo di una battaglia, costringendo i portaordini ad andarlo a cercare – quando in prima linea, quando a presiedere le operazioni dei reparti d’artiglieria, quando nelle retrovie a occuparsi dei feriti.
“Signor maggiore?” ripeté, per l’ennesima volta.
Quasi per caso, Schütze lo adocchiò mentre parlava col capitano Walkenhorst, proprio sotto la linea di fuoco dei nemici. Se non fosse stato per la sua altezza, che lo faceva svettare su quella selva di teste immerse nella caligine degli spari, non lo avrebbe neanche notato. Non poté fare a meno di chiedersi se il predecessore del giovane, in tutti gli anni di onorato servizio prestati all’interno della Reichswehr, si fosse mai comportato in quel modo ma, prima ancora di vagliare le sue memorie per trovare una risposta a quel dilemma, dovette scacciarlo scuotendo vigorosamente la testa. “Herr Major!”
Finalmente, Bühler parve accorgersi di lui, appoggiò il fucile e gli andò incontro.
Incalzato dall’urgenza, il portaordini affrettò il passo per raggiungerlo. “Signore, il tenente colonnello von Rauheneck richiede un rapporto dettagliato dell’operazione in corso!”

Il maggiore si trattenne per un po’ vicino alle bocche da fuoco, tenendo il taccuino appoggiato contro il tronco di un albero mentre scribacchiava il rapporto che avrebbe dovuto fare al suo superiore, poi tornò a scrutare lo schieramento nemico. “Perdono terreno”, osservò, senza rivolgersi a nessuno in particolare, ma a voce sufficientemente alta perché i suoi soldati lo sentissero. “Stiamo andando bene!”
Ordinò al plotone artiglieria di aumentare la potenza di fuoco, si fece scivolare nella tasca il taccuino e la penna e ricominciò col suo giro d’ispezione.
Inginocchiato per terra dietro un camion da trasporto munizioni c’era il sottotenente Schultz, che canticchiava una canzone popolare mentre impilava e catalogava le cassette contenenti i proiettili.
“Schultz!” lo chiamò.
Il ragazzo sussultò e arrossì violentemente, rischiando di farsi cadere una delle scatole sui piedi. “Signor maggiore!” balbettò.
Scattò subito sull’attenti, ma Bühler lo prevenne: i convenevoli lo stancavano in fretta, soprattutto quando sentiva l’esigenza di andare subito dritto al punto.
“Come al solito non era attento, sottotenente”, lo rimbrottò, prendendolo da parte. “E se fossi stato un infiltrato nemico?” Accompagnò quelle parole mimando il gesto di estrarre il pugnale che gli pendeva dalla cintura, seguito da una rapida torsione del polso e dalla simulazione di un affondo. “Avrei potuto avvicinarmi di soppiatto per accoltellarla alle spalle, e lei sarebbe stramazzato al suolo senza neanche accorgersene.” Inchiodò le sue pupille con uno sguardo severo. “E così, lei pretenderebbe di far parte di una divisione d’élite?”
L’altro deglutì e spostò il peso da un piede all’altro, passandosi una mano tra i capelli chiari. “Con tutto il rispetto, signore, sono abituato a ben altri incarichi e non mi aspettavo che lei…” s’interruppe, subito zittito da un’occhiataccia da parte del maresciallo Bergmann.
Onde scongiurare ulteriori polemiche nel bel mezzo di una battaglia, il maggiore fece finta di non aver sentito. Con un semplice gesto, si limitò ad allontanare il sottufficiale.
“Sottotenente, voglio che lei abbia ben chiaro perché l’ho relegata a questa mansione,” riprese, dopo una breve pausa. “La gloria individuale non è qualcosa che va cercato. La gloria si conquista tutti insieme, e il valore di un ufficiale si vede anche dalla capacità di comprendere quando è meglio evitare di mettere inutilmente a repentaglio la propria vita e quella altrui per un capriccio personale. Non tollererò altri atti sconsiderati come quello di ieri. Intesi, Schultz?”
Il ragazzo chinò il capo, mordendosi il labbro inferiore. “Sì, signore.”
“Molto bene, sottotenente. Ora torni alle sue occupazioni, non è facendo conversazione che si vincono le battaglie.”
Senza abbandonare il settore dell’artiglieria, Bühler diede un paio di disposizioni ai serventi dei 105 e si avvicinò per aiutare una recluta ad armare un obice particolarmente pesante.
“Grazie, signor maggiore,” mormorò il ragazzo, asciugandosi il sudore dalla fronte.
Hans annuì e gli diede una leggera pacca sulla spalla per incoraggiarlo. Fece per passare oltre, quando un urlo allarmato del maresciallo Bergmann lo richiamò all’attenzione. Un sibilo assordante lacerò l’aria torrida e, subito dopo, un ordigno si abbatté a pochi metri da lì, sollevando un mostro di fiamma che ghermì i cespugli e si gonfiò con un ruggito raccapricciante.
Bühler fece appena in tempo ad afferrare il bavero della recluta per spingerla via, poi finì sbalzato a terra dall’onda d’urto, mentre una bordata di schegge e pietrisco gli pioveva sulla schiena. Qualcuno urlò, ma il boato dell’esplosione coprì la sua voce.

“Dannazione”, gracchiò il maresciallo, tra i colpi di tosse. “Signor maggiore!”
Ancora frastornato dall’esplosione, un braccio schiacciato sotto il peso del corpo, l’ufficiale puntellò il gomito a terra per alzarsi. Una stilettata di dolore, che s’irradiò dal fianco destro trafiggendolo da parte a parte, lo costrinse a reprimere un grugnito. Sollevò la testa: tra le zaffate bollenti di fumo nero, scorse il sottotenente Schultz che cercava invano di diradarle con ampi gesti delle mani e il maresciallo chino su una sagoma riversa al suolo. Stringendo i denti, con gli occhi che gli lacrimavano a causa delle esalazioni, Bühler si sollevò a sedere e cercò di riprendere fiato, imponendosi di ignorare le fitte al fianco. Si avvicinò al ferito e si rese conto con sgomento che si trattava della giovane recluta: sembrava privo di sensi, e una scia di sangue gli scendeva giù dalla tempia.
Si alzò e, senza preamboli, ordinò: “Schultz, aiuti il maresciallo a portare questo ragazzo al posto di medicazione, prego.”
“Sissignore!”
“Signore, faccio rispettosamente notare che…” intervenne il sottufficiale, ma la mano alzata del maggiore gli impose di tacere.
“Bergmann, voglio il capitano Schwieger a rapporto da me entro due minuti,” tagliò corto. La sua voce, seppur più fioca del normale, non aveva perso la sua usuale fermezza. Con noncuranza, si portò una mano alla parte lesa: un liquido caldo e purpureo gli colava sul palmo, imbrattando la manica dell’uniforme, ma – rilevò – non doveva essere una ferita particolarmente profonda. O almeno, niente che potesse giustificare un suo momentaneo allontanamento dal campo di battaglia. Alzò gli occhi su quello che restava del pezzo d’artiglieria, poi oltre la volta alberata che li proteggeva: il cielo imbruniva, ma lo scontro sembrava ben lungi dal raggiungere un punto di svolta.

Incalzati dal sempre più vicino scalpiccio dei soldati nemici, Friedrich von Kleist ed Erich Kühn filavano senza neanche far caso a dove stessero andando. Le viuzze del villaggio si susseguivano tutte uguali, strette e tortuose, contornate dalle buie sagome di edifici di cui Erich, nell’ebbrezza della corsa, riusciva a malapena a discernere i connotati. Il cuore gli martellava nelle tempie dandogli l’impressione che la testa stesse per scoppiargli, rendendo ovattato e distante perfino il rumore delle raffiche di mitra che li inseguivano.
Senza smettere di correre, il tenente von Kleist rispose al fuoco con un paio di colpi di pistola in rapida successione. “Più veloce!” gridò.
Kühn, che si premurava di coprirgli le spalle mentre l’altro apriva la strada, lo seguì mentre svoltava l’angolo di un edificio parzialmente diroccato.
Una pallottola gli sfiorò lo stivale, accompagnata da esclamazioni concitate di cui il ragazzo non riuscì a cogliere il significato. Bastò tuttavia il tono ostile con cui furono proferite a fugare ogni dubbio circa i loro sottintesi, facendogli correre un brivido gelido lungo la spina dorsale.
“Vogliono colpirci alle gambe in modo da rallentarci,” spiegò von Kleist, sfiatando per l’affanno. “Siamo pur sempre ufficiali, non ci guadagnerebbero nulla a freddarci sul posto.”
“Non che essere catturati sia una prospettiva migliore,” ansimò il sottotenente.
“Decisamente no!”
Affrettarono l’incedere delle falcate, le pistole ben salde in pugno. I nemici continuavano a sparare a terra, seminando bossoli di proiettili che tintinnavano sull’acciottolato.
Il tenente imboccò un vicoletto incuneato tra due palazzi dall’ombra imponente. Il rumore dei loro stivali riecheggiava sui ciottoli della pavimentazione, l’equipaggiamento sbatacchiava contro i loro fianchi producendo un incessante tramestio.
All’improvviso, Friedrich von Kleist arrestò la propria corsa, in maniera così repentina che il sottotenente rischiò di travolgerlo. Si scambiarono un’occhiata carica d’apprensione: di fronte a loro, nient’altro che un muro di mattoni alto almeno due metri, assediato su entrambi i lati da altrettante stamberghe.
“Vicolo cieco”, constatò Erich, col cuore in gola.
Von Kleist si voltò, figgendo gli occhi sull’imboccatura del viottolo.
“Non c’è tempo per tornare indietro… ci sono alle costole.” Proprio in quel momento, i passi che credevano di essersi lasciati alle spalle tornarono a riecheggiare sempre più vicini. “Si prepari a saltare, Kühn!”
Appena il tempo di finire la frase, che il tenente spiccò un balzo e si aggrappò con entrambe le mani alla sommità del muretto, issandosi di peso per scavalcarlo. Erich aspettò che l’altro fosse scomparso al di là della barriera, poi saltò a sua volta mentre l’ennesima scarica di piombo s’infrangeva contro i mattoni.
Dopo una breve caduta, i due giovani rotolarono lungo un argine scosceso e rovinarono in un fosso invaso dalle erbacce. “Devo essermi slogato una caviglia…” mugugnò il tenente, tirandosi su con passo malfermo.
Kühn guardò prima lui, poi il muro a diversi metri di distanza, oltre il quale intravide l’elmetto verde di un polacco. Dall’altra parte qualcuno abbaiò qualcosa che suonava come un contrordine, a cui il soldato replicò in tono aspro. Il sottotenente agguantò il braccio di von Kleist e, senza ulteriore indugio, si lanciò a corsa attraverso il campo di grano che si estendeva di fronte a lui, trascinandosi dietro il camerata zoppicante.

“Non ho più colpi in canna!” ringhiò von Kleist, soffocando un’imprecazione mentre premeva il grilletto a vuoto. Il dolore per la storta gli era passato in fretta, e il giovane ufficiale lo precedeva sul terreno inciso da profondi solchi, falciando le erbacce bruciate dal sole.
Kühn si volse indietro: gli inseguitori gli urlarono contro in tono minaccioso e si fermarono a soccorrere uno dei loro compagni, che apparentemente era stato colpito di striscio da uno degli ultimi proiettili. “Pensi a correre, tenente!”
I due giovani scavalcarono il fosso che delimitava il campo, attraversarono una stradina sterrata e si lanciarono a rotta di collo oltre una staccionata che segnava i confini di un orto privato, disseminato di alberi da frutto.
Col fiato corto, scivolarono dietro una capannina per gli attrezzi, sfruttando il riparo offerto dai ciocchi impilati contro la parete. Erich si ripulì la manica della divisa dai forasacchi che vi si erano impigliati e rivolse uno sguardo di sfuggita al suo camerata: von Kleist stava riarmando la sua Walther P38 d’ordinanza, per poi abbassarla senza staccare le dita dal grilletto. Subito dopo, si sporse oltre l’angolo e con un cenno sbrigativo gli ordinò di nascondersi.
Il sottotenente si accovacciò coi gomiti sulle ginocchia e si tolse l’elmetto, la schiena appoggiata contro la catasta di legna; poi, con un sospiro, si passò una mano tra i capelli fradici di sudore e si attaccò alla borraccia, accogliendo con sollievo la sensazione dell’acqua che gli bagnava la gola riarsa.
Un calpestio cadenzato di molti stivali, che faceva da accompagnamento alle note solenni di una marcia militare, segnalò il passaggio di un piccolo contingente polacco.
“Aspettiamo che si calmino le acque, poi raggiungiamo il resto del plotone”, disse il tenente a bassa voce, quando i soldati furono abbastanza lontani.
Erich annuì. “Ricevuto, signore.”
Assorto, si perse a contemplare l’orizzonte: il cielo grigio, velato di striature d’indaco e di pesca, virava verso il tramonto, mentre stormi di uccelli migratori prendevano la via del meridione.
Friedrich von Kleist si sedette per terra accanto a lui. “Spero che i nostri siano riusciti ad arrivare sani e salvi al vecchio fienile.” Alla fine della battaglia, i tedeschi erano riusciti a mandare in rotta le forze polacche, ma un piccolo distaccamento aveva preso di mira il loro plotone e lo scontro a fuoco si era protratto per le strade del villaggio. Per coprire la ritirata dei soldati, i due ufficiali avevano loro comandato di disperdersi in vari gruppetti, inducendo i nemici a fare lo stesso. “Sapevo che la maggior parte dei polacchi avrebbero inseguito me, ecco perché ho dato ordine agli altri di precedermi… la ringrazio per avermi seguito fin qui, sottotenente.”
Kühn si passò una mano tra i capelli e rifletté a fondo sulle parole del suo compagno: quella dichiarazione lo aveva spiazzato e, per la seconda volta in un giorno, l’impalcatura di pregiudizi che involontariamente gli aveva costruito addosso barcollò pericolosamente.
Rifletté su quanto in fretta fossero cambiate le cose per lui, umile figlio di proletari: quando suo padre era morto, consumato dal cancro dopo una vita segnata dai ritmi massacranti del lavoro in fonderia, Erich aveva deciso di arruolarsi nell’esercito nella speranza di lottare per una Germania nuova e più vicina alle esigenze del popolo. Nonostante le reticenze della madre, a nemmeno diciott’anni era partito da Berlino con pochi averi stipati in una valigia di cartone e aveva presentato domanda di ammissione alla scuola ufficiali di Dresda. E adesso, dopo aver sperimentato tra i ranghi della Hitlerjugend l’essenza del vero cameratismo, si ritrovava a combattere spalla a spalla con un giovane rampollo della nobiltà prussiana.
Aprì la bocca, pur non sapendo esattamente cosa dire, ma si zittì non appena percepì su di sé gli occhi chiari del tenente, che sembravano volergli leggere dentro.
“Sarà ora di andare, Kühn?” disse von Kleist, rivolgendogli un sorriso sghembo. Con un gesto sommario, si ravviò all’indietro le onde di capelli dorati che gli piovevano sulle tempie, si rimise l’elmetto e si alzò in piedi. Non era molto alto né particolarmente robusto, ma compensava con una corporatura atletica e asciutta, messa in risalto da quell’uniforme che gli sembrava cucita addosso. Si affacciò al di là del nascondiglio tenendo alta la pistola, con lo sguardo intento di un’aquila che scruta la valle dalla sommità di un picco. “Calma piatta”, lo informò infine. “Venga, sottotenente, ma stia ben attento.”
Per tutta risposta, Kühn fece scattare la sicura della sua P38 e lo seguì come un’ombra.

L’ultimo vestigio del Sole morente non era che una striscia sanguigna dipinta sulla linea dell’orizzonte, prima avvisaglia delle tenebre impalpabili che presto li avrebbero avvolti. Friedrich von Kleist intravide la sagoma nera del fienile che incombeva in lontananza, vagamente rischiarata dal bagliore fioco della luna. Si appiattì dietro un albero cavo e si guardò intorno con circospezione, stringendo gli occhi: le spighe venivano scosse dolcemente dal vento della sera, mentre un nugolo di pipistrelli svolazzava intorno alle pale di legno di un vecchio mulino. Nessuno era in vista.
“Via libera”, bisbigliò.
I due ufficiali s’incamminarono verso il rifugio a capo chino, gli stivali che affondavano nell’erba alta fino al polpaccio. Circondato da uno steccato sbilenco e in parte divelto, il granaio era un enorme edificio col tetto spiovente, la facciata intonacata di bianco e una vistosa intelaiatura in legno che ricordava lo stile architettonico tedesco. Tutte le porte, anch’esse in legno, apparivano sprangate, ma dalle fessure tra le assi decrepite trapelavano un chiacchiericcio continuo e il tiepido lucore che un fuoco spandeva all’interno dell’ambiente.
Mentre Kühn gli copriva le spalle con la pistola ancora stretta nel pugno, il tenente von Kleist si accostò a quella che sembrava un’entrata laterale e bussò: tre colpi, secchi e decisi, dati con la punta delle nocche.
“Parola d’ordine,” gracchiò una voce dall’interno, in perfetto tedesco.
“Schadenfreude!” 1 rispose prontamente il sottotenente.
Friedrich scrollò la testa, sorridendo tra sé. “Ci faccia entrare, Eichmann.”
Si sentì lo schiocco del chiavistello e il gemito dei cardini che scorrevano cigolando, poi la porta si aprì disegnando una sottile lama di luce sull’erba. “Presto, dentro!” ingiunse ruvidamente il maresciallo, abbassando la sua antiquata Luger P08.

L’interno del fienile era pervaso da un’atmosfera lugubre, accentuata dalle fiamme dei bivacchi che guizzavano proiettando ombre sinistre lungo le pareti; un ampio squarcio sul tetto impediva che il fumo ristagnasse nell’ambiente.
Festoni di corde e altri attrezzi agricoli pendevano dalle travi che sorreggevano la struttura; le presse di fieno accatastate senza apparente logica ospitavano i sedili improvvisati di un gruppo di soldati intenti a conversare allegramente. Holger Schneider era appollaiato su un covone, dietro al quale spuntava la canna dell’obice, e stava fumando una sigaretta insieme ai suoi fedeli assistenti Horn e Schwarz, mentre Krause, in disparte in un angolo, giocava col cane facendogli mordere un berretto di stoffa.
Non appena vide i due nuovi arrivati, Otto abbandonò il suo temporaneo passatempo per andare a salutare il sottotenente Kühn, affondandogli il muso nella giubba dell’uniforme e scodinzolando entusiasta.
Nel frattempo, il maresciallo capo Eichmann prese il tenente in disparte per fargli rapporto dell’accaduto delle ultime ore, e gli raccontò di come una manciata di soldati comandati da Hoffmann fosse riuscita a tenere testa agli avversari mentre i serventi dell’artiglieria ripiegavano verso i campi trascinandosi dietro il cannone.
“Ci siamo trattenuti quel tanto che bastava per assicurarci che nessuno rimanesse indietro, poi ci siamo ritrovati fuori dal villaggio e ci siamo diretti qui come da ordini”, concluse.
Friedrich riservò un’occhiata d’insieme all’intero plotone, contando mentalmente il numero dei presenti. “Nessun ferito, oltre a quelli che sono stati trasportati al posto di medicazione dopo lo schianto?”
“No, signor tenente”, rispose il sottufficiale. “Si sono comportati tutti bene in sua assenza.”
Quella notizia ebbe il potere di rinfrancarlo più di quanto non lo avesse già fatto vedere i suoi soldati arzilli e di buonumore nonostante lo spiacevole inconveniente, e gli angoli della bocca gli si piegarono in un leggero sorriso. “E tra i nemici, avete fatto prigionieri?”
“Solo uno, che ci ha offerto la sua resa incondizionata. Gli altri hanno battuto in ritirata.” Eichmann indicò il cantone più buio. “Vede quei due col fucile, tenente?”
Il giovane allungò appena il collo, scorgendo ai loro piedi la figura di un soldato in verde-marrone che si abbracciava le ginocchia. Non fu particolarmente sorpreso dall’atteggiamento remissivo che mostrava di fronte ai suoi carcerieri. “Dopo andrò a fargli visita.” Indugiò su quell’ombra raggomitolata, poi si inoltrò sempre più a fondo nell’antro che li ospitava, verso l’alone di luce prodotto dalle fiamme crepitanti di un falò. “Lindemann, si metta subito in contatto col capitano Fromm”, ordinò, a voce abbastanza alta da catturare l’attenzione di tutti i presenti. “Dobbiamo organizzarci in fretta per raggiungere il resto della compagnia… o prepararci all’eventualità di trascorrere la nottata qui.”
“Subito, signor tenente!” scattò l’operatore radio, facendogli cenno di avvicinarsi. Subito dopo s’infilò le cuffie, rimase per una manciata di secondi in attesa e cominciò uno scambio concitato. A pochi passi di distanza, Friedrich non riusciva a captare le parole che pervenivano dall’altro capo, ma dal tono accalorato di Lindemann e dal nervoso tamburellare della penna tra un’annotazione e l’altra, dedusse che le notizie riferitegli da Hirsch non dovessero essere particolarmente buone. Quando la comunicazione s’interruppe, il graduato ripose le cuffie e riferì: “Signore, la nostra compagnia si trova a due chilometri da qui, non distante dal punto in cui ci siamo separati. La compagnia del capitano Bentheim ha indotto un reparto corazzato alla ritirata, mentre i nostri hanno sbaragliato la fanteria grazie all’intervento congiunto di un plotone della Leibstandarte…”
Il tenente inarcò le sopracciglia e fece per esprimere le proprie perplessità, ma Lindemann lo precedette: “Tuttavia, le due compagnie comandate dal maggiore Bühler sono state accerchiate da un reggimento di fanteria motorizzata e sono tuttora bloccate sulla linea del fronte. Ci sono giunte frammentarie informazioni a riguardo di un’esplosione in cui sarebbero rimasti feriti tre soldati, tra cui lo stesso maggiore.”
Hans è ferito? A quelle parole, Friedrich si sentì mancare un battito, e rimase per qualche istante a fissare il vuoto con gli occhi strabuzzati. “Il… maggiore?” sfiatò.
“Pare che non sia nulla di grave, visto che Bühler è rimasto a coordinare le operazioni come se nulla fosse, senza abbandonare il campo neanche per un minuto,” rispose il caporale, con un’alzata di spalle.
Non mi sarei aspettato nulla di diverso da lui, pensò il tenente, mentre un brivido di sollievo gli attraversava la spina dorsale. Nonostante la completa fiducia che nutriva nei confronti delle sue capacità, l’istinto lo portava a preoccuparsi per il suo compagno, e sapere che era fuori pericolo non era che una magra consolazione: conoscendo Hans e la sua tendenza a minimizzare anche gli infortuni più gravi, non si sarebbe meravigliato se gli avessero detto che aveva insistito per combattere con tre pallottole in corpo. “Capisco,” disse infine, cercando di darsi un contegno distaccato e buttando un’altra occhiata al suo orologio da polso. “Sono da poco passate le sette e mezzo di sera, e due chilometri a passo svelto si ricoprono in fretta. Riferisca ai soldati di disporsi per la marcia: intendo partire entro mezz’ora!”

“Ma quanto manca prima di arrivare?” borbottò il soldato Kollwitz, un giovanotto che doveva avere al massimo diciott’anni. “L’ora di cena è già passata da un pezzo, e a me brontola lo stomaco!”
Bauer lo affiancò e gli batté una manata sulla spalla, con ironica solidarietà. “Pensa che anche stasera ti toccheranno i piselli con lo speck!”
“E le solite gallette rafferme,” rincarò Löffler. “Vedrai come ti passa in fretta la fame, ragazzo.”
Kollwitz, stizzito, incassò il collo tra le spalle e affrettò il passo. “Bah, contenti voi.”
“Le ostriche e il caviale sono per ragazzini viziati!” gli urlò dietro Bauer, provocando in Löffler uno scoppio di risa incontrollate.
“Dopo il fango e il sudore, piselli e speck dalla marmitta da campo!”
Incuranti delle proteste del commilitone più giovane, i due uomini si scambiarono uno sguardo complice e iniziarono a cantare, coinvolgendo gran parte del plotone.

“Nach Drill und Dreck
gibt’s Erbsen mit Speck
aus der Gulaschkanone!”
2

Non c’era anima viva in giro: i canti, gli schiamazzi e le risate dei soldati erano le uniche cose che turbavano la quiete dell’aperta campagna; il medaglione argenteo della Luna spiccava in un cielo punteggiato di stelle, guidando i loro passi lungo quel sentiero deserto.
Friedrich von Kleist marciava in silenzio, le mani in tasca e un occhio distratto rivolto al paesaggio. Era in quei momenti che il suo animo romantico si risvegliava, riportando alla sua mente suggestioni che restavano celate dalla luce del giorno. Un sottile turbamento, soffuso di malinconia ma al tempo stesso impetuoso come una tempesta, lo conduceva lontano dalla prosaica quotidianità e guidava i suoi pensieri nelle lande del sogno.
Ma quel giorno, a gravare su di lui erano nubi cariche di pioggia: per inclinazione personale, sapeva di poter partecipare solo da esterno alla gioia dei suoi commilitoni, ma se ci ripensava non riusciva neanche a condividere le ragioni di tanta allegrezza. Essere scampati alla morte, ricevendo la grazia di un nuovo giorno da vivere, non era un motivo sufficiente per gioire: era solo un invito a rinnovare la lotta, fino a quando la vittoria o la morte non ne avrebbero decretato le sorti finali.
Quel giorno, nessuno aveva apertamente messo in discussione la sua decisione di trattenersi insieme al primo battaglione, trasgredendo gli ordini del capitano prima e di Hans Bühler poi, ma i sussurri dei sottufficiali rimarcavano il fatto che tutti si fossero resi conto della gravità della situazione.
Tuttavia, egli sentiva di aver fatto la cosa giusta, nella speranza di salvare le sorti della battaglia, ed era disposto ad affrontare i suoi superiori per far valere le proprie ragioni.

Rannicchiato sullo scomodo sedile posteriore della Kübelwagen, Hans Bühler giaceva insonne, prestando un orecchio distratto ai fruscii della foresta e al sommesso russare del capitano Schwieger. Al suo fianco, allineati, c’erano il cinturone della pistola, il berretto da ufficiale, una torcia e il binocolo.
Nel caso qualcuno tentasse una sortita notturna, meglio farsi trovare preparati…
Non si aspettava di trovarsi così presto a dover pernottare sul campo di battaglia, coi polacchi accampati dall’altra parte della trincea, benché il suo ferreo addestramento lo avesse già preparato all’evenienza quando ancora vestiva le stellette dorate di capitano. La luna piena, come una guardiana silente, vegliava sulle due schiere senza prender parte al conflitto.
Lo zaino appallottolato sotto la testa e gli stivali sporchi di fango ai piedi, il maggiore si rigirò inquieto su quel giaciglio improvvisato. I sedili scricchiolarono rumorosamente e una fitta al fianco gli riportò alla mente la ferita ricevuta in giornata, che, pur non essendo invalidante, continuava a dolergli ogni volta che tentava un movimento un po’ più brusco.
Subito dopo, udì un grugnito infastidito e uno sbadiglio al di là dello schienale che lo separava dal suo commilitone.
“Günther, sei sveglio?” bisbigliò.
Trascorse qualche istante di silenzio prima che l’altro rispondesse, biascicando le parole. “Hans… da quanto tempo non mi chiamavi per nome!”
“Le vecchie abitudini sono dure a morire.” Bühler sorrise appena, allungando le gambe fuori dal finestrino. “Ti ricordi, le notti d’estate passate a dormire all’addiaccio insieme agli altri capitani? Eravamo io, te, Bentheim e Walkenhorst…”
“E questi sedili sono sempre stati scomodi,” commentò l’altro. “Ma c’è da dire che sarebbe potuta andare peggio: pensa a quei poveracci che dormono nei sacchi a pelo con questa umidità…”
Il maggiore annuì in silenzio. Gli eventi appena precedenti alla guerra lo avevano disorientato, mettendo a dura prova la sua capacità di adattamento: poco prima di un’esercitazione, il precedente comandante di battaglione era morto per un colpo accidentale partito dalla pistola che stava maneggiando, e l’imminenza della guerra aveva portato il colonnello Wolff ad affidare l’incarico proprio a lui, che tra i quattro capitani era quello con più anni di servizio all’interno della Divisione. A distanza di due mesi, il giovane faceva ancora fatica ad abituarsi a quell’inaspettato cambiamento e a tutte le responsabilità che gli gravavano sulle spalle.
“E così, anche l’ultimatum della Francia è scaduto…” riprese Schwieger, muovendosi sui sedili anteriori.
“E adesso abbiamo praticamente tutta l’Europa schierata contro di noi”, disse laconico il maggiore. “Evidentemente, non gli è bastato metterci in ginocchio per vent’anni, con quelle scellerate clausole del trattato di Versailles… a quanto pare, nel prossimo futuro dovremo prepararci a combattere su più fronti.”
“Adesso è giunto il momento di rialzarci e di dimostrare che la Germania non china il capo di fronte a nessuno,” fu l’ardente replica del capitano.
Hans tacque; la sua mente rievocò le solide convinzioni che lo avevano spinto ad arruolarsi nell’esercito, che anni dopo si sarebbero perfezionate incontrando gli afflati idealistici del tenente von Kleist. “L’aquila risorgerà dalle proprie ceneri, come una fenice…”
“Sai, io ricordo ancora bene gli anni della crisi economica…” continuò Schwieger. “All’epoca ero ancora un ragazzino, ma mi sembra ieri quando mio padre tornò a casa dicendo di aver perso il suo lavoro come portuale ad Amburgo. Lui e mia madre dovettero fare molti sacrifici per tirare avanti con cinque figli piccoli…”
“La ricordo anch’io”, rispose Bühler, dopo una lunga pausa. “Mio padre era un avvocato molto rispettato, ma una volta tornato dalla guerra non fu più lo stesso: una mina gli aveva portato via una gamba e le sanzioni economiche lo costrinsero a chiudere il suo ufficio, campando di una misera pensione per invalidi.” Ancora una volta, il giovane fu investito da un’ondata di ricordi, che si susseguivano come in una catena: rivide se stesso a otto anni, con la divisa dell’austero collegio in cui sua madre l’aveva mandato; suo padre con le stampelle e il volto sfigurato dalle ustioni; e infine, come se immaginasse di contemplarlo dall’alto, il borgo medievale in cui era nato, immerso nel verde smeraldino delle colline e contornato dalle tinte più intense degli sconfinati boschi di abeti. “Mia madre fu costretta a ritirarmi dal collegio, e da quel momento in poi passai il resto della mia infanzia nella Foresta Nera, a casa dei miei nonni.”
Schwieger non rispose subito, perché un sonoro sbadiglio mise fine alla conversazione. Si mosse facendo dondolare il veicolo e, prima di distendersi nuovamente, concluse: “Ti conosco da così tanto tempo che potrei considerarti quasi un fratello, Hans. Mi ha fatto piacere parlare con te come ai vecchi tempi.”
Bühler sorrise nel buio. “Grazie per la chiacchierata, Günther.”
“Adesso torno a dormire. E tu vedi di non strapazzarti troppo, con quella ferita.”
Con un sospiro, il maggiore si rannicchiò contro lo schienale e si tirò la coperta fin sul mento, concedendosi di indugiare in qualche frammento di ricordo che lo legava a Friedrich.
Sapeva già che non avrebbe chiuso occhio.

Appena fuori dal campo visivo del comandante di compagnia, Friedrich von Kleist si passò una mano sul viso e scrollò il capo con l’aria di rassegnarsi all’ineluttabilità.
“La sua efficienza è proprio ciò che ci si aspetta da un ufficiale della Wehrmacht, tenente,” gli aveva detto il capitano, “sebbene un tale zelo nel condurre le operazioni non fosse stato richiesto da nessuno. Mi limiterò a renderlo noto al colonnello Wolff, che deciderà i provvedimenti da prendersi. Per ora, fino a nuovo ordine, si consideri congedato.”
Erano giunti all’accampamento poco prima delle nove di sera, dove ad attenderli avevano trovato un rancio tiepido e gli aneddoti dei loro compagni d’armi. I baraccamenti della 1. SS-Panzer-Division Leibstandarte emergevano dall’oscurità, punteggiati da tiepide luci, mentre i soldati delle due compagnie di fanteria si erano dovuti accontentare di alloggi di fortuna, e ancora si attardavano intorno ai fuochi in piccoli gruppetti sparuti.
Trascinando un passo dopo l’altro, il pesante bagaglio in spalla, il tenente s’incamminò verso la chiesetta sconsacrata che fungeva da camerata per gli ufficiali inferiori, pregustando già il momento in cui avrebbe adagiato le sue membra su qualcosa di morbido.
Le voci di tenenti, sottotenenti e capitani riverberavano tra le basse navate, occupate quasi completamente da zaini e sacchi a pelo. Le pareti dell’edificio erano spoglie, e l’intonaco bianco, scrostato in più punti, lasciava intravedere le macchie di colore di affreschi sbiaditi. Nell’aria, viziata dalla presenza di molte persone, aleggiava un vago sentore di muffa.
Friedrich stava ancora cercando un angolino da occupare con le proprie cose, quando vicino a ciò che restava dell’abside vide un ufficiale che agitava la mano per farsi notare. Riconoscendolo all’istante, il giovane lo raggiunse.
“Konrad!” lo salutò.
Il capitano Bentheim spostò lo zaino per fargli posto. “Ce ne hai messo, di tempo,” osservò.
“Storia lunga”, disse von Kleist laconico, mentre allestiva la sua postazione. “Il nostro intervento è riuscito a trarre d’impaccio il primo battaglione, ma una serie di inconvenienti ci hanno trattenuti sul posto…”
“Ne stavo giusto parlando a cena, insieme a Fromm. Ho sentito dire che Hans non se la passa meglio…”
Friedrich s’incupì. “Direi di no, anche se…” Si accostò all’amico, abbassando la voce affinché solo lui sentisse. “Conoscendolo, non lo ammetterebbe mai.”
“Un buon ufficiale si vede anche dalla capacità di anteporre l’incolumità dei soldati alla propria.”
“Già.” Il tenente si sistemò sul suo giaciglio, la schiena appoggiata al muro. “E tu? Hirsch diceva che vi siete scontrati con una sezione corazzata…”
“Sì”, rispose Konrad, con un brillio divertito negli occhi grigi. “E Baumann mi deve una birra.”
Von Kleist inarcò le sopracciglia in una muta richiesta di spiegazioni, e l’altro si strinse nelle spalle.
“Ha lanciato una sfida: una birra a chi per primo avrebbe distrutto un carro armato…” spiegò.
“Ah!”
Bentheim cambiò discorso. “Pensavo che con quelli delle Waffen-SS ci fosse anche Reinhardt, ma a quanto pare la sua compagnia è occupata ancora più avanti, con le avanguardie corazzate.”
“Volevo proprio chiederti di lui… Werner von Tannenberg, invece, l’hai visto?”
“Domani lo incontreremo sicuramente, durante la marcia”, disse il capitano. “E forse, tra un paio di giorni ci ricongiungeremo anche con Reinhardt e Hans…”
Von Kleist annuì, sentendo improvvisamente la stanchezza prendere possesso del suo corpo. Se il furore della battaglia e l’adrenalina della corsa lo avevano tenuto sveglio fino ad allora, in quel momento iniziava a sentire le membra indolenzite e la testa pesante. “Suppongo di sì,” rispose.
Il discorso cadde così come era iniziato e, ancora una volta, Friedrich non poté fare a meno di interrogarsi sulle sorti del suo compagno.
C’erano momenti in cui l’uomo di ferro si toglieva l’uniforme e tornava ad essere semplicemente Hans, momenti in cui ogni formalità veniva accantonata e restava solo la natura eroica e sacrale del Bund.
Scivolò nel sonno pensando a lui.


  1. Schadenfreude è un concetto intraducibile che può essere reso in italiano come “gioire delle disgrazie altrui”.↩︎

  2. Dopo il fango e il sudore / ci sono i piselli con lo speck / dalla marmitta da campo! [nota: Drill vuol dire letteralmente “duro addestramento”, ma in questo caso penso che si riferisca in maniera generica alla fatica dei soldati]
    Sia questi versi che la battuta “caviale e ostriche sono per ragazzini viziati” (“Die Austern und der Kaviar sind für verwöhnte Knaben”) sono tratti da una celebre canzone militare della tradizione tedesca, Erbsen mit Speck.↩︎

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ~ Alte Kameraden auf dem Marsch durch's Land ***


IV.
Alte Kameraden auf dem Marsch durch's Land

 

La colonna di mezzi corazzati, camion e veicoli militari si fermò in prossimità di una villa di campagna abbandonata da anni. Mentre i soldati recuperavano l’attrezzatura, il tenente von Kleist scese dalla Kübelwagen per sgranchirsi le gambe e, incuriosito, allungò il collo per sbirciare oltre il muro soffocato dai rampicanti: l’edificio, che ai tempi del suo massimo splendore doveva essere residenza estiva di un qualche barone locale, era adesso una dimora spettrale, con le finestre che si aprivano verso l’interno come orbite vuote e l’intonaco butterato che veniva giù a pezzi, mentre il tetto era completamente crollato su se stesso. Il parco era invaso da una foresta impenetrabile di alberi abusivi ed erbacce.
Gli parve una metafora più che evidente della decadenza dei tempi, una delle prime avvisaglie di un’epoca che avrebbe sacrificato l’ideale, la bellezza e la virtù all’altare del materialismo. Lo percepiva nell’aria, quel flusso inarrestabile, e non poteva fare a meno di chiedersi se gli sforzi dei pochi che ancora ci credevano sarebbero mai stati sufficienti a contrastarlo, invertendo le tendenze per forgiare un futuro migliore.
Fu la voce del colonnello della Leibstandarte, che per quel giorno si era assunto l’impegno di coordinare le operazioni, a richiamarlo all’attenzione.
“Lasceremo ai Panzer il compito di aprire la strada, mentre la cavalleria attaccherà sui fianchi,” disse dopo i soliti convenevoli, quando tutti gli ufficiali furono radunati intorno a lui. “La fanteria si manterrà nelle retrovie a ridosso del bosco, pronta a intervenire in caso di necessità. Maggiore Ludendorff?”
Si fece avanti un ufficiale con gli speroni ai piedi e la sciabola da cavalleria appesa al fianco. “Signore?”
“Noi ci separiamo qui. Confido in una buona riuscita della strategia.”
“Non la deluderemo, signor colonnello,” rispose l’altro, salutando militarmente.
Il colonnello ripeté le ultime disposizioni ai comandanti delle due compagnie di fanteria, poi congedò anche loro, con l’ordine di tenersi in contatto via radio.
Konrad von Bentheim e Klaus Fromm si misero a capo delle rispettive colonne e s’incamminarono verso i recessi boscosi che delimitavano i contorni dell’ampia distesa pianeggiante.

Mano a mano che i soldati s’inoltravano nella vegetazione, l’umidità che permeava l’aria del primo mattino pareva infittirsi, avvolgendo le sagome dei pini in una nebbiolina che le rendeva quasi evanescenti, e l’odore del muschio diventava un tutt’uno con quello della terra bagnata. Il sottobosco scricchiolava sotto i loro piedi e il canto degli uccellini si levava timido dai rami, salutando il levare del Sole che tingeva i nembi di sfumature violette.
Friedrich von Kleist rimase assorto a guardare i suoi mitraglieri rimpiattati dietro i cespugli d’erba alta, camminando avanti e indietro per rivolgere cenni d’approvazione ai sottufficiali o ripetere le direttive del capitano. Udì la voce chioccia di Walther Eichmann che ammoniva un gruppo di soldati che si erano fermati a scroccare sigarette da Schneider: col suo occhio acuto, come un gufo appollaiato su un ramo, il maresciallo non si lasciava sfuggire nulla. “Ai vostri posti, marmittoni!” abbaiò, usando il fucile come se fosse un bastone per scacciare le belve. Il piccolo crocchio si diradò con un sottofondo di mugugnii e lamentele, e Eichmann si voltò verso il tenente con un sogghigno compiaciuto.
Il giovane si limitò a riservargli una muta approvazione, senza distogliere lo sguardo dalla barriera di sacchi di sabbia che aveva fatto allestire in prima linea, in attesa di prendervi posto. Gli parve strano non avere con sé il suo Schmeisser, che sul campo di battaglia costituiva un vero e proprio prolungamento del suo braccio. Con un gesto meccanico, involontario, la sua mano andò a sfiorare la fondina della pistola che gli pendeva dalla cintura.
“Von Kleist, il capitano ci vuole tutti quanti a rapporto,” gli disse Wessel, che passava di lì. “Veda di non tardare anche stavolta.”
Cogliendo la velata allusione del suo pari, il tenente roteò gli occhi e in silenzio lo seguì.

Friedrich si sedette su un sasso, le dita che tormentavano svagate la cordicella del suo binocolo. Rimanere in attesa, senza sapere quel che sarebbe successo di lì a poco, era di sicuro meno pericoloso che guidare le truppe all’assalto ma, se durante i combattimenti riusciva a fare il vuoto nella mente e concentrarsi solo sull’attimo presente, in quel momento i suoi pensieri erano tutti rivolti al senso d’incertezza che pervadeva quell’istante sospeso.
Guardò ancora una volta gli ufficiali della sua compagnia: il tenente Wessel conversava animatamente con Körner e il capitano, Hartmann pareva come sempre in attesa di un ordine e la figura del sottotenente Kühn torreggiava in tutta la sua imponenza vicino a un cannone controcarro così lucido da sembrare appena uscito dalla fabbrica. Si alzò per raggiungerlo, ma subito dopo individuò il capitano Bentheim, poco distante dal suo schieramento. Gli si avvicinò e lo chiamò.
“I miei uomini scalpitano”, disse Konrad, indicando con un sorriso bonario i soldati del reparto mortai pesanti. “Non vedono l’ora di entrare in azione.”
Il tenente annuì con aria critica. “Sono tutti quanti convinti che entro metà settembre Varsavia sarà già caduta, ma sottovalutano la determinazione dei nemici. Anche se l’intervento di ieri si è concluso con una nostra vittoria, pure loro ci hanno dato del filo da torcere.”
“È così. Ho come l’impressione che reincontreremo presto anche i carri superstiti di ieri. Si sono ritirati per andarsi a leccare le ferite da qualche parte, ma non si arrenderanno facilmente.”
“Oggi vedremo se i nostri Panzer riusciranno a tenergli testa.”
“Sicuramente.” Sulle labbra del capitano comparve l’ombra di un sorriso, effimero e fugace. A bassa voce soggiunse: “Sempre che non succeda come l’altro giorno…”
Sulle prime, Friedrich non disse nulla, né l’altro sembrava attendere una replica. Aveva compreso subito quale fosse l’oggetto di quell’allusione, anche se Konrad non l’aveva menzionato espressamente: quell’episodio così improvviso aveva lasciato sconvolti entrambi. Gli balenò davanti agli occhi la visione delle bandiere di guerra adagiate sui feretri, l’atmosfera austera della parata funebre, i camerati che cantavano Ich hatt’ einen Kameraden per tutti i caduti di quella giornata. Anche se quegli uomini erano morti facendo il loro dovere, anche se da soldati s’imparava presto a convivere con una simile consapevolezza, riaversi dal primo contatto ravvicinato con la morte non era stato facile per nessuno.
Proprio in quel momento, si iniziarono a udire botti di spari in lontananza, segno che lo scontro era iniziato e le truppe nemiche si stavano muovendo nella loro direzione.
“È ora di andare”, disse risoluto Bentheim, che improvvisamente aveva recuperato tutta la sua tempra.
Friedrich ordinò ai suoi soldati di tenersi pronti, si armò e andò a prendere il posto che gli spettava.

Una voce squillante si levò al di sopra degli spari. “Signor maggiore, convocazione urgente dal tenente colonnello von Rauheneck!”
Hans accolse l’annuncio con un sospiro rassegnato: se il suo superiore lo sottraeva dalle sue mansioni nel bel mezzo di uno scontro campale, c’era solo da aspettarsi l’ennesimo cicchetto. Si alzò sistemandosi la bustina sul capo e con un gesto sommario si ripulì i pantaloni dalla sporcizia, per rendersi un po’ più presentabile agli occhi dell’anziano ufficiale.
“Walkenhorst, conto su di lei,” disse semplicemente, dando al suo capitano una pacca sulla spalla.
“Sissignore!” esclamò l’altro, con un ghigno complice.
Prima di allontanarsi, Bühler lanciò un’ultima occhiata alla prima linea dello schieramento: il fumo nascondeva il colore del cielo, e l’odore pungente della polvere da sparo era così intenso da costringere un paio di soldati a coprirsi il naso con un fazzoletto bagnato.
Von Rauheneck gli piombò di fronte prima ancora che lui lo raggiungesse. Era un uomo di mezza età, più tozzo che robusto, con spessi occhiali dalla montatura d’oro e i capelli castani che gli si diradavano sulle tempie. Il giovane ufficiale si ricompose e scattò sull’attenti, mentre l’altro lo squadrava dall’alto in basso con l’aria di un padre intento a osservare il figlio adolescente che si atteggiava a uomo navigato. “Venga, maggiore, venga.”
Bühler lo seguì senza battere ciglio.
“Suppongo che lei sappia del tenente von Kleist,” esordì il tenente colonnello.
Egli si mise sulla difensiva. “Naturalmente, signore.”
“Bene, è già la seconda volta che un suo ufficiale si rende protagonista di un atto d’insubordinazione.” Von Rauheneck alzò la testa per guardarlo dritto in faccia, e il maggiore sostenne il suo sguardo senza fiatare: il suo superiore gli arrivava poco sopra la spalla, e le lenti spesse, l’espressione intenta e il viso rotondo facevano sembrare i suoi occhi ancora più piccoli. “Dovrebbe dare il buon esempio, guidare le sue truppe senza inutili ostentazioni di coraggio e ardimento.”
“È così, signor tenente colonnello.”
“Senz’altro, maggiore, senz’altro.”
Quando furono giunti alla postazione di comando, l’ufficiale più anziano trasse un’elegante pipa di legno dal taschino, la caricò e l’accese, con gesti che la dimestichezza aveva reso rapidi e precisi.
“Von Kleist ha delle doti eccellenti,” soggiunse infine, “ma è un po’ troppo abituato a fare di testa sua.”
Bühler non replicò, conoscendo ormai fin troppo bene il carattere del suo superiore. Anche se lui e Friedrich, nel privato, avevano superato da tempo certe barriere, la gerarchia militare gli imponeva di ostentare imparzialità e assumere la facciata granitica del superiore che emana disposizioni senza perdersi in sentimentalismi. “Intendo parlargli quanto prima, signore.”
Una cosa semplice, con gente come il caporale Schneider o il sottotenente Schultz, che però diveniva un’impresa ardua col cavaliere prussiano, come lo chiamava affettuosamente lui: il giovane sapeva tenergli testa alla pari, senza chinare il capo; poteva sembrare altero, ma l’arroganza non faceva parte della sua natura. E, forse proprio in virtù di questo, Hans non riusciva a vederlo come un semplice sottoposto: il legame che si era instaurato tra loro – prima nella vita militare, e in seguito anche in quella privata – era qualcosa che ricordava da vicino le fratellanze guerriere delle società indogermaniche.
“Mi faccia rapporto di quanto accaduto da quando ci siamo separati, prego”, lo interruppe nuovamente von Rauheneck. Si sedette su una seggiolina pieghevole e accavallò le gambe, spiegando la mappa del fronte.
Il maggiore rimase in piedi, le braccia conserte, e senza lasciar trapelare alcuna emozione iniziò a elencare le operazioni da lui condotte e i successi conseguiti negli ultimi giorni.
“Non si monti la testa, Bühler, e tenga bene a mente che comandare un battaglione è un fardello più che un onore”, lo ammonì l’altro quando ebbe finito, senza alzare gli occhi dalla cartina. “E adesso, bando alle ciance! Si metta pure comodo, perché intendo esporle la strategia alla quale desidero che lei si attenga.” Lasciò cadere una breve pausa a effetto, poi lo guardò di sottecchi e puntualizzò: “Alla sua età io ero ancora tenente, quindi le consiglio di ascoltare e imparare da chi ha più esperienza di lei.”
Hans corrugò la fronte. Avrebbe voluto replicare, ma ancora una volta preferì tenere la bocca chiusa: si rendeva conto che il suo superiore avrebbe messo da parte i propri pregiudizi solo dopo averlo visto in azione sul campo, e che ogni resistenza a quel trattamento avrebbe soltanto distorto la sua percezione. “Sissignore”, si limitò a dire, sedendosi su un muretto poco discosto da lui. Di nuovo incrociò le braccia sul petto e rimase in paziente attesa.
Von Rauheneck iniziò con una lunga digressione che partiva dai mesi antecedenti la guerra, ripetendo cose che Bühler sapeva già a memoria. Per un po’, il giovane rimase ad ascoltarlo, controllando di tanto in tanto l’orologio da polso, ma dopo dieci minuti abbondanti la sua attenzione iniziò a scemare e fu attirata dal capitano Walkenhorst che passava di lì. Quando i loro sguardi s’incontrarono, il maggiore finse di grattarsi la testa e, con un movimento appena percettibile, mimò con le dita il gesto di puntarsi la pistola alla tempia. L’altro si coprì il volto per non far vedere che stava ridendo, ma il tenente colonnello, troppo preso dal proprio eloquio, non ci fece minimamente caso.

Solo dopo un tempo che parve interminabile, von Rauheneck iniziò ad esporre i propri puntigli strategici. Parlava così veloce che Bühler fu costretto più volte a scarabocchiare le parole mentre li annotava sul suo taccuino, sbirciando la mappa da sopra la sua spalla per meglio controllare i riferimenti. Infine, il tenente colonnello allungò le gambe, si alzò con un grugnito di soddisfazione e batté una sonora pacca sulla schiena del giovane. “Adesso vada, maggiore. Vada a riferire i miei ordini e torni qui a farmi rapporto.”
Hans aggrottò le sopracciglia: von Rauheneck aveva l’abitudine di usarlo come portaordini fin da quando era sottotenente e, apparentemente, non aveva alcuna intenzione di sollevarlo da quell’incarico. Scuotendo il capo con rassegnazione, si avviò verso le prime linee ripassando mentalmente la gran quantità di disposizioni che il tenente colonnello gli aveva affidato.

Rombo di motori, deflagrazioni e sferragliare di cingoli segnalarono l’inesorabile avvicinamento delle truppe corazzate, producendo una cacofonia assordante. Sospinte dal vento, bollenti zaffate di fumo portavano con sé il tanfo del carburante e della lamiera bruciata.
Konrad von Bentheim imbracciò un MP38, lo caricò e si guardò intorno, cercando di fendere la caligine: i soldati della compagnia fremevano, incalzati dal desiderio di andare incontro ai nemici.
Appostato dietro la barriera, i gomiti appoggiati sui sacchi di sabbia, il tenente von Kleist osservava l’avanzata dei blindati attraverso le lenti del suo binocolo. Come sempre quando doveva guidare un assalto contro la fanteria nemica, oltre alle bandoliere che portava a tracolla, anche il suo tascapane era pieno fino all’orlo di munizioni.
Il capitano affidò il comando del plotone mortai pesanti al tenente Koch, gli ordinò di avvicinarsi quel tanto che bastava da poter tagliare un’eventuale ritirata al nemico e strisciò accanto a von Kleist, turandosi il naso e la bocca per evitare di tossire.
“Ci sono quasi addosso, ma non sembrano essersi accorti che ci troviamo qui,” gracchiò Friedrich, gli occhi che gli lacrimavano. “Ma che…” Rimase ammutolito per un istante, poi qualcuno completò la frase con l’onomatopea di un’esplosione.
“Meglio che al cinema!” esclamò allegramente un giovane maresciallo, che come lui stava assistendo alla battaglia.
Incuriosito, Konrad prese a sua volta il binocolo e individuò la scena che aveva attirato l’attenzione dell’amico: la carcassa di un 7TP giaceva riversa nel fango col fianco squarciato, divorata dalle fiamme, mentre una colonna di fumo nero si levava pigra verso il cielo. Quelli che dovevano essere due membri dell’equipaggio stavano trascinando a spalle un compagno ferito, sfruttando la protezione dei carri amici. Constatò che da un bel po’ di tempo le due formazioni compatte dovevano aver irrimediabilmente ceduto il passo a scontri isolati, con Panzer e 7TP che s’inseguivano e si recuperavano come belve sul terreno di caccia, talvolta ingaggiando duelli a colpi di cannone. I tedeschi erano in superiorità numerica e i loro carri più veloci, più robusti e meglio armati, ma dovette ammettere che i nemici si stavano battendo con grande coraggio. Un carro polacco virò bruscamente per evitare i traccianti di un Panzer III, slittò ruggendo su una pozza di carburante e brandeggiò il cannone in direzione del suo secondo rivale, un Panzer IV. Divenuto improvvisamente preda, l’inseguitore non ebbe tempo per contrattaccare: fece una manovra disperata nella speranza di limitare il danno, ma il proiettile centrò in pieno il suo serbatoio, sventrandolo come una scatoletta di latta e generando un incendio che lambì l’erba secca.
“Oh, cazzo,” imprecò un sottufficiale. “È già il secondo che fa saltare…”
Senza neanche compiacersi del proprio successo, l’aspirante asso polacco si dileguò tra le falde di fumo rutilante, facendosi beffe delle cannonate che scalfivano la sua corazzatura.
I due ufficiali, impressionati, rimasero in silenzio. Bentheim tornò a osservare il Panzer III, che nel frattempo si era lanciato all’inseguimento del carro polacco e stava crivellando di cannonate il suo fianco. Gli tornò in mente Reinhardt, che era comandante di un carro identico a quello, e per un istante gli venne da immaginare che fossero proprio lui e i suoi uomini a dare una così spietata caccia al suo nemico.
Quell’ultimo pensiero gli disegnò un accenno di sorriso sulle labbra.

Il maggiore Bühler finì di smistare i feriti e i prigionieri di quella giornata e varcò l’entrata dell’accampamento con la sensazione di essersi tolto uno sgradevole peso dal petto.
Alla fine, von Rauheneck si era convinto a lasciargli carta bianca per quanto riguardava il suo reparto, lui e Walkenhorst avevano guadagnato terreno e con un assalto frontale erano riusciti a penetrare a fondo nelle difese polacche, per poi disperderle e metterle in fuga.
Bühler sapeva che quella era una prova a cui il suo superiore li aveva sottoposti: la tendenza che lui e i suoi commilitoni avevano ironicamente soprannominato sindrome da precettore non tardava mai a manifestarsi, soprattutto nei confronti di coloro che il tenente colonnello reputava troppo giovani per il ruolo che ricoprivano – a detta sua, dei pivelli – e l’unico modo per abbatterla era rendersi degni della sua fiducia. Non era sicuro del fatto che quella vittoria sarebbe bastata a soddisfare le aspettative dell’anziano ufficiale, ma almeno per quel giorno poteva dire di aver fatto il suo dovere.
Il posto di medicazione era un grosso tendone verde con una croce rossa sulla parte frontale, che al suo interno ospitava file ordinate di lettini sui quali erano adagiati feriti più o meno gravi. Alcuni si lamentavano, rigirandosi inquieti tra le coperte sporche di sangue, altri scrivevano lettere da spedire alla famiglia o scalpitavano, impazienti di essere dimessi e tornare operativi.
Gli ufficiali medici supervisionavano l’operato degli infermieri, che andavano avanti e indietro coi loro carrelli. Qualcuno di loro sollevò il braccio per salutarlo militarmente, e il maggiore si ripromise che sarebbe andato a far loro visita per informarsi della salute dei suoi soldati.
Prima, però, si guardò intorno in cerca del medico che lo attendeva per le medicazioni di rito.
“Venga, signor maggiore”, lo chiamò un dottore biondo e mingherlino, all’incirca della sua età.
Hans si lavò le mani e il viso, ancora sporchi di polvere da sparo, nel catino che il giovane gli porgeva, poi si sbottonò la giubba e la camicia. Con la familiarità data da anni di cortesi interazioni, l’altro rimosse la fasciatura sporca e si chinò a esaminare la ferita, senza riuscire a trattenersi dallo scuotere la testa. Prima che Bühler potesse chiedergli delucidazioni, si affrettò a precisare: “Sta guarendo bene, ma le raccomando la massima attenzione.” Alzò appena la testa e lo guardò con una sfumatura severa negli occhi grigi. “Non vorrà mica che si riapra o che s’infetti?”
“Non si preoccupi, dottore, non ho intenzione di trascurare i suoi ammonimenti”, disse l’ufficiale in tono accomodante. Ed era vero, anche se nel loro precedente colloquio nessuno dei due aveva fatto cenno alla possibilità di condurre un assalto di fanteria su terreno accidentato – come effettivamente aveva fatto fino a poche ore prima.
“Mi raccomando: eviti di fare movimenti troppo bruschi e, soprattutto, domani torni da me per la medicazione”, concluse il medico, quando ebbe finito di disinfettargli la ferita e di applicargli nuove bende. “Se continua di questo passo, tra una settimana sarà come nuovo.”

Bühler si aggirò per i lettini dell’infermeria senza apparente meta, fin quando non individuò quello che ospitava il giovane soldato che era rimasto ferito nell’esplosione il giorno precedente. Appena notò che stava venendo verso di lui, il ragazzo si sollevò debolmente sui gomiti e accennò un saluto. “Signor maggiore?”
L’ufficiale gli fece cenno di tornare a sdraiarsi, prese uno sgabello e si sedette accanto al letto. “Come va oggi, Hase?”
“Bene, signore”, rispose la recluta, accennando un flebile sorriso. Affondò di nuovo la testa fasciata nel cuscino e gli rivolse uno sguardo carico di aspettativa. “Quando… quando potrò tornare a combattere?”
“Quando il dottore dirà che puoi farlo.” Notando che il luccichio negli occhi verdi del ragazzo si affievoliva, deluso da quella semplice asserzione, Bühler si affrettò a puntualizzare l’ovvio: “Sono un soldato, non un medico.”
La recluta rimase in silenzio a fissare il soffitto. Il suo volto era pallido, privo del solito rossore, e anche l’entusiasmo che solitamente lo animava sembrava infiacchito dalle ripercussioni di quell’incidente. “Signor maggiore,” mormorò poi, dopo una pausa che parve infinita. “Il maresciallo Bergmann dice sempre che lei è uno degli ufficiali migliori della Divisione… e io credo davvero che abbia ragione.”
Hans sorrise con indulgenza: Lars Hase, diciannove anni, era stato assegnato al suo battaglione la settimana successiva alla sua promozione a maggiore, e i commilitoni – Bergmann in particolare – lo avevano subito preso a benvolere. “Può darsi,” concesse, sentendo su di sé tutto il peso di quelle implicazioni. “Ma il valore va innanzitutto dimostrato sul campo di battaglia.”
La risposta parve solo in parte soddisfare il ragazzo, che aggrottò le sopracciglia bionde e si perse nuovamente a contemplare le lampade che pendevano a intervalli regolari dall’intelaiatura del tendone. “Spero soltanto di poter contribuire alla vittoria quando arriveremo a Varsavia…”
Il maggiore spostò lo sguardo dal ragazzo all’ambiente circostante: un infermiere, giunto sul momento per visitare il paziente, gli rivolse una muta richiesta di lasciarlo lavorare in pace. “Ognuno di noi farà la sua parte, quando giungerà il momento. Adesso, soldato, pensa a riposare.”
Con quelle parole si congedò e uscì di nuovo nell’aria aperta del piazzale, accogliendo con sollievo l’odore del cibo caldo e il tintinnio delle gavette e dei mestoli.

Ebbri di vittoria, gli ufficiali della Panzer-Division Leibstandarte avevano organizzato una piccola festa insieme allo squadrone di cavalleria di Ludendorff e alle due compagnie di fanteria della Ostpreußen. Ovunque echeggiavano risate, musica e brindisi; agli alberi erano appese file di fiammelle, ricavate da candele e barattoli dipinti, che oscillavano appena, proiettando strane fantasmagorie lungo i profili delle tende. Il frizzante venticello serale, che preannunciava l’approssimarsi dell’autunno, scuoteva le fronde dei pini in un sottofondo di bisbigli e fruscii.
I carri catturati erano stati opportunamente decorati con la Balkenkreuz simbolo dell’esercito tedesco e schierati all’entrata dell’accampamento, mentre i prigionieri, sorvegliati a vista da guardie armate, assistevano al trionfo dei nemici con gli sguardi animati da un fervente desiderio di rivalsa. Un gruppo di soldati ubriachi aveva loro offerto delle sigarette e si era fermato per scambiare qualche parola in un misto di tedesco e polacco smozzicato.
In disparte, lontani dalla generale euforia del convivio, Friedrich e Konrad rievocavano la loro esperienza di battaglia. Quel giorno, anche loro avevano avuto una parte significativa nel progresso dell’avanzata, conquistando ben due avamposti fortificati e almeno cinque chilometri di territorio polacco. Si erano lanciati all’assalto sfidando la tempesta di piombo e acciaio, e ne erano tornati con un dignitoso bottino di armi, carri armati e prigionieri. Era stato come un secondo battesimo del fuoco, che li aveva esposti al pericolo come mai prima di allora, ritemprandoli, mentre il brivido della battaglia li attraversava come un’ubriacatura.
“Ecco dove eravate finiti!” esclamò una voce. I due ufficiali si voltarono all’unisono, interrompendo di colpo la loro conversazione. Nel loro campo visivo, illuminato dalla luce di un lampione, si materializzò la figura di un giovane dall’aria impeccabile, come fosse appena tornato da una parata militare. Aveva i capelli fulvi, impomatati e pettinati all’indietro, e l’uniforme ben stirata si modellava alla perfezione intorno alla sua figura affusolata e snella.
“Oh, Paul,” lo salutò von Kleist, per nulla stupito di trovarselo davanti.
Il capitano von Seydlitz fece un sorrisetto bonario, spostando lo sguardo da lui a Bentheim. “Lupi della steppa, perché non ci degnate della vostra compagnia? Forza, venite che c’è anche Werner.”
Senza obiettare, i due giovani lo seguirono all’interno del tendone.

Il clima di festa non aveva risparmiato nessuno, nemmeno gli animali che avevano accompagnato i soldati al fronte: un giovane sergente mostrava ai commilitoni le sue reclute feline – due gattini tigrati che rispondevano ai nomi di Fritz e Karl e facevano le fusa a chiunque si avvicinasse – e Krause tracciava su un blocco da disegno un ritratto del cane-soldato Otto, che posava stranito col berretto del sottotenente Kühn e la giubba di Lindemann.
Poco distante, i tre ufficiali notarono il tenente Werner von Tannenberg circondato da un gruppo di soldati: il giovane, un bavarese alto dai riccioli scuri e gli occhi celesti, era tutto preso a vezzeggiare un gatto bianco e nero, che stava acciambellato dentro un elmetto delle Waffen-SS come se fosse un cesto.
“Che carino”, disse in falsetto uno di loro.
“Sembra il Führer, con quei baffetti neri!” esclamò un altro.
Il terzo, l’unico ad avere i gradi di caporale sul braccio, sorbì un lungo sorso di birra, schioccò la lingua e lo guardò ispirato. “Suppongo che allora dovremo chiamarlo Adolf.”
Il tenente rispose con un vigoroso cenno d’approvazione e sollevò l’elmo con un gesto cerimoniale. “Brindiamo alla salute del nostro Adolf! Che possa guidarci attraverso la gloria, la grandezza e la vittoria!”
“Meine Ehre heißt Treue!” ripeterono all’unisono gli altri tre, facendo cozzare i boccali.
Il gatto miagolò.

Il Rittmeister Paul Joseph von Seydlitz guardò con sussiego gli ufficiali intenti a trincare vino e birra, prese la bottiglia di champagne che aveva lasciato a raffreddare dentro il secchiello del ghiaccio e la stappò di fronte allo sguardo carico di aspettativa dei suoi camerati. Poi, con fare cerimonioso, lo versò in parti uguali nei quattro calici allineati sul tavolo.
“Non sono i bicchieri giusti, ma non ho trovato niente di meglio,” disse, quasi a mo’ di scuse.
Werner Adalbert von Tannenberg allungò timidamente una mano verso uno di essi, lo annusò aggrottando le sopracciglia e, dopo averlo assaggiato con la punta della lingua, ne tracannò un generoso sorso. Sulle prime sembrò apprezzare, ma subito dopo fu colto da un accesso di tosse e urtò per sbaglio il bicchiere, che riversò il suo contenuto per terra.
“Sei un cialtrone, un eretico, un sacrilego!” sbottò von Seydlitz, portandosi entrambe le mani al viso. “Non hai idea di quanto abbia faticato per trovare una fornitura di quest’annata!”
Werner, rosso in volto per la vergogna, si limitò a coprire la macchia di liquido con un fazzoletto e a ripulirla sommariamente affinché la stoffa la riassorbisse.
“Non mi dire che non hai mai bevuto champagne prima d’oggi!” rincarò il Rittmeister, fingendosi scandalizzato. “Voi aristocratici di montagna siete forse rimasti al buio Medioevo?”
Werner ghignò, gli occhi accesi da un subitaneo guizzo. “Vogliamo parlarne? I miei antenati si conquistarono la gloria in Terrasanta, combatterono al fianco dell’imperatore Barbarossa, colonizzarono la Prussia quando voi vivevate in casupole di fango e paglia e veneravate i vostri idoli di legno… forse non era un’epoca così buia per noi, non trovi?” Puntò le mani sui fianchi con l’attitudine, insieme beffarda e polemica, che ostentava durante le dispute verbali. “E poi lo champagne fa schifo, vuoi mettere la birra dei monasteri bavaresi?”
“Lo champagne si sposa bene con le ostriche e le lumache”, osservò Bentheim, con un sorriso ironico.
Von Seydlitz sollevò un sopracciglio. “Vorresti dire che sono un mangialumache?”
Prima che Konrad potesse rispondere, intervenne von Kleist. “Di fronte a un calice di vino del Reno non c’è cuvée de prestige che tenga,” motteggiò, calcando le parole in un francese privo d’inflessione. “E sì, per metà lo sei, visto che tua madre era una chanteuse.”
Paul lo guardò come se avesse appena proferito un’immonda bestemmia, poi gli rispose a tono: “E tu sei un retrogrado casque à pointe… o forse dovrei dire mangiasalsicce.”
“Fiero di esserlo,” replicò Friedrich. “A Lipsia, nel 1813, fummo noi a vincere contro Napoleone.”
L’altro scrollò la testa. “Non mi stupisco del fatto che le ragazze non ti vogliano, Fredi.”
“Pensi che me ne importi qualcosa, impenitente libertino?”
A quell’affermazione, Konrad ridacchiò sotto i baffi, ma la parte inferiore del suo viso rimase nascosta dietro la coppa ancora mezza piena, e von Seydlitz, che continuava a centellinare lo spumante mentre scrutava il cugino con un cipiglio divertito in volto, non ci fece minimamente caso.
“È perché ti manca lo charme, Fredi, sei troppo rigido e inquadrato”, disse infine il Rittmeister, schioccando la lingua e posando il bicchiere vuoto con un gesto elegante. “Altrimenti non disdegneresti certi svaghi.”
“Suvvia, Paul”, intervenne il tenente von Tannenberg, nello stesso tono di poco prima. “Non credete, entrambi, che sia giunto il momento di trovarvi una ragazza per bene e di sistemarvi?”
Anche se il suo amico lo aveva detto per il puro gusto di stuzzicarli, a Friedrich venne in mente la famosa illustrazione di Wolfgang Willrich, con quella numerosa famiglia dai figli biondissimi, la madre con l’infante attaccato al seno e il palo della pergola che nella forma ricordava la runa Algiz, simbolo di vita e protezione. Un sottile brivido gli percorse la schiena, ma si preoccupò di celare il proprio disagio ingollando un altro sorso.
Von Seydlitz si versò un secondo bicchiere di champagne. “La gioventù è una sola, mon ami. Se non mi diverto adesso, che cosa dovrò dire tra quindici anni, quando avrò i capelli radi e le zampe di gallina intorno agli occhi?”
Detto ciò, indicò il capannello che si era radunato fuori dal tendone: alcuni soldati avevano allestito un palco con le quinte ricavate dagli scarti di teli cuciti insieme, e chiunque avesse un qualche talento artistico improvvisava spettacoli per intrattenere i commilitoni. “Andiamo a vedere”, li esortò. “Mi sembrate un’ammucchiata di vecchie comari!”

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Capitolo 5
*** Capitolo V ~ Die Wilde Jagd ***


 
V.
Die Wilde Jagd
 

La posta arrivò mentre i soldati erano riuniti a consumare una frugale colazione. Walkenhorst attendeva notizie dalla sua fidanzata e Schwieger era immerso nella lettura dell’ultima epistola di sua moglie, mentre Bühler, dall’altra parte del tavolino da campo, sfogliava una copia del Völkischer Beobachter sorseggiando distrattamente il suo caffè ancora caldo.
La propaganda a effetto può funzionare per il popolo, pensò, dando una scorsa all’ultimo articolo dai toni altisonanti, ma senza una solida determinazione si va poco lontano.
Ripensò al sottotenente Schultz, che probabilmente si vedeva già con la croce di cavaliere al collo e il petto costellato di medaglie al valore. Dopo aver fallito l’esame per il brevetto di volo, il giovane ufficiale aveva infine optato per arruolarsi nella fanteria; era uno degli ultimi arrivati nel suo battaglione, ma già diverse volte aveva dato mostra della sua sfacciata hybris.
Anche Icaro ebbe l’arroganza di volare troppo vicino al Sole, e le sue ali di cera si sciolsero…
Non si sarebbe neanche accorto dell’uomo che lo stava chiamando, se quest’ultimo non avesse alzato la voce di un paio di ottave. Quando l’ufficiale si fu voltato, il soldato salutò militarmente e gli consegnò una busta. “Questa lettera è intestata a un certo… capitano Hans Christoph Bühler, ma il tenente Alscher mi ha detto di consegnarla a lei.”
All’inizio, Hans pensò che si trattasse di un’omonomia, ma il numero della Feldpost corrispondeva a quello del suo reggimento, e il nome del mittente era indubbiamente quello di sua sorella Elisabeth Charlotte. Scosse la testa: evidentemente, la donna non sapeva ancora nulla della sua promozione, o più probabilmente se ne era disinteressata. “Puoi lasciarla qui, Schütze”, disse in tono asciutto.
Aspettò che il soldato se ne fosse andato e aprì la missiva, senza realmente sapere che cosa aspettarsi. Non riusciva a capire perché sua sorella, che era già una donna sposata e con figli quando lui era ancora poco più che un ragazzo, né si era mai particolarmente curata di lui, avesse deciso di rompere il lungo silenzio epistolare proprio in quel frangente.

“Caro Hans,
ti scrivo all’indomani dell’entrata in guerra della Germania, e non sai da quanto tempo rimando questo proposito.
Probabilmente, quando riceverai questa lettera ti troverai già al fronte…”

Proseguiva raccontandogli che suo figlio, da poco entrato nella Hitlerjugend, le ripeteva costantemente di voler frequentare la scuola militare per seguire le orme dello zio – il capitano, lo chiamavano – anche se sembrava parlarne quasi con dispiacere. Riferiva poi che suo marito ingegnere era stato aggregato a un reggimento d’artiglieria, insieme alla seconda armata, e chiedeva se per caso si fossero incontrati sul campo.
“Ti allego due fotografie,” proseguiva, “così ti rendi conto di quanto mio figlio sia simile a te.”
Bastò una breve occhiata per rendersi conto di quanto sua sorella avesse ragione, e un’analisi più approfondita poté solo avvalorarla: la prima ritraeva un ragazzino sui quattordici anni in uniforme della Hitlerjugend, dall’aria dinoccolata e il taglio militare, con un ciuffo più lungo che gli ricadeva sulla fronte pallida. La seconda, datata 1925 e leggermente ingiallita, ritraeva Hans alla stessa età, coi capelli arruffati e un’espressione stralunata, gli irti alberi della Foresta Nera sullo sfondo. Se non fosse stato per il salto temporale che intercorreva tra le due fotografie, qualcuno avrebbe potuto tranquillamente dire che si trattava dello stesso ragazzo. Il maggiore le ripose con un sospiro e continuò la lettura, chiedendosi ancora una volta se quelle parole fossero dettate da una sincera preoccupazione per l’esito della guerra o se piuttosto sua sorella avesse scritto in nome di una qualche vuota cortesia.
La donna si firmava infine in maniera assai formale, col cognome ungherese del marito, anziché col suo solito Liselotte. Ogni lettera era vergata in Sütterlin, con precisione quasi maniacale, ma dalle sue parole trapelava tutto il distacco che si era creato tra loro dopo che Hans aveva annunciato di voler lasciare la facoltà di Giurisprudenza per arruolarsi nell’esercito.
Lo ricordava come se fosse accaduto il giorno prima: suo padre era saltato su, sentendosi quasi tradito da quella decisione. Lo aveva fissato con occhi di brace, il volto sfigurato e paonazzo che gli conferiva un’aria grifagna. “Ma non hai completato nemmeno un semestre! Io sono un invalido, non posso più lavorare… tu sei l’unico che può prendersi carico della mia attività. Vuoi forse mandarci tutti quanti sul lastrico?”
Hans aveva sostenuto il suo sguardo senza vacillare. “Non voglio marcire in uno studio polveroso, dirimendo le questioni legali di qualche borghese annoiato,” aveva replicato in tono sprezzante. “Se proprio vogliamo risollevarci dalla depressione economica, l’unica via è imbracciare il fucile e combattere contro i nemici che hanno messo in ginocchio la nostra Patria. Ci rialzeremo tutti quanti, più forti di prima. Noi compresi.”
“Ma chi ti ha messo in testa queste cose, Hansi, quegli esaltati del Partito?” aveva trasecolato sua madre.
“Non sono degli esaltati, sono il futuro della Germania!” aveva asserito il ragazzo con convinzione. “Mentre la borghesia in declino piange sulle rovine del passato, loro esortano la nostra gente al riarmo. E no, mamma, non sono stati loro a mettermelo in testa: è una decisione che ho maturato in piena libertà di coscienza.”
A distanza di quasi un decennio, non riusciva ancora a capacitarsi di come fosse riuscito a parlare ai suoi genitori in maniera tanto audace e irrispettosa. Era da allora che non aveva più rapporti stabili con la sua famiglia, a parte qualche sporadica corrispondenza epistolare con sua sorella Liselotte e il funerale dei suoi genitori, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: sia sua madre che suo padre lo avevano biasimato per i suoi ideali rivoluzionari, e i suoi parenti avevano gridato allo scandalo, additandolo come la pecora nera della famiglia, il primo erede maschio ad aver infranto una lunga dinastia di giuristi… ma Hans, quello che pensava all’epoca lo pensava ancora, e non aveva alcuna intenzione di rinnegarlo: solo la sua foga, col passare del tempo, si era mitigata con l’addestramento, e quel suo ciuffo di capelli color nocciola era stato disciplinato dal taglio militare.
Più che rasserenarlo, quell’inaspettata epistola lo aveva gettato nell’imbarazzo più profondo, lasciandolo col dubbio: da una parte, essa avrebbe potuto costituire un’occasione per riallacciare i contatti con la sorella maggiore e con quel nipote che ricordava ancora bambino; dall’altra rischiava di far riaffiorare gli antichi rancori, mettendo ciascuno di loro dinanzi alle rimostranze dell’altro.
Rimase ancora un po’ a rigirarsi la lettera e le due fotografie tra le mani, irresoluto, fin quando non si udì vibrare nell’aria un suono acuto e lacerante. “Le sirene dell’allarme antiaereo!” urlò il capitano Schwieger.
Il maggiore si ficcò i fogli in tasca e saltò in piedi impugnando la pistola, mentre i suoi soldati lo attorniavano.
“Fuori, tutti fuori! Sergente, convochi il maggiore Bühler a rapporto!” gridava il tenente colonnello von Rauheneck, sovrastando il gemito incessante dell’allarme. “Halle, si metta in contatto col maggiore Möller, dello Jagdgeschwader 52! È un’emergenza!”
Subito l’avamposto fu invaso da un gran tafferuglio: sottufficiali che imboccavano le uscite con le armi sottobraccio, seguiti dai soldati dei loro reparti, sedie rovesciate, urla atterrite. Gli ufficiali cercarono quanto più possibile di richiamarli all’ordine, ma il panico si propagò in fretta, rendendo la fuga disordinata e caotica.
Von Rauheneck, terminato di dare le sue ultime disposizioni, diede al maggiore una pacca sulla schiena. “Adesso esca fuori, Bühler, qua dentro ci penso io”, gli ingiunse, col suo solito atteggiamento da padre incline alle rampogne. “Si occupi di quegli sbandati là fuori.”
Hans lo fissò con tanto d’occhi e provò a obiettare, ma qualcosa gli fece gelare il sangue nelle vene: alla stridula cantilena delle sirene si sovrappose un ronzio minaccioso, incombente; in lontananza si iniziarono a udire i sordi boati delle esplosioni, come tuoni che squarciavano la quiete della campagna.
“Si sbrighi, maggiore!” abbaiò ancora una volta il tenente colonnello. “Dobbiamo condurre tutti al riparo prima che gli aerei polacchi ci sgancino le loro bombe addosso!”

Le sagome scure dei bombardieri si profilavano all’orizzonte, stagliandosi in formazione contro il cielo grigio. Ogni tanto, un aereo scompariva dietro qualche nube passeggera, la fendeva con le sue ali di metallo e riaffiorava subito dopo, mentre dal suo grembo piovevano tonnellate di ordigni letali.
Attaccavano le postazioni strategiche, i mezzi in movimento e le unità terrestri; poi si dileguavano, lasciando dietro di sé un inferno di fuoco e fiamme.
Sfruttando il riparo della vegetazione, i soldati non osavano muoversi né respirare. C’era chi teneva le mani giunte in preghiera, chi aveva il volto rigato di lacrime, chi abbracciava i commilitoni e chi tremava; altri ancora il viso lo tenevano affondato nell’erba, come per negarsi la visione di quel raccapricciante spettacolo di distruzione.
Quando la sagoma di un aereo oscurò il cielo e proiettò su di loro come l’ombra di una nube temporalesca, il maggiore Bühler strinse convulsamente la mano intorno al calcio della pistola, nel vano tentativo di placare il tremito che rendeva la sua presa malferma. Non seppe dire per quanto tempo rimase immobile, come paralizzato, col fiato sospeso e il cuore che gli rimbombava nel torace.
Forse pochi secondi, forse qualche minuto, forse un’ora.
Ma così com’era iniziato, nel giro di un brevissimo istante tutto terminò, facendo rimpiombare la campagna in una quiete simile alla morte.

Squadriglie di Karaś solcavano il cielo planando tra le nubi plumbee, latori di terrore e caos. La terra e l’aria tremavano, squassate dall’impeto devastante della pioggia di bombe.
Ruggito di motori, sibilo di eliche, tonfi e detonazioni si avvicendavano in quella ridda di suoni dell’altro mondo, che davano l’impressione di voler sfidare ogni legge della fisica.
Lente e inesorabili, le colonne di fumo nero s’innalzavano e si espandevano, sospinte dal vento sferzante.
Senza staccare gli occhi da quel terribile scenario, la schiena percorsa da brividi di gelo, il tenente Friedrich von Kleist si tappò le orecchie preparandosi all’ennesimo schianto.
L’impatto delle bombe, preannunciato da una serie di fischi assordanti, s’infranse contro la colonna di rifornimenti che transitava lungo la strada a nemmeno un chilometro da lì.
Ancora una volta la terra fu scossa da un sussulto come di terremoto, e Friedrich ebbe l’impressione che il cuore gli fosse schizzato in gola, mozzandogli il respiro. Abbacinato dal lampo dell’esplosione, serrò le palpebre e si rannicchiò ancora di più contro la ripa del cratere che lo ospitava.
Trascorse un istante che il giovane non seppe quantificare, colpi di tosse e imprecazioni, mentre la cacofonia ormai lontana continuava a riverberare amplificata sui suoi sensi sconvolti.
Si puntellò sui gomiti e arrischiò la vista oltre la balza di terreno dilaniato dalle bombe, tergendosi con la manica i rivoli di sudore freddo che gli colavano sulla fronte. Alcuni veicoli erano riusciti a schivare le esplosioni con un folle slalom che era terminato con le ruote invischiate nel pantano; altri erano stati sbalzati via, rotolando tra le falde di fuoco.
“Scheiße,” imprecò a mezza bocca il sottotenente Kühn, che era stato travolto da una frana di sassi rotolata giù dal bordo della buca. “Tutto bene, sottotenente?”
“Sissignore”, rispose il giovane, coperto di terra dalla testa ai piedi. “Chiedo scusa, signore.”
Il tenente gli si avvicinò e lo aiutò a scrollarsi la giubba e i capelli, liberandoli dei sassolini che vi si erano impigliati. “Andiamo,” gli disse infine, “dobbiamo ricongiungerci al resto del plotone.”
Kühn lo fissò per un breve istante a occhi sgranati, lo ringraziò e imbracciò l’MP38, offrendosi di aprire la strada.
Von Kleist stava per fargli cenno di procedere, ma un ronzio lontano lo costrinse a voltarsi di scatto. Una folata di vento disperse ulteriormente il fumo delle esplosioni, che li avvolse come un sudario e si diradò in un soffio, rivelando ombre alate nel cielo.
Minacciosa e solenne come l’esercito della Caccia Selvaggia, un’altra serrata formazione di aerei si stava rapidamente avvicinando. Friedrich li scrutò attraverso il binocolo e riconobbe le forme affusolate dei Messerschmitt, con la Balkenkreuz dipinta sulle ali.
“Sono dei nostri!” esclamò, sollevato.

Si trascinarono fuori dalla buca con cautela, miracolosamente indenni nonostante i vestiti laceri e sporchi. Erich Kühn fu il primo a uscire allo scoperto, mentre von Kleist si guardava intorno alla ricerca degli altri soldati del plotone e gridava ad alta voce i nomi dei sottufficiali.
Il capitano Fromm li aveva mandati in avanscoperta per intercettare eventuali presenze nemiche, quando l’annuncio dell’imminente bombardamento li aveva costretti a mettersi al riparo: si erano dunque divisi in piccole squadre, sparpagliandosi tra i recessi della foresta per sfruttarne l’esigua copertura, mentre i due giovani ufficiali, rimasti indietro per coordinare le operazioni, si erano ritrovati scaraventati in quel cratere dall’onda d’urto di un’esplosione. Se il tenente provava a ripensare – sia pure a mente fredda – al rischio che avevano appena corso, il suo stomaco si contorceva in preda allo sgomento: aveva visto rigurgiti di bombe piovere dal cielo, la terra aveva tremato e si era sventrata sotto i suoi piedi mentre le braccia forti del sottotenente Kühn lo agguantavano e lo spingevano con la faccia a terra. Un pandemonio di grida, schianti e scoppi; infine, un abisso buio. Quando si era ripreso dallo stordimento, col suo camerata che lo scuoteva rudemente, si era ritrovato abbrancato da una muraglia densa di fumo infuocato che gli aveva fatto salire le lacrime agli occhi e incendiare i polmoni.
Guardò per un attimo di sottecchi il giovane Kühn, che per la seconda volta in pochi giorni aveva avuto il potere di lasciarlo senza parole: quell’imponente ragazzone parlava poco e ostentava ancor meno, ma dava mostra di affrontare le situazioni a testa bassa, con abnegazione, quasi come se da esse dipendessero i destini del mondo.
“Signori!” una voce roca e profonda spezzò la quiete apparente, e dalla macchia di alberi emerse la figura minuta di Walther Eichmann a capo di una dozzina di soldati.
“Oberfeldwebel”, lo accolse il tenente, in tono asciutto. “Gli altri dove sono?”
“Stanno arrivando, signore.”
Proprio in quell’esatto istante, videro sbucare dal bosco anche la testa rossiccia di Hoffmann col mitra sottobraccio e la faccia rubizza di Schneider, che precedeva l’equipaggio del 105.
Aspettò che fossero tutti abbastanza vicini da poterlo sentire, poi indicò con un cenno del capo la colonna logistica colpita dal bombardamento. “Andiamo a vedere se hanno bisogno di aiuto. Dopodiché, cercheremo di rintracciare il plotone che ha tentato di attaccarci stamani.”

La maggior parte dei camion erano ridotti a un ammasso di ferraglia annerita e fumante; il loro contenuto – armi, attrezzature militari e munizioni ormai inservibili – era sparso per terra alla rinfusa. Il puzzo di lamiere bruciate, mescolato a quello ancora più acre del carburante incendiato, era insopportabile. Un brulicare di persone malconce si stava raggruppando intorno ad alcune figure riverse per terra, sfigurate dalle ustioni e completamente ricoperte di sangue. Il tenente von Kleist ordinò a Lindemann di mettersi in contatto coi soccorsi, mentre Erich si avvicinò titubante all’abitacolo di un furgone rovesciato. Ciò che vide lo costrinse ad arretrare di un passo con gli occhi fuori dalle orbite: i vetri schizzati di sangue erano in mille pezzi, e i resti carbonizzati del conducente si intravedevano appena, schiacciati dalle lamiere ammaccate. Si allontanò sconcertato, barcollando, consapevole di non poter fare ormai più nulla per lui.
“Ehi, ragazzo… ragazzo… un goccio d’acqua…” biascicò una voce alle sue spalle.
Per poco, il sottotenente non trasalì: un soldato dall’età indistinta e i connotati quasi irriconoscibili giaceva contro il fianco della carcassa di un Opel Blitz e lo guardava con occhi spenti, coprendosi con un panno insanguinato ciò che gli restava della gamba destra. Kühn, intuendo la sua muta richiesta, ebbe la premura di distogliere lo sguardo e gli offrì da bere dalla sua borraccia.
“Signor tenente, qui c’è un altro ferito grave!” urlò, agitando il braccio per attirare l’attenzione di von Kleist.
“No, no…” rantolò il mutilato, con voce stentorea. “Non si faccia inutili premure per me, ragazzo… sottotenente… sono ormai un uomo morto.”
Erich si chinò di fronte a lui per controllargli la gamba; un forte odore ferrigno, a cui non era ancora abituato, gli invase le narici e gli fece torcere le viscere. “Si calmi, adesso. Possiamo ancora fare qualcosa per lei… sergente,” rilevò infine, riconoscendo i gradi sulla spalla. “Si fidi di me.”
L’uomo scosse la testa con vigore e volse lo sguardo al cielo, come ormai rassegnato all’ineluttabile. “Oh, ma lei è così giovane, ragazzo, una vita davanti…” vaneggiò. “Ha mai visto le Alpi, quando si tingono di rosa? A casa ho un figlio che le somiglia tanto, signore… vorrei tanto sapere come sta…” Un rivolo vermiglio gli colò giù dall’angolo della bocca e la testa si piegò di lato in una posizione innaturale.
“Poveraccio,” mormorò Erich, adagiandogli la mano sul petto. Solo allora notò che sulla manica logora della sua uniforme c’era una striscia nera con su ricamato il nome della Ostpreußen.
Quando alzò lo sguardo, vide il tenente von Kleist che li guardava da qualche passo di distanza con un’espressione costernata sul volto.

Si rimisero in cammino che il Sole era già alto sulle loro teste.
Le nubi scolorite avevano lasciato spazio a un pallido celeste e i draghi del cielo avevano smesso di volteggiare nelle tempeste di traccianti, ma in sottofondo rimaneva la voce del maresciallo Eichmann a rievocare battaglie di cui quasi nessuno aveva memoria.
“Ragazzi miei, ai tempi della Marna ero un caporale, ma ero già più vecchio della metà di voi…” raccontava, rendendoli partecipi di una delle più cruente sconfitte subite dall’impero tedesco durante la Grande Guerra. Il sottotenente Kühn aveva già ascoltato quel racconto – sicuramente ingigantito – almeno cinque volte, ma gli riusciva ancora difficile visualizzare l’anziano e burbero sottufficiale coinvolto nelle rocambolesche avventure che andava raccontando. “È proprio lì che mi sono guadagnato la croce di ferro di prima classe,” diceva, e indicava la decorazione che portava apposta sul taschino della divisa, “io e tutti quelli della mia truppa, che non sono vissuti abbastanza per vedere la fine della guerra e tutte le nostre speranze andate in frantumi. Uno di loro me lo sono visto morire sotto gli occhi, trapassato da parte a parte da una palla di cannone; un altro ha calpestato per sbaglio una mina ed è rimasto zoppo – poveraccio! Si chiamava Bühler come il maggiore, era un avvocato… e gli somigliava pure, chissà che fine ha fatto! – e un altro ancora è impazzito dopo aver passato dodici giorni senza mangiare, intrappolato dentro una trincea… lo ritrovarono morto e dissero che si era sparato a una tempia.”
Di fronte agli sguardi attoniti e al tempo stesso sconvolti delle reclute più giovani, il maresciallo scosse la testa con l’aria di aver appena parlato a un branco di capre selvatiche. “Che cosa credevate voi, marmittoni sfaticati?” li apostrofò. “Questa è la guerra, signori miei: è sudore, sangue e brutture, non una parata trionfale sotto la porta di Brandeburgo. Prima ve ne rendete conto e meglio è.”

Gli ultimi refoli di vento si erano placati, recando con sé una leggera frescura che sembrò confortarli dopo lo spavento causato dal bombardamento mattutino. Nel bosco regnava un silenzio quasi innaturale, interrotto soltanto dal crepitare delle foglie sotto i piedi. Qualche boato in lontananza suggeriva che da qualche parte si stesse ancora combattendo, ma il plotone era riuscito a superare il mezzogiorno, percorrendo indisturbato chilometri senza trovare tracce di nemici.
“Non vi conviene abbassare la guardia, signori miei”, li ammonì il maresciallo capo Eichmann. “I nemici potrebbero essere nascosti ovunque, nella boscaglia. Loro la conoscono meglio di noi e potrebbero approfittarsi della vostra distrazione. Come quella volta nelle Ardenne…”
“Noi ci fermiamo qui,” lo interruppe in tono secco il tenente von Kleist, salendo in piedi su un sasso e indicando la piccola cascata alle proprie spalle. “Ne approfittiamo per mangiare e riposarci prima di rimetterci in marcia. Eichmann, affido a lei il primo turno di guardia. Se dovesse avvertire movimenti sospetti, me lo faccia immediatamente presente.”
“Sarà fatto, tenente”, rispose il maresciallo, tornando ad assumere il solito contegno granitico che ostentava nelle occasioni formali.
Nel guardarlo allontanarsi con passo marziale, Erich Kühn sorrise sotto i baffi: non era per nulla semplice mettere a tacere l’uccello del malaugurio e, fino ad allora, l’unico che poteva vantare un tale primato era il maggiore Bühler.
“Bene, andiamo”, disse von Kleist, oltrepassando i cespugli con un agile balzo.
Il sottotenente lo seguì con la stessa celerità, anche se, essendo più alto di lui, fu costretto a procedere ingobbito per evitare di sbattere la testa contro i rami più sporgenti.
Si sistemarono lungo le rive del torrentello, lo sciabordio delle rapide che sembrava scandire il tempo. Da una fenditura nel terreno, un esile rigagnolo scendeva giù scorrendo tra pietre bagnate di muschio e si gettava nello specchio d’acqua ai suoi piedi, che rifletteva il verde profondo degli alberi e lasciava intravedere, sotto la superficie spumeggiante, un letto di sassi irregolari e levigati.
Qualcuno si sporse per abbeverarsi alla sorgente, Löffler si riparò dietro un cespuglio per svuotare la vescica, e il tenente von Kleist si inerpicò su uno dei sassi più alti, proprio a ridosso della cascata, in modo da tenere d’occhio tutto il plotone.
Kühn ne approfittò per ripulirsi il viso e vi indugiò, specchiando distrattamente le proprie fattezze acerbe sulla superficie cristallina: nonostante la stazza possente, un dono di natura affinato dall’attività sportiva, dimostrava di essere poco più che un ragazzo, dai grandi occhi color cielo e il naso leggermente schiacciato. I capelli, biondi come il grano maturo, erano sporchi e arruffati.
Immerse di nuovo le mani nell’acqua e la visione scomparve. Sciacquò la borraccia che aveva offerto come ultimo conforto al moribondo, la riempì di nuovo e si avvicinò al comandante del plotone, ancora seduto a gambe incrociate a sbocconcellare una focaccia. Von Kleist si fece da parte per fargli spazio, ma non disse nulla; come sempre, sembrava profondamente assorto nei propri pensieri.
“Signor tenente,” azzardò il ragazzo, “mi stavo chiedendo se ci fossero notizie del maggiore e delle due compagnie che sono insieme a lui.”
L’altro parve riscuotersi. “Non mangia, Kühn?”
“Beh, io…” Erich non si aspettava per nulla una domanda del genere, e per un istante pensò di aver capito male. “Credo che la mia razione di oggi sia andata perduta durante il bombardamento.”
“Capisco.” Il tenente spezzò la sua focaccia e gliene offrì metà. “Prenda questa: è probabile che nel pomeriggio ci sarà di nuovo bisogno di combattere.”
“La ringrazio, signore”, balbettò il più giovane.
“Dovere, camerata.”
Mangiarono per un po’ in silenzio, ascoltando il gorgoglio della cascata e le chiacchiere dei soldati.
“Mi aveva chiesto se ci sono notizie del maggiore,” disse infine il tenente, “e io le dirò che non ne so più di lei. Stanno guadagnando terreno, esattamente come noi, ma non mi è dato di sapere dove si trovino esattamente. Li incontreremo strada facendo… o sul campo di battaglia.”
“Avremmo dovuto ricongiungerci a loro ieri, o al massimo oggi… o sbaglio?”
“Non sbaglia, sottotenente.” Von Kleist gli rivolse uno sguardo eloquente. “È per questo che intendo partire al più presto.”
Senza attendere una risposta, raccolse le sue cose e si alzò. “Vado a cercare il maresciallo Eichmann. Tra un quarto d’ora, se non saremo ancora tornati, raduni gli uomini e ci raggiunga.”
Erich dovette riconoscere che, nonostante il contegno imperturbabile e distaccato, il suo superiore si stava dimostrando sempre più lontano dall’idea di algido aristocratico che si era fatto di lui quando era stato assegnato al suo plotone. Gli tornarono in mente le parole che ripeteva sempre il suo caposquadra ai tempi della Hitlerjugend: “Non conta da che strato sociale provenite o quanti antenati illustri ci sono nel vostro albero genealogico, conta solo quello che potete fare per il Reich e per il popolo tedesco.”
Anche se von Kleist, il conte, stava sempre sulle sue e non parlava mai di sé, quella prima settimana di battaglie combattute al suo fianco lo aveva lasciato col piacevole sentore di potersi fidare di lui.

L’unico pensiero di Friedrich, prima che le bombe si abbattessero sul loro schieramento, era quello di ritrovare il plotone con cui si erano scontrati in mattinata, sgomberare la strada e partire a colpo sicuro per raggiungere il comando di battaglione e il resto della divisione. Non aveva mentito al sottotenente: tutto ciò che sapeva del maggiore derivava dalle comunicazioni ufficiali che l’uomo aveva fatto pervenire via radio, anche se da giorni fremeva dalla voglia di rivederlo, di sentirlo e magari trascorrere del tempo a conversare con lui. Quando stavano a Potsdam erano abituati a vedersi tutti i giorni, alternando la vita di caserma e le serate nel suo appartamento – che per Hans era diventato come una sorta di seconda casa – ma poi l’offensiva li aveva catapultati nel fango e nella polvere, e il dovere nei confronti dell’esercito li aveva sottratti alla tranquillità di un’esistenza ordinaria. Prima della partenza, negli occhi del suo compagno aveva riconosciuto le stesse emozioni che si agitavano nel suo animo, e non si era rammaricato per la separazione imminente, ma sperava di tornare presto a condividere con lui sia la durezza della vita militare che le soddisfazioni che essa recava con sé. Era stata la condivisione degli stessi ideali ad aver unito due uomini all’apparenza così diversi: uno spiantato di famiglia borghese che con nostalgia guardava a ovest, tra le colline e le foreste di guardia sul Reno, e uno tra gli ultimi eredi di un’antica quanto gloriosa dinastia di condottieri. Anche a centinaia di chilometri dalla loro Germania, in terra straniera e nemica, l’idea di ricongiungersi a lui assumeva la valenza di un ritorno a casa.

Seduto sull’erba, la schiena appoggiata contro il tronco di un albero e la pistola al fianco, il maggiore Bühler rimestava la forchetta nella sua gavetta, senza tuttavia riuscire a prendere appetito. Quella mattina, scongiurato il rischio di trovarsi una grandinata di bombe sulla testa, si erano rimessi in cammino e si erano nuovamente trovati invischiati in una battaglia che sembrava non volgere a vantaggio di nessuno: a qualche passo da lui, due giovani sottufficiali reinserivano il nastro della MG 34, mentre i comandanti di compagnia avevano ingollato il pranzo in poche cucchiaiate ed egli poteva già vederli in azione – Walkenhorst in prima linea, che sbraitava esortazioni che suonavano quasi come ordini, e Schwieger intento a rampognare i serventi di un obice da campo.
Dal canto suo, il maggiore aveva trascorso la mattinata ad andare su e giù per il campo com’era sua abitudine, guidando ora questa ora l’altra sezione, ma con la mente che vagava per ben altri lidi. Solo allora, tuttavia, si concedeva una pausa da dedicare alle riflessioni.
I pensieri si rincorrevano e si sovrapponevano, privi di apparente ordine, mentre l’insistente crepitio dei proiettili gli riverberava nel cranio come un trapano in procinto di forargli i timpani. Distrattamente, frugò con la mano nella tasca dell’uniforme e prelevò a tentoni una sigaretta, infilandosela tra le labbra per accenderla. Si sentiva irrequieto, non poteva negarlo.
Continuava a pensare alla lettera di sua sorella, incapace di venire a capo del dilemma che lo affliggeva da quando aveva letto il nome della donna sulla busta. Che fosse davvero preoccupata per lui, pensando che ogni suo giorno al fronte avrebbe potuto essere anche l’ultimo, o magari temendo che potesse fare la stessa fine di suo padre? Anch’egli si era disinteressato a lei in tutti quegli anni, e l’unica persona con cui si era sentito di condividere la propria solitudine era Friedrich von Kleist.
“Signore, ci siamo aperti un varco nelle difese nemiche!” esclamò allegramente un sergente, distogliendolo dalle sue elucubrazioni.
Bühler accolse quella notizia quasi con sollievo: era giunto il momento di tornare operativi.

“Rimanete ben saldi nelle vostre posizioni, bisogna evitare l’accerchiamento!”
Per sovrastare il caos che regnava sovrano da un capo all’altro dello schieramento, Bühler dovette alzare la voce fino a raschiarsi le corde vocali. Da dietro il ridotto di sacchi imbottiti che condivideva con Walkenhorst, in una posizione abbastanza avanzata da permettergli di dominare il campo senza l’ausilio del binocolo, orde di pallottole vaganti gli schizzavano sopra la testa.
“Avanti, avanti!” ripeté il capitano, rivolto ai mitraglieri della sua compagnia. Aveva appeso la giubba dell’uniforme al ramo di un albero e portava le maniche della camicia rimboccate fino al gomito. Nell’atmosfera resa bollente dal tumulto della battaglia, gli avambracci erano lucidi di sudore e i muscoli guizzavano nervosi.
“Vado a vedere come se la passa la compagnia di Schwieger, poi torno qui,” lo avvertì il maggiore, abbandonando con cautela la postazione. “Dobbiamo a ogni costo evitare l’accerchiamento.”
Walkenhorst saltò al di là della barriera con un mitra imbracciato. “Sarebbe ancora meglio accerchiarli mentre impediamo a loro di farlo, signore!”
Bühler si concesse un tiepido sorriso: dopo tutti gli anni di servizio trascorsi al loro fianco, sentiva di poter contare sul supporto incondizionato dei suoi fidati collaboratori. “Naturalmente, capitano.” Sfiorò la visiera del berretto, accennando un saluto militare. “La guerra va avanti, la vittoria è solo alla fine.”
“Oppure il Valhalla!” urlò di rimando l’altro.

Senza troppe cerimonie, il maggiore spalancò la portiera della Kübelwagen e si infilò al posto del passeggero. “Mi porti dal capitano Schwieger, presto!”
“Agli ordini”, rispose l’autiere, mettendo in moto e partendo alla volta dei rilievi occupati dall’artiglieria campale. Nonostante i sobbalzi e le curve del veicolo, Bühler vide chiaramente uno degli obici da campo che veniva travolto in pieno da una cannonata. Strinse le labbra per soffocare un’imprecazione e regolò le ottiche del binocolo: dei sei serventi, che come piccole formiche si aggiravano intorno all’ammasso di ferraglia fumante, solo quattro si rialzarono barcollando. “Più veloce, caporale!”
“Sissignore!” L’autiere schiacciò l’acceleratore a tavoletta e si lanciò a folle velocità tra capannelli esterrefatti di soldati tedeschi, sollevando un ampio ventaglio di fango e ghiaia; il motore parve ruggire in segno di protesta. Per evitare di venire sbalzato in avanti mentre la vettura avanzava tortuosamente sul terreno dissestato, l’ufficiale dovette puntare i piedi e aggrapparsi con forza alla maniglia dello sportello.
Improvvisamente, un boato spaventoso fece tremare l’aria, così vicino da risucchiarli nel suo vortice. La macchina sussultò e ruzzolò fuori dal sentiero per effetto di una potente onda d’urto; il caporale perse il controllo sul volante e Bühler sbatté violentemente la testa contro la cornice del parabrezza, mentre il berretto gli rotolava tra i piedi. Ancora rintronato dal forte impatto, il graduato fece in tempo a sterzare e accelerare prima che le ruote s’incagliassero in un fosso.
“Mortai pesanti,” borbottò il maggiore, tamponando con le punte delle dita un rivolo caldo che gli scendeva sulla fronte. Strinse i denti e si volse indietro, giusto in tempo per vedere in lontananza un cannone che brandeggiava nella loro direzione. “Faccia attenzione, qualcuno sta dirigendo il tiro verso di noi!”
“Ma così si fonde il motore, signore!”
“Se non vuole finire in brandelli, faccia come le ho ordinato, presto!”
La Kübelwagen scartò bruscamente per schivare un obice che ne sfiorò appena il posteriore, slittò in avanti con uno stridio di pneumatici e schizzò a tutta velocità in campo aperto, pericolosamente esposta agli attacchi della fanteria polacca. Una gragnola di proiettili si abbatté puntualmente sui suoi fianchi, costringendo l’autiere ad appiattirsi contro il volante. “Signore…” Qualunque cosa avesse voluto dire, fu sommersa da una scarica di mitragliatrice.
“Pensi a guidare più in fretta che può, prego: a loro ci penso io!” Senza aspettarsi alcuna replica da parte del subalterno, il maggiore si affacciò oltre lo schienale, prelevò un MP38 da una cassa adagiata sul sedile posteriore e lo usò per rispondere al fuoco dei nemici. “Tenga duro ancora un po’, Schmidt, siamo quasi arrivati!”

Quando scesero dalla macchina, il rumoroso scricchiolio emesso dalle sospensioni parve quasi un sospiro di sollievo.
“Ce l’abbiamo fatta,” constatò ansimando l’ufficiale, una volta accertatosi che sia lui che il suo sottoposto erano usciti incolumi da quella folle corsa.
Il caporale, un uomo basso e tozzo sulla quarantina, sgranò gli occhi acquosi rivolgendogli uno sguardo da cervo spaventato. “È un miracolo se non siamo saltati in aria, signore.”
“Non esistono i miracoli, Schmidt.” Con lo Schmeisser ancora appeso alla spalla, Bühler raccolse il suo berretto e si guardò rapidamente intorno. “Qui siamo troppo a portata di tiro”, valutò infine. “Vada a parcheggiare questo vecchio trabiccolo là dietro quei cespugli e rimanga in attesa di un nuovo ordine. Io vado a cercare il capitano Schwieger.”
Schmidt rimase per qualche istante a guardare la sagoma dell’ufficiale che si allontanava a passo svelto, ormai indistinta tra i banchi di fumo denso, poi scosse la testa. Con un sospiro, si chinò a esaminare i fianchi della vettura: erano schizzati di mota e bucherellati in più punti dalle raffiche di mitra, mentre il fanale dalla parte del passeggero, letteralmente sradicato, era finito chissà dove.
“È un miracolo se ne siamo usciti tutti interi, è un miracolo,” borbottò tra sé e sé, mettendosi al volante.

Nell’infuriare della mischia, le urla che si sollevavano dal grembo della trincea sembravano strida di anime dannate in attesa del trapasso. Soldati tedeschi e polacchi combattevano come forsennati in un groviglio di uniformi, colpendosi con qualsiasi mezzo lecito o illecito; l’odore del sangue si mescolava a quello del sudore e della polvere da sparo. Il tenente von Kleist approfittò della confusione per strisciare dietro un ridotto di sacchi, facendo cenno ai suoi compagni di seguirlo. Ancora una volta, ad aprire il fuoco fu lui, e mentre gli scoppi lunghi e decisi dei fucili perforavano la coltre di fumo, poderose raffiche di mitragliatrice sgomberavano la strada.
“Avanti!” ordinò l’ufficiale, abbandonando per primo la postazione.
La fanteria nemica, in netto svantaggio, perdeva sempre più terreno, ma sembrava tutt’altro che determinata ad arrendersi. Una bomba a mano sorvolò lo schieramento con una lunga parabola e si abbatté per terra esplodendo in una miriade di schegge. Gli uomini di von Kleist si buttarono a terra in copertura per evitare i detriti sollevati dall’esplosione; il tenente si sentì afferrare per il bavero da una mano rude e letteralmente scagliare dentro una buca mentre alcuni bossoli di proiettili tintinnavano contro il sasso che la sovrastava. Ripresosi dallo sbigottimento, Friedrich si tirò a sedere: accanto a lui c’era il giovane Kollwitz, che i soldati più anziani avevano soprannominato Torello per la sua stazza massiccia, con un ginocchio puntato a terra e il fucile diligentemente appoggiato alla spalla in posizione di tiro. Lo fissò per qualche istante con le sopracciglia aggrottate, poi imbracciò l’MP38 e si affacciò a sua volta. Con orrore constatò che, nel punto in cui la bomba era esplosa, giacevano i corpi di due soldati del suo plotone: uno giaceva immobile in un lago di sangue, dilaniato e ormai irriconoscibile; l’altro si contorceva emettendo lamenti strazianti, uno strappo di stoffa avvolto intorno al braccio maciullato. Era solo questione di pochi minuti prima che morisse dissanguato.
“C’è Lehmann ferito a terra!” gridò il tenente, sperando che qualcuno dei medici militari lo sentisse. Scrutò ancora una volta lo schieramento polacco, dispose la sua squadra a coprire le operazioni di soccorso e alzò ulteriormente la voce: “Lehmann necessita assistenza medica! È urgente!”
Subito dopo, due soldati con la croce rossa sull’uniforme e le facce stravolte accorsero tempestivi per trascinare via il ferito.
Von Kleist strinse più forte il suo Schmeisser contro il petto e, prima di lanciarsi nuovamente all’assalto, si premurò di riservare un’occhiata d’insieme agli uomini che lo fissavano con un misto di aspettativa e costernazione.
Al suo comando, i soldati si riversarono fuori dalla trincea come un’ondata di piena; di nuovo lo scontro divampò con ferocia, frammentandosi in tanti piccoli duelli individuali.
Friedrich si abbassò per evitare una fucilata che gli sfiorò di striscio l’elmo, si buttò con le ginocchia a terra e rotolò tra l’erba alta, inseguito dai proiettili di un tenente polacco. Una granata, lanciata da uno dei suoi soldati, esplose tra le linee nemiche generando una fontana di fumo che costrinse i polacchi a disperdersi in cerca di un riparo. Udì qualcosa di molto simile a un’imprecazione, e il tenente polacco proruppe in un urlo allarmato che fece da preludio a una nuova sequela di ordini ancor più secchi.
Al riparo dietro quell’intrico di frasche, von Kleist ne approfittò per studiarlo meglio: a occhio nudo non riusciva a distinguere i suoi lineamenti, ma si avvide che quell’uomo era piuttosto giovane, forse perfino più di lui. Era più alto dei soldati che lo attorniavano, ma l’uniforme troppo larga lo faceva sembrare esile come un giunco di palude. Eppure, resisteva in quel tumulto simile a un solido bastione di roccia; l’arma che gli pendeva dal collo prendeva l’altisonante nome latino di Mors wz. 39 – morte.
“Walcz!”
Friedrich aveva ormai imparato a riconoscere quel comando e, quando il polacco si lanciò al contrattacco guidando il suo plotone con le poderose raffiche del suo mitra, fu lesto a balzare fuori dal suo nascondiglio per inseguirlo, incalzandolo come un’ambita preda. Come un sol uomo, i suoi commilitoni lo seguirono. L’altro se ne avvide, i suoi occhi verdi furono attraversati da un lampo di sfida e di nuovo gridò ai suoi soldati qualcosa che von Kleist non comprese.
Trovandosi almeno cinque canne di fucile puntate contro, il tedesco arrestò la propria corsa come se un ostacolo insormontabile fosse emerso dal nulla per sbarrargli la strada, e scivolò trafelato dietro un robusto tronco d’albero mentre le pallottole schizzavano sibilando contro il suo riparo improvvisato. Il tafferuglio riprese con rinnovato vigore; rumore di spari ed esplosioni lontane coprirono gli ordini dei capisquadra.
Von Kleist si affacciò con cautela, come un predatore in agguato, strizzando gli occhi per individuare la figura del rivale. Gli parve di intravederlo mentre fuggiva, braccato dalla squadra di Hoffmann, poi avvertì come una sferzata alla spalla, un lungo brivido gli percorse la spina dorsale e la sua vista fu invasa da un lampo bianco.
Non si accorse nemmeno del grugnito che gli era sgorgato spontaneo dalla gola non appena il morso del piombo aveva lambito la sua carne, strappando la stoffa dell’uniforme e imbrattando di sangue la camicia bianca. Si appoggiò ansimando al tronco dell’albero, i denti serrati in una smorfia di dolore e il liquido scarlatto che gli colava tra le dita in piccoli rivoli. “Dannazione,” borbottò.
“Signor tenente!” Tra i suoni, che da ovattati e remoti riprendevano via via a farsi più chiari, la voce di Erich Kühn lo riportò alla realtà. “Signore, hanno catturato Hoffmann!”
Gli parve che lo scontro, dopo un breve istante sospeso, fosse ripreso con inaudita violenza – ma forse, considerò, era solo un’impressione dovuta alla sua momentanea impasse. Il dolore parve acquietarsi, cancellato da ogni altra sensazione, e il tenente fu nuovamente risucchiato dal vortice della battaglia. Ormai così vicini da colpirsi con daghe e calci di fucile, i soldati di entrambi gli schieramenti si accanivano gli uni contro gli altri in una specie di valzer della morte.
Friedrich udì un urlo alle proprie spalle e si voltò, angosciato, solo per vedere uno dei suoi camerati accasciarsi con un’ampia macchia di sangue all’altezza del torace. Il fucile ricadde ai suoi piedi ed egli lo afferrò da sotto le ascelle per sostenerlo ed evitargli di finire con la faccia nella polvere.
Si guardò intorno alla ricerca del suo ufficiale aggregato. “Leutnant Kühn!”
Prima che il giovane potesse rispondere al suo richiamo, qualcuno lo strattonò all’indietro e lo trascinò in un violento corpo a corpo, piombandogli addosso con la ferocia di un ghepardo. Colto alla sprovvista dal baluginio di una lama, von Kleist tentò di scrollare via l’avversario, più grosso di lui, colpendolo alla cieca con l’impugnatura del mitra. Si sentì mancare l’aria quando il freddo acciaio gli sfiorò la gola, cercò la pistola a tentoni e armò il cane con un gesto febbrile, puntando la canna contro la massa che lo sovrastava. Un singolo colpo squarciò la calotta di silenzio, e il soldato che lo aveva aggredito ristette inerte sulla nuda terra, senza emettere un lamento.
Il tenente si rialzò con gli occhi strabuzzati: aveva le mani sporche di sangue, senza neanche sapere più di chi fosse, e la bocca resa amara da uno sgradevole sapore metallico.
Una figura che egli percepì indistinta oscurò la sua visuale, proferendo frasi velate d’apprensione. “Signor tenente, lei è ferito!”
Von Kleist alzò la testa, ancora leggermente frastornato, e incontrò lo sguardo del suo secondo. “Nulla di che, Kühn. Non possiamo arrenderci ora, dobbiamo recuperare il sergente Hoffmann.”

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ~ Dort, wo die Sterne stehn am Waldesrand, es blüht die neue Zeit ***


 
VI.
Dort, wo die Sterne stehn am Waldesrand,
es blüht die neue Zeit
 

Terminata l’ispezione, il maggiore Bühler tornò al proprio posto nelle avanguardie occupate dalla fanteria. Anche se il viaggio di ritorno non fu rocambolesco come quello dell’andata, quando finalmente smontò dalla Kübelwagen, l’ufficiale aveva il respiro corto e i capelli irti sulla nuca, mentre il suo berretto era volato chissà dove nel fango. Il caporale Schmidt, invece, continuava a balbettare frasi sconnesse in preda al terrore, asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica della divisa. “Grazie a Dio, signore… grazie a Dio siamo riusciti ad arrivare sani e salvi,” articolò infine, gli occhi verdi dilatati come quelli di un cerbiatto.
“No, è grazie a quello”, replicò il maggiore, indicando il mitra che aveva nuovamente appoggiato sul sedile posteriore. Si scostò dal fianco crivellato della vettura e trasse la mappa dal portadocumenti che portava alla cintura, per poi spiegarla sul cofano e riportare i progressi dell’avanzata. pensò di chiamare a rapporto i comandanti di plotone, ma dopo aver dato un’altra occhiata complessiva al campo, decise che sarebbe stato lui ad andare da loro.

Era difficile capire quanti fossero i nemici, celati da una spessa nebbia grigiastra, ma i continui tonfi dei mortai pesanti e le detonazioni dei cannoni lasciavano presagire che, molto probabilmente, i pezzi d’artiglieria in supporto alla fanteria erano aumentati. Bühler avanzava cautamente tra sacchi bucherellati, residui di filo spinato e relitti di equipaggiamenti abbandonati nel fango. Molti soldati feriti bagnavano la terra col loro sangue, mentre i medici di campo correvano avanti e indietro per trascinarli via; qualcuno, esanime, sembrava morto. Erano penetrati così a fondo nello schieramento nemico che, tra i soldati che giacevano malconci contro alcuni ridotti, vi era un considerevole numero di prigionieri polacchi, opportunamente disarmati e sorvegliati. Qualcuno di loro gli lanciava strane occhiate, altri chiedevano a gran voce un goccio d’acqua, ma i più lo ignoravano, rassegnati alla loro sorte.
Si accorse di essere vicino alle prime linee quando vide, a qualche decina di metri da lui, l’imperversare di una mischia furiosa: i polacchi si difendevano con le unghie e coi denti, determinati a resistere fino all’ultimo uomo, mentre i tedeschi avanzavano imperterriti, più che mai sicuri della vittoria. Nonostante la vistosa fasciatura intorno al braccio nerboruto, Walkenhorst continuava a guidare la sua compagnia all’assalto.
“Signor maggiore!” Schütze agitò la mano per farsi notare in quella fiumana di uomini urlanti. “Il signor capitano rende noto che…”
Non terminò la frase, perché una granata piovuta da chissà dove volò talmente bassa da costringere entrambi a gettarsi a terra. Bühler si rannicchiò contro una barriera di sacchi, con entrambe le braccia a proteggere il capo, mentre l’ordigno s’infrangeva con violenza contro un albero. Si udì lo scricchiolio sinistro del legno divelto e la sommità del fusto abbattuto si schiantò al suolo; lingue di fiamma lo inseguirono e lo ghermirono ruggendo.
Il viso affondato nel fango, il maggiore sibilò tra i denti un’imprecazione. Forse troppo tardi, una fitta pungente al fianco gli ricordò la scheggia che lo aveva colpito qualche giorno prima e, subito dopo, anche gli avvertimenti del medico che lui aveva puntualmente dimenticato.
Si rialzò barcollante, tossendo per via del fumo che gli s’insinuava nei polmoni e per le vampate di fuoco che producevano tutt’intorno un calore infernale. “Schütze?” chiamò con voce gracchiante, mentre si guardava intorno alla ricerca del fidato portaordini. “Schütze!”
Nessuno rispose; in sottofondo solo grida ferali, colpi di tosse e l’onnipresente crepitare delle mitragliatrici.
Bühler soffocò un’altra imprecazione. Adagiato contro un sasso, poco più avanti, il soldato giaceva ferito e rantolava affannosamente, con l’uniforme zuppa di sangue. L’ufficiale scavalcò il tronco carbonizzato con un balzo e sollevò l’uomo a peso morto per sottrarlo dal fulcro dei combattimenti. “Medici, c’è un emergenza!” tuonò.
“Signore, è pericoloso stare qui!” urlò un caporale che reggeva il nastro della MG 34.
“Voi pensate soltanto a eseguire gli ordini e non preoccupatevi per me!”
“Signor maggiore!” La voce trafelata di un portaordini, stavolta proveniente dalle retrovie, lo costrinse nuovamente a voltarsi. “Buone notizie dal colonnello Wolff,” ansimò il soldato mettendosi sull’attenti. Aveva ciuffi di capelli color stoppa incollati alla testa e il volto sporco di terra. “Il suo reparto si trova a tre chilometri da qui, insieme al generale von Salza: hanno conquistato un punto altamente strategico, e ci attendono alla base al termine di questa giornata!”
“Riferisca che li raggiungeremo una volta finito qui”, concluse il maggiore, prima di proseguire verso la prima linea.

Con una fasciatura sommaria legata alla spalla per arginare l’emorragia, il tenente von Kleist risaliva il sentiero scosceso in testa al suo plotone, tra pruni insidiosi e pietre sporgenti che ostruivano il cammino. Si guardò intorno con circospezione, senza perdere di vista gli anfratti in cui avrebbero potuto celarsi dei nemici: le chiome frondose degli alberi costituivano una cappa impenetrabile, che lasciava a malapena trapelare qualche raggio solare, mentre l’umidità gli alitava sul collo come il respiro di una creatura mitologica. Sulla sua fronte pallida il sudore si mescolava al sangue, il cuore gli martellava tra le costole con tale forza da fargli quasi male, le sue giunture erano logorate dalla lunga marcia. Inspirò profondamente e si diede un ulteriore slancio, giungendo a una biforcazione tra due sentieri invasi dalle frasche: il primo, ripido e impervio, risaliva verso altezze sconosciute; il secondo conduceva nel cuore pulsante e più buio della foresta.
Si voltò verso il sottotenente Kühn, aggrottando le sopracciglia.
E adesso dove andiamo? sembrò chiedergli il più giovane con lo sguardo.
Ignaro quanto lui, il tenente fece per prendere il binocolo, ma proprio in quel momento si udì un fruscio proveniente dal sentiero sopraelevato. Una pioggia di proiettili li investì, costringendo i soldati del plotone ad abbassarsi per evitare di venire colpiti. Un paio stramazzarono a terra, un terzo ebbe un sussulto e crollò a faccia in giù, immobile nella polvere.
Subito dopo, una voce rude latrò un ordine, e una dozzina di soldati polacchi emersero dal folto della selva puntando i fucili contro di loro.
Von Kleist strinse i denti, rigido come una statua. Aveva riconosciuto all’istante quella voce: era quella del tenente con cui si era scontrato poco prima. Lui e i suoi camerati dovevano agire in fretta, se volevano liberare il sergente Hoffmann e tornare dal comandante di compagnia entro l’orario convenuto.
Scambiò un’occhiata d’intesa col sottotenente Kühn e il ragazzo comprese all’istante.
“Pronti… copertura!” ordinò poi, in tono fermo.
I tedeschi si dispersero in varie direzioni; von Kleist strisciò dietro un cespuglio e tempestò i nemici in avvicinamento con una raffica di mitra. Due o tre ricaddero all’indietro, gli altri corsero al riparo sfruttando la protezione di alberi e sterpaglie intricate.
“Fuoco!”
Subito le detonazioni secche e lunghe dei fucili si sovrapposero al crepitare continuo degli MP38.
All’ordine del tenente tedesco seguì un analogo ordine in polacco, e la danza letale del piombo riprese con rinnovato vigore.
“Kühn, le affido il comando del plotone!”
“Sissignore!”
Friedrich non ebbe bisogno di voltarsi a guardare i suoi uomini in cerca di conferma: sentiva che stavano combattendo come un branco di leoni, tutti quanti accomunati dallo stesso scopo, e quella volta fu lui, a colpo sicuro, a imboccare il sentiero che s’inerpicava in salita e a lanciarsi all’inseguimento del suo rivale.
Rami contorti si protendevano come artigli pronti a stritolarlo, radici nodose sembravano spuntare dal nulla per fargli lo sgambetto, ma il giovane procedeva imperterrito, seguendo lo scalpiccio degli stivali del tenente polacco che segnalavano la sua posizione prima ancora che egli potesse vederlo.
“Fermati!” gridò, estraendo la pistola.
L’altro rispose qualcosa che suonava come un insulto, il tramestio dei passi si fece ancora più concitato. Friedrich si abbassò per schivare un ramo troppo basso, ne spezzò un altro che gli ostruiva il passaggio e scavalcò agilmente un tronco caduto, per poi avvistare oltre un drappo di foglie l’uniforme verde oliva dell’avversario. Solo allora, il tenente notò che le brache del giovane erano strappate e intrise di sangue, una ferita alla coscia aveva ormai inzuppato un’ampia porzione di tessuto. Si guardò brevemente intorno: si trovavano in una piccola radura, costeggiata su un lato da un rigagnolo che catturava i riflessi del sole e delimitata sull’altro da una balza di nuda terra, alla quale erano ancorate le robuste radici degli alberi che incombevano su di loro.
Sentendosi braccato, l’ufficiale polacco sparò a vuoto una raffica di mitra come ammonimento, nella vana speranza di forzarlo ad arretrare, ma subito dopo inciampò in una radice per evitare una pallottola che gli rimbalzò sulla calotta dell’elmetto.
Von Kleist approfittò della sua distrazione per balzargli addosso e agguantarlo per il bavero, scaraventandolo a terra e puntandogli la canna della pistola in mezzo agli occhi. Il Mors wz. 39 rotolò per terra, l’aquila polacca fu ghermita dall’aquila teutonica. Inchiodati dallo sguardo glaciale del nemico, gli occhi verdi del tenente si dilatarono per il terrore e le sue membra vennero attraversate da un tremito. Tuttavia, il suo contegno non diede alcun segno di cedimento.
Friedrich accarezzò il grilletto con fare intimidatorio, pur sapendo che non si sarebbe mai abbassato ad uccidere un nemico ferito e inerme. “Stai fermo o sparo,” gli ingiunse ruvidamente.
Il polacco annuì e mostrò i palmi delle mani in segno di resa.
Von Kleist lo obbligò a rialzarsi con uno strattone, gli immobilizzò le mani dietro la schiena e gli premette la pistola contro la nuca scoperta. “Vieni con me”, ordinò.
Non potendo far altro che obbedire, il tenente polacco si lasciò trascinare docilmente su per il sentiero, rabbrividendo al contatto del freddo acciaio sulla pelle.
“Muoviti,” intimò von Kleist al prigioniero.
Pur non dando mostra di conoscere il tedesco, l’altro parve recepire e affrettò il passo.
Solo allora, libero dall’urgenza pressante di ghermire la preda, il giovane fece caso a quanta strada avesse percorso in quella selva infida per inseguirlo. Sembrava che quel percorso serpentino non finisse più, anche se man mano che si avvicinavano al luogo da cui erano partiti, la vegetazione si faceva più rada e il cammino più lineare. Stille di luce facevano risplendere le foglie come smeraldi, e gli scoiattoli si arrampicavano sui tronchi venati di muschio. Un’immagine evanescente, forse una suggestione della sua mente, gli restituì l’impressione di aver già visto quello scenario, da qualche parte nei boschi del Brandeburgo. E per la prima volta dopo giorni, nonostante le ferree convinzioni e la devozione alla causa che lo avevano condotto in terra nemica, Friedrich si trovò a desiderare di essere altrove.
Così assorto, fu ridestato dal fischio di un ordigno piovuto da chissà dove.
Il polacco gridò un raus pronunciato col suo bizzarro accento; il tedesco lo spinse in avanti con sollecitudine, sempre sotto la minaccia delle armi, ma nessuno dei due ebbe il tempo né la prontezza di riflessi per precedere lo schianto: l’obice fece frusciare le foglie al suo passaggio e poi arrestò la propria parabola andando a sbattere contro la parete del declivio. Un lampo giallastro accompagnò l’esplosione, e l’incendio divampò come l’immondo ruggito di un mostro ancestrale, pronto a divorare e inghiottire qualsiasi cosa incontrasse lungo il suo cammino. Senza volgersi indietro, i due tenenti si lanciarono a rotta di collo giù per il sentiero, mentre le fiamme dilagavano aggredendo gli alberi, si gonfiavano e mugghiavano in una minacciosa danza di lingue rosseggianti. Nell’aria torrida e ormai rarefatta, che si stringeva sempre più intorno a loro come una morsa letale, il fumo s’addensava, riempiva gli occhi di lacrime e rendeva difficoltoso pompare ossigeno per correre.
Cercando di rintracciare il rivale, che ormai lo aveva distanziato di molte falcate, il tenente von Kleist si premette con forza la manica dell’uniforme contro naso e bocca e si impose di affrettare l’andatura. Non ebbe fatto che pochi passi quando una zaffata di fumo gli fece perdere l’orientamento e la punta del suo stivale sbatté contro qualcosa di duro, spedendogli una fitta di dolore che dalla gamba gli risalì fino al cervello. La terra gli mancò sotto i piedi e, dopo una breve caduta, il suo corpo atterrò di malagrazia su qualcosa di duro e compatto. Per un istante, la sua vista fu velata da una cortina di tenebre indistinte.
Si tirò su dolorante, accorgendosi di essere finito lungo disteso su un letto di foglie secche. Alzò la testa e comprese di essere ruzzolato oltre il bordo del sentiero, che lo sovrastava di un paio di metri. Tutt’intorno a lui, i caratteristici odori del sottobosco e delle foglie decomposte tornarono a riprendere il sopravvento sull’insalubre sentore del legno bruciato, mentre il fumo si disperdeva in pigre folate.
Ogni tanto, al di là del muro arboreo riecheggiava qualche sparo isolato, che il suo orecchio allenato riconobbe perlopiù come appartenente ai fucili Mauser 98k in dotazione ai soldati della Wehrmacht. Ancora più distante, come tuoni lontani, scoppi d’artiglieria indicavano che non molto distante fosse in corso un altro scontro. Del polacco, che sicuramente aveva approfittato del caos per dileguarsi, non vi era più nessuna traccia.
Ringhiando per la frustrazione, il tenente recuperò gli oggetti che si erano sparpagliati durante la caduta e si apprestò a raggiungere i suoi commilitoni.
La ferita alla spalla aveva smesso di bruciare, ma in compenso, tra la caduta e la colluttazione, doveva essersi procurato altri graffi e contusioni che il suo stato alterato gli impediva di rilevare. Non poté però fare a meno di notare che, sebbene il cuore del bosco pulsasse di vita, in quella zona liminale si udivano soltanto lo stormire delle fronde scosse dal vento e il crepitio dei rametti sotto i piedi, come se anche gli animali, spaventati dalla furia della battaglia, si fossero andati a nascondere altrove.
Camminò per un tratto che gli parve infinito, seguendo i rumori delle armi da fuoco. Il tumulto si andò via via affievolendo fino a spegnersi del tutto, poi la voce del sottotenente Kühn s’impose sul silenzio richiamando all’ordine gli uomini del plotone.
Von Kleist drizzò appena le spalle, soddisfatto dell’operato del suo secondo, e riprese a camminare con rinnovata lena.
“Herr Oberleutnant…” mormorò una voce flebile, in tedesco.
“Sergente!” esclamò il giovane ufficiale, trasalendo. Di fronte a lui giacevano riversi due cadaveri che portavano l’uniforme dell’esercito polacco, ma non riuscì a scorgere alcun segno della presenza dell’uomo che lo aveva chiamato. Si appostò in copertura tra gli arbusti più alti, pronto a intervenire in caso di minaccia. “Hoffmann! Mi dica dove si trova!”
In quel momento, gli parve di notare una mano che spuntava da quella che sembrava una specie di tana di volpe. “Sono qui, signor tenente… non c’è nessun altro.” La voce del sergente appariva debole, smorzata, priva del suo solito vigore. Era come se ogni parola gli costasse un’immane fatica. “Quei due li ho uccisi io… ma per poco loro non uccidevano me.”
Senza abbassare la guardia, von Kleist si avvicinò al camerata e si chinò sull’orlo della buca: Hoffmann giaceva tremante, rannicchiato su un fianco con l’MP38 stretto contro il petto. Gli occhi turchesi erano spenti e gonfi di lacrime, che scavavano profondi solchi sulle guance insanguinate.
“Niente paura, sergente”, sussurrò il giovane, nel vano tentativo di offrirgli un po’ di conforto. “Venga con me, la battaglia è finita.” Gli tese la mano e Hoffmann la afferrò con una presa malferma.
Fece per tirarlo su, ma il sottufficiale ricadde in ginocchio e si piegò in avanti con un gemito strozzato, portando entrambe le braccia a coprire il fianco. “Mi scusi, signore… io non…”
Quelle parole lo fecero sobbalzare come una coltellata dritta nello stomaco. Solo allora, il tenente si accorse che un lato della giubba dell’uomo era completamente intriso di sangue fresco, dove s’intravedeva ancora il foro lasciato da un proiettile che doveva averlo colpito tra le costole. “Che cosa è successo, Hoffmann?”
“Ho tentato di fuggire, ma loro mi hanno inseguito…” sfiatò il sottufficiale provando a tirarsi su, i lineamenti del viso contratti in un’espressione sofferente. “E mi hanno sparato.”
“Non possiamo restare qui, sergente. Ce la fa a camminare per un breve tratto?”
“Signore, io… posso provarci, ma…” Non ebbe ancora finito la frase che le forze gli vennero meno e il tenente dovette offrirgli il braccio affinché non cadesse. Hoffmann soffocò un gemito, mentre il sangue riprendeva a scorrere macchiando l’erba.
Friedrich si morse il labbro inferiore, irresoluto. Si erano spinti fin lì per liberarlo, quando sarebbero potuti semplicemente tornare sui loro passi godendosi la vittoria, e non poteva permettersi di abbandonarlo alla sorte proprio in quel momento. Valutò che la ferita del sergente non era così profonda da metterlo in pericolo di vita: se un dottore fosse intervenuto tempestivamente per rimuovere la pallottola, gli sarebbe bastata qualche settimana di ricovero per rimettersi e tornare a combattere. Ma se indugiava… quanto tempo sarebbe passato prima che finisse dissanguato? “Si appoggi a me, presto, ci penserò io a sorreggerla,” ripeté, con maggiore perentorietà. Si abbassò per permettergli di aggrapparsi alla sua spalla, poi gli passò un braccio intorno al fianco ancora sano e lo aiutò a tenersi in equilibrio come meglio poteva: Hoffmann più alto di lui, gli gravava addosso con tutto il peso, ma il suo respiro affannato sul collo e la sua debole stretta intorno alla spalla furono per lui come una muta esortazione a raggiungere i commilitoni il più in fretta possibile, nonostante la fatica che rendeva il suo incedere fiacco e strascicato.
“Andiamo, Hoffmann”, disse incamminandosi, “un ultimo sforzo e poi ci riposeremo entrambi.”
Nelle condizioni di semincoscienza in cui versava, la presa salda del giovane ufficiale diede al sergente la forza per trascinarsi stancamente, un passo dopo l’altro, fin quando non rimase il suo unico appiglio nell’oscurità più totale.

L’aria era immota, caliginosa, le colonne di fumo bigio e rutilante occultavano la linea dell’orizzonte. Travolta in pieno, la fanteria nemica aveva iniziato ad arretrare come un moto di risacca, mentre la compagnia del capitano Fromm si muoveva per bloccarle la strada da tergo. Il capitano Bentheim, raggiunto il plotone mortai pesanti, fece un ultimo giro d’ispezione intorno alle bocche da fuoco: alcune erano ben protette dietro vere e proprie barricate di sacchi di sabbia, altre erano collocate in buche scavate nel terreno, e lasciavano intravedere solo l’estremità della canna che sporgeva oltre il bordo. In presenza delle artiglierie, surriscaldate dalle lunghe ore di attività, il calore era così intollerabile che molti serventi vi si aggiravano intorno a torso nudo, mentre il caposquadra si era tolto la giubba e la teneva ripiegata sul braccio, pur senza riuscire a impedirsi di sudare.
Quando si fu accertato che tutto procedesse come da ordini andò a chiamare il tenente Tiedemann, un giovanotto ben piantato ma non molto alto, col viso tondo e gli occhi che brillavano d’entusiasmo.
Il ragazzo era in camicia, visibilmente accaldato e coperto di fuliggine da capo a piedi, e portava le maniche rimboccate fin sopra al gomito. Dopo di lui, arrivarono anche un sergente, un paio di caporali e una mezza dozzina di soldati, che rimasero ad ascoltare le disposizioni del capitano con sguardi ricolmi di aspettativa. “A noi spetta l’arduo compito di tagliare la ritirata ai nemici, in attesa che la compagnia del capitano Fromm sopraggiunga sul posto per accerchiarli,” disse, fissandoli in faccia a uno a uno. “Ci restano poche munizioni, e ciascuna di esse dovrà centrare il suo bersaglio.”
“Non sprecheremo neanche un proiettile, signore!”
Bentheim sorrise come se si aspettasse esattamente quella risposta, s’intrattenne brevemente con loro e tornò a osservare il cielo, che appariva come una distesa informe di nembi scuri e pennellate di luce fosforescente. “Conto su di voi, ragazzi”, concluse infine, poggiando una mano sulla spalla del tenente.
“Non la deluderemo, signore,” assicurò Tiedemann.

Senza curarsi degli sguardi stupefatti dell’autiere, il capitano montò sulla Kübelwagen al posto di guida, mise in moto e si diresse a gran velocità verso il settore occupato dalla fanteria, impegnata in un cruento scontro in prossimità di alcune propaggini boscose. Parcheggiò la macchina in copertura nelle retrovie e s’immise nel flusso dei combattimenti.
Dispensava ordini, rampogne e incoraggiamenti, difendeva se stesso e i suoi soldati con qualsiasi arma gli capitasse a tiro, e nel mentre chiedeva informazioni sui comandanti di plotone agli uomini in cui si imbatteva lungo il cammino: sembrava che nessuno li avesse visti, concentrati com’erano a forzare l’avanzata tra le linee nemiche. In quel groviglio confuso, tra la nebbia, le urla e il tambureggiare delle sparatorie, era già difficile riconoscere gli amici dai nemici, figurarsi riuscire a distinguere i connotati di questo o quell’ufficiale. Mentre si guardava intorno alla ricerca dei subalterni, un soldato erculeo si fece largo tra le schiere brandendo una vanga da trincea. “Signor capitano, il tenente Koch riferisce di aver avvistato il plotone del tenente von Kleist!”
Il giovane non fece in tempo a rispondere: un istante dopo, un obice impattò tra le file di fanteria e sollevò un immane rigurgito di fumo e terra, simile a un geyser, generando una scia di panico che s’impadronì di tutti coloro che si trovavano a pochi metri da lì. Come se il suo corpo avesse assunto il peso e la consistenza di una piuma, Konrad si sentì sollevare da una forza sovrumana e fu scaraventato come un fantoccio contro il ridotto più vicino. Rimase per un attimo senza fiato, poi si coprì la bocca con una mano e tossì rumorosamente. “Wrede, riferisca a Hofmeister di mettersi in contatto col tenente von Kleist!” Si piegò di nuovo in avanti, scosso da un altro accesso di tosse, poi si massaggiò la schiena dolorante. “Unendo le forze, li respingeremo più in fretta!”
Il soldato, ex portuale di Amburgo, prese gli ordini e corse via a testa bassa, come un toro alla carica. Bentheim si alzò facendo leva sui gomiti e si guardò intorno col piglio di un veltro.
Avvolte dalla caligine rovente, brulicanti sagome scure si stagliarono in controluce, le canne di fucile bene in vista. All’ordine secco di un caposquadra, la maggior parte di essi si dispersero in varie direzioni. Solo un paio di soldati, avvertendone la presenza, scavalcarono il solco di una trincea e si fiondarono vociando sull’ufficiale tedesco. D’istinto, Bentheim estrasse la pistola con un gesto fulmineo e fece fuoco contro il più avanzato dei due. L’uomo stramazzò all’indietro lasciando ricadere la sua arma, ma l’altro gli piombò addosso e lo costrinse a scartare evitando una fucilata che lo colpì di striscio al fianco. Stringendo i denti, il capitano premette il grilletto ancora una volta e sparò all’ombra in avvicinamento, senza neanche prendere la mira. Quando alzò la testa, il soldato non c’era più.
Il sollievo che ne conseguì fu subito stroncato da una nuova consapevolezza, che percepì ancor prima di averne evidenza visiva: un alone caldo e vermiglio imporporava la sua uniforme, rendendolo un bersaglio facile ed estremamente vulnerabile. Raccolse da terra il fucile di uno dei due polacchi e si rialzò. “Qualcuno… qualcuno mandi a chiamare il tenente Koch!” gridò.
Subito dopo, il giovane ufficiale giunse prontamente a fargli rapporto della battaglia, con ancora l’MP38 sottobraccio: era pallido e malconcio, con una fasciatura candida che s’intravedeva da sotto l’elmetto d’acciaio ma, quando vide il suo capitano in quello stato, i suoi occhi castani si velarono d’apprensione. “Signore, lei è…”
“Solo un graffio,” lo interruppe Bentheim, perentorio, “se vogliamo vincere questa battaglia è necessario il contributo di tutti. Adesso torni al suo posto.”

L’intervento tempestivo del plotone di von Kleist e della compagnia di Fromm aveva indotto i nemici a gettare la spugna, abbandonando il teatro degli scontri in una ritirata disordinata.
Il capitano Bentheim rimase a osservarli fin quando non furono fuori portata, poi si lasciò cadere stremato su un ridotto e si sfilò l’elmetto lasciando che rotolasse nell’erba. Si passò una mano tra i capelli madidi di sudore e cercò di riprendere fiato: aveva tentato di tamponare l’emorragia lasciando che uno dei medici da campo vi applicasse una sommaria fasciatura, ma il sangue continuava a sgorgare dandogli l’impressione che il suo corpo fosse diventato un gelido blocco di materia inerte.
Bevve un lungo sorso dalla borraccia, e con l’acqua che gli restava si sciacquò il viso per ripulirsi dalla sporcizia. Quando notò che un caporale con la croce rossa sul braccio lo stava fissando da lontano, come in attesa di un ordine, gli fece cenno di avvicinarsi.
“Signore…” iniziò il graduato.
Bentheim alzò una mano per prevenirlo. “Vada a cercare l’assistente medico e gli dica che ho bisogno di una nuova medicazione. Mi dica, i feriti più gravi sono stati già trasportati all’ospedale da campo?” Fece per alzarsi, ma l’avventatezza di quel gesto gli provocò un leggero capogiro.
Il caporale gli offrì un braccio, che il giovane rifiutò, e osservò la larga strisciata di sangue che macchiava la giubba della sua uniforme. “Signor capitano, vuole che faccia venire la Kübelwagen? Non credo che sia il caso di affaticarsi ulteriormente, viste le sue condizioni.”
“La mia salute non vale più quella dell’ultimo fantaccino, Heine,” fu la laconica replica. “Si occupi prima dei feriti gravi e di coloro che non sono in grado di reggersi in piedi.”

Bentheim si accasciò su una sedia premendosi forte il braccio contro la fasciatura improvvisata. Gli infermieri gli passavano davanti, quasi correndo da una corsia all’altra, mentre quella specie di anticamera andava riempiendosi di soldati più o meno feriti, che come lui attendevano il proprio turno per ricevere le cure necessarie. Tra di essi riconobbe alcuni della sua compagnia, che si offrirono cortesemente di dargli la precedenza. Egli declinò ogni offerta, quasi con fastidio: il grado di capitano e il titolo di principe von Bentheim und Steinfurt non erano che inutili orpelli in situazioni come quella.
Si ripeté mentalmente che, nonostante il dolore che gli stava provocando in quel momento, non era una ferita così grave da compromettere significativamente l’andamento della battaglia: avevano vinto, tutto il resto veniva dopo. A quel pensiero, si sentì attraversare da una sottile ombra di nostalgia: avrebbe tanto desiderato condividere con Reinhardt quei momenti, come tante volte si erano trovati a fantasticare prima di partire per la guerra, ma non poteva far altro che attendere sue notizie. Si chiese quando lo avrebbe rivisto.

Spirava una leggera brezza, che recò un po’ di refrigerio dopo l’acquietarsi del tumulto della battaglia.
Il colonnello Karl Theodor Wolff si accese un sigaro e rimase a osservare in silenzio la schiera che marciava coi fucili sottobraccio, cantando una canzone che lui ricordava ancora a memoria dai tempi della Grande Guerra.

“Alte Kameraden auf dem Marsch durchs Land
Schließen Freundschaft felsenfest und treu
Ob in Not oder in Gefahr
Stets zusammen halten sie aufs neu…”
1

Accompagnati da quelle note allegre, i soldati oltrepassarono la porta dell’antico centro storico e s’incamminarono su per la strada in acciottolato, tra strette viuzze serpeggianti e alti palazzi dalla facciata dipinta, fino al castello. Subito dopo vennero le salmerie, e infine i mezzi pesanti, a cui l’anziano ufficiale diede ordine di parcheggiare sul piazzale antistante il municipio. Anche quando i rumori dei motori si furono ormai allontanati e nei pressi dell’entrata non furono rimasti che una dozzina di ufficiali superiori, Wolff rimase a fumare sotto il massiccio arco a sesto acuto, facendo indugiare lo sguardo qua e là con aria svagata: le mura in parte diroccate, erose dal tempo e dalle intemperie, erano in mattoni rossi, sulla cui viva tonalità spiccava il verde delle erbacce che crescevano tra gli interstizi. Sembrava che la guerra non avesse ancora raggiunto quelle contrade, ma i suoi sensi affinati da decenni di pratica bellica sapevano scorgere ombre e carpire sussurri che ai più inesperti sfuggivano: nonostante l’inferiorità tecnica costituisse per le sue truppe un vantaggio non indifferente, il colonnello sapeva che i polacchi non erano un popolo che si lasciava mettere i piedi in testa tanto facilmente.
Gettò il sigaro ormai finito, individuò il generale von Salza, in posizione defilata rispetto agli altri ufficiali – perlopiù colonnelli appartenenti ad altre divisioni dello Heer – e lo raggiunse. Quando lo sentì arrivare, von Salza abbassò il binocolo col quale stava scrutando la campagna devastata dagli scontri e si voltò verso di lui. Dalla bustina bordata d’oro spuntavano i capelli di un biondo sbiadito, cortissimi e pettinati all’indietro, conferivano ampiezza alla sua fronte. “Colonnello Wolff,” disse semplicemente.
Si scambiarono i saluti militari di rito, poi il generale riprese la parola. “A quanto ammonta il conto del macellaio, oggi?”
“Oggi è stato particolarmente salato, signor generale”, rispose Wolff. “Il mio reggimento avanza di vittoria in vittoria, ma molti ufficiali validi sono rimasti feriti sul campo e nei vari reparti si iniziano a registrare le prime perdite significative.”
Un’espressione corrucciata corrugò le folte sopracciglia del generale, e i suoi occhi di un blu profondo parvero velarsi di una tonalità più scura. “Tutti noi siamo tenuti a versare il nostro tributo, se necessario”, asserì poi, dopo un breve silenzio assorto.
“Sarà un onore per me, signore.”
“Anche il maggiore von Eltz ha pagato il suo, seppur prematuramente.”
“Nel mio reggimento, era tra coloro che si sono adoperati con più costanza per elaborare la strategia che stiamo tuttora seguendo,” convenne il colonnello.
Von Salza scosse gravemente la testa, mantenendo tuttavia la sua ieratica compostezza. “Era un ufficiale competente, uno dei migliori in circolazione. Avrebbe presto ricevuto la nomina a tenente colonnello.” Fece una pausa, durante la quale parve indugiare su qualcuna delle sue considerazioni. “Mi dica, Wolff… quel capitano che all’ultimo minuto ha preso il posto di von Eltz, si è rivelato all’altezza delle aspettative?”
“Bühler non ha ancora raggiunto l’anzianità necessaria per passare di grado, tant’è che lui stesso, inizialmente, aveva delle riserve nei confronti di questa nostra scelta. È ancora acerbo, non lo si può negare, ma noto che impara in fretta: dall’inizio della guerra ha registrato praticamente solo vittorie, e sembra possedere ottime capacità strategiche.”
“Questo è un bene, colonnello”, commentò pacatamente von Salza. “La Wehrmacht, e soprattutto la nostra Divisione, ha bisogno di ufficiali giovani e volenterosi, pronti a dare il meglio di sé per il Reich e per il popolo tedesco: sono loro il futuro della nostra Nazione.”

Hans Bühler faticava ancora a credere che in una giornata potessero succedere così tante cose: aveva ricevuto una lettera da sua sorella che non sentiva da più di un anno, era sfuggito a un bombardamento e, insieme al caporale Schmidt, all’esplosione di quella stessa Kübelwagen che lo stava trasportando verso il luogo in cui il colonnello Wolff lo attendeva per ascoltare il suo rapporto. La macchina procedeva a singhiozzi, producendo un rumore continuo e snervante. Il maggiore sentiva le voci sommesse di Schwieger e Walkenhorst che chiacchieravano, seduti sui sedili posteriori, mentre lui – tra la ferita che aveva ripreso a bruciare, la stanchezza e il mal di testa – non desiderava altro che farsi una doccia, buttarsi a peso morto su una branda e dormire fino all’alba. Realizzò che non chiudeva occhio da giorni, e che da giorni andava avanti a caffè, cibo smozzicato e sigarette.
Si chiese dove fosse Friedrich, se ne avesse combinata qualcun’altra delle sue, e non poté impedire alle sue labbra di piegarsi in un leggero e spontaneo sorriso: il cavaliere prussiano si era subito distinto per i suoi metodi poco convenzionali, che avevano già avuto modo di suscitare l’ammirazione e lo sdegno del tenente colonnello von Rauheneck. Friedrich era in grado di portare a termine il proprio dovere a costo della sua stessa vita e un momento dopo di sovvertire ogni regola in nome dell’intrinseca legge morale che albergava dentro di lui. Hans, che era l’unica persona a cui il giovane avesse concesso l’onore di conoscerlo e di amarlo anche a un livello più intimo, non si sarebbe aspettato niente di diverso da lui e, per la prima volta nel corso di quella giornata, si concesse di indulgere un po’ più a lungo in pensieri che non avessero nulla a che vedere con la campagna militare.
Le ruote della macchina urtarono contro un dosso dando l’impressione di un terremoto, e un’imprecazione particolarmente colorita lo distolse dalle sue fantasticherie.
Halt die Fresse, Walkenhorst!” ruggì Schwieger.
Bühler si limitò a sorridere sotto i baffi.
“Devono essersi rotte le sospensioni, signori”, spiegò Schmidt ai tre ufficiali, cogliendo l’occasione per esporre loro un approfondito ragguaglio sui principi meccanici che regolavano il funzionamento dell’autovettura. Anche la sua voce ebbe un tremito quando un’altra asperità del terreno provocò alla macchina un sonoro scossone.
“Lo vedo… o meglio, lo sento”, commento il maggiore, con velato sarcasmo.
Il caporale preferì ignorare le arguzie del suo comandante. “Ero un perito meccanico, quando stavo ancora a Duisburg…”
Quando giunsero in vista della loro meta, a Bühler sembrò passata un’eternità, anche se il tragitto era durato poco più di dieci minuti. Come in un quadro, il villaggio spiccava per il rosso dei suoi mattoni, così tipici dell’architettura polacca, su una distesa di alberi verde cupo. Alte guglie e pinnacoli vertiginosi si ergevano quasi a voler bucare le candide nubi passeggere che attraversavano il cielo del tardo pomeriggio, mentre la mole di un castello in rovina gravava sullo sfondo, con le sue merlature sbeccate e i suoi bastioni circolari: stranamente, sembrava che i bombardamenti degli Stuka non lo avessero minimamente raggiunto, anche se le campagne circostanti erano devastate dagli attacchi della fanteria.
La Kübelwagen oltrepassò un varco nelle mura, sormontato da un barbacane e sorvegliato ai lati da due alberi ornamentali, poi s’immise in una stradina d’acciottolato che procedeva in leggera pendenza, all’ombra di palazzi dai tetti spioventi. Ovunque vi era un viavai di soldati tedeschi che si aggiravano disinvolti, ridendo rumorosamente o dirigendosi a gruppetti in qualche taverna; la loro favella risuonava per le strade alleviando la nostalgia di casa.
Schmidt parcheggiò accanto ad altri mezzi militari sotto la torre dell’orologio dell’antico municipio e i quattro uomini scesero, trovando ad attenderli il colonnello Wolff e un altro ufficiale dall’aspetto austero che, per la banda rossa sui pantaloni grigio fumo, le decorazioni apposte sul petto e le mostrine in rosso e oro che gli ornavano il colletto, Hans riconobbe come il generale di divisione Erwin Ulrich von Salza.
Subito dopo, i soldati e gli ufficiali inferiori delle due compagnie si dispersero, smistati nei vari edifici requisiti dall’esercito tedesco.

Non appena il suo comandante di reggimento lo convocò a rapporto congedando gli altri tre, il maggiore Bühler scattò sull’attenti. Era più alto sia del robusto colonnello che del generale, ma la corporatura segaligna e le guance lisce tradivano la sua giovane età, a cui mancavano ancora un paio d’anni per raggiungere i trenta. Un ciuffo di capelli castani gli ricadeva disordinato sulla fronte, nascondendo in parte una leggera ferita da taglio, l’uniforme era sporca e strappata all’altezza dei gomiti. Mentre riferiva gli avvenimenti della giornata e delle giornate precedenti, von Salza lo osservava di sottecchi, con un misto di stupore e attenzione, lasciandosi andare di tanto in tanto a qualche vago cenno d’approvazione.
“Sono lieto di apprendere ciò,” concluse infine il colonnello Wolff, senza mostrarsi particolarmente impressionato. Prese congedo dal generale, poi poggiò una mano sulla spalla del maggiore e lo condusse in disparte, con un cipiglio affabile ma anche irremovibile. “Prima di licenziarla, tuttavia, vorrei discutere con lei di alcune questioni che ho rilevato in questi ultimi giorni.”
Le iridi chiare e indagatrici dell’uomo, di un azzurro quasi trasparente, provocarono a Bühler un leggero fremito di disagio. Tuttavia, riservò uno sguardo distratto alle lancette dorate dell’orologio e annuì, preparandosi ad ascoltare ciò che il suo superiore aveva da dirgli.

Con lo stomaco pieno e la testa libera da più pressanti pensieri, Friedrich von Kleist uscì dall’infermeria e si avvicinò alla palizzata che delimitava il campo. Dall’alto di una torretta di guardia, un paio di sentinelle chiacchieravano condividendo una sigaretta; i lampioni proiettavano le loro lunghe ombre sul cortile di terra battuta. Dopo la lunga battaglia campale, si era levato un salubre venticello che recava con sé aromi silvestri e promesse di vittoria.
Nonostante il successo finale, quella giornata era stata particolarmente dura: un paio di soldati del suo plotone erano rimasti uccisi nel primo scontro a fuoco, altrettanti erano gravemente feriti e, sebbene il sergente Hoffmann fosse ormai fuori pericolo, gli ufficiali medici avevano risposto con un categorico diniego alla richiesta del tenente di andare a fargli visita. Quasi nessuno ne era uscito completamente illeso: né lui, né il capitano Bentheim, a cui gli infermieri avevano prescritto un giorno di riposo.
Ripercorrendo a ritroso gli avvenimenti della giornata, gli venne spontaneo chiedersi, non senza una vaga nota di dispiacere, che fine avesse fatto il tenente polacco. Una parte di lui sperò che fosse riuscito a salvarsi: quel giovane aveva dato mostra di essere un dignitoso avversario, che meritava di essere trattato con rispetto e, possibilmente, sconfitto sul campo.
Fece vagare lo sguardo attraverso la piana sottostante, una nera distesa pullulante di luci: stavolta sapeva per certo che uno di quei villaggi era quello conquistato dal loro reggimento, lo stesso in cui, il giorno successivo, si sarebbero uniti al resto della Divisione.
Laggiù, dove le stelle incontravano il limitare del bosco, fioriva la promessa di tempi migliori.
Una folata di vento gli scompigliò i capelli dorati e agitò energicamente le fronde degli alberi. Egli sorrise tra sé, rinfrancato: la guerra proseguiva senza concedere un attimo di tregua, ma almeno, l’indomani lui e Hans si sarebbero rivisti.


  1. Vecchi camerati in marcia attraverso il paese / Stringono amicizie solide e sincere / Nel momento del bisogno o nel pericolo / Sempre insieme, mantengono questi legami↩︎

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ~ Mit unserer Fahne ist der Sieg (parte prima) ***


VII.
Mit unserer Fahne ist der Sieg
(parte prima)

Potsdam, Settembre 1936 – tre anni prima.

Una mattina come tante altre, pensava il sottotenente Friedrich von Kleist, percorrendo con passo celere i diversi chilometri che collegavano il suo appartamento alla caserma. I suoi stivali militari percuotevano il marciapiede bagnato producendo uno sciacquettio continuo, cadenzato, mentre le raffiche di pioggia scrosciavano infrangendosi sugli ombrelli dei passanti e ruscellavano al suolo in gorghi e mulinelli che trasportavano foglie ingiallite. Dietro il velo d’acqua, facciate barocche dai colori pastello ed edifici di mattoni rossi assumevano una tonalità cupa. Ogni tanto le ruote di qualche autovettura sollevavano schizzi d’acqua che lo inducevano a farsi indietro; un tram passò e spalancò le sue porte, per poi richiuderle dinanzi al suo sguardo indifferente. Riparato sotto la pensilina della fermata, Friedrich aspettò che il convoglio si allontanasse, poi alzò lo sguardo sul quadrante del grande orologio che la sovrastava: aveva ancora il tempo per fermarsi nella solita caffetteria, decidendo sul momento se aspettare la corsa successiva o procedere a piedi com’era abituato a fare da ormai un anno. Gli piaceva fare le cose con calma, per questo partiva sempre molto presto la mattina: prendeva un caffè, leggeva il giornale e poi si fermava sul ponte che attraversava il fiume Havel, i gomiti appoggiati alla balaustra, e contemplava assorto la città che si svegliava. Visto il maltempo, l’intervallo che di solito avrebbe impiegato attardandosi in giro lo avrebbe trascorso a consumare una lauta colazione a base di pane, formaggio e salumi.
L’uomo distinto che serviva al bancone aveva ormai imparato a conoscerlo ma, anche se per abitudine consolidata gli faceva sempre trovare la colazione pronta, non aveva mai avuto modo di scoprire come si chiamasse: quasi nessuno, lì a Potsdam, sapeva chi fosse quel sottotenente biondo che portava con orgoglio la divisa della Wehrmacht. Tutti si limitavano a trattarlo con deferenza e rispetto, considerandolo un simbolo della rinascita della loro Nazione, ma nessuno si arrischiava a ricercare in lui una confidenza che non sembrava disposto a concedere.
Friedrich si sedette in un angolo appartato e, prima di dedicarsi al suo piatto, si diede una rapida occhiata intorno: al tavolo accanto al suo c’era un gruppo di SA che discutevano animatamente di politica, la fascia con la svastica ben in vista intorno al braccio. Erano chiacchiere cariche di ottimismo quelle che udiva ai tavoli, una speranza che veniva di continuo rinfocolata dalla propaganda: in molti, soprattutto i lavoratori, consideravano il Führer colui che avrebbe riportato la Germania agli antichi fasti. Ogni tanto si udiva anche qualche voce dissonante, ma non erano che sussurri che il vento si portava via in un soffio. Friedrich condivideva molto tiepidamente l’ardore dei suoi compatrioti, da una parte perché, forse, il suo inconscio risentiva della mentalità aristocratica e conservatrice con cui era cresciuto; dall’altra, perché la politica non era mai stata la sua sfera d’interesse: aveva rinunciato di buon grado ai privilegi nobiliari per condurre una vita spartana, ma se si era legato alla causa era per puro e semplice amor di Patria.
Stava sfogliando con aria svagata una copia della rivista Jugend che aveva trovato sul tavolo, quando una potente folata di vento ne fece svolazzare le pagine e la porta sbatté alle spalle di un uomo che era appena entrato. Lo identificò all’istante come un soldato: indossava un lungo impermeabile di pelle nera che lo fasciava completamente, gli stivali alti dei militari e il berretto calato sulla testa. Era bagnato da capo a piedi, e per un po’ rimase fermo sulla soglia ad asciugarsi i piedi inzaccherati. Nessun altro, a parte Friedrich, fece caso a lui.
Qualche istante dopo, con la coda dell’occhio, notò che l’uomo si era tolto l’impermeabile e si stava dirigendo con passo marziale verso l’angolo opposto del caffè. Non poteva vederlo in viso, ma non riusciva a ricondurre il suo aspetto a nessuno di già visto in precedenza: di solito i clienti di quella caffetteria erano sempre gli stessi; solo quando pioveva, la sua atmosfera raccolta, i legni invecchiati e le volte in mattoni si rivelavano un’attrattiva per i visitatori occasionali.
Cercando di non farsi vedere, lo scrutò da sopra l’orlo della rivista: era un capitano di fanteria; intorno al polsino della manica intravide la banda nera della Ostpreußen. Aveva i capelli di un castano nocciola, leggermente scompigliati dal berretto, più corti sulla nuca come imponeva il regolamento, la corporatura asciutta e segaligna. Prese posto a un tavolino vicino alla vetrata, dandogli le spalle, e attese l’ordinazione – un caffè e due fette di pane con burro e marmellata – poi raccattò un quotidiano da un cestino poco distante e si mise a leggere, senza curarsi di ciò che accadeva intorno a lui.
C’era qualcosa, in quell’atteggiamento distaccato e imperturbabile, che lo incuriosiva, anche se non avrebbe saputo spiegarsi cosa fosse.
Friedrich rimase ancora un po’ a scavare nei meandri della memoria cercando d’immaginare di chi potesse trattarsi; poi, come se quelle speculazioni avessero improvvisamente perso ogni rilevanza, bevve il suo caffè e sfruttò la momentanea quiete dell’acquazzone per incamminarsi verso la vecchia caserma.

Nel vassoio non restavano che briciole e il caffè era ormai finito, ma il capitano rimase seduto al tavolino, pervaso da una strana sensazione. Si specchiò nella vetrata e gli parve di vedersi particolarmente smunto e scarmigliato, dopo l’insonne notte trascorsa.
Prestava servizio in quella caserma da oltre due anni, si trovava bene nella sua vecchia compagnia – c’erano affiatamento, legami saldi e cameratismo, anche se lui li aveva sempre vissuti con tiepido distacco – e la decisione del colonnello Wolff di trasferirlo gli era suonata inaspettata, quasi priva di senso. Non aveva mai visto di buon occhio i cambiamenti improvvisi, e immaginava che gli ci sarebbe voluto del tempo per ambientarsi in una sezione nuova.
Controllò l’orologio da polso – era quasi l’ora – poi guardò fuori: il grigiore che pervadeva ogni cosa rendeva i colori più cupi, ma sembrava che le gocce scendessero più rade, quindi raccolse le sue cose, si avvolse nel suo impermeabile e diresse i propri passi verso la meta.

La mole familiare della caserma, per lui come una sorta di seconda casa, lo accolse da lontano: era una costruzione dall’aspetto severo, con candide file di lesene a separare le finestre, il tetto rosso e il frontone ornato da sculture classiche. Il complesso, risalente ai tempi dei fasti imperiali, era adagiato su un ampio prato verde, tratteggiato da sentieri lastricati e punteggiato d’alberi.
L’alba tingeva il cielo d’arancio e pervinca: sarebbe giunto a rapporto dal colonnello giusto in tempo per l’orario prefissato.
Oltrepassò il cancello dell’edificio con un misto di irrequietudine e trepidazione.

Quando il colonnello Wolff aveva annunciato che quel giorno sarebbe entrato in servizio il nuovo comandante della loro compagnia, il sottotenente von Kleist si era immaginato che il capitano Bühler fosse un uomo sulla trentina, dai lineamenti ordinari e il puntiglio del protocollo, con un pronunciato accento del Baden. Uno di quelli che ti perforano la schiena con lo sguardo mentre tiri al poligono o mentre ti alleni, schioccando rampogne con voce chioccia.
Un’intuizione, forse tardiva, gli aveva suggerito che potesse essere quel giovane ufficiale che aveva visto nel caffè, che durante l’adunata passava in rassegna i volti dei soldati schierati sul piazzale con espressione attenta.
Ne aveva ricevuto conferma quando il maggiore von Eltz, un uomo sulla quarantina col petto costellato di medaglie al valore, si era fatto avanti seguito proprio da lui. “Signori,” aveva esordito, rivolgendosi ai quattro comandanti di plotone schierati sull’attenti, “questo è il capitano Bühler. Da oggi prenderà il comando della vostra compagnia.”
Il nuovo arrivato si limitò ad annuire, poi si avvicinò per presentarsi a ciascuno di loro.
“Sottotenente Friedrich Hartwig von Kleist”, disse il ragazzo quando fu giunto il suo turno, stringendogli con risolutezza la mano.
Nella Ostpreußen gli ufficiali tendevano ad essere molto più giovani rispetto alla media, ma le fattezze di quel capitano accentuavano quell’impressione: dimostrava a malapena venticinque anni, e neanche il naso leggermente pronunciato, l’espressione seria e le labbra sottili riuscivano a mitigarla. Non rispecchiava i classici canoni di bellezza nordica, ma Friedrich riconobbe che il suo aspetto irradiava una serena autorevolezza: i capelli erano di nuovo ordinati, con la scriminatura da un lato, e nel suo volto pallido ardevano un paio di caldi occhi nocciola – uno sguardo che ispirava fiducia e suggeriva molto più di quanto riuscisse a leggervi in superficie.
“Molto bene,” concluse il capitano, dopo essersi presentato a sua volta, “possiamo cominciare.”

Il capitano Bühler approfittò della pausa dopo il pranzo per uscire a fare un giro del piazzale, nella speranza di rintracciare qualcuno dei suoi vecchi camerati. Si trovava in quella nuova compagnia da circa due settimane, ma gli pareva di aver perso la cognizione del tempo: il cambiamento non era stato così radicale come si sarebbe aspettato e, nonostante tutto, sentiva di potersi ritenere soddisfatto.
Si fermò a pochi passi dall’entrata, la schiena appoggiata a una colonna della loggia, e si tolse il berretto. Una folata di vento, che faceva volteggiare le foglie secche ammucchiate ai lati dei sentieri, gli scompigliò i capelli mentre osservava i gruppetti di soldati intenti a spazzarle via. Frugò distrattamente nella tasca dell’uniforme alla ricerca di una sigaretta, quando una voce alle sue spalle lo fece trasalire. “Signor capitano.”
Hans si voltò di scatto, trovandosi di fronte uno dei suoi subalterni. “Sottotenente von Kleist.”
Il giovane ufficiale non rispose subito; in piedi con le mani dietro la schiena, teneva lo sguardo fisso sulla bandiera che sventolava al centro del piazzale. Aveva la sua tipica espressione pensierosa e concentrata, come quella di un’aquila intenta a scrutare la sommità di una vetta. Per la prima volta da quando si erano presentati, il capitano indugiò più a lungo del solito su di lui: i capelli d’oro pallido, leggermente ondulati, gli incorniciavano il viso dai lineamenti fieri e armonici; non era molto alto, ma la sua figura era snella ed elegante come quella di un atleta, e gli occhi riflettevano il colore del cielo.
“Con tutto il rispetto, capitano”, sbottò il sottotenente a bruciapelo, in tono tagliente, “da quando in qua gli ufficiali di fanteria vengono relegati in magazzino?”
Di fronte a quell’evidente violazione del regolamento, Bühler sobbalzò e lo fissò accigliato. Comprese che alludeva al fatto che lui, per ordine del colonnello, lo avesse mandato a ricontrollare la lista delle munizioni ancora disponibili. “Sottotenente von Kleist, lei non è tenuto a mettere in discussione gli ordini, né tantomeno le decisioni dei suoi superiori. Qui, nella Wehrmacht, lei è un soldato come tutti gli altri, e come tale deve comportarsi. Nessuno terrà conto del suo blasone o del suo rango.”
“Non c’entra niente la mia ascendenza, signore”, ribatté piccato il sottotenente, “un ufficiale di fanteria non è un furiere. Sono ben altre le mansioni che sono tenuto a svolgere.”
“Nessuno è esente da obblighi”, lo rimbeccò il capitano, “lei non ha idea di quante volte io abbia dovuto fare da galoppino per i miei superiori, senza batter ciglio. È così che funziona un esercito: lei non è più soltanto un individuo a sé stante, ma l’anello di una catena che, se spezzato, rischia di compromettere l’intero equilibrio.”
Von Kleist sostenne il suo sguardo senza vacillare; i suoi occhi chiari ebbero un fremito di fierezza, che si scontrò con la sua impassibilità. Serrò le labbra contrariato, tuttavia si costrinse a rispondere, a denti stretti: “Signorsì, signor capitano.”
“Ora, se mi vuole scusare, sottotenente, devo andare”, disse Bühler, con una sarcastica nota di sussiego nella voce. Si rimise il berretto e gli voltò le spalle. “Veda di non tardare, domattina: la partenza è fissata per le sei in punto.”
“Sì, signore.”
Mentre se ne andava a controllare gli ultimi preparativi per la partenza, l’eco delle parole del sottotenente von Kleist continuava a rimbombargli nella volta cranica. La presenza di quel giovane gli causava sensazioni contrastanti, uno strano disagio allo stomaco. Non era tanto la sua lingua insolente o la durezza con cui lui lo aveva redarguito a turbarlo: in quelle due settimane si era reso conto che il ragazzo possedeva quell’indomita scintilla che mancava agli uomini troppo inquadrati nei ranghi, e non dubitava che, una volta fattosi strada nell’esercito, avrebbe saputo rendersi artefice di imprese in grado di rendere lustro alla Patria. Tuttavia, trovandosi ancora all’ultimo gradino della gerarchia degli ufficiali, von Kleist doveva imparare a portare rispetto ai suoi superiori, anteponendo il dovere a ogni altro afflato personale.
Non aveva davvero idea di cosa aspettarsi da lui, durante l’esercitazione sul campo dell’indomani. Non poté negare di esserne incuriosito, forse addirittura più del dovuto.

Quando il capitano se ne fu andato, il sottotenente von Kleist si avviò verso la sala di scherma a testa bassa, il berretto ben calcato sulla testa. Il passo marziale dei suoi stivali riecheggiava sulla pietra bagnata dal sole, calpestando di tanto in tanto qualche foglia secca che si era posata sul selciato.
Forse, impiegare il tempo libero che gli rimaneva tirando di spada col tenente Bentheim – l’unico, in quella caserma, che potesse meritare l’appellativo di amico – lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee e a svagarsi un po’: Konrad, che lo conosceva meglio di chiunque altro, sarebbe riuscito a indovinare la natura del suo turbamento anche senza che lui lo menzionasse apertamente, ma si sarebbe astenuto dal fargli domande imbarazzanti.
Le parole del capitano bruciavano come un’umiliazione sul suo orgoglio, soprattutto quelle sprezzanti allusioni al rango nobiliare: in quelle due settimane di conoscenza, Friedrich aveva racimolato soltanto impressioni positive sul suo conto, ma l’altro continuava a trattarlo come una specie di mulo recalcitrante e refrattario alle regole. Lui aveva intuito fin da subito che Bühler, al di là della facciata irreprensibile, era molto più simile a lui di quanto non volesse dare a vedere. Avrebbe tanto voluto fargli capire che non era per superbia che aveva contraddetto il colonnello: aveva sempre creduto che ogni soldato meritasse di essere trattato allo stesso modo, che l’etica militare fosse soggetta a leggi che andavano al di là di un asettico e rigido regolamento. La dimensione soggettiva, i trascorsi personali, il tempo e lo spazio non avevano alcun ruolo all’interno di quella visione.
Strinse i denti: era diventata una sfida dimostrargli che si era fatto un’idea sbagliata sul suo conto, far sì che pensasse a lui come a un ufficiale che certi valori li onorava e non come a uno spocchioso figlio di papà. Una sfida che non poteva permettersi di perdere, costasse quel che costasse.

Bühler esaminò gli automezzi schierati in cortile, già pronti per la partenza: qualche auto militare, rimorchi carichi di armi e munizioni, salmerie e camionette per il trasporto dei soldati, tutti contrassegnati con la croce di ferro simbolo della Divisione. Parlò brevemente con gli addetti, annotò sul taccuino le cose che mancavano e, ancora una volta, si trovò a chiedersi cosa sarebbe successo l’indomani. Non era certo la prima spedizione a cui prendeva parte, dopo quattro anni di servizio, ma era la sua prima volta al comando di quella compagnia, e prima di allora non si era mai trovato a dover discutere con un ufficiale che trovasse degradante un compito affidatogli da un superiore. Non aveva mentito a von Kleist: una volta finito di controllare lì, anche lui sarebbe dovuto andare a sbrigare delle commissioni per conto del tenente colonnello von Rauheneck, che come sempre preferiva fare affidamento su di lui piuttosto che sui suoi attendenti personali.
“Capitano Bühler.”
Il colonnello Wolff lo fermò prima che potesse mettersi sull’attenti. Era un uomo corpulento, che aveva ampiamente sorpassato la cinquantina; capelli grigi ben ordinati e un accenno di baffi sul volto pieno, accentuato da una leggera pappagorgia.
“Signor colonnello,” rispose il giovane.
“L’esercitazione di domani sarà particolarmente difficile, capitano”, esordì senza preamboli l’ufficiale più anziano. “Ci serviremo di un supporto di carri armati e artiglieria campale, in una vera e propria simulazione di battaglia. Lei sa bene che questo nostro reggimento fa parte di un’unità d’élite, e io mi aspetto da tutti i miei ufficiali che gli ordini vengano recepiti e che le mie direttive siano applicate in maniera corretta.” Fece una pausa, si aggiustò la giubba che gli aderiva al corpo e soggiunse, guardandolo negli occhi: “Dico bene, capitano?”
“Naturalmente, signore.”
“Un esercito, per concorrere alla vittoria finale, ha bisogno di coordinazione e coesione tra i reparti: ogni soldato è utile, ma nessuno è indispensabile. Durante le precedenti esercitazioni, il sottotenente von Kleist ha dato mostra di essere uno dei più capaci, ma è fin troppo individualista. Finora sono stato molto indulgente nei suoi confronti, tuttavia riconosco che il ragazzo ha bisogno di qualcuno che sappia indirizzarlo nella maniera giusta.” Hans deglutì, sentendosi la bocca improvvisamente riarsa; comprese dove Wolff voleva andare a parare prima ancora che lo dicesse, e il suo cuore prese a battere più forte. Infatti, il colonnello gli posò una mano sulla spalla e gli rivolse uno sguardo penetrante. “D’ora in poi questo compito spetterà a lei, capitano.”

Nonostante fosse già settembre inoltrato, il sole irradiava un piacevole tepore, stemperato appena da qualche refolo di vento fresco. Al di sopra delle loro teste, di tanto in tanto, potevano udire le strida degli uccelli migratori che sorvolavano il cielo a squadriglie compatte.
Gli ufficiali della compagnia erano riuniti all’ombra di un albero secolare, dove il capitano Bühler, che deteneva il comando del reparto, esponeva la strategia da seguire. Teneva la mappa dispiegata sul cofano di una Kübelwagen e, mentre parlava, vi tracciava segni che indicavano il percorso e le varie prove di carattere misto che avrebbero dovuto sostenere prima di giungere in vista dell’obiettivo finale. Il tenente Wessel – capelli neri impomatati con la riga all’indietro, uniforme stirata al millimetro; tra tutti il più attento al protocollo – lo ascoltava come uno scolaro diligente, le mani dietro la schiena e gli occhi intenti a studiare la cartina. Il sottotenente Körner si passava nervosamente le dita tra i corti riccioli e il tenente Klaus Fromm, braccia incrociate sul petto ed espressione improntata a una serena imperturbabilità, annuiva silenziosamente a ogni parola. Friedrich von Kleist invece, appoggiato alla fiancata del veicolo e leggermente in disparte, lo guardava di sottecchi e prendeva i suoi appunti con svolazzi resi imprecisi dalla rapidità del polso.
“Prima di partire, controllate per l’ultima volta che tutte le munizioni in dotazione siano inerti. Non credo che sia il caso di ripetere l’incidente dell’anno scorso,” disse alla fine il capitano, alludendo a un episodio che tutti conoscevano fin troppo bene. Guardò i suoi subalterni a uno a uno, poi si soffermò per qualche istante su Friedrich, che lo fronteggiò con aria di velata sfida. Un brivido corse lungo la spina dorsale del sottotenente quando Bühler ricambiò il suo sguardo con la stessa intensità, inchiodando i propri occhi ai suoi.
“Sissignore,” risposero Körner, Fromm e Wessel quasi all’unisono, ignari di quello scambio.
Friedrich strinse con decisione la cinghia dello Schmeisser che gli pendeva dalla spalla. “Sì, signor capitano.”

Acquattato tra le frasche, con alcuni ciuffi di foglie a incorniciargli l’elmo per meglio camuffarsi tra la vegetazione, il sottotenente von Kleist attendeva che la compagnia avversaria comparisse nel campo visivo del suo binocolo. La terra si scioglieva a contatto coi suoi palmi sudati, rendendo scivolosa la presa sullo strumento. Quasi distrattamente, il giovane se li asciugò strofinandoli contro i pantaloni della divisa e tornò a scrutare la buia e silenziosa selva.
Sentiva alle sue spalle la presenza del capitano, anch’egli rintanato dietro un cespuglio col piglio attento di un predatore, e la sola idea gli provocò un leggero formicolio alle mani.
Qualche minuto dopo avvistarono la compagnia comandata dal capitano Schwieger, che si distingueva dalla loro solo per una fascia di colore diverso al braccio. Friedrich rimase a guardarli mentre posizionavano l’artiglieria sulla sommità di un declivio, coperta da una muraglia d’alberi frondosi e da barriere di sacchi imbottiti impilati gli uni sugli altri. Alla vista delle lucide canne che si volgevano minacciose verso il loro schieramento, un mormorio sbigottito serpeggiò tra le ultime file.
“Sono caricati a salve, gente”, borbottò il caporale Schneider, forse nel tentativo di rassicurare i più giovani serventi dell’obice da 105. Aspirò una boccata dalla sigaretta, poi soggiunse: “Tanto fumo e niente arrosto.”
“Schneider, invece di bighellonare, si sbrighi a sistemare i pezzi come da ordini”, lo rimbrottò prontamente il capitano, producendo un lieve fruscio di rami. “E, a proposito di fumo – preferirei vederlo uscire dalle bocche dei cannoni piuttosto che dalla sua.”
A quelle parole, qualcuno ridacchiò, ma a Bühler bastò un gesto per zittirli. Con sommo stupore di Friedrich, l’indolente caporale ridusse le sue lamentele a un fioco mormorio, spense la cicca ed eseguì con inusuale prontezza.
Rimasero in attesa, immobili nelle loro posizioni fin quando non udirono i primi boati, che presto irruppero in una cacofonia assordante e riempirono l’aria di un fumo candido e denso come zucchero filato. Dopo un tempo che parve interminabile, videro le prime file di fanteria che risalivano strisciando il pendio, sagome scure e brulicanti che riaffioravano da un oceano di fumo.
“Adesso!” ordinò il capitano.
Von Kleist ripeté l’ordine e il suo plotone fu il primo ad aprire il fuoco. Le esplosioni simulate rendevano l’aria caliginosa, i bossoli vuoti schizzavano qua e là: benché la loro carica offensiva fosse minima, la vera sfida stava nello schivarli.
Prima ancora che il capitano potesse esprimere ad alta voce le sue perplessità, Friedrich cercò di valutare la situazione di persona: la compagnia di Günther Schwieger simulava un fuoco di sbarramento per coprire l’avanzata della fanteria e impedire al contempo la loro; non potevano arrischiarsi a tentare un assalto in campo aperto. Si voltò verso il suo comandante e si accorse che a separarli non erano che pochi passi: Bühler era strisciato dietro un albero, il calcio di un Mauser poggiato sulla spalla. “Sottotenente von Kleist a rapporto, prego,” lo chiamò in tono asciutto, senza abbandonare il fucile.
Friedrich ordinò al suo plotone di mantenere la posizione, si avvicinò e si mise sull’attenti. “Signor capitano.”
“Dobbiamo creare un diversivo”, disse l’altro, senza preamboli. “Farò avanzare gli obici da campo per costringere la fanteria a ripiegare, mentre noi sfrutteremo la copertura per spostarci in una posizione più vantaggiosa. Mi assista durante la manovra, sottotenente: dovrebbe sapere come fare, ne abbiamo parlato tante volte.”
“Signorsì.”
Von Kleist strisciò di nuovo dietro la sua postazione, raccolse da terra una granata da esercitazione e la scagliò nello spazio che divideva i due schieramenti: la piccola fiamma che scaturì dall’impatto bruciacchiò qualche ciuffo d’erba e si estinse automaticamente, lasciando dietro di sé una scia di fumo. Quando la cortina fumogena creata dai cannoni fu abbastanza densa da celare i loro movimenti, il capitano guidò la compagnia lontano da lì.

Con gli stivali ancora sporchi di mota dopo l’attraversamento del guado, Hans Bühler emerse dal pantano e si guardò intorno, schermandosi gli occhi con una mano per proteggersi dal riflesso del sole che riverberava sull’erba ingiallita. Intorno a loro, l’aperta campagna si estendeva a perdita d’occhio per diversi chilometri; solo qua e là, un alberello sparuto spuntava dal nulla come un’anima derelitta, le membra scheletriche protese verso il cielo. Una poiana passò a volo radente, ghermì una preda e riprese quota a gran velocità, riempiendo il cielo coi suoi schiamazzi. “Nessuno in vista”, disse.
“Nemmeno i Panzer che abbiamo individuato prima delle paludi, signore?” gli chiese il tenente Wessel.
L’ufficiale sentiva sulla schiena gli occhi di centinaia di soldati che lo fissavano con aspettativa. “Nessuno in vista,” ripeté, per poi rivolgersi agli altri comandanti di plotone che gli si erano avvicinati in silenzio. “Naturalmente, signori, gli ordini restano invariati: la prima cosa che dovrete fare nel caso notaste qualcosa di sospetto, sarà avvertirmi.”
“Signorsì, signor capitano.”
“Molto bene. Possiamo procedere dritti verso la meta.”
La meta. Neanche lui sapeva esattamente dove fosse: sapeva soltanto che a un certo punto le indicazioni sul percorso s’interrompevano, e la prova finale stava nell’individuare la bandiera da prendere a testimonianza della vittoria. Si erano lasciati alle spalle i combattimenti e avevano percorso diversi chilometri a piedi, tra boschi e paludi, bagnandosi fino alla cintola per attraversare il fiume e arrampicandosi sui sassi scivolosi per risalirne il corso man mano che s’inoltravano nella foresta.
La presenza del sottotenente von Kleist, quel giorno, lo turbava più che mai: faticava a conciliare il comportamento altero che ostentava in caserma con ciò che lo aveva visto fare sul campo. Combatteva in prima linea mordendo il fango, avanzava coi gomiti a terra incurante della fatica e si muoveva nei luoghi più impervi con la disinvoltura di un avventuriero. Fu proprio lui, dopo una decina di minuti di silenziosa marcia, ad accostarlo indicandogli una palpitazione d’aria che velava appena l’orizzonte. “Panzer in vista, signor capitano.”
Bühler ordinò alla colonna di fermarsi, poi inforcò il binocolo. La formazione di carri si stava aprendo a ventaglio, erano almeno dieci. “Affermativo. Scavate una buca, non c’è tempo da perdere. Continueranno a girarci intorno finché non ci passeranno addosso.”
Subito i soldati, armati di vanghe da trincea, presero a scavare di gran lena una fossa abbastanza grande e profonda da ospitare tutta la compagnia e sufficientemente stretta da impedire ai cingoli di incagliarvisi. Ancora una volta, stipati com’erano in attesa che i Panzer passassero, Hans si accorse di essere così vicino a von Kleist che le loro spalle si sfioravano. Gli parve quasi di sentire il calore del suo corpo, che gli causò un involontario quanto inevitabile brivido e, quando il ragazzo si sporse oltre il bordo della buca, fu solo con molta fatica che riuscì a trattenere il folle istinto di afferrarlo per una manica e trascinarlo nuovamente giù. Tuttavia, non fu che un brevissimo istante prima che entrambi si rannicchiassero l’uno accanto all’altro, trattenendo il fiato: i Panzer caracollarono attraverso la piana e passarono oltre, portando i cingoli sporchi d’olio e fango a una spanna dai loro visi.

Il Sole era già alto quando la colonna di soldati in marcia s’imbatté nella compagnia di Sturm, che sbarrò loro la strada e li impegnò in uno scontro senza esclusione di colpi. Von Kleist conosceva bene quel capitano: la sua compagnia era una di quelle da prima linea, una di quelle che nelle esercitazioni campali era disposta a tutto pur di ottenere la vittoria. Quella del tenente Bentheim, che sostituiva il suo comandante, non era da meno, anche se solitamente Konrad era un tipo più pacato e metodico, di quelli che pianificavano con attenzione ogni aspetto della strategia e andavano dritti verso l’obiettivo, a colpo sicuro, sapendo che non avrebbero fallito. Era proprio lui l’avversario che lo preoccupava maggiormente: in quelle esercitazioni, il fattore determinante non era la forza o l’ardimento, bensì la capacità di eseguire manovre efficaci nel minor tempo possibile. Tutto ciò, il più delle volte, assumeva i connotati di una sfida cavalleresca, di un cortese duello ad armi pari, come nei tornei di cui era abituato a leggere nei romanzi di Wolfram von Eschenbach.
Sapeva, tuttavia, che non si sarebbero mai impadroniti della bandiera rimanendo semplicemente a scaricare proiettili finti addosso ai fantocci che stavano dall’altra parte della barricata, nella speranza di rompere il loro schieramento prima di venire a loro volta sopraffatti.
Bühler gli aveva assegnato una posizione in prima linea, e i propositi del giorno precedente traevano da essa linfa vitale: il capitano aveva dato prova di possedere ottime capacità di comando e di elaborazioni strategiche, accrescendo le speranze di vittoria di tutta la compagnia. Voleva dimostrargli che si sbagliava, guadagnarsi la sua fiducia e la sua stima, ma forse c’era anche qualcos’altro… qualcos’altro su cui lui non ebbe il coraggio di soffermarsi.
Ordinò ai soldati del suo plotone di aumentare la potenza del fuoco e si godette lo spettacolo: investiti dalla loro carica, gli avversari abbandonarono le postazioni più avanzate, permettendo a loro di guadagnare terreno.
Era così concentrato che si accorse a malapena della presenza amica che era strisciata furtivamente al suo fianco: vide solo una figura in grigioverde che avanzava carponi e un elmetto d’acciaio che si sollevava, fino a sporgersi al di là della barriera di sacchi di sabbia.
“Come sta andando, sottotenente?”
Nell’udire la voce del capitano, Friedrich quasi trasalì. “Si procede, signore”, rispose di riflesso, impedendo per un soffio che il suo mitra andasse a sferzare i cespugli. Nonostante il tono impersonale, si rese conto che nella sua voce c’era una strana vibrazione.
Aveva visto più volte Bühler andare avanti e indietro da un capo e l’altro dello schieramento, dettando gli ordini di persona e scambiando brevi battute con ufficiali, sottufficiali e talvolta anche coi più umili fantaccini, ma quella volta, anziché continuare l’ispezione, il capitano rimase lì, armato della sola pistola caricata a salve.
Fu questione di pochi attimi: una granata lanciata dal fronte opposto simulò una spessa cortina fumogena, e le raffiche ripresero con rinnovata energia.
“Attenzione, signore!” urlò von Kleist tirando il capitano per una manica, poco prima che un tintinnio metallico gli sfiorasse l’elmo. Fulmineo, Bühler lo afferrò per le spalle e lo spinse in copertura. Alcuni bossoli rimbalzarono sui sacchi di sabbia e finirono nell’erba, rotolando come gusci vuoti.
Ansante e ancora frastornato, sdraiato supino per terra, Friedrich tossì rumorosamente.
“Tutto bene, sottotenente?” soffiò il capitano, fissandolo col bronzo fuso dei suoi occhi dilatati. Lo sovrastava come un’eclissi, un contatto così serrato che lo portò istintivamente a rabbrividire, il corpo ridotto a un fascio di nervi tesi.
Non osò indugiare sulle vaghe sensazioni che si agitavano dentro di lui e, come sospeso in uno strano deliquio, si limitò ad annuire. “E lei, signore?”
Senza degnarlo di una risposta, Bühler si tirò su bruscamente: sul suo volto era calata un’ombra, le labbra stirate in un’espressione contrariata. Con la mano libera si stava massaggiando una spalla indolenzita.
“Signor capitano?”
“Ottimi riflessi, von Kleist”, disse l’altro, accennando un sorriso sghembo.
Il sottotenente aggrottò le sopracciglia, ma non osò fargli ulteriori domande e riprese il proprio posto.

L’avanzata proseguì a sorti alterne, fino al momento in cui Walther Eichmann raggiunse il comandante di compagnia, si mise sull’attenti e proclamò: “Signor capitano, abbiamo individuato l’obiettivo finale!” La sua voce si levò dallo schieramento come lo stridio di un corvo.
Hans si volse verso la prima linea e si avvide che von Kleist lo stava fissando: un luccichio di trionfo rendeva le sue iridi simili a due splendide acquemarine, come se fosse stato proprio lui il primo ad accorgersi dell’ubicazione della bandiera. Con sgomento si costrinse a distogliere lo sguardo e chiamò a sé i comandanti di plotone, che poco dopo giunsero ad attorniarlo.
Ascoltarono tutti quanti il rapporto del sottotenente, poi Wessel si grattò una guancia con aria pensosa e disse: “Se non ricordo male, c’è un bel tratto di foresta, nonché un percorso molto impervio, prima di giungere a quell’altura. Ma se abbandoniamo lo scontro adesso, gli altri ci seguiranno.”
“È esatto,” intervenne il tenente Fromm, “inoltre, non sappiamo dove si trovi la compagnia del capitano Bentheim, visto che non l’abbiamo ancora intercettata…”
“Conoscendolo, potrebbe essere quasi arrivato a destinazione,” disse von Kleist. “Non abbiamo tempo da perdere. Signor capitano, potremmo…”
“Ci divideremo in due gruppi”, lo precedette Hans, che aveva immaginato subito dove volesse andare a parare, calcando le parole con insolita durezza. “Immaginate di essere in una vera battaglia: abbiamo un avamposto da conquistare, ma i nemici ci tallonano per rallentare la nostra avanzata. Se volgessimo loro la schiena, per troppa avventatezza, sarebbe una carneficina; dunque resteremo qui. Tuttavia…” Li squadrò tutti a uno a uno, soffermandosi sui loro visi attenti. “In vista della vittoria finale, invierò un piccolo distaccamento – un paio di squadre al massimo – affinché proceda dritto verso la meta.”
Spalle dritte e testa alta, il sottotenente fece un passo avanti, le dita strette intorno alla cinghia del suo MP38. “Mi offro volontario, signor capitano.” Poi, senza attendere replica, con risolutezza aggiunse: “Se me ne dà licenza, prenderò le squadre di Böhmer e Hoffmann con me.”
Bühler assottigliò gli occhi, come per osservarlo meglio mentre cercava di ponderare la situazione: comprese di essere combattuto tra i suoi legittimi dubbi di comandante e la sensazione di trovarsi in bilico sull’orlo di un baratro scuro e senza fondo, con solo un’esile corda sotto i piedi. Affidare a von Kleist un incarico simile, senza le giuste basi per instaurare con lui un rapporto di fiducia, poteva rivelarsi un azzardo che, in caso di fallimento, avrebbe minato la credibilità di entrambi. Rammentò le parole del colonnello e, per l’ennesima volta in presenza del giovane, una strana sensazione di disagio s’impadronì di lui.
Congedò gli altri ufficiali, in modo da rimanere da solo con lui, e lo fissò dritto in faccia. “Ha già avuto esperienze di comando, sottotenente?”
“Per periodi di tempo relativamente brevi e alla guida di piccoli distaccamenti sì, signor capitano.”
Bühler rifletté: il fatto che quella fosse una semplice esercitazione e non una vera battaglia campale, oltre a mettere alla prova le sue abilità di comando, gli offriva l’occasione per analizzare il comportamento dei suoi subalterni. “Ritiene di essere l’ufficiale più adatto a ricoprire questo incarico?”
Con voce incolore, il giovane rispose: “Cercherò di fare del mio meglio, signore.”
“Sia chiaro, von Kleist”, lo ammonì Hans con durezza, enfatizzando il von, “la vittoria dell’intero reparto viene prima di ogni velleità di lustro personale.”
Il cipiglio del sottotenente fu alterato da una smorfia di fastidio, che fece tendere appena i muscoli della sua mascella. “Naturalmente.”
“Conto su di lei, sottotenente.”

Ormai un tutt’uno con le piante che lo circondavano, il sottotenente von Kleist diede un’ultima scorsa ai segni che aveva tracciato sulla mappa, poi sollevò il binocolo e individuò lo stendardo bianco coi simboli della Divisione: una croce di ferro con fregi dorati a decorarne i bracci, al cui centro spiccava l’aquila del Reich incorniciata da un’argentea corona di foglie di quercia. Sventolava fiero sulla sommità di una torre di guardia all’apparenza incustodita, che sembrava letteralmente fluttuare in un mare di fitta vegetazione.
“Signor sottotenente?”
Friedrich si volse indietro, notando che il sergente Hoffmann gli si era avvicinato e stava scrutando la boscaglia frusciante con un vago senso d’inquietudine. Gli altri soldati ciondolavano irrequieti, in attesa di conoscere il responso del loro comandante.
“Dobbiamo stare in guardia, signori”, disse infine, lasciandosi ricadere lo strumento sul petto. “Il percorso è lungo e sicuramente impervio. Inoltre, non sappiamo se qualcuno si trova già nel bosco: non escluderei la possibilità di trovare un plotone in agguato per sbarrarci la strada.” E io non ho alcuna intenzione di lasciarmi sottrarre la bandiera da sotto il naso… “Andiamo.”
Come si era aspettato, il percorso era irregolare, costellato di tronchi caduti che sbarravano la strada, sassi sporgenti da scavalcare e buche insidiose che risucchiavano i piedi a tradimento. Il sottotenente camminava in testa alla colonna tastando il terreno con un lungo bastone, gli stivali che affondavano fino al polpaccio in un tappeto di foglie secche e crepitanti: qualcuno dei suoi commilitoni era già caduto facendo scricchiolare i rametti che invadevano il sottobosco, qualcun altro si era slogato una caviglia e procedeva zoppicando. Tronchi soffocati dal muschio si ergevano come antichi pilastri a sostegno di una volta alberata, così fitta da impedire l’accesso ai raggi solari, e in quell’atmosfera irreale regnava un silenzio altrettanto sospetto: sembrava che non ci fosse nessun altro oltre a loro, nessun altro rumore oltre ai sussurri dei soldati e a quello dei loro passi.
Camminarono per un lasso di tempo inquantificabile, fin quando non trovarono la strada sbarrata da un improvviso dislivello del terreno, un pendio irregolare da cui spuntavano rocce e radici robuste.
“L’ultima prova è… arrampicata?” borbottò Löffler.
“Ci hanno forse preso per truppe da montagna?” fece eco Bauer.
“Un soldato della Ostpreußen deve essere pronto a tutto,” li rimbrottò il sottotenente, iniziando per primo la scalata. “Ricordate? Am Ende steht der Sieg.

Quando finalmente von Kleist mise la testa fuori dalla boscaglia, fu come emergere dalla superficie di un lago dopo una lunga immersione. La luce del sole perforò i suoi occhi, ormai assuefatti alle tenebre silvestri, ma non gli impedì d’intravedere, al di là della grande quercia che vigilava sull’altura, la bandiera che garriva nel vento autunnale.
Si tirò su, salutando quella visione come un presagio dell’imminente vittoria. Involontariamente, le sue labbra si piegarono in un accenno di sorriso, sebbene – ne era sicuro – la sua causa non fosse da ricercarsi nell’ebbrezza marziale, bensì in qualcosa di ineffabile, che ormai da giorni si agitava nel profondo del suo animo.
Al suo comando, i due capisquadra – i sergenti Böhmer e Hoffmann – fecero un passo avanti e si misero sull’attenti: il primo era un uomo alto, dall’aspetto ordinario; l’altro, un giovane sui venticinque anni coi capelli rossi e il viso lentigginoso.
“Suppongo che, una volta usciti allo scoperto, da qualche parte troveremo dei tiratori nascosti e delle mitragliatrici pesanti sistemate a intervalli regolari lungo il percorso”, esordì, “e a quel punto la prova di destrezza sarà individuare lo schema e recuperare la bandiera senza finire crivellati. Sebbene quei proiettili non abbiano mai ucciso nessuno, è pur sempre consigliabile evitarli.” Friedrich ricordava ancora la prima volta in cui era stato investito in pieno da una raffica, che per giorni gli aveva lasciato lividi violacei e dolenti su tutto il corpo. “Prenderò con me il sergente Hoffmann, Bauer e Hansen. Noi procederemo dritti verso l’obiettivo, mentre gli altri, sotto la guida di Böhmer, dovranno coprirci le spalle. Lindemann si tenga dietro per le comunicazioni.”
“Sì, signor sottotenente.”
“Molto bene”, disse il giovane. Si fece scivolare il mitra a tracolla e tirò fuori dalla fondina la pistola caricata a salve: per ciò che doveva fare, sarebbe bastata quella.

Mancavano pochi metri alla torretta, ma sembrava che il percorso non finisse più. Friedrich avanzava mezzo carponi, ferendosi i palmi coi sassi, le ginocchia scorticate che spuntavano dai buchi nei pantaloni. La sua squadra gli teneva dietro, conquistando una dopo l’altra le postazioni avversarie: non li vedeva, ma poteva sentire le loro voci e le detonazioni dei loro fucili che cercavano di proteggerlo dal tiro dei cecchini. Strinse i denti, cercando di mettere a tacere il bruciore delle escoriazioni, si puntellò con le mani e si risollevò, mentre i bossoli delle mitragliatrici continuavano a tintinnare intorno a lui. Si buttò di nuovo in copertura per evitare una raffica e si appiattì per schivarne un’altra, che gli sfiorò di striscio la schiena. Con un ringhio si abbassò, sbatté il viso contro il terreno duro e il sapore metallico del sangue misto a terra gli invase la bocca. Alzò appena la testa: l’aquila nera sventolava in cielo gagliarda, incurante di tanta fatica. Un ultimo sforzo…
Si spinse in avanti senza nemmeno più sentire la terra sotto i piedi, quasi incespicando, si aggrappò alla scaletta e vi si issò, con l’agilità di un marinaio che si arrampica sul sartiame per raggiungere l’albero maestro. Scandito dalla salita, il tempo parve dilatarsi a dismisura, per poi cristallizzarsi all’improvviso, nell’esatto istante in cui la sua mano afferrò l’asta lignea dello stendardo e la sfilò dal supporto.
Era finita: avevano vinto.
Tenendo il trofeo ben saldo in pugno, discese con un balzo e imboccò il percorso a ritroso, col cuore che gli galoppava nel petto.
“Lindemann!” urlò, con quanto fiato aveva in gola. “Si metta in contatto col capitano Bühler e gli dica che ce l’abbiamo fatta!”
Si lasciò ricadere sull’erba e appoggiò la schiena contro la quercia, esalando un sospiro soddisfatto. Con la manica dell’uniforme si ripulì il labbro sanguinante, poi gettò l’elmetto per terra e si attaccò alla borraccia per dissetarsi in attesa di ripartire. L’ultima cosa che gli restava da fare era ritrovare il suo comandante di compagnia e consegnargli personalmente la bandiera.
Sorrise tra sé e sé: quell’ultimo pensiero gli fu perfino più gradito della vittoria stessa.

“È fatta, signor capitano, abbiamo vinto!”
Hans fissava la boscaglia pervaso da una strana aspettativa, fonte di sollievo e al tempo stesso di trepidazione. Era stato il sottotenente von Kleist in persona a comunicargli quella notizia, come se fosse una cosa che riguardava principalmente loro due.
Invano tentò di scacciare quel pensiero, che continuava a ripetersi amplificato nella sua testa insieme alle ultime parole del giovane.
Quando avvistò il plotone che riemergeva dalla foresta, Bühler gli andò incontro e, nonostante l’impassibile distacco che si era imposto in sua presenza, con lo sguardo cercò subito il sottotenente.
Per tutta risposta, von Kleist fece sventolare leggermente lo stendardo in segno di saluto e affrettò l’andatura, distanziando di qualche passo gli altri soldati. Camminava con l’incedere solenne che avrebbe potuto tenere durante una parata militare, ma la sua uniforme era sporca e strappata e l’elmetto gli pendeva dalla cintura, facendo risplendere al sole i suoi capelli biondi. Non c’era alterigia nel suo contegno, bensì una serenità che accentuava il suo sorriso, per quanto tenue. In quella visione, il capitano credette di scorgere l’incarnazione di un qualche eroe classico: nobile, indomito e selvaggio.
“Herr Hauptmann”, ripeté il sottotenente, porgendogli la bandiera con un gesto cavalleresco, “am Ende steht der Sieg.”
Hans ricevette il trofeo come in un’investitura, mentre von Kleist, con una spavalderia che lo lasciò interdetto e affascinato, alzava appena il mento per incontrare il suo sguardo: non era quel desiderio di approvazione che aveva imparato a riconoscere nei subalterni, né un tentativo di compiacerlo, bensì un inequivocabile segnale che solo lui avrebbe potuto cogliere.
E in quell’attimo incastrato tra le pieghe del tempo, tutto il resto del mondo intorno a loro scomparve.

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ~ Nur wer die Sehnsucht kennt, weiß, was ich leide. (parte seconda) ***


VII.
Nur wer die Sehnsucht kennt, weiß, was ich leide.
(parte seconda)
 

Sembrava che i documenti, anziché diminuire mano a mano che il sottotenente von Kleist li catalogava e li riponeva nei fascicoli, stessero aumentando sempre di più: da almeno un’ora andava avanti e indietro per la stanza dell’archivio, tra file di scaffali tutti uguali e lampade poste a intervalli regolari, annotando ogni progresso sull’apposito registro.
Scoccò un’occhiata torva alla pila di scartoffie accatastata sul tavolo ed esalò un sospiro: anche quella volta, il colonnello Wolff aveva deciso di punirlo per non aver rispettato le sue indicazioni. Stava per sollevare l’ennesimo plico quando, alzando la testa, scorse in controluce una figura alta e longilinea, ritta davanti all’uscio.
“Sottotenente von Kleist”, disse il nuovo arrivato, prima ancora che egli potesse identificarlo.
Friedrich fece per mettersi sull’attenti, ma l’altro glielo impedì con un cenno.
“Signor capitano.”
Bühler rimase fermo sulla soglia a guardarlo, senza proferire motto. Trattenendosi dal lanciargli una frecciata, il giovane gli volse le spalle e riprese imperterrito a lavorare, nella speranza che se ne andasse. L’aria sembrò farsi torrida come all’interno di una fucina, e il pensiero che il capitano lo vedesse a sgobbare come un volgare garzone – che godesse della sua umiliazione – lo portò a ingollare un fiotto di bile amara.
“L’altro giorno… devo dire di essere rimasto molto sorpreso.”
Quelle parole, proferite di punto in bianco, lo fecero sobbalzare: comprese che Bühler alludeva all’esercitazione – non era un complimento esplicito, ma in esso non v’era ombra di ostilità o severità. Non era venuto lì per conto del colonnello, per controllarlo o redarguirlo: l’aveva fatto di sua spontanea volontà, anche se il motivo di tutto ciò gli rimaneva oscuro. Quel pensiero lo intrigò, sciogliendo il nodo di vergogna che gli attanagliava le viscere e la gola e incalzando il ritmo dei suoi battiti.
Esitò, soppesando con cura le parole, quindi ammise: “Sono onorato della fiducia che mi ha concesso, signore.”
Ripensando a come Bühler si era comportato quel giorno, la sua risolutezza e i suoi modi schietti gli avevano confermato l’idea che si era fatto di lui: era un comandante che non imponeva la propria autorità, ma piuttosto sapeva farsi rispettare senza usare metodi coercitivi. Un comandante che avrebbe seguito senza esitazione.
“Ha dato prova di avere un’ottima tempra”, continuò il capitano, in tono insolitamente morbido.
“La ringrazio, signore.”
L’altro rimase per qualche istante in un silenzio assorto, con una mano poggiata allo stipite della porta, poi volse il capo indietro, come un muto accenno ad andarsene. “Forse è meglio che la lasci lavorare in pace e torni alle mie occupazioni. Ci vediamo dopo, sottotenente.”
“Capitano?”
Bühler si arrestò sulla soglia, lasciando appena trapelare un’aspettativa che strideva col suo atteggiamento solitamente rigido.
Friedrich esitò; l’orgoglio gli impediva di scoprirsi troppo. Sentiva però addosso i suoi occhi, pozzi scuri e lucenti che parevano volergli scavare dentro, animati dalla sua stessa curiosità. “Spesso ho l’impressione che da un giorno all’altro verremo chiamati alle armi.”
“Siamo stati addestrati per questo, von Kleist.”
Friedrich lo sapeva, lo sentiva nell’aria, che nel giro di pochi anni la Germania si sarebbe schierata sul campo contro i propri nemici. Suo fratello Manfred si era volontariamente arruolato nella Legione Condor e aveva scelto di andare a combattere la guerra civile in Spagna, un intervento significativo che aveva infranto i trattati internazionali; la politica di riarmo era in pieno fermento.
Ripensò ancora una volta alla fortissima sintonia che aveva unito lui e il capitano sul campo di battaglia, come se fossero nati per combattere insieme, a quello strano senso di sospensione che li aveva alienati dal resto del mondo nel momento in cui gli aveva consegnato la bandiera. “Quando accadrà,” – spero di essere insieme a lei, avrebbe voluto dire, ma si trattenne – “mi auguro di trovarmi ancora in questa compagnia.”

Hans imboccò il corridoio deserto, incapace di togliersi dalla testa le ultime parole del sottotenente. La luce tiepida del sole filtrava dalle file di alte finestre, ampie e regolari, esaltando il candore dei marmi e le tonalità pastello degli intonachi colorati. Pensò di andare al circolo ufficiali solo per allontanare certi pensieri, ma non era assolutamente dell’umore per sorbirsi le chiacchiere frivole e le facezie dei suoi colleghi. Irresoluto, si affacciò a una delle finestre, appoggiando i gomiti al davanzale di marmo venato: in cortile, diversi piani più sotto, vide una torma di reclute in tenuta da allenamento che si recavano in palestra scortate da un sottufficiale, mentre una fila ordinata di camionette coperte stava varcando il cancello.
Non capiva che cosa gli fosse preso, con von Kleist. Andare di sua spontanea volontà a disturbarlo… per cosa? Per dirgli che aveva apprezzato la sua condotta durante l’esercitazione? Per ricevere l’ennesima conferma – come se ce ne fosse stato bisogno – che anche il sottotenente ricambiava il suo interesse? A forza di continuare a soffiare sulla brace, prima o poi un incendio sarebbe divampato, consumandoli entrambi.
Certe cose erano malviste, proibite, condannate senza appello. Certe cose comportavano il disonore, un processo infamante e l’allontanamento dalle forze armate.
Anche solo concedergli quel poco di confidenza in più li avvicinava inesorabilmente al punto di non ritorno… e a quel punto, che cosa sarebbe successo se si fosse scoperto troppo? Che cosa avrebbe fatto il cavaliere prussiano, avrebbe fronteggiato la potenza distruttrice del fuoco – con tutti i rischi che essa comportava – o lo avrebbe denunciato come nei suoi peggiori incubi, schernendolo e additandolo come omosessuale degenerato?
Scosse la testa e si sporse ulteriormente, immobile a fissare il baratro. A turbarlo era anche qualcos’altro, qualcosa che lui non voleva che si ripetesse. Si ritrovava, a quasi venticinque anni, senza sapere cosa volesse dire godersi la gioventù, anelando da lontano a quella felicità proibita che i versi di Schiller celavano dietro metafore e amicizie equivoche, ma gli anni di prolungata solitudine lo avevano reso capace di resistere anche alle pulsioni più sfrenate. Come tante altre volte, doveva solo riuscire a controllarsi e fare in modo che von Kleist non si avvedesse di nulla.
Forte di quella risoluzione, s’incamminò verso il poligono di tiro: gli sembrava la soluzione migliore per sfogare la tensione accumulata negli ultimi giorni.
Così preso dalle sue elucubrazioni, si accorse dello scalpiccio di passi che riverberava nel silenzio solo quando avvertì una voce alle proprie spalle. “Signor capitano!”
D’istinto, Bühler trasalì, scattando sulla difensiva come se si fosse trovato alle spalle un nemico pronto ad accoltellarlo. “Sottotenente?”
Von Kleist lo salutò sfiorando la visiera rigida del berretto, che gli calzava leggermente sulle ventitré e gli conferiva un’aria sbarazzina. Al capitano parve di scorgere l’ombra di un sorriso su quelle labbra pallide, effimero e fugace, mentre rimaneva fermo con l’aria di star aspettando qualcosa.
“Ha già finito quello che stava facendo, von Kleist?” gli domandò, in tono imparziale.
“Sì, signor capitano. Sono già stato dal colonnello, che mi ha dato licenza di prendermi una pausa. Credo che andrò al poligono ad esercitarmi.”
A quelle parole, Hans strinse i denti e aggrottò la fronte: una voce interiore lo ammonì che forse avrebbe fatto meglio a mentire, ritrattare e tornare sui suoi propositi iniziali. Ma non doveva mostrarsi debole e cedere così facilmente ai bassi istinti, doveva dominarsi. “Anch’io stavo andando al poligono, sottotenente,” disse infine, precedendolo lungo il corridoio.

Bühler camminava con falcate rapide e nervose, e von Kleist gli teneva dietro di qualche passo senza staccare gli occhi dalla sua nuca castana.
Il capitano era sfuggente, elusivo, come se cercasse di tenerlo volutamente a distanza, ma sotto la sua apparente freddezza c’era qualcosa che lo attraeva e lo conturbava, mettendolo al tempo stesso in guardia contro un pericolo non identificato. Non poteva rimanere indifferente di fronte al suo sguardo limpido e privo di ombre, che ben rifletteva la serietà del suo temperamento; ma, se anche Bühler gli avesse concesso la propria amicizia in buona fede, non sapeva quanto tempo avrebbe retto prima che quella Sehnsucht che covava per lui in silenzio si trasformasse in un sentimento più forte.
Mentre rifletteva, si rese conto che il capitano stava gradualmente rallentando il passo e, una volta usciti fuori nel sole autunnale, a percorrere i vialetti lastricati e contornati da aiuole ben curate, si ritrovarono a camminare fianco a fianco. Friedrich scrutò di sottecchi il suo accompagnatore, e per un istante gli balenò per la mente il folle ghiribizzo di proporre un cambio di programma e sfidarlo a tirare di scherma. Tuttavia lo accantonò, quasi temendo l’effetto che il brivido del duello avrebbe potuto avere sulla tensione elettrica che già serpeggiava tra i loro animi.

La costruzione che ospitava poligono e armeria era in linea con la marziale eleganza dell’intero complesso, cui l’aquila del Reich che troneggiava sul frontone conferiva un aspetto ancora più austero.
I due giovani trovarono altri commilitoni alle rispettive postazioni di tiro, chi col fucile e chi con la pistola; c’era solo una postazione libera, che indusse von Kleist a concedere la precedenza al suo superiore.
Hans avanzò di un passo, impugnò saldamente la pistola con la destra e tese il braccio. Cercò di fare il vuoto nella mente, di placare il tormento che gli opprimeva il petto. Con un sospiro drizzò le spalle, prese la mira e sparò: centro perfetto.
Sollevato, cedette il posto al sottotenente e gli rivolse un sorriso sghembo, come per esortarlo a replicare il suo risultato.
Von Kleist, con un gesto fluido ma al tempo stesso solenne, fece un passo indietro, sollevò il braccio armato, puntò la pistola contro il tabellone e fece fuoco. Centro.
Quella volta fu lui ad alzare la testa fino a incontrare lo sguardo del capitano, piegando appena gli angoli della bocca.
Piglio fiero, come quello di un’aquila…
Hans cercava – senza eclatanti risultati – di mantenere un cortese ma professionale distacco, mentre von Kleist si comportava con apparente naturalezza. La sfida più grande non era centrare il bersaglio e far valere le sue doti di tiratore: era resistere allo sguardo di quegli occhi, all’apparenza freddi, che in quel momento sembravano ardere come non mai.
Pian piano, tuttavia, anche a lui sembrò che la tensione si fosse diradata; il braccio, prima rigido, si era rilassato, i suoi pensieri erano tutti concentrati sull’obiettivo.
L’atmosfera si distese rapidamente e presto l’esercitazione divenne una sorta di sfida cavalleresca, che finì per sciogliere la cortina di ghiaccio entro cui Hans si era trincerato. Uscì dal poligono con una sensazione di serenità che gli pervadeva l’animo, conversando amichevolmente con von Kleist. Perfino il sole, che intesseva d’oro i capelli del sottotenente, sembrava più fulgido.
Realizzò che c’era molta affinità tra loro, non perché i loro caratteri fossero veramente simili, bensì perché c’era un’ottima sintonia che andava al di là delle evidenti differenze.

Nel giro di tre settimane, Friedrich non solo era passato di grado, diventando tenente, ma il suo rapporto col capitano Bühler era completamente cambiato: sfruttavano i pochi momenti liberi per andare al poligono, in sala scherma o al maneggio ad allenarsi insieme, poi si trattenevano a conversare fino a quando uno dei due non veniva richiamato ad altri compiti.
Le formalità e i convenevoli erano stati presto accantonati in favore di argomenti più pregnanti, come la filosofia, la storia e il futuro della Germania.
Quello che tanto si era premurato di evitare, stava di nuovo succedendo? Col capitano aveva già varcato una soglia, concedendogli una familiarità che prima di allora non aveva mai concesso a un altro ufficiale, e il tutto era accaduto in perfetta naturalezza, senza sbavature, come se facesse parte del copione di un’opera teatrale già scritta da una mano invisibile.
Lo osservò di sfuggita: era appoggiato morbidamente alla staccionata, lo sguardo assorto. La luce del sole conferiva alle sue iridi una tonalità ambrata, che ricordava il colore delle foglie autunnali e ardeva nell’ovale del volto diafano.
Sapeva che era sbagliato desiderare certi legami con un altro ufficiale, che la gerarchia militare imponeva un certo contegno, eppure…
“Stavo ripensando al discorso che ci ha fatto oggi il maggiore von Eltz…” disse, cercando di dissipare la strana tensione che aleggiava nell’aria.
Dopo un breve silenzio, Bühler annuì. “Ci penso spesso anch’io, e credo che abbia ragione. Lo diceva anche mio padre, di ritorno dal fronte occidentale: la guerra ti segna a fondo, e non tutti hanno la tempra per sopportare il peso delle conseguenze che essa porta con sé.”
“Lei ha mai pensato…” Non terminò la frase; era una domanda troppo personale, ma il capitano sembrò intuire subito dove volesse andare a parare.
“Non ne ho idea, von Kleist”, rispose. “Se la mano non trema durante l’esercitazione al poligono, non è detto che mantenga la stessa fermezza quando davanti a lei… c’è un uomo in carne e ossa.” Lasciò cadere una breve pausa e, in quel momento, il comandante dal polso ferreo tornò a essere un giovane ufficiale alle prese con gli stessi dilemmi di chiunque non avesse mai vissuto in prima persona un vero e proprio conflitto. Perché un conto era l’addestramento, un altro era la guerra, quella vera. “Posso dirle quello che mi disse un mio superiore, quando ero ancora un allievo: una volta ricevuto il battesimo del fuoco ci si fa l’abitudine, oppure ci si spara un colpo in testa.”
Friedrich soppesò a lungo le sue parole. “Signor capitano, lei ha mai… rimesso in discussione la sua scelta di arruolarsi nell’esercito?”
“Mai, nemmeno una volta.”
“Nemmeno io.”
Quella volta fu Bühler a volgersi verso di lui, con cortese interesse. “Cosa l’ha spinta ad arruolarsi, tenente?”
“Credo… in ultima analisi, la vocazione personale”, rispose il giovane, d’istinto. “Vivo in un ambiente militare fin da quando ero piccolo: i miei antenati hanno sempre combattuto per la Germania, fin dai tempi di Federico il Grande, ma è per mia volontà che ho scelto questa carriera: credo che la Patria venga prima di ogni ideologia.”
“Nobile proposito.” Hans piegò le labbra in un impercettibile accenno di sorriso, poi voltò le spalle agli edifici di servizio e si perse a contemplare il boschetto dietro la caserma. “La mia famiglia non ha mai approvato la mia scelta,” ammise poi, con una nota di rammarico.
“Lei non è di qui, vero?” Quella di Friedrich non era tanto una domanda, quanto un’implicita richiesta di confermare le supposizioni che aveva elaborato prima ancora di conoscerlo: lo capiva dal suo cognome e dall’accento svevo che, pur non essendo marcato, dava alle sue parole un’intonazione inconfondibile.
“No, tenente, anche se ci vivo da un paio d’anni. Sono del Baden, di un piccolo paesino ai margini della Foresta Nera… ma è da tanto tempo che non ci torno.”
“E… le manca la sua terra, signore?”
“Ogni tanto”, disse Bühler, senza smettere di guardare dritto innanzi a sé. “Qui a Potsdam è tutto diverso, più frenetico… perfino la gente è diversa. Se mai le capiterà di andare da quelle parti, forse capirà quello che intendo.”
“Lo capisco, credo. Nemmeno io sono di qui… sono cresciuto tra i boschi e campagne del Brandeburgo. La vita ha tutto un altro sapore, a contatto con la natura.”
“E la sua famiglia?”
“Il ricordo dei miei genitori è rimasto legato a un’epoca ormai finita… probabilmente, se fossero ancora vivi, non approverebbero lo stato di cose attuale.” Von Kleist esitò qualche istante prima di proseguire: per una ragione ch’egli non seppe giustificare razionalmente, l’idea di alludere alle sue origini aristocratiche lo mise a disagio. “Io, però, non mi sarei tirato indietro: penso che la vera nobiltà stia nello spirito e negli intenti e, se fossi vissuto in un altro secolo, mi sarei unito all’Ordine Teutonico.”
“Noi della Ostpreußen siamo un po’ come i Cavalieri Teutonici del Terzo Reich, se ci pensa”, osservò il capitano. “Cambiano i tempi, ma non lo spirito… anch’io, se fossi nato nel Medioevo, mi sarei sicuramente unito all’Ordine.”
“Allora forse, chissà, magari in una vita precedente ci saremmo potuti incontrare da qualche parte in Livonia, o in Terrasanta!” esclamò Friedrich, rendendosi conto – forse troppo tardi – che Bühler lo stava fissando con uno strano luccichio negli occhi, simile a quello del bronzo sul punto di liquefarsi. Da lì a immaginarselo con scudo e usbergo, la veste bianca con la croce nera sul petto e una spada che gli pendeva dal fianco, fu un tutt’uno. Le parole gli fluirono dalle labbra senza che egli potesse controllarle: “Swer an rehte güete wendet sîn gemüete, dem volget sælde und êre…” 1
“Chi è, Wolfram von Eschenbach?”
“Conosce il Parzival, capitano? È il poema che ha ispirato la mia opera preferita di Wagner… comunque no, questo è l’Iwein di Hartmann von Aue, un poeta delle sue terre.”
“Non credevo che fosse un appassionato di letteratura cavalleresca, tenente,” mormorò il capitano; i loro volti erano così vicini che i loro respiri si confondevano nell’aria.
“Nemmeno io, signore,” disse von Kleist.
“Hans.”
“Come?”
“Quando siamo da soli, può chiamarmi Hans.”
“E lei può chiamarmi Friedrich.”
“Friedrich,” ripeté Hans, guardandolo con aria trasognata.
I meccanismi di difesa affinati in anni di solitudine gli imponevano di staccarsi da lui, di ripristinare la distanza di sicurezza, ma i suoi muscoli non accennarono a muoversi. Appoggiate allo steccato, le mani si sfiorarono e le dita s’intrecciarono fugacemente.

Che vi fosse pioggia, vento o neve, a Friedrich piaceva camminare per le strade di Potsdam quando calava la sera, dopo il servizio, per poi arrivare a casa e godersi il meritato riposo: anche se viveva da solo e non aveva nessuno ad aspettarlo – a parte la vecchia domestica che gli faceva sempre trovare pronta la cena e, talvolta, qualche lettera dei suoi fratelli – lui non disdegnava affatto la solitudine raccolta di quel piccolo attico.
Quella sera, però, si attardò al riparo di un portico in preda a una sorda inquietudine, mentre la pioggia scrosciava senza sosta, inondando le strade, e le luci dei lampioni nel buio sembravano macchie di tempera a olio. Aveva visto passare il capitano Bühler col berretto sugli occhi e il bavero alzato per proteggersi dalle sferzate: la tentazione di fare un pezzo di strada con lui era stata forte, ma alla fine lo aveva salutato ed era rimasto a guardarlo mentre la sua sagoma scura scompariva dietro una curva.
Indugiò ancora, fino a quando il fascio di luce prodotto dai fari di una Mercedes non si proiettò sulla strada nera, facendo rilucere le gocce d’acqua come tanti piccoli cristalli che cadevano dal cielo.
“Friedrich!” lo chiamò una voce.
Riconoscendolo all’istante, von Kleist uscì allo scoperto. “Konrad.”
“Vieni, ti do un passaggio.”
Senza indugio, il tenente raggiunse di corsa la portiera della berlina e si rifugiò all’interno dell’abitacolo. “Stasera c’è il diluvio”, borbottò, togliendosi il berretto zuppo d’acqua.
Le gocce percuotevano i finestrini rendendo la visuale ostica, ma Bentheim guidava con perizia, senza lasciarsi turbare dalle ruote che slittavano in curva o dai fiotti d’acqua che ruscellavano sul parabrezza. “Che fai stasera?” gli chiese, dando di gas.
Friedrich sprofondò nel sedile, incassando la testa tra le spalle. “Niente, credo. Solite cose.”
“Potresti venire da me”, propose l’altro. “Sentiamo anche gli altri, magari imbastiamo una bevuta e una partita a qualcosa. Nessun problema se si fa tardi, no? Tanto domani è giorno di riposo!”
Egli annuì, notando che il contegno dell’amico era più sereno del normale: le sue iridi grigie sembravano quasi scaglie d’argento in quella luce livida. “Grazie, Konrad, accetto volentieri”, disse. “Una bevuta è proprio quello che mi ci vuole.”
Il capitano gli lanciò una rapida occhiata senza perdere di vista la strada, poi abbassò la voce. “Successo qualcosa?”
Friedrich si limitò a fare spallucce. “Questa settimana è stata molto piena, mi sto allenando tutti i giorni per la gara di equitazione. Tu, invece, buone notizie?”
“Se sono fortunato, il colonnello mi concederà qualche giorno di licenza proprio quando Reinhardt verrà a Potsdam, così andremo a trascorrerli nella mia tenuta di caccia.” Bentheim accennò un altro sorriso, ma subito dopo si fece serio. “Sei sicuro che siano soltanto gli allenamenti… o c’è qualcos’altro?”
Prima di rispondere, il tenente rimase a lungo in silenzio, a guardare fuori dal finestrino punteggiato di goccioline dorate il paesaggio che scorreva senza ch’egli potesse vederlo realmente: in quell’ultima settimana, insieme alla promozione a tenente, aveva maturato anche la certezza dei suoi sentimenti per Hans – il che, se fosse trapelato, sarebbe equivalso a strapparsi con noncuranza i gradi dalle spalle, condannando il capitano alla medesima sorte. “Vieni tu a casa mia, così ti racconto”, propose infine. “Ho un paio di bottiglie di vino del Reno e una scacchiera. Penso che possa bastare, no?”
Non era sicuro del fatto che parlarne lo avrebbe aiutato, ma almeno avrebbe potuto passare una serata piacevole in compagnia dell’unico amico in grado di comprenderlo.

Il tepore del sole mitigava l’aria frizzante di novembre, il cielo era una tela immota di azzurro purissimo. “Giornata perfetta per andare a cavallo”, osservò Friedrich, mentre varcavano il cancello del maneggio.
Bühler annuì in silenzio: osservava distrattamente le betulle grigie e scheletrite che incombevano sullo sfondo, conferendo al paesaggio un’impressione di delicata bellezza. Nonostante fosse un pomeriggio terso, i recinti per l’equitazione erano quasi tutti vuoti, tranne uno dei più lontani, dove un paio di principianti provavano le figure base del dressage.
Quando i due ufficiali raggiunsero la capanna di legno che ospitava le scuderie, le loro narici furono invase dal caratteristico odore di stalla e di fieno fresco. Alcuni cavalli li osservavano con aria oziosa dalle finestrelle dei rispettivi box, uno di essi stronfiò, mentre altri, placidamente intenti a masticare la biada, non alzarono nemmeno la testa.
Von Kleist si diresse a colpo sicuro verso un frisone dalla fluente criniera corvina e gli occhi di giaietto, che appena lo vide scalpitò e si lasciò condurre fuori per essere sellato.
Hans, titubante, lo guardò mentre il tenente gli applicava i finimenti: quel cavallo, pur concedendo al suo padrone una fiducia quasi assoluta, si lasciava a malapena avvicinare da chiunque altro. Provò a muovere un passo verso di lui, ma il purosangue dilatò le froge e appiattì le orecchie in un’aperta manifestazione di ostilità. “Non si è ancora abituato alla mia presenza?” domandò, inarcando un sopracciglio.
Friedrich scrollò la testa con una lieve risata. “Si lascia domare solo da me.” Tenendo le redini con una mano, mise un piede nella staffa e balzò in sella con la grazia di un cavallerizzo. “Dai, vai a prendere il tuo cavallo e facciamo a chi termina per primo dieci giri!”

Von Kleist spronò il suo morello al galoppo, saltò un paio di ostacoli e deviò dalla pista, spingendolo a scavalcare lo steccato che delimitava il recinto.
“Friedrich!” urlò l’altro, alle sue spalle, “Friedrich, dove diavolo stai andando?”
“Vediamo se riesci a raggiungermi!” lo sfidò il più giovane, in preda a una strana euforia: praticava equitazione con più disinvoltura del capitano, ma aveva trovato in lui un valido avversario. Si spinse in campo aperto, quasi a briglia sciolta, col vento che gli sferzava il viso e gli faceva danzare i capelli intorno alle tempie. Cavalcare era una delle poche cose che lo facessero sentire veramente libero, un’estasi e un’ebbrezza, mentre il terreno filava sotto gli zoccoli del cavallo dandogli l’impressione di poter fendere l’aria.
Per tenere la stessa velocità, Hans si piegò sull’arcione e spronò con più forza i fianchi del suo baio: il suo metro e novanta lo rendeva un fantino inadatto al galoppo e sgraziato nel dressage ma, durante le cavalcate col tenente von Kleist, la sua riluttanza veniva animata da una sincera scintilla di competizione. L’animale si diede uno slancio e con un salto vigoroso affiancò l’avversario, che fissò entrambi con un’espressione di autentico stupore dipinta in viso. Le sue guance erano arrossate dalla foga della corsa, un ciuffo dorato gli ricadeva disordinato sulla fronte. A quella vista, Bühler sorrise sotto i baffi, allentò le redini e il suo destriero lo assecondò, facendo scattare la muscolatura poderosa.
Dopo qualche falcata si volse di nuovo verso Friedrich, che gli teneva dietro a fatica, e scoppiò a ridere di una risata spontanea; perfino lui si stupì del suo stesso entusiasmo. “Facciamo a chi arriva prima a quella quercia!” gridò, indicandola, ormai sicuro della propria vittoria.
Era la prima volta che von Kleist vedeva il capitano così compiaciuto, ma arrendersi così, a poche decine di metri dal traguardo, sarebbe stata una sconfitta per il suo orgoglio. Sentiva che le ginocchia del suo destriero iniziavano a cedere: si era allenato duramente per la gara di completo che aveva corso la domenica appena passata, e da allora non gli aveva concesso un attimo di riposo.
Come se avesse percepito il suo cambiamento d’umore, il cavallo accelerò l’andatura fino a superare di nuovo il rivale: non aveva neanche più bisogno di ordini espliciti, tanta era la sintonia che lo legava al suo cavaliere. Friedrich, avvertito il suo passo stranamente impacciato, puntò le ginocchia contro i suoi fianchi, i piedi ben saldi nelle staffe e la testa alta, preparandosi a saltare il fosso. “Forza, Sleipnir”, lo esortò, con una leggera pacca sul collo. “Manca ancora poco…”
Un’operazione semplice, che aveva ripetuto innumerevoli volte, senza fallo, negli allenamenti e nelle gare…
“Friedrich!” urlò Hans, allarmato.
Fu solo questione di pochi attimi: Sleipnir, ormai stremato, eseguì male il salto e si ricevette ancora peggio; a nulla valsero gli sforzi del giovane di tenersi in arcioni. Cadde rovinosamente per terra, a faccia in giù, come un principiante alle prime armi. Forse si era anche fatto male, ma era questione di poco conto dinanzi al cruccio di aver commesso un errore così elementare.
“Maledizione”, ringhiò, afferrando un ciuffo d’erba secca e strappandolo con rabbia. Alzò gli occhi sul cavallo: si stava abbeverando con l’acqua del canale, il manto nero lucido di sudore.
Sta bene, pensò, almeno questo…
Una mano gli sfiorò i capelli, provocandogli un leggero brivido. “Friedrich, tutto bene?”
Udire quella voce fu come un balsamo, che nell’acuire il senso di profondo imbarazzo gli infuse nuova baldanza. Si tirò a sedere e si ripulì le mani sporche di terra coi pantaloni dell’uniforme. “Sì, Hans,” tagliò corto. “Quando il mio cavallo è troppo stanco si ribella disarcionandomi.”
Ancora chino su di lui, il capitano sorrise bonario e, senza attendere conferma, lo aiutò a rassettarsi l’uniforme sgualcita. “Tu saresti disposto a farti scoppiare il cuore pur di non concedere la vittoria a qualcun altro, non è così?” Le sue iridi, calde e profonde, si rispecchiarono in quelle fredde e limpide di Friedrich. “Treu bis in den Tod.” 2
“Più o meno sì,” rispose il tenente in un soffio. “Diciamo che anch’io ho il mio onore da difendere.”
“Però sei stramazzato al suolo come una pera cotta”, rise l’altro.
Friedrich avrebbe voluto replicare, ma non poté far altro che deglutire a vuoto, la gola improvvisamente secca. La mano di Hans, che gli stava accarezzando i capelli sudati, si spostò dietro la sua nuca e rinsaldò la presa; il suo respiro accelerato gli s’infranse contro le labbra.
Come assecondando il folle istinto che gli ruggiva dentro, Friedrich lo afferrò per la giubba e si protese verso di lui. Le distanze che li separavano scomparvero come nebbia evanescente e le bocche si unirono in un bacio intenso, anelante, carico di una brama ormai intollerabile. Rotolarono sull’erba avvinghiati, le labbra umide di baci, i corpi che palpitavano quasi dolorosamente, le mani che incespicavano tra le ciocche di capelli e nelle pieghe della stoffa.
Era il fuoco che divampava, lottando con tutte le proprie forze per liberarsi dalle catene imposte della ragione.
Se Friedrich aveva accettato di fronteggiarne la potenza distruttrice, Hans ne fu semplicemente sopraffatto, come un naufrago in balìa delle onde ruggenti. Lo strinse tra le braccia e gli affondò le dita tra i corti capelli biondi, scostandosi appena soltanto per riprendere fiato.
“Andiamo…” ansimò l’altro, fissandolo con occhi liquidi di desiderio.
Hans sentiva, sapeva, che quella semplice parola era la chiave per un piacere dimenticato e in parte ancora da esplorare. “Dove, Friedrich?” udì se stesso mormorare, come sospeso in uno strano sogno in cui i sottintesi di quella richiesta stavano già prendendo forma.
Ma quell’idillio fu turbato da un fruscio, da qualche parte nel bosco, che mise in allerta tutti i suoi sensi. Ancora languidamente disteso sull’erba, Friedrich lo vide sobbalzare e svincolarsi dal suo abbraccio, scattando in piedi con l’agilità di un felino.
“Hans?”
Accaldato, ansante, scarmigliato, il capitano gli diede le spalle e si guardò intorno con aria furtiva, in cerca di qualche presenza sospetta. Un aereo passò sulle loro teste, solcando il cielo del tardo pomeriggio che andava tingendosi di un’intensa tonalità cobalto; intorno a loro, solo alberi e campi. “È tardi”, disse tra i denti. “Dobbiamo riportare i cavalli alla scuderia.”
Friedrich si aggiustò i capelli con un gesto sommario, si rimise il berretto. “Hans, si può sapere che ti prende?”
L’altro si irrigidì, cercando di imporsi quel distacco che ormai non era più in grado di mantenere. “Avrebbero potuto vederci.” Sputò quelle parole come un veleno che gli corrodeva la punta della lingua, dilaniato da una lotta che lo sconvolgeva nel corpo e nell’anima. “Non possiamo… permetterci di abbassare la guardia così.” Si era ripromesso di mettere da parte i suoi sentimenti per lui, di limitarsi al solo ruolo professionale di comandante di compagnia, ma baciarlo era stato come un risveglio dopo una lunga atarassia, un gesto che aveva lasciato spaesato lui per primo.
Friedrich avrebbe voluto afferrarlo per un braccio, trattenerlo, fare in modo che lo guardasse in faccia, ma non poté far altro che rimanere fermo a fissare la sua schiena, su cui era rimasto ancora qualche filo d’erba impigliato. “Sembrava che non te ne importasse poi molto delle conseguenze, fino a poco fa,” gli rammentò, con voce carica di risentimento.
“Io sono il tuo capitano, non posso indurti ad anteporre i sentimenti al dovere.” Hans scosse la testa: sapeva che, se solo si fosse voltato, non sarebbe più stato capace di mantenere il suo consueto distacco. Si ripeté mentalmente che avrebbe dovuto proteggerlo, ma da cosa? “Hai idea di quello che succederebbe se in caserma si venisse a sapere una cosa del genere? Come minimo, ci perderesti i gradi e la reputazione.”
“So benissimo quali sono i rischi a cui andiamo incontro, Hans”, replicò con fermezza il tenente, parlando al plurale laddove l’altro aveva usato il singolare, come se la cosa non lo riguardasse.
“Tu credi di saperlo, ma in realtà non lo sai,” ribatté duramente il capitano. “Altrimenti mi avresti respinto prima che succedesse l’irreparabile.”

Friedrich sorbì le parole di Hans come se fossero dolorose stilettate. Fino a poco prima si era sentito pronto a lasciarsi tutto alle spalle, ma non aveva alcuna intenzione di prostrarsi ai suoi piedi per convincerlo a cambiare idea: si sarebbe limitato a incassare stoicamente il colpo, accontentandosi del cortese cameratismo che aveva preceduto il loro avvicinamento. Non avrebbe tollerato un’ulteriore umiliazione, nemmeno da parte di colui di cui era innamorato.
“Compagnia di fanteria contro mezzi corazzati, supporto d’artiglieria anticarro,” disse in tono impersonale, alludendo alla dimostrazione che avrebbero dovuto fare insieme l’indomani. “Aperta campagna, con possibilità di pioggia.”
Lo guardò per l’ultima volta, sperando invano che si voltasse verso di lui, poi deglutì e prese congedo, nel tentativo di celare il groppo alla gola dietro il consueto tono marziale. “Arrivederci, signor capitano.”

Il tenente von Kleist guardava i segnalini sparpagliati sulla plancia senza neanche vederli, solo per evitare di incontrare lo sguardo del capitano. Gli altri comandanti di plotone, in piedi intorno al tavolo come i cavalieri di re Artù, erano sagome indistinte che incombevano sullo sfondo.
Bühler fece un passo avanti, offrendo la sua figura slanciata alla luce che filtrava dalle alte finestre; l’espressione sul suo volto adombrato era indecifrabile. “La linea del fronte è qui, poco oltre il fiume”, esordì in tono incolore, mentre le sue dita si muovevano agili indicando i paesaggi riprodotti sul piano in scala. “Fromm, Wessel e Körner si attesteranno a nord, in aperta campagna, come fanteria di supporto ai mezzi corazzati. Io prenderò il comando dell’altra fazione, insieme a von Kleist, approfittando del riparo della foresta. È chiaro?”
“Chiaro, signor capitano.”
Nell’udire il tono spento del tenente, Hans nascose una mano dietro la schiena e strinse il pugno fino a farsi quasi scrocchiare le nocche: mantenere una facciata imperturbabile dopo ciò che era successo il giorno prima stava risultando perfino più difficile del previsto. Inspirò, strinse gli occhi osservando la plancia, mentre Wessel, Fromm e Körner si riunivano dall’altra parte del tavolo e iniziavano a confabulare a bassa voce per decidere come disporre la loro formazione. “Von Kleist,” riprese infine, “a lei affido un plotone di fucilieri, le due mitragliatrici pesanti e un obice da campo. Li faccia schierare in posizione avanzata, ma sempre sfruttando la copertura degli alberi e degli avvallamenti del terreno. Non dobbiamo esporci troppo.”
Il tenente annuì, balbettando un ‘sissignore’ a mezza bocca.
Mentre entrambi disponevano i rispettivi pezzi sulla plancia, Hans non poté fare a meno di soffermarsi a guardarlo di sottecchi: con la sua consueta espressione assorta, Friedrich stava sistemando la fanteria senza il bisogno di chiedergli consigli o conferme, prendendo decisioni autonome per il proprio plotone. Lo immaginava esattamente così: impavido, cavalleresco, a guidare i suoi soldati sul campo di battaglia… insieme a lui…
Rivide l’immagine dell’eroe classico, del cavaliere che gli aveva porto lo stendardo, e un sottile rimpianto s’impadronì di lui: che cosa sarebbe successo se non lo avesse allontanato? Strinse le labbra, scacciando quel pensiero, e s’impose di inchiodare lo sguardo sulla plancia.
“Io disporrò le artiglierie qui, sul sentiero. Saranno gli obici ad aprire il fuoco, non appena i nemici saranno abbastanza vicini.”
“Sissignore.”
Le due squadre opposte rimasero per un po’ a scrutarsi, come per sondare le rispettive intenzioni. Fu proprio von Kleist, alla fine, a fare la prima mossa.
“Aspetti, tenente.” Con uno slancio fin troppo azzardato, Hans gli poggiò una mano sulla spalla e lo tirò verso di sé. Friedrich arretrò con un sussulto, ed egli lasciò la presa come se avesse toccato un oggetto incandescente. “Non così avanti, rischiamo di scoprirci troppo. Mi faccia spostare prima i mortai: saranno loro a contenere l’avanzata dei carri, insieme ai PAK.”
“Non così avanti, ricevuto.”
Bühler fece per spostare un pezzo, ma di nuovo le loro mani si sfiorarono involontariamente, e quel tocco fu come una scarica elettrica che gli s’irradiò in tutto il corpo.
Trascorse tutto il resto dell’esercitazione con la sensazione di trovarsi in equilibrio sull’immaginaria corda che sovrastava il baratro: una sessione di Kriegsspiel 3 non era forse più dura della simulazione di una battaglia campale, ma di sicuro richiedeva gli stessi nervi saldi e un maggiore autocontrollo.
Aveva cercato tante volte di mettere a tacere i suoi tumulti interiori, ma come poteva rimanere indifferente di fronte all’idea che a soffrirne insieme a lui fosse proprio colui che amava?

“Si può sapere com’è possibile che due ufficiali come voi abbiano commesso un errore così grossolano?” tuonò il maggiore von Eltz in piedi dietro la scrivania di mogano scuro, dardeggiando sguardi di brace dall’uno all’altro volto. Con stizza, sventolò in aria il foglio su cui Bühler aveva riportato i progressi della simulazione. “E dire che nessuno di voi due è un novellino alle prime armi!”
Dopo un breve ma sepolcrale silenzio, il capitano fece un passo avanti, rigido come una statua di ghiaccio. “È stata una mia svista, signor maggiore, che nei limiti del possibile ho tentato di correggere.”
“Svista?” Von Eltz calcò sulla parola con voce carica di biasimo. “Forse lei non se ne rende conto, Bühler, che una simile svista – come la chiama lei –, sul campo sarebbe potuta risultare fatale per lei e per il suo reparto. Sul campo non è concesso commettere sviste!” Scosse la testa con un’aria di amaro disappunto. “Ho sempre nutrito grande fiducia nelle sue capacità, ma se dovessi basarmi su una cosa del genere, le consiglierei caldamente di smettere i panni da ufficiale e di tornare a studiare i rudimenti della strategia.”
Il giovane incassò il colpo senza batter ciglio, anche se Friedrich poté percepire il profondo disagio che guastava quel contegno imperturbabile: sapeva che niente di ciò che aveva detto era vero, e l’idea di vederlo addossarsi tutta la colpa di un errore commesso da entrambi gli fu insopportabile. “Signor maggiore,” s’intromise. “Si tratta di un ordine mal recepito. Sono io che… ho calcolato male le distanze, portando la fanteria in posizione troppo avanzata.”
“Non dica sciocchezze, von Kleist!” lo redarguì il capitano. “Sono stato io a ordinarle espressamente di farlo.”
Von Eltz si limitò ad assistere all’alterco da sotto le sopracciglia aggrottate, poi sollevò una mano per indurli a tacere. “Non m’importa chi è stato: le guerre non sono una partita a dadi. È una grande delusione vedere due ufficiali come voi, che in svariate altre occasioni hanno dimostrato efficienza e coesione, incappare in errori da principianti.” Si mise a sedere alla scrivania e inforcò gli occhiali, abbassando di nuovo lo sguardo sulle sue carte. “Adesso andate. Mi auguro che una cosa del genere non si ripeta mai più.”

I due giovani ufficiali si separarono in silenzio, senza degnarsi di un solo saluto che non fosse quello regolamentare. Abituati a collaborare in perfetta sintonia, come un condottiero e il suo prode cavaliere, il gelo che era piombato tra loro aveva finito per influenzare anche l’esito della simulazione.
Invece di procedere dritto verso la sua meta, von Kleist vagò a lungo da solo per le strade più deserte, il berretto calato sulla testa, senza curarsi del nevischio che volteggiava nella quiete ovattata del vespro. Non riusciva a smettere di pensare al capitano, e a quei baci che, seppur assaporati fugacemente, lo avevano distolto dalla prosaica realtà per indurlo alla contemplazione di nuovi orizzonti. Non volgare attrazione fisica, ma un’unione di anime a livello più profondo, che tendeva verso vette inviolate: l’Eros secondo Platone.
La neve iniziò a fioccare sempre più fitta, ammantando il paesaggio di un candore etereo. Friedrich si strinse nel lungo pastrano e affrettò il passo, diretto verso la stazione.
Dieci minuti di treno che gli parvero interminabili, una sola fermata appena fuori città, e nella piazza del villaggio trovò già una lussuosa berlina nera ad aspettarlo.
Friedrich salì in silenzio, la visiera del berretto ad adombrare i suoi occhi lucidi.
Come ogni venerdì sera, abbandonava la città per tornare alla dimora avita, una villa barocca immersa nel verde delle campagne. La vastità del parco, con le sue querce secolari, ospitava le sue cavalcate, le immense e vuote sale gli offrivano momenti di piacevole solitudine.
Mentre muoveva i primi passi attraverso gli ampi corridoi affrescati con scene mitologiche, la sua mente fu attraversata dal pensiero che, se le cose fossero andate diversamente, un giorno anche Hans avrebbe potuto percorrerli, per passare un fine settimana insieme, lontano da presenze indiscrete. Più volte si era chiesto che cosa avrebbe provato il giovane del Baden nel mettervi piede – se l’opulenza di quelle sale lo avrebbe messo in soggezione, o se magari ne sarebbe rimasto affascinato. Ma perché considerare un futuro che non ci sarebbe mai stato?
Ancora immerso in quei pensieri, si sedette al pianoforte e, senza neanche rendersene conto, le sue dita iniziarono a suonare le prime note di una sonata malinconica che aveva composto qualche tempo prima. Per tutta la durata dell’esecuzione si lasciò trasportare dal ritmo incalzante della musica che, pur non costituendo una cura definitiva alla sua malinconia, lo aiutò a fare il vuoto nella mente.
“Signor conte?”
Friedrich scostò appena le mani dalla tastiera, scorgendo sulla soglia del salone la figura di un anziano domestico in livrea. “Sì, Johann?”
“Signore, c’è il principe von Bentheim und Steinfurt al telefono.”
Von Kleist raggiunse il telefono, si appoggiò con le spalle alla parete e sollevò la cornetta. “Konrad!”
“Friedrich, ti va di uscire stasera?” chiese la voce dell’amico, dall’altro capo. “Potremmo andare a cena fuori e poi fermarci a bere una birra da qualche parte. Ci troviamo alle sette a Luisenplatz, ci stai?”
Friedrich aggrottò le sopracciglia. “Ma tu non sei insieme a Reinhardt?”
“Sì, ma a lui certo non dispiacerà se vieni insieme a noi. Anzi, è stato proprio lui a propormelo…”
Von Kleist rimase per un attimo in silenzio, irresoluto, attorcigliando le dita intorno al filo mentre l’altro attendeva una risposta. Gli parve scortese rifiutare un simile invito, ma l’idea di trovarsi a fare il terzo incomodo, sommata al malumore accumulato negli ultimi giorni, gli rendevano sgradito anche ciò che normalmente attendeva con trepidazione fin da metà settimana. Sperò che Konrad lo avrebbe capito senza portargli rancore: aveva bisogno di rimanere un po’ da solo, per riflettere sulla sua situazione.
Non aveva intenzione di mettersi in ginocchio ai piedi di Hans, rischiando di uscirne ancora più ferito, ma riteneva non avesse ormai più senso continuare a guardarsi al di là di una barriera di filo spinato. Doveva affrontarlo, in qualche modo, consapevole che ormai avevano varcato una soglia oltre la quale non si poteva più tornare indietro.

Hans Bühler e Günther Schwieger camminavano fianco a fianco per i corridoi semivuoti della caserma, diretti verso l’uscita. Fuori era già buio, e la neve che imbiancava i giardini riluceva di una leggera tonalità perlacea nell’alone dei lampioni. Schwieger stava dicendo qualcosa riguardo alle vacanze natalizie, che avrebbe voluto sfruttare per raggiungere la sua famiglia ad Amburgo, ma le sue parole giungevano all’orecchio di Hans come un tiepido e indistinto ronzio al quale il giovane si limitava a rispondere con qualche vago grugnito d’assenso. “Quanto entusiasmo!” osservò l’altro, divertito. “Tu non fai nulla per Natale?”
“Non credo”, fu la risposta, proferita con un’alzata di spalle. “Forse mi tratterrò in caserma, per festeggiare insieme agli altri camerati, forse me ne starò da solo a casa.”
Schwieger scoppiò a ridere, battendogli una pacca amichevole sulla spalla. “Secondo me dovresti provare ad andare più in giro, conoscere gente… trovarti una ragazza.”
Hans strinse i denti, ma non replicò, correggendo mentalmente la frase dell’amico con ‘un ragazzo’.
Friedrich. Si era lasciato frenare dai suoi scrupoli, allontanandolo quasi senza volerlo… eppure, il consolidarsi del sentimento aveva preceduto l’atto fisico, e un istinto ineffabile gli suggeriva che con lui, e solo con lui, avrebbe potuto raggiungere l’estasi mistica del Bund. Anche se era ben consapevole delle conseguenze che una scelta del genere si sarebbe portata dietro, l’aver esitato così tanto gli sembrò quasi un atto sacrilego.
Senza neanche farci caso, Günther lo spinse fuori dall’edificio. “Dai, stavo scherzando. Andiamo a bere qualcosa dal vecchio Holger dopo cena, ti va? Dovrebbe esserci anche Bentheim con un suo amico.”
“Walkenhorst non c’è?”
“No, ha detto che va al cinema con la sua bella. Gliel’aveva promesso, sai com’è…”
“E chi sarebbe questo amico di Bentheim?”
“Non lo so, ha detto che non è di qui. È suo ospite in questi giorni.”
Ho altri programmi, avrebbe voluto rispondere Hans, ma subito dopo rammentò che l’unica alternativa era trascorrere la serata a rimuginare seduto sulla sua poltrona, con una tazza di tè in una mano e un libro in un’altra. Seppur riluttante, si lasciò convincere: se non altro, un’uscita in compagnia lo avrebbe tenuto lontano da certi pensieri.

Varcarono la soglia di una birreria all’antica, con divanetti di pelle rosso fuoco e tavolini in stile art déco, dove un vecchio grammofono trasmetteva musica Schlager del decennio precedente.
Donne coi capelli vaporosi, freschi di parrucchiere, ballavano tra i tavoli languidamente abbracciate a uomini con le giacche inamidate, mentre militari di vari reparti, in uniforme da libera uscita, chiacchieravano, facevano gare di bevute o cercavano di approcciare le fanciulle.
I quattro ufficiali ordinarono quattro birre e si sistemarono a uno dei pochi tavolini liberi.
“Cinque posti, perfetto”, osservò Schwieger, accontentandosi di una sedia che dava le spalle alla porta. “Chi era quell’ufficiale che poi non è venuto, Bentheim?”
“Il tenente von Kleist.”
Nell’udire quel nome, Hans trasalì e rimase a fissare il vuoto con occhi sbarrati.
“Ma non è quello con cui stavi andando al maneggio l’altro giorno, Hans?” gli chiese Schwieger.
Per un attimo, gli parve che il collega stesse ammiccando e che le sue labbra si fossero piegate in un sorriso sornione, ma si ripeté che doveva essere soltanto un’allucinazione. “Sì, è proprio lui. È un ufficiale della mia compagnia.” Si voltò verso Bentheim, che nel frattempo si era tolto il cappotto e lo aveva appeso al muro. “Come… come mai non è venuto?”
“Si trovava fuori città, come ogni fine settimana,” rispose l’altro.

Mentre Schwieger parlava della sua militanza politica, Bentheim lo ascoltava con cortese interesse, rivolgendo di tanto in tanto qualche occhiata all’amico – un tenente delle Waffen-SS che si era presentato come Reinhardt Greifenberg – che partecipava alla conversazione con uguale entusiasmo. Solo Hans, i cui propositi erano miseramente naufragati, faticava a lasciarsi coinvolgere dalla spensieratezza dei suoi compagni e, seduto su uno dei divanetti in un angolo defilato, fissava il fondo del suo boccale ormai vuoto mentre una canzone d’amore nostalgica faceva da sottofondo alle chiacchiere.
Fuori città… come ogni fine settimana…
“È la prima volta che viene qui a Potsdam, Reinhardt?” chiese Schwieger.
“No, anzi: si potrebbe dire che ci sono cresciuto, anche se la mia famiglia è di Berlino”, rispose in tono affabile l’interpellato, che era riuscito ad acquisire confidenza in fretta. “Sono in licenza, quindi ne ho approfittato per venire a trovare Konrad. Ci conosciamo dai tempi della scuola, e ogni volta che posso faccio un salto da queste parti per passare qualche giorno insieme a lui.” I suoi occhi celesti, che spiccavano sul volto dai lineamenti di rigore nordico, si volsero di nuovo per incontrare quelli dell’amico, che si limitò a sorridere appena.
Hans si avvide che i due giovani erano così vicini che i loro gomiti quasi si toccavano: sembrava che a legarli ci fosse qualcosa, qualcosa che lui aveva stolidamente rifuggito. Quell’impressione, seppur appena accennata e forse invisibile agli occhi di chi non potesse intuirne i sottintesi, gli provocò una prepotente fitta di nostalgia.
Finì di bere e si alzò, in maniera fin troppo precipitosa, con la scusa di dover prendere una boccata d’aria.
Uscì nella fredda sera invernale, rischiarata dalle luci tremolanti dei lampioni che si riflettevano sui marciapiedi imbiancati di neve. L’eco tiepida della musica raggiungeva la strada, insieme a vaghe ondate del calore che si respirava all’interno del locale. Hans si appoggiò al muro e si accese una sigaretta, stringendosi nel cappotto.
Vide una ragazza ubriaca che rideva trascinandosi dietro il fidanzato e due ragazzi biondi con la camicia bruna che s’incamminavano a piedi verso i quartieri popolari, cantando l’inno della Hitlerjugend. Una berlina nera parcheggiò sul lato opposto della strada, spense il motore e per un po’ rimase ferma, come se chi la guidava fosse indeciso se scendere o meno. Quando finalmente la portiera si aprì, nel cono di luce di un lampione comparve la figura di un ufficiale avvolto nel pastrano.
Ancora una volta, il pensiero del giovane ritornò a Friedrich, e gli sembrò di rivederlo, coi capelli scompigliati dalla corsa e le guance leggermente arrossate, di sentire le sue mani che gli ghermivano l’uniforme e il suo sapore sulle labbra.
Esalò un profondo sospiro: da una parte c’erano il suo ruolo, la gerarchia militare, ma anche un tormento corrosivo che gli rendeva difficile concentrarsi sui propri doveri.
Dall’altra il Bund che, se da una parte arricchiva il sodalizio tra due soldati portandoli alla contemplazione dell’Eros, dall’altra obbligava a una vita di menzogne e sotterfugi.
Che cosa avrebbe dovuto fare, per conciliare le due cose?
Finì la sigaretta, consumata più per inerzia che per sfizio, e fece per rientrare. In quel momento si accorse che l’ufficiale aveva attraversato la strada e si era fermato, irresoluto, a pochi passi da lui. Sotto la visiera del berretto brillavano due occhi limpidi come cristalli, del colore del ghiaccio purissimo, che quando incontrarono i suoi parvero prendere fuoco.
“Hans…?”
Si fissarono per un istante interminabile, sbalorditi: nessuno dei due si sarebbe aspettato di ritrovare l’altro proprio lì, proprio quella sera.
Il capitano sentì che un sorriso spontaneo gli stava riaffiorando alle labbra e, quando vide che l’altro ricambiava, il suo cuore ebbe un sobbalzo. “Ci rivediamo, Friedrich.”


  1. la frase, in Mittelhochdeutsch (alto tedesco medio), significa: “Chi volge il suo animo alle cose buone e giuste, sarà ricompensato con fortuna e onore.”↩︎

  2. Fedele fino alla morte (motto militare tedesco).↩︎

  3. significa “gioco di guerra”. È una simulazione strategica da condurre su una plancia di gioco, esattamente come succede qui.↩︎

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ~ Wir wollen keine Pause, wir wollen noch am Ziel ***


VIII.
Wir wollen keine Pause, wir wollen noch am Ziel
 
 

Mentre attendevano le direttive del tenente generale von Salza, gli ufficiali superiori riuniti fuori dalla stanza adibita a sala delle riunioni sembravano pervasi da un’aspettativa quasi elettrica.
Rimanendo in disparte, il maggiore Bühler fece una breve rassegna dei presenti: oltre a lui, c’erano il colonnello Wolff che discorreva con un paio di colleghi, von Rauheneck, e un’altra dozzina di comandanti di battaglione, tra i quali il giovane riconobbe il maggiore Lützow.
Alcuni di loro, che gli stavano lanciando strane occhiate, si voltarono da un’altra parte facendo finta di nulla. Nessuno aveva il coraggio di dirgli certe cose in faccia, ovviamente, ma Hans si era accorto da tempo che i suoi parigrado lo squadravano dall’alto in basso, considerandolo poco più che un pivello, un ragazzotto intrappolato in un’eterna adolescenza. Come aveva avuto modo di apprendere la sera precedente attraverso alcune voci di caserma, qualcuno si riferiva a lui col nomignolo di Bursche – il giovanotto – che dal basso dei suoi ventisette anni doveva soltanto stare zitto e incassare.
In quel momento, un attendente si affacciò alla porta della stanza e fece cenno agli ufficiali di entrare, sottraendo tempo a quelle considerazioni.
“Riposo, signori,” li blandì il comandante di divisione, quando furono tutti sull’attenti.
Bühler, le braccia piegate dietro la schiena e il disappunto celato dal solito contegno impassibile, fu l’ultimo a raggiungere il tavolo, sul quale von Salza aveva dispiegato una mappa del fronte.
“Vengano avanti, signori,” ordinò il generale, conciso.
La sua figura era sempre stata ammantata di un’aura quasi leggendaria, nota solo attraverso le fotografie e i resoconti di chi lo aveva visto dal vivo durante qualche parata. Privo di paramenti cerimoniali, in pieno assetto da battaglia, von Salza era un uomo di statura relativamente minuta, col Pour le Mérite in blu e oro al collo, acuti occhi azzurri e un’espressione autorevole, che incuteva rispetto e ammirazione al tempo stesso. Con una lunga stecca indicò la linea del fronte e il luogo in cui era ubicato il villaggio: i reparti dell’Infanterie-Division Ostpreußen erano contrassegnati col simbolo di una croce di ferro nera in campo bianco, e risultavano molto più avanzati rispetto al resto dell’esercito.
“Come concordato coi comandanti di reggimento, ci stabiliremo qui per un paio di giorni, in attesa di ricongiungerci al resto dell’armata e avanzare in forze verso la capitale.” A quelle parole, alzò la testa per guardare in faccia i suoi subalterni e ricevette un cenno d’assenso da parte dei colonnelli che lo attorniavano. “Nel frattempo, sarà compito dei vari reparti assicurarsi il controllo dell’intera zona.”
Bühler sentiva che si avvicinavano sempre più al giorno cruciale: Varsavia era a poche decine di chilometri da lì, al di là della Vistola, come un metaforico Rubicone che attendeva soltanto di essere varcato.
“Le sezioni che ancora mancano all’appello ci raggiungeranno nel corso di questa giornata e verranno subito reintegrate nelle unità di appartenenza.”
Per lui, l’ultima notizia significava anche poter rivedere il tenente von Kleist e averlo al proprio fianco, sia sul campo di battaglia che nelle libere uscite. Quel pensiero lo rinfrancò.
Mentre usciva sul piazzale per incontrare i suoi soldati, ne approfittò per riflettere sul discorso che gli aveva fatto il colonnello la sera prima: quando gli veniva conferita la facoltà di condurre operazioni militari e di decidere in autonomia, il tenente sapeva dare il meglio di sé, ma la sua testardaggine rasentava spesso i limiti consentiti dal regolamento.
Un ottimo comandante di plotone, ma un pessimo ufficiale subordinato, lo aveva definito.
Il maggiore aveva nominato Friedrich suo aiutante di campo per svariate ragioni, sia militari che personali, ma la richiesta del suo superiore lo metteva in una posizione conflittuale: in virtù del suo ruolo, era proprio a lui che spettava l’onere di richiamarlo all’obbedienza, ponendo un freno all’attitudine che maggiormente apprezzava di lui.
Per Friedrich, le ragioni materiali della guerra passavano in secondo piano, in nome di ideali ch’egli si premurava di seguire come se da essi dipendessero i destini del mondo: era uno dei pochi a ricercare valori cavallereschi e universali anche laddove un altro soldato avrebbe visto solo una costrizione.
Per Hans, invece, il senso del dovere era sempre stato così forte da finire per soffocare, inibire e ridimensionare perfino le sue naturali inclinazioni, e solo dopo aver conosciuto Friedrich aveva deciso di accantonare i propri scrupoli, diventando per lui un amico, un amante, e infine il compagno più fedele.
Si erano spinti fin troppo oltre, compromettendo in maniera irreversibile i rapporti di gerarchia, e da tempo, la sfida più ardua per lui stava nel considerarlo un subalterno come tutti gli altri.

Il Sole era ancora nascosto dietro le colline quando il tenente von Kleist uscì dalla sua tenda.
L’atmosfera bluastra rendeva difficile distinguere i contorni delle cose, e il silenzio era pressoché totale, spezzato solo dai sussurri delle sentinelle che stavano per smontare il turno e dal lontano tramestio delle prime attività dell’accampamento.
Non incontrò praticamente nessuno mentre si avviava verso l’infermeria, e il capitano medico appostato all’entrata lo lasciò passare salutandolo con un cenno del capo, memore dell’accordo della sera precedente. Non gli ci volle molto per trovare il lettino su cui giaceva il sergente Hoffmann: il sottufficiale era già sveglio e fissava il soffitto con sguardo vacuo, un ciuffo di capelli rossi che gli ricadeva disordinato sulla fronte. Tutt’intorno a lui, i feriti si rigiravano tra le lenzuola o gemevano nel sonno, mentre gli infermieri accorrevano tempestivi per sopperire ai loro bisogni. Friedrich si avvicinò in punta di piedi, quasi per timore di disturbarlo: era andato lì solo per accertarsi di persona delle sue condizioni, ma l’altro, quando si accorse della sua presenza, si soffermò su di lui e gli rivolse un’occhiata come per invitarlo. “Signor tenente.”
L’ufficiale prese una sedia e si sedette al suo capezzale. “Ha combattuto bene ieri, sergente.”
“Ho fatto solo il mio dovere, signore.” Hoffmann tentò di sollevarsi leggermente, come per darsi un’aria più composta, ma il movimento gli provocò un gemito di dolore. Ricadde sul materasso in preda agli ansiti, il viso imperlato di sudore freddo.
Von Kleist gli sistemò il guanciale dietro la testa e gli asciugò la fronte con un fazzoletto. “Non tenti movimenti bruschi, rischierebbe soltanto di peggiorare la situazione.”
“Dovrei essere io a ringraziare lei… per avermi salvato la vita,” mormorò il sottufficiale, a denti stretti, quando la costola incrinata gli concesse una tregua dall’affanno.
“Dovere, sergente”, fu la replica del giovane, accompagnata da un’alzata di spalle. Come di riflesso, la sua mano andò a sfiorare il punto in cui la fasciatura applicatagli dal capitano medico creava un leggero spessore sotto la stoffa dell’uniforme. “Avrei potuto esserci io, al suo posto.”
Hoffmann annuì, tenendo gli occhi socchiusi; le labbra contratte s’incresparono in un accenno di sorriso. Friedrich rimase in silenzio, pensando che fosse sul punto di addormentarsi, ma il sergente si lasciò sfuggire un sospiro strozzato che subito gli provocò un accesso di tosse. “E così, verrò rimandato in Germania in licenza… dopo nemmeno una settimana di guerra,” gracchiò. Von Kleist si affrettò a porgergli il bicchiere, sollevandogli con delicatezza la testa per aiutarlo a bere.
Una volta ripresosi, l’altro proseguì, cercando di occultare il proprio rammarico dietro una delle consuete facezie che solevano scambiarsi tra camerati: “Piuttosto che abbandonare lei e la mia squadra in un momento così delicato, signore… avrei preferito farmi la Transiberiana avanti e indietro in mutande.”
L’ufficiale rise. “Ci manca solo che si metta a cantare l’Internazionale…”
“Se lei me lo ordinasse con una pistola alla tempia, signore… forse, ma non glielo garantisco,” replicò l’altro, con la stessa ironia.
“Al limite le chiederei di cantarmi Heil dir im Siegerkranz, possibilmente quando il maggiore non sente.” Quell’ultimo pensiero provocò a Friedrich una leggera risata: Hans non aveva mai smesso di rimbeccarlo scherzosamente per le sue origini aristocratiche, quando certi retaggi riaffioravano. “Suvvia, pensi che, mentre lei sarà a godersi la salubre aria della foresta di Teutoburgo e le cure della sua fidanzata, io dovrò sorbirmi l’uccellaccio del malaugurio… direi che le è andata bene, Hoffmann!”
“Ah, il vecchio Eichmann…” ridacchiò il sergente, per quel poco che le costole rotte gli permettevano.
“E Schneider!”
“Oh, di questo non posso lamentarmi, signor tenente.” La voce del sottufficiale era flebile e ogni parola era intervallata da respiri affannati, ma quello scambio di battute sembrava avergli fatto riacquistare una lieve pennellata di colorito. “E pensare che ci saranno anche loro al mio matrimonio. Dio ce ne scampi!”
Von Kleist scosse la testa con indulgenza: Hoffmann, che molti consideravano un amico anche al di fuori del servizio, aveva invitato l’intero plotone alla cerimonia. “Vedrà che li farò stare calmi”, promise. “Adesso però devo andare. Mi saluti la Germania, quando la rivedrà.”

Non aveva ancora messo piede fuori dal tendone, quando scorse un’imponente figura di spalle, intenta a conversare con due ufficiali medici. Dal portamento eretto, l’uniforme linda e la cura che come sempre riservava alla sua persona, riconobbe subito il capitano Bentheim: chi non lo sapesse, avrebbe fatto fatica a credere che il giorno precedente era rimasto ferito.
Non aspettandosi di trovarlo lì, Friedrich rimase ad aspettarlo fino a quando l’altro non ebbe terminato la discussione, poi si avviarono insieme verso la mensa.
“Pensavo che ti avessero dato un giorno di riposo”, ammise von Kleist.
“È così,” rispose l’altro, “ma non sono così grave da essere costretto a letto o in un ufficio.”
Friedrich, pur vedendo che il capitano si mostrava sicuro di ciò che diceva, non si sentì di condividere il suo stesso entusiasmo.
“Logicamente non ignorerò gli avvertimenti del medico”, proseguì Konrad, come per rassicurarlo. “Ma non ho intenzione di privare la compagnia del mio comando, soprattutto adesso che siamo alle porte di Varsavia.”
Si sedettero a un tavolino in un angolo, con un paio di giornali e i vassoi della colazione, senza perdere di vista l’entrata. Mentre Friedrich rigirava il cucchiaino nella tazza e scorreva i titoli di un quotidiano del Partito, Bentheim sorseggiava il proprio caffè con aria assorta. “Dopotutto”, disse poi, “credo che mi sarei trattenuto qui al fronte anche se mi si fosse presentata l’occasione di andare qualche giorno in licenza.”
Il tenente annuì. “Oh, anch’io.”
“Le Waffen-SS sono praticamente alle porte di Varsavia… Reinhardt lo diceva sempre che con l’impiego dei carri armati l’arte della guerra sarebbe cambiata in maniera radicale, e adesso ne stiamo avendo la conferma: in pochi giorni abbiamo fatto progressi che richiederebbero settimane…”
Von Kleist terminò il caffè e posò la tazza. “Certe volte… non posso fare a meno di chiedermi come sarà il mondo, tra qualche anno,” ammise, fissandone il fondo vuoto. Provava uno strano senso di inquietudine quando pensava al futuro, come se una vaga bruma gli impedisse di vedere oltre.
“Questo dipenderà soltanto da noi, dalle nostre azioni e dalle scelte che faremo.” Bentheim alzò le spalle, allontanò da sé il giornale che stava sfogliando e rimase a osservare i soldati che entravano. Con un impercettibile cenno del capo, indicò un ragazzo biondo e ben piantato che aveva appena varcato la soglia. “Quello laggiù sarebbe l’ufficiale aggregato al tuo plotone?”
“Sì, è il sottotenente Kühn”, rispose Friedrich. “Un bravo ragazzo, molto entusiasta… a volte anche troppo, oserei dire. Mi ricorda un po’ mio fratello Siegfried.”
“Allora ho capito il genere. Come sta la piccola peste?”
“Ha assillato me e Manfred per giorni quando ha saputo che partivamo per il fronte. Alla scuola di volo è il primo del suo corso…”
“Una creatura del cielo, solare e spigliata: io te l’ho sempre detto,” osservò l’altro. “Farà sicuramente strada.”
Il tenente rimase per qualche istante in silenzio, indugiando nel ricordo del fratello sedicenne: così con la testa per aria, piena degli stessi sogni e ideali che avevano sempre animato anche lui, nonostante i piedi ben ancorati per terra. “Sì, lo credo anch’io.”

Il sottotenente Kühn si era stupito di trovare, insieme alla colazione, anche la posta. All’inizio aveva pensato che si trattasse della risposta di sua madre, sempre pronta a profondersi in raccomandazioni superflue ed esprimere preoccupazione per il suo unico figlio, e invece si era ritrovato tra le mani una lettera di Uschi, la minuta ragazza dai riccioli castani e gli occhi grandi che aveva lasciato a Berlino. Gli aveva scritto parole strabordanti di tenerezza, che più volte lo avevano portato a scuotere la testa e arrossire per l’imbarazzo.
“È la tua ragazza?” gli chiese il sottotenente Hartmann, un sorriso malizioso a incurvargli le labbra.
Colto alla sprovvista, Kühn sobbalzò. “Beh… sì, più o meno.”
“Come ‘più o meno’?” L’altro fece una risatina. “O lo è o non lo è.”
Il ragazzo abbassò di nuovo gli occhi sulla lettera, esitò per qualche istante, poi la ripiegò e rispose: “Beh, allora… direi di sì.”
In realtà, neanche lui ne era così sicuro: le aveva promesso di mandarle un saluto dal fronte, ma gli eventi degli ultimi giorni lo avevano scombussolato a tal punto che, non appena la giornata campale gli concedeva qualche ora per riposare, si coricava sulla branda e crollava addormentato. Non erano fidanzati, non ufficialmente, anche se lei era già convinta di volerlo presentare ai suoi genitori. L’aveva conosciuta tramite amici comuni, dopo la promozione a sottotenente, in una placida sera d’estate. Avevano parlato per tutto il tempo e avevano deciso di frequentarsi, uscendo talvolta a passeggio per il Tiergarten o a Friedrichshain. Erich era lusingato da quell’interesse ma, pur essendo sempre stato un tipo incline ad affrontare con entusiasmo ogni nuova sfida, non riusciva a capire perché in quel frangente lo lasciasse smarrito e disorientato.
Si ripromise che prima di dormire le avrebbe scritto qualche riga, per farle sapere che stava bene e raccontarle degli ultimi movimentati giorni di battaglia.
L’altro gli tirò una gomitata complice, distogliendolo da quei pensieri. “Auguri, allora! Fai bene a divertirti, perché la gioventù è una sola. Ci sono uomini che a vent’anni sono già vecchi…”
“Io non…” iniziò il giovane, avvampando. Tuttavia si morse la lingua, e la sua attenzione fu catturata dal tenente von Kleist, che passava camminando fianco a fianco con un giovane capitano. Aveva già visto quell’ufficiale in giro: aveva il portamento statuario, occhi taglienti come lame d’acciaio, i capelli corvini. Gli sembrò che indugiasse brevemente nella loro direzione, poi passò oltre come se non li avesse neanche visti.
“Quello è il capitano Bentheim”, disse Hartmann, come leggendogli nel pensiero. “Pensa: qualche giorno fa ha distrutto un carro armato con una granata, e ieri ha combattuto da solo contro due nemici! Anche se è rimasto ferito nello scontro, ha abbandonato il campo solo alla fine della battaglia.”
Erich, incuriosito, rimase a osservarlo fino a quando non fu scomparso oltre l’entrata.
“Dicono che sia nobile… un von!” proseguì l’altro.
“È per questo che sta sempre insieme a von Kleist?”
“Esatto… aristocrazia prussiana, anche se si fa chiamare solo Bentheim.”
Erich sgranò gli occhi. “E tu come fai a saperlo?”
“Dovresti ascoltare più spesso Radio Gavetta, Kühn. Si dicono anche cose interessanti, ogni tanto.” Hartmann scrollò le spalle e gli rivolse uno sguardo di bonaria condiscendenza. “Comunque, tutti conoscono quel capitano prevalentemente per le sue gesta belliche, ma nessuno sa da dove venga, né quale sia il suo nome di battesimo o quanti anni abbia. Tu lo guardi e pensi che ne abbia venticinque, poi magari scopri che in realtà è il dottor Faust e ha fatto un patto con Mefistofele per rimanere giovane in eterno…”
“Ma tu senti…”
“Prima che mi trasferissero nella compagnia di Bühler, era lui il mio comandante.”
“Ah, sì? Eravate… camerati?”
“Sì, ma non farti strane illusioni: il principe Bentheim non dà confidenza a nessuno. Adesso andiamo, vedo già il vecchio gufo in avvicinamento.”
Il ragazzo acconsentì quasi riluttante, scorgendo in lontananza la figura del maresciallo Eichmann intento ad apostrofare con durezza l’ennesimo gruppo di soldati. Cercò di accantonare la propria curiosità sul conto del capitano e ripose la lettera di Uschi nel taschino dell’uniforme, ripromettendosi ancora una volta che entro quella sera le avrebbe scritto.

La luce del sole, che in quella tarda mattinata splendeva in un cielo privo di nubi, aveva il potere di rendere i colori più sfavillanti e di mostrare la bellezza in tutto il suo fulgore, ma per sua stessa natura, votata alla chiarezza e alla verità, era anche incapace di nascondere all’occhio le brutture.
Bühler alzò lo sguardo: schierati in formazione, riconoscibili per le ali affilate e spigolose, gli Stuka fendevano un cielo limpido come zaffiro, che contrastava in maniera quasi dolorosa col paesaggio straziato da ampie ferite. Laddove grigi villaggi di rovine emergevano come cicatrici sulla nuda terra, l’ampio corso della Vistola riluceva di scaglie argentate, incurante della devastazione. Le strida agghiaccianti dei bombardieri lacerarono l’aria accompagnando una rapida picchiata, che innalzò un muro di fuoco e fiamme lungo la linea di un orizzonte neanche troppo lontano.
A quella vista, il maggiore avvertì una fitta allo stomaco, ma sentì di non potervisi sottrarre. Non c’era nessuna poesia in un simile scenario: era un dovere sporco e neanche troppo esaltante, una fase transizionale, il caos necessario per ripristinare l’ordine.
Ordinò a Schmidt di fermare la Kübelwagen in prossimità di una macchia d’alberi e si voltò verso la colonna di automezzi schierati alle sue spalle; dopodiché, sollevò il binocolo e scrutò la campagna dilaniata dai bombardamenti: sembrava che, a parte le trombe di Gerico, gli scoppi delle bombe e i ruggiti degli aerei, ovunque regnasse una quiete innaturale. Vide uno Stuka precipitare in vite col motore in fiamme, abbattuto dalla contraerea, prima che una formazione di caccia polacchi giungesse da est a darle manforte.
“I comandanti di compagnia a rapporto da me entro tre minuti: ho avvistato un contingente di fanteria”, disse con una certa perentorietà, dopo aver nuovamente diretto le lenti verso la campagna.
Gli avevano sempre insegnato che un ufficiale doveva essere rapido nel prendere decisioni e altrettanto fermo nell’imporle ma, nonostante la relativa sicurezza che era riuscito ad acquisire in quelle giornate campali, in lui si era ormai radicata la convinzione che quella prima settimana di guerra non fosse altro che un lungo preludio. Con un gesto ormai consolidato dall’abitudine, dispiegò la mappa sul cofano e iniziò a elaborare la strategia offensiva, cercando di attenersi il più possibile alle direttive del generale.

Il primo a presentarsi a rapporto fu Bentheim. Dalle comunicazioni ricevute la sera precedente, aveva appreso che il capitano era rimasto ferito durante uno scontro ravvicinato contro due soldati nemici ma, se anche il suo fisico ne avesse risentito, il suo contegno non lo dava a vedere. Non poterono scambiarsi più che i consueti saluti militari e qualche convenevole, ma Bühler sperò di potersi ritagliare qualche minuto per parlarci, dopo la battaglia.
Walkenhorst e Schwieger giunsero subito dopo. Forte della familiarità acquisita coi tre ufficiali in anni di cameratismo, il maggiore trasse la stilografica dal taschino e fece loro cenno di avvicinarsi alla mappa. “Ci sono due compagnie di fanteria in avvicinamento da nord-est,” spiegò, indicando un punto che aveva contrassegnato con una X e una freccia, “e si stanno muovendo nella nostra direzione. Abbiamo una decina di minuti prima che si accorgano di noi, più altri quindici prima che ci vengano addosso.”
Gli altri tre annuirono senza batter ciglio.
“Tenteremo un assalto laterale, sfruttando il vantaggio tattico e il riparo offertoci dagli alberi. Walkenhorst, lei andrà in prima linea. A lei si unirà il capitano Fromm, quando giungerà sul posto. Faccia scavare una trincea, distribuendo una mitragliatrice pesante per squadra.”
“Signorsì”, rispose l’altro, procedendo per trasmettere gli ordini ai suoi sottoposti.
“Schwieger, la sua compagnia in posizione intermedia. Faccia in modo che i 105 coprano un’area abbastanza vasta, in modo da arrivare più in fretta al centro dello schieramento nemico. Bentheim?”
L’interpellato fece un passo avanti, e Bühler lo osservò per qualche istante prima di esporgli i propri dubbi. “Avrei bisogno di lei non distante dalla prima linea, per dirigere le azioni insieme a me.”
Il capitano, che forse si aspettava proprio quella precisa richiesta, acconsentì con vigore. “Sissignore.”
“Schiererà la sua compagnia subito dopo i reparti di Walkenhorst e Fromm, in modo da coprire loro le spalle.”
“Certo, signor maggiore.”
“Capitano Bentheim, resti qui,” gli disse, dopo aver congedato Schwieger e Walkenhorst, per poi abbassare la voce e passare a un registro più confidenziale. “Non abbiamo molto tempo per perderci in chiacchiere, Konrad, ma ho bisogno che i nostri ufficiali siano capaci di condurre le manovre col massimo dell’efficienza. Conto su di te.” Si era rivolto a lui come a un amico più che come a un subalterno, ma il tono era comunque fermo. Si conoscevano da diversi anni, complice il rapporto con Friedrich, e col tempo avevano scoperto di condividere non solo gli stessi metodi e lo stile di combattimento, ma anche una segreta affinità che non si poteva esprimere in termini espliciti.
L’altro assottigliò lo sguardo, comprendendo subito dove volesse andare a parare. “Puoi contare su di me”, fu la laconica replica.
“Era proprio quello che volevo sentirti dire.”
Hans ripiegò la mappa e rimase per un po’ a osservare i vari reparti che si schieravano come da ordini, quando la voce del maresciallo lo costrinse a voltarsi. “Signor maggiore! La informo che anche la compagnia del capitano Fromm è appena arrivata a destinazione.”
“Gli dica di presentarsi a rapporto da me per ricevere le disposizioni.”
“Subito, signore.”

La battaglia si era conclusa abbastanza in fretta, senza significative perdite o feriti, e il morale delle truppe si manteneva alto. Prima di proseguire con l’avanzata, sempre seguendo la linea del fronte e le direttive ricevute in mattinata, il maggiore Bühler aveva dato ordine di fermarsi per il pranzo, e i soldati bivaccavano seduti per terra o sui ridotti, mentre lui e il capitano Bentheim, chini di fronte alla mappa, concordavano la strategia da portare avanti nel pomeriggio.
Stormi di bombardieri continuavano a scaricare tonnellate di devastazione sui sobborghi della capitale, mentre gli scoppi dell’artiglieria riecheggiavano in lontananza come temporali a ciel sereno. Quando ebbe congedato il capitano, Hans si passò una mano tra i capelli, ravviandoli all’indietro e stringendo la nuca con un gesto nervoso. Ancora una volta, gli tornarono in mente le parole del maggiore von Eltz: in guerra, tutti si sporcano le mani.
Ripensando a quel discorso e alla conseguente discussione avuta con von Kleist anni prima, anche lui si rese conto che la sua mano aveva tremato, la prima volta che si era trovato a dover uccidere un uomo per non finire a sua volta ucciso.
Con un sospiro tornò a guardare la mappa e aggiornò i progressi dell’offensiva sulla base dei più recenti rapporti dei ricognitori, poi poté finalmente alzarsi e concedersi una pausa. Non era neanche riuscito a vedere Friedrich se non da lontano, mentre guidava l’assalto alla testa del suo plotone. Aveva sentito dire che il giovane aveva riportato una lieve ferita al braccio, che gli aveva impedito di prendere personalmente le armi com’era solito fare.
Si guardò intorno nella speranza di scorgerlo da qualche parte tra i capannelli di soldati, insieme a qualche ufficiale o seduto da qualche parte a mangiare, ma dovette cercarlo a lungo prima di riuscire a trovarlo: era in piedi vicino a un furgone della logistica, intento a discutere col sottotenente Kühn e un paio di subalterni, tra i quali riconobbe il maresciallo Eichmann e il caporal maggiore Schneider.
Appena si accorse della sua presenza, il tenente diede l’attenti e gli si avvicinò di qualche passo, mentre gli altri si irrigidivano per salutarlo.
“Signor maggiore.” Nonostante il tono all’apparenza imparziale, la voce ebbe una leggera vibrazione e gli occhi chiarissimi lo fissarono ardenti.
Hans ricambiò lo sguardo, sfiorando la visiera del berretto. “Ci rivediamo, von Kleist.”

Convocato a rapporto, il tenente von Kleist scattò sull’attenti e salutò militarmente. “Signor maggiore.”
Il battere dei talloni riecheggiò nel silenzio dell’ufficio spoglio.
Ancora seduto alla scrivania, Bühler gli ordinò il riposo con un gesto quasi infastidito: anche se il regolamento lo imponeva, non aveva mai sopportato certi convenevoli quando si trovavano da soli, neanche in caso di convocazioni ufficiali. Alzò la testa e gli rivolse un tiepido sorriso. “Friedrich, bentornato.”
Von Kleist sorrise di rimando, mosse un passo verso di lui e si tolse il berretto. “Il fronte non perdona. Come stai, Hans? Non ci vediamo da giorni…”
“Bene, sono soltanto un po’… sopraffatto dalla burocrazia”, rispose il maggiore con una leggera smorfia, indicando le pile di documenti da compilare. “E tu? Mi è giunta notizia che ti sei beccato un proiettile di striscio…”
“Non è niente di grave.” Friedrich abbassò gli occhi sull’imponente macchina da scrivere e sui fascicoli sparpagliati sul tavolo, come se si aspettasse di sentirsi chiedere una mano per occuparsene, poi li rialzò fino a incatenarli a quelli del compagno. “Come si suol dire, la guerra va avanti…”
“… ma la vittoria giunge solo alla fine.” Con una scrollata di spalle, Hans indicò una sedia di fronte a sé. “Siediti pure.”
Solo allora, Friedrich si mise a osservare l’ambiente: l’ufficio che era stato assegnato al maggiore era una stanzetta angusta con le pareti di un verde pallido scrostato, un quadro con uno scorcio di Varsavia e una libreria ingombra di cartelle e libri di strategia militare; dal soffitto pendeva un lampadario che irradiava una luce giallastra e opaca. L’unica finestra a lato della scrivania, che dava sul piazzale gremito di mezzi, era schermata da due tende di fine stoffa bianca e lasciava filtrare gli ultimi raggi di sole del pomeriggio inoltrato.
“Ho parlato col colonnello,” lo richiamò all’attenzione la voce di Hans. “Hai preso un’iniziativa personale non richiesta, trascurando gli ordini del tuo capitano e i miei. Lo sai che cosa vuol dire, questo?”
“Che me ne sarei assunto la responsabilità… come sempre”, rispose il tenente, in tono neutro.
“Risposta sbagliata, von Kleist.” Lo sguardo del maggiore s’indurì, e la sua voce si fece tagliente come la lama di una spada. “Significa che avresti potuto rischiare la corte marziale.”
Nonostante il tremito che gli aveva percorso le membra, Friedrich si sforzò di mantenersi impassibile.
L’altro, invece, si alzò in piedi scostando da sé la sedia con un gesto brusco e andò ad affacciarsi alla finestra, volgendosi verso il cielo che si tingeva di pennellate sanguigne. Emise un sospiro. “Ho già dovuto punire un sottotenente per insubordinazione, e sai bene che la posizione che ricopro mi impone totale imparzialità.” Abbassò la voce, per poi voltarsi e ricercare di nuovo il contatto visivo con lui. “Finché siamo in servizio, io non sono nient’altro che il tuo comandante di battaglione. Non posso passarci sopra solo perché sei tu, capisci?”
Senza batter ciglio, il tenente ricambiò il suo sguardo con la consueta fierezza.
Si erano trovati più volte ad affrontare simili colloqui: entrambi sapevano quanto fosse difficile scindere i loro sentimenti personali dai doveri militari che entrambi avevano l’uno nei confronti dell’altro. Tuttavia, spesso, i confini tra le due sfere sfumavano fino quasi a scomparire, ed erano proprio le uniformi che indossavano a ricordare loro di essere soltanto due giovani uomini fatti di carne e sangue. In quel momento, nonostante il tono severo, a parlare non era l’uomo di ferro, né il maggiore Bühler, bensì solo Hans. “Per questa volta, le circostanze ti hanno dato ragione, ma voglio che tu lo tenga a mente per il futuro. Come comandante di plotone, non sei responsabile soltanto delle tue azioni, ma anche delle loro possibili conseguenze… così come io sono responsabile dell’operato dei miei sottoposti, compreso te.”
L’eloquenza del silenzio che seguì poté più di mille parole: certe cose non potevano essere espresse ad alta voce, ma von Kleist ne afferrò all’istante il significato nascosto. Avrebbero fatto di tutto per proteggersi l’un l’altro – moralmente e fisicamente – ma, per tener fede a quel proposito, dovevano cercare di volgere a loro vantaggio i limiti imposti dal regolamento e dalla gerarchia militare.
“È per questo che mi hai nominato tuo aiutante di campo?” sussurrò. “Per occupartene personalmente?”
“Anche.”
A quell’ammissione, il tenente sollevò un sopracciglio, ma non fece ulteriori domande, e tra loro calò un silenzio carico di sottintesi. Infine, Hans oltrepassò la scrivania con un movimento fluido e annullò le distanze, concrete e invisibili, che li separavano. “Domani combatteremo insieme, Friedrich.”
Friedrich alzò il viso verso di lui. “Già… finalmente.”
Hans accennò un sorriso e, con una carezza impercettibile, gli sfiorò i capelli e la guancia liscia; egli cercò la sua mano e le loro dita s’intrecciarono fugacemente.
Con la guerra dietro l’angolo, non c’era spazio per effusioni o altisonanti dichiarazioni d’amore, né loro ne avevano bisogno per esprimere ciò che li legava: bastavano la vicinanza, la consapevolezza che l’indomani avrebbero combattuto di nuovo insieme, a far sentire le loro anime, affini e al tempo stesso complementari, come due parti di un’unica entità.
Si separarono lentamente, indugiando ancora un po’ nei reciproci sguardi: di più non era concesso.
Il maggiore si passò una mano tra i capelli per conferire loro una parvenza d’ordine, poi guardò l’orologio appeso al muro. “Ma adesso l’orario di servizio è terminato. Che ne dici di sfruttare la libera uscita per andare a cena da qualche parte, io e te da soli?”
“Dico che è un’ottima idea”, rispose Friedrich. “Abbiamo tante cose da dirci!”

I due ufficiali entrarono in un’anonima trattoria dei sobborghi, dall’aspetto dimesso, dove i pochi civili che avevano avuto il coraggio di mettere piede fuori casa – immediatamente riconoscibili come operai di fabbrica di ritorno dal lavoro – cenavano a capo chino, cercando di passare inosservati tra le orde di tedeschi in uniforme. Solo l’uomo sulla cinquantina che serviva al bancone si concedeva di fissarli con malcelato astio, forse convinto di non farsi notare. Quando però si accorse di avere di fronte due ufficiali, gli unici in mezzo a decine di soldati di truppa e graduati, si sforzò di risultare il più garbato possibile. “I signori desiderano?”
“Un tavolo appartato e due birre, grazie,” rispose von Kleist in quel poco che masticava di polacco.
Mentre prendevano posto al tavolo indicato dall’oste, si guardarono intorno: la sala era arredata con vecchi mobili sbiaditi e tovaglie a quadretti, mentre le pareti erano tappezzate di quadri dozzinali, lampade a petrolio e scaffali ricolmi di bottiglie vuote. Una vecchia stufa dipinta di rosso brillante prendeva posto nell’angolo più remoto, conferendo all’ambiente un’aria quasi casalinga. Prima di iniziare a parlare, Bühler studiò gli avventori con circospezione: nessuno di essi apparteneva alla loro divisione o ai loro giri di possibili conoscenze ma, per quanto si sforzassero di apparire in pubblico come due semplici amici, le chiacchiere oziose dei marmittoni rimanevano una costante preoccupazione da cui guardarsi.
Per quella sera, i pensieri relativi alla campagna militare passarono in secondo piano, né furono argomento di conversazione. Molte delle cose che i due giovani avrebbero voluto dirsi passarono attraverso gli sguardi e giunsero tacitamente a destinazione, rafforzando convinzioni ormai radicate.
“L’altro giorno ho ricevuto una lettera da mia sorella…” disse Hans, gli occhi fissi in un punto indefinito di fronte a sé.
“Tua sorella?”
“Onestamente non me l’aspettavo. Non si è… sbottonata molto, ma mi ha fatto vedere queste foto.” Accompagnò quel gesto estraendole dal taschino e porgendole al compagno. “Il ragazzino della Hitlerjugend è mio nipote, l’altro sono io.”
“Siete identici, in effetti,” osservò Friedrich impressionato, osservando prima l’una e poi l’altra.
Hans poggiò il viso tra i palmi delle mani. “Anche lui vorrebbe fare la scuola militare: lo ripete fin dal giorno in cui ho annunciato di voler intraprendere questa strada, anche se all’epoca era solo un bambino…”
Fu interrotto brevemente da un cameriere che serviva due piatti ricolmi di pietanze tipiche della cucina tedesca, poi proseguì: “Ma la cosa non è mai stata presa sul serio… non fino ad adesso, almeno.”
“E tu le hai risposto?” chiese l’altro.
“In verità, non ancora.” Il maggiore rimise in tasca le foto, piluccò un po’ il cibo e appoggiò di nuovo la forchetta a un lato del piatto. “So com’è fatta mia sorella, sempre così ancorata al passato, e l’ultima cosa che voglio è far riaffiorare gli antichi dissapori.”
Scosse la testa come a voler dichiarare concluso il discorso, ma Friedrich non parve intenzionato a lasciarlo cadere. “Però vorresti.”
“Sono gli unici parenti che mi rimangono,” rispose Hans con un sospiro. “E l’ultima volta che sono tornato a casa era… lo sai, non ci conoscevamo ancora.”
Friedrich rimase a lungo in silenzio. Anche lui aveva perso i suoi genitori quando era ancora adolescente ma, pur essendo ormai abituato a vedere di rado i suoi tre fratelli, sapeva che stavano combattendo tutti quanti la stessa guerra: Jürgen era da qualche parte sul Baltico ad affondare navi nemiche, Manfred sorvolava i cieli della Polonia a bordo di un aereo da caccia, e Siegfried, l’unico rimasto in Patria, completava la propria istruzione militare in attesa di dare il suo contributo.
“Se mai decidessi di tornare da quelle parti,” riprese Hans, sollevando il boccale della birra, “mi piacerebbe che tu mi accompagnassi.”
Friedrich accettò il brindisi, come segno di buon auspicio per i tempi a venire. “Verrò volentieri con te, quando avremo vinto questa battaglia.”
“Dunque, a noi… e alla nostra vittoria!” sancirono, quasi all’unisono.
L’incertezza del domani e la paura della morte persero ogni consistenza, spazzate via dalla consapevolezza che, qualunque cosa sarebbe successa, avrebbero sfidato la sorte al fianco del compagno.

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ~ Zum Nahkampf vom Schicksal erkoren (parte prima) ***


IX.
Zum Nahkampf vom Schicksal erkoren
(parte prima)


 
 

Sdraiato carponi coi gomiti e le ginocchia affondate nell’erba alta, il sottotenente Kühn osservava il prato al di sotto del pendio sul quale il plotone era appostato, un’interminabile distesa di steli verdi ondeggianti al vento d’inizio settembre. Intorno a sé percepiva le presenze dei suoi commilitoni, che si traducevano in sospiri e fruscii concitati, in attesa che la fanteria polacca giungesse in vista: era stata loro assegnata un’ala laterale, in posizione sopraelevata, col compito di riferire ai comandanti qualsiasi movimento sospetto all’orizzonte. Gli alberi erano una muraglia solida che li proteggeva da assalti ai fianchi o alle spalle, ma lì, su quel declivio erboso, il calore del sole riverberava sui loro elmetti e la luce rendeva il verde quasi abbagliante. Erich si schermò gli occhi col palmo della mano e con lo sguardo cercò il tenente von Kleist tra le schiere di soldati, riparati dentro trincee o dietro avvallamenti del terreno, mentre aiutava il maggiore Bühler a trasmettere gli ordini ai vari reparti e ad accertarsi che venissero eseguiti correttamente. Individuò entrambi vicino alla prima linea: il maggiore era di spalle, ma si riconosceva per la figura slanciata, mentre di von Kleist colse subito il bagliore dora­to dei capelli, che catturavano la luce del sole e si intravedevano al di là della spalla dell’altro. Poco dopo arrivò anche il capitano Bentheim, che si trattenne a discutere con loro intorno alla mappa fino a quando non lo vide salutare e allontanarsi per raggiungere la propria compagnia. Solo l’aiutante di campo von Kleist rimase insieme al maggiore, a scrutare l’orizzonte col binocolo mentre l’altro ascoltava le comunicazioni di un portaordini.
Intorpidito dalla lunga permanenza in quella posizione, il sottotenente si mosse appena e si voltò verso i soldati del plotone che, tutti con gli sguardi puntati nella stessa direzione, sembravano reclamare irrequieti la presenza del tenente von Kleist. Quasi senza accorgersene, il ragazzo si sentì attraversare da un tremito di disagio: poiché l’entrata in guerra lo aveva sorpreso troppo presto – prima che lui, appena uscito dalla scuola ufficiali, potesse ricevere un’adeguata preparazione – era stato aggregato al tenente affinché completasse il proprio addestramento sul campo e, all’evenienza, lo sostituisse al comando del plotone.
Sapeva che pochi dei presenti, in virtù della sua inesperienza, riponevano in lui il loro affidamento; tuttavia drizzò le spalle e cercò di darsi una parvenza di sicurezza, puntando lo sguardo dritto di fronte a sé. Non sapeva ancora se von Kleist e Bühler si fidassero di lui, ma si ripeté che avrebbe fatto di tutto per non deluderli.

Il maggiore Bühler congedò il portaordini e per un po’ rimase assorto a fissare i soldati delle prime linee: sembravano insolitamente agitati, impazienti di dare battaglia. “Von Kleist?”
Il tenente lasciò ricadere il binocolo, che non aveva ancora rivelato alcun movimento della fanteria nemica, fece un passo avanti e alzò lo sguardo su di lui. “Signore?”
“Lei che cosa ne pensa?” indagò Hans, rivolgendogli un’occhiata eloquente. Con un impercettibile cenno del capo alluse genericamente alle truppe che li circondavano, senza però tradire a parole il reale senso della prima domanda: confidava che l’altro l’avrebbe afferrato senza troppe spiegazioni. Poi cambiò discorso: “Si muoveranno per intercettarci, o continueranno a temporeggiare per provocarci ad attaccare per primi?”
Friedrich strinse gli occhi per osservarlo con più attenzione, come se cercasse di cogliere un qualche segno d’incertezza nella sua espressione seria. “Con tutta onestà, signor maggiore”, rispose poi sullo stesso registro, prendendosi del tempo, “è probabile che non si siano neanche avveduti della nostra presenza.” Con aria pensierosa, si volse distrattamente verso il prato: una formazione di Stuka oscurò il sole e disegnò ombre nere sulla verde distesa d’erba, per poi scomparire dietro le basse colline in uno stridere di sirene che sovrastò perfino il rombo dei motori. Fischi e scoppi irruppero nel silenzio sospeso, poi gli aerei riemersero in quota lasciandosi alle spalle una scia di devastazione. A quella vista, il tenente trasse un profondo sospiro, poi riprese: “Preferiscono arretrare in difesa piuttosto che azzardarsi ad affrontarci in campo aperto, dopo le ingenti perdite dei giorni precedenti: credo che si asserraglieranno da qualche parte e terranno la posizione fino a quando non li forzeremo ad uscire allo scoperto… o fino a quando non riterranno di avere forze sufficienti per respingerci. D’altro canto, anche i nostri sembrano molto sicuri della vittoria: una fiducia che rasenta l’incoscienza, oserei dire.” Quell’ultima, breve frase, fornì l’implicita risposta anche alla domanda del maggiore; con un lieve movimento del capo, anche lui accennò alle schiere di soldati. “Per quanto mi riguarda, ritengo che la situazione non sia da sottovalutare.”
Bühler annuì. “Io sono molto scettico.”
Von Kleist abbassò la voce, accostandosi a lui quel poco che bastava affinché gli altri non lo sentissero. “Cos’è che non ti convince?”
Il maggiore abbassò la voce a sua volta e in tono sibillino disse: “Lo vedrai tra poco.”

Seguito a pochi passi di distanza dal suo aiutante di campo, Bühler riprese la sua ispezione delle retrovie. Schultz, al comando del plotone artiglieria da campagna, si congedò frettolosamente dai sottoposti e gli andò incontro con una deferenza quasi teatrale.
“Sottotenente Schultz a rapporto, signor maggiore!” esclamò, tirando il petto in fuori e la testa all’insù per incontrare il suo sguardo.
Hans aggrottò le sopracciglia, leggendo negli occhi verdi del giovane un chiaro desiderio di accattivarsi la sua approvazione – segnale, quest’ultimo, che lo portò a scuotere la testa con disappunto. Gli ordinò il riposo e lo condusse in disparte, al riparo da orecchie indiscrete. “Non ci siamo, Schultz,” disse semplicemente. “Lo sta facendo di nuovo.”
L’altro chinò il capo. “Chiedo scusa, signore.”
“Forse non sono stato chiaro,” replicò con durezza il maggiore, guardandolo dritto in faccia. “Lei non deve scusarsi, sottotenente. Lei deve dare prova di aver capito e far sì che ciò che è successo l’altro giorno non succeda mai più. Vorrei sapere, che cosa sperava di ottenere?”
Schultz spostò il peso da un piede all’altro, mentre le sue guance lentigginose avvampavano. “Io… speravo soltanto di non deluderla, signor maggiore. Né lei, né il capitano Schwieger.”
“E invece l’ha fatto,” fu la ferale risposta. “Prima di mettersi inutilmente in mostra, è bene che impari a fare il suo dovere. E soprattutto, che smetta di eseguire solo gli ordini che piacciono a lei, dato che non ne ha alcuna facoltà né competenza.”
“Signorsì, signore.”
“Vada, adesso. Ne riparliamo stasera nel mio ufficio.”
Bühler si passò una mano sul volto: sapeva di essere stato fin troppo brutale con quel ragazzo, ma doveva stroncare sul nascere ogni atteggiamento che avrebbe potuto compromettere il funzionamento del suo reparto. Prima di affidargli quell’incarico, von Rauheneck l’aveva subito messo in guardia sulle difficoltà che avrebbe incontrato al comando di un battaglione, ma era solo in quel momento che ne toccava con mano gli effetti più nefasti, dalla troppa irruenza dei sottoposti ai pregiudizi dei suoi pari: in verità non aveva mai desiderato quella promozione, essendo affezionato alla sua compagnia e ai soldati che ormai conosceva di vista dal primo all’ultimo uomo; tuttavia, anche se si era preparato per la guerra coi gradi di capitano sulle spalle, era stato infine spedito al fronte come comandante di battaglione, con quasi ottocento uomini alle sue dipendenze, di cui ne conosceva forse un misero quarto.
Continuò l’ispezione e chiese un breve rapporto al capitano Schwieger; poi si soffermò a guardare i soldati che trasportavano le casse di munizioni e i sottufficiali che, gridando i loro ordini, vigilavano sull’operato delle loro squadre, fin quando non intravide un capannello radunato intorno a un pezzo d’artiglieria, apparentemente immerso in chiacchiere oziose. Si avvicinò con ostentata noncuranza, le mani dietro la schiena, cercando di non farsi vedere mentre tendeva l’orecchio per captare l’argomento e il tono della conversazione.
“Sarà, ma a me questi pivelli sembrano troppo esaltati…” sentenziò un veterano, coi gradi di caporale sulla manica e la faccia rugosa quanto una prugna matura. “Non per dire, ma quando i giovani sono teste calde ci vuole qualcuno con dell’esperienza per rimetterli in riga. Il Vecchio ne deve fare ancora parecchia, di strada…”
Un secondo graduato scoppiò in una risata sguaiata. “Il Vecchio? Vorrai dire il Giovanotto!”
“Così lo chiamano, quelli che sono davvero vecchi. Ma del resto, era il pupillo di von Eltz: se l’è praticamente cresciuto…”
Il maresciallo Eichmann, che fino ad allora era rimasto in silenzio, si sistemò gli occhiali con sussiego e tossicchiò per attirare la loro attenzione. “E invece vi dico che è un ragazzo in gamba, uno con la testa sulle spalle… a differenza di molti altri, che non si capisce perché stiano qui quando sarebbero più utili a pelare patate in cucina.”
Bühler si avvicinò accigliato, incrociando le braccia sul petto e palesandosi alla loro vista. “C’è forse qualche problema tecnico che i signori vorrebbero rendermi noto?” s’intromise, retorico, con voce velata di tagliente sarcasmo.
Tutti e tre si congelarono in posizione di attenti e salutarono militarmente, forse nel vano tentativo di rimediare alla loro sfacciata violazione del regolamento.
“Nossignore”, rispose Eichmann, a nome di tutti e tre.
L’ufficiale non si scompose. “Allora tornate ai vostri posti,” ordinò, ruvido ma inamovibile.
Si accertò personalmente che il sottufficiale e i due graduati ritornassero nelle posizioni loro assegnate, poi emise un altro sospiro, roteò gli occhi spazientito e si voltò di nuovo verso il suo aiutante di campo. “Ecco a cosa mi riferivo poco fa, tenente”, disse.

Friedrich era salito sul retro della Kübelwagen per consentirsi una migliore visuale, mentre Hans, la mappa dispiegata sul cofano, rifletteva sul da farsi: il tenente aveva confermato i suoi timori e le sue supposizioni in merito alla situazione tattica, e adesso c’era solo da aspettarsi un attacco in forze da parte dei nemici o, in caso contrario, risolversi a marciare contro di loro, abbandonando la posizione vantaggiosa che avevano conquistato. Gli ordini del generale erano stati chiari: bisognava avanzare, spezzare la resistenza dei nemici e forzare la linea della Vistola. Inoltre, Erwin von Salza aveva fama di non essere uno di quelli che dirigevano le operazioni dal Quartier Generale, a meno che non fossero in visita il Führer o il Feldmaresciallo, quindi c’era da aspettarsi che da un momento all’altro passasse di persona a ispezionare la linea del fronte per assicurarsi che i comandanti di battaglione rispettassero le sue indicazioni.
La fanteria nemica, secondo alcuni rapporti ancora attestata da qualche parte a sud-est, non accennava a muoversi.
Decise che avrebbe atteso altri dieci minuti, poi, in caso, avrebbe dato ordine di rimettersi in marcia.
“I P.11 hanno intercettato gli Stuka…” comunicò Friedrich all’improvviso. “Li stanno inseguendo, cercano di spingerli fuori dallo spazio aereo di Varsavia.”
Senza distogliersi dalle proprie meditazioni né alzare la testa, dopo un po’ Hans chiese: “E come sta procedendo lo scontro?”
“Da quello che mi sembra di vedere, uno dei nostri è stato danneggiato a un’ala e costretto a un atterraggio di fortuna, ma gli altri reggono il confronto… ne hanno abbattuti due dei loro.” Si interruppe per un breve istante per regolare le ottiche del binocolo. “Ah! Ne stanno arrivando altri, da nord.”
Il maggiore quasi sobbalzò. “Di aerei da caccia polacchi?”
“No, no, sono bombardieri della Luftwaffe. Bimotori… una decina, forse anche di più.”
Bühler annuì, forse sperando in quella precisa risposta, che non lo lasciò particolarmente impressionato. Guardò l’orologio: erano passati all’incirca venti minuti da quando avevano approntato lo schieramento, ma l’immobilità della situazione li faceva apparire dilatati a dismisura, come un attimo sospeso e intollerabile nella sua staticità. “A terra com’è la situazione, tenente?”
Von Kleist stava per rispondere, ma alla sua voce si sovrappose quella di un portaordini appena giunto sul posto. “Signor maggiore!”
Bühler fece un passo avanti per riceverlo e gli ordinò il riposo.
“Secondo un rapporto dei ricognitori, c’è una sezione del primo battaglione corazzato polacco in avvicinamento da nord-est,” riferì il soldato. “Si stanno muovendo per intercettarci.”
“Von Kleist?”
“Confermo, signore. Abbiamo otto… no, dieci carri in avvicinamento da nord-est.”
Hans diede l’allerta generale e chiamò a rapporto i comandanti di compagnia, poi prese a sua volta il binocolo e osservò nella direzione indicatagli da Friedrich: i carri erano sagome scure che procedevano allineate sulla stradina sterrata che tagliava i campi, sollevando una nube di polvere finissima che avvolgeva le sagome degli alberi.
Fece presente la situazione ai capitani giunti sul posto, poi mostrò loro un punto sulla mappa col pennino della stilografica. “Allerta generale, le truppe nemiche si trovano sul sentiero. Arriveranno qui tra non molto,” spiegò, “e ho buone ragioni per supporre che vogliano schiacciarci tra incudine e martello. Occorre approntare una difesa anticarro e impedire l’accerchiamento.”
Diede le disposizioni a Walkenhorst e a Schwieger, mentre Bentheim e Fromm continuavano a fissarlo con attenzione, come in attesa che proferisse il suo verdetto. Von Kleist, invece, era balzato giù dalla sua postazione e lo affiancava, stringendo la cinghia dell’onnipresente MP38 che gli pendeva dalla spalla. Bühler rifletté per qualche istante, si guardò intorno incalzato dall’urgenza, cercando di sondare le intenzioni del nemico nel minor tempo possibile, poi indicò un punto in cui la pianura veniva turbata da rilievi e sporgenze irregolari. “Ci attesteremo su quell’altura, la fanteria dietro ridotti e buche individuali, in modo che la nostra posizione limiti le possibilità di movimento dei blindati. L’artiglieria sul crinale, in modo che contribuisca a rallentarne l’avanzata. La compagnia di Fromm rimarrà in prima linea con quella di Walkenhorst, con armi anticarro e mitragliatrici pesanti, mentre Bentheim sposterà la sua compagnia a sud-est, in modo da impegnare la fanteria su due fronti.”
Finito di dare le ultime indicazioni, congedò i comandanti di compagnia, ripiegò la mappa e tornò a far oscillare lo sguardo tra i soldati che iniziavano a spostarsi e il progresso dell’avanzata nemica. Anche Friedrich fece per andarsene insieme al capitano Fromm, ma Hans gli poggiò una mano sulla spalla. “Non adesso, tenente”, lo trattenne. “Mandi Kühn al suo posto.”
Sentendo la presa solida del giovane, von Kleist si voltò verso di lui e alzò la testa rivolgendogli uno sguardo interrogativo. Hans strinse leggermente e lasciò ricadere la mano, un gesto muto ma significativo che fu accompagnato da uno sguardo d’intesa e da un lieve sorriso. “Ho bisogno di lei per coordinare le prime fasi dell’attacco.”
Anche senza il bisogno di ulteriori spiegazioni, Friedrich comprese al volo il senso di quella richiesta.

Il camion procedeva sobbalzando sulla strada irregolare, martoriata dal passaggio di carri armati e mezzi pesanti. Gli alberi fitti che la costeggiavano, come una specie di soffitto a volta entro la quale filtravano timidi sprazzi di sole, nascondevano alla vista gran parte del paesaggio, ma il capitano Bentheim ne aveva già bene impressa in mente la conformazione. Il maggiore Bühler, che fuori dal servizio poteva considerare a pieno diritto un amico di vecchia data, gli aveva lasciato piena libertà di manovra, ed egli era sicuro che non si trattasse solo di fiducia: Hans prendeva raramente le sue decisioni senza un’attenta pianificazione, quasi mai facendosi guidare dall’istinto o sulla base di un sentimento personale.
Ripensò alle innumerevoli esercitazioni in cui, come comandanti di compagnia, avevano condotto le manovre insieme: gli bastava quello per capire quali fossero le sue intenzioni dal punto di vista tattico e come dovesse comportarsi per agire in linea con esse.
Quando ritenne di aver trovato il punto idoneo per proseguire con le azioni offensive, a colpo sicuro ordinò all’autiere di fermarsi, scese dal camion e iniziò a disporre le truppe in vista dell’imminente assalto.

Tra il furioso martellare delle mitragliatrici, i fischi cupi dei mortai e gli echi delle detonazioni, il capitano Bentheim correva da un capo all’altro dello schieramento con un MP38 ad armacollo, andando avanti e indietro per tenere sotto controllo l’intera situazione. Doveva urlare gli ordini sotto la cacofonia di grida per farsi sentire, conferendo direttamente coi comandanti di plotone mentre le sequenze concitate dello scontro lo mettevano di fronte a esigenze tattiche sempre nuove. Nelle primissime linee non vi era più un fronte compatto, bensì frammenti di gruppi che si scontravano all’arma da fuoco, in campo aperto, sfruttando ripari naturali o impilando sacchi uno sull’altro per approntare frettolose postazioni difensive.
Quando ebbe individuato il tenente Koch, intento ad abbaiare ordini al suo plotone con la sua solita voce baritonale, constatò che tutto procedeva secondo i suoi ordini e si guardò di nuovo alle spalle: non c’era nessuno in giro. Abbandonò rapidamente la postazione e tornò nelle retrovie, alla ricerca del tenente Tiedemann.
Lo scorse di spalle, come sempre senza berretto e in maniche di camicia rimboccate fino al gomito, i capelli biondastri incollati alla testa. Stava osservando una squadra di serventi mentre armavano un obice, ma quando si accorse della sua presenza gli andò rapidamente incontro.
Bentheim gli ordinò il riposo prima ancora che si mettesse sull’attenti e fece scorrere lo sguardo lungo tutto il settore dell’artiglieria campale. “Aumentate la potenza del fuoco”, ordinò conciso, “avanzate e dirigete il tiro verso il centro dello schieramento nemico.”
“Sissignore!” rispose il tenente, sorridendo raggiante. Si allontanò a grandi passi, e Konrad non poté trattenere un sorriso quando sentì la sua voce schioccare: “Avete sentito cos’ha detto il capitano? Forza, fate avanzare questi aggeggi, aumentate la potenza del fuoco e vedete di non sprecare munizioni. Bisogna colpire il centro dello schieramento nemico!”

Mentre avanzava, Bentheim vide cadere una granata sollevando schegge e schizzi di terra, si buttò per terra fulmineo e strinse saldamente la pistola. Seguì un breve attimo di stasi, poi dietro la nebbia prodotta dall’esplosione si profilarono ombre barcollanti che sciamarono verso di lui. L’ufficiale strisciò dietro un albero appoggiandovisi con la schiena e aprì il fuoco prima che gli altri potessero rispondergli. Qualcuno di loro corse al riparo, altri caddero feriti e furono trascinati via, dai commilitoni o dai medici tedeschi incaricati di raccogliere i prigionieri bisognosi di assistenza.
Una pallottola si abbatté contro l’albero che proteggeva il capitano e rimbalzò tintinnando sulla corteccia, seguita in rapida successione da altri minacciosi sibili che gli passarono sopra la testa e lo costrinsero a cercare copertura altrove.
Come gli avevano sempre insegnato durante l’addestramento, un comandante di compagnia doveva essere capace di pensare mentre sparava, elaborare strategie sul momento e al tempo stesso metterle in pratica in prima persona. Mentre ricaricava l’arma, cercò di fare un paio di rapidi calcoli: i nemici dovevano aver sottovalutato la situazione; probabilmente si aspettavano di metterli in scacco, ma non avevano fatto i conti con la superiore preparazione della fanteria tedesca. Sembrava comunque che fossero determinati a ricacciarli indietro con le unghie e coi denti, fino all’ultimo, e lui, che non era mai stato una persona incline a facili entusiasmi, si sentiva in dovere di esortare i suoi soldati alla massima prudenza.
“Signor capitano!” lo chiamò una voce. “Il sottotenente Ziegler richiede la sua presenza: i nemici stanno tentando l’accerchiamento!”

Quando giunse sul posto, la situazione era perfino peggiore di quanto immaginasse: Ziegler era adagiato contro un ridotto e si premeva una fasciatura insanguinata contro la spalla, ansimando con fatica. Mertens, a cui Bentheim aveva affiancato il plotone del giovane ufficiale, aveva preso momentaneamente il comando di entrambe le sezioni, ma appariva impegnato in un cruento combattimento contro un gruppo piuttosto agguerrito, che superava il suo di parecchie unità.
Il capitano si avvicinò all’ufficiale ferito. “Che succede qui?” gli chiese, sollecito.
“Signore.” Ziegler, assegnato alla sua compagnia due settimane prima dello scoppio della guerra, contrasse il viso in una smorfia di dolore e alzò su di lui un paio di occhi pesti e velati. “Siamo stati sorpresi da una manovra totalmente inaspettata. Abbiamo organizzato il contrattacco, ma…” Tacque di nuovo, scosso da un colpo di tosse.
Bentheim annuì con aria grave, poi gli offrì una borraccia con dell’acqua fresca. Proferendo cortesi ringraziamenti, il sottotenente la afferrò con entrambe le mani e bevve avidamente, per poi bagnarsi appena anche i capelli biondi incrostati di sangue e sporcizia. Dopo avergliela restituita, si lasciò ricadere esausto contro la barriera di sacchi imbottiti ed esalò un profondo sospiro. “Per un attimo… ho pensato che questo potesse essere l’ultimo servigio da rendere alla Patria.”
“Pensi alla morte solo come extrema ratio, sottotenente: finché si trova tra noi, il suo servigio glielo renderà meglio combattendo.” Strinse appena il braccio del giovane, come per incoraggiarlo a tenere duro, poi lo guardò dritto negli occhi. “Stia tranquillo. Manderò a chiamare un ufficiale medico, mentre nel frattempo mi occuperò di risolvere questa situazione.”

Le sparatorie continuavano a susseguirsi senza sosta, punteggiate dai tonfi dei mortai e dalle detonazioni lunghe degli obici da 105 che scandivano un ritmo incalzante e irregolare. Bentheim aveva imbracciato un MP38 e aveva preso il posto di Ziegler, volgendo rapidamente la situazione a vantaggio dei tedeschi. Ma quando, per l’ennesima volta, allungò la mano verso il tascapane per prelevare a tentoni un altro caricatore, si accorse che era ormai desolatamente vuoto.
Appiattendosi tra l’erba alta si guardò intorno, attento come un falco in cerca di una preda, e poco distante dalle prime linee individuò una postazione abbandonata, sulla quale era sistemata una mitragliatrice MG 34 completa di nastro. Senza pensarci due volte, si affrettò per raggiungerla e, avanzando con cautela per evitare di essere raggiunto dai proiettili che schizzavano per aria, balzò agilmente all’interno del ridotto. Il mitragliere – un giovane caporale, già da tempo ai suoi ordini – giaceva esanime in una pozza di sangue rappreso, raggiunto alla testa da una pallottola che gli aveva sfondato l’elmetto. Aggrottando la fronte con costernazione, Konrad lo scostò delicatamente e lo adagiò per terra ricomponendogli le mani sul petto, quindi si chinò sulla MG 34 per armarla.
“Soldato!” gridò, rivolto a un ragazzo che passava di lì.
“Signor capitano!”
“Presto, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a tenere il nastro.”
Gli occhi del giovane si illuminarono di entusiasmo, quasi come se si fosse sentito offrire un onore irripetibile. “Sissignore!”
Adagiò il suo fucile contro la parete del ridotto e si apprestò a fare come gli era stato ordinato, mentre il capitano si sistemava in posizione di tiro e contrastava l’ondata nemica con poderose sferzate. Col suo consueto sangue freddo, la osservò ritirarsi sbandata, incalzata dalla foga dei soldati tedeschi, spezzandosi in due tronconi come un albero abbattuto da una folgore.
“Bisogna cambiare la canna: è diventata rovente,” rilevò dopo un po’, avvicinando la mano alla mitragliatrice.
“Certo, signore.”
Mentre il giovane soldato eseguiva, Bentheim si sporse leggermente oltre la barriera e col binocolo scandagliò il campo al di là delle linee nemiche: i carri armati continuavano a caricare come tori aizzati per risalire il pendio su cui era attestato il resto del battaglione, tempestando la fanteria di cannonate e raffiche di mitragliatrice.
Proprio sotto i suoi occhi, uno dei blindati fu colpito in pieno da una granata ed esplose in un oceano di fiamme.

Preceduta da un lampo di luce arancione, l’esplosione fu assordante. Abbacinato, il sottotenente Erich Kühn si allontanò di corsa e si buttò a faccia in giù per terra, le spighe selvatiche che gli solleticavano il viso. Un poderoso spostamento d’aria gli increspò la giubba dell’uniforme, facendogli salire brividi gelidi lungo la spina dorsale; le dita afferrarono convulsamente un ciuffo d’erba. Subito dopo, subentrarono le falde di fumo acre, l’odore del carburante incendiato e un’intollerabile zaffata di caldo torrido, che per un istante gli fece tornare in mente gli altoforni della fonderia in cui lavorava suo padre, e si premette una manica contro naso e bocca per impedirsi di tossire. Quando trovò il coraggio di alzare la testa, al di là della nebbia scura e del velo di lacrime, non vide altro che un relitto abbandonato, le cui lamiere si accartocciavano divorate dalle fiamme.
Dalle retrovie provenne qualche grido entusiasta che lo riempì di baldanza; qualche subalterno gli riservò addirittura un applauso. Erich osservò compiaciuto i resti del 7TP che la sua granata aveva appena distrutto, poi un’altra serie di detonazioni ravvicinate lo riportò alla cruda realtà: i mostri d’acciaio avanzavano implacabili, mentre i cingoli sferragliavano grattando la terra e sollevando schizzi di fango. Alcuni di essi erano già stati abbattuti o danneggiati, ma quelli che ancora resistevano erano manovrati con perizia, proteggendo con la loro solida mole la fanteria nemica.
Ricordava i discorsi dei suoi superiori che, prima di partire per il fronte, avevano più volte ripetuto che le forze corazzate polacche erano esigue in confronto alle grandi quantità di carri armati giunte dalla Germania, ma quei pochi blindati schierati avevano dato prova di riuscire a tener testa sia alla fanteria che ai Panzer. “Forse non saranno forti abbastanza da riuscire a sopraffarci”, aveva detto il maggiore Bühler a tutti gli ufficiali presenti, “ma vi invito a non abbassare la guardia e a non sottovalutarli, esortando le vostre truppe a fare altrettanto. Spesso, una fiducia cieca nelle proprie capacità porta a commettere errori che potrebbero risultare fatali.”
Strinse gli occhi, sbatté le palpebre per impedirsi di lacrimare: un altro carro era stato distrutto, colpito in pieno dalla cannonata di un PAK, e due serventi feriti erano riusciti ad abbandonarlo di gran carriera prima che le fiamme aggredissero la pozza di carburante sparso per terra.
Benché le carcasse dei carri spesso e volentieri ostruissero il passaggio, potevano rivelarsi anche un riparo per la fanteria nemica, che una volta domate le fiamme li sfruttava come postazioni difensive.
Per quel poco che vedeva, lo scontro forsennato rendeva impossibile capire quanti nemici fossero ancora presenti sul campo, ma lui era fermamente convinto che il suo reparto avesse ormai la vittoria in pugno.
Rinvigorito da quel pensiero, il giovane ufficiale imbracciò il mitra e ordinò ai suoi uomini di avanzare, incurante delle grandinate di proiettili che schizzavano in ogni direzione.

“Signor capitano!”
Nel caos dilagante, le uniche parole che Erich riuscì a captare furono le grida di un sottufficiale che chiamava il capitano Fromm. Sollevò appena la testa, ricercando con sguardo vigile il punto in cui l’aveva scorto per l’ultima volta, e ciò che vide lo lasciò per un istante agghiacciato: da dietro il ridotto che l’ufficiale aveva eletto a sua postazione di comando, s’innalzava lenta la colonna di fumo di un ordigno appena esploso; nessun movimento testimoniava la presenza di un uomo vivo.
Mormorii costernati percorsero lo schieramento, qualcuno paventava già il peggio.
Il sottotenente deglutì un boccone amaro, mentre brividi gelidi gli percorrevano le membra. Senza neanche rendersi conto di ciò che stava facendo, abbandonò il suo posto facendosi largo tra i soldati attoniti e scavalcò con un balzo la pila di sacchi di sabbia, sporchi di terra e schizzi vermigli.
“Signor capitano!”
Lo trovò riverso per terra, coi capelli biondi e l’uniforme completamente intrisi di sangue. Con mano tremante gli tastò il polso, rendendosi conto che era ancora vivo, ma incosciente; sotto di lui c’erano una mappa del fronte ormai illeggibile e la sua pistola. Le schegge della granata dovevano averlo colpito alle gambe e a un fianco, ma senza raggiungere punti vitali.
“Kühn! Che cosa sta succedendo?” sentì urlare. Era la voce di Wessel, che lui e gli altri ufficiali della compagnia definivano affettuosamente ‘il cane da guardia del capitano’: ringhioso e puntiglioso, ma sempre pronto ad assistere il suo comandante in ogni manovra.
“Signor tenente, il capitano è ancora vivo!” rispose il giovane, cercando di sovrastare il fragore.
Scagliò un fumogeno alle proprie spalle, poi sollevò con delicatezza il ferito, si alzò e se lo caricò in spalla senza sforzo, ringraziando il fatto che Fromm fosse abbastanza leggero.
“Dov’è il maggiore? Qualcuno vada a chiamare il maggiore!” gridò, con tutto il fiato che aveva nei polmoni. “C’è un’emergenza, il capitano è ferito!”

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Capitolo 11
*** Capitolo IX ~ Zum Nahkampf vom Schicksal erkoren (parte seconda) ***


IX.
Zum Nahkampf vom Schicksal erkoren
(parte seconda)


 
 

Friedrich von Kleist non riusciva ancora a credere a ciò che aveva visto: il sottotenente Kühn era riemerso dalla mischia avvicinandosi pericolosamente ai 7TP che risalivano il crinale, aveva lanciato una granata contro uno di essi ed era balzato in copertura prima che l’ordigno deflagrasse.
Subito dopo, un’immane esplosione aveva ridotto il blindato a un ammasso di ferro carbonizzato, intorno al quale avevano preso a danzare lugubri lingue di fiamma.
Per un attimo, il tenente si chiese che effetto dovesse fare trovare la morte dentro una bara di metallo lambita dalle fiamme – una corazza, che nel momento più inaspettato si sarebbe potuta rivelare la più infida e invalicabile delle prigioni. Erano proprio quelli i momenti in cui si rendeva conto che a spingerlo ad arruolarsi nella fanteria non era stato soltanto il suo radicale attaccamento a certi valori, ma anche la convinzione che, al momento dell’estremo sacrificio, avrebbe voluto versare il suo ultimo tributo di sangue alla luce del sole, guardando in faccia il proprio nemico.
“Von Kleist!”
La chiamata di Hans lo distolse da quelle considerazioni. Senza neanche voltarsi, Friedrich vide il maggiore scivolargli al fianco con un fucile in spalla.
“Signore?”
Per tutta risposta, l’altro ricaricò l’arma e gli intimò di fare silenzio. Erano così vicini che le loro spalle si sfioravano, rendendoli partecipi della reciproca presenza. Si trovavano a ridosso delle prime linee, in un posto relativamente protetto – il fulcro degli scontri si era per il momento spostato altrove, permettendo a loro e ai soldati asserragliati lì intorno di riprendere fiato – e per un po’ rimasero a osservare l’avanguardia nemica senza proferire motto: tutto procedeva secondo le loro previsioni.
Il braccio di un cannone sbucò al di sopra delle teste dei soldati. Il blindato tentò una manovra, i cingoli annasparono sferragliando nel fango, un obice lo colpì di striscio al fianco scalfendone la corazzatura. Imperterrito, con movimenti solenni e misurati, il mezzo proseguì fino ad assestarsi sulla spianata. Friedrich trattenne il fiato: il cannone brandeggiò fino a prendere di mira la postazione dietro la quale lui e il maggiore si erano riparati, spazzando la vegetazione con una raffica di mitragliatrice.
“Via!” latrò. Con prontezza, afferrò Hans per la giubba dell’uniforme e lo spinse via, poco prima che il proiettile si abbattesse contro i sacchi di sabbia sventrandoli e sparpagliando per terra tutto il loro contenuto. I due ufficiali si allontanarono di corsa, inseguiti a distanza ravvicinata da una tempesta di traccianti.
“Attento!” Impegnato a tenere d’occhio la torretta del 7TP, Friedrich si sentì agguantare da un paio di mani forti e scaraventare di schiena contro la parete di un cratere, per poi avvertire su di sé tutto il peso del corpo di Hans che gli si era buttato addosso. Cercò di trattenere il fiato, ma non riuscì a resistere al naturale istinto di stringerlo a sé, per proteggerlo a sua volta.
Senza alcuna copertura se non quella dell’erba alta che circondava la buca, rimasero entrambi immobili, i respiri affannati, consapevoli che in quel momento stavano sul serio rischiando la vita.
I proiettili della mitragliatrice sferzarono l’aria avanti e indietro, così vicini da fargli stringere i denti e rizzare i capelli sulla nuca, poi una cannonata sollevò un geyser di terra e detriti. Nessuno dei due osò muovere un muscolo, ma la presa del maggiore intorno alla sua giacca si fece convulsa.
Le raffiche si acquietarono di colpo, all’improvviso, anche se il rumore dei cingoli continuava a sovrapporsi al rombo del motore. Con la coda dell’occhio, Friedrich si accorse che la torretta del cannone era stata sfondata da un grosso calibro: solo allora rilassò appena la tensione delle braccia, e Hans smise di gravargli addosso concedendogli di tornare a respirare.
Senza tradire i propri movimenti, ispezionò con rapidità i dintorni e sobbalzò: un paio di fanti erano strisciati dietro un albero, dirigendo il tiro verso di loro. Dovevano essersi accorti che erano ancora vivi.
“Signor maggiore, dietro di lei!”
Al grido soffocato del tenente, Bühler si tirò su con uno scatto fulmineo, parandoglisi davanti con la pistola in pugno; Friedrich si risollevò a sua volta e ricaricò la propria, pronto a coprirgli le spalle. Riuscì soltanto a sentire due colpi secchi, in rapida successione, poi Hans abbassò l’arma e si volse nuovamente verso di lui con apprensione. “Friedrich, tutto bene?” sussurrò.
Il tenente aggrottò le sopracciglia. “Sì, e tu?”
“Ho perso il fucile. Devo procurarmi un’altra arma adatta alla mischia…” Si guardò intorno e individuò nel fango un mitra abbandonato dai polacchi. “Venga con me, tenente.”

Si avvicinarono con cautela ai due soldati colpiti: uno giaceva rannicchiato e tremante contro il tronco dell’albero, con una macchia di sangue che gli imbrattava l’uniforme verde oliva; l’altro, che dalle mostrine sembrava un sottufficiale, era raggomitolato per terra e non dava alcun segno di vita.
Quando si accorse della loro presenza, il primo dei due alzò le mani in segno di resa e indicò il commilitone, cercando di far capire loro a gesti che era ferito e bisognoso di assistenza.
Bühler affidò entrambi i prigionieri alle cure dei medici tedeschi e si volse verso il suo aiutante. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma in quel momento una voce conosciuta costrinse entrambi a voltarsi simultaneamente nella stessa direzione.
“Dov’è il maggiore?”
Friedrich allungò il collo e vide il sottotenente Kühn coi capelli arruffati e il volto sporco di fuliggine, che trascinava a spalle un soldato ferito. Distinse soltanto un ciuffo biondo cenere, sporco di sangue rappreso, le braccia che penzolavano inerti e le spalline bianche da ufficiale. Subito fu colto da un cattivo presentimento, e altrettanto rapidamente ne ricevette conferma.
Hans, che doveva esser giunto alla stessa conclusione, andò incontro al giovane ufficiale. “Sottotenente, che cosa è successo?”
“Signor maggiore, il capitano Fromm è ferito!”
“Lo conduca al posto di medicazione,” gli ordinò l’altro. Rimase a guardarlo mentre aiutava due soccorritori, appena giunti sul posto, a caricare il ferito su una barella, poi tornò a rivolgersi al suo compagno. “Von Kleist, le affido il comando della compagnia. Raggiunga il sottotenente Kühn, qui ci penso io.”
Friedrich lanciò uno sguardo apprensivo in direzione del capitano, poi guardò Hans e annuì. “Sissignore.”

Sospinto dal vento del tardo pomeriggio, il fumo si dissipò, rivelando alla vista un campo disseminato di morti, feriti e prigionieri. Con un sospiro, il capitano Bentheim si tolse il berretto e si passò una mano tra i capelli scuri: la cruenta battaglia era terminata, spianando la strada all’inesorabile avanzata dell’esercito tedesco, e anche quel giorno il loro contributo si era rivelato fondamentale. Dal brulicare di figure che intravedeva sul pendio, il giovane dedusse che anche le altre tre compagnie stavano rompendo le righe per rimettersi in marcia. Alle sue spalle poteva sentire gli ordini degli addetti alla logistica che smistavano armamenti e prigionieri, mentre i comandanti di plotone facevano salire le truppe sui camion. Dopo aver sconfitto la fanteria che si erano mossi per intercettare, Konrad aveva deciso di proseguire con l’accerchiamento per impegnare le truppe corazzate su due fronti convergenti: una scelta che aveva costretto i pochi mezzi e la fanteria superstite a una frettolosa ritirata al di là della linea del fronte, prima ancora che l’azzurro del cielo si caricasse di tonalità pastello e il globo evanescente della luna facesse capolino al di sopra del bosco.
Anche se i soldati del battaglione erano di buonumore per la lunga serie di successi di cui si erano resi artefici, lui era uno dei pochi, insieme al maggiore Bühler, a pensare che la vera vittoria – quella definitiva – fosse ancora lontana.

Dopo cena, gli ufficiali avevano preso la consuetudine di attardarsi a gruppetti sulla terrazza della caserma, per chiacchierare e godersi il fresco di quelle sere di fine estate: era l’unico momento della giornata in cui si potevano mettere da parte le formalità e riscoprire i vecchi cameratismi.
Friedrich e Konrad, appena tornati dall’infermeria in cui era ricoverato il capitano Fromm, uscirono alla ricerca dei loro compagni e individuarono la testa castana di Hans, che dava loro le spalle e teneva i gomiti appoggiati alla balaustra, immerso nella contemplazione del paesaggio sottostante. Ai due lati del maggiore, il capitano Walkenhorst e il capitano Schwieger fumavano le loro sigarette e parlavano.
Senza intromettersi nella conversazione, Friedrich si affacciò a guardare nella stessa direzione che catturava l’attenzione del suo compagno: cielo e terra si confondevano in una distesa nero pece, in cui la falce della luna e le stelle sembravano ardere di un lume smorto. A terra, invece, era stranamente buio, come se tutti i lampioni e le luci delle abitazioni fossero spenti. Solo ogni tanto, come un fuoco fatuo, una luce isolata fendeva l’oscurità, per poi scomparire subito dopo dando l’illusione di non essersi mai accesa. Il sordo fragore dell’artiglieria pesante, che operava senza sosta nelle retrovie turbando il silenzio della notte, faceva pensare a un temporale senza pioggia né fulmini.
“Allora, alla fine che ti ha detto von Rauheneck?” chiese Schwieger, rivolto al maggiore.
“Forse non ci crederete, ma è soddisfatto dei risultati che abbiamo riportato sul campo.”
Gli altri lo fissarono con tanto d’occhi; Walkenhorst, incredulo, scoppiò a ridere. “Sul serio?”
Senza scomporsi, Bühler si strinse nelle spalle. “Era a conoscenza di ogni singola fase delle operazioni prima ancora che gliene facessi rapporto. A volte mi chiedo come faccia.”
“Far parte dello Stato Maggiore del comando di Divisione ha i suoi vantaggi, a quanto pare”, osservò Bentheim. “Avrà informatori ovunque.”
Von Kleist sollevò un sopracciglio. “Ma se sapeva già tutto e non aveva da contestarci nulla, perché ti ha tenuto per un’ora nel suo ufficio?”
“Sai com’è,” rispose il maggiore, in tono allusivo. “Parla, parla…” E mentre lo diceva, alzò gli occhi al cielo e mimò il gesto di puntarsi la pistola alla tempia, come faceva sempre quando voleva ironizzare su qualcosa che lo spazientiva. Si voltò per cercare lo sguardo di Friedrich, e quel gesto strappò al giovane un leggero sorriso.
“Guardate il lato positivo, ragazzi,” disse Schwieger dopo un paio di minuti di silenzio, schiacciando nel posacenere il mozzicone ormai esaurito. “Quando avremo finito qui, ce ne torneremo per un po’ a casa dalle nostre famiglie e magari ci berremo una birra tutti insieme, ripensando a questa vittoria come…”
“Non è ancora detta l’ultima parola,” obiettò il maggiore. “Credere nella vittoria non significa averla già in pugno.”
“Sì, certo. Ma se gli uomini trovano nelle parole e negli atti dei loro comandanti una sincera speranza, sono portati a combattere con più ardore.”
“Qui però non siamo nelle SA, a combattere per le strade: non bastano l’ardore o la fiducia nella causa per determinare le sorti di una battaglia, Günther, e lo sai bene.”
“Tu hai mai combattuto per le strade, Hans?” lo punzecchiò Schwieger, veterano delle squadre d’assalto che sfoggiava il distintivo Alte Kämpfer sulla manica destra dell’uniforme. Spense la sigaretta schiacciandola nel posacenere e lo fissò, inarcando le sopracciglia. La conoscenza reciproca, maturata in anni di battibecchi amichevoli quando erano ancora parigrado, lo portava a prendersi un’inusuale confidenza con lui. “A diciannove anni, quando tu andavi alla scuola militare, io ero già una camicia bruna. C’ero anch’io ad Amburgo, ai tempi della Domenica di Sangue: i comunisti uccisero un mio camerata, io sparai a uno di loro per difenderlo e trascorsi i mesi successivi con la paura di beccarmi una pallottola nella schiena mentre tornavo a casa dal lavoro. A quei tempi era la motivazione ad animare le masse popolari: se non ci fosse stata quella, forse adesso non saremmo qui.”
Bühler strinse gli occhi, poi alzò le spalle. “Abbiamo metodi diversi”, concesse, impassibile. “Ma devi riconoscere che, in un esercito, si va poco lontano senza una buona strategia a monte. E soprattutto, senza una visione obiettiva delle cose.”
“E tu devi riconoscere che, se le truppe sono demoralizzate e non credono in ciò per cui combattono, la tua strategia rischia di rivelarsi un colossale buco nell’acqua. Secondo te, Hans, cos’è che rende così forte il nostro esercito?”
“L’ho detto e lo ribadisco: la determinazione degli uomini è importante, ma se gli ufficiali sono degli incompetenti senza spina dorsale che campano di illusioni, l’esercito rischia di diventare un’orda di sbandati.”
Günther rimase in silenzio, per ponderare le parole dell’amico, poi gli poggiò una mano sulla spalla. “Su questo, almeno, ci troviamo d’accordo,” concluse, con un sorriso bonario.

Friedrich, una cartelletta di documenti sottobraccio, si fermò per un istante a guardare fuori dalla finestra: era ormai tarda sera, ma Hans era ancora seduto alla scrivania a firmare e compilare rapporti da inviare al comando di Divisione. Lanciò un’ultima occhiata di sfuggita al piazzale deserto e ai camion parcheggiati lungo il perimetro delle mura, poi bussò alla porta dell’ufficio ed entrò, posando la cartella sulla scrivania.
Bühler alzò appena la testa, senza staccare la penna dal foglio. “Non ti preoccupare, Friedrich, faccio da solo.”
“Figurati, lo faccio volentieri”, replicò l’altro. In qualità di aiutante di campo, assistere il maggiore anche durante le mansioni d’ufficio rientrava nei suoi specifici compiti, e quei momenti erano un’occasione per trascorrere del tempo insieme. Anche se si trattava pur sempre di incombenze lavorative, quando erano da soli potevano gettare le maschere – o meglio, mettere formalmente da parte gradi e gerarchie – e riprendere i loro rapporti di familiare scioltezza.
Hans sollevò un sopracciglio, ma non disse nulla. Diede una rapida scorsa a un altro foglio, vi appose la propria firma e lo mise da parte, riponendolo nell’apposita cartella.
“Naturalmente,” puntualizzò Friedrich con una tiepida risata, “non lo faccio perché mi piaccia sgobbare qua e là per sistemare scartoffie.”
“Se così fosse, probabilmente dovrei sentirmi offeso,” replicò il maggiore, sullo stesso tono. “Ma se vuoi andare a dormire, vai pure. Ne avrò ancora per molto.”
“Anche tu dovrai andare a dormire, prima o poi. Non sei fatto di ferro.”
“Da quando sono qui al fronte, sono abituato a fare le ore piccole per compilare rapporti. Tu, piuttosto, dovresti riposare: adesso spetta a te l’onere di comandare la compagnia di Fromm, e non saranno l’orgoglio o la testardaggine a tenerti sveglio quando sarai troppo stanco.”
Von Kleist non si mosse, determinato a ignorare la provocazione. Rimase in piedi di fronte a lui, immobile, poi fece un passo avanti e batté i palmi delle mani sul piano della scrivania, inducendolo ad alzare lo sguardo. “Sono forse ordini del maggiore?” lo stuzzicò, con un luccichio impertinente negli occhi chiari.
Bühler emise un sospiro sconfitto, scrollò le spalle e gli indicò una sedia nell’angolo vicino alla finestra, di poco discosta dalla scrivania. “Mettiti a sedere, forza.”
Mentre Hans tornava a occuparsi dei documenti, il tenente notò che l’unica significativa aggiunta apportata in quello spartano ufficio era una cartina della Germania – comprese le terre che le erano state sottratte col trattato di Versailles – appesa al muro. Sulla sedia c’era una vecchia copia ingiallita e consunta del romanzo Heinrich von Ofterdingen, che Hans stava probabilmente rileggendo. Friedrich se la poggiò sulle ginocchia, aprendola lì dove Hans aveva lasciato il segno, e gli occhi gli ricaddero su una frase. La lesse ad alta voce: “C’è una sola causa del male – la generale debolezza, e questa debolezza non è altro che ristretta sensibilità morale e mancanza di desiderio per la libertà.”
“Sacrosanto”, osservò il maggiore, firmando l’ennesimo documento per poi metterlo da parte. “Anche se, a queste due cose, aggiungerei la mancanza di senso del dovere.”
Von Kleist richiuse il libro con un tonfo. “Dovere e morale sono inscindibili – o almeno, dovrebbero esserlo,” replicò. “E a essi è soggetta la libertà, che non sta nell’agire seguendo le proprie pulsioni egoistiche, ma nell’adoperarsi per un fine come se fosse un dovere inderogabile: non perché sia frutto di un’imposizione, bensì come un imperativo mosso da volontà e ragione. Questo è il senso di tutto: la legge morale è universale, ma il dovere va interiorizzato.”
“Sai a cosa mi riferisco, Friedrich”, disse Bühler, con un sospiro. Lasciò ricadere la penna, si abbandonò contro lo schienale della sedia e si voltò verso di lui. “Non puoi pretendere di spiegare certe cose a chi non ha la vocazione del soldato. In tempo di guerra esistono solo gli ordini, e tutti – nessuno escluso – sono tenuti a seguirli: ne converrai che, se questa semplicissima massima viene meno, il funzionamento di un reparto rischia di venire compromesso irrimediabilmente.”
Il tenente annuì, scrutandolo con espressione critica: non gli era sfuggita la sfumatura nervosa che distorceva la sua voce, né l’inusuale fretta con cui aveva liquidato quel discorso, che entrava in contraddizione col piacere che entrambi solevano trarre dal parlare di filosofia, politica, arte e cultura. “Se ne renderanno conto prima o poi, volenti o nolenti. Spetta a noi dare loro l’esempio,” gli ricordò in un sussurro, poggiandogli una mano su una spalla.
Con un gesto all’apparenza casuale, noncurante, le mani si sfiorarono in una fugace carezza e i lineamenti del maggiore parvero rilassarsi, mentre le labbra si piegavano in un leggero sorriso. “Meglio prima che poi.”
Forse, rifletté Friedrich, si riferivano a due sfumature di dovere vagamente differenti, seppur tendenti al medesimo fine. Anche Hans ne era senz’altro consapevole, ma in quel momento le sottigliezze di significato passavano in secondo piano.
Rimasero in silenzio per un tempo imprecisato, assorti nei rispettivi pensieri. Hans allungò la mano che teneva poggiata sullo schienale della sedia per accarezzargli i capelli sulla nuca, nel punto in cui erano tagliati più corti, per poi far scorrere le dita tra le ciocche dorate. D’istinto, Friedrich piegò all’indietro la testa e socchiuse gli occhi per meglio assaporare quel contatto.
Quando li riaprì, volgendo verso di lui uno sguardo ardente, colse nelle sue iridi il consueto luccichio di bronzo fuso. Nonostante l’elettricità che li pervadeva, il pensiero costante era non adesso: adesso si dovevano mantenere le distanze, moderare i gesti e le parole, non si doveva compromettere nulla per un capriccio personale. Tutto, perfino i loro sentimenti, era subordinato all’obiettivo finale.
Fuori si iniziava già a udire lo scalpiccio degli ufficiali che si dirigevano verso i loro alloggi, ogni tanto una voce o una risata sommessa. Friedrich gettò uno sguardo all’orologio appeso alla parete, sospirò e fece per alzarsi. “Sarà meglio che vada, si sta facendo tardi,” disse, riprendendo la solita attitudine marziale. Si rimise il berretto, poi si fermò di fronte alla scrivania del maggiore e guardò ancora una volta i fogli sparpagliati. “E se fossi in te, riposerei almeno un paio d’ore. Ricorda che anche domani ci aspetta un’altra giornata di marce forzate.”
Hans annuì. “Grazie per avermi fatto compagnia, Friedrich. Va’ pure a dormire, e non preoccuparti per me: il tempo di smaltire le comunicazioni importanti, poi andrò a letto anch’io.”
Entrambi sapevano che non era vero, ma nessuno dei due proferì parola a riguardo. Si salutarono senza smancerie, dandosi appuntamento per il giorno successivo.

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Capitolo 12
*** Capitolo X ~ Der Kampf geht weiter in diesem Krieg... ***



X.
Der Kampf geht weiter in diesem Krieg...

 

Qualche giorno dopo

La bandiera di guerra del Reich – un drappo color sangue attraversato dai quattro bracci di una croce, con una croce patente nera e una svastica in campo bianco al centro – sventolava sul piazzale del castello del borgo, stagliandosi contro il cielo lattiginoso dell’alba.
Una piccola fanfara suonò le note di apertura della Königgrätzer Marsch mentre il generale e i comandanti di reggimento passavano in rassegna i battaglioni allineati all’ombra dei bastioni in pietra rossa; alle loro spalle, ieratici alfieri reggevano lo stendardo della fanteria e quello della Divisione.
Gli ufficiali erano alla testa delle rispettive unità, con gli elmetti d’acciaio e le sciabole cerimoniali che pendevano dal fianco.
“Soldati!” esordì il tenente generale von Salza, in tono solenne, fermandosi proprio ai piedi del vessillo inastato. “Questa non è che la prima fase di una lunga guerra, ma in soli dieci giorni siamo riusciti a forzare la linea della Vistola e giungere alle porte di Varsavia, come avanguardia dell’intero esercito. Questo non sarebbe stato possibile senza di voi, perché ognuno di voi” – e, nel porre enfasi su quelle parole, percorse l’intera schiera col suo acuto sguardo chiaro – “ha contribuito, nel suo piccolo, al successo di questa impresa. Siamo giunti fin qui, armati di coraggio, abnegazione, spirito di cameratismo e speranza, e i risultati sono stati a dir poco eccellenti.” Con passo marziale, fece un breve giro avanti e indietro, guardando ad uno ad uno gli ufficiali della divisione, dai fedelissimi del suo Stato Maggiore al più umile comandante di plotone. Quando, per un istante, gli occhi blu del generale si fissarono nei suoi, Erich Kühn sentì un brivido percorrergli la spina dorsale. “Pertanto, allo snodo di questo passaggio cruciale, ritengo giusto premiare coloro che, attraverso le loro gesta e i loro consigli, hanno saputo guidare le loro truppe e condurle alla vittoria, affinché la loro condotta possa fungere da esempio per tutti gli altri.”
A quelle parole, la tensione si fece quasi spasmodica, ma nessuno osò rompere il silenzio carico di aspettativa che il discorso del generale aveva fatto piombare tra gli astanti.
Una voce tonante iniziò a declamare una lunga lista di nomi di ufficiali, sottufficiali, graduati, perfino militari di truppa dei vari battaglioni che per un motivo o per l’altro si erano distinti sul campo di battaglia. A ciascuno di loro, il tenente generale Erwin von Salza consegnava personalmente le onorificenze e rivolgeva qualche parola di incoraggiamento. Erich notò che riservava a tutti lo stesso trattamento, indipendentemente dal grado.
Gli ufficiali del terzo battaglione assistevano impassibili alla cerimonia, qualcuno dondolava nervosamente la testa qua e là o spostava il peso del corpo da un piede all’altro.
Quando il generale si avvicinò alla loro schiera, il sottotenente trattenne il respiro.
“Maggiore Hans Christoph Bühler, comandante del terzo battaglione…”
L’interpellato si fece avanti con passo marziale, salutò militarmente e rimase immobile mentre il generale gli applicava la croce di ferro di seconda classe sul taschino sinistro dell’uniforme. Quando Erich l’aveva visto per la prima volta, alla caserma del Reggimento di Potsdam, aveva faticato a credere che quel giovane uomo coi lineamenti da ragazzo fosse il suo comandante di battaglione, ma poi si era ritrovato a combattere ai suoi ordini e ne aveva ricavato un’impressione positiva.
Von Salza si congratulò con lui e Bühler indietreggiò di un passo, rimanendo però alla testa della schiera. Di tanto in tanto spostava lo sguardo dal generale ai subalterni, come se già immaginasse, in base ai rapporti da lui compilati, chi fossero gli altri destinatari dell’onorificenza. Von Kleist, nella sua nuova veste di comandante di compagnia, manteneva un’aria all’apparenza distaccata; Erich si sentiva pervaso da una strana aspettativa, come una sincera speranza che tra quei nomi ci fosse anche il suo.
“Capitano Konrad Wilhelm von Bentheim und Steinfurt, comandante della prima compagnia…”
Erich lo guardò mentre si faceva avanti, col suo solito incedere solenne, e veniva decorato dal generale: non si meravigliò del fatto che ci fosse anche lui tra i nominati, visto il gran parlare che si faceva delle sue gesta.
“Capitano Friedrich Hartwig von Kleist, comandante della seconda compagnia…”
Il giovane, passato al comando della compagnia in seguito al ferimento del capitano Fromm e successivamente promosso per avanzamento di grado, avanzò di un passo e ricevette la croce di ferro.
Dopo di lui, furono premiati un’altra mezza dozzina di ufficiali tra capitani, tenenti e sottotenenti, poi von Salza si voltò verso di lui, provocandogli un sussulto involontario. “Sottotenente Erich Kühn.”
Lì per lì, udire il proprio nome in quel contesto provocò al giovane ufficiale un leggero brivido, ma gli sguardi del comandante di divisione e del maggiore, puntati su di lui, lo trasformarono in un brivido di stupore. Con un cenno del capo, il capitano von Kleist lo spinse a fare un passo avanti e mettersi sull’attenti.
Erich cercò di mantenere la posizione mentre l’anziano generale gli si avvicinava e gli avvolgeva il nastro nero, bianco e rosso intorno all’occhiello per poi appuntargli la croce di ferro di seconda classe sul taschino, ma il cuore aveva preso a galoppargli all’impazzata nel petto e, forse, le guance gli si erano tinte di rosso per l’emozione.
Von Salza, tuttavia, non diede segno di essersene accorto. “Congratulazioni, sottotenente”, disse imperturbabile, stringendogli con forza la mano e dispensandogli una leggera pacca sulla spalla.
Passò poi oltre, premiando altri soldati, mentre il ragazzo faceva di nuovo dietrofront con le labbra involontariamente piegate all’insù. Non fece nemmeno caso alle occhiate torve che qualcuno doveva avergli scoccato: era felice che il suo impegno fosse stato riconosciuto all’unanimità dai suoi superiori.
“Tuttavia,” riprese il generale, terminata la premiazione, “è proprio adesso che ci lasciamo alle spalle la prima fase della guerra lampo. Non siamo che una piccola parte dell’intera armata, coloro che più di tutti dovranno dimostrarsi degni di questo impareggiabile onore. Ricordate: l’onorificenza che vi è stata conferita oggi non è un premio, ma la giusta ricompensa per il servigio reso alla vostra Patria – un invito e un’esortazione a fare del vostro meglio, spingendo i vostri soldati a far altrettanto. Adesso giunge la fase più ardua della guerra, l’assalto diretto alla capitale. Andate in battaglia, e date il meglio di voi!”

Un venticello leggero increspava le fronde, trasportando le prime foglie secche che si depositavano per terra e scrocchiavano sotto le suole chiodate degli stivali. Dopo i progressi della mattinata, il battaglione si concedeva una piccola pausa prima di rimettersi in marcia, ma i tuoni sordi dell’artiglieria che permeavano l’atmosfera non contribuivano a distoglierli neanche per un istante dalla realtà contingente.
Seduti all’ombra di un albero, il capitano Bentheim e il capitano von Kleist consumavano il rancio, tenendosi in disparte mentre osservavano i soldati: alcuni erano seduti per terra con la gavetta poggiata in grembo, altri erano ancora in fila davanti alla marmitta da campo in attesa di ricevere la loro razione, altri ancora fumavano o scrivevano lettere alla famiglia. Tra gli ultimi, Friedrich scorse anche il sottotenente Kühn, chino sul foglio con le maniche rimboccate fino al gomito, che con una mano teneva la penna e con l’altra accarezzava la poderosa testa di Otto, il cane-soldato del plotone.
Da lontano si udiva la voce del capitano Schwieger, che arringava i suoi sottoposti come se stesse facendo un comizio di Partito: sotto l’uniforme da ufficiale della Wehrmacht, il suo collega conservava metodi da camicia bruna, ma sapeva risultare convincente e dare coraggio ai suoi uomini, e il suo carattere affabile, gioviale e sempre pronto allo scherzo gli aveva fatto conquistare la fiducia anche dei veterani e degli ufficiali più conservatori.
Von Kleist posò il piatto ormai vuoto e allungò le gambe. “Chissà per quanto ne avranno ancora,” disse. Stavano aspettando il maggiore e gli altri comandanti di compagnia per discutere delle mosse da fare nel pomeriggio, ma gli unici ad essersi presentati nel luogo concordato per l’incontro erano proprio loro due. “Walkenhorst l’hai visto?”
“Eravamo insieme durante le manovre, ma poi l’ho perso di vista,” rispose Bentheim. “E Hans dov’è?”
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Prova a indovinare.”
“Guarda caso, mi pare di aver intravisto von Rauheneck da qualche parte.” Konrad sollevò un sopracciglio. “Non è che l’ha di nuovo… preso in ostaggio?”
Stringendosi nelle spalle, von Kleist annuì. “Non lo lascia in pace.”
“Evidentemente l’ha preso in simpatia.”
Quelle parole provocarono una leggera risata a entrambi, poi Friedrich tacque di nuovo, assorto nelle proprie meditazioni. “Al di là di tutto, abbiamo dimostrato di essere una buona squadra, anche se Hans è partito con mille riserve.” Il pensiero gli dipinse sul volto un sorriso, che quando i loro sguardi s’incontrarono fu alterato da una piega beffarda. “E poi ci sei tu, coi buoni vecchi metodi da burocrate prussiano.”
Konrad ghignò a quell’allusione. “Hai mai visto un burocrate prussiano distruggere un carro armato?”
“E tu hai mai visto un ufficiale della Wehrmacht distruggere un carro armato e fare rapporto della propria brillante azione con un tono così compassato da far pensare che stesse parlando delle condizioni atmosferiche?”
L’altro scosse la testa, stando al gioco. “Leggenda narra che i capelli del colonnello siano diventati bianchi dopo che tu sei entrato a far parte del suo Reggimento…”
“Io direi che invece è stato lui a rischiare di farli diventare bianchi a me, con tutte le volte che mi ha mandato nei magazzini a fare l’inventario o a sistemare documenti nell’archivio.”
“La Patria si serve anche facendo la guardia a un bidone di benzina, Fritz.”
Friedrich scrollò le spalle. “Certo, ma se il massimo della mia aspirazione fosse stato quello di rimanere nelle retrovie mentre gli altri combattevano per me, probabilmente mi sarei risparmiato molti sacrifici… e non sarei qui.”
“Vedila così,” fu la laconica replica dell’altro, “è anche grazie al contributo di chi sta nelle retrovie se noi ufficiali e combattenti di prima linea possiamo fare quello che facciamo ogni giorno.”
Von Kleist emise un sospiro sconfitto, sapendo che il suo amico non avrebbe desistito fino a quando lui non gli avrebbe dato ragione. E in parte – riconobbe – aveva ragione, anche se stavano analizzando la stessa questione da due prospettive diverse: una più idealistica e l’altra più pragmatica. “Sei poi andato a trovare Fromm?”
“Giusto stamattina”, rispose Bentheim. “Mi sono trattenuto un po’ al suo capezzale, gli ho portato un giornale, abbiamo parlato di quello che accade in Germania… poi il capitano medico mi ha fatto gentilmente capire che era ora di lasciarlo lavorare in pace.”
“Stasera penso che andrò a trovarlo anch’io, visto che ci tiene a sapere come si stanno comportando i soldati della compagnia.”
“Probabilmente nei prossimi giorni lo trasferiranno in un ospedale delle retrovie e poi lo rimanderanno in Germania per la convalescenza… credo che per lui questa campagna sia ormai finita qui.”
Friedrich abbassò la voce. “Dovrò dargli anche delle notizie poco piacevoli: quando saprà i nomi di coloro che sono morti ieri… aveva investito molto in quei ragazzi, ma non ha fatto in tempo a trasmettergli i suoi insegnamenti.”
“Quando la pallottola parte, non sai mai se è destinata a te o a qualcun altro: spesso è il puro caso a determinare la tua sorte.” Konrad aveva pronunciato quel pensiero ad alta voce, ma l’altro sembrò comprendere subito a cosa si riferiva.
Una foglia si staccò dal ramo, volteggiò pigramente di fronte a loro e si posò ai loro piedi, come un’allegoria della morte. Con l’unica differenza che, mentre la silenziosa caduta di una foglia suggeriva impressioni malinconiche, la morte di un soldato era spesso violenta, accompagnata da spari e urla, o preceduta da una dolorosa agonia. Entrambi ne erano stati diretti testimoni, ed entrambi erano dovuti scendere a patti con quella realtà.
“Cambiando discorso…” riprese Friedrich, per distogliere la mente da quelle considerazioni, “non te l’ho più chiesto, ci sono notizie di Reinhardt?”
“Mi ha scritto giusto ieri. Non dovrebbe essere tanto lontano: probabilmente nei prossimi giorni ci rivedremo.”

La sala di scherma, un immenso locale decorato con semicolonne marmoree e affreschi che raffiguravano le varie discipline dei Giochi di Olimpia, era gremita di aspiranti ufficiali in tenuta bianca da allenamento. Il diciannovenne cadetto Bentheim si sedette su una delle panche e si passò una mano tra i capelli sudati, continuando a osservare i ragazzi che si scambiavano colpi di fioretto. Tra essi, cercò con lo sguardo il suo amico Reinhardt, che doveva aver appena terminato il suo incontro, e lo individuò mentre gli si avvicinava con la maschera sotto il braccio e le labbra increspate da un sorriso. Prima ancora di ricevere conferma da parte sua, gli lesse in volto l’entusiasmo per la vittoria.
“Com’è andata, allora?” gli chiese l’altro.
Egli scrollò le spalle con sobrietà. “Punteggio massimo.”
Non si vantava volentieri dei suoi successi, né cercava stima o gratificazione dai suoi pari, ma non aveva ancora terminato la frase che Reinhardt gli gettò le braccia al collo e lo strinse in un abbraccio caloroso. “Me lo sentivo!” esclamò, gli occhi celesti accesi da un guizzo. “Di questo passo vinceremo anche la prossima gara!”
Konrad lo ricambiò con un tiepido sorriso, quando la sua attenzione fu catturata da un paio di cadetti della squadra avversaria che, tenendoli a debita distanza, scoccavano occhiate furtive nella loro direzione. Aggrottò le sopracciglia e diede loro le spalle, deciso a lasciare la sala, ma Reinhardt lo afferrò per una manica e, con ostentata noncuranza, gli indicò uno degli affreschi in cui erano raffigurati due atleti greci che praticavano il pancrazio. Konrad, che col tempo aveva imparato a riconoscere i suoi muti segnali, gli resse il gioco e tese l’orecchio.
“E così, saremo di nuovo contro la squadra di quel damerino”, stava dicendo Reiting, con voce carica di malcelato disprezzo. “Mi chiedo sempre per quale motivo abbia scelto di fare il soldatino, quando potrebbe tranquillamente vivere di rendita alle spalle della sua famiglia.”
“Mi sembra ovvio”, replicò un suo compagno, “vuole mettersi in mostra, far vedere quanto è bravo in tutto ciò che fa.”
Konrad smise di ascoltare, determinato a lasciarsi scivolare addosso ogni insinuazione. Non gli importava di quello che gli altri pensavano di lui, a patto che non minasse la sua integrità. Tuttavia, percepiva la tensione, a stento trattenuta, che irrigidiva la postura del suo amico, e sapeva che, se quei due si fossero permessi di insultarlo a viso aperto, Reinhardt sarebbe intervenuto senza indugio in sua difesa. Sapeva quanto fosse impulsivo quando si trattava di proteggere qualcuno – non solo lui – se lo riteneva vittima di un’ingiustizia, ma voleva evitare che si scagliasse addosso a loro com’era successo durante l’ultima libera uscita. Comprese comunque che si stava trattenendo solo perché si trovavano in presenza di altri cadetti, e non perché lui gli aveva chiesto espressamente di non dar loro corda.
“Principe von Bentheim und Steinfurt”, soffiò Reiting, a denti stretti.
I due si voltarono e si trovarono di fronte l’espressione tronfia dell’aspirante ufficiale, gli occhi ridotti a due fessure.
“Credo di averti ripetuto almeno un centinaio di volte che voglio essere chiamato soltanto Bentheim”, ringhiò Konrad in tono gelido.
Reiting si limitò a restituirgli un’occhiata velenosa, senza degnare Reinhardt di uno sguardo; poi, richiamato dal suo compagno, girò i tacchi con un movimento rigido e si dileguò.
Bentheim, impassibile, raccolse la maschera e il fioretto senza commentare l’accaduto, che riteneva di triviale importanza, mentre il suo compagno fremeva di rabbia.
“Non possono permettersi di trattarti così. Chi si credono di essere?”
“Se pensano che le loro parole possano avere un qualche effetto su di me, si sbagliano di grosso.” Senza attendere risposta, Konrad si avviò lungo i corridoi seguito dall’amico. “Io so quello che faccio e perché lo faccio, e lo sai anche tu.” Reinhardt era forse l’unico, insieme a Friedrich, che lo conoscesse veramente, al di là delle convenzioni sociali e dell’addestramento.
“Tu sai bene che non è vero, è per questo che mi fanno arrabbiare”, dichiarò l’altro, roteando il fioretto, dopo un breve silenzio.
“Cosa?”
“Quello che dicono. Tu non sei come loro, non lo sei mai stato… e vedi di non diventarlo mai.”

“Konrad?”
La voce di Friedrich lo distolse dai suoi ricordi, indicando una porzione di cielo invasa da due squadriglie di caccia che si affrontavano compiendo ardite acrobazie. Da quella distanza, i P.11 si distinguevano dai loro rivali tedeschi per la struttura più robusta e la forma delle ali, alte e arcuate come quelle di giganteschi gabbiani color verde oliva.
Uno degli aerei polacchi si mise in coda a un Messerschmitt; prontamente, l’altro guizzò via, sfruttando la sua maggiore velocità per sottrarsi al tiro, quindi richiamò fulmineo scaricandogli addosso una raffica di traccianti. Dilaniato dai proiettili, il P.11 terminò il suo volo in un lampo di luce abbagliante, per poi precipitare in vite venendo accolto dalle patrie campagne. L’aereo tedesco, costretto a un atterraggio di fortuna, scomparve oltre i rilievi ondulati lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Pur privata del suo capopattuglia, la formazione tedesca inseguì i caccia polacchi fino a che, come puntini lontani, non furono inghiottiti dalle basse nubi.
Quella vista rammentò a Friedrich suo fratello Manfred, asso della guerra civile spagnola, e si chiese dove si trovasse, dato che non riceveva sue notizie da giorni.
Ma la guerra andava avanti e non si poteva guardare indietro.

La colonna si fermò nei pressi di un castello in rovina, dove erano già stazionati altri camion tedeschi carichi di soldati e armamenti; sul terrapieno alle spalle della fortezza erano già stati sistemati dei pezzi d’artiglieria da campagna.
Gli ufficiali scesero ordinatamente dai veicoli e si riunirono all’ombra delle mura diroccate, incorniciate da una fitta schiera di alberi selvatici: Friedrich non ne conosceva la storia, ma gli parve un luogo ameno, quasi romantico, che riportava alla mente leggende dimenticate e si ergeva come un baluardo inviolato in mezzo all’oceano di devastazione. Un albero robusto, rinsecchito dall’autunno, troneggiava come una solitaria sentinella su quello che restava di una torre.
Hans si avvicinò ai mattoni consunti, di un rosso ormai sbiadito e venato di muschio, e in tono grave declamò: “Dove sono gli ultimi castelli che non sono ancora stati conquistati? Dov’è che il vento canta le vecchie canzoni che non si sono ancora perse nel silenzio?”
Riconoscendo i versi, von Kleist rispose: “Dove sono coloro che ci ascoltano? Dove sono coloro che ci capiscono, che insieme a noi, nell’augurarsi l’antica felicità, intraprendono nuove strade?”
L’altro sfiorò le vecchie pietre con le dita. “Chi, se non noi? Dove, se non qui? E quando, se non adesso?”
Friedrich emise un sospiro, ma non replicò, e quel breve scambio di battute cadde così com’era iniziato.
Il maggiore si allontanò di qualche passo, le braccia dietro la schiena, volgendosi verso l’orlo del precipizio che dava sulla pianura. Frugò nella tasca dell’uniforme, trasse una sigaretta dall’astuccio di metallo e se l’accese con un fiammifero. Per un paio di minuti fumò in silenzio, senza degnare il compagno di uno sguardo, come se quel gesto lo aiutasse in qualche modo a dissipare la tensione che lo avvolgeva.
“C’è qualcosa che ti preoccupa?” gli chiese a bassa voce il capitano, senza lasciarsi frenare dal suo contegno schivo.
“Se ci sono davvero quattro divisioni bloccate su questo fronte e si è reso necessario l’intervento di tutta la Ostpreußen, la situazione deve essere parecchio problematica”, rispose l’altro. “Ci hanno richiamati quando ormai eravamo praticamente arrivati alle porte di Varsavia…”
Von Kleist ponderò le parole prima di rispondere, ma in quel momento sopraggiunse l’aiutante di campo del comandante di reggimento, un capitano sui trent’anni che ne dimostrava almeno quaranta, con gli occhiali spessi e l’aria da contabile. Dopo i saluti di rito, guardò Bühler con sussiego e scandì: “Signor maggiore, il colonnello Wolff richiede la sua presenza.”
Hans, ripreso il solito contegno formale, si congedò frettolosamente, e Friedrich lo guardò allontanarsi per raggiungere gli altri ufficiali superiori, tutti riuniti intorno al generale von Salza che quella mattina si era messo in marcia insieme a loro.

Di nuovo solo, il capitano si guardò intorno alla ricerca di un varco praticabile, lo individuò e si arrampicò sulle rovine per meglio scrutare il paesaggio: ai suoi occhi si profilò il grigiore di un’ampia distesa paludosa, animata da un brulicare di scontri cruenti. La pianura era tagliata dal corso irregolare di un fiume le cui acque verdastre assumevano una tonalità ancora più cupa sotto il cielo plumbeo; qua e là si scorgevano le macchie scure di qualche foresta e agglomerati di case che offrivano copertura a contingenti di soldati.
Trasse la mappa dal portadocumenti che portava in cintura e la dispiegò sul piano di un muro crollato, sfruttando la sua conoscenza basilare della lingua polacca per cercare di leggere le indicazioni: la sua era rimasta bruciata durante un’esplosione e si era dovuto arrangiare prendendo quella di un ufficiale prigioniero. Osservando lo scenario della battaglia, annotò le informazioni necessarie.
Grandi reparti si scontravano in grovigli confusi; Panzer e mortai bombardavano senza sosta la città vicina, mentre le facciate dei palazzi crollavano come castelli di cartone. C’erano almeno cinque divisioni di fanteria e due corazzate della Wehrmacht, mentre al fianco della fanteria polacca erano state schierate brigate di cavalleria e carri armati. La battaglia, che doveva imperversare da giorni, aveva lasciato sul campo decine di carcasse di mezzi pesanti: solo i feriti venivano portati subito via, indipendentemente dal colore dell’uniforme che indossavano.
A un certo punto, un rumore di passi che affondavano nell’erba alta lo indusse a voltarsi di scatto, portando d’istinto la mano alla fondina della pistola. Di fronte a lui si profilò la figura ben piantata del giovane Erich Kühn, coi capelli leggermente arruffati e l’elmetto appeso alla cintura, che accennò un saluto militare mentre il cane del plotone, che ormai l’aveva preso in simpatia, lo seguiva come un’ombra.
“Sottotenente,” lo accolse von Kleist in tono asciutto, per poi tornare a scrutare il paesaggio.
Dopo una breve pausa, il ragazzo chiese: “Come ha detto che si chiama questo posto, signor capitano?”
“Łowicz.”
Kühn strabuzzò gli occhi. “Come?”
“Lowitsch,” tradusse il capitano, in un più familiare tedesco. Indicò il nastro d’acqua limacciosa, che assumeva sinistre iridescenze sotto la luce di un sole smorto. “E quello è il fiume Bzura.”
Il sottotenente guardò a sua volta la mappa e provò a decifrarla, pur non comprendendo una parola di polacco. “Ma… non immaginavo che ci fossimo allontanati così tanto da Varsavia. Sono parecchi chilometri!”
“Ordini dell’alto comando del gruppo d’armate”, rispose Friedrich. “Quest’area era già in mano al nostro esercito, ma la controffensiva nemica ha costretto i comandanti di divisione a richiamarci.”
Mentre parlava, un’unità di ulani caricò con ferocia contro i fianchi della fanteria tedesca, penetrando a fondo nei suoi ranghi nonostante la schiacciante inferiorità numerica. Molti cavalieri si scontrarono col piombo dei cannoni e ricaddero all’indietro nel fango, ma i superstiti continuarono imperterriti a sfidare il fuoco di sbarramento, falciando i nemici con sciabole e pallottole di fucili. Il ragazzo più giovane strinse le labbra con aria vagamente turbata. “Stanno perdendo un sacco di uomini, ma non demordono.”
“Fanno soltanto il loro dovere, proprio come noi.” Friedrich alzò lo sguardo su di lui. “Non farebbe lo stesso per difendere il suo popolo, se un esercito nemico marciasse su Berlino?”
Kühn sembrò sul punto di esprimere le proprie riflessioni ad alta voce, ma alla fine si limitò soltanto ad assentire. “È così, signore.”
Il capitano tornò a rivolgere l’attenzione a quello che doveva essere il piazzale del castello e vide che il capannello di ufficiali superiori si stava disperdendo. “È meglio se scendiamo, sottotenente,” disse, facendogli strada, “venga, ho trovato una scorciatoia.”

Il capitano von Kleist rimase a guardare la compagnia che si schierava secondo i suoi ordini: vide facce accese dalla speranza, tese dall’incertezza o distorte dalla paura, che lo fissavano come attendendosi da lui qualche parola d’incoraggiamento. Tra di esse individuò il volto del sottotenente Kühn, con le guance colorite e un luccichio di baldanza nello sguardo azzurro, che sembrava impaziente di entrare in azione. Con le spalle dritte, il mitra che gli pendeva dalla spalla, sembrava ancora più alto.
Accanto a lui vide il sottotenente Hartmann, che quando si accorse della sua presenza schiacciò sotto lo stivale la sigaretta che stava fumando e assunse una posa marziale, il tenente Wessel con le braccia incrociate, saldo come una roccia, e il tenente Körner, la cui usuale insicurezza aveva ceduto il posto a un’insolita gravità.
Di fronte a loro c’era la battaglia più ardua e più cruenta che avessero mai combattuto, al cospetto della quale gli scontri precedenti sembravano semplici scaramucce. Dietro di loro, le decine di commilitoni morti, i feriti e i prigionieri dei giorni precedenti, che avevano drasticamente ridotto il numero di effettivi dei vari reparti.
Finiti i tempi dei duelli cavallereschi e delle illusioni romantiche, giunge l’età della miseria, della decadenza e delle rovine.
L’unica cosa che si poteva fare era adoperarsi affinché dopo le tenebre sorgesse un nuovo sole.

Hans balzò giù dalla Kübelwagen prima ancora che il motore si spegnesse, spinto dall’urgenza.
Schmidt, che l’aveva traghettato fin lì lungo una strada impervia ma relativamente sicura, emise un rumoroso sospiro. Scese a sua volta dalla macchina, si accese una sigaretta schermandola con la mano e rimase a fissarlo con una faccia da cerbiatto inebetito, in attesa di un ordine. “Si tenga a disposizione, caporale,” gli disse l’ufficiale in tono sbrigativo, “non dovrei metterci molto.”
“Sissignore.”
Quando Bühler gli ebbe voltato le spalle, il graduato scosse la testa con vigore ed espulse una generosa boccata di fumo. Rammentò ancora una volta la corsa folle sotto il tiro dell’artiglieria e si chiese come facesse, quel ragazzo, a mostrarsi impassibile anche in situazioni simili. Quel ragazzo doveva avere almeno quindici anni meno di lui, se era vero ciò che si diceva sul suo conto, eppure sembrava che considerasse la propria incolumità come una questione di secondaria importanza. Si chiese se fosse fidanzato, o magari già sposato e padre di figli, ma alla fine decise che forse sarebbe stato meglio non conoscere la risposta.
“Dov’è il comandante di compagnia?” stava chiedendo intanto il maggiore, rivolto a un gruppo di soldati delle retrovie, che alzarono la testa all’unisono e scattarono sull’attenti.
Uno di loro indicò un ufficiale biondo, dalla corporatura snella e atletica, intento a dare ordini a un ragazzo che lo superava in altezza di parecchie dita. “Il capitano von Kleist stava giusto chiedendo di lei, signor maggiore.”

Von Kleist congedò il soldato Schreiber e inforcò il binocolo: dietro la copertura di un casolare, un gruppo di soldati in grigioverde stava armando un mortaio pesante; poco distante, nel settore occupato dalla compagnia di Walkenhorst, un 7TP solitario si lanciò a gran velocità tra le schiere di fanti tedeschi, costringendoli a buttarsi a terra in copertura per evitare le raffiche di mitragliatrice. Un folto gruppo di Panzer stava per fare il suo ingresso nei quartieri periferici della città, mentre la fanteria polacca arretrava sempre più verso l’interno, in quella che sembrava una strenua difesa delle ultime postazioni.
I reparti del capitano Bentheim e del capitano Schwieger erano sotto attacco da parte della cavalleria, ma sembravano mantenere un netto vantaggio.
Anche la sua compagnia, però, aveva fatto significativi progressi, e quel momentaneo stallo derivava sicuramente da una manovra consapevole dei comandanti avversari, per ricomporre le loro truppe e tentare un contrattacco quando meno se lo aspettavano.
“Von Kleist!”
“Signor maggiore.”
“Riposo, capitano,” disse Hans, senza che il giovane accennasse minimamente a mettersi sull’attenti. “Sono venuto a vedere come stavano le cose.”
“Tutto sotto controllo, signore,” lo rassicurò il capitano.
Bühler si guardò intorno, indugiando sui soldati fermi nelle loro posizioni, che avevano preso posto in trincee abbandonate – chi col fucile puntato, chi con un mitra e chi col nastro della MG 34 già inserito – poi annuì. Gli chiese di informarlo dei progressi dell’avanzata, ma non aveva ancora finito di parlare quando un lungo fischio stridulo si sovrappose alla sua voce. Un proiettile d’artiglieria impattò tra le prime file ed esplose con un sonoro boato, sollevando una fontana di terra e sassolini.
“Tutti in copertura!” ordinò il capitano.
Hans e Friedrich si appiattirono spalla contro spalla contro il solco della trincea, alcuni soldati corsero al riparo prorompendo in grida concitate, mentre una pioggia di fischi ed esplosioni, simili a meteore cadute dal cielo, irrompeva per turbare quella situazione di apparente calma.
“Mortai leggeri,” osservò von Kleist dopo un po’, alzando la testa per individuare la traiettoria dei proiettili. Si voltò poi verso il maggiore, che gli rivolse un tacito sguardo d’intesa.
“Copertura!” ripeté Hans, a voce più alta. “Ci attaccano alle spalle!”
“Stanno aggiustando il tiro… non so cosa abbiano in mente, ma…”
In quel preciso istante, una detonazione più forte delle altre fece vibrare l’aria, mentre un ordigno si schiantava al suolo col fragore di un terremoto. Un rombo assordante sembrò risucchiare ogni altro rumore, poi la terra eruttò una violenta ondata di schegge, detriti e scintille.
Friedrich si sentì sollevare e scaraventare a peso morto diversi metri più avanti, mentre intorno a lui continuava a scatenarsi il pandemonio. La sua schiena urtò contro qualcosa di duro, una secca stilettata di dolore sembrò attraversarlo da parte a parte, e per un tempo indefinito giacque ansimando contro la superficie che aveva arrestato la sua caduta, con la vista che gli sfarfallava e la cacofonia che gli perforava i timpani.
“Signor capitano!” chiamò una voce, tra i colpi di tosse.
Von Kleist, ancora leggermente frastornato dall’impatto, il cuore che gli martellava violento nel petto, constatò quasi con sollievo di essere ancora tutto intero. Aveva preso un brutto colpo alla schiena e la sua bustina era volata chissà dove, ma in compenso riuscì a rialzarsi senza fatica.
L’interruzione del bombardamento aveva lasciato spazio a una quiete spettrale, sospesa.
“Sono qui!” rispose, ripulendosi i capelli e l’uniforme dalla sporcizia.
Mentre si avvicinava, sbatté le palpebre per mettere a fuoco la visuale e, tra le folate di fumo nero e denso, scorse alcune figure che tentavano di tirarsi su. Un soldato stava trascinando via un commilitone per le braccia, uno si allontanò zoppicando e un altro ancora lanciò un grido straziante. Una quinta figura, piegata in due dai colpi di tosse, si rialzò e si avvicinò con cautela al ferito.
Friedrich, riconoscendolo, mosse qualche passo nella sua direzione, e Hans levò lo sguardo su di lui: sul volto pallido, sporco di fuliggine, era comparsa un’espressione contrita. Riservò un’ultima occhiata al soldato che giaceva riverso per terra, immobile, poi scosse la testa. “Poveraccio.”
“Già,” mormorò il capitano.
Bühler si alzò in piedi e si passò una mano sulla giubba dell’uniforme. “Tutto bene, capitano?” chiese.
“Sì, signor maggiore. E lei?”
“Non si preoccupi per me,” rispose l’altro, senza mezzi termini. “Siamo troppo esposti all’artiglieria nemica. Dobbiamo andarcene da qui ed evitare l’accerchiamento, altrimenti sarà una carneficina.”
Friedrich annuì, cercando di riprendere il controllo della situazione. “Non c’è problema, ci penso io.”
“Resto qui con lei”, dichiarò con risolutezza l’altro.

I tonfi dei mortai continuavano a rimbombare, scuotendo la terra fin nelle fondamenta.
Dietro la copertura di un casolare abbandonato, i fucili stretti al petto, un gruppo di soldati attendeva che l’immane terremoto cessasse. Un ragazzo che non doveva avere più di diciott’anni si aggrappò alla giubba di un commilitone più anziano e nascose il viso nella sua spalla, forse per soffocare un singhiozzo; il maresciallo Eichmann borbottò qualcosa a mezza bocca, ma le sue parole si persero tra i cupi ululati dell’artiglieria. Da qualche parte, vicino a loro, un muro crollò sotto l’impeto dei grossi calibri.
Come di riflesso, il capitano von Kleist strinse più forte la pistola. Il maggiore era seduto accanto a lui, immobile come una statua e i sensi in allerta, ma Friedrich lo sentì irrigidire i muscoli delle braccia.
“A questo punto, quelli del plotone comunicazioni dovrebbero essere riusciti a far pervenire il messaggio”, disse, poco convinto.
“Lo sapremo tra poco, quando l’artiglieria entrerà in azione per neutralizzare i mortai…” Hans abbassò la voce, poi si accostò al suo orecchio e a voce bassa soggiunse: “Sempre se lo farà.”
Friedrich si limitò a incassare la testa tra le spalle, intrappolato in quell’attimo di angosciosa eternità.

Una giovane recluta raggiunse di corsa il maggiore, si irrigidì sull’attenti e salutò militarmente. “Signore, il colonnello Wolff la convoca al comando di reggimento!”
Bühler, che tutto si aspettava tranne una comunicazione simile, lo fissò per un istante a occhi sgranati. “Ha reso noto il motivo, soldato?”
“Nossignore”, rispose il ragazzo. “Questioni urgenti, signore.”
“Dove si trova adesso?”
“Nel quartiere est.”
Hans annuì con l’aria di trovarsi di fronte a una necessità ineluttabile. “Sarò lì a breve.”
Tendendo l’orecchio, notò che i colpi di mortaio erano sempre più lenti e smorzati, come quando la grandine si diradava fino a trasformarsi in pioggia; ad ogni modo, l’intervento dell’artiglieria doveva averli dimezzati o costretti a ripiegare verso una posizione più riparata. Si voltò verso Friedrich. “Von Kleist, le affido la sezione. Devo andare al comando di reggimento, prenderò con me la squadra di Hoffmann.”
Friedrich guardò perplesso la scarsa decina di soldati già radunati intorno a lui: da quando il sergente era rimasto ferito, il comando era passato a un caporale che non arrivava a vent’anni. “Andrà… a piedi?”
“La Kübelwagen è andata distrutta poco fa, capitano, e non ho tempo per procurarmi un altro mezzo,” rispose l’altro, stringendosi nelle spalle. “Sfrutterò la copertura delle linee tedesche, è una zona relativamente sicura. Si attenga alle mie direttive e mantenga la posizione fino a quando non sarò tornato,” aggiunse poi. “Bisogna limitare il più possibile la perdita di altri uomini.”
“Certo, signor maggiore.”
Hans lo guardò dritto negli occhi come se volesse assicurarsi la sua fiducia, poi ricaricò la pistola, indossò uno Stahlhelm e si mise un MP38 ad armacollo. “Tornerò tra poco, capitano. Non prenda iniziative personali, né abbandoni il suo posto per nessuna ragione.”
Von Kleist corrugò la fronte, poi annuì. “Può contare su di me, signore.”

Cumuli di macerie e automobili rovesciate ostruivano il passaggio, offrendo ripari improvvisati ai soldati che si scontravano riempiendo le strade di grida e crepitare di armi da fuoco. Ogni tanto, un proiettile d’artiglieria piovuto da chissà dove si schiantava contro la facciata di un palazzo, proiettando tutt’intorno miriadi di schegge e calcinacci; i marciapiedi erano straziati da profonde voragini colme di detriti.
Un ululato cupo fendette l’aria, l’edificio parve tremare fin nelle fondamenta e i mattoni crollati rotolarono giù col fragore di una valanga.
Il maggiore Bühler si rannicchiò ancora di più contro uno dei pochi muri ancora intatti, mentre placche d’intonaco scrostato gli piovevano addosso. Proprio sotto i suoi occhi, un camion dell’esercito polacco esplose con un rombo assordante e fu divorato dalle fiamme.
In breve tempo, i nemici erano riusciti a riconquistare l’area che fino a mezz’ora prima era ancora in mano al suo Reggimento, inseguendolo fin lì dopo aver ucciso tutti gli uomini della sua scorta.
Una serie di tonfi e sussulti squassò la terra, poi fu di nuovo silenzio, intervallato soltanto dai rumori secchi e ravvicinati delle sparatorie. Hans attese ancora qualche istante, immobile e teso come una preda braccata, poi rilasciò tutto il fiato che si era imposto di trattenere. Disinfettò alla bell’e meglio il palmo sanguinante, strofinandolo col fazzoletto che aveva inumidito con le ultime gocce d’acqua rimaste nella sua borraccia, quindi se la fasciò con una benda di garza.
Prima di uscire allo scoperto, la P38 ben stretta nella mano ferita, tastò per un’ultima volta il mitra scarico come se volesse accertarsi di averlo ancora con sé.
Avanzò mantenendosi rasente ai muri, la pistola alta dinanzi a sé. I suoi inseguitori dovevano essere ormai lontani, ma le poche centinaia di metri che lo separavano dal comando di reggimento sembravano chilometri costellati di pericoli insormontabili: sui tetti, alle finestre degli edifici abbandonati, erano appostati cecchini e mitraglieri pronti a scaricare raffiche di proiettili addosso ai tedeschi che passavano di lì; cannoni d’artiglieria da campagna presidiavano le entrate delle strade.
A un crocicchio scorse dei medici polacchi intorno a un gruppo di feriti: li avevano fatti distendere su delle barelle allineate lungo un marciapiede e li caricavano su un’ambulanza, offrendo loro acqua e sigarette. Alcuni di essi erano prigionieri tedeschi con la divisa delle Waffen-SS.
Le vie erano disseminate di cadaveri che si riconoscevano solo per il colore delle uniformi. Da qualche parte, pensò Hans stringendo più forte l’impugnatura della pistola, dovevano esserci anche i corpi dei soldati che lo avevano accompagnato fin lì.
Si guardò intorno con circospezione: la canna di una mitragliatrice pesante sbucava dal davanzale di una finestra, ma la strada accanto sembrava deserta, occupata solo da una porta divelta e da un’automobile ridotta a un cumulo di lamiere carbonizzate.
“Halt!” urlò una voce perentoria, in un tedesco gutturale. Subito dopo, riecheggiò il colpo di un fucile e il bossolo di una cartuccia tintinnò sul selciato, a pochi metri da lui.
L’ufficiale sibilò un’imprecazione tra i denti e sgattaiolò via, nascondendosi dietro l’angolo di un palazzo. Dalla finestra piovve una grandinata di proiettili, che si acquietò non appena l’eco dei suoi passi si spense.
Lo scalpiccio, ritmico e pesante, di una decina di stivali militari si andava sempre più avvicinando. Di nuovo, Hans s’impose di trattenere il respiro, appiattendo la schiena contro il muro; il battito del cuore gli rimbombava nelle tempie come un tamburo da guerra.
A un certo punto qualcuno schioccò un ordine, i passi si fermarono e la stessa voce chiese dove fosse andato il tedesco.
Senza attendere risposta, Bühler abbandonò il suo nascondiglio, scavalcò un muretto crepato e scivolò lungo la parete fino a immettersi in un vicolo buio, incalzato dagli stivali dei nemici. Per quanto si fosse premurato di non fare rumore, le loro sagome scure comparvero all’imboccatura della via e puntarono i fucili contro di lui.
“Halt!”
Il maggiore arretrò di un passo e si guardò alle spalle, accorgendosi con orrore di essere stato attirato in un vicolo cieco. Strinse i denti, come un animale in trappola: sapeva di avere solo due colpi nel caricatore, era sicuro del fatto che molto probabilmente sarebbe morto prima di riuscire a spararne anche solo uno, ma decise comunque che non si sarebbe arreso. Di riflesso, fece scivolare un dito sul grilletto: non voleva che il sangue degli uomini morti al suo fianco fosse versato invano.
“No”, rispose infine, ostentando un tono tranquillo.
Calò un silenzio di tomba. Una pallottola fischiò costringendolo ad abbassarsi per schivarla, Hans premette a sua volta il grilletto e il soldato che aveva sparato stramazzò al suolo senza un lamento.
Un solo colpo.
Frugò nella tasca alla ricerca di un caricatore, pur essendo consapevole di quanto sciocco fosse anche soltanto sperare di trovare il tempo per inserirlo: di fronte a sé aveva quattro fucili, alle spalle una parete invalicabile.
­Un altro soldato sparò, lui si ritrasse appiattendosi contro il muro ma la fucilata lo sfiorò di striscio alla spalla, procurandogli una violenta sferzata di dolore. Quello che sembrava il caposquadra estrasse rapido la pistola e gliela puntò contro. “Giù la pistola,” ordinò, in un tedesco approssimativo.
Hans deglutì a vuoto, immobile contro la parete, e rinsaldò la presa sull’impugnatura dell’arma. Non aveva vie di scampo, lo sapeva, non poteva ammazzarli tutti né tentare la fuga: lo avrebbero gambizzato o ucciso sparandogli alla schiena.
Cercò di mantenersi impassibile, anche se i battiti accelerati e la bocca riarsa gli rendevano difficoltoso respirare. Come un monito, sentì riecheggiare nella testa le parole del suo istruttore, ai tempi della scuola ufficiali: “in un combattimento da uomo a uomo, il vincitore è chi ha un colpo in più nel caricatore.”
Lui non solo non aveva un colpo in più nel caricatore, ma si trovava da solo contro quattro nemici.
La scelta era tra gettare la pistola, alzare le mani e consegnarsi come un comune prigioniero oppure serbare per sé quell’ultima, fatale pallottola. Ma le braccia erano divenute blocchi di marmo inerte che non accennarono a muoversi.
Il sergente fece cenno agli uomini col fucile di puntarglieli contro il petto. “Aufgeben oder sterben.”
Arrendersi o morire.
Ancora una volta, Bühler rimase immobile e non mollò la presa sulla sua arma, ma la strinse fino a farsi sbiancare le nocche. Come paralizzato, si limitò a sostenere lo sguardo del sottufficiale: se anche avesse voluto muoversi, probabilmente non ci sarebbe riuscito.
Il sergente abbaiò qualcosa, un soldato indicò la sua croce di ferro di seconda classe, un altro lo afferrò per il bavero e cercò di buttarlo per terra. Nella colluttazione, il maggiore tentò di difendersi con l’ultimo proiettile rimasto, ma l’uomo, pur ferito a un fianco, gli sferrò un calcio negli stinchi e lo inchiodò per terra. Una seconda pedata lo colpì al costato mozzandogli il respiro; Hans si morse la lingua per reprimere un lamento.
La P38 gli sgusciò di mano, rotolò sul selciato con un tinnire metallico; il giovane si piegò in avanti mentre la sua vista veniva invasa da un lampo bianco. Il dolore fu tale da dargli l’impressione che qualcosa si fosse spezzato dentro di lui, tuttavia riuscì a puntellarsi sui gomiti un attimo prima di finire faccia a terra.
Un persistente sapore metallico gli si insinuò in bocca, ma non seppe dire se fosse bile o sangue: forse entrambe. Sollevò lentamente la testa, come un sonnambulo, e attraverso la visuale annebbiata scorse la canna della pistola del sottufficiale ancora puntata contro di lui.
Si impose di alzare le mani, ma ancora una volta non fu in grado di muoversi.
I quattro uomini lo trafissero con espressioni cariche d’astio e, in un tedesco appesantito dall’accento, il sergente gli ordinò: “Aufstehen.”
Con le ultime forze che gli restavano, Hans tentò di tirarsi su, ma uno dei soldati gli afferrò un braccio, glielo torse con violenza e glielo immobilizzò dietro la schiena, per poi issarlo come se fosse stato un sacco di patate. Una canna di fucile gli si piantò tra le scapole.
“Marsch.”
L’ufficiale non riuscì a muoversi. Schiuse appena le labbra per dire qualcosa, ma dalla bocca gli uscì solo un’imprecazione inarticolata. Uno stivale chiodato lo colpì con violenza al fianco, il calcio di un fucile lo raggiunse al volto e l’oscurità calò sul suo capo come un drappo nero.

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Capitolo 13
*** Capitolo XI ~ Der Preußische Ritter ***


XI.
Der Preußische Ritter
 
 

All’esterno della fabbrica, una vibrazione continua faceva da sottofondo al crepitare delle mitragliatrici e agli scoppi, secchi e decisi, di esplosioni lontane. Una serie di ululati riecheggiò nell’aria, poi le scosse fecero di nuovo tremare le pareti dello stabilimento. Gli ufficiali, paralizzati nelle loro posizioni, furono travolti da una sfarinata d’intonaco scrostato e ragnatele; la luce sfarfallò proiettando sulle pareti le ombre lugubri dei macchinari ormai in disuso.
L’ultima detonazione fu accompagnata da un boato così forte che l’intera struttura traballò. Per un’interminabile, agghiacciante manciata di secondi parve sul punto di crollare su se stessa, dal primo all’ultimo mattone, ma l’eco dell’esplosione scemò fino a spegnersi, facendo piombare i presenti in uno stato di dolorosa fibrillazione.
“Siamo sotto il tiro dell’artiglieria pesante,” constatò il maggiore Lützow.
Al di sotto del frastuono, sonore imprecazioni e la cantilena di un uomo che stava pregando, rannicchiato contro la carcassa di una vecchia ruota per la filatura.
Il colonnello Wolff sollevò una mano, tentando di riprendere il controllo della situazione. “Calmi, signori, calmi. State calmi.”
Almeno tra gli uomini ancora operativi, la sua voce profonda ebbe il potere di ripristinare una parvenza di silenzio, ma tra i feriti ammassati contro la parete posteriore dell’immenso androne continuavano a levarsi flebili e isolati lamenti. Subito dopo, una delle entrate laterali si spalancò ed entrarono due medici da campo che trasportavano una barella.
Decine di occhi indugiarono sulla nuova apparizione, per poi distogliervisi e volgersi verso il comandante di reggimento.
Wolff si accertò che tutti quanti lo stessero ascoltando e abbassò nuovamente lo sguardo sulla mappa che aveva dispiegato sul basso tavolino da campo. “Lützow,” chiamò.
L’ufficiale, un uomo robusto sui trentacinque anni, dai lineamenti austeri e i capelli biondissimi quasi rasati, fece un passo avanti. “Signor colonnello.”
“Vista la situazione, dovrà tenersi pronto a spostare il battaglione verso le zone al momento più critiche.” Con la punta del dito indicò una serie di punti strategici che aveva contrassegnato con dei cerchi rossi, ripetendo ad alta voce le coordinate di ciascuno. “Si metta fin da subito in contatto coi suoi comandanti di compagnia e trasmetta le disposizioni necessarie.”
“Sissignore,” rispose il maggiore.
Il colonnello annuì, accarezzandosi il mento con aria pensierosa, quindi si rivolse a un ufficiale alto, brizzolato, con un volto duro che sembrava quasi sbozzato nel legno. “Maggiore Speer.”
L’altro avanzò a sua volta e in tono conciso disse: “Sono riuscito a mobilitare il mio battaglione a difesa dell’intero quartiere prima che la controffensiva polacca ci isolasse, tuttavia ritengo che…”
“Signor colonnello!” lo interruppe una voce trafelata.
Si fece avanti correndo un giovanotto sui ventisette anni, col braccio appeso al collo e i capelli biondi incrostati di sangue e sporcizia. “Capitano Eulenburg a rapporto, signor colonnello!” Mentre si metteva sull’attenti, il battere sonoro dei tacchi fu risucchiato da un fischio lacerante.
Wolff tossicchiò, ma per quell’occasione decise di accantonare le formalità: dall’espressione del giovane, dedusse che aveva qualcosa di davvero urgente da comunicargli. Si limitò a scoccargli un’occhiata ammonitrice e gli ordinò il riposo, mentre fuori tuonava l’ennesima esplosione. “Dica, capitano.”
L’altro si ricompose, per quel poco che il suo stato gli permetteva. “Il maggiore Graf è rimasto gravemente ferito durante uno scontro a fuoco, signore,” riferì. “Anche il mio autiere è rimasto ucciso: ho guidato fin qui attraverso due quartieri presidiati dal nemico, che secondo i rapporti dovevano essere ancora in mano alla Tredicesima Divisione. Hanno tentato di far saltare in aria la Kübelwagen con una bomba a mano, signore.” Lasciò cadere una pausa significativa, poi gli rivolse uno sguardo eloquente. “Purtroppo, la situazione è degenerata in fretta… ormai è fuori controllo.”
Il colonnello annuì grave, cercando di non lasciar trapelare all’esterno la preoccupazione che lo attanagliava, sia per l’esito della battaglia che per la sorte dei suoi subalterni. Con lo sguardo si soffermò sui comandanti di battaglione: Eulenburg, congedatosi, si era buttato su una sedia e stava controllando la fasciatura al braccio, Speer si era costretto a reprimere l’irritazione causatagli dall’intromissione e Lützow era ancora impegnato a trafficare con la radio da campo. “Manca solo Bühler”, disse, esprimendo ad alta voce il proprio pensiero.
“Signore,” iniziò Speer, “faccio rispettosamente notare che non sappiamo ancora quanto tempo ci resti prima che…”
L’arrivo dell’aiutante di campo Meyerhof, con una cartelletta sottobraccio, lo interruppe per la seconda volta. “Signor colonnello, nessuna notizia da parte del maggiore Bühler: il capitano von Kleist riferisce che si era mosso per raggiungerci sfruttando la copertura delle nostre linee, ma al momento quei quartieri sono stati riconquistati dal nemico…”
Von Rauheneck, che fino ad allora era rimasto stranamente in silenzio, borbottò: “Che fine avrà fatto, è passata mezz’ora da quando lo abbiamo convocato…”
“Mandiamo qualcuno a cercarlo, signore?” azzardò Speer.
Il colonnello Wolff emise un sospiro affranto. “Se non arriva entro dieci minuti, saremo costretti a darlo per disperso in battaglia: in circostanze così delicate, la situazione tattica non ci permette di mobilitare truppe per un’azione così rischiosa.”
Assorto, von Rauheneck esalò un’ultima boccata di fumo dalla pipa, quindi la ripose e si alzò. “Mi metterò in contatto col capitano Bentheim, affinché si tenga pronto a prendere il comando dell’unità durante l’assenza di Bühler. Gli altri ufficiali faranno riferimento a lui. Vogt!”
L’operatore, con le cuffie ancora in testa, regolò l’apparecchio, poi scosse il capo con aria contrita. “Signor tenente colonnello, non c’è più segnale… siamo completamente isolati!”
Altre grida si riversarono all’interno della fabbrica, riverberando tra le pareti ingrigite. “L’intera area è sotto il controllo nemico!”
Di nuovo, detonazioni più vicine stroncarono ogni dubbio, sovrapponendosi al sordo ronzio delle eliche e dei motori.
“Questo è un attacco aereo, signori!” tuonò von Rauheneck.
“Allertate la FLAK del campo!” ordinò il colonnello. “Non devono avvicinarsi.”
Gli ufficiali e i loro collaboratori si precipitarono verso le uscite; pezzi di legno e calcinacci piovvero dal soffitto come per esortarli a fare più in fretta. In lontananza, le bombe si schiantavano al suolo emettendo gemiti cupi e strazianti.
Calò un silenzio di tomba, l’intera fabbrica piombò nell’oscurità più densa mentre le finestre vomitavano una pioggia di vetri rotti. La luce smorta di una torcia fendette le tenebre, illuminando le sagome di soldati e aiutanti che si spintonavano per lasciare l’edificio; le raffiche delle mitragliatrici pesanti poste a difesa dello stabile ripresero a crepitare con rinnovata foga.
Il colonnello Wolff impugnò la pistola, mentre con ampi gesti delle mani faceva cenno agli uomini di uscire prima di lui. “Alle armi! Tutti fuori! Dichiaro lo stato di emergenza!”

Friedrich von Kleist alzò lo sguardo verso il cielo tinto di una fosca tonalità cinabro. La linea dell’orizzonte si confondeva col fumo degli incendi che, disperso dal vento, gravava su di loro come una cappa funerea che si espandeva in dense volute, privando le cose del loro colore.
In lontananza era comparsa una pattuglia di bombardieri polacchi, simili a grossi uccelli neri che planavano sulla città, scaricando bombe sulle colonne corazzate e sulle postazioni strategiche tedesche.
Anche a quella distanza, il capitano poté udire i fischi dell’antiaerea che entrava in azione: colpito da un proiettile che gli spezzò l’ala, il più avanzato dei velivoli tentò una virata di fortuna per non andarsi a schiantare sulla città.
A Friedrich venne da ripensare alle parole che il sottotenente Kühn gli aveva rivolto appena arrivati lì: stanno perdendo un sacco di uomini, eppure non demordono. Lo immaginò di nuovo con le maniche rimboccate fino al gomito e l’MP38 imbracciato, mentre guidava il plotone all’assalto in prima linea, e realizzò che, per quanto fossero diversi, sentiva di provare un’istintiva simpatia per quel giovanotto del popolo.
“Signor capitano.”
Von Kleist si voltò, trovandosi di fronte il soldato Schreiber sull’attenti. Aveva l’uniforme stropicciata e il volto arrossato dalla fatica. Al cenno dell’ufficiale, il ragazzo rilassò appena la propria posizione, ma la sua espressione rimase tesa. “Signore, il tenente Wessel riferisce di aver rilevato un insolito movimento di uomini e mezzi lungo la strada che porta al quartiere est.”
Con un gesto ormai consolidato dall’abitudine, Friedrich sollevò il binocolo e puntò le lenti nella direzione indicatagli dal soldato. A separarli dalla strada deserta vi era una striscia di terra completamente deserta, solcata dai labirinti delle trincee e deturpata dai profondi crateri lasciati dall’artiglieria pesante, e a una prima impressione pareva che non ci fosse nessuno in giro. Una calma sinistra che, sommata agli echi delle violente schermaglie che si combattevano in città e nei pressi del fiume, non gli ispirava alcuna fiducia. Quello che era solo un presentimento ricevette conferma quando, proprio nel punto in cui una linea immaginaria divideva cielo e terra, s’innalzò una spessa nube di polvere giallastra.
Qualche istante dopo, colse lo scalpiccio di molti zoccoli che percuotevano la strada a un trotto sostenuto. “Cavalleria”, constatò, lasciandosi ricadere il binocolo sul petto. “E non sono ricognitori.”
Alle proprie spalle avvertì la presenza del sottotenente Kühn e del sottotenente Hartmann, che nel frattempo dovevano esserglisi avvicinati. Si voltò verso di loro, come attendendosi altre comunicazioni urgenti.
“Signor capitano,” esordì Hartmann, “alcune pattuglie di esploratori riferiscono che i nemici stanno avanzando nei quartieri periferici. Hanno riconquistato alcune delle postazioni controllate dal nostro Reggimento e hanno costretto gli uomini del primo e del quarto battaglione ad arretrare: al momento è in corso una cruenta battaglia per le strade.”
Friedrich annuì, rabbuiandosi. Istantaneamente, il suo pensiero andò a Hans, e non poté fare a meno di chiedersi se fosse riuscito ad arrivare al comando di reggimento prima che i polacchi tentassero quell’inaspettata controffensiva. “Suppongo, dunque, che i cavalieri sulla strada si stiano muovendo per accerchiarli. Dov’è il tenente Wessel?”
“Sono qui, signore,” rispose l’ufficiale.
“Dobbiamo spostarci,” disse Friedrich senza mezzi termini.
Wessel lo fissò assottigliando gli occhi. “Prego, signor capitano?”
“Dobbiamo raggiungere la città, i nostri rischiano l’accerchiamento. Vada a chiamare Lindemann.”
Il tenente parve sul punto di protestare, ma non poté far altro che sollevare le spalle ed esalare uno sconfitto: “Signorsì.”
Poco dopo sopraggiunse il graduato col telefono da campo. Salutò militarmente e depose l’apparecchio sull’erba, quindi si sedette a sua volta per terra.
Von Kleist rimase in piedi di fronte a lui. “Lindemann, si metta in contatto col comando di reggimento e chieda del maggiore Bühler. Devo parlare urgentemente con lui.”
L’uomo sollevò la cornetta, armeggiò con le manopole e restò in attesa, mentre sulla sua fronte andava disegnandosi una ruga verticale, sempre più profonda per ogni secondo che passava. Alla fine, scosse la testa con un sospiro e disse: “Signore, non risponde nessuno… squilla a vuoto.”
Le braccia che il capitano teneva dietro la schiena gli ricaddero lungo i fianchi. Si sentì invadere da una sensazione di urgenza, sapendo già che in ogni caso la responsabilità della sua decisione sarebbe ricaduta su di lui. Non aveva molte scelte: o l’inazione, o il contravvenire agli ordini di Hans, che gli aveva chiesto espressamente di non prendere iniziative personali. Due cose parimenti sbagliate, ma che in quel momento diventavano due rovesci della stessa medaglia.
Tuttavia, sapeva anche che c’erano situazioni in cui l’emergenza, in assenza dell’ufficiale comandante, consentiva un certo margine di autonomia nelle manovre, e la situazione presente, giudicò, era una di quelle.
Lui lo capirà, pensò. Del resto, se fosse stato qui, avrebbe fatto lo stesso.
“Ci muoveremo comunque verso la città”, decise infine. “Come ufficiale più alto in grado ritengo che sia la cosa più giusta da fare.”

La compagnia si fermò in una delle zone più esterne, dove incontrò altri reparti sbandati del primo e del quarto battaglione. Era un quartiere popolare, con piccole case dimesse e ruderi che offrivano riparo a gruppi di soldati.
Al di sopra di ciò che restava dei tetti delle case si intravedevano le poche ciminiere degli stabilimenti industriali che non erano ancora crollate sotto i colpi dell’artiglieria; un lampione divelto e cumuli di detriti ostacolavano il passaggio di eventuali mezzi pesanti.
Gli ululati delle esplosioni erano ormai lontani, ma a terra sembrava in corso uno scontro senza quartiere: mentre dalle strade luride di fango s’innalzava una consistente nebbiolina, i rumori continui delle sparatorie erano intervallati dagli ordini secchi dei sottufficiali. Uomini armati, in verde oliva e in grigioverde, correvano da una parte all’altra senza sosta; talvolta veniva ingaggiato un corpo a corpo tra le due fazioni.
Sfruttando la copertura di un muro, dietro cui aveva fatto sistemare due soldati con la MG 34, von Kleist si sedette per terra ed esaminò la mappa, segnando con la penna le postazioni controllate dalla sua compagnia. La situazione era critica e, dagli ultimi rapporti, pareva che anche il capitano Bentheim e il capitano Schwieger avessero deciso di muoversi verso la città. Appoggiò la schiena ai mattoni, rigirandosi nervosamente la stilografica tra le dita: quegli stessi rapporti riportavano anche che il comando di reggimento era sotto attacco e il maggiore Bühler era stato dato per disperso in azione. Almeno finché non avrebbe ricevuto conferma di quella notizia, per quanto funesta, essa era da considerarsi un’ipotesi, ma il solo pensiero di non poter mandare nessuno a cercarlo bastava a farlo sentire impotente, con le mani legate.
In quel momento, un rumore di passi lo indusse ad alzare la testa. Un caporale del plotone comunicazioni scattò sull’attenti e salutò. “Signor capitano,” esordì, leggendo un foglietto che teneva tra le mani, “ci è giunta notizia che il maggiore Bühler è stato trattenuto da alcuni soldati del capitano Pawlowski, al momento attestato con la sua compagnia nel quartiere intorno alla piazza del municipio…” Esitò per un istante, come per cercare di decifrare una calligrafia piuttosto ostica, poi aggrottò leggermente le sopracciglia. “Non possediamo informazioni certe sulle condizioni…”
A quelle parole, Friedrich si sentì attraversare da una scossa elettrica. La tensione che gli avviluppava le viscere gli provocò una forte contrazione allo stomaco, e il suo battito s’intensificò fino a seccargli la gola. Non poteva esprimere ad alta voce le proprie supposizioni, ma era convinto che quella fosse un’azione pianificata con cura. “Capisco. Ne discuterò coi comandanti di plotone. Si tenga a disposizione.”

Dopo aver ascoltato le opinioni di tutti, von Kleist si sentiva ancora più confuso di prima: la situazione tattica non permetteva di mobilitare delle unità per recuperare il maggiore, ma anche abbandonarlo nelle mani dei nemici sarebbe andato contro ogni principio etico.
La voce di Hans continuava a riecheggiargli nella testa come il rintocco di una campana mortuaria: “Mantenga la posizione finché non sarò tornato. Non prenda iniziative personali, né abbandoni il suo posto per nessuna ragione.”
Ma in quel caso, c’erano troppe implicazioni in gioco per potersi limitare a seguire le istruzioni. Doveva fare una scelta.
Con la sensazione di trovarsi a vagare, smarrito e accecato, in mezzo al deserto, voltò le spalle ai suoi sottoposti, si prese il ponte del naso tra le dita e lo massaggiò nervosamente, inspirando a fondo. Il buonsenso gli suggeriva di rimandare ogni decisione, preoccuparsi soltanto per la battaglia in corso e attendere gli ordini del colonnello, eppure…
“Non cederemo,” disse infine, rilasciando il fiato.
“E quindi?” chiese Wessel con sospetto.
“E quindi lo libereremo, tenente.”
Tra gli astanti piombò un lapidario silenzio, denso come nebbia. Wessel contrasse il viso in una smorfia di disappunto, Körner spalancò gli occhi e lo fissò come annichilito, Hartmann distolse lo sguardo. Kühn, invece, fece un passo avanti e drizzò le spalle. “Mi offro volontario, signor capitano.”
Friedrich sollevò una mano. “No, sottotenente, lei mi occorre al comando del plotone.” Kühn annuì con un’espressione vagamente delusa in viso, ma il capitano sentiva di non poter delegare a nessun altro quel delicato compito. Fissò negli occhi ciascuno di loro, quindi in tono fermo dichiarò: “Andrò io con un gruppo di volontari, mentre voi cercherete di forzare le linee nemiche. Durante la mia assenza farete riferimento al tenente Wessel e vi atterrete alle mie indicazioni.”
Non gli sfuggì lo sguardo di Wessel, che ben sapeva a quali rischi andasse incontro, né la preoccupazione di Körner. Li congedò cercando di mantenere una facciata inespressiva, nonostante il senso d’ineluttabilità che gli gravava addosso: era un’iniziativa personale, pericolosa e non richiesta, tuttavia aveva deciso di assumersene consapevolmente le responsabilità. Nessun altro avrebbe potuto correre quel rischio per liberare Hans, se non lui.
Nonostante l’intenzione di condurre un’operazione rapida e il più possibile indolore, si armò come se fosse in procinto di guidare un assalto in prima linea. Il primo a offrirsi volontario fu il sergente Böhmer, che quando gli comparve di fronte accennò un saluto sfiorando appena la visiera dell’elmetto, subito seguito da Bauer e Löffler che si trascinarono dietro il giovane soldato Kollwitz, divenuto in pochi giorni noto – oltre che per la stazza taurina – anche per la sua propensione alle risse.
Con più titubanza si aggregarono Schreiber e Hanke, e a completare il gruppo si aggiunse anche Krause, che si presentò a rapporto col cane al guinzaglio. “È per aiutarci a trovare meglio il maggiore,” spiegò, indicando la bestia che lo fissava con la coda e le orecchie dritte, “quando serviva nell’esercito polacco era addestrato proprio per questo.”
Friedrich scrutò con aria scettica quella variegata compagine, poi si procurò un mitra e si mise alla testa del gruppo. “Dobbiamo cercare di evitare il più possibile di ingaggiare scontri armati: l’obiettivo è recuperare il prigioniero e tornare subito indietro. Massima cautela.”

Pervaso da un vago risentimento, il sottotenente Kühn rimase a osservare il suo capitano mentre, sfruttando la copertura delle loro linee, scompariva dietro l’angolo di un palazzo.
Si era reso conto che von Kleist, nonostante quella sua ostentazione di riservatezza che alcuni definivano alterigia, sul campo di battaglia aveva una condotta dignitosa, cavalleresca. E forse proprio per quello, non riusciva a spiegarsi perché si fosse opposto con tanto vigore alla sua richiesta: che non lo ritenesse all’altezza delle sue aspettative?
Così preso a rimuginare sulle possibili ragioni di quel rifiuto, si accorse a malapena della presenza di Wessel. Girò lo sguardo verso di lui e notò che era rivolto nella stessa direzione, coi lineamenti contratti in un’espressione torva e le mani dietro la schiena.
Il tenente indugiò, assorto in un silenzio meditativo, poi fece bruscamente dietrofront e lo esortò a seguirlo. “Con il dovuto rispetto, Kühn,” interloquì, di punto in bianco, “per lei è un bene che il capitano le abbia negato il permesso di andare.”
Kühn, preso alla sprovvista, strinse le labbra. “Per quale ragione, se mi consente?”
“Perché sta deliberatamente contravvenendo alle indicazioni del colonnello,” replicò l’altro in tono ferale. “Lo stesso Bühler disapproverebbe, e lui ne è ben consapevole.”
“E allora perché l’ha fatto?” avrebbe voluto chiedergli il ragazzo, ma prima ancora che aprisse bocca, Wessel lo prevenne liquidando il discorso con un gesto perentorio.
“Torni al suo posto, sottotenente,” ordinò conciso.
Ovunque riecheggiavano grida e detonazioni; il crepitare continuo delle armi da fuoco non si concedeva neanche un istante di tregua. Pur senza riuscire a togliersi dalla testa le domande di poco prima, Erich raggiunse i suoi uomini, già da tempo impegnati in battaglia, e si unì a loro.

Il reticolato di vie che conducevano fino al cuore della città era avviluppato in un silenzio spettrale. Un gatto nero attraversò la strada furtivo e scomparve con un balzo all’interno di un edificio dalla facciata dipinta di verde pastello, ancora miracolosamente intatto; i suoi occhi luminosi, fissi sulla piccola squadra di soldati, rimasero visibili nella penombra della finestra. Il cane rizzò il pelo ed emise un basso ringhio gutturale, ma bastarono due semplici parole da parte di Krause per indurlo ad accucciarsi docile in attesa di un nuovo ordine.
Il capitano von Kleist strisciò lungo la parete di un palazzo, levando una mano per intimare il silenzio. Sebbene avessero cercato di raggiungere quel posto il più in fretta possibile, seguendo le poche indicazioni di cui erano in possesso ed evitando di attirare l’attenzione dei soldati polacchi che perlustravano ogni vicolo, le ombre si allungavano e s’infittivano a vista d’occhio, rendendo sempre più difficile individuare eventuali presenze negli anfratti più bui. Friedrich si sporse con cautela, scrutando la via che si apriva proprio dietro l’angolo: al di là di una barricata fatta di macerie c’erano due uomini armati di fucile, protetti alle spalle dal muro di un’abitazione. Oltre la strada s’intravedeva la torre del municipio al centro della piazza, sulla cui sommità sventolava ancora la bandiera bianca e rossa della Polonia.
Visto il luogo in cui erano appostati, valutò, c’era una buona probabilità che quei due fossero uomini del capitano Pawlowski e, soprattutto, che fossero in possesso di qualche informazione utile a ritrovare Hans.
Proprio in quel momento, la piazza fu attraversata da un numero indefinito di soldati in verde oliva che correvano vociando verso la zona maggiormente interessata dai combattimenti. Subito dopo, un’esplosione vicina fece scattare i due polacchi sul chi va là e Friedrich ritirò la testa all’indietro, mentre a qualche isolato di distanza le sparatorie riprendevano più fitte.

Al segnale di von Kleist, gli uomini della squadra si separarono e un piccolo gruppo comandato dal sergente Böhmer raggiunse l’entrata opposta della via, in modo da controllarne entrambi gli accessi.
Una Stielhandgranate esplose a pochi metri dalla postazione dei polacchi, producendo una secca detonazione che si impose su tutti gli altri rumori. Uno dei due soldati di guardia ordinò al compagno la copertura e scagliò una bomba a mano che costrinse i tedeschi a ripararsi dietro un muro.
“Adesso!” bisbigliò il capitano, sfruttando il momentaneo tafferuglio. Mantenendosi rasenti al muro, Bauer, Löffler, Schreiber e Kollwitz lo seguirono coi fucili puntati per coprirgli le spalle, mentre Krause rimase indietro insieme al cane.
“Fermi!” ordinò poi, rivolgendosi ai polacchi direttamente nella loro lingua. “Siete accerchiati. Gettate le armi e consegnatevi.”
“State indietro!” rispose conciso il primo dei due.
L’elmetto del secondo soldato sbucò appena dal bordo, si guardò intorno, poi fu di nuovo nascosto dal cumulo di macerie. Un’altra granata esplose in mezzo alla strada; una sventagliata di proiettili guizzò tintinnando sul selciato. Uno dei polacchi scandì una parola d’ordine e un fumogeno avvolse le loro sagome in una caligine nebulosa, densa come zucchero filato. Rispondendo prontamente al comando, quattro uomini armati sciamarono fuori dall’edificio e presero a loro volta posto dietro la barricata.
I tedeschi si tennero a debita distanza, in attesa del momento propizio per agire.
Bauer trasse una granata dalla cintura, la decapsulò e la lanciò contro il rifugio dei nemici. “Attenzione!” gridò poi ai suoi commilitoni, mentre l’ordigno descriveva una parabola in aria e deflagrava con un terribile ruggito. Tra le vibrazioni lontane s’intese il rotolio dei mattoni che crollavano, poi, caduto l’ultimo frammento di pietra, calò di nuovo un silenzio sepolcrale, interrotto soltanto da borbottii e colpi di tosse. Spaventato, il cane emise un verso a metà tra un ringhio e un guaito.
Il capitano sbatté le palpebre e si affacciò: l’esplosione aveva aperto sulla facciata della casa uno squarcio simile a una bocca urlante, che al posto del fiato emetteva grigie volute di fumo. Gli occhi vacui delle finestre apparivano come due pozzi neri e privi di vita.
Passò un lasso di tempo inquantificabile prima che uno dei polacchi azzardasse un movimento, alzandosi lentamente in piedi coi palmi delle mani bene in vista. Fece un paio di passi avanti: le mostrine sulle spalle e il colletto erano decorati con ricami argentati; tuttavia, da quella distanza, Friedrich non riuscì a distinguere il grado.
“Ci arrendiamo, signore.” L’uomo accompagnò quelle parole sganciandosi l’elmetto e la cintura della pistola, per poi buttarli per terra. “Due miei compagni sono gravemente feriti.” Come a voler ribadire il concetto, dalle macerie si levò un lamento inarticolato, ma nessuno dei soldati accennò a imitare il suo gesto.
“Il suo nome, prego,” gli ingiunse von Kleist, nel suo solito polacco appesantito dall’accento.
L’altro sostenne per un istante lo sguardo del giovane ufficiale: non sembrava intimorito, anche se nei suoi occhi chiari balenò un guizzo di diffidenza simile a quella di un predatore braccato. “Sergente Nowak, signore.”
“Sergente Nowak, ordini ai suoi uomini di consegnarci le armi.”
Il sottufficiale osservò di sottecchi i fucili nemici ancora puntati, strinse le labbra, quindi annuì. Tre suoi commilitoni riemersero dal nascondiglio trascinandosi dietro i feriti, e deposero fucili, mitra e granate ai piedi del capitano.
“Perquisiteli.”
Ancora una volta, Nowak e i suoi uomini, allineati con le mani alzate contro il muro sventrato, sopportarono quel controllo senza batter ciglio. Mentre i soldati finivano di controllare gli altri, Friedrich si avvicinò al sottufficiale e lo prese da parte. “Vorremmo chiederle un’informazione, sergente.” La voce era misurata e bassa, in modo che solo lui sentisse, ma tradiva una vaga perentorietà.
Il polacco annuì di nuovo in silenzio.
“Stiamo cercando un ufficiale tedesco, che a quanto ci risulta è attualmente ostaggio presso la compagnia di un certo capitano Pawlowski. Ne sa qualcosa, sergente?”
“Pawlowski è il mio comandante di compagnia,” ammise Nowak dopo una breve pausa meditativa; i muscoli della sua mascella si tesero impercettibilmente. “L’ufficiale di cui parla… non conosco il suo nome.”
“Lo so io, il suo nome: è il maggiore Bühler. Si tratta di un uomo alto, circa quanto quel soldato”, – con un cenno del capo, Friedrich indicò uno dei prigionieri immobili lungo la parete – “capelli castani, molto giovane. L’ha per caso visto?”
Il sergente emise un sospiro sconfitto. “Sì, signor capitano, ma non so dove si trovi esattamente.”
“Capisco,” rispose il capitano. “Bauer, Hanke, Löffler, prendete in custodia i prigionieri. Nowak verrà con noi.”

“Anche qui intorno non c’è nessuno”, constatò von Kleist lasciando ricadere il binocolo, dopo aver scrutato con attenzione i tetti e le finestre in cerca di qualche mitragliere o cecchino nascosto. Arretrò verso l’androne spoglio e lanciò un’occhiata in tralice al prigioniero: il sergente Nowak era rimasto in silenzio, le mani in tasca e le spalle ingobbite, per tutta la durata del giro di perlustrazione, senza mostrare intenzioni bellicose né altra emozione che non fosse la tacita accettazione della propria sorte. Il capitano, tuttavia, sentiva di non potersi fidare del tutto di lui: avrebbe potuto tentare di depistarli, o ancor peggio, attirarli in una trappola. Si chiese perché si fosse consegnato spontaneamente – se avesse agito così per salvaguardare l’incolumità dei suoi sottoposti o se quell’apparente rassegnazione nascondesse secondi fini.
In quel momento il cane, sicuramente più abituato alla compagnia dei polacchi che a quella dei tedeschi, si era avvicinato al sottufficiale e gli stava annusando gli stivali. Nowak, seduto su una cassapanca con la schiena appoggiata al muro, accanto a Kollwitz e Schreiber, gli elargì una leggera carezza sussurrandogli qualcosa nella propria lingua.
Con un sospiro, Friedrich infilò una mano nella tasca dell’uniforme e tirò fuori uno dei due guanti di Hans. Lo strinse tra le dita: la pelle grigio fumo, consunta dall’uso, era ormai fredda, e al tatto dava quasi un senso di disagio.
Rivolgendo lo sguardo al cielo che imbruniva si concesse di indugiare un po’ di più sul pensiero del compagno, iniziando ad avvertire sulla punta della lingua l’amaro sapore della sconfitta: si trovavano in una zona presidiata da nemici in ogni angolo, ed era passata all’incirca un’ora da quando erano partiti – a quel punto, Hans poteva essere ovunque. Per quanto ne sapeva, potevano averlo anche portato altrove o consegnato direttamente al capitano Pawlowski.
Abbassò il braccio con un gesto meccanico. “Otto, vieni qui.”
Il cane, che fino ad allora si stava godendo gli apprezzamenti dei soldati, drizzò le orecchie e lo raggiunse trotterellando.
“Seduto.”
Otto si sedette obbediente sulle zampe posteriori, piegando appena la testa di lato mentre gli acuti occhi marroni lo fissavano con attenzione.
“Devi aiutarci a ritrovare il maggiore”, gli disse il capitano in tono sommesso, per poi accucciarsi di fronte a lui e porgergli entrambi i guanti per farglieli annusare. “Devi condurci da lui. Lo farai?”
A quelle parole, il pastore tedesco gli strofinò il muso contro il ginocchio ed emise un latrato in segno di approvazione, agitando la coda pelosa come se fosse una bandiera.

Le ombre scivolavano languide sulle strade illuminate dagli ultimi raggi del sole morente, animando i vicoli di mille fruscii sinistri. Le facciate strette e allungate delle case erano dipinte di colori sgargianti – dal rosso vermiglio al verde mela, dall’arancione all’azzurro – che cozzavano in modo grottesco con le crepe e i buchi scavati dalle bombe. Ogni tanto, una pallottola sibilava annunciando la presenza di nemici nascosti chissà dove.
Friedrich von Kleist, alla testa della squadra, scivolava lungo i muri con la guardia della pistola alzata e le spalle sempre più appesantite dai dubbi: era ormai da troppo tempo che aveva abbandonato il suo posto al comando della compagnia per lanciarsi in quell’impresa che sembrava a tutti gli effetti destinata a rivelarsi un fallimento, e il caos onnipresente lasciava poche speranze riguardo a un’imminente fine delle ostilità.
Aveva promesso ai suoi subalterni che avrebbe liberato il maggiore, che l’avrebbe riportato indietro: con che coraggio si sarebbe ripresentato sul campo di battaglia senza di lui? Con che faccia tosta avrebbe legittimato ai suoi superiori – Hans compreso – quella palese infrazione?
Ma soprattutto, come avrebbe giustificato a se stesso una simile disfatta?
“Signor capitano, il cane ha fiutato qualcosa.”
Von Kleist annuì, senza tradire alcuna emozione. Sarà la quarta volta che fiuta qualcosa e poi non c’è niente, avrebbe voluto dire, ma ciò sarebbe equivalso ad ammettere la sconfitta, e una parte di lui continuava a sperare – a sentire – che Hans fosse ancora all’interno del paese. Trasse per l’ennesima volta il guanto di pelle dalla tasca e lo allungò verso il tartufo del cane.
Otto gli diede un colpetto alla mano col muso e riprese ad agitare la coda. Fece un giro annusando le pietre del selciato, poi tornò da Krause e abbaiò, digrignando i denti.
Friedrich alzò la testa verso il luogo puntato dal cane: si trovavano a pochi passi da un edificio fatiscente, schiacciato tra due palazzi rivestiti d’intonaco pallido e scrostato, che aveva l’aria di essere abbandonato da prima della guerra. La facciata era dimessa, in mattoni crepati, e le finestre senza vetri né imposte. Un vialetto, al centro di un giardinetto delimitato da un muro basso, scompariva sotto un mare di erbacce che recavano i segni del recente passaggio di molti uomini.
Tra quelle quattro mura regnava un silenzio poco rassicurante.
“Ha fiutato il pericolo”, constatò. “Non sappiamo se Bühler sia effettivamente qui, ma è una possibile pista.” Ripose la pistola nella fondina e riprese sottobraccio l’MP38. “Avanzate con cautela: faremo irruzione sfruttando l’effetto sorpresa.”

Non ebbero ancora varcato il cancello che una sferzata di proiettili spazzò l’erba a bruciapelo. Bauer arretrò con una sonora imprecazione, Kollwitz sparò una fucilata tacitando la mitragliatrice, Krause spinse il cane in copertura dietro il muro.
Una voce rude intimò loro di allontanarsi, dall’interno della casa provennero urla concitate.
“Fate attenzione”, ordinò Friedrich, lanciando uno sguardo alle orbite vuote delle finestre.
Irruppero all’interno del rifugio assaltandolo su due lati; gli uomini che vi erano asserragliati risposero prontamente al fuoco. Qualcuno si riparò dietro poltrone e divani, altri fecero improvvisate barriere di tavoli rovesciati e sedie accatastate l’una sull’altra. In una manciata di minuti, l’odore della polvere da sparo e quello del sangue si sovrapposero a quello della muffa che impregnava i muri, rendendolo ancora più penetrante.
Kollwitz e Hanke afferrarono un soldato per la collottola e lo scaraventarono spalle al muro, l’altro gettò il mitra ai piedi di Böhmer e si arrese. Friedrich si sporse oltre l’orlo del tavolo e fece scorrere lo sguardo da un capo all’altro del piccolo salone: adagiato su una sedia c’era Bauer con una gamba tesa, che gemeva tra i denti mentre Löffler gli applicava una medicazione d’emergenza; uno dei polacchi giaceva bocconi, immobile, sul divano di pelle consunta.
Il capitano si tirò su e raggiunse il centro della stanza con incedere grave. “Dove tenete il prigioniero?” domandò ai due soldati.
Nessuno rispose. Kollwitz colpì il primo dei due col calcio del suo fucile, strappandogli un basso grugnito di dolore.
“Dove tenete il prigioniero?” ripeté l’ufficiale, con maggiore durezza.
“Nel seminterrato, signore,” rispose l’altro.

Scesero lungo una tortuosa rampa di scale verso uno scantinato tetro come una spelonca, che odorava di chiuso e di umidità.
Mentre la lama di luce della torcia di Kollwitz fendeva le tenebre picee, von Kleist non osava emettere fiato: lungo le pareti erano accatastate delle fiasche vuote che mandavano bagliori sinistri, mentre il resto dell’ambiente era spoglio. Al pavimento scabro mancavano diverse mattonelle; fasci di ragnatele pendevano dal soffitto come macabri festoni.
L’alone luminoso si fermò su una porta chiusa. L’unico rumore che proveniva da lì dentro era uno scalpiccio di passi nervosi, che all’improvviso si acquietò lasciando spazio a un silenzio sospetto.
Friedrich alzò la pistola. “Kollwitz, tieniti pronto a sfondare la porta.”
Il giovanotto annuì, caricò come un toro e le assi di legno si spezzarono sotto l’impeto dei suoi colpi. I cardini cedettero e la porta si aprì, rivelando una stanzetta squallida.
Friedrich si sentì mancare il fiato quando vide, curva su una sedia, la figura di Hans: aveva il viso rivolto verso la parete e le mani legate dietro la schiena, ma riconobbe le sue spalle larghe e solide. Indossava soltanto la camicia, sulla cui stoffa bianca spiccavano alcune chiazze di sangue.
“Halt!” comandò la voce di un uomo. Il suo volto era livido e tumefatto, gli occhi iniettati di sangue: non aveva l’aria, né la fermezza del soldato di professione; sembrava piuttosto uno di quegli uomini costretti a combattere per disperazione.
Von Kleist rimase immobile, senza abbassare la pistola. “Libera il prigioniero e consegnalo a me: ci sono sette uomini armati al piano di sopra,” si limitò a dire, in tono di velata minaccia. “I tuoi compagni si sono già arresi.”
L’altro strabuzzò gli occhi in un’espressione di terrore e, colto da un guizzo di subitanea follia, afferrò il maggiore per i capelli e gli puntò un coltellaccio alla gola. “Un passo avanti e lo ammazzo.”
Hans non reagì in alcun modo, neanche quando la lama gli sfiorò la pelle pallida del collo.
A quella vista, il capitano rimase come pietrificato; di fronte ai suoi occhi passò la ferale anticipazione di quella minaccia. Glaciale, premette il grilletto e sparò. L’uomo sussultò sotto l’impatto delle pallottole e crollò esanime; il coltello cadde con un clangore metallico.
Friedrich abbassò la pistola con lentezza esasperante, il braccio scosso da un impercettibile tremito: solo in quel momento si accorse che il suo cuore aveva preso a battere a un ritmo irregolare, non sapeva neanche lui se per la paura di ciò che sarebbe potuto accadere o per la sensazione di averla scampata.
Espulse tutto il fiato che aveva trattenuto. “Kollwitz, lasciami da solo col maggiore.”
“Sissignore,” rispose l’altro, ancora incredulo.
Attese che il soldato portasse via il corpo, poi si richiuse la porta alle spalle e accese la lampadina che pendeva dal soffitto. Per terra non c’era sangue; l’uomo doveva essere morto sul colpo. Si guardò rapidamente intorno: in un angolo della stanza c’erano un secchio d’acqua putrida e una ramazza spelacchiata; poco distante, il piano di un tavolino sbilenco era disseminato di oggetti di vario genere, tra cui la giubba, l’elmetto e gli effetti personali che erano stati requisiti al prigioniero.
Si avvicinò a lui, sciogliendo il nodo che gli attanagliava il petto. “Signor maggiore.”
L’ufficiale rispose con un debole mugolio, ma non accennò a muoversi. Friedrich gli si chinò di fronte, tagliò le corde intorno ai polsi e prese le sue mani tra le proprie: la percezione del loro calore familiare gli infuse una parvenza di sollievo. Notò che la destra era ricoperta da una fasciatura lercia e insanguinata, i polsi leggermente arrossati dalla pressione delle corde.
“Hans?” mormorò, a voce più bassa. Trasse un fazzoletto dal tascapane e con delicatezza gli ripulì il viso dal sangue rappreso.
A quel punto, il maggiore sbatté le palpebre e lo guardò frastornato, come se stesse cercando di scrutare il fondale attraverso acque torbide e tumultuose. “Von… Kleist?”
“Siamo da soli”, sussurrò il giovane.
Bühler si passò una mano sul viso. “Friedrich.”
Il capitano gli porse la sua borraccia ed egli bevve una copiosa sorsata, incurante dell’acqua che gli colava sul mento e sulle labbra. Pian piano, i suoi occhi riacquistarono il luccichio della consapevolezza. “Grazie, ne avevo bisogno.”
“Come ti senti?”
“Sto bene, sto bene.”
Fece per alzarsi con un gesto sbrigativo, ma ricadde subito dopo sulla sedia in preda ai capogiri. Imperterrito ci riprovò, tuttavia riuscì soltanto a muovere un passo malfermo verso il compagno, che gli cinse la vita per sostenerlo prima che perdesse di nuovo l’equilibrio. Hans non rifiutò il sostegno, ma gli avvolse un braccio intorno alle spalle.
Senza dire nulla, Friedrich gli offrì la sua barretta di cioccolato alla caffeina. “Dobbiamo andare al più presto via da qui. Ce la fai a reggerti in piedi?”
Hans non rispose: finì di mangiare, accartocciò l’involucro e si limitò semplicemente a sciogliere la presa, cercando di recuperare l’equilibrio. Le sue labbra si piegarono in un accenno di sorriso, ma gli occhi rimasero seri. “Com’è che sei arrivato fin qui, Friedrich?”
“Con tutto il rispetto, signor maggiore,” obiettò il capitano, “non abbiamo tempo per parlare, siamo sempre nella zona controllata dal nemico.”
Bühler si avvicinò al tavolo e passò in rassegna i suoi oggetti, sepolti sotto cumuli di cianfrusaglie. “Mi hanno portato via le armi,” osservò, mentre si riabbottonava la giacca.
“Puoi prendere la mia pistola, io userò l’MP38”, disse Friedrich. Tese l’orecchio: anche da lì, in quel buio scantinato, si potevano udire i colpi dell’artiglieria che si susseguivano come scosse di terremoto.
“Grazie, Friedrich.” Il maggiore annuì e si allacciò la cintura, riprendendo il suo contegno da comandante di battaglione. “Forza, torniamo indietro. Mi spiegherai tutto strada facendo.”
Quando uscirono per le vie di Łowicz, il cielo era ormai ammantato della luce cobalto del crepuscolo.

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Capitolo 14
*** Capitolo XII ~ Die Würfel sind gefallen ***


XII.
Die Würfel sind gefallen



I bagliori degli incendi rosseggiavano nell’atmosfera sospesa dell’ora blu, gonfiando il cielo di nubi incandescenti.
Tra le vie del paese, i lampioni ancora in funzione spandevano aloni di luce tremolante che proiettavano ombre contorte sui muri.
“Fermatevi qui,” disse il maggiore Bühler ai suoi soldati. La gola gli bruciava a causa delle folate di fumo, e la voce gli uscì fuori dalla bocca in una sorta di gracchio. Arretrò in posizione difensiva dietro un frammento di muro, annerito e divorato dalle esplosioni, che gli permetteva a malapena di ripararsi senza chinare la testa. “Ci troviamo in una zona pericolosa.”
Dell’edificio che torreggiava su di loro restavano solo un’insegna di ferro accartocciato, con una scritta ormai irriconoscibile, e uno scalino in marmo imbrattato di sangue, che alla luce del tramonto sembrava una di quelle macchie lasciate dalla boccetta d’inchiostro nero quando si sbriciolava cadendo per terra.
Se lo guardava fisso, riusciva ancora a vedere i due soldati della sua squadra che si afflosciavano crivellati dalle mitragliatrici pesanti. Riusciva ancora a sentire la sua stessa voce che ordinava la copertura, quasi come se non gli appartenesse, le grida d’allarme, il rumore delle granate che esplodevano a distanza ravvicinata…
“Signor maggiore, non c’è nessuno”, mormorò Friedrich, sporgendosi appena per sbirciare la strada dietro l’angolo.
Inorridito, Hans gli artigliò un braccio e lo tirò indietro con un gesto rude. Quel semplice movimento gli spedì una stilettata lancinante al torace, bloccandogli il respiro. Sollevò la mano armata come per ribadire l’ordine, e con l’altra si sostenne al muro mentre puntini bianchi e luminosi gli intralciavano il campo visivo.

“Ach, Scheiße…” La voce del soldato era poco più di un rantolo stroncato da spasimi e colpi di tosse.
Qualunque cosa Hans avesse voluto dire, fu coperta dall’ululato di una detonazione; una porzione di muro crollò rivelando le viscere del palazzo. Una botta secca gli riverberò sull’elmetto; egli barcollò stordito mentre tutti i rumori si facevano ovattati, indistinti, e i suoi occhi non videro altro che buio. Provò ad alzarsi, ma il suo corpo, sordo a ogni comando, ristette immobile, un frammento acuminato gli trafisse la mano.
Non poté far altro che rassegnarsi a giacere bocconi attendendo che quell’istante finisse, col mitra scarico che gli pendeva dal collo e il sangue che dal palmo gocciolava per terra.
La coscienza andava e veniva, a sprazzi in cui si ritrovava inerme a contemplare l’incertezza.
“Signor maggiore?” ripeté la prima voce, in tono allarmato.
Fu come se quel richiamo lo avesse riscosso da un sogno allucinato. Bühler si rialzò come un sonnambulo, impugnò febbrilmente la pistola e fece scattare la sicura. “Via da qui!” ordinò.
Un boato, una scossa come di terremoto, una raffica di mitra. Il crollo travolse due soldati, il terzo cadde a faccia in giù con un proiettile in fronte. Il maggiore riuscì a strisciare dietro una colonna e a sparare al mitragliere prima che colpisse anche lui.
“Via da qui, presto!”
Gli rispose soltanto un lamento strozzato, che si andava affievolendo da qualche parte sotto le macerie. Poi, il silenzio.
Il peso della consapevolezza gli provocò un’ondata di nausea. Ormai solo, arrancò tra le rovine come uno spettro derelitto, chiedendosi se mai sarebbe riuscito ad arrivare vivo al comando di reggimento.

Quando rialzò la testa, notò che Friedrich lo stava fissando con un guizzo di apprensione negli occhi, senza però osare rivolgergli ad alta voce la fatidica domanda. Il cane gli strofinò il muso contro il ginocchio e scodinzolò quando lui, con un gesto distratto, lo grattò tra le orecchie.
Quelle visioni ferali continuavano a sovrapporsi allo scenario presente, tuttavia si sforzò di riprendere il controllo della situazione: nessuno doveva vederlo in quello stato, non in quel momento. Neanche il suo compagno, che ormai da tempo aveva imparato a conoscere l’uomo sotto la divisa e a non lasciar trapelare all’esterno ciò che li legava.
Per l’ennesima volta, si passò una mano sugli occhi offuscati e si affacciò oltre la barriera: la strada era ostruita da una montagnola di macerie e la carcassa di un Panzer era incagliata in un cratere coi cingoli all’aria; le mitragliatrici alle finestre tacevano.
Un plotone di Waffen-SS attraversò il crocevia cantando una marcia, i volti chini e i passi stanchi.
“Possiamo andare. Fate attenzione.”

Non c’erano più reparti compatti che si affrontavano in campo aperto, ma piccoli nuclei che avanzavano isolati, spazzando via tutto ciò che si parava loro davanti. Ogni angolo di strada era teatro di mischie furiose, che rendevano difficile capire se quella zona fosse controllata dai tedeschi oppure dai polacchi.
Friedrich avanzava spedito, i movimenti fluidi e scattanti, lo sguardo attento.
Ogni tanto si voltava verso di lui come per accertarsi che fosse ancora al suo fianco, e Hans non sapeva più se serbargli gratitudine o sentirsi a disagio per il suo stato attuale, che gli impediva di seguirlo e guidarlo al massimo delle proprie possibilità.

Quando tornò in sé, si ritrovò in una stanza stretta e angusta, legato mani e piedi a una sedia che scricchiolava a ogni suo movimento. Perdeva sangue dal naso e un rivolo appiccicoso gli colava lungo lo zigomo, dove poteva ancora sentire il dolore provocatogli dal calcio del fucile.
Un uomo avvolto in un pastrano militare stava affilando un coltellaccio mentre mugugnava una strana litania, seduto a gambe incrociate in un angolo. Gli scoccò di sottecchi un’occhiata velenosa, poi abbaiò un nome che il maggiore non riuscì ad afferrare. La sua apparenza trasandata, unitamente alla barba che gli ombreggiava le guance scarne, lo rendeva molto diverso dai soldati polacchi che aveva incontrato fino ad allora.
Passò qualche minuto, poi arrivò un sergente seguito a pochi passi di distanza da due soldati, che il maggiore riconobbe subito come coloro che lo avevano catturato.
Il sottufficiale gli chiese il nome in un tedesco stentato, controllò la targhetta identificativa che portava al collo e gli rivelò che alla fine della battaglia sarebbe stato consegnato a un tale capitano Pawlowski; dopodiché diede un paio di ordini concisi al più giovane dei due soldati, che scattò sull’attenti e lasciò la stanza con passo celere.
“Al centro di smistamento la affideremo a un medico,” disse poi, fermo contro lo specchio della porta.
Bühler si limitò a fissarlo con espressione accigliata, ma strinse i denti e non replicò.
Certo – pensò, con amaro sarcasmo – e poi mi offrirete sigarette, zuppa e vodka mentre cercherete di estorcermi informazioni vitali sulla strategia del Reggimento… informazioni che io non conosco, dato che alla fabbrica non ci sono neanche arrivato.
Il ragazzo tornò reggendo un catino pieno d’acqua e, insieme al commilitone più anziano, gli si avvicinò, provocandogli un istintivo moto di ritrosia. L’ufficiale si costrinse tuttavia a rimanere immobile, teso fino allo spasimo, mentre uno gli ripuliva il viso con una salvietta inumidita e l’altro gli applicava del ghiaccio sui lividi.
Prima di lasciarlo di nuovo da solo col suo carceriere, il soldato più giovane gli portò un bicchiere alle labbra, offrendogli un sorso d’acqua dal vago sentore alcolico che Hans ingollò a forza. Guardò la porta che si richiudeva mentre gli occhi riprendevano a pizzicargli per la rabbia e la frustrazione.
In quel buco di stanza c’era solo una finestrella protetta da un’inferriata, e quel bieco figuro lo sorvegliava a vista. Si ritrovava legato, dolorante e disarmato, e ciò – almeno per il momento – vanificava ogni possibilità di fuga: se non avesse trovato un modo per liberarsi, la guerra per lui sarebbe finita dopo nemmeno due settimane, in un campo prigionieri. La promessa di un trattamento umano non avrebbe certo reso la situazione più tollerabile, o meno umiliante.
Che cosa ne sarebbe stato di lui, del suo battaglione, di Friedrich? Dove lo avrebbero portato, che cosa gli avrebbero fatto? Che cos’era successo, nel frattempo, per le strade del paese? Chi avrebbe preso il comando al suo posto, come si sarebbe comportato Friedrich una volta appresa la notizia?
Al pensiero di tutte le possibili implicazioni che la situazione presente si portava dietro, e la sua totale impossibilità di agire per influenzarla, contrasse i muscoli e strinse i pugni con rabbia, fino a graffiarsi i polsi con le corde.

Bühler meditava già le domande da rivolgere al capitano per trovare risposta ai dubbi che lo attanagliavano, ma la priorità assoluta era quella di tornare al suo posto, al comando del battaglione. Al di là dell’esigenza di essere messo al corrente delle ultime manovre e recuperare il controllo della situazione, aveva fiducia in lui ed era sicuro che avesse agito con cognizione, tuttavia non era nel suo carattere dare per scontato che ogni azione ben pianificata fosse destinata ad andare a buon fine. Soprattutto, non dopo ciò che era successo quel giorno: le sorti di una battaglia potevano ribaltarsi in fretta, e senza preavviso.
E quel silenzio, proprio nei pressi del quartiere in cui il capitano aveva detto di aver attestato la compagnia, gli sembrava troppo sinistro: il tumulto della battaglia era distante, come se gli scontri si fossero spostati altrove, ma le strade erano disseminate di cadaveri di tedeschi e polacchi.
Ancora una volta, esortò i suoi uomini alla cautela e si mise alla testa del gruppo, alzando la pistola.
Al suo fianco poté sentire Friedrich che si irrigidiva, gli occhi freddi e affilati come due lame di ghiaccio.
Fiutando il pericolo, il cane emise un ringhio sommesso.

“Kühn!” tossì Hartmann, “Kühn, dove sei?”
Erich allungò una mano ricercando a tentoni la pistola, ma la sua guancia rimase poggiata alle dure pietre dell’acciottolato, che sembravano letteralmente ribollire di una sorda e insistente vibrazione.
“Kühn!”
“Se ne sono andati?” balbettò il giovane.
“Non ancora,” rispose laconico l’altro, “ma qualcun altro ha risposto alla nostra segnalazione.”
Ancora intorpidito, Erich si puntellò sui gomiti per tirarsi su.
Hartmann, inginocchiato dietro un cumulo di detriti, fece spaziare le ottiche del binocolo da un punto all’altro dello scorcio che si offriva alla sua vista; poi indicò un gruppo di uomini in grigioverde. “Quelli là sono della compagnia di Bentheim, riconosco il tenente Mertens insieme ad alcuni dei nostri… ma più avanti vedo anche una formazione di Panzer.”
Quando il capitano von Kleist era partito per recuperare il maggiore, la compagnia era stata in breve isolata e messa in rotta dalla cavalleria polacca. Wessel, che lo sostituiva, era rimasto ferito durante uno scontro a fuoco, di Körner non si sapeva neanche se fosse riuscito ad arrivare vivo al posto di medicazione, e il comando della compagnia era momentaneamente passato al sottotenente Hartmann. Gli uomini del capitano Bentheim erano intervenuti in loro soccorso, evitando che la battaglia finisse in una carneficina, ma al loro arrivo le pietre erano già scivolose del sangue di molti soldati e sul marciapiedi c’erano decine di feriti stesi sulle barelle.
“Ormai è finita: siamo davvero nella merda. Fino al collo”, sentenziò il caporale Schneider, esalando ampie boccate di fumo mentre camminava su e giù protetto dalla corazzatura dell’obice da campo.
Nessuno osò contraddire quell’asserzione, nemmeno il vecchio maresciallo Eichmann, che vegliava con aria torva sui pochi soldati superstiti.
Erich, invece, scrollò le spalle e levò lo sguardo verso il cielo nero: rimarcare l’ovvio non sarebbe servito a nulla. Si avvicinò di soppiatto al collega, che abbandonò il binocolo e si volse verso di lui con gli occhi gonfi e arrossati. “Emil”, gli disse a bassa voce, poggiandogli una mano sul braccio, “l’unica cosa che possiamo fare, adesso, è unirci a loro e aiutarli a respingere il nemico.”
Hartmann frugò nella tasca alla ricerca delle sue sigarette e ne offrì una anche a lui, che però rifiutò con un cenno di diniego: l’odore del fumo gli aveva sempre dato fastidio, e portava con sé il ricordo di suo padre quando tornava a casa dopo il lavoro. Senza dire nulla, l’altro se ne mise una tra le labbra e l’accese, fissando assorto i combattimenti lontani. “Sì, Erich, forse hai ragione”, ammise infine. “Vieni, raduniamo tutti gli uomini ancora in grado di tenere un’arma in mano e andiamo a cercare il capitano Bentheim.”

Seduti sul marciapiede, sotto le luci giallognole dei lampioni, i prigionieri polacchi erano stretti spalla contro spalla. Avevano i volti sporchi di polvere, fuliggine e sangue, solcati dalle lacrime; qualcuno di loro sembrava poco più che un adolescente. Tenevano gli occhi abbassati, senza osare incontrare lo sguardo dell’ufficiale tedesco che li osservava a uno a uno.
“Qualcuno che parla polacco tra gli effettivi?” chiese Bentheim, terminata l’ispezione.
Il maresciallo Horowitz fece un passo avanti. “Io, signor capitano.”
“Si accerti che tutti i prigionieri ricevano le cure di cui hanno bisogno,” ordinò, “e cerchi di ottenere da loro qualche informazione utile.”
“Sissignore.”
Quando il graduato se ne fu andato, il giovane esalò un sospiro e si passò una mano sul volto. Alle sue spalle erano allineati una ventina di caduti, senza distinzione di schieramento: i teli che li ricoprivano rendevano impossibile decretare, a una prima impressione, chi di loro fosse tedesco e chi polacco, ma Konrad sapeva di conoscere di vista almeno i tre quarti di loro. Gli tornò in mente uno dei primi giorni al fronte, quando un colpo di mortaio aveva ucciso sotto i suoi occhi e quelli di Friedrich tre degli uomini più validi della sua compagnia. Ci stava ormai facendo l’abitudine: conosceva per nome praticamente tutti i suoi sottoposti e cercava di occuparsi di persona dei feriti quando le situazioni operative glielo permettevano ma, per ognuno di loro, era sempre uno strazio vedere un soldato spirare su un letto intriso di sangue, nonostante tutti gli sforzi spesi per salvarlo, o ricomporre i resti ormai irriconoscibili di un camerata morto e procedere per esclusione per risalire alla sua identità.
Mentre era immerso in simili considerazioni, un soldato delle Waffen-SS lo raggiunse, salutò col braccio alzato e annunciò: “Signor capitano, l’Hauptsturmführer Greifenberg chiede di lei.”
Nell’udire quel nome, Konrad quasi sobbalzò. “Mi conduca da lui,” disse semplicemente.

Gli uomini dell’equipaggio, in uniforme nera da carristi, erano seduti su un basso muretto come corvi appollaiati su un ramo. Le gambe di un meccanico spuntavano dal ventre di un Panzer III.
Leggermente in disparte, appoggiato alla fiancata del blindato, c’era un ufficiale alto e robusto, coi capelli biondi che s’intravedevano da sotto la bustina nera ornata da una testa di morto argentata. Intorno al collo portava ancora le cuffie e fissava assorto l’imponente cancellata che si ergeva di fronte a lui, a protezione di quella che sembrava una vecchia scuola.
Ridestato dal rumore dei suoi passi, si riscosse di colpo e gli si avvicinò. “Konrad!” esclamò in tono informale, quando furono abbastanza lontani dal resto del gruppo.
Bentheim non poté far a meno di sorridere. “Reinhardt,” lo salutò.
I loro occhi si cercarono e, per un fugace istante, lo sguardo dell’Hauptsturmführer fu offuscato da un barlume di preoccupazione. “Siamo arrivati appena le circostanze ce l’hanno permesso”, spiegò, indicando il carro danneggiato, poi diede le spalle ai suoi uomini e abbassò la voce: “Ho sentito dire che Hans è stato catturato…”
“Sì, e Friedrich è andato a liberarlo, nonostante l’impossibilità tattica e le indicazioni contrarie del colonnello.”
Reinhardt volse lo sguardo altrove, indugiando in pensieri che non poteva esprimere ad alta voce. “Non me la sento proprio di biasimarlo, sai?”
“Non è ancora tornato,” proseguì Konrad, in tono più duro. Scosse la testa, rammentando tutte le volte che Friedrich aveva anteposto la sua legge morale al regolamento, fin dai tempi della scuola militare. “E non voglio immaginare cosa succederebbe se tornasse da solo, soprattutto considerando il pericolo che la compagnia ha corso in sua assenza.”
L’altro gli appoggiò una mano sulla spalla e la strinse appena, come per rassicurarlo. “Sono fiducioso: anche noi ce l’abbiamo fatta, nonostante tutte le difficoltà che abbiamo incontrato lungo la strada.”
Bentheim emise un sospiro. “Sì, ma il prezzo da pagare è stato alto.” Non oso immaginare a quanto ammonterà la conta dei caduti, completò mentalmente, ma senza esternarlo ad alta voce. Si limitò a rivolgere al compagno uno sguardo intenso e penetrante, che bastò a comunicare tutto ciò che aveva lasciato in sospeso. Anche l’espressione di Reinhardt s’incupì, e il discorso terminò così com’era iniziato, mentre il cielo veniva invaso da un potente ronzio e l’ultima luce del crepuscolo oscurata dalle sagome dei bombardieri bimotore.

Dopo il fragore della battaglia, quella quiete insospettiva più che dare sollievo.
Di solito, quando le armi tacevano e i soldati si preparavano per rimettersi in marcia, stuzzicati dal pensiero di un fuoco intorno al quale consumare il pasto serale, a riecheggiare erano i canti e le risa, gli scherzi e gli aneddoti che cementificavano i legami tra camerati.
Quella sera invece, le strade apparivano così desolate da amplificare ogni minimo rumore, dagli isolati lamenti di un qualche ferito al calpestare ritmico delle suole chiodate, mentre il lontano rumore delle bombe riverberava in sottofondo.
L’oscurità rendeva le figure umane che si aggiravano tra le rovine simili a spettri inquieti.
I soldati della sanità avevano raccolto i feriti sotto i resti di un loggiato, mentre gli altri, taluni ancora sporchi e insanguinati, cercavano di prestare soccorso come potevano: c’era chi trasportava una barella e chi un commilitone zoppicante, chi sorvegliava i prigionieri e comunicava con loro a frasi smozzicate.
Friedrich si sentì raggelare il sangue nelle vene quando realizzò che quello scarso centinaio di uomini era tutto ciò che restava della sua compagnia, mentre un atroce presentimento si radicava in lui. Fece un passo avanti, cercando con lo sguardo il tenente Wessel.
Hans gli camminava al fianco osservando la scena con un’espressione dura sul volto, segno che in quel momento la sua fortezza mentale era totalmente inespugnabile. “Von Kleist, raduni gli uomini e faccia una conta degli effettivi.”
“Sì, signor maggiore.”
Quando i rapporti dei soldati conferirono ai suoi presentimenti una forma concreta, il capitano si sentì come se qualcuno, approfittandosi della sua buona fede, gli avesse piantato senza preavviso un pugnale tra le scapole: non poteva più sottrarsi dalle responsabilità che lo avevano travolto, né negare il suo coinvolgimento in quella vicenda. Se passava in rassegna la catena di conseguenze che vanificavano la vittoria e il successo dell’operazione di salvataggio, alle quali si sommava il peso di tutto il sangue versato, si ritrovava in ceppi, inerme e indifeso a subire l’impeto delle coltellate. Ogni testimonianza era un anello della catena che lo stritolava, una lama che penetrava sempre più a fondo.
“Dove sono i comandanti di plotone?” chiese Bühler, in tono glaciale. La sua sola presenza bastò a indurre gli uomini al silenzio.
Gli unici a presentarsi furono Kühn e Hartmann: il primo era coperto di fuliggine da capo a piedi, il secondo aveva una fasciatura insanguinata intorno alla coscia. Con un gesto perentorio, il maggiore li prevenne dal mettersi sull’attenti.
Dopo aver ascoltato tutto ciò che avevano da comunicargli, li congedò e si rivolse direttamente al suo aiutante di campo: “Capitano, mi faccia rapporto di tutte le manovre che ha effettuato da quando sono partito.”
Imponendosi di sostenere il suo sguardo, Friedrich deglutì e iniziò ad esporgli i fatti.

L’atmosfera dell’accampamento, nonostante la vittoria dell’ultimo minuto, era pervasa di un’insolita gravità: i fuochi intorno alle tende militari sembravano ardere di una luce più fioca, e i canti dei soldati, che ogni sera ritempravano dopo le fatiche campali, risuonavano smorzati da note malinconiche.
Il capitano Bentheim rivolse un ultimo sguardo al cielo scuro e senza stelle ed entrò nella propria tenda: doveva ancora compilare alcuni documenti da consegnare al comandante di battaglione, ma il ricordo del suo incontro con Reinhardt riuscì a restituirgli un barlume di sollievo.
Prima di sedersi al tavolino e iniziare a occuparsi della burocrazia, si soffermò ancora qualche istante sul pensiero del compagno, con un leggero sorriso che gli aleggiava sulle labbra. Si erano separati il giorno prima di muovere il primo attacco alla Polonia, e si erano ritrovati dopo due settimane con un carico di battaglie ed esperienze da condividere.
“È permesso?” chiese all’improvviso una voce, da fuori.
Nel riconoscere il suo timbro familiare, Konrad richiuse la cartelletta. “Prego, capitano,” scherzò.
Il drappo verde della tenda fu scostato e Reinhardt entrò con disinvoltura, avendo cura di richiuderselo alle spalle. Portava di nuovo l’uniforme di servizio, grigioverde come la sua, con la croce di ferro appuntata sul taschino. L’unica differenza vistosa, che segnava la sua appartenenza alle Waffen-SS, erano le mostrine del colletto su cui, da una parte, erano ricamate le rune della vittoria, e dall’altra i tre semi d’argento e le due righe orizzontali che indicavano il suo grado.
Il giovane abbozzò un saluto militare, sfiorando la visiera del berretto mentre un guizzo divertito attraversava i suoi occhi blu. “Salve, capitano Bentheim.”
“Salve a lei, capitano Greifenberg,” rispose Konrad, sullo stesso tono.
Si guardarono per un istante e Reinhardt scoppiò a ridere di una risata spontanea. Lui non poté fare a meno di lasciarsi trascinare dalla sua allegria, che per la prima volta dopo giorni ebbe il potere di scrollargli di dosso un cospicuo carico di preoccupazioni.
“Pensavo che ci saremmo rivisti a Varsavia”, disse alla fine. “E invece…”
“Temo che ne avremo ancora per qualche giorno, qui.” Come per abitudine consolidata, l’Hauptsturmführer si sedette sulla branda e si tolse il berretto, poggiandoselo sulle ginocchia.
Bentheim abbandonò il tavolino e si sistemò accanto a lui. “Tu come stai, Reinhardt?”
“Oh, ne sono successe talmente tante di cose in questi giorni, che non saprei neanche da dove iniziare a raccontare… ma da parte mia, per fortuna, sono più le buone notizie che le cattive. E tu?”
“Come al solito. Certo, nessuno si sarebbe mai aspettato una giornata come quella di oggi: ha seriamente rischiato di stravolgere tutti i piani, ed è solo con molta fatica che siamo riusciti a mantenere quel poco controllo che ci era rimasto.” Konrad esalò un sospiro: cercava sempre di mostrarsi calmo e di impedire che i dubbi prendessero il sopravvento sulla razionalità, ma quella volta dovette fare uno sforzo per sostenere lo sguardo di Reinhardt senza lasciarli riaffiorare.
“Faremo tutto il possibile per recuperarlo. D’ora in poi, fino a nuovo ordine, le nostre compagnie opereranno nella stessa zona,” lo rassicurò l’altro, sfiorandogli la spalla con la propria. “Di Hans e Friedrich sai qualcosa?”
“Sì, sono tornati entrambi sani e salvi, anche se la situazione è perfino peggio di quanto ci aspettassimo.”
Reinhardt annuì gravemente e Konrad stirò un sorriso, mentre la sua mano raggiungeva quella del compagno e la stringeva appena. “Ma spero che le cose si sistemino per il meglio.”
L’Hauptsturmführer gli avvolse un braccio intorno alle spalle e lo strinse a sé, sfruttando quel breve momento di solitudine che era loro concesso. “Lo spero anch’io”, ripeté.

Nell’alone di luce fioca emanato dalla lampada a carburo, Hans terminò di rispolverare la vecchia Luger che aveva recuperato dal bagaglio e la ripose nella fondina, in attesa che l’armeria gli assegnasse un’altra Walther P38 d’ordinanza. Era la sua prima pistola, col calcio consunto dall’uso e un graffio sulla canna, che aveva ricevuto quando era diventato sottotenente e viveva ancora nel Baden: un oggetto che, a distanza di anni, continuava a riportargli alla mente i ricordi di un tempo in cui tutti conoscevano l’arte della guerra ma nessuno l’aveva mai davvero provata sul campo.
Controllò l’orologio che portava al polso, e la mano, nervosa, prese a tamburellare la penna sul piano del tavolino da campo che gli fungeva da scrivania: erano già passate le dieci di sera, ma stimò che aveva davanti a sé ancora un paio d’ore prima di riuscire sistemare tutto quello sfacelo. Il thermos del caffè era quasi per metà vuoto, ma se ne versò comunque un’altra tazza e la sorseggiò distrattamente mentre si rimetteva a compilare i rapporti da consegnare al colonnello Wolff.
Gli unici rumori a scandire il tempo, che gli parve scorrere dieci volte più lento, erano lo scartabellare dei fogli e il fruscio della penna che scorreva rapida sulla carta. Con un sospiro, il maggiore stirò le gambe, si portò una mano dietro la testa indolenzita e si appoggiò allo schienale della sedia: aveva un disperato bisogno di sdraiarsi sulla branda, chiudere gli occhi e non pensare a nulla, almeno per un paio d’ore. Ma prima di poterselo permettere, doveva sbrigarsi a finire il suo lavoro senza dare a nessuno dei suoi subalterni ragione di preoccuparsi per la sua salute, né delegare ai furieri un compito che aveva sempre insistito per svolgere di persona.
Tempo prima, il tenente colonnello von Rauheneck gli aveva detto: “Un ufficiale deve essere come un padre, attento e severo, e conformarsi come un esempio da cui i subalterni possano trarre il meglio.”
Forse, rifletté, c’era un fondo di verità nelle velate accuse che gli si rivolgevano – che un Bursche come lui fosse troppo inesperto per comandare un battaglione. Forse era vero che il disastro di quel giorno era da imputarsi a un suo errore strategico, a quella stessa hybris che tanto aveva rimproverato ai suoi sottoposti.
Riconsiderandola in quell’ottica, l’errore poteva essere ovunque – l’intera operazione poteva essere un errore. In guerra, anche la svista più banale poteva avere conseguenze imprevedibili, e von Eltz lo aveva messo in guardia da esse.
Sapeva tuttavia che era inutile tormentarsi sulle proprie colpe, vere o presunte: nessuno avrebbe riposto fiducia in un comandante insicuro. L’unica cosa da fare era riconsiderare in maniera obiettiva l’intera situazione e adoperarsi affinché certi errori non si ripetessero. Aveva ascoltato le testimonianze degli ufficiali, compreso Wessel dall’infermeria, e ne aveva dedotto che a causare il disastro era stata una mossa inaspettata del nemico, che aveva ben pensato di accerchiare la compagnia quando non aveva vie d’uscita: loro non avevano potuto far altro che resistere a oltranza, attendendo poi l’intervento del capitano Bentheim che li aveva aiutati a respingerlo.
Scorse un altro foglio, lo firmò e lo mise da parte, impilandolo insieme agli altri.
Aveva sempre pensato che il Bund nobilitasse il legame tra due soldati, ma in una situazione come quella, dove Friedrich era intervenuto per liberarlo sfidando ogni altra cosa, se Hans ne riconosceva le ragioni più reali e profonde, che cosa avrebbe dovuto fare il maggiore Bühler?
A considerare la questione da un punto di vista egoistico, il suo compagno gli aveva risparmiato l’umiliazione di finire la guerra in un campo prigionieri. A considerarla da un punto di vista militare, era grazie a lui se aveva potuto riprendere il suo servizio e tornare a combattere insieme ai suoi uomini. Lo aveva fatto per lui, per tutto il battaglione, ed entrambi sapevano cosa significava.
Ma restava il fatto che il capitano aveva agito sulla base di un’iniziativa personale non richiesta, anche se formalmente giusta, sulla quale – tra morti, feriti e prigionieri – gravava il peso della metà degli effettivi della compagnia.
Un leggero bussare alla porta della baracca lo indusse a drizzare la schiena e interrompere il flusso dei suoi pensieri. “Avanti.”
“Signor maggiore, gli elenchi delle perdite e dei feriti,” disse il capitano von Kleist in tono impersonale, poggiando sul tavolo una cartelletta grigia. “Li ho già compilati.”
Bühler alzò lo sguardo su di lui e annuì lentamente.
Friedrich era ancora in uniforme completa, con la pistola allacciata alla cintura e la visiera del berretto che gli ombreggiava lo sguardo. Arretrò di qualche passo e si fermò davanti alla porta, in atto di congedarsi. “Se c’è bisogno di me, sa dove trovarmi.”
“Non adesso.”
A quelle parole, Friedrich aggrottò le sopracciglia e rimase fermo a braccia conserte di fronte a lui, senza proferire motto.
“Si sieda, capitano.” Quello di Hans doveva suonare come un invito, ma il tono era quello di un ordine. Rimase a guardarlo mentre si toglieva il berretto e prendeva una delle sedie adagiate contro la parete, poi mise da parte le formalità e decise di affrontarlo a viso aperto. Gli versò del caffè nella tazza e gliela allungò dall’altra parte del tavolo.
Friedrich accettò titubante, senza neanche chiedergli se la quantità di zucchero fosse quella giusta. Leggeva nel volto dell’uomo una collera a stento trattenuta, che riaffiorava soltanto nei momenti in cui era al limite: allora, si chiudeva in se stesso e non voleva vedere nessuno, neanche lui. Abbassò lo sguardo sul liquido scuro e lo sentì sospirare.
“Von Kleist.” La sua voce lo richiamò all’attenzione: era severa, ma sotto sotto s’intuiva un calore quasi impercettibile. “Le avevo ordinato di rimanere con la sua compagnia e di non prendere iniziative personali.”
“Se l’avessi fatto, signore, probabilmente l’avrebbero portata altrove”, rispose lui. “Ho agito prima che fosse troppo tardi.”
“Conosce la convenzione di Ginevra, capitano: di certo, non mi sarei rassegnato a vodka e zuppa di barbabietole mentre voi continuavate a combattere. Avrei tentato la fuga con qualsiasi mezzo, lecito o…” S’interruppe, soppesando le parole. “Meno lecito.”
“Con tutto il rispetto, Hans,” gli occhi chiari di Friedrich divennero affilati, “conosci bene il motivo per cui l’ho fatto.”
Bühler gli scoccò un’occhiataccia, ma decise di soprassedere su quell’evidente violazione del regolamento. Tra loro calò una coltre di silenzio tanto densa da assumere consistenza fisica, mentre i loro occhi si cercavano e si incatenavano gli uni agli altri, scambiandosi uno sguardo che da solo bastò a comunicare tutto ciò che non potevano esprimere a parole.
Entrambi conoscevano la verità e non potevano parlare oltre, perché a quel punto ne sarebbero usciti ancor più compromessi. Sapevano di essere legati a doppio filo e, se quell’episodio avesse avuto conseguenze gravi, nessuno dei due si sarebbe potuto sottrarre alla loro portata.

Il colonnello Wolff sospirò e si passò una mano tra i capelli striati di bianco. Per la prima volta dopo ore, si alzò dalla scrivania ingombra di carte e si avvicinò alla finestra della caserma che ospitava il suo reggimento, scostando la tenda di pesante stoffa scura. La pioggerellina, fitta e insistente, che batteva contro i vetri, faceva sembrare lo scorcio del paese simile a una pittura ad acquarelli; i lampioni già accesi erano macchie di luce su uno sfondo sfocato. Da lì, oltre il vetro imperlato di pioggia, si poteva scorgere anche un’ansa della Vistola con le sue morbide sponde.
Ripensò all’inaspettata parentesi di Łowicz – uno scontro senza quartiere che aveva visto le sorti ribaltarsi più volte – e ancora una volta fu colto dal presentimento di aver sottovalutato la determinazione del nemico: solo dopo giorni di furiosi combattimenti, e solo perché ormai si erano visti messi alle strette, i polacchi si erano ritirati verso est per difendere la capitale, minacciata su due fronti dalle armate tedesche.
Dall’anticamera, un rumore di passi che si avvicinavano lo distolse dalle sue considerazioni. Udì bussare alla porta e il suo aiutante di campo si affacciò sulla soglia. “Signor colonnello, i documenti che mi aveva richiesto.”
“Può poggiarli sulla scrivania, Meyerhof.”
L’altro gli consegnò con solerzia due voluminose cartelle rilegate, poi si fermò irresoluto a qualche passo dalla scrivania, come se si aspettasse di essere trattenuto per il solito caffè pomeridiano.
Wolff, tuttavia, lo congedò con un cenno frettoloso. “Ora può andare, capitano.”
Meyerhof non si mosse, e i suoi occhi piccoli e sottili si strinsero ancora di più dietro le spesse lenti degli occhiali. “Con permesso, signore…”
“Ne abbiamo già parlato, Meyerhof. Domattina voglio i comandanti di battaglione a rapporto da me, per fare il punto sulla situazione tattica prima di ripartire per Varsavia.” E stavolta non dobbiamo lasciarci sfuggire nulla, pensò.
“Signor colonnello, se me ne dà licenza, avrei voluto chiederle della sua ferita.”
“Ne ho ricevute di peggiori durante la Grande Guerra.” Mentre diceva quelle parole, si accorse che lo sguardo dell’aiutante era ricaduto sul distintivo per feriti d’oro che portava appuntato sul taschino, un ricordo delle trincee di Passchendaele che conservava ancora vivido dopo oltre vent’anni. “Adesso vada, capitano.”
Aspettò che se ne andasse, poi sollevò la manica della giubba per controllare che la fasciatura intorno al braccio fosse ancora al suo posto: l’assedio a quella fabbrica era durato fino a notte fonda, e perfino lui si era beccato un colpo di striscio durante i combattimenti. Alla fine, gli uomini del suo seguito erano riusciti a uscirne solo grazie all’intervento di un battaglione di Waffen-SS.
In quel momento, alcuni mezzi militari fecero il loro ingresso nel piazzale della caserma, sollevando schizzi d’acqua dalle pozzanghere. Dal più avanzato di essi scese un ufficiale alto e segaligno, che il colonnello riconobbe come il maggiore Bühler. Lo vide radunare i suoi uomini e fermarsi sotto un cornicione a parlare col suo aiutante di campo von Kleist, mentre i soldati si dirigevano ai baraccamenti. Wolff ne fu sottilmente compiaciuto: in quel battaglione, gli ufficiali sembravano legati da profondi rapporti d’amicizia, ma ciò non ne aveva mai compromesso il funzionamento – a suo parere, semmai, ne aveva rafforzato la coesione – tuttavia restava ancora una faccenda sulla quale occorreva far luce al più presto.
Voltò le spalle a quella scena per tornare a sedersi alla scrivania e, senza quasi rendersene conto, riprese a sfogliare nervosamente i documenti compilati dal maggiore.
Aveva letto decine e decine di pagine di rapporti relativi alle giornate di Łowicz, nei quali venivano riportate le notizie più disparate, ma quello di Bühler aveva dovuto leggerlo e rileggerlo più volte: nonostante il modo, sempre chiaro e dovizioso di particolari, in cui l’ufficiale aveva esposto i fatti, alcuni punti continuavano a risultargli oscuri.
“Meyerhof?” chiamò, ad alta voce per farsi sentire.
Poco dopo, l’aiutante di campo ricomparve sulla porta.
“Vada a chiamare il maggiore Bühler, per cortesia.”

Solo quando lo scalpiccio di un paio di stivali militari si sovrappose al monotono scrosciare della pioggia che proveniva dall’esterno, Wolff distolse gli occhi dal rapporto incriminato.
Il convocato fece il suo ingresso nella stanza e il rumore dei tacchi rimbombò nel silenzio mentre scattava sull’attenti. “Signor colonnello.”
“Comodo, maggiore,” gli ingiunse, con un gesto sbrigativo.
Il giovane rilassò appena la propria posizione, spingendo in avanti il piede destro e congiungendo le braccia dietro la schiena. Wolff lo squadrò da sotto le sopracciglia cespugliose: appariva più pallido del normale ma, se anche fosse realmente stanco, nulla alterava il suo solito contegno.
“Ci risulta che il capitano von Kleist abbia preso un’iniziativa personale, contrariamente alle sue disposizioni. È così, Bühler?”
Hans si sentì trapassare dallo sguardo indagatore del suo superiore, che gli provocò un involontario brivido lungo la spina dorsale. Cercò di rimanere tuttavia immobile. “Era una situazione d’emergenza, signore”, rispose, in tono imparziale, “si tratta di una manovra che, se fossi stato presente, avrei effettuato io stesso. Von Kleist ha provato a rintracciare prima me e poi lei, ma non c’è riuscito. Pertanto…”
Un cenno del colonnello lo indusse a tacere. “Le ho fatto una domanda ben precisa, maggiore.”
Bühler strinse impercettibilmente le labbra. Avrebbe dovuto dire di sì, ammettere che il capitano aveva trasgredito i suoi ordini, ma dentro di sé sapeva che, se solo fosse stato possibile, lui stesso gli avrebbe dato l’autorizzazione a procedere.
Per un istante gli parve di sentire su di sé lo sguardo di Friedrich, e il cuore gli mancò un battito prima di riprendere ad agitarsi come un uccellino in gabbia. “Conosci bene il motivo per cui l’ho fatto, Hans.”
Non poteva mentire dicendo di essere stato lui a emanare quell’ordine, ma non poteva neanche scaricare la colpa dell’insuccesso su di lui, dopo tutti i rischi che il giovane si era sobbarcato sulle spalle pur di salvarlo: come minimo, doveva tener fede al loro proposito di proteggersi a vicenda. “Non ho dato indicazioni contrarie in merito, signor colonnello.”
“Dunque lei sostiene che, in quel frangente, il capitano fosse pienamente autorizzato a compiere manovre d’emergenza.”
“È così, signore,” rispose con fermezza il maggiore.
Wolff annuì lentamente e congiunse i polpastrelli mentre una ruga verticale gli si disegnava sulla fronte. “Capisco”, disse infine, senza che i suoi occhi chiari smettessero di fissarlo. “Può andare, Bühler. La ringrazio per la sua deposizione.”

Il capitano von Kleist entrò nell’ufficio del comandante di reggimento e scattò sull’attenti: sapeva già cosa aspettarsi da quel colloquio, ma cercò di restituirgli una facciata impenetrabile. Anche quando l’uomo gli ordinò il riposo, rimase rigido nella propria posizione, limitandosi ad abbassare il braccio e a lasciarlo ricadere lungo il fianco.
“Von Kleist, come giustifica la sua iniziativa?”
“Signor colonnello,” rispose il giovane con voce distaccata, “Radio e telefono non funzionavano, la città era stata ripresa dai polacchi: mi è stato ordinato di battermi per la nostra vittoria e l’ho fatto, anche se ciò ha comportato un alto prezzo da pagare.”
“Sostiene dunque di aver agito in linea con le indicazioni del suo superiore?”
“Il maggiore Bühler era assente, non ha alcuna responsabilità in merito: è stata una manovra d’emergenza, che ho compiuto nei limiti del possibile.”
“E questo è sacrosanto, capitano”, asserì Wolff, imperturbabile. “E per quanto riguarda la sua liberazione?”
“Ho fatto ciò che andava fatto, signor colonnello.”
“Certo, von Kleist, ma avrebbe dovuto attendere una conferma da parte mia,” replicò l’altro, senza scomporsi. “Avremmo mandato qualcuno a recuperarlo, alla fine della battaglia: non era necessario in quel momento imbarcarsi in un’impresa tanto rischiosa.”
A quelle parole seguì una lunga pausa. Friedrich si sentì come se gli occhi dell’uomo volessero scavargli nel profondo, ma non poté far altro che ostentare ancora una volta distacco: lo doveva a se stesso, ma soprattutto lo doveva a Hans. “Con tutto il rispetto, signore,” obiettò, glaciale, “se avessi atteso, probabilmente non lo avremmo più ritrovato.”
“Lei ritiene quindi di aver fatto la cosa giusta.”
“Me ne assumerò la piena responsabilità, signor colonnello.”
“Si rende conto del peso della sua dichiarazione, capitano?”
Friedrich represse un sospiro. “Signorsì, signore.”
Wolff rimase a lungo in silenzio, ponderando con attenzione le sue parole. Von Kleist si sforzò di sostenere il suo sguardo anche se, per ogni secondo che passava, le pareti di quella stanza sembravano stringersi sempre di più intorno a lui, come se volessero schiacciarlo.
Infine, il colonnello si alzò in piedi e disse: “Non posso privarmi di ufficiali competenti come voi adesso che siamo a un passo da Varsavia, pertanto la questione verrà sottoposta a regolare processo ed eventualmente giudicata soltanto alla fine di questa campagna. Sia lei che il suo superiore verrete chiamati a rispondere delle vostre azioni e, se necessario, prenderemo i provvedimenti del caso. Si ritenga congedato, capitano.”

Hans quasi sobbalzò quando sentì bussare alla porta del suo ufficio: tre colpi regolari, come concordato, dati con le punte delle nocche. “Entri pure, von Kleist,” disse, ricomponendosi.
Anche quando il capitano si richiuse l’uscio alle spalle, Bühler rimase fermo davanti alla finestra socchiusa, con la schiena appoggiata all’intelaiatura e le braccia conserte. “Alea iacta est, Friedrich,” esordì, “spero che tu sia soddisfatto.”
Il giovane alzò lo sguardo su di lui e incontrò l’espressione seria che induriva i suoi lineamenti, totalmente in contrasto col caustico sarcasmo delle sue parole. Sapeva che non avrebbe potuto agire in maniera diversa, perché ciò sarebbe equivalso ad abbandonarlo al proprio destino – cosa del tutto contraria ai suoi principi – ma percepiva anche la preoccupazione che l’uomo si sforzava di nascondere sotto la sua ruvida corazza. Gli si avvicinò fino a quando non furono che pochi passi a separarli. “E a te non servirà a niente assumerti colpe che non hai.”
Hans gli girò le spalle, appoggiando le mani al davanzale. “Se tu dovessi finire alla corte marziale… io che cosa dovrei fare, stare a guardare mentre ti tolgono i gradi e ti ricoprono di vergogna?” Scrollò la testa infastidito, reprimendo un moto di stizza.
“Avrei dovuto mentire, in modo da spartire la colpa in parti uguali?” Friedrich inarcò un sopracciglio e lo ripagò con altro sarcasmo, ma la sua voce risuonò insolitamente bassa. “Sai che non funziona così.”
A quelle parole, l’altro inspirò come se stesse per riemergere dopo una lunga apnea. Quando si voltò, tuttavia, la sua espressione era di nuovo seria. “No, avresti dovuto attenerti alle disposizioni del tuo comandante. È così difficile obbedire agli ordini, una volta tanto?”
“Perché ti dai tutta questa pena per proteggermi, se ritieni che io abbia sbagliato?”
Rimasero per un lungo istante a fronteggiarsi in silenzio: ormai erano così vicini da poter vedere il proprio riflesso negli occhi dell’altro. “Suppongo che sia lo stesso motivo per cui tu hai deciso di fare ciò che hai fatto,” lo rimbeccò con amarezza il maggiore, “dovresti smettere di farmi domande di cui conosci già la risposta.”
“Se ho sbagliato me ne assumo le responsabilità, ma non voglio che tu ti metta in mezzo.”
Di fronte allo sguardo dardeggiante di Friedrich, Hans aggrottò le sopracciglia e si raffreddò di colpo. “Questa faccenda non riguarda soltanto te, che tu lo voglia o no.”

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Capitolo 15
*** Capitolo XIII ~ Noch so ein Sieg, und wir sind verloren. ***


XIII.
Noch so ein Sieg, und wir sind verloren.


La terra umida irradiava il suo sentore caratteristico, fresco e aromatico. Anche il sole, che aveva ripreso a splendere di un lume più tenue dopo un’intera notte di pioggia, accarezzava l’erba coi suoi tiepidi raggi e arrecava sollievo dopo il sangue e il sudore della lunga mattinata.
Friedrich von Kleist approfittò della momentanea pausa durante la marcia per guardarsi intorno: la maggior parte dei soldati della sua compagnia bivaccavano sul prato bagnato dal sole o al riparo delle prime propaggini del bosco, dove qualcuno ne stava approfittando per mangiare o per riposarsi col bagaglio ripiegato sotto la testa. Vide Kühn e Krause che giocavano insieme al cane-soldato, lanciandogli bastoncini e impartendogli comandi militari, udì la voce chioccia del maresciallo Eichmann che raccontava aneddoti a un gruppo di reclute e al suo naso giunse l’odore delle sigarette di Schneider, che sembrava averne una fornitura pressoché illimitata.
Tuttavia, c’era qualcosa che, ai suoi occhi, rendeva straniante quell’atmosfera all’apparenza familiare: dopo l’esperienza di Łowicz, gli effettivi della sua compagnia risultavano dimezzati, e quelli che non erano morti si trovavano in qualche ospedale delle retrovie o in un campo prigionieri. Come a volersi fare beffe di lui, un’armonica a bocca suonava le note di Drei Lilien.
Tre gigli, tre gigli crescevano sulla mia tomba, poi venne un cavaliere orgoglioso e li colse…
Alla sua mente si riaffacciò la vista dei tumuli anonimi e degli elmetti posti sulle croci di legno, che costellavano i cimiteri nella terra di nessuno. Aveva tributato ai nemici caduti gli stessi onori che tributava ai compatrioti, e gli ufficiali polacchi avevano fatto lo stesso coi morti della sua compagnia, in rispettoso silenzio, come se versare il proprio sangue per la Patria – qualunque essa fosse – fosse il sacrificio più nobile che un uomo potesse compiere.
Ma la sua manovra, anche se poteva ritenersi formalmente giusta dal punto di vista strategico, si era trasformata in una spietata lotta per la sopravvivenza, una vittoria di Pirro che lui percepiva come un fallimento personale e che sarebbe stata rimessa all’ineluttabile giudizio di un tribunale militare.
Tanto sangue versato inutilmente… per una mia iniziativa personale.
A quel pensiero, la sensazione del pugnale conficcato tra le scapole tornò a colpirlo con tutta la sua violenza.
La macchia rossa si allargava, rapida e inesorabile, come se impregnasse un mantello dal tessuto immacolato. E lui si ritrovava ferito, incapace di muoversi o di gettare via l’indumento che, privato del suo originario candore, gli gravava sulle spalle con consistenza di piombo.
Si guardò le mani e gli parve di vederle sporche dello stesso sangue, ma nero e denso come catrame, impossibile da lavare via.
Come una macchia indelebile sulla mia coscienza…
Sbatté le palpebre per cancellare quelle immagini, che lo tormentavano anche nei suoi incubi più oscuri, ma dovette lottare con tutto se stesso per imporsi l’autocontrollo.

Mentre vagava alla ricerca del suo amico Bentheim, il suo sguardo ricadde su due soldati che sostavano all’ombra di un albero: il primo dei due, un ragazzo biondo all’incirca della sua età, era seduto con la schiena appoggiata al tronco e accarezzava i capelli del più giovane, che sonnecchiava beato con la testa posata sul suo zaino. Per un istante si trovò a chiedersi quale fosse il loro legame – se quella connessione spirituale che stava alla base di ogni comunità maschile o qualcosa di più intimo ed esclusivo, come quello che c’era tra lui e Hans – ma scosse la testa e passò oltre, distogliendo lo sguardo.
Quella mattina si erano messi in marcia senza neanche salutarsi: per la prima volta dopo giorni passati a combattere insieme, si ritrovavano di nuovo separati, le uniche interazioni ridotte a scarne frasi di circostanza.
“Questa faccenda non riguarda soltanto te, che tu lo voglia o no.”
Le parole della sera precedente continuavano a rimbombargli nella testa come un’accusa implicita, che amplificava il suo senso di colpa all’idea di aver messo il compagno in una situazione così scomoda. Ma ciò che gli bruciava ancora di più era sapere che l’altro, anziché denunciarlo, lo aveva redarguito privatamente, ma poi, di fronte al colonnello Wolff…
“Dovresti smetterla di farmi domande di cui conosci già la risposta.”
Scacciò quell’ultimo pensiero con rabbia.

Friedrich camminava a testa bassa, fissando i suoi stivali che affondavano nel tappeto di foglie umide mentre s’inoltrava nel folto della macchia d’alberi. Le chiome spioventi delle conifere erano ancora verdi e solo pochi esili raggi di luce riuscivano a farsi strada tra i loro rami, mentre il fogliame decomposto si confondeva coi rametti e col fango del sottobosco.
Inspirò quell’odore familiare, che gli ricordava le lunghe passeggiate nei boschi del Brandeburgo, poi si voltò verso Konrad, che lo fissava con la fronte corrugata e gli occhi grigi ridotti a due fessure. “Adesso possiamo parlare liberamente, anche se abbiamo poco tempo,” gli comunicò.
“Dimmi cosa ti angustia.”
Von Kleist si fermò in una piccola radura di alberi picchiettati di muschio giallo. “Le solite… faccende di servizio,” disse, con un’alzata di spalle.
Bentheim annuì impercettibilmente, cogliendo al volo l’allusione. “Lui sta facendo soltanto il suo dovere.”
“Anch’io l’ho fatto, anche se per raggiungere il risultato sperato ho dovuto disobbedire,” ribatté Friedrich. Mise le mani nelle tasche e levò lo sguardo verso le cime degli alberi. “Dopotutto, che cos’è il dovere, se non una sorta di legge universale? Non avrei potuto fare altrimenti, neanche se lui me lo avesse proibito cento volte. Solo, non avrei mai pensato che…”
Strinse i denti, incapace di continuare la frase. Immaginò ancora il sangue nero che gli sporcava le mani, i lamenti dei feriti che squarciavano l’aria come lame. Aveva fatto la cosa giusta, ma come avrebbe potuto prevedere conseguenze collaterali di una tal portata? Perfino lui, che prima di ogni decisione considerava i suoi possibili sviluppi, si era lasciato cogliere alla sprovvista, troppo preso dall’urgenza di agire.
L’altro non replicò, ma il volto parzialmente celato sotto l’ombra del berretto mostrava un’espressione attenta. Lo stormire delle fronde e il cinguettare degli uccelli facevano da sottofondo al loro silenzio, in contrasto con le ferali visioni che velavano lo sguardo del capitano.
Infine, Friedrich proseguì: “Io mi metto sullo stesso piano degli altri ufficiali. Cerco di conquistarmi la fiducia dei soldati attraverso le azioni, di dimostrarmi degno del ruolo che ricopro. Se non mi fossi assunto personalmente quell’onere non avrei più avuto il coraggio di guardarlo in faccia… né di guardare in faccia i miei uomini.”
“Ed è giusto, visto che qui nella Wehrmacht sono i meriti militari e non l’appartenenza sociale a determinare il valore di un soldato. Tutti ti riconoscono i tuoi, però mi sembra che tu ci stia mettendo troppo zelo nel cercare di dimostrarli.”
“Non c’entra nulla la reputazione, Konrad.”
Bentheim sollevò un sopracciglio. “Il colonnello Wolff non è il tipo da passare sopra a certe cose, dovresti saperlo meglio di me… e lo stesso vale per Hans: non farà sconti solo perché sei tu. Buona fede o no, stavolta hai oltrepassato i limiti consentiti e, se la questione è in bilico tra encomio e corte marziale, spetterà a te fornire le prove per convincerli che non si poteva proprio fare diversamente.”
“Come se m’importasse dell’encomio,” sospirò von Kleist. “Rispettare le regole non avrebbe evitato il disastro.”
“Non tutte le regole sono giuste, ma c’è un motivo se vengono fissate.”
“Ah, da che pulpito!” Friedrich proruppe in una risata amara e priva di allegria. “Sai benissimo che anche tu avresti agito allo stesso modo, se…”
L’altro levò una mano, troncando a metà la frase. “Non lo metto in dubbio, Friedrich.” Si voltò verso un punto indefinito del bosco, come se stesse davvero cercando d’immaginare come si sarebbe comportato in una situazione simile, poi riprese a camminare a passo più spedito. “Tuttavia non sottovaluterei i consigli di un amico: ne va della tua stessa carriera militare.”

Mentre tornavano indietro, fu la voce di Reinhardt a richiamarli all’attenzione. “Von Kleist? Bentheim?”
Sentendosi chiamare, affrettarono entrambi il passo e lo raggiunsero alle spalle, i rametti che scricchiolavano sotto i loro piedi. L’Hauptsturmführer scattò sulla difensiva col piglio di una fiera, ma quando li riconobbe si sciolse in un tiepido sorriso.
“Ecco dove eravate!” disse sollecito, recuperata la calma. I due giovani spostarono lo sguardo da lui al bosco dietro di lui, accorgendosi che a separarli dal prato in cui sostavano i soldati c’erano ancora diversi filari di alberi. “Ero venuto a cercarvi: tra poco si riparte.”
Konrad annuì. “Sì, stavamo arrivando.”
“Nessun problema”, disse l’altro. “Abbiamo tutto il tempo per elaborare il piano d’azione.”
Friedrich rimase in silenzio, le braccia dietro la schiena. Continuava a camminare a qualche passo di distanza, senza nemmeno ascoltare le loro voci in sottofondo: era da quella mattina che coordinavano le azioni alla guida delle rispettive compagnie, mentre lui si era limitato a intervenire solo per dare consigli strategici e trasmettere gli ordini al suo reparto. Coi Panzer a supporto della fanteria, favorita anche dalla sintonia tra i due comandanti, l’avanzata era stata più rapida e aveva proseguito fino a mezzogiorno senza particolari intoppi.
Solo lui, privato della sua solita tempra, si era rassegnato a un ruolo di consulente e supervisore per rimuginare sulla situazione.
Ancora una volta, la voce di Reinhardt lo fece sussultare. “Friedrich, tutto bene?”
Il giovane sollevò la testa e notò che l’amico lo fissava con le sopracciglia aggrottate. Konrad alzò gli occhi al cielo, come se già si aspettasse la risposta.
“Sì, sì, stavo solo… pensando,” minimizzò.
“Sei preoccupato per la cosa dell’altro giorno.”
La frase aveva il tono di una constatazione, che strappò a Friedrich un sospiro. “Già.”
Sfruttando gli ultimi momenti di solitudine prima di riunirsi agli altri soldati, Reinhardt lo affiancò e abbassò la voce. “Posso dirti come la penso, Fritz?” Senza neanche attendere conferma da parte sua, fece una breve pausa e proseguì, in tono confidenziale: “Ti conosco dai tempi della scuola militare, e sono abbastanza sicuro di sapere cosa ti passa per la testa. Però ormai conosco bene anche lui: so che non potrebbe mai abbandonarti, né ti abbandoneremo io e Konrad. Se le tue azioni sono state obbligate dalle circostanze, quello che è accaduto dopo era al di fuori del controllo di chiunque.” Gli diede un colpetto amichevole sulla spalla. “Non tormentarti troppo, Fritz. Com’è che dite voi della Ostpreußen? Am Ende steht der Sieg.
Per quanto Friedrich non si sentisse di condividere il suo ottimismo, l’ardente convinzione nelle parole dell’amico lo spinse a forzare un sorriso. “Ve ne sono grato,” mormorò.
Tuttavia, levò lo sguardo verso le nuvole grigie che sporcavano l’azzurro del cielo, consapevole che non sarebbe stato affatto semplice.

Hans congedò il caporale Schmidt e si appoggiò contro il fianco della nuova Kübelwagen: faceva uno strano effetto vedere la carrozzeria intatta, senza neanche un graffio sui vetri o sulla vernice beige. Da quando la precedente era stata distrutta da un colpo di mortaio – lo stesso che lo aveva costretto ad attraversare la periferia di Łowicz a piedi – Schmidt non la lasciava mai incustodita, e si allontanava solo quando sapeva che lui era nei paraggi.
Il maggiore aspettò che l’autiere fosse a debita distanza, mentre i soldati sfruttavano la breve pausa per mangiare e riposarsi, poi si lasciò scappare un sospiro.
Anche se per esigenze di regolamento aveva dovuto rimproverarlo, sapeva che Friedrich aveva delle valide ragioni per spostare la compagnia altrove. Chiunque altro avrebbe preso quella risoluzione, qualunque comandante gliene avrebbe dato licenza… il problema, in quel caso, era che nessuno l’aveva fatto con lui. La giustizia militare era imparziale: anche se il capitano non aveva alcuna colpa per ciò che era accaduto dopo, le buone intenzioni non bastavano a scagionarlo. Forse, se gli avesse concesso un margine di autonomia… ma come avrebbe potuto anche solo ipotizzare una simile emergenza?
Dal colloquio col colonnello della sera precedente, aveva come l’impressione di trovarsi la spada di Damocle sospesa sulla testa, pronta a calargli sul collo non appena avrebbe commesso un passo falso: Friedrich rischiava la corte marziale, e lui non poteva fare nulla di lecito per impedirlo.
Non riusciva a togliersi dalla testa il momento in cui era tornato in sé e si era ritrovato di fronte il suo volto e quegli occhi di ghiaccio ardente, che lo fissavano carichi di apprensione. In quella sorta di torpore in cui era piombato, gli era sembrato di sentire il tocco dell’acciaio sulla pelle della gola e di udir riecheggiare un colpo di pistola: il capitano non aveva mai voluto dirgli nulla a riguardo, né si era voluto prendere i meriti per ciò che aveva fatto, ma lui era sicuro che avesse ucciso il suo carceriere per liberarlo.
Ciò che viene fatto per amore è sempre al di là del bene e del male…
Si chiese quanto ci fosse di vero in quelle parole. Era così anche in quel caso? E fino a che punto avrebbe potuto spingersi per proteggere Friedrich e ripristinare lo status quo?
“Signor maggiore.”
L’ufficiale alzò la testa, trovandosi di fronte il capitano Schwieger. Lo salutò con un cenno del capo e l’altro si appoggiò alla fiancata del veicolo, scrutandolo con aria preoccupata. “Mi consente di parlare francamente, signor maggiore?”
Bühler annuì, senza tradire alcuna emozione. Come in un rituale consolidato, tirò fuori dalla tasca il pacchetto delle sigarette e ne offrì una all’amico, che ne prese una e se l’accese schermando la fiamma con la mano. “Ho sentito quello che dicevano i soldati stamattina a colazione.”
“Dovresti smettere di dare peso ai pettegolezzi di caserma”, borbottò Hans a denti stretti, passando bruscamente al tu.
“E tu dovresti smettere di pensarci in continuazione,” replicò l’altro. “Se il colonnello ha deciso di rimandare la questione a campagna militare finita per non demoralizzare le truppe, ci sarà un motivo. E lo stesso vale per te: se i soldati ti vedono così sfiduciato, come pensi che reagiranno?”
Hans, lievemente imbarazzato da tanta premura, non disse nulla: anche se tra loro c’era solo un anno di differenza, a volte Schwieger si comportava quasi come un fratello maggiore con lui. Pensò che fosse sul punto di fare una qualche battuta, ma alla fine si limitò a rivolgergli uno sguardo comprensivo. “Dammi retta, smettila di pensarci. È normale che tu sia preoccupato per von Kleist, ma vedrai che, se ti concentrerai sul presente, le cose si sistemeranno prima ancora che tu possa rendertene conto.”

Nonostante i successi della giornata, che avevano ancora una volta spianato alle truppe tedesche l’avanzata verso Varsavia, il capitano von Kleist rientrò ai baraccamenti senza proferire parole che non fossero ordini o frasi di circostanza in direzione dei suoi soldati.
Nel campo l’atmosfera si era intiepidita rispetto agli entusiasmi dei primi giorni, ma intorno ai fuochi fluttuava ancora il calore del cameratismo, che si rafforzava nella consapevolezza di essere tutti uniti dagli stessi ideali – soldati e ufficiali, fanti della Wehrmacht e uomini delle Waffen-SS. Chi non chiacchierava con gli amici, vecchi o nuovi che fossero, cantava o si intratteneva con scherzi e facezie; solo in pochi rifuggivano la compagnia per ritirarsi in solitudine.
Vide Konrad e Reinhardt condividere una bottiglia di vino, soddisfatti non solo per la vittoria ma soprattutto per il fatto di avervi contribuito insieme, e decise di lasciarli soli per non inquinare col suo malumore uno dei pochi momenti che quei due giovani potevano trascorrere vicini.
Friedrich attese che gli venisse servita la cena e andò a sistemarsi su una panchina isolata, cercando di passare inosservato. Appoggiò la schiena al muro e si mise a mangiare in silenzio: non aveva stretto grandi amicizie da quando era partito per la guerra, preferendo stare per conto proprio o in compagnia di poche persone selezionate, ma quel giorno non voleva vedere neanche Hans. A dirla tutta, non gli interessava neanche sapere dove fosse.
Era così immerso nelle proprie meditazioni che non si accorse della presenza del sottotenente Kühn se non quando se lo trovò di fronte. Aggrottò leggermente le sopracciglia, ma il ragazzo per tutta risposta gli restituì un sorriso impacciato. “Signor capitano…”
“Kühn,” lo salutò Friedrich, “è per caso arrivata qualche comunicazione importante?”
Inizialmente pensò che volesse riferirgli qualcosa come “Il maggiore Bühler desidera parlarle” e non seppe se augurarselo o meno, ma l’altro scosse il capo e disse: “No, signor capitano. Io mi chiedevo…”
“Si sieda, Kühn.”
“Signore,” riprese l’altro, dopo una breve pausa, “mi chiedevo se ci fossero notizie degli altri comandanti di plotone.”
“Il sottotenente Hartmann riprenderà il servizio tra qualche giorno”, rispose Friedrich, guardando dritto di fronte a sé, “è perfettamente in grado di camminare e svolgere attività normali, ma i medici gli hanno raccomandato una settimana di riposo lontano dai campi di battaglia. Körner è in un ospedale delle retrovie: le sue condizioni sono al momento stabili e, non appena sarà trasportabile, verrà rimandato in Germania in convalescenza… così come il sergente Hoffmann e il capitano Fromm, che è arrivato a Berlino tre giorni fa. Quanto a Wessel, sta bene, ma ha ricevuto quattro giorni di licenza premio per la brillante azione sul campo di battaglia.”
Kühn annuì; un sorriso di sollievo gli scolpì due fossette sulle guance. “Il tenente Wessel ha saputo comandare egregiamente la compagnia durante la sua assenza, signore… ma anche lei…” Nell’udire quelle parole, von Kleist lo perforò da parte a parte con uno sguardo affilato, che provocò al ragazzo un brivido involontario. “Chiedo scusa, signor capitano,” si affrettò a dire, “non volevo essere inopportuno.”
“No, continui pure, sottotenente.”
L’altro sembrò ponderare con attenzione le parole da dire. “Intendevo dire che ha avuto una grande prontezza decisionale, signore,” asserì poi, con convinzione. “Ha evitato al nostro reggimento la disfatta totale e ha liberato il maggiore prima che fosse troppo tardi. È stato… efficiente. Gli uomini del mio plotone vedono in lei un esempio da seguire.”
Il capitano incassò quell’inconsapevole affondo in silenzio. Non poté fare a meno di chiedersi se il suo subalterno fosse davvero all’oscuro della decisione del colonnello: Wolff aveva fatto di tutto affinché la notizia non si diffondesse, per non infangare l’immagine del Reggimento né quella dei suoi ufficiali, ma sapeva per esperienza che era difficile che una questione privata rimanesse veramente tale per lunghi periodi di tempo. “Un buon ufficiale deve saper prendere decisioni e impartire ordini ma anche eseguirli, sottotenente,” disse infine, come se parlasse più a se stesso che al suo interlocutore. “Ed entrambe le cose richiedono uguale fermezza.”
In quel momento, il suo sguardo ricadde sulla figura di un giovane uomo dal passo marziale e l’incedere nervoso, che risaliva gli scalini in pietra per rientrare nell’edificio ospitante le stanze degli ufficiali superiori e dei comandanti di compagnia. Riconobbe subito i capelli castani che spuntavano da sotto il berretto e vide che anche Kühn si era voltato nella stessa direzione, ma il maggiore passò oltre e scomparve oltre l’ingresso senza neanche accorgersi della loro presenza.
Friedrich aspettò che se ne fosse andato, poi raccolse il piatto e si alzò, cercando di non apparire troppo brusco. “Ora, se mi vuole scusare, sottotenente, devo andare.”

Erano da poco passate le nove, ma il ticchettio dell’orologio appeso al muro assumeva i sinistri connotati del conto alla rovescia di una bomba in procinto di esplodere.
Come un lupo in gabbia, il capitano von Kleist misurava a grandi passi il perimetro della propria stanza, in preda a un’angosciosa inquietudine. Il ritmo cadenzato dei suoi stivali riecheggiava nel silenzio, sovrapponendosi a quello più lieve, ma ugualmente straniante, delle lancette dell’orologio a muro. Di tanto in tanto, come di riflesso, le sue mani sfioravano la fondina della pistola che gli pendeva dal cinturone, traendo conforto dal contatto col freddo metallo.
Interruppe di colpo il proprio frenetico passeggiare e andò ad affacciarsi alla finestra, volgendo lo sguardo sul piazzale deserto del campo. Un lampione tremolante spandeva il suo alone luminoso sul cemento bagnato, dall’oscurità riaffioravano le sagome dei blindati parcheggiati lungo il perimetro delle barricate di filo spinato. Poco distante, su una delle torri di guardia, due soldati col fucile in spalla parlottavano tra loro.
Era una notte fosca e senza stelle, rischiarata in lontananza dai bagliori di un temporale.
Sarebbe bastato poco per rompere il silenzio: il maggiore era a pochi passi da lì, oltre la porta chiusa della stanza di fronte alla sua, con solo un esile corridoio a separarli.
Se fosse stato un’altra persona, forse, avrebbe bussato e gli avrebbe chiesto udienza. Forse si sarebbero sfogati, si sarebbero fronteggiati, Hans avrebbe ribadito le intenzioni che celava tra le righe e avrebbero deciso di sopportare insieme i dardi scagliati dall’oltraggiosa sorte.
Morire, dormire. Forse sognare…
Sfiorò ancora una volta la fondina della pistola, con segreta voluttà. Era semplice, quasi consolatorio pensare che sarebbe bastato premere il grilletto e spararsi un colpo in testa per porre fine a tutti i suoi problemi: se ne sarebbe andato risparmiando a sé il disonore e al suo compagno la vergogna, ma ciò lo avrebbe reso un egoista e un codardo.
L’ennesimo tuono squarciò il silenzio e il capitano sobbalzò. Richiuse la finestra e rimase nella penombra, arretrando fino a crollare seduto sulla branda adagiata nell’angolo più remoto della stanza. Non aveva disfatto neanche il proprio bagaglio, sapendo che l’indomani mattina avrebbero di nuovo lasciato quel paesello per ripartire verso Varsavia.
Iniziò a frugare oziosamente nel baule dei suoi effetti personali fino a quando le sue dita non incontrarono la consistenza dura di un vecchio libro dalla copertina consunta: Nelle tempeste d’acciaio, di Ernst Jünger. Il titolo era in caratteri gotici, e un’illustrazione in bianco e nero ritraeva una concitata scena di battaglia.
Forse tra le pagine di quel libro avrebbe potuto ritrovare la determinazione e la voglia di combattere, ma la fotografia che gli scivolò addosso frusciando distrusse subito ogni vana speranza. Un cielo grigio, invernale; una terrazza sul Baltico, con sullo sfondo il mare spumeggiante e la nera sagoma di una nave che riemergeva dalla caligine. In primo piano, appoggiati alla balaustra, c’erano lui e Hans avvolti nei loro cappotti pesanti. Lui aveva i capelli scompigliati e in volto un’espressione seria, rivolta verso un punto indefinito di fronte a sé; sulle labbra di Hans, invece, aleggiava uno dei suoi vaghi sorrisi mentre contemplava le onde increspate dal vento, che s’infrangevano sciabordando sugli scogli: era la prima volta che il giovane svevo cresciuto tra foreste e colline vedeva il mare, e la sua selvaggia potenza lo aveva lasciato affascinato e incuriosito.
All’apparenza potevano sembrare due semplici amici, ma dalla sintonia perfetta che s’intuiva nel loro contegno, un occhio attento avrebbe potuto cogliere un legame più profondo.
Mentre la sua presa si faceva incerta, scossa da un leggero tremito, la rivoltò: sul retro, la calligrafia di Hans aveva vergato due versi di una canzone militare che in realtà voleva essere un messaggio di cui solo loro due conoscevano il reale significato.

“Wenn alle untreu werden, so bleiben wir noch treu.
Treu wie die deutschen Eichen, wie Mond und Sonnenschein.”

Quando la fedeltà degli altri viene meno, noi rimaniamo fedeli… fedeli come le querce tedesche, come la luna e la luce del sole.
Sospirò, facendo di nuovo sparire la fotografia tra le pagine del libro.
L’unica soluzione che gli restava, per rendere onore a quelle semplici parole, era imbracciare le armi e sfidare la sorte, o soccombere nel tentativo di sconfiggerla.

Dall’altra parte del corridoio, leggermente attutiti dalla consistenza della parete, Hans sentiva i passi nervosi di Friedrich riverberare sul pavimento.
Scostò il posacenere invaso dalle cicche e si affacciò alla finestra, respirando l’aria frizzante che recava con sé il sentore di pioggia emanato dalla terra. Una zaffata di umidità sembrò entrargli nelle ossa, facendolo rabbrividire fino alla radice dei capelli; tuttavia, il giovane non si mosse di un centimetro. Il bagliore di un lampo illuminò il cielo a giorno.
Non poteva fare finta di niente di fronte all’ineluttabile: se Friedrich fosse stato giudicato colpevole d’insubordinazione, avrebbe perso i gradi e la sua credibilità come ufficiale. E la cosa peggiore era che una sua eventuale deposizione, nel bene o nel male, avrebbe influito sul destino del capitano, costringendolo a una pena orrenda e degradante o salvando la sua reputazione sulla base di una bugia.
Troppi interessi contrastanti in gioco…
Che Friedrich avesse disatteso i suoi ordini, emergenza o non emergenza, era un dato di fatto. Se avesse intercesso per lui, mentendo alla corte per proteggerlo, si sarebbe reso colpevole di tradimento: un atto deprecabile, che avrebbe macchiato sia il suo onore che quello del suo compagno. Ma se avesse semplicemente lasciato che la giustizia facesse il suo corso, avrebbe rischiato di tradire il loro rapporto e la promessa di proteggersi a vicenda.
Qualunque cosa avesse deciso di fare, avrebbe comunque contemplato un tradimento.
Si sentiva come intrappolato in un tunnel senza via d’uscita.

Una sonata di Beethoven si spandeva tiepidamente per il salotto, mentre il caldo dell’estate saliva dalle finestre aperte. I vicoli di Potsdam apparivano immersi nel torpore per l’ora tarda; solo ogni tanto, al di sotto del suono cristallino del pianoforte, si udiva una finestra che si chiudeva, l’abbaiare di un cane o il miagolio di un gatto.
Hans si tolse la giubba dell’uniforme e si lasciò ricadere sulla poltrona, allungando le gambe. Chiuse gli occhi esausto, la testa appoggiata allo schienale, e si lasciò cullare dalla musica, nella speranza di trarne ristoro dopo l’estenuante giornata.
Gli faceva uno strano effetto pensare che, dopo la morte del suo superiore per un banale incidente, fosse stato proprio lui a ricevere i gradi di maggiore e l’incarico di condurre il battaglione in Polonia: i cambiamenti inaspettati lo avevano sempre messo a disagio, cozzando col suo bisogno di avere sempre ogni cosa sotto controllo.
Le note si acquietarono all’improvviso. Friedrich si alzò dal panchetto gli si avvicinò, sedendosi sul bracciolo della poltrona.
Hans levò lo sguardo su di lui, ma subito dopo lo distolse per fissarlo su uno dei quadri appesi al muro. “Perché hai smesso di suonare? Mi piace ascoltarti: mi aiuta a pensare.”
“Che c’è?” gli chiese Friedrich, a bassa voce; poi, visto che lui non rispondeva, fece un gesto di diniego e scosse la testa. “No, non c’è bisogno che tu me lo dica. So cos’è che ti preoccupa.”
“Non è niente”, rispose il giovane, asciutto, con un’alzata di spalle.
“Ricordi quello che ci eravamo detti tempo fa?” L’altro fece una pausa, aspettando che si volgesse verso di lui e lo guardasse in faccia. “In servizio e in contesti operativi i legami personali non avrebbero dovuto influenzare i nostri rapporti, ma una volta da soli avremmo potuto parlare liberamente.”
Ancora una volta, Hans sospirò. “Ci stiamo preparando da mesi per questa guerra lampo, avevo già dato e ricevuto tutte le disposizioni del caso.” Cercava sempre di non mostrare titubanza o preoccupazione di fronte ai suoi uomini, nonostante i sussurri diffidenti che aveva udito al circolo ufficiali: l’idea della partenza imminente era per lui come la vista del mare agitato, che lo attraeva e lo affascinava pur accendendo in lui la sorda inquietudine tipica del viandante di fronte all’ignoto. La nuova situazione, però, lo faceva sentire come un uomo solo, costretto a domare la devastante potenza delle onde col solo ausilio delle sue forze. “Dovrò soltanto abituarmi alle mie nuove… priorità.”
“Non mi sembra che tu abbia mai avuto problemi a farti rispettare.” Le labbra di Friedrich si piegarono in un sorrisetto allusivo. “Basta che ti comporti come hai sempre fatto.”
Egli rispose con una sorta di grugnito d’assenso, come a voler dichiarare concluso il discorso, ma l’altro gli sfiorò la guancia con una leggera carezza e aggiunse: “E poi siamo camerati. Se uno di noi dovesse cadere preda del dubbio o della stanchezza, ci sarà sempre l’altro a sostenerlo e a combattere accanto a lui.”
Hans si concesse un tiepido sorriso: quelle semplici parole erano riuscite a mettere a tacere le sue preoccupazioni.

Prima che potesse rivivere nella mente il seguito di quel ricordo, un tuono in lontananza lo fece sobbalzare come se avesse udito un colpo di mortaio a distanza ravvicinata.
Era l’ultima notte che avevano trascorso insieme, l’ultima notte prima che i preparativi per la partenza e la campagna militare li sottraessero dalla rassicurante monotonia della quotidianità.
Si mise in ascolto: in quell’ala dell’edificio regnava il silenzio; anche i passi di Friedrich si erano acquietati. Avevano trascorso lunghi periodi senza potersi neanche sfiorare, nutrendosi solo di sguardi e di ideali, ma ciò che gli pesava in quel momento era il non potergli parlare a viso aperto dei dilemmi che lo affliggevano – e che, probabilmente, affliggevano anche lui.
Il problema era sempre lo stesso: conciliare il suo ruolo di comandante e superiore coi dubbi inconfessabili che gli si agitavano nel profondo.
Si diceva che fosse proprio in guerra che emergeva la vera essenza di un uomo, e le allusioni di Schwieger di quella mattina avevano insinuato in lui il sospetto che qualcuno potesse aver intuito i sottintesi del loro rapporto.
Nonostante la sua natura eroica e solare, il loro era un legame che non poteva essere coltivato alla luce del sole. Era qualcosa che rendeva l’arte della guerra più nobile e la vita militare più degna di essere vissuta ma che, se scoperto, sarebbe stato condannato senza appello alla stregua di un vizio nefando. Qualcosa che poteva costare i gradi, la libertà personale e, quel ch’era peggio, tutto ciò per cui avevano lottato insieme per anni.
Nessuno doveva permettersi di dubitare, perché ciò avrebbe compromesso la situazione più di quanto già non fosse. Non solo per lui, ma anche per Friedrich, per i loro superiori e per ogni singolo uomo del battaglione.
Ma quel problema andava risolto in qualche modo: doveva riuscire ad evitare al capitano la disfatta e la corte marziale, e al tempo stesso onorare il suo voto di fedeltà al Reich e all’esercito.
A qualunque prezzo.

Dall’altra parte del corridoio, Friedrich tese ancora una volta l’orecchio, come sperando di cogliere un qualche movimento che segnalasse la presenza del compagno al di là della porta.
Tuttavia, nessuno dei due si mosse dalla propria stanza.

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Capitolo 16
*** Capitolo XIV ~ Denn die Sehnsucht nach Dir hält mich gefangen... (parte prima) ***


XIV.
Denn die Sehnsucht nach Dir hält mich gefangen…
(parte prima)

 
 

Potsdam, dicembre 1936 – tre anni prima

Una candida coltre di neve incappucciava i tetti della città, che il sole del tardo pomeriggio tingeva di riflessi dorati. L’imponente castello si ergeva sullo sfondo, a guardia della collina irta di abeti immobili e silenziosi, simili a soldati vestiti di gelo. Limpido come una lastra di cristallo, il fiume Neckar rifletteva i profili degli edifici e le arcate dell’antico ponte in pietra.
Oltrepassata la grande porta, il centro storico di Heidelberg lo accolse coi profumi provenienti dalle taverne e il vociare dei bambini che giocavano a lanciarsi palle di neve. Aveva preso l’abitudine di attardarsi in giro per quelle strade ogni volta che smontava dal turno di servizio: da quando aveva lasciato la casa dei suoi nonni, viveva in una misera stanza in affitto e non avrebbe trovato nessuno a rimproverarlo per aver rincasato tardi.
Mentre era assorto nei propri pensieri, i suoi passi lo guidarono fino a una delle strette viuzze che conducevano al castello, dove i lampioni compensavano la luce ormai esigua.
Si fermò di fronte a una vetrina incastonata nella facciata di un vecchio palazzo del Settecento, dietro la quale s’intravedevano tele di paesaggi, castelli e rovine di templi antichi, ritratti di eroi e soldati. Tutto sembrava tendere verso un’instancabile ricerca dell’ideale, ma si riduceva infine a un simulacro di una gloria ormai perduta.
Gli tornarono in mente le disquisizioni fatte ai tempi del ginnasio sulla bellezza, soppiantata dall’arte degenerata e dalle mode imperanti, come se anch’esse fossero frutto dello spirito dei tempi. Era finita l’epoca degli eroi e degli ideali; adesso era l’epoca della disillusione, delle macerie, della prosaica rassegnazione.
Anche se si era spesso fermato ad ammirare quelle opere, chiedendosi chi ne fosse l’artefice, non si era mai arrischiato all’interno della bottega. Cercò di sbirciare oltre il vetro, ma nella sua trasparenza vide riflessa la faccia sbarbata di un ragazzo in uniforme, che si dissolse in un soffio nella nebbia prodotta dalla condensa del suo fiato: era anche quel pensiero che lo aveva spinto a diventare un soldato e combattere per la Germania, perché era convinto che per ricostruire il futuro non bisognasse rinnegare il passato, ma migliorare ciò che c’era di buono e impegnarsi per cambiare ciò che non funzionava più.
Come a voler soddisfare la sua curiosità, sulla soglia si affacciò un giovane uomo biondo che gli parve l’incarnazione di Apollo. “Il signor tenente desidera?”

Hans si risvegliò con un sussulto, ritrovandosi disteso sul divano con una coperta di lana addosso e i piedi penzoloni fuori dal bracciolo. Gli ci volle qualche secondo per fare mente locale e rendersi conto che si trovava lì perché aveva ceduto il letto a sua zia, venuta a trovarlo la sera precedente. Si tirò a sedere con un grugnito, lasciando che la coperta gli scivolasse giù dalle gambe: era da anni che aveva deciso di tagliare i ponti col passato, da anni che questo aveva smesso di tormentarlo, e non riusciva a spiegarsi il perché di quel sogno.
Sospirò, passandosi le mani sulle guance lisce. L’odore del caffè proveniente dalla cucina, il ticchettio dell’orologio a cucù e le braci morenti che sfrigolavano nel caminetto ebbero il potere di farlo tornare alla realtà. Era nel suo salotto di Potsdam e, anche se le finestre erano ancora chiuse, dagli spiragli che filtravano dalle imposte poteva distinguere la sagoma della sua poltrona rivestita di stoffa consunta, la libreria ingombra di volumi e il focolare in mattoni rossi, sul quale era appeso un quadro con una veduta del suo borgo natio, circondato dal verde della Foresta Nera.
Si alzò per andare a mettere un altro ciocco nel fuoco, e rimase come ipnotizzato a fissarlo mentre una voce nella testa gli ripeteva che era meglio ricacciare certi ricordi nell’unico luogo in cui sarebbero dovuti stare: il nero pozzo dell’oblio. Bruciarli, come il legno che ardeva divorato dalle fiamme, crepitando mentre riprendevano a danzargli intorno.
“Hansi, sei sveglio?” cinguettò la voce di sua zia Hedwig, distogliendolo da certi pensieri. “Ti ho preparato la colazione!”
“Mi preparo e arrivo, zia,” rispose il giovane.

“Non mi aspettavo che venissi a trovarmi, zia,” ammise Hans sulla soglia della cucina, scusandosi implicitamente del disordine che aveva lasciato in casa. “Sono sempre in caserma e…”
La donna, che stava asciugando le stoviglie, si voltò con lo strofinaccio in mano e gli rivolse un sorriso accorato, per poi rispondergli in dialetto del Baden: “Lo so, caro, lo so. Siediti, ti ho fatto il caffè e la torta che ti piace.”
Con un gesto degno di un cerimoniale, indicò una Foresta Nera poggiata al centro del tavolo, rivestita di panna montata e decorata con scaglie di cioccolato e succose ciliegie rosse. Hans riconobbe il dolce tipico delle sue terre e, complice l’acquolina in bocca, decise di mettere per un attimo da parte i turbamenti del risveglio.
“Grazie, zia… ma non dovevi…”
“Siediti e mangia.”
Mentre il giovane faceva colazione in silenzio, gustandosi il pan di Spagna al cioccolato, la zia Hedwig continuava ad affaccendarsi per la cucina con la lunga gonna nera e il grembiule azzurro che le ondeggiavano intorno alle caviglie, le maniche dello scialle rimboccate fino al gomito, e gli raccontava pettegolezzi della loro cittadina d’origine. Qualche ciuffo ribelle le sfuggiva dalla crocchia di capelli arrotolata sulla testa, di un castano chiaro ormai sbiadito dall’età. “Dovresti vedere tuo nipote Willi!” esclamò poi all’improvviso. “È uguale a te quando avevi la sua età, dice sempre che vuole diventare come lo zio capitano…”
Hans aggrottò le sopracciglia a quell’allusione, e gli fu inevitabile chiedersi se la donna sapesse che lui e sua sorella non si sentivano da più di un anno. Ma prima che potesse ricominciare a rivangare sul passato, lei aveva già cambiato discorso. “Ma tu sei cresciuto ancora, caro… sei più alto di tuo zio Georg!”
“Tra un mese compio venticinque anni, ho già smesso di crescere da un po’,” rispose il giovane senza distogliere lo sguardo dal cibo, in dialetto altrettanto stretto. Credeva di aver quasi dimenticato come si parlasse, ma era bastata quella breve conversazione per fargli tornare la memoria.
La zia Hedwig sospirò. “Come passa il tempo… ti ricordo quando eri bambino e adesso sei un uomo fatto e finito… ma insomma,” fece un gesto che voleva abbracciare l’intero cucinotto, dalla stufa accesa alla piccola credenza accanto alla finestra, dove l’unico tocco di colore era dato dalle tende blu, “questa casa è vuota, quand’è che trovi una brava ragazza e ti sistemi?”
Al giovane andò quasi di traverso la seconda fetta di dolce. “Non ho tempo per queste cose… e sto bene da solo,” bofonchiò a denti stretti, pensando che se i suoi parenti, religiosi com’erano, avessero scoperto perché non si era mai fidanzato, probabilmente la sua scelta di abbandonare l’università per arruolarsi nell’esercito sarebbe diventata la più blanda delle loro preoccupazioni.
La donna scosse la testa, le mani puntate sui fianchi. “Sei proprio come tuo zio Georg… a sessant’anni è ancora scapolo…”
“Io non bevo così tanto,” obiettò Hans in tono neutro, “e peso almeno cinquanta chili in meno.”
“Esagerato!” Lo scappellotto arrivò senza preavviso, costringendolo ad agguantare la tazzina vuota del caffè per non farla cadere. “Un giorno o l’altro te la annodo quella linguaccia, giovanotto impertinente! Se è per questo, non vai nemmeno in chiesa la domenica. Da quanto tempo è che non ci vai?”
Egli represse un ghigno divertito, ma si trattenne dal fare dell’altro sarcasmo. Guardò l’orologio e si alzò, indossando il cappotto e il berretto da ufficiale appesi all’ingresso. “Grazie per la visita, zia… ma adesso devo davvero andare. Ci vediamo stasera.”
Anche se gli rimaneva ancora un largo margine d’anticipo, si affrettò a uscire per evitare altre domande personali.
“Copriti bene che fa freddo, capitano,” lo raggiunse la voce della zia, quando ormai aveva imboccato le scale del condominio.

Hans uscì fuori sfidando le raffiche di vento misto a nevischio per raggiungere la prima stazione del tram. Aveva nevicato tutta la notte e i marciapiedi erano ricoperti da cumuli di neve che un uomo e una donna, usciti di prima mattina, avevano già cominciato a spalare.
Gli abitanti di quella via lo conoscevano solo come ‘il capitano’ e si toglievano il cappello per salutarlo quando passava; egli ricambiava con un cenno distratto del capo o della mano e proseguiva, con gli stivali che affondavano nel friabile strato ghiacciato.
Il cielo era scuro, velato dalla luminescenza elettrica dell’ora blu: un’ora incerta, sospesa, quando i fantasmi della notte erano ancora visibili e la luce del sole un miraggio in bilico dietro la linea di un orizzonte remoto.
Ripensò al sogno che aveva fatto, alla fugace illusione che esso gli aveva riportato alla mente. La consapevolezza era arrivata durante l’ultimo anno di ginnasio, ma solo dopo quell’incontro si era concretizzata: gli ideali condivisi, l’affinità e il tempo passato insieme lo avevano indotto ad abbassare la guardia e a lasciarsi andare, per la prima ed unica volta. Credeva di aver trovato il compagno della vita e invece si era reso conto di essere soltanto inciampato nella propria ingenuità: quando era stato trasferito a Potsdam, aveva passato interi mesi ad attendere notizie dell’altro, solo per realizzare dopo molto tempo di essere stato semplicemente dimenticato.
C’erano voluti dei mesi per conquistarsi la sua fiducia di ragazzo schivo e solitario, e relativamente poco per lasciare che tutto crollasse su se stesso. L’altro gli aveva dato speranze, ma poi gliele aveva distrutte, accartocciate, come faceva coi bozzetti che non gli piacevano più.
Dopo quella volta, Hans si era ripromesso di non lasciarsi più distrarre da certe cose – almeno finché non aveva incontrato il tenente von Kleist. Era rimasto subito colpito dalla sua condotta cavalleresca e dagli ideali – da lui condivisi – che lo animavano, e i pomeriggi trascorsi insieme non avevano fatto altro che rafforzare quelle impressioni. Tuttavia, una parte di lui temeva che anch’egli potesse nascondere del marcio sotto la patina aurea, che volesse ingannarlo con belle parole per dare sfogo a pulsioni che di nobile non avevano nulla.
Lui non avrebbe avuto problemi a controllarsi: era ormai abituato a stringere i denti e resistere fino a quando l’attrazione non sarebbe diventata un impulso tutto sommato trascurabile. Ma dopo ciò che era successo tra loro su quel prato, non poteva più avere l’arroganza di pensare che la questione riguardasse soltanto lui, né poteva ridurre ciò che provava per Friedrich a un volgare interesse fisico.

Il tenente von Kleist, le mani dietro la schiena, era in piedi di fronte al tavolino che gli ufficiali della compagnia usavano per le sessioni di Kriegsspiel, e appariva immerso in pensieri che lo alienavano dalla realtà circostante. Non visto, il capitano rimase fermo sulla soglia, a indugiare sulla sua figura che si stagliava come un’ombra scura contro i finestroni alti e stretti: la luce argentata, proveniente da fuori, giocava coi suoi capelli biondi accendendoli di riflessi luminosi, mentre l’uniforme gli calzava addosso come un guanto, esaltando il vigore marziale e la grazia del cavallerizzo che contraddistinguevano il suo portamento.
Stroncando sul nascere pensieri che non avrebbe dovuto neanche formulare, serrò il pugno e bussò contro lo stipite in modo insolitamente brusco.
Il tenente, con un sussulto, si ricompose e scattò sull’attenti. “Signor capitano.”
“Comodo, von Kleist,” disse Bühler, con un gesto sbrigativo. A grandi passi si avvicinò al tavolino, osservò la mappa dispiegata su di esso e, sforzandosi di apparire impassibile, indicò un percorso che vi era stato tracciato. “Mi prepari un ruolino di marcia per una compagnia di fanteria, tenendo conto della conformazione del terreno e dei tempi necessari per giungere alla meta. Nel frattempo andrò a parlare col maggiore von Eltz: ne riparleremo al mio ritorno.”
“Certamente, signore,” rispose von Kleist in tono neutro, ostentando altrettanto distacco.

Il suo superiore lo congedò prima del tempo sperato. Bühler cercò di prendere tempo, vagando per i corridoi illuminati di raggi argentei e osservando la coltre di neve che ammantava il piazzale, su cui la bandiera di guerra del Reich spiccava come una macchia di sangue. Quando finalmente giunse alla sala delle esercitazioni tattiche, il tenente era di nuovo affacciato alla finestra a guardare i fiocchi che volteggiavano pigri nell’aria.
Quella volta, von Kleist si accorse subito di lui. Si voltò nella sua direzione e gli porse il foglio compilato con la sua grafia fitta. “A lei, signor capitano.”
Hans lo prese tra le mani sentendo su di sé lo sguardo del giovane, nel quale non lesse alcun desiderio di accattivarsi la sua simpatia, né una velata insolenza, ma solo quel familiare guizzo di sfida che aveva imparato a conoscere fin dai tempi della simulazione sul campo. Era come se lo esortasse a considerarlo come un pari – cosa che, suo malgrado, lui aveva già cominciato a fare: solo i gradi militari gli imponevano il rispetto di un certo protocollo, ma era mera formalità, una facciata dall’intonaco friabile.
“Molto bene, von Kleist…” iniziò, ma dovette sgranare gli occhi esterrefatto quando, scorrendo nella lettura, si rese conto che l’elenco dei compiti era identico a come lo avrebbe compilato lui. “Molto bene, tenente,” ripeté, recuperando la compostezza, poi strinse le labbra e glielo restituì come se fosse una busta contenente rivelazioni imbarazzanti. “Adesso venga con me.”

Sarebbe un ottimo ufficiale, se solo riuscisse a incanalare le sue energie in modo meno dispersivo, rifletté Hans mentre il rumore dei loro passi risuonava amplificato nel silenzio dei corridoi a volta, attento a non incrociare lo sguardo del tenente.
Se avessero unito le loro forze e le loro menti, se avessero combattuto insieme come avevano fatto a quell’esercitazione, quel sodalizio avrebbe permesso a entrambi di migliorare come soldati. C’erano affinità, una sintonia perfetta, un legame affettivo che si era evoluto al di là di ogni convenienza materiale.
Se fosse dipeso solo da lui, forse anche il sentimento che provava si sarebbe potuto trasformare in una sincera e profonda amicizia, di quelle da onorare fino alla morte. Quell’unione che non giungeva a compimento nel corpo ma nell’anima, trasformando gli impulsi omoerotici in collaborazione per un fine superiore: l’amore per la comunità che ricercava appartenenza e non un legame esclusivo.
Se solo fosse riuscito a ignorare i sentimenti dell’altro, se solo fosse riuscito a dimenticare ciò che era successo tra loro, si sarebbe volentieri preso l’impegno di indirizzarlo in tal senso.
Tuttavia, così saldo nei propri propositi quando si trattava di prendere una decisione strategica, si chiese se mai sarebbe riuscito a trovare dentro di sé la fermezza necessaria per una simile risoluzione.

La tenuta di caccia del Principe von Bentheim und Steinfurt era circondata da ettari di bosco che si estendevano selvaggi a perdita d’occhio, una bianca distesa su cui le sagome degli alberi spiccavano come pilastri silenti. Mentre percorrevano il lungo viale che conduceva alla villa, Reinhardt lasciava vagare lo sguardo fuori dal finestrino: sotto la luce del sole di mezzogiorno, la neve assumeva una trasparenza cristallina, ancora immacolata nonostante fosse già vecchia di qualche giorno. All’improvviso intravide una figura che correva agile tra gli alberi – un capriolo? – per poi scomparire nuovamente tra le ombre grigie.
Non sapeva più da quanto tempo la Mercedes nera stesse attraversando la tenuta quando finalmente intravide, tra gli spiragli lasciati dai tronchi fitti, la mole incombente della villa. Riconobbe la facciata dipinta di bianco e crema, costellata di ampie e regolari finestre, e il tetto rosso, una macchia di colore nel candore onnipresente.
Quando arrivarono, trovarono solo la pace del silenzio ad accoglierli. Scesero dalla macchina, raccolsero i bagagli e si avviarono indisturbati su per la scalinata che conduceva all’ingresso.
“Non c’è nessuno?” chiese Reinhardt, quando si trovavano ormai all’interno dell’androne. La sua voce rimbombò tra le alte pareti affrescate con stucchi colorati e scene d’ispirazione mitologica, mentre i passi riecheggiavano sui pavimenti di marmo. Nessun altro rumore, nessun segno della presenza di altre persone.
“I miei non ci vengono mai quando sanno che ci sono io con gli amici,” rispose Konrad.
Reinhardt rammentò di aver intravisto il padre del giovane, un vecchio generale di brigata in pensione, soltanto un paio di volte da lontano; la madre, invece, l’aveva vista solo in qualche fotografia del decennio precedente, sempre impeccabile nei suoi eleganti abiti di sartoria. Konrad non ne parlava quasi mai, nemmeno con lui, e le poche volte che lo faceva le sue parole erano intrise di un rispettoso e formale distacco: quando gli aveva rivelato la verità sulle sue origini si conoscevano già da tempo, ma egli non si era mai lasciato intimorire e ciò non gli aveva impedito di muovere un ulteriore passo verso di lui, andando oltre le consuetudini sociali e i titoli nobiliari.
Una stretta leggera sul braccio lo distolse dalle sue considerazioni. “Aspettami qui, vado ad avvertire i domestici che siamo arrivati.”
Aveva da poco finito di parlare quando un uomo con una redingote nera si fece avanti accogliendo con deferenza il signor principe e il suo ospite.
Reinhardt rimase da solo mentre l’altro si allontanava per dare alcune istruzioni al domestico, e senza quasi accorgersene i suoi passi lo guidarono fino alla porta laterale, leggermente socchiusa, che conduceva alla sala comune. Al centro troneggiava un enorme camino monumentale, ancora spento, di fronte al quale erano sistemati i divanetti rivestiti di stoffe damascate su cui spesso si sedevano per bere e conversare. Alle pareti erano appese corna di cervo e quadri che ritraevano scene bucoliche o venatorie, e le loro tonalità naturali si armonizzavano con gli arredi in legno, rendendo l’ambiente sobrio e accogliente.
Era già stato lì altre volte, e ogni volta che ci metteva piede gli ritornavano alla mente ricordi che lo facevano sentire a casa.
“Andiamo?”
Al suono di quella voce, Reinhardt si voltò e si trovò di fronte Konrad, che gli rivolse un sorriso indulgente. “Andiamo,” ripeté.
Anche se conosceva ormai a memoria la strada, lasciò che il compagno lo guidasse su per la scala e poi lungo i corridoi illuminati dalla luce chiara proveniente da fuori, fino alla stanza più remota.
Posarono i bagagli e, senza neanche disfarli, richiusero la porta con impazienza e si unirono in un lungo bacio. Non avevano bisogno di parole per esprimere ciò che provavano, per comprendere che era giunto il loro momento. Arretrarono verso il letto e crollarono avvinghiati sulle coltri pregiate, assecondando l’eccitazione che cresceva come un mare in tempesta. Anche se faceva freddo, la vicinanza dei loro corpi bastò a riscaldarli.
Reinhardt si ritrovò disteso sulla schiena, il compagno che incombeva su di lui e lo fissava con occhi accesi, che in quella luce brillavano come scaglie d’argento. Allungò una mano e gliela passò tra i capelli corvini, leggermente arruffati dalla foga, scendendo poi ad accarezzargli la guancia liscia. L’altro emise un sospiro.
“Non ce la facevo più,” mormorò. “Da quanto tempo era che non…”
Konrad non gli diede il tempo di finire la frase. “Abbiamo ancora un po’ di tempo prima di iniziare a preparare per la serata,” sussurrò, con le labbra che sfioravano le sue. “Quando arriveranno gli altri, saremo già lì ad aspettarli.”

Reinhardt appoggiò i gomiti alla balaustra, lasciando che un refolo d’aria frizzante gli scompigliasse i capelli, e si affacciò: alla sommità della terrazza panoramica, proprio sotto il tetto della villa, si poteva spaziare con la vista per un’ampia porzione di parco. Per lui, che viveva in un quartiere periferico di Berlino, quel luogo era un angolo di pace inviolata; perfino la neve, che in città tendeva a trasformarsi presto in mota ghiacciata sotto le ruote dei veicoli e le scarpe dei passanti, aveva un aspetto più puro.
“Ci sarà da spalarne un po’, prima che arrivino gli altri…” disse Konrad, indicando le dune ghiacciate che nascondevano il piazzale alla vista.
“E da raccogliere la legna per il camino.” A quelle parole, Reinhardt strinse le braccia intorno al petto. “Stasera farà molto freddo.”
“Mancano giusto un paio d’ore al calar del sole, ci conviene andare subito.”

Trascorsero il resto del pomeriggio a spalare la neve e a spaccare la legna per i giorni successivi, felici soltanto di godere della reciproca presenza.
Reinhardt levò lo sguardo verso il cielo che iniziava a scurirsi. “Abbiamo finito prima del tempo,” constatò con un sorriso. Contro lo sfondo bianco del paesaggio, i suoi capelli apparivano più luminosi e i suoi occhi sembravano due zaffiri trasparenti.
Mentre lo guardava, Konrad rifletté che il loro rapporto, anche nella sua accezione più segreta, non era che la naturale evoluzione dell’amicizia e del cameratismo che li legavano fin dai tempi della scuola militare: collaboravano per un fine condiviso, si sostenevano l’un l’altro e traevano piacere dalle attività più semplici, senza curarsi delle convenzioni.
Soddisfatti del loro lavoro, portarono dentro alcune ceste di legna e accesero il camino della sala comune. Ormai, fuori era buio pesto, ma la luce soffusa prodotta dal fuoco era sufficiente a illuminare l’angolo in cui si erano fermati a riposarsi, pensando a tutto ciò che avrebbero potuto fare insieme nei giorni successivi.
Ora che quel rifugio era tutto per loro, non avevano più da preoccuparsi di niente, né sentivano l’esigenza di rinfocolare costantemente la fiamma della passione.

“Ah, quello che io so, tutti lo possono sapere –
ma il mio cuore lo possiedo io solo!”

Seduto su uno dei divanetti rococò della sala di lettura, un vecchio libro aperto sulle ginocchia, Friedrich von Kleist guardava i fiocchi di nevischio che danzavano pigri fuori dalla finestra, avvolgendo le querce del parco in una sorta di velo evanescente. L’atmosfera era eterea, e il silenzio che regnava nelle stanze della villa accentuava quell’impressione di pace. Solo il ticchettare dell’antico orologio a pendolo gli ricordava che il tempo continuava a scorrere, inesorabile, incurante dei suoi sogni in bilico ai confini della realtà, delle leggi imperscrutabili che la governavano e dei sentimenti che poteva riversare solo nella lettura. Più si concentrava su quel suono meccanico, più si sentiva inquieto, quasi rimpiangendo i giorni in cui il servizio militare e la possibilità di uscire fuori a cavalcare tenevano occupata la sua mente.
Il pensiero che Konrad lo avrebbe presto ospitato per qualche giorno nella sua tenuta, per una battuta di caccia tra amici, era l’unica cosa in grado di rasserenarlo.

Un leggero bussare alla porta annunciò la comparsa di un domestico. “Signor conte, suo fratello Manfred è appena arrivato.”
Friedrich si riscosse di colpo dalla sua malinconia. “Grazie, Johann. Il tempo di prepararmi e lo raggiungo subito…”
Non ebbe ancora finito di parlare che una seconda figura si materializzò alle spalle dell’uomo, scambiò con lui un paio di brevi frasi e lo congedò con un gesto sbrigativo.
Quando Johann se ne fu andato, Manfred chiuse la porta della sala mentre il fratello si alzava per accoglierlo coi soliti convenevoli.
Tra i fratelli von Kleist, erano loro i mezzani: Jürgen si avvicinava alla trentina e Siegfried era ancora adolescente. Gemelli, nati a poca distanza l’uno dall’altro, erano simili in tutto e per tutto – stessa altezza, stessa corporatura, stessi lineamenti – anche se i capelli biondi di Manfred erano di una tonalità più calda e gli occhi di un azzurro più profondo.
La mantella blu scura che l’aviatore indossava era leggermente spruzzata di fiocchi di neve, fermata sul davanti da una catenella e da due bottoni con una testa d’aquila; sulla spalla era ricamata l’aquila della Luftwaffe, che in volo ghermiva una svastica tra gli artigli. Si avvicinò con disinvoltura al divano e sbirciò il libro che Friedrich aveva abbandonato per andarlo a salutare. “I dolori del giovane Werther…” Alzò gli occhi su di lui e non poté trattenere un ghigno sardonico: il berretto da ufficiale, tenuto con negligenza sulle ventitré, accentuava il luccichio impertinente nel suo sguardo. “Turbamenti sentimentali in vista?”
Friedrich, punto sul vivo, si schermì. “Non mi aspettavo che arrivassi proprio adesso, ma stavo per venire ad accoglierti nel salotto verde,” si difese, cambiando discorso. “Vorrai cambiarti, disfare i bagagli e…”
“E raccontarti quello che è successo in Spagna,” completò l’altro, dimenticando la curiosità che lo aveva assalito poco prima. “Mentre tu vorrai sicuramente… parlarmi della tua ultima gara di completo, del nuovo comandante di compagnia a cui mi accennasti, e delle pene che ti affliggono.”
“Certo.” Il giovane ignorò volutamente l’ultima allusione, che per lui era un tutt’uno con la seconda. “Faccio portare un caffè, dei biscotti, qualcosa da bere?”
“Quello che offre la casa”, rispose Manfred con una scrollata di spalle.

Una ventina di minuti dopo erano seduti sulle poltroncine di velluto verde smeraldo del salotto, le cui pareti erano dipinte di una tonalità pastello stesso colore. Friedrich, le gambe accavallate e un bicchiere di liquore alle erbe tra le mani, osservava i quadri a tema bucolico appesi alle pareti, ascoltando i racconti del fratello.
“Mi hanno confermato la prima vittoria aerea sopra i cieli di Madrid,” stava dicendo Manfred.
Egli accennò un leggero sorriso: nella sua uniforme blu, con le mostrine gialle su cui erano ricamati due rametti di quercia e un gabbiano, simbolo del suo grado, suo fratello sembrava un araldo del rinnovamento tanto a lungo auspicato. “Prima o poi diventerai un asso, ne sono sicuro.”
“È difficile descrivere le meraviglie del cielo a chi non ha mai provato l’ebbrezza del volo,” divagò l’altro, con aria trasognata, “ma da quelle altezze è come guardare il mondo da un’altra prospettiva. Mentre sei lassù, puoi cogliere i riflessi del mare e dominare dall’alto le cime innevate delle montagne… è qualcosa di indescrivibile. Ma credimi, niente è come vedere le nuvole che ti fluttuano intorno, così vicine da poterle toccare…” Fece una breve pausa, gli occhi socchiusi come se stesse cercando di imprimere nella memoria quelle sensazioni. “E quando c’è da combattere, ti tornano in mente storie di antichi cavalieri: sfrecciare alla ricerca di un avversario, lanciarsi in picchiata, impegnarlo in un duello… vista da lassù, perfino la paura della morte diventa qualcosa di effimero.”
Friedrich rimase a lungo in silenzio: non poteva negare di essere sempre stato affascinato dai racconti di volo, dallo spirito che animava gli aviatori ormai assurti, nell’immaginario collettivo, al rango di figure leggendarie… era come una pulsione che conduceva verso altezze ineffabili, come i pionieri, i profeti, gli intellettuali e le aquile solitarie che sfidavano le vette più alte, involandosi fino a toccare le nuvole nel totale sprezzo della morte. Anche lui si premurava di consacrare la sua vita a quegli slanci, senza chiedere in cambio nulla per sé se non la loro realizzazione. Tuttavia, per quanto la metafora del volo risuonasse coi suoi ideali, si sentiva come un profano, un laico a cui la conoscenza di certi misteri era preclusa: il pensiero di pilotare un aeroplano, di librarsi nel vuoto gli aveva sempre trasmesso una sorda inquietudine, come se ogni ascesa dovesse portare con sé il timore dello schianto.
Manfred, invece, avrebbe potuto parlarne per ore sapendo che lui non si sarebbe mai annoiato ad ascoltarlo, lieto di condividere con lui parte del suo mondo, che fin dai tempi della fanciullezza aveva portato le loro strade a un bivio. Continuò fino a quando Johann non tornò a bussare alla porta, annunciando che la vettura era pronta per la partenza.

Quando i due fratelli arrivarono alla tenuta di caccia, oltre a Konrad e Reinhardt, trovarono ad aspettarli anche Paul von Seydlitz e Werner von Tannenberg. Erano tutti e quattro nella sala comune, seduti a chiacchierare sui divanetti di fronte al camino.
“Waidmanns Heil!” esclamarono, in segno di saluto.
“Alexander non c’è?” chiese Manfred, guardandosi intorno in cerca del sottotenente von Falkenstein-Kurzbach.
“Non è ancora arrivato,” rispose Konrad, con un’alzata di spalle. “Manca solo lui… ovviamente.”
Werner, seduto vicino al fuoco, allungò le gambe e ridacchiò. “Quando lui arriverà in orario, sarà solo perché non si è accorto che le lancette del suo orologio vanno un’ora avanti.”
Von Seydlitz si levò in piedi con un movimento elegante e indicò la bottiglia custodita dentro il secchio del ghiaccio. Quella sera si era presentato con l’uniforme da ussaro nero appartenuta a suo nonno, con tanto di guanti bianchi e berretto di pelliccia ornato dal simbolo della testa di morto. “Vorrà dire che, se tarderà come di suo solito, ci gusteremo questo champagne senza di lui…”
“Fa’ poco lo spiritoso, Paul”, lo rimbeccò una voce proveniente dall’ingresso. Tutti si voltarono in quella direzione e il nuovo arrivato, un ragazzo biondo, non molto alto, li raggiunse al tavolino.
L’altro lo squadrò con sussiego e sollevò la bottiglia. “Adesso che il nostro barone ci degna della sua presenza…”

Trascorsero la serata tra bevute, risate e chiacchiere, mentre il fuoco scoppiettava allegro nel camino. Manfred raccontava aneddoti della guerra civile spagnola, gli altri condividevano impressioni sulla vita militare che tutti, più o meno consapevolmente, avevano scelto fin dai tempi del collegio; né mancavano le facezie, dettate dalla familiarità instauratasi tra loro in lunghi anni di conoscenza, le canzoni e i giochi di società.
Friedrich, invece, non riusciva a lasciarsi trascinare dall’allegria dei suoi compagni, neanche dopo il terzo bicchiere. Sentiva von Seydlitz che decantava le gesta del nonno con l’enfasi di un antico poeta di corte e von Falkenstein che in sottofondo strimpellava una melodia popolare alla chitarra, ma quei suoni continuavano a giungergli ovattati e distorti.
Mentre fissava come ipnotizzato le fiamme che si contorcevano pigre divorando il legno impregnato di resina, continuava a crogiolarsi, come in un ciclo ripetitivo, nel pensiero dell’imminente battuta di caccia: il senso di comunione con la natura, l’ebbrezza venatoria, mentre il vento freddo gli soffiava tra i capelli e gli scarponi affondavano nella neve…
“Friedrich, sei dei nostri?”
Il giovane alzò la testa e si trovò di fronte Reinhardt, che con un cenno del capo gli indicò il tavolino alle sue spalle, dove von Seydlitz stava versando da bere nel bicchiere di Werner e von Falkenstein stava mescolando un mazzo di carte. Subito dopo, anche Konrad li raggiunse. “Facciamo una partita a Skat: si gioca a perdere…”
“… e vediamo di far perdere Paul!” esclamò di rimando von Falkenstein.
A quelle parole, Konrad scosse la testa con indulgenza e Reinhardt si voltò verso di lui ridendo. “Un motivo in più per unirsi…” sentenziò il primo, a bassa voce.
Friedrich, suo malgrado, non poté fare a meno di stirare le labbra in un pallido sorriso. “Se c’è da far perdere mio cugino, nessuno può farlo meglio di me!”

Friedrich scese dal letto nella camera degli ospiti e rabbrividì leggermente per il freddo. Era notte fonda, e la luce della luna disegnava un fascio argentato sul tappeto orientale e sulla parete, illuminando lo specchio e una poltroncina chiara con cuscino abbinato. A parte il sommesso ticchettare dell’orologio, il resto della magione era completamente immerso nel silenzio.
Il giovane indossò la sua vestaglia di seta scura e si avvicinò alla finestra, lasciando spaziare lo sguardo attraverso il parco innevato, lambito dai raggi lunari. Da distanze siderali, le stelle punteggiavano il cielo come piccoli brillanti: un eterno attimo di pace, in cui il tempo perdeva consistenza e l’uomo rimaneva solo dinanzi alla contemplazione dell’Assoluto. Si augurò che il clima si mantenesse sereno anche nei giorni successivi, in modo da non dover rimandare la battuta di caccia.
Quella sera, lui e i suoi amici si erano trattenuti fino a tardi a giocare a carte, una delle poche volte che la disciplina militare cedeva il passo agli svaghi. Alla fine, dovette ammettere, si era divertito: aveva rivisto suo fratello dopo molti mesi, si trovava in un ambiente familiare e disteso insieme ai suoi amici più stretti…
Tranne uno.
Sussultò quando si rese conto che, mentre formulava quel pensiero, gli era involontariamente balenata l’immagine di Hans. Strinse i denti, cercando invano di scacciarla.
Lui… si sarebbe sentito sicuramente a disagio.
Lui era ombroso, inespugnabile come un bastione in pietra e altrettanto solido, un saggio comandante che in rari momenti sfoderava la sua segreta indole da lanzichenecco. Lo rivide dare alla compagnia l’ordine di attaccare, brandire un fucile a salve e piombargli addosso con la velocità di un felino per spingerlo in copertura: aveva fatto tutto ciò senza dire una parola a riguardo, come se i proiettili che gli avevano sfiorato la spalla mentre lo proteggeva fossero un dettaglio trascurabile.
Fermo e saldo, ma al contempo sfuggente… entrambe le nature coesistevano in lui, e Friedrich realizzò che era stato proprio quello ad affascinarlo: se si fosse mostrato più condiscendente, se si fosse svelato fin da subito, non avrebbe mai attirato la sua attenzione.
Tuttavia, non se la sentiva neanche di biasimarlo per aver fatto dietrofront, pur non riuscendo del tutto a nascondergli ciò che solo loro due sapevano. Avere una relazione con un superiore era qualcosa di impraticabile, che avrebbe rischiato di creare situazioni imbarazzanti anche all’interno della stessa compagnia.
Forse avrebbe potuto dimenticare ciò che era successo e mettere da parte il desiderio di un legame esclusivo, ma senza rinunciare al cameratismo – lasciare che il Bund, quello destinato a rimanere un segreto inconfessabile, si traducesse in una disinteressata amicizia.
Dopotutto, non era la prima volta che decideva di lasciar perdere un amore non ricambiato: quella persona, a distanza di anni, era ancora un suo carissimo amico, e non aveva mai saputo nulla dei suoi tormenti. Con lui, però, la situazione era diversa, e ciò che più lo allontanava da quella risoluzione era sapere che l’altro provava gli stessi sentimenti.
Con un sospiro arretrò verso il letto e, liberatosi della vestaglia, si lasciò nuovamente scivolare sotto le coperte: avrebbe provato a concentrarsi solo sull’attimo presente e sui giorni a venire, come gli aveva consigliato Reinhardt, senza preoccuparsi di ciò che avrebbe fatto dopo. Ma sapeva già che gli ci sarebbe voluto del tempo prima che gli occhi gli si chiudessero, permettendo alla mente di abbandonarsi al riposo tanto agognato.

Le trame ghiacciate avevano reso gli alberi simili a solide statue di cristallo, intorno alle quali le sagome dei battitori e degli esploratori si aggiravano alla ricerca di tracce della preda. I cacciatori prestavano attenzione a ogni singolo segnale, coi fucili in spalla e i binocoli appesi al collo, un bastone per sondare il terreno: avevano iniziato la loro ricerca all’alba, dividendosi in due gruppi, ma molto probabilmente avrebbero continuato fino al calar del sole. Ogni tanto qualche ramo spezzato, sommerso da un sottile strato di neve, crepitava sotto i loro passi; il fiato caldo si condensava in piccole nuvolette di vapore. In lontananza si udiva il placido gorgogliare di un ruscello intrappolato sotto il ghiaccio, lo stridio di un rapace o il fruscio furtivo di fronde smosse; tutto il resto era silenzio immacolato.
Friedrich respirò l’aria fredda e l’odore pungente delle conifere: la bellezza selvaggia, incontaminata, della natura, era come un balsamo che lo fece sentire rinvigorito.
Nessuno di loro – neppure Manfred, che di solito era uno dei più loquaci – proferiva parola, per non perdere la concentrazione o spaventare le bestie. Avvolto nel suo cappotto pesante, l’aviatore camminava col cappello ben calcato in testa e le braccia strette intorno al petto.
Leggermente più avanti c’erano Konrad e Reinhardt: il primo, appostato dietro un cespuglio rinsecchito, stava scrutando la boscaglia attraverso le lenti del binocolo, mentre l’altro seguiva attentamente i movimenti di uno dei segugi e li riferiva all’amico. Anche se nel loro gruppo era l’unico a non vantare ascendenze nobili, in ossequio allo spirito venatorio, che si diceva accomunasse tutti gli uomini liberi senza alcuna differenza di ceto o professione, il tenente Greifenberg appariva perfettamente a suo agio insieme a loro.
“Ci siamo quasi”, dichiarò Friedrich a bassa voce, rivolto al fratello. Manfred von Kleist si limitò ad annuire, la bocca chiusa per non battere i denti, poi si coprì la parte inferiore del volto con la sua spessa sciarpa di lana e si avvicinò a Konrad.
“Il cane ha trovato qualcosa: il cervo è passato da qui”, confermò Reinhardt, passando in testa al gruppo, “mettiamoci sulle sue tracce.”

Il suono di un corno segnalò l’avvistamento del cervo. I segugi squarciarono la tensione con latrati selvaggi, i quattro giovani prepararono binocoli e fucili e si sistemarono in attesa, chi dietro un albero e chi semplicemente acquattato tra le frasche, ognuno desideroso di rivendicare l’abbattimento. Sfruttando la protezione di una grossa quercia, Reinhardt aguzzò la vista: in quel punto, la vegetazione di conifere era fitta e il terreno irregolare impediva di muoversi agevolmente tra rami caduti e buche insidiose nascoste sotto la neve.
“Eccolo,” disse Konrad in un sussurro.
Quando il cervo apparve, incorniciato da uno spiraglio tra i rami spioventi degli abeti di una radura, entrambi rimasero impressionati: così vicino da poter essere visto a occhio nudo, era una creatura maestosa, con due enormi impalcature di corna e un fitto mantello screziato di grigio. I suoi occhi attenti perlustrarono la boscaglia e passarono oltre, ma qualcosa nel suo incedere lasciava intuire che avesse fiutato il pericolo.
Reinhardt attese che fosse a tiro, prese la mira trattenendo il respiro e i colpi di due fucili – il suo e, forse, quello di Friedrich – riecheggiarono quasi all’unisono.
La bestia, messa in allarme da quei rumori, si guardò intorno spaventata e scomparve di gran corsa nel reticolo di alberi, emettendo cupi bramiti.
Fu proprio l’ufficiale delle Waffen-SS il primo a riemergere dal suo nascondiglio, esortando il compagno a seguirlo. “Lo abbiamo preso.”
Si incamminarono verso la radura, di tanto in tanto sollevando il binocolo per vedere se riuscivano a scorgere l’animale. Trovarono i due fratelli von Kleist che stavano già perlustrando la zona, mentre i segugi annusavano le tracce di sangue che spiccavano come petali sul candore della neve. “È fuggito,” spiegò Friedrich con un’alzata di spalle, per poi chinarsi a studiare le vestigia impresse per terra. “È probabile che sia andato a morire da qualche parte…”
Non sapendo a chi appartenesse la pallottola decisiva, Reinhardt gli riservò l’onore di segnare l’Anschuss: Friedrich spezzò un lungo ramo di abete rosso e lo conficcò nella neve, nel punto esatto in cui l’animale era stato colpito. “Facciamo così,” concluse poi, voltandosi di nuovo verso di lui, “adesso, il primo di noi due che lo vede avrà il diritto di finirlo o di reclamare l’abbattimento.”

La ricerca era ricominciata da poco quando i latrati dei segugi irruppero nella quiete carica di tensione. Una secca detonazione rimbombò nell’aria tersa e i corni li avvertirono che il cervo era morto. Presto, a quel suono trionfale si susseguirono vari echi che rimbalzarono contro i tronchi degli alberi, dando l’impressione di pervadere l’intera foresta.
Friedrich e Manfred, che teneva ancora le mani avvolte in pesanti guanti di lana, giunsero sul posto pochi istanti dopo. Vicino a un torrente esiguo, soffocato da un argine di neve e lastre di ghiaccio, il cervo giaceva col fianco esposto, gli imponenti palchi di corna come la corona di un re caduto. La musica argentina dell’acqua faceva da contraltare al raccoglimento dell’atmosfera.
Reinhardt poggiò il fucile accanto alla carcassa e Konrad si avvicinò per aiutarlo a praticarle la tradizionale incisione sul petto. Friedrich e suo fratello si mantennero a qualche passo di distanza, per non disturbarli mentre insieme celebravano quell’antichissimo rituale: in quel momento, gli sembrarono più vicini che mai.
Da uno degli abeti che costeggiavano il rivolo d’acqua, i due giovani staccarono tre fronde: la prima fu deposta nel foro d’entrata del proiettile; le altre furono intinte nel sangue dell’animale e Konrad depose la propria sul lato sinistro del berretto del compagno, per onorare l’abbattimento.
“Waidmannsheil,” esclamò poi, porgendogli la mano destra.
“Waidmannsdank!” rispose Reinhardt, mentre la stringeva con forza e gli sistemava il rametto sul lato destro del cappello.
Un quarto rametto fu offerto al cervo sacrificato come simbolico ultimo boccone e un brindisi con un goccio di Schnaps accompagnò il saluto dei cacciatori.
E mentre il cielo freddo s’infiammava delle prime, calde luci del tramonto, tra gli alberi si propagò il suono che annunciava la fine e il successo della battuta di caccia.

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Capitolo 17
*** Capitolo XIV ~ ... bis Du mich aus meiner Sehnsucht erlöst (parte seconda) ***


XIV.
... bis Du mich aus meiner Sehnsucht erlöst
(parte seconda)



Il gradevole tepore emanato dal camino aveva convinto Friedrich a invitare Konrad direttamente nel suo appartamento di Potsdam, rimandando l’uscita serale che avevano programmato qualche giorno prima. Si erano seduti sul divano in compagnia di una bottiglia di vino e il tempo era passato in fretta, scandito da chiacchiere amene e partite a scacchi.
“Stasera mio fratello voleva andare a teatro insieme a nostro cugino Paul e al principe Schwerin… mi ha chiesto se per caso volessimo andarci anche noi,” disse, con scarso interesse.
“Andavano a vedere il Lohengrin?”
“No, credo… uno spettacolo di quella cantante che non mi ricordo neanche più come si chiama.”
“Clara Morgenstern?”
“Sì, sì, quella.” Friedrich ridacchiò divertito. “Mio cugino Paul si è preso un’infatuazione per lei… tutte le volte che la va a vedere le offre rose rosse e cioccolatini, sperando di fare breccia nel suo cuore…”
Konrad scrollò le spalle, senza alzare lo sguardo dalla rivista militare che stava sfogliando. “È indubbiamente una bella donna… o almeno, così dicono i suoi ammiratori.”
“Ha una bella voce, davvero molto espressiva.” Friedrich l’aveva vista solo una volta; ricordava tuttavia la sua figura snella, avvolta in un tubino blu notte tempestato di brillanti, i vaporosi capelli biondi e le lunghe braccia fasciate dai guanti intonati all’abito, mentre cantava Du bist mein allerschönster Traum 1. Una canzone che lo aveva toccato nel profondo, più di quanto avrebbe mai osato ammettere. “Però mi pare troppo… artefatta. Decisamente non il mio genere.”
Le donne non sono il tuo genere, vorrai dire,” osservò l’amico, col tono che avrebbe potuto usare per fargli notare che due più due faceva quattro e non cinque.
Von Kleist ignorò la frecciata e indicò la copia della rivista che l’altro aveva poggiato sul tavolino: in copertina c’era un gruppo di soldati in parata che reggevano orgogliosamente lo stendardo della Ostpreußen. “Cos’è che diceva quell’articolo che hai letto prima? Quello sugli ufficiali della nostra Divisione.”
“Non mi stavi ascoltando?”
Gli occhi del giovane si fissarono in un punto indefinito; incassò la testa tra le spalle, ma non disse nulla.
“Tutto bene, Friedrich?” chiese Bentheim a bassa voce.
“Sì, sì. È solo che… mi è tornata in mente una cosa che ha detto il capitano Bühler… l’altro giorno.”
“Non mi hai più parlato di lui. È successo qualcosa?”
Friedrich sospirò, sprofondando contro lo schienale del divano. “Eri con Reinhardt, era giusto che ti godessi il tuo tempo insieme a lui. So quanto ci tieni e l’ultima cosa che volevo era venire a rovinartelo con…”
“Beh, adesso puoi parlare liberamente. Qual è il problema?”
La risposta, pronunciata a mezza bocca, fu preceduta da un altro, titubante attimo di silenzio. “L’altro giorno, al maneggio… siamo andati fuori pista, se capisci cosa intendo.”
Konrad sgranò gli occhi. “Avete… varcato la soglia di sicurezza?”
“Non quella, ma… quasi.”
Lo aveva sentito. La tensione irradiata dal suo corpo, le mani, le labbra avide. Aveva percepito nei suoi gesti un reale desiderio e non un istinto fugace. Se quel rumore non lo avesse allarmato…
“E…? Suppongo che ci sia altro.”
“E… niente. Adesso ci parliamo a malapena,” sibilò Friedrich tra i denti, omettendo il disastroso dettaglio della simulazione. “Se avessi saputo che in birreria c’era anche lui, probabilmente non sarei venuto.”
“Nessuno sapeva che ci sarebbe stato anche lui.” Konrad aggrottò le sopracciglia. “Capisco quello che vuoi… e credo che sia la stessa cosa che vuole lui.”
“Io non credo che lo voglia davvero, sai?”
“Ci hai forse parlato per saperlo?”
“Me lo ha fatto capire.”
“Ripeto: ci hai forse parlato? Vi siete visti, avete chiarito la situazione faccia a faccia? Ti ha detto che non voleva più saperne di te?”
Di fronte al tono duro dell’amico, quello di Friedrich da tagliente divenne glaciale. “No, non ci ho parlato e non intendo andare a elemosinare la sua carità.”
“Non lo conoscerò bene quanto te, Fritz… ma io credo che lui sia uno di quelli che, se decide di fare una cosa, la fa solo perché deve o perché la vuole davvero.”
“Non lo so, Konrad. Io invece penso che abbia deciso di metterci una pietra sopra.”
“Lui è il tuo comandante di compagnia: se si è comportato in quel modo, non l’ha certo fatto per umiliarti. Ma non credo che farà mai la prima mossa, se da te non avrà la garanzia che può fidarsi. Parlatene con calma, magari da qualche parte lontano da sguardi indiscreti. Se deve succedere qualcosa, succederà… e se non succederà, vi sarete comunque tolti un peso.”
Friedrich, con sguardo vacuo, si voltò verso di lui. “Che cosa ti suggerisce che sia davvero così?”
“Sono solo realista”, disse Konrad, con un’alzata di spalle. “Io non so se sia davvero così, però questa è l’idea che mi sono fatto di lui. Sei libero di scegliere se fidarti o meno.” Lasciò cadere una breve pausa e lo indusse a guardarlo negli occhi. “Ti fidi di me?”
“Sei l’unica persona di cui io mi fidi.” Erano venuti a conoscenza del reciproco segreto quasi per caso – si erano guardati e avevano capito, attraverso le rispettive allusioni, di star parlando della stessa cosa – e la loro amicizia, anziché risentirne, si era rafforzata. “Così come tu ti fidasti di me.”
“Anche io avevo i miei dubbi. Pensavo che mi avrebbe riso in faccia, che si sarebbe allontanato… e la paura di perdere la sua amicizia o i gradi era perfino peggiore del timore di non poter avere con lui un certo tipo di rapporto.”
“E invece non è andata così… vi siete fortificati anche nella vita militare.” Dopo tutto quel tempo, Konrad e Reinhardt avevano trovato l’equilibrio giusto e a occhi esterni riuscivano a mostrarsi come due semplicissimi amici. Solo Friedrich sapeva che tra loro c’era ben più di quello. “Come me e lui, prima di quel giorno…”
“Per questo ti dico,” ribadì l’altro, “non potete continuare a distrarvi dal servizio perché continuate a rimuginarci su. Immagina se una cosa del genere succedesse in guerra: o ci mettete una toppa, lasciate perdere e dimenticate, oppure mettete le cose in chiaro e trovate una soluzione praticabile. Le vicende private non dovrebbero interferire sul funzionamento di un reparto.”

Il vecchio grammofono trasmetteva canzoni sentimentali del Dopoguerra, che facevano da sottofondo al sommesso brusio delle chiacchiere degli avventori, alle risate e al tintinnio dei bicchieri.
“Holger è un vecchio nostalgico,” osservò il capitano Schwieger, mentre le note di Ich hab’ mein Herz in Heidelberg verloren si diffondevano per la sala dalle luci soffuse.
Hans non rispose: cercava di non concentrarsi sulle parole della canzone, che per lui rappresentavano le macerie del simbolico ponte che aveva demolito quasi tre anni prima, per lasciare quel passato scomodo dall’altra parte del fiume. Bevve un lungo sorso di birra, poi spostò lo sguardo dall’entrata all’albero di Natale che torreggiava alle spalle del robusto locandiere. Le fiammelle delle candele guizzavano, proiettando i loro mutevoli riflessi sul legno lucido del bancone e delle pareti: sembravano fuochi fatui ma, a differenza di essi, continuavano ad ardere…
“C’è qualcosa che non va?” lo richiamò all’attenzione la voce dell’altro.
“No,” rispose bruscamente il giovane, appoggiando la schiena alla parete. “Stavo soltanto… pensando.”
L’ultima volta che erano stati in quella birreria, Friedrich era comparso all’improvviso e si era unito a loro. Erano rimasti in silenzio per quasi tutta la sera, scambiandosi soltanto qualche breve frase di cortesia, ma una parte di lui continuava – in un modo del tutto slegato dalla sua razionalità – a sperare di vederlo varcare la porta da un momento all’altro.
“Hans.”
Il tono insolitamente severo dell’amico lo fece sobbalzare.
“Hans,” ripeté Schwieger, “ti ricordi quando sei arrivato qui a Potsdam, più di un anno fa? Quella volta… durante l’esercitazione sul campo.”
Bühler annuì, anche se non gli faceva piacere rievocare certe cose: per schivare una sventagliata di proiettili, mentre il fumo delle esplosioni simulate gli annebbiava gli occhi, era inciampato in una buca particolarmente profonda ed era caduto slogandosi una caviglia. Alla fine della giornata, il piede gli faceva così male che l’altro – all’epoca tenente come lui – aveva dovuto accompagnarlo fino al posto di medicazione.
“Bene. Io non so praticamente niente di ciò che fai fuori dalla caserma, neanche te lo chiedo, ma dopo tutto ciò che abbiamo passato insieme credo di poterti considerare un mio camerata.” Forte della complicità instauratasi tra loro, Schwieger gli poggiò una mano sulla spalla. Quel gesto inaspettato fece scattare Hans leggermente sulla difensiva, ma subito dopo emise un sospiro e si rilassò, senza tuttavia voltarsi verso di lui. “Se posso darti un consiglio, penso che cambiare aria potrà solo giovarti. Vieni ad Amburgo per qualche giorno, ti ospiterò volentieri.”
“Non lo so, Günther… non vorrei essere di disturbo. Tu hai una moglie, una figlia…”
“Ma scherzi? Impossibile che tu dia fastidio. Anzi… mia madre fa del buonissimo filetto di salmone con le patate, dovresti provarlo!”
“Sei molto gentile, davvero, ma…”
Ma cosa?” Di fronte alla sua espressione imbarazzata, Günther scoppiò a ridere. “Scommetto che non hai mai visto il mare!”
“Direi… non proprio.”
“Quadri e cartoline non contano.”
“Allora no.”
“Come immaginavo… ma credimi, c’è sempre tempo per rimediare e vedere posti nuovi.” Schwieger gli rivolse un’occhiata sorniona. “Anche se sei uno svevo e, come tutti quelli delle tue parti, sei tirchio e chiuso di mente.”
Hans aprì la bocca per replicare, ma l’altro lo prevenne in tempo: “E non inventarti scuse! Non ti ho consigliato una lussuosa vacanza in crociera, ma solo qualche giorno di tranquillità. Mio padre ha una barchetta, potremmo andare a pescare al largo…”
“Ecco cos’era quell’odore…”
A quelle parole, velate di sarcasmo, Schwieger inarcò un sopracciglio e gli rivolse uno sguardo interrogativo.
“Pesce”, disse Bühler, con un ghigno, “se noi svevi siamo tirchi, voi anseatici puzzate di pesce.”
“E tu puzzi di selvatico. Ma se fossi in te prenderei in considerazione la proposta: si respira una bell’aria, la gente è ospitale e il cibo buono. Sono sicuro che ti piacerà!”

Il tenente von Kleist si fece consegnare una pistola da uno dei gestori dell’armeria e, prima di prendere posto di fronte a uno dei banchi di tiro, fece scorrere uno sguardo disinteressato attraverso l’intero ambiente: le corsie all’aperto che li separavano dai bersagli erano inondate dalla luce naturale del sole, mentre le tinte calde delle pareti in legno davano l’illusione di smorzare leggermente il freddo proveniente dall’alto.
Friedrich esaminò prima le postazioni interne, dove per la maggior parte scorse allievi assistiti da sottufficiali più anziani, poi si affacciò a una delle uscite che davano sulle linee di tiro esterne, quasi del tutto deserte. La neve era stata accuratamente spalata per consentire libero accesso ai soldati, ma solo due uomini, imperterriti nonostante il gelo che intirizziva le membra, si erano armati di fucile e si stavano esercitando sulle lunghe distanze.
Si esercitò per un po’ con la pistola, poi, colto da un’ispirazione improvvisa che lo sciolse dalla sua apatia, la restituì e si incamminò verso le postazioni esterne con un Mauser 98k in spalla, lasciandosi scivolare addosso le occhiate incuriosite di alcuni soldati del suo plotone.

Il terreno duro e l’erba ricoperta di brina, unitamente alla bassa temperatura, costituivano una sfida stimolante per lui: la battuta di caccia lo aveva ritemprato e gli aveva dato la carica giusta per affrontare al meglio non soltanto la durezza dell’addestramento, ma anche i piccoli dilemmi personali che prima gli erano parsi molto più ardui. Scelse la postazione più remota e la massima distanza di tiro, fece il vuoto nella testa e imbracciò il fucile.
Quell’attività lo assorbì in maniera tale che, quando abbassò l’arma per concedersi qualche minuto di riposo, notò che i due uomini se ne erano andati e che ne era arrivato un altro. Trasalì interiormente quando si accorse che quel giovane asciutto e slanciato era il capitano Bühler. Non poteva vederlo in faccia, ma era sicuro che fosse lui: lo riconosceva dal portamento marziale e dal modo in cui gli stivali alti, il cinturone della pistola e i pantaloni a sbuffo accentuavano la sua figura, facendolo sembrare ancora più alto.
Per un attimo fu tentato di andarsene senza dare nell’occhio, onde evitare di dare un seguito a certi pensieri, ma non poté fare comunque a meno di notare che il capitano aveva assunto la sua solita postura naturale, che gli permetteva di rimanere immobile nonostante il rinculo del fucile, ricaricare e sparare in rapida successione, con una scioltezza che si poteva dire frutto di abitudine consolidata e non di un insegnamento acquisito.
Strinse i denti, ripensando a tutte le volte che erano venuti a esercitarsi insieme e si erano poi trattenuti a chiacchierare all’ombra della vecchia quercia, senza neanche far caso al tempo che passava. Esitò qualche istante prima di muovere un paio di passi incerti verso di lui: non aveva dimenticato il consiglio di Konrad, e aveva deciso di provare a sondare il terreno, con cautela, tentando almeno di recuperare l’amicizia di un tempo.
Accortosi della sua presenza, Bühler si voltò e i suoi occhi nocciola si posarono su di lui. “Tenente von Kleist.”
“Signor capitano,” scandì Friedrich, mantenendosi su toni neutri. “Non mi aspettavo di trovarla qui.”
“Nemmeno io,” ammise l’altro. Abbassò il fucile e si passò la cinghia intorno alla spalla, senza però accennare a congedarsi. Ancora sulla difensiva, von Kleist rilevò che, dietro l’apparente imperturbabilità, nell’atteggiamento del capitano non c’era alcuna traccia della sua calcolata freddezza. “Di solito vengo qui quando so che non c’è nessuno.”
“Capisco.”
“Non gliel’ho mai detto prima d’ora, ma sa sparare bene, tenente. Da quella distanza… non è facile centrare il bersaglio.”
Friedrich, a quella rivelazione, dovette trattenersi dall’aggrottare le sopracciglia. “Potrei dire lo stesso di lei, capitano.”
“Vado a caccia con mio nonno da quando avevo undici anni, è una tradizione di famiglia,” disse Bühler con un’alzata di spalle. “E a tredici ho avuto il battesimo di Sant’Uberto, abbattendo il mio primo cervo… diciamo pure che maneggio il fucile da prima ancora di sapere che mi sarei arruolato nell’esercito.”
“Anche mio padre mi portava… anche io andavo a caccia, da ragazzino.” Von Kleist abbassò la voce. Non sapeva ancora cosa lo trattenesse dal parlare esplicitamente di sé, della sua famiglia e del suo passato: forse era ancora il timore che l’altro lo giudicasse per le sue origini aristocratiche. “In verità, ci vado tuttora, quando mi si presenta l’occasione.”
“Io non ci vado più da molti anni, purtroppo.” Per un istante, sul volto del capitano passò un’ombra fugace. “Ecco perché vengo spesso ad esercitarmi qui al poligono: è meglio non perdere l’abitudine.” Gettò uno sguardo al cielo che imbiancava, poi col capo accennò alla porta che dava sui corridoi interni. “Ma penso che tra poco riprenderà a nevicare: è meglio se rientriamo.”

Hans precedeva il tenente in silenzio, le mani dietro la schiena, lasciando vagare lo sguardo distratto attraverso i corridoi illuminati di luce naturale. Gli davano una sensazione di ordine, di pulito, di luogo in cui ci si potesse sentire al sicuro. Non aveva mai avuto problemi con la disciplina militare né con la gerarchia: sentirsi parte di una comunità di uomini uniti dagli stessi intenti e dagli stessi ideali, combattere per un obiettivo condiviso, essere un punto di riferimento per i suoi soldati e valorizzare le loro attitudini, in modo che ciascuno di loro potesse dare il proprio meglio nelle attività in cui eccelleva, erano le cose che da sole bastavano ad appagarlo.
Ma al di là dei rapporti camerateschi, stava bene da solo, lontano dai divertimenti mondani e dalle preoccupazioni effimere. Gli tornarono in mente i discorsi di Schwieger, quella sera alla birreria, e il suo atteggiamento protettivo da fratello maggiore: avevano legato quasi per caso, pur essendo praticamente opposti di carattere, e l’espansività dell’altro non gli aveva mai impedito di prendersi quella confidenza che il rigido capitano Bühler, tutto d’un pezzo e maniaco del regolamento, non avrebbe mai concesso di sua spontanea volontà.
Ironico, pensò, credono di conoscermi, ma non sanno nulla di me… e forse, è meglio così.
Paradossalmente, era proprio von Kleist l’unico a saperlo, l’unico ad aver squarciato il sottile velo che separava le cose che potevano essere dette e mostrate da quelle che sarebbe stato meglio nascondere. Lo aveva visto vacillare, cedere a una tentazione che si era severamente imposto di domare. A quel punto, non aveva più senso continuare a vivere di sotterfugi, nascondendosi dietro un muro di silenzio: doveva affrontare le sue debolezze e superarle, anche se l’idea di mettere a tacere i suoi sentimenti continuava a fargli male.
Accompagnato da tali riflessioni, risalì l’imponente scalinata di marmo e si fermò sul pianerottolo, affacciandosi alla finestra che dava su un cortile interno. Era uno dei suoi punti d’osservazione preferiti, dove spesso si recava per meditare. Un’imponente quercia gli donava un senso di raccoglimento, e sotto la sua chioma v’erano due panchine in pietra con le zampe di leone – le stesse panchine su cui lui e Friedrich solevano sedersi durante le pause, anche solo per rimirare il cielo o ascoltare lo stormire delle fronde, paghi della reciproca compagnia.
Al di là del vetro aveva iniziato a nevicare, e i candidi fiocchi sospinti dal vento turbinavano nell’aria senza una meta precisa, incastrandosi tra i rami del maestoso albero.
Friedrich, accanto a lui, era immobile come una statua, i gomiti appoggiati al davanzale. “Signor capitano… stavo ripensando al discorso di poco fa,” esordì.
“Adesso possiamo parlare, tenente.”
“A me piace andare a caccia: è un modo per entrare a contatto con la natura, per imparare a conoscerla e onorarla. È una tradizione che i nostri padri, e i padri dei nostri padri, ci tramandano fin dall’alba dei tempi, ed è nostro dovere portarla avanti affinché non venga contaminata dai vizi e dai veleni della modernità.” A quelle parole, si volse appena verso di lui e i suoi occhi si illuminarono della consueta trasparenza cristallina. “Non crede, capitano?”
Bühler annuì. “È uno dei fondamenti della nostra civiltà: come un edificio privo della sua struttura portante finisce per crollare su se stesso, anche un popolo senza radici è destinato al collasso.” Fece una breve pausa, indugiando sulla quercia nodosa che, stando ai racconti dei soldati più vecchi, era lì dal 1796, anno in cui la caserma fu edificata. “È per questo che combattiamo: per garantire un futuro migliore a quelli che verranno dopo di noi, senza recidere del tutto i legami col passato.”
Von Kleist rimase a lungo in silenzio, immerso in meditazioni troppo remote per essere afferrate. “Mio padre era comandante di un reggimento di dragoni,” disse infine. “La sconfitta ha privato il nostro popolo di ogni cosa, ha cercato di strapparci l’orgoglio e la dignità, ma non è riuscita a toglierci la consapevolezza di ciò che eravamo. Io non ricordo la guerra, ero troppo piccolo… ma mio padre ci parlava spesso dei tempi passati: era un mondo diverso, forse non migliore, ma neanche inquinato dal senso d’impotenza e dalla disillusione che vennero dopo. E ne sono convinto: anche se lui e mia madre rimasero devoti al Kaiser fino alla fine, in parte è anche grazie ai loro racconti se adesso sono qui.”
Hans si stupì di quell’inaspettata confidenza: il tenente non parlava mai di sé, tranne per qualche vaga allusione che gli era capitato di cogliere, e quelle poche parole ebbero come il potere di scrollargli di dosso il disagio che lo attanagliava. “Forse non è la stessa cosa,” disse poi, rilassando appena le spalle, “i miei erano molto religiosi e non condividevano le mie idee, però – forse indirettamente – sono stati loro a farmi maturare la convinzione di quello che sto dicendo. Avevo cinque anni quando mio padre tornò a casa mutilato e perse il lavoro. Finita la guerra, furono anni duri per tutti e io andai a vivere nella fattoria dei miei nonni, in campagna: è lì che imparai ad amare la mia terra, a rispettarla, a onorare le mie radici…”
“Non basta recidere i rami di una quercia per farla morire”, osservò von Kleist in tono ispirato. “Ecco perché, finché le sue radici resteranno saldamente ancorate al suolo, essa continuerà a trarre dalla terra la forza di crescere e fortificarsi, beandosi della luce del sole.”
“È così, tenente,” convenne il capitano, lasciando che le sue labbra si piegassero in un leggero sorriso. Preferì tuttavia non voltarsi verso di lui: percepiva la sua presenza e la sua comprensione, e quello, per il momento, bastò ad alleggerire il suo animo dalle preoccupazioni che insidiavano i suoi sonni.

Mentre la luce del crepuscolo tingeva di cobalto la neve che ricopriva i tetti delle case, avvolgendo la città in un’atmosfera di fiaba, i primi lampioni si accendevano spargendo aloni giallastri sui marciapiedi ghiacciati. Alle porte delle abitazioni erano appese ghirlande di pungitopo coi loro frutti rossi; il fumo dei comignoli si levava verso il cielo.
Il capitano Bühler affrettò il passo, tirò su il bavero del lungo cappotto militare a doppiopetto e infilò le mani nelle tasche, sfidando le raffiche di vento gelido. Non c’era quasi nessuno per strada; solo ogni tanto qualche automobile o una vettura del tram proiettava sulla strada due fasci di luce e poi passava oltre.
“Signor capitano.”
Hans si voltò di scatto e si trovò a pochi passi dal tenente von Kleist, che accennò un saluto sfiorando la visiera del berretto con la mano guantata.
“Tenente.”
“Pare che oggi von Eltz sia rimasto soddisfatto dai risultati della simulazione,” esordì l’altro, continuando a camminare al suo fianco.
Bühler annuì pacato: da quando avevano ricominciato a parlarsi normalmente, anche l’alleanza instauratasi tra loro aveva ripreso vigore. Quel giorno, in particolare, si erano trovati così in sintonia che il maggiore, parlando col colonnello Wolff, si era lasciato scappare lodi che raramente riservava a dei subalterni. “Abbiamo fatto quello che dovevamo,” minimizzò. “Questo è ciò che ci si aspetta da noi, no?”
Mentre parlavano, si accorse che erano arrivati al parco che attraversava sempre per tagliare la strada che separava la caserma da casa sua: il sentiero centrale era ridotto a una semplice fossa scavata in una spanna di neve, che recava orme recenti; perfino le panchine in ferro battuto sembravano letteralmente affondarvi con tutte le gambe. “Sta iniziando a nevicare”, osservò, raccogliendo nel palmo della mano un fiocco di neve che si sciolse quasi subito a contatto con la pelle. “È meglio se ci affrettiamo a tornare a casa.”
Friedrich non rispose subito: si era fermato, e i suoi occhi stavano esplorando l’ambiente con aria circospetta. “Lo senti?” chiese poi, tendendo l’orecchio.
“Cosa?”
“Ascolta. C’è qualcosa…” Levò una mano e tacque, inducendolo a fare lo stesso: nel silenzio ovattato si udiva un uggiolio sommesso, come il pianto di un cane. Prima ancora che Hans potesse aprire bocca per dire qualcosa, il tenente aveva già deviato il proprio percorso e, affondando gli stivali nella neve alta, si stava avvicinando a una panchina che affiorava dal mare bianco come il relitto di una barca incagliata.
Sbalordito, il capitano lo seguì.
Nel frattempo, Friedrich si era chinato su quella che sembrava una scatola, dentro la quale era ficcato alla rinfusa un viluppo di coperte logore e bucherellate. I lamenti cessarono, l’involto si mosse facendo sporgere una coda e da esso provenne un basso ringhio.
“Buono, piccolo,” sussurrò il tenente, protendendo le mani verso di lui. “Non aver paura.”
Hans si sporse in avanti al di sopra della sua spalla. “Chissà di chi è…”
“Bisogna essere degli infami per abbandonare un cane così piccolo con questo tempo,” sibilò l’altro a denti stretti. “Non possiamo lasciarlo qui, morirà di fame o di freddo.”
“Purtroppo con me non ho niente da dargli da mangiare… tu hai qualcosa?”
Von Kleist scosse la testa. “Non possiamo lasciarlo qui,” ripeté, incurante dei fiocchi di neve che continuavano a posarglisi sul berretto e sul cappotto. “Vieni, piccolo… Hubert.”
“Come Sant’Uberto?”
“È un cane da caccia,” rispose il tenente con un’alzata di spalle, come per sottolineare l’ovvietà di quell’associazione.
Scostò un lembo di stoffa e dalle coperte spuntò prima un naso umido, poi la testa di un cucciolo con le orecchie pendenti e il pelo raso di un grigio quasi argentato. Si scrollò leggermente e fissò i due giovani coi suoi grandi occhi azzurri, che da spaventati si fecero attenti e curiosi.
“Guardalo, ha un musetto simpatico.” Friedrich allungò una mano e, seppur con qualche reticenza, il cagnolino si lasciò accarezzare. Fu questione di pochi istanti prima che gli saltasse letteralmente al collo, scodinzolando e facendogli le feste, mentre i suoi occhi rimanevano puntati su Hans.
“Sei riuscito a convincerlo,” osservò il capitano.
Von Kleist si alzò in piedi sorreggendo il cucciolo che, ormai arrampicato sulla sua spalla, si sporgeva per ricevere una grattata tra le orecchie anche da lui. “Anche tu gli piaci”, disse, il volto illuminato da un mezzo sorriso.
“Potremmo portarlo in caserma, domani,” propose Hans. “Ci sarà posto per lui, no?”
“Certo che c’è posto. In realtà, però… io pensavo di tenerlo.”
Bühler esitò. “Avevo proposto la caserma perché così avremmo potuto fargli visita entrambi.”
Forse intuendo i suoi pensieri, l’altro lo precedette: “Vuoi tenerlo tu?”
“Facciamo così: lasciamo decidere a lui.”
Mentre Hans parlava, il cagnolino diede un colpetto col muso sulla spalla del tenente e lo insinuò nella stoffa calda del pastrano militare, rannicchiandoglisi contro il petto. Stava ancora tremando e il giovane lo avvolse tra le braccia senza dire una parola, un gesto istintivo che suggeriva calore e protezione.
“Intanto vediamo di uscire da questo parco prima di impantanarci nella neve,” riprese, distogliendo lo sguardo da quella scena per levarlo verso il cielo ormai nero: i fiocchi avevano preso a scendere più fitti, turbinando nell’aria in gelidi mulinelli. “Se non ci sbrighiamo, qui ci toccherà camminare nella tormenta. Tu dove devi arrivare?”
“Abito dall’altra parte del fiume, vicino al palazzo di Sanssouci.”
Hans sollevò un sopracciglio. “Ma sono più di cinque chilometri!”
“Ci sono abituato,” disse Friedrich, riprendendo a camminare con quel fagottino caldo e peloso stretto contro il petto. “Tu dove stai?”
“Non così lontano. Sarà circa un quarto d’ora da qui.”
“Siamo di strada, allora. Ti accompagno.”
“Allora sbrighiamoci.” Ancora una volta, Hans sbirciò il cucciolo raggomitolato contro il petto del tenente. “Questa povera bestiola avrà fame…”

I due ufficiali proseguirono per un pezzo in silenzio, il passo celere, mantenendosi rasenti ai muri delle case e sfruttando la protezione dei cornicioni. Giunsero infine di fronte a un edificio dalla facciata spoglia e un portone in legno di rovere, al quale si accedeva salendo tre scalini sbreccati.
“Io sono arrivato, allora,” disse il capitano, armeggiando con un mazzo di chiavi. “C’è una fermata del tram qui vicino, dovrebbe passare tra una ventina di minuti… ma se nel frattempo vuoi entrare, posso darti una coperta e del cibo per il cane.”
Friedrich alzò la testa: illuminati dalla luce dei lampioni, i fiocchi erano fragili petali dorati contro l’indaco del cielo. Hubert aveva smesso di tremare e sembrava essersi assopito, col muso appoggiato nell’incavo del suo braccio e le orecchie che gli ricadevano sugli occhi.
“Hansi!” cinguettò una donna di mezza età dal piano di sopra, affacciatasi alla finestra.
“Buonasera, signora”, la salutò Friedrich, per poi rivolgere all’altro uno sguardo interrogativo.
“Signorina,” lo corresse Hans, a bassa voce. “È mia zia.”
“Buonasera a lei, signor…”
“Tenente.”
“Il tenente von Kleist è un ufficiale della mia compagnia,” aggiunse il capitano. “Lo faccio accomodare un attimo nell’atrio e…”
“Signor tenente!” La donna sembrò ignorare la precisazione del nipote, e la sua voce dal forte accento svevo sovrastò il cigolio del portone che si apriva. “Mi permetta di invitarla di sopra: ho preparato il tè…”
Hans alzò gli occhi al cielo, poi si immise nell’androne buio e gli fece strada su per le scale, fino alla porta dell’appartamento dove trovarono la signorina Bühler già ad accoglierli sulla soglia.
“Benvenuto, signor tenente!” esclamò stringendogli la mano, con un largo sorriso e i modi schietti della gente di campagna. Sulle spalle portava uno scialle ricamato con fiori rossi e blu, fatto a maglia, e un lungo grembiule era stretto intorno alla vita. “Si accomodi pure.”
Una volta dentro, Friedrich non poté fare a meno di dilatare le narici, lasciandosi inebriare dalla frugalità domestica: dalla cucina proveniva un profumo invitante, di dolci di mandorle e frutta candita, e biscotti al pan di zenzero appena sfornati.

Il sonno non era riuscito ad avere ragione del piccolo Hubert: rinvigorito dal calore che regnava tra le quattro mura dell’appartamento, aveva mangiato e bevuto a sazietà, poi aveva preso una palla fatta di stracci e si era messo a giocare, mordendola e trascinandola da un angolo all’altro della cucina mentre la sua coda si muoveva giocosa.
Hans lo guardava sorseggiando il suo tè caldo, incapace di togliersi dalla testa l’immagine di Friedrich che lo stringeva contro il petto, tremante e infreddolito: il cagnolino si era fidato di lui istintivamente, cosa che lui, preso dai suoi scrupoli, non era mai riuscito a fare…
“Tra poco è Natale, signori miei,” disse all’improvviso la zia Hedwig, che fino ad allora era rimasta in rispettoso silenzio, appoggiata contro il piano cottura.
Ghignando a fior di labbra, il capitano prese un biscotto dal vassoio. “Un giorno come un altro.” Riuscì quasi a sentire l’occhiata accigliata della donna pungolargli la schiena, ma finse di ignorarla fissando le travi di legno del soffitto.
Friedrich concordò silenziosamente con lui, ma si astenne dal mancare di rispetto alla signorina Bühler esprimendo ad alta voce le sue opinioni. “È un’occasione per trascorrere del tempo con gli amici o con la famiglia,” si limitò a dire, in tono diplomatico.
Aveva un vago ricordo delle feste, i balli e i ricevimenti che i suoi genitori, il conte Johann Gottfried von Kleist e la baronessa Louise Viktoria von Seydlitz, organizzavano alla villa quando era bambino – usanza che si era interrotta quando, quasi dieci anni prima, i due erano partiti per un viaggio e non erano più tornati: incidente d’auto, schianto mortale; non si era salvato neanche l’autista. Da allora, lui e i suoi fratelli riuscivano a riunirsi soltanto durante le feste: quell’anno suo fratello Jürgen, che prestava servizio in una nave-scuola al largo dell’isola di Rügen, aveva approfittato della licenza per invitarli nella sua casa di Berlino.
Vide Hans che giocava con Hubert e la sua immaginazione beffarda trasportò entrambi nel suo salotto, sul suo divano: l’albero era illuminato, la neve che turbinava fuori li isolava dal resto del mondo, ma il fuoco nel camino li faceva sentire al sicuro entro quelle quattro mura. Seduto accanto a lui, Friedrich appoggiava la testa sulla sua spalla e l’altro gli sfiorava i capelli, concretizzando quella vicinanza che vibrava nell’aria ma continuava a sfuggirgli.
Sbatté le palpebre per cancellare quelle fantasie e guardò l’orologio, fingendo indifferenza: mancava poco all’ora di cena. “Ma adesso è meglio se vado. Vi ringrazio per l’ospitalità, ma… si sta facendo tardi.” Si alzò in maniera fin troppo brusca, salutò la signorina Bühler e si rimise il berretto. “Vieni, Hubert.”
Ubbidiente, il cagnolino scattò drizzando la coda e gli trotterellò dietro, gli occhi celesti che lo fissavano con aspettativa.
“Ti accompagno giù”, si offrì il capitano. In realtà, dovette ammettere a se stesso, non sapeva neanche spiegarsi perché lo avesse fatto: sentiva solo il bisogno di trascorrere qualche momento da solo insieme a lui prima di lasciarlo andare.
Gli fece cenno di precederlo lungo le scale e, giunti di fronte alla porta, rimasero per un istante interminabile a guardarsi negli occhi senza dire nulla. Quelle iridi azzurre e limpide sembravano volergli leggere l’anima; stranamente, però, anziché provare disagio, Hans realizzò di sentirsi compreso a un livello più viscerale.
Fu un mugolio di Hubert a interromperli. “Alla fine ha scelto te,” disse, chinandosi per elargire una carezza al cane, che gli diede un colpetto col muso e glielo strusciò contro il palmo della mano. “Ti segue ovunque, come un soldatino sull’attenti.”
“Qualche volta lo porterò in caserma, così potrai rivederlo,” promise il tenente.
Egli si sciolse in un tiepido sorriso. “Ci conto, allora.”
Friedrich raccolse il cucciolo e lo avvolse nella coperta, poi sfiorò la visiera del berretto in un informale saluto militare. “Arrivederci, capitano.”
Aveva smesso di nevicare e la quiete avvolgeva la città illuminata d’oro e d’argento in una sorta di torpore estatico. Hans rimase sulla soglia dell’abitazione fino a quando la figura del giovane, ormai un puntino nero contro la strada imbiancata, non fu scomparsa dietro l’angolo.

Le feste di Natale erano andate e venute, salutando la venuta del nuovo anno. La neve continuava a imbiancare i tetti e il freddo a stritolare i campi nella sua gelida morsa, ma le attività militari erano riprese a pieno regime, segno di un’instancabile operosità.
Il bosco era lambito dai raggi obliqui del sole morente, che allungavano le ombre e creavano giochi di luce tra le gemme di ghiaccio che adornavano i rami.
Il tenente von Kleist si diede un ultimo slancio, si arrampicò su una balza di terreno in pendenza e lì si fermò, respirando a fondo l’aria gelida e il vago sentore di resina emanato dai tronchi.
Il capitano Bühler lo seguì a qualche passo di distanza. “Non vorrai dirmi che sei già stanco?”
Friedrich non rispose, ma levò lo sguardo verso il cielo perlato, che andava via via striandosi di violetto: la luce del sole era ormai una macchia gialla che indorava le nuvole basse, mentre l’indaco dominava le regioni più alte. “Guarda che bellezza…” Appoggiò la schiena al tronco di un albero e socchiuse leggermente gli occhi, come se volesse assaporare più a fondo quella sensazione di beatitudine. “E che pace.”
L’altro non disse niente, né accennò a raggiungerlo; ma poteva percepire la sua presenza come un’aura familiare. Tutt’intorno era quiete, i tronchi screziati delle betulle erano colonne sottili che si protendevano verso il cielo scuro.
A Friedrich venne da pensare che stava bene con lui, anche quando si allenavano in silenzio; anche quando trascorrevano ore insieme senza neanche sentire il bisogno di guardarsi, forti della consapevolezza che l’altro era lì e che non se ne sarebbe andato. Ma quelle erano le cose che non avrebbe mai potuto dirgli, perché non era nel suo carattere e perché il solo provare a tradurle in parole le avrebbe private di ogni significato. “Da quanto tempo è che ci alleniamo insieme, Hans?” chiese invece, retorico.
“Settimane, forse mesi,” rispose il capitano. “Chi se lo ricorda più.” Si ravviò i capelli con un gesto distratto e si avvicinò, volgendosi poi verso il percorso che si erano lasciati alle spalle. “Ne abbiamo fatta, di strada”, osservò, con un leggero sorriso.
“È questo l’allenamento migliore: il bosco con tutti i suoi ostacoli, invece che qualche giro di pista battuta.”
Hans si accorse che erano completamente da soli, ettari ed ettari di bosco a separarli dalla civiltà; gli alberi immobili erano gli unici testimoni della loro presenza. Un leggero refolo di vento scompigliò i capelli biondi del tenente, che parvero rifulgere degli ultimi raggi di sole.
D’istinto, si strinse le braccia al petto, senza sapere che cosa gli avesse insinuato quel brivido involontario lungo la spina dorsale. “È quasi ora di rientrare. Che ne dici di tornare indietro?”
“Hai freddo?” gli chiese Friedrich.
Dalla vibrazione nella sua voce non traspariva alcun segno di sfida, solo una sincera premura; tuttavia Hans assottigliò gli occhi e si schermì. “No.”
“Già, tu non mostri mai di sentire freddo, caldo, fatica… o qualunque altra cosa, vero?” Si staccò dal tronco e mosse un passo verso di lui, con insolita baldanza. “Io so che non è così.”
Spiazzato da quell’osservazione, il capitano aggrottò le sopracciglia e ripeté, in tono impersonale: “Non ho freddo.”
Friedrich sorrise con indulgenza. “Certo, e io sono il Kaiser.” Era ormai a un passo da lui, gli occhi accesi da un guizzo divertito e il corpo snello avvolto nella tenuta sportiva, nera con l’aquila del Reich sul petto. Così vicino…
Hans arretrò, più per istinto che per una qualche decisione ragionata, ma una radice gli sbarrò il passo, e il tenente, afferratolo per le spalle, lo sostenne prima che perdesse l’equilibrio. La bocca gli si fece d’improvviso secca quando si ritrovò con la schiena contro il tronco di un albero, le mani strette intorno ai polsi di Friedrich. Ormai il buio era pressoché totale, e gli ultimi barbagli di luce dorata riverberavano amplificati dal candore del paesaggio, mentre l’umidità della sera iniziava a salire, portando con sé un venticello pungente. “Hai le mani gelate,” osservò il tenente.
“Non è vero”, protestò lui. Sulle prime, non seppe dire cosa lo trattenesse dall’impulso di spingerlo via, ma fu la stessa vicinanza del giovane a suggerirgli la risposta: se all’inizio non riusciva ad accettare di aver perso il controllo, in quel momento si rese conto di non aver mai desiderato altro; ma – e lì risiedeva la fonte del paradosso più grande – per tutto quel tempo aveva cercato di porre un freno alla sua stessa volontà.
Dopo qualche istante a fissarsi in silenzio, Friedrich, i polsi ancora imbrigliati nella sua presa, sussurrò: “Adesso dimmi anche che vuoi andartene…”
I loro volti erano ormai vicinissimi, tanto che i loro respiri si confondevano l’uno nell’altro. Nessuno dei due si mosse di un millimetro, la stretta di Hans si rafforzò e si tradusse in uno strattone, che attirò il tenente verso di sé. Le difese che avevano eretto crollarono come un muro troppo fragile sotto i colpi di una batteria di obici pesanti, e le distanze tra loro si ridussero fino a fondersi in un bacio da entrambi a lungo desiderato.
Si levò un vento sempre più freddo, che scosse le fronde scheletriche degli alberi. Nella luce infuocata del tramonto, le loro ombre avvinte sembravano una sola.


  1. Tu sei il mio sogno più bello↩︎

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Capitolo 18
*** Capitolo XV ~ Der Mann aus Eisen ***


XV.
Der Mann aus Eisen

 

Mühlenberg, tenuta estiva del conte von Kleist, luglio 1939

Le fiammelle tremolavano, stuzzicate dalla leggera brezza che agitava le chiome dei faggi e delle querce. Lontano dalle luci artificiali e dal caos della città, il cielo estivo era privo di nubi e le stelle sembravano diamanti luminosi su una tavola di un blu perfetto; le colline in lontananza erano sagome nere rischiarate dalla luce della luna. Il silenzio era animato dal fruscio delle fronde e dal frinire di mille insetti.
Il tenente von Kleist e il capitano Bühler, seduti su due sedie a dondolo nella veranda, sorseggiavano birra fresca e contemplavano la campagna del Brandeburgo che ondeggiava al vento, un momento di agognata pace dopo la giornata afosa e le fatiche del giorno, mentre Hubert, divenuto ormai un possente bracco dal pelo così lucido da sembrare argentato, sonnecchiava sdraiato sugli scalini, godendosi la frescura.
Hans si alzò e andò ad appoggiarsi al parapetto di marmo, lasciando che una folata di vento gli scompigliasse i capelli. “Non riesco quasi a credere che tra poco più di un mese partiremo per il fronte.”
“Nemmeno io,” rispose il tenente. “È per questo che ti ho proposto di passare qui i nostri ultimi giorni di licenza.”
Era una tradizione che portavano avanti da ormai due anni: quando il caldo torrido non lasciava tregua, abbandonavano la città e si rifugiavano nell’oasi tranquilla della sua tenuta di campagna, trascorrendo le vacanze tra escursioni e cavalcate in mezzo alla natura.
“Ci voleva,” disse l’altro, lo sguardo perso in un punto indefinito nell’oscurità. “Mi è sempre piaciuto venire qui: non c’è nessuno a disturbarci e le regole le dettiamo noi.”
“È sempre stato uno dei miei posti preferiti, e adesso è a nostra completa disposizione.” Friedrich finì la birra, posò il boccale e lo raggiunse. “Tu invece continui a parlarmi delle foreste delle tue parti, ma sto ancora aspettando il giorno in cui mi proporrai di andarci.”
Il capitano si strinse nelle spalle. “Chissà, forse dopo la guerra…”
“Ricorda che l’hai detto.”
“Io mantengo sempre le promesse, Preuße.”

Entrarono nella loro stanza preferita, quella che avevano eletto a loro provvisoria dimora: situata all’ultimo piano di una torretta laterale, quasi in disparte, era piccola e modesta in confronto alle altre, ma si affacciava sui giardini ornamentali, che in quella stagione straripavano di fontane gorgoglianti e fiori dai colori vivaci, e al mattino, dalle ampie vetrate, riceveva la luce naturale dell’alba.
Hans aprì la finestra per lasciar trapelare all’interno la tiepida brezza notturna e si tolse la giacca, appoggiandola su una delle due poltroncine.
Friedrich si sedette sulla sponda del letto a baldacchino, come in attesa che il compagno si unisse a lui. “Domattina, se ci alziamo presto, ti va di andare al lago?”
Il capitano, che si stava ancora sbottonando la camicia, gli rivolse un’occhiata sarcastica. “A forza di dormire due o tre ore a notte, più che una vacanza sembrerà un campo d’addestramento.”
“Vorrà dire che quando arriveremo in Polonia saremo già sufficientemente temprati”, replicò il tenente, beffardo. “E poi sei tu quello che mi tiene sveglio fino a notte fonda.”
“Se vuoi, stanotte mi giro dall’altra parte e mi metto a dormire…” replicò Hans, sullo stesso tono.
“Tu sei l’uomo di ferro, no? Non dovresti avere problemi di resistenza.”
“Se scopro chi è che mi ha affibbiato quel nomignolo, giuro che…”
Gli occhi di Friedrich furono attraversati da un guizzo impertinente mentre si alzava e gli si avvicinava, levando il viso per fronteggiarlo faccia a faccia. “A me non dispiace: ti si addice.”
L’altro sollevò un sopracciglio. “Perché?”
Sornione, il tenente ghignò. “Indovina un po’, Schwabe, non è così difficile.” Gli sfiorò il petto con le punte delle dita e gli fece scivolare la camicia aperta giù dalle spalle, lasciando che cadesse sul tappeto con un leggero fruscio.
Per tutta risposta, Hans gli afferrò le spalle con un gesto repentino e lo spinse sul letto ancora intatto, facendolo finire con la schiena contro il materasso. “Non ti conviene fare l’insolente con me, Preuße,” soffiò, in tono di finta minaccia. “Sai poi cosa succede…” Si piegò su di lui per armeggiare coi bottoni della sua camicia e l’ultima allusione sfumò in un lungo bacio, come un preludio atteso da entrambi.
Friedrich rabbrividì sentendo il corpo del compagno che gli gravava addosso, così vicino da poter percepire quanto entrambi fossero coinvolti. Gli avvolse le braccia intorno al collo, intrecciando le dita tra i suoi capelli. “Guarda che a me piace quando ti comporti da lanzichenecco, capitano”, sussurrò contro le sue labbra.

La gradevole brezza che proveniva dalla finestra aperta mitigava appena la calura, facendo ondeggiare le tende che nella luce lunare sembravano trasparenti. Coperto da un solo lenzuolo, Friedrich dormiva rannicchiato contro il fianco di Hans, la testa appoggiata sul suo petto e un braccio a cingergli il torace. Il capitano gli passava distrattamente le dita tra i capelli, lasciando vagare i pensieri mentre ascoltava il suo respiro regolare.
Gli piaceva per quello, il cavaliere prussiano, perché non si mostrava mai remissivo e sapeva tenergli testa alla pari, sia nella vita militare che nell’intimità. Se normalmente avrebbe cercato di disciplinare un sottoposto come lui, da Friedrich gli bastava la garanzia che lo avrebbe rispettato entro i limiti del regolamento, per poi rimanere fedele alla sua natura quando si trovavano da soli.
Non poté fare a meno di chiedersi che cosa sarebbe successo in guerra, come si sarebbero comportati loro due che non l’avevano mai conosciuta, se non per via teorica durante le simulazioni e attraverso i resoconti degli ufficiali più anziani. Anche se il pensiero di poterla affrontare insieme rendeva quel salto nel vuoto più tollerabile, quasi come un’avventura o una sfida avvincente, tuttavia, si sentiva in dovere di proteggerlo, non solo come suo comandante, ma anche come suo compagno.
Quando la fedeltà degli altri viene meno, noi rimaniamo fedeli.
Fedeli come le querce tedesche, come la luna e la luce del sole.
Col bagliore lunare che vegliava su di loro, si abbandonò al sonno, esausto dopo la lunga giornata.

Nei pressi di Varsavia, settembre 1939

La notte, che aveva inghiottito il tempo nel suo nero abisso, era rischiarata dai bagliori delle esplosioni e dalla fosforescenza intermittente dei lampi che baluginavano all’orizzonte, senza apparente tregua. La terra ribolliva di bombe e il cielo di tuoni – la potenza distruttrice dell’uomo e la furia degli elementi.
Friedrich von Kleist quasi sperava in un contrattacco polacco, perché ogni ora che lo separava dall’alba esacerbava la sua angoscia e gliela rendeva intollerabile. Non faceva quasi più caso al ticchettio delle lancette, che riecheggiava in bilico tra la dissoluzione e l’eterno ritorno dell’uguale: solo a lui spettava l’onere di modificare quel ciclo, reindirizzandone il corso. Anche se l’idea di qualche ora prima gli sembrava il prodotto delle farneticazioni di un pazzo, di tanto in tanto le punte delle sue dita tornavano ad accarezzare il grilletto della pistola con la segreta voluttà di chi si approccia a misteri proibiti. Un brivido gli percorse le membra quando realizzò di non sentire alcun bisogno di rimettere la sicura: il pensiero di puntarsela alla tempia e fare fuoco continuava a stuzzicarlo, ma il disgusto che ne sarebbe derivato lo metteva in guardia dal considerare seriamente quella risoluzione.
Di certo non ho scelto la via più semplice.
Ripensò al sottotenente Kühn e a ciò che gli aveva detto quella sera: i suoi uomini, ignari delle implicazioni, lo elogiavano per l’azione tempestiva e a nessuno di loro sarebbe mai venuto in mente di incolparlo per il fallimento.
Che cosa ne sarebbe stato di lui e della sua compagnia, se avesse deciso di sfuggire all’infausta sentenza ponendo fine alla sua vita con un proiettile fatale?
Era partito sentendosi come un cavaliere teutonico alla conquista delle terre slave, ma ben presto si era ritrovato investito di una gloria effimera, che non lo scagionava in alcun modo dalle responsabilità che gli gravavano addosso. Anzi: lo costringeva a rimanere stoicamente al suo posto, a non abbandonare la compagnia in una situazione così delicata, e soprattutto lo poneva dinanzi a una prova che non sapeva se sarebbe mai riuscito a superare indenne.
Tuttavia, non voleva chinare il capo lasciando che tutto ciò che aveva faticosamente conquistato finisse nel fango come uno stendardo calpestato.
Era quella la battaglia più ardua, molto più ardua di quella che si combatteva là fuori, uniti contro un nemico di cui tutto sommato si conosceva la reale pericolosità.
E doveva affrontarla da solo.

Per l’ennesima volta, il maggiore Bühler si mise in ascolto, ma gli unici rumori che colse all’interno della caserma addormentata furono il lento e monotono gocciolio del rubinetto del bagno e il fischio cupo del vento che s’insinuava tra gli spifferi della finestra nel corridoio.
Le vibrazioni che scuotevano l’aria gli giungevano attutite dai vetri chiusi, ma non erano quelle a disturbare il suo sonno: non aveva neanche guardato il letto, ancora intatto nell’angolo più raccolto, né si era tolto gli stivali e il cinturone della pistola, e il berretto continuava a tenerlo sotto il braccio come se fosse già pronto a riprendere il servizio da un momento all’altro.
Si avvicinò alla finestra e, anziché soffermarsi a guardare il piazzale vuoto, levò lo sguardo verso il cielo, dove la stella del mattino reclamava il suo dominio sulle tenebre notturne, rendendo la luna un pallido spettro fluttuante a forma di falce.
Si lasciò scappare un sospiro. Non aveva mai creduto nell’esistenza di un fato riparatore o di una qualche misericordia proveniente dall’alto: a ogni azione corrispondeva necessariamente una reazione uguale e contraria, e a lui spettava il compito di ripristinare l’ordine nel suo battaglione. Era tutto così semplice, lineare, quando i soldati eseguivano gli ordini e si affidavano alla competenza dei superiori, ma sarebbe stato ipocrita negare che Friedrich gli piacesse proprio perché, tra tutti coloro che gli riservavano sguardi carichi di soggezione, era l’unico che non si era mai lasciato mettere in riga. Lui non aveva mai chinato lo sguardo, non aveva mai addotto scuse o giustificazioni per le sue velate insolenze, ma in compenso era sempre stato chiaro e cristallino.
Non si era mai fatto problemi a riprendere i suoi subalterni se sbagliavano: non l’aveva fatto con Schultz, per un rischio soltanto sfiorato, e non l’avrebbe fatto nemmeno con Friedrich, se fosse stato certo della sua colpevolezza. Aveva insistito fin da subito affinché i loro legami personali non influenzassero i rapporti militari e si era sempre mostrato intransigente a riguardo.
Al tempo stesso, però, non avrebbe esitato a difendere a spada tratta un soldato calunniato o accusato ingiustamente: sottrarsi a quel compito sarebbe stata una gravissima mancanza, un insulto al suo grado e al suo ruolo. E com’era possibile la purezza delle intenzioni di von Kleist lo avesse macchiato di una colpa così grave, tanto da risultare quasi indifendibile?
In quel caso, l’idea di non poter avere il pieno controllo della situazione – di trovarsi impreparato, di non sapere come muoversi – lo disturbava più della sensazione di rabbia impotente che aveva provato quando si era trovato di fronte al fatto compiuto, più del fatto di essersi inconsapevolmente lasciato cogliere in un momento di incertezza.
Per l’ennesima volta si chiese se esistesse un modo per evitare a Friedrich il processo e preservare intatto l’onore di entrambi: l’unico modo era cercare di sondare le sue intenzioni e, solo dopo, avrebbe potuto agire di conseguenza.
Sospirò ancora una volta, appoggiando la fronte al vetro freddo. Aveva trovato una risposta ai suoi dilemmi, ma la soluzione gli rimaneva ancora ignota.

L’alba li colse ancora svegli, Friedrich seduto sul letto a fissare l’infinito e Hans alla finestra a contemplare l’orizzonte che s’infiammava.
Forse già sapendo di aver vegliato entrambi tutta la notte, sostarono per un istante dinanzi alle porte delle rispettive stanze, esitanti e trepidanti al tempo stesso.
Poi, quasi nello stesso momento, le spalancarono, trovandosi l’uno di fronte all’altro nel corridoio illuminato soltanto da alcune fioche lampade a muro.
Friedrich aveva l’aria di non aver chiuso occhio per tutta la notte, ma l’uniforme sembrava come stirata subito prima d’indossarla e il volto liscio era sbarbato di fresco. Appena fu ai tre regolari passi di distanza da lui, scattò sull’attenti e salutò militarmente, saettando verso di lui una muta occhiata ammonitrice.
“Comodo, von Kleist,” disse Hans, in un tono che gli fece capire che aveva colto e deliberatamente ignorato quel segnale.
“Signor maggiore.”
Il capitano tese l’orecchio, come se volesse accertarsi che nessun altro fosse in ascolto: poteva sentire i passi di qualche ufficiale che si era già svegliato e il sommesso chiacchiericcio di due furieri che si scambiavano le consegne, poi tornò a fissare Hans, che in viso doveva avere la sua stessa espressione – stupito di vederlo lì e al contempo sollevato, come se già se lo aspettasse.
“Tra un quarto d’ora tutti i comandanti di plotone e di compagnia a rapporto da me, per fare il punto sulla situazione tattica”, disse il maggiore, indicando con un cenno del capo la stanzetta, attigua alla camera da letto, che usava come ufficio.
“Signorsì, signore.” Friedrich salutò, girò i tacchi e si allontanò senza volgersi indietro.
Per quanto l’uomo di ferro si premurasse di apparire sempre imperturbabile, con lui quella strategia difensiva non funzionava più da tempo: gli era bastato uno sguardo per vedere e capire, e le allusioni che il giovane aveva fatto un paio di sere prima acquisivano maggior senso.
Adesso le sorti si sono ribaltate, ma lui non vuole accettarlo.
Strinse i denti reprimendo un moto di frustrazione: non era disposto a tollerare l’idea che Hans potesse esporsi per aiutarlo a risolvere un problema che non aveva creato. Doveva parlargli e ribadire che non voleva che nessuno, neanche lui, si frapponesse tra lui e la sua risoluzione.

Nella quiete apparente di metà mattinata, l’aria ribolliva di mille vibrazioni. Il cielo era di un azzurro sbiadito, privo di nubi, le foglie erano immobili nell’assenza di vento. Un lontano ronzio di motori ed eliche si udiva come un indistinto sottofondo alle voci dei soldati che attendevano gli ordini dei loro comandanti, seguito dai boati sordi delle esplosioni.
Il capitano Greifenberg, dall’alto della torretta di un Panzer III, abbassò il binocolo e si passò una mano sulla manica dell’uniforme nera per ripulirla dalla polvere sollevata dai mezzi blindati. “Ancora niente,” annunciò. “Calma piatta.”
Il capitano Bentheim, che teneva la mappa del fronte spiegata sulla protezione dei cingoli, alzò lo sguardo su di lui con un’espressione vagamente scettica. “Nulla?”
“Non è difficile da credere,” disse Reinhardt, continuando a scrutare un punto indefinito di fronte a sé. “Non credo che se la sentano di ingaggiare uno scontro in campo aperto contro di noi, dopo le sconfitte degli ultimi giorni. D’ora in poi l’avanzata sarà relativamente semplice, visto che le loro truppe hanno subito gravi perdite e il grosso dell’esercito lo stanno impiegando per difendere Varsavia: ecco perché saremo noi ad andargli incontro con un intervento congiunto.”
Konrad parve riflettere brevemente, quindi aggiunse: “E se le mie ipotesi sono giuste,” – accompagnò quella premessa indicando con la punta della stilografica un segno tracciato in precedenza sulla cartina – “ci aspettano proprio qui, al varco, dove sanno di poter contare su un minimo di vantaggio.”
“Ed è proprio lì che andremo.”
“Con una piccola variazione di percorso…”
“Precisamente.” Reinhardt scese dal veicolo con un balzo agile e lo raggiunse, appoggiandosi alla corazzatura frontale. “Hai sentito le ultime notizie alla radio, Konrad?”
L’altro ripiegò la mappa e la ripose nel portadocumenti. “Parli dell’invasione sovietica?”
Egli rispose con un cenno d’assenso. “A quanto pare li incontreremo a metà strada.”
A quelle parole, rimasero entrambi per qualche istante in silenzio a osservare la campagna che si estendeva sconfinata di fronte a loro, punteggiata da sparute casupole, qualche steccato e alberi scuri che interrompevano la monotonia del verde e dell’arancio.
Al di là di essa c’era Varsavia, la tanto agognata meta che da quasi una settimana continuavano a inseguire senza riuscire a vederla.
“Sento che questa guerra finirà presto,” disse Reinhardt, in tono assorto. Una semplice constatazione, quasi un dato di fatto: più che una speranza a cui aggrapparsi, la vittoria sembrava un percorso già tracciato. Si voltò verso Konrad e gli rivolse un sorriso impercettibile, poggiandogli una mano sulla spalla. “E dopo di essa torneremo di nuovo a casa.”
L’altro ricambiò il sorriso, controllò l’orario e recuperò la sua consueta risolutezza. “Adesso direi che possiamo riprendere la marcia. Siamo d’accordo per l’assalto congiunto?”
“Direi di sì,” rispose Reinhardt, rinnovando l’entusiasmo. “E se dovessimo perderci di vista durante le manovre, ci ritroveremo di nuovo stasera, a battaglia finita.”
“Sicuramente.”
Si scambiarono un rapido saluto militare e ognuno tornò al proprio reparto.

Di nuovo da solo, Reinhardt trasmise le proprie disposizioni a tutta la compagnia e raggiunse i membri del suo equipaggio, che erano già riuniti ad attenderlo.
“Herr Hauptsturmführer!” esclamò prontamente Richter, il marconista e addetto alla mitragliatrice. “Pronti a partire.”
Gli altri tre si misero sull’attenti – una pura formalità che non intaccava il rapporto familiare instauratosi durante quelle settimane a stretto contatto – e il capitano li salutò con un cenno della mano guantata, ordinando il riposo. “Meno chiacchiere e più fatti, Lothar. Forza, ragazzi, a bordo!” li esortò, in tono sbrigativo ma bonario. “Se vi comportate bene, stasera offrirò una birra a quello che centrerà più bersagli.”
“Non bevevo così tanto dall’Oktoberfest dell’anno scorso!” scherzò il caporale Keller, il cannoniere.
“E sarebbe anche il periodo giusto, se non ci fosse la guerra,” asserì il servente del cannone, Lange, con un sospiro nostalgico.
“Un motivo in più per onorare le tradizioni. Non è così, signore?” ribadì Keller, volgendosi verso il suo comandante in cerca di complicità.
Reinhardt se li immaginò coi Lederhosen e una piuma sul cappello, a cantare canzoni goliardiche mentre lanciavano sguardi ammiccanti alle ragazze in Dirndl, e non poté trattenere una breve risata. “Se l’uomo deve essere addestrato alla guerra, una bella birra fresca è proprio quello che ci vuole al momento del riposo del guerriero.” Subito dopo, tuttavia, indossò le cuffie e si sforzò di tornare serio. “Ma che siano bersagli validi, altrimenti li sottrarrò dal conteggio.”
Il rossore sulle guance del graduato non si spense neanche di fronte a quella precisazione. “Certo, signor capitano!”
“Ricevuto, signore!” ripeté l’altro.
L’unico che rimase in silenzio fu il pilota, Hirschel, un ragazzo con l’aria da adolescente, timido e taciturno, mentre il marconista sorrideva con indulgenza: in quell’equipaggio, l’unico ad aver varcato la soglia dei venticinque anni era il comandante, ed era proprio Richter il più anziano dopo di lui. Reinhardt li osservava con gli occhi di un padre che, pur essendo attento alle personali inclinazioni dei suoi figli, non abbassava mai la guardia per assicurarsi che rispettassero le regole, e al tempo stesso cercava di spronarli a fare del proprio meglio.
“Su, andiamo,” comandò, esortando il servente Lange con una leggera spinta. “I nemici sono già lì che ci aspettano, non vorrete mica tardare all’appuntamento?”
“Nossignore!”
Come ogni volta prima di prendere posto, Richter scambiò un’occhiata d’intesa col pilota, il cannoniere e il suo aiutante, e tutti e quattro iniziarono a intonare un canto.

Ob’s stürmt oder schneit,
Ob die Sonne uns lacht,
Der Tag glühend heiß
Oder eiskalt die Nacht.
1

Qualche istante dopo, anche la voce del capitano si unì alle loro, mentre con un cenno della mano impartiva l’ordine della partenza.

Bestaubt sind die Gesichter,
Doch froh ist unser Sinn,
Ja, unser Sinn;
Es braust unser Panzer
Im Sturmwind dahin!
2

L’obiettivo era un agglomerato di casupole grigie, distrutte da molteplici colpi d’artiglieria. Il maggiore Bühler diede l’alt e scese dalla Kübelwagen mentre la colonna interrompeva la marcia nell’unico punto che consentisse loro una relativa copertura. Pareva non esserci nessuno in circolazione – né lungo la strada che li separava dal villaggio, né nei campi che ondeggiavano pigramente nel vento di settembre, dai quali non si sollevava nemmeno il frinire di un insetto.
Aggrottò le sopracciglia: l’esperienza maturata in quei pochi giorni gli aveva insegnato che, in presenza di una quiete così persistente, maggiori erano i rischi di un’imboscata. Sollevò il binocolo e con esso scandagliò ogni angolo dello scenario che gli si profilava di fronte, aspettandosi di individuare qualche nemico appostato in trincee nascoste tra le pieghe dei campi o tra le rovine.
“Signore.” La voce del sottotenente Kühn lo fece trasalire e, prima ancora che egli potesse terminare la sua ispezione, il giovane ufficiale scattò sull’attenti e annunciò: “Signor maggiore, uno degli osservatori ha segnalato la presenza di un contingente nemico nel villaggio!”
“Come immaginavo,” borbottò il maggiore. Diresse le lenti verso il punto indicato dal sottotenente: anche se a prima vista il luogo sembrava deserto, ogni tanto un’ombra più scura si muoveva furtiva, scivolava rapida tra le rovine e poi scompariva senza lasciar traccia di sé, come un fugace miraggio. “Mi mandi a chiamare il capitano von Kleist.”

Friedrich comparve dopo poco, limitandosi a un saluto schietto e formale. “Vuole che chieda un intervento da parte della Luftwaffe, signore?”
Bühler allacciò le mani dietro la schiena e annuì senza guardarlo. “Sì, è troppo pericoloso arrischiarci in campo aperto: saranno gli Stuka ad aprirci la strada.”
Ancora una volta, il capitano acconsentì con un cenno del capo e mandò un portaordini a trasmettere il messaggio. Hans lo scrutò di sottecchi mentre guardava fisso di fronte a sé, evitando il suo sguardo, in viso un’espressione assorta e un cipiglio torvo. Gli venne da chiedersi cosa stesse pensando, ma una voce nella sua testa lo ammonì severamente: sapeva benissimo quello che stava pensando, ed era qualcosa che lui non poteva e non voleva accettare.
A interrompere quelle elucubrazioni fu l’arrivo tempestivo degli Junkers 87: i bombardieri sorvolarono i campi e passarono oltre con un ronzio che parve scuotere aria e terra, coprendo ogni altra voce. Uno dopo l’altro, in perfetta sincronia, rovesciarono d’ala e piombarono al suolo in una picchiata quasi verticale, come rapaci lanciati sulla preda.
Qualche istante dopo, il silenzio era saturo del gemito delle sirene e dell’eco delle esplosioni.
Alcuni soldati si erano accucciati con le mani premute ai lati della testa, come a coprire il rumore assordante. Passò un tempo inquantificabile, durante il quale i due ufficiali rimasero immobili a fissare il cielo ribollente di fiamme, senza osare proferir parola.
Poi, dai cumuli di macerie emersero alcune timide presenze che avanzarono barcollando verso i tedeschi. Uno di essi sollevò una bandiera bianca e la sventolò in bella vista. Alcuni, tra cui due tenenti lievemente feriti, gettarono le armi e si consegnarono senza opporre resistenza, altri furono caricati sui camion e affidati alle cure dei medici.
Il capitano von Kleist, che tra gli effettivi del battaglione era uno dei pochi a comprendere e parlare il polacco, interrogò i prigionieri e riferì che nelle vicinanze c’erano altre due compagnie in attesa di dare battaglia.
“Adesso sanno sicuramente che ci troviamo qui,” osservò Bühler. “Dobbiamo andare a intercettarli prima che intercettino noi, senza perdere altro tempo.”
“Mi offro volontario, signor maggiore”, propose Friedrich in tono secco.
Hans notò che dal suo contegno non trapelava alcuna incertezza, come se avesse già deciso senza consultarlo. Corrugò la fronte, ponderando attentamente le sue parole: si era sempre fidato di lui, fin dal giorno di tre anni prima in cui si era proposto per andare a recuperare la bandiera, ma qualcosa gli suggeriva che quella volta fossero ben altre le motivazioni a guidarlo. Era ancora un presentimento vago, come un’immagine indistinta, ma così vasta da occupare tutto lo sfondo; tuttavia, si guardò bene dall’esprimere i propri dubbi ad alta voce.
“Mantenga la copertura fino al momento convenuto, capitano”, si raccomandò comunque, in modo che solo lui potesse sentirlo, “e mi riferisca ogni movimento sospetto.”
“Sissignore,” si limitò a dire l’altro con impersonale distacco, senza smettere di fissarlo negli occhi.
L’espressione di Hans si indurì, mentre il soverchiante presentimento di poco prima si faceva sempre più nitido: anche se quell’operazione non comportava particolari rischi, la sua indole gli imponeva di tenersi pronto a ogni evenienza.

Seduto al posto del passeggero sulla Kübelwagen, il capitano von Kleist cercava di ripercorrere mentalmente le tappe della strategia mentre la vettura sobbalzava sul sentiero sterrato.
Stanco di quelle ruminazioni, si volse indietro e scorse sul sedile posteriore il sottotenente Kühn, che guardava fuori dallo sportello con l’espressione svagata e la guancia appoggiata al palmo della mano, assorto in chissà quali pensieri. Friedrich aveva parlato poco con lui, ma lo aveva subito conosciuto come un ragazzo spontaneo, entusiasta, genuino, sempre pronto a dare il massimo per se stesso e per gli altri.
Ricordava ancora quando, durante la fuga dal villaggio polacco, Kühn lo aveva raccolto di peso e trascinato fuori da quella buca mentre zoppicava, quando si era caricato in spalla il capitano Fromm ferito, portandolo di persona al posto di medicazione, e quando si era offerto volontario per andare a liberare il maggiore.
Forse, pensò, si sarebbe potuto concedere una punta d’orgoglio al pensiero di essere stato proprio lui a istruirlo prima che il ragazzo prendesse il suo posto al comando del plotone.
Forse. Kühn era così istintivo da non riconoscere i rischi delle mosse che azzardava in buona fede, e di sicuro avrebbe dovuto imparare a tenere a freno la propria esuberanza onde evitare situazioni spiacevoli come quella in cui lui, nonostante tutte le precauzioni, si era trovato impantanato.
Come se avessi avuto alternative…
“Possiamo fermarci qui,” disse all’autiere, in un tono che gli suonò sgradevolmente duro.

Alcuni edifici diroccati offrivano alle truppe una relativa copertura, e le aperture affacciate sulla campagna consentivano un ampio margine di visibilità. Il casolare che Friedrich aveva eletto come quartier generale non aveva più un tetto, ma tra quelli rimasti sembrava il più solido e l’unico in grado di ospitare i due plotoni che aveva preso con sé.
Come postazione di comando scelse un tavolino traballante vicino alla finestra, su cui fece sistemare la radio da campo, le mappe e i documenti, poi diede ordine di posizionare le mitragliatrici pesanti alle finestre del primo piano e gli obici di guardia agli angoli delle strade.
Mentre supervisionava il tutto con occhio attento, vide il caporale Hanke e il soldato Schreiber che trascinavano una vecchia MG 34 su per le scale, per poi montarla sul treppiede, a protezione della finestra centrale. “Su, Peter, aiutami a lucidarla.” Hanke trasse dal suo zaino uno straccio e iniziò a passarlo sulla canna della mitragliatrice. “La cara Erika fa meglio il suo lavoro se la trattiamo bene.”
“Erika?” domandò stranito il ragazzo.
“Certo, Erika. Mentre noi siamo qui a fare la guerra, nella brughiera i fiori continuano a crescere e le ragazze ci aspettano a casa, sperando di rivederci vivi.” 3 Sospirò e abbassò lo sguardo, come se stesse indugiando in qualche ricordo malinconico. “È un bel pensiero, fa bene al cuore.”
Dal piano di sotto giungevano le rampogne del maresciallo Eichmann, che si era messo a sgridare due reclute che aveva beccato in flagrante mentre frugavano nella dispensa.
Reprimendo un sospiro, Friedrich si affacciò alla finestra e si perse a contemplare l’orizzonte, mentre le voci dei suoi commilitoni continuavano a riecheggiare per la stanza. Nella vita di tutti i giorni non aveva niente in comune con quegli uomini, di cui conosceva a malapena volto, nome e grado, ma nel suo animo permaneva il magone che lo aveva assalito quando aveva dovuto seppellire altri soldati come loro: quasi anonimi sotto l’elmetto, ma non meno umani.
All’apparenza, era un piano così semplice da non suscitare alcun dubbio sulla sua esecuzione: intercettare il nemico e impegnarlo in uno scontro per lasciare agli altri la possibilità di avanzare. Ciò che lo rendeva meno semplice era il furore dei nemici, ormai di fatto sconfitti ma determinati a combattere, se possibile, fino all’ultimo uomo. Friedrich non avrebbe mai potuto fargliene una colpa, ma non poteva neanche illudersi che la vittoria non avrebbe avuto alcun prezzo: dopotutto, ne aveva già avuto la prova a Łowicz, con la lama del boia che da giorni continuava a oscillare sul suo capo in attesa che egli scoprisse il collo mostrandosi vulnerabile.
Un solo errore, un solo passo falso e si sarebbe giocato la sua carriera di ufficiale, la stima di tutti i suoi uomini e, colpito a morte dalla vergogna, anche il suo rapporto con Hans.
“E adesso, signor capitano?” chiese il sottotenente Kühn, distogliendolo da quei pensieri.
“Adesso dobbiamo soltanto rimanere pronti e vigili, e aspettare.”

Alla fine della giornata, entrambe le operazioni si erano concluse con successo e gli uomini del maggiore li avevano raggiunti in quell’edificio diroccato. La compagnia di Bentheim, invece, era acquartierata in uno dei villaggi vicini, insieme al capitano Greifenberg delle Waffen-SS. Questo era tutto ciò che Erich aveva appreso dal capitano von Kleist, mentre i soldati bivaccavano sfruttando il breve turno di riposo, si muovevano qua e là per trasmettere comunicazioni o rimanevano alle postazioni in attesa di una qualche mossa dei nemici.
Poco distante da lui, un soldato suonava la fisarmonica e cantava Ade Polenland con una sigaretta che gli pendeva da un angolo della bocca, traducendo in musica il desiderio di molti soldati di lasciarsi alle spalle le sponde della Vistola per tornare finalmente a casa.
Il ragazzo chiamò a sé il pastore tedesco e andò a sedersi sulle scale con la schiena contro il muro, lasciando che Otto gli poggiasse la testa e le zampe anteriori sulle gambe. Mentre una mano lo grattava tra le orecchie, l’altra trasse dalla tasca dell’uniforme un pacco di lettere e le sfogliò: sua madre, Uschi, sua madre, ancora sua madre e poi di nuovo Uschi. Sua madre gli scriveva parole accorate quasi ogni giorno, e non sempre lui aveva il tempo di risponderle, ma sapeva che non sarebbe riuscito a placare le sue apprensioni neanche se le avesse scritto due intere pagine in cui parlava con entusiasmo dei camerati e delle vittorie quotidiane. Uschi invece apprezzava gli aneddoti dal fronte, che ricambiava con altre notizie degli amici comuni che erano rimasti in Germania.
Quell’ultimo pensiero gli fece tornare in mente i tempi della Hitlerjugend, le lunghe marce sotto il sole d’estate, i tamburi e le bandiere, le esercitazioni militari e le escursioni nei boschi. Indugiò nei ricordi, rigirandosi tra le mani il distintivo rosso e bianco, a forma di rombo, che portava sempre con sé. Si domandò in quali reparti fossero stati inviati i ragazzi con cui aveva condiviso anni di fatiche e soddisfazioni, e quanti di loro avrebbero fatto ritorno a casa a guerra finita, mantenendo la promessa di ritrovarsi tutti insieme al Tiergarten.
“Signor sottotenente!” udì chiamare la voce di Krause. Il cane drizzò le orecchie e alzò la testa. “Signor sottotenente, venga a giocare a Skat con noi!”

Schreiber, Krause e Hanke erano seduti per terra intorno a un tavolino da salotto dove, intorno alle carte sparpagliate alla rinfusa, erano posati una bottiglia di Schnaps piena per metà, dei bicchieri e una fiasca su cui era incollata un’etichetta sbiadita con su scritto Piwo.
“Vieni, Bismarck,” disse il caporale Hanke, picchiettando per terra per far accomodare il cane. Era un uomo biondo sulla trentina, col viso lungo come quello di un cavallo e il naso storto, che parlava poco ma sorrideva praticamente sempre.
Erich si sedette accanto a lui, e Krause gli versò un po’ di birra polacca in un bicchiere, riempiendolo per metà. “Per lei e Peter niente Schnaps, signore,” spiegò con un sorrisetto, “siete ancora troppo giovani. Non è vero, Hanke?”
L’altro non rispose: stava guardando un punto dritto di fronte a sé.
“Julius?”
“Non è strano che il Vecchio non stia insieme a von Kleist?” chiese l’altro, per tutta risposta.
Krause si limitò a radunare le carte per rimescolarle. “Perché, non è con lui?”
“No, il capitano è su con la Erika e il vecchio gufo, a controllare non so che scartoffie… e l’uomo di ferro è qui, da solo,” disse Hanke, indicando un punto della stanza con un impercettibile cenno del capo.
Gli altri tre si voltarono quasi in simultanea: Bühler in effetti era in piedi in fondo alla scalinata, con le braccia dietro la schiena e la visiera del berretto calata sugli occhi. Sembrava che stesse cercando qualcuno, ma probabilmente era sceso soltanto per accertarsi che tutto fosse sotto controllo.
Il soldato scelto Krause aspettò che l’ufficiale si volgesse verso di loro, poi sollevò la bottiglia di Schnaps e alzò la voce. “Signor maggiore!”
Bühler aggrottò le sopracciglia meravigliato, tuttavia si avvicinò al tavolino e accarezzò la testa del cane, che lo aveva raggiunto scodinzolando. “A cosa devo questa improvvisa chiamata, Krause?”
“Vuole concederci l’onore di un brindisi, signore?” Prima che l’ufficiale potesse replicare, Krause gli aveva già messo in mano un bicchierino di liquore e Hanke aveva preso il commilitone per un braccio, avvicinandogli il proprio. “A noi, al signor maggiore e a tutti i camerati!” esclamarono, facendo tintinnare il vetro. “E al capitano von Kleist!”
“Prosit,” ripeté sobriamente Bühler, senza sorridere.
Quando il maggiore se ne fu andato, tra gli astanti piombò di nuovo un meditabondo silenzio.
Hanke si versò un altro goccio di Schnaps, senza staccargli gli occhi di dosso fino a quando non fu scomparso su per le scale. “Mi consente di parlare liberamente, signor sottotenente?” domandò poi.
Kühn annuì e lo fissò incuriosito, pur non sapendo cosa aspettarsi.
“Bühler e von Kleist sono amici da anni”, disse il caporale, abbassando la voce. “Non so come facciano due come loro a trovarsi così bene insieme, ma le assicuro che non mi sono meravigliato per nulla quando il capitano si è offerto per andarlo a liberare di persona. E le dirò di più: penso che nessun altro avrebbe potuto farlo, perché lui è l’unica persona di cui l’uomo di ferro si fidi davvero. Però… so che il maggiore gli ha fatto il cicchetto. Così, in amicizia, ma pare che questa iniziativa non gli sia piaciuta per niente.”
Il ragazzo sgranò gli occhi. “No? Perché?”
Hanke fece spallucce. “Vallo a sapere… cose da ufficiali.”
“Ah, io invece lo so.” Krause assunse un tono da cospiratore e si accostò al suo orecchio. “Bühler vede questa cosa come un suo fallimento personale, mentre il capitano è convinto che non si potesse fare altrimenti. Non so cosa deciderà di fare, né cosa farà von Kleist, ma mi permetta di dirlo, signore: non ho un buon presentimento.”
Erich avrebbe voluto tanto chiedergli di quale presentimento parlasse, ma la voce allarmata del capitano li richiamò alle postazioni difensive.


  1. Che ci sia neve o tempesta, / Che il sole ci rida in faccia, / Che il giorno sia rovente / E la notte gelata;↩︎

  2. Le nostre facce sono sporche di polvere / Ma il nostro animo è felice. / Sì, è felice! / Il nostro Panzer ruggisce / Nel vento della tempesta.↩︎

  3. il nome e le parole del caporale sono tratti dalla canzone “Erika”, celebre tra i soldati della Wehrmacht. Il titolo allude sia all’erica, come fiore della brughiera (a cui è dedicata l’intera strofa iniziale), sia al nome di una ragazza, Erika (che in questo caso simboleggia genericamente le ragazze che i soldati hanno lasciato in patria), alla quale vengono dedicati versi carichi di dolcezza e nostalgia.↩︎

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Capitolo 19
*** Capitolo XVI ~ Wenn alle untreu werden... ***


XVI.
Wenn alle untreu werden...

A quelle altezze, il chiarore dell’alba era un tripudio di sfumature color pesca e pervinca; la gloria del sole virava dal rosso verso l’oro, offuscando le pallide stelle della notte e soffondendo le nubi di un bagliore aureo.
Mentre saliva, sempre più su, accompagnato dal ronzio del motore, il tenente Manfred von Kleist si beò di quella sublime visione, senza perdere di vista l’orizzonte che, per quanto veloce fosse il suo aereo, rimaneva sempre distante e irraggiungibile. Dietro di lui, i Messerschmitt dei suoi camerati erano uno stormo compatto.
Infine, li vide. Simili a enormi gabbiani neri, i P.11 avanzavano in formazione serrata verso i caccia tedeschi, più numerosi di quanti von Kleist si fosse aspettato: l’alto comando polacco doveva aver dispiegato tutto ciò che restava delle sue forze aeree per contrastarli, in un’ultima disperata difesa.
“Pauke! Pauke!” annunciò in frequenza, segnalando la loro presenza.
Subito dopo diede manetta e si mise in posizione d’attacco, puntando il più avanzato dei polacchi. Forte della sintonia che s’instaurava tra capopattuglia e gregario, il sottotenente Weber lo seguì per coprirgli le spalle, pronto a intervenire per difenderlo.
Manfred fu il primo a ingaggiare lo scontro; il polacco scartò, evitando di stretta misura i suoi proiettili, poi virò bruscamente e si sottrasse al suo tiro. Con la sicurezza rafforzata dall’istinto, il tenente manovrò per metterglisi in coda, lo prese di mira, azionò le mitragliatrici e fece fuoco. Di nuovo, il P.11 derapò guizzando via, richiamò incurante dei pezzi di rivestimento che si staccavano dal suo timone e, disimpegnato il suo principale avversario, si lanciò addosso al gregario che lo proteggeva.
“Franz!” urlò von Kleist allarmato.
“Ce la faccio!” gli rispose la voce di Weber attraverso il segnale radio.
I polacchi, nel frattempo, si erano fatti più aggressivi: come un uccello trafitto da un dardo, uno dei Messerschmitt si rovesciò e precipitò in vite di fronte allo sguardo impotente del capopattuglia.
Manfred strinse i denti: Franz aveva subito risposto al fuoco del polacco, ma era così impegnato nello scontro da non accorgersi che un altro P.11 gli stava piombando alle spalle. Senza indugio, il tenente virò e gli fu subito alle calcagna: lo incalzò, costringendolo a una manovra disperata, gli scaricò addosso una raffica di traccianti, quindi si sganciò con un movimento fluido e cabrò, mentre l’aereo nemico perdeva quota lasciando dietro di sé una scia nera.
“Grazie, Manfred!” esclamò Weber.
Von Kleist borbottò in frequenza qualcosa che suonava come un ‘dovere’, schivò un’altra salva di proietti e si lanciò in picchiata verso la preda successiva, fendendo le nubi con le sue ali d’acciaio.
La luminescenza dorata aveva ormai abbandonato il cielo, gli aerei ricamavano scie bianche su una tela d’azzurro; il vento fischiava e i motori ruggivano facendo ribollire l’aria.
Un polacco comparve nel suo campo visivo, il muso puntato verso di lui. Manfred scartò, si allontanò dalla mischia, compì un Immelmann per riassicurarsi il vantaggio sull’avversario. A quel punto dovette reprimere un’imprecazione: era accerchiato, circondato da almeno quattro caccia che come uno stormo di rapaci si contendevano l’ambito bottino. Ne crivellò uno, schizzò via dalla sua traiettoria, inseguito da una tempesta di traccianti. “Scheiße!” ringhiò.
Uno dei P.11 precipitò, probabilmente abbattuto da Weber.
“Attento, Manfred!”
Von Kleist si guardò intorno sentendosi un uccello in gabbia, privato di ogni via di fuga. Nugoli di pallottole fischiavano e tintinnavano cercando di tarpargli le ali, il motore fuori giri muggiva in preda a un parossismo angosciante. Soffocò un’imprecazione tra le labbra, mentre i battiti del suo cuore acceleravano e la fronte s’imperlava di sudore freddo.
Prima ancora che il suo sguardo potesse intercettare la raffica, su un lato del parabrezza si disegnò un fitto reticolo di crepe. Pezzi di rivestimento si staccarono come carta velina; l’aereo scivolò d’ala con un movimento brusco e il giovane dovette accanirsi sui comandi per ridargli un assetto stabile, mentre i nemici continuavano a sciamargli intorno.
“Signor tenente!” gridò uno dei suoi compagni.
“Manfred!”
Von Kleist, con le mani che gli tremavano, tentò una manovra disperata, ma la ragnatela sul vetro era così fitta che la vista dei nemici alla sua destra era ridotta a confuse macchie verde oliva. Proferì mentalmente una sequela di improperi; cercò con lo sguardo il suo gregario ma non riuscì a vederlo. “Franz!”
In quel momento, dal muso del Me 109 si levò un fumo nero e denso, un lampo arancione lo abbagliò e un odore acre lo avvolse facendolo tossire. Ebbe appena il tempo per vedere un’ala del caccia di Franz che si spaccava in due e il fungo bianco del paracadute che si apriva, poi il motore emise un gemito straziante e il suo aereo dilaniato iniziò a perdere quota.

Come in una sequenza accelerata, dai contorni dinamici e indistinti, la terraferma si avvicinava al muso del suo aereo in una caduta vertiginosa. Intorno a lui una matassa confusa di nuvole che si torcevano con indifferenza intorno alle sue ali; sotto di lui una distesa di città tagliata a metà dal corso placido della Vistola.
Cercando di arginare il tremito alle mani, Manfred annaspò con la barra in modo da stabilizzare la quota e, individuata una striscia di terra adatta all’atterraggio, si portò in sottovento: si trovava ormai troppo basso per potersi paracadutare, e quella era l’unica possibilità che gli restava per toccare il suolo indenne prima che il serbatoio, che sprigionava minacciose zaffate di fumo, esplodesse.
La discesa verso la terraferma fu come una lenta discesa verso gli inferi, un’agonia per l’aereo e un incubo per il suo pilota. Fu quasi con un sospiro di sollievo che Manfred virò finalmente in base, ridusse la velocità e assunse un assetto cabrato preparandosi all’atterraggio.
Il Messerschmitt rovinò per terra scivolando sulla pancia, le ali si fracassarono col rumore di un enorme rottame accartocciato, l’impatto mandò i vetri della capottina in mille pezzi. Quando la caduta si arrestò, il pilota si accasciò senza fiato sul sedile, trattenuto dalle cinghie di sicurezza, e sulla scena calò un silenzio tombale.
Dolorante, ridestato dal calore dell’olio che bruciava, Manfred si riscosse dal suo stordimento. Come un sonnambulo sollevò il tettuccio, si lasciò scivolare giù dall’ala e, abbandonati il casco e gli occhiali, si trascinò via correndo e incespicando nell’erba alta. Giunto all’ombra di un albero, esausto, cadde lungo disteso sul prato mentre l’aereo si estingueva in un lampo accecante.

“Dite che li ritroviamo prima che… Bismarck!”
Krause dovette tirare con forza il guinzaglio nel tentativo di richiamarlo all’ordine: il cane aveva drizzato le orecchie, puntando il muso verso la corona d’alberi che delimitava il prato.
“Otto!”
“Sempre che non siano finiti in un campo minato”, sentenziò tetro il maresciallo Eichmann, la mano alla pistola, “qui siamo al confine con la zona controllata dal nemico.”
A nulla valsero gli sforzi di Krause: il cane iniziò a scuotere la coda con più veemenza e a tirare irrequieto, quasi trascinandolo in avanti. “Andiamo a vedere, signor maresciallo: raramente il suo fiuto si sbaglia”, lo assecondò infine, sciogliendo il guinzaglio. “Deve aver trovato qualcosa.”
Otto scattò deciso verso la boscaglia, di tanto in tanto voltandosi indietro per assicurarsi che il gruppo di ricognizione gli tenesse dietro.
Sbucarono in un campo di spighe selvatiche ingiallite dal sole e alla loro vista si palesò il relitto carbonizzato di un aereo da caccia tedesco: per quel poco che non era stato brunito delle fiamme, riuscirono a intravedere ancora il giallo del muso e l’elica dipinta di bianco e di nero. Precipitando per terra aveva scavato un solco che si apriva come una profonda ferita; l’erba circostante era bruciata nell’esplosione del motore. Quando si avvicinarono per esaminarlo, si accorsero che la capottina era spalancata e all’interno non c’era traccia del pilota, segno che doveva essersi paracadutato o che probabilmente aveva abbandonato l’aereo prima che il fuoco lo divorasse.
“C’è un uomo a terra!” esclamò Schreiber, che aveva seguito il cane fino ai margini della macchia d’alberi.
Accortosi della loro presenza, l’uomo si riscosse come un animale spaventato e abbassò la pistola solo quando riconobbe in loro altri tedeschi. Sopra l’uniforme grigioblu, sporca di erba e terra, portava un giubbotto di pelle da aviatore. “Oh, ma è un uccellino caduto dal cielo,” osservò Eichmann.
L’aviatore – un tenente, riconobbero – si avvicinò con passo claudicante: il volto coperto di sangue era quello di un ragazzo poco più che ventenne, e sul petto spiccavano la medaglia della guerra civile spagnola e il distintivo di pilota.
“Serve aiuto, signore?” chiese allora il maresciallo.
Sempre reggendosi su piedi malfermi, il tenente fece per dire qualcosa, ma dalla sua bocca riarsa non uscì alcun suono. Con le mani mimò il gesto di bere e Schreiber, solerte, gli passò la sua borraccia.
Quando si fu dissetato, il giovane emise un sospiro affranto. “Sono stato abbattuto in volo. La radio è andata, non riesco più a mettermi in contatto con gli altri membri dello Staffel. Quello è il mio aereo…” disse, indicando la carcassa di ferro alle sue spalle. “O meglio, lo era.”
Tra Eichmann, Krause e Schreiber ci fu un fugace gioco di sguardi, poi il primo disse, a nome di tutti: “Può venire con noi, tenente. Non è sicuro stare qui, siamo troppo scoperti: ci penserà il nostro comandante di battaglione a trovare un modo per avvertire il suo stormo.”
“La ringrazio, maresciallo.”
Prima di rimettersi in cammino, Schreiber richiamò il cane, e l’aviatore, sempre zoppicando, si accodò al gruppo.
“Secondo lei, signor maresciallo, che penserà il Vecchio?” chiese Krause in un sussurro, dopo un po’ che procedevano in silenzio affondando i piedi nell’erba alta.
“Bühler, in questi giorni?” Eichmann roteò gli occhi, alludendo implicitamente allo strano comportamento del maggiore. “L’ultima cosa che si aspetta è vedersi arrivare un uccellino da rispedire al mittente…”
A quelle parole, di cui doveva aver captato solo qualche stralcio, il pilota parve animarsi tutto d’un tratto. “Scusate… Bühler, avete detto? Il maggiore Hans Bühler?”
“Sì, signor tenente, proprio lui.” Eichmann e Krause si scambiarono un’occhiata interrogativa; il primo sollevò un sopracciglio e si voltò verso il giovane ufficiale. “Per caso lo conosce?”
“Il suo aiutante di campo, il capitano von Kleist, è mio fratello.”
“E qual è il suo nome, tenente?”
“Manfred von Kleist.”

“Manfred! Manfred!” gridò una voce.
Otto emise un ringhio, il maresciallo e i due soldati si guardarono perplessi, il tenente von Kleist dilatò gli occhi. “Weber!” esclamò poi, agitando una mano. “Weber, sono qui!”
Qualche istante dopo, dalla boscaglia emerse la figura allampanata di un altro giovane pilota, il volto pallido adombrato dagli occhiali sistemati sulla fronte. All’apparenza illeso, avvolto nell’imbragatura, aveva il paracadute negligentemente accartocciato sulla spalla e una pistola nella destra.
“Sottotenente Franz Weber, gregario del tenente von Kleist,” si presentò.
Spiegò in breve di aver dovuto abbandonare il suo aereo distrutto e di essersi paracadutato nella prima striscia di terra disponibile, senza poter dare alcuna indicazione sull’atterraggio alla base operativa del suo stormo.
“Non si preoccupi, signor sottotenente,” disse allora Eichmann, “il nostro battaglione è accampato in un casolare poco distante da qui. Potete venire con noi, abbiamo la radio e un medico da campo.”
Weber ringraziò timidamente, poi passò un braccio sotto l’ascella di von Kleist per aiutarlo a camminare ed entrambi si apprestarono a seguirli senza dire una parola.
“Rettifico: due uccellini, di cui uno ferito,” borbottò il maresciallo, rivolto a Krause.

Il maggiore Bühler si trovava in un locale angusto adibito a base operativa, dietro un tavolino sbilenco sul quale erano poggiate cataste di fogli e cartelle, una tazza vuota e una macchina da scrivere. Dalla porta aperta i furieri entravano, gli riferivano brevi comunicazioni e poi tornavano indietro.
L’unica luce, una lampadina che penzolava dal soffitto appesa a un filo sottile, illuminava il suo volto facendolo apparire ancora più pallido.
Manfred colse nella sua espressione qualcosa che stonava con la consueta imperturbabilità che lo contraddistingueva, ma giudicò che fosse meglio astenersi dal fargli domande inopportune. “Il nostro aeroporto si trova quasi al confine con la Prussia Orientale, signore,” spiegò invece.
Hans corrugò appena la fronte, poi si avvicinò alla postazione di fortuna, ricavata da due sedie allineate, su cui era stata installata la radio da campo, e si rivolse all’operatore. “Hirsch, mi metta in contatto col comandante dello stormo Pik As.”
Il sottufficiale trafficò con le manopole dell’apparecchio, quindi cedette il posto al maggiore, che indossò le cuffie e scambiò un paio di rapide, concise comunicazioni con l’interlocutore che si trovava all’altro capo. Quando ebbe riagganciato, si volse di nuovo verso Manfred scuotendo la testa. “Al momento non posso rimandarvi indietro, ma prometto che farò tutto il possibile. Intanto lei e il suo gregario potete restare qui con noi e riposarvi.”
“La ringrazio, signor maggiore.”
Hans annuì. “Qui le sistemazioni sono un po’ spartane, ma c’è posto anche per voialtri due”, soggiunse poi, lasciandosi andare a un contegno leggermente più informale. “Dormiamo e mangiamo a pochi passi dal luogo in cui si spara, ma la baracca è ben difesa.”
“E mio fratello dov’è?”
Manfred si avvide che, non appena lui ebbe finito di pronunciare quell’innocente domanda, il maggiore increspò le labbra e i suoi occhi furono attraversati da una sfumatura fosca. Prima ancora che lui potesse domandarsene il motivo, tuttavia, tornò ad assumere un contegno impenetrabile. “È uscito due ore fa con un plotone… si è offerto per andare a tagliare la ritirata dei nemici,” rispose, fissando dritto di fronte a sé. “Abbiamo combattuto tutta la notte.”

Conclusa la missione senza risultati degni di nota, il capitano von Kleist rientrò alla base senza rivolgere la parola a nessuno. Erich lo vide scomparire al piano di sopra per fare rapporto al comandante di battaglione, per poi ridiscendere le scale, una decina di minuti dopo, accompagnato da un tenente della Luftwaffe che, fatta eccezione per i capelli di un biondo leggermente più scuro, gli somigliava in tutto e per tutto.
Solo allora si accorse che gli aviatori presenti erano ben due: l’altro stava su una sedia in un angolo, con le gambe accavallate e un gomito appoggiato al davanzale della finestra, lo sguardo rivolto fuori. Zoppicando, il tenente lo raggiunse e von Kleist andò a sedersi al pianoforte che un gruppo di soldati, durante un giro d’esplorazione, aveva trovato nella soffitta di uno degli edifici occupati.
Erich prese posto sugli scalini per consumare il suo pasto, e il cane del plotone, senza che egli lo richiamasse, tornò fedelmente ad accucciarsi ai suoi piedi. La sala comune era gremita di soldati che bivaccavano per terra, chi giocando a carte, chi mangiando e chi parlando della spedizione che li aveva tenuti occupati l’intera mattinata; ma quando il capitano iniziò a suonare, il chiacchiericcio s’interruppe lasciando libero spazio alle note del pianoforte. Era un pezzo a lui sconosciuto, che però lo rapì subito grazie alla sua potenza evocativa, generando nella sua mente celestiali visioni di magia ed eroismo. Forse non sarebbe mai stato in grado di trovare le parole per descriverle o rievocarle in seguito, ma in quel momento si trovò a pensare che quello fosse uno dei brani più belli che avesse mai ascoltato, e tanto gli bastò per lasciarsi trasportare dalle sue armonie.
“Parsifal,” disse una voce alle sue spalle. “Suona bene il capitano, non crede, signore?”
Kühn, voltatosi, si trovò di fronte il soldato Schreiber, che si era seduto poco distante da lui, e con un cenno lo invitò ad avvicinarsi. A lui era capitato rare volte di udire un pianista suonare dal vivo, e doveva la sua scarna conoscenza di Wagner, Bach, Mozart e Beethoven all’insegnante di tedesco della sua scuola, grande appassionata di musica, che talvolta portava i suoi allievi alla Konzerthaus di Berlino. “È molto bravo,” convenne.
“Quando ero ancora nella Hitlerjugend, mia madre mandava me e mia sorella a lezione di pianoforte,” ammise l’altro con una punta di rammarico, “ma non ero granché capace – si può dire che non sapevo andare oltre il livello da principiante – e alla fine decise di ritirarmi dalla scuola di musica. Però mi piaceva, e quando mi capita l’occasione mi diverto ancora a strimpellare qualche ballata.”
Erich sorrise. “Perché, allora, non suoni qualcosa anche tu?”
“Oh…” Schreiber arrossì fino alla punta delle orecchie. “Oh, no, è meglio di no.”
Nel frattempo, il capitano aveva terminato l’esecuzione e i soldati facevano scrosciare gli applausi.
“Complimenti, signore!” esclamò qualcuno.
Von Kleist, nonostante la tiepida accoglienza, si schermì e rivolse loro un rigido inchino del capo. A quel punto, l’aviatore biondo scattò in piedi e si avvicinò a lui; si scambiarono due rapide frasi e il capitano gli cedette il posto senza dire altro. Mentre il pilota attaccava a suonare la Cavalcata delle Valchirie, Erich seguì il capitano con lo sguardo mentre si accostava alla finestra con le braccia allacciate dietro la schiena: non riusciva ancora a capire perché, per quanto lui si fosse sforzato di agire in linea coi suoi insegnamenti, l’altro lo avesse richiamato all’ordine e redarguito con tanta durezza per aver tentato di volgere a vantaggio del plotone un inaspettato errore tattico dei nemici.
“Signor capitano, faccio rispettosamente notare che, se avessimo sfruttato quella falla, l’operazione si sarebbe potuta concludere con una nostra vittoria,” aveva ribattuto lui. “Avremmo potuto proseguire l’avanzata e…”
Von Kleist lo aveva indotto a tacere con un gesto perentorio. “La guerra non si fa con i se e con i ma, in assenza di certezze a cui appigliarsi. Se ci fossimo esposti troppo, sottotenente, quella mossa ci avrebbe portato altre perdite. Richiami subito i suoi soldati: arretriamo in posizione difensiva.”
Erich finì di mangiare e mise da parte la gavetta, imponendosi di smettere di rimuginarci su.
Tornò a rivolgere l’attenzione al pianoforte: l’ufficiale pilota, che apprese essere fratello del capitano von Kleist, aveva finito di suonare e si stava godendo le acclamazioni.
“Magistrale, signor tenente!” esclamavano gli uomini riuniti a semicerchio intorno a lui, quasi spellandosi le mani a forza di applaudire. “Bravo!”
“Cosa volete ascoltare, adesso?” domandò il giovane in tono affabile.
“Qualcosa di Schlager, signore!”
Visto che i soldati non riuscivano a trovarsi d’accordo sul titolo della canzone prescelta, il tenente sorrise sotto i baffi e chiamò a sé l’altro aviatore, invitandolo a sedersi sul panchetto accanto a lui. “Allora decidiamo noi”, decretò alla fine. “Conoscete Hans Albers?”
“Ottima scelta, signor tenente!”
“Quale canzone preferite?”
“La Paloma!”
“Auf der Reeperbahn nachts um halb eins!”
“Hamburg an der Elbe!”
Di nuovo piovvero le richieste più disparate dal repertorio del cantante, senza che si giungesse a una decisione unanime e, nel momento esatto in cui le dita di von Kleist si posarono sui tasti del pianoforte, i due iniziarono a cantare Flieger, grüß mir die Sonne. 1
La canzone celebrava la libertà incondizionata del volo, l’assenza di confini che permetteva di raggiungere altezze e distanze impensabili, fino quasi a toccare gli astri del cielo, ma i fanti la presero come una questione personale e la situazione degenerò rapidamente in una zuffa amichevole ma chiassosa tra le due fazioni, che costrinse il capitano von Kleist a richiamarli all’ordine.

Stava calando il buio, ma i tonfi sordi dell’artiglieria continuavano a riecheggiare incessanti, dando l’impressione che la terra stessa tremasse fino a spaccarsi sotto il loro impatto. Asserragliati in quella porzione di villaggio, gli uomini di Bühler continuavano a difendere la loro postazione, costantemente sul chi va là, talvolta costretti a interrompere le loro attività per riprendere le armi in mano, e con altrettanta rapidità gli scontri si esaurivano facendo ripiombare tra loro un silenzio interrotto solo dai lamenti dei feriti.
Per chi era abituato a combattere nei cieli, la guerra terrestre assumeva connotati raccapriccianti e, come un uccello con le ali tarpate si sentiva goffo a zampettare per terra, così Manfred si sentiva fuori luogo tra le barricate, il fango e il filo spinato.
Appoggiato allo stipite della porta, guardò il cielo grigio e immaginò di trovarsi lassù a bordo del suo Messerschmitt: più volte al giorno i caccia salivano a perlustrare lo spazio aereo; non sempre riuscivano a intercettare unità nemiche prima che il carburante si esaurisse, allora tornavano alla base, rifornivano i serbatoi e ripartivano.
Quella era stata la sua quotidianità fin dal primo di settembre, anche se le battaglie combattute erano poche, contro nemici inferiori per numero e per prestazioni, ma manovrati da piloti non meno abili – fino a quando il suo aeroplano, veterano di molte missioni, si era schiantato al suolo esplodendo in una nube di fiamme.
Un rumore di passi lo riportò al presente. “Manfred.”
“Franz?”
Weber comparve nel suo campo visivo accennando un mezzo sorriso. “Ti stavo cercando.”
“Riflettevo.” Manfred scorse uno stormo di rondini che migrava verso sud, la stessa direzione in cui volavano loro ogni volta che decollavano dall’aeroporto. “Oggi è stata una giornata strana… non mi aspettavo né di combattere di prima mattina, né di finire in un campo e venire soccorso dagli uomini di mio fratello.”
“Nemmeno io. E pensare che il capitano Möller diceva che quella dell’altro giorno, secondo lui, sarebbe stata l’ultima battaglia…”
“Di sicuro lo sarà per noi due.”
“Vedila così, poteva andare peggio: potevano prelevarci i polacchi,” disse Franz. “E non era neanche una prospettiva così improbabile: pochi metri più in là e adesso saremmo in qualche centro di smistamento.”
“A quel punto avresti dovuto correre a gambe levate prima ancora di capire dove ti trovavi.” Manfred fece una smorfia. “È la prima volta che ti abbattono in volo?”
“Sì, se non contiamo l’atterraggio dietro le nostre linee dell’altra settimana…”
“A me è successo un’altra volta, in Spagna, un paio d’anni fa, con un biplano. Da allora ho pilotato sempre lo stesso aereo… quello che mi ha abbandonato stamattina.” Sospirò, lasciando libero sfogo ai pensieri che fluivano incontrollati. “Tu sei mai andato a cavallo, Franz?”
Weber, figlio di falegname, scosse la testa con un’espressione interrogativa. “No, perché?”
“Io amo andare a cavallo quasi quanto amo volare,” spiegò von Kleist. “E l’aereo era per me ciò che il cavallo è per un cavaliere: a forza di manovrarlo ci entri in sintonia, impari a sentire le correnti d’aria insieme a esso e a conoscere ogni segreto del suo funzionamento, così come cavalcando diventi un tutt’uno col tuo destriero. Mi fa uno strano effetto pensare che adesso non ne rimane altro che un povero rottame abbandonato in mezzo a un campo.”
“Sì, credo che sia lo stesso per me. Noi però ce la siamo cavata con ferite lievi, riprenderemo presto a volare,” disse Franz dopo una breve pausa. “Meglio rimetterci l’aereo che la pelle.”
“Dulce et decorum est pro patria mori”, replicò laconico l’altro, alzando le spalle. Tuttavia, non fu capace di nascondere il brivido che gli aveva percorso la spina dorsale: vista da lassù, la morte assumeva i connotati di una simbolica caduta, un lampo accecante o uno schianto improvviso – qualcosa che riconduceva inesorabilmente alle viscere della terra – ma ciò non la rendeva più remota o meno spaventosa. Forse intuendo i suoi pensieri, Franz gli poggiò una mano sulla spalla e non disse nient’altro.

Stipati su sacchi a pelo e materassi allineati per terra, i soldati trascorrevano una notte inquieta temendo l’ennesimo attacco a sorpresa. Alcuni si rigiravano nel sonno, altri grugnivano o russavano, altri ancora chiacchieravano a bassa voce, incapaci di addormentarsi. Il sottotenente Erich Kühn, disteso su un materasso accanto a Krause e Schreiber, il cane acciambellato ai suoi piedi, fissava le travi del soffitto rincorrendo frammenti di ricordi sfuggenti che si susseguivano senza posa.
“Ma non dorme mai?” udì bisbigliare.
“Chi?” biascicò Schneider con voce impastata.
“Come, chi? Il Vecchio! Guarda.”
Anche se non dicevano a lui, il sottotenente si voltò comunque verso l’angolo più remoto della stanza: Bühler era seduto su un materasso con l’espressione accigliata, le braccia incrociate sul petto e la schiena appoggiata al muro. Anche von Kleist era sveglio: stava leggendo un libro dalla copertina blu, di cui Erich da quella distanza non riuscì a leggere il titolo, mentre i due ufficiali della Luftwaffe accanto a loro dormivano indisturbati.
“Il Pervitin fa quell’effetto”, intervenne una terza voce, con l’aria di uno che volesse mostrare di saperla lunga.
“O magari è un vampiro”, riprese Schneider. “Ecco perché non invecchia.”
Krause scosse la testa. “Non ti credere, è più giovane sia di me che di Hanke.”
Il primo soldato, ignorando la precisazione, ridacchiò. “Un vampiro? Quindi se gli sventoli l’aglio sotto il naso…”
Non fece in tempo a terminare la frase: il silenzio all’esterno fu squarciato da una lunga serie di tonfi sordi e tuoni ravvicinati. Erich scattò come un veltro aizzato; i soldati iniziarono a svegliarsi, pronunciando frasi concitate tra gli sbadigli, chi allarmato dalle vibrazioni della terra e chi tirato giù dal letto dai camerati. Trascorsero tutta la notte in allerta, nascosti nei rifugi, in attesa di un attacco che non arrivò.

Per l’ennesima volta in quasi ventiquattr’ore, Manfred vide scomparire Friedrich al piano di sopra, verso la postazione di comando del maggiore, senza riuscire a scambiare con lui più di un saluto circostanziato. Dovette ammettere che suo fratello, che pure non era mai stato un tipo particolarmente loquace, in quei giorni sembrava quasi volerlo evitare di proposito, ma non riusciva a spiegarsi le ragioni di un simile comportamento.
Anche Hans, la persona più consistente che avesse mai conosciuto, sembrava essersi arroccato nel suo rifugio inviolabile. Per Manfred era quasi come uno di famiglia, vista l’amicizia intima che lo legava a suo fratello – Friedrich lo invitava spesso alla tenuta per trascorrere le vacanze con lui, oppure approfittava dei periodi di licenza per trascinarlo su e giù per la Germania, dalle Alpi al Mare del Nord; una volta, addirittura, erano stati per quasi un mese in giro per l’Italia, una sorta di pellegrinaggio laico alla maniera di Goethe, verso meraviglie artistiche e paesaggistiche di cui avevano conservato un pacchetto di fotografie alto quanto un libro – ma lo si vedeva scendere di rado tra i soldati, solo per trasmettere disposizioni o accertarsi che la situazione fosse ancora sotto controllo.
Solo verso mezzogiorno Manfred, seduto al pianoforte insieme a Franz a strimpellare una sonata di Schumann, riuscì a scorgere suo fratello ai piedi della scalinata. Si congedò in fretta e furia e gli andò incontro, notando per prima cosa la sua aria cupa. Tuttavia, Friedrich non gli negò la sua compagnia e lo guidò fuori dal casolare, verso il cortiletto occupato dai camion e dagli altri veicoli per il trasporto dei militari.
Prima di azzardare la domanda, Manfred rimase per qualche istante a guardarlo in silenzio. “Come procedono le operazioni, Friedrich?”
L’altro esalò un profondo sospiro. “Siamo ancora bloccati qui, senza sapere per quanto tempo ancora riusciremo a reggere gli assalti del nemico che cerca con tutti i mezzi di ricacciarci indietro.” Voltò appena la testa, forse per non mostrare la sua espressione contrita. “Gli effettivi della compagnia, al momento, non arrivano a centoventi: se ci arrischiassimo in campo aperto rischieremmo soltanto un’altra inutile strage. Adesso, l’unica cosa che possiamo fare è resistere a oltranza in attesa che arrivino i rinforzi: solo a quel punto potremo procedere con l’offensiva, dritti verso l’obiettivo.” Friedrich si appoggiò con le mani a un muretto mezzo crollato, sempre avendo cura di evitare il suo sguardo. “E anche a quel punto, dubito fortemente che l’avanzata verso Varsavia sarà lineare e indolore. Se c’è una cosa di cui sono sicuro – una sola cosa – è che farò di tutto affinché questa battaglia non sia vana.”
Manfred rimase di nuovo in silenzio: le parole di suo fratello, unite al tono grave in cui erano state pronunciate, avevano insinuato in lui un presentimento come di nubi temporalesche. “Ho fiducia in te, Friedrich,” disse alla fine. “Una vittoria senza onore non serve a nulla.”

Di nuovo da solo, una cappa di nuvole presaghe di pioggia che gravava sul suo capo, Friedrich continuava a rimuginare sulle parole di suo fratello.
La vittoria, l’onore… l’occasione per riparare alla sua colpa tardava a presentarsi, tenendolo incatenato in un limbo sospeso tra l’attesa angosciosa, scandita dal timore di perdere l’unico attimo favorevole, e l’urgenza di agire che portava cattivo consiglio, forzando la mano per indurla ad azioni avventate.
Ogni cosa rimaneva ai suoi occhi incerta, velata di dubbio. Come avrebbe potuto riconoscere l’attimo quando esso si presentava? E se fosse caduto preda di un’illusione ancora peggiore, destinata ad agevolare la sua disfatta?
Strinse i denti: aveva notato più volte occhiate ammiccanti al passaggio suo o di Hans, sguardi che gli si posavano addosso o sussurri che si spegnevano con ostentata indifferenza se lui osava avvicinarsi troppo. Non gli era dato di conoscere il contenuto di quelle conversazioni furtive, né poteva indagarvi, ma era ormai chiaro che la voce si stava diffondendo fin troppo in fretta.
Una gocciolina di pioggia gli si posò sul naso, ma il capitano si limitò a infilare le mani in tasca e a calarsi la visiera del berretto sugli occhi, per poi rimanere ostinatamente fermo lì dov’era mentre la spruzzata d’acqua s’infittiva: le gocce ricoprivano le mattonelle di puntini bagnati e gli inzuppavano la giubba dell’uniforme.
“Signor capitano!” sentì chiamare. Sussultò quando riconobbe la voce del sottotenente Kühn, ma decise di non destare ulteriori sospetti e rientrò, senza neanche alzare lo sguardo sul ragazzo.
“Una vittoria senza onore non serve a nulla.”
Se il battaglione era destinato a difendere quella postazione fino all’ultimo uomo, se proprio non c’era possibilità di redenzione e l’unica alternativa al disonore era la morte, allora sarebbe morto combattendo.

Hans abbassò il binocolo e si allontanò dalla finestra. La pioggia stava riempiendo di fango le trincee difensive, ma non sarebbe bastato quello a frenare un eventuale assalto da parte del nemico, che in una sola giornata si era riassicurato gran parte del controllo sulla zona.
Si versò una tazzina di caffè riscaldato e vi lasciò cadere una mezza zolletta di zucchero, quel tanto che bastava a darle un sapore accettabile. Lo sorseggiò lentamente, appoggiato alla scrivania con lo sguardo ancora rivolto verso la campagna sferzata dalla pioggia.
Dal piano inferiore giungevano le note di un brano nel quale idillio e dramma si fondevano, un brano che conosceva ormai quasi a memoria.
Il viaggio sul Reno di Sigfrido…
Avrebbe riconosciuto tra mille la mano del pianista, e quella musica fece risalire alla sua mente prepotenti ondate di ricordi, che fino ad allora erano rimasti al sicuro tra le quattro mura dell’appartamento di Potsdam. Anche se non aveva mai ricevuto un’educazione musicale, trascorreva ore intere ad ascoltarlo mentre le sue dita si muovevano agili sulla tastiera, producendo note che rendevano superflua ogni parola. Era attraverso la musica che Friedrich si esprimeva, lasciando che parlasse per loro, e le note che gli giungevano all’orecchio in quel momento erano l’espressione di uno spirito eroico, tormentato da un destino implacabile che lo avrebbe presto condotto alla rovina.
Per un attimo fu tentato di scendere, di raggiungerlo e sedersi accanto a lui, ma subito dopo scosse la testa imponendosi di rimanere concentrato sull’operazione in corso: col compito delicato che gli spettava, col peso delle responsabilità che gli erano piombate tra capo e collo, non poteva lasciarsi sopraffare dal sentimentalismo.
Eppure, dovette ammettere, si sarebbe perfino strappato la croce di ferro dal petto se ciò fosse servito a salvare il capitano dal disonore.


  1. Aviatore, salutami il sole↩︎

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Capitolo 20
*** Capitolo XVII ~ ... so bleiben wir doch treu ***


XVII.
... so bleiben wir doch treu

 
 

La colonna di granatieri corazzati era in marcia dalle prime ore dell’alba, attraverso paeselli di campagna e stradine sterrate, segnate dal recente passaggio di veicoli e grossi contingenti armati. Un Panzer III guidava la schiera, seguito una teoria di carri coi fanti appollaiati sui cingoli. Dalla terra si sollevavano sottili ed evanescenti fantasmi di nebbia che ondeggiavano intorno agli alberi.
Nello spazio angusto della torretta, Keller e il soldato scelto Lange, il servente del cannone, condividevano una barretta di cioccolato tra chiacchiere frivole, aneddoti e battute che facevano ridere solo loro. Mentre il capitano Greifenberg scrutava il paesaggio dalla cupola di comando, le loro risate gli giungevano attutite dal costante rombo del motore e dallo sferragliare dei cingoli. L’aria frizzante, a tratti quasi pungente, del primo mattino, gli accarezzava il viso e i capelli biondi, arrecandogli un tiepido sollievo dopo la lunga notte insonne.
Le casette sembravano deserte, alcuni degli steccati che delimitavano le proprietà private erano stati divelti con violenza e gli alberi spogli depredati dei loro frutti. Il villaggio recava i segni di una recente schermaglia; dentro un fosso, il capitano notò il relitto di un piccolo corazzato con l’aquila polacca dipinta sul fianco. Intorno a esso, al posto dell’erba, c’era una macchia nera che emanava puzzo di carburante bruciato. La calma che regnava ovunque, unita al venticello che scuoteva dolcemente le fronde in tiepidi sussurri, sembrava un invito a guardarsi le spalle più che una rassicurazione: la fanteria polacca non era così sprovveduta da rivelare la propria posizione a un battaglione corazzato che dilagava per i campi. Esortato da quelle riflessioni a una maggiore prudenza, Reinhardt diede il segnale dell’alt: la colonna si fermò sfruttando la relativa copertura offerta dalle case, i motori al minimo che emettevano un ronzio simile al russare di grossi felini.
Si sporse oltre la cupola della torretta e col binocolo fece un’attenta ispezione dell’ambiente circostante: chilometri di campi smossi dal passaggio di carri armati, agglomerati di case disabitate; in lontananza una foresta che copriva un ampio margine della visuale, celando l’orizzonte come un compatto muro verde.
“Tracce di nemici, Herr Hauptsturmführer?” gli chiese Keller dall’interno.
“Nessun movimento. Campi, case, una foresta a un paio di chilometri da qui,” riferì l’ufficiale. “Ci sono alte probabilità che il nemico si nasconda lì per tenderci un’imboscata.” Abbassò il binocolo e prese il microfono per trasmettere via radio gli ordini a tutta la compagnia: “Procedere con cautela nella direzione convenuta, mantenendo la copertura delle case. Seguitemi!”
Sollevò il braccio e la colonna si rimise in marcia, discendendo la stradina irregolare che digradava verso il campo. Mano a mano che la visuale offerta dal binocolo si ampliava, i segni della battaglia emergevano con più chiarezza: tra l’erba calpestata, alta almeno fino alla cintola di un uomo e falciata dai solchi di molti cingoli, s’intravedevano labirinti di trincee; contorti serpentelli di filo spinato riaffioravano qua e là come trappole.
“Nemico avvistato!” giunse tempestiva la segnalazione.
“Tutti ai posti assegnati, formazione di combattimento!”
“Signorsì, signor capitano!”
“Attendete il mio segnale e non sprecate munizioni né carburante.”
“Sissignore!”
Mentre gli altri Panzer si disponevano intorno a loro nella tipica formazione a cuneo, Reinhardt scorse un folto gruppo di TKS che caracollava attraverso la boscaglia distante: erano piccoli carri delle dimensioni di un’automobile, agili e leggeri, armati di una sola mitragliatrice e di un piccolo cannone, che nei giorni precedenti avevano teso imboscate letali anche a veicoli corazzati. Era ancora difficile riuscire a capire quanti fossero, ma stabilì che fosse fondamentale assicurarsi il vantaggio e mantenerlo per tutta la durata dello scontro.
“Caricare!” ordinò.
Vide con la coda dell’occhio Lange che inseriva il proiettile e Keller che si chinava sul mirino del cannone, poi, come un lupo in attesa della preda designata, seguì ogni movimento del più avanzato dei carri fino a quando non giudicò che si trovasse finalmente a una distanza ottimale.
“Mirare… Fuoco!”
L’eco della detonazione squassò l’aria assorta del primo mattino, l’ordigno fendette la nebbia con un fischio e da uno squarcio nell’esile involucro del TKS si sollevò una cresta di fiamme.
In perfetta sincronia, anche gli altri Panzer iniziarono a sparare, mentre i nemici sciamavano per le propaggini del bosco nascondendosi tra gli alberi col favore dell’ombra e delle dimensioni ridotte.

Passò un tempo inquantificabile prima che nell’aria iniziassero a fischiare le prime pallottole nemiche. La maggior parte andò a vuoto, ma una smitragliata volò pericolosamente vicina alla torretta del comandante di compagnia, che fu costretto a ritirare la testa all’interno della cupola protettiva.
“Ricaricare… Fuoco!” gridò fulmineo.
Il Panzer sparò di nuovo; altri proiettili s’infransero tintinnando contro la sua corazzatura frontale.
“Tutto bene, signore?”
“Affermativo, Lange,” rispose Reinhardt in tono sbrigativo. Richiuse lo sportello, afferrò l’interfono e si mise in contatto col pilota, ordinandogli di manovrare per spostarsi in una posizione più riparata. Quei giorni di esperienza sul campo gli avevano insegnato che un Panzer III era senz’altro un mezzo solido e resistente, ma era svantaggiato dall’agilità del nemico e dalle dimensioni che lo rendevano un bersaglio facile: bisognava essere rapidi a sparare e cercare copertura senza esporsi mai troppo. Porgere il fianco, poi, poteva rivelarsi fatale.
Si chinò su una delle feritoie laterali che fungevano da visori: i nemici sembravano aver acquisito baldanza e stavano tentando una manovra di accerchiamento. La pioggia di piombo era così fitta da far pensare che ci fosse anche della fanteria nascosta tra le frasche, con adeguato supporto di artiglieria anticarro.
Ormai non potevano più sottrarsi allo scontro, e Reinhardt pensò subito ai suoi uomini, al pericolo che correvano: si trovavano in netta minoranza, intrappolati nel grembo di una bestia di ferro che avrebbe potuto proteggerli oppure morire insieme a loro, seppellendoli vivi.
“Maledizione,” sibilò tra i denti. “Fuoco di sbarramento!” disse poi in frequenza radio. “Concentrare il tiro sulle prime linee: non devono avvicinarsi.”
“Come, signore?” chiese allarmato il servente del cannone.
“Lange, tu e Keller penserete ad eliminare i blindati e le bocche da fuoco.” Senza attendere replica, prese l’interfono. “Richter!”
“Signor capitano?”
“Le tue mitragliatrici serviranno ad arrestare l’avanzata della fanteria.”
“Signore…” provò a obiettare il marconista.
“Fidatevi di me, ragazzi,” assicurò il capitano, con una vibrazione di calore nella voce. “Abbiamo combattuto in condizioni peggiori e ce la siamo sempre cavata. Se resteremo uniti, se non ci lasceremo abbattere dall’incertezza, anche stasera ce ne torneremo indietro vittoriosi.”

L’avanzata non era stata né rapida né indolore: molti carri erano stati colpiti, riportando danni più o meno evidenti, e diversi soldati della fanteria erano rimasti feriti nello scontro.
Tuttavia, da un capo all’altro della schiera, attraverso le stradine dei villaggi polacchi, i canti riecheggiavano ancora, più bassi di tono e vibranti di una sottile commozione, ma sempre con gli occhi rivolti alla meta.
Anche gli uomini degli equipaggi, anziché stare chiusi all’interno della corazza metallica, sedevano intorno alla torretta come merli su un ramo per godersi lo spettacolo offerto dal tramonto.
“E se la Fortuna volubile dovesse voltarci le spalle,” cantavano, “il Panzer sarà la nostra tomba di ferro.”
Reinhardt li ascoltava con un leggero sorriso sulle labbra; poi si unì a loro, grato per la fiducia che gli avevano concesso. Varsavia era ormai vicina: gli ultimi barbagli di sole giocavano con le acque trasparenti della Vistola, infiammando l’orizzonte lontano. Nella distanza, evanescenti come un miraggio, si scorgevano le guglie della cattedrale.

Quando giunsero all’accampamento, l’accoglienza fu tiepida ma sollevata. Da qualche parte doveva esserci anche la compagnia di fanteria del capitano Bentheim, che Reinhardt si ripromise di andare a salutare non appena gli fosse stato possibile. I blindati che si trovavano in condizioni peggiori – uno seminava scie d’olio, un altro aveva la mitragliatrice inceppata – furono presi in consegna dai meccanici e i medici del campo si adoperarono subito per prestare soccorso ai feriti.
Dall’alto della sua torretta, l’ufficiale controllò che tutto si svolgesse secondo le sue disposizioni e ascoltò i rapporti dei suoi sottoposti, infine scese mentre gli uomini dell’equipaggio gli si radunavano intorno.
“E anche oggi ne abbiamo distrutto uno.” L’Uscha Keller assunse un’espressione baldanzosa. “Senza contare le bocche da fuoco.”
Come in un rituale consolidato, in qualità di comandante, a Reinhardt spettò il compito di segnare sul tubo del cannone una tacca per ogni obiettivo distrutto – carri armati medi e leggeri, camion di rifornimenti, artiglierie pesanti, obici da campo; subito dopo, con altrettanta disinvoltura, il sottufficiale prese una bottiglia di birra dalla loro scorta personale e la stappò, porgendogliela. “Viva il capitano Greifenberg!” esclamò. “Il miglior asso di tutto il fronte polacco!”
“Esagerato,” lo prese in giro lui, mandando giù un copioso sorso.
“Per fortuna che anche stavolta nessuno di noi si è fatto male”, dichiarò Hirschel, il pilota, accendendosi una sigaretta: era la prima volta che lo sentivano proferire parola da quando erano partiti per tornare indietro. Forte della sua formazione di meccanico, si abbassò ad esaminare i cingoli sporchi di fango e scosse la testa. “Però mi sa che le ruote hanno preso un brutto colpo quando siamo finiti nel pantano.”
“Allora le manderemo ad aggiustare,” disse Reinhardt, tornando serio. Sul fianco del Panzer, la Balkenkreuz era ormai sbiadita e in diversi punti della corazzatura c’erano graffi e ammaccature che sfoggiava come ferite di guerra. Sulla torretta figurava un grosso “222” in rosso, segno distintivo della bestia di ferro soprannominata Barbarossa. “Domani dobbiamo tornare operativi e non vorrei essere costretto a richiedere una sostituzione.”
“Signor capitano!” Uno Sturmmann con la striscia argentata sul colletto si fermò ai regolamentari tre passi da lui, scattò sull’attenti e salutò. “Lo Sturmbannführer Wittmann la desidera nel suo ufficio.”
“Gli dica che arrivo subito,” rispose il capitano. Aspettò che il graduato si fosse allontanato, poi si girò di nuovo verso gli uomini dell’equipaggio. “E tu, Keller, non bere troppo mentre non ci sono. Ci vediamo più tardi.”

Una massa confusa di fanti e granatieri corazzati era assiepata davanti al tendone della mensa, sotto gli aloni giallastri dei lampioni o intorno ai fuochi.
Il capitano Bentheim si allontanò dal gruppo e gettò un’occhiata verso gli alloggi della Leibstandarte, i pensieri ancora rivolti alla giornata appena trascorsa. Mentre si chiedeva dove fosse Reinhardt, riconobbe un giovane alto e biondo, in divisa nera da carrista, che usciva fuori da una delle tende. Prima ancora che egli potesse rivolgergli un cenno, l’altro lo notò e gli andò incontro. “Konrad, ti stavo giusto venendo a cercare.”
“Anche io. Sapevo che oggi avremmo dovuto aspettare un po’ prima di goderci la pausa, quindi mi sono portato avanti col lavoro.”
Proprio in quel momento, al di sopra del brusio generale, un sottufficiale delle Waffen-SS iniziò a intonare uno Jodler, lanciandosi in gorgheggi sempre più arditi che attirarono un folto gruppo di curiosi. Konrad si voltò verso il suo compagno e sollevò un sopracciglio.
“È Keller, il mio cannoniere”, spiegò Reinhardt. Mentre gli spettatori facevano scrosciare gli applausi, scosse la testa con un sorriso indulgente. “Deve sempre fare sfoggio delle sue doti canore.”
Rimasero ancora per qualche minuto ad assistere a quell’esibizione improvvisata, poi si avvicinarono alle barricate. Si trovavano su una spianata leggermente rialzata, che offriva un’ampia visuale sul paesaggio immerso nell’oscurità. Le scie dorate dei lampioni si riflettevano sulle acque del fiume, ma i bagliori più luminosi erano quelli delle esplosioni che riempivano il cielo notturno di boati. Più in alto, tra le nuvole velate d’argento, si intravedevano le sagome nere degli aerei da ricognizione e dei bombardieri notturni.
“Quella è Varsavia.” Konrad indicò un agglomerato di luci palpitanti di fronte a loro. “Saranno una decina di chilometri in linea d’aria, eppure sembra un’avanzata interminabile.”
“Sai, una volta ho sentito dire che la cosa veramente importante non è la meta, bensì il viaggio che si intraprende mentre si cerca di raggiungerla,” disse Reinhardt. “Ti ricordi quella volta che eravamo accampati nella giungla?”
“Me lo ricordo come se fosse ieri. Ogni tanto mi ritorna in mente quella tigre bianca, talmente vicina che abbiamo dovuto trattenere il fiato per cinque minuti buoni per non farci notare, e poi quei tempietti con le statue d’oro… e quando siamo stati costretti a guadare quel torrente limaccioso a cavallo senza riuscire a vederne il fondo, te lo ricordi?”
Reinhardt fece un mezzo sorriso. “Oh, sì. Tuttora non so spiegarmi come abbiamo fatto a raggiungere indenni l’altra sponda! E i serpenti nascosti nei cespugli? Anche lì c’erano pericoli in agguato dietro ogni angolo.”
“Si può dire che abbiamo sviluppato una certa resistenza agli ambienti estremi.”
“È stata una bella avventura. Decisamente da ripetere,” asserì l’altro con convinzione. “Anche questa, in un certo senso, è un’avventura, anche se non sappiamo ancora dove ci porterà… sono convinto però di una cosa, che ripeto sempre ai miei uomini: se ciascuno di noi, strada facendo, si impegnerà per dare il meglio di sé, presto i risultati si vedranno.”
Konrad si volse verso di lui: aveva i capelli arruffati e l’aria stanca, ma stava sorridendo, e gli occhi azzurri ardevano nel volto sporco di polvere.
Annuì, senza aggiungere altro, mentre il vento della sera spirava portando un leggero refrigerio dopo la lunga giornata campale.

Difendere quel buco, senza sapere a che ora né con quanti uomini il nemico avrebbe attaccato, era come un’eterna partita a scacchi che richiedeva una concentrazione che Hans non sapeva per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a mantenere.
La radio da campo taceva; dai ricognitori giungevano solo rapporti vaghi, di un numero indistinto di forze stanziate a sbarrar loro il passo, tenendoli schiacciati tra incudine e martello. Gli altri reparti erano sparpagliati per la campagna, il reggimento frammentato in tante piccole unità autonome: i polacchi stavano impegnando tutto ciò che restava del loro esercito per difendere la capitale, minacciata su due fronti da tedeschi e sovietici, con una determinazione che aveva meravigliato perfino l’Alto Comando della Wehrmacht. Per quanto sconfitti, per quanto logorati, per quanto disperati, continuavano a resistere; preferivano morire con le armi strette al petto che gettarle ai piedi del nemico.
Hans sospirò e, come ogni volta in cui era nervoso, con una mano tastò la tasca dei pantaloni alla ricerca della scatoletta di metallo nella quale teneva le sigarette, ricordandosi poi che gliene restava solo una. La mano ricadde lungo il fianco ed egli rimase immobile a fissare fuori dall’orbita vuota della finestra, come aspettandosi che le ombre calanti del vespro portassero con sé il preludio di un nuovo attacco.
Qualcuno, al piano di sotto, continuava a suonare un repertorio che alternava musica popolare e marce militari prussiane.
“Signor maggiore.”
Quella voce familiare lo fece sussultare, assorto com’era nelle sue meditazioni. Si voltò e si trovò di fronte Friedrich, che in tono incolore annunciò: “Il capitano Bentheim riferisce che la sua compagnia, insieme alle truppe corazzate dello Hauptsturmführer Greifenberg, ha respinto un assalto polacco nei pressi della foresta di Młocinski. Domani si muoveranno verso sud per aiutarci a liberare il villaggio.”
“Molto bene, capitano”, rispose il maggiore, accogliendo suo malgrado un fugace fremito di sollievo. “Fino a domani possiamo resistere.”
Nessuno dei due accennò a muoversi. Friedrich era rimasto fermo sulla soglia; Hans, pur ripercorrendo mentalmente le ultime notizie, non smetteva di fissarlo di sottecchi.
“Von Kleist,” disse infine, dandosi un contegno imparziale, “come vanno le cose al piano di sotto?”
“I soldati aspettano,” rispose il capitano, “alcuni sono stanchi e dormono per terra, altri ascoltano mio fratello che suona il piano o giocano a carte col sottotenente Kühn.”
“Anche tu sei stanco,” osservò Hans, abbassando la voce.
L’altro si strinse nelle spalle. “Mi basterà un caffè.”
“Vai a riposare. Da quanto tempo è che non dormi?”
“Chi se lo ricorda più.”
Hans rimase in silenzio: dal modo in cui quelle parole erano state pronunciate trapelava un distacco quasi incorporeo, un totale disinteresse nei confronti delle cose terrene. Nella sua mente continuavano a riecheggiare le note del Viaggio sul Reno udite poche ore prima, come l’accettazione di una sorte ineluttabile che il capitano sembrava essersi voluto tacitamente caricare sulle spalle. Non come una vittima che a essa si sottometteva, ma come un guerriero che si preparava ad affrontarla col solo ausilio delle proprie forze. Dovette lottare aspramente contro se stesso per evitare di chiamarlo a sé ed esternare i dubbi inespressi che da troppi giorni si agitavano dentro di lui come un terremoto sotterraneo.
“Vai a riposare,” ripeté, in tono pacato ma fermo.
Friedrich alzò il viso su di lui e il suo sguardo si fece glaciale. “Mi basterà un caffè”, ribatté con durezza. “Starò di guardia anche stanotte, tutta la notte, se necessario.” Detto ciò, girò i tacchi con rigidità marziale e scomparve di nuovo giù per le scale.

In piedi contro la finestra, la schiena rivolta al paesaggio e la brezza serotina che gli solleticava la nuca, Friedrich von Kleist continuava a rigirarsi tra le mani l’ultima lettera del fratello maggiore, capitano di corvetta in servizio su una torpediniera nel Mar Baltico.
Provava a immaginare il lento rumore della risacca che faceva da sottofondo ai canti dei marinai, l’odore di salsedine portato dal vento, i gabbiani che volavano a pelo d’acqua, ghermivano la preda e si dileguavano riempiendo il cielo azzurro delle loro strida. E poi provava a immaginare suo fratello Jürgen, alto e biondo, nella sua elegante uniforme blu scura a doppiopetto e il berretto con la visiera bordata d’oro, che passeggiava avanti e indietro sul ponte della nave mentre il suo agile scafo solcava le onde spumeggianti.
Forse non lo avrebbe più rivisto, così come non avrebbe rivisto il giovane Siegfried, il fanciullo dagli occhi di cielo che inseguiva le nuvole a bordo di un aliante. Nessuno di loro sapeva quanto greve fosse il macigno che gli pesava sul petto, e forse era meglio così: si sarebbero ricordati di lui per quello che era e non per gli errori a cui avrebbe cercato di rimediare.
Ripiegò la lettera e la fece di nuovo scomparire nella tasca interna della divisa, chiedendosi se fosse il caso di fare buon viso a cattivo gioco o se esprimergli le sue preoccupazioni come aveva fatto con Manfred, pur omettendo la scomoda faccenda della corte marziale.
Jürgen aveva trentadue anni, contro i ventiquattro suoi e di Manfred, e più di dieci anni di esperienza in marina. Forse, se gliene avesse parlato, suo fratello avrebbe saputo consigliarlo al meglio, ma il suo orgoglio gli imponeva di non chiedere l’aiuto di nessuno.
Nemmeno quello di Hans, si ripeté mentalmente, come un imperativo categorico. Lui non deve pagare per le mie colpe.
Finì di trangugiare il caffè ormai freddo, si sedette al pianoforte e si rimise a suonare.

Nella notte di settembre, che portava con sé i primi sentori dell’autunno, un’umidità persistente risaliva dalle trincee lavate dalla pioggia, in furtive stilettate che sembravano penetrare fin nelle ossa. Le sentinelle di guardia fischiettavano lontano, perlustrando il perimetro dell’accampamento; tutto il resto era silenzio.
Hans diresse i propri solitari passi verso la sommità dello spiazzo occupato dai camion e volse lo sguardo oltre le rovine, verso il campo che si estendeva di fronte a lui come un nero lago. Anche la luna, velata da un evanescente strato di nuvole, emanava un lume smorto che rendeva i contorni del paesaggio appena distinguibili.
Tutto aveva un’aria elettrica, incerta, come sull’orlo di un abisso che celava mostri. Occorreva rimanere sempre all’erta, pronti a imbracciare le armi al primo segno sospetto, ma Hans, che ormai si era abituato a quello stato di precarietà sul piano bellico, non sapeva più se a preoccuparlo maggiormente fossero i mostri dell’incertezza o quelli della ragione: poteva qualcosa essere così logico e al tempo stesso ambiguo? Con un sospiro, frugò nella tasca dell’uniforme e si accese l’ultima sigaretta rimasta, cercando di espellere col fumo almeno una parte del nervosismo che aveva accumulato.
Aveva da poco iniziato quando un rumore di stivali militari lo indusse a voltarsi.
“È quasi ora di rientrare,” gli disse Friedrich, in tono impersonale, comparendo nel cono di luce di uno dei lampioni: la visiera del berretto occultava il suo sguardo, ma Hans sentiva i suoi occhi fissi su di sé come dardi di ghiaccio ardente.
“Non sono il soldato di Lili Marleen”, ribatté caustico.
“Dovresti smetterla di fare lo spiritoso.”
L’espressione del maggiore si indurì. “E tu dovresti smetterla di fare cazzate,” ringhiò, buttando fuori tutta la collera che per giorni aveva cercato di tacitare.
Di fronte a quell’impeto inaspettato, Friedrich sembrò irrigidirsi, ma non si mosse di un millimetro. “Non è una cosa che ti riguarda.”
“Non mi riguarda?” lo apostrofò Hans. “Forse non ti è chiaro quello che ti ho detto l’altra volta. Nessun ufficiale è responsabile solo di se stesso, e più alto è il grado maggiori sono le responsabilità.” Scrollò la testa con rabbia, stringendo i denti. “Hai trasgredito gli ordini: nella fattispecie, i miei ordini. Se fossi rimasto al tuo posto non ti sarebbe successo niente.”
“Se fossi rimasto al mio posto,” ribatté il capitano sprezzante, “il nostro battaglione avrebbe perso la città e tu adesso saresti in un campo prigionieri.”
Per una manciata di secondi, si guardarono come due fiere pronte a fronteggiarsi in uno scontro senza vinti né vincitori. “No, tu hai commesso una grave infrazione che ha avuto conseguenze catastrofiche”, disse infine Bühler, deciso a mettere fine una volta per tutte a quella discussione. “In termini strettamente militari, non c’è altro modo per definire quello che hai fatto.”
“Ho solo fatto il mio dovere, e se necessario lo rifarei.”
Hans emise un sospiro rabbioso, esalando con esso anche l’ultima boccata di fumo. Senza dire altro, gli diede le spalle e tornò a osservare la campagna immersa in una silente oscurità. Si sarebbe aspettato che Friedrich si incaponisse sulle sue posizioni o se ne andasse indignato, invece continuava a percepire la sua presenza alle proprie spalle, immobile.
“Mi dispiace, Hans,” lo sentì dire infine. “Questa è una cosa che riguarda solo me.”
Il maggiore rimase in silenzio per un istante inquantificabile, prestando ascolto ai sussurri della notte; su di loro, la mole incombente di una piccola cappella gettava una coltre d’ombra che pareva isolarli dal resto del mondo. Per quanto il suo compagno, per orgoglio o testardaggine, si ostinasse a negarlo, a lui era ormai chiaro il suo grado di coinvolgimento all’interno di quella vicenda. Si voltò lentamente, scandendo le parole con gravità. “Friedrich… qualunque cosa succeda, io voglio solo che tu sappia una cosa.”
“Cosa?” chiese l’altro.
Leggendo nel suo sguardo un guizzo di stupore, Hans fece un passo verso di lui e lo guardò dritto negli occhi. “Che anche se tutti gli altri dovessero abbandonarti, io rimarrò con te.”
Friedrich arretrò nel buio fino ad avere la schiena contro il muro della cappella.
Hans incombeva su di lui, una mano appoggiata alla parete e l’altra, chiusa a pugno, che gli ricadeva lungo il fianco. Uno dei lampioni sfarfallò nella quiete carica di tensione dell’accampamento e poi si spense. “Solo una cosa: promettimi che non farai colpi di testa,” lo ammonì.
“So badare a me stesso, Schwabe”, sussurrò il capitano, come per rassicurarlo. “Ti preoccupi così tanto per me?”
“Ricordi quello che dicesti quella sera? Siamo camerati,” replicò Hans, imprimendo alla parola quel significato esclusivo che conoscevano solo loro. I suoi occhi seri erano velati da una luminescenza fosca, ma nella voce, al di sotto del tono duro, si coglieva un’insolita vibrazione. “Penso che sia sufficiente come risposta.”
“Io non voglio che tu…”
L’altro si fece di nuovo serio. “Vorresti avere l’ultima parola anche stavolta, Preuße?”
“No, io…” Friedrich avrebbe voluto dirgli qualcosa, parlargli dei sentimenti che gli ruggivano nel profondo, ma la voce gli si bloccò in gola come un groppo insidioso: in guerra, anche quelle semplici parole assumevano un significato completamente diverso. Si sentiva come un profano, un sacrilego, quasi indegno di proferire simili parole, soprattutto dopo aver ascoltato quelle del compagno.
Hans lo afferrò per le spalle e lo spinse lontano dalla luce dei lampioni. Le loro labbra si cercarono e si incontrarono a metà strada, dapprima sfiorandosi esitanti, poi unendosi in un lungo bacio che suggellò tutto ciò che non era stato espresso a voce. Friedrich fece scivolare la mano dietro la nuca di Hans e gli affondò il viso tra la spalla e il collo, mentre le dita dell’uomo s’intrecciavano tra i suoi capelli.
Rimasero avvinti tra le ombre silenziose, così vicini da sentire i battiti dei rispettivi cuori attraverso la stoffa ruvida delle uniformi.

Mentre sorseggiava il suo caffè, Reinhardt prestava un orecchio distratto alle chiacchiere dei suoi camerati: nei loro discorsi coglieva ancora la speranza che li aveva condotti fin lì, a sopportare le marce estenuanti, le grandinate di piombo e la paura della morte, ma l’entusiasmo iniziale pareva essersi affievolito. C’era più consapevolezza, più gravità, c’era il vuoto lasciato dai compagni caduti in battaglia e l’essere coscienti del fatto che, in quel momento fatale, chiunque altro si sarebbe potuto trovare al posto loro. Vivevano ogni giorno come se le loro vite fossero simili alle foglie che cadevano in autunno, sapendo che nessun proiettile designava le proprie vittime prima che il colpo andasse a segno. Ciò che li spingeva a combattere non era tanto il pensiero della guerra in sé – tutti sapevano quanto fosse terribile crepare intrappolati in una scatola di ferro e lamiere, prigionieri delle fiamme, o col viso affondato nel fango di una trincea – quanto il desiderio di poter contribuire un domani a qualcosa di nuovo, a un futuro ancora da scrivere. Guardavano con fiducia alla fine imminente di quella guerra, per tornare dalle famiglie e ricongiungersi ai loro amici.
Mentre lui era ancora immerso in quelle riflessioni, Konrad alzò testa dal quotidiano che stava leggendo e disse qualcosa che lui non riuscì a cogliere.
“Come?”
“Stavo dicendo che anche i civili hanno preso le armi, a Varsavia,” ripeté l’altro.
“Era prevedibile,” rispose Reinhardt. “Anche noi, al loro posto, lo avremmo fatto.”
“Chiunque lo avrebbe fatto,” disse Konrad. “Come si suol dire, chi ama la sua Patria la difende anche nell’ora più buia.” Richiuse il giornale e lo ripiegò facendone frusciare le pagine sottili, quindi si alzò e indicò con un cenno del capo l’uscita del refettorio. “Andiamo fuori a fare due passi, ti va?”
Reinhardt annuì e lo seguì all’esterno: il cielo era ancora tinto di un’intensa sfumatura cobalto, ma nel piazzale gli uomini della logistica stavano già caricando le salmerie e i furieri andavano avanti e indietro per scambiarsi le consegne. Inspirò l’aria carica di umidità e disse, cambiando completamente discorso: “Sai, stanotte ho sognato i tempi in cui andavamo ancora alla scuola militare.”
Konrad inarcò un sopracciglio, piegando le labbra in un sorriso divertito. “Ripensavi a quando hai preso a pugni Reiting davanti a tutti?”
Reinhardt rise. “Se lo meritava eccome, quel pallone gonfiato!”
“Però alla fine lui non è rimasto a guardare mentre gliele suonavi, ha reagito e siete finiti in infermeria entrambi… per non parlare dei provvedimenti disciplinari.”
“Se l’è cercata,” asserì il giovane con convinzione, scrollando le spalle. “Non potevo più sopportare le sue angherie e le sue insinuazioni. E infatti, da quel momento in poi non ci ha più dato fastidio.” Fece una breve pausa, perdendosi nei ricordi. “Si può dire che l’ho fatto per una giusta causa.”
A quelle parole rise anche Konrad. Anche se non disse nulla, a lui parve quasi di sentirlo mormorare un affettuoso: “Non cambierai mai.”
“A dire il vero, comunque, il pensiero di Reiting non mi ha neanche sfiorato la mente. Voleva arruolarsi nella fanteria, ma in che punto del fronte sarà, adesso? In che reggimento? Nello Heer, nelle Waffen-SS?” Divagò un po’, poi scosse la testa manifestando il suo disinteresse. “Quello che pensavo, in realtà, è che io e te ne abbiamo passate tante insieme. Quanti anni saranno che ci conosciamo? Quindici?”
All’epoca, Reinhardt non avrebbe mai pensato che quel ragazzino dall’aspetto aristocratico, sempre serio e sulle sue, che tutti gli altri, con un misto di curiosità e sufficienza, chiamavano Principe, sarebbe poi diventato per lui molto più che un semplice amico.
“Una quindicina, sì. E come potrei dimenticare tutte le bravate in cui mi hai trascinato?”
“Tu però non ti sei mai rifiutato di seguirmi. Come quella volta che ci siamo persi nel bosco…”
“Ci voleva pur sempre qualcuno che ti coprisse le spalle”, replicò Konrad ironico, “altrimenti chissà in che guai ti saresti andato a infilare.”
Risero insieme, e continuarono a rievocare aneddoti passati sotto il cielo che gradualmente schiariva. Mentre Reinhardt era quello delle mille trovate strampalate, Konrad era sempre stato un ragazzo coscienzioso e con la testa sulle spalle, pronto a riportarlo sul sentiero battuto cercando di mitigare i suoi slanci. Aveva capito fin da subito di potersi fidare di lui. “Erano i tempi migliori, ogni tanto fa bene ripensarci,” osservò, volgendo lo sguardo al disco pallido del sole che risaliva l’orizzonte.

Sorse un’alba livida, gravata da nuvoloni carichi di pioggia, che li colse ancora insonni nei loro giacigli improvvisati. Coi primi raggi di sole giunse anche l’allarme di un nuovo imminente attacco, e i soldati si riversarono ai posti di combattimento come un’ondata di piena.
Una selva di elmetti verde oliva emergeva dall’erba, ai margini della terra di nessuno; le canne delle mitragliatrici spuntavano dalle barriere di sacchi imbottiti, pronte a far fuoco. I tedeschi attendevano con agitazione febbrile – qualcuno ancora intontito dal sonno mentre si faceva scivolare in gola delle pastiglie o del caffè freddo dal pessimo sapore, qualcuno reso vigile e insensibile dalla prolungata astinenza da sonno.
Nessuno osava più avvicinarsi al comandante, il maggiore Bühler, o al suo secondo, il capitano von Kleist, che con aria grave e distaccata passavano da un capo all’altro dello schieramento per disporre gli uomini alla difesa. Poche parole, nessuna promessa di riuscita: entrambi speravano di resistere almeno fino all’arrivo dei rinforzi, che con una manovra a tenaglia li avrebbero aiutati ad accerchiare il nemico.
Friedrich strinse le dita intorno alla cinghia dell’MP38 che gli pendeva dalla spalla e levò lo sguardo verso il cielo grigio: come ogni mattina, vide uno stormo di Stuka sorvolare il cielo a squadriglie compatte, rovesciare d’ala e lanciarsi in picchiata con una sincronia quasi coreografica. Uno dei velivoli fu colpito dalla contraerea e precipitò in vite tracciando una scia di fumo nero.
Si diceva che l’aeronautica polacca avesse ricevuto l’ordine di evacuare la capitale, cedendo così ai tedeschi la piena supremazia aerea; eppure la vittoria non gli era mai sembrata così lontana, più come concetto che come realizzazione materiale: forse la Germania avrebbe finalmente trionfato, ma lui che ruolo avrebbe avuto in tutto ciò?
Rivolse un’occhiata fugace al suo compagno, e si accorse che anche lui lo stava guardando. Strinse le labbra, sentendosi a disagio sotto quello sguardo, e s’impose di concentrare i propri pensieri sulla situazione contingente.
Un istante dopo, il comandante nemico diede l’ordine di attaccare e la pioggia di piombo riprese con rinnovato vigore.

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Capitolo 21
*** Capitolo XVIII ~ Treu wie die deutschen Eichen, wie Mond und Sonnenschein ***


 
XVIII.
Treu wie die deutschen Eichen,
wie Mond und Sonnenschein
 
 

L’aria era irrespirabile, gravata da un fumo denso che portava con sé odore di bruciato e polvere da sparo; la terra era scossa dai sussulti provocati dall’artiglieria pesante. Soldati di entrambi gli schieramenti si muovevano barcollando tra le macerie che invadevano strade dilaniate da crepe e crateri, si nascondevano nelle case distrutte dalle bombe, pronti a sparare a vista su chiunque portasse una divisa di un colore diverso.
Il frastuono era così assordante che, per quanto forte si sforzasse di gridare, il maggiore Bühler doveva ripetere gli ordini almeno due o tre volte prima che qualcuno potesse recepirli correttamente. Vicino a lui, sdraiati per terra dietro un mucchietto di mattoni, c’erano Schreiber e Hanke con la MG 34: il giovane soldato reggeva il nastro e il caporale stava chino sul mirino, pronto a fare fuoco contro qualunque nemico comparisse nel suo campo visivo.
Bühler doveva stare curvo dietro il muro, con le ginocchia piegate, per evitare che i polacchi al di là del suo riparo si accorgessero della sua presenza. Cercavano di contenere l’avanzata dei tedeschi martellando le loro postazioni con l’artiglieria pesante, mentre la fanteria attaccava di sorpresa i gruppi che rimanevano isolati. Hans passò in rassegna i soldati che lo circondavano: una mezza dozzina avevano trovato posto in una larga crepa che divideva in due la strada; degli altri vedeva spuntare gli elmetti e le canne dei fucili al di là dei sacchi di sabbia. Il caporale Schneider era in retroguardia coi suoi serventi e l’obice da 105, tutti gli altri dovevano essere sparpagliati per il paese, sotto la guida dei rispettivi comandanti di plotone.
Di quello che resta dei loro plotoni, puntualizzò mentalmente: per quanto ovvio, quel pensiero ebbe lo stesso impatto di una rivelazione impovvisa.
Guardò l’orologio, poi aprì e richiuse la mano destra, sentendo le dita intorpidite: non era nemmeno metà mattinata, ma gli sembrava di combattere da un tempo lunghissimo e inquantificabile. Si era messo i guanti per coprire la fasciatura alla mano, ancora in via di guarigione, e le bende troppo strette impacciavano i suoi movimenti.
Pochi istanti dopo, un boato fece tremare l’aria e uno schianto terribile anticipò l’esplosione. Bühler ritirò la testa tra le spalle mentre l’ordigno impattava contro la facciata di una casa, spargendo schegge e calcinacci, e i mattoni rotolavano giù sollevando una nube di polvere. Seguirono alcuni istanti di quiete sospesa, poi il bombardamento d’artiglieria riprese ad abbattersi sulle postazioni tedesche.
“Tutti giù!” latrò il maresciallo Eichmann, prima ancora che il maggiore potesse avvedersi di quello che stava succedendo. Sentì semplicemente un rumore immane che gli perforava i timpani, risucchiandogli l’aria dai polmoni, poi rotolò all’indietro su un cumulo di macerie con la testa che gli pulsava.
Dovette mordersi la lingua per reprimere un’imprecazione e la bocca gli si riempì di sangue: con la coscienza ancora annebbiata sentì acuirsi il dolore dei lividi che aveva sparsi sul corpo, e i punti di sutura che aveva sul fianco, non ancora del tutto rimarginati, si tesero fino a dargli l’impressione di volersi strappare.
Qualcuno, faccia a terra, grugnì un lamento. Una nebbia densa e grigiastra, rovente, avvolse le figure dei soldati e i colpi di tosse si sostituirono alle imprecazioni. Un ferito, da qualche parte, emise un gemito straziante.
Hans si tirò su, cercando di ricomporsi, e vide un lampo arancione stagliarsi nitido contro la caligine: il fuoco doveva aver aggredito qualcosa che si trovava al di là della coltre di fumo, divampando e ruggendo. Presto sarebbe arrivato anche da loro.
“Dobbiamo cambiare postazione,” disse, la gola ancora irritata dal fumo e gli occhi che gli bruciavano. “Qui è troppo pericoloso. Prendete con voi i feriti e andiamocene!”

La pioggia di ordigni esplosivi si era momentaneamente spostata altrove, ma i cannoni continuavano a tuonare la loro ira.
Bühler controllò ancora una volta che i suoi soldati fossero saldi nelle loro posizioni, poi si sedette con la schiena contro un ridotto, trasse fuori dalla tasca il taccuino e iniziò a prendere appunti per l’ennesimo rapporto richiesto dal tenente colonnello von Rauheneck.
Aveva scritto appena un paio di righe quando un rumore di stivali militari che si avvicinavano attirò la sua attenzione.
“Un po’ di caffè, signor maggiore?”
Hans alzò la testa e si trovò di fronte il sergente Böhmer, con due tazze fumanti tra le mani.
“Grazie, sergente,” rispose con un cenno del capo, prendendone una. Mise da parte il taccuino e, mentre fissava un punto indefinito di fronte a sé, rimase assorto a sorseggiare il caffè, il fragore della battaglia che continuava a riecheggiargli nella testa.
Iniziava ad avvertire la stanchezza tutta insieme, come se il suo corpo e la sua mente stessero realizzando solo in quel momento che non dormiva da giorni, reclamando a gran voce qualche ora di riposo.
L’ultima volta che aveva dormito, nello scantinato del casolare, l’aveva fatto con la pistola sotto la giacca arrotolata che usava come cuscino, ed era stato ridestato dopo nemmeno un’ora dall’allarme delle sentinelle.
L’ultima volta che aveva dormito veramente, in un letto degno di tale nome, era insieme a Friedrich, in Germania, chilometri e chilometri lontano da certe preoccupazioni.
Si passò una mano sul viso, poi vuotò la tazza in un unico sorso: il sonno, così come indugiare in pensieri che non avevano nulla a che vedere con la situazione presente, erano un lusso che non poteva permettersi in quel momento. Eppure, non poté impedirsi di chiedersi quando Friedrich lo avrebbe di nuovo raggiunto: sapeva che quando si metteva un’idea in testa – per quanto rischiosa fosse – non c’era più verso di smuoverlo, ma la sera prima lo aveva visto vacillare, aggrapparsi a lui come in cerca di un appiglio, e l’urgenza di proteggerlo e vegliare su di lui lo attanagliava tanto quanto quella di vincere la battaglia.

Friedrich von Kleist alzò la testa, schermandosi gli occhi con una mano per proteggersi dalla luce lattiginosa che perforava le nubi: il cielo grigio ribolliva di Stuka in rotta verso Varsavia, mentre i caccia volavano minacciosamente bassi.
Sollevò quindi il binocolo, cercando di intercettare il camion dei rifornimenti venuto a recuperare suo fratello Manfred e il gregario Weber, che attendevano a un lato della strada coi giubbotti di pelle sopra le uniformi sgualcite: avrebbe dato loro un passaggio per poi lasciarli non distante dal primo aeroporto lungo la strada, dove sarebbero ripartiti per la Prussia Orientale.
Quando il veicolo comparve in lontananza, coperto da un telone verde, Manfred si avvicinò a Friedrich e lo strinse in un abbraccio. Colto alla sprovvista, il capitano ricambiò con goffa reticenza, quasi temendo che quel contatto così ravvicinato potesse rivelare i suoi pensieri più reconditi.
“Finite le battaglie nei cieli, adesso ci aspettano le missioni di attacco al suolo,” disse l’aviatore. “Forse riuscirò a vederti, da lassù.”
“Per noi sarà una battaglia cruenta, casa per casa,” mormorò Friedrich, come se stesse parlando tra sé.
Il furgone accostò, mise il motore in folle e suonò il clacson, interrompendo il breve silenzio che si era frapposto tra loro.
Manfred si svincolò e guardò il fratello dritto in faccia: suoi occhi cobalto erano cupi e in essi non c’era traccia della sua usuale ironia. “Abbi cura di te, Fritz.”
Friedrich strinse le labbra, ma non disse nulla. Forse suo fratello, che celava la sua preoccupazione dietro un tono fermo, aveva intuito i suoi tormenti così come li aveva intuiti Hans, anche se lui non ne aveva fatto parola con nessuno dei due. Nemmeno si preoccupò di annuire: non poteva promettere qualcosa che non sapeva se sarebbe riuscito a mantenere.
Nonostante la Kübelwagen di Schmidt ferma alle sue spalle, pronta a riportarlo in prima linea, egli rimase a guardare il fratello mentre si allontanava col passo ancora strascicato. Totalmente ignaro di certi problemi, il sottotenente Weber gli tese la mano e Manfred balzò sul cassone del camion; poi, mentre il veicolo manovrava per tornare indietro, si affacciarono entrambi a salutarlo agitando le braccia.
Friedrich deglutì per sciogliere il groppo che gli ostruiva la gola, chiedendosi se mai li avrebbe rivisti. Quel pensiero, che a ogni ora si faceva sempre più invadente e incombeva sul suo capo come il velo dell’Apocalisse, gli fece salire un fastidioso pizzicore agli occhi.
“Signor capitano?”
La voce di Schmidt lo indusse a voltarsi: aveva rimesso in moto la macchina e, dal modo in cui tamburellava le dita sul volante, sembrava impaziente di partire. Egli annuì e salì al posto del passeggero, dandogli il segnale della partenza.
L’autiere svoltò con una sgommata e partì alla massima velocità senza neanche il bisogno di chiedergli conferma. Guidava attraverso le stradine di campagna con la fronte corrugata, lo sguardo fisso di fronte a sé, e schivava gli ostacoli che gli si paravano dinanzi con curve così brusche da far sobbalzare Friedrich sul sedile.
Quando giunsero al villaggio, la feroce battaglia era già iniziata.
Il caporale accostò senza nemmeno spegnere il motore, von Kleist scese con un balzo e si diresse di gran corsa verso le prime linee, alla ricerca del comandante di battaglione.

Vide la figura di Hans riemergere come un pilastro in mezzo al fumo delle esplosioni e le figure barcollanti dei soldati. Udì anche la sua voce impartire ordini nella concitazione delle grida, ma non riuscì a cogliere le sue parole. Per una qualche ragione che non seppe spiegarsi razionalmente, il cuore prese a battergli più forte.
Si fece strada tra le schiere, si fermò di fronte a lui ai tre regolamentari passi, scattò sull’attenti battendo i tacchi. “Capitano von Kleist a rapporto, signor maggiore!”
L’uomo gli ordinò il riposo con un gesto asciutto, restituendogli un’espressione indecifrabile. “È necessario un approvvigionamento di munizioni, capitano.” Più che una comunicazione improvvisa, quella richiesta gli parve una mossa premeditata. “Si metta in contatto con la sezione logistica, prego: mi aspetto che gli obici da 105 vengano riforniti quanto prima.”
Von Kleist rimase per un attimo impietrito, gli occhi sgranati fissi su di lui. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo: qualunque replica potesse venirgli in mente, sarebbe stata troppo pungente e inadeguata a quel contesto. Si irrigidì e aggrottò le sopracciglia, la sua voce divenne gelida. “Sì, signor maggiore.”
Salutò senza dire una parola, gli voltò le spalle e si allontanò a grandi passi.
Più dell’umiliazione, quella decisione presa senza consultarlo gli bruciò quanto un rifiuto, e lui sapeva per esperienza diretta quanto potesse fare male. Hans lo chiamava sempre al proprio fianco durante le battaglie, contava sul suo appoggio tanto quanto lui aveva imparato a riporre una fiducia incondizionata nella sua guida: il pensiero che il suo amante – colui che avrebbe seguito fino in capo al mondo e che, a sua volta, l’aveva reso partecipe dei propri dubbi – potesse privarlo di quel ruolo che lui con tanta fatica aveva conquistato, lo colpì come l’ennesima pugnalata. Era come se improvvisamente Hans gli avesse negato la sua fiducia, la sua stima, e forse anche qualcosa di più intimo e ineffabile.
Si sforzò di non voltarsi: riusciva a immaginarlo benissimo, mentre si aggirava per le prime linee coi proiettili che fischiavano da ogni parte, o raccoglieva un’arma da terra per rispondere al fuoco dei nemici. Era sempre lui, il suo compagno e il suo comandante, saldo e fedele come le querce tedesche, ma la sua stessa natura l’aveva reso di nuovo inespugnabile come un bastione fortificato.
“Che cosa dovrei fare io, se tu finissi alla corte marziale? Stare a guardare impotente mentre ti tolgono i gradi e ti ricoprono di vergogna?”
Le motivazioni di Hans tuonarono come una sentenza, e la causa di quell’intervento categorico fu il lampo che fugò ogni possibile equivoco.
Notò distrattamente che stava iniziando a piovigginare; affrettò il passo proteggendosi il volto con la visiera del berretto. Quella risoluzione era un impedimento alla sua volontà: come avrebbe potuto, dalle retrovie, riscattare la sua colpa, riabilitarsi come ufficiale e riconquistare la piena stima del suo compagno?
“Promettimi che non farai colpi di testa, Preuße.”
“Perché ti preoccupi tanto per me?”
“Siamo camerati: penso che sia sufficiente come risposta.”
Stringendo i denti, si voltò di scatto: Hans era proprio lì dove lo aveva immaginato, riconobbe la sua presenza tranquilla e autorevole. Lesto, aveva raccolto un Mauser 98k da terra ed era strisciato dietro una statua mutilata, trascinando con sé un paio di soldati mentre un ordigno si abbatteva sulla strada.
Rimpianse ancora una volta di non poter essere accanto a lui, a combattere, e i sensi di colpa tornarono a pungolarlo come dardi acuminati.

Anche quando Friedrich si fu congedato, Hans rimase a guardarlo mentre se ne andava: il capitano gli dava ostinatamente le spalle e procedeva ad ampie falcate, costeggiando i muri. Coglieva il fastidio e la delusione nel suo atteggiamento – li comprendeva – e provava dispiacere per averlo allontanato con una scusa del genere, quasi come se non lo ritenesse più degno di ricoprire quel ruolo che era sempre stato solo suo. Tuttavia, qualcosa gli suggeriva che aveva fatto la scelta migliore: non riusciva ancora a capire quali fossero le sue reali intenzioni, ma riteneva di conoscerlo abbastanza bene da sapere che avrebbe ricercato a tutti i costi un’occasione per lavare via la precedente colpa.
Anche a costo di mettere a repentaglio la sua stessa vita…
Scacciò quel pensiero con rabbia e si ripeté che aveva senz’altro fatto la scelta giusta.
La voce del sergente Böhmer lo richiamò alla realtà. “Ecco che ricominciano!”
Un ululato cupo fendette l’aria, le mitragliatrici ripresero a crepitare. Le urla dei polacchi che incitavano alla battaglia si facevano sempre più vicine.
“Tutti ai propri posti!” ordinò il maggiore.
Raccolse un fucile da terra e scivolò dietro un vecchio monumento, trascinando con sé il soldato scelto Krause; il sottufficiale lo seguì brandendo un MP38. Un obice andò a schiantarsi per terra, facendo schizzare schegge e pezzi di pavimentazione, poi un’orda di nemici piombò loro addosso con veemenza.
I tedeschi risposero al fuoco, anche Hans dalla sua postazione armò il fucile. Nel premere il grilletto sentì un bruciore alla mano e qualcosa di caldo che gli scorreva lungo il palmo, appiccicandosi al guanto, ma non ebbe il tempo di pensarci: la furia della mischia non risparmiò nemmeno lui.
Sparò ancora una volta, schivò una sventagliata di proiettili, rotolò in un posto più riparato e ricaricò l’arma.
Nel mentre, aveva ricominciato a cadere una lieve pioggerellina, e le strade erano attraversate da rivoli fangosi che sotto gli stivali si trasformavano in mota. L’umidità rendeva l’odore della polvere da sparo ancora più sgradevole, ma la pioggia ripuliva il sangue.
Gradualmente, alla cacofonia si sovrappose un altro rumore, basso e continuo: lo sferragliare di decine di cingoli. “Sono arrivati i Panzer!” gridò il caporale Hanke.
Bühler si lasciò scappare un sospiro di sollievo. “Tenere la posizione!” ordinò.
Ansante, trafelato, si abbandonò con la schiena contro il muro e si tolse il guanto: le fasciature erano inzuppate di sangue, ma nel frattempo l’emorragia era cessata e il dolore gli parve tutto sommato sopportabile. Le rassettò alla bell’e meglio, si rimise il guanto e tornò al proprio posto – prima, però, dedicò a Friedrich un ultimo, fugace pensiero: doveva essere ormai arrivato a destinazione.

Nuvole basse, cariche di pioggia gravavano sul villaggio, avvolgendolo in un’atmosfera umida e grigia.
Affacciato all’oblò della torretta di comando del Panzer III, le cuffie in testa e l’immancabile binocolo in mano, Reinhardt Greifenberg scrutava attento la zona, volgendosi poi di tanto in tanto per controllare che gli altri blindati della compagnia fossero sempre dietro di lui.
Ai lati delle strade si era accumulato uno strato di fango molliccio, che recava le impronte di molti stivali e si aggrappava tenace ai cingoli dei Panzer. I segni della battaglia erano presenti a ogni crocevia: cadaveri abbandonati sui marciapiedi, armi scariche ed elmetti sfondati, lampioni divelti, edifici anneriti dalle fiamme. I rumori gli giungevano attutiti dal rombo del motore, ma le colonne di fumo che si levavano al di sopra dei tetti – quelli che ancora si ergevano nonostante i bombardamenti – indicavano che dovesse essere particolarmente cruenta.
“Signor capitano, una comunicazione da parte del maggiore Wittmann!” lo richiamò il marconista.
Poco dopo, la voce del comandante risuonò nelle cuffie del capitano. In sottofondo si sentivano i tuoni delle cannonate e i ruggiti dei carri armati. “Vi raccomando la massima attenzione,” disse l’uomo, col suo consueto tono calmo. “Gli scontri armati dilagano per tutto il centro abitato, la fanteria è sparpagliata per la città. Diverse compagnie sono sotto il tiro continuo dell’artiglieria nemica.”
Reinhardt annuì, poi chiese: “Si sa dov’è attestata?”
Si udì un’esplosione, alcune grida attraverso il canale radio. Un’interferenza disturbò il segnale, poi Wittmann rispose: “Nella città vecchia, vicino alle rovine del castello: è da lì che bombardano i nostri.”
“E voi dove siete, signor maggiore?”
“Siamo già sul posto, li stiamo accerchiando per neutralizzare le bocche da fuoco. Ci raggiunga, capitano.”
“Arriviamo subito, signore.”
“Bene, conto su di voi.”
La comunicazione si chiuse e, al segnale del capitano, la colonna ripartì, serpeggiando per le stradine sconnesse del centro storico: poche case erano state risparmiate dalle bombe, e ombre scure si aggiravano all’interno degli specchi vuoti delle finestre. Reinhardt ritenne più saggio non esporsi al tiro di eventuali cecchini nascosti e si riparò all’interno della torretta, protetto dalla corazza di ferro insieme ai suoi camerati.
L’Uscha Keller e il soldato Lange parlavano di amenità, mentre Richter cercava senza risultato di attirare la loro attenzione. Hirschel, come sempre silenzioso, li conduceva attraverso quelle strette calli.
Reinhardt lasciò vagare lo sguardo all’interno dello stretto abitacolo della torretta: in un angolo c’erano un paio di casse di birra, nell’altro scatole di munizioni impilate e armi individuali. Appesa alla parete, una foto dell’equipaggio: lui al centro, circondato dai suoi compagni che sorridevano con un’espressione di trionfo in viso; dietro di loro il Panzer lucido, con la Balkenkreuz dipinta di fresco e una tacca sul cannone a indicare la loro prima vittoria. Mentre indugiava nel ricordo di quel giorno, le sue labbra si piegarono in un leggero sorriso.
Fu uno scossone violento a strapparlo a quei pensieri: il Panzer sbandò, Lange urlò e, per non cadere, dovette aggrapparsi alla manovella per il brandeggio del cannone. Il motore ruggì in preda all’angoscia mentre il blindato s’inclinava come una nave sul mare in tempesta, facendo finire Keller addosso al capitano. Reinhardt sbatté la schiena contro la scaletta, un forte dolore gli colpì la nuca e la sua vista si riempì di farfalle bianche; il berretto gli cadde. La torretta ruotò come mossa da una forza immane, un altro tonfo scosse gli uomini all’interno e, con un ultimo miagolio stridulo, il veicolo si fermò come se avesse incontrato la resistenza di un muro di cemento, intrappolandoli in un istante di immobilità sospesa.
“Signor capitano!”
Col peso di Keller che gli gravava addosso, leggermente stordito dalla botta, Reinhardt cercò a tentoni la maniglia del portellone e la afferrò. Spinse via il cannoniere, si arrampicò sulla torretta e mise la testa fuori. Sbatté gli occhi abbagliato da un lampo; una carezza rovente gli lambì le guance: il motore sprigionava fiamme minacciose, che avevano aggredito anche l’olio rovesciato per terra. “Oh, merda…” si lasciò scappare.
“Che succede, signore?”
“Fuori, fuori!” ordinò per tutta risposta il comandante. “Prendete con voi solo le armi individuali. Sta bruciando tutto!”
Svelto, staccò la fotografia dalla parete e se la infilò nella tasca posteriore dei pantaloni, quindi abbandonò la torretta con un balzo agile.
Mentre si accertava che i suoi uomini stessero uscendo dal Panzer in fiamme, afferrò il microfono e aprì la comunicazione radio. “Parla lo Hauptsturmführer Greifenberg, seconda compagnia del primo battaglione. Barbarossa, numero 222, chiede una sostituzione!”
Dall’altra parte gli risposero che non c’erano altri mezzi disponibili e si scusavano per l’inconveniente. Greifenberg chiuse la comunicazione con un sospiro affranto, ordinò agli altri carristi della compagnia di procedere verso il centro del villaggio, poi si avvicinò di nuovo ai suoi camerati. “Dov’è Hirschel?”
Richter e Keller stavano cercando invano di spegnere l’incendio con un estintore, ma le fiamme sembravano farsi beffe dei loro tentativi. A quelle parole parvero sussultare. “Hirschel?”
“Signor capitano, venga!” Inorridito, Lange si era fermato di fronte alla corazzatura frontale del Panzer, squarciata da un obice proprio in prossimità della postazione del pilota. “Dobbiamo tirarlo fuori!”
Il fuoco, nel frattempo, aveva avvolto la torretta e si propagava intorno ai cingoli, alimentato dalla macchia di benzina che andava allargandosi.
“Andate in copertura, io vi raggiungo tra poco.”
Senza pensarci due volte, Reinhardt lo raggiunse e si arrampicò sulla parte anteriore del blindato. Una vampata di calore gli salì al viso, insieme all’odore acre del ferro carbonizzato. “Hirschel, mi senti?”
“Signor capitano…” rispose dall’interno una voce flebile, velata dalle ultime note roche dell’adolescenza.
“Hirschel, sono qui. Apri lo sportello, sbrigati!”
Le fiamme danzavano e palpitavano intorno a loro, così vicine da dare l’impressione di volerli ghermire. Greifenberg agitò una mano per allontanare il fumo e tossì.
“Hirschel, presto! Non c’è tempo da perdere!”
A quell’ennesima sollecitazione, il giovane soldato obbedì, palesandosi alla sua vista: i suoi lineamenti erano distorti in una smorfia e, per quanto si sforzasse di nasconderle, grosse lacrime gli rotolavano lungo le guance pallide. Quando si accorse del fuoco, le sue pupille si dilatarono per lo spavento. “Sono incastrato, signore… mi fa male la gamba.” Tentò ancora una volta di uscire, ma ricadde sul sedile stringendo i denti per il dolore.
“Vieni, ti aiuto io.” Senza perdere ulteriore tempo, l’ufficiale lo afferrò da sotto le ascelle e lo sollevò praticamente di peso, mentre il ragazzo faceva leva sulla gamba sana per tirarsi fuori da quell’ammasso di lamiere accartocciate.
Si allontanarono rapidi, l’uno correndo e l’altro zoppicando, con un braccio intorno al collo del suo comandante. Alle loro spalle, il motore divorato dalle fiamme esplose e la belva d’acciaio ristette in mezzo alla strada come un vecchio relitto carbonizzato.
Hirschel si abbandonò ansante contro il muro di una casa; Richter, Keller e Lange li raggiunsero poco dopo. “Ho chiamato i portaferiti, signor capitano,” annunciò il marconista.
Greifenberg annuì, passandosi una mano sul volto e ritraendola sporca di fuliggine. “Grazie, Richter.”
“Poveraccio,” mormorò tra sé e sé il pilota, con gli occhi ancora arrossati. Tra i suoi compagni passò qualche secondo di perplessità e di occhiate interrogative prima che tutti si rendessero conto che si riferiva al carro armato.
“Ne avremo un altro, migliore del vecchio Barbarossa… magari un Panzer IV, più lucido di quello del maggiore Wittmann.” Reinhardt sorrise indulgente. “L’importante è essere tutti qui, sani e salvi.” Piegò un ginocchio e si chinò di fronte al ragazzo, poggiandogli una mano sulla spalla. “Non dispiacerti, non è finita qui. Adesso dobbiamo separarci, ma ci ritroveremo tutti quanti a Lichterfelde. Sei stato un bravo pilota.”
Hirschel abbozzò un sorriso titubante. “E lei è il comandante migliore che potessi avere, signore.”
Il capitano gli diede una leggera stretta. “In bocca al lupo, Heinz.”
Attese l’arrivo dei portaferiti, poi si mise di nuovo in contatto col comandante di battaglione e gli riferì in breve l’accaduto.
“Non possiamo mandare nessuno a recuperarvi, al momento,” rispose il maggiore. “Mantenete la copertura e raggiungete le nostre unità di fanteria nella zona meridionale.”
“Ricevuto, signore.”
“Ho fiducia in lei, capitano,” concluse Wittmann. “Buona fortuna, ragazzi.”
Reinhardt chiuse la comunicazione con un sospiro, quindi si rivolse ai suoi uomini, che nel frattempo avevano ripreso a chiacchierare. “Unità di fanteria, zona meridionale. Sparate solo se attaccati e mantenete la copertura.”
Trasse la pistola dalla fondina, la armò e si mise alla guida del quartetto.

Il capitano Konrad von Bentheim si avvicinò alla finestra del rifugio che condivideva con gli uomini della sua compagnia. La sera scivolava languida sui tetti bagnati dalla pioggia, privando il cielo del suo colore. Attraverso le lenti del binocolo, i soldati erano macchioline nere che si muovevano furtive negli anfratti e poi scomparivano di nuovo, inghiottite dall’oscurità. Aveva ripreso a piovere più forte e le truppe di entrambi gli schieramenti stavano rintanate nei loro buchi in attesa di una mossa del nemico, che probabilmente sarebbe arrivata col calare della notte. Solo l’artiglieria – l’orecchio allenato di Konrad riconosceva i boati dei grossi calibri tedeschi – continuava il suo incessante lavoro.
I soldati che erano intorno a lui si godevano un’inaspettata pausa dagli scontri che avevano infiammato la giornata: alcuni dormivano coi bagagli arrotolati sotto la testa, altri giocavano a carte e chiacchieravano intorno a un tavolino sgangherato; il divano era riservato ai feriti meno gravi, che non avevano l’urgenza di essere trasportati in ospedale. I due uomini alla mitragliatrice pesante chiesero il cambio e andarono a raggiungere gli altri.
Konrad vide comparire all’imboccatura della via una dozzina di uomini delle Waffen-SS: quattro di essi, tra cui un giovane ufficiale alto e robusto, avevano l’uniforme nera sotto la cerata lucida di pioggia, gli altri erano fanti in grigioverde. Recavano con sé fucili e mitra, sembravano di ritorno da uno scontro armato. Due di loro avevano una MG 34: uno la portava bilanciata sulla spalla e l’altro gli trotterellava accanto con la cassetta delle munizioni. Si muovevano guardinghi nonostante si trovassero nel territorio controllato dai tedeschi, come se stessero cercando un punto strategico in cui acquartierarsi.
L’ufficiale, che scrutava ogni edificio, aveva un’andatura familiare. Konrad aguzzò la vista e lo riconobbe subito: era Reinhardt.
Quando il giovane alzò la testa volgendo alla finestra il suo sguardo acuto, Bentheim gli fece un rapido cenno come per avvertirlo che la via era libera. L’altro indicò in alto, parlò brevemente coi suoi uomini, quindi li guidò all’interno della costruzione. I soldati si fermarono al piano di sotto, insieme al resto della compagnia, e le voci si alzarono.
Reinhardt, invece, salì al piano di sopra e comparve nello specchio della porta, avvolto nella penombra del corridoio. Con sé aveva un MP38 e alcune granate a manico infilate dentro la cintura, gli scarponi erano zuppi d’acqua.
Salutò formalmente, poi si avvicinò, posò l’arma e si sedette accanto a lui sulla cassapanca. Il colore dell’uniforme nascondeva le macchie d’olio, ma Konrad intuì che dovesse essere successo qualcosa. “Tu che ci fai qui?”
“Due grossi calibri: il motore del vecchio Barbarossa è andato e il pilota verrà rimandato a Berlino in convalescenza. Abbiamo combattuto tutto il tempo con armi da fanteria.” Reinhardt si strinse nelle spalle, poi proseguì: “Siamo tutti sparpagliati e al momento non posso raggiungere il comando di battaglione, a meno di non farmi impallinare da qualche cecchino. Stavamo girando da mezz’ora alla ricerca di un posto dove passare la notte…” Alzò lo sguardo su di lui e sorrise. “Devo dire che nemmeno io mi aspettavo di trovarti qui.”
Konrad annuì. “Noi abbiamo smesso di combattere da un’oretta e siamo a fare la guardia a questo crocevia. Non sappiamo quando il nemico passerà al contrattacco, quindi restiamo vigili.”
“Abbi fiducia: sono sicuro che ce la faremo. Ci conviene approfittare di questi pochi momenti di quiete, no?” Scattò di nuovo in piedi e alzò la voce per farsi sentire dai soldati di fanteria ammassati all’interno della stanza. “Perché non cantiamo qualcosa che ci risollevi il morale? O, du schöner Westerwald…”

Il capitano von Kleist terminò di compilare l’ultimo rapporto per il comandante di reggimento e ingoiò l’ennesimo caffè freddo senza nemmeno sentirne il sapore.
Per sgranchirsi le gambe, si alzò dalla cassetta di munizioni rovesciata che usava come sedile e iniziò a muoversi avanti e indietro per l’angusto stanzino, allacciando le braccia dietro la schiena mentre i pensieri tornavano ad agitarsi come in un vortice che girava nel senso opposto rispetto ai suoi passi. Si sentiva diviso tra sensazioni contrastanti: non era soltanto l’umiliazione di essere stato costretto ad assolvere una mansione da contabile quando si era guadagnato la croce di ferro combattendo in prima linea, né l’impossibilità di riscattare un fallimento sia etico che militare; c’era anche qualcos’altro.
Al di là del loro legame, il fatto che Hans lo avesse scelto come suo aiutante di campo denotava un valore particolare, come quello di un’investitura cavalleresca: era il segno tangibile della fiducia che il maggiore nutriva per lui, e che lui – pur con tutta la sua buona volontà e credendo di fare la cosa giusta – aveva finito per deludere. Quella mossa improvvisa, più che una punizione, era stata come uno specchio rivelatore che lo aveva costretto a trovarsi faccia a faccia coi propri errori.
Eppure, sentiva che non era quello il vero motivo per cui l’altro lo aveva rimandato indietro.
Tornò a sedere, la schiena appoggiata al muro scrostato; sospirò e si passò una mano sul collo, affondando le dita tra le ciocche di capelli. Da una parte lo infastidiva il fatto che Hans avesse comunque scelto di interferire con la sua ferma volontà – che avesse voluto assumersi il controllo di quella faccenda, anche se lui gli aveva espressamente chiesto di tenersene fuori – ma dall’altra fu costretto a riconoscerne le ragioni più profonde.
Ormai ha preso la sua decisione…
Si chiese quali fossero le sue intenzioni – se esistesse qualcosa, nel regolamento della Wehrmacht, che potesse conciliare la difesa di un ufficiale ritenuto colpevole d’insubordinazione con la mentalità marziale e tetragona di Hans Bühler. Strinse il pugno, come per imporsi l’autocontrollo, ma ottenne solo di colpire con rabbia il muro: una consapevolezza simile era perfino peggio delle nottate insonni passate a dialogare coi suoi demoni.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta: tre colpi regolari, dati con la punta delle nocche. “Avanti,” disse il capitano, cercando di celare il suo cruccio dietro un tono asciutto. Si aspettava qualche portaordini, e invece a comparire sulla soglia fu proprio Hans.
Friedrich assottigliò gli occhi, fissandolo. “Signor maggiore.”
“Comodo,” lo blandì l’altro, prima ancora che potesse alzarsi. Si richiuse la porta alle spalle, si avviò tranquillo al tavolino e riempì due tazze di caffè, per poi offrirgliene una in silenzio. Non fece menzione della battaglia, nemmeno gli chiese – come di suo solito – se avesse finito di fare quello che stava facendo.
Diede una rapida scorsa ai rapporti mentre sorseggiava il caffè, poi si avvicinò alla vecchia finestra e guardò fuori; la sua figura slanciata si stagliava contro il rettangolo di luce fioca che proveniva dall’esterno. Anche se non avevano detto una parola, né si erano scambiati occhiate, Friedrich comprese che il compagno non era né irritato né infastidito, e la sua presenza riuscì a spazzare in parte il risentimento che covava. Rimase a guardarlo mentre si toglieva il guanto di pelle, scioglieva le bende, disinfettava il taglio e rinnovava le fasciature, e quel clima di silenziosa familiarità gli fece tornare in mente i momenti in cui Hans gli aveva rivelato di essere preoccupato per la campagna militare imminente: lui era l’unico a cui l’uomo di ferro avesse concesso di conoscere i suoi dubbi, anche se si era sempre ben guardato dal chiedere aiuto.
Quando ebbe finito, lo vide toccare la tasca dell’uniforme, come sempre quando era nervoso, per poi riabbassare il braccio come se si fosse ricordato di qualcosa all’improvviso.
“Qualunque cosa succeda… io voglio solo che tu sappia una cosa.”
“Cosa?”
“Che anche se tutti gli altri dovessero abbandonarti… io rimarrò con te.”
Come se fosse il successivo anello di una catena, ripensò a quando Hans l’aveva spinto nella fossa, proteggendolo col proprio corpo, e aveva sparato ai due fanti in avvicinamento.
Aggrottò le sopracciglia quando sentì lo sguardo indagatore del maggiore su di sé. Con un gesto meccanico, infilò la mano in tasca e ne trasse un pacchetto di sigarette sgualcito e mezzo vuoto. “Non ho trovato niente di meglio,” si schermì, porgendoglielo.
Hans si avvicinò, si rigirò l’oggetto tra le mani e lo fissò stupito. “Per me?”
“Io non fumo, lo sai,” rispose Friedrich, con un’alzata di spalle. “So che le avevi finite.” Nonostante ciò, omise accuratamente di averle ottenute dal caporale Schneider in cambio di una barretta di cioccolato al caffè.
Hans rise, suo malgrado. “Avrei potuto farne a meno per qualche giorno, ma… grazie.”
Si fece scivolare il piccolo dono nella tasca della giubba, poi si sedette al suo fianco e gli arruffò i capelli con un gesto affettuoso. Friedrich s’inclinò verso di lui, cercando la sua vicinanza senza neanche guardarlo, e rimasero lì, spalla contro spalla, fino a quando la luce non fu scomparsa dal cielo, lasciandoli avvolti nel buio più totale.

La postazione del comandante di battaglione era diventata una sorta di ultimo baluardo difensivo.
Il maggiore e il suo aiutante di campo avevano allestito due giacigli in un angolo; a separarli c’era una cassetta vuota su cui erano state poggiate le loro armi: i cinturoni delle pistole, un mitra, un fucile, alcune granate, e i binocoli.
Hans diede le spalle alla finestra che si affacciava sulla strada e si voltò verso il compagno che, seduto sulla sua branda, stava ripulendo la canna della pistola alla luce tremolante di un abat-jour. Aveva un’espressione profondamente concentrata, come quando cercava a tutti i costi di trovare una soluzione a un problema all’apparenza insormontabile.
Anche se non le aveva mai espresse ad alta voce, le intenzioni di Friedrich erano fin troppo chiare: sarebbe stato perfino disposto a farsi ammazzare pur di riscattarsi. Così chiare che per un istante gli balenò l’immagine del giovane, colpito a morte da un proiettile, che gli si accasciava tra le braccia con la giubba intrisa di sangue. Sbarrò gli occhi e sbatté le palpebre, come per scacciare quella visione ferale.
Gli sovvenne la storia di Eurialo e Niso, che ricordava a memoria fin dai tempi del ginnasio: l’irruenza di Eurialo e la condiscendenza del più anziano avevano portato alla morte entrambi, e si chiese se non avesse sbagliato a concedere al capitano così tante libertà sul piano militare, pur conoscendo il suo carattere indomito e orgoglioso.
Ma ormai era inutile guardare indietro: ciò che era stato fatto non poteva essere più cambiato; la chiave per la soluzione del problema stava nelle loro mosse successive.
Poteva tenerlo lontano dalla mischia per evitare che compisse azioni avventate, ma prima o poi avrebbero dovuto unire i loro sforzi per risolvere una volta per tutte quella faccenda. Ci voleva una missione da affidargli – qualcosa che potesse portare a termine con successo, contribuendo alla vittoria finale. Come quella volta, con la bandiera…
Friedrich ripose la pistola, allungò le gambe e si passò una mano sul volto, stropicciandosi gli occhi. “Nulla di nuovo all’orizzonte?”
“Nulla di nuovo,” confermò il maggiore. “Dormi pure, Friedrich, se avvisto qualche movimento strano ti sveglio io.”
“E tu?”
Egli fece spallucce. “Sono abituato a fare le notti in bianco.”
“Anche io, lo sai.”
Hans andò a sedersi sulla brandina di fronte a lui. “Allora veglieremo insieme.”

Prima del sorgere dell’alba – un’alba grigia, resa ancora più cupa dai bagliori delle esplosioni – gli edifici vomitarono ondate di nemici. L’orchestra dei cannoni riprese a intonare la sua agghiacciante sinfonia.
La battaglia divampò all’istante, con maggiore violenza: i polacchi si erano riorganizzati e avevano contrattaccato in forze; gli scontri dilaniavano la piccola cittadina.
Dalla sua postazione difensiva, il capitano von Kleist udiva con chiarezza le raffiche furiose delle mitragliatrici, le grida e gli echi delle detonazioni. Mentre guardava fuori dalla finestra dell’angusto locale, la sua mano toccava con febbrile agitazione la fondina della pistola e segretamente sperava che il maggiore Bühler lo richiamasse a sé: quell’attesa angosciante lo logorava ogni secondo di più.
Dal comando di reggimento non arrivavano comunicazioni, la radio taceva. Solo l’ansia continuava a scuotergli le membra e accelerare i battiti del suo cuore, seccandogli la gola.
“Signor capitano, una comunicazione urgente dal colonnello Wolff!” gridò Lindemann all’improvviso.
Friedrich sobbalzò come se un fulmine si fosse abbattuto a pochi passi da lui. Il cuore prese a martellargli nel petto, quasi strozzandolo. Inspirò profondamente per calmarsi, poi infilò le cuffie e afferrò il microfono. “Capitano von Kleist a rapporto, signore.”
Wolff disse qualcosa di incomprensibile: la sua voce giungeva a scatti, disturbata da un ronzio continuo. “Von Kleist? Von Kleist, mi sente?”
“Signor colonnello?”
Dall’altra parte giunsero altre parole sconnesse, tra cui il capitano colse ‘compagnia’ e ‘fucilieri’.
“Signore, il segnale è disturbato!”
“Capitano…” Uno scatto, un ronzio indistinto. “…maggiore…” Altri fruscii si susseguirono, rumore bianco, poi la trasmissione si chiuse.
Friedrich lasciò ricadere il microfono con un’espressione costernata in viso, mentre il resto del messaggio gli appariva tutto d’un tratto chiaro.
Lindemann armeggiò ancora invano per ripristinare la comunicazione, ma la radio taceva ostinatamente.
“Un sabotaggio?” ipotizzò l’ufficiale.
“È probabile, signore.”

Un’esplosione spedì tutti quanti a terra; la strada tremò mentre alle sue vibrazioni si sovrapponevano grida in polacco; di nuovo, la via si riempì di soldati in verde oliva.
Hanke e Schreiber strisciarono in copertura, riarmarono la mitragliatrice e ripresero a sparare, sferzando le schiere nemiche che continuavano a sciamare intorno a loro.
Hans si scrollò la schiena e i pantaloni dai detriti che gli erano finiti addosso, poi fece scorrere lo sguardo da un capo all’altro della linea che aveva fatto allestire: i suoi uomini resistevano, anche se molti di loro avevano bende insanguinate strette intorno alle braccia o che spuntavano da sotto gli elmetti. Di riflesso, controllò la sua fasciatura e rilevò che era ancora al suo posto: non doveva mancare molto prima che il taglio si rimarginasse del tutto.
Con la coda dell’occhio vide il sottotenente Kühn che, MP38 imbracciato, esortava il suo plotone a gran voce e si lanciava all’assalto delle postazioni polacche: anche quel ragazzo gli aveva dato diversi pensieri nelle ultime due settimane. Gli si avvicinò a grandi falcate, facendosi strada tra i mucchi di macerie, poi si appiattì contro un muro. “Restate compatti!” ordinò, lo sguardo fisso nella sua direzione.
Contrariamente alle sue aspettative, il sottotenente recepì subito e, pur con le labbra arricciate dalla delusione, dispose i suoi uomini come da ordini. Bühler finì di trasmettere le sue disposizioni a due sottufficiali, poi si allontanò di nuovo.
“Signor maggiore.”
Quella voce, fin troppo familiare, e il suo tono grave e serio, lo fecero immobilizzare sul posto. Che cosa ci fa lui, qui?
Si voltò lentamente, irrigidendo i muscoli, quasi sperando in cuor suo di aver avuto un’allucinazione. E invece, Friedrich era lì, a pochi passi da lui: aveva il volto e l’uniforme sporchi di polvere, e sulla guancia pallida rosseggiava un graffio.
“Von Kleist.”
Negli occhi del giovane passò il consueto lampo d’orgoglio, ma l’espressione rimase seria: di nuovo l’immagine dell’eroe classico, che sfidava la sorte a testa alta. “A rapporto, signore.”
Gli uomini che erano con lui, poco più di una squadra, sostenevano due feriti e davano l’idea di essere appena tornati da uno scontro particolarmente cruento.
Hans comprese quello che era successo prima ancora che il capitano glielo spiegasse, quindi lo fermò con un cenno sbrigativo. “Ne parleremo dopo. Adesso venga con me.”

La mischia li travolse prima che raggiungessero le barricate: alcuni polacchi avevano rotto lo schieramento e si erano lanciati sui tedeschi con la furia cieca di chi sa di non avere più speranze di vittoria. Ovunque dilagavano feroci corpo a corpo, le sagome dei belligeranti si contorcevano avvolte dal fumo.
Con surreale calma, la schiena appoggiata al muro, il maggiore trasse dalla fondina la pistola d’ordinanza e tolse la sicura. “Coprimi le spalle”, ordinò. “Vado avanti io.”
Friedrich annuì e lo seguì senza bisogno di una parola, come un cavaliere col suo condottiero.
Strisciarono lungo il muro per un tratto, guardinghi, poi furono assaliti da una mezza dozzina di soldati polacchi che sbarrarono loro la strada.
Incalzati dai nemici, i due ufficiali scivolarono dentro un androne deserto, invaso da detriti e pezzi d’intonaco farinoso. Non c’erano porte sul retro; una scala sconnessa saliva verso uno squarcio di cielo grigiastro.
Di comune accordo, iniziarono a sparare nel momento esatto in cui il primo componente della squadra mise piede all’interno: Friedrich udiva le detonazioni secche della Luger di Hans, mentre lui li respingeva con la sua. Un paio di soldati sobbalzarono sotto l’impeto delle pallottole e ricaddero all’indietro senza un lamento, un terzo alzò le mani e si allontanò sorreggendo un compagno ferito. L’ultimo, un sergente – Friedrich lo riconobbe dalle mostrine – abbaiò un ordine e una smitragliata costrinse entrambi ad arretrare.
“Ci penso io,” disse Hans.
Approfittando del tafferuglio, il sottufficiale estrasse la pistola e fece per puntarla su von Kleist, ma il giovane fu più rapido ed egli ricadde esanime al suolo colpito in pieno petto. Nello stesso momento, udì alle proprie spalle un altro colpo, e anche il mitragliere smise di sparare.
“Non c’è più nessuno,” constatò, abbassando l’arma.
Hans non rispose; il silenzio si fece denso come nebbia. Friedrich si voltò allarmato: si aspettava di ritrovarlo dritto con la pistola in pugno, ma l’altro aveva il braccio armato che gli ricadeva lungo il fianco e teneva la mano aperta premuta contro il petto. Rivoli di sangue gli colavano tra le lunghe dita e gli infradiciavano la giubba grigioverde.
La consapevolezza, cruda e agghiacciante, diede forma concreta ai suoi timori. “Hans… cosa…”
Il volto dell’altro fu attraversato da un’espressione sofferente. Si morse il labbro inferiore, anch’esso sporco di sangue. “Devo andare… al posto di medicazione,” ansimò.
Von Kleist si affacciò all’esterno, alzò la voce. “Qualcuno chiami i portaferiti!” gridò, rivolto a una squadra che passava. “C’è un’emergenza! Il maggiore è ferito!”
“Agli ordini, signore!” rispose un graduato, mentre gli altri continuavano a correre qua e là in varie direzioni.
Friedrich tornò a dedicare le sue attenzioni al compagno: non emetteva un lamento, non chiedeva aiuto, ma le sue condizioni erano peggiori di quanto volesse dare a vedere. Anche se cercava di tenersi in piedi, dovette appoggiarsi a una colonna per non perdere il sostegno delle gambe.
Il capitano gli porse un braccio e lo aiutò a mettersi seduto, poi si chinò di fronte a lui. Quando fece per sbottonargli la giacca e la camicia per rivelare la ferita, Hans contrasse i muscoli in un istintivo moto di ritrosia, ma subito dopo si rilassò e lo lasciò fare. Sulla pelle pallida spiccava il foro di un proiettile e il sangue aveva ridotto la camicia a uno straccio bagnato.
Qualunque cosa Friedrich avesse potuto dire, gli morì in gola.
Una fretta febbrile s’impadronì di lui: doveva agire in fretta, doveva salvarlo. Strinse i denti cercando di tamponare l’emorragia, il cuore che gli martellava le tempie, mentre l’altro lo fissava con sguardo assente. Ogni tanto lo vedeva serrare le dita intorno alla stoffa o soffocare un lamento di dolore.
All’esterno, la battaglia continuava, incurante di loro.
Terminò di applicargli i bendaggi, gli riabbottonò la camicia e gli prese un braccio, passandoselo intorno alle spalle. “Vieni, andiamo, ti porto fuori,” lo sollecitò, senza preoccuparsi del peso che gli gravava addosso.
Hans scosse il capo, cercò di svincolarsi dalla sua presa, poi si riadagiò con la schiena contro la colonna. “Non c’è tempo, Friedrich.” Con un gesto impacciato, spinse la pistola verso di lui. “Vai fuori e raduna i soldati.”
“E tu?”
Le spalle del maggiore furono scosse da un tremito. “Aspetterò qui… i portaferiti arriveranno a momenti.”
“Io non ti lascio da solo!” ribatté d’impulso il capitano. Col tumulto che gli si agitava nel petto, il frastuono della battaglia, sempre più vicino, gli giungeva come attutito dallo scroscio di una pioggia impietosa, che faceva rumore ma non lavava via niente.
Hans esalò un profondo sospiro, che presto si trasformò in un rantolo di dolore. “È un ordine… del tuo superiore, capitano.”
Egli scrollò la testa con rabbia. Non posso, avrebbe voluto rispondere, ma si costrinse a tacere.
L’altro abbassò la voce: il suo tono già flebile era poco più di un sussurro. “Stavolta mi prometti che lo eseguirai senza discutere, Friedrich?”
Messo alle strette, il capitano sospirò. “Sì, Hans… signor maggiore.”
“Allora va’… non c’è tempo.”
Friedrich sentì che gli occhi gli si inumidivano; si sentiva come prigioniero di una realtà più alienante del peggiore tra gli incubi. Si fece scivolare la vecchia Luger in tasca e allungò una mano ad accarezzare i capelli color nocciola del compagno, sporchi di sangue e di sudore. Non riuscì a dirgli nient’altro: non ne ebbe la forza.
Si allontanò col volto rigato di lacrime e non fece nulla per nasconderle o asciugarle. Lasciò che sgorgassero, lavando via il sangue e la sporcizia dalle sue guance.

Esausto, Hans appoggiò la nuca alla colonna, la mano abbandonata in grembo, e chiuse gli occhi.
Come in un sogno, rivide le sue terre, le vigne e il castelli svevi, le dimore imperiali di Potsdam, il mare del Nord in tempesta, le Alpi innevate.
Vide la fattoria dei suoi nonni, le parate militari a Tubinga e la caserma di Heidelberg.
E poi di nuovo il campanile aguzzo del suo paese natio, il fiume d’argento che serpeggiava tra le case a graticcio, le colline irte di abeti che si estendevano a perdita d’occhio, le verdi foreste di guardia sul Reno.
Friedrich e il suo sguardo fiero, che gli andava incontro sventolando la bandiera della Divisione.
Ebbe l’impressione di galleggiare in un mare nero, come se il suo corpo avesse perso ogni consistenza, ma il dolore era qualcosa che lo teneva aggrappato alla coscienza.
Naufragò in quell’abisso col pensiero che il suo sangue non sarebbe stato versato invano.

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Capitolo 22
*** Capitolo XIX ~ Der gute Kamerad ***



XIX.
Der gute Kamerad

 

La sagoma nera della fabbrica si intravedeva al di là della recinzione, avvolta in una nebbiolina spettrale. Intorno al suo perimetro, i lampioni erano spenti: solo il medaglione della luna spandeva un tenue lume sul piazzale. Aveva da poco smesso di piovere e barbagli di luce fioca si riflettevano sul cemento bagnato; l’atmosfera era caliginosa, gravida di umidità.
Alla testa della squadra, il capitano Greifenberg fece cenno ai suoi uomini di fermarsi, sfruttando la copertura di un edificio. Le lancette fosforescenti dell’orologio indicavano che mancava ancora un’ora abbondante all’alba: quella missione sarebbe potuta durare una scarsa mezz’ora oppure diverse ore; tutto dipendeva da come avrebbero reagito gli uomini all’interno.
Con cautela, l’ufficiale si sporse ulteriormente per osservare meglio il cortile della fabbrica e il tratto di strada che li separava dal pesante cancello d’entrata. Non c’era nessuno in vista; su un lato della barricata si apriva uno squarcio talmente ampio da permettere il passaggio di un carro armato. Guardò ancora una volta l’orologio, poi si mise un MP38 ad armacollo, infilò un paio di bombe a mano nel tascapane e rimase in attesa.
Non dovette attendere molto prima di udire il segnale convenuto: il capitano Bentheim era appena tornato dal suo giro d’ispezione e gli stava venendo incontro. Alzò lo sguardo verso il cielo: il nero stava cedendo il passo a un blu profondo; le stelle sbiadite si nascondevano tra le nubi.
“Abbiamo eliminato le sentinelle prima che potessero dare l’allarme…” riferì l’altro, prendendolo in disparte. “Dietro ci sono due uscite di servizio, diversi camion parcheggiati e un cancello chiuso da un lucchetto. Potrebbe essere una trappola.”
Reinhardt annuì. “Lo è sicuramente. C’è troppo silenzio… le barbabietole sono asserragliate là dentro da ieri pomeriggio, con almeno venti ostaggi del plotone di Werner von Tannenberg.”
“È per questo che da ieri la nostra artiglieria evita di colpire questa fabbrica: prima dobbiamo liberare i prigionieri… e abbiamo una sola possibilità per farlo in fretta e senza sbavature.”
“Dobbiamo accerchiare la fabbrica e fare irruzione approfittando dell’effetto sorpresa.”
“Precisamente.” Konrad tirò fuori il taccuino dalla tasca e gli mostrò la pianta che aveva disegnato. “Manderò dei soldati a ogni uscita per tagliare eventuali ritirate, ma noi entreremo da un solo lato: questo.” Indicò l’entrata principale, poi il corrispondente sulla mappa e le unità che vi aveva schierato. “Se i polacchi dovessero provare a uscire dal retro, troveranno i miei uomini ad aspettarli.”
Reinhardt aguzzò la vista, osservando il piazzale deserto; in lontananza si iniziavano già a udire gli echi di scontri lontani. “Quelle macerie ammassate qua e là sono una buona copertura per i mitraglieri. Quanto a me, ho solo una squadra d’assalto…” Si voltò a guardare gli uomini che aveva portato con sé: i tre superstiti dell’equipaggio del Panzer e un’altra decina di fanti che, fermi e attenti, allineati contro il muro, attendevano un ordine che non tardò ad arrivare. L’ufficiale fece un passo verso di loro. “Come convenuto, avanzeremo con la massima cautela possibile e sfonderemo la porta, approfittando della concitazione per entrare. Tutto chiaro?”
“Sì, signor capitano.”
“Bene, mantenete la copertura e tenetevi pronti ad attaccare.” Mentre pronunciava quelle parole, trasse una granata dal tascapane e se la soppesò tra le mani, fissando l’entrata con piglio rapace, poi si avvicinò di nuovo al compagno e gli rivolse un eloquente sguardo d’intesa. “Ci pensi tu o ci penso io?”

Un boato assordante accompagnò l’esplosione, seguita dal rotolare cupo di mattoni e calcinacci. Lì dove c’era la porta, tra le falde di fumo, si aprì un grande squarcio che dava su un ambiente torrido e buio come una fucina. Dall’interno della fonderia provennero grida concitate e ordini perentori in polacco, poi qualche colpo di arma da fuoco.
Guidati dai due ufficiali, i soldati scivolarono all’interno e si dispersero in cerca di copertura, sparando sui difensori asserragliati dietro ripari di fortuna: sedie, tavoli rovesciati, macchinari e scale. Le poche torce che i polacchi avevano con sé furono gettate per terra per impugnare le armi. Dall’alto piovevano raffiche di mitragliatrice pesante, che falciarono un paio di tedeschi prima che riuscissero a raggiungere una postazione. Uno di essi rimase immobile lì dov’era caduto; l’altro si trascinò sui gomiti, lasciando dietro di sé una scia di sangue.
Reinhardt strisciò in copertura dietro alcuni blocchi di metallo impilati e da lì riprese a sparare sulle sagome scure e armate che vedeva brulicare nella penombra. Un sergente gli balzò addosso e lo spinse per terra trascinandolo in un corpo a corpo, un altro tentò di avvicinarsi ma fu abbattuto da una raffica.
Liberatosi dalla sua presa, il giovane deviò un colpo di pistola che andò a rimbalzare contro il ferro, estrasse la baionetta e la affondò alla cieca nella gola del suo aggressore. Il corpo sopra di lui si dimenò un paio di volte, sussultò emettendo versi inarticolati, poi rimase immobile con gli occhi sbarrati.
Il giovane lo spinse da parte e, con le mani ancora sporche, ricaricò il mitra.
L’aria all’interno era irrespirabile, gravata dall’odore del sangue e della polvere da sparo, resa ancora più rovente dalla vicinanza delle siviere colme di acciaio fuso a millecinquecento gradi. Ovunque, amplificati dall’alto soffitto, si udivano fischi e tintinnii di proiettili, grida e lamenti.
Gocce di sudore gli scendevano sulla fronte e sui palmi e gli incollavano l’uniforme al corpo.
“In alto! Neutralizzare il nido di mitragliatrici!” udì gridare la voce di Konrad. Qualche istante dopo Reinhardt lo vide avvicinarsi, quasi appiattito al suolo per evitare i proiettili dei mitraglieri appostati sui corridoi sospesi. Con un gesto fulmineo lo afferrò per un braccio e lo tirò verso di sé, mentre passi rapidi riecheggiavano sulle scale di ferro e una delle raffiche s’interrompeva di colpo.
Entrambi ansanti, si abbassarono di nuovo dietro la barriera, le armi strette contro il petto.
“Hai per caso visto i prigionieri?” chiese Reinhardt.
“No, però qualcuno ha messo in moto i macchinari.” Konrad indicò in alto con la canna della pistola: una delle siviere colme di materiale incandescente si muoveva sferragliando lungo le rotaie poste sul soffitto, diretta verso lo stampo per la colata. Dal retro della fabbrica, una voce isolata implorò aiuto in tedesco. Le sparatorie continuavano da entrambe le parti, ma il loro crepitio andava via via diminuendo d’intensità. Gli ingranaggi mal oliati emettevano cigolii sinistri. “Tra i tuoi effettivi c’è qualcuno che abbia lavorato in fonderia?”
Reinhard balzò in piedi. “Sì, andiamo.”

Quando li vide arrivare, il soldato che armeggiava con le leve alzò le mani e si arrese prima che un qualsiasi colpo potesse partire dalle loro pistole. Si lasciò scortare dai due ufficiali, la pistola di Reinhardt contro la schiena, mentre un robusto Sturmmann interveniva per spegnere il meccanismo.
Ormai, all’interno della fabbrica si udivano soltanto spari isolati e lamenti di feriti.
Richiamati dal capitano Bentheim, gli uomini della fanteria entrarono nella fabbrica dalle uscite secondarie, e i polacchi superstiti, trovandosi accerchiati, gettarono le armi per terra e si arresero senza opporre resistenza.
Il pavimento, scivoloso di sangue, era disseminato di bossoli di proiettili di diversi calibri, schegge di vetro e frammenti di legno. Un tedesco morto giaceva sul cadavere di un polacco, nella stessa posizione in cui dovevano essersi uccisi a vicenda. Altri corpi si muovevano ancora e furono radunati in un angolo, indipendentemente dallo schieramento di appartenenza, in attesa di adeguate cure.
Legati e imbavagliati, gli ostaggi delle Waffen-SS erano ammassati a ridosso di uno degli stampi per la colata: molti di loro erano feriti e presentavano delle bende insanguinate bene in vista. Tra essi, i due ufficiali riconobbero subito il tenente von Tannenberg: un ciuffo scomposto di capelli scuri gli ricadeva sulla fronte e il labbro inferiore era sporco di sangue, che dal naso gli colava sul mento. Appeso al collo aveva un braccio fasciato.
Greifenberg si chinò di fronte a lui, inumidì un fazzoletto con la borraccia dell’acqua e glielo passò sul viso. “Werner?”
Il tenente sbatté le palpebre e fissò gli occhi celesti su di lui. “Reinhardt… Konrad?”
“Sì, siamo noi.”
“Sete…”
Reinhardt si limitò a porgere il recipiente al suo amico e subalterno, lasciando che si dissetasse, poi si alzò di nuovo in piedi. “Tenente, sono stati i polacchi a medicarle il braccio?”
Egli annuì. Cercò di forzare un sorriso sarcastico, ma gli uscì una smorfia distorta. “Sì… del resto, sono stati loro a ferirmi, signor capitano.”
“Avete combattuto per molto tempo?”
“Sì, dalle dieci di mattina fino alle due del pomeriggio.”
Il capitano calcolò che quello era più o meno l’orario in cui il vecchio Barbarossa era esploso, mentre i Panzer del maggiore si trovavano nel centro storico. “Quanti eravate?”
“Trentuno, signore. Di quelli che non sono presenti qui, un paio sono rimasti uccisi, mentre gli altri sono riusciti a fuggire e dare l’allarme.”
“Adesso vi tiriamo fuori di qui e mandiamo a chiamare i barellieri.” L’orologio gli indicò che mancava poco alle sette del mattino, e già dalle alte vetrate iniziava a intravedersi il chiarore del mattino. Greifenberg voltò verso il suo parigrado. “Per quanto riguarda questa vecchia fabbrica… noi dobbiamo continuare l’avanzata, ma sarebbe un vero peccato lasciare alle barbabietole la possibilità di occuparla di nuovo…”
“Posso lasciare una trentina di uomini qui: è un’ottima postazione strategica e un rifugio sicuro, in caso ne avessimo bisogno. Gli altri proseguiranno insieme a noi.”
Finirono di predisporre le ultime cose, poi uscirono nel piazzale deserto. L’aria era fresca e rorida, e il sole nascente spandeva sull’orizzonte una colata d’oro liquido.
Approfittando di quel breve momento di solitudine, Reinhardt poggiò una mano sulla spalla del compagno e la strinse leggermente. “Tutto bene, Konrad?”
Si fissarono per qualche istante in silenzio, poi l’altro annuì. “Sì, tu?”
“Tutto bene.”

L’androne del piano terra conservava le tracce di una violenta sparatoria: i corpi scomposti di tre soldati polacchi erano riversi per terra nel sangue e sul pavimento erano sparsi proiettili di pistola e mitragliatrice. Il caporale della sanità tastò il polso di ciascuno per accertarne il decesso e i suoi assistenti li allinearono lungo la parete coprendoli con dei teli. “Anche oggi, i vermi troveranno parecchie carni su cui banchettare,” borbottò il maresciallo Braun, frugando nella sua tasca alla ricerca della pipa.
Il graduato ignorò il sarcasmo e proseguì la sua ispezione. “Signor maresciallo! Venga a vedere!”
Nessuno degli altri soldati lì presenti osò fiatare: adagiata contro una colonna c’era la figura curva di un uomo in uniforme dello Heer. Sulle spalle aveva una giacca con le mostrine lucide, sporca e bucherellata, e il nastrino della croce di ferro di seconda classe appuntato all’occhiello. Giaceva immobile, con un’ampia rosa di sangue sulla camicia bianca e una mano abbandonata in grembo.
“È un ufficiale. Un ufficiale superiore,” disse il caporale, chinandosi di fronte a lui. Nonostante i gradi che portava sembrava non arrivare a trent’anni; i lineamenti e il pallore del viso accentuavano quell’impressione. “Si direbbe un maggiore alla prima nomina.”
“Povero ragazzo,” commentò un soldato, avendo cura di non farsi sentire dal maresciallo.
Qualcuno gli aveva già applicato i bendaggi, ancora sporchi di liquido viscoso. “Non è qui da molto, ma ha già perso parecchio sangue.” La sua mano era gelida, ma il corpo era scosso da tremiti impercettibili e il polso emanava una debole pulsazione. “È ancora vivo, ma se non ci sbrighiamo temo che lo sarà ancora per poco.”
Con delicatezza, il graduato gli scostò l’orlo della giubba per controllare meglio le fasciature, ma il giovane emise un grugnito di disappunto e i suoi lineamenti furono distorti da una smorfia.
“Signor maggiore?”
L’ufficiale spalancò gli occhi, rivolgendogli uno sguardo annebbiato, forse senza neanche rendersi conto di chi avesse di fronte, e si limitò a scuotere la testa in segno di diniego. “Lasciatemi…” Tentò invano di sottrarsi a quelle attenzioni, rannicchiandosi contro la parete, ma un movimento brusco lo fece sussultare per il dolore. Come d’istinto, si portò di nuovo la mano al costato, senza osare proferire un lamento.
“Signor maggiore, siamo della sanità. È tutto a posto,” lo blandì il maresciallo. “Adesso la portiamo via da qui.”
Mentre il ferito veniva sollevato per caricarlo su una barella, il caporale si accostò al maresciallo e lo indicò con un cenno del capo. “Dice che ce la farà, signore?”
“Non si sa.” Braun si infilò la pipa tra le labbra e l’accese, poi si strinse nelle spalle ossute. “Avrà già perso più di un litro di sangue, guarda quanto è pallido. Uno di costituzione più debole sarebbe già finito all’altro mondo. Possiamo soltanto provare a fare il possibile, e soprattutto farlo in fretta.”

Solo verso mezzogiorno la furia dei polacchi iniziò a diminuire: accerchiati e in minoranza numerica, come animali minacciati dal fuoco avevano raccolto le loro armi e avevano ripiegato verso Varsavia, dove l’ultima strenua difesa attendeva le truppe della Wehrmacht.
Il sottotenente Kühn alzò lo sguardo verso il cielo: il sole, pur alto, era velato da nuvole diafane che abbagliavano gli occhi. Un vento umido disperdeva il fumo che si levava dai focolai d’incendio sparsi per il villaggio, le strade erano ancora invase dai calcinacci.
Si accertò che i feriti e i prigionieri venissero smistati, poi andò a sedersi sugli scalini all’ombra di un vecchio edificio e tirò fuori la gavetta del rancio. I soldati fumavano e chiacchieravano; altri, seduti per terra come lui, approfittavano della pausa per mangiare.
Il suo stomaco brontolò con prepotenza e il giovane si avventò sul cibo come se fosse rimasto a digiuno per giorni. Poco dopo, con la lingua penzoloni, lo raggiunse anche il cane, che si sedette sulle zampe posteriori in attesa che lui gli elargisse una scatoletta di carne.
Mentre mangiavano, Erich ripercorse gli avvenimenti di quella mattina: era rimasto tutto il tempo in prima linea a guidare l’assalto aspettando che il maggiore e il capitano von Kleist tornassero per dare l’ordine di avanzare, ma da ore erano assenti, e a un certo punto si era diffusa la voce che fossero stati trattenuti altrove da uno scontro a fuoco. Alla fine, cogliendo l’occasione favorevole, era stato proprio lui a prendere l’iniziativa per rompere lo schieramento nemico, e si sentiva orgoglioso di quel piccolo successo.
Tuttavia, gli parve fin troppo strano che Bühler non gli avesse fatto pervenire indicazioni di nessun genere: l’ultima – e unica – volta che si era verificata una tale circostanza, si era poi scoperto che l’uomo era finito nelle mani dei nemici.
Era così immerso in quei pensieri quando vide arrivare il sergente Böhmer insieme a due soldati con una MG 34 e i volti sporchi di fuliggine. Erich si alzò andandogli incontro e gli ordinò il riposo prima ancora che il sottufficiale si presentasse a rapporto. “Che sta succedendo?” indagò.
“Herr Leutnant.” Böhmer gli restituì uno sguardo stralunato, poi lo spostò sui soldati con aria contrita. “L’avete saputo?”
“Cosa?”
Con un sospiro, il sergente si tolse il berretto e chinò il capo. “Il maggiore.”
Il giovane sobbalzò come se una granata fosse caduta a pochi passi da lui. “Cos’è successo?”
Böhmer sospirò di nuovo. “Gli hanno sparato, signore. Il capitano von Kleist ha chiamato i portaferiti che respirava ancora, ma quando loro sono arrivati sul posto non l’hanno più trovato. C’era solo un lago di sangue… sangue ovunque, tutto suo. Era ancora fresco.”
“Che l’avesse già portato via qualcun altro?” ipotizzò l’ufficiale.
“Chi lo sa, signore, con tutto quel casino. Dicono che è morto.” Fece una pausa significativa e si portò una mano al petto. “Una pallottola qui, vicino al cuore.”
A quella luttuosa rivelazione, i soldati, che si erano assiepati intorno a loro, tacquero e si scambiarono occhiate sconcertate. Erich si morse l’interno della guancia, sinceramente colpito da quelle parole: il Vecchio era in realtà così giovane che gli veniva da considerarlo più simile a un fratello maggiore che a un padre. Ripensando ai suoi ammonimenti di quella mattina, fece quasi fatica a credere che fosse morto così all’improvviso.
“Abbiamo perso due comandanti di battaglione in nemmeno due mesi,” commentò l’uccello del malaugurio con la sua voce stridula. “Prima von Eltz, con quell’orrendo incidente, poi Bühler…”
“Nulla da dire,” disse un veterano, accendendosi una sigaretta, “di strada ne aveva da fare ancora parecchia, ma sapeva il fatto suo.”
Hanke, cercando di risollevare l’atmosfera, tirò fuori una fiaschetta. “La saggezza viene con l’esperienza, caro Neumann. Dobbiamo berci un goccio di Schnaps alla sua salute.”
“Ma…” balbettò il sottotenente. “È una notizia ufficiale?”
Eichmann lo guardò con l’aria di uno che voglia mostrare di saperla lunga. “Con tutto il rispetto, signor sottotenente, io ho visto il sangue per terra: perfino un cavallo rimarrebbe stecchito a perderne così tanto.”
Erich aggrottò appena le sopracciglia, poi chiese: “E il capitano dov’è?”
“Era con lui, poi non l’hanno più visto,” rispose Böhmer.
Krause scosse la testa, gli occhi abbassati e fissi su un punto oltre i propri stivali. “Il Vecchio si consultava sempre con lui… si fidava di lui.”
“E il capitano ha fatto di tutto per salvarlo,” aggiunse Hanke. “Ci teneva a lui.”
“Ma poi è morto comunque…”
Erich immaginò che, se davvero von Kleist e il maggiore erano così tanto amici – e, a testimonianza di quel rapporto, li aveva visti spesso condividere il rancio e parlare tra loro – vederselo morire davanti agli occhi doveva essere stato davvero terribile per lui.
“Forse era già arrivata la sua ora,” intervenne Eichmann dopo un po’. “Mai contraddire la morte: si prenderà sempre quello che le spetta, in un modo o nell’altro.”
In quel momento, il soldato Schreiber si fermò davanti a Erich e scattò sull’attenti. “Signore, sta arrivando il capitano.”
Rapido, il giovane ufficiale fece schierare il plotone sull’attenti e si preparò a riceverlo.
Von Kleist arrivò a passo di marcia, con un MP38 ad armacollo, in testa a un gruppo di circa quindici soldati. Due di loro ne stavano sostenendo un terzo che zoppicava a fatica, sanguinando copiosamente da una gamba. Anche i vestiti del capitano erano sporchi di sangue, e la visiera del berretto gettava un’ombra cupa sulla sua espressione.
Quando si avvicinò a lui, i suoi occhi si fecero taglienti come due lame di ghiaccio: doveva aver intuito subito quello che era successo. “Perché non siete rimasti ai posti assegnati?”
“Signor capitano, io…”
“Non adesso, sottotenente.” Con un gesto imperioso, von Kleist lo indusse a tacere. “Ne riparleremo stasera. Adesso dobbiamo rimetterci in marcia, senza perdere altro tempo.”
Gli volse le spalle e, con passo marziale, si diresse verso il telefono da campo: non sembrava aver conservato alcuna traccia della gentilezza che di solito riservava ai subalterni.
“Stessi metodi dell’uomo di ferro,” sussurrò Krause all’orecchio di Hanke, cercando al contempo di mostrarsi impassibile per non attirare l’attenzione.”Suo degno erede: cuore d’acciaio.”
Erich non disse nulla; tuttavia, quelle parole gli provocarono un sottile brivido lungo la spina dorsale.

Schmidt guidava con una ruga verticale sulla fronte, il piede schiacciato sull’acceleratore ed entrambe le mani piantate sul volante della macchina. Curvò per imboccare una strada secondaria, circondata su due lati da campi dilaniati dalle bombe, e von Kleist dovette tenersi il berretto con una mano per evitare che gli scivolasse via. Le ruote posteriori rasparono per terra sollevando una fontana di sassolini, si disincagliarono dalla buca e ripresero a percorrere la strada sobbalzando.
“Da qui in poi proceda con attenzione, caporale.”
L’autiere annuì e il capitano sprofondò di nuovo nel sedile del passeggero, senza tuttavia perdere di vista la strada: il paesaggio era desolato, spettrale, come una vasta distesa grigiastra di arbusti bruciati e terra smossa; forse, tra le zolle di terra, c’era ancora qualche mina inesplosa.
Rifletté sull’iniziativa personale del sottotenente Kühn, sulla sua, e su quanto in fretta fossero precipitate le cose. Fino a venti giorni prima, nessuno di loro aveva mai provato sulla propria pelle quanto potesse essere dura la guerra vera. Nessuno di loro aveva mai provato il dolore di perdere un camerata, un amico, un commilitone… qualcuno che andava al di là di ogni definizione convenzionale, di ogni rapporto comunemente accettato.
Si guardò l’uniforme, ancora sporca di sangue – il suo sangue. Non aveva più ricevuto notizie di Hans, ma il timore di quello che poteva essere successo in quell’androne dopo che se n’era andato bruciava come un marchio a fuoco. E se i portaferiti non fossero arrivati in tempo per trarlo in salvo? Se l’emorragia lo avesse ucciso prima che qualcuno potesse occuparsi di lui?
Dovette mordersi il labbro inferiore e costringersi a non pensarci, a non rievocare quelle immagini, almeno fino alla fine dell’offensiva di quel giorno, ma il rumore di quell’ultimo sparo continuava a riecheggiargli nella testa come una sentenza di morte.
Anche se per lui – per loro – il tempo sembrava essersi cristallizzato in quel terribile attimo, la guerra non si sarebbe fermata per così poco. Hans aveva dato il suo sangue per la riuscita di quella missione, ma non avrebbe mai visto Varsavia; tuttavia – e quel pensiero, che si era insinuato furtivo, gli s’impresse come un marchio d’infamia – si era risparmiato anche la vergogna di vederlo precipitare inesorabilmente verso la rovina.
Irrigidì la postura, imponendosi ancora una volta di concentrarsi solo sulla battaglia, e le mani torturarono il berretto come se volessero accartocciarlo.
Giunti in vista del villaggio, ordinò a Schmidt di fermarsi e, mentre i soldati approntavano lo schieramento, convocò il sottotenente Kühn a rapporto.

Friedrich von Kleist si avvicinò alle barricate con passo marziale, le mani allacciate dietro la schiena mentre osservava a uno a uno gli uomini della sua compagnia. La foga iniziale, per il momento, si era placata, ma i soldati chini sui mirini dei fucili non osavano muoversi dalle loro postazioni: era questione di pochi minuti prima che lo scontro divampasse ancora una volta, con maggiore ferocia.
Dovevano essere passate ore da quando erano arrivati in quel villaggio, ad avanzare tra le tempeste di pallottole mentre il nemico si nascondeva nelle case e cercava disperatamente di ricacciarli indietro con tutti i mezzi che aveva a disposizione.
Vide il sottotenente Kühn col suo MP38 e l’elmetto lucido, gli rivolse uno sguardo penetrante e passò oltre. Quel ragazzo – pensò – aveva avuto fortuna se la sua iniziativa personale si era conclusa un esito positivo, che gli avrebbe procurato una nota di merito per l’audacia dimostrata. Lui, invece, sarebbe stato processato, rischiando di perdere i gradi e l’onore; forse l’avrebbero spedito in un battaglione di disciplina a dissotterrare mine nel punto più orrendo del fronte.
Era bastato così poco perché l’ago della bilancia si spostasse dal lato sbagliato…
Di riflesso, le sue dita andarono a sfiorare la fondina della pistola, e un brivido impercettibile gli scosse le membra. Affrettò il passo, quasi pestando gli stivali per terra.
Al suo passaggio, gli uomini tacevano e si ricomponevano, qualunque cosa stessero facendo.
Hanke e Schreiber, come ormai era diventata loro abitudine, erano appostati dietro la mitragliatrice che avevano scherzosamente ribattezzato Erika come la ragazza della canzone di Herms Niel. Era capitato anche a von Kleist di maneggiare quell’arma per così tante ore, e immaginò che la canna dovesse essere rovente. Approfittando della breve pausa, Schreiber la rimosse e la sostituì con una nuova.
“Peter…” Friedrich gli aveva appena voltato le spalle quando sentì la voce di Hanke bisbigliare: “Io… devo avere le traveggole.”
“Perché?” Il tono di Schreiber era sbalordito.
“Forse quel bicchiere di Schnaps mi ha dato alla testa, ma… per un attimo mi è sembrato di vedere il Vecchio. Qui, di fronte a me, in carne e ossa.”
Il soldatino non rispose, e Hanke abbassò la voce. “Sì, Peter, mi è parso di vedere il maggiore. E guardalo… von Kleist non te lo ricorda?”
“Non ho mai visto due persone così diverse, signore,” rispose Schreiber, la voce appena udibile. “Il capitano è basso e biondo, il maggiore era alto e aveva i capelli castani.”
Friedrich tese l’orecchio e finse di continuare il suo giro d’ispezione, sforzandosi di far finta di nulla; non intervenne neanche per intimare di nuovo il silenzio. Ne aveva sentite dire tante dai soldati, col tempo aveva anche imparato a ignorare il loro cicaleccio, ma quel paragone gli giunse del tutto inaspettato.
“Certo che sono diversi, Peter, ma guarda: von Kleist si comporta esattamente come lui.” Hanke sospirò con aria rassegnata, poi scosse la testa come a voler dichiarare concluso il discorso. “Che ti devo dire, ragazzo mio… non riesco ancora a credere che sia morto.”
Friedrich si era fermato alle spalle di due fucilieri, senza neanche prestare attenzione a quello che stavano facendo – e i due, nel frattempo, si erano sbrigati a far sparire le sigarette sotto le suole degli stivali – e quelle parole lo lasciarono pietrificato, riecheggiando amplificate nella sua testa come tra le ampie volte di una cattedrale.
Non riesco ancora a credere che sia morto…
Strinse i denti, affondando le unghie nei palmi delle mani: in realtà, non si stupì neanche di quella dichiarazione, ma sentirla pronunciare a voce faceva tutto un altro effetto; il battito del cuore riprese a opprimergli la gola come se una mano invisibile lo stesse stritolando.
“Tutti ai propri posti,” ordinò in tono glaciale, armandosi a sua volta. “Tenersi pronti per il prossimo assalto.”

Era già notte inoltrata, ma l’artiglieria in sottofondo ruggiva senza posa, illuminando di lampi il cielo scuro. Dal piano di sotto provenivano risate composte e il suono di un’armonica a bocca che intonava la melodia di In einem Polenstädtchen. Seduti al tavolino della loro sgangherata postazione di comando, Konrad von Bentheim e Reinhardt Greifenberg studiavano una mappa dei sobborghi di Varsavia.
“Al momento non abbiamo informazioni più precise…” disse il primo, tamburellando la penna sul piano del tavolo. “Ma ho buone ragioni per presupporre che ci sia un grosso contingente polacco nella zona di Grabnik.”
Lo Hauptsturmführer si alzò e andò ad affacciarsi alla finestra, sospirò e si passò una mano tra i capelli. Nonostante l’ora tarda, aveva ancora il cinturone della pistola stretto in vita. “Anche le barbabietole dormono sonni inquieti…”
Avrebbe continuato la frase, ma un portaordini bussò alla porta, si affacciò all’interno e annunciò: “Signori, è arrivato il capitano von Kleist.”
Pochi istanti dopo, Friedrich entrò salutando con un asciutto cenno del capo. Appoggiò le sue armi su una cassapanca e rimase fermo lì, nel riflesso delle fiamme. Neanche lui si tolse il cinturone, né l’elmetto d’acciaio che adombrava il suo volto sporco. “Scusate il ritardo,” disse semplicemente. “Ci siamo dovuti fare strada col fucile.”
Konrad annuì, notando nella scarsa luce che la sua uniforme grigioverde era strappata e sporca di sangue. “Hans non c’è?” gli chiese, cauto.
Friedrich esalò un profondo sospiro, poi levò su di lui un paio di occhi rossi e cerchiati dalla stanchezza. La voce gli uscì dalla bocca in una tonalità distorta, velata di retorica: “Ha reso il suo ultimo servigio alla Patria. Vediamo di non renderlo vano.”
Konrad e Reinhardt si scambiarono un’occhiata sgomenta, ma non dissero niente per non metterlo in imbarazzo. Sapevano entrambi quanto Friedrich tenesse al suo compagno; erano testimoni di come ne parlava, esaltandone le qualità umane e militari: erano gli unici al corrente di quel segreto condiviso da tutti e quattro, che li aveva resi amici prima che colleghi e collaboratori. E Konrad, che conosceva Friedrich da sempre, non l’aveva mai visto provare per qualcuno una stima che fosse anche solo minimamente paragonabile a quella che provava per Hans.
Fece un passo avanti e si limitò a poggiargli una mano sulla spalla, immaginando – dallo sguardo tagliente e dalle labbra contratte – il dolore che doveva provare in quel momento.

Friedrich si sedette al tavolo cercando di costringersi a non pensare a niente, anche se quel momento di tranquillità lasciava libero sfogo al dolore che lo dilaniava da dentro. Fu grato a Konrad e Reinhardt che, pur essendosene accorti e condividendo il suo dispiacere, evitavano di toccare l’argomento in sua presenza. Non voleva compassione o parole di conforto, nemmeno da parte dei suoi più cari amici.
Come attraverso il velo che lo separava dal mondo esterno, vide la figura di Reinhardt che si alzava e si girava verso il focolare per andare ad attizzare le fiamme, poi lo udì parlare, senza rivolgersi direttamente a lui: “Al primo turno di guardia ci pensiamo io e Konrad.”
“Sì, ce ne occupiamo noi,” disse l’altro. “La difesa per la notte l’abbiamo già predisposta, adesso andiamo di sotto a trasmettere gli ordini.”
Friedrich annuì e comprese, né cercò di opporsi a quella decisione: se dormire era un po’ come morire, sentiva il bisogno di quel dolce balsamo per non impazzire prima della battaglia finale.
“Chiamatemi se succede qualcosa,” disse, mentre i due si allontanavano.
Aspettò che richiudessero la porta, poi prese le sue cose e andò ad appartarsi in un angolo, dove allestì un giaciglio con un vecchio materasso e il bagaglio a fargli da cuscino. Senza neanche togliersi gli stivali, avvolse la Luger di Hans nella giacca logora e si rannicchiò col viso verso la parete, tirandosi la coperta fin sopra le orecchie. D’istinto strinse a sé l’involto come se fosse un commilitone caduto, e gli venne da ripensare all’ultima notte trascorsa in Germania, prima di partire per il fronte.

Le strade del centro storico di Potsdam erano ammantate di silenzio; dalle finestre socchiuse proveniva una leggera brezza e un fascio di luce lunare illuminava le due divise abbandonate sulla poltrona.
“E così, domani si parte,” sussurrò Hans.
Friedrich sorrise nella penombra. “E nei prossimi giorni combatteremo insieme.”
“Certo, e se per qualche motivo ci dovessimo separare, tieni sempre a mente le mie istruzioni.”
Von Kleist si sollevò su un gomito e si protese su di lui con un ghigno sarcastico. “In tal caso, signor maggiore, cercherò di non inciampare nel filo spinato.”
“Guarda che sto parlando sul serio, Preuße,” lo rimbeccò Hans con una risata, ribaltandolo senza preavviso.
Friedrich ridusse la voce a un sussurro: rispondergli con qualche ironica provocazione faceva parte del gioco tra loro. “Anch’io dicevo sul serio, Schwabe, che cosa credi?”
“È sempre bene mettere le cose in chiaro con te,” replicò il maggiore, beffardo.
“Ah, grazie per la fiducia!” Friedrich gli sferrò un pugno sulla spalla, che l’altro incassò senza battere ciglio. “E per quale motivo mi avresti nominato tuo aiutante di campo?”
“Per tenerti d’occhio, naturalmente: non sia mai che tu inciampi nel filo spinato…” Bühler assecondò il suo tono, ma subito dopo si fece di nuovo serio. “Scherzi a parte, Friedrich: sei tu quello che mi assiste sempre durante le manovre e la pianificazione delle strategie. Non avrei potuto scegliere nessun altro, se non te.”
Rimasero per qualche istante in silenzio: lo sguardo di Hans, fisso nel suo, comunicava molto di più di quanto avesse mai espresso a parole.
“Puoi contare su di me, Schwabe,” promise infine il tenente.

Non era riuscito a mantenere la parola data quella notte, lo aveva deluso anche quando credeva di fare la cosa giusta: avrebbe forse dovuto rassegnarsi all’eventualità di perderlo, in un modo o nell’altro? O forse avrebbe dovuto disobbedirgli una seconda volta per salvarlo, caricarselo di peso in spalla e portarlo al posto di medicazione?
Lui, coi suoi valori di onore e fedeltà incrollabile, aveva fallito su tutti i fronti, né poteva più emendarsi dalla sua mancanza. Disattendendo gli ordini per un giusto fine, si era ritrovato a fronteggiare la minaccia della corte marziale; eseguendoli – sempre in buona fede, per quanto la sua coscienza fosse contraria – si era reso indirettamente responsabile della morte del suo compagno e comandante.
Il fallimento non è contemplato… non doveva esserlo.
Strinse ancora più forte l’involto che racchiudeva la pistola, quasi come se fosse il corpo della persona amata, e le lacrime ripresero a scorrere, silenziose ma inarrestabili, venendo riassorbite dalla stoffa dell’uniforme.
A quel punto, dove si trovava il labile confine che separava ciò che era giusto da ciò che era sbagliato?
Non sapeva darsi una risposta, e quel turbine di domande generava un angosciante abisso di dubbi.
Stremato, chiuse gli occhi e lasciò che l’oblio del sonno soffocasse ogni pensiero.

Decine di candele ardevano nella penombra, illuminando i drappi sanguigni delle bandiere che pendevano dalle colonne marmoree. Rami fioriti e foglie di quercia adornavano le aquile dorate del Reich che vegliavano sui caduti.
Friedrich si avvicinò quasi di soppiatto, sperando di poter rivedere Hans un’ultima volta prima che deponessero il coperchio sulla sua bara: il giovane era in alta uniforme, con la sciabola cerimoniale tra le mani avvolte in guanti bianchi e la croce di cavaliere, ricevuta postuma, al collo. Le ferite che lo straziavano sembravano scomparse, i capelli non erano più sporchi di sangue; sembrava quasi addormentato. Anche nell’immobilità della morte, i suoi lineamenti conservavano un’espressione serena. Gli sfiorò con delicatezza la guancia, liscia e fredda come il marmo, poi un rumore di passi proveniente dal corridoio lo costrinse ad allontanarsi.

Le bare dei caduti erano allineate all’ombra di querce secolari, in un campo di smeraldo che ricordava i paesaggi della natia Germania. Quella di Hans, in qualità di ufficiale più alto in grado e comandante del battaglione, si trovava al centro, più rialzata delle altre; sopra di essa era stesa la bandiera di guerra del Reich.
Friedrich, l’elmetto lucido e la spada alla cintura, si sforzò di mantenere una facciata impassibile, di mostrarsi impeccabile nel suo ruolo di aiutante di campo e comandante della guardia d’onore: anche se il suo lutto era quello di un amante, agli occhi di quei soldati il caduto era solo un ufficiale, un giovane maggiore alla prima nomina che aveva fatto il suo dovere, esattamente come ci si aspettava da lui. A Hans sarebbe piaciuto essere ricordato così, senza compassione né piagnistei.
Eppure, non vi era un’ironia più crudele di quella: la morte dignitosa del suo compagno non faceva altro che acuire il peso del fallimento che gli sarebbe pesato in eterno sul capo.
Fu l’ultimo a fare l’orazione funebre, senza neanche rendersi conto delle parole che stava pronunciando, trattenendo a stento le emozioni contrastanti che si agitavano in lui come una tempesta; poi prese una coccarda di rami di quercia e la depose con un gesto solenne sulla bara del maggiore.
La fanfara attaccò a suonare, accompagnata dal ritmo marziale dei tamburi, e le voci dei soldati vibrarono all’unisono.

Ich hatt’ einen Kameraden
einen bessern findst du nit
Die Trommel schlug zum Streite
er ging an meiner Seite
in gleichem Schritt und Tritt
1

Eine Kugel kam geflogen
gilt es mir oder gilt sie dir?
Ihn hat sie weggerissen
er liegt vor meinen Füßen
als wär’s ein Stück von mir.
2

Tre salve di fucile riecheggiarono nell’aria, tributando ai caduti l’ultimo saluto.
A un cenno del capitano la musica cambiò, la fanfara divenne un’orchestra, e al ritmo sostenuto della marcia militare si sostituirono i toni epici, sempre più incalzanti, del Götterdämmerung di Wagner.
Friedrich ordinò che venisse allestita una pira funebre per i caduti, come ai tempi degli antichi Germani. Schierati in un solenne corteo, i soldati della guardia d’onore arrivarono recando con sé delle fiaccole che illuminavano i loro volti pallidi, distorcendo i loro lineamenti di ragazzi. Anche il capitano ne prese una, la accostò alla bara del suo compagno e lasciò che il fuoco attecchisse sul legno di quercia.
Le fiamme divamparono crepitando, intrecciandosi alle vibrazioni impetuose della musica, e Friedrich rimase a guardarle come ipnotizzato, con la torcia tra le mani, mentre i bagliori ignei si riflettevano guizzando sui suoi capelli biondi. La sua figura era una sagoma scura che si stagliava contro il fuoco, come quella di una sentinella che veglia.
Tutto il resto intorno a lui scomparve; rimasero solo le fiamme, più alte di lui, che ardevano senza bruciare.
Friedrich gettò la torcia nel rogo, che si gonfiò ruggendo mentre le note della marcia funebre s’innalzavano fino al parossismo. Sprezzante, si strappò la croce di ferro di seconda classe dal petto, scagliò anch’essa nel fuoco, poi estrasse dalla fondina la pistola affidatagli da Hans. Con un gesto solenne, risoluto, se la puntò alla tempia.
“Bleib’ du im ew’gen Leben, mein guter Kamerad.” 3
Premette il grilletto senza esitazione, facendo riecheggiare un unico sparo, e ricadde in avanti. Le fiamme lo avvolsero nel loro abbraccio rovente e lo inghiottirono con un ruggito.

Si risvegliò di soprassalto, boccheggiando, le guance ancora umide di lacrime. Memore di quegli ultimi istanti, il cuore gli martellava furioso contro le costole.
Annaspando tra i fumi del torpore, cercò di recuperare il contatto con la realtà: aveva ancora la vecchia Luger stretta al petto; dal piano di sotto provenivano voci e passi. Come stordito, si tirò a sedere, mise a fuoco la sagoma del tavolino che riaffiorava dal buio, colse il sibilo delle braci morenti che sfrigolavano nel camino.
Vi gettò un ciocco con noncuranza, poi indossò di nuovo la giubba, si armò e si precipitò al piano di sotto, interrompendo prima del tempo il turno di guardia di Reinhardt e Konrad.


  1. Avevo un camerata, / Non ne puoi trovare uno migliore. / I tamburi incitavano alla battaglia, / lui stava saldo al mio fianco / allo stesso passo di marcia.↩︎

  2. Giunse fischiando una pallottola, / è per me oppure per te? / L’ha strappato alla vita, / egli giace ai miei piedi / come se fosse parte di me.↩︎

  3. Riposa nella vita eterna, mio buon camerata.↩︎

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Capitolo 23
*** Capitolo XX ~ Offenbarung ***


Rompo il silenzio dopo mesi di stasi, riemergendo oggi - una data casuale, o forse no - dalle nebbie con un nuovo capitolo.
Per chi avrà ancora la pazienza di seguirmi, comunico che la stesura è ufficialmente terminata e che d'ora in poi riprenderò gli aggiornamenti con cadenza umana.
Grazie a chiunque avrà ancora voglia di leggere questa storia.


 

XX.
Offenbarung

 

Le fiamme…
Davanti agli occhi di Friedrich, quelle fiamme che avevano tormentato i suoi sogni continuavano a contorcersi e divampare, innalzandosi fino al cielo in una danza mortale. Neanche l’aria fresca che spirava fuori dalla finestra riuscì a procurargli il benché minimo conforto: aveva ancora gli occhi gonfi di sonno, e non era neanche sicuro che l’acqua gelida avesse del tutto cancellato ogni traccia delle sue lacrime, che sembravano avergli scavato dei solchi bollenti sul volto.
Morire, dormire, forse sognare…
Per quanto aveva dormito? Forse mezz’ora, anche se gli pareva un’eternità in cui aveva sognato ed era morto, per poi rinascere in una realtà immutata.
Non riusciva a togliersi dalla testa quelle fiamme, che ingannavano la sua vista confondendosi all’orizzonte coi bagliori delle bombe. Gli sembrava quasi di sentirne il calore, anche se ad alitargli in faccia era l’umidità della notte ed esse non erano che una proiezione della sua mente. Come nel Crepuscolo degli Dei, forse anch’esse si sarebbero spinte così in alto da consumare anche il Valhalla e le leggi che lo governavano, divorando l’universo, le gerarchie umane e divine e tutte le cose mortali. Fuoco distruttore e fuoco purificatore: entrambe le nature coesistevano in quell’elemento, né potevano essere separate. Come l’ordine scaturiva dal caos, la purificazione passava attraverso la distruzione. Rovesciare il vecchio ordine per crearne uno nuovo…
Si prese la testa tra le mani, con l’angoscia di un uomo solo in lotta contro l’ineluttabilità di un Fato avverso. Quanto valeva la vita di un ufficiale che non sapeva neanche fare il proprio dovere, nel grande disegno delle cose? Di sicuro non valeva la vita di Hans, né di tutti gli altri soldati che l’avevano persa in quella manovra. Non valeva tutto il sangue che era stato versato a causa sua, e che avrebbe potuto affogarlo trascinandolo via nella sua corrente impetuosa. Nessuna via d’uscita, nessuna redenzione.
Hans avrebbe detto che il Crepuscolo degli Dei simboleggiava il declino delle superstizioni che l’uomo aveva creato per dare un senso a fenomeni che la scienza e la ragione non riuscivano a spiegare, la rottura delle catene che si era imposto con l’istituzione delle religioni. L’inizio di una nuova era illuminata dalla ragione. Friedrich, invece, aveva sempre creduto in qualcosa – che fosse una causa o un ideale, o semplicemente la sua visione del mondo – ma ora che tutto era perduto, non c’era più niente che desse un senso alla sua vita, niente per cui valesse la pena di lottare.
Quel mondo – il suo mondo – si sarebbe dissolto tra le ceneri dell’incendio, e lui l’avrebbe accolto come una liberazione.
“Fritz.” La mano di Reinhardt si poggiò sulla sua spalla, facendolo quasi sobbalzare. Subito si vergognò per aver ceduto all’emotività in un momento in cui era richiesta la massima attenzione, e per un attimo temette che l’altro stesse per richiamarlo alle armi. Tuttavia, il capitano Greifenberg si limitò a squadrarlo con aria critica, non senza una certa premura. “Andiamo fuori,” lo esortò, spingendolo verso una portafinestra che si apriva su un terrazzino angusto.
Friedrich si lasciò trascinare docile, come un burattino privo di volontà propria, e solo l’alito umido della notte riuscì a fargli recuperare il contatto con la realtà.
“Bentornato tra noi,” lo canzonò bonariamente l’amico, che si era richiuso la porta alle spalle e la bloccava con la sua mole, le braccia incrociate sul petto.
Von Kleist si girò, appoggiando i gomiti alla balaustra arrugginita. “Va tutto bene,” mentì. “Sono solo stanco.”
“Com’è che dici tu? Certo, e io sono il Kaiser. E meno male che i tempi della monarchia sono finiti…” L’altro abbassò la voce. “Pensi che non me ne sia accorto?”
Friedrich esalò un sospiro e reclinò il capo, spostando lo sguardo sul lurido chiasso che si apriva sotto di loro, ma non rispose. Un gatto bianco e nero si guardò intorno furtivo, scavalcò il muretto e scomparve nell’oscurità.
“Non sono qui per farti la predica, tranquillo. Non sono un vecchio bacchettone.” Non vedeva Reinhardt in faccia, ma poteva immaginare che stesse sorridendo con indulgenza. “So che detesti sentirti dire certe cose, e io preferisco spronarti piuttosto che rimproverarti.”
“Spronarmi? A fare cosa?”
L’altro si premette con più forza contro la porta, come per impedire che qualcuno la aprisse a tradimento. “Non fare il finto tonto. Hai già capito dove voglio andare a parare.”
“Adesso ti stai comportando da bacchettone!” Suo malgrado, Friedrich si lasciò scappare una pallida risata, che però si affievolì come un’eco inghiottita da un pozzo. “Io… non lo so se ci credo ancora. Non so più in cosa credo, se credo ancora a qualcosa. È quello in cui credevo ad avermi portato a questo. Forse sarebbe meglio non credere in niente, smettere di cercare un senso per ciò che di natura è insensato.”
“Ed è qui che sbagli, Fritz,” obiettò l’Hauptsturmführer. “Ogni cosa ha il suo senso, anche la più insignificante. Anche se non riesci a darglielo, non vuol dire che non ce l’abbia. Non possiamo avere le risposte per tutto, ma possiamo cercare di trarre qualcosa di buono da ogni esperienza… anche la peggiore.”
“Non c’è una soluzione a questo.”
Lui non la pensava così.”
Friedrich levò lo sguardo verso il cielo velato: anche se avesse voluto cercare una risposta nelle costellazioni, le nuvole gli avrebbero impedito di vederle. Reinhardt non sapeva quello che si erano detti, quello che Hans gli aveva lasciato intuire. Forse sentiva già che quella pallottola l’avrebbe ucciso, e lo aveva rimandato al suo posto per evitare che si mettesse nei guai…
Prima ancora che potesse elaborare una risposta, l’altro gli si avvicinò e gli strinse amichevolmente la spalla. “Coraggio, Fritz, cosa penserebbe lui se ti vedesse così?”
Egli rimase immobile, né si voltò: forse senza neanche rendersene conto, il suo amico aveva toccato le corde giuste. Qualcosa nel profondo del suo animo si ribellò all’apatia, ma lui scelse ancora il silenzio.
“So che ci credi ancora,” proseguì Reinhardt, con l’aria di voler concludere il discorso. Cercava sempre di non sbilanciarsi troppo, per non metterlo in imbarazzo. “Se c’è una cosa che ho imparato quando ero allievo ufficiale, è che la fede autentica non ha bisogno di parole per essere dimostrata. È dentro di te che devi trovare la forza di rinnovare la lotta: quello che importa sono i fatti, le azioni; il resto è banale retorica.”
Con quelle parole si congedò, lasciandolo a riflettere da solo nella notte rischiarata dai lampi.

Quando il capitano Greifenberg rientrò, molti soldati si erano coricati con gli zaini dietro la testa, qualcuno russava, mentre il suono malinconico di un’armonica a bocca faceva da sottofondo a una vecchia canzone. Konrad non c’era; forse era tornato nella stanza che usavano come quartier generale per gli ufficiali.
Gebt den Glauben uns zurück, den ihr gestern uns geraubt, die letzte Kompanie marschiert… 1
Gettò un ultimo sguardo alla porta: Friedrich non accennava a rientrare, nonostante l’umidità che si appiccicava al corpo come una seconda pelle. Non lo aveva mai visto così apatico, così separato dal mondo, e gli veniva naturale preoccuparsi per lui. Reinhardt non poteva dire di aver mai avuto un rapporto confidenziale con Hans, ma ne aveva sempre apprezzato la schiettezza, la lealtà e la serietà. Era pur sempre un amico, un camerata: se la sua perdita era stata un duro colpo per tutti, per Friedrich doveva essere stata devastante, e una parte di lui temeva che combinasse qualche sciocchezza.
Die letzte Kompanie singt zum Marsch ein hartes Lied, darin Zorn und tiefe Wut purpurrot erglüht.
Eine letzte Trommel lockt vor dem ganzen Regiment, die letzte Kompanie marschiert. 2
Con la coda dell’occhio notò che a cantare quella canzone era un soldato della compagnia di Friedrich, come se volesse tradurre in musica lo stato d’animo dei commilitoni. Ovunque vedeva volti sporchi ed emaciati, membra stanche e ferite nascoste sotto le bende, nonostante fossero passate soltanto tre settimane dall’inizio della guerra.
Gli uomini delle Waffen-SS si mescolavano a loro, e alcuni alzarono la testa quando lo videro avvicinarsi. Keller e Lange stavano con la schiena appoggiata al muro, spalla contro spalla come due fratelli, e Richter fissava il soffitto.
Istintivamente, al capitano tornò in mente una frase che aveva udito tempo prima, durante una visita a Wewelsburg: Siate la gioventù del mondo che si alza verso il Solstizio.
“So cosa pensate, ragazzi, perché è lo stesso che penso anch’io,” li rassicurò, sedendosi per terra a gambe incrociate, vicino a loro. “Adesso, però, è il momento di trasformare questo pensiero in volontà, e la volontà in azione… e se doveste sentirvi perduti, ricordate che nessuno di voi è solo in questa battaglia.”
Infine sorrise, rasserenato nel vedere i volti dei suoi compagni che riacquisivano fiducia: credeva che un giorno i loro sforzi li avrebbero davvero ripagati, che l’intera Europa si sarebbe risvegliata con una nuova consapevolezza, unita contro due nemici che la minacciavano da oriente e da occidente. Nessuno aveva la presunzione di pensare che sarebbe stato semplice, ma la fiducia nel futuro era ciò che gli dava la forza di combattere.
Si trattenne per un po’ con loro, ad ascoltare i loro aneddoti e le loro facezie mentre facevano girare una bottiglia di Schnaps e, quando si rialzò, si accorse che Friedrich era in piedi davanti alla porta, immobile, e li stava fissando con gli occhi cerchiati da profonde occhiaie. Sembrava che fosse lì da tempo, in ascolto, ma distolse subito lo sguardo quando incontrò quello di Reinhardt.

Konrad ritornò dopo cinque minuti buoni. Reinhardt era ancora in mezzo ai suoi commilitoni ma, quando lo vide sulla soglia, si rialzò e gli andò incontro.
“Comunicazioni dal tenente colonnello von Rauheneck,” disse laconico, come per giustificarsi della lunga assenza. “Tutto tace, ma ci esortano alla prudenza.”
“Adesso si spiega tutto,” commentò l’Hauptsturmführer. Non aveva mai visto di persona quell’ufficiale, ma se n’era potuto fare un’idea dalle battute dei suoi amici.
Konrad roteò gli occhi. “E questo è solo il riassunto di dieci minuti di premesse e precisazioni. Mancavano solo le note a piè di pagina, ma quelle me le sono risparmiate perché il generale lo ha richiamato.”
Egli annuì con un mezzo sorriso, poi controllò l’orologio: “Quasi l’una. Mi sa che si prospetta una lunga notte…”
“Friedrich dov’è?” chiese l’altro, facendo vagare lo sguardo attraverso la stanza. Una ruga verticale si disegnò sulla sua fronte. “Non era insieme a te?”
“È ritornato di là. In verità, mi aspettavo che anche tu fossi lì…” Senza attendere risposta, Reinhardt lo condusse sul terrazzo e si fermò di nuovo con la schiena contro la porta, le braccia incrociate sul petto per proteggersi dal freddo. Con aria pensosa, scrutò il volto corrucciato del compagno. “Anche tu sei preoccupato per lui.”
“Non è in sé,” dichiarò Bentheim senza mezzi termini.
“Lo so bene. Ci ho parlato, poco fa… ma non sono sicuro che abbia recepito quello che avevo da dirgli.” L’Hauptsturmführer emise un sospiro: ora che si trovava Konrad davanti agli occhi, provava a mettersi nei panni dell’amico, e gli riusciva fin troppo facile immedesimarsi nel suo dolore. “Eppure, è proprio in questo momento che dovremmo rimanere più uniti. Anche a me fa uno strano effetto pensare che uno di noi se ne sia andato… così all’improvviso, poi.”
L’altro lo fissò da sotto le sopracciglia corrugate. “Non è neanche detto che sia morto, sai?”
Colto alla sprovvista, Greifenberg ebbe un sussulto. “Come no? E allora…”
“Non ne abbiamo avuto la conferma ufficiale, le fonti sono contraddittorie e poco affidabili e non c’è nessuna prova che le supporti.”
“Ne sei davvero sicuro, Konrad?”
“Ho ascoltato le testimonianze dei soldati, ci sono troppe incongruenze. Stiamo facendo tutto questo casino per qualcosa che in realtà si regge su fondamenta molto precarie. Certo, preferisco non dare per scontato niente, ma resto scettico.”
“Un testimone oculare lo abbiamo.” Reinhardt sollevò un sopracciglio. “Friedrich…”
“Friedrich credo che si sia fatto suggestionare troppo.” Konrad scosse la testa, volgendosi a guardare un punto indefinito nell’oscurità. “Forse neanche lui ne ha la certezza… ma queste continue chiacchiere lo hanno portato a pensare al peggio.”
Egli annuì; il ragionamento filava. “Se è così, dobbiamo dirglielo al più presto, perché ormai questa faccenda è diventata un chiodo fisso per lui. Non capisco cosa gli stia prendendo, né cosa abbia in mente, ma non prevedo niente di buono.”
L’altro, risoluto, gli fece cenno di spostarsi e si diresse verso la porta. “Provo a parlarci io.”

Seduto sul materasso che gli faceva da giaciglio, la schiena appoggiata contro il muro, Friedrich si abbracciò le ginocchia figgendo gli occhi nell’oscurità. L’alone fioco irradiato dal camino rievocava l’atmosfera del sogno, distante e fredda come la percepiva mentre s’imponeva di rimanere ancorato alla realtà.
Cercò di non lasciarsi risucchiare dalla solita spirale di pensieri ossessivi, di non ripetere all’infinito nella mente le motivazioni del suo fallimento. Chiuse gli occhi, come per mettere a tacere i demoni della sua coscienza, ma nel buio rivide le fiamme e sentì riecheggiare lo sparo – e a quel punto non seppe più dire se fosse l’ultimo colpo partito dalla pistola di Hans nell’androne, o quello che aveva sparato lui, ponendo fine alla sua vita nel sogno. Entrambi preludevano a un risveglio più amaro dei suoi stessi incubi.
Sobbalzò come una bestia braccata quando la porta cigolò, proiettando per terra una lama di luce attraversata da una lunga ombra. Sull’uscio comparve la sagoma del capitano Bentheim, che lo richiuse a chiave e premette l’interruttore.
Friedrich sbatté le palpebre, infastidito dalla lampada che sfarfallava, e si passò una mano sul viso.
“Fritz.” Konrad lo squadrò con aria severa, assottigliando gli occhi. “Che ci fai rintanato qui dentro al buio?”
L’unica risposta che ottenne fu uno sguardo vacuo, come se stesse cercando di vedere qualcosa al di là di lui. Con un sospiro, prese una bottiglia di Schnaps e due bicchierini, nei quali versò il liquore. “Forse ti aiuterà a schiarirti le idee,” gli suggerì offrendogliene uno, con un tono che suonava quasi come un ordine.
Von Kleist si limitò a scuotere la testa in segno di diniego, ma l’altro rimase fermo, il braccio teso verso di lui. Comprendendo che non aveva altra scelta, lo accettò con rassegnazione e per un po’ rimase a fissarne la superficie trasparente.
Bentheim prese una sedia e si sistemò di fronte a lui, a sorseggiare lentamente il liquore. Friedrich capì dal suo silenzio concentrato che stava per chiedergli qualcosa, tuttavia si portò il bicchiere alle labbra senza dire niente: il primo sorso gli bruciò la gola, il secondo lo trangugiò svuotandolo per intero. Con un gesto apatico, porse il bicchiere all’amico per farsene versare ancora. Konrad lo riempì di nuovo, poi richiuse la bottiglia e la mise da parte. Ancora una volta, Friedrich ingollò il suo Schnaps con due sorsi, che per un attimo parvero diradare la nebbia che gli opprimeva il cervello.
“Che cosa sta succedendo?” gli chiese infine l’altro.
Von Kleist strinse le labbra, fissando il fondo vuoto del bicchiere. “Ne abbiamo già parlato.”
Konrad appoggiò i gomiti alle ginocchia e si sporse verso di lui. “Non è tutta la storia,” obiettò, senza lasciarsi impressionare. “Cos’è successo stamattina?”
“Dopo essere rimasto ferito, Hans mi ha ordinato di andare a radunare la compagnia. Ci ho messo almeno due ore…” Deglutì, cercando di impedire alla sua voce di tremare, poi si alzò per versarsi un altro bicchiere sotto lo sguardo attento dell’amico. “Non so come sia morto, né quando. So solo che…” Finì di bere, accogliendo con sollievo la leggerezza che gli risaliva alla testa, quindi allungò di nuovo il braccio verso la bottiglia. Esitò per un istante prima di ritrarlo: doveva rimanere sobrio e tenere a bada le emozioni. “Ho fatto il mio dovere, stavolta, ma mi sento come se avessi trasgredito la più sacra delle leggi.”
“Hans non avrebbe accettato che la sua vita fosse anteposta alla riuscita della missione.”
Von Kleist scosse il capo. “Lo so, ma non cambia niente.”
“Ascolta, Friedrich. È giusto che tu ti assuma le tue responsabilità, ma le sorti di una battaglia sono imprevedibili, e non puoi certo prenderti la colpa per un contrattacco a sorpresa del nemico. Ti ricordi quello che ti dissi l’altra volta?”
“Quando?”
“Il tribunale vorrà ricostruire le dinamiche dell’accaduto prima di pronunciare la sentenza, no? Tu hai le prove, hai i testimoni a favore della tua versione. Adesso ti consiglio di concentrarti soltanto sulla campagna in corso.”
Friedrich vacillò a quelle parole: la sua parte razionale gli suggeriva di prestarvi ascolto, ma non era abbastanza forte da opporsi alla tempesta di emozioni che la insidiava.
“E poi,” proseguì Konrad, con la sua solita pacatezza, “non è detto che Hans sia morto. Non ne abbiamo la conferma.”
Con un gesto meccanico, von Kleist mise sul tavolo la Luger appartenuta al maggiore. “Mi ha affidato questa,” spiegò, con una vibrazione glaciale nella voce. “È sempre meglio evitare che le armi dei morti finiscano nelle mani sbagliate.”
“Oppure ti ha chiesto di andartene perché sapeva che i portaferiti sarebbero arrivati a breve,” replicò l’altro. “Conoscendolo, sarebbe da lui.”
Friedrich faticava a conciliare una tale premeditazione con la vista del volto pallido, gli occhi spenti e la mano tremante del compagno che gli porgeva la pistola, mentre la sua camicia bianca si macchiava di sangue. Non doveva finire nelle mani sbagliate… e non sapeva neanche lui se quel pensiero si riferisse ai polacchi o a se stesso.
Konrad si rialzò, ignaro delle sue riflessioni ma non del suo turbamento. Lo guardò per qualche istante con le sopracciglia corrugate, poi raccolse il berretto. “Non trarre conclusioni affrettate, Fritz,” lo ammonì, con un tono che lasciava trapelare la sua premura. “Per qualsiasi cosa, io e Reinhardt siamo di là.”
Quando se ne fu andato, Friedrich spense di nuovo la luce e si rannicchiò sul giaciglio con la Luger accanto a sé. Anche se i suoi migliori amici lo sostenevano, Konrad con la sua ragionevolezza e Reinhardt con la sua comprensione, lui si sentiva come una barchetta sballottata tra scogli aguzzi nella furia della tempesta.
Hans era morto – la mancanza di una conferma ufficiale non rendeva quella certezza meno valida – e neanche le prove più inconfutabili gli avrebbero risparmiato il disonore.
A tentoni raggiunse la bottiglia e sorbì il liquore direttamente dalla canna, sperando così di placare la sua tempesta interiore.

L’alba fu accolta dalle armi che ricominciarono a vomitare piombo, prima ancora che l’astro diurno comparisse dietro l’orizzonte. Le strade del paese erano attraversate da file ordinate di carri armati che al loro passaggio facevano tremare i vetri delle case; i soldati si riversarono fuori dagli edifici per affrontarsi corpo a corpo.
Il capitano Greifenberg riservò un’ultima occhiata nostalgica ai Panzer che scomparivano dietro l’angolo, poi si guardò intorno in cerca di Friedrich. Lo scorse in disparte, l’espressione torva che non tradiva alcuna emozione: quando era rientrato nella stanza degli ufficiali, aveva ritrovato la bottiglia dello Schnaps vuota e il capitano con gli occhi velati, fissi sugli ultimi residui del fuoco. Vedendolo arrivare si era ricomposto subito, e lui non gli aveva fatto domande, ma quei due elementi lasciavano pochi dubbi sulle condizioni in cui doveva aver passato la nottata.
Evidentemente non aveva creduto a ciò che gli aveva detto Konrad, che in quel momento stava passando accanto a un gruppetto di soldati radunati intorno a una mitragliatrice. “Non voglio più sentir menzionare quell’argomento fino a che non ne avremo la conferma ufficiale,” lo sentì dire, alzando la voce al di sopra del loro parlottare. “Adesso tornate ai vostri posti, che tra poco entriamo in azione.”
A quelle parole, con un coro scomposto di ‘sissignore’, il capannello si disperse.
Reinhardt si voltò di nuovo verso la finestra, guardando al di là dell’incrocio che portava verso la piazza del paese: certe voci, soprattutto se infondate, affossavano il morale delle truppe e lo facevano piombare nell’incertezza. Ma la cosa peggiore era quando a risentirne erano i loro comandanti: i reparti perdevano il loro senso di unità e gli uomini, trovandosi privi di un punto di riferimento, si perdevano d’animo, in un circolo vizioso senza fine. Friedrich era diventato l’ombra di sé e, per lui che lo conosceva così bene, addirittura da quando erano ragazzini, era impossibile non notare quel cambiamento. Come poteva, un ufficiale che faticava a badare a se stesso, riuscire a badare anche ai propri soldati?

Le colonne di fumo erano così alte da fondersi con le nuvole plumbee e gonfie di umidità che oscuravano il sole. Si contorcevano e si espandevano, in volute che obbedivano soltanto alla volontà cieca del vento. Cielo e terra erano un tutt’uno, collegati da un orizzonte rischiarato da fiamme che nemmeno la pioggia era riuscita a domare.
Si diceva che a Grabnik, tra la foresta e i sobborghi della capitale, fosse in corso una cruenta battaglia che andava avanti da giorni: tre divisioni di fanteria erano rimaste intrappolate in una sacca che aveva richiesto l’intervento di altrettante truppe terrestri e di due distaccamenti della ventiquattresima Divisione Panzer.
E lì, a pochi chilometri di distanza, i soldati affondati nel fango fino alle ginocchia facevano fuoco contro i nemici, separati soltanto da un’esile barriera di filo spinato. Più avanti, i carri armati ruggivano come belve nel pantano; una formazione di bombardieri pesanti oscurò il cielo. Le voci e i rumori giungevano ovattati all’orecchio di Friedrich, che partecipava alla battaglia come uno spettatore passivo, la mappa del fronte in una mano e la Luger carica nell’altra.
Sembrava che il mondo intero, e non solo quell’angolo di Polonia, fosse in guerra – e in parte era davvero così, pensò il capitano, perché presto tutto il mondo si sarebbe sollevato contro di loro.
Immaginò il planisfero come una scacchiera enorme, in cui lui non era che una pedina insignificante, l’ultimo tra i pedoni, che aveva finito per mettersi in scacco da solo.
Si era sempre premurato di pianificare in anticipo le proprie azioni, di calcolarne le possibili conseguenze, ma si era ritrovato totalmente spiazzato di fronte all’imprevedibilità del caso. Come aveva potuto essere così cieco?
Aveva sempre cercato di limitare le perdite, di dimostrare con gli atti quanto tenesse ai suoi uomini… ma tutto il peso dell’esistenza si era abbattuto su di lui, ed egli non poteva far altro che vedersi come un mostro. Un mostro con le mani sporche di sangue.
Da prima ancora di prendere coscienza del suo errore, si era sempre mostrato disposto a sacrificarsi per qualcosa che andava al di là del suo interesse personale.
Non gli importavano la gloria, la fama, un funerale solenne.
Avrebbe dato tutto se stesso per quella causa, ma il prezzo da pagare non doveva essere la vita del suo compagno, né la sua integrità: con amaro sarcasmo si chiese se Hans, coi suoi – seppur parziali – studi di legge, avesse tenuto conto del rischio che correva nell’offrirgli il suo sostegno. Forse no, o forse aveva già pianificato tutto.
Non faceva mai niente per caso, quell’uomo di legge mancato…
E invece, niente era andato secondo i piani; né i suoi, né quelli di Hans. Se gli stessi proiettili che avevano ucciso il suo compagno avessero colpito lui, avrebbe potuto riscattare i propri errori in qualche modo. Forse, anche le anime dei caduti avrebbero trovato la pace.
Cosa gli restava, adesso? Aveva un’arma che gli conferiva il potere di vita o di morte su se stesso, per evitare la condanna, ma non avrebbe cancellato la memoria dei suoi errori.
Una parte di lui desiderava soltanto dissolversi nel nulla; non vedeva alcun futuro per sé: come la più insignificante tra le pedine, come il fumo evanescente che s’innalzava dal fuoco ormai spento, uscire dai giochi senza lasciar traccia del suo passaggio.
Un boato improvviso lo ridestò da quei pensieri, risucchiando ogni suono intorno a lui. Sentì soltanto lo spostamento d’aria e il fango che gli schizzava addosso, mentre il suo corpo atterrava su una superficie molle. L’obice si disintegrò in una miriade di schegge, bruciando l’erba intorno al cratere e la mappa scivolata dalle sue mani.
“Signor capitano!”
Ancora intontito, a pancia in giù sul fondo della buca, Friedrich si risollevò sui gomiti.
Se la Terra fosse esplosa come quel proiettile, si sarebbe estinta in una scia di fuoco che preludeva all’inizio di un nuovo ciclo, in cui i frammenti di ciò che era distrutto avrebbero contribuito alla ricostruzione. La scacchiera sarebbe finita in frantumi, il bene e il male, così come il giusto e lo sbagliato, avrebbero cessato di esistere.
Oppure doveva essere lui quel proiettile, che si disintegrava solo dopo aver annientato il bersaglio, ovvero il marchio di vergogna che pesava sul suo capo. Castigo, redenzione e rinnovamento, in un cerchio che si chiudeva. E se le fiamme del sogno erano ciò che distruggeva per purificare, solo il suo sacrificio avrebbe riportato l’ordine. Come quell’inutile pedina sulla scacchiera, forse non avrebbe lasciato un impatto duraturo sul mondo, ma nel suo piccolo avrebbe contribuito alla vittoria. Non poteva abbandonarsi alla sorte prima di risolvere i conti che aveva lasciato in sospeso.


  1. “Ridateci indietro la fede che ci avete tolto ieri, l’ultima compagnia marcia…” È un verso tratto da una canzone del 1918.↩︎

  2. L’ultima compagnia marcia, cantando una canzone nella quale rabbia e dolore si accendono di porpora / Un ultimo tamburo scandisce il passo davanti all’intero reggimento, l’ultima compagnia marcia.↩︎

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Capitolo 24
*** Capitolo XXI ~ Das Opfer, das die Liebe bringt, es ist das teuerste von allen (prima parte) ***


Nuovo capitolo, nuovo salto nel passato.
Prima di proseguire coi patemi, si torna un attimo a tempi più tranquilli, dove la storia di Hans e Friedrich ebbe inizio (questa vicenda si ricollega direttamente alla fine del capitolo XIV). Perdonate il momento Werther (ma con meno dolori), se potete.



 

XXI.
Das Opfer, das die Liebe bringt, es is das teuerste von allen
(parte prima)

 
 

Potsdam, 1937.

Il sole invernale splendeva in un cielo privo di nuvole, spandendo i suoi tiepidi raggi sulla stradina pavimentata fuori dal poligono della caserma. Appena usciti dall’edificio, il tenente von Kleist e il capitano Bühler furono investiti da un’ondata d’aria fresca che li ritemprò.
“Stavolta mi ha dato del filo da torcere, tenente,” ammise Hans, in quel suo modo discreto che aveva di complimentarsi con qualcuno.
“È stata una bella sfida,” convenne Friedrich, per poi rinnovarla. “Mi concederà mai una rivincita, signore?”
“Certe cose vanno meritate.” Bühler lo precedette di qualche passo, con la solita andatura marziale e le spalle dritte, ma il sorriso non abbandonava le sue labbra. “Lei è perfettamente in grado di tenermi testa, ma ci vuole più precisione sulle lunghe distanze.”
Von Kleist sorrise beffardo. “Preferisco i bersagli mobili.”
Un giorno ti inviterò per una battuta di caccia alla mia tenuta, pensò, ma per qualche motivo si trattenne dal dirlo. Forse perché erano in caserma, e anche il minimo accenno di ambiguità avrebbe potuto mettere a repentaglio il loro scomodo segreto, o forse perché non osava immaginare come avrebbe reagito l’altro. Tuttavia, non poté impedire alla sua immaginazione di correre, e quella del capitano doveva aver fatto lo stesso, perché qualche istante dopo gli propose: “Potremmo andare a caccia insieme, un giorno.”
“È un’ottima idea, capitano.”
Nessuno dei due proseguì il discorso, che suonava a tutti gli effetti come una decisione già presa all’unanimità e che Friedrich nella sua mente continuava a rifinire. Salutarono di sfuggita i loro camerati riuniti davanti al circolo ufficiali e poi passarono oltre; entrambi erano conosciuti nel reggimento come persone riservate, che si circondavano di poche amicizie selezionate, e gli altri non si stupivano di vederli trascorrere il tempo libero insieme.
Hans camminò fino alla solita panchina all’ombra della quercia: l’imponente albero era vestito di brina, e il suo tronco nodoso, testimone di molte epoche, li osservava impassibile e complice al tempo stesso. Mentre si sedeva, Friedrich non poté fare a meno di chiedersi se nelle passate generazioni ci fossero stati altri soldati come loro a rendere l’albero custode dei propri segreti, o se fossero proprio loro due i primi.
In piedi di fronte a lui, il capitano manteneva il solito apparente distacco, ma la postura era rilassata e i suoi occhi seguivano il volo di un gruppetto d’uccelli che si posavano sui rami: i pochi che non avevano preso la via del meridione. “Tra qualche settimana saranno tre anni che mi trovo qui a Potsdam.”
Von Kleist si stupì di quell’inaspettata confidenza: Hans non parlava quasi mai del suo passato, e quella reticenza gli suggeriva che ci fosse qualcosa che lo turbava. Eppure, forse senza volerlo, l’altro gli aveva lasciato capire molte più cose di quanto fosse disposto ad ammettere. Esitò per qualche istante, poi chiese: “E quali furono le tue prime impressioni?”
Bühler aggrottò impercettibilmente le sopracciglia, senza smettere di guardare il cielo. “Non è stato semplice all’inizio, non avevo mai lasciato la mia regione prima di allora,” ammise con voce incolore, allacciando le braccia dietro la schiena. “Ma col senno di poi, direi che è stata la cosa migliore. Mi trovo bene qui, non tornerei indietro nel tempo.”
Friedrich annuì, e il capitano si sedette accanto a lui, accendendosi una sigaretta con un fiammifero. Il turbamento di poco prima sembrava essersi attenuato, e i capelli castani erano leggermente scompigliati dal berretto che si era tolto. C’erano molte altre cose che avrebbe voluto chiedergli, ma non poteva farlo sotto quella quercia: le caserme avevano occhi e orecchie ovunque. La sera prima, quando si erano attardati nel bosco di betulle, Hans lo aveva riaccompagnato a casa che era già buio pesto, ma le sensazioni di quell’ultimo bacio avevano continuato per tutta la notte a riaffiorargli alla mente, incalzando i battiti del suo cuore. Non aveva il coraggio di rievocare quell’episodio, neanche coi pensieri, ma intuiva dal contegno di Hans che qualcosa dovesse essersi smosso anche dentro di lui.
Voltò appena la testa per guardarlo, accorgendosi che l’altro stava facendo lo stesso con le sue iridi di bronzo fuso: le parole, in quel momento, erano superflue.
Ormai gli era chiaro: non voleva che quel rapporto, che si era cementato in silenzio mentre le parole e gli atti rimanevano ambigui, si esaurisse con qualche bacio rubato all’ombra degli alberi. Desiderava conoscerlo a fondo, recuperare tutto ciò che avevano lasciato in sospeso; e qualcosa gli suggerì che, forse, quel desiderio era condiviso.

“Allora, Friedrich, come ti trovi col nuovo capitano?”
La voce di Konrad lo distolse dalla contemplazione del quadro ottocentesco di fronte alla sua poltrona. Nella sala scherma non aveva potuto raccontargli il colloquio avuto con Bühler, ma l’umiliazione che quelle parole gli avevano indirettamente inferto continuava a bruciargli – a tal punto che doveva aver impresso ancora più violenza nelle stoccate, quando quel pensiero tornava a fare capolino. “Abbiamo avuto una… discussione, poco prima che venissi a cercarti,” ammise a mezza bocca, omettendo tuttavia il contenuto del discorso.
“Io lo conosco di vista da quando è arrivato… sta sempre sulle sue, ma mi sembra un tipo in gamba. Che hai combinato stavolta?”
Friedrich si irrigidì, ma cercò di non scomporsi di fronte al sarcasmo dell’amico. Si versò da bere e accavallò le gambe, continuando a osservare la battaglia di Lipsia riprodotta nel quadro. “Ha fatto qualche allusione poco lusinghiera al mio rango dopo che ho protestato per essere stato spedito in magazzino, e mi ha trattato come una specie di ragazzino viziato.” Si rigirò il bicchiere tra le mani, già sapendo che anche il suo amico la pensava allo stesso modo del capitano sulle questioni militari. “Però, sai, non è quello a turbarmi.”
“Allora cosa?”
Egli esalò un sospiro, spostando lo sguardo sul fondo del bicchiere colmo di liquido ambrato. “Non lo so. Con qualcun altro forse non mi sarei neanche posto il problema, ma lui… vorrei che mi vedesse diversamente.”
“Non è che forse ti interessa anche in qualche altro senso?” domandò Konrad senza mezzi termini, inarcando un sopracciglio.
Come Friedrich aveva previsto, lo aveva capito subito. E sì, non poteva negarlo: Bühler gli piaceva perché era solido, affidabile, competente. Non cercava il contatto diretto coi subalterni, ma era sempre presente alle adunate e agli allenamenti, sempre tra i soldati. L’esatto contrario del suo predecessore…
Esitò brevemente prima di rispondere, con cautela: “Non proprio… mi piace come pensa, mi piace come si comporta. È quel tipo di comandante che seguirei senza indugio.”
E poi c’erano i suoi occhi profondi e seri, che celavano qualcosa oltre la facciata granitica…
“È praticamente il tuo opposto, dal punto di vista militare.” Quella battuta alleggerì l’atmosfera e lo riportò coi piedi per terra, strappandogli un sorriso.
“Io non credo che sia così diverso da me…” sentenziò Friedrich. “Lui crede di conoscermi, ma non mi conosce affatto.”
“E tu pensi di conoscerlo meglio?”
“Di sicuro non mi fermo alle apparenze, cerco di guardare oltre. Magari anche lui, domani all’esercitazione, se ne renderà conto.”
Konrad rimase per qualche secondo in silenzio, riflettendo sulle sue parole. “Ti consiglio di stare attento, visto che è il tuo comandante: è sempre bene evitare di mischiare le faccende militari a quelle personali.”
“Certo, non ho mica intenzione di provarci con lui! Tu per caso mi ci vedi, ad avere una relazione con un mio superiore?” L’unica relazione che avesse mai avuto in vita sua, se così si poteva definire, era stata con un suo compagno di corso ai tempi in cui era cadetto, e non era mai andata oltre qualche casto bacio rubato all’ombra degli alberi. Era durata pochi giorni, nel costante timore di essere scoperti, poi non si erano più rivolti la parola. Già era stato difficile all’epoca, anche se erano entrambi aristocratici… e poi chi gli diceva che Bühler avesse i suoi stessi gusti? Una parte di lui ci sperava, ma l’altra… “Non voglio attirare la sua attenzione, voglio soltanto dimostrargli che si sbaglia sul mio conto.”
Konrad piegò le labbra in un sorriso enigmatico, ma non disse niente, e il discorso cadde così com’era iniziato.

Hans richiuse il libro con un tonfo: per quanto cercasse di concentrarsi sulla lettura, alla luce calda della lampada, la sua mente continuava a deviare il corso dei pensieri. Sorbì un lungo sorso di tè e distese le gambe, sprofondando nella poltrona consunta del salotto.
Era passato qualche giorno da quando aveva baciato Friedrich nel bosco, e ogni notte, in sogno, continuava a rivivere quella scena arricchita da dettagli sempre nuovi: la bandiera, la passeggiata a cavallo, la vecchia quercia, la battuta di caccia…
Con un sospiro si passò una mano tra i capelli, posò la tazza fumante sul bracciolo e riaprì il libro. Quasi come a farlo apposta, il suo sguardo fu catturato da due strofe:

Das Opfer, das die Liebe bringt,
Es ist das teuerste von allen;
Doch wer sein Eigenstes bezwingt,
Dem ist das schönste Los gefallen.

Nur wenn das Herz erschlossen,
Dann ist die Erde schön.
Du standest so verdrossen
Und wußtest nicht zu sehn.

Rimuginò a lungo su quelle parole, come se il loro autore stesse parlando direttamente a lui.
Il sacrificio richiesto dall’amore è tra tutti il più gravoso, ma la sorte premia chi riesce a conquistarlo. Quando il cuore accetta di accoglierlo, il mondo appare più bello; ma tu, così titubante, ti rifiutavi di vederlo.
Se quella poesia non fosse stata scritta un secolo e mezzo prima, se Hans avesse conosciuto Goethe di persona, dal modo in cui ogni singolo verso riusciva a colpirlo nel profondo sarebbe potuta sembrare una sorta di dialogo confidenziale tra lui e il poeta.
Aveva sempre considerato i sentimenti come una distrazione superflua, qualcosa che si poteva sopportare in silenzio se non c’erano possibilità di coltivarli. Lo aveva fatto per molto tempo, considerandoli un sacrificio molto meno oneroso di quello che avrebbero comportato: la segretezza, il timore di essere scoperti, il mostrarsi vulnerabile di fronte a un’altra persona. Il Paragrafo 175…
Una relazione tra due ufficiali della stessa compagnia, poi, sarebbe stata il più gravoso tra i sacrifici, perché avrebbe potuto compromettere anche la condotta militare.
Eppure… infilò il segnalibro a quella pagina e si alzò, andando a rovistare in uno dei suoi cassetti. Dal fondo ne trasse una cartella rossa dagli angoli consumati, vecchia di parecchi anni, e rimosse l’elastico di corda che la teneva chiusa: sul tavolino del salotto si sparpagliarono decine di disegni a matita che aveva fatto quando ancora si rifugiava nei boschi intorno al suo paese natio, per trascorrere qualche ora in solitudine. C’erano scorci di paesaggi, castelli, animali, scene di libri che aveva letto e luoghi immaginari; alcuni incompleti, che non aveva mai avuto il coraggio di far vedere a nessuno. Li scorse in fretta, senza neanche soffermarsi a riguardarli, fino ad arrivare all’ultimo disegno, il più recente e anche il più personale: la data scritta sul retro risaliva a poco prima di Natale.
All’ombra di una quercia secolare, un cavaliere montato su un morello reggeva uno stendardo bianco, con una croce patente e un’aquila nera. Una spada pendeva dal suo fianco, avvolta in un ricco fodero, e i capelli biondi erano scompigliati dal vento mentre guardava fisso di fronte a sé, negli occhi di chi lo aveva ritratto: lui.
Quello era il risultato delle sue conversazioni con Friedrich, in cui ogni dettaglio rimandava a qualcos’altro, di quello sguardo che era rimasto impresso nella sua memoria e che lui, per riversarlo da qualche parte, aveva voluto imprimere sulla carta.
Scrollò la testa, dandosi dell’ingenuo per aver creduto in quel modo di potersi liberare di quei pensieri. Non un destino imperscrutabile, ma il puro caso aveva posto Friedrich sulla sua strada, e lui si era ritrovato a fare scelte che non avrebbe reputato possibili.
Tre anni che mi trovo a Potsdam.
Ripensò alla conversazione sotto la quercia e alle cose che aveva taciuto sul suo trasferimento: non era stato facile lasciare Heidelberg ed essere abbandonato da una persona per la quale aveva creduto di contare qualcosa, per poi bruciare nel camino tutte le lettere che avrebbe voluto scrivergli. Col tempo i suoi sentimenti si erano affievoliti; perfino il ricordo di lui aveva perso rilevanza, fino a sbiadire come un quadro esposto alle intemperie. Da allora, era rimasto fedele alla sua ferrea decisione di rinunciare a qualsiasi legame, relegando il suo segreto in un luogo in cui non avrebbe potuto nuocere né a lui né ad altri… tranne con von Kleist, che aveva sempre trattenuto in bilico tra ambiguità e reticenza.
Era stato relativamente facile per il tenente abbattere tutti i pregiudizi che lui si era fatto sul suo conto, mostrandosi per quello che era e non per quello che appariva. Allo stesso modo, si sentiva come se solo con lui potesse mostrare il proprio vero essere, quello che esulava dalla ferrea disciplina militare e dalle stellette d’oro di capitano.
Lo sguardo che gli aveva rivolto porgendogli lo stendardo era stato l’inizio di tutto, il premio della vittoria che avevano ottenuto insieme.
Forse, pensò, ne valeva davvero la pena. Unirsi in quel sacrificio reciproco, fare fronte comune contro le insidie del mondo esterno. Non dovevano vivere come due sovversivi, ma essere l’eccezione all’interno della legge, che si integrava in essa e la valorizzava, pur mantenendo il suo carattere di autenticità.

La superficie del lago era una lastra di ghiaccio trasparente, su cui si riflettevano le sfumature serene del cielo e le cime degli abeti coperti di neve. Manfred von Kleist, la sciarpa di lana tirata su fino al mento, si strinse istintivamente nel cappotto: dopo i mesi trascorsi in Spagna, il rigore degli inverni prussiani gli appariva più severo. Tutto il contrario di quando era arrivato in Andalusia, a novembre, e si era meravigliato di trovare un clima così tiepido e le palme indolenti che si lasciavano accarezzare dal vento sul lungomare. Affondava gli stivali nello strato di neve, preceduto da Reinhardt e Konrad; Friedrich si era allontanato per inseguire il suo cucciolo dal pelo argentato, che scorrazzava qua e là incurante del freddo e abbaiava agli uccelli.
“Come vanno le cose in Spagna?” gli domandò il tenente della Leibstandarte, affiancandolo.
Manfred levò lo sguardo verso il cielo, attraversato da candide nuvole. “Non benissimo per le forze nazionaliste, infatti tra due giorni dovrò ripartire. A Madrid i comunisti resistono…”
Sul volto dell’altro passò un’ombra fugace. “In molti si sono legati alla nostra causa… ma là fuori continuano a guardarci con diffidenza.”
“Non è detta l’ultima parola. Almeno sul piano militare, le tattiche del Blitzkrieg stanno iniziando a dare i propri frutti. Anch’io ho avuto confermato il mio primo abbattimento: un Polikarpov I-15.” L’aviatore si rivide a volteggiare in battaglia sopra i cieli spagnoli, a bordo del suo biplano, mentre il vento gli sferzava il viso e la sciarpa gli ondeggiava intorno al collo. Affacciandosi dalla carlinga, riusciva a scorgere le colonne di fumo, le rovine, le file ordinate di carri armati, le ferrovie divelte dalle bombe. Nessuno osava indugiare troppo a lungo su quello scenario di distruzione, ma guardava avanti, a quando…
“Un giorno ne sarà valsa la pena,” disse Reinhardt. “Se dovesse vincere il marxismo, sarebbe la fine per l’Europa così come la conosciamo. Le generazioni future non meritano un mondo simile, non meritano di essere annientate da una politica così alienante.”
“Hanno bisogno di qualcosa in cui credere… qualcosa che dia loro speranza.” Manfred si accorse che erano rimasti da soli: Konrad aveva raggiunto Friedrich, e il piccolo Hubert gli si era aggrappato alle gambe scodinzolando festoso. Il principe raccolse un pezzo di legno e lo lanciò lontano, rimanendo poi a guardare il cane che scattava per recuperarlo.
“Certo che ne sono cambiate di cose, in poco tempo,” riprese l’altro, lo sguardo rivolto nella stessa direzione. “Mi ricordo ancora quella volta, mentre tornavo da scuola – avrò avuto quindici o sedici anni – in cui mi ritrovai ad assistere a una rissa tra rossi e camicie brune. Non me ne stupii per niente, ormai ci ero abituato: a quei tempi violenze del genere erano all’ordine del giorno. Ma poi li vidi tirar fuori le pistole…”
Manfred sgranò gli occhi. “E che facesti?”
“Tra le camicie brune riconobbi un mio amico, di qualche anno più grande di me, che veniva spinto contro il muro, e senza pensarci due volte intervenni per difenderlo…” Reinhardt si lasciò scappare una risata leggera, scuotendo la testa. “Quando la polizia giunse sul posto trattennero anche me e, una volta tornato a casa, mio padre mi fece una lavata di capo che non dimenticherò mai… ma fu proprio parlando con lui che decisi di arruolarmi come volontario.”
“Ci sono esperienze che ti cambiano nel profondo, anche senza che tu te ne accorga,” convenne l’aviatore. “Io non ho mai fatto a botte con nessuno, ma entrai nell’aeronautica quando era ancora un’unità clandestina.”
“Adesso quei tempi sono finiti, per fortuna. E sai, è bello pensare che almeno i nostri fratelli minori non vivranno quel clima di tensione e violenza che abbiamo vissuto noi, che la gioventù di oggi può sperare in qualcosa di migliore. Sono passati pochi anni, ma un giorno anche noi potremo dire di averne fatto parte… di aver contribuito a creare tutto questo.”
A Manfred venne da ripensare a suo fratello Siegfried, che con lui condivideva il sogno di volare. “Tu hai fratelli?”
“Sì, uno. Ha solo sedici anni, ma sa il fatto suo,” rispose Reinhardt con orgoglio.
“Muovetevi, che tra poco è buio!” li interruppe la voce di Konrad, mentre Friedrich li osservava da sotto la visiera del berretto. Hubert, saltellando e scodinzolando, li richiamò con un latrato: erano quasi arrivati alla casa di legno dove avrebbero trascorso la notte.

La dimora sul lago era completamente avvolta nel silenzio; Hubert dormiva sul tappeto ai piedi del letto a castello, le orecchie pendenti che gli ricadevano sul muso.
Manfred, che occupava la branda in alto, si mosse facendola scricchiolare e mise da parte il libro che stava leggendo alla luce di una candela. “Friedrich?” bisbigliò.
“Sono sveglio,” gli rispose il fratello, girandosi su un fianco.
Dopo una breve pausa, l’aviatore riprese: “Anche in Spagna dormiamo su delle brande così, solo che sono più scomode. Qui, invece, mi sento a casa… quante volte ci siamo rifugiati in questa capanna dopo le escursioni sul lago, per poi passare le nottate a parlare mentre gli altri dormivano?”
Friedrich non poteva vederlo in faccia, ma riusciva a immaginare i suoi occhi che brillavano. “Ti avrei proposto io di venirci, se tu non l’avessi fatto per primo.”
“Sì, mi ci voleva proprio una serata così, insieme a voi. Quando sei in guerra ti abitui in fretta, e ogni momento lontano dai campi di battaglia assume un significato diverso: impari a godertelo di più…” Altra pausa; Manfred si mise a sedere con la schiena contro la parete come faceva ogni volta. “Però non mi pento di essermi unito alla Legione. Ho conosciuto aviatori spagnoli e italiani, ho ascoltato le loro storie… e nonostante le lingue e le culture differenti, è stato bello scoprire che condividevamo le stesse idee, gli stessi sogni.”
“Abbiamo pur sempre radici comuni,” commentò Friedrich. “Fin dai tempi più remoti, sono state le divergenze e non l’odio reciproco a metterci l’uno contro l’altro.”
L’aviatore annuì nel buio. “Forse è ancora presto per dirlo… ma io spero davvero in una fratellanza europea, finalmente unita contro chi mira a spazzare via la nostra storia e la nostra identità.”
“Forse i tempi non saranno mai abbastanza maturi, e di sicuro non tutti saranno disposti ad accettarlo, ma è solo con determinazione e abnegazione che si può ambire a conquistare qualcosa di impossibile.” Friedrich esalò un sospiro, piegando un braccio sotto il cuscino. “Credo che una guerra su scala europea sia ormai inevitabile, tra qualche anno… ma non riesco proprio a immaginare quello che potrebbe succedere.”
Se c’era un pensiero che proprio non riusciva a togliersi dalla testa, era quello di Hans e delle parole che si era trattenuto dal rivolgergli nell’archivio, mesi prima: “Se dovessimo partire per una guerra, spero di trovarmi insieme a lei.”
Aveva capito istintivamente che era proprio lui il tipo di uomo che aveva sempre cercato, nei suoi sogni e nelle sue fantasie, e approfondire la sua conoscenza non aveva fatto che confermarglielo. Sia da un punto di vista militare che da un punto di vista umano.

Legarono i cavalli alla staccionata e si inoltrarono nel boschetto spruzzato di neve, mentre le ombre del pomeriggio si allungavano. Hans precedeva Friedrich, voltandosi di tanto in tanto al di sopra della spalla come per accertarsi che lo stesse seguendo. Nessun rumore, a parte quello degli stivali che calpestavano il suolo friabile, turbava quella quiete.
Giunse fino a una panchina all’ombra di un salice e si mise a sedere, aspettando che il tenente facesse lo stesso: sembrava aver capito che lo aveva condotto fin lì per parlargli, e lo fissava con uno sguardo carico di aspettativa.
Trascorse un lungo istante di silenzio, poi fu proprio Friedrich il primo a parlare. “Hans, anch’io vorrei dirti una cosa.”
Il capitano esitò, tamburellando le dita sulla pietra: la sua bocca stava per pronunciare parole che il suo cervello non pensava, una frase la cui risposta avrebbe sancito lo sviluppo degli avvenimenti futuri. La esalò tutta d’un fiato: “È inutile girarci intorno, Friedrich. Se non vuoi… sei ancora in tempo per tornare indietro.”
Le pupille dell’altro si dilatarono, quasi come se non riuscisse a credere a ciò che aveva udito. “No, non voglio tornare indietro… non possiamo. Non più.”
Hans si tese impercettibilmente verso il tenente, che allungò le mani verso di lui e le intrecciò tra le proprie. “Questa cosa dovrà restare tra noi, lo sai, vero?” lo ammonì, rinsaldando la presa su quelle dita fredde, che s’intiepidirono al contatto con le sue. “Nessuno dovrà permettersi di sospettare, per nessuna ragione. Né in caserma, né fuori…”
“Perché pensi che possa dirlo in giro?” domandò l’altro in un sussurro. “Fermo restando che sono del parere che la gente dovrebbe farsi gli affari propri, parimenti sono affari nostri se ci piace stare insieme, no? È una cosa che riguarda noi e tra noi resterà.”
“Non è solo quello,” proseguì il capitano. “Se quando siamo da soli decadono tutte le regole della gerarchia, in servizio non dovrà cambiare niente.”
Gli occhi fissi nei suoi, Friedrich annuì. “So anche quello, Hans. So già tutto.” Abbozzò un sorriso, che gli addolcì i lineamenti e illuminò le sue iridi chiare. “Come sul campo, ci copriremo le spalle a vicenda.”
“Ottimo.” Hans sorrise a sua volta, rinfrancato. “E poi un’ultima cosa, anche se lo sai già: non posso fare personalismi solo perché sei tu, e non accetterò lamentele in privato.”
A quelle parole, pronunciate con un ghigno ironico, il tenente ebbe il suo consueto guizzo di sfida. “Per chi mi hai preso, Schwabe, per la fidanzatina petulante?”
“È sempre meglio mettere le cose in chiaro, Preuße,” replicò lui, rispondendogli a tono. “E per tua informazione, io sono un Badener.”
“Che vuoi che sia? È la stessa cosa.”
“Non è assolutamente la stessa cosa. È come se io ti dessi del pomerano.”
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Come sei pignolo.”
“Tu invece sei un impertinente, ma è proprio questo che mi piace di te.”
Friedrich gli si avvicinò, sfiorandogli la guancia con le punte delle dita. “E tu mi piaci anche se sei così.”
“Così come? Pignolo? Oppure era un complimento?”
“Tutte e due.”
Si guardarono e scoppiarono entrambi a ridere di una risata spontanea, che sembrò riscaldare l’atmosfera. Una leggera folata di vento scosse le fronde del salice, accarezzando i loro capelli, e le distanze tra loro scomparvero.
Si separarono con una certa riluttanza, le mani del tenente ancora aggrappate al bavero del suo cappotto, ma Hans fece un passo indietro e lo guardò dritto negli occhi. “Spero che sia chiaro quello che ho detto poco fa, von Kleist.”
L’altro ricambiò con altrettanta intensità. “Sì, signor capitano.”
Fu con un sorriso che constatò che le parole di Friedrich erano serie, gli avvolse un braccio intorno alle spalle e lo baciò sulla fronte. “Che ne dici di incontrarci una di queste sere, fuori dall’orario di servizio? Magari domani…”
Friedrich gli cinse la vita e appoggiò la testa sulla sua spalla. “Volentieri… conosco un bel posto dove potremmo andare a cena.”

Friedrich e Hans camminavano lungo le rive del fiume Havel, di ritorno dalla serata trascorsa insieme. Le stelle splendevano simili a tanti piccoli diamanti, e le nuvole aleggiavano sopra la città come strisce di polvere argentata. La cupola azzurra della chiesa di San Nicola riemergeva da dietro i tetti degli edifici, illuminata dalle luci dei locali notturni ancora aperti.
“Alla fine abbiamo fatto quasi le undici,” disse il tenente, guardando il grande orologio all’angolo della strada. Quando i primi fiocchi di neve iniziarono a scendere dal cielo, infilò le mani in tasca e continuò a camminare, in cerca di un posto riparato in cui fermarsi.
Hans, rimasto qualche passo indietro, si voltò a osservare le acque leggermente increspate: avevano cenato insieme e avevano percorso più di mezza città a piedi, parlando di tutto e di più, come due vecchi amici. Vestiti in borghese, mantenendo un basso profilo, per qualche ora avevano quasi dimenticato di essere un capitano di fanteria e un suo diretto subalterno.
Fuori dal locale più vicino proveniva una melodia di pianoforte, e una voce femminile intonava una nostalgica canzone d’amore. Hans si affacciò al suo interno: ai tavolini sedevano solo coppie attempate, con uomini in abiti eleganti e donne ingioiellate dai capelli vaporosi. “Non fa per noi,” sentenziò, con un sorriso sghembo. “A quest’ora i locali saranno tutti pieni… e se devo essere sincero, non mi va di stare ancora in mezzo alla gente.”
“Nemmeno a me,” convenne Friedrich. Gli si avvicinò e alzò lo sguardo su di lui. “Potresti fermarti a casa mia, almeno mentre aspettiamo che smetta di nevicare. Ti offro qualcosa e…”
Hans lo interruppe con un cenno che voleva essere al tempo stesso una conferma, e si lasciò guidare attraverso le vie del centro. Man mano che si allontanavano, il volume delle voci e della musica iniziava a scemare e le luci delle abitazioni si spegnevano una dopo l’altra.
Arrivarono in una stradina secondaria, dove un cancello in ferro battuto segnava l’ingresso di un cortile sovrastato dalla mole del palazzo settecentesco. L’usciere salutò il signor conte e il suo ospite con deferenza e li lasciò passare senza fare domande.
Meravigliato da quell’appellativo, Hans aggrottò appena le sopracciglia, ma si limitò a seguire Friedrich su per la scalinata in marmo chiaro, illuminata da preziosi lampadari e da un lucernario che lasciava filtrare all’interno la luce delle stelle.
Non si aspettava quel cambio di programma, ma ciò che lo stupì maggiormente fu rendersi conto che non si sentiva spaesato come aveva immaginato all’inizio: quello che era successo non era che la naturale conclusione di un processo sviluppatosi senza forzature. Sentiva quasi l’animo alleggerito al pensiero di essersi liberato da così tanti affanni in una sola sera.
Friedrich aprì la porta dell’appartamento all’ultimo piano e accese la luce all’ingresso, facendo entrare lui per primo. Il piccolo Hubert, ridestato dai rumori, corse a salutarli.
“Però, è cresciuto”, osservò il capitano. Quando si chinò verso la sua figura scodinzolante, il cucciolo gli saltò tra le braccia e gli leccò il naso.
“È anche molto affettuoso.” Friedrich sorrise. “L’avevo detto che gli piacevi.”
Perfettamente a suo agio in quell’anticamera arredata con colonne in marmo e quadri di pregio, il tenente lo precedette di qualche passo, accennando con un cenno del capo alla porta del salotto. Era un luogo raccolto, con un camino spento, tappeti persiani e un orologio a pendolo che riempiva il silenzio coi suoi ticchettii. Un’intera parete era occupata da una libreria colma di vecchi volumi, su cui si concesse di indugiare qualche secondo più del dovuto; nell’angolo vicino alla finestra vide un pianoforte con uno spartito aperto. Nessuna ostentazione di ricchezza, nonostante l’evidente eleganza dell’arredamento: sembrava rispecchiare l’anima del suo abitante.
“Puoi accomodarti.” La voce di Friedrich, che nel frattempo era andato ad accendere il fuoco, lo richiamò, indicando il divano rivestito di velluto. “Vado a prendere qualcosa da bere.”
Quando, un paio di minuti dopo, tornò con una bottiglia e due calici, lo ritrovò seduto sul divano a giocare col cane. “Riesling… è delle tue parti, no?” gli disse, mentre la stappava e mesceva il vino.
Hans annuì da sopra la spalla, immaginando che non fosse una scelta casuale. Dal bicchiere proveniva una fragranza fruttata, familiare, che lo riportò agli anni della sua infanzia. Lo sorbì lentamente e si ritrovò a parlare del paese in cui era cresciuto, diviso a metà dalla striscia argentata dell’omonimo fiume, che scorreva a pochi passi dalle case a graticcio, delle facciate dipinte di colori sgargianti e del vecchio mulino in cui si rintanavano i gatti. “Non avevo molti amici, e in genere preferivo stare da solo,” spiegò. “Tutt’intorno al mio paese – sembra uno di quei posti da cartolina – ci sono colline tappezzate d’alberi e una strada sterrata che porta alle rovine di un castello medievale. Allora, tornato da scuola, mi andavo a rifugiare lassù fino all’ora di cena… a volte mi portavo un libro, altre volte il blocco da disegno.”
“Ah, sì? E cosa disegnavi?”
“Quello che vedevo… con gli occhi o con la mente.”
“Un giorno mi piacerebbe vederli,” disse Friedrich con slancio; il suo completo blu scuro accentuava l’azzurro dei suoi occhi.
“Non te lo consiglio, sono orribili.” Hans rise lieve, ma si fece subito serio. “Mi diletto a imbrattare carte a tempo perso, non aspettarti chissà che.”
“Io invece non penso che siano così brutti,” insisté l’altro, fissandolo. “Io strimpello col piano, e qualche volta mi diverto a improvvisare dei pezzi di mia invenzione. Ti propongo un patto: io ti faccio sentire le mie composizioni e tu mi mostri i tuoi disegni.”
Il capitano rivolse uno sguardo al pianoforte, immaginando Friedrich seduto al panchetto che suonava, e ripensò al ritratto del cavaliere teutonico che reggeva lo stendardo. “Se la metti così, si può fare… però spetta a te l’onere e l’onore di iniziare.”
“Lo avrei fatto comunque,” ammise Friedrich, dopo una breve pausa.
“Magari la tua musica riuscirà a darmi qualche idea…” Sentivano le teste leggere; le loro mani erano ormai intrecciate e i loro volti a un palmo di distanza. Hans si bloccò a metà frase, perdendosi nei suoi brillanti occhi chiari, e il tenente lo ricambiò con uno sguardo ugualmente anelante. Qualunque fosse la cosa che voleva dire, se la dimenticò.
Un istante dopo, le loro labbra si unirono smaniose, quasi fondendosi le une con le altre. Friedrich affondò le dita tra i suoi capelli e Hans lo spinse giù, sentendo il corpo del giovane che si tendeva per ricercare il calore del suo.
Nessuno dei due volle più opporsi a quella tempesta, che non appariva più come una minaccia, ma si scatenava fuori dal loro rifugio sicuro, come per proteggerli.
Le mani, febbrili, iniziarono a slacciare i bottoni; il capitano si sollevò su un gomito e lo fissò: sprofondato tra i cuscini, i capelli scarmigliati dalla foga, Friedrich aveva le labbra leggermente dischiuse e il volto acceso. Un potente brivido di desiderio, simile a una scarica elettrica, gli attraversò le membra. “Questo divano è un po’ scomodo…” borbottò per stemperare la tensione, coi piedi fuori dal bracciolo.
Friedrich sorrise, indicando con la testa il corridoio buio. “Di là c’è un letto abbastanza grande per entrambi. Che ne dici?”
Come sospeso in un sogno, Hans annuì. “Andiamo?”
“Andiamo.”

Friedrich chiuse a chiave la porta della camera, che li accolse col rassicurante tepore delle coltri damascate. Si protese verso il capitano per baciarlo ancora una volta, gli avvolse le braccia intorno al collo e ricadde all’indietro sul letto, abbandonando i vestiti dietro di sé con noncuranza. Hans si lasciò scivolare la giacca giù dalle spalle, poi si rialzò strappandogli un mugolio di disappunto.
“Dove vai?”
L’altro non rispose: si stava togliendo i vestiti, per poi appoggiarli sulla poltrona vicino al letto. Si tirò la coperta fino al petto e lo osservò nella luce soffusa della lampada: non si era mai chiesto se Hans fosse bello, e forse non lo era in senso canonico, ma in quel momento gli apparve bellissimo. Anche i suoi lineamenti, incorniciati dai capelli arruffati, sembravano più dolci, ma forse era solo l’espressione. Tuttavia, tenne quei pensieri per sé e il cuore amplificò il ritmo dei suoi battiti. “Sei lento,” lo rimbeccò scherzosamente.
L’altro rise. “E tu sei un insolente, ma questo lo sai già.”
Friedrich si stiracchiò sotto le lenzuola, sorridendo sornione. “Ormai dovrebbe conoscermi, signor capitano.”
Coi pantaloni sbottonati ancora indosso, Hans gli afferrò i polsi in uno scatto repentino, si stese su di lui e gli posò un bacio delicato sulla bocca. I suoi occhi, solitamente seri, si accesero di un brillio divertito. “Forse devi ancora capire chi è che comanda.”
“Non attendo altro, Schwabe…” sussurrò beffardo, liberandosi dalla presa.
Udì un leggero fruscio di stoffa; le labbra del capitano si spostarono sul suo collo mentre scivolava sotto le lenzuola insieme a lui. “Adesso ci penso io a metterti in riga, Preuße.”
Friedrich sentì un potente brivido increspargli la pelle – non avrebbe saputo dire se per quelle parole o per il contatto dei loro corpi – il suo respiro si accorciò e farfugliò qualcosa con la bocca impastata, diviso tra desiderio, aspettativa e una certa curiosità.
Comprese che il momento stava arrivando, perché Hans ricercò il suo sguardo, e i suoi occhi ambrati erano di nuovo seri. Non avrebbe saputo dare un nome alle sensazioni che provava in quel momento, forse non sapeva neanche con esattezza cosa aspettarsi, ma si fidava di lui, e annuì con un cenno come per fargli capire che era pronto. Poi si unirono nel modo più profondo, come se divenissero una cosa sola, ed entrambi ebbero l’impressione di dimenticare tutto il resto.

Quando Hans si risvegliò, Friedrich era addormentato accanto a lui. Si mosse appena, attento a non disturbare il suo sonno, ma il tenente mugugnò qualcosa e si strinse contro il suo fianco, facendogli avvertire distintamente il calore del suo corpo.
Gli ci volle qualche secondo per realizzare che quella stanza calda e accogliente, così diversa dal suo squallido appartamento, era la camera di Friedrich. Controllò l’orologio, e quasi sussultò al pensiero di aver approfittato fin troppo della sua ospitalità, senza aver pianificato nulla. Gli posò un leggero bacio tra i capelli, poi si scostò a malincuore da lui.
“Hans… che fai?” gli chiese Friedrich, stropicciandosi gli occhi nel buio.
Colto da una strana urgenza, il capitano si sollevò a sedere e accese la lampada sul comodino. “Sono le due di notte, è meglio se torno a casa…”
“No.” La mano del tenente si strinse con forza intorno al suo avambraccio. “Sta nevicando… inoltre è tardi. Non vorrai farti mezza Potsdam a piedi da solo?”
“Sono un ufficiale di fanteria, sono abituato a fare chilometri e chilometri a piedi,” replicò Hans. “E poi… non vorrei essere di disturbo.”
Le braccia di Friedrich lo cinsero saldamente da dietro, le sue labbra gli sfiorarono la pelle della spalla e risalirono lungo il collo, solleticandogli l’orecchio col suo fiato caldo. “Nessun disturbo, Schwabe. Puoi rimanere qui con me stanotte, non mi dai fastidio.”
Con un sospiro, Hans si lasciò convincere: dopotutto, neanche lui aveva una gran voglia di abbandonare quel nido caldo per tornare nel suo appartamento vuoto. Spense la luce e scivolò di nuovo sotto le coperte, tra le braccia di colui che ormai non poteva più considerare alla stregua di un semplice compagno d’armi.

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Capitolo 25
*** Capitolo XXI ~ Doch wer sein Eigenstes bezwingt, dem ist das schönste Los gefallen. (seconda parte) ***



XXI.
Doch wer sein Eigenstes bezwingt, dem ist das schönste Los gefallen.
(parte seconda)

 

La boscaglia era così fitta che i pochi raggi del sole, infiltrati a fatica tra i rami intricati, sembravano irradiare una luce giallastra. Erano in marcia dall’alba, nel freddo pungente d’inizio febbraio, e gli stivali chiodati facevano crepitare lo strato friabile di neve e vegetazione morta. Nelle retrovie, i soldati intonavano canzoni militari della Grande Guerra, con gli zaini pesanti sulla schiena e le vanghe da trincea appese alla cintura.
A un cenno del capitano Bühler, la schiera si fermò e von Kleist lo affiancò.
Con una mano avvolta in una benda sporca di sangue, Hans sollevò il binocolo e scrutò al di là degli alberi: si era ferito con un frammento di roccia mentre strisciavano sotto i reticolati, tra i sassi appuntiti, e l’aveva medicata alla bell’e meglio rifiutando l’aiuto di chiunque.
Tra le voci dei soldati che confabulavano, in attesa di un ordine o di un responso, il tenente colse quella di Schneider: “Non fatevi domande: non potrete mai capire cosa frulla per la testa dell’uomo di ferro.” Capì subito a chi si riferiva, e sorrise interiormente al pensiero della serata trascorsa insieme a lui: tutte le maschere e i filtri erano crollati come inutili orpelli, ed entrambi si erano mostrati l’uno all’altro nella loro essenza più genuina.
“Non è questo il percorso giusto…” borbottò Hans. Estrasse la mappa dal portadocumenti e la spiegò di fronte a sé per mostrargliela, indicando col dito un punto privo di riferimenti. “Noi dovremmo essere qui, in mezzo alla foresta… ma siamo quasi arrivati al limite estremo, e la destinazione dovrebbe essere da tutt’altra parte. Di questo passo ci toccherà accamparci all’aperto.”
Le ombre della foresta si allungavano a vista d’occhio, e la luce trafiggeva gli alberi coi suoi strali dorati. Mancava poco al tramonto.
Friedrich si fermò dietro di lui e studiò la cartina per qualche istante, in silenzio: ettari ed ettari di bosco, contrassegnati da un’uniforme macchia scura, la striscia azzurra di un fiume, qualche chiazza gialla e una cornice verde pallido che separava i rilievi da un’altra foresta. Nessun sentiero tracciato, nessun avamposto: in quasi dodici ore di marcia, al di là degli ostacoli per le prove fisiche, avevano incontrato solo boschi, stagni, paludi, campi, fossi e qualche casolare sperduto. La destinazione – o meglio, il luogo di ritrovo – non era indicata, né avevano idea di come raggiungerla; sapevano soltanto che si trovava a nord. “Non se cerchiamo una scorciatoia, signore,” disse infine.
Hans lo scrutò da sopra la spalla. “Cos’ha in mente, von Kleist?”
Friedrich gli rivolse uno sguardo significativo, come a volerlo esortare a fidarsi di lui. “Forse ho capito dove si trova il rifugio.”
Egli acconsentì con un cenno del capo e il tenente iniziò a esporgli il suo pensiero.

Alla fine, erano riusciti ad arrivare al rifugio prima dell’ora di cena, muovendosi tra i declivi scoscesi e i sassi di un ruscello, di cui avevano sfidato le acque gorgoglianti. Era stato l’istinto a suggerire a Friedrich la direzione giusta, e sempre l’istinto a guidarlo mentre cercava di orientarsi quando ormai solo le torce potevano illuminare la marcia.
Hans ripercorreva le tappe dell’esercitazione mentre, uscito dalla caserma, camminava fianco a fianco col tenente per le strade di Potsdam. Come due semplici ufficiali, discorrevano di tattica bellica e vita militare, mostrandosi impassibili dinanzi agli occhi dei passanti.
Così discorrendo, arrivarono nel parco in cui avevano ritrovato Hubert: c’era ancora qualche residuo di neve ai lati del vialetto, ma il vento che spirava era più tiepido e il cielo trapunto di stelle era sereno. Non c’era quasi nessuno in giro, data l’ora di cena; un uomo in bicicletta con un giornale sottobraccio sfrecciò fischiettando accanto a loro, per poi passare oltre senza neanche vederli. Passeggiarono per un po’ tra gli alberi, riluttanti a separarsi, poi si sedettero su una panchina alla luce di un lampione. Hans infilò le mani nelle tasche del cappotto, lo sguardo fisso di fronte a sé. “Lavoriamo bene insieme, io e te,” gli disse.
Non era la prima volta che von Kleist lo assisteva coi suoi consigli mentre lui si occupava di pianificare le strategie, e non si stupiva più nel constatare che, molte volte, le previsioni del tenente venivano confermate dal successivo svolgersi delle azioni. Era come se si completassero a vicenda, come se collaborare li portasse a ottenere risultati più efficienti nella metà del tempo. Friedrich aveva del potenziale e, da quando avevano deciso di unire i loro sforzi e i loro intenti, glielo aveva mostrato con la massima naturalezza.
“Quando sono stato trasferito in questa compagnia, l’anno scorso, ero scettico…” gli confessò. La sua mente rivide il tenente che lo fissava risentito dopo il loro primo alterco nel cortile, riprodusse le sue parole insolenti come in una registrazione; poi ripensò a lui che avanzava verso l’obiettivo, guidando i soldati attraverso i luoghi più impervi con la sicurezza di un esploratore e il volto sporco di terra, e quando, finalmente da soli, lo aveva convinto a fargli vedere la fasciatura alla mano: era stato proprio lui, nonostante la sua reticenza, a disinfettargli il taglio e cambiargli le bende. “Ma adesso, penso di aver fatto la scelta migliore quando ho deciso di seguirti… e tu hai fatto lo stesso con me.”
Dopo un breve silenzio, l’altro annuì. “È una cosa che non ti ho mai detto, ma lo penso da tempo anch’io.”
Il capitano si voltò verso di lui, poggiando un gomito sullo schienale. “Davvero?”
“Sì. Se mai dovessimo partire per una guerra… spero di combatterla al tuo fianco.”
“Ne abbiamo tanta di strada da fare, insieme,” promise Hans, e in quel momento si rese conto che gli obiettivi comuni avevano rafforzato entrambi: in servizio continuavano a comportarsi come avevano sempre fatto, ma la loro intesa segreta era fatta di sguardi e parole non dette. Di nuovo si riaffacciò il desiderio di stare da solo insieme a lui, lontano da sguardi indiscreti e da convenzioni noiose, e la domanda gli fluì spontanea dalle labbra: “Stasera hai da fare?”
“No, e tu?”
“No. Ti va di vederci?”
Friedrich acconsentì con un sorriso. “Certo che mi va. Non fare complimenti: puoi venire da me tutte le volte che vuoi.”

Tutti gli occhi erano puntati su Manfred von Kleist, che sorseggiava il suo tè caldo con un vassoio di pasticcini in grembo. L’unico che non lo guardava era il principe Eugen von Schwerin, tornato dalla Spagna come lui: appollaiato sulla chaise longue, stava sfogliando una rivista militare sulla cui copertina figurava l’ultimo aereo da caccia adottato dalla Luftwaffe.
Era quello l’argomento di cui stava parlando l’aviatore, benché il suo uditorio fosse costituito da quattro ufficiali dell’esercito terrestre: Konrad e Friedrich della fanteria, seduti sul divano, Werner von Tannenberg delle Waffen-SS e Paul von Seydlitz della cavalleria, che fumava un sigaro con le gambe accavallate sulla poltrona vicino alla finestra. “Entreranno in servizio tra qualche mese, in dotazione al mio reparto,” diceva, con la voce vibrante d’entusiasmo. “Ne ho visto uno durante un volo di prova, ed è l’apparecchio più moderno e più veloce che ci sia in circolazione. Non vedo l’ora di pilotarlo, chissà come se la cava in battaglia!”
“Come hai detto che si chiama?” chiese Friedrich.
“Messerschmitt Bf 109.”
Von Seydlitz fece un sorrisetto ironico. “Cos’è, un nome in codice per la tua nuova conquista sentimentale?” Manfred lo trafisse con lo sguardo, ma il barone si strinse nelle spalle con fare teatrale: “Da come l’hai pronunciato, sembrava quasi che tu parlassi di una ragazza.”
“L’altro giorno Sabine von Osten gli ha chiesto di uscire, ma lui ha rifiutato,” rincarò Werner, prendendo un pasticcino dal vassoio dell’aviatore.
“Hai rifiutato Isotta? Sei pazzo, forse?” Paul si finse sconvolto; Friedrich e Konrad si scambiarono un’occhiata e scossero la testa, sorridendo sotto i baffi: stava per ricominciare una delle solite scene. “Quella è l’attrice più inavvicinabile di tutta l’Opera e tu te la fai scappare!”
“Non sono mica Tristano, io,” replicò Manfred.
“No, infatti sei Don Chisciotte. Più che altro mi chiedo perché, tra tutti quelli che si disperano per lei, abbia scelto proprio te che hai la testa tra le nuvole…”
“È un aviatore, Paul, le donne stravedono per gli aviatori,” disse Werner, con l’aria di declamare una verità universalmente riconosciuta. “Soprattutto se abbattono aerei nemici.”
“Eh, già: i tempi cambiano… una volta c’era il principe sul cavallo bianco, adesso c’è il cavaliere dei cieli. E tu che ne pensi, Eugen?”
“Io mi schiero con Manfred,” rispose l’interpellato, con aria imperturbabile. “Anche se ho altri interessi.”
“Sì, i bombardieri di picchiata,” intervenne Manfred, ghignando sarcastico. Friedrich si chiese se anch’egli avesse colto l’allusione del principe, se fosse a conoscenza di ciò che lui, Konrad e pochi altri sapevano, ma preferì non approfondire. “E sì, Paul, potrei fornirti una lista interminabile di motivi per cui l’ho rifiutata, ma tu non mi crederesti.”
“Oh, beh, ormai la conosco a memoria: non ti piacciono le donne di spettacolo, non ti interessano le avventure, e tutti i discorsi sulla donna ideale che esiste solo nei tuoi sogni…”
“Non credo di avere grandi pretese,” lo interruppe l’altro, con un’alzata di spalle.
“Finirai per fidanzarti con quella, come si chiama, Meisterin Schmidt.”
Manfred aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, fingendosi indignato. “Almeno gli aerei, a differenza delle tue amiche attrici, sono di sicuro più interessati a quello che ho da dire. E la loro compagnia è senz’altro più piacevole.”
Von Seydlitz scosse la testa con un sorrisetto. “E cosa ci sarebbe di più piacevole della compagnia di una fanciulla?”
“Noi piloti rischiamo la vita a ogni decollo, a ogni volo, a ogni atterraggio, ma ogni avventura è degna di essere raccontata.” Appoggiò la tazza e iniziò a gesticolare imitando il volo degli aerei, come per imprimere più forza nelle sue parole. “All’inizio di marzo sono stato colpito da un caccia sovietico e il mio motore ha preso fuoco, bruciando l’elica e l’intelaiatura delle ali. Era solo questione di tempo prima che le fiamme mi aggredissero anche la divisa, a una quota così bassa che non avrei potuto neanche paracadutarmi. Ma sotto di me c’era un fiume. Allora mi sono buttato, senza pensarci due volte… e mentre nuotavo verso la riva, con l’acqua che mi entrava dentro gli stivali, sono rimasto a guardare il biplano che precipitava come una trottola infuocata.”
Paul si fece serio: la divagazione, apparentemente, aveva ottenuto l’effetto sperato. “E poi?”
“E poi sono arrivati i comunisti. Mi sono nascosto tra i giunchi, aspettando che se ne andassero, poi sono tornato alla base… non ho mai ucciso nessuno con le mie mani.”
“E meno male che ti sei salvato,” commentò Schwerin. “Un mio camerata non è stato così fortunato… è riuscito a sopravvivere all’abbattimento per il rotto della cuffia, ma aveva ustioni così diffuse che quando è arrivato in ospedale era quasi irriconoscibile.” Posò la rivista capovolta sulla chaise longue e si avvicinò al gruppo, rimanendo in piedi di fronte a loro. “Ma non credete che la nostra permanenza laggiù si riduca a questo: la gente di quelle parti è solidale e ospitale, e poi si mangia bene. Abbiamo passato dei bei momenti, lontano dai campi di battaglia.”
Manfred annuì, pizzicando distrattamente i tasti del pianoforte con le note introduttive dell’inno della legione Condor. “Un giorno siamo riusciti ad arrivare addirittura fino al mare, insieme ad alcuni amici italiani e spagnoli. Era inverno, fine gennaio, ma non ci importava: ci siamo immersi in acqua e abbiamo fatto a gara a chi resisteva di più. Poi ci siamo accampati sulla spiaggia, abbiamo acceso dei fuochi sotto il cielo pieno di stelle, ci siamo raccontati storie e abbiamo cantato canzoni. È stata davvero una bella serata.”
“Ci siamo divertiti, altroché,” gli fece eco il principe Schwerin, e continuarono ancora a lungo a rievocare aneddoti della guerra civile spagnola.

L’arrivo della primavera aveva sciolto la neve, e la brezza della sera saliva fino alle finestre socchiuse del salotto di Friedrich von Kleist, soffiando lieve tra le tende trasparenti. Hans aveva preso l’abitudine di trattenersi da lui nelle serate libere dopo il servizio: in quei momenti, i gradi perdevano d’importanza e non sentivano il bisogno di parole superflue per ribadire l’ovvio.
Friedrich si sedette al pianoforte e iniziò a suonare, traducendo in musica l’inesprimibile. Alle proprie spalle percepiva la presenza del compagno, e in sottofondo gli giungeva anche il lieve raschiare della matita sul foglio, che trasformava i suoni in immagini. Erano note idilliache, ma anche potenti e drammatiche, in cui il pathos dei sentimenti s’intrecciava alla serenità eroica e creava armonie che non rimandavano alle antiche leggende, ma ne inventavano di nuove.
Era la storia di due cavalieri che, uniti da uno spirito di fratellanza che trascendeva ogni definizione umana, combattevano fianco a fianco per una causa condivisa. Quella continua ricerca non si esauriva mai, ma tendeva verso avventure sempre nuove e li spingeva a migliorarsi ogni giorno di più, come guerrieri e come uomini. Non era la fede religiosa a muoverli, ma un ideale senza nome né tempo.
Le note raggiunsero il picco massimo, richiamando la concitazione di una battaglia; s’innalzarono in un crescendo di tragedia, poi ripresero gradualmente ad abbassarsi: le armi venivano deposte e i due cavalieri ritrovavano la pace in un luogo segreto, che solo loro sapevano come raggiungere.
Terminata l’esecuzione, si voltò verso il compagno, ancora chino sul foglio. Gli si avvicinò e si sporse a sbirciare al di sopra della sua spalla mentre scuriva le ombre a matita, lasciando vaghi i dettagli che Friedrich riusciva a colmare con l’immaginazione. Hans rifinì le ultime sfumature, abbandonò la matita sul tavolo e gli mostrò l’opera finita: due querce secolari, come pilastri, facevano da cornice a un paesaggio che ricordava le foreste del Brandeburgo, dove due cavalieri teutonici – forse di ritorno da una battaglia, a giudicare dallo stendardo che uno dei due teneva adagiato sulla spalla – si allontanavano verso il Sole calante, lungo un sentiero che si smarriva tra gli alberi.
“Quelle foreste… sono quelle della tua regione?”
“Più o meno,” ammise Hans. “Sono quelle con cui ho più familiarità.”
Friedrich annuì, passandogli una mano tra le corte ciocche castane. “Un giorno mi piacerebbe vederle. Quest’estate potremmo…”
L’altro lo interruppe con un cenno sbrigativo, si alzò dalla poltrona e andò ad affacciarsi alla finestra, i gomiti appoggiati al davanzale. “Forse un’altra volta.”
“È successo qualcosa?” sussurrò il tenente, avvicinandoglisi.
“Sì, ma non ha davvero importanza, Friedrich.”
“Sai che con me puoi parlare.”
Seguì un lungo silenzio, poi il capitano esalò un sospiro. “Non corre buon sangue tra me e la mia famiglia. Ho fatto fallire l’attività di mio padre, lo studio legale che avrei dovuto ereditare, e me ne sono andato di casa diversi anni fa, perché nessuno approvava la mia scelta di arruolarmi nell’esercito. Ma ormai ci ho messo una pietra sopra, non rimpiango nulla.”
“Avresti dovuto diventare un avvocato?” chiese Friedrich, sbalordito.
“I miei avrebbero voluto così… ma io non mi ci vedo a difendere le cause perse di qualche cittadino facoltoso.” Si volse verso di lui, scrollando le spalle. “Tu mi ci vedi?”
“No, tu hai proprio la stoffa del soldato… dell’ufficiale che dà ordini anche fuori dalla caserma.
Il capitano rise insieme a lui, ma poi si fece subito serio. “Spesso mi chiedo come sarebbe stato se le cose fossero andate diversamente, ma posso solo accettare la realtà, con tutte le sue contraddizioni.”
“Non puoi cambiare il passato, ma puoi sempre provare a migliorare il futuro.”
“Ho sempre riposto molte aspettative nei confronti del futuro, ma cerco di stare coi piedi per terra e fare del mio meglio per dare valore al presente. Solo con costanza e perseveranza, giorno dopo giorno, potrò rendere migliore il presente che verrà. L’avvenire che ti crei è il risultato delle tue azioni, non il contrario.”
“Ma le azioni sono il risultato delle nostre decisioni, dei nostri pensieri, dei nostri ideali… e sono quelli che ci proiettano verso il futuro. Anch’io ci penso spesso.”
“E cosa vedi?”
Friedrich rifletté per un istante, mentre il vento della sera giocava coi suoi capelli. “Forse ne avevamo già parlato, tempo fa in caserma. Ecco, vorrei poter contribuire a creare qualcosa di nuovo… e magari, condividere tutto questo con qualcuno che crede nei miei stessi ideali.”
Seguì un lungo silenzio; la mano di Hans sfiorò la sua e i loro sguardi si incrociarono. “Non so dove saremo tra qualche anno, ma spero di essere ancora insieme a te: sei tu il mio futuro.”
Friedrich sorrise. “E tu sei il mio.”

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Capitolo 26
*** Capitolo XXII ~ Meine Ehre heißt Treue ***



XXII.
Meine Ehre heißt Treue


Se la sua vita fosse esplosa come quell’obice, disintegrandosi in una miriade di frammenti luminosi, avrebbe cancellato anche il passato, il presente e quel futuro che non ci sarebbe più stato. La pira funebre era il crepuscolo dei suoi sogni e dei suoi ideali, mentre il mondo indifferente andava avanti senza di lui.
Friedrich si rialzò, ripulendosi con un gesto sommario: aveva l’uniforme sporca di mota, rovinata sui gomiti dove i sassi gli avevano grattato anche la pelle, ma il suo corpo pareva insensibile a ogni forma di dolore. Sollevò una mano per comunicare ai soldati che stava bene e allontanò da sé chiunque mostrasse preoccupazione.
La nebbia sollevata dall’esplosione si stava diradando e, insieme a essa, anche quella che opprimeva la sua mente. I contorni dello scenario, che si facevano via via più nitidi ai suoi occhi, apparivano invariati, in una scala di grigi: la foresta era un’informe massa scura e intricata; il villaggio si stagliava contro il cielo plumbeo come una schiera irregolare di edifici sventrati dalle bombe.
La pistola, sgusciatagli dalla mano, era rotolata nel fango; von Kleist la raccolse e la ripulì come se fosse un cimelio prezioso, quindi iniziò a percorrere avanti e indietro lo schieramento. I fucilieri, sistemati in fila ordinata sull’orlo di quello che, più che una trincea, era un fosso protetto da sacchi di sabbia, si limitarono a rivolgergli un rispettoso saluto, mentre il chiacchiericcio di Hanke e Schreiber, che avevano ormai il loro posto fisso alla mitragliatrice di nome Erika, fu interrotto da una sua occhiataccia.
Un portaordini lo raggiunse di corsa, recando l’ordine di avanzare.
“Tenetevi pronti,” ordinò. “Fuoco a volontà!”
La sparatoria riprese con ancora maggiore veemenza, in un frastuono di rumori dissonanti che non era mai del tutto cessato. Friedrich ordinò l’assalto e i fanti eruppero dalla trincea, strisciando con gomiti e ginocchia nel fango melmoso, soffocando imprecazioni tra i denti quando il filo spinato s’impigliava tra i vestiti e li strappava. Le raffiche fischiavano e sibilavano sopra le loro teste, una pallottola rimbalzò tintinnando contro l’elmetto del capitano. Un soldato fu colpito e finì a faccia in giù nel pantano, dove ristette immobile; von Kleist individuò il mitragliere e lo abbatté con un colpo di pistola, poi si risollevò e si mise a correre schivando le grandinate di proiettili, imitato dai suoi uomini.
Invasero la postazione polacca come un’ondata di marea, mentre l’artiglieria tagliava la loro ritirata per impedire che si ricongiungessero al resto dello schieramento asserragliato alle porte di Grabnik. Assaltarono le mitragliatrici, occuparono le postazioni e fecero i primi prigionieri. Si scatenò una mischia furiosa in cui i polacchi furono costretti a combattere con baionette, vanghe da trincea e armi da fuoco, simili a una muta di cani che si difendeva abbaiando contro il branco di lupi che scopriva le zanne già sporche di sangue.
Mentre l’odore del fumo, delle ferite e della polvere da sparo s’addensava nell’aria umida, iniziò a cadere dal cielo una pioggerellina che trasformò la trincea in una palude scivolosa.
Due fanti alzarono le mani e si consegnarono al capitano; un terzo, ferito, implorò pietà col volto rigato di lacrime. A Friedrich riuscì difficile non provare compassione dinanzi alla sofferenza di quel ragazzino, ma una voce interiore lo avvertì della trappola prima ancora che un boato lacerante, terribilmente vicino al suo orecchio, lo facesse sobbalzare.
I soldati che lo accompagnavano, uomini che lui non aveva mai visto prima, si fecero subito avanti per proteggerlo; von Kleist si guardò intorno febbrilmente, rimpiangendo di non avere con sé il suo MP38; sparò due colpi in rapida successione che per un attimo disorientarono i nemici, poi la sua pistola emise un rumore sordo.
Uno dei suoi compagni, rimasto ferito a una spalla, gemette di dolore; un altro giaceva esanime al suolo con l’elmetto sfondato. Friedrich deglutì col cuore in gola: erano rimasti in quattro contro almeno il doppio dei polacchi, e lui aveva finito i colpi.
“Copritemi!” urlò, la sua voce coperta dalle detonazioni dei fucili Mauser. Con le mani umide di sudore, fango e pioggia inserì un altro caricatore, ordinando a chiunque fosse in ascolto di mandare a chiamare il sottotenente Kühn.
Un soldato imprecò; altri rinforzi giunsero dalla parte avversaria, costringendoli ad arretrare. Si ritrovò isolato, e la canna di un fucile gli si premette contro la schiena. “Dalej,” gli ingiunse una voce aspra, mentre un braccio lo strattonava di malagrazia. “Venga con noi, capitano.”
Von Kleist vide i suoi uomini, spaventati e zuppi di pioggia, che esitavano di fronte ai fucili puntati degli avversari, in attesa di un suo ordine: arrendersi o combattere? Era meglio morire come topi in trappola o rassegnarsi alla prigionia, pur di aver salva la vita? L’unica certezza che aveva era che non avrebbe accettato che altri si sacrificassero per lui.
Decise di guadagnare tempo, consapevole che presto le sorti si sarebbero ribaltate a loro favore. Notò che si trovavano a ridosso del fianco della trincea, vicino a un tunnel mezzo crollato che conduceva verso il cuore dello schieramento polacco. Il bordo della fossa, che lo sovrastava di almeno un braccio, culminava con una pila di sacchi di sabbia e un giro di filo spinato.
“Signor capitano…” lo supplicò uno dei soldati.
L’unica alternativa che gli restava era tentare un diversivo. “Abbiate fiducia in me,” li rassicurò. “Non opponete resistenza, presto verranno i nostri a liberarvi.”
Si divincolò con uno strattone e una spallata, spiccò un balzo col quale si aggrappò al bordo della trincea. Giunto sulla sommità si graffiò col filo spinato, ma non vi badò: con un calcio rovesciò i sacchi di sabbia addosso ai suoi inseguitori e si lanciò a rotta di collo attraverso la foresta che costeggiava il campo di battaglia.
Come aveva previsto, buona parte dei polacchi lo braccò: sentiva lo scalpiccio dei loro stivali che, come i suoi, sgusciavano e sciaguattavano nel terreno impregnato d’acqua.
“Fermo!” Un fucile sparò come ammonimento, ma Friedrich non si fermò. Curvò bruscamente, zigzagando tra alberi e cespugli, diretto verso la terra di nessuno conquistata dai tedeschi.
La pioggia continuava a scrosciare, avvolgendo la foresta in una cappa umida e opprimente.
Un’altra pallottola agitò le fronde degli alberi sopra di lui, facendogli schizzare addosso goccioline d’acqua e foglie morte, un altro avvertimento riecheggiò invano. La terza pallottola lo indusse ad abbassarsi e si piantò in un tronco a pochi centimetri da lui. Ansante, il capitano si riparò dietro di esso e rispose al fuoco.
Due fanti stramazzarono a terra, una raffica di mitra fendette il velo d’acqua che sgocciolava dai rami. Von Kleist, nonostante i sensi annebbiati, avvertì una sferzata di dolore alla coscia, abbassò lo sguardo e notò che la stoffa dei pantaloni si stava inzuppando di un alone purpureo.
Strinse i denti, appoggiando la schiena al vecchio albero.
Ancora urla in polacco, un altro colpo.
Friedrich esitò: a quel punto i suoi uomini dovevano essere fuori pericolo, e a lui non restava altro che raggiungerli o soccombere nel tentativo di farlo. Non si sarebbe lasciato prendere vivo. Puntò la pistola e sparò un colpo, che la sua presa imprecisa mandò a vuoto.
Soffocando un’imprecazione, si staccò dall’albero e riprese a correre più veloce, sordo al dolore e agli ammonimenti. Corse per un tempo indefinito, fin quando non intravide, tra la nebbia e le cateratte di pioggia, le postazioni tedesche.
Si diede un ultimo slancio, quasi senza toccare terra coi piedi. Sbatté le ciglia imperlate di gocce cercando di scacciare l’oscurità che gli offuscava la vista: i contorni delle cose si fecero sempre più sfumati, indefiniti, il velo d’acqua si confuse con gli alberi e il terreno irto di radici; mise un piede in fallo e finì lungo disteso in una pozza melmosa.
Quando rialzò la testa, ancora frastornato, coi gomiti affondati nel pantano, i polacchi si erano chiusi a cerchio intorno a lui come un branco di lupi. Di fronte a sé, mentre la vista riacquisiva chiarezza, mise a fuoco la canna di una pistola spianata.
D’istinto puntò la propria, come in quei duelli tra cowboy che si vedevano nei film americani, ma esitò prima di premere il grilletto.
“Su le mani, senza fare scherzi,” gli intimò una voce.
Nel volto di chi gli puntava contro quell’arma, riconobbe il tenente con cui si era scontrato qualche settimana prima, in un’altra foresta. I ruoli si erano invertiti: adesso era l’aquila polacca a ghermire quella teutonica. Sembrava passata un’eternità…
Anche l’altro doveva averlo riconosciuto, perché i suoi occhi verdi furono attraversati da un guizzo di sorpresa. “Lei… HerrHauptmann?” azzardò, nel suo tedesco approssimativo.
“Guarda chi si rivede,” replicò von Kleist, in polacco.
“Getti la pistola e si arrenda. Non ho intenzione di farle del male.”
Von Kleist scrollò il capo in segno di diniego, e il braccio armato del tenente tremò mentre lo sguardo saettava dal suo volto alla sua arma, come a volergli chiedere “perché?”.
“Prendetelo,” ordinò infine, abbassando la pistola con esasperante lentezza.
Friedrich strinse la Luger fino a farsi male, ma non ebbe il coraggio di sparare a colui che si era offerto di risparmiarlo. Tutto ciò gli sembrava un’orrenda beffa, ancora più grottesca di quella che lo aveva condotto in quella situazione. Si era chiesto spesso se fosse possibile riconoscere il colpo letale una volta ricevuto, ma non avrebbe mai pensato di finire la guerra in un campo di prigionia. S’impose di arrestare i pensieri e lasciò cadere la pistola nel fango, affondando il volto nell’incavo del braccio.
Era tutto finito, e nel peggiore dei modi.
L’eco di una fucilata squarciò l’aria, l’uomo che lo aveva afferrato ricadde esanime nel fango. Nella radura si scatenò un tafferuglio nel quale il capitano riconobbe le detonazioni dei Mauser, inframezzate dal crepitio di un mitra tedesco, e una voce che dava ordini.
Non ebbe tuttavia la forza di rialzarsi, né di reagire; rimase bocconi lì dov’era, lasciando che la pioggia gli ripulisse il viso. Fu questione di pochi attimi, poi tutto finì con la stessa rapidità con cui era iniziato: una mano gli si poggiò sulla spalla e il sottotenente Kühn lo chiamò a gran voce. “Signor capitano, è ferito?”
Friedrich scosse il capo, senza tuttavia provare alcun sollievo. “Non è niente, sottotenente.” Recuperò la pistola e si risollevò: per terra c’erano soldati di entrambi gli schieramenti, morti o feriti, mentre quelli che restavano dei suoi inseguitori avevano gettato le armi e si erano consegnati. Ciò che più lo colpì, però, fu vedere il tenente polacco riverso per terra con diversi fori di proiettili e un’ampia macchia di sangue sull’uniforme: anche lui era morto.
Quella vista gli provocò una fitta di dispiacere, sulla quale cercò di non indugiare più del dovuto. “Qualcuno si occupi dei feriti e provveda a seppellire i caduti,” ordinò; quindi, rimessosi in piedi, si rivolse al suo subordinato: “Come ha fatto a trovarmi?”
“Un soldato ha detto che la stavano portando via, ho sentito gli spari nella foresta e sono corso a cercarla. Non è stato difficile trovarla: il nostro settore sarà a cento metri da qui.”
“E come procede laggiù?”
“Abbiamo conquistato la postazione, signore,” rispose il ragazzo con orgoglio.
Von Kleist annuì, celando il dolore alla gamba dietro un’espressione tirata. “Venga con me. Mi farà rapporto dell’azione strada facendo.”

La trincea brulicava di fanti tedeschi, che avevano avuto il tempo di rifocillarsi in attesa dei successivi ordini del colonnello. Erich aveva accompagnato il capitano von Kleist al posto di medicazione, aveva provveduto allo smistamento dei prigionieri e, riparato dalla pioggia all’interno di una baracca con un tavolino sbilenco, si era occupato delle solite corrispondenze da Berlino, scrivendo con una mano mentre con l’altra mangiava.
Aveva poi visto il capitano tornare tra i soldati, con passo strascicato ma composto, e un graffio rosseggiante tra la tempia e la guancia. Si era ricomposto, cambiando l’uniforme ormai sbrindellata, ed era rimasto a supervisionare le attività militari.
“Kühn,” si sentì chiamare dall’ingresso. Quando si voltò, gli occhi chiari del capitano lo perforarono come due stiletti, facendolo interiormente trasalire, ma le parole che proferì fugarono ogni preoccupazione: “Ho interrogato i prigionieri, tutto procede secondo i piani. Ha fatto un buon lavoro, sottotenente.”
“La ringrazio, signore.”
Von Kleist annuì, senza lasciar trapelare alcuna emozione. Appoggiò sul tavolo la cartella dei rapporti, pronto a riprendersi la sua postazione di comando, quindi versò del caffè solubile in due tazze e gliene porse una con un gesto meccanico. Erich non gradiva particolarmente quella bevanda annacquata, soprattutto se tiepida, ma si rassegnò comunque ad accettarla, lasciandovi cadere tre zollette di zucchero per camuffare il sapore sgradevole.
Scrutò il capitano da sotto le sopracciglia mentre guardava fuori, appoggiato al fianco del tavolo: il suo contegno si era fatto più grave e nervoso, il suo volto più scavato; perfino i lineamenti si erano induriti.
Sarà per la morte del maggiore…
“Adesso venga con me, Kühn,” lo interruppe il capitano, gettando la tazza di carta ormai vuota nella spazzatura. “Sarà questione di pochi minuti prima che l’assalto ricominci, non vorremmo mica farci trovare qui rintanati come topi?”
“Nossignore!” Sotto lo sguardo attento del suo superiore, Erich si riallacciò l’elmetto e, oltre all’MP38, si procurò alcune granate a manico che infilò nella cintura.
Fuori dal rifugio, la pioggia non dava tregua e le buche nel terreno si erano riempite d’acqua, così profonde che talvolta gli stivali vi affondavano fino alle caviglie.
Come formiche, i soldati si affaccendavano qua e là per prendere posto, i sottufficiali davano e ricevevano ordini, vigilando sulle reclute. Un portaordini li raggiunse correndo: l’assalto stava per ricominciare.

Il sopraggiungere della sera aveva incupito il grigio del cielo, dalle cui cataratte la pioggia continuava a scrosciare inzuppando la terra e le uniformi feldgrau. Ormai non restava che il tiepido lume della torcia sorretta dal capitano, che guizzava tra gli alberi mentre le ombre della foresta si addensavano.
I caduti di quella giornata erano stati seppelliti in un lembo di terra di nessuno tra la trincea e le propaggini del bosco, le croci di legno sovrastate dai loro elmetti. Non avevano neanche cantato, né fatto riecheggiare le salve dei fucili come ultimo saluto.
Giunse fischiando una pallottola; è per me oppure per te?
Friedrich era rimasto in silenzio mentre i soldati scavavano la fossa con le loro vanghe, come in una cerimonia intima a cui avevano preso parte il sottotenente Kühn, Hanke, Krause, il sergente Böhmer e i pochi altri che avevano combattuto più spesso al suo fianco; poi si era attardato lì, incurante della pioggia, a vegliare sulle tombe con le mani affondate nelle tasche del lungo impermeabile nero.
Tra quelle croci, spiccava un elmetto di fattura diversa, sotto di esso una targhetta spoglia recava la scritta “Unbekannter polnischer Oberleutnant. Im Kampf gefallen 22.9.1939”: era il tenente polacco, del quale non aveva mai conosciuto il nome.

Tornò al rifugio solo a tarda ora, infreddolito e zuppo di pioggia, quando le sentinelle montavano la guardia notturna. Si liberò dell’uniforme bagnata, calciò via gli stivali e, alla luce della candela, con calligrafia imprecisa, scarabocchiò questi appunti sul retro di un foglio:

Tra le cicatrici della terra di nessuno,
Le tombe anonime di chi non tornerà più a casa.
Stanotte, soldato solitario, veglio sotto la pioggia
In ricordo di chi, senza sepolcro né croce,
Giace disperso in campi sconosciuti.
L’unica lapide a commemorarlo è il mio cuore,
Pietra bianca e fredda che vi porta scolpito il suo nome.

Sfiderò la furia della tempesta
armato di una pistola e della mia sola volontà.
Colpa, castigo ed espiazione, in un cerchio che si chiude.
Chi cade con coraggio è anch’esso vincitore.”

Gli uomini delle Waffen-SS avanzarono con cautela, preceduti da un corteo di Panzer che rombavano per le vie lasciate deserte dopo la ritirata polacca. Lì, i segni della battaglia erano più evidenti: intere porzioni di selciato erano completamente saltate e il sangue dei cadaveri, che dovevano aver combattuto fino all’ultimo, bagnava le pietre.
Un soldato fece una smorfia e distolse lo sguardo alla vista dei brandelli irriconoscibili di carne e stoffa insanguinata ammucchiati in un angolo della strada: l’unica cosa che si poteva vagamente distinguere era il colore delle uniformi polacche. Un vecchio caporale gli poggiò una mano sulla spalla con aria paterna. “Ho visto di peggio a Verdun, ragazzo mio, credimi. Quelle sono esperienze che ti cambiano per sempre… me lo ricordo come se fosse ieri.”
“Smettetela di fare i rammolliti, che di scemi di guerra ce ne sono già troppi,” si intromise un terzo con aria sprezzante. “Piuttosto, ringraziate di non essere al loro posto.”
Il capitano Greifenberg, infastidito da quel diverbio, impose ai suoi uomini il silenzio. Il suo orecchio attento colse un lontano frastuono di battaglia, che suggeriva una grande mobilitazione di forze: le truppe polacche si erano ricompattate e attendevano il momento propizio per sferrare il contrattacco. Ordinò ai Panzer di mettersi in formazione e rimase a guardare mentre i veicoli si sistemavano a guardia delle vie, poi divise la fanteria in gruppi, inviandone alcuni in copertura dietro i carri armati e altri a ispezionare i palazzi, per occupare le postazioni strategiche alle finestre; infine, prese con sé i suoi uomini più fidati e si appostò all’imboccatura della strada.
Vicino a loro c’era una torre medievale che segnava l’ingresso al centro città, fiancheggiata da una cerchia di mura franate. Al lato della strada, i resti di un’elegante caffetteria che non era stata risparmiata dall’avidità degli sciacalli.
Reinhardt sollevò il binocolo e, nella caligine umida e pesante che si annidava tra i vicoli, intravide alcune barcollanti figure umane che approntavano le barricate. Riconobbe subito la fattura degli elmetti e le canne dei fucili che si sistemavano in posizione di tiro. Erano malconci ed emaciati, ma le espressioni dei loro volti apparivano risolute.
L’artiglieria iniziò a martellare le postazioni tedesche senza farsi annunciare: con un rombo cupo, un obice colpì la facciata di un palazzo, già scalfita da precedenti bombardamenti, e vi aprì una profonda voragine da cui sprizzarono frammenti di mattoni e vetri rotti. I soldati si appiattirono in copertura, il capitano ordinò di aprire il fuoco. “Panzer avanti!”
La strada tremava sotto l’impeto dei grossi calibri, scavandovi crepe che i cingoli dei blindati scavalcavano sferragliando. Proiettili di mitragliatrice piovevano dalle finestre più alte e rimbalzavano contro le loro corazze, per poi rotolare tintinnando sul pavimento.
Tra i soldati dei due schieramenti iniziò un botta e risposta a suon di spari: quel pandemonio di scoppi, tonfi, boati e crepitii era l’unico linguaggio udibile.
Un altro obice si schiantò a poca distanza dalla postazione di Reinhardt, che afferrò Lange per la giubba della divisa e lo trascinò via prima che le schegge di metallo si mischiassero ai pezzi di cemento e pavimentazione. Tossirono, avvolti dal fumo, e Keller, che era finito a faccia in giù, allungò le mani alla cieca per recuperare il berretto che gli era caduto.
“Ragazzi, tutto bene?” gridò il capitano, rialzandosi con cautela.
Richter emise un grugnito. “Con tutto il rispetto, mi sa che andava meglio prima, signore.” Più che distinguere le parole con l’orecchio, gliele lesse sulle labbra. Aveva una ferita alla fronte che gli imbrattava il volto di sangue e, come notò l’ufficiale, una strana rigidità al braccio quando cercò di piegarlo per sistemare la cinghia del fucile.
“Vai al posto di medicazione, ti copriamo noi,” gli suggerì.
Il marconista scosse la testa con vigore, una scintilla risoluta nello sguardo. “Chiedo di poter restare, signor capitano. Potrei comunque rendermi utile in qualche modo…”
Greifenberg rifletté per un istante. “Sì, mi serve qualcuno che si occupi delle comunicazioni e vada a informare il maggiore Wittmann della situazione qui presente. Ce la fai?”
“Certo, signore.”
Con una punta di malinconia, Reinhardt guardò il secondo membro del suo equipaggio che lasciava la squadra: condividere con loro quello spazio angusto all’interno del Panzer li aveva portati a legare in un modo inesprimibile a parole, rafforzati dalla consapevolezza di poter contare l’uno sull’altro. “Voialtri, venite con me,” disse poi, imbracciando l’MP38.
Li guidò con cautela attraverso il reticolato di vie, mantenendosi rasente al muro, poi si appostò all’angolo di una strada. Le belve d’acciaio continuavano ad avanzare imperterrite tra le tempeste di pallottole, abbattendo le barricate; una calpestò una mina anticarro ed esplose, emanando un tanfo di ferraglia carbonizzata mentre i serventi feriti trascinavano fuori un comandante esanime. La carcassa servì da rifugio ad altri fanti.
Con la coda dell’occhio, Reinhardt vide il caporale che si era lamentato degli scemi di guerra cadere all’indietro colpito alla gola da una pallottola, e quello che aveva parlato di Verdun lanciare una granata contro le barricate nemiche, che crollarono con un tramestio assordante.
Fu il primo a lanciarsi all’attacco; i suoi compagni lo seguirono compatti tra i detriti disseminati sul marciapiede.
Minacciati su tre lati, i polacchi perdevano terreno ma non la determinazione. Anziché arretrare, divennero essi stessi la muraglia che doveva bloccare l’avanzata.
Si avventarono su di loro con l’impeto di fiere braccate, e quando finivano le cartucce usavano i fucili per colpire e le baionette per ferire. Reinhardt si riparò dietro una barriera di sacchi sventrati e sparò una raffica per tenerli lontani, i suoi compagni più fidati che gli coprivano le spalle. Sulle prime, essi si ritrassero come un’onda di risacca, ma poi andarono loro incontro, a testa bassa, scavalcando i compagni caduti e lasciando indietro quelli che ancora cadevano. Lo scontro si frammentò in fretta in tanti piccoli gruppi, separati dalla nebbia rovente degli spari, ma il capitano rimase il loro punto di riferimento. Tutto intorno, colpiti dall’artiglieria, i palazzi prendevano fuoco e collassavano come se fossero fatti di carta; il fumo nero oscurava il cielo e la vista del sole.
Non c’era via d’uscita, si poteva solo andare avanti. Reinhardt rammentò il giuramento di fedeltà fino alla morte che tutti loro avevano fatto, e guidò i suoi uomini attraverso la mischia.

Sotto la tela bigia del cielo, screziata da pennellate di luce livida tra le nuvole che intrappolavano il sole, la periferia di Grabnik sembrava un luogo abitato da fantasmi. Si nascondevano tra le rovine dei palazzi, dietro alle carcasse dei mezzi blindati e ai crocicchi, mescolandosi alle poche mitragliatrici silenziose che ancora vegliavano alle finestre. Di tanto in tanto innalzavano singhiozzi e lamenti che di umano sembravano avere poco, ma erano invero gli ultimi residui di umanità in quel cumulo di ruderi inanimati.
Perfino il sommesso rumore degli stivali dei fanti che calpestavano le pozzanghere rimbombava nel vuoto. Niente e nessuno reagì al loro passaggio; attraversare quelle vie dava l’impressione di introdursi in una bolla isolata dallo spazio, ignara dello scorrere del tempo.
“C’è nessuno?” motteggiò il tenente Koch, in tono spento.
Il capitano Bentheim rimase vigile, aspettandosi che qualche cecchino sparasse dall’alto, ma tutto tacque. Qualche istante dopo, una mano riemerse da un mucchio di macerie e una voce mormorò, in tedesco: “Qui.” Per quanto flebile, il silenzio la amplificò.
Konrad rivolse un’occhiata interrogativa a Friedrich, entrambi impugnarono la pistola e si avvicinarono cauti. Il ferito, un uomo sulla trentina, era rimasto intrappolato sotto una trave di legno che gli era crollata addosso. Come constatò dalle mostrine sul colletto e dal nastro nero che portava cucito sulla manica, era un caporale della Leibstandarte.
“Caporale, era con la compagnia di Greifenberg?” gli chiese Bentheim, dopo che i suoi uomini lo ebbero aiutato a liberarsi. Friedrich gli porse la sua borraccia.
Il graduato si sedette sulla trave, stendendo la gamba dolorante, e si bagnò il volto sporco di polvere. “Faccio parte del plotone del tenente von Tannenberg, e so che il capitano era molto più avanti rispetto a noi,” rispose. “Ma non so cosa sia successo dopo. Devo essere svenuto, gli altri non si sono accorti di me e hanno proseguito. È stata una battaglia parecchio cruenta.”
Konrad annuì: dato che non c’erano né polacchi né tedeschi in giro, ne dedusse che l’operazione doveva essersi conclusa con successo prima del tempo, mentre loro erano ancora impegnati nelle trincee. Probabilmente le Waffen-SS si erano già acquartierate nel centro del paese e avevano approntato un’altra linea difensiva, per prepararsi a eventuali contrattacchi che sarebbero potuti sopraggiungere con l’imbrunire. “Ci sa dire in che direzione sono andati?”
“L’ultima volta che li ho visti, signor capitano, erano diretti laggiù.” L’uomo indicò una stradina ostruita dal relitto di un Panzer, poi i soldati della sanità lo aiutarono a rialzarsi e lo caricarono su una barella per condurlo nelle retrovie.
Konrad si accostò al suo parigrado, che si era incupito e stava fissando i resti di una torre medievale. “Quest’aria non mi piace…” lo sentì borbottare.
“Hai visto qualcosa, Friedrich?”
“No, no, è solo…” Scosse la testa, troncando il discorso. “Non lo so, forse sono soltanto diventato troppo suggestionabile. Andiamo?”
Procedettero nella direzione indicata dal caporale, le ombre che si allungavano dietro di loro fondendosi col buio della sera, fino ad arrivare in uno spiazzo in cui trovarono cadaveri di soldati tedeschi e polacchi riversi al suolo, quasi avvinti nell’impeto del corpo a corpo, pietre macchiate di sangue, lampioni divelti, resti di equipaggiamenti, elmetti sfondati con le rune della vittoria dipinte su un lato. I segni della battaglia erano recenti e s’iniziava a sentire più forte il ruggito dei Panzer che manovravano, seguito da un viavai di persone che venivano nella loro direzione.
Quando riconobbe gli uomini della Leibstandarte, Konrad andò loro incontro e Werner von Tannenberg si staccò dal gruppo: era ancora sporco di olio e indossava la divisa da carrista, con le cuffie intorno al collo.
Si salutarono con una scioltezza che trapelava sotto il contegno formale, ma il volto dell’Obersturmführer era cupo. Si tolse la bustina e si passò una mano tra i capelli, esitando sotto il suo sguardo prima di iniziare a spiegare: “Nel pomeriggio siamo stati accerchiati, e resistere al contrattacco ci è costato caro in termini di mezzi e di vite.” Con un cenno alluse ai caduti, che venivano ricomposti e coperti con dei teli; un Panzer giaceva incagliato tra le macerie come un giocattolo rotto. “Anche Reinhardt, è rimasto ferito.”
Le fragili pareti della bolla si sgretolarono come colpite da un proiettile, e nella testa del capitano iniziarono a delinearsi scenari nei quali l’ardore e l’ebbrezza del combattimento non lasciavano spazio a compromessi. “E dov’è lui?” chiese, cercando di mantenere un tono neutro.
Werner chinò la testa. “Non ne ho idea, noi siamo appena arrivati.” Indicò un vicolo stretto, vicino a una facciata in rovina, dove i resti di una barricata erano sormontati da una mitragliatrice. “Provate laggiù. Vado a chiamare i portaferiti, poi vi raggiungo.”
Konrad si avviò e Friedrich lo seguì senza dire una parola, mantenendosi tuttavia a qualche passo di distanza. Cadaveri scomposti erano ammucchiati al di là della barriera, nelle posizioni in cui si erano colpiti a vicenda con le armi bianche. Gli si gelarono le vene quando, tra essi, vide un ufficiale biondo con l’uniforme bucata e inzuppata di sangue; impossibile capire se fosse suo o dei nemici. Accortosi della sua presenza, l’altro cercò di rialzarsi. “Konrad.”
Egli scavalcò la barriera e si inginocchiò, passandogli un braccio dietro le spalle per sostenerlo. “Tieni duro, sono qui.” Con una carezza gli scostò i capelli madidi dalla fronte: non lo aveva mai visto così pallido e privo di forze; i suoi occhi color cielo sembravano aver perso il loro caratteristico lume.
“Ce l’abbiamo fatta,” disse Reinhardt in un sussurro. Sorrise debolmente mentre pronunciava quelle parole, ma ogni respiro pareva squarciargli il petto. “Avrei voluto tanto… poter proseguire insieme a voi… fino a Varsavia.”
Konrad tacque, consapevole che la sua speranza era incerta quanto la mano che si aggrappava alla sua divisa. Lo tenne stretto a sé e non lo lasciò neanche quando sentì la sua presa affievolirsi.
Friedrich gli toccò la spalla e la strinse appena, come per offrirgli del muto conforto. Gli fu grato del fatto che non si perdesse in retorica o vane consolazioni: un amico sapeva anche quando tacere, e Friedrich non diceva mai parole fuori luogo.
Quando i portaferiti arrivarono, era ormai troppo tardi.

Konrad era seduto su una cassa rovesciata, coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e lo sguardo perso nel vuoto. Contro l’orbita vuota della finestra, vedeva l’ombra di Friedrich che camminava irrequieta avanti e indietro, intervallando il ticchettio dell’orologio con lo scalpiccio dei suoi passi.
Le voci dei soldati, attutite dalla parete, apparivano più spente, ma là fuori l’orizzonte rombava e si accendeva di bagliori sinistri come ogni notte.
Era la prima veglia senza di lui, che ogni sera intratteneva i suoi uomini bevendo e cantando canzoni insieme a loro. I soldati avevano marciato con passo fiacco e cantato Ich hatt’ einen Kameraden, mentre Konrad e Friedrich, alla testa della schiera, erano rimasti in silenzio. Quella battaglia aveva privato gli uomini di un valido comandante, una guida di cui tutti avevano rispetto e stima, ma a lui aveva tolto molto di più.
Faticava ancora a capacitarsi di quello che era successo, come se la sua parte razionale fosse incapace di accettarlo; era sicuro però che gli avrebbe lasciato un segno indelebile.
Non osò indugiare più del dovuto su quel pensiero, né sulle valanghe di ricordi che lo assalivano ogni volta che distoglieva la mente dalla realtà contingente. Lo rivedeva combattere, svelto e pericoloso come una tigre, oppure lanciarsi per le discese impervie con la sua moto; talvolta gli pareva perfino di udire ancora la sua risata, mentre i suoi occhi riflettevano il chiarore del cielo.
Friedrich, che aveva sicuramente intuito il suo stato d’animo, rispettava il suo silenzio.
“Il mio onore si chiama fedeltà…” ripeté, leggendo assorto le parole incise su una spilla che teneva tra le mani. Richiuse le dita e la strinse nel palmo. “Era il suo giuramento e l’ha rispettato fino alla fine. Non vedrà Varsavia… né tornerà a Berlino.”
Avrebbe potuto recitare decine di passi e aforismi sull’amor di Patria e sul sacrificio eroico, ma non sarebbe mai riuscito a esprimere a parole ciò che provava – e forse, in situazioni simili, era meglio tacere. Non era pronto a perderlo, non così all’improvviso. Una parte di lui continuava a immaginare di vederlo varcare la porta: si sarebbe messo a ridere e avrebbe offerto una birra a lui e a Friedrich, animando la conversazione. Ma Konrad sapeva che non sarebbe tornato, né lo avrebbe fatto il suo spirito incrollabile che non si perdeva mai d’animo.
“Conviviamo quotidianamente col pensiero della morte, ma non si è mai pronti ad affrontarla quando questa tocca qualcuno a noi vicino,” mormorò Friedrich.
Konrad esalò un sospiro. “Reinhardt aveva un fratello più giovane, lo sai?”
“Sì, me ne aveva parlato. Tu lo conoscevi?”
“Di persona no, ma lui ne parlava così spesso che mi sembrava quasi di conoscerlo. Aveva deciso di unirsi alla Leibstandarte per combattere al suo fianco, frequentava una scuola di cadetti. Quando erano entrambi in licenza, Reinhardt lo portava sempre a sparare nei boschi… voleva occuparsi personalmente dell’addestramento di quel ragazzo.”
Konrad tacque di nuovo e gettò un pezzo di legno nella stufa, dove serpenti di fuoco si contorcevano e crepitavano. Quante volte si era seduto sul divano di fronte al camino insieme a lui, quando si ritiravano nella grande sala della tenuta dopo aver raccolto la legna? Quante volte, dopo le battaglie, avevano fatto programmi per l’inverno?
Allontanò con fatica quel pensiero, quindi si alzò e si avvicinò alla finestra: aveva ricominciato a piovere a dirotto, e alcune gocce s’infiltravano all’interno passando attraverso le fessure del tetto. “O nehmt mich, nehmt mich mit in die Reihen auf, damit ich einst nicht sterbe gemeinen Tods!” 1 proclamò, con voce assorta. “Non era così che ci hanno insegnato a scuola?”
“Chi è, Hölderlin?”
Egli annuì. “Und Siegesboten kommen herab: Die Schlacht ist unser! Lebe droben, o Vaterland, und zähle nicht die Toten! Dir ist, Liebes! Nicht einer zu viel gefallen.” 2
Friedrich rimase per un po’ in silenzio, fissando le fiamme che distorcevano i suoi lineamenti stanchi. “Se anche dovessimo vincere… la vittoria avrà tutto un altro sapore.”
Konrad si voltò verso le rovine frustate dalla pioggia, che alla luce della luna sembravano ricoperte di pece liquida. “Dobbiamo combattere, Friedrich. Non ci resta altro.”


  1. “Prendetemi, prendetemi nelle vostre schiere, affinché io non debba morire una morte indegna!”↩︎

  2. “Arrivano i messaggeri della vittoria: la battaglia è nostra! Vivi, mia cara Patria, e non contare i caduti! Nessuno di loro è morto invano.”↩︎

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Capitolo 27
*** Capitolo XXIII ~ Der dem Tod ins Angesicht schauen kann, der Soldat allein ist der freie Mann ***



XXIII.
Der dem Tod ins Angesicht schauen kann, der Soldat allein ist der freie Mann


L’aria era irrespirabile; pennacchi di fumo alti come torri precludevano la vista della linea nemica e s’insinuavano nei polmoni, procurando colpi di tosse che raschiavano la gola. Ferito al fianco da una scheggia, il maggiore avanzò barcollando in quella nebbia, mentre le mitragliatrici spazzavano i sacchi di sabbia e urla lancinanti facevano rassomigliare quella fossa a una bolgia infernale.
Raggiunse subito la figura familiare del capitano a una delle postazioni di tiro, e rimase per qualche istante insieme a lui dopo avergli trasmesso i propri ordini. Le tempeste di proiettili ripresero con rinnovata violenza, sibili e fischi precedettero la caduta di bombe e granate.
I due ufficiali si appiattirono contro le protezioni, sparando in sincronia contro le sagome nere che si avvicinavano, partorite dalla trincea come demoni da un abisso. Un polacco volse il fucile verso di lui; il maggiore riconobbe il volto stralunato del suo carceriere.
Il capitano gli si parò davanti con un balzo e sparò, ma il colpo partì prima ancora che il suo proiettile potesse abbattere il tiratore. Sussultò sotto l’impeto della pallottola, lasciò ricadere la sua arma e si accasciò privo di forze contro il ridotto, con una ferita al petto.
“Non era questo il piano.” Il maggiore crollò in ginocchio nel fango, incurante degli spari che fischiavano intorno a loro, e lo raccolse tra le braccia. “Perché l’hai fatto?”
“Il piano è saltato, non potevo aspettare,” mormorò. “Ho fatto solo il mio dovere, come ti avevo detto.”
“È sempre il tuo imperativo categorico?”
Dalle labbra insanguinate del capitano uscì una frase che suonava come un “mi dispiace, Hans, questa è una cosa che riguarda solo me”; poi il capo stremato ricadde sulla sua spalla, mentre la vita lo abbandonava in fiotti purpurei che gli macchiavano l’uniforme.
Le fiamme si alzarono fino a incendiare anche le nuvole, consumando gli alberi e le macerie del villaggio, e tutto il resto intorno a loro scomparve. Con un sospiro affranto, il maggiore levò lo sguardo verso il cielo color cinabro e rimase immobile, tra le braccia il corpo esanime del compagno come una specie di Pietà.

Una fitta di dolore, precisa come una pugnalata tra le costole, lo trapassò da parte a parte. Attraverso la vista annebbiata colse un basso soffitto in pietra, rischiarato da lumi asettici, e al suo orecchio giunsero i gemiti e i lamenti dei feriti ammassati sui lettini contro la parete. Nell’ambiente ristagnava l’odore di corpi sofferenti misto a quello della liscivia.
Quell’insieme di stimoli sensoriali lo sopraffece, come un supplizio che gli fece serrare le palpebre desiderando l’oblio: il dolore sovrastava ogni altra sensazione, come se il letto e le coperte fossero fatti di un filo spinato che a ogni minimo movimento si conficcava più a fondo nella sua carne.
Non sapeva da quanto tempo fosse in quello stato, né perché si trovasse lì. Provò a parlare, ma dalla sua bocca uscì soltanto un verso roco che si spense subito.
Un’altra stilettata di dolore, e la coscienza riprese a riaffiorare come dal fondo di uno stagno torbido, insieme ai primi frammenti di ricordi che si confondevano l’uno nell’altro: un androne in penombra, saturo del fumo degli spari, una pallottola che gli trapassava le costole. Due occhi celesti in un viso sconvolto che lo fissavano, cercando di tamponare l’emorragia mentre tutto si faceva indistinto, remoto, come una caligine insidiosa, e le sue membra assumevano la consistenza del piombo… poi, il buio.
Forse, mentre era incosciente, quegli occhi avevano continuato a fissarlo, ma il suo stordimento era tale che non ricordava neanche dei suoi sprazzi di lucidità, se mai vi fossero stati. Sapeva solo che lo avevano trasportato d’urgenza in un logoro ospedale da campo, dove lo avevano imbottito di morfina nonostante le sue proteste, e tra il sonno e il delirio gli era parso di continuare a vederli.
E adesso dove si trovava? Quanto tempo era passato? E lui, il capitano, dov’era?
Avrebbero dovuto unire le loro forze, ma quella maledetta pallottola, di cui continuava ad avvertire il morso nella carne come se vi fosse ancora conficcata, aveva completamente stravolto i suoi piani.
Spossato, chiuse gli occhi e sprofondò di nuovo nel deliquio.

Cumuli di nubi basse e gonfie di pioggia preannunciavano un volo di breve durata. Le ali dei Messerschmitt fendevano quella barriera come se fosse un portale verso un’altra dimensione, quella in cui regnava l’inferno di fuoco e fiamme che dilaniava i dintorni di Varsavia. Tutt’intorno, i campi erano una grottesca distesa di terra nuda, arata dai proiettili, tappezzata di zone ancora verdi che spiccavano come toppe sulle ferite del paesaggio.
“Obiettivo individuato,” giunse asciutto il comando attraverso la radio. Colonne di camion rifornimenti continuavano ad affluire alla città, nel disperato tentativo di offrire soccorso agli ultimi nuclei che ancora resistevano.
Manfred von Kleist manovrò e ridusse la velocità, scendendo di quota per raggiungere l’obiettivo, a un’altitudine irrisoria e pericolosa per un aereo da caccia. Volando così basso, con la coda dell’occhio riusciva a scorgere i cumuli di macerie da cui spuntavano travi e tegole, interi quartieri rasi al suolo in cui i civili si muovevano furtivi come topi.
Una volta allineatosi con la colonna di mezzi, sparò, cabrò e si allontanò per riguadagnare altitudine. Uno dei camion colpiti si rovesciò come un giocattolo e gli altri accelerarono e sbandarono, tamponandosi a vicenda per sfuggire alle raffiche piovute dall’alto.
Gli altri caccia fecero altrettanto, uno dopo l’altro, e in breve del convoglio non restò che una fila di ferraglie ammaccate che eruttavano fumo. Manfred esalò un sospiro: le missioni di attacco al suolo rientravano in quel tipo di lavoro sporco necessario ma per nulla gradito.
“Si torna alla base,” comunicò, senza entusiasmo.
Con la stessa sincronia della picchiata, i Messerschmitt ripresero il volo lungo la via del ritorno. Passarono un paio di minuti, poi la voce del sottotenente Weber si sovrappose alla vibrazione dell’aereo. “Ho visto delle artiglierie là sul crinale, stanno picchiando sulle postazioni dei nostri fanti.”
A von Kleist venne in mente suo fratello Friedrich, del quale non aveva notizie da giorni: non gli era sfuggita l’aura di ineluttabilità che lo tormentava, come se presagisse qualcosa di infausto. Da quel che ne sapeva, il suo battaglione poteva già trovarsi nei paraggi, e un po’ di supporto aereo alle truppe di terra avrebbe senz’altro alleggerito il loro lavoro. “Franz, andiamo a vedere. Gli altri proseguano, noi vi raggiungiamo tra poco.”
Virò invertendo la rotta, seguito dal gregario. L’orizzonte si andava colorando di una luminosità fosforescente, e le nuvole sempre più dense lasciavano piccole goccioline di umidità sui finestrini e sulle ali dei caccia. Dalla sommità di una collinetta, grossi pezzi d’artiglieria rigurgitavano proiettili che spaccavano la piana sottostante, sollevando geyser di terra e alberi divelti. Vista dall’alto, quella devastazione era uno spettacolo che lasciava al tempo stesso attoniti e sconvolti.
Von Kleist fu il primo a eseguire la manovra: individuò un cannone e gli puntò contro le mitragliatrici per farlo tacere; Weber lo imitò subito dopo. Cabravano per sottrarsi al tiro, risalivano, poi tornavano indietro e scendevano di nuovo in picchiata sull’obiettivo, neutralizzandolo prima che riuscisse a sparare.
Uno di essi puntò Manfred, che dovette derapare per evitare un tiro alto; il proiettile rimbalzò sulla sua ala ma senza scalfirla.
“Ho finito le munizioni!” comunicò Franz attraverso la radio.
Von Kleist controllò il contatore: un’altra raffica e anche il suo nastro si sarebbe svuotato. C’erano ancora due pezzi da campagna ancora attivi, ma la pioggia s’infittiva, riducendo la visibilità e le condizioni di volo. “Anch’io… quasi.”
“Torniamo indietro, altrimenti ci sfracelliamo da qualche parte con tutto l’aereo,” constatò Franz. Seguito da Manfred, che aveva acconsentito tacitamente, risalì di quota e riportò l’aeroplano alla velocità di crociera. “Mi sa che il Vecchio avrà da ridire per questa nostra sortita.”
“Come sempre.” La pioggia batteva incessante sul vetro della capottina, e l’unico rumore che Manfred riusciva a sentire era un ronzio indistinto in cui lo scroscio dell’acqua si mescolava al ronzio del motore. Un fulmine spaccò in due il cielo come un colpo d’ascia. “Andiamo, vecchio mio,” sussurrò, rivolto all’aereo che s’inclinava leggermente tra correnti opposte. “Tieni duro e tra poco saremo di nuovo alla base.”

La pista di decollo era diventata una palude intrisa di fango molle, dove la luce della luna disegnava linee irregolari sui solchi lasciati dalle ruote degli aerei.
Nonostante la brezza autunnale che increspava il telo della tenda e scuoteva le cime degli alberi intorno all’accampamento, Manfred von Kleist rimase a fissare quel paesaggio spettrale. Quando rientrò, Franz era disteso sulla branda a leggere con interesse un manuale che pesava almeno due chili. Si affacciò per sbirciarlo: era il suo solito tomo di entomologia, con tanto di illustrazioni di formiche, scarafaggi e altri insetti colorati dalle forme strane.
“Sono riuscito a suscitarti un po’ di curiosità?”
“In realtà non mi piacciono gli insetti, preferisco gli uccelli. Le aquile, ad esempio: maestose, fiere, ma anche letali. Non hanno paura di niente e sfidano le vette fino ad arrivare ad altezze impensabili, un po’ come noi… oppure i rettili: da piccolo mi piaceva catturare le lucertole in giardino, pensavo che sarebbero cresciute fino a diventare draghi. Mi sarebbe tanto piaciuto cavalcare un drago.”
“E di queste che ne pensi?” Franz gli mostrò due pagine occupate da illustrazioni di farfalle, riprodotte nei minimi dettagli: avevano macchie variopinte sulle ali che sembravano intagliate nella carta, come preziose e delicate decorazioni. Più avanti, c’erano falene ricoperte di soffice pelo, con grandi occhi e antenne come pettini a forma di foglia.
“Queste sono belle, soprattutto questa. Sembra che abbia degli occhi dipinti sulle ali.”
“È una bellezza che dura poco e appassisce in fretta. Sai che alcune falene hanno un’apertura alare grossa quanto questo libro? Alcune arrivano a…”
Manfred continuò a sfogliare con aria distratta, fino ad arrivare a un insetto il cui muso sembrava sbozzato nel legno da un artista maldestro. Lo indicò e si mise a ridere, interrompendo la disquisizione dell’amico. “Questo sembra il colonnello von dem Bach-Zelewski quando deve lamentarsi con qualcuno!”
Weber gli tolse il libro. “Questo è un…”
“Insectus zelewski,” lo interruppe Manfred, con enfasi. “Guarda, è identico a lui!”
“Almeno il colonnello non uccide i suoi simili per poi mangiarseli,” obiettò Franz. “Il massimo che può fare è lamentarsi del tempo o di qualche aviere coi capelli in disordine.”
Von Kleist si lasciò ricadere sulla sua branda, ravviandosi le ciocche bionde. “L’ha fatto anche stasera.”
“Per cosa?”
“Ero appena atterrato, coi capelli ancora sudati e schiacciati dalla cuffia, e mi ha ripreso con la scusa della scriminatura. Ma il vero motivo era la missione di oggi.”
“Per la pioggia o per la deviazione inaspettata?” chiese Franz.
“Per entrambe, ovviamente.” Manfred roteò gli occhi con aria teatrale. “Secondo te?”
“Era prevedibile. Di sicuro non ha mai fatto voli di guerra prima d’ora.”
“No? E la croce di ferro di prima classe datata 1914?”
“Secondo me lo mandavano a fare voli di ricognizione sopra le trincee, anche se ha sempre desiderato pilotare aeroplani da caccia,” sentenziò Weber. “Ecco perché bada più alle piccolezze che alle opportunità militari… è fastidioso ma innocuo, come una mosca.”
Manfred annuì. “Sembra uno di quei burocrati con la faccia più incartapecorita della mummia di Tutankhamon. Ma se c’è da ripulire il terreno tanto meglio farlo per bene, no? Le missioni di attacco al suolo sono di una monotonia inaudita: una bella scossa ogni tanto è necessaria, altrimenti diventiamo tutti grigi e noiosi come lui.”
E poi, la fanteria ha bisogno di noi, pensò.
“Se ci dovesse capitare di rifarlo, la prossima volta ci conviene mantenere un basso profilo,” suggerì Franz. “Se ci comportiamo in maniera discreta, non si accorgerà di niente.”
Von Kleist calciò via gli stivali e piegò le braccia dietro la testa. “Com’è che si chiamava il tuo insetto? D’ora in poi sarà la nostra parola d’ordine. Toccata e fuga.”
Faticava ad ammetterlo, ma la verità era che era ancora preoccupato per suo fratello. Era sicuro che gli nascondesse qualcosa, anche se non sapeva ancora cosa.

Nell’edificio signorile semidiroccato, adibito a base per il comando di battaglione, c’erano libri antichi, un pianoforte a coda e liquori pregiati conservati in un mobiletto chiuso a chiave. Fotografie ingiallite dietro cornici polverose lo osservavano con le loro espressioni compassate, come per farsi beffe di lui. Terminato il rapporto per il colonnello, il capitano von Kleist scostò la sedia dalla scrivania facendola cigolare. Sulle prime, si mise a girare oziosamente un vecchio mappamondo, su cui apparivano ancora le terre dell’Impero Tedesco prima della disfatta, poi si avvicinò alla libreria e scorse i titoli con totale disinteresse per il loro contenuto: erano tutti trattati medici.
Con un sospiro, tirò di nuovo fuori dal bagaglio la vecchia copia di Nelle tempeste d’acciaio, che negli ultimi giorni aveva avuto poco tempo per continuare a leggere.
“Prima di separarci, voglio lasciarti questo,” gli aveva detto Hans, una volta scesi dal treno. “Però promettimi di trattarlo bene: l’ho comprato tanti anni fa a un mercatino e ci sono parecchio affezionato.”
Friedrich lo aveva guardato. “Il tuo libro preferito? Perché?”
“Sono sicuro che saprà farti lo stesso effetto che ha fatto a me, soprattutto se lo leggerai prima di andare in battaglia.”
Qualcuno bussò alla porta e il capitano sobbalzò; il libro gli cadde quasi dalle mani. Nella stanza, senza farsi annunciare, entrò Konrad, ancora armato come di ritorno dalla battaglia. “Ci siamo assicurati il controllo di tutta la zona, distruggendo anche un paio di nidi di mitragliatrici parecchio insidiosi. La resistenza nemica ha i giorni contati.”
A Friedrich non sfuggì la durezza nella sua voce; la pacata razionalità che lo caratterizzava era turbata dalla scintilla di un impeto silenzioso ma implacabile. “Anche a noi è andata bene: i polacchi hanno lasciato indietro le loro armi e parecchi prigionieri che si sono arresi subito, tra cui un ufficiale.”
L’altro si sedette, si slacciò l’elmetto e lo buttò per terra. “Come va la gamba?”
“Finché sto fermo non sento niente.”
La voce era distorta dalla sfumatura tipica delle bugie pronunciate di malavoglia: in realtà gli sembrava di avere un chiodo piantato nella ferita, ma dissimulava per non farsi spedire nelle retrovie, ad attendere un processo per insubordinazione mentre languiva in un letto.
Konrad, tuttavia, non vi prestò attenzione; forse era troppo stanco, o forse, semplicemente, non aveva voglia di parlare. Anche quando gli attendenti vennero a portare loro la cena, che consumarono sgomberando la scrivania dalle carte mentre il resto del battaglione si spartiva le altre stanze, si limitò a riferirgli nei minimi particolari gli assalti che aveva comandato attraverso le strade nel corso della giornata.
“Secondo me dobbiamo aspettarci un contrattacco in nottata,” disse Friedrich.
“Vorrà dire che ci faremo trovare pronti,” rispose l’altro, laconico.
Per l’occasione, scassinarono la vetrina per distribuire le bottiglie di liquore alla truppa e si unirono a loro in quella lunga veglia: von Kleist seduto su una poltrona, a leggere ad alta voce dell’ultimo assalto di Jünger sul fronte occidentale, e Bentheim ad ascoltarlo.
I soldati riposavano vestiti, abbracciati ai fucili, quelli ancora svegli si passavano da bere raccontandosi facezie come se l’alcol li avesse ritemprati dalla fatica. Tra i volti stanchi e segnati dalla battaglia, alcuni testimoniavano la sofferenza silenziosa di chi era rimasto ferito ma non poteva raggiungere il posto di medicazione.
Fuori, l’artiglieria nemica asserragliata nel centro città ricominciò a picchiare le prime linee, facendoli ripiombare in uno stato di costante allerta. Subito i due ufficiali fecero sistemare gli uomini alle postazioni di tiro; Konrad si mise al comando del drappello e Friedrich, raccolto un fucile e qualche bomba a mano, andò a sistemarsi vicino alla mitragliatrice di Hanke. Entrambi dovevano alzare la voce per sovrastare i tonfi dei proiettili, che s’infrangevano nei pressi della villa facendola tremare come scossa da un terremoto.
Fischi, sibili e scoppi si alternavano in rapida successione; i soldati incassavano la testa tra le spalle o bestemmiavano tra i denti quando i tonfi abbattevano qualche costruzione vicina. Nei loro volti, nell’atmosfera elettrica che li pervadeva, von Kleist percepiva quella strana sensazione, sospesa tra la paura e la trepidazione, che precedeva ogni scontro armato. Presto, entrambe si sarebbero dissolte nell’esaltazione marziale, in quel furore cieco che rendeva i combattenti creature di puro istinto mentre intorno a loro crepitavano gli spari. Le ricordava chiaramente dalle precedenti battaglie, avendole provate egli stesso, tuttavia vi partecipava solo dall’esterno, come se la nebbia fosse tornata a ghermirlo.
Un enorme proiettile fece rotolare giù mezza facciata, rivelando una porzione di cielo rischiarata dai razzi di segnalazione. Tutt’intorno al perimetro della villa, comparvero gli elmetti verde oliva e i fucili dei polacchi, che furono subito bersagliati da un nutrito fuoco.
La risposta non tardò ad arrivare; bossoli di proiettili cadevano tintinnando ovunque e le granate esplodevano sollevando nuvole di schegge, fumo e calcinacci. Lo scorrere del tempo esplose in una miriade di frammenti e poi parve dilatarsi, intrappolato in un attimo di caotica immutabilità. Friedrich strisciava carponi e osservava Konrad comandare con energia la difesa, gridando ordini in quel frastuono che faceva vibrare le pareti del palazzo.
Le poche volte che un tedesco cadeva colpito, altri due prendevano il suo posto e ricaricavano le armi, sicuri che quelli fossero gli ultimi sussulti che precedevano la vittoria. I polacchi, tuttavia, non si arrendevano; erano intenzionati a vender cara la pelle.
Gli istanti scanditi dalle sparatorie gli parvero interminabili: forse trascorse una o due ore coi gomiti affondati nelle macerie prima che il comandante polacco, visibilmente ferito alla spalla, gettasse la pistola per terra e avanzasse con le mani bene in vista. Altri, più o meno malconci, seguirono il suo esempio chiedendo a gran voce un sorso d’acqua; solo pochi sbandati batterono in ritirata e furono raggiunti dai fucili dei cecchini.

A metà della nottata, il contrattacco era sventato e più di ottanta prigionieri polacchi cadevano nelle mani dei soldati della Ostpreußen. Un giovane tenente consegnò personalmente le armi a von Kleist, che riconobbe in lui dei tratti vagamente familiari.
“Nome e unità di appartenenza.”
“Mateusz Kowalski, seconda compagnia del 53° reggimento fanteria.”
Friedrich lo scrutò ancora per qualche istante, cercando di capire che cosa gli suscitasse quell’impressione. Sul viso lentigginoso, dai lineamenti di adolescente, scintillavano due occhi verdi, che gli ricordavano una faccia ben nota. “Ci siamo già visti, tenente?”
L’altro esitò, stringendo le labbra. “Forse ha incontrato mio fratello Artur, signore… anche lui porta il mio stesso grado.”
“Avete combattuto a Grabnik, l’altro giorno?”
“Sì, signore. È forse… prigioniero?”
Von Kleist scosse la testa con un sospiro. “No, tenente. Purtroppo è caduto in battaglia, ma si è battuto con valore. L’ho fatto seppellire io stesso, ai margini della foresta.”
Kowalski si ammutolì, visibilmente scosso dalla notizia della morte del fratello. “Tra due settimane avrebbe compiuto ventitré anni,” mormorò.
“Può stare tranquillo, tenente, non verrà dimenticato. Non da me.”
Almeno – pensò – quella tomba anonima aveva finalmente un nome. Era la sua terza croce nel giro di quattro giorni: quella di Hans, che giaceva disperso chissà dove, quella di Reinhardt, che aveva privato tutti loro di un amico prezioso, e quella del tenente Artur Kowalski, ucciso da una pallottola vagante dopo un duello ad armi pari.
Gli offrì un bicchiere in memoria di quel giovane e degli altri caduti che onorò in silenzio, finché un nuovo ordine, giunto dal comando di reggimento, interruppe la loro breve conversazione.
Lì le loro strade si separarono, forse per l’ultima volta: Kowalski fu indirizzato verso il centro di smistamento prigionieri, insieme ad altre migliaia di polacchi che si erano arresi in quei giorni e marciavano mesti verso le retrovie; i tedeschi invece proseguirono verso Varsavia, contando le ore che li separavano dalla vittoria.

L’alba era pervasa di una nebbia elettrica e umidiccia, simile a uno spettro che aleggiava tra gli scheletri dei palazzi. Konrad von Bentheim fece schierare le sue truppe agli angoli delle strade, in attesa del segnale: gli uomini erano energici, motivati nonostante la stanchezza, e salutarono il sorgere del sole tra le nuvole come se fosse un araldo di vittoria.
Il richiamo della battaglia risvegliò i loro istinti primordiali, imbrigliati dalla ragione e dagli agi quotidiani, e le armi ripresero a eruttare fuoco. La caligine, che risaliva e si disperdeva in lente volute, fu appesantita dal fumo crepitante degli spari; presto le strade si sarebbero bagnate di sangue ancora una volta.
Mentre anch’egli si preparava per l’azione, per un istante gli parve di avere Reinhardt accanto a sé. Nella sua mente, passato e presente si fondevano, ma la realtà rimaneva immutata: i soldati si lanciavano gli uni sugli altri nel furore della battaglia; solo i più coraggiosi e i più fortunati sopravvivevano. E poi appariva lui, che senza indugio guidava l’assalto, sempre pronto a mettersi in prima linea, sicuro che gli altri lo avrebbero seguito. Sfidava la natura col sorriso sulle labbra e il vento tra i capelli, e non ne aveva paura.
Quel pensiero non lo abbandonò nemmeno mentre, in testa alla schiera, avanzava da solo verso il nemico, tra i proiettili che fischiavano e le esplosioni che facevano tremare la terra. Fendevano una cortina di fumo che soffiava sui loro visi a zaffate, impregnando l’atmosfera di un calore acre e pesante. Nugoli di scintille rimbalzavano sugli elmetti; gli ordini ripetuti si perdevano al di sotto del furioso martellare delle armi. Quando un grosso calibro piombava in mezzo alla strada, la pavimentazione sprigionava frammenti, dividendo gli uomini che si riparavano o ne venivano irrimediabilmente travolti; le immagini si susseguivano come in una tela impressionista, nei toni del grigio e del rosso, qua e là punteggiata di chiazze verdastre quando appariva la figura di un soldato.
Trascinata in quel vortice di fuoco, acciaio e sangue, la sua mente si svuotò. Al centro rimase soltanto la lotta del singolo contro il caos, che cercava di ridare un senso all’imprevedibilità degli eventi.

Fuori dilagavano i nemici, che si diceva avessero riguadagnato terreno in una disperata controffensiva. Le bombe e l’artiglieria martellavano senza posa le periferie della capitale; il rombo cupo dei cannoni era come un terremoto di superficie che s’insinuava nel grembo della terra. Ogni volta che uno scossone più forte faceva tremare le pareti della cantina, i soldati feriti si stringevano l’uno all’altro nel timore di rimanere seppelliti vivi.
Friedrich li fissava inquieto, come distaccato dal proprio corpo: gli sembrava di trovarsi nel ventre di una nave in balia del mare in tempesta, intrappolato in un incubo lucido dove le visioni della realtà avevano la sfumatura dell’orrido. Per un attimo, la sua mente allucinata ebbe l’impressione di cogliere il significato più profondo di quella battaglia, di quella guerra, forse della sua intera esistenza, ma gli sfuggì subito dopo come fumo tra le dita. L’unica sua certezza era che si sentiva di nuovo come quell’inutile pedina sulla scacchiera: irrilevante se presa singolarmente, ma indispensabile come lo era ogni singolo uomo.
Tornò a osservare i feriti, i cui volti smunti, rischiarati dalle lampade, sembravano teschi ricoperti di pelle incartapecorita. Qualcuno gemeva o si rigirava nel sonno, altri chiedevano acqua; il resto erano soldati della sanità e furieri, burocrati più adatti a un ufficio che a un campo di battaglia.
Era impossibile rispedirli nelle retrovie: potevano solo sperare che quell’attimo passasse e quella parte della città tornasse in mano alla Wehrmacht. Mentre si trovavano lì dentro come topi in trappola, si sentiva responsabile per ciascuno di loro – anche se non li conosceva, né era interessato agli stralci di conversazioni che coglieva in sottofondo.
L’orologio segnava le cinque del pomeriggio – l’ora del tè, rituale caro al colonnello Wolff. Von Kleist era stato lì ad aspettarlo in quel buco per diverse ore, per poi ricevere la notizia che anch’egli era rimasto ferito – la macchina che lo trasportava in seconda linea era finita sotto una mina – insieme all’ordine di difendere i documenti custoditi nei faldoni accatastati sul tavolaccio che fungeva da scrivania: mappe, rapporti, piani di battaglia, fogli d’ordini, inventari di armi e uomini.
Un altro boato vicino fece staccare pezzi d’intonaco dal soffitto, la luce sfarfallò.
Un paio di soldati sperduti fecero il loro ingresso nella cantina, sostenendosi a vicenda mentre scendevano zoppicando le scale. “Signore! Signor capitano!” gridò il primo, che portava delle bende insanguinate sotto l’elmetto e i gradi di sergente maggiore sulle spalle.
“Che succede?” chiese l’ufficiale, tornando alla realtà contingente.
“La nostra compagnia si è sparpagliata dopo aver subito l’urto del nemico, ormai non si capisce più se siamo in vantaggio noi o loro. Non abbiamo più nemmeno un comandante…”
“Ci sono altri soldati con voi?”
Come per rispondere alla sua domanda, un’altra mezza dozzina di uomini più o meno malconci affluirono al rifugio e si sedettero sulle panche collocate lungo il perimetro delle pareti spoglie.
“Chi è il vostro comandante?”
“Eccolo, signore.”
La terza ondata di soldati entrò subito dopo; due di loro sostenevano un ufficiale che superava entrambi in altezza. Si reggeva sulle sue gambe, ma la sua espressione era assente e lo sguardo perso nel vuoto. Aveva un braccio appeso al collo, una chiazza di sangue poco sotto la croce di ferro e i capelli neri che spuntavano da sotto la benda che gli avvolgeva la testa.
“Capitano Bentheim?” Sorpreso alla vista dell’amico, Friedrich si fece avanti per aiutare i soldati a sostenerlo e lo guidò fino alla poltrona, dove Konrad ricadde pesantemente. Avrebbe voluto chiedergli cosa fosse successo, ma l’altro scosse la testa come per impedirglielo.
Con un sospiro, von Kleist lo affidò alle cure della sanità e si rivolse ai soldati che lo accompagnavano per chiedere un resoconto. Ancora una volta, fu il sergente con la testa bendata a farsi avanti. “Per tutta la mattinata l’avanzata è proseguita senza intoppi, almeno fino a un’oretta fa,” spiegò. “Il capitano era in prima linea. Sembrava che avesse il diavolo in corpo, avrebbe potuto polverizzare un esercito da solo. Ha distrutto un altro nido di mitragliatrici e ha continuato a combattere fino a che non è caduto per terra, chissà da quanto tempo era ferito… non sappiamo nemmeno cosa gli abbia dato la forza di trascinarsi fin qui.”
Friedrich annuì; credeva di sapere la risposta. Si voltò verso l’amico, e notò che il caporale che gli controllava le fasciature si era appena alzato. “Come sta?” chiese.
“Non rischia la vita, ha solo bisogno di riposo. Ha già ricevuto i primi soccorsi, ma dobbiamo trasportarlo al più presto a un ospedale da campo per evitare che si aggravi.”
“Ha combattuto per tre giorni interi, senza praticamente mai fermarsi,” constatò il capitano.
Con quelle parole, la conversazione si concluse. Le luci tremolanti continuavano a illuminare i volti dei feriti, gli uomini della sanità dispensavano medicazioni e dosi di morfina, i furieri ciondolavano qua e là in attesa di comunicazioni.
Una violenta esplosione, così forte da aprire una crepa sul soffitto a botte della cantina, fece sobbalzare tutti quanti; Bentheim si drizzò sulla poltrona fissando il suo parigrado. Gli scoppi secchi dei proiettili d’artiglieria si abbatterono sull’edificio, alternandosi al crepitare ritmico delle mitragliatrici. Un tafferuglio e grida concitate provenienti dal piano di sopra comunicarono a von Kleist l’inevitabile.
“Siamo sotto attacco!”
“Faremo la fine dei topi…”
Un gemito di dolore, uno scoppio di singhiozzi.
“Calmatevi, calmatevi.”
“Bisogna uscire di qui!”
“Voglio combattere!”
Friedrich e Konrad si scambiarono uno sguardo; il secondo si limitò ad annuire con occhi febbricitanti, come per cedergli l’autorità decisionale. “Lindemann, avverta il capitano Schwieger.”
“Stiamo arrivando,” fu la risposta dell’altro, giunta attraverso la radio. “Dieci minuti e vi tiriamo fuori.”
Von Kleist balzò in avanti impugnando la pistola, verso l’esile linea di difesa approntata dai soldati ancora in grado di reggere un’arma. Erano almeno in dodici, tutti riuniti intorno a una mitragliatrice coi fucili puntati verso l’imboccatura delle scale. “Dieci minuti sono troppi.”
In quel lasso di tempo, quella catapecchia sarebbe caduta, i feriti sarebbero diventati prigionieri e i documenti sarebbero finiti nelle mani del nemico, rivelando le loro mosse successive. Si fermò di colpo, gli occhi fissi sullo stendardo: finalmente gli era tutto chiaro, sapeva cosa doveva fare. “Si sgombera la baracca, preparatevi a far evacuare i feriti!”
“E i documenti?” si oppose il sergente, sbigottito.
“Ci penso io.”
“Come, signore?”
“Datemi retta, non c’è tempo. Uscite di qui!” lo interruppe il capitano, in preda a un’ansia febbrile, indicando l’imboccatura del cunicolo che fungeva da uscita d’emergenza. Mentre le sparatorie che si consumavano sopra di loro gli giungevano all’orecchio come attraverso il velo vibrante d’indifferenza che lo separava dalla realtà fisica, rimase a osservare gli uomini che si alzavano: chi riusciva a reggersi in piedi offriva il braccio agli altri, i più gravi vennero presi e sollevati di peso dai furieri. Konrad fu uno degli ultimi a uscire.
“Fidatevi di me, vi raggiungo tra poco,” ripeté, con voce ovattata.
Aspettò che tutti fossero usciti, poi spense le luci e guardò l’orologio: era quasi giunto il momento. Al piano di sopra, l’impeto della sparatoria stava calando d’intensità, segno che vi erano già degli uomini a terra. Si armò di una granata, soppesandola tra le mani tremanti; con l’altra impugnò le insegne del loro reparto: il cavaliere teutonico si ritrovava da solo e doveva difendere lo stendardo a ogni costo – non come oggetto, ma per ciò che rappresentava per lui, per Hans e per l’intero reggimento: due significati diversi, ma al contempo indivisibili.
Guardò per l’ultima volta su per la tromba delle scale: ombre concitate si stagliavano contro un alone di luce, un rapido scalpiccio si faceva strada verso la cantina. Esalò un sospiro, decapsulò la bomba a mano e, senza indugio, la lanciò nello stretto passaggio.
L’esplosione fu accompagnata da un lampo accecante, lo spostamento d’aria lo scaraventò per terra; centinaia, forse migliaia di schegge lo trafissero. Un rotolare cupo di mattoni, grida e colpi di tosse dall’altra parte, poi un silenzio simile a quello che precedeva un placido torpore.
Giacque sulla bandiera bagnandola col suo sangue, mentre un fumo denso come nebbia lo avvolgeva come un sudario; eppure, ormai lontana da quel luogo, la sua mente riandò al prato verde in cui si era ricongiunto con Hans e gli aveva porto lo stendardo annunciando la vittoria. Non sentiva più dolore, né rimorso. Se ne avesse avuto la forza, avrebbe sorriso.

La controffensiva, come tante altre in quegli ultimi giorni, era stata violenta e rapida come un temporale estivo. Il sole, o quel poco che ne restava prima del tramonto, aveva fatto di nuovo capolino tra le nuvole e le colorava di rosso e viola, mentre il fumo degli incendi si disperdeva lasciando dietro di sé solo tetra distruzione. Per le strade dilagavano carri armati e soldati tedeschi; i pochi polacchi rimasti erano feriti o prigionieri sorvegliati a vista.
Focolai di scontri resistevano ancora nei quartieri più vicini al centro città, ma quella zona era stata sgomberata in fretta dopo l’arrivo della compagnia di Schwieger.
Alla guida del suo plotone, Erich avanzò tra i detriti guardandosi attentamente intorno: non solo equipaggiamenti militari, ma anche stoviglie rotte, una bicicletta ridotta a un ammasso di ferraglia contorta, pezzi di mobili bruciacchiati, libri sparpagliati per terra, una palla da calcio, una bambola mutilata che fissava il cielo. Un giovane ufficiale come lui, probabilmente suo coetaneo, giaceva morto davanti all’ingresso di una casa: l’unica differenza tra loro stava nel colore delle uniformi.
Gli venne da pensare alla sua vita prima della guerra, all’appartamento che condivideva con sua madre nei quartieri popolari. Quando era bambino, andava a giocare a pallone sotto casa insieme ai suoi amici, in bicicletta oppure a correre nei prati fuori città, e quando era triste si arrampicava sul tetto per cercare nelle nuvole figure di animali. Una strana malinconia lo colse quando pensò a tutti i giovani come lui e come quell’ufficiale polacco, morti in guerra portandosi nella tomba ricordi simili ai suoi.
“Sottotenente!” La chiamata del maresciallo Eichmann lo riportò al presente: era affacciato sulla soglia di un edificio fatiscente; al di sopra della sua spalla ossuta comparve la testa di Krause. “Venga a vedere!”
Incuriosito, Kühn si avvicinò ed entrò. Si trovavano in un ampio salotto, dove i feriti erano sistemati su un’accozzaglia di letti, panche e tavoli raccolti qua e là; tra loro c’era anche un ufficiale disteso su un divano, ma lo schienale gli impedì di capire chi fosse. Una fila di prigionieri polacchi sedeva per terra, con la schiena contro il muro.
“Sono dei nostri,” spiegò Krause. “Sono comparsi proprio mentre ci rifugiavamo qui dentro.”
“Da dove venivano?”
“Dietro questa casa c’è un passaggio sotterraneo che porta alla cantina dove era stanziato il comando di reggimento… o meglio, il capitano von Kleist. È stato lui a mandarli qui, dicono.”
“Da quanto tempo siete qui?”
Krause controllò l’orologio e fece un breve calcolo. “Dieci, quindici minuti.”
“E il capitano dov’è?”
L’altro chinò il capo. “Dicevano che doveva arrivare poco dopo di loro, ma non è arrivato.”
“In un quarto d’ora può succedere di tutto,” sentenziò il vecchio gufo.
Erich aggrottò le sopracciglia. “Dov’è l’entrata della galleria? Lo vado a cercare.”
Eichmann tossicchiò. “Sottotente, sarebbe meglio mandare una pattuglia… dall’altra parte stanno ancora combattendo, potrebbe essere…”
“Vado io,” lo interruppe il ragazzo. “Krause, Schreiber e Hanke insieme a me. Qualcuno che possa mostrarci la strada?”
Si fece avanti un sergente col capo bendato. “Io, signore. L’entrata si trova nel sottoscala dello sgabuzzino qua dietro, doveva essere un rifugio antiaereo usato dai civili.”
Li guidò fino a uno stanzino angusto e buio, completamente a soqquadro, dove trovarono una botola coperta da un pannello di legno. Kühn fu il primo a calarvisi: una scala a pioli conduceva in un cunicolo basso, scavato nella terra, dove per non sbattere la testa sulle travi che lo sostenevano bisognava piegarsi. Probabilmente era stato scavato in fretta e furia all’inizio della guerra, ma era stato presto abbandonato ai topi che, riemergendo dall’oscurità, li fissavano con occhi acuti e poi fuggivano via squittendo. Erich immaginava decine di civili seduti lungo quella specie di trincea sotterranea, spalla contro spalla, mentre gli abitanti del sottosuolo s’insinuavano tra i loro piedi e in superficie ruggivano le bombe. L’odore di umidità s’intensificava a ogni passo, e il fascio di luce della torcia rimbalzava sui reticolati di tubi. Dall’esterno proveniva un clamore fioco, la cui veemenza si andava gradualmente stemperando; il resto era silenzio, irreale e opprimente.
Comprese che erano quasi arrivati quando dall’estremità della galleria iniziarono a spirare zaffate d’aria intrise di esplosivo e polvere di mattoni sbriciolati. Esortando i soldati con un cenno, il sottotenente sollevò la pistola e affrettò il passo.
Si ritrovò un una cantina buia, il cui ingresso era ostruito da un cumulo di macerie ancora fumanti: una bomba aveva distrutto le scale e i muri che le sovrastavano, per impedirvi l’accesso dall’esterno. La torcia illuminò pareti scabre, prive d’intonaco, panche accatastate contro il muro, un apparecchio radio e faldoni di documenti ancora ordinati, segno che la postazione non era stata violata dai nemici. Ma il capitano…
“Signor sottotenente!” gridò Krause. “Laggiù… nell’angolo.”
Kühn proiettò il fascio di luce nella direzione indicata dal caporale e alla sua vista s’impresse con forza la figura di un ufficiale riverso sopra un drappo rosso. Riconobbe subito i capelli biondi del capitano von Kleist, passò la torcia a Krause e, raggiungendolo con un paio di balzi, si gettò in ginocchio vicino a lui. “Signore! Signor capitano!”
L’altro non diede segni di vita; nemmeno un flebile respiro gli scosse il petto. Quando gli tastò il polso, avvertì soltanto una debole pulsazione sotto la pelle fredda come marmo.
“Signore!” ripeté il sottotenente, allarmato. Lo raccolse con delicatezza; von Kleist spalancò gli occhi, lo sguardo allucinato, poi si afflosciò privo di sensi tra le sue braccia.
“È sempre vivo! Andate a chiamare i portaferiti!”
Mentre Hanke e Schreiber sparivano di corsa all’interno della galleria, Erich sollevò il capitano ferito, lo avvolse nella bandiera con l’aiuto di Krause, come se fosse una coperta, e se lo caricò in spalla, per poi lanciarsi a rotta di collo attraverso il corridoio angusto.
Correva a grandi falcate, a testa bassa, come se il suo fardello non avesse peso, e in breve distanziò Krause mentre gli stivali chiodati mettevano in fuga i topi. Per un attimo gli parve di sentire le braccia di von Kleist cingergli debolmente il collo, ma fu così fugace che non seppe dire se fosse un avvenimento reale o un’illusione generata dalla speranza.
Uscì dalla botola con la fronte madida di sudore e il cuore che gli schizzava nel petto, e fu accolto subito dai portaferiti che deposero il capitano su una barella: il suo volto era pallido e insanguinato, ciuffi di capelli gli ricadevano sulla fronte, ma i suoi lineamenti distesi davano un’impressione di serenità. La vista della bandiera, dove il rosso del tessuto si confondeva col rosso del sangue, comunicò a tutti i presenti che la missione era compiuta.
Ancora scombussolato, Kühn si fece strada attraverso la ressa di militari che erano accorsi sul posto, ignorando i loro commenti, e si fermò sulla soglia. Appoggiò la schiena allo stipite e alzò lo sguardo verso il cielo screziato di viola e rosso, attraversato a stormi dalle sagome nere degli aeroplani, lasciando che il vento autunnale gli increspasse il colletto della giubba.

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Capitolo 28
*** Capitolo XXIV ~ Die Kapitulation ***



XXIV.
Die Kapitulation


I cannoni iniziarono a ruggire ancor prima del sorgere dell’alba, mentre i soldati erano riuniti per fare colazione nella piazza del paese occupato: prima con boati isolati, come tuoni all’orizzonte, poi sempre più intensi, tanto da spezzare l’illusione di calma che aveva preceduto il risveglio. Truppe e sottufficiali erano assiepati alla rinfusa fuori dall’ultima caffetteria rimasta aperta, che offriva a ciascuno magre razioni accompagnate da un caffè annacquato. Nel parco antistante, arato dai proiettili dei mortai, zolle di terra ed erba erano state spianate alla bell’e meglio, e i tronchi divelti servivano a rinforzare le barricate.
Alcuni civili, scampati al bombardamento della capitale, erano accorsi nei sobborghi: c’era chi aveva accettato di collaborare coi soldati nella speranza di aver salva la vita, chi lamentava la mancanza di pane e medicine e chi piangeva la morte di un fratello, un marito o un figlio, rimasti uccisi durante l’accanita resistenza. Mentre li osservava dal tavolino a cui era seduto, Erich non riusciva a capire le loro parole, ma era rimasto colpito dal gran numero di giovani donne, che dopo aver supportato l’esercito polacco si intrattenevano con gli occupanti, e di bambini, che osservavano gli uomini in grigioverde con gli occhi dilatati dalla paura.
Hanke si fermò davanti a un bambino e a una bambina – forse orfani – e si mise a fare smorfie, mimando versi di animali per farli ridere. Quello che ottenne, tuttavia, fu soltanto di farli piangere.
Krause gli sferrò una gomitata, con la bocca ancora piena. “Lascia perdere, non ci sai fare.”
“Ehi, ti ricordo che io e Magda avremo un figlio tra sei mesi!”
“Ne avrai di strada da fare, allora. Guarda e impara.” Con un sorriso incoraggiante, Krause allungò una fetta di pane con burro e marmellata verso la bambina, che doveva essere di un paio d’anni più grande del maschio. Ella lo squadrò con sospetto, continuando a stringere tra le braccia il fratellino in lacrime, tuttavia fece un piccolo passo in avanti e accettò titubante l’offerta. Ringraziò con un frettoloso cenno del capo, poi prese per mano il bambino e fuggì come una ladra in un angolo appartato, protetto da un muretto, dove spezzò il pane e lo condivise con lui.
“Cos’è questa stregoneria?” borbottò l’altro, indispettito.
“Si chiama cibo. Quei due bambini avevano fame, tu non l’hai mai sofferta?”
Hanke non rispose; continuò a fissare di sottecchi i due fratellini che mangiavano e bisbigliavano tra loro. Altri bambini, da lontano, si erano messi a osservarli, ma al loro passaggio scomparvero subito negli anfratti.
I soldati continuavano ad entrare e uscire dalla caffetteria in piccoli gruppi, le loro chiacchiere coperte dal costante rimbombo dell’artiglieria.
“Io sì, quando ero piccolo,” proseguì Krause, fattosi serio. “Ero l’ottavo di dieci fratelli – nove, dato che uno di loro è rimasto disperso a Cambrai e non è più tornato a casa – era da poco finita la guerra e…”
“Me lo hai già raccontato almeno dieci volte, Richard,” sbuffò l’altro.
“E tu quante volte mi hai ascoltato, Julius? Mezza, forse?”
“Nove.”
“Non vale se mi interrompi appena inizio a parlare.”
“E invece vale eccome.”
Krause decise di lasciar cadere il discorso con un gesto infastidito e, individuato un marciapiede che dava le spalle al tavolo dell’ufficiale, si mise a sedere; nessuno dei due mostrò di essersi accorto della sua presenza. “Hai sentito quello che dicevano ieri su von Kleist?” A quel punto assunse un tono da cospiratore, ed Erich dovette tendere l’orecchio per captare le sue parole. “Qualcuno dice che rischiava una sanzione per i fatti di Łowicz.”
“E tu dai retta a queste voci? Magari domani verrà fuori che il maggiore è vivo!”
“Ti dico che è vero,” ribatté l’altro.
Hanke scrollò le spalle. “Io penso che abbia fatto bene ad agire come ha fatto. C’era una possibilità su centomila che andasse a finire male, e lui c’è finito dentro con tutte le scarpe. Ma quella è rogna, non cattiva strategia.”
“Anch’io lo penso. Secondo me meritava una medaglia, altroché. Ma il regolamento funziona così.” Esalò un sospiro. “Che merda, eh? Ti fai tutti i tuoi calcoli, cerchi di fare le cose per bene, poi basta la minima stronzata e tutto ti si ritorce contro…”
“Già, poi pure il Vecchio, che è morto in quel modo. Vecchio per modo di dire, ovviamente.”
Seguì un breve, meditabondo silenzio, durante il quale entrambi volsero lo sguardo verso il cielo attraversato dalle sagome ronzanti dei caccia. Molti altri si erano fermati a osservarli: volavano così bassi che le ombre delle loro ali coprivano l’intera piazza, e il moto delle eliche scuoteva gli alberi. Krause aspettò che fossero abbastanza lontani, poi si alzò in piedi. “Vedi? Te l’avevo detto che avevo un brutto presentimento, prima ancora che succedessero tutti questi casini. Ma forse su una cosa mi sbagliavo: se quel discorso della corte marziale è vero – e io ti dico che è vero, quanto è vera la morte – ne hanno scampati di peggiori.”
L’altro stava per replicare, ma fu interrotto dall’arrivo di alcuni camion coperti che si fermarono al centro della piazza. Le portiere si aprirono e da esse iniziarono a uscire dei soldati in grigioverde, tra i quali due ufficiali che li fecero allineare per l’appello.
“Riservisti,” commentò Hanke. “Sarà la prima volta che mettono piede in un teatro di guerra.”
Erich riconobbe a capo del drappello il capitano Fromm, tornato dalla convalescenza dopo l’esplosione della granata, e il tenente Wessel, che li chiamò subito a rapporto: i soldati finirono in fretta i loro caffè, spensero le sigarette e seguirono il sottotenente in piazza, sistemandosi in ordine di marcia sotto gli occhi attenti dei riservisti.
“Abbiamo ricevuto l’ordine di procedere, ma non sappiamo ancora se e quando i nemici daranno battaglia,” spiegò Fromm, convocati i due ufficiali. “Sono arrivate varie proposte di resa, ma le trattative sono ancora aperte. Adesso non ci resta che aspettare il capitano Schwieger.”
“Sissignore.”
Wessel si allontanò per andare a dare istruzioni ai soldati della riserva, Kühn fece per seguirlo, ma Fromm lo prese da parte. “Non mi sono dimenticato del suo gesto, sottotenente. Ci tenevo a ringraziarla di persona.” Alluse a quando lo aveva trasportato al posto di medicazione dopo l’esplosione, osservando con un vago sorriso la croce di ferro appuntata sul suo taschino. “E dalle voci che circolano,” soggiunse poi, “non mi stupisco nel notare che salvare i suoi superiori sia diventata un’abitudine per lei!”
Il ragazzo sorrise a sua volta, chiedendosi se fosse stato proprio l’atto menzionato dal capitano a procurargli quell’onorificenza, ma non disse nulla a riguardo. “Dovere, signore.”
La conversazione fu interrotta dall’arrivo del capitano Schwieger, che diede subito l’ordine di mettersi in marcia. Dopo giorni di battaglie cruente e ininterrotte, quei fiochi boati in sottofondo erano il preludio della fine.

L’orologio segnava ormai le undici, ma le risposte dell’artiglieria nemica giungevano a intermittenza, più come un borbottio di protesta che come un’azione bellica. Wessel camminava nervosamente avanti e indietro per la stanza; Fromm parlava al telefono e scarabocchiava appunti su un foglio. Kühn, seduto vicino alla finestra, si limitava a osservare i soldati di guardia all’entrata dell’edificio, che chiacchieravano e fumavano tra loro. Solo di tanto in tanto, giù in strada, una breve sparatoria interrompeva il silenzio: urla, tafferuglio, colpi di fucile quando bande di civili venivano sorprese a fare azioni di guerriglia, di nuovo silenzio.
“È ufficiale, stanno discutendo le condizioni di resa,” comunicò Fromm, dopo un istante interminabile. Allungò le gambe e si accese un sigaro. “Per me non ci arrivano a domani.”
Wessel annuì, pensieroso. “Considerando le condizioni in cui si trovano, mi stupirei del contrario. Posso capire il coraggio, ma non quando va contro ogni logica o convenienza.”
Erich si era stupito della ferrea resistenza polacca, che non sapeva se attribuire a una profonda e radicata convinzione dettata dall’amor di patria, o da un più impersonale senso del dovere. Forse, pensò, dipendeva dalle persone – o forse, in fondo, per qualcuno erano la stessa cosa, come nel caso del capitano von Kleist.
“Il loro coraggio è ammirevole, ma ora sono più i civili che i soldati a morire. Non reggeranno a lungo, non ne possono più,” riprese Fromm.
Al sottotenente vennero il tenente polacco senza nome, l’ufficiale suo coetaneo riverso tra le macerie, i bambini nella piazza. “Lo penso anch’io. Resistono solo perché è quello che chiunque altro farebbe.”
“Kühn,” lo interpellò il capitano, “lei che era presente, come sono andati gli ultimi giorni?”
“Abbiamo letteralmente combattuto giorno e notte, signore, ovunque: per le strade, nelle trincee, tra le rovine dei palazzi. Quella di Grabnik è stata forse la battaglia più dura, ma siamo riusciti ad avanzare grazie a una compagna delle Waffen-SS, che ha perso il suo comandante durante l’operazione mentre noi cercavamo ancora di rompere l’accerchiamento. C’erano morti e carcasse di Panzer ovunque.” Wessel si fermò, fece dietrofront, poi riprese a camminare. A ogni pausa annuiva, come per mostrargli che lo stava ascoltando. “Ieri c’è stato un bombardamento a tappeto su Varsavia. Io e Körner eravamo fuori a combattere mentre il capitano von Kleist difendeva la postazione del colonnello: la terra tremava sotto i nostri piedi, il cielo era completamente rosso e il fumo arrivava fino a noi, come se ci trovassimo in mezzo a un incendio. È durato quasi tutto il giorno.” Mentre rievocava le immagini mentalmente, un tremito gli percorse la spina dorsale. Si erano fermati col naso in su a osservare quello spettacolo, incapaci di proferire parola: sembrava che il cielo stesso fosse in fiamme; qualcuno lo aveva addirittura paragonato all’Apocalisse. Lui stesso aveva creduto che quella fosse la fine della guerra, ma all’alba si era risvegliato col rombo dei cannoni. “C’erano aerei ovunque, facevamo fatica perfino a sentire il suono delle nostre voci, ma i polacchi intorno a noi continuavano a combattere. Era come se quel bombardamento li spingesse a continuare anziché scoraggiarli.”
Wessel smise di camminare e si fermò vicino alla finestra con le braccia dietro la schiena, scrutando la strada sottostante: non c’era nessuno. “E von Kleist?”
“Non ero presente quando è successo, ma pare che i polacchi volessero violare la postazione. C’erano dei cadaveri sulle scale: il capitano deve aver fatto saltare l’entrata per impedirgli l’accesso, ma è rimasto ferito nell’esplosione.”
“Detto tra noi, se il capitano me lo consente,” Wessel guardò Fromm, che assentì in silenzio, “ho sempre ritenuto von Kleist una persona intelligente, ma trovo i suoi metodi alquanto… discutibili.”
“Quando era ancora tenente mi è capitato di rimproverarlo per la faccenda del maggiore Lützow, ma credo che le sue scelte siano ben ragionate. Non è un impulsivo che agisce senza pensare. Quella volta si è praticamente sobbarcato l’onere di coprire le spalle a un intero battaglione senza che nessuno glielo chiedesse, e la sua strategia si è rivelata efficace.”
Con la mente, Erich tornò a quell’episodio che l’aveva visto protagonista insieme al capitano: sulla strada del ritorno, erano stati intercettati da una pattuglia polacca. Qualcuno dei loro aveva subito iniziato a sparare a vista – fuoco a cui i polacchi avevano prontamente risposto – ma von Kleist, dopo un breve attimo di sbigottimento, aveva levato una mano. “Dobbiamo tornare indietro, non c’è tempo,” aveva detto, con voce febbrile. “Ci dividiamo, i sottufficiali prendano con sé le loro squadre e si dirigano al luogo convenuto. Presto!”
Tutti lo avevano guardato, ma nessuno aveva osato fare domande e, sollecitati dal capitano, si erano limitati a disperdersi correndo in varie direzioni, mentre i capisquadra abbaiavano loro dietro. Anche i polacchi si erano dispersi, chi inseguendo l’uno e chi l’altro gruppo, ma una mezza dozzina di loro continuava a puntare von Kleist come una muta di cani.
“Kühn, venga con me,” gli aveva ordinato, spingendolo in avanti. “Forza, mi preceda!”
“Cos’ha in mente, signore?”
“Lo capirà tra poco. Adesso pensi soltanto ad allontanarsi da qui, non devono prenderci per nessuna ragione!”
Senza farselo ripetere due volte, Erich si era messo a correre attraverso il villaggio e le campagne, coprendo le spalle al suo superiore mentre i soldati, catturati alcuni prigionieri, raggiungevano incolumi il rifugio.
“Gesù morì sulla croce per redimere l’umanità, ma non è cambiato molto da allora,” replicò Wessel con una scrollata di spalle, riportandolo alla realtà. “E lui si è quasi ammazzato per proteggere dei documenti che difficilmente sarebbero rimasti a lungo in mano al nemico.”
“Non l’ha fatto solo per quello.” Fromm versò del caffè dalla caraffa e ne offrì una tazza a entrambi. “Lei sapeva della corte marziale, tenente?”
Wessel aggrottò le sopracciglia. “Ne ho sentito parlare, ma pensavo che fossero le solite notizie gonfiate, come quella sulla morte del maggiore.”
Erich aprì la bocca per replicare che il maggiore era morto davvero, che le tracce di sangue parlavano chiaro anche se il corpo non era stato ritrovato, ma l’altro lo precedette: “Non credo che lo avrebbero condannato. Probabilmente il processo sarebbe stata solo una formalità per chiarire le dinamiche dell’accaduto, dato che i fatti sono così ambigui. Inoltre, il colonnello voleva tenere la faccenda privata, ma la notizia si è diffusa in fretta… sai com’è.”
L’altro rimase a lungo in un silenzio assorto, a guardare fuori dalla finestra, poi disse: “Allora non capisco davvero perché abbia quasi tentato di ammazzarsi. Non c’erano davvero altre soluzioni in quel momento?”
“Non credo che lo avesse previsto,” intervenne Erich. “Aveva promesso di riunirsi ai soldati.”
“Per me invece lo aveva previsto, è per questo che lo ha fatto,” obiettò Fromm, sorseggiando il suo caffè.
Wessel si voltò verso di lui e inarcò un sopracciglio. “E perché mai?”
“Il motivo non lo so, ma credo di capire il ragionamento. Hai presente i samurai? Le leggi del bushido, il seppuku… una cosa del genere. Ha pensato che sacrificarsi per una buona causa fosse meglio che affrontare il disonore.”
“So poco o niente delle tue cose giapponesi, ma ho capito l’antifona. O meglio, più o meno. La condanna in realtà non ci sarebbe stata: avrebbe avuto pure il maggiore a testimoniare…”
“Il maggiore?” A quel punto, le parole uscirono dalla bocca di Erich prima che riuscisse a controllarle. “Ma il maggiore è morto quasi una settimana fa…”
Wessel e Fromm si scambiarono un’occhiata perplessa, poi il secondo spiegò: “No, è vivo. È arrivato nel mio stesso ospedale poco prima che mi dimettessero: dicono che ha perso molto sangue, ma le pallottole non hanno colpito punti vitali. Se la caverà.”
Erich lo fissò sbalordito: Radio Gavetta, come la chiamava Hartmann, era capace di distorcere le notizie a tal punto? E se anche notizia della corte marziale fosse falsa? E se… “E del capitano si sa qualcosa, signore?”
“Niente, per ora,” rispose l’altro. “Ma non credo che a lui importi, dovunque egli sia. Col suo seppuku, ha salvato i documenti e ha permesso al reggimento di proseguire l’avanzata. La sua missione è compiuta, e tra poco lo sarà anche la nostra.”

La brezza del primo pomeriggio sussurrava pigramente tra gli alberi, isolando il campo di aviazione dal caos del fronte. Una radio gracchiava in sottofondo, ma quasi nessuno le prestava ascolto. Alcuni piloti, approfittando della pausa, dormivano sotto il sole, chi sull’erba e chi sulle ali degli aerei; gli altri erano rimasti seduti alla tavolata a giocare a carte insieme a Manfred e Franz. “Non vorrai vincere anche stavolta!” sbottò von Kleist, rivolto a Franz.
Weber fece un sorrisetto. “Non è colpa mia se non sei stato attento.” Rivelò le carte con un gesto teatrale e gliele schiaffò sotto il naso una dopo l’altra. “Ebbene sì.”
“Hai barato,” sentenziò Manfred, fingendosi irritato, “hai sbirciato. Oppure qualcuno qua dietro ti ha suggerito.” Si voltò verso gli altri aviatori, che alzarono le mani proclamando la propria innocenza.
Franz, serafico, iniziò a raccogliere le carte. “Conosco solo un bel trucco che si chiama memoria. Ricordavo cos’avevi giocato tu, cos’avevo giocato io e le carte che mancavano.”
“Stavolta le distribuisco io.” Von Kleist gli strappò di mano il mazzo e si mise a mescolarlo in silenzio, valutando mentalmente quale potesse essere la strategia più efficace per battere il suo avversario. E se avesse bluffato?
“Non ve ne siete accorti?” chiese Bergmann.
“Cosa?”
“Ascoltate.”
Incuriosito, Manfred tese l’orecchio: al di sotto del brusio della radio e lo stormire delle fronde, il rumore dell’artiglieria non si sentiva quasi più. Era una quiete quasi surreale se paragonata al giorno precedente: quando si erano avvicinati a Varsavia per i soliti attacchi al suolo, gli era parso di sorvolare un mare di fuoco e fiamme.
Un aviere che si era allontanato alzò il volume della radio ed esclamò: “Zitti, zitti, notizie dell’ultimo minuto!”
Tutti tacquero; l’atmosfera palpitava quasi fosse elettrica.
“… alle ore dodici di oggi è stato proclamato il cessate il fuoco… il generale Kutrzeba dell’esercito di Poznań e il generale Blaskowitz dell’ottava armata stanno attualmente discutendo le condizioni di resa della capitale…”
Gli aviatori si scambiarono occhiate ed esplosero in un grido di giubilo; presi dall’euforia, alcuni si misero a cantare e ballare sul prato. Manfred raggiunse il pianoforte sotto una specie di tendone formato da lenzuola e attaccò a suonare una marcia trionfale.
“La guerra è finita! Abbiamo vinto! Si torna a casa, gente!”
“Andate a prendere da bere, si festeggia!”
Fecero girare una bottiglia di spumante per distribuirlo ai compagni, versandone mezzo nei bicchieri e mezzo sul prato, brindarono e si abbracciarono.
“Ai compagni caduti, ai nostri camerati dello stormo e alle famiglie a casa! Al nostro comandante di Staffel, l’Aquila di Varsavia, primo e unico asso tra noi!”
Sollevarono Manfred di peso e lo portarono in trionfo, trascinandolo nel vortice dell’entusiasmo. Il tenente si voltò verso Franz e sollevò il calice da cui traboccava la schiuma. “Al nostro stimatissimo colonnello insectus zelewski!” proclamò in tono solenne. I due ufficiali trangugiarono lo champagne in un sorso, e il nome scientifico dell’insetto ripetuto da Franz fu coperto da uno scroscio di risa e applausi.
Manfred fece per versarsi di nuovo da bere, ma l’arrivo di un attendente del colonnello interruppe la baldoria improvvisata. “Tenente von Kleist!”
“Quel nome scrivimelo su un foglio, magari, altrimenti non lo memorizzerò mai,” disse a Franz, prima di allontanarsi per ascoltare quello che il portaordini aveva da dirgli.
“Signore, il colonnello von dem Bach-Zelewski la convoca nel suo ufficio. Ci sono delle comunicazioni importanti per lei.”
“Arrivo subito.” Congedò l’attendente e, con un rapido gesto della mano, si sistemò all’indietro i capelli e si rassettò l’uniforme sgualcita. “Sono presentabile?” chiese poi.
Gli aviatori annuirono in maniera teatrale, mentre Franz rideva sotto i baffi.
“Certo, signor tenente,” rispose un sottufficiale.
“Sei impeccabile, come da protocollo. Non sfigureresti neanche davanti al Führer in persona.”
“Certo, come no,” replicò Manfred, con un sorriso sghembo. Decise comunque di lasciar perdere certe minuzie e si affrettò per raggiungere la baracca del comandante.
Quando entrò nell’ufficio, il colonnello era seduto alla scrivania a lustrare il suo pince-nez dalle lenti spesse e la montatura d’oro. Salutò formalmente e si mise sull’attenti, chiedendosi perché lo avesse convocato. Con tutta la calma del mondo, von dem Bach-Zelewski finì di lucidare le lenti, inforcò gli occhiali e lo scrutò da capo a piedi – von Kleist gli lesse in faccia il disappunto per il suo aspetto trasandato, ma si stupì di non udire alcun rimprovero – poi gli ordinò il riposo. Egli rimase rigido e impettito vicino alla porta.
Il colonnello, con la sua solita flemma, iniziò a scorrere delle carte e gli porse una busta chiusa. “Tenente von Kleist, questa lettera è per lei.” Manfred si chiese chi gliel’avesse mandata: i vertici della Luftwaffe? Il Quartier Generale? Aveva forse combinato qualcosa di irregolare?
Con la testa sovraffollata d’interrogativi, si congedò e uscì di nuovo all’aperto. Aprì la busta con gesti febbrili, notando che l’intestazione rimandava al reggimento di Potsdam, divisione di fanteria Ostpreußen. Che fosse Friedrich?
Tutto gli fu chiaro nel momento in cui si accorse che il mittente non era lui, bensì un certo capitano Klaus Fromm, comandante della seconda compagnia – la stessa di suo fratello. Leggere quelle poche righe fu come trovarsi sospeso nel vuoto, come nell’attimo prima che l’aereo si rovesciasse e iniziasse a precipitare in vite. “Mio fratello gravemente ferito…” balbettò a mezza voce. “Condizioni incerte… per proteggere i documenti del reggimento…”
Si allontanò come un sonnambulo, abbagliato dal verde del prato e dai contorni distorti del paesaggio, sperando di farsi venire in mente un modo per raggiungere quell’ospedale entro sera. Era il suo gemello, erano nati e cresciuti insieme, avevano condiviso un sacco di cose. Non osava immaginare come sarebbe stato saperlo morto o in serio pericolo di vita.

Quando riaprì gli occhi, una lama di luce bianca lo costrinse a schermarsi il viso con una mano. Il chiarore era così intenso da risultare fastidioso: perforava le tende bianche e s’irradiava attraverso la stanza spoglia, illuminando il pulviscolo che danzava nell’aria. Si sentiva come se il suo corpo fosse diventato un unico blocco di marmo, dove uno scalpello continuava a ritmicamente a colpirgli le costole. Ancora intontito dalla morfina, colse in lontananza una voce femminile, vagamente familiare, che intonava una canzone popolare in dialetto svevo.

Wenn i komm’, wenn i komm’,
wenn i wiedrum komm’, wiedrum komm’,
Kehr’ i ein, mein Schatz, bei dir. 1

“Ma quella non è Trude?” chiese Matthias, indicando una ragazza che raccoglieva fiori sul prato in riva al fiume, dando loro le spalle. Appoggiò la bicicletta contro il muretto che costeggiava l’argine e si arrampicò per saltare dall’altra parte.
Hans lo seguì con più calma, ma scavalcò la barriera con un unico balzo e fu lesto a raggiungerlo. “Può darsi.” La voce della giovane giungeva alle loro orecchie attutita dallo scroscio dell’acqua, che scorreva tra i sassi. “Vaglielo a chiedere.”
Matthias arrossì. “No, per carità!”
Hans si mise a sedere sulla riva del fiume e iniziò a lanciarvi sassi, facendoli rimbalzare sul pelo dell’acqua. “Se non è lei sarà Margarethe, oppure Helene. E comunque la voce mi sembra la sua.” In quel paese c’erano così pochi abitanti che si conoscevano quasi tutti, e i tre ceppi familiari più importanti – tra cui il suo – erano tutti imparentati in qualche modo. Era sempre stato convinto che discendessero tutti dallo stesso antenato e dai suoi numerosi figli.
“Tu la fai troppo facile,” lo rimbeccò l’amico, sulla difensiva. “È perché non puoi capire. Sei sempre così sulle tue, così serio, coi tuoi libri polverosi e i tuoi disegni. Perché non li fai vedere a nessuno?” Gli diede una pacca sulla spalla, strizzando l’occhio con aria complice. “Fai forse i ritratti alle ragazze di nascosto?”
Hans aggrottò le sopracciglia e scagliò un sasso nell’acqua, infastidito. Il ciottolo entrò con un tonfo, sollevando uno zampillo di gocce d’acqua. “Forse sei tu che non puoi capire, non mi interessano le ragazze. Sono solo cose personali che non mi va di mostrare agli altri.”

Kann i glei net allweil bei dir sein,
Han i doch mein Freud’ an dir!
Wenn i komm’, wenn i komm’,
wenn i wiedrum komm’, wiedrum komm’,
Kehr’ i ein, mein Schatz, bei dir. 2

Si chiese che cosa ci facesse Gertrude Wolber lì. Lo avevano rispedito forse in un ospedale nel Baden, dove tutti quelli del suo paese erano venuti a sapere della sua convalescenza? Il solo pensiero che potessero vederlo in quello stato, o anche solo sapere delle sue condizioni, lo mise a disagio. Tentò di girarsi verso la porta, ma dovette reprimere tra i denti un grugnito e ricadde pesantemente sul materasso, fissando frustrato il soffitto.
La voce del ricordo continuava a cantare, sempre più vicina.

Über’s Jahr, über’s Jahr,
Wenn me Träubele schneid’t, Träubele schneid’t,
Stell’ i hier mi wiedrum ein. 3

Il tempo della vendemmia era quasi finito, e forse anche la guerra in Polonia.
Gli venne spontaneo chiedersi in che modo si fosse evoluta la situazione di Friedrich. Non riusciva a togliersi dalla testa quel sogno; più volte aveva rivissuto nei ricordi l’ultimo momento in cui lo aveva visto, prima che le forze lo abbandonassero. L’ombra della corte marziale, la condanna che gli pendeva sul capo, la sua ferma risoluzione di risolvere la questione da solo… nei pochi momenti di lucidità, sospeso tra incubo e veglia, aveva temuto i peggiori scenari: Friedrich degradato, gravemente ferito, morto. La sua perfida immaginazione gli aveva perfino insinuato la paura che si fossero esposti troppo, per quel rapporto e quei gesti così personali che andavano al di là della solidarietà militare, e rischiassero il processo col sospetto di aver violato il paragrafo 175.
La porta si aprì, distogliendolo dai suoi tormentosi pensieri, e nella camera entrò un’infermiera minuta e formosa, con una crocchia di capelli biondo cenere un po’ disordinata. Spingeva davanti a sé il carrello delle medicazioni, e quando lo vide si fermò a fissarlo coi suoi occhi grigi. “Hänsel? Ti sei svegliato, finalmente!”
Hans si meravigliò di quel diminutivo: era da quasi un decennio che non lo chiamavano più in quel modo. “Trude, da quanto tempo. Tu che ci fai qui?”
“Oh, è una storia lunga.” L’infermiera si avvicinò, gli tastò la fronte per controllare la febbre e gli sistemò il cuscino dietro la testa. “Ero venuta soltanto a controllare i pazienti, adesso ho molto lavoro da fare… sono arrivati parecchi feriti negli ultimi giorni, tra cui diversi ufficiali della fanteria. Te la racconterò un’altra volta, promesso.”
“Quando potrò uscire da qui?” chiese il maggiore, senza preamboli.
“La febbre è passata, ma hai ancora bisogno di riposo.”
Hans sbuffò irrequieto, e il movimento gli provocò una leggera fitta alle costole che si trasformò in un colpo di tosse. “Come procede la guerra? Che giorno è?” Allungò una mano verso il bicchiere poggiato sul comodino; Trude si offrì per aiutarlo, ma lui insistette per fare da sé, nonostante i denti serrati per il dolore.
“Ventotto settembre, la Polonia si è arresa ieri. Ci sono alcune sacche di resistenza qua e là, ma la guerra è formalmente finita.”
Mentre si dissetava, Hans fece un paio di brevi calcoli: da quel che ricordava, era rimasto ferito il ventuno, quindi si trovava lì da una settimana. “E dove siamo?”
“Breslavia, poco più a ovest. Se le tue condizioni si mantengono stabili, verrai dimesso tra qualche giorno, ma non devi sottoporti a sforzi inutili. Il tuo fisico è ancora molto provato.”
Bühler sprofondò di nuovo tra i cuscini ed esalò un sospiro. Non poteva avere il controllo sulle sue condizioni fisiche, ma aveva il bisogno di sapere che cosa ne fosse stato di Friedrich. Doveva fare qualcosa, almeno per non sentirsi così impotente e inerme. Come se quelle ferite lo tenessero legato al letto, incapace di capire quello che succedeva intorno a lui. Troppo debole, troppo stanco, la mente offuscata da una nube che limitava la sua capacità di giudizio razionale. Per quanto tempo ancora quelle catene invisibili avrebbero continuato a vincolarlo?
Non ne aveva idea, e quel senso d’incertezza lo riempiva d’angoscia e sgomento.

Per le strade di Varsavia regnava un silenzio quasi irreale: da quando il costante rombo dei cannoni aveva smesso di riverberare nell’aria giorno e notte, ogni minimo rumore pareva amplificato – lo scalpiccio di quattro paia di stivali militari, il fruscio di un volantino trascinato dal vento, un’imposta scardinata che sbatteva monotona contro il muro.
Con una nota di nostalgia, Fromm raccontava a Wessel com’era Varsavia prima della distruzione, ma la sua voce giungeva all’orecchio di Erich come un borbottio informe.
“Sembra un cimitero di rovine… una città fantasma, come in una di quelle scene inquietanti dei film muti,” commentò Hartmann, che fumava assorto accanto a lui. “Adesso ci manca soltanto che i morti prendano vita,” aggiunse poi, in un sussurro.
“Quasi…” Kühn era stato poche volte al cinematografo, ma le immagini grigie e tremolanti che aveva visto sullo schermo non gli sembravano così diverse da ciò che vedeva in quella strada, ormai priva di colori e di sembianze riconoscibili. Ovunque si udiva un fetore di morte, i civili sbandati strisciavano tra le rovine come bestie braccate. Dei palazzi, sventrati e anneriti dalle bombe, rimaneva solo una facciata sbiadita; mucchi di macerie servivano a tappare i crateri, protetti da passerelle di legno che scricchiolavano sotto i piedi.
“Un gatto nero!” esclamò Hartmann, indicando il felino che scomparve all’interno di una finestra con un topo in bocca. “L’hai mai visto il film? Quello sì che è vecchio, ero appena nato!”
“In verità no. Hanno fatto un film dell’orrore su un gatto?”
“Sì, ma poi il gatto muore impiccato, il protagonista inizia a delirare e uccide la moglie. Molto bello, anche se un po’ inquietante. E poi, povero gatto! Quelli che uccidono gli animali senza motivo dovrebbero fare la stessa fine.”
“Sono d’accordo.” Erich pensò a Otto, il cane del plotone, che col tempo era diventato praticamente suo. “Se qualcuno osasse toccarmi Bismarck non la passerebbe liscia.”
Si imbatterono in un gruppo di soldati delle SS che controllavano i documenti di alcuni civili in abiti da lavoro. Qualcuno osava avvicinarsi per collaborare, gli sguardi bassi e l’aria remissiva, mentre gli altri stavano zitti, forse per paura di essere sospettati e fucilati.
“Sono rimasti in pochi, gli altri probabilmente sono già scappati,” osservò Wessel.
All’improvviso si levò un alterco, un paio di uomini si avventarono sui soldati. Una donna scoppiò a piangere, tra le urla e il tafferuglio riecheggiò un colpo di fucile. Un ufficiale gridò, mentre i civili fuggivano spaventati. Kühn e Hartmann si voltarono di scatto e rimasero immobili a fissare il corpo inerte di un uomo, che giaceva a faccia in giù per terra.
Fromm scosse la testa. “Si parla tanto di diritto di natura, ma anche la guerra è naturale: se un uomo ha paura si difende, e si sa che in certi casi la miglior difesa è l’attacco.”
Istintivamente, Erich immaginò la sua Berlino ridotta allo stesso modo, sotto occupazione nemica, e un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Uccidere per non essere uccisi, non funzionava così? Era una legge vecchia come il mondo, e la Germania aveva molti nemici.
Proseguirono per un po’ in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri. Soldati del loro reparto brulicavano per le strade, sfruttando l’ora di libertà; avevano l’aria stanca e nessuno sembrava particolarmente in vena di festeggiare la vittoria, se non per bere qualcosa e trascorrere del tempo coi camerati.
Un interminabile corteo di prigionieri in marcia sbarrò loro la strada: ciondolavano come privi di vita, con le uniformi sgualcite e le barbe incolte, marciando verso un destino incerto. Sembravano l’esercito dei morti di una vecchia e malinconica canzone che Erich aveva sentito tanto tempo prima, anche se nessun tamburo scandiva il ritmo dei loro passi.
Hartmann si fermò a guardarli mentre scomparivano dietro una curva, come un lungo serpente umano dai colori sbiaditi. “Chissà dove andranno a finire.”
“Forse non lo sanno nemmeno loro,” replicò Kühn. “Uno del mio quartiere, che ha fatto la Grande Guerra da prigioniero, ne ha raccontate di ogni. Ha passato quattro anni della sua vita a fare la spola da un campo all’altro, a un certo punto si è pure beccato il tifo.”
“Sai, non è detto. Mio nonno, che all’epoca era un maggiore degli ulani, fu fatto prigioniero dagli inglesi. L’ufficiale che lo aveva preso in custodia lo trattava benissimo: passavano il tempo a bere whisky, giocare a carte e parlare delle loro esperienze di vita. Erano diventati così amici che hanno continuato a scriversi anche dopo la fine della guerra.”
Subito a Erich tornò in mente la storia del tenente polacco, finita in una tomba anonima ai margini della foresta. “Anche von Kleist si comportava così coi suoi nemici.”
“Von Kleist è sempre stato un tipo strano,” disse Hartmann, dopo una breve pausa. “È come se in lui non ci fosse una sola persona, ma più persone, che cambiano a seconda di come lo guardi.”
“Pensi che cerchi di comportarsi in maniera diversa da quello che è veramente?”
“Penso che solo chi lo conosce bene sappia veramente com’è fatto lui. C’è chi lo vede come uno che fa sempre come gli pare, chi come un aristocratico spocchioso, chi come una specie di… cavaliere del Graal.”
“Come quello della canzone che suonava al pianoforte… Parsifal?”
”Non mi limiterei a giudizi così semplicistici,” intervenne Fromm, che fino ad allora si era limitato ad ascoltare. “Sono convinto che von Kleist avesse le idee molto chiare quando ha deciso di fare quel che ha fatto. Ha colto l’occasione, non aveva tempo per pianificarne un’altra. Ai piani alti lodano il suo gesto, soprattutto il generale.”
“E si hanno notizie di lui?” chiese Erich.
“Per esser vivo è vivo, anche se ancora incosciente. Non sanno ancora se ce la farà,” rispose Wessel. “Quel che è certo, perché lo dice il generale, è che se l’è cavata in maniera pulita: non ci sarà nessun processo a suo carico.”
Hartmann fece un sorriso sghembo. “Come si suol dire, tutto è bene quel che finisce bene… o quasi.”
Fromm levò lo sguardo verso il cielo, una tela sbiadita che non recava più traccia del fumo che per giorni lo aveva nascosto. Non c’erano aerei, solo uccelli. “Diciamo che chi ha l’audacia di superare se stesso ne esce vincitore, in un modo o nell’altro. Chi invece si rassegna al flusso, rimettendosi alla Provvidenza, verrà portato via dalla corrente senza lasciar traccia di sé.”

Nel riquadro azzurro della finestra comparvero due uccelli che s’inseguivano volteggiando, come in una sorta di amichevole competizione, fino a dileguarsi con un verso stridulo. Quel dettaglio fece riaffiorare alla mente di Hans la conversazione sotto la vecchia quercia, quando per la prima volta Friedrich gli aveva chiesto della sua terra d’origine: il fatto che proprio lì, in quella zona di confine così lontana da casa, a occuparsi di lui fosse una sua vecchia compagna di classe, gli dava come l’impressione che tutto fosse collegato in un modo che non riusciva a spiegarsi.
Tutto… o quasi. Non aveva ancora ricevuto notizie di Friedrich, e quel pensiero continuava a turbare i suoi sonni e le sue veglie, senza tregua: per quanto si fidasse del suo compagno, l’incertezza e l’impossibilità di colmare quel vuoto generavano miriadi di scenari differenti.
“So badare a me stesso, Schwabe.”
Se tutto fosse andato secondo i suoi piani, le probabilità di successo si sarebbero moltiplicate. Aveva calcolato tutto: il piano d’azione, i possibili rischi, le alternative disponibili. Friedrich non avrebbe rischiato la carriera e lui non sarebbe stato costretto a rendere falsa testimonianza – o quantomeno a distorcere il suo resoconto – per salvarlo.
Se tutto fosse andato secondo i suoi piani, avrebbero potuto conquistare la vittoria insieme, sul campo, entro i limiti della legge. Se tutto fosse andato secondo i suoi piani…
In quel momento, qualcuno bussò alla porta, e Trude entrò reggendo un vassoio con una tazza, una teiera e dei biscotti.
“Oggi trattamento speciale?” le chiese Hans, ironico.
L’infermiera sorrise complice. “In qualche modo bisognerà festeggiare la vittoria.” Gli sistemò il cuscino dietro la schiena, aiutandolo a mettersi seduto. “Come stai, Hänsel?”
Egli emise un sospiro. “Se fosse per me, mi alzerei già adesso.”
“Non è prudente. Devi pazientare ancora qualche giorno.”
“Si vede che non sopporto l’infermità?” borbottò il maggiore, sistemandosi il tovagliolo intorno al collo con una smorfia contrariata.
“Dovresti imparare a non farti ferire, allora,” replicò Trude, mentre gli versava il tè nella tazza.
Hans la fulminò con un’occhiataccia, ma poi scosse la testa con un mezzo sorriso: il vassoio era pieno di biscotti a forma di stella, ricoperti di glassa di zucchero. Ne assaggiò uno e riconobbe subito il sapore di cannella e mandorle, che lo riportò indietro di diversi anni. “Zimtsterne, da quanto tempo non li mangiavo… è forse passata mia zia da queste parti?”
“No, però ha saputo che eri qui e ha pregato Matthias di portarteli…”
“Matthias? Quel Matthias?”
Gertrude scoppiò in una risata genuina, prese una sedia e si sedette vicino al letto. “Si vede che non vieni da tanto tempo dalle nostre parti! Sì, lui, Matthias Trautwein in carne e ossa. Ci siamo sposati cinque anni fa, mentre io studiavo ancora medicina, e abbiamo due figli.”
“Ma tu senti!” Hans quasi si soffocò con un biscotto, e ingoiò un copioso sorso di tè per impedirsi di tossire. Rammentò il suo amico, da sempre innamorato di lei, che la osservava di nascosto ma non aveva il coraggio di parlarle. “Ha finalmente deciso di farsi avanti?”
“In realtà sono stata io, altrimenti lui… figuriamoci! Probabilmente non avrei mai saputo che era innamorato di me, anche se pure io lo ero.” Gertrude rise ancora, poi trasse dalla tasca una fotografia che ritraeva lei, Matthias e una bambina sui tre anni: lui, rosso di capelli con l’uniforme da soldato semplice, teneva in braccio un infante, e lei era vestita da infermiera. “Questo è poco prima di partire per il fronte,” spiegò. “E così, quando è scoppiata la guerra ci trovavamo tutti e tre in Polonia, anche se in luoghi diversi… ora che ci penso, saresti potuto essere il comandante di Matthias!”
“Non oso immaginare,” commentò Hans con caustico sarcasmo. “Forse è meglio di no.”
“Dai, non è così pessimo! Chissà, forse era tra quelli che hanno portato armi e rifornimenti a voi della prima linea. Non ha praticamente mai visto il nemico in faccia! Voi, invece…”
Hans si rabbuiò: non solo aveva visto il nemico in faccia, ma aveva pure rischiato la prigionia e la morte. La distanza tra lui e i suoi amici d’infanzia, in quel frangente, sembrava essersi ancora più accentuata. Lui, ragazzo venuto da un minuscolo paesello nella Foresta Nera, non si sarebbe mai aspettato di incrociare la strada di un rampollo prussiano, né di condividere con lui la pace e una guerra su più fronti – eppure, tutto ciò era accaduto, e la vita semplice di Gertrude e Matthias gli appariva scialba; tuttavia, non si sentiva in vena di condividere le sue esperienze belliche, e rimase a bere in silenzio, guardando fuori dalla finestra.
“E tu?”
La voce della ragazza lo riscosse. “Io cosa?”
“C’è qualcuno che ti aspetta a casa?”
Hans rispose con un’alzata di spalle, senza voltarsi verso di lei. “Io sono un soldato, ho deciso di dedicare la mia vita a questo.” E in fondo, pensò, era la verità.
Lei, che evidentemente aveva capito che era meglio non insistere, decise di lasciar perdere il discorso. “Allora, quando vieni a trovarci? Non ti si vede da tempo!”
Hans s’incupì ancora una volta, rammentando la promessa fatta a Friedrich. “Mi stavo organizzando,” rispose poi, in tono neutro. “Prima però ho bisogno di sapere dov’è il capitano von Kleist.”
“Chi è? Non ne ho mai sentito parlare, non credo che sia qui.”
“È il mio aiutante di campo, ci siamo persi di vista dopo la battaglia…” Si fermò di colpo: quella stessa mattina, in giardino, aveva sentito parlare di un ufficiale che si era quasi fatto saltare in aria con una granata per difendere alcuni documenti di reggimento. Lì per lì, impegnato a leggere sul giornale le ultime notizie sulla capitolazione, non ci aveva fatto caso, ma in quel momento gli venne il netto dubbio che potesse trattarsi di Friedrich. Svuotò la tazza e scostò da sé il vassoio. “Devo sapere come sta, se qualcuno ha notizie di lui.” Si mise a sedere con le gambe fuori dalla sponda del letto, nel goffo tentativo di alzarsi, ma ricadde all’indietro con un capogiro.
“Fossi in te starei attento, che quella pallottola ti ha quasi mandato all’altro mondo!” lo rimproverò bonariamente lei, porgendogli il braccio.
Hans la prese in giro: “Sai come si dice, dulce et decorum est…”
“Lascia stare il tuo latinorum!”
“Dovresti impararlo anche tu, ti piacerebbe.”
“L’unico latino che conosco mi serve per curare i pazienti, e a differenza tua, so bene che un convalescente non può alzarsi a suo piacimento. Prova a chiedere a un ufficiale medico se ti fa telefonare al tuo comandante.”
Egli rimase seduto, rassegnato, ma senza rimettersi a letto. “Ho bisogno di sapere come sta quel capitano. Al più presto.”
“È così importante per te?”
“È il mio aiutante di campo, eseguivamo sempre le manovre insieme,” ripeté. “Mi fidavo dei suoi pareri strategici, delle sue capacità. Era il mio collaboratore più fidato.” Fece una piccola pausa, guardando di nuovo fuori. “E non solo, siamo buoni amici anche al di fuori dell’ambito militare, conosce pure mia zia. È stato lui a convincermi a tornare a casa.”
Si accorse che in tutto ciò non aveva nemmeno pensato ai suoi sentimenti per lui: ormai non era più capace di separare la loro alleanza militare da ciò che li legava a un livello personale, e dopo quell’esperienza il confine tra le due cose era diventato ancora più sottile.


  1. Quando tornerò, quando tornerò / quando tornerò indietro / tornerò, mia cara, da te.↩︎

  2. Non posso stare sempre con te, / ma ovunque io sia, la mia gioia sarà con te / Quando tornerò…↩︎

  3. In quel momento dell’anno / in cui si avvicina il tempo della vendemmia / tornerò a casa↩︎

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Capitolo 29
*** Capitolo XXV ~ Aus dem stillen Raume, aus der Erde Grund, hebt mich wie im Traume dein verliebter Mund. ***



XXV.
Aus dem stillen Raume, aus der Erde Grund,
hebt mich wie im Traume dein verliebter Mund.


Il suono delle fanfare, che si spandeva da un capo all’altro del lungo viale costeggiato d’alberi, scandiva il passo delle compagnie in grigioverde. Marciavano ordinati al ritmo festoso di tamburi e ottoni, seguiti da motori rombanti e dallo scalpiccio dei cavalli che trainavano le batterie. I comandanti di compagnia in alta uniforme, le sciabole al fianco, guidavano i loro reparti; al posto di von Kleist c’era Fromm, affiancato da Hartmann, Wessel, Körner, e Kühn che reggeva lo stendardo.
Appese alle aste, le bandiere rosso sangue con la svastica erano macchie di colore che contrastavano con lo scenario che faceva da sfondo alla parata. Le facciate dei palazzi, che conservavano tracce della loro superba architettura – e che il capitano Fromm, con una certa malinconia, aveva definito immagini sbiadite di un’epoca ormai andata – erano rovinate dai bombardamenti: la guerra sembrava ormai un ricordo lontano, ma aveva lasciato su Varsavia un segno duraturo. La folla assiepata sui marciapiedi era reticente, ma di tanto in tanto, tra gli sguardi diffidenti, qualcuno applaudiva o agitava i fazzoletti; i militari salutavano a braccio teso.
Quando i fanti giunsero davanti alla tribuna d’onore, una banda attaccò a suonare l’inno nazionale e Die Fahne hoch, e i reparti resero omaggio ai comandanti d’armata e al Führer. I cannoni sparavano a salve, gli aerei tracciavano acrobazie in cielo.
Dopo la fanteria, fu il turno degli altri corpi: cavalleria, artiglieria, carri armati che avanzavano in file ordinate, come i veri protagonisti di quella guerra lampo; e poi le truppe da montagna, l’aeronautica, la marina.
“Sai, a me sarebbe tanto piaciuto arruolarmi in marina, ma poi ho scoperto che soffrivo di mal di mare: ci sono rimasto malissimo,” confidò Hartmann a Kühn, indicando i marinai che marciavano con le loro giubbe bianche, i fucili in spalla e i caratteristici berretti. “Era il mio sogno fin da piccolo, e a volte continuo ancora a immaginare di essere insieme a loro.”
“Posso capire come ti sei sentito,” ammise Erich.
L’altro lo scrutò di traverso. “Che vuoi dire? È capitato anche a te?”
“Vengo da una famiglia operaia, e quando è morto mio padre ci trovavamo sul lastrico… però poi ci siamo ripresi, e io sono riuscito a entrare nell’esercito come avevo sempre sognato. E ti dirò, a me non dispiace stare qui in fanteria: siamo tutti uniti come fratelli, e poi mi piace l’azione in prima linea.” Fece un mezzo sorriso. “Di certo non ci si annoia.”
“L’uniforme grigioverde non è male, ma io continuo a preferire il mare. Ci sei mai stato tu?”
Erich scosse la testa. “No, non ancora, però qualche volta vado a fare il bagno nella Spree, nei tratti meno frequentati. Una volta sono pure salito su un battello.”
“Allora non puoi capire.”
“Tu di dove sei?”
“Lipsia, ma vado sempre in vacanza al mare in Pomerania. Adoro le storie di pirati e di marinai, e salgo spesso sugli scogli per guardare le navi che prendono il largo. Deve essere davvero bello trovarsi in mezzo al mare, giorno e notte, circondati dallo spazio sconfinato… deve essere una sensazione di libertà impagabile, da condividere con dei camerati su cui poter contare in qualsiasi momento, nelle gioie e nelle avversità.”
Hartmann rivolse un ultimo sguardo malinconico ai cadetti della Kriegsmarine che si allontanavano e, in silenzio, Erich lo imitò mentre sfiorava il berretto per salutarli.
“Bismarck, torna qui!” sibilò Krause all’improvviso, ma gli altri soldati, concentrati sulla sfilata, non parvero far caso a loro. Otto, sfuggito al suo custode, si avvicinò al ragazzo, gli annusò gli stivali e si accucciò scodinzolando ai suoi piedi.
“Lascia perdere, ci penso io.” Il sottotenente diede al cane un’affettuosa pacca sulla testa, e il caporale, scusandosi dell’inconveniente, gli restituì il guinzaglio.
“Vedo che siete diventati amici,” osservò l’altro.
“Ho deciso di portarlo a casa con me,” annunciò, poi rise sommessamente. “A mia madre prenderà un colpo, ma so già dove sistemarlo. Me ne occuperò io.”
Hartmann stava per rispondere, ma la conversazione fu interrotta da un altoparlante, attraverso il quale riecheggiò la voce di Adolf Hitler in persona.

Precedendolo lungo corridoi rischiarati dalla luce fredda delle lampade, che accentuava il pallore delle pareti verdognole, il capitano medico si muoveva con passi lenti e misurati. Era lo stesso uomo che si era occupato di Hans al fronte quando era rimasto ferito da una scheggia, ed era solo grazie a lui se il giovane aveva ottenuto il permesso di effettuare quella visita. Si fermò davanti alla porta di una camera di degenza e l’aprì con cautela, facendogli cenno di abbassare la voce. “Il capitano sta ancora dormendo, ma può entrare. Solo… devo chiederle di non disturbarlo troppo, è ancora molto debilitato fisicamente.”
Hans annuì, si tolse il berretto ed entrò in punta di piedi, con l’impressione di varcare la soglia di un luogo esclusivo in cui lui era soltanto un profano. Gli fece uno strano effetto vedere Friedrich che giaceva tra le lenzuola di quel lettino, coi capelli che gli ricadevano sul viso pallido. Una fasciatura gli circondava la fronte e altre bende bianche spuntavano da sotto le maniche della camicia, ma fu la vista della flebo a provocargli un’immaginaria fitta di dolore, proprio nel punto il cui il proiettile lo aveva colpito.
Gli avevano raccontato tutta la storia, di come lui si era quasi sacrificato per proteggere la bandiera: avevano definito il suo gesto eroico, anche se Hans non era sicuro che fosse il termine giusto. Gli avevano detto della corte marziale, dei pubblici encomi, del processo che non ci sarebbe stato. Gli avevano riferito che era grave, che le schegge erano penetrate in profondità, che era rimasto intossicato dal fumo dell’esplosione… che non sapevano se ce l’avrebbe fatta. Hans si era tormentato per giorni nel suo letto e, non appena lo avevano rilasciato, era salito sul primo treno per Varsavia e lo aveva raggiunto.
Si avvicinò stando attento a non far rumore, prese una sedia e l’avvicinò al letto del giovane. Sul comodino c’era un libro dalla copertina blu, che riconobbe subito: era “Nelle tempeste d’acciaio”, lo stesso che lui gli aveva prestato prima di partire per la Polonia. A fare da segnalibro, la fotografia con la loro frase: “Quando la fedeltà di tutti viene meno, noi rimaniamo fedeli. Fedeli come le querce tedesche, come la luna e la luce del sole.”
Si lasciò scappare un sospiro affranto: era quello che gli aveva ripetuto all’ombra della cappella, un giorno prima di beccarsi la famigerata pallottola. Gli sfiorò la guancia con una fugace carezza e tastò la scatolina che teneva nella tasca dell’uniforme, come per accertarsi che fosse ancora lì, poi si mise a leggere, iniziando la sua veglia silenziosa.
Fuori dalla finestra, il cielo si tingeva dei colori pastello del tramonto.

Lo scenario grigio e cupo palpitava di un’instabile vibrazione, come se fosse la pellicola di un film muto. Tutto era silenzio, ma esso non suggeriva pace: il fuoco distruttore aveva lasciato dietro di sé soltanto un’immane distesa di rovine, cancellando ogni traccia di presenze umane – tranne una: tra esse si aggirava solitario un cavaliere, che conservava solo un ricordo evanescente di ciò che era accaduto, come una sorta di reminiscenza. Non riusciva a capire se ciò che immaginava fosse successo davvero o se avesse sognato tutto, ma era sicuro di non essere riuscito a vederlo coi propri occhi. Tuttavia rinunciò a dare un seguito a quei pensieri e si allontanò al galoppo, le redini in una mano e lo stendardo in un’altra.
Cavalcò a lungo attraverso una distesa brulla, che forse un tempo doveva essere un prato. Qua e là si intravedevano ancora residui di filo spinato e spade spezzate; sullo sfondo dominava l’imponente sagoma di una quercia piegata, i cui rami scheletrici si protendevano verso il cielo come supplici. Sembrava testimone di secoli, ma non doveva aver visto la distruzione.
All’ombra dell’albero, intravide un’alta figura di spalle: era un cavaliere che scrutava l’orizzonte dall’orlo di un precipizio. Il suo mantello bianco spiccava su tutto quel grigiore, la cotta di maglia mandava riflessi argentei; dal suo fianco pendeva una spada. Sullo sfondo c’erano un fiume circondato da fitte foreste, un castello arroccato su una collina e un paesello di case a graticcio, ma parevano privi di spessore, come su una scenografia artificiale.
Smontò da cavallo, si tolse l’elmo e si avvicinò titubante a quella figura, che irradiava un’aura familiare. “Hans? Hans, sei tu?”
Il cavaliere si voltò verso di lui, si sfilò l’elmo a sua volta e gli rivolse un sorriso enigmatico. “Ci rivediamo, Friedrich.”
Egli ricambiò il sorriso. “Ce l’ho fatta, abbiamo vinto.”
“Lo so. Ti stavo aspettando, mi chiedevo che fine avessi fatto.”
Lo sguardo di Friedrich si posò sul vecchio albero. “Ma dove siamo? Tu…” Non riusciva a capire: se Hans era morto e lui lo aveva davanti agli occhi, voleva dire che…
“Le radici delle querce sono salde: non basta reciderne i rami per farle morire,” gli disse l’altro, come leggendogli nel pensiero.
“Ma anche l’albero più robusto muore, se viene colpito da un fulmine.”
“Guarda bene: le sue radici sono rimaste ancorate al terreno. La tempesta lo ha scosso, ma non abbattuto.” Sospinta da una folata di vento, la visione riacquisì colore, il fiume riprese a scrosciare e le fronde a stormire, mentre gli uccelli cinguettavano spensierati. La quercia si rialzò come se fosse dotata di vita propria; i suoi rami si estesero, caricandosi di foglie di un verde intenso. Anche la pallida figura di Hans, che prima era remota come una vecchia fotografia, riprese consistenza, e un refolo di vento arricciò i suoi capelli castani. “Ciò che è appassito può rinascere, nel ciclo eterno delle stagioni, e la sua morte è solo apparente.”

La visione svanì e Friedrich si ridestò, ritrovandosi nella stanzetta d’ospedale nella quale risiedevano le confuse memorie degli ultimi giorni: immagini sfocate, come viste dal fondo di uno stagno, frammenti di frasi che non era riuscito a rielaborare razionalmente. E non voleva pensare all’abisso di dolore che, dopo aver ghermito la sua mente e il suo animo, aveva fatto scempio anche del suo corpo. Anche se la coscienza andava e veniva, si sentiva ancora debole, confuso, come se la sua testa fosse foderata di ovatta. Si voltò appena, con fatica, e intravide un uomo seduto accanto al letto, con un libro tra le mani. Nonostante la vista annebbiata, lo riconobbe subito – lo avrebbe riconosciuto tra mille – e gli parve di essere intrappolato in una sorta di delirio lucido, in bilico tra sogno e crudele allucinazione.
Hans – o quel fantasma prodotto dalla sua mente, che aveva preso le sue sembianze – si accorse di lui e richiuse il libro, poggiandolo sul comodino. “Friedrich,” disse semplicemente, fissandolo coi suoi occhi ambrati e un accenno di sorriso sulle labbra.
Il capitano sbatté le palpebre esterrefatto, strinse gli occhi e lo fissò, ma la visione non scomparve. “Hans?” balbettò.
“E chi, sennò? Certo che sono io.”
Friedrich si sentì investire da un’emozione indescrivibile, le ciglia gli si inumidirono e si vergognò di quel momento di debolezza. “Io… credevo che… com’è possibile?”
Hans allungò la mano a sfiorare la sua, ed egli la strinse, sentendola calda e ruvida. “Lo so, mi avevano dato per morto in parecchi,” gli disse. “Ma come vedi sono qui, in carne e ossa.”
Solo a quel punto riuscì a dare un nome a quello che provava: si sentiva felice, sollevato. Faticava a capire quello che stava succedendo, ma non gli importava. Hans era vivo, e lui…
“So quello che è successo dopo che sono rimasto ferito,” continuò l’altro, senza scomporsi. “Sei stato coraggioso, hai vinto su tutti i fronti.”
Nell’udire quelle parole, gli tornò in mente tutto. Un flusso di memorie che apparivano e scomparivano, come immagini impressionistiche ed echi lontani, gli fece capire il senso del suo sogno. “Abbiamo vinto,” lo corresse in un sussurro.
“Non voglio prendermi meriti che non mi spettano.” Hans frugò nella tasca, ne trasse un cofanetto nero e glielo porse. “E a tal proposito, questa è per te: te la sei meritata.”
Friedrich lo prese tra le mani e lo aprì, mentre Hans leggeva ad alta voce l’attestato: “In nome del Führer e comandante in capo della Wehrmacht conferisco la Croce di Ferro di prima classe al capitano Friedrich von Kleist. Varsavia, 1° Ottobre 1939. Firmato, il tenente generale e comandante di divisione Erwin von Salza.”
Rimase per qualche istante ammutolito, a rigirarsi tra le dita la medaglia di freddo metallo. Non ricordava quasi niente di come l’aveva conquistata, ma comprese all’istante che la situazione si era risolta esattamente come avrebbe voluto lui. Forse, addirittura meglio di quanto si fosse aspettato. Niente corte marziale, niente disonore…
“Visto che hai una certa tendenza a farti ferire per dimostrare il tuo valore, il generale ha deciso di ricompensarti con questo gingillo,” scherzò Hans.
Colto alla sprovvista, Friedrich si lasciò scappare una lieve risata. “Potrei dire lo stesso di te!”
Il maggiore rise a sua volta. “Sì, infatti questa è la frase che ha detto von Salza a me giusto ieri, testuali parole. Ma le ferite sono un motivo d’orgoglio, no?”
“Ti hanno mica detto quante schegge avevo addosso?”
“Parecchie, ma per fortuna non hanno colpito punti vitali.”
Friedrich fece una smorfia. “Vorrei dire che ti batto, ma non sono io quello che è magicamente resuscitato dopo che tutti avevano inventato fantasiose storielle sulla sua morte.”
“Poi vorrò sapere in quanti modi sono morto, così prendo nota,” replicò il maggiore.
“Solo se mi prometti di non prendere spunto.”
“Fino a prova contraria, sei tu quello che ci ha provato. Io non l’ho fatto apposta.”
Si guardarono negli occhi e non poterono fare a meno di ridere all’unisono, consapevoli dei sottintesi che si celavano sotto quelle battute.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta: il tempo delle visite era esaurito. Hans non riusciva a capacitarsi di quanto in fretta il tempo fosse passato, e gli dispiacque lasciarlo. Gli strinse appena il braccio in segno di saluto, nell’unico punto senza fasciature, poi guardò l’orologio. “È già l’ora… devo andare.”
Il capitano si rabbuiò. Avrebbe voluto chiedergli di restare, dirgli cose che non avrebbe potuto dirgli in quel luogo, ma si limitò ad annuire. “Tornerai?”
“Resterò,” gli promise l’altro, raccogliendo il berretto da ufficiale. Lo salutò ancora una volta e uscì, lasciandolo solo.
Friedrich sprofondò nel cuscino, guardò per l’ultima volta la medaglia sul comodino e la sedia accanto al letto. Era come se tutte le tessere di un mosaico fossero tornate al loro posto.
Tutte, tranne una.

Il principe von Bentheim und Steinfurt si fermò di fronte allo specchio, senza veramente guardare l’immagine che vi era riflessa: un’esile lama di luce rimbalzava sulla cornice dorata, ma lasciava in ombra la sua figura, di cui s’intravedevano solo i fregi bianco-argento che ornavano l’uniforme di gala e la croce di ferro di prima classe appuntata al petto.
Tornava raramente al palazzo di famiglia, di cui conservava solo qualche sbiadito ricordo d’infanzia, né lo faceva mai volentieri, ma in quell’occasione era stata quasi una tappa obbligata: sua madre aveva organizzato un ricevimento per festeggiare la vittoria, mettendolo di fronte al fatto compiuto. Aveva invitato aristocratici e generali prussiani, veterani della Grande Guerra che di lì a poco lo avrebbero salutato, gli avrebbero stretto la mano e chiesto di raccontare le sue esperienze di guerra mentre bevevano champagne. Forse gli avrebbero presentato le loro figlie, di cui lui avrebbe cortesemente declinato ogni proposta. Avrebbe incontrato parenti che conosceva a malapena, che forse non aveva neanche mai visto in ventisei anni della sua vita, e che si sarebbero comportati con lui con l’atteggiamento formale che si doveva a un eroe di guerra.
Arretrò nel buio, indossò i guanti bianchi e raccolse la sciabola cerimoniale. Come echi lontani, iniziò ad avvertire le voci degli ospiti che si scambiavano saluti nell’atrio.
Si sentiva fuori posto in quel contesto – fuori dai campi di battaglia, lì dove era riuscito a conferire un senso più profondo alla sua esistenza e agli obiettivi che lo accompagnavano da sempre, lì dove erano le azioni a forgiare gli uomini e non la retorica di chi discorreva di guerra dalla poltrona di casa, come se fosse solo un banale agone.
Le chiacchiere da salotto lo stancavano, e aveva sempre considerato inutili orpelli le medaglie che non fossero state conquistate col sangue e col sudore della fronte.
Nel suo caso, il prezzo era stato molto più alto di quanto non sarebbe mai stato disposto a pagare: si era ripreso dopo la sua lunga convalescenza, ma quella battaglia gli aveva inferto ferite che non potevano essere risanate. Tuttavia, riteneva inutile lasciarsi prendere dalla nostalgia e dal sentimentalismo senza considerare tutto il resto. “Che valore ha la nostra vita per l’esercito del Reich? Morire per la Germania è per noi il più grande onore”, recitava la canzone che Reinhardt cantava sempre insieme ai suoi compagni.
A lui non restava altro che onorare la sua memoria.

Il campo era solcato dai cingoli dei Panzer, i cui motori sotto il sole facevano tremolare l’aria rovente. Alcuni rapporti segnalavano che la fanteria polacca si stava muovendo per intercettarli, ma nessuno era riuscito a localizzarla con esattezza.
“Dobbiamo necessariamente farci un’idea più chiara della situazione prima di schierare le truppe,” disse Konrad, indicando la vastità del territorio in cui si alternavano alberi e campi. “E i polacchi potrebbero essere ovunque. L’ideale sarebbe andare a perlustrare le linee di persona, ma non abbiamo nessun mezzo di trasporto.”
Reinhardt rifletté un attimo, poi sembrò illuminarsi “Aspetta, ci penso io.” Si allontanò a grandi passi, senza attendere replica, poi tornò qualche minuto dopo annunciato dal rombo di un motore. Quando riapparve nel suo campo visivo, era in sella a una moto, coi capelli scompigliati e un sorriso spavaldo.
Konrad lo guardò perplesso mentre si fermava di fronte a lui. “E quella dove l’hai trovata?”
Reinhardt diede gas, facendo ruggire il motore come se fosse una bestia aizzata. “Non fare domande e salta su, altrimenti ti lascio a piedi!”
Egli aggrottò le sopracciglia, tuttavia fece come il compagno gli aveva proposto: non era nuovo a certe trovate, e la cosa lo divertiva più che meravigliarlo. Reinhardt partì subito dopo, s’immise in una zona protetta dagli alberi, sfrecciando e zigzagando tra i tronchi a gran velocità; curvò bruscamente sollevando una gragnola di sassi, poi si fermò con una sgommata.
Sceserò entrambi, sfruttando la copertura di un alto cespuglio dietro cui si nascondeva un punto d’osservazione. Konrad scosse la testa mentre l’altro dava un colpetto affettuoso sulla carrozzeria nera, leggermente sporca di terra: era simile a quella che aveva comprato di punto in bianco a una fiera di Berlino, e che usava per trascinarlo nelle sue avventure.
“Come se fosse il dorso di un cavallo,” lo prese in giro.
“Vedi, te l’avevo detto che dovevi fidarti di me,” gli disse Reinhardt. “So domare le bestie a motore, io.”
Konrad gli tirò un buffetto sulla spalla e afferrò il binocolo. “Come se non lo sapessi fare anch’io. Vieni, andiamo.”

Quella festa gli appariva soltanto come una vuota celebrazione se non poteva condividerla insieme a colui con cui aveva affrontato gran parte del percorso. Avrebbe tanto voluto parlargli, festeggiare quella vittoria insieme a lui, guardare alla battaglia successiva, che si preannunciava già nell’aria, con la consapevolezza che lui ci sarebbe stato.
Gli sarebbe mancato tutto di lui: il suo ardimento, i suoi modi ottimisti e scanzonati, il suo coraggio che non rasentava mai l’incoscienza, bensì era consapevole dei rischi e sapeva evitarli. Tuttavia, per quella sera non poteva permettersi di indugiare in quei pensieri, onde evitare di scoperchiare il vaso di Pandora dei ricordi.
Controllò ancora una volta allo specchio che tutto fosse a posto, poi cercò di imporsi la solita maschera d’imperturbabilità che sfoggiava alle celebrazioni ufficiali e uscì per ricevere gli ospiti. Non si sarebbero senz’altro accorti di niente, nemmeno del silenzioso brindisi che aveva intenzione di rivolgere a chi più di tutti i presenti lo meritava.

In quel grigio pomeriggio d’ottobre, la pioggia picchiettava monotona sul tetto e disegnava ghirigori sui vetri. Hans entrò in casa e si tolse gli stivali zuppi, l’impermeabile e il berretto, frizionando con una mano i capelli umidi.
Prima ancora di andare a cambiarsi, allentò la giacca dell’uniforme, mise l’acqua nel bollitore e accese il fuoco. Si perse nei suoi pensieri mentre guardava distrattamente fuori dalla finestrella schermata dalle sue solite tende blu, nella cucina che era ancora spoglia come l’aveva vista sua zia anni prima: del resto, ci viveva solo lui.
Era tornato in servizio, aveva rivisto le facce conosciute: Wolff, Fromm, Wessel, Walkenhorst; Bentheim, che era stato trasferito in un’altra unità; Schwieger coi gradi di maggiore; von Rauheneck, che gli aveva fatto la solita paternale come discorso d’accoglienza, ma poi aveva iniziato a concedergli una maggiore fiducia. C’erano tutti tranne Friedrich, ancora in convalescenza.
Gli aveva fatto uno strano effetto rientrare in caserma dopo tutto ciò che aveva vissuto al fronte, vedere le facce stranite dei soldati che lo avevano creduto e dato per morto, diffondendo la notizia come se fosse qualcosa di inequivocabile.
Quando Konrad gli aveva parlato di Reinhardt, si era reso conto di quanto le vite di tutti loro fossero appese a un filo, come se un solo fatale proiettile potesse porre fine a qualcosa che si era costruito in anni di perserveranza. Imprevedibile e ineluttabile e, come tale, capace stravolgere l’intero equilibrio. Anche lui c’era passato – cambiava solo l’epilogo. Si era seduto sotto la quercia e si era ripetuto che, se anche fosse successo a Friedrich, sarebbe stato fiero di lui e del suo coraggio. Tuttavia, anche se i sentimenti erano ormai una cosa scontata, che non aveva bisogno di essere espressa a parole, non riusciva a immaginare la vita militare senza di lui, senza la sua costante presenza sul campo di battaglia.
Il lento gorgoglio dell’acqua che bolliva interruppe quel flusso di pensieri; Hans spense il fuoco e versò l’infuso nella sua tazza. Le sue giornate si susseguivano monotone: si alternava tra servizio e casa, a leggere un libro su quella poltrona o a passeggiare lungo il fiume. Non vedeva Friedrich da più di due settimane e poteva sentirlo solo attraverso i telefoni pubblici e solo per tempi limitati, senza parlare con lui come avrebbe voluto.
Forse gli altri non avrebbero mai capito cosa si provava – le mogli li aspettavano in patria mentre combattevano e li riaccoglievano, al ritorno, nel tepore delle loro case. Lui, invece, aveva Friedrich che lo aspettava in caserma e stava al suo fianco sul campo di battaglia. Era la vita che aveva scelto e aveva deciso di condividerla con lui, coi rischi che portava con sé.
Con la tazza in mano, tirò fuori dalla tasca la lettera di sua sorella, andò a sedersi alla scrivania e decise di rompere quel lungo silenzio: avrebbe fatto un salto nel Baden e, come aveva già intenzione di fare, avrebbe portato anche lui.

Le scuderie emanavano un familiare odore di fieno fresco. Manfred uscì tenendo alla briglia il suo cavallo e balzò subito in sella, in attesa che anche suo fratello lo raggiungesse. “Forza, muoviti, altrimenti parto senza di te!” Xanto, il suo fidato purosangue orientale, tese i muscoli impaziente; il sole traeva riflessi argentati dal suo lucido manto bianco.
Friedrich non rispose subito e, quando uscì, conduceva alla briglia un imponente cavallo baio dal manto color nocciola. Nonostante l’aria malinconica, un po’ persa nei suoi pensieri, si sforzò di simulare un sorriso. “Fai come vuoi, ti recuperò strada facendo. Tu sarai veloce sul tuo aereo, ma col cavallo so tenerti testa.”
“Dove l’hai lasciato il buon vecchio Sleipnir?” domandò Manfred.
“Non voleva uscire: credo sia stanco, ieri l’ho sfinito nella corsa a ostacoli… sai com’è fatto. Questo cavallo è il preferito di Hans, lo cavalcava sempre lui.” Mise il piede nella staffa, si issò agilmente in sella e diede un colpetto sul collo del cavallo, che partì al passo.
A Manfred non era sfuggita la nota di nostalgia con cui Friedrich aveva pronunciato l’ultima frase, tuttavia fece finta di niente e lo precedette, imboccando il viale che portava al boschetto in cui cavalcavano sempre. I giardinieri avevano rimosso le foglie secche, ma nuovi strati continuavano a cadere vorticando per terra, staccandosi dai rami degli alberi spogli, e crepitavano sotto gli zoccoli dei cavalli. Ovunque regnava il silenzio. L’aviatore proseguì per un tratto; poi, accertatosi di trovarsi da solo col fratello, riprese: “Visto che hai rammentato Hans, mi chiedevo… che fine ha fatto?”
“È sempre a Potsdam, non so quando lo rivedrò.” Friedrich si strinse nelle spalle: era sempre molto restio a parlarne, ma ogni volta che lo faceva il suo tono di voce cambiava.
“L’ho incontrato all’ospedale, quando sono venuto a trovarti,” disse Manfred.
Il capitano lo sorpassò, ma non rispose. Quell’atteggiamento gli fece capire di aver parlato troppo, ma anche di averci visto giusto. Abbassò la voce. “Era molto preoccupato per te.”
“Non ne aveva motivo,” replicò Friedrich. “Ho fatto quello che dovevo fare… per entrambi.”
Manfred rimase per un po’ in silenzio, poi raggiunse una pendio e smontò da cavallo, imitato dal fratello. Lasciò l’animale a brucare l’erba e si allontanò di qualche passo, volgendo lo sguardo al cielo di un intenso color zaffiro. “Sai, mi ricordi molto la protagonista del romanzo di Heidi von Tannenberg.”
“Chi? La sorella di Werner ha scritto un libro?”
L’aviatore tirò fuori dalla tasca un volume in formato tascabile e glielo mostrò. “Sì, ma non vuole che si sappia in giro. Non ancora, almeno.”
Friedrich osservò la copertina, su cui figurava in bella vista l’illustrazione di un cavaliere. “Ma è anonimo. Come fai a sapere che l’ha scritto lei?”
“Ho i miei canali d’informazione,” rispose Manfred, con aria da cospiratore. “L’ha fatto stampare a tiratura limitata e distribuito alle sue conoscenze; io sono riuscito a recuperarne una copia tramite suo fratello Richard, a cui faccio da istruttore di volo. Leggilo, ti piacerà.”
Friedrich, incuriosito, sfogliò sommariamente il libro, come per capire di cosa parlasse; poi se lo infilò in tasca e riprese in mano le redini. “Hai ragione, è proprio così. Hans mi è molto caro, ma non sarei capace di definire a parole quello che lui rappresenta per me. E forse è bene che alcune cose restino senza nome.”
Manfred annuì. “Io… credo di averlo capito da un pezzo.”
“Come? Perché?” sibilò suo fratello, scattando sulla difensiva.
“Trascorrevi più tempo con lui che con me,” replicò lui, con un’alzata di spalle. “Ma non ti preoccupare, so mantenere il segreto.”
Friedrich strinse i denti. “Me lo sarei dovuto aspettare da te, ma perché non mi hai mai detto niente?”
“Alla fine per me non cambia niente, e poi non sono affari miei. Siamo nati e cresciuti insieme, no? Il resto non conta.”
Visibilmente sollevato, il capitano accennò un sorriso. “Ti ringrazio per la discrezione.”
La cavalcata proseguì per un po’ in un silenzio velato d’imbarazzo, poi Friedrich riprese la parola. “E tu non hai da dirmi niente sulla von Tannenberg?”
Colto alla sprovvista, Manfred scoppiò a ridere. “Non è come pensi, non sa nemmeno che ho letto il suo libro!”
“Invece sì.” Friedrich gli rivolse un’espressione sorniona. “Prima o poi te ne renderai conto e mi dirai che avevo ragione.”
Manfred aggrottò le sopracciglia, tuttavia non disse niente: non voleva dargliela vinta. Spinse il cavallo tra i filari di alberi e affrettò l’andatura, sfidando l’altro a tenergli dietro.

La prima neve dell’anno aveva pervaso il cielo di una luminescenza argentata che, dalle ampie finestre, s’irradiava all’interno della stanza pervadendola di un’atmosfera siderale ed eterea. Seduto su un divanetto circondato da scaffali ricolmi di vecchi libri, mentre Hubert sonnecchiava ai suoi piedi, Friedrich rileggeva gli appunti in prosa e in versi che aveva scritto durante l’avanzata in Polonia. Si soffermò sull’ultimo frammento: tre camerati.
Gli era venuto in mente durante l’ultima veglia insieme a Konrad, subito dopo la morte di Reinhardt, ma era solo un insieme di impressioni sparse e frasi sconnesse. Per molto tempo aveva cercato di darvi un ordine compiuto, ma senza riuscirci; e forse non ci sarebbe mai riuscito, per quanto desiderasse farlo, perché non riusciva a trovare le parole giuste per rendergli giustizia. Oltre alla decennale amicizia che li legava, Reinhardt gli era stato vicino anche in quell’ultimo periodo, gli aveva pazientemente offerto la sua spalla ed era riuscito a ridargli speranza, mentre lui, che aveva fatto tanto rumore per nulla, se lo era visto morire davanti agli occhi quando ancora si disperava per una notizia falsa.
Aveva vissuto quella battaglia come un capitolo che si era concluso troppo in fretta, non perché il racconto fosse realmente terminato, ma perché le pagine erano state strappate via, lasciando soltanto quelle che narravano le gesta più significative.
Richiuse il quaderno e voltò appena la testa, fermandosi a guardare la neve che vorticava nell’aria: non aveva ancora attecchito sui prati, ma ornava le chiome degli alberi e vi tesseva leggiadri ricami. Sembrava di trovarsi in un reame di fiaba, lontano da tutto il resto.
Non voleva pensare al passato, né alla guerra, né al dolore, né alla morte, che aveva conosciuto in tutte le sue forme. C’erano momenti in cui voleva estraniarsi dalla prosaica realtà, scrollarsi di dosso il peso dell’esistenza e tornare a credere genuinamente in quegli ideali che lo avevano accompagnato sul campo di battaglia. Tuttora essi non lo abbandonavano, ma sembravano essersi intiepiditi, come quei fiocchi che si posavano sul davanzale. Aveva come l’impressione di aver attraversato l’Averno e di esserne uscito con una nuova consapevolezza, ma anche con un marchio a fuoco che in qualche modo aveva sancito in lui una metamorfosi irreversibile. Non sapeva, però, se in meglio o in peggio, e forse non era ancora giunto il momento di scoprirlo.
Assorto nei suoi pensieri, si perse nella contemplazione del cielo che stava gradualmente assumendo una tonalità color pervinca, e fu richiamato alla realtà dopo un tempo interminabile da Johann, che venne a bussare alla sua porta annunciando l’arrivo di un ospite.
Friedrich, all’inattesa interruzione, sobbalzò sulla poltrona, ma non chiese spiegazioni: aveva già capito di chi si trattava; lo stava aspettando. Congedò il maggiordomo e si diresse nel salotto verde, dove trovò Hans in piedi vicino al camino, avvolto in un lungo pastrano militare ricoperto di cristalli di neve. Il giovane si voltò verso di lui e si tolse il berretto in segno di saluto: aveva le guance e la punta del naso leggermente arrossate dal freddo, che spiccavano sul pallore del volto, ma quando lo vide i suoi occhi si illuminarono. Nel bagliore delle fiamme, gli apparvero ancora più profondi.
Si avvicinò, fermandosi a un passo di distanza da lui. “Hans, da quanto tempo.”
“Finalmente ce l’ho fatta a venire,” disse l’altro.
Friedrich lo squadrò dalla testa agli stivali inzaccherati. “Sei venuto a piedi dalla stazione? Potevi telefonarmi, così venivo a prenderti.”
Hans annuì con un’alzata di spalle, mentre si toglieva il cappotto. “Non funzionava il telefono, e poi non importa. Sai che mi piace camminare.”
Friedrich sorrise, Hans cancellò con un passo le distanze tra loro e si ritrovarono l’uno tra le braccia dell’altro, incuranti di qualsiasi altra cosa. Avrebbe voluto dirgli tante cose, ma per il momento si accontentò di quello: c’era ancora tempo per recuperare.
Vennero separati all’improvviso da Hubert, che puntò le zampe contro le gambe del maggiore e lo accolse scodinzolando. “Eccolo, il soldatino.” Hans si chinò a salutarlo e Friedrich avvertì un senso di gioia e completezza che non provava da tempo.

Friedrich aveva condotto Hans nel suo salotto personale, dove i domestici erano giunti a portargli tè e biscotti. Erano seduti sul divano, sprofondati tra i cuscini, così vicini che le loro spalle si toccavano, e il fuoco nel camino dava una connotazione ancora più intima a quel piccolo angolo di quiete inviolata. Il capitano reclinò la testa e l’appoggiò contro la spalla del compagno, poi gli avvolse un braccio intorno al torace, facendogli percepire il calore del suo maglione grigio. “Mi manca il servizio, come va in caserma?”
“Come sempre, non ci sono particolari novità,” ammise Hans. “Gli ufficiali non fanno altro che parlare di noi, ma sembra che a nessuno di loro siano ben chiare le dinamiche dell’accaduto.”
Friedrich alzò lo sguardo su di lui. “Meglio così, no? Non sono tenuti a sapere.”
Bühler fece una smorfia. “Se non fosse che sopperiscono alla mancanza di informazioni inventando le storielle più disparate. Quando sono rientrato circolavano ancora tre versioni sulla mia presunta morte, ma penso che ce ne fossero anche altre. Ce n’è una parecchio interessante: secondo qualcuno avrei perso talmente tanto sangue da lasciar stecchito un cavallo. Appena mi hanno visto, mi hanno guardato come se avessero avuto davanti un fantasma.”
“Sei pallido, ma non così tanto,” replicò Friedrich. “E poi tu sei l’uomo di ferro, dovrebbero averlo capito ormai.”
Hans alzò gli occhi al cielo con uno sbuffo teatrale. “Ancora con quel nomignolo?” Si piegò in avanti per posare la tazza vuota mentre l’altro tratteneva una risata, poi si lasciò ricadere all’indietro e rise insieme a lui. “L’unico ferro è quello che ho nel sangue.”
Seguì un breve silenzio, poi il capitano si fece inaspettatamente serio e abbassò la voce. “Avevo ragione io, avrei dovuto accompagnarti al posto di medicazione. A costo di caricarti in spalla e disobbedire ancora una volta.”
Hans aggrottò le sopracciglia. “Non c’era tempo, non potevi rischiare di nuovo… per me. E poi, come vedi, i portaferiti sono arrivati subito dopo.” Distolse lo sguardo e lo fissò sul disegno dei due cavalieri teutonici all’ombra di una quercia, che Friedrich aveva incorniciato e appeso al muro, poi esalò un sospiro. “In realtà, avevo elaborato un piano per risolvere quella questione… insieme. Ma non ho fatto in tempo a concretizzarlo, né a parlartene.”
Friedrich gli poggiò una mano sulla spalla, riducendo la voce a un sussurro. “Non dovevi farlo, non ce n’era bisogno.”
“No, Preuße, forse non ci siamo capiti,” fu la secca replica. Si fronteggiarono accigliati, occhi negli occhi. “Dopo tutto quello che hai fatto per tirarmi fuori da quel buco, sarei dovuto rimanere con le mani in mano? Non è così che funziona.”
“Ne sarei uscito fuori in qualche modo, anche senza il tuo intervento,” ribatté l’altro. “Tu dovevi soltanto stare al tuo posto.”
Il maggiore lo interruppe, senza scomporsi dinanzi alle sue parole. “Non potevo fingere che la cosa non mi riguardasse.”
“Non ti riguardava. L’ho fatto perché dovevo farlo, perché era la cosa giusta da fare, e solo io avrei potuto assumermene la responsabilità. Non perché mi aspettassi qualcosa in cambio.”
“Se è per questo, vale lo stesso per me.” Hans si protese verso di lui, il braccio appoggiato allo schienale del divano. “L’ho fatto perché volevo farlo, perché a mio parere era la soluzione migliore.” Gli rivolse un sorriso sghembo e abbassò la voce. “È quello che ci siamo sempre detti, no? Non mescoliamo i sentimenti personali al servizio.”
Non avrebbe saputo dire se quell’ultima frase fosse seria o ironica, ma forse non importava nemmeno più. Friedrich sembrò cogliere il reale significato tra le righe e rise, assecondandolo. “Infatti siamo sempre stati fedeli ai nostri ruoli, signor maggiore.”
Gli sguardi, che prima saettavano dardi, si sciolsero e si specchiarono gli uni negli altri, senza dire niente: non avevano mai sentito il bisogno di esprimere il concetto a parole, credendo che queste ultime lo privassero del suo significato, ma compresero subito dove volevano andare a parare.
“È sempre stato così,” disse Hans in un sussurro.
“E così sempre sarà,” concluse Friedrich.

Fuori era buio; l’unico alone di luce rossastra proveniva dal fuoco morente che sfrigolava nel camino. Friedrich fissava le pitture sul soffitto, perso nei suoi pensieri, mentre Hans – così sembrava – era scivolato in un leggero torpore. Sdraiati sotto le coperte pesanti, la vicinanza dei loro corpi bastava a scaldarli. Realizzò che gli erano mancati quei momenti, in cui le preoccupazioni terrene parevano svanire e li lasciavano soli di fronte a qualcosa che li riguardava in maniera esclusiva, ma andava al di là di loro come semplici uomini.
Allungò distrattamente una mano verso il compagno, sfiorandogli i capelli arruffati; Hans si mosse appena, sbatté le palpebre e lo fissò nel buio. Friedrich riuscì a scorgere il luccichio dei suoi occhi, ancora assonnati dopo la lunga scarpinata sotto la neve.
Schwabe… ricordi quello che ci siamo detti prima di partire per la Polonia?” gli chiese a bruciapelo.
L’altro rifletté per un breve istante, come per fare mente locale, poi piegò un braccio dietro la testa. “Ho già preso i biglietti del treno, Preuße.”
Friedrich si sollevò sui gomiti. “Perché non l’aereo? Ci vuole molto meno tempo e non ci sono scali. Non vorrai ripetere l’esperienza di quando siamo andati in Italia, spero: quanto ci abbiamo messo per arrivare, un giorno? E tutti i treni che abbiamo dovuto cambiare…”
“Sai che non mi fido degli aerei. Ci sono salito una volta e mi è bastata,” ribatté Hans.
Von Kleist sbuffò, ma decise di non insistere: sapeva già che quella discussione non gli avrebbe fatto cambiare idea, ma lo avrebbe solo convinto ancora di più della sua. “E dove li hai messi?”
“Nella tasca del mio cappotto.”
“Potevi dirmelo.”
Hans si sollevò a sedere, passandosi una mano sul viso; lui non poteva vederlo, ma era sicuro che vi fosse dipinta un’espressione tra l’ironico e lo spazientito. “Volevo parlartene con calma, ma tu con la tua impazienza rovini sempre tutto.” Si alzò in un fruscio di lenzuola, ma Friedrich lo spinse giù e lo rovesciò sul materasso prima ancora che potesse scendere dal letto e rivestirsi. Mentre lo sovrastava, percepì il suo sguardo torvo nel buio. “Non volevi vedere i biglietti?”
“Dopo,” sussurrò il capitano, sfiorandogli le labbra con le proprie.

Per arrivare nel paese natio di Hans rimediarono un passaggio su una vecchia vettura, che li caricò alla stazione notando le loro uniformi da ufficiali. Tutto intorno all’agglomerato di case, le colline irte di abeti erano ricoperte da una coltre bianca, attraversata dal fiume che riluceva come un nastro d’argento. Lungo le strette vie, le intelaiature e le imposte dipinte di colori sgargianti risaltavano decise su tutto quel candore, come a voler mettere in risalto il carattere della gente che le abitava. Hans vedeva i tetti spioventi coperti di neve e il fumo che usciva dai comignoli, ma al contempo immaginava gli argini verdi nel tripudio dell’estate e i balconi che straripavano di fiori, mentre il fiume scorreva gorgogliando. Si sentì invadere da una sensazione ineffabile, sospesa tra nostalgia, reminiscenza ed esplorazione: calcava il suolo a cui il suo sangue era visceralmente legato, ma si sentiva come un pellegrino sulla terra.
“Eccoci finalmente arrivati,” annunciò, volgendosi verso il compagno. “Benvenuto a Schiltach.”
“Sembra uno di quei paesi delle fiabe dei fratelli Grimm,” commentò Friedrich, guardandosi intorno con interesse mentre discendevano una via che conduceva verso il centro, sovrastati dalle alte facciate di case a graticcio. “Visto dal vivo è ancora più bello.”
Portavano i bagagli a mano, ma non sembrava avere alcuna fretta di raggiungere l’albergo prima di terminare la loro visita introduttiva. Torme di bambini si lanciavano giù per la discesa con le slitte, incuranti dei passanti – come faceva Hans da piccolo.
Giunsero nella piazza del municipio – un edificio caratteristico con la facciata affrescata, un frontone a gradoni e, al livello inferiore, due grosse arcate che si aprivano su un loggiato interno – dove era in corso un’animata battaglia a palle di neve. “Almeno un terzo di questi ragazzini porta il mio nome, ma non li ho mai visti in vita mia,” spiegò a Friedrich. “E se le tradizioni non sono cambiate, staranno facendo tedeschi contro francesi.”
“Sono tuoi parenti?”
“Non proprio – o almeno, non che io sappia. Se vedi la lapide ai caduti di guerra là dietro, ci saranno tre o quattro cognomi diversi in tutto il paese – tra cui il mio.”
“Attenti alle cannonate!” urlò un bambino, mentre loro si mantenevano ai margini, cercando di passare inosservati: conoscendo sua zia, probabilmente aveva detto a tutto il paese che suo nipote, ufficiale dell’esercito, si era guadagnato la croce di ferro di prima classe combattendo in prima linea, ma lui non ci teneva a trovarsi al centro dell’attenzione.
Al centro della piazza torreggiava un enorme abete, sotto il quale era stato costruito un pupazzo di neve vestito degli indumenti più disparati. Una pentola deforme voleva imitare uno Stahlhelm, e una giacca da lavoro bucherellata, di un grigioverde stinto, costituiva la sua uniforme. Qualcuno aveva intagliato una croce patente su una lastra di alluminio e gliela aveva appiccicata sul petto; un pezzo di legno faceva da fucile. Hans osservava il cencioso soldatino con le sopracciglia aggrottate, quando una palla di neve lo centrò nella schiena.
Si voltò sorpreso; alcuni bambini fuggirono, altri rimasero impalati a guardarlo. “La prego di scusarmi, signore,” mormorò uno, che sembrava il più grande.
“Nessun problema,” li blandì lui. Sulle prime fu tentato di ricambiare con un’altra cannonata, in memoria dei vecchi tempi, ma non voleva dare spettacolo. Si guardò intorno in cerca di Friedrich e notò che si era allontanato per andare a cercare la lapide commemorativa.
“Tristan, non lo vedi che è un soldato? Lui le cannonate le ha sentite davvero!” bisbigliò un altro bambino, rivolto all’amico.
“Un soldato? Non è che…”
“Secondo me è il maggiore Bühler, quello della croce di ferro! Non era oggi che doveva arrivare?”
“Bühler?” Apparve un ragazzo allampanato sui quattordici anni, con un ciuffo castano che gli pioveva sulla fronte: un’immagine speculare di lui più giovane, la stessa che aveva visto nelle fotografie inviategli da sua sorella. “Trattatelo bene, è mio zio!”
Subito dopo, Hans fu attorniato da un’orda di ragazzini, che il nipote, presosi subito confidenza, gli presentò a uno a uno. Da lontano scorse Friedrich, che gli rivolse un’occhiata interrogativa.
“Signor maggiore!” Un bambino dai capelli rossi, più spavaldo degli altri, si fece avanti gonfiando il petto. “Mio cugino mi ha parlato tanto di lei, si ricorda di Matthias Trautwein?”
“Signor maggiore, lo sa che portiamo lo stesso nome?”
“Anche mia madre fa Bühler di cognome, signore!”
Hans roteò gli occhi con rassegnazione: le sue più fosche previsioni si erano avverate.

Con Willi che li precedeva trotterellando, imboccarono la strada sterrata, circondata da una distesa di campi imbiancati, che portava alla casa di campagna in cui Hans era cresciuto. Il ragazzo sembrava entusiasta di trovarsi in compagnia di due ufficiali dell’esercito, per nulla in soggezione mentre raccontava i più disparati aneddoti delle sue scorribande.
Hans annuiva in silenzio, mentre Friedrich dava mostra di ascoltarlo con cortese attenzione: la sua mente viaggiava indietro nel tempo, quando percorreva quella strada in bicicletta alla massima velocità, scavalcava gli steccati o andava a cogliere i frutti dagli alberi.
La casa era così come la ricordava, tranne per la vecchia quercia su cui si arrampicava da piccolo, che era stata abbattuta per farne legna da ardere e sostituita da un virgulto più giovane e sottile, come in un passaggio di consegne. La veranda aveva le solite scale di legno scricchiolanti, il solito tavolino sbilenco e la solita panca, consumata dal tempo e dalle intemperie, dove lui si sedeva a leggere. Alla porta, intorno al ferro di cavallo, erano appesi rami di pungitopo e ghirlande di rami d’abete, decorate con fiocchi e campanelle colorate.
Willi bussò, trascorse qualche istante, poi la porta si spalancò e sulla soglia comparve la zia Hedwig, con una crocchia sfatta e il grembiule macchiato di frittura. “Eccolo, il mio Hansi!” esclamò, battendo le mani. “E c’è anche il capitano von Kleist! Benvenuto, signor capitano.”
Dalla cucina proveniva un profumo di ravioli ripieni conditi con burro e cipolle, arrosto di manzo e insalata di patate; l’acciottolio di pentole s’interruppe e arrivò anche sua sorella Liselotte: era invecchiata, ma portava la stessa treccia castana che le ricadeva sulla spalla.
“Hansi, ti stavamo aspettando.” Gli rivolse un sorriso timido e accolse Friedrich con la cortesia dovuta al suo rango militare: avevano chiarito via lettera, lui le aveva spiegato la situazione e ci avevano messo una pietra sopra. “Com’è andato il viaggio?”
“Un po’ lungo, ma tutto sommato bene,” rispose il maggiore, laconico.
Per ultimo si fece avanti lo zio Georg, che gli sferrò una pacca sulla schiena, così forte da fargli vibrare la cassa toracica. “Ma guarda chi si rivede, il figliol prodigo!”
Mentre entravano, Hans sorrise imbarazzato, ma non disse niente.
“Ho saputo quello che dicevano i tuoi colleghi. Non vorrai mica morire prima di me?”
“A quanto pare lo ha saputo tutto il paese,” replicò. “Mi hanno anche preso a palle di neve, come se non bastassero le pallottole che mi sono beccato al fronte.”
Georg esplose in una risata cavernosa. “Non fare lo spiritoso, ragazzotto: ora vorrò sapere tutto quello che hai fatto in questi anni per non venire mai a trovare il tuo vecchio zio!”
“Prima si mangia, poi si parla,” lo interruppe la zia. “Tutti a tavola!”
Tutto sommato, non gli dispiaceva essere ritornato a casa dopo tutto quel tempo.

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Capitolo 30
*** Capitolo XXVI ~ Kameraden auf Leben und Tod ***



XXVI.
Kameraden auf Leben und Tod


Primavera 1940

Lontano dal centro nevralgico di Berlino, il quartiere di Köpenick era un’isola di natura e storia, dove il verde degli alberi che costeggiavano i viali si alternava al rosso dei mattoni, entrambi riflessi nello specchio trasparente della Spree. Non gli ci volle molto per trovare la casa di Reinhardt, una villetta a due piani con un piccolo giardino e una rimessa: Konrad l’aveva vista solo da lontano, le volte in cui era venuto a prenderlo per andare altrove, e aveva rimandato a lungo quella visita per motivi che tuttora lo rendevano titubante.
Tuttavia, giunto sulla soglia e accertatosi che il cognome sulla porta fosse quello giusto, inspirò profondamente e suonò il campanello.
Passò un uomo in bicicletta con un giornale sottobraccio, fischiettando una vecchia canzone, poi la porta si aprì e di fronte a lui comparve un ragazzo sui diciassette anni, coi capelli biondi e il volto coperto di lentiggini. Gli sembrò di rivedere Reinhardt quando erano più giovani: aveva gli stessi occhi, ma il fuoco che vi ardeva era più mite e controllato, quasi analitico, come se volesse studiarlo a fondo.
“Stefan Greifenberg?” gli chiese, dopo i soliti convenevoli.
Il ragazzo rispose di sì in tono neutro, senza smettere di osservarlo.
“Sono il capitano Bentheim, un amico di tuo fratello.”
Stefan annuì come se si immaginasse esattamente quella risposta. “Lui mi parlava spesso di lei, signore. Prego, si accomodi pure.”
Konrad lo seguì attraverso l’atrio e poi in un piccolo salotto, dove il ragazzo gli indicò una poltrona e lo invitò a sedersi. “Vado a preparare il caffè,” disse semplicemente, senza filtri, poi scomparve dietro una porta e lo lasciò solo, a scandagliare l’ambiente con scarso interesse: un tappeto a fantasie geometriche tra il divano e le poltrone, uno scaffale con dei libri e una pianta dalle lunghe foglie verdi, una finestra schermata da tende floreali.
Sopra il camino, una fotografia di Reinhardt in uniforme da cerimonia, il giorno della sua promozione a ufficiale: sul viso aveva sempre il solito sorriso sfrontato, rimasto invariato negli anni, che lui ricordava fin troppo bene.
“Le ho portato del caffè, signore,” lo interruppe la voce di Stefan. Posò il vassoio con due tazze su un tavolino, gliene porse una e sprofondò sul divano, recuperando un libro da sotto i cuscini. Aveva un contegno distaccato, schivo, che non si perdeva in cortesie borghesi, ma la facciata apatica lasciava trapelare una malcelata tristezza.
“Anche lui mi parlava molto di te,” disse Konrad, cercando di rompere il ghiaccio.
Stefan rimase per un po’ in silenzio, fissando la fotografia del fratello maggiore. “Lui parlava tanto, ma a differenza di tante altre persone, non lo faceva mai a vanvera. Era lui il mio miglior istruttore, quello che avrei voluto seguire anche in battaglia.”
“Era un ottimo comandante sul campo, avresti dovuto vederlo.”
“Mi aveva detto lo stesso di lei, l’ultima volta che mi ha scritto,” ammise il ragazzo. “Mi raccontava delle azioni che conducevate insieme, aveva una gran stima nei suoi confronti. Solo una cosa non ho mai saputo, e forse non la voglio neanche sapere.” Prese il libro, lo sfogliò con aria svogliata, poi lo richiuse. “Nei poemi di una volta, nemmeno gli eroi più valorosi potevano sfuggire al Fato: loro, però, sapevano già a cosa andavano incontro, e lo facevano a testa alta. Che cos’è che guida la traiettoria di un proiettile invece, se non il mero caso?”
“Perché il fato non esiste, siamo noi a determinare il corso delle nostre azioni finché siamo in vita. La morte ci accompagna costantemente in guerra: l’unica cosa a cui dobbiamo pensare è fare il nostro dovere di soldati, fino alla fine.” A quelle parole, ricercò istintivamente con lo sguardo la fotografia sulla mensola del camino, immaginandola mentre riprendeva vita e colore. Si concesse un breve istante, poi si costrinse a distoglierlo, per spostarlo di nuovo sul ragazzo. “Adesso è a te che spetta raccogliere l’eredità che ti ha lasciato tuo fratello, nessun altro può farlo. Contemplare le rovine e cantare la gloria passata è compito dei poeti, mentre l’uomo d’azione punta a ricostruire ciò che è stato distrutto.”
Stefan non rispose; si limitò a leggere a bassa voce qualche verso dell’Iliade. “Quale delle foglie, tale è la stirpe degli umani. Il vento brumal le sparge a terra, e le ricrea la germogliante selva a primavera. Così l’uom nasce, così muor.”
Konrad s’incupì: quel ragazzo, così simile a suo fratello ma opposto per carattere, avrebbe calcato le sue stesse orme, anche se Reinhardt non sarebbe stato lì per vederlo. Era un passaggio di testimone, tanto inevitabile quanto doloroso, e per lui era giunto il momento di farsi da parte, di chiudere quel capitolo anche se faceva male.
“Per ogni soldato caduto in autunno, ne risorgeranno altri in primavera,” gli disse, congedandosi. Uscito di nuovo fuori all’aperto, camminò fino alle rive del fiume: il vento scuoteva i salici, intorno ai quali passeggiavano padroni coi loro cani, un gruppo di ragazzini giocava a pallone e le barche fendevano dolcemente la superficie trasparente.
Il tempo andava avanti con tranquilla indifferenza, limitandosi ad alzare le spalle di fronte alle piccole tragedie quotidiane e agli avvenimenti che lasciavano delle tracce indelebili nelle vite di chi li aveva vissuti. Persone che non potevano semplicemente essere dimenticate, come i passanti che andavano e venivano senza che l’occhio ci facesse caso. C’erano delle cose che non potevano essere ricostruite, ma a cui la memoria riservava un monumento glorioso.
Si sforzò di non indugiare troppo in quei pensieri: la battaglia di Grabnik era stata vinta anche grazie a lui, che aveva tenuto fede al suo voto fino all’ultimo e non s’era perso d’animo neanche allora. Era tra quelli che più credeva nella vittoria, e aveva messo in conto di ottenerla anche a prezzo della sua stessa vita – questo, però, non l’aveva mai detto.
L’avrebbe ricordato per quel che era e non per quello che sarebbe dovuto essere.
Nel frattempo, a occidente, la guerra presto sarebbe ricominciata.

La stazione era gremita di ufficiali, gendarmi e soldati carichi di bagagli. La scarsa luce dell’alba penetrava dalle vetrate che sovrastavano le enormi arcate di ferro, dove il treno attendeva disteso sui binari come un lungo verme. Friedrich gettò un ultimo sguardo al tabellone degli orari e al grande orologio, poi seguì Hans attraverso quella fiumana di uomini in grigioverde. Avevano passato indenni il controllo della gendarmeria e le raccomandazioni di von Rauheneck, ma il loro passaggio continuava a essere intralciato dalle masse di civili – in particolare ragazze – giunti sul posto per salutare i soldati in partenza per il fronte. Ancora una volta, il capitano si volse verso il compagno e fu colto da una consapevolezza ancora più totalizzante, che racchiudeva in sé tutto il senso di ciò che li univa come soldati e come uomini. Non sapeva cosa aspettarsi dalla Francia – o forse lo sapeva, ma non osava spingersi troppo oltre col pensiero – e una vaga inquietudine tornò a serpeggiargli nell’animo.
“Von Kleist!” lo salutò il capitano Wessel, fresco di promozione. Aveva sempre la stessa piega ai capelli, la stessa espressione; l’unica cosa che cambiava era un distintivo per feriti apposto sull’uniforme. Con lui c’era Fromm, che gli rivolse un sorriso imperscrutabile.
Bühler si allontanò, richiamato dal colonnello Wolff, e i due capitani rimasero da soli, con Wessel che li seguiva un po’ in disparte. “La clessidra viene di nuovo capovolta…” disse Friedrich a bassa voce, sentendosi inavvertitamente scuotere da un brivido: tra i suoi colleghi, Fromm era l’unico in grado di capirlo, ma c’erano cose che non poteva dire neanche a lui. Forse aveva ragione Manfred quando diceva che, prima di ogni volo di guerra, l’unica cosa certa era il decollo. Sapevi di partire, ma non se saresti tornato: c’erano troppe variabili in gioco, troppi scenari ugualmente probabili. Tuttavia, era proprio in quei momenti, in bilico tra la vita e la morte, che le faccende triviali perdevano ogni importanza e la forza delle idee prendeva il sopravvento sulla realtà terrena. Non era successo così anche a lui, quando aveva simbolicamente accettato il proprio fato? Allora cos’era che lo preoccupava?
Non era la paura di morire, né quella di perdere Hans, né il minaccioso spettro della corte marziale…
“Ma ciò che è stato non si ripeterà,” gli rispose l’altro, dopo una breve pausa. “Non allo stesso modo, almeno.”
Ecco cos’era che lo preoccupava: l’imprevedibilità del caso, che s’intrometteva per deviare ogni corso tracciato. Una minima variazione che poteva portare con sé conseguenze inimmaginabili, o una serie di coincidenze contemporanee che, combinate tra loro, generavano un esito imprevisto.
Certe volte si riusciva a prevenirle, arginarle o risolverle, altre se ne veniva semplicemente sopraffatti. Per lui quel ciclo malsano era stato stroncato da uno stendardo sporco del suo sangue, suo castigo e redenzione; il problema era stato risolto alla radice e la clessidra del tempo aveva ripreso a girare. Aveva rinunciato a una parte di sé per rinascere; quello che era stato non si sarebbe mai più ripetuto.
Lo stesso, su una scala più ampia, valeva per la Germania, che aveva vinto contro la Polonia e si preparava a scendere in campo contro mezza Europa, posta di fronte a prove ancora più ardue. Era il futuro la vera incognita: avevano vinto una battaglia, ma la fine della guerra era ancora lontana.
Cercò di nuovo Hans con lo sguardo e lo vide avvicinarsi insieme a Konrad: i soldati avevano ricevuto l’ordine di radunarsi presso i rispettivi comandanti. Mentre i civili venivano allontanati dai gendarmi, i fanti in grigioverde iniziavano ad accalcarsi sulla banchina tra le aspre grida dei sottufficiali; Kühn e Hartmann, che fino a poco prima parlottavano tra loro, si presentarono a rapporto in simultanea. Friedrich scorse di sfuggita anche il generale von Salza, attorniato dagli ufficiali del suo Stato Maggiore: anche l’uomo, che personalmente aveva insistito per valorizzare il suo gesto, ricambiò lo sguardo, e il messaggio giunse a destinazione come una freccia scoccata da un arco silenzioso.
La locomotiva emise un lungo sibilo, dal fumaiolo uscì un pennacchio di fumo grigiastro che annunciava la partenza imminente. Ancora saluti carichi di promesse, lacrime e baci soffiati, mentre Hans e Friedrich, impassibili, aspettavano che i loro soldati occupassero i vagoni.
Salirono per ultimi, trovando posto uno di fronte all’altro vicino al finestrino; le porte si richiusero e il treno partì sferragliando. Mentre le patrie campagne si allontanavano, si scambiarono un’occhiata fugace e non ebbero bisogno di parole per capirsi.

L’alloggio del comandante di battaglione era un appartamento all’ultimo piano, dalla cui finestra aperta si riusciva a vedere la sagoma della cattedrale di Amiens rischiarata dai lampi delle esplosioni lontane. Nonostante la guerra onnipresente intorno a loro, la brezza di fine maggio portava il profumo degli alberi che ombreggiavano il viale, accentuando l’illusione di quel piccolo attimo di tregua.
Hans si affacciò alla finestra, tenendo tra le mani un bicchiere di vino del Reno: le stelle splendevano in uno spicchio di cielo inviolato, remote e brillanti, riflettendosi sulle rive della Somme – un fiume testimone di molte battaglie, che lui aveva conosciuto attraverso i libri e riviveva in prima persona. Tutto passava, come le sue placide acque, e il tempo che li separava dalle loro prime battaglie gli pareva appartenente a un’altra epoca, come un sogno remoto che però aveva lasciato la sua impronta duratura. “Sai, spesso mi viene da ripensare a quando siamo partiti per la guerra, e a quante cose siano cambiate da allora… solo due cose non cambieranno mai: Eichmann che profetizza sventure e Schneider che traffica sigarette.”
“Tutto cambia, tutto si evolve… tranne loro,” replicò Friedrich con una leggera risata.
Hans sorrise appena, lasciando che l’aria fresca della sera gli accarezzasse la nuca. Fin dai tempi della Polonia, avevano tacitamente concordato di non pensare alla guerra durante i pochi momenti che potevano trascorrere da soli, ma quell’osservazione lo colpì per l’implicita verità che sottintendeva: tutto cambiava, perfino loro. Quella guerra su più fronti li aveva resi più forti, più consapevoli; aveva provato a spezzarli, ma non era riuscita neanche a piegarli. Realizzò che tempo prima si era sbagliato: Friedrich non era vittima del fato come gli eroi a cui lo aveva sempre paragonato, perché sfidando la sorte ne era uscito ferito ma vincitore, come un pioniere di un’epoca dove l’idea è volontà e legge.
“Mi dispiace non esserci stato. Era la nostra battaglia, avremmo dovuto affrontarla insieme.”
“Qui ti sbagli, Schwabe. Anche se in quel momento non eri presente, è anche grazie a te se ce l’ho fatta.”
Indugiò per un po’ in quel pensiero, chiedendosi quali e quante altre prove avrebbe riservato loro il futuro; poi, senza dire nulla, andò a rovistare nel suo bagaglio, ne trasse la sua cartella rossa dagli angoli ormai consunti e la posò sul tavolo. “È vero: tutto cambia, tutto si evolve, e io ho ripreso le vecchie abitudini. Questo,” disse, traendone un foglio, “l’ho fatto l’altro giorno, alla villa del vecchio banchiere francese, mentre tu suonavi quel pezzo al pianoforte.”
Solo loro due conoscevano il significato di quelle note, e anche in quel momento, mentre mostrava a Friedrich il suo disegno, gli sembrava ancora di sentirne riecheggiare la melodia.

Sulla cima della montagna si ergevano due querce secolari, così vicine che le loro radici e i loro rami sembravano intrecciati. La base e l’erba attorno erano annerite dalle fiamme: l’incendio le aveva lambite, ma non aveva impedito loro di rimettere le foglie.
All’ombra dei due alberi, due cavalieri dai mantelli bianchi si affacciavano sullo strapiombo. Uno aveva i capelli biondi, leggermente scompigliati e accesi dai riflessi dell’alba, brandiva una spada e alla sua lancia era appeso uno stendardo; l’altro, di poco più alto, era castano, portava un elmo sottobraccio e uno scudo con un’aquila nera.
Contemplavano la vallata inondata di luce, teatro delle loro future battaglie, e poi il sole che maestoso risaliva all’orizzonte, dissipando le nuvole.





Eccoci alla fine di questa avventura.
L’hanno iniziata in tanti, ma l’avete finita in pochi: come una banda di fratelli, come soldati uniti nel cameratismo e nelle difficoltà, è a voi che vanno i miei più sentiti ringraziamenti.
Grazie per avermi accompagnato fin qui, grazie di cuore.

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