La bella e la belva

di lisitella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 12 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 
 
 
Capitolo 1    


 
 
Arrivai a Malmaynes una sera di Settembre del 1856, piena di timore e, nello stesso tempo, di eccitazione per la nuova vita che mi aspettava.

Da tredici anni avevo perso la mamma, uccisa insieme alle mie sorelle Carola e Rebecca, dal colera del 1842. Di mio padre conservavo appena il ricordo, poiché era morto quando io ero piccina. Ad occuparsi di me, era stato un mio zio, Salisbury Troy, che abitava in un paesino poco distante da St. Errol. Era un uomo buono e gentile d’animo, ma aveva avuto  scarso successo come avvocato, tanto che aveva abbandonato presto la professione ed era diventato, purtroppo, dedito all’alcool. Una passione questa che, certo, non lo aveva aiutato a far carriera.

E sebbene zio Troy fosse sempre stato comprensivo con me, un vero padre, io, ormai ventiquattrenne, sentivo il desiderio di volare un poco con le mie ali ed ero stanca della vita di paese. Avevo una buonissima cultura, grazie alle lunghe conversazioni con lui, e sapevo anche stenografare perché un inverno, qualche anno prima, mi ero iscritta a un corso tenuto nella borgata di St Errol da alcuni insegnanti volenterosi e abili. E proprio il fatto di essere stenografa, dovevo l’invito che mi era stato rivolto di recarmi a Malmaynes.

Da diverso tempo ero in corrispondenza con un famoso poeta di lingua inglese, Charles Winters. Gli avevo scritto la prima lettera con l’entusiasmo di una  ragazza appassionata di letteratura e d’arte, ma costretta a vivere in un ambiente ristretto, dove non aveva molte occasioni di soddisfare le sue tendenze artistiche. Ed ero rimasta estasiata nel ricevere una risposta, scritta dal segretario, ma firmata dal poeta in persona: voleva ringraziarmi per l’ammirazione che gli avevo espresso e voleva anche comunicarmi che avrei presto ricevuto, in dono, il suo ultimo libro “Riflessioni e Rimembranze.” La lettera veniva dal Belgio e doveva segnare l’inizio di un costante, se pure non fitto, scambio di missive.
Con sorpresa e gioia infatti, nell’estate di quell’anno, me ne era giunta un’altra nella quale Charles Winters mi domandava se sarei stata disposta a lasciare almeno per qualche tempo la casa dello zio, e trasferirmi presso di lui in qualità di segretaria. Il suo attuale segretario, Jean Akphonse, un belga bilingue, non poteva lasciare Bruxelles a causa di impegni familiari, mentre lui aveva deciso di stabilirsi in Inghilterra, in una proprietà di nome Malmaynes, che aveva recentemente ereditato e che si trovava sulla sponda del mare di Cornovaglia.

Avevo accettato senza esitazioni e devo dire che il mio rimorso nell’abbandonare zio Troy era stato raddolcito dalla serenità con cui la notizia della mia decisione era stata accolta.
«O presto o tardi cara Dawn ,» mi aveva detto, dovevi pur andartene, o sposandoti, o intraprendendo un lavoro.» Poi, pensieroso, aveva aggiunto: «Malmaynes… Non ci sono mai stato, ma ricordo di aver letto diverse cose al riguardo. Credo fosse nel 1835 che a Falmouth venne dibattuta una causa concernente proprio certi avvenimenti che si erano svolti a St Gawes, poco lontano da Malmaynes.» Si era alzato, era andato a prendere da uno scaffale della biblioteca un’annata della “Cronaca Giudiziaria” e aveva cominciato a sfogliare le vecchie pagine ingiallite.

«Oh, zio non disturbarti! Non occorre proprio!» avevo esclamato, ma lui non mi aveva dato retta. Aveva continuato a cercare sin che aveva trovato la pagina giusta.

«Ecco! Ecco qui! “Si è concluso oggi, dinnanzi al giudice Randall, il processo a carico Dustin Kinney, imputato di aver ucciso due donne Ruth Rannis e Emily Witham, nella parrocchia di St Gawes. L’omicida, non avendo ottenuto la clemenza invocata per insanità mentale dal suo avvocato, sconterà i suoi atroci delitti con la morte.” «Ecco,» aveva concluso lo zio, «la lugubre fine del delinquente che la fantasia popolare aveva battezzato “Belva di Malmaynes”.

«Perché, poi , Malmaynes?» avevo domandato.

«Non so. Fu un giornalista a coniare l’appellativo e la “Belva di Malmaynes” divenne celebre sotto quel nome. Morì circa ventidue anni fa, ma non sulla forca come aveva decretato il giudice. No, la sua fine fu misteriosa e insieme atroce: riuscì a fuggire dal carcere, ma venne  raggiunto presso il luogo che era stato teatro dei suoi delitti, la parrocchia di St. Gawes. Allora, piuttosto di consegnarsi alla giustizia, corse verso il dirupo a strapiombo sul mare, e si gettò nel vuoto, sfracellandosi sulla scogliera, proprio sotto Malmaines. Senza dubbio questo contribuì ad associare ancor più strettamente il nome della “Belva” con quello della proprietà di Malmaynes.

Ora, appena giunta a Malmaynes, ricordai quelle parole e provai un brivido di gelo. Tra buoni e lampi, sotto un diluvio, mi affacciai al finestrino della carrozza e vidi una lunga scala di pietra che si arrampicava verso la casa, completamente buia, tranne per una finestra illuminata. Il cocchiere prese i miei bagagli e con coraggio sfidò la salita, raggiungendo così una porta di quercia, annerita dal tempo, tempestata di grossi chiodi e rinforzata da sbarre di ferro. Il campanello non riecheggiò nelle nostre orecchie: di lì a un minuto, però, nella porta si aprì una finestrella e apparve una testa di donna, illuminata dalla luce di una candela.

«Buonasera,» dissi. «Sono Dawn Salisbury.»

«Buona sera.»

La donna mi fece entrare e mi guidò lungo un corridoio dalle pareti grigie sino a uno stanzone in cui c’era una tavola apparecchiata per una persona. Poi accese il candelabro a sei braccia in mezzo alla tavola, e finalmente potei vederla: doveva essere sula sessantina, il volto era emaciato e cinereo e gli occhi profondamente infossati nelle orbite.

Dopo avermi squadrato, salendo con lo sguardo, dai piedi al viso, disse:
«Sono la governante. Il signor Winters tornerà domani: è andato a Truro per affari. Posso servirle subito cena gradirebbe del salmone affumicato e una tazza di te?»

Annuii e lei scomparve, probabilmente diretta in cucina.

Dopo che anche il cocchiere, guardandosi attorno con rispetto, mi ebbe consegnato i bagagli e se ne fu andato, restai sola alcuni minuti. Esplorai il nuovo ambiente, sontuoso, con un soffitto splendido di legno, intarsiato e dorato, poi mi avvicinai alle finestre sul lato opposto della stanza: trattenni il respiro per il panorama impressionante che mi si presentò. Sotto di me, ai piedi di un’alta scogliera, le onde del mare flagellavano le rocce, battute dal vento e dalla pioggia.

A tavola mi servirono la governante e suo marito, ritti alla mia destra e alla mia sinistra.
«Dev’essere un gran cambiamento passare da Bruxelles a un luogo come questo, dissi a un certo momento. «Si, trova bene il signore qui?»

«Benissimo,» rispose la governante, asciutta. «È una casa grandissima, ma abbastanza facile da tenere in ordine, oltre tutto.»

«Ci saranno molti domestici,» osservai.

«Oh, no! Soltanto io e mio marito… ci chiamiamo, Grimm, signorina. E poi c’è il giardiniere.»

Guardai il piatto che avevo davanti: c’era l’impronta grassa di un dito sull’orlo.
Macchinalmente respinsi il cibo e, dichiarando di non aver appetito, mangiai pane e burro, insieme con il tè.


Mentre la governante rimase ferma al mio fianco, il marito sparecchiò prontamente la tavola. Portava gli occhiali e aveva l’aria distinta: ma gli tremavano le mani e dall’alito era facile capire che doveva aver bevuto alcool.  Appena furono usciti, poi, udii la voce rabbiosa di lei:  «Avanti, corri e metti tutto a posto! Non vogliamo aver fastidi né da questa né da altri. Possibile che non mi debba mai fidare di te?»

Poco dopo raggiunsi la mia camera, al secondo piano. C’era il fuoco acceso nel caminetto e il tepore mi ristorò dopo il freddo dei corridoi e delle scale. Ero sfinita dal viaggio e scoprii con gioia che il letto aveva lenzuola di lino, morbide coperte e un soffice materasso. Sotto le finestre, in basso, il mare continuava a battere contro gli scogli, ma ero sicura che avrei dormito profondamente, nonostante quel fragore, che tanta era la mia stanchezza.

Con la candela sul tavolino, presi un libro per leggere qualche verso prima di addormentarmi. Avevo appena scorso due righe quando, al di sopra del lontano muggito del mare, più forte degli scricchiolii della vecchia casa, attraverso+ porte e corridoi, mi giunse un suono che mi fece tremare dallo spavento.

Una risata diabolica, inumana, echeggiò nella casa. Era squillante come quella di una donna o di un ragazzo, ma con un’inflessione così disperata da agghiacciare il sangue nelle vene. Corsi alla porta, la spalancai impetuosamente e indietreggiai subito, udendo la risata avvicinarsi. Richiusi la porta, poi restai a lungo ferma, addossata alla parete, paralizzata dall’orrore. Solo dopo qualche minuto trovai l’energia necessaria per chiudere i due chiavistelli e ritornarmene a letto.

Con il capo nascosto sotto le coperte, trascorsi la notte più solitaria e terribile della mia vita, finché verso l’alba riuscii a prendere sonno.                                             
                                                        

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Capitolo 2
*** Capitolo 12 ***


 
Capitolo 12


 
A Truro nella clinica dove era stato rivoverato Charles Winters, fui accolta con gioia, con rispetto e ammirazione.

«Avanti signorina», mi invitarono il medico e l’infermiera, dalla porta della camera. «Venga a salutare il nostro paziente. È una cara persona, così gentile, cosi dolce, nonostante tutte le sofferenze…

Al di là di quelle premure, avvertii una morbosa curiosità. In fondo ero la donna che aveva rischiato di divenire la sposa della “Belva di Malmaynes”. Dopo una settimana, la notizia faceva ancora vedere centinaia di copie di giornali e attirava l’attenzione di tutti, ovunque andassi.

«Considerata la durezza della prigionia, mi spiegò il medicio, «il paziente ha conservato una straordinaria lucidità mentale. Deve avere nervi solidi, per aver resistito…»

«Oh, sì! Potrà accertarsene lei stessa, signorina,» confermò l’infermiera. Poi aprì la porta per farmi entrare e la richiuse alle mie spalle. Così mi trovai di fronte al vero Charles Winters.

 
«Cara, sono felice di averti qui, con me!», esclamò zio Troy, quando tornai da lui. «Purtroppo, il medico mi ha dato l’aut-aut. O rinunciare all’alcool o rinunciare alla vita. Capirai che alternativa quasi non esisteva. Ho deciso di non bere più.»

Eravamo vicini, e ci tenevamo la mano. L’affetto di sempre ci univa più vivo di prima. Poiché molte erano state le avventure che ci avevano diviso, che avevano messo in pericolo la sua salute e la mia vita. Gli domandai notizie della bella vedova.

«Oh, era soltanto una civetta in caccia», disse lo zio. «Sai chi sposa, dopo aver illuso sia me che un altro uomo? Il Governatore della Cornovaglia!»

Scherzammo un poco. Poi zio Troy mi domandò come fosse il vero Winters: gentile, piacente di aspetto, conscio del suo valore?

«Oh, zio…», ripensando all’esile figura seduta presso la finestra, con una coperta sulle ginocchia, il profilo regolare, lo sguardo dolcissimo, mormorai:
«È l’opposto di Dustin Kinney! Eppure, c’è affinità strana, qualcosa che non sono riuscita ad afferrare, fra di loro. Una specie di filo invisibile che sembra tenerli ancora legati.

«Te ne stupisci? Hanno vissuto per anni a stretto contatto. Il carceriere e la vittima. È un fenomeno più frequente di quanto si creda», spiegò lo zio. «Si parlavano ogni giorno, per ore e ore. E così doveva essere nato un rapporto strano, di odio, e, contenporaneamente, quasi di affetto.

«Certo, Charles Winters ammirava, entro dati limiti, Killey. Lo ammirava per la sua straordinaria intelligenza, per la sua capacità di apprendere, per lo smalto di raffinatezza che aveva acquistato.

«Come fece Kinney a diventare signore di Malmaynes», domandò zio Troy.

Quando era a Parigi, seppe dalla madre che Nehold era morto, lasciando erede un poeta ignoto imparentato alla lontana con la famiglia. Kinney, che sin dalla nascita si era abituato a considerare Malmaynes come suo legittimo possesso, corse a Bruxelles, dove strinse amicizia con un conoscente di Charles Winters, riuscendo a farsi presentare al poeta. Poi, lo convinse a partire per la Cornovaglia insieme con lui. Quando arrivarono a Malmaynes, praticamente, vi fu un semplice gioco di bussolotti. Il marito della signora Grimm, per denaro, si lasciò indurre a stordire con un colpo alla testa il poeta: poi lo chiuse di sopra, nell’attico, in una stanza che nessuno mai avrebbe trovato.  Una cella con le imposte chiuse, un pagliericcio sul letto, pochi mobili essenziali. Qualcuno potrebbe domandarsi perché non venne ucciso! Ma Kinney aveva grandi anbizioni. Sapeva che in Belgio Charles Winters era riverito, attorniato dalla migliore società. Anche lui aspirava a tutto questo: Il bastardo che il padre non aveva mai voluto riconoscere e che era stato dimenticatro nel testamento, voleva brillare di luce, sia pure riflessa. Ma riflessa all’insaputa di tutti. Da vero artista Charles Winters, aveva in sé una sorgente di poesia che non poteva soffocare. Per questo acconsentì a divenire lo schiavo del suo nemico,  lasciare che gli ursuppase il nome, la ricchezza, la gloria, pur di poter continuare a scrivere! Se gli avessero tolto carta e penna, sarebbe morto.

Mi tremavano le mani.

«Ma in che modo trovò la forza per resistere tutto questo?», domandò ancora zio Troy.

«Adagio, adagio, con infinita pazienza, spezzandosi le unghie, facendosi sanguinare le dita, era riuscito a staccare  una pietra dalla parete e attraverso quel pertugio vedeva il mondo… un pezzetto di mondo. Fu così che un giorno…», arrossii e chinai il capo, «vide me!»

«Certo, da parte di Kinney fu un grave errore chiamarti come segretaria», commentò lo zio.

«Sì. Se ne accorse subito, la sera del mio arrivo, e l’indomani lo confessò a Charles Winters, che aveva fatto suo schiavo e confidente. Ebbe un attacco la notte stessa: ecco perché sentii quella terribile risata. Poi, un giorno, Charles si lasciò sfuggire di avermi vista. Contrariamente a quanto si potesse pensare, Dustin non si incollerì. Anzi, lo incoraggiò a spiarmi. Quando Charles decise di interrompere la stesura  del dramma di Tristano e Isotta per scrivere invece un poema in mio onore, fu felice. Questo gli avrebbe permesso di accrescere la mia ammirazione per lui.

«Che cosa disse Charles quando Kinney gli parlò del suo desiderio di prenderti per moglie? Non ne fu atterrito?»

«Oh, sì. Ma non poteva difendermi in nessuna maniera. Il giorno delle nozze della povera Carenza, mi vide dall’alto mentre salivo in carrozza, diretta alla chiesa: per questo nel poema parlò del mio bell’abito turchese. Mentre lui scriveva quesi versi, Kinney strangolava Carenza… Quek poena e rimasto intatto. Lo avevo chiuso in un cofano di metallo, nella mia camera. Lo portai a Charles, quando andai alla clinica a Truro per fargli visita. Ma fu l’ultima cosa che lui scrisse: a poco a poco, sapendo che il mostro meditava di sposarmi, in lui s’era creata una sorta di ribellione, di sdegno. Lo dichiaròa Dustin Kinney, il quale ribatté che era disposto a lasciargli tempo sino al Nuovo Anno. Se nel frattempo non avesse scritto più nulla, sarebbe morto di fame, nella sua cella sotto il tetto.

«Orribile!», fu il commento di zio Troy.

«Diverse volte», ripresi, Dustin Kinney gli dichiarò di esserer guarito, grazie alle cure di un medico parigino che si serve del fluido magnetico. Probabilmente ebbe qualche effetto, poté indurre una temporanea remissione della malattia. E durante tutti quegli anni, il signor Nehold continuò a sovvenzionare i viaggi del figlio illeggittimo, a fornigli denaro per le varie cure cui si sottoponeva. Quando Dustin sopravvisse alla terribile caduta, sulle rocce, suo padre fece l’impossibile per permettergli di espatriare. Poi, gli mandò sempre denaro, affinché potesse visitare i maggiori specialisti d’Europa.

«E tutto questo per un maniaco omicida! Solo perché era suo figlio?»

«Credo avesse anche una strana propensione a prendersi cura delle persone imperfette, diseredate dalla natura. Sebbene fosse molto avaro, accolse Morgan, strappandolo a una vita di umiliazioni e di degradazioni. Probabilmente, provava la stessa pietà per il proprio figlio.

«Probabilmente», assentì zio Troy. «Del resto, non diede forse alla signora Chocet, commosso dai suoi continui lamenti, il denaro per andare a curarsi a Baden Baden? Ma Morgan, non era complice dei Kinney?

«Oh, sì, ma sino ad un certo punto! Appena arrivai, la signora Grimm  lo incaricò di spiarmi, per assicurarsi che non vedessi e non udissi nulla. Infatti, lui mi seguiva dappertutto. Un giorno, mentre scendevo alla spiaggia, sentii uno strano rumore: era lui che tossiva, acquattato dietro un cespuglio. Ma, nel frattempo, la Signora Grimm, che non si fidava piu del figlio, aveva affidato a Morgan il compito di proteggermi. Non era più così attaccata a Dustin come un tempo. Lui la disprezzava, la trattava come una domestica, non le accordava un solo cenno di affetto. E lei rimpiaggeva il ragazzo anormale di un tempo…

«Ora», disse zio Troy, troncando quell’argomento, «devi descrivermi Charles Winters. Il vero Charles.»

«Zio caro, non so neppure come cominciare. Dustin Kinney imitandolo, aveva assimilato gentilezza, cortesia, grazia. Qusto basta a dirti a che punto la sua personalità sia spiccata. Non è bello come Dustin Kinney: è più basso di statura e ha un viso regolare, dalle fattezze fini ma non straordinarie. Gli occhi… gli occhi sono affascinanti, ma soltanto per la sensibilità che vi si legge. E per la calma.»

Omisi di raccontare che quella calma era dileguata nel momento in cui, dopo lungo esitare, Charles Winters mi aveva chiesto se sarei stata disposta a sposarlo. Sin dal primo momento in cui mi aveva visto ed aveva udito la mia voce, si era innamorato di me: così aveva affermato. Come averna la certezza, però? È facile per un uomo escluso dal mondo, obbligato a vivere come un eremita in una cella di pochi metri, illudersi di amare una sconosciuta!

«Accetterai la sua proposta?», insistette zio Troy. Aveva ripetuto quella domanda due volte, senza che io la sentissi.»

«Ancora non so. Anche lui ha preferito allontanarsi, andare a Capri per qualche tempo, lasciando ad entrambi la possibilità di sondare i sentimenti reciproci. Se vorrò rivederlo, non avrò che da telegrafargli e lui tornerà qui, a prendermi.»

«Ciò dimostra che ti ama veramente», osservò lo zio. «Tocca solo a te decidere, adesso.»

«Devo aspettare, zio. Almeno un anno. Eppure, sebbene lo abbia visto una sola volta, vorrei raggiungerlo subito. È ridicolo, è vero? Anche sforzandomi, non riesco a leggere in me stessa. Tuttavia, è triste pensare che domani sarà uguale a oggi, e dopodomani uguale a domani, e così via, per almeno trecento giorni. Ci sono momenti in cui penso che non resisterò così a lungo.»

Gerard Parure venne, qualche tempo dopo, a trovarmi. Era riuscito a piegare  l’orgogliosa Rona. Si sarebbero sposati a Febbraio e sarebbero subito partiti per l’India. La vita laggiù era molto solitaria, specie per chi viveva lontano dalla capitale, nelle piantagioni. Del resto, dopo le prove che aveva attraversato, anche lei era mutata: non parlava più della stagione a Londra, delle corse dei cavalli, delle feste. Il suo desiderio era di creare una famiglia felice.

«Sono venuto per invitarti alle nozze, Dawn», concluse Gerard sorridendo.
«Mi dispiace, non potrò assistervi.»

«Ma perché?»

«Perché ho deciso di partire per l’Italia. Andrò a riscaldarmi al sole del Mediterraneo. Qualcuno mi aspetta laggiù…»

 
Arrivai a Capri con il cuore sospeso tra la felicità e la paura. Che cosa avrei fatto se Dustin Winters, dopo la lunga segregazione, ritrovandosi finalmente a contatto con altre donne, avesse compreso di non amarmi? È facile per un carcerato invaghirsi di un sogno? Quali altri reazioni avrebbe provocato in lui la libertà riacquistata? L’attesa di un anno, nel grigio inverno e nella languida primavera inglese, nei nebbiosi mesi dell’autunno, sarebbe stata troppo lunga. Meglio essere lì, sotto lo stesso sole che indorava le mura candide della villa, nell’aria profumata di gelsomino. Meglio intravederlo a distanza, qualche rara volta, come lui mi aveva vista, spiando attraverso lo spiraglio aperto nella parete della cella.

Appena giunta nell’isola cercai una pensioncina non troppo costosa. Depositai i miei bagagli e mi avviai per una stradetta a gradini irregolari che conduceva alla villa: non incontrai nessuno, tranne due contadinelle con un piccolo gregge di pecore, che si voltarono incuriosite a guardarmi.

Ora ero là, accanto al cancello. Mi voltai e dinanzi a me si parò l’azzurro profondo del mare, un azzurro percorso da bagliori di luce d’oro, dove le onde si muovevano lente lontane dalla riva coperta di spuma bianca. Ero io? Ero proprio io? Tutto d’un tratto riaffiorarono in me  le memorie dell’infanzia: la morte dei miei genitori, la dolcezza di zio Troy, gli anni degli studi. Non c’era tristezza in quei ricordi: soltanto un rimpianto vago, perché la vita non può fermarsi. Deve continuare…

Malmaynes…

L’insidiosa oscurità di una cella nuda, sotto i tetti. La triste reclusione di un uomo che meritava di essere applaudito dal mondo intero e, per sopravvivere, doveva scrivere versi immortali, facendone poi omaggio al suo carceriere e nemico… L’oscurità dei corridoi. Il tremolare dei ceri nella chiesa. L’abito bianco, sporco e fradicio di pioggia, della povera Carenza… Il caro, infelice, fedele Morgan… L’insidioso fascino di un mostro in sembianze di gentiluomo, di poeta…

D’improvviso, una grande stanchezza mi vinse. Sedetti su una panchina di marmo, a breve distanza dalla villa e continuai a guardarla, a dispetto dei riflessi del sole che mi abbagliavano. Un sole splendido, caldo, che fugava tutti i miei ricordi angosciosi, tutti i terrori del passato.

Aspettai a lungo, sin che il sole cominciò a declinare dietro l’orizzonte, ai limiti dello sconfinato mare. Poi mi alzai per andarmene. L’indomani promisi a me stessa, sarei tornata. E poi, ancora, i giorni seguenti: soltanto per vedere la casa dove abitava l’uomo che senza saperlo, avevo amato attraverso le sue poesie, e che ora amavo non più soltanto per le poesie, ma per se stesso.

«Dawn!». La voce mi fece sobbalzare. Mi voltai e vidi Charles Winters fermo davanti al cancello. Mi fissava battendo le palpebre, come se fosse anche lui abbagliato: non dalla luce del sole al tramonto, ma dalla mia presenza.

«Dawn», ripeté, e mi venne incontro. «Sono stato ai confini della vita e sono ritornato indietro, grazie a te. Ma neppure io avrei potuto aspettarti così a lungo. Un anno. Giorno dopo giorno. Mese dopo mese…»

Dietro le mie spalle, i cancelli della villa si richiusero. Avvolta nell’ultina luce del sole calante cominciai a salire i gradini di marmo, con la mano nella mano di Charles. Di lì a poco, sarebbe discesa l’oscurità sul mare, sulla bella isola addormentata, sulla villa candida. Ma su di noi il sole avrebbe continuato a splendere, per sempre.
 

 
FINE

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