Tutti i pomodori con cui mi dicesti ti amo

di Dalybook04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pomodori volanti non identificati ***
Capitolo 2: *** Miracoli di Natale ***
Capitolo 3: *** Notti sui tetti e l'arrivo del Magnifico ***
Capitolo 4: *** Piccoli Giovani Amori ***
Capitolo 5: *** Crucchi invadenti e fratelli maggiori ***
Capitolo 6: *** Preghiere e lettere nefaste ***
Capitolo 7: *** Tutta colpa di Cupido ***
Capitolo 8: *** Un arrivederci? ***



Capitolo 1
*** Pomodori volanti non identificati ***


Napoli, autunno 1712, data non meglio specificata...

Antonio Fernandez Carriedo aveva scoperto con non poca sorpresa quanto si potesse comunicare attraverso un pomodoro.
Certo, conosceva la tradizione di lanciare frutta marcia agli spettacoli sgraditi, e aveva anche temuto di beccarsene un paio durante la sua prima, e unica, esibizione alla corrida, anche se quelle erano state comunque le ore più felici della sua vita: ricordava il sole che gli batteva sulla fronte, quasi a incoraggiarlo, la sabbia che gli volava intorno, il sudore, il telo rosso stretto tra le mani, il toro davanti a sé, il brivido di eccitazione che gli era corso lungo la colonna vertebrale, il pericolo, la paura, la corsa e... e infine gli applausi, il piccolo pubblico, essenzialmente solo gli abitanti del suo villaggio, in visibilio, le urla, l'orgoglio, il cuore che sembrava sul punto di esplodere per la felicità e il sollievo e la fatica... e infine l'arrivo di sua madre, furiosa, che lo aveva preso per un polso e lo aveva trascinato via.
Tuttavia, quando era stato costretto a indossare la divisa da generale dell'esercito spagnolo piuttosto che il vecchio costume da torero del suo bisnonno, non gli era passato minimamente per la testa che qualcuno avrebbe osato colpirlo con un pomodoro.
Lo avevano mandato a Napoli con un centinaio di soldati, come ausiliari per sedare le frequenti rivolte popolari. Una missione piuttosto semplice, perfetta per un novellino come lui, un venticinquenne che avrebbe preferito nascere popolano che nobile e che non aveva mai visto altro che l'enorme villa della sua famiglia e il paesino limitrofo, dove fuggiva ogni qualvolta ne avesse l'opportunità. Meglio qualche rivolta nel Sud Italia, dove c'era troppa fame perché qualcuno potesse costituire una reale minaccia, che qualche sanguinosa battaglia per la guerra di successione contro l'Inghilterra o l'Austria. Antonio sapeva che suo padre ci aveva messo una buona parola per ridurre al minimo i rischi di perdere il suo primogenito, ma in quel caso non aveva di che lamentarsi: di certo, a morire non ci teneva; prima voleva rivedere la sua casa, la sua Spagna.
Inoltre, finché fosse stato in Italia, non avrebbe dovuto sopportare le continue pressione di sua madre perché trovasse moglie. Quanto avrebbe voluto dirle che una moglie proprio non era il suo tipo! Nessuna moglie, nessuna donna, per quanto bella o ricca o nobile, non importava quante ne cercasse: nessuna lo avrebbe mai potuto soddisfare.
Magari, aveva sperato ingenuamente, stando tanto tempo lontana da lui se ne sarebbe dimenticata. Di certo, lì era al sicuro; sua madre avrebbe preferito saperlo morto piuttosto che sposato con una fanciulla povera e straniera, e Antonio aveva ogni intenzione di godersi quell'incarico lontano, come gli aveva suggerito suo fratello, che sapeva tutto perché lo aveva beccato a baciare un ragazzo del paese: si sarebbe goduto quegli anni di relativa libertà approfittando di tutto ciò che la vita aveva da offrire, che fosse alcool, o persino anche qualche droga leggera, e assolutamente aveva ogni intenzione di trovare più amanti possibili, per approfittare dello sguardo lontano dei genitori per provare ogni vizio che la bella Napoli aveva da offrire.
Certo, la realtà sarebbe stata ben diversa, ma Antonio non poteva saperlo.
Non poteva sapere del suo superiore, amico di suo padre, incaricato di tenerlo d'occhio e di riferire ogni sua mossa ai suoi genitori; non poteva sapere quanto fossero frequenti le rivolte, tanto da lasciargli appena il tempo di respirare, figuriamoci di divertirsi; e soprattutto non poteva sapere che, nella bella Napoli, più che i peccati ci avrebbe lasciato il cuore.
Non avrebbe potuto saperlo, il futuro non lo sapeva prevedere, anche se qualcosa avrebbe potuto dedurre dal fatto che fossero stati inviati oltre cento soldati lì, in una terra già sotto il controllo spagnolo, piuttosto che sui fronti di guerra, ma questa sua mancanza la si può perdonare per la sua inesperienza e la sua tipica ingenuità.
Tuttavia, una cosa che assolutamente non avrebbe potuto prevedere era che, appena messo piede giù dalla nave, senza neanche dargli il tempo di radunare le truppe, o salutare il superiore venuto ad accoglierlo, o semplicemente guardarsi intorno, un pomodoro gli sarebbe volato dritto in viso, sfracellandosi contro il suo naso e sporcandogli l'uniforme.

Antonio aveva sentito che, secondo gli antichi Greci e Romani, il dio dell'Amore Eros, o Cupido, che dir si voglia, scagliava le sue frecce, e chi ne veniva colpito si innamorava all'istante. Quel racconto lo aveva sempre colpito per la violenza del gesto; non era un incantesimo, non era un bacio o una carezza, bensì era una freccia, un'arma, quella che faceva innamorare.
Eppure quel giorno Cupido doveva aver finito le frecce, perché fu un pomodoro ad arrivargli in faccia, insieme a un urlo in napoletano che non capì.
Rimase scioccato, ma l'alto ufficiale non si scompose; ordinò ad alcuni dei suoi soldati di acciuffare il responsabile, e quelli corsero verso la provenienza dell'ortaggio. Antonio vide una figura piccola correre via ma, probabilmente per la fame, dopo pochi metri cadde a terra, e fu catturato dai soldati, che lo portarono e lo fecero inginocchiare davanti ad Antonio. L'alto ufficiale annuì verso le guardie, lanciò un'occhiata rapida al ragazzino, e infine guardò lui e sorrise. Era alto, affilato, muscoloso, fiero nell'armatura, con due baffi neri e folti che si arcuarono sotto al suo sorriso paterno.
-hai già il tuo primo ordine da generale, Carriedo- sembrava divertito, come uno zio che guarda il nipotino catturare una farfalla o qualche insetto con il suo retino e decidere cosa farne, e a conti fatti per lui quel piccolo bastardo ribelle non doveva valere più di un bruco o una mosca fastidiosa -che ne vuoi fare? Lo mandiamo in prigione? Lo giustiziamo in piazza? Scegli tu: è il tuo primo caso.
Antonio guardò l'ufficiale, abbozzò un sorriso di risposta, fece un piccolo inchino insieme a un "gracias", e infine abbassò lo sguardo sul ragazzino.
Era magrissimo. Le braccia erano due rametti ossuti, pronti a rompersi alla minima pressione; le gambe, per quel poco che riuscisse a vedere, non sembravano messe meglio; aveva le ginocchia sbucciate per la caduta e la posizione inginocchiata, e qualche goccia di sangue aveva già sporcato il terreno sotto di loro; nonostante non sembrasse avere la forza di fare alcunché, continuava ad agitarsi per liberarsi, tanto che, per farlo stare fermo, un terzo soldato dovette puntargli la spada alla schiena, mentre gli altri due gli tenevano le braccia ossute. Inizialmente, Antonio non gli avrebbe dato più di undici anni; aveva scambiato il suo fisico per quello di un ragazzino in fase pre-ormonale, quel periodo in cui si è particolarmente mingherlini, prima di diventare uomini. Ma ora, osservandolo da vicino, Antonio poté finalmente osservarlo per bene in viso, e notare che no, quel ragazzino era già un uomo fatto e finito, di non più di venti anni. Aveva la pelle scura, più o meno come quella di Antonio, e un caschetto di capelli castani luridi e spettinati, i tratti ben definiti, due labbra sottili, che forse un tempo erano state rosee e carnose, ma che ora erano scarne e rovinate. Era ricoperto da uno strato di sporcizia, polvere e sudore, che sembrava essere impregnato nella sua pelle, rendendola ancora più scura, e nei suoi vestiti, forse un tempo della taglia giusta, ma ora, dopo la fame, larghi e sformati; ma nonostante la sporcizia e il dimagrimento eccessivo, Antonio non riuscì a non notare quanto fosse un bel ragazzo: tratti leggeri, naso deciso senza essere troppo invasivo, zigomi pronunciati, guance scarne ma morbide, forse con un leggerissimo velo di barba, che però si confondeva nello sporco: sembrava una statua di marmo dalle linee decise ma ben marcate, un dipinto realizzato con estrema maestria. Se la povertà fosse bella, si disse Antonio, avrebbe questo aspetto. Eppure, nonostante tutta la bellezza che gli si presentava davanti agli occhi, ciò che davvero lo colpì furono gli occhi: di un colore tra il castano e il verde, erano ricolmi di un orgoglio, di una fierezza, che avrebbe messo in soggezione chiunque, tanta che, se l'altro non si fosse trovato in ginocchio, Antonio si sarebbe sentito in dovere di inchinarsi e obbedire a qualsiasi ordine. Aveva sentito parlare dell'orgoglio degli Antichi Romani, delle loro espressioni fiere; ne aveva visto busti di marmo, ne aveva letto libri, ne aveva tradotto versioni dal latino. Eppure mai, mai avrebbe immaginato quanto potesse essere potente e soprattutto mai avrebbe osato immaginare che negli occhi di un ragazzo che non sembrava avere altro che la vita, avrebbe trovato un orgoglio maggiore a quello visto nel viso e nella regale posa di Sua Maestà il Re.
Antonio si chinò davanti all'italiano e sorrise.
-ciao, io sono Antonio. Hai fame?- chiese con gentilezza, prendendo una delle sue mani e liberandolo dalla presa della guardia -non voglio farti male, rilassati.
-che stai facendo, Carriedo?- lo interruppe l'alto ufficiale, spazientito.
-nella Bibbia è scritto di fare l'elemosina, no? Per me, questo povero ragazzo ha sprecato un pomodoro. Voglio ripagarlo- si voltò verso il ribelle -quanto vuoi che ti dia?
-Carriedo...- sbuffò il generale -tuo padre mi aveva avvertito del tuo buon cuore, ma non pensavo non avessi neanche un minimo di amor proprio...
-oh! Ci sono! Non parli spagnolo, vero?- domandò all'italiano, ignorando il suo superiore -uhm, qualcuno qui potrebbe trad... -si bloccò quando il ribelle allungò le mani, lunghe e sottili, mani da musicista, verso il suo viso. Una guardia fece per fermarlo, ma ad un cenno del generale Carriedo si bloccò. La mano, lentamente, si posò sulla guancia di quello strano ma gentile spagnolo e raccolse parte della polpa del pomodoro ancora spiaccicato sul suo viso, portandola poi alla bocca dell'affamato proprietario.
-oh, allora mi ha capito! Credo, o forse ha solo fame...- si voltò verso l'italiano -mi capisci? Parli spagnolo?
Quello rimase in silenzio, guardandolo torvo.
-qualcuno ha del pane? O... uhm, dovrei avere qualche moneta da qualche parte, valgono anche qui a Napoli no?- iniziò a frugarsi nelle tasche dell'uniforme, ma quando allungò la mano con qualche moneta dentro verso il ragazzo, quello si liberò con uno strattone dell'altra guardia e gli tirò una testata nello stomaco che fece cadere l'altro sul terreno polveroso, salendogli poi addosso furioso.
-non voglio la tua carità, bastardo di uno spagnolo!- gli ringhiò, in uno spagnolo perfetto, prima che le guardie gli fossero addosso e lo riportassero in ginocchio, mollandogli uno schiaffo che gli fece girare la testa e che, per il ferro dell'armatura, gli aprì un taglio sulla guancia.
-stai al tuo posto, poveraccio!- gli intimò l'alto ufficiale, prima di aiutare Antonio ad alzarsi e spolverargli l'uniforme -la carità è una santa cosa, ma con questi poveri non c'è niente da fare- lo consolò con un sorriso.
"Ma che senso ha?" si chiese "che senso ha la carità se non aiutare i poveri? Gesù si avvicinò persino ai lebbrosi, perché io non mi posso avvicinare a un ragazzo che non ha altro che orgoglio e fame?"
-allora? Che ne vuoi fare, Carriedo? Prigione o impiccagione?
Il generale Carriedo guardò l'alto ufficiale, abbassò lo sguardo sul petto sulla sua divisa sporco di pomodoro e infine sul ragazzo, sulla cui guancia si stava formando un livido. Posò la mano sul livido, accarezzandolo con attenzione, e lo sentì tremare sotto il suo tocco. Gli tolse il sangue uscito dal graffio e lo osservò bagnare i suoi polpastrelli, riflettendo.
Cos'aveva di diverso quel sangue da quello che gli scorreva nelle vene? Cosa rendeva il suo sangue degno di decidere con uno schiocco di dita della vita di un ragazzo, di un'altra persona? Che cosa differenziava lui, loro, i nobili, dall'altro, dagli altri, dalla plebe? Erano tutte persone, tutte creature di Dio.
Che cosa li differenziava?

La fortuna
Guardò il ragazzo, che in qualche modo sembrava aver capito i suoi dubbi. Lo osservava curioso, quasi divertito, l'ombra di un sorriso sulle labbra spaccate e pallide, così diverse da quelle morbide e curate di Antonio.
La fortuna, è questa la differenza tra te e me.
Antonio era nato in una famiglia nobile, ricca, famosa. Il suo bisnonno era un torero, si era guadagnato una fortuna con i tori e si era fatto un nome. Suo nonno era poi andato in guerra come soldato semplice, con un cavallo comprato con i soldi del padre; aveva vinto numerose battaglie e aveva fatto carriera, rendendo il nome dei Fernandez importante e stimato in tutto il regno: sua madre gli raccontava sempre che l'unica volta in cui avesse visto suo padre piangere era stata quando era bambina, e gli fu data una medaglia all'onore dal re in persona. Sua madre aveva sposato un importante generale, da cui erano nati lui e suo fratello.
E Antonio?
Antonio era cresciuto di rendita, gli era stato insegnato come comportarsi, cosa fare, come vestirsi, cosa dire e come dirlo. Aveva osservato confuso sua madre coprire la carnagione scura, che aveva ereditato anche lui, con creme e polveri. Era un'eredità del bisnonno, gli aveva spiegato, il bisnonno è nato senza niente, e aveva la pelle così: ma noi abbiamo tutto, e per noi non va bene.
Ma comunque, si era sempre rifiutato di mascherarsi. Antonio aveva il sangue dei conquistatori nelle vene, la corrida nel cuore. La sua vita era stata programmata prima ancora che nascesse, dai suoi stessi geni: aveva indossato la vecchia tenuta del suo bisnonno, e si era ritrovato nello stesso titolo di suo nonno, con la nobiltà di sua madre e il buon nome di suo padre, quello che tutti usavano per riferirsi a lui, nonostante lui fosse Antonio Fernandez Carriedo. Lui però non si era guadagnato niente: né la divisa da torero che al suo bisnonno era costata tutta l'eredità dei suoi genitori, né il titolo che suo nonno si era guadagnato dopo anni e anni di battaglie, né il prestigio di sua madre in società, ottenuto nascondendo la sua pelle e sposando un uomo che non aveva mai amato. Lui, Antonio, non aveva fatto altro che nascere nella famiglia giusta.
All'italiano, invece, era andata male. Era nato in una famiglia che evidentemente non aveva niente, o aveva perso i genitori, o era stato abbandonato; insomma, aveva avuto sfortuna.
Ma nessuno dei due aveva avuto scelta.
Il ribelle era nato e cresciuto in strada, Antonio tra gli sfarzi e gli agi.
Antonio aveva ereditato il destino e le regole, l'altro il bisogno di cercarsi il cibo ogni giorno.
Eppure, il ribelle, nonostante non ne avesse i mezzi, aveva scelto. Aveva lanciato quel pomodoro. Gli aveva tirato quella testata. Aveva rifiutato la sua elemosina. Tutte cose che non avrebbe dovuto fare, ma aveva scelto e le aveva fatte comunque. Aveva mandato a quel paese il suo destino e aveva scelto per conto suo: le conseguenze sarebbero state disastrose, ma le avrebbe accettate, pur di avere una scelta, una dignità, una vita degna di essere chiamata tale; magari non lunga, magari non felice, ma una vita, e non una serie di conseguenze, di scelte altrui o del passato. Antonio aveva un amico, un conte francese di circa la sua età, che lo aveva riempito di discorsi sulla libertà e sull'amore. Tuttavia, in quel momento Antonio capì cosa fosse la libertà vera: scegliere.
E capì di non essere mai stato libero, di scegliere cosa fare, con chi stare, chi amare.
Non aveva mai scelto niente in vita sua, ma voleva cambiare.
-lo assumerò come mio servo- dichiarò, poi si rivolse all'italiano -non hai un lavoro, immagino.
Quello scosse la testa, sbalordito.
-hai una famiglia? Qualcuno che si prenda cura di te o, non so, una moglie...?
-mio... mio fratello- balbettò quello, con un adorabile accento, nuovo per Antonio ma a cui presto si sarebbe abituato -non posso lasciarlo, è un bambino, non può prendersi cura di sé.
-verrà anche lui. Se è troppo piccolo non lavorerà, ma rimarrà con te. Ti va bene come sistemazione?
-come... quanto mi pagherà?- domandò esitante. In effetti, notò Antonio, il suo spagnolo era piuttosto buono, ma era chiaro che non fosse la sua lingua madre.
-vi darò da mangiare tutti i giorni e un tetto sopra la testa. Sei magrolino, e se tuo fratello è piccolo non dovreste occupare molto spazio.
-io... va bene- in teoria avrebbe dovuto ringraziare, ma non lo fece. Antonio sorrise ancora di più.
-Carriedo, si può sapere che diamine stai facendo?
-ottimo. Domani fatti trovare qui con tuo fratello, a quest'ora. Verrà una carrozza a prendervi. Come vi chiamate?
-mio fratello si chiama Feliciano- rispose lui, come se fosse l'unica cosa degna di nota.
-e tu?- a quella domanda sembrò stupirsi ancora di più, come se non riuscisse a capacitarsi di tutta quell'attenzione su di sé.
-il mio nome è Lovino.

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Capitolo 2
*** Miracoli di Natale ***


Antonio stava percorrendo avanti e indietro l'atrio della sua nuova casa da almeno un'ora, da quando la carrozza con sopra un suo servitore era partita per andare a prendere Feliciano e Lovino.
Lovino. Quel piccolo italiano lo aveva incuriosito e affascinato. Era nato nella miseria, eppure sembrava avere e conoscere molta più libertà di lui. E anche se ora sarebbe stato al suo servizio, Antonio sapeva che non sarebbe mai riuscito a imporgli niente, e questo lo affascinava. Non si sarebbe imposto, avrebbe cercato di essere un padrone gentile.
Quello che Antonio non aveva capito, non poteva farlo, è che un padrone, per quanto gentile, è sempre un padrone. Che Lovino non avrebbe mai accettato di sottostare a nessuno che non se lo fosse meritato, e nella sua testa lo spagnolo non l'aveva ancora fatto. Perché avrebbe dovuto obbedirgli? Per mangiare e soprattutto per far mangiare suo fratello, fine della questione. Avrebbe più o meno obbedito, ma il suo rispetto avrebbe dovuto meritarlo, per non parlare del suo affetto!
Il giorno prima, quando aveva detto a Feliciano del nuovo lavoro, quello ne era stato entusiasta, e come dargli torto? Ma Feliciano era piccolo e non capiva: Lovino, come maggiore, aveva il dovere di non fidarsi, motivo per cui sarebbe rimasto vigile ogni secondo, finché quel bastardo spagnolo non si sarebbe guadagnato la sua fiducia.
Aveva accettato per necessità, ma non avrebbe mai mollato.
Quando la carrozza si era fermata, Antonio era corso loro, felice come una Pasqua; si era presentato a Feliciano, aveva salutato Lovino con un abbraccio, beccandosi un'occhiata assassina, aveva ringraziato il servitore per averli accompagnati fin lì, e poi li aveva condotti in casa. Aveva mostrato loro le cucine, i bagni dei servitori, dove trovare la sua camera e infine dove avrebbero dormito, in un angolo abbastanza riparato della camera della servitù, dove erano state sistemate alcune coperte e un paio di cuscini.
-ho pensato che avreste voluto dormire vicini, vi va bene?
Lovino strinse la manina di Feliciano.
-certo.
-veee, la ringrazio moltissimo signore- il bambino fece un breve inchino e sorrise ad Antonio. Era molto simile al fratello, forse sui dieci anni, ma per il fisico esile ne dimostrava molti meno. Aveva i lineamenti simili a quelli del fratello, ma più infantili; i capelli erano di un castano più chiaro, e gli occhi erano castani, privi di quelle sfumature verdi che avevano incantato Antonio il giorno prima. Nonostante tutto, aveva un sorriso aperto e innocente, come il bambino più felice del mondo. Eppure non avrebbe dovuto esserlo. Era nato a Roma, ma dopo appena tre anni era stato separato da sua madre e suo fratello: loro erano andati a vivere in un paesino appena fuori Napoli, mentre Feliciano e suo padre erano andati al nord a lavorare, spostandosi di continuo. Non aveva mai avuto una dimora fissa, quindi aveva imparato a fare amicizia con chiunque, per non sentirsi solo come effettivamente era. Dopo diversi anni, sua madre era morta, e suo padre, rivedendola di continuo negli occhi e nei modi di Feliciano, aveva spedito il bambino, di soli sette anni, a vivere con il nonno insieme a Lovino, sparendo per sempre dalla circolazione, Anni dopo, Lovino sarebbe venuto a sapere che si era sparato, ma a Feliciano non disse mai niente. Dopo qualche anno, il giorno dopo del suo decimo compleanno, il nonno si sarebbe ammalato, morendo poco dopo e lasciandoli soli e con una scarna eredità. Da allora, era stato Lovino a occuparsi di lui come meglio aveva potuto, e Feliciano non poteva che amare suo fratello, era tutto ciò che gli era rimasto. Non aveva altri amici: i bambini poveri erano troppo diffidenti per poterci giocare come i bambini che erano e che Feliciano si ostinava ad essere, e gli altri lo tenevano a distanza. Se Lovino era diventato diffidente, non che non fosse già nel suo carattere eh, Feliciano aveva fatto la scelta di restare fedele a sé stesso e al suo nome, comportandosi come se fosse felice per tranquillizzare suo fratello e per autoconvincersi che andasse tutto bene.
-oh, figurati, Feli. Chiamami pure Antonio- gli sorrise, poi guardò Lovino, che lo osservava con sospetto. Tossicchiò -comincerai da domani, ho già detto a Fernando, l'uomo di prima, di spiegarti quello che ti servirà sapere. Se vuole potrà lavorare anche Feli, ma niente di troppo pesante. Pulire qualche stanza magari, o aiutare nelle cucine. Solo se vuole, ovviamente. Oggi vi lascio il tempo di ambientarvi, vi ho fatto preparare un bagno di là, se avete bisogno di qualcosa chiedete pure a Fernando o direttamente a me. A dopo, ragazzi- li salutò con la mano e fece per tornare nel suo ufficio, quando la voce di Lovino lo fermò.
-perché sei così gentile? Cosa vuoi?
-oh, avevo solo bisogno di servitù- una mezza verità, in effetti -e volevo qualcuno di interessante.

Nelle settimane successive, Feliciano si rivelò fenomenale. Era adorabile, e riusciva in tutto: pulire, cucinare, rifare i letti... inoltre aveva stretto amicizia con tutti quanti, per cui lavorava bene con chiunque, e tutti gli volevano bene.
Lovino, invece, si rivelò terribile. Era imbranato, faceva più disastri di quanti ne sistemasse, era pigro e testardo; era bravissimo a cucinare, cosa strana visti gli anni nella fame, ma aveva un caratteraccio, per cui non riusciva a lavorare bene con nessuno. Antonio però continuava a dargli una mansione diversa, cercando qualcosa che si adattasse a lui, ma niente da fare, sembrava ci fosse bisogno di un miracolo. Alla fine, in effetti, fu una specie di miracolo di Natale.
Antonio aveva deciso di festeggiare tutti insieme, in fondo lì non aveva nessun altro: aveva così fatto preparare un enorme cena per la Vigilia. Avevano riso e scherzato, e aveva anche regalato a tutti una giornata libera, divisa in modo che comunque ci fosse qualcuno a occuparsi della casa. Dopo cena però, poco prima del dolce, Antonio aveva notato la mancanza di Lovino. Dopo aver scoperto dove si fosse cacciato grazie a Feliciano ("vee, di solito va sul tetto quando vuole restare solo"), si affrettò a raggiungerlo. Raggiunse la terrazza e si arrampicò sul letto, sedendosi poi accanto all'altro, nascosto in una nicchia piuttosto riparata, strigendolo a sé per scaldarlo.
-perché te ne stai qui tutto solo? È Natale, bisogna stare insieme.
-rovinerei la festa a tutti- borbottò Lovino, con le ginocchia raccolte e la fronte su esse, tuttavia lasciò che Antonio gli mettesse un braccio intorno alle spalle. Negli ultimi tempi si era lasciato andare, e quasi si fidava di lui, anche se ancora non era riuscito a capire come facesse ad essere così buono con lui.
-a Feliciano non la rovineresti- lo spagnolo fece una pausa, poi si azzardò a continuare -e neanche a me.
-Feli ha degli amici, e tu... be', tutti ti adorano, perché sei sempre buono e gentile e dannatamente...
Antonio scoppiò a ridere.
-lo dici come se fossero dei difetti!- esclamò, dando una spinta giocosa al fianco dell'altro, che si concesse un piccolo sorriso -Lovi, sai perché ti ho assunto?
-perché pensavi che sarei servito a qualcosa e invece hai scoperto che il mio fratellino è più utile di me?
-no, e comunque sono ancora convinto che riuscirò a trovare qualcosa in cui tu sia bravo.
-ah sì? Buona fortuna. Ti sfido a trovarlo.
-be', sei un ottimo tiratore di pomodori.
A quella frase, Lovino scoppiò a ridere, lasciando l'altro senza fiato. Se normalmente l'italiano era bello, quando rideva era uno spettacolo meraviglioso, un qualcosa di indescrivibile, l'opera d'arte più bella al mondo, e la rarità di quell'evento, di una risata così spontanea e cristallina, limpida e perfetta, non faceva altro che renderla più speciale di quanto già non fosse.
In quel momento, fulminato da quel piccolo miracolo, ad Antonio venne l'illuminazione.
-pomodori.
-eh? Vuoi che lanci pomodori addosso alla gente?
-no, no, no, Lovi li puoi coltivare! C'è un giardino enorme qui intorno, un posto dove coltivare lo troveremo, e così risparmieremmo tutti quei soldi che spendiamo per importarli!- gli brillavano gli occhi, sembrava un bambino che finalmente fosse riuscito a finire di completare un puzzle -che ne dici, Lovi? Ti va?
-oh, ehm, io posso... potrei provare- concesse imbarazzato, e l'altro a quella risposta lo abbracciò di slancio, facendolo diventare dello stesso colore dei pomodori che presto avrebbe coltivato. Dopo poco, ricordando l'avversione di Lovino al contatto fisico, lo spagnolo si allontanò imbarazzato, balbettando qualche scusa e rimettendosi seduto affianco a lui. Con un verso a metà tra uno sbuffo e una risata, Lovino si avvicinò di nuovo a lui, appoggiando la testa sulla sua spalla e guardando il panorama davanti a sé, anche perché se avesse guardato l'altro si sarebbe imbarazzato ancora di più. Lentamente, incredulo davanti a tutti quei miracoli e chiedendosi se magari non avesse esagerato a bere e stesse solo sognando tutto, Antonio allungò la mano verso quella dell'altro e, poco per volta per dare all'altro il tempo di rifiutarsi, intrecciò una per una le dita con le sue, fino a tenergli la mano: Lovino non si sottrasse, né fece alcun cenno; semplicemente, rimase lì, con la mano stretta in quella grande e gentile dell'altro, il suo profumo intorno a sé, il suo respiro calmo, rilassante e lieve nei propri capelli e il suo calore e il calore dei loro corpi vicini a scaldarlo in quella serata d'inverno.
Pace. Una scena tranquilla, placida, calma, diversa dalla confusione del giorno; erano due ragazzi diversi, uno diverso dal solito Lovino scontroso, l'altro diverso dal solito Antonio rumoroso.
C'era tanto silenzio che riuscirono a sentire perfino le campane in lontananza che segnalavano la mezzanotte.
-buon Natale, Lovi- sussurrò lo spagnolo, voltando il viso verso di lui e lasciando un bacio sulla sua nuca.
Lovino sollevò il capo, stregato dalla magia di quel momento, e sorrise all'altro, con due occhi luminosi come due stelle, tanto bello che qualsiasi dio, per quanto belli li scolpissero i Greci, ne sarebbe stato invidioso.
-buon Natale, bastardo
Infine, a coronare quella magia, posò la mano libera sulla guancia dell'altro, sorridendo divertito nel sentire un lieve velo di barba, strinse di più la sua con l'altra mano, e finalmente si sporse fino a baciarlo, ed entrambi in quel momento morirono e rinacquero ed erano dei ed erano umani ed erano tutto ed erano niente, ma soprattutto erano vivi e sapevano che avrebbero potuto vivere solo con questo, solo con un bacio, e fossilizzarsi lì, su quel tetto, nel luogo più importante e insignificante del mondo, diventare pietra e rimanere sempre con l'altro, e sarebbe andato bene, sarebbe andato benissimo, avrebbero sopportato qualsiasi punizione divina, qualsiasi eresia, qualsiasi punizione, tutto, tutto, pur di poter passare anche solo un secondo in più così, stretti l'uno all'altro, a baciarsi, al centro del loro mondo.
E Antonio si disse che sì, forse Cupido aveva finito le frecce e le aveva sostituite con un pomodoro, ma quello era stato in assoluto il pomodoro migliore della storia.
E in quel Natale, insieme a Gesù Bambino, nacque anche un nuovo amore.

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Capitolo 3
*** Notti sui tetti e l'arrivo del Magnifico ***


Antonio aveva sempre sentito parlare della magia di un singolo bacio, ma quella sera scoprì che certe volte il dopo è ancora meglio. Quando quel bacio finì, Antonio lentamente allungò la mano ad accarezzargli la guancia, sfiorò con il pollice lo zigomo, da cui tempo prima era sgorgato del sangue, ma questa volta la sua mano rimase pulita; Lovino poggiò il viso alla sua mano, come un gattino alla ricerca di coccole, e l'altro scese con le dita fino a sfiorargli le labbra, morbide, dolci e rosse per il bacio.
-Lovi...- sussurrò, avvicinando a sé le loro mani intrecciate e baciando il dorso di Lovino, leggermente più chiaro del suo; Lovino la strinse, e strinse anche lui a sé, girandosi totalmente verso l'altro e ingabbiandolo in una sorta di abbraccio, e appoggiò la fronte alla sua.
Si sorrisero, gli occhi luminosi, le guance rosse, le labbra che sembravano non volere altro che incontrarsi ancora.
-Lovi...- sussurrò ancora, incantato.
-dicono che è sbagliato- mormorò -dicono che non dovrei provare questo, non verso di te; che amare un altro uomo è peccato. Allora perché mi sento così bene?
Antonio gli baciò la fronte -me lo sono chiesto a lungo anch'io. La risposta me l'ha data il mio parroco. Quando mi sono confessato, mi ha risposto che il messaggio di Cristo è quello di amare, amare sempre il tuo prossimo come te stesso. Quindi perché non potrei amare te ancor più di me stesso?
-posso darti centinaia di motivi- replicò Lovino con un sorriso divertito -ma non c'entra il mio essere uomo.
-e io te ne posso dare centinaia più uno per farlo- gli lasciò un piccolo bacio a stampo, rapido, veloce. Un bacio rubato, solo per sentire la pressione di quella bocca sulla sua -dammene alcuni.
-distruggo tutto quello che tocco, sono egoista, ho un carattere orribile, non riesco ad avere un rapporto decente con nessuno, rovino sempre la festa a tutti e sto rovinando a te il Natale con le mie lamentele.
-nessuno è perfetto, Lovinito. Non sei egoista, hai cresciuto tuo fratello e hai accettato questo lavoro, mettendo da parte la tua dignità, solo per dargli un tetto sulla testa e del cibo. Non hai un carattere orribile, solo difficile; è difficile ottenere la tua fiducia, e so di non essermela ancora guadagnata, ma il premio ne vale decisamente la pena. Vedo come ti comporti con Feliciano, sei premuroso e gentile, e preferiresti morire di fame che fargli torcere un capello. Non sei una persona che si fida subito, che va bene per chiunque. Sei come... un'anguria. Hai una corazza esterna, ma dentro sei dolcissimo.
-anguria?
-non lo conosci? È un frutto, te lo farò assaggiare.
-stavi facendo un bel discorso e hai rovinato tutto con un paragone idiota- sbuffò Lovino, ma sorrideva.
-oh giusto, stavo facendo un discorso. Che stavo dicendo?
-che nessuno è perfetto.
-ah sì, giusto. Tu non sei perfetto, nessuno lo è. Dio, forse. Non devi esserlo. Neanche io lo sono. Ma la differenza è che per me tu lo sei. Conosco i tuoi difetti, magari non tutti, ma li voglio imparare. Voglio conoscerti, voglio sapere tutto di te, ogni cosa, e amarti per tutto: pregi, difetti, abitudini, ciò che ami e ciò che odi; voglio imparare a memoria ogni linea del tuo viso, ogni sfumatura dei tuoi occhi, ogni tono della tua voce e del tuo accento, il sapore e il profumo di ogni centimetro di pelle; ogni tuo pensiero, opinione, tutta la tua storia, ogni cosa che ti spaventa o ti rilassa. Voglio conoscerti come nessun altro e amarti per tutto. Tutto, Lovi. Tutto quanto- fece una pausa -se tu lo vorrai, chiaramente.
Lovino rimase in silenzio, riflettendo. Aveva centinaia di domande che gli ronzavano in testa: proprio non riusciva a capire -perché? Perché io? Potresti avere chiunque. Sei bello e ricco: e io che cos'ho?
-hai un orgoglio e una forza pazzeschi. Anche quando ti hanno messo in ginocchio, eri fiero e a testa alta. Ti ammiro. Sei molto di più, molto più fiero e indipendente di chiunque altro io conosca.
-l'orgoglio è un difetto.
-l'orgoglio è come l'alcool. Un po' rende tutto più interessante, troppo rovina tutto. Tu sei un bel bicchiere di sangria, mentre tutti quanti sono solo acqua.
-mi spieghi perché continui a fare paragoni con il cibo?
-poco fa stavamo mangiando, no? Continuo a pensarci.
-hai fame? Torniamo dentro?
-non vorrei essere in nessun altro posto.
-sei così sdolcinato che potrei vomitare.
-ops. Sono un animo romantico, che vuoi farci.
Lovino mugugnò qualcosa, ma rispose al bacio dell'altro senza esitazione.
-e comunque non è vero che non sei bravo in niente. Baci benissimo- Lovino gli mollò uno schiaffo sul braccio.
-pervertito!

Antonio si svegliò con il sole in faccia e un terribile mal di schiena. Aprì gli occhi confuso e rimase accecato per la luce.
-ma che...- abbassò lo sguardo e sollevò la mano per schermarsi gli occhi, e si accorse allora star stringendo qualcuno. Lovino dormiva, rannicchiato sul suo petto, tranquillo e rilassato, senza più il solito broncio o la ruga di preoccupazione sulla fronte: sembrava un angelo, quasi non avesse mai visto niente di brutto, quasi che la fame e la povertà fossero due parole per lui lontane, qualcosa di cui si fosse solo sentito parlare. Era bellissimo.
-oh, ci siamo addormentati qui- questo spiegava il mal di schiena. Durante la notte, qualcuno li aveva coperti con una vecchia coperta che profumava come Lovino; quella che usava per dormire, dedusse. Si guardò intorno, ma erano soli. Era un miracolo che non fossero caduti, in effetti: il tetto era piuttosto in pendenza, e anche se la nicchia che aveva trovato Lovino era abbastanza piana sarebbe bastano un movimento brusco per farli cadere. Nonostante la coperta, Antonio sentì che il corpo dell'altro era gelido, e lo strinse più forte per riscaldarlo, facendolo svegliare.
-uhm, ma cosa...-brontolò qualcosa in un misto di napoletano e spagnolo e si stropicciò gli occhi per poi aprirli, trovandosi lo spagnolo a un centimetro al proprio viso.
-oh, ciao- balbettò, imbarazzato.
-buongiorno, Lovi- gli sorrise, stampandogli un bacio sulla guancia -dormito bene?
-uhm, abbastanza- si mise seduto e sbadigliò -tu?
-ho avuto letti migliori- Antonio si mise seduto e si sporse verso di lui, sussurrandogli all'orecchio -ma svegliarmi con te tra le braccia non ha prezzo.
Lovino divenne rosso come un pomodoro e lo allontanò da sé con una manata -sei troppo romantico, bastardo.
-di solito alle ragazze piace.
L'italiano gli lanciò un'occhiata di fuoco e borbottò qualcosa nella sua lingua, poi parlò in spagnolo -mi stai dando della ragazza? E soprattutto, di che ragazze stai parlando?
Antonio sbatté le palpebre confuso -Lovinito, sei mica geloso?
-pff, ti piacerebbe.
-ma che carino!- ignorando le sue proteste, lo attirò in un abbracciò degno di un koala -ma non ti devi preoccupare, Lovinito, ho occhi solo per te.
-primo, non mi chiamare Lovinito. Secondo, non...
-veee, fratellone, Antonio, siete svegli?- all'istante, Lovino spinse via l'altro, rischiando di farlo cadere giù dal tetto.
-Feli!- e urlò qualcosa in napoletano che Antonio non capì, forse un rimprovero.
-vee, scusa fratellone, non volevo svegliarvi, ma è arrivato un signore buffo a chiedere di Antonio e...
-un signore buffo? Che signore buffo?- intervenne Antonio, interrompendo Lovino prima che potesse urlare qualcosa a Feli, che li osservava dal terrazzo da cui lo spagnolo era salito la sera prima.
-vee, mi ha fatto quasi paura- rispose Feliciano tremante -aveva la pelle bianca bianca e anche i capelli, poi, ve, aveva due occhi rossi da paura! Ha detto di dirti, uhm...- sembrò pensarci -ah sì, ha detto che il Magnifico era arrivato.
-oh, era Gilbert!- Antonio scattò in piedi e scese rapidamente dal tetto -grazie, Feli. Ci vediamo dopo, vado a salutarlo- e corse via.
Imbronciato, anche Lovino scese, con la coperta intorno alle spalle, e raggiunse il fratello brontolando qualcosa di cui Feliciano colse solo alcune parole, tipo bastardo e salutare.
-veeee, fratellone, sono felice che tu e Antonio vi siate fidanzati!
-m-ma che dici Feli? Non siamo fidanzati.
-ma ve, stanotte avete dormito abbracciati, come facevano mamma e papà- Lovino sospirò.
-Feli, mamma e papà erano un uomo e una donna. Io e Antonio siamo due uomini, inoltre lui è un padrone e io un servo. Non potrebbe mai esserci niente, non in queste condizioni, lo capisci?
-ma io...- Feliciano non aveva mai visto suo fratello così abbattuto e rassegnato.
-ci hai portato tu la coperta, vero?- cambiò argomento bruscamente, ma Feliciano non ebbe il coraggio di ritirare fuori la discussione: vedeva una tristezza negli occhi del suo fratellone, una disperazione che non voleva riportare a galla. Si limitò a rispondere e a seguire Lovino che rientrava in casa.
-sì, ve, non volevo che vi ammalaste.
-Feli, ti ho già detto che non devi salire sul tetto, è pericoloso!
-ma ve fratellone, tu ci sali sempre ve, perché io non...- si bloccò. Erano arrivati alle scale, e da lì si vedeva tutto l'atrio, dove Antonio stava parlando con il signore spaventoso di prima, con un braccio intorno alle sue spalle, come è che si chiamava? Aveva un nome buffo, sembrava uno di quei nomi tedeschi che Feliciano sentiva quando viveva con il padre su, nel Nord Italia. Sentì chiaramente Lovino irrigidirsi e stringere i pugni. Tuttavia, l'attenzione di Feliciano era concentrata su una terza persona; c'era un bambino che prima non aveva notato, circa della sua età, biondo e vestito di nero, che si guardava intorno spaventato e curioso. Non avrebbe saputo dire perché, ma Feliciano era incapace di staccargli gli occhi di dosso, c'era qualcosa che lo attirava. Quello si era dovuto sentire osservato, perché sollevò lo sguardo e incontrò lo sguardo del piccolo italiano. Rimasero a osservarsi, pietrificati da qualcosa che non erano in grado di comprendere, ma che avrebbe cambiato le loro vite in modi che non erano minimamente in grado di immaginare.
Feliciano si riscosse solo quando sentì la voce di Antonio chiamare lui e suo fratello.
-Lovino, Feliciano, venite! Vi presento Gilbert, il mio...
Lovino non gli lasciò neanche finire la frase, che sarebbe terminata con "migliore amico": afferrò suo fratello per un polso e lo trascinò via.
-peperino il tipo- commentò Gilbert -è quello di cui mi hai parlato nella scorsa lettera?
-eh già.
-te lo sei scelto difficile, freund! Buona fortuna- e scoppiò una risata sguainata.

Forse sarebbe il caso di parlare un po' di Gilbert, che ne dite?
Gilbert era prussiano, anche lui di famiglia nobile. Lui, Antonio e un altro loro amico francese, Francis, si erano conosciuti anni prima a un enorme festa, a cui erano presenti personalità importanti da tutto il mondo, per festeggiare la nascita dell'erede di un qualche importantissimo conte: per dei quindicenni come loro, una noia clamorosa. Inutile dire che dopo appena dieci minuti, il tempo di fare gli omaggi ai padroni di casa, tutti e tre non ne potevano già più. Avevano fatto amicizia al tavolo delle bevande, era stato Gilbert a rompere il ghiaccio con Antonio e poi Francis si era unito a loro. Gilbert aveva un ego decisamente sovrasviluppato, il tatto di un elefante, un uccellino di nome Gilbird per cui avrebbe venduto persino sua madre, nessuno sprezzo del pericolo, l'abitudine di farsi notare e chiamarsi "il Magnifico" ovunque andasse e un senso della responsabilità così scarso che era praticamente il suo fratellino a prendersi cura di lui. Anche Gilbert era nell'esercito, ma la sua scelta, in parte obbligata, era stata tuttavia volontaria. Aveva sempre voluto combattere, e una famiglia rispettata come la sua era stata un aiuto, invece che un ostacolo. E soprattutto, aveva la naturale propensione a combinare guai in giro e un assoluto disgusto verso tutto ciò che era nobile, elegante o formale; i banchetti lo disgustavano, i convenevoli gli davano i nervi, le formalità lo esasperavano. Era una persona crudelmente diretta, che aveva sempre detto le cose come stavano, e soleva dire che l'unico davanti al quale si sarebbe inginocchiato volontariamente e senza fare storie sarebbe stato Dio in persona. Insieme ad Antonio, solare e naturalmente propenso alla sincerità, e a Francis, un damerino che amava combinare guai e flirtare con chiunque, erano il terrore di cerimoniali e organizzatori: non era importante quanto si preparasse tutto alla perfezione, quei tre sarebbero sempre stati in grado di combinare qualche guaio. Anche se i genitori facevano di tutto per tenerli separati, si scrivevano regolarmente. Da quando aveva compiuto 22 anni, Gilbert aveva mollato l'esercito e aveva iniziato a viaggiare in giro per il mondo, andando a trovare il più possibile i suoi due amici: uno scandalo, ma amava crearne. Era a Milano quando aveva saputo del trasferimento di Antonio, e non aveva potuto fare a meno di andare a trovarlo. Nelle sue lettere, l'amico gli aveva parlato di questo ribelle napoletano per cui si era preso una cotta stratosferica, e Gilbert era proprio curioso di conoscerlo, ed effettivamente poteva capire cosa l'avesse attratto: da quel poco che aveva visto, sembrava un gran bel ragazzo, ed era stato anche molto scontroso, con quel tipo di rifiuto che, in persone come lui e Antonio, testarde di natura, non faceva altro che accrescere il desiderio. Davvero un bel tipetto, peccato che lo spagnolo se lo fosse preso prima di lui; anche se Gilbert aveva già trovato da tempo la sua musa, e a ben pensarci pure lui non scherzava in quanto a caratterino.
-certo che tu e Francis amate quelli difficili, eh?- diede una forte pacca sulla schiena dell'amico e scoppiò in una risata forte e rumorosa -prima lui con quel inglese dalle sopracciglia enormi, ora tu con il napoleano ribelle.
-be', che gusto ci sarebbe altrimenti?
-anche tu non hai tutti i torti- lanciò un'occhiata al fratellino e gli parlò in tedesco -ehi, fratellino, noi andiamo a parlare di cose da adulti, tu fai il bravo e non rompere niente.
-è più responsabile di te, dovrebbe essere lui a preoccuparsi- gli ricordò Antonio con una risata.
-ah ah ah, che originale che sei, come se non me lo ricordaste tutti tutti i giorni- vedendo che il bambino fissava qualcosa sovrapensiero, si innervosì e lo chiamò nuovamente in tedesco -Ludwig, mi dai retta o no?!
-cosa? Che hai detto?- gli chiese, con il tono di uno che si era appena svegliato da uno strano ma bellissimo sogno.
-sveglia! E poi sarei io quello che non ascolta mai- sbuffò, parlando in spagnolo all'amico -Tonio, non è che qui c'è qualche bambino con cui potrebbe giocare? Mi preoccupa, dovrebbe stare di più con i bambini della sua età.
-c'è Feliciano, il fratellino di Lovinito, dovrebbero avere circa la stessa età- sembrò pensarci su -in effetti, bisognerebbe trovare lui e Lovinito, e convincere Lovi a farlo giocare con lui- fece una pausa -è un po' iperprotettivo, ma non posso biasimarlo.
-Ludwig, hai sentito? C'è un bambino della tua età, è passato di qui prima, l'hai visto?
-bambino? Non era una femmina?- domandò Ludwig confuso. Gilbert scoppiò a ridere, senza sapere della tempesta che si stava avvicinando al cuore del suo fratellino e della nebbia di confusione e panico che gli stava entrando in testa.
"Un bambino..."

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Capitolo 4
*** Piccoli Giovani Amori ***


Ludwig era sempre stato un bambino solo. Ligio al dovere, lodato da tutti gli adulti per il suo senso della responsabilità e la sua intelligenza, istruito e studioso, curioso e amante di tutto ciò che fosse scientifico e complesso. A soli dieci anni, poteva vantare una cultura e una conoscenza tale da permettergli di tenere conversazioni alla pari con professori e adulti di ogni genere. Era l'orgoglio di mamma e papà, totalmente l'opposto di suo fratello; quello che veniva presentato maggiormente agli ospiti, quello che veniva sfoggiato come un gioiello: Ludwig, il bambino prodigio, il figlio modello.
Eppure, era un bambino molto solo.
Fin dalla più tenera infanzia, gli unici giocattoli per lui interessanti erano stati i blocchetti per le costruzioni, e l'unico pupazzo che avesse mai apprezzato era quello di una figura umana, che aveva usato solo per studiare meglio anatomia. Aveva imparato a leggere a soli tre anni, e da allora non c'era stato verso di impedirgli di portarsi un libro dovunque andasse; persino lì, a casa dell'amico di suo fratello, teneva un enorme libro di biologia sotto il soprabito scuro, oltre a tanti altri libri nelle valigie. Non aveva mai giocato con gli altri bambini, sia per la posizione isolata della loro villa di famiglia, sia perché non avrebbe saputo che farci; a soli otto anni, si era autodiagnosticato una forma di quella che oggi chiameremmo ansia sociale: entrava nel panico ogni volta che doveva parlare con qualche bambino, balbettava, arrossiva e non sapeva come comportarsi o cosa fare. I giochi come acchiapparella, nascondino o pallone? Per lui erano un mistero tanto quanto la Terra al centro del sistema solare, teoria che secondo lui non aveva il minimo senso, o tanto quanto la religione. Non era credente, credeva più nei numeri che in Dio, ma si comportava come se lo fosse per non far sfigurare la sua famiglia. L'unico che sembrava curarsi di quella sua solitudine era il fratello, che lo portava con sé ogni volta che gli fosse possibile per farlo socializzare con qualche bambino, o almeno provarci.
Per questo, quando aveva visto quella piccola italiana, che poi aveva scoperto essere un lui, la sua prima reazione era stato il panico. Ma guardando in quegli occhi ambrati, Ludwig non vide nessuna traccia di giudizio; c'era una sorta di curiosità innoqua, un'attenzione assolutamente neutra, un'impazienza di conoscere e capire, ma senza malignità alcuna. Sembrava semplicemente ed essenzialmente curioso di conoscerlo; anzi, sembrava persino... affascinato, un fascino infantile certo, del tutto platonico, ma sempre un fascino che Ludwig si sentì ricambiare. Si rese conto con terrore di volerlo conoscere, anzi: di volerci fare amicizia, e se per un bambino sarebbe stata una cosa normalissima, per lui era una sfida impossibile. Sentì qualcosa agitarsi nello stomaco, qualcosa di forte, e sperò non fosse un principio di vomito o una qualche malattia orribile, e per la prima volta il suo cuore batté un po' più forte per qualcosa che non fosse l'ansia o l'attività sportiva.
Quando il fratello lo trascinò via, si sentì persino dispiaciuto, e rimase imbambolato a fissare il punto dove prima c'era stata quella piccola figura. Per la prima volta fu richiamato all'attenzione per ben due volte, e sentì di nuovo quel mal di stomaco all'idea di giocare con lei, che sfociò nella confusione e nel panico quando scoprì si trattasse di un lui.
Lui si era... lui si era sentito attratto da un bambino.
Era un qualcosa di così impensabile, così assurdo e inimmaginabile, che si ritrovò a negare tutto e a darsi dello sciocco.
Ma quando si ritrovò nella stessa stanza con lui, Feliciano, sentì un panico del tutto nuovo stringergli la bocca dello stomaco, e un'ansia diversa da qualsiasi altra cosa avesse mai provato prima invadergli il cuore e scaldargli le guance.
-vee, come ti chiami?
-parli tedesco?- domanda stupida, ma il biondino era sorpreso. Com'era possibile che un piccolo servo di Napoli parlasse tedesco?
-sì, ve, quando ero piccolo ho passato anni a Venezia e a Trento con il mio papà, e lì si parla tedesco.
-quindi...- si schiarì la voce, sentendo le manine sudare -la tua prima lingua è il tedesco?
-no, ve, è il veneto- con un sorriso gli si avvicinò e gli tese la mano -io sono Feliciano.
-L-Ludwig- riuscì a dire, stringendogliela.
-veee, che vuoi fare? Giocare?
-oh, ehm, io non... non so come si faccia.
-ve, ma come? Sembri così intelligente! Sai anche leggere!
-tu non sei capace?
-no, ve, ma vorrei imparare.
-potrei... potrei insegnarti io- all'istante, Ludwig si pentì. Sarebbe sembrato presuntuoso? Arrogante? Ora quel bambino tanto bello lo avrebbe odiato!
-sì! Ve, che bello!- lo abbracciò, facendogli esplodere il cuore. Nessuno che non fosse della sua famiglia lo aveva mai abbracciato, e anche lì erano sempre stati abbracci di circostanza. L'unico a dimostrargli un affetto sincero era Gilbert, che gli tirava sempre le guance, facendogli male. Non aveva mai ricevuto un abbraccio così spontaneo e sincero, e sentì tutto il suo corpo andare a fuoco, e si chiese cosa significasse, temendo, per la prima volta in tutta la sua vita, di sapere.

-Loviiiiiii- urlò Antonio, cercando l'altro in giro per la casa. Non era particolarmente grande, ma l'italiano sembrava scomparso. Era andato a cercare lui e Feliciano per chiedere al più piccolo se volesse giocare con il fratellino di Gilbert, non che avesse dubbi sulla risposta, mentre i due tedeschi erano andati nelle loro camere a sistemarsi, visto che sarebbero rimasti lì qualche tempo.
Raggiunse il giardino e cominciò a girare finché non sentì una risata in lontananza.
-ve, ve, fratellone guarda! Ho trovato una farfalla, guarda che bella!- stava urlando Feliciano a suo fratello, che se ne stava seduto sotto un albero, con un (adorabile) broncio in viso.
-eccovi!- esclamò lo spagnolo, raggiungendoli e sedendosi accanto a Lovino, passandogli un braccio intorno alle spalle e spettinandogli i capelli; quello si scostò malamente.
-Feli, ti andrebbe di giocare con il fratellino di Gilbert?- al bambino si illuminarono gli occhi.
-ve, sì!
Antonio ridacchiò -è in una delle camere degli ospiti, sai dove sono, no? Bene, vai, e mi raccomando: bussa prima di entrare.
-va bene, fratellone Antonio- esclamò Feliciano, per poi correre via.
-sbaglio o mi ha chiamato fratellone?
-si è messo in testa che ci sposeremo- Lovino roteò gli occhi.
-perché, non è così?- Antonio rise e baciò l'altro sulla tempia -penso che staresti benissimo in abito bianco.
-sai che è impossibile, non sparare cazzate- brontolò Lovino, seppellendo il viso abbronzato tra le ginocchia.
-Lovinito, che hai?
-niente.
-ho fatto qualcosa di sbagliato?
-te ne sei andato senza salutare- brontolò Lovino.
-eh?
-prima, sei scappato da quel crucco del tuo amico senza neanche salutarmi, brutto stronzo!- borbottò, guardandolo male.
-aw, sei così carino quando ti ingelosisci, Lovinito!- esclamò Antonio, con un certo deja-vu, stringendo l'altro a sé -ma puoi stare tranquillo, Gil è il mio migliore amico, tutto qui!
-è un dannatissimo crucco- brontolò Lovino.
-eh?
-crucco. Un tedesco- spiegò l'italiano -gli unici peggiori degli spagnoli sono i tedeschi.
-io però sono l'eccezione, no?
-infatti tu sei peggiore anche dei crucchi.
-Loviiii! Tanto lo so che mi aaaaaami tanto.
Lovino mugugnò qualcosa, poi si strinse a lui.
-non ti montare la testa, bastardo, ho solo freddo- chiarì, seppellendo il viso nella sua spalla e chiudendo gli occhi. Antonio sorrise stringendolo a sé, e mentalmente benedisse il freddo di dicembre per la prima volta nella sua vita. Lui aveva sempre amato l'estate, il caldo, il sole, le spiagge della Spagna e i lunghi bagni in mare, ma avrebbe sopportato il freddo per poter stringere l'altro a quel modo. Non aveva mai immaginato di innamorarsi in inverno: quei mesi sembravano troppo freddi per lasciare spazio a un sentimento così forte. E invece, si rese conto con sorpresa, si stava proprio innamorando, e profondamente anche. Si era detto che avrebbe avuto decine e decine di amanti, che si sarebbe divertito il più possibile, ma perché avere decine di amanti se era riuscito ad ottenerne uno che ne valeva milioni?
-volevi che ti salutassi?
-volevo che non scappassi via in quel modo- brontolò, sollevando il viso e guardandolo.
-hai ragione, scusami. Come posso farmi perdonare?- gli sorrise, avvicinandosi e sfregando il naso contro quello arrossato del più piccolo.
-andiamo dentro- sussurrò Lovino, assonnato -ho freddo e voglio dormire.
-ma dentro c'è altra gente- replicò -non possiamo farci vedere insieme, non così, ci denuncerebbero.
Lovino sembrò pensarci, poi annuì -allora restiamo qui. Ma continuo ad avere freddo.
Antonio sorrise -a quello ci penso io, Lovi!- esclamò, cominciando a riempirlo di baci; sulle guance, sulla punta del naso rosso, sul collo, sulla spalla, ovunque riuscisse ad arrivare, meno che le labbra: quelle erano il dessert, da lasciare per ultime.
-no fermo! Fermo mi fa il solle...- e scoppiò a ridere, forte, cercando di allontanarlo da sé ma senza provarci davvero -bastardo smettila!
Antonio gli afferrò le mani e le intrecciò alle sue, allora l'altro, cercando di scappare a quella dolce tortura, arretrò fino a ritrovarsi sdraiato a terra, con lo spagnolo addosso che continuava a baciarlo e ad accarezzargli i fianchi. Stanco di tutto quello, e forse anche con la speranza inconscia di avere qualcosa in più, non che l'avrebbe mai ammesso, Lovino liberò una mano con uno strattone e avvicinò a sé il viso dell'altro, fino a baciarlo; e finalmente quella bocca fu di nuovo sulla sua, quelle labbra tra le sue, quel senso di invincibilità e di pace lo invase ancora, insieme a quel calore così denso e profondo, come se qualcuno gli avesse versato del miele caldo nelle vene al posto del sangue. Finalmente, Lovino si sentì nuovamente perfetto, quasi che il mondo fosse tornato improvvisamente in pace e si fosse fermato in quel singolo istante, quasi che tutto continuasse ad andare e solo loro si fossero presi una pausa per loro stessi. Non sentì più niente tranne quel bacio, quelle mani calde che si erano intrufolate sotto la sua maglia e gli stavano accarezzando la schiena, la bocca di Antonio che, staccatasi dalla sua, lo stava baciando sul collo: baci lenti, passionali, diversi dalla divertita innocenza di prima. C'erano una sensualità e un desiderio nuovi, che mandavano brividi di piacere lungo la schiena di Lovino dritti fino al cervello, tanto che a stento riusciva a trattenere i gemiti.
-ricordi quel che ti ho detto ieri?- gli sussurrò, mordendogli e successivamente baciandogli un lembo di pelle sotto l'orecchio -ho detto che voglio conoscere il sapore di ogni tuo centrimetro di pelle -gli morse il lobo -forse dovrei cominciare ora, Lovi, che ne dici?
Lovino mugolò qualcosa, stringendolo a sé e baciandolo ancora. Quello era troppo, troppo in una sola volta, ma era così bello che non sapeva se si sarebbe potuto fermare in tempo; e a ben pensarci, era l'ultima cosa che voleva. Fermarsi sarebbe stata la cosa migliore da fare, e magari continuare in un luogo più sicuro, ma come dire di no? Come faceva a dire di no a tutto quello, quando quelle stesse labbra che gli facevano perdere la testa si erano infilate sotto la sua maglia e gli stavano riempiendo il ventre piatto di baci lenti e sempre più profondi?
-A-Antonio- provò ad ammonirlo, ma tutto ciò che gli uscì dalle labbra fu un sospiro.
-che c'è, Lovinito? Vuoi che mi fermi?- lo spagnolo poggiò la fronte alla sua e gli sfiorò le labbra con le sue, con l'ansia di essersi spinto troppo oltre che gli attanagliava lo stomaco e gli mozzava il respiro. Lovino scosse la testa, puntando gli occhi, liquidi dal desiderio, nei suoi, la cui pupilla era tanto dilatata che il bel verde dell'iride sembrava annegarci dentro. L'italiano gli accarezzò i ricci bruni con una mano, e sospirò piano.
-no, non... non voglio che tu ti fermi- con un sorriso malandrino, Antonio immerse il viso nel suo collo e riprese a baciare, mordere, leccare e farlo uscire di testa -mh... a-aspetta- gli uscì un qualcosa a metà di una supplica e un gemito; continuò quando l'altro si staccò guardandolo confuso -non qui, potrebbero... - perse un attimo il filo del discorso, immergendosi un attimo di troppo in quegli occhi praticamente neri e pieni di lui; deglutì -potrebbero vederci- conluse a fatica, ma Antonio rise, scostandogli una ciocca di capelli dal viso rosso.
-tranquillo, Lovinito. Siamo in un angolo nascosto, stanno tutti lavorando o dormendo- gli baciò la guancia -e poi non voglio fare tutto, quella sarà speciale, e prima ti chiederò il permesso almeno dieci volte e sarai tu a decidere quando e dove.
-non dovremmo decidere insieme?
-ma sei tu quello che ci metterà il cu...- si interruppe, ma solo perché Lovino gli aveva tirato un coppino dritto sulla nuca, ancora più rosso.
-pervertito! E poi chi ti dice che non sarai tu a prenderlo, eh?
Antonio lo guardò come se fosse impazzito.
-amore... dai, sii serio- Lovino si imbronciò, ma si dovette rimangiare il broncio quando l'altro lo baciò ancora; un bacio più bagnato, spinto, che fece infiammare le guance del ragazzo, e non solo quelle -ora voglio solo farti stare bene- gli sussurrò all'orecchio -se facessi qualcosa che non vada, fermami subito, va bene?- gli baciò la fronte -ora rilassati e lasciami fare, ti va?
-sì ma sbrigati, che mi si sta afflosciando- ribatté Lovino sbuffando; sbuffo che, un secondo dopo, si trasformò in un nuovo gemito che proprio non era riuscito a controllare.

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Capitolo 5
*** Crucchi invadenti e fratelli maggiori ***


-ma dove si sarà cacciato quello stronzo?- brontolava intanto Gilbert, cercando l'amico per tutta la casa. Infine, arrivò all'ingresso del cortile, e alzando le spalle ci entrò, chiamando l'amico a gran voce.
Continuò a cercare per un po', finché non sentì delle voci, una che imprecava come uno scaricatore di porto e l'altra che si scusava in spagnolo, ed era decisamente quella di Antonio. Seguendo le voci, Gilbert si ritrovò davanti a uno spettacolo decisamente spassoso, almeno ai suoi occhi: seduto sotto un albero, Antonio si stava beccando una serie di insulti decisamente molto colorita da parte di quell'italiano del quale aveva parlato a Gilbert, che era rosso in viso, gesticolava come un pazzo e aveva un vistoso segno di un morso sul collo, e Gilbert si segnò mentalmente di farglielo notare, più avanti, quando si fosse calmato, per farlo infuriare nuovamente.
-te l'ho detto che ci avrebbero beccati, lurido bastardo pervertito!- esclamò l'italiano, che ancora non aveva notato Gilbert. Evidentemente avevano sentito la sua voce da lontano ed erano andati nel panico.
-ma guarda un po' chi abbiamo qui- esordì uscendo allo scoperto, parlando in spagnolo per permettere agli altri due di capirlo -mi ricorda quella volta che abbiamo beccato Francis nudo e ubriaco che si limonava una bottiglia ancora chiusa di vino.
L'italiano lanciò un'occhiataccia ad Antonio -e ora si può sapere chi è questo altro stronzo?
-lui e Gil sono i miei due migliori amici- spiegò Antonio sollevando le mani in segno di resa -niente di cui tu ti debba preoccupare.
-ma l'hai visto nudo.
-oh, fidati- intervenne Gilbert -non era uno bello spettacolo. Non quanto te immagino, vero Tonio?
Lo spagnolo gli lanciò un'occhiata assassina e attirò a sé il proprio ragazzo, o almeno Gilbert ipotizzò che lo fosse a quel punto -non osare avvicinarti a Lovi o ti stacco le palle e le do in pasto ai tori.
L'italiano lo guardò confuso, forse stupito da quell'improvvisa possessività, o forse chiedendosi dove sarebbe andato a trovarsi dei tori lì a Napoli. Gilbert ghignò.
-oh, sono abbastanza sicuro che se solo mi avvicinassi mi morderebbe come un cane randagio- Lovino fece per replicare, ma Gilbert continuò -a proposito di morsi, sbaglio o ne hai uno sul collo, Lovinito?
-bastardo di uno spagnolo!- ruggì Lovino, voltandosi verso Antonio, pallido quasi quanto Gilbert, il quale scoppiò a ridere -tu, crucco maledetto, non ridere! E tu, bastardo, mi spieghi come cazzo dovrei nascondere un coso del genere a mio fratello?!
-ehm, una sciarpa?
-certo, una sciarpa nuova a caso che nessuno si chiederà da dove sia venuta! Geniale!- ringhiò, talmente rosso che il segno sembrava quasi sparire.
-be', tuo fratello non mi è sembrato esattamente un genio.
-taci, crucco! E non osare mai più parlare di mio fratello!
-ho solo detto la verità.
-ti ho detto di tacere, devo fare il culo a questo bastardo.
-non letteralmente, spero. Insomma si vede che è Tonio l'attivo...
Lovino sbuffò, e accettò passivamente le carezze dello spagnolo per calmarsi un po' -sappi che quando questo rompicoglioni se ne sarà andato, ne riparleremo- dalle spalle del più piccolo, Antonio lanciò un'occhiata di puro panico all'amico.
-mi spiace, freund.
-no che non ti dispiace.
Gilbert scoppiò a ridere -può essere.

Da tutt'altra parte, due creature ben più innocenti stavano scoprendo lentamente cosa fosse l'amore, e il bello è che neanche ne erano consapevoli: come avrebbero potuto, così piccoli, avere anche solo una vaga idea di cosa fosse quella cosa strana che stavano provando?
-i regni a... an... animali sono ci... nque- lesse tentennante Feliciano -mammiferi, ucc... u... occ... ve, Luddi, non riesco a leggere questa parola.
-uccelli- suggerì Ludwig, fiero della sua posizione di insegnante.
-uc-cel-li- scandì bene Feliciano -ve, poi... uhm... anfibi, ret...tili e pesci- leggeva lentamente, la vocina tranquilla e rilassante, sembrava una ninna nanna; il suo accento era particolare, diverso da quello che aveva sentito a Milano e diverso da quello di Napoli, ma a Ludwig piaceva da impazzire. Erano seduti sul grande tappeto della camera di Ludwig, il biondo seduto compostamente e l'altro stravaccato vicino al libro di biologia di Ludwig, sistemato tra loro.
-veee, Ludwig, cosa sono gli an-fi-bi?
-sono gli animali che possono vivere sia in acqua sia sulla terra ferma- vedendo lo sguardo confuso dell'altro, Ludwig decise di fare un esempio -le rane. Da piccole, come girini, vivono solo in acqua; poi, quando crescono, possono vivere anche sulla terra.
-veeeee, come me! Vivo a Napoli e parlo spagnolo, ma posso anche parlare tedesco. Sono una rana, Luddi?
-cosa... no, non sei una rana, Feliciano.
-sono un an-fi-bio?
-no, Feliciano. Sei un mammifero.
-ma io non ho una mamma.
-ah... mi dispiace...- Ludwig rimase in silenzio, cercando di trovare qualcosa da dire.
-ve, Luddi, ma se non ho una mamma, perché sono un mammifero?
-oh, ehm, vedi tu sei comunque nato da una mamma.
-ti riferisci alla storia della cicogna? Sono un mammifero perché la cicogna mi ha portato alla mia mamma?
-oh, ecco, vedi Feliciano...- panico. Come diamine avrebbe potuto rovinare l'innocenza di quel bambino rivelandogli i segreti del sesso e della gravidanza, che avevano tormentato gli incubi di Ludwig per mesi? Finalmente, l'illuminazione -vedi, Feliciano, la cicogna durante la notte mette i bambini nella pancia delle loro mamme, per questo a volte vedi donne con grandi pancioni: si dicono donne incinte. Negli uccelli, invece, la cicogna mette i cuccioli nelle uova, e anche nei pesci e nei rettili.
-e negli an-fi-bi?
-esatto.
-veeee, Luddi, non è che la cicogna si confonde e mette un bambino nella mia pancia mentre dormo, vero?- sembrava terrorizzato.
-oh, no, Feliciano, tranquillo. Li mette solo alle donne, e tu sei un maschio.
-mi sembra sensato, ve, altrimenti non si chiamerebbero mammiferi ma papiferi, no?
Ludwig sorrise divertito.
-esatto, Feliciano.
-veee, mi piace che pronunci il mio nome per intero, mi fa sentire importante- commentò rotolando fino a guardare l'altro dritto negli occhi, a pochi centimetri di distanza. Quando gli sorrise, Ludwig deglutì trattenendo il fiato -e mi piace anche il tuo accento, Luddi. Mi ricorda il mio papà.
-oh, ehm, grazie- a Ludwig Feliciano piaceva. Era spontaneo, sincero; diceva le cose come stavano, ogni suo pensiero e domanda, senza pensarci troppo, gli aveva persino dato un soprannome. Era gentile e onesto e buono, e scatenava sempre quello strano mal di pancia al tedesco, che però si faceva sempre più piacevole mano a mano che passavano del tempo insieme. Era spontaneo ma buono, e nonostante facesse a volte domande sciocche imparava in fretta: in un paio d'ore, era già in grado di leggere piuttosto bene, e questo riempiva Ludwig di orgoglio.
-veee, Ludwig, tu sai tutto no?
-non so tutto, nessuno sa tutto, Feliciano.
-Dio sa tutto.
Il tedesco rimase in silenzio per un po', poi annuì -sì, immagino di sì.
Anche a Feliciano Ludwig piaceva, gli piaceva come gli si illuminassero gli occhi azzurri ogni volta che rispondesse a una domanda, gli piacevano anche i suoi occhi, tanto, davvero tanto. Gli piaceva come desse importanza a ogni sua domanda, per quanto semplice o stupida, e ci pensasse sempre sopra un po' prima di rispondere, lo faceva sentire speciale.
-ve, però anche tu sai tante cose, ve?- il biondo annuì -allora posso chiederti una cosa molto ma molto importante?
-certo, chiedi pure, Feliciano.
-vee, è un po' imbarazzante...
-non preoccuparti.
-ecco... conosco un ragazzo che è innamorato di un altro ragazzo- ammise, omettendo di nominare suo fratello e Antonio -e le persone e la Chiesa dicono che è sbagliato e che Dio non vuole, ma Dio vuole l'amore, ve, Luddi? Allora perché dice che l'amore tra due maschi è sbagliato?
-uhm, non saprei, non sono un esperto di religione...- ammise, ma all'espressione delusa di Feliciano continuò -però so che Gesù di per sé non ha mai detto che amare una persona del proprio stesso genere fosse sbagliato- si guardò bene dal parlare di Sodoma e Gomorra, anche se le due città erano state distrutte per altre cause oltre all'omosessualità. Non voleva traumatizzare l'altro.
-veee, quindi Dio non è contro a due uomini che si amano?
-non conosco Dio, ma non credo che lo sia- Feliciano sorrise, gli occhi come ambra che rifletteva la luce del sole.
-e tu, Luddi?
-cosa?
-sei contro a due maschi che si amano?
-oh, io non... no, non penso ci sia qualcosa di sbagliato.
Feliciano sorrise lo abbracciò.
Ludwig era stato sincero: per lui, l'omosessualità non rappresentava un problema. In quel momento, stretto con forza dall'altro, sentì il proprio cuore battere con troppa forza perché lo potesse ignorare ancora. Si era preso una cotta per Feliciano. Negarlo sarebbe stato inutile, accettarlo non gli costò molto sforzo, ma le conseguenze... le conseguenze erano un qualcosa che non era pronto a sopportare, e lo spaventavano a morte. Deludere la propria famiglia: un qualcosa che non aveva mai immaginato, ma che, a seguito di quella scoperta, sarebbe stato inevitabile. Il solo pensiero bastava a terrorizzarlo.
Eppure, quando Feliciano mormorò un -ve, Luddi, ti voglio tanto tanto bene- direttamente nel suo orecchio, ogni timore scomparve, e rimase solo una gioia così esplosiva e devastante da fargli quasi male.
Poco dopo, mentre Ludwig stava spiegando il funzionamento del cuore a Feliciano, suo fratello entrò insieme al suo amico spagnolo, Antonio.
-vee, è il signore buffo di prima!- esclamò Feliciano. Gilbert agrottò la fronte.
-signore buffo?
-oh, ve, mi scusi se l'ho offesa, è che non avevo mai visto qualcuno così pallido prima, e poi ha gli occhi rossi, sono buffi.
-oh, piccoletto, non lo sai? La pelle bianca è simbolo di nobiltà!- si pavoneggiò, e il piccolo lo guardò con occhi luccicanti.
-davvero? Wow! Ve, mi scusi se le ho dato del signore buffo, signore buffo.
Ludwig scosse la testa e parlò in tedesco a suo fratello -bruder, piantala di tirartela con il mio amico- il cuore gli si scaldò nel dire "amico".
Feliciano si voltò a guardarlo con un bellissimo ed enorme sorriso e lo abbracciò di slancio, facendolo cadere a terra -veeeeee, Luddi, quindi siamo amici! Che bello! Che bello!
-Feli, da quando parli tedesco?- domandò in spagnolo Antonio, inarcando un sopracciglio.
-oh, da sempre. Papà era un commerciante su al nord, e mi portava sempre con sé a lavoro. Viaggiavamo di continuo, Venezia, Trento, Milano, e spesso vendeva a tedeschi o austriaci, quindi ho imparato. E poi per un po' sono rimasto da un amico austriaco di papà, e lui parlava solo tedesco o austriaco.
-anche Lovi lo parla?
-oh, no, lui parla solo napoletano, spagnolo, romano, siciliano e...- aggrottò la fronte, pensando -qualche altro dialetto del sud che ora non mi viene in mente. Il fratellone è rimasto per anni giù con la mamma, e viaggiavano in giro per il sud.
-tu quante lingue parli?- intervenne Gilbert, in tedesco.
-uhm, tedesco, spagnolo, veneto, milanese, napoletano, romano, trentino, genovese, francese, austriaco...- rispose, traducendo anche in spagnolo per Antonio, e fece una pausa per pensare -ah, e anche un po' di ungherese. L'ho imparato dalla signorina gentile che lavorava dal signore austriaco.
-per la miseria...- commentò Gilbert -il contrario di Ludwig, che sa solo il tedesco!- e scoppiò a ridere, come se avesse detto qualcosa di estremamente divertente che solo lui capiva; al piccolo teutonico si imporporarono le guance candide.
-ma Luddi sa tante cose!- lo difese Feliciano -mi ha anche insegnato a leggere! E ha promesso di insegnarmi anche a scrivere, vero Luddi?- il bambino annuì
-tu potresti insegnargli lo spagnolo- propose Antonio -così sarebbe uno scambio equo.
Entusiasta, Feliciano tradusse a Ludwig, per il quale la compagnia dell'altro era già preziosa di suo, che annuì, perché andiamo, come avrebbe potuto dire di no a due occhietti così luminosi ed entusiasti?
-be', buona fortuna allora. Ludwig è una frana con le lingue, ha già provato a impararlo ma niente da fare- commentò Gilbert, facendo diventare il fratellino rosso come un peperone.
-adesso però è tardi, è quasi ora di cena- ricordò Antonio. Feliciano si incupì e guardo l'amichetto.
-vee, Luddi mi dispiace, ma dopo cena dovrò andare a dormire con il fratellone.
-oh... capisco.
Vedendo il fratellino triste e affezionato a quell'italiano, che aveva fatto un miracolo a stringere amicizia con il piccolo tedesco, a Gilbert venne un'idea geniale -perché non rimani a dormire con Ludwig? Possiamo far portare un lettino o una branda qui, oppure puoi dormire nel letto con lui.
-vee, vorrei, ma il fratellone si infurierebbe.
-oh, tranquillo, a tuo fratello ci penserà Tonio- ghignò, traducendo rapidamente allo spagnolo, al quale si illuminarono gli occhi.
-ma certo, Feli, ci penso io.
-davvero? Grazie grazie grazie!- si voltò verso l'altro -ve, Luddi, a te va bene?
Il piccolo tedesco lo guardò negli occhi, trovandoci una gioia e una purezza che non voleva spezzare, anche se il pensiero di dormire nella stessa stanza, o persino nello stesso letto, con l'altro lo faceva diventare di cinquanta sfumature diverse di rosso. Annuì, venendo subito stritolato dall'amico, e un sorriso gli nacque spontaneamente sul viso, un sorriso che a Gilbert non passò di certo inosservato. Sorrise a sua volta, non aveva mai pensato che un giorno avrebbe visto il suo serio e apatico fratellino innamorato.
Lanciò un'occhiata ad Antonio, che capì l'antifona e sorrise a Feliciano -Feli, che ne dici se andiamo a chiedere a tuo fratello il permesso?
-ve, va bene, fratellone Antonio- il piccolo si allontanò dall'amico, stampandogli prima un bacino sulla guancia, e poi prese la mano allo spagnolo, uscendo con lui dalla camera e lasciando i due tedeschi da soli.
Ludwig, a testa bassa per nascondere le guance rosse, si chinò a raccogliere il libro da terra e lo sistemò sulla scrivania, insieme agli altri libri che si era portato dietro; Gilbert si sedette sul letto senza tanti complimenti e guardò il fratellino -e così ti sei innamorato, eh?- il bambino divenne paonazzo e scosse la testa.
-n-non posso essermi innamorato, lo conosco da qualche ora- fece una pausa, ricordandosi di un altro dettaglio -e poi è un maschio.
-bah, non prendermi per il culo. Il genere di una persona non è importante come ci insegnano. Non ci si innamora di qualcuno per quello che ha tra le gambe, fratellino, ricordatelo sempre: ci si innamora del carattere, delle opinioni, dei pensieri, del modo di parlare o comportarsi, delle abitudini, delle paure e delle passioni, o anche dell'aspetto fisico se vuoi, ma il genere? Il genere è solo un dettaglio. Ci insegnano come comportarci, cosa dire o fare, in base a qualcosa su cui non abbiamo il controllo, ed è una grandissima stronzata. Tu non hai scelto di nascere maschio, io non ho scelto di nascere maschio, Feliciano non ha scelto di nascere maschio: ci siamo ritrovati così e basta. Allo stesso modo, Ludwig, tu non puoi scegliere di chi innamorarti: capita e basta. Qualcuno ti sorride in un certo modo e ti ritrovi cotto marcio, lo conosci meglio e finisci a non riuscire a smettere di pensare a lui. Ma, ricordatelo bene, puoi scegliere come viverlo. Puoi accettarlo e conviverci o nasconderlo. Conosco una ragazza che ha più palle di me e te insieme e che, in anni e anni di amicizia, nonostante sia costretta a indossare un vestito, è sempre stata lei a comandarmi a bacchetta. Non perché si senta uomo, semplicemente si è sempre trovata a suo agio con comportamenti che la gente dice essere maschili, e l'ultima volta che le ho dato del maschiaccio, mi ha tirato una padellata, lunga storia, così forte che sono praticamente svenuto. Allo stesso modo, Francis, nonostante sia maschio e si riconosca come tale, niente in contrario a chi non lo fa, sia chiaro, porta i capelli lunghi, si cura più di molte donne che conosco, e un paio di volte l'ho persino visto con un vestito; molti lo definiscono effemminato, ma lui è solo se stesso. E ancora, l'uomo che amo è un damerino che si scandalizza per ogni minima cosa, peggio di una principessina, e tiene più al suo pianoforte che a me, ma questo non c'entra con il resto del discorso.
-quindi tu...
-sono omosessuale? No, non mi definirei tale. Te l'ho detto, non mi importa del genere di una persona. Tu, invece?
-io non... non lo so- come biasimarlo, era una domanda difficile per molti adulti, figuriamoci per un bambino come lui, che non aveva mai provato niente del genere prima e aveva un terrore viscerale per le conseguenze di ciò che stava cominciando appena a scoprire. Gilbert fece spallucce.
-lo scoprirai, hai tutto il tempo del mondo. Non avere fretta, non sono cose che si comprendono a pieno da un giorno all'altro. Se avessi bisogno di aiuto, puoi contare su di me, ricordatelo.
Il bambino annuì, accettando l'abbraccio di suo fratello senza fiatare e ricambiando come meglio riuscisse.
L'unica cosa a cui riuscisse a pensare, però, era che gli abbracci di Feliciano gli sfioravano il cuore in maniera totalmente diversa, e per quanto ci provasse non riusciva a smettere di ricordare i suoi luminosi occhi d'ambra e quel bacino che gli aveva dato sulla guancia, che ancora bruciava.

Alla fine, convincere Lovino era stato più semplice del previsto. Inizialmente, aveva detto di no, ma poi il fratellone Antonio gli aveva sussurrato qualcosa all'orecchio che gli aveva fatto dire di sì, seppur titubante.
Lo aveva riempito di raccomandazioni ("se osa toccarti in modo strano, non esitare a urlare e prenderlo a calci" lo aveva confuso parecchio, mentre aveva fatto ridere Antonio), ma alla fine lo aveva lasciato andare. Ora, Feliciano stava tornando alla camera di Luddi, saltellando felice, per chiamare lui e suo fratello per la cena. Arrivato alla porta, stava per aprirla e correre dal suo amico, ma si ricordò delle raccomandazioni di Antonio e bussò educatamente, entrando dopo aver avuto il permesso.
-ciao Luddi, ciao signore buffo- esordì entrando.
-mi chiamo Gilbert- borbottò il signore buffo.
-il fratellone Antonio mi ha detto di chiamarvi per la cena, e il fratellone ha detto che posso rimanere a dormire qui- riferì contento.
-oh, perfetto, muoio di fame- commentò Gilbert, uscendo dalla stanza e lasciando soli i due bambini.
Feliciano sorrise all'altro -ve, Luddi, andiamo?- e gli porse la manina, che l'altro afferrò con esitazione.
-v-va bene, andiamo- balbettò, arrossendo, con il cuoricino che sembrava sul punto di esplodere per la felicità e le mani che sudavano. La mano di Feliciano era calda, e a confronto con la sua molto scura; il tocco era gentile ma deciso, gli teneva la mano con forza ma senza stringere troppo, come se volesse guidarlo ma gli lasciasse anche tutta la libertà di lasciarlo, se avesse voluto; un'accortezza dolce ma inutile, perché a Ludwig piaceva tenergli la mano, gli piaceva tanto tanto. Quando raggiunsero la sala da pranzo e Feliciano gli lasciò la mano per andare a sedersi al suo posto, tra la servitù, vicino a suo fratello, Ludwig sentì un gelo improvviso invaderlo, quasi che fosse stato tutto quel tempo affianco al sole e improvvisamente si fosse ritrovato nella notte più oscura. Sentiva la mano vuota e fredda, ma si affrettò a raggiungere suo fratello e a sedersi affianco a lui, cercando di nascondere la delusione e il lieve rossore sulle gote. Suo fratello gli fece l'occhiolino, facendolo arrossire ancora di più.
Ludwig fu di nuovo felice solo quando, dopo la cena, Feliciano lo raggiunse e gli prese nuovamente la mano. Vide un ragazzo, il fratello di Feliciano probabilmente, guardarlo male, ma prima che potesse dire qualcosa Antonio lo fermò per dirgli qualcosa, e Feliciano corse via, trascinandolo con sé.
-ve, Luddi, non vedo l'ora di imparare a scrivere!- gli disse mentre andavano in camera sua -e, ve, Luddi, non vedo l'ora di insegnarti lo spagnolo, ve. Ve, secondo te sarò un bravo insegnante, Luddi?
-certo- gli fece un timido sorriso, ricambiato subito da quello luminoso e ampio dell'altro.
-vee, spero di esserlo, non voglio deludere né te né tuo fratello né il fratellone Antonio né il mio fratellone e poi...
-perché chiami Antonio fratellone?- domandò Ludwig entrando in camera. Feliciano arrossì in maniera così adorabile che al biondo tremarono le ginocchia.
-ve, non so se posso dirtelo... è un segreto- sussurrò chiudendosi la porta alle spalle e avvicinandosi a lui -non è che non mi fidi di te, ve, è che non so se il fratellone vuole che te lo dica e potrebbe arrabbiarsi e...- sembrò pensarci su, poi gli si avvicinò -ve, te lo dico, però mi devi giurare che non lo dirai a nessuno! Nessuno nessuno! Nessunissimo!
-va... va bene. Te lo giuro, Feliciano- l'italiano gli sorrise e si sporse a sussurrargli all'orecchio.
-ve, il fratellone e il fratellone Antonio si sposeranno! Quindi è come se Antonio fosse il mio fratellone acquisito, no?
-ma come... come si sposeranno?- Ludwig era sbalordito, mentre si immaginava di fare lo stesso con Feliciano; l'immagine del piccolo italiano in abito bianco bastò a fargli girare la testa -è illegale, nessuno lo approverebbe.
-lo so, ve, ma l'amore vince su tutto, ve Luddi? E quindi l'amore troverà un modo! Come nelle favole, ti immagini Luddi? Una fatina che avvera i desideri e li fa sposare! Ve, magari dà loro persino un figlio! Non sarebbe bellissimo, Luddi?
-s-sì io, credo di sì.
-ve, Luddi, non è che se prego abbastanza la cicogna porterà un bambino nella pancia del fratellone?
-ecco io non credo che...
-ve, giusto, non saremmo più mammiferi se succedesse! Che peccato Luddi. Però continuerò a pregare che trovino una fatina che li faccia sposare, così saremo una grande famiglia! Ve, il fratellone è sempre rimasto solo per prendersi cura di me, ve... il minimo che possa fare è pregare che possa essere felice con Antonio- un lampo di tristezza passò per i suoi occhi castani, che poi si illuminarono ancora -ve, ci sono! Sarò io il loro bambino! Tanto il fratellone si è sempre comportato come se fosse la mia mamma, quindi Antonio potrebbe fare il mio papà!
-non... non credo funzioni così...
-ve, Luddi, mi raccomando: non dirlo a nessuno! Sono l'unico che lo sa, ve, deve rimanere un segreto, e anche io l'ho scoperto per caso ieri, perché si sono addormentati sul tetto abbracciati, ve, erano così carini! E gli ho portato una coperta perché non volevo si ammalassero, ve, perché è dicembre e... oddio Luddi!
-che c'è, Feliciano?
-è Natale e non ti ho fatto un regalo! Scusa, Luddi, ve, mi dispiace, sono un pessimo amico!
-no, Feliciano, non è vero...- andò nel panico, non era capace di consolare la gente! Che fare? Decise di essere solo onesto -ci siamo conosciuti solo oggi, non potevi saperlo, infatti neanche io ti ho fatto un regalo. Mi hai regalato la tua amicizia, però, ed è un regalo bellissimo.
-ve, che carino che sei Luddi!- lo abbracciò e gli diede un altro bacino sulla guancia, facendolo andare a fuoco. Lo strinse, inspirando il suo profumo; sapeva di sapone e di pastelli colorati.
-ve, Luddi, ci sono! Ti farò un ritratto e tu ne farai uno a me, come regalo di Natale!
-oh, ehm io non sono bravo a disegnare.
-non importa, ve, è il pensiero che conta.
-uhm, va bene... dovrei avere dei fogli e qualche matita, ma non penso di avere dei pastelli colorati- ammise imbarazzato.
-vee, io ne ho un paio, ma dovrei andare a prenderli di là e rischierei di svegliare tutti... non importa, ve, faremo un chiaroscuro!
-uhm, sì...- Ludwig andò alla scrivania, con Feliciano al seguito, e raccolse un paio di fogli e due matite, passandone una all'altro, che si sdraiò a terra, a pancia in giù, le gambe che dondolavano nel vuoto mentre disegnava. Ludwig si sistemò davanti a lui. -Feliciano, mettiti sul tappeto, altrimenti ti ammali- con un sorrisino colpevole, il moro obbedì, riprendendo a disegnare.
Ludwig lo imitò, sapendo che avrebbe combinato un disastro. Se c'era una cosa che proprio non capiva era l'arte: cos'era? Che cosa rendeva un dipinto, un libro, una canzone, arte? Capiva la parte tecnica, ma era sempre stato negato con le cose manuali; preferiva la parte teorica, anche se per lui l'arte, in ogni sua parte, era un qualcosa di incomprensibile; non era logica, o se lo era lui non riusciva a capirne il ragionamento.
Feliciano, invece, si rivelò di un talento incredibile.
Il ritratto di Ludwig era bellissimo. Rappresentava il bambino concentrato a leggere, con un luccichio negli occhi, un piccolo sorriso in viso e le gote lievemente arrossate.
-vee, scusa se non è granché ma l'ho fatto di fretta...
-è bellissimo, Feliciano. Il mio è orribile invece.
-veee, sei intelligentissimissimo, non potevi essere anche bravo a disegnare- gli diede un altro bacio sulla guancia; a quanto pare ci aveva preso gusto, e Ludwig non glielo avrebbe di certo impedito -saresti stato troppo perfetto. E poi è il pensiero che conta, e tu sei stato così gentile con me che non potrei chiedere di meglio- e lo abbracciò. Feliciano amava il contatto fisico, non si era mai fatto problemi ad abbracciare coloro a cui volesse bene, gli veniva naturale. Ma in Ludwig c'era qualcosa, qualcosa che lo spingeva a stringerlo di continuo, qualcosa che lo faceva stare bene ogni volta lo facesse, un qualcosa che gli faceva imporporare le guance e battere forte il cuore. Un qualcosa che, tempo dopo, avrebbe identificato come amore.

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Capitolo 6
*** Preghiere e lettere nefaste ***


Lovino si risvegliò al caldo. Voltò la testa e, trovando il viso del bastardo spagnolo affianco al suo, sorrise. La notte prima, dopo cena, si era ritirato con la servitù per non destare sospetti e, non appena tutti si erano addormentati, era sgattaiolato dall'altro, che lo aveva accolto a braccia aperte.
Era stata in assoluto la notte migliore della sua vita, almeno fino a quel momento; si erano baciati, sempre più profondamente, fino a finire sul morbido letto dell'altro. Antonio lo aveva riempito di baci ovunque, lo aveva stretto come la cosa più preziosa del mondo e lo aveva fatto stare bene in modi che prima Lovino aveva solo sognato, ma questa volta non c'era stato nessun crucco irritante a interromperli. Piano piano, i ricordi della sera prima gli tornarono alla mente, e Lovino sorrise stringendosi di più al suo amore. Si sentiva pieno di sole, rilassato e sdolcinato, pure troppo per i suoi standard, ma non ci diede peso; si limitò ad accarezzare i capelli del ragazzo affianco a lui, disordinati e sparati ovunque, sia per il sonno e sia, soprattutto direi, per tutte le volte in cui Lovino ci aveva passato le mani in mezzo la notte prima, aggrappandosi ad essi o giocandoci distrattamente. Mentre cercava di darci un ordine, Antonio si svegliò.
-'giorno, Lovi- sbadigliò, passandosi una mano tra i capelli, spettinandoli ancora di più.
-'giorno, bastardo- gli stampò un bacio sulla guancia, con un sorriso.
-Dio, quanto vorrei svegliarmi così ogni giorno.
-posso tornare anche stasera.
-no, nel senso... ogni giorno per tutta la vita. Sai, tipo marito e moglie.
-sai che non è possibile.
-però mi piacerebbe- lo baciò, salendogli sopra a cavalcioni e posando poi la fronte sulla sua.
-potremmo fuggire- intervenne Lovino.
-eh?
-sì, insomma...- tossicchiò a disagio -è pieno di campagna dove non abita nessuno o quasi. Potremmo fuggire lì, come in quelle storie romantiche che piacciono tanto a Feliciano.
-lo sai che non posso. Mia madre verrebbe a riportarmi in Spagna a calci- a quell'immagine, Lovino scoppiò a ridere, immaginandosi una versione femminile di Antonio che prendeva a calci lo spagnolo per tutto il mare, fino in Spagna.
-almeno io non mi dovrò sposare- commentò l'italiano, allacciando le braccia intorno al suo collo e baciandolo ancora -non ho un nome da portare avanti o cazzate simili.
-potresti rimanere a lavorare per me. Io e mia moglie dormiremmo separati e tu resteresti con me. Molte coppie lo fanno, anche se non si dice apertamente.
-non sarò la tua puttana, scordatelo.
-non intendevo...
-lo so che non lo intendevi, ma ho una dignità anch'io, e per quanto possa innamorarmi di te mi rifiuto di essere solo un amante e di far soffrire una donna in questo modo. Non dovresti sposare qualcuno solo per rendere felice qualcun'altro, né dovresti sposare una donna solo per poi scoparti un altro quando nessuno guarda- lo guardò male -è una mancanza di rispetto verso la donna, verso di me e soprattutto verso te stesso.
-non...- Lovino sospirò, interrompendolo.
-senti, se vuoi farlo va bene, vivi la tua vita come cazzo ti pare. Ma sappi che io non voglio avere niente da fare con una cosa del genere.
Antonio, inaspettatamente, sorrise e lo baciò.
-è questo che più amo di te. Sei in grado di dire di no e hai una dignità, cosa che nessuno sembra avere o rispettare. E poi adoro il tuo caratterino- lo baciò ancora e ancora e ancora, finché non sembrò ricordarsi di qualcosa -che ore sono? Più tardi c'è la messa, non posso mancare, ho saltato già quella di ieri per Natale con la scusa dell'arrivo di Gilbert.
-cosa?- domandò Lovino, intontito da tutti quei baci -la messa? Ti metti davvero a pensare alla messa in un momento del genere?
-scusa, Lovinito- si sporse e afferrò l'orologio sul comodino, sospirando di sollievo -bene, è presto, abbiamo ancora del tempo.
-torna subito qui, prima che mi alzi e me ne vada- sapendo che faceva sul serio, Antonio si affrettò a sdraiarsi di nuovo affianco al suo scontroso Lovinito e a baciarlo -uhm, ti volevo chiedere...- venne interrotto da un altro bacio -quando riprendo a lavorare? Sai, quella storia dei pomodori...
-perché sei così impaziente di lavorare?
-non mi piace fare il mantenuto.
-uhm, non penso sia la stagione per piantare pomodori e ci vorrà del tempo per far arrivare i semi e tutto il resto, ma intanto ti puoi occupare del giardino. C'è un capanno degli attrezzi, puoi innaffiare le piante e tutte quelle cose lì.
-è dicembre. Cosa dovrei innaffiare? Le piante secche?- sbuffò divertito -sei fortunato che da piccolo mi occupassi del giardino con la mamma e sappia cosa fare.
-avevi una casa con il giardino? Feliciano mi ha detto che viaggiavate di continuo.
-lui viaggiava di continuo, i solo alcune volte al mese. Non mi piace parlarne, quindi evita le domande.
-va bene, Lovinito- lo abbracciò, lasciandogli un bacio tra i capelli.
-bastardo...
-dimmi, Lovi.
-ho fatto davvero bene a tirarti quel pomodoro.
-già- lo baciò -hai fatto davvero bene.
Una pausa.
-...bastardo...
-dimmi, Lovi.
-se non ti sbrighi farai tardi.
-giusto- si alzò e corse all'armadio, e Lovino si godette la vista dello spagnolo senza maglia, con solo un paio di pantaloni di lino addosso; si leccò le labbra.
Antonio si sfilò i pantaloni, senza preoccuparsi dello sguardo dell'altro, che si mise seduto per guardare meglio, si infilò un paio di pantaloni neri e una camicia bianca, ma l'italiano scosse la testa.
-quella è meglio di no.
-perché?- il castano si indicò la spalla e guardandosi allo specchio Antonio notò un segno rosso, che si intravedeva attraverso la stoffa bianca. Ghignò all'altro, che distolse lo sguardo arrossendo -Lovinito, non si fa!
-senti chi parla, dovrò mettere la sciarpa e fingere di avere il raffreddore per settimane per come mi hai ridotto il collo- sbuffò, omettendo quanto gli piacessero in realtà quei segni. Gli davano un senso di proprietà, gli sembrava che, dovunque fosse andato, quelli gli avrebbero ricordato di quello spagnolo irritante e di quei sentimenti incredibili che lo avevano aggredito in così poco tempo.
-sì ma il capo sono io, posso farlo- Lovino gli tirò un cuscino, mancandolo di poco. In quel momento bussarono alla porta.
-signor Carriedo?- Lovino maledì mentalmente la dannata cameriera -è sveglio? Tra poco comincerà la messa, le conviene sbrigarsi.
-sì, mi sto vestendo, arrivo tra poco- rispose, afferrando una camicia verde, dello stesso colore dei suoi occhi notò Lovino, e infilandola. Quando sentì i passi della cameriera allontanarsi, si sedette accanto a Lovino e lo baciò -ora devo andare, tu vestiti ed esci, se ti vedono di' che eri venuto a cercarmi per chiamarmi ma ero già uscito, va bene?- Lovino annuì -stanotte torni, vero?- annuì di nuovo, sporgendosi per baciarlo -magari facciamo dormire di nuovo Feli con il piccolo crucco, lui si accorgerebbe della mia assenza- propose, e Antonio annuì.
-a dopo, Lovinito- lo baciò, più a lungo, e gli sorrise prima di uscire.
Rimasto solo, Lovino sospirò. Per quanto sarebbe riuscito a mantenere il segreto? Se avesse continuato ad innamorarsi, perché sì, per quanto ne dicesse era innegabile che stesse accadendo, sempre di più, poco, molto poco. Sapeva per esperienza che, quando due persone si amavano, per quanto cercassero di nasconderlo alla fine sarebbe venuto fuori; nei gesti, negli sguardi, nel modo in cui si pronuncia il nome dell'altro. Feliciano era troppo piccolo per poterlo ricordare, aveva appena tre anni, ma c'era un motivo se i loro genitori si erano separati, e non era legato al lavoro come credeva il piccolo. Papà amava la mamma, ricordò Lovino, ma la mamma amava la zia. E quando era venuto fuori, non era stato perché le due amanti avessero confessato, o perché il padre le avesse scoperte; era venuto fuori perché il loro amore era diventato troppo grande per poter essere nascosto; suo padre se n'era accorto da uno sguardo, da come la mamma guardava la zia, e da lì si erano divisi l'Italia e i bambini. Feliciano al nord e Lovino al sud, la loro vecchia casa a Roma come terreno neutro dove incontrarsi per le festività. Sua madre viaggiava solo periodicamente, circa una settimana ogni mese, e portava sempre il piccolo con sé; il resto del tempo, lo passavano a casa della zia, in una casetta di campagna appena fuori Napoli, per questo l'accento di Lovino era particolare: aveva come base, così come quello di Feliciano, l'accento romano, dai primi anni di vita e dai brevi periodi nella Città Eterna, poi era principalmente l'accento del paesino dove vivevano, appena fuori Napoli, certo, ma comunque c'era qualcosa, nel modo in cui pronunciava le s e arrotondava le r, che faceva sentire la lontananza da quello napoletano; aveva poi influssi da ogni parte del sud, fino al siciliano, dovuti ai numerosi viaggi. La parlata sua e del fratello sembrava comprendere ogni dialetto d'Italia, e questo li riempiva di uno strano orgoglio e di una speranza, un sogno, di poter finalmente un giorno vedere la loro Italia unita sotto uno stato proprio, senza invasori stranieri a dettare legge. Un sogno che non era solo loro e che, nonostante fosse nel letto di un invasore, Lovino non aveva ancora dimenticato. Antonio era l'uomo che amava, ma l'amore sarebbe stato abbastanza da fargli dimenticare il suo orgoglio di italiano? Sarebbe riuscito a trovare un modo per conciliare le due metà del suo cuore? Ma la domanda più immediata era un'altra: per quanto ancora sarebbe riuscito a nascondere quel sentimento, prima che diventasse troppo evidente per poter essere ignorato dal resto del mondo?
Con la nebbia nel cuore, Lovino si vestì e uscì in silenzio dalla camera, sperando di trovare risposta nella preghiera.

Ludwig si svegliò abbracciato a Feliciano, senza avere idea di come ci fosse finito. Inizialmente avevano dormito in letti separati, e questo lo ricordava, ma poi Feliciano aveva avuto un incubo e lo aveva svegliato chiedendo se potesse dormire con lui, perché non era abituato a dormire da solo ma con suo fratello e aveva freddo; Ludwig aveva acconsentito, e si era addormentato sdraiato sulla schiena, con la mano stretta alla sua e il respiro calmo dell'italiano, stretto al suo fianco, contro il collo. Nel sonno, evidentemente, si era girato sul fianco e lo aveva abbracciato a sua volta. Mentre la nebbia del dormiveglia svaniva lentamente e Ludwig realizzava in che posizione si trovasse, Gilbert spalancò la porta urlando un buongiorno in tedesco, facendogli fare un salto per lo spavento; Feliciano, svegliato più dal salto fatto da Ludwig che dall'ingresso di Gilbert, rimase sdraiato e si stropicciò gli occhi con uno sbadiglio.
Vedendo il fratellino ancora abbracciato al piccolo italiano, Gilbert fece un versetto in estasi -ma siete carinissimi!
-Gilbert, ti prego!- urlò Ludwig, rosso fino alla punta delle orecchie.
-che c'è? Che ho detto di male?
-veeeeeeeeee- mugugnò Feliciano, girandosi sul fianco, ancora mezzo addormentato e abbracciando Ludwig -Luddi, che ore sono?
-l'ora di alzarti, piccoletto- rispose Gilbert con un ghigno -tra poco c'è la messa e siamo obbligati ad andarci, o Antonio mi ci porterà a calci.
-ve, dov'è il fratellone?
-credo lo stia tenendo occupato Tonio- il ghigno di Gilbert aumentò, e Ludwig sospettò di sapere il perché -vestitevi, piccioncini. Quando siete pronti andate nell'atrio, di lì andremo tutti insieme appassionatamente alla chiesa. Amen!- e uscì sbattendo la porta.
-vee, Luddi- Feliciano si mise seduto e lo guardò confuso -che vuol dire "piccioncini"?
Ludwig divenne un pomodoro.
Feliciano lo guardò confuso, non aveva mai sentito quella parola prima e non capiva perché l'amico fosse diventato così rosso, ma poi alzò le spalle e gli lasciò un bacio sulla guancia, alzandosi subito dopo -ve, io mi cambio nel bagno e tu qui in camera, ti va bene?
Ancora rosso e scosso, Ludwig annuì, e appena l'altro fu uscito si affrettò a cambiarsi. L'italiano tornò dopo poco e gli prese la mano -veee, andiamo Luddi?
Ludwig annuì, rosso, senza dire una parola, troppo in imbarazzo. La sera prima, dopo gli autoritratti, aveva insegnato all'altro a scrivere, almeno le basi, e l'altro poi gli aveva insegnato un po' di spagnolo. Ludwig era sempre stato una frana con le lingue, e non gli erano mai piaciute, ma, spiegata dalla vocina dell'italiano, qualsiasi cosa gli sarebbe piaciuta. Arrivati nell'atrio trovarono tutti lì, e Gilbert lo raggiunse.
Feliciano fu costretto a lasciare la mano di Ludwig per poi darla a suo fratello; si sentì improvvisamente molto triste, ma cercò di non darlo a vedere.
-ve, fratellone, perché hai la sciarpa?
-ho il raffreddore- tirò su con il naso -sai, per la notte sul tetto...
-oh, ve, quindi la coperta che vi ho portato è stata inutile?- domandò triste.
-no no, è che comunque sono rimasto senza per un po' e mi sono ammalato comunque.
-vee, meno male che non ti sei preso di peggio!
-già- concordò Lovino, poco convinto, pensando a tutt'altro -meno male.

Quando entrarono in chiesa, Antonio, Gilbert e Ludwig si sistemarono nei posti davanti, mentre i due italiani alcune file più indietro, con il resto della servitù. La messa iniziò, e Ludwig strinse il disegno di Feliciano che teneva piegato in tasca, trovandoci un conforto che non si seppe spiegare. Antonio, mentre pregava stringendo la croce che aveva al collo tra le mani, pensò tutto il tempo a Lovino; pregò che l'italiano fosse sempre felice in salute; pregò che il loro amore fosse duraturo e felice; pregò, soprattutto, che Dio lo guidasse per trovare una soluzione che mettesse d'accordo le due metà della sua vita. Lovino, seduto più indietro, pregò per le stesse cose, per suo fratello e per un'Italia unita. Nessuno dei due pregò per qualcosa legato unicamente a sé stesso, non gli venne neanche in mente. In qualche modo, Lovino trovò un po' di conforto, come se, mettendosi in mano a qualcuno, o qualcosa, più grande di lui, si fosse tolto il peso di decidere. Lovino credeva in Dio, e anche se spesso sembrava averlo abbandonato, era convinto che servisse a uno scopo più alto, che tutte le prove che avesse e avrebbe affrontato sarebbero servite a fargli trovare la felicità. In fondo, il mondo non è rose e fiori; la felicità non viene regalata, quella non era una fiaba. Se si voleva ottenere qualcosa bisognava guadagnarselo, e Lovino lo aveva sperimentato sulla sua pelle. Era stato separato da suo fratello e suo padre, aveva perso i genitori, ma infine aveva ritrovato suo nonno e Feliciano; poi aveva perso anche il nonno ed era rimasto solo, nella povertà e con un fratellino da accudire, ma dopo qualche anno aveva trovato Antonio, che gli aveva dato un tetto sopra la testa e un sentimento nuovo e sorprendente, che era costretto a nascondere. Si affidò alla Provvidenza, sperando che ci fosse un senso in quella serie di premi e privazioni.
Gilbert invece non pregava Dio. Lui era un uomo pratico, che preferiva crearsi da sé la propria felicità, piuttosto che affidarsi all'ignoto. Non trovava alcun conforto nella preghiera, per lui quelle erano solo parole. Sapeva che tutti intorno a lui, invece, credevano eccome, e la cosa gli andava bene, ma si rifiutava di pregare un Dio che aveva dettato regole così ferree, che considerava lui, i suoi amici, il suo fratellino e l'uomo che amava uno sbaglio, che li avrebbe mandati all'Inferno. Forse ci sarebbe finito davvero all'Inferno, ma non avrebbe pregato chi ce lo aveva destinato per un qualcosa su cui non aveva il controllo e che non era sbagliata, che non feriva nessuno, che era semplicemente diversa. Forse quel divieto era davvero stato creato dagli uomini, forse era davvero come pensava Antonio, ma per Gilbert il Dio che stavano pregando in quella chiesa era lo stesso al quale era stato fatto dire che lui era sbagliato. In fondo, quei canti, quelle preghiere, non erano state create dalle stesse persone? Gilbert credeva che un Dio forse ci fosse davvero, ma fosse distante, non interferisse nelle vite degli uomini. Se c'era, si faceva gli affari suoi, e alla fine li avrebbe giudicati, per poi mandarli all'Inferno o nel Paradiso, sempre che esistessero. Chi poteva sapere cosa ci sarebbe stato dopo la morte? I morti, e i morti non parlano. Gilbert non si mentiva: lui non aveva idea di cosa ci fosse dopo, e ciò lo terrorizzava, ma gli metteva anche una certa curiosità. Reincarnazione? Paradiso? Inferno? Si diventava stelle? O c'era il niente? Forse c'era una scelta, forse si poteva decidere dove si sarebbe finiti, o forse ci si finiva in base alle proprie credenze. Ma allora lui, che credeva in tutto e in niente, dove sarebbe andato a finire? Non ne aveva la più pallida idea, ma prima voleva godersi la vita. Voleva viaggiare, conoscere il mondo, provare tutto ciò che gli sarebbe stato concesso provare, e amare, amare il più possibile. Gli piaceva l'amore, amare gli altri lo faceva stare bene; l'odio avvelenava le vite, di questo ne era certo. Chi odiava viveva a metà. Certo, c'erano più tipi di odio. Un odio poteva essere giustificato da infiniti motivi, ma si poteva scegliere di vivere nel rancore o lasciare perdere. Lui tendeva a evitare le persone che odiava: le ignorava e basta, peggio per loro, avrebbero vissuto senza il Magnifico. C'erano poi gli odi ingiustificati, quelli che odiavano per il gusto di odiare, o, peggio ancora, quelli che odiavano in nome di Dio. Loro, Gilbert proprio non li sopportava, e gli facevano anche un po' pena. Vivere nell'odio, per lui, era peggiore della morte. Lui amava, amava tantissimo: amava suo fratello e i suoi amici, amava un pianista viennese dagli occhi viola, amava la sua famiglia, amava sé stesso. Cosa c'era di sbagliato?
Ludwig non credeva in Dio: per lui equivaleva a una favola che gli veniva raccontata quando era molto piccolo. Lui credeva nella scienza, nella matematica, nella biologia, nella fisica. La messa per lui era solo una noiosa ricorrenza da rispettare per fare bella figura, equivaleva a un banchetto o a un ballo. Di solito si univa ai canti, ma a voce così bassa che era come se non ci fosse: si sentiva in colpa a turbare con la sua voce di ateo una preghiera a cui tanti credevano. Prendeva l'ostia senza fiatare, ma il segno della croce per lui non significava nulla.
Tuttavia, quel giorno, pensando alla sicurezza di Feliciano, ai suoi dubbi su quello che Dio avrebbe pensato di suo fratello, alla fiducia con cui aveva esclamato che l'amore avrebbe trovato un modo, si sentì invadere dalla confusione. Come faceva ad essere così sicuro di un qualcosa di così incerto? Non c'erano prove, certezze, eppure Feliciano ne parlava come se fosse una cosa ovvia. Ludwig non credeva in Dio, ma Feliciano sì, e il piccolo tedesco si ritrovò a sperare che, se davvero fosse esistito un Dio da qualche parte, avrebbe vegliato su quel piccolo bambino.

Una volta ritornati a casa, Antonio raggiunse Ludwig e Feliciano e si inginocchiò davanti a loro per essere alla stessa altezza, con un sorriso gentile.
-Feli, che ne diresti di fare un altro lavoro per un po'?
-ve, che lavoro?- chiese il piccolo, inclinando la testa curioso.
-potresti fare da accompagnatore a Ludwig. Tenergli compagnia, giocare con lui...- gli si illuminarono gli occhi, e abbracciò lo spagnolo di slancio -ve, davvero, fratellone Antonio? Posso? Posso?
-se Ludwig è d'accordo- Antonio guardò il bambino biondo, che annuì, guardando l'altro con una sorta di malinconia, come se volesse essere lui quello stretto da Feliciano.
-veee, Luddi, per quanto tempo resterete qui?- gli chiese, allontanandosi da Antonio e tornando dall'amico, che sembrò più sereno -non lo so, Feliciano, devo chiedere a mio fratello. Penso un paio di settimane, forse un mese.
-veee, allora dobbiamo approfittarne!- lo prese per mano e lo trascinò nella sua camera a giocare -ve, voglio assolutamente imparare a scrivere! Così potremo mandarci delle lettere anche quando te ne sarai andato, ve, Luddi?
-c-certo, Feliciano- il bambino gli sorrise, facendogli andare a fuoco le guance.
Beata innocenza! Non avevano idea che le cose sarebbero andate in maniera ben diversa, e che si sarebbero voluti anni prima di rincontrarsi, non potevano saperlo.
Non potevano sapere quello che avrebbe riservato loro il futuro: solo Gilbert ne ebbe il sentore, grazie a una lettera arrivata la mattina dopo.
È caratteristica comune di molti fratelli maggiori cercare di proteggere i più piccoli, soprattutto in momenti critici: Lovino si era fatto in quattro, otto, sedici e trentadue pur di far mangiare Feliciano, Antonio si era sempre preso tutte le responsabilità per far avere a suo fratello un'infanzia più o meno tranquilla. Sono quelle attenzioni, quelle carezze, che spesso da piccoli si ignorano o si trovano persino fastidiose, ma che crescendo si apprende e si apprezza; di certo non era il caso di Feliciano, che l'aveva capito in fretta e aveva cercato di aiutare il suo fratellone come meglio avesse potuto. Anche Ludwig l'avrebbe capito, Gilbert lo sapeva. Per quanto fosse responsabile e maturo, era e rimaneva un bambino, e Gilbert non ebbe il cuore, proprio ora che si era trovato un amico, di rovinare tutto. Così, tacque e scrisse ai suoi per prolungare la loro permanenza lì il più possibile, tanto sapeva che Antonio non avrebbe avuto nulla in contrario.
Mentre scriveva la risposta, nella stanza affianco un piccolo italiano si esercitava a scrivere insieme al suo amico tedesco, per poter in futuro scrivere lettere che non sarebbero mai arrivate.


Angolo autrice:
Ciao a tutti, grazie per essere arrivati fin qui
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, in caso vi invito a lasciare una recensione, se vi va, mi farebbe davvero piacere ^^, in caso contrario mi farebbe altrettanto piacere sapere il motivo, ogni critica è ben accetta.
Questa storia ahimé sta giungendo al termine, ancora due capitoli e dovremmo salutarci (chissà, magari solo per un po' ;))
Alla prossima settimana
Un bacio
Daly

 

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Capitolo 7
*** Tutta colpa di Cupido ***


Il nonno di Lovino amava raccontare storie.
Aveva circa una cinquantina d'anni ed era ancora un gran bell'uomo. Aveva molte donne, ma non solo, che gli ronzavano intorno, cercando le sue attenzioni, ma rifiutava tutti, dicendo ai nipotini che l'amore lui l'aveva già trovato e perso da tempo e che non avrebbe mai potuto sostituirlo. Romolo amava i suoi nipoti, era affettuoso e teneva molto a loro. Lovino ricordava che Feliciano, quando era molto piccolo, non riuscendo a pronunciare il nome Romolo, lo aveva iniziato a chiamare Nonno Roma; soprannome molto azzeccato, visto che il nonno aveva vissuto per anni e anni a Roma, dove lo andavano a trovare prima della morte dei genitori, e amava la cultura classica e tutto ciò che riguardasse l'Antica Roma: aveva una biblioteca enorme piena di tutti i testi latini che fosse riuscito ad accaparrarsi e la sera, si sedeva sull'ampia poltrona della biblioteca, che profumava di vino e dell'acqua di colonia del nonno, li faceva sedere sulle ginocchia o ai piedi della poltrona e leggeva loro i testi di Cesare, Livio, Cicerone, Virgilio: leggeva i racconti, le credenze, anche le battaglie e le guerre, prima in latino e poi le traduceva, in modo che capissero meglio. Era stato proprio Romolo a insistere perché il secondo nome di Lovino fosse Romano. Era colto il nonno, e aveva persino iniziato a insegnare loro a leggere e a scrivere e il latino: Feliciano non lo ricordava bene, ma probabilmente era per questo che, quando il piccolo crucco gli aveva insegnato, aveva imparato così in fretta; si vede che, sepolto nella memoria, in qualche modo ciò che la voce calda e profonda del nonno gli aveva insegnato era rimasto. Lovino sapeva ancora leggere, anche se ci metteva il suo tempo.
Ma soprattutto, Nonno Roma amava raccontare loro storie, prima di andare a dormire, durante i pasti, davanti al fuoco: ogni qualvolta avessero una qualche domanda, Romolo raccontava loro una storia che vi rispondesse. Le sue storie preferite erano quelle d'amore.
In gioventù era stato un Don Giovanni, e da lì era nata la loro mamma. Aveva poi trovato l'amore, ma ai due bambini ne parlava poco. Spesso raccontava le sue vecchie conquiste, senza scendere troppo nel dettaglio per preservare l'innocenza del piccolo Feliciano, ma raccontava anche altre storie d'amore, di dei o guerrieri antichi: Giove e Giunone, Giove e... be', molta gente, Apollo e Dafne, Apollo e Giacinto, Plutone e Proserpina, Achille e Patroclo, Teseo e Arianna, Ulisse e Penelope, Giasone e Medea, Alessandro Magno ed Efestione, Perseo e Andromaca, ma anche storie non provenienti dal mondo classico, anche storie bibliche, come la storia di Abramo e Sarah, Dalila e Sansone, o la storia scritta da un inglese, la preferita di Feliciano perché ambientata a Verona, la storia di Romeo e Giulietta, o ancora una storia proveniente dall'Oriente, la storia delle Mille e una Notte... insomma, storie provenienti un po' da tutto il mondo, Lovino si chiedeva sempre come facesse a conoscerne tante, provenienti da posti di cui aveva sentito appena il nome. Avrebbe avuto la risposta anni dopo, alla morte del Nonno. Storie che non sempre finivano bene, anzi; storie che avevano tanto fatto pensare Lovino, che pure di amore ne sapeva poco, e ne voleva sapere di più; lo incuriosiva quel sentimento, perché se davvero rendeva tristi e faceva soffrire, un esempio era stato suo padre, allora per quale motivo la gente continuava ad innamorarsi? Il nonno gliene aveva parlato a lungo, rispondendo a ogni sua domanda con un'altra storia, che non faceva altro che crearne altre.
Una volta, Romolo gli aveva accennato a quello a cui si riferiva sempre come il suo grande Amore, con la A maiuscola, specificava. Gli disse che aveva amato un uomo così tanto, che aveva creato un rapporto così stretto e intenso con lui, che era in grado di capire cosa stesse per dire prima che lo dicesse. Lovino non ci aveva creduto, e il nonno aveva riso della sua espressione corrucciata, sedendosi accanto a lui, mentre Feliciano già dormiva nel letto affianco.
"Il legame tra due innamorati è molto speciale, Lovinus" lo chiamava sempre così, latinizzando il suo nome, e faceva lo stesso con Feliciano "è qualcosa di strano. Non te lo saprei spiegare, ma spero che un giorno lo capirai e troverai qualcuno che te lo faccia capire" gli fece un buffetto sulla guancia, facendolo ridere "certo, non tutti ne hanno bisogno per vivere: prendi Diana, per esempio. Rinunciò per sempre all'amore e visse contenta così. Ricordati che non tutti lo trovano, o ne hanno bisogno, e non sempre si tratta di una sola persona. Ma se lo trovassi, Lovinus, non fartelo scappare, per nessun motivo, capito? Certo, magari avrai tanti amanti, come me, e non ne dubito, visto il bel faccino che ti ritrovi" ridacchiò "preso da me, ovviamente. Ma l'amore, quello vero, lo riconoscerai subito. Si crea una simbiosi perfetta, è quella che ti fa capire di essere con la persona giusta. Succede in un attimo, Lovinus. Magari pensate la stessa cosa, o vi terminate una frase a vicenda, o ti accorgi che l'altro è entrato nella stessa stanza senza neanche bisogno di guardare, o ancora ti rendi conto di sapere esattamente cosa sta per dire; insomma, c'è un legame, qualcosa di forte, come le vostre anime si fossero legate e comunicassero tra loro. Ed è lì che ti accorgi che provi qualcosa di davvero forte, che è amore vero" Lovino aveva annuito, anche se non aveva capito davvero.
Le parole del nonno gli ritornarono in mente la mattina successiva a dove li abbiamo lasciati, quando si risvegliò nello stesso istante di Antonio.
La sera prima era tornato a dormire da lui, e quando era sgattaiolato nella sua camera aveva trovato davanti a sé lo spagnolo, inginocchiato ai piedi del letto a pregare, il crocifisso in argento che portava sempre al collo tra le mani. Imbarazzato per aver trovato l'altro in un momento così intimo, stava per uscire, quando Antonio si era voltato a guardarlo, e gli aveva sorriso, facendogli cenno di affiancarlo. Allora Lovino si era inginocchiato affianco a lui, aveva preso la sua croce in legno e si erano presi per mano, mentre con l'altra reggevano la croce. Avevano pregato insieme, in silenzio, e per qualche motivo Lovino ebbe la sensazione che stessero pensando le stesse cose. Avevano riaperto gli occhi nello stesso istante e si erano guardati, e Antonio gli aveva sorriso prima di sporgersi a baciarlo. C'era stato qualcosa in quel bacio, una sorta di dolce sacralità, quasi che avessero giurato il loro amore davanti a Dio stesso. Un bacio benedetto in un mondo che non lo considerava tale.
Erano andati a letto e lì, sotto le coperte, si erano baciati, tanto, si erano coccolati, si erano stretti, con una dolcezza unica; praticamente non avevano parlato, sembrava che sapessero ciò che l'altro pensasse o volesse senza bisogno di dirselo. Si erano addormentati così, abbracciati, insieme, e il giorno dopo si erano svegliati nel medesimo istante. La prima cosa che Lovino vide furono gli occhi verdi di Antonio, e, ancora troppo assonnato per indossare il solito broncio, sorrise, incontrando poi le sue labbra a metà strada per un bacio di buongiorno.
Fu mentre si vestiva, dopo che l'altro se n'era già andato, che Lovino ricordò le parole del nonno, e realizzò di essere fottuto.

Decise quindi di sfogare la sua rabbia e la sua ansia contro le foglie secche del giardino, rastrellandole via con forza.
-dannato spagnolo- brontolava -dannato vecchiaccio, dannato crucco e...- emise un gemito frustrato, lanciando il rastrello e sedendosi a terra, accanto a un vecchio Cupido di marmo, che sottoforma di bambino stava per scoccare una freccia; lo guardò male -è tutta colpa tua, maledetto- sbuffò, stringendosi le ginocchia al petto e seppellendoci il viso -sono nella merda. Siamo nella merda. Adesso è solo questione di tempo prima che qualcuno ci scopra e ci denunci, così finiremo in galera e Feliciano morirà di fame, o peggio, e visto che pure il bastardo finirà in galera, tutti quanti qui rimarranno per strada, e tutto per colpa mia e di questo bimbo di merda che ha lanciato le sue cazzo di frecce!- sospirò, buttando la testa all'indietro e distendendo le gambe lunghe e ossute nell'erba secca. Negli ultimi mesi sia lui che Feliciano avevano ripreso peso, ma erano sempre stati mingherlini; Antonio lo prendeva in giro per la sua magrezza, dicendo che sarebbe bastato un soffio di vento a farlo volare via. Lo spagnolo invece era perfetto: il fisico asciutto, il petto, le braccia, le gambe muscolose e abbronzate, e poi aveva quei riccioli mori e quegli occhi verdi, per non parlare del sorriso, che gli facevano perdere la testa. Aveva poi un orecchino dorato all'orecchio, che di solito i ricci coprivano- Lovino pensava dovesse darci un taglio, per quanto amasse passarci le dita in mezzo erano ingestibili- ma che aveva notato mentre si facevano le coccole. Quando gli aveva chiesto da dove venisse, quello era arrossito e aveva ammesso di esserselo fatto una sera, da ubriaco, insieme a Gilbert e Francis (il francese, a quanto gli aveva detto, si era fatto un tatuaggio sulla schiena, mentre il tedesco reggeva l'alcool così bene da non essersi fatto nulla, ma non abbastanza da bloccare gli amici. Secondo Lovino, e mi sento di concordare, lo aveva fatto a posta per farsi due risate); Lovino aveva scosso la testa divertito, e poi si era sporto a baciarlo, dandogli dell'idiota.
Pensando allo spagnolo, un sorriso dolce gli spuntò a forza sulle labbra, ma Lovino lo fece morire non appena se ne fu accorto. Con un sospiro stanco, si alzò e riprese a rastrellare.
Quel giardino era veramente bello. Piuttosto grande, circondava tutta la villetta fino al cancello. Intorno ad esso c'erano una fitta serie di alberelli, con sotto delle aiuole piene di fiori secchi e morti. Lungo il vialetto d'ingresso, c'erano dei cespugli morti e secchi, e tutto intorno alla casa e dietro si formava una fitta foresta di alberi, ora senza foglie. Tra la casa e il cancello c'era un grande prato, era lì che Lovino stava rastrellando. C'erano statue di marmo sparse in giro e persino una fontana, che però non funzionava più e Lovino si era ripromesso di provare ad aggiustarla. Un tempo quello spazio doveva essere stato un orgoglio per i padroni di casa, ma dagli altri servitori Lovino era venuto a sapere che, in seguito alla morte dei proprietari, la villa era stata donata allo stato, che dopo qualche anno l'aveva messa a disposizione del generale Carriedo per il suo periodo a Napoli. Anni senza cure avevano rovinato il giardino, e nessuno si era preoccupato di rimetterlo a posto, ma Lovino aveva tutta intenzione di rimediare; voleva rendersi utile, e poi gli dispiaceva che un luogo così bello versasse in uno stato così pietoso. E poi, dietro alla casa gli alberi si facevano più fitti e alti, e quello sarebbe potuto essere un bellissimo nascondiglio per lui e Antonio, magari in estate...
Scosse la testa. Non doveva pensare al bastardo. Doveva concentrarsi sul suo lavoro, prima che i loro sentimenti diventassero troppo evidenti. Doveva...
-veee, fratellone!- esclamò Feliciano, correndogli incontro e facendogli venire un infarto.
-Feli! Non si arriva alle spalle della gente così, per la miseria!- si costrinse a non dire qualcosa di più forte, solo perché quello davanti a lui era il suo piccolo e innocente fratellino, con il cucciolo di crucco alle spalle.
-veeeee, scusa fratellone, ma visto che è una bella giornata io e Luddi abbiamo pensato di venire a giocare fuori, possiamo? Eh? Ti prego, fratellone, ti prego!
-e va bene- sbuffò -ma non fate casino e non andate nel boschetto, potreste perdervi.
-ve, grazie fratellone!- si mise in punta di piedi e gli lasciò un bacio sulla guancia, per poi correre dall'amichetto.
Lovino sospirò e tornò al suo lavoro, fin quando non alzò lo sguardo sul vialetto di uscita e lì, sul punto di salire su una carrozza, c'era Antonio. Sentendo il gelo invadergli lo stomaco, Lovino realizzò che lui sapeva che l'altro era lì. Antonio sollevò lo sguardo verso di lui e gli sorrise, facendogli un occhiolino. Lovino distolse lo sguardo e non vide il sorriso dell'altro morirgli sulle labbra, prima che salisse sulla carrozza.

Lovino sapeva dove l'avrebbe portato quella carrozza. A sedare qualche rivolta, o a punire qualche ribelle, o ancora a controllare le prigioni. A sedare le rivolte a cui lui aveva partecipato, a punire qualcuno ribelle come lui era stato, a controllare le prigioni dove lui aveva rischiato di finire.
L'italiano serrò le dita sul manico del rastrello, e trattenne un singhiozzo. Si era innamorato dell'ultima persona sulla terra per cui avrebbe dovuto provare qualcosa di diverso dall'odio, e non sapeva come porci rimedio. Un amore impossibile o un sogno irrealizzabile? Una vita nascosto, ad amare in silenzio, o una morte da ribelle, per un'Italia libera? Come avrebbe potuto scegliere?
Se fosse morto, Feliciano sarebbe rimasto solo. Eppure... eppure il dubbio lo logorava, e lo logorò per giorni, settimane, fino a diventare ingestibile. Antonio l'aveva notato, ma non aveva fiatato, perché sapeva che non gli avrebbe detto nulla. Anche Feliciano lo sapeva, ma lui, a differenza dello spagnolo, conosceva bene i demoni che tormentavano il fratello: erano gli stessi che gli facevano tremare le ginocchia ogni volta che vedeva la bandiera spagnola, ogni volta che Antonio usciva per andare a lavorare, ogni volta che vedeva la carrozza venire a prenderlo.
Una sera, i demoni presero il controllo e rovinarono tutto.
-Lovino...- erano sdraiati sul letto, accoccolati, quando lo spagnolo lo chiamò. Senza usare nomignoli idioti o diminutivi, solo con il suo nome, e questo bastò a farlo allarmare -sei inquieto in questi giorni, più scontroso, più chiuso. Che hai?- gli accarezzò il viso, gli sfiorò le labbra con il pollice -è successo qualcosa?
Lovino fece un sorriso amaro.
-davvero non lo capisci?- lo baciò, a lungo e lentamente, perché sapeva che la discussione che stava per arrivare sarebbe stata dolorosa, e aveva bisogno di farsi forza; e poi aveva un brutto presentimento, un nodo nello stomaco che sembrava dirgli di farlo finché ne avesse avuto la possibilità -Antonio, ti sei dimenticato una cosa importante. Io sono italiano. Sono un ribelle, uno di quelli che tu arresti e uccidi ogni giorno, uno di quelli che sognano un'Italia libera. Come pensi che mi possa sentire qui, nel letto di uno degli oppressori? Come pensi che mi senta a farmi toccare dalle stesse mani che hanno ucciso i miei connazionali, i miei fratelli?
-ma tu mi ami- replicò Antonio, come se quello risolvesse tutto.
-è questo il problema!- esclamò Lovino, alzandosi dal letto e camminando avanti e indietro per il nervosismo -sono cresciuto sentendo parlare della mia Italia, del mio paese, come una dama rapita da spagnoli e crucchi. Sono cresciuto con le storie di quando eravamo noi, di quando era Roma a essere al centro del mondo. Sono cresciuto sognando il giorno in cui avrei visto l'Italia unita sotto un'unica corona, una corona nostra, una corona italiana. Per tutta la vita, tutta la mia cazzo di vita, sono sempre stato pronto a morire per il mio dannato paese, per liberarlo dagli invasori, per... per liberarlo da voi. Pensi che non abbia mai partecipato a qualche rivolta?- fece una risatina amara -Antonio, ho perso notti insonni nei bar a organizzarle le dannate rivolte, ma sono riuscito sempre a svignarmela. Pensi che ti abbia tirato quel pomodoro così, per sfizio? No, cazzo, l'ho tirato perché in te vedevo l'ennesimo spagnolo imbecille venuto a cercare di sbattermi in galera, e lo sei. Tu sei l'ennesimo spagnolo imbecille venuto a cercare di sbattermi in galera, solo che sei stato così idiota da assumermi e ora siamo finiti qui! E io ti amo, ti amo tantissimo, ogni giorno di più, ma amo anche il mio paese. Sento le voci, so quanta gente hai sbattuto in carcere o ucciso, so che le tue cazzo di mani sono sporche del sangue del mio paese, lo so benissimo, dannazione, eppure continuo ad amarti e a cercare di convincermi che vada tutto bene, quando non va tutto bene! Non va tutto bene, non è così: il letto su cui dormo, il cibo che mangio, questo tetto: tutto è stato pagato con il sangue dei miei connazionali! E io sono bloccato qui con te, e mi sento così in colpa ogni volta che sorrido, ogni volta che mangio, ogni volta che mi sento felice, perché so che per la mia felicità è morta della gente che chiamavo fratelli- fece una pausa per riprendere fiato. Stava venendo tutto fuori, era un fiume in piena; aveva il volto arrossato per la rabbia, la gola secca, e le mani che gesticolavano furiosamente. Antonio lo guardava confuso, e Lovino sapeva che non poteva capire, non avrebbe mai potuto farlo -Antonio scusami, ma non ce la faccio.
-aspetta!- Antonio corse giù dal letto e si mise davanti a lui, afferrandogli le mani -ti prego, rimani.
-non hai capito proprio nulla di quello che ho detto?
-hai detto che mi ami, e anche io ti amo. Dov'è il problema?- gli sorrise, sporgendosi a baciarlo, ma Lovino lo bloccò.
-il problema è che ci sono cose più grandi dell'amore. La vita non è una fottuta fiaba, non basta un ti amo per risolvere tutto. Ci sono cose che vanno oltre. Come ti sentiresti al mio posto, eh? Come ti sentiresti se io, per vivere, uccidessi o sbattessi in carcere spagnoli come te? Prova a metterti nei miei panni, per favore- sentiva gli occhi bruciare, con le lacrime sul punto di cadere -riusciresti davvero ad anteporre la tua felicità a quella di coloro che chiami fratelli?
Quello non rispose, ma Lovino vide che aveva gli occhi lucidi. Antonio serrò la presa sulle sue mani, poi la allentò -la scelta è tua- disse infine, e una lacrima gli cadde lungo la guancia.
-non è una scelta- gli asciugò la lacrima, si portò le loro mani intrecciate alla bocca e baciò il dorso di Antonio -mi dispiace- lo sussurrò, la voce rotta -mi dispiace tantissimo.
Poi si allontanò.
Si rivestì in fretta, senza guardare l'altro, che era ancora fermo lì, a pensare e a trattenere le lacrime. Avrebbe voluto dirgli di restare, pregarlo, implorarlo, stringerlo, baciarlo, urlare che tutto quello non era giusto, che non aveva scelto lui di nascere spagnolo, che non aveva scelto lui di unirsi all'esercito.
Ma tutto quello che gli uscì fu un -non ho mai ucciso nessuno- detto proprio quando l'italiano era sulla porta.
-questo non cambia le cose.
-lo so. Ma volevo che lo sapessi- Lovino si voltò un'ultima volta a guardarlo, e i loro sguardi si incontrarono nel buio, abbracciandosi come i due amanti non avrebbero più potuto fare.
-io...- all'italiano, non di nome ma di fatto, mancò la voce. Tossì -io me la caverò. Posso lasciarti Feliciano? Almeno per un po', finché non trovo un posto sicuro?
Antonio annuì.
-grazie. Di... tutto quanto- era imbarazzato, Antonio lo sapeva, ma non se ne curò. Dentro di sé sentiva solo il vuoto, un vuoto così enorme e devastante che non avrebbe saputo spiegarlo. Solo quando la porta si fu chiusa, entrambi si concessero di piangere.


Angolo autrice:
Ed è con questa nota felice (notare il sarcasmo) che vi annuncio che il prossimo sarà l'ultimo capitolo e, fidatevi, se ne vedranno delle belle ;)
Ringrazio di cuore coloro che recensiscono e in generale chi segue questa storia.
Preparatevi al finale, ci sarà da piangere.
A lunedì prossimo
Daly

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Capitolo 8
*** Un arrivederci? ***


Da quel giorno, o per meglio dire da quella notte, entrambi si buttarono a capofitto nel lavoro. Lovino riuscì a trovare un lavoretto come garzone in un panificio; il panettiere era un ribelle come lui, la sera si riunivano insieme ad altri per organizzare una rivolta. Antonio si concentrò solo sul lavoro, ma nei giorni liberi si dedicava al giardino, faceva crescere i pomodori che Lovino aveva piantato. Gli piaceva considerarli un regalo da parte sua, un regalo d'addio, come se con ogni pomodoro gli ricordasse come tutto era cominciato, come se con ogni pomodoro che cresceva gli ricordasse quanto lo avesse e avrebbe amato e quanto lo amasse ancora, come se ogni pomodoro gli dicesse "ti amo" come l'italiano non avrebbe più fatto. Feliciano era triste, ma aveva ancora Ludwig con sé per consolarsi. Il tedesco era l'unico motivo per cui non era scappato dal fratello alla prima occasione. Quando riusciva, cercava di consolare il fratellone Antonio, che però era distante, freddo, e si chiudeva in sé stesso ancora di più non appena sentiva nominare Lovino, per poi barricarsi nella sua stanza alla prima occasione e piangere stringendo la vecchia coperta dell'italiano tra le braccia.
Passarono alcuni mesi, arrivò la primavera e insieme ad essa le notizie della fine della guerra di successione, che fecero tirare un sospiro di sollievo a Lovino; temeva che, se la situazione fosse peggiorata, avrebbero mandato Antonio al fronte, ma a quanto pare era stato firmato un trattato di pace. Di che tipo, Lovino ancora non poteva saperlo e neanche gli interessava.
Fecero scoppiare una rivolta a fine marzo. Attaccarono alcuni soldati di passaggio, fu un pescatore a cominciare tutto, urlando "Viva 'o Re 'e Spagna, mora 'o malgoverno", le parole che, voleva la leggenda, aveva urlato Masaniello, oltre cinquant'anni prima. E così cominciò la rivolta: attaccarono ogni guardia incontrassero, urlavano, devastavano ogni cosa sul loro cammino e incitavano gli altri a unirsi a loro, diretti al palazzo di governo.
Quando ormai mancavano pochi metri, Lovino sentì un brivido e si volto. Vide Antonio, fermo immobile a fissarlo, la spada in mano, mentre le sue truppe lo superavano e intervenivano contro la folla. Sembrava furioso, e anche tanto, tanto triste.
Lovino corse da lui, senza neanche pensarci, e si rifugiarono in un vicolo deserto.
-mi spieghi che stai facendo?- gli ringhiò lo spagnolo, incenerendolo con lo sguardo. Lovino ricambiò l'occhiataccia.
-una rivolta. Mi era sembrato di essere stato chiaro in merito.
-sì ma...- Antonio si morse il labbro, improvvisamente insicuro -pensavo scherzassi- lo sussurrò appena -non sulla questione dell'Italia libera e tutto il resto ma... sulle rivolte, quella storia di morire...- gli venne un brivido solo a pensarci e scosse la testa con forza; era adorabile, tutta la rabbia scomparsa per lasciare spazio ai dubbi e ad un'impacciata incertezza che non gli apparteneva -non voglio che tu ti metta in pericolo. Ti prego- gli posò una mano guantata sul viso e ad entrambi vennero i brividi -non metterti in pericolo. Litiga, protesta, odiami anche se vuoi, ma stai lontano dal pericolo. Non posso saperti a rischio. Ti ho lasciato andare, ora fai tu un favore a me e rimani al sicuro.
Lovino si morse il labbro, ma alla fine si mise nei panni dell'altro e, capendo la sua ansia, annuì.
-grazie- lo abbracciò. Senza pensarci, senza neanche accorgersene, semplicemente lo fece: gli veniva naturale e dopo tanto tempo quel contatto fu come un goccio d'acqua dopo settimane nel deserto.
-Lovi...
-anche tu mi sei mancato- l'italiano sollevò il viso dal suo petto e finalmente si baciarono di nuovo e lì, per qualche attimo, non furono più né il generale Carriedo né uno dei ribelli, né uno spagnolo né un italiano, né Antonio né Lovino: solo due innamorati, due amanti che si stringevano e si baciavano.
Poi, quel momento di pace finì, interrotto da una voce che Antonio conosceva, la voce del governatore del Regno di Napoli, che urlava alla folla dal palazzo di governo, talmente forte che lo sentirono anche loro e uscirono allo scoperto per sentire meglio.
-cittadini, ascoltate! La guerra è finita! La pace è stata fatta! E con il trattato di Utrecht, questo territorio cesserà definitivamente di essere spagnolo e passerà al Sacro Romano Impero. Entro una settimana, tutti gli ufficiali e i governatori spagnoli se ne andranno, sostituiti da quelli del nuovo governo...
Esplosero urla, proteste, insulti; vennero lanciati oggetti e l'esercito dovette sedare la rivolta, come sempre.
-Antonio...- fu a mala pena un sussurro, ma lo spagnolo si voltò verso di lui comunque, tenendogli la mano. Annuì tristemente, stringendolo e lasciandogli un bacio sulla fronte.
Poi la folla li investì in pieno, separandoli.

Feliciano era triste. Anzi, più che triste, era proprio tristissimo.
Prima suo fratello se n'era andato, ora anche Ludwig, per una serie di circostanze a cui Gilbert non aveva potuto sottrarsi. La sera prima aveva spiegato tutto al fratellino e aveva asciugato le sue lacrime come meglio aveva potuto, ma ora per il piccolo tedesco arrivava la parte più difficile: dirlo a Feliciano, che per tutto il giorno gli era rimasto appiccicato come una cozza.
-veeeeeee, Luddi, non voglio che tu vada via!- singhiozzò, con il visino sepolto nel suo collo.
-neanche io lo vorrei, Feliciano- Gilbert si allontanò, con la scusa di sistemare gli ultimi bagagli, lasciandoli soli -Feliciano, vedi, noi non... non potremo neanche scriverci.
-ve, cosa?! Perché?!
-i miei... i miei genitori hanno deciso di mandarmi in un collegio militare, lì sarà vietato ricevere posta, se non dai propri genitori, solo per occasioni di enorme importanza.
-cosa?!
-mi... mi dispiace, Feliciano- Ludwig abbassò la testa, trattenendo a stento le lacrime. Feliciano rimase in silenzio per un po', pensando.
-ve, aspettami qui, ho la soluzione!- e corse via, lasciando lì Ludwig, confuso. Tornò dopo pochi minuti con una collanina d'oro tra le manine, che diede al biondo con un sorriso.
-ecco, ve, questo me la diede la mia mamma, affinché vegliasse su di me- guardandola meglio, Ludwig vide che era un piccolo crocifisso -si prenderà cura di te e ti riporterà qui da me.
-ma... non posso accettare una cosa del genere! Era della tua mamma!
-ve, non importa. Io ho già il mio fratellone come angelo custode, tu invece lì sarai tutto solo. Questa ti terrà compagnia e ti ricorderà di me. Potrai restituirmela quando sarai uscito.
A Ludwig vennero le lacrime agli occhi. Sorrise.
-grazie, Feliciano- lentamente si avvicinò, fino a dare un bacino sulla bocca di Feliciano, per lasciargli un ultimo ricordo dolce di sé. Fu un bacio tenero, innocente, il bacio di due bambini che si volevano semplicemente salutare e che si volevano tanto tanto bene, forse anche qualcosina in più -ci rivedremo, te lo giuro, ti riporterò la tua collana.
-sì, ve... ciao ciao, Luddi- mormorò Feliciano, intontito da quel bacio così dolce e impacciato, osservando la carrozza partire.
Rimase lì, davanti all'ingresso, sentendo ancora il calore della bocca di Ludwig contro la sua, finché suo fratello non tornò di corsa, abbracciandolo di slancio.
-Feli! Mi sei mancato tantissimo!
-ve, anche tu fratellone...
-che ti è successo? Sembri stordito.
-io...
-fa niente, me lo racconterai dopo- lo interruppe Lovino, entrando in casa -Antonio è già tornato?
-no fratel...- Lovino si fermò a metà dell'atrio e si voltò, ed eccolo lì: Antonio, fermo sulla porta di ingresso.
I due amanti si corsero incontro, abbracciandosi di slancio, e Feliciano, capendo di doverli lasciare soli, si rifugiò nella vecchia camera dell'amico, triste. Una volta entrato, trovò sulla scrivania un libro sull'arte dell'Antica Roma e un piccolo modellino del cavallo di Troia. Sopra, un bigliettino, scritto in una calligrafia elegante che ben conosceva, che lo indirizzava a lui, con tanto tanto affetto. Cadde a terra in lacrime, stringendo quei doni tra le manine e piangendo al suo amore perduto.

Lovino si strinse al suo ragazzo, gli seppellì le mani nei capelli, nascose il viso sulla sua spalla e solo lì si concesse di far scivolare una lacrima sulla guancia. Non aveva dimenticato il suo orgoglio, non aveva dimenticato niente, ma ora la prorità era Antonio. Antonio, che entro una settimana sarebbe ripartito, forse per sempre. Si strinse di più a lui.
Da quel momento, passò una settimana in cui i due non si separarono neanche un secondo. Dormivano abbracciati, si svegliavano insieme, a ogni occasione si appartavano per stare tra loro e stringersi, ora che potevano. Il pomeriggio lo passavano nascosti nel boschetto dietro la casa, dove gli alberi erano rinati e avevano messo i fiori, i preparativi per il viaggio affidati a una delle cameriere più esperte.
Ma il tempo passava, ogni giorno svegliarsi era più difficile, finché non arrivò l'ultimo, quello prima della partenza.
E Lovino si svegliò felice. O meglio, non felice, ma rilassato; voleva che l'ultimo giorno fosse un bel ricordo, e non una serie interminabile di abbracci e lacrime. Abbracci ce ne sarebbero stati di certo, quanto alle lacrime, avrebbero avuto tutto il tempo dopo. Antonio si svegliò per un bacio.
Per tutto il giorno non si allontanarono un attimo, nascosti agli occhi del mondo, finché non arrivò la sera e Lovino si sedette accanto a lui per la cena.
Dopo, lo prese per mano e lo portò nella sua camera, baciandolo non appena si fu chiusa la porta.
-voglio farlo- gli sussurrò sulle labbra, stringendosi a lui.
-sicuro?- Lovino annuì.
Finirono sul letto, uno sopra l'altro, abbracciati, e si baciarono ancora e ancora e ancora; baci sempre più profondi, sempre più bagnati, sempre più spinti. Antonio lo riempì di baci, morsi, segni; amava baciare quella pelle morbida, amava marcarla, amava baciarlo e sentire il suo sapore sulla bocca e sulla lingua. Lovino si faceva di creta tra le sue mani, reagiva a ogni stimolo, scoprendo per la prima volta quel piacere così nuovo, così meraviglioso, così speciale, con una persona altrettanto meravigliosa e speciale. Andava senza pensare, lo spagnolo, faceva ciò che l'istinto, e forse qualcosa in più, gli suggeriva di fare e Lovino sembrava decisamente apprezzare. In breve i vestiti sparirono e si immersero finalmente l'uno nell'altro, si fidarono l'uno dell'altro, divennero come uno solo, vittime di un piacere troppo forte per poter essere controllato, e si amarono, tanto, tanto che in fondo Lovino non sentì quasi il dolore iniziale, troppo perso in quegli occhi quasi neri così pieni di lui. Lo strinse, forte; voleva sentire ogni centimetro del suo corpo combaciare con la pelle nuda dell'altro, voleva... lo voleva, voleva sentirlo, voleva che quella notte durasse per sempre. E durò una piccola eternità, in un un crescendo di piacere e lussuria, finché non sfiorarono insieme il Paradiso; per poi ricadere sulla terra, esausti.

Lovino quella mattina non si voleva proprio alzare. Era sveglio, ma si rifiutava di aprire gli occhi e lasciarlo andare.
-Lovi...- sentì una carezza tra i capelli -devo andare.
-no- mugugnò qualcosa, stringendolo. Sentì una piccola risata.
-lo sai che devo- gli lasciò un bacio sulla fronte -vorrei restare qui, lo sai benissimo, ma non posso.
Con un sospiro, Lovino aprì gli occhi
-ciao.
-ciao...- si baciarono, con dolcezza -ti scriverò. Tutti i giorni. Dammi un indirizzo e ti inonderò di così tante lettere che sarà come avermi lì.
-lo sai che non sarà lo stesso.
-ti verrò a trovare. Il prima possibile. Un giorno potresti persino venire tu da me, in Spagna. Sarebbe bellissimo!
A quel sorriso solare, anche Lovino se ne concesse uno, più piccolo e contenuto.
-c'è il panificio dove lavoro. Il panettiere mi adora, per ora dormo al piano di sopra.
-sai l'indirizzo?
L'italiano glielo disse, l'altro se lo scrisse su un diario che teneva sul comodino.
-ti scriverò, tu sai scrivere?
Lovino scosse la testa -so leggere però. Posso provare, o chiedere a Feli. Pare che il crucco glielo abbia insegnato- fece una smorfia ripensando al tedesco e l'altro rise al suo broncio.
-va bene, ce la faremo. Tornerò appena possibile, giuro- gli baciò il dorso della mano, poi baciò lui direttamente.
-vedi di farlo, bastardo, o verrò a prenderti io in Spagna a calci.
Antonio sorrise -non ho dubbi- si alzò a malavoglia e si vestì, mentre Lovino lo guardava in silenzio.
-ti fa male da qualche parte?- Lovino scosse la testa e cercò di alzarsi, ma una fitta lo costrinse a tornare sdraiato. Antonio rise intenerito e imbarazzato -scusami, Lovinito- quello fece un gesto di non curanza con la mano. Per una notte spettacolare come quella appena trascorsa, avrebbe sopportato un po' di dolore.
Una volta vestito, Antonio lo raggiunse e si chinò a baciarlo, stringendolo, aggrappandosi a lui come ad un'ancora. Si allontanò, gli scostò una ciocca di capelli dalla fronte e sorrise; o, almeno, si sforzò di farlo.
-ti amo- gli disse, lo sussurrò, voleva che fossero le ultime parole che gli avrebbe detto.
-anch'io, bastardo. Vedi di tornare presto.
Se ne andò. Ad ogni passo che si allontanava da quel letto sentiva un dolore sordo scuotergli il petto ed espandersi a tutto il corpo, tanto che, quando arrivò davanti alla carrozza, si sentiva come se gli avessero strappato il cuore in due. Cercò di farsi forza, dicendosi che sarebbe tornato presto da lui, in estate magari, o al più tra un anno. Quello che non sapeva, che non poteva sapere, era che nella sua cabina sulla nave lo aspettava già una lettera di chiamata nelle Americhe latine, dove non era indicato il termine, né se era previsto che ci fosse.
Nel frattempo, Lovino si era alzato, si era vestito e si era affacciato alla finestra, a guardare il suo spagnolo salire sulla carrozza che lo avrebbe portato via da lui. Lo vide uscire e, sentendo i suoi occhi su di lui, Antonio si voltò e sollevò lo sguardo. Gli sorrise incontrando i suoi occhi, sollevò la mano come saluto e mimò un "ti amo" con le labbra.
Poi si voltò e salì sulla carrozza.
Fu solo quando il mezzo fu uscito dai cancelli e fu sparito dalla sua vista che Lovino si concesse di piangere.

Dopo un po' nella camera entrò Feliciano, che trovò il fratello ancora davanti alla finestra, a guardare nel vuoto.
-è partito- disse solo e si asciugò il viso.
-ve, mi dispiace fratellone- lo abbracciò per consolarlo, lo strinse per trasmettergli un po' di conforto, o almeno sperò di riuscirci -stai tranquillo, ve, l'amore trova sempre un modo...
-non darmi speranza, Feli. Per favore- gli tremava la voce. Feliciano si costrinse a tacere.
Quel giorno fu Feliciano a comportarsi da fratello maggiore, consolando l'altro come meglio potesse fare, mentre piangeva.
-il... il piccolo crucco se n'è andato?- dopo un po' cambiò argomento, come faceva sempre quando non voleva parlare di qualcosa.
-sì, ve...- Feliciano sentì gli occhi inumidirsi e, notandolo, Lovino lo strinse accarezzandogli i capelli.
-a quanto pare abbiamo entrambi il cuore spezzato, eh?
-vee, come fai a sapere che...- Lovino alzò le spalle.
-intuito? Istinto da fratello maggiore? Che ne so, ma ti conosco troppo bene, non potevo non notare come lo guardavi- si alzò da terra e porse la mano a Feliciano, che gliela strinse -andiamo, ti faccio vedere dove lavoro.

Alla fine Feliciano non aveva tutti i torti, ma lo scoprì solo anni dopo, quando ormai era un pittore di strada di diciannove anni e un giorno un ragazzo alto, muscoloso, pallido, un po' spaventoso e biondo si fermò a guardare il dipinto di un bambino altrettanto biondo, che stringeva un libro tra le mani e lo leggeva con gli occhi luminosi, con una piccola croce d'oro al collo, identica a quella che portava il ragazzo nella vita vera.
Questa però è un'altra storia, una storia di conseguenze bruciate e dipinti di strada, una storia che avremo presto il piacere di scoprire insieme.

Angolo autrice:
Ebbene sì, questa è la conclusione
E sì, come avrete intuito ci sarà un sequel. Comincerò a pubblicarlo da lunedì prossimo, ogni lunedì. Non vi preoccupate, non sarò troppo cattiva ;)
Temo di dover fare alcune precisazioni storiche. Putroppo non ho trovato granché sugli stili di vita nel 1700, per cui se ci fossero delle imprecisazioni storiche mi scuso. Per quanto riguarda le rivolte, anche lì non ho trovato granché, se non giusto il fatto che ce ne fossero diverse, la più nota cominciata da un pescatore. Sul trattato di Utrecht  anche lì ho trovato poco riguardo il come e quando fosse stato comunicato ai cittadini, ammetto di aver un po' inventato. Dopo la guerra di successione alla Spagna rimasero i territori in America, per cui ho immaginato che ci mandassero il nostro povero Antonio. Anche lì, non ho trovato niente riguardo ai mezzi di comunicazione, ma mi sono permessa di immaginare fossero semplicemente più lenti dei nostri.
Sono un po' emozionata, questa è la prima long che concludo qui su EFP. Vi ringrazio di avermi seguita fino a qui, mi scuso per il finale improvviso (la divisione in capitoli è venuta dopo la stesura dell'intera storia, per questo da un capitolo all'altro viene stravolto tutto) e vi lascio andare, questo angolo autrice è fin troppo lungo.

A lunedì prossimo con il primo capitolo di "Conseguenze bruciate e dipinti di strada", una storia che sarà più incentrata sulla Gerita (la Spamano non mancherà, non preoccupatevi ;))
Un bacio
Daly

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