Congiunzione astrale

di paige95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1_Esprimi un desiderio ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2_Fantasmi del passato ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3_Verso il fronte ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4_La collisione delle stelle ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5_La terra di fuoco ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6_Il tocco dell'angelo ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7_Notizie che risuonano da lontano ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8_Tour tra la cultura d'Oriente ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9_L'infanzia rubata ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10_Sogni sfumati ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11_Giornalismo di guerra ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12_Memorie ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13_Spedizione nel cielo di Kabul ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14_Solitudine ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15_Il prezzo di una vita ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16_Nel covo del nemico ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17_La necessità del ricordo ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18_Tradimento ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19_Il soffio della vita ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20_La morte è solo un'incognita ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21_Brezza gelida dal passato ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22_La retorica del male ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23_L'oceano restituisce i ricordi ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24_Gioventù sepolta ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25_Un eroe non era mai stato ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26_Venti di Tramontana ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27_Controllo mancato ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28_Tempo di reazione ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29_L'innocenza dei tempi che furono ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30_Ferite aperte ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31_Anche se fosse un azzardo ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32_L'incontro ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33_Polvere di guerra ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34_Condizioni di contratto ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35_Il fronte più vicino ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


        



 

Prologo

 
 
 
 
Los Angeles; 4 luglio 2009
 
Daniel Clark, direttore generale del prestigioso quotidiano di Los Angeles, era riuscito a ritagliarsi pochi sacrosanti minuti, chiuso in ufficio per svolgere la sua radicata routine. Ad accompagnare la lettura delle notizie eclatanti della giornata, vi era un caffè ristretto troppo dolce, in barba al diabete certificato nelle analisi del sangue ormai da un paio d’anni. Perfezionista com’era, nonostante le innumerevoli revisioni prestampa, non disdegnava un ultimo controllo alle prime edizioni fresche di pubblicazione pronte per la diffusione. Tra un distratto sorso e l’altro della caffeina impregnata di zucchero – o meglio di zucchero imbevuto di caffè – faceva scorrere le pupille sui caratteri variabili impressi nero su bianco. Impassibile davanti alla profondità e alla gravità delle notizie, che fossero di cronaca nera o rosa, alla ricerca della più piccola imperfezione grammaticale e sintattica, il direttore Clark voleva accertarsi anche del fatto che le novità fossero sufficientemente eclatanti per attirare l’attenzione e veritiere, in quanto lui rivestiva il ruolo di responsabile legale di tutto ciò che veniva pubblicato. Ciò che egli aveva sempre richiesto ai suoi dipendenti era la capacità di colpire la sfera emotiva della cittadinanza media con parole ed impaginazioni ad effetto, tranne la sua certo, lui non faceva parte del novero della cittadinanza media e non si lasciava scomporre dalla gravità degli eventi che giornalmente si susseguivano nel mondo, per quanto i giornali fossero soliti ornare quei racconti di effetti speciali.
Un titolo in prima pagina aveva fin da subito attirato la sua attenzione. Nervoso a causa del caldo e del vociare concitato dei cortei organizzati per le strade della città in occasione del Giorno dell’Indipendenza, distese con uno scatto la copia sulla sua scrivania e iniziò a riflettere su quelle parole, dubitando che in quella circostanza i suoi sottoposti avessero avuto la necessità di enfatizzare l’evento.
 
UN CORAGGIOSO NAVY SEAL SCONGIURA UNA CARNEFICINA NELLA BASE MILITARE AMERICANA DI KABUL
Il Navy SEAL Christian Richardson, classe 1978, soldato del quinto plotone del Coronado nel Nord Pacifico, avverte senza indugio i suoi ufficiali di un attentato terroristico, salvando così la vita ad almeno un centinaio di compagni.
Il soldato riceverà a breve un encomio speciale e una promozione per il suo valore.
 
Gli americani festeggiavano mentre una moltitudine di uomini, con diversi vissuti familiari alle spalle, rischiava la vita in Afghanistan; non era questione di sensibilità da parte di Daniel, ma una semplice e squallida constatazione sul fatto che quei terroristi avessero scelto la data più patriottica per gli Stati Uniti. Un'innocente matita fece le spese dell’irrequietezza che si era impossessata del direttore, un raro momento di debolezza di cui nessuno avrebbe dovuto essere testimone.
Il direttore interruppe quell’ultima revisione, non importava se l’emissione di quel giorno tardasse di qualche ora. Dalla finestra centinaia di cittadini davano avvio ai festeggiamenti, ignari che tra coloro che avevano rischiato di perdere la vita potessero esserci padri, figli, fratelli o mariti. Bambini e ragazzi sfilavano di prima mattina sventolando la bandiera americana in segno di vittoria; una vittoria effimera a suo parere, finché i concittadini continuavano a rischiare in trincea. In fondo lui era solo un insensibile uomo di mezza età che non aveva voce in capitolo e doveva limitarsi a riportare i fatti sul Los Angeles Times.
Al sesto piano dell’edificio al numero 202 della prima strada nella Los Angeles Ovest, il direttore Clark si passò una mano tra i capelli brizzolati allontanando i pensieri e accogliendo il figlio quindicenne tuonandogli severo.
«Samuel, non te lo ripeto più. Prima di entrare nel mio ufficio, bussa!»
Il ragazzo era ormai abituato ai modi poco gentili del padre, ma non per questo lo ferirono meno. Daniel aveva ripiegato con poca grazia l’edizione odierna e l’aveva riposta con indifferenza in un angolo della scrivania; quel gesto diede modo al figlio di ricordare il motivo di quell’irruzione.
«Mi hanno chiesto se puoi dare l’autorizzazione per la distribuzione delle copie»
Non si premurò di rispondergli all’istante e nemmeno lo invitò ad accomodarsi, ma Samuel non aveva nulla di cui stupirsi, gli riservava solo lo stesso trattamento che dedicava a chiunque, familiari compresi. Aveva acceso uno dei suoi preziosi sigari cubani – a finestre chiuse per non lasciare entrare troppo calore –, regalo di un suo stimato collega di L’Avana, ignorando che loro si trovassero in un luogo pubblico e che presto quella stanza si sarebbe impregnata del forte odore di tabacco. Si accomodò contro lo schienale della sua poltrona, fissandolo in silenzio e aspirando di tanto in tanto una boccata di fumo. Samuel non era il primogenito, Daniel aveva avuto anche una figlia da una relazione consumata in giovane età, ma ormai da anni era sposato con la madre di quel ragazzo che sembrava del tutto intenzionato a seguire le sue orme.
«Papà? Avrei un appuntamento con i miei amici, mi stanno aspettando in strada. Riesci a darmi una risposta? Domani dopo lezione torno per il mio apprendistato»
Il giovane era intimorito davanti alla reazione gelida del genitore, il quale si limitò ad allungargli la copia che era in suo possesso e a rispondergli con un tono apatico.
«Comunica di aspettare la fine dei festeggiamenti, non voglio allarmare alcuna famiglia per l’attentato terroristico a Kabul. Non importa se oggi il giornale esce qualche ora più tardi»
 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici!

È la mia prima storia originale che abbia come tema quello della guerra, spero di esserne all’altezza.
Ringrazio tutti coloro che sono passati a leggere questo prologo. Un ringraziamento speciale va a HarryPotter394, Shanley, Longriffiths e Amily Ross per avermi aiutata e a tutti coloro che mi hanno incoraggiata a concretizzare queste idee. ❤️
Se vi va, vi do appuntamento al primo capitolo (che sarà sicuramente molto più lungo).

Un abbraccio,
Vale

PS Ringrazio di cuore BloodyWolf per avermi aiutata nella creazione della grafica e Miryel per averla creata per me. ❤️

PSS Sto revisionando la storia, quindi se per il momento trovate differenze nello stile dei capitoli è per questa ragione.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1_Esprimi un desiderio ***


Esprimi un desiderio

 


 
San Diego; 10 agosto 2018
 
L’odore di salsedine, accostato al riflesso della luna sulla superficie dell’acqua, donava a Christian una pace che quella sera faticava a riscoprire. La pelle ambrata dell’uomo faceva da sfondo a scie luminose, frutto delle onde basse, colorate dall’avorio del satellite. Un fastidioso ciuffo bruno prendeva di tanto in tanto il sopravvento, frapponendosi tra l’azzurro della sua iride e il blu notte del cielo costellato da infiniti puntini risplendenti.
Si era accomodato a gambe incrociate sulla battigia a contemplare il suo primo amore: l’oceano.
Ogni volta davanti a quello spettacolo il Navy SEAL immergeva i ricordi tra le luci e le ombre dei cavalloni. Sulla spiaggia californiana Pacific Beach aveva vissuto una vita intera, prima e dopo la tragica dipartita dei suoi genitori.
Lo avevano sempre affascinato le maree, il loro moto, favorito dall’attrazione che la luna esercitava sulla Terra, aveva un non so che di magico e romantico. I suoi, però, avevano rivolto troppo lo sguardo in su e proprio quel cielo con un drammatico incidente aereo li aveva strappati precocemente all’affetto del figlio adolescente.
Erano passati più di ventitré anni dal giorno in cui era diventato orfano di padre e di madre, eppure l’aeroplano continuava ad essere un tabù per lui. Christian, nell’arco della sua carriera lavorativa, aveva preferito rimanere con i piedi ben saldi al suolo, o quantomeno tra le onde; aveva fatto dell’oceano la sua ragione di vita, diventando parte del corpo della marina militare americana, come soldato semplice e in seguito come tenente comandante, e incontrando proprio in quelle acque la sua attuale compagna.
Katherine Scott, sua moglie, frequentava quella spiaggia assiduamente per lavoro; nella stagione estiva come quella che stavano vivendo, particolarmente proficua, si occupava del controllo e della sicurezza dei bagnanti. Christian aveva notato quella giovane bagnina newyorkese dal primo momento in cui lei aveva messo piede nello Stato della California. Non avrebbe mai potuto passargli inosservato quel fisico asciutto, su cui ricadevano boccoli castani perfetti, sia che fossero asciutti sia che fossero inzuppati; quegli occhi, poi, tinti di un verde smeraldo talmente limpido da fare invidia persino all’oceano.
Katherine, a differenza sua, aveva avuto bisogno del pretesto per accorgersi di lui, nonostante ai tempi fosse un giovane e prestante Navy SEAL. Fu per entrambi amore a prima vista, a cui seguì un felice matrimonio e una bambina di nome Alisia.
Ogni volta che l’uomo si perdeva a contemplare l’oceano, non poteva fare a meno anche di ricordare – benché fossero ormai trascorsi più di dieci anni – il punto esatto in cui quella ragazza, in un giorno limpido di inizio estate, si precipitò in acqua nuotando nella sua direzione, credendo avesse avuto un malore. Christian, in realtà, stava semplicemente svolgendo i suoi giornalieri esercizi di apnea e quel giorno aveva solo provato a spingersi oltre il limite personale; non avrebbe mai voluto allarmare la bagnina di guardia, ma il destino aveva deciso per loro che fosse giunto il momento di conoscersi e lui non ricordava nella sua vita un incontro più fortunato.
Il pensiero di lei e della loro vita insieme, unito alla sensazione che l’oceano gli infondeva, offriva a lui la percezione che il macigno sul suo cuore fosse meno pesante.
A pochi minuti da San Diego la base militare del Coronado era illuminata a giorno per favorire il lavoro notturno dei suoi colleghi, che avrebbe presto dovuto salutare per mesi.
Nell’arco di pochi giorni lo avrebbe atteso una nuova avventura, lontano da San Diego, dal suo adorato oceano, ma soprattutto dalla sua famiglia. Non era un’esperienza che si apprestava a rivivere a cuor leggero, aveva ben presente i rischi che avrebbe corso. Era già stato al fronte molti anni prima, quando su di lui pesavano quasi dieci anni in meno. Non aveva più dimenticato il pericolo a cui erano andati incontro lui e i suoi compagni, sarebbe bastato poco meno di un chilometro per farli saltare per aria in una frazione di secondo; i terroristi non avrebbero mai perdonato la loro nazionalità americana, se Christian non avesse fiutato quell’agguato, riuscendo a consentire il rientro in patria di un centinaio di soldati come lui, con famiglie che attendevano solo di non ricevere dall’ambasciata americana in Afghanistan pessime notizie. Con quel gesto, definito eroico dai suoi ufficiali e riportato da tutte le testate giornalistiche – persino dalla prima pagina del prestigioso Los Angeles Times –, si era guadagnato un nuovo grado militare e la fama di una brillante esperienza sul campo. Peccato che l’entusiasmo per quella promozione fosse svanito e a nulla valsero i suoi tentativi di declinare quella nuova missione; a quanto sembrava, essere padre di una bambina che a malapena sapeva fare due più due non era un motivo valido per disertare un ordine.
«Capitano, cosa fai qui tutto solo? Prima organizzi una festa a sorpresa per il mio compleanno e poi non festeggi insieme a me?»
La stoffa chiara e svolazzante - guidata dal venticello tiepido - del vestito della moglie lo fece riemergere dai pensieri. Christian risalì con lo sguardo la sagoma perfetta di quella donna; le aveva regalato lui quell’abito intagliato in seta e merletto, convinto che avrebbe ostentato quelle sobrie trasparenze con eleganza. Non si soffermò più del necessario sulle sue forme, morbide e asciutte allo stesso tempo, ciò che attirò la sua completa attenzione fu il sorriso sincero e una mano dalle dita affusolate che porgeva un bicchiere di plastica, il contenuto a lui era ancora sconosciuto. Avrebbe forse dovuto davvero affogare nell’alcool le preoccupazioni, ma in quel caso si sarebbe giocato l’occasione di godersi a pieno quella Notte di San Lorenzo in compagnia della sua famiglia.
«Coraggio, non voglio farti ubriacare per rimorchiarti. Ti credi così attraente? È semplice succo d’arancia, corretto con nulla»
Come avrebbe fatto a spegnere l’entusiasmo della moglie con quella notizia ancora non lo sapeva.
Afferrò il bicchiere che la donna gli aveva porto e tentò di simulare un mezzo sorriso per ringraziarla del gentile pensiero.
Katherine, avvolta nel suo scialle, per proteggere le braccia nude dall’umidità di metà agosto, si accomodò accanto a lui e perse lo sguardo oltre l’orizzonte che si estendeva all’infinito davanti a loro, contemplando quelle terre di cui anni prima si era follemente innamorata. La luce lattea della luna rendeva più chiara la chioma castana della donna, Christian non si fece sfuggire nemmeno una sfumatura. Sua moglie aveva appena compiuto trentacinque anni, aveva una gravidanza alle spalle, eppure aveva conservato la stessa bellezza di quindici anni prima, quando l’aveva vista per la prima volta sulla guardiola.
Porse un bacio tra i capelli della sua signora e lasciò che lei posasse la guancia sulla sua spalla, rivolgendo stavolta l’attenzione al cielo nella speranza di scorgere qualche stella cadente, per rendere ancora più felice quel momento in sua compagnia.
«Non ho la più pallida idea di come tu abbia fatto ad invitare colleghi e amici senza che io me ne accorgessi, Chris»
Amava sorprenderla, almeno tanto quanto amava lei, perché sapeva che ciò l’avrebbe resa felice. Le premure di suo marito le offrivano la garanzia della sua presenza nel corpo e nell’anima; rovinare quelle certezze in un momento di gioia era un pensiero che lo rendeva combattuto.
Quella donna era già diventata sua moglie dalla sua ultima missione in Afghanistan, non riusciva ad annunciarle che molto presto avrebbe rivissuto la lancinante attesa di sue notizie dal fronte. Stavolta il pensiero della figlia avrebbe reso più drammatica la partenza di Christian. Non riusciva più a mantenere quel segreto però, era convinto che presto o tardi lei avrebbe letto l’ombra della menzogna nei suoi occhi.
«Kathe»
Era certo che dal tono di voce grave, ben distante da un clima di festa, sua moglie avesse già intuito qualcosa.
Stavolta fu lei a fissare il profilo dell’uomo al suo fianco, in attesa che lui trovasse il coraggio di incrociare i suoi occhi. Il fatto che suo marito prendesse un respiro sofferente e continuasse ad ammirare lo scintillio delle stelle sulla superficie dell’acqua con sguardo assente la spaventò.
«Christian…è successo qualcosa che dovrei sapere?»
L’uomo gettò un’occhiata verso la spiaggia e fece passare in rassegna i visi sereni degli invitati; era alla ricerca dello sguardo più sincero tra i loro conoscenti, voleva essere certo di affidare la sua famiglia a mani sicure. Il più fidato amico che lui avesse mai avuto dai tempi del liceo stava facendo fare qualche piroetta alla piccola Alisia. William Davis rappresentava tutto ciò che poteva definirsi un fratello e per la proprietà transitiva era diventato lo zio prediletto di sua figlia.
Era l’amico che aspettava Christian nei corridoi della scuola, quando il mondo intorno a lui si era oscurato all’improvviso e lo irritava la vista di qualunque essere umano, di chiunque tranne di William che riusciva sempre ad abbattere il muro di dolore. A diciassette anni Christian era diventato orfano dei genitori, ma aveva guadagnato un prezioso fratello.
William era stato suo testimone di nozze in una fredda notte di Natale, lo aveva accompagnato in un nuovo e importante passo della sua vita; l’eterno scapolo aveva dato la sua benedizione ad una delle coppie più affiatate dell’intero Stato della California, ma lui non ci pensava neanche a metter su famiglia. William però, nonostante la sua poca propensione alla vita coniugale, adorava il frutto dell’amore dei suoi migliori amici, ciò lo rendeva il candidato perfetto per colmare l’assenza di Christian.
«La prossima settimana devo partire»
«Devi compiere qualche missione al largo?»
«Questa è veramente molto al largo»
Il Navy SEAL sorrise con sarcasmo. Era naturale che Katherine non pensasse subito al peggio, in fondo per quale ragione avrebbe dovuto, da anni ormai Christian vedeva la guerra solo attraverso i canali della CNN.
La reazione dell’uomo confuse la donna accanto a lui, iniziava ad essere molto meno spensierata. La gioia delle ultime ore stava scemando ogni secondo di più.
«Chris, non ti capisco. Di cosa stai parlando?»
Christian non era rimasto sul vago a caso, non era facile nell’arco dello stesso giorno infonderle una grandissima gioia e subito dopo un immenso dolore. Si passò una mano sugli occhi, cercando di riscoprire il coraggio di essere più chiaro con sua moglie; anche a costo di ferirla, lei aveva il diritto di sapere e possibilmente in tempo utile per assimilare quella notizia.
«La mia meta sarà l’Afghanistan. È una missione via terra, non via mare»
Le offrì quella spiegazione con dolcezza e cercando di tranquillizzarla, incastonando gli occhi in quelli di topazio di lei, scuriti dalle tenebre.
Christian aveva posato la mano su quella immersa nella sabbia della donna, un impercettibile tremore si era impossessato di lei.
Era il primo a provare un’umana paura, ma lei non doveva e non poteva cedere davanti alla bambina. Le avvolse la mano e la strinse forte nel suo calore per placare l’ansia e tutti i pensieri che stavano affollando la mente di sua moglie.
«Vai in guerra?»
Sperava di aver inteso male, ingenuamente confidava in una smentita da parte di suo marito, ma ciò che tanto desiderava non arrivò mai. L’uomo preferiva ovviare il suo sguardo, piuttosto di ripetere ad alta voce la verità.
«Christian, in quella guerra si muore»
«Davvero? Non lo avrei mai detto»
Era tornato a rivolgere demoralizzato lo sguardo davanti a sé in cerca di un’ispirazione. La notizia aveva ovattato per entrambi i coniugi persino la musica e i canti di gioia dei loro amici, che continuavano ignari a festeggiare il compleanno di Katherine.
«Mi dispiace, Kathe. Ti ho rovinato la festa, avrei dovuto aspettare domani per parlartene. Ho avuto un tempismo pessimo»
Non trapelava timore dall’espressione del marito, eppure lei avvertì i suoi muscoli tesi, non appena gli ebbe afferrato il braccio, invitandolo a stringerla a sé. Sentiva il leggero tremore da cui quell’uomo era pervaso, Katherine lo percepì all’altezza del ventre, nell’esatto punto in cui lui l’aveva attirata a sé.
«Hai paura?»
«Troppa per non essere la mia prima volta. Katherine, scusami, sto esagerando. Tu e Alisia dovrete essere serene anche quando sarò lontano»
«Intendi serene, pensando che sarai sotto le bombe?»
Erano i rischi di quel mestiere e non sarebbe stato certo lui a negare quanto fossero alti.
Quando Christian aveva preso la decisione di intraprendere quella carriera alla giovane età di diciannove anni, non c’era nessuno a cui dovesse rendere conto per la sua vita. All’epoca era intraprendente e temerario, un ragazzo del tutto abbandonato a se stesso che era alla ricerca disperata del suo posto nel mondo. Non aveva di certo previsto di imbattersi in una newyorkese venuta da lontano che in futuro sarebbe diventata la sua compagna di vita e la madre dei suoi figli.
La guerra non perdonava, qualunque fosse lo status di un soldato; gli affetti non influivano sulla vita e sulla morte.
Se solo Christian avesse potuto scegliere, avrebbe continuato a prestare il suo servizio a San Diego, accanto alla sua famiglia.
La donna sciolse l’abbraccio del marito per essere libera di incrociare il suo sguardo.
«Vado ad aiutare la popolazione in difficoltà, Katherine. Sanno che ho esperienza in quel territorio e potrei guidare più facilmente una missione»
«Non voglio sapere in quali guai ti caccerai. Io non riesco nemmeno a pensare ai rischi che corrono i soldati americani laggiù. Non voglio rivivere l’inferno di nove anni fa, sentire alla CNN la notizia di un attacco terroristico pregando che tu non sia coinvolto, con il terrore di ricevere una chiamata da parte dell’ambasciata. Ti voglio sapere qui, a pochi chilometri da casa…voglio aspettarti la sera»
«Non riesco a darti torto, Kathe. Ma io ho le mani legate»
«Hai anche una bambina di sei anni»
«E una moglie che mi ama e che io amo, già»
Christian avrebbe voluto terminare diversamente quella serata. La serenità avrebbe dovuto fare da padrona, non le lacrime che minacciavano di inondare le iridi della sua donna.
Le sfiorò appena con la punta delle dita una guancia per invitarla a voltarsi nella sua direzione. Desiderava porgerle un bacio, riassaporare le sue labbra perennemente intrise del dolce e intenso sapore della salsedine.
L’arrivo della figlia non gli consentì di accostarsi a lei. Alisia lo aveva afferrato alle spalle per abbracciarlo, circondandogli il collo con le braccine.
L’ingenuità della bambina li aveva interrotti, ma ciò non infastidì Katherine e Christian, anzi la sua intromissione strappò loro un sorriso.
Nonostante l’uomo non potesse vedere la figlia, non gli risultò difficile riconoscere il suo tocco delicato. Intercettò divertito le mani della piccola, invitandola ad entrare nel suo campo visivo.
«Vieni, Alis. Guardiamo le stelle cadenti insieme»
«Io non le vedo»
«Se non guardi il cielo, non le vedrai mai e non potrai nemmeno esprimere un desiderio»
Voltò la bambina con un mezzo giro su se stessa rivolgendola verso l’oceano. La invitò a restare in piedi, appoggiata con la schiena al suo petto per stare più comoda, stretta tra le forti braccia del padre.
Non trascorse molto tempo, prima che Alisia con l’entusiasmo dell’infanzia indicasse il cielo.
«Papà, eccola!»
«Cos’hai espresso? Ah no, non puoi dirmelo»
«Ma se non te lo dico, non si avvera. Voglio che tu e la mamma restiate sempre con me»
La piccola cercava di strappare una promessa ai genitori. Sia Katherine che Christian sapevano che le stelle senza la loro volontà non avrebbero potuto compiere alcun miracolo.
L’uomo abbassò lo sguardo colpevole, quando la figlia puntò addosso a lui gli occhi acqua marina.
La donna, al loro fianco, si era persa ad ammirare l’affetto che con i gesti suo marito e sua figlia dimostravano di provare l’uno per l’altra. Sarebbe stato tutto perfetto, se il loro futuro non fosse stato così incerto.
«Alisia, io e la mamma ti saremo sempre accanto. Tesoro, anche se per un po’ non potremo abbracciarci, mi troverai proprio qui ogni volta che vorrai»
Indicò il petto della bimba all’altezza del cuore. Lei, senza afferrare a pieno le parole del padre, si gettò tra le sue braccia.
Christian la strinse così forte da non avere dubbi sul fatto che la figlia percepisse i suoi battiti accelerati; le mancavano solo la conoscenza e la capacità per interpretarli.
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Quella notte fu irrequieta per Katherine, non riusciva a prendere sonno. I pensieri le affollavano insistentemente la mente: la famiglia era una costante preoccupazione in quelle ore.
Singhiozzava nel silenzio della stanza, il suo cuore alla fine aveva ceduto al dolore; lungo la settimana che li divideva dal fatidico giorno, avrebbe esaurito tutte le riserve di lacrime; era impossibile per lei reggere una simile apprensione.
Era convinta che suo marito la stesse sentendo. Alle spalle percepiva il fruscìo delle lenzuola, sintomo della sua stessa irrequietezza e del fatto che anche lui non riuscisse ad abbandonarsi serenamente alle braccia di Morfeo.
Christian non commentò lo sfogo della moglie. Si avvicinò in silenzio alle sue spalle e le fece passare un braccio sul fianco.
Si sentì in colpa per averla spaventata. Forse avrebbe dovuto impiegare parole diverse, cercare un modo per rassicurarla, ma la sostanza non sarebbe cambiata, anche se avesse pensato a qualche bugia bianca.
La donna gli fu grata per la vicinanza. Recuperò il braccio dalla vita e lo strinse accanto al cuore. Si lasciò irradiare dal calore del marito, tentò di imprimerlo sulla pelle e conservarlo per quando la mancanza sarebbe stata troppo pesante da sopportare.
«Prova a dormire, amore»
Le aveva sussurrato con dolcezza e lasciato un bacio fra i boccoli scompigliati, sperando che ciò contribuisse a rilassarla.
Katherine viveva in quella casa da diversi anni ormai, da quando si erano innamorati Christian non aveva più potuto fare a meno di lei. L’aveva invitata a trasformare il luogo, nel quale aveva vissuto un periodo piuttosto lungo in completa solitudine senza genitori, nel loro nido d’amore.
Con il tempo, quell’angolo di mondo era diventato per Katherine il suo rifugio sicuro, nel quale dimenticare il passato e condividere con lui i suoi sogni più intimi.
Era bastato un alito di vento per rendere quelle mura pressanti. In assenza di Christian, tutto lì dentro avrebbe assunto una nuova atmosfera.
Era surreale pensare di dormire in quel letto da sola, non era mai successo e solo la prospettiva le provocava un vuoto nel cuore. Non era sicura di poter vivere senza la dolce sensazione di accoglienza che lui le aveva sempre infuso.
La California era diventata la vera casa per lei, grazie a lui e grazie a quell’uomo la adorava.
New York, con i suoi grattacieli, la frenesia, i suoi genitori, le multinazionali che non conoscevano la meravigliosa pace che l’oceano infondeva, era tutt’altro mondo. I suoi genitori, soprattutto: coloro che non erano mai stati in grado di capirla; coloro che avrebbero venduto l’anima pur di vederla in altre vesti; coloro che con pressanti imposizioni l’avevano allontanata ed ora sapevano a malapena di avere una nipote. Da bravi egoisti, i signori Scott non si erano mai premurati della felicità della figlia - perlomeno non quella che intendeva lei -, anzi, non sapendo più come far valere la loro autorità su di lei, avevano iniziato ad attribuire colpe illogiche al genero. Christian, secondo il loro personale parere, era colui che aveva distanziato Katherine dalla sua famiglia, l’aveva manipolata fino a disprezzare l’inestimabile eredità che il suo cognome prevedeva. Ecco cos’era suo marito per i suoi genitori ed ecco cos’era invece lui per lei: un buon motivo per rinunciare a qualsiasi ruolo di prestigio nell’azienda del padre.
Katherine aveva preferito seguire i suoi sogni, l’oceano e l’uomo di cui era innamorata.
«Chris. Stavolta ci sentiamo, vero?»
«Tutti i giorni, se vorrai e potrai. Da parte mia, farò anche l’impossibile per riuscirci»
«Me lo prometti?»
Lo sentì soffocare un sorriso contro la sua chioma e simulare con le dita che la stringevano il simbolo della promessa degli scouts.
«Parola di boy scout»
«Scemo, tu non sei uno scout»
Gli diede una delicata manata sul braccio invitandolo a smettere di scherzare, benché tra gli occhi lucidi e le guance umide fosse spuntato sul viso della donna un sincero sorriso.
Si voltò verso di lui, muovendosi tra le sue braccia. Incrociò un’espressione rassicurante.
«Senti, signora Richardson. È notte fonda, ti sono accanto e non c’è alcun motivo di inondare di lacrime il cuscino ora. Manca ancora una settimana, risparmiamole per quel momento. Cosa dici?»
Le era così vicino da sentire il suo respiro caldo sul viso, un leggerissimo vento di scirocco di cui non avrebbe mai fatto a meno, se avesse potuto scegliere.
Accarezzandola con il pollice, Christian le asciugò il sale rimasto sulle occhiaie – accentuate dai pensieri –, sulle ciglia, sulle gote e sul mento. Non riusciva, però, a colmare la tristezza, non sapeva come sfiorarle l’anima, custodire anch’essa tra le braccia o privarla di quella sofferenza; ne avrebbe provata il doppio lui solo per alleggerire lei di quel fardello.
La sfiorava come se fosse la cosa più delicata e preziosa del mondo. Del suo mondo.
«Avrei dovuto dirtelo il giorno prima della partenza, almeno non avrebbe rovinato questi giorni»
Katherine cercò di farsi contagiare dalla sua voglia di normalità. Gli sfiorò le labbra increspate con le dita, ne seguì il contorno, per poi infine baciarle annullando quel poco di distanza tra loro.
Dalla festa in spiaggia, Christian non desiderava altro: affogare i pensieri in quei contatti unici ed esclusivi.
«Però forse, ripensandoci, non so se mi sarei ugualmente guadagnato un bacio simile»
«Guadagnerai molto di più stanotte, capitano, se mi prometti che sarai prudente e starai lontano dai pericoli»
«Kathe, come faccio a prometterti che in guerra io stia lontano da ogni rischio che metta a repentaglio la mia incolumità?»
Ogni parola che suo marito pronunciava quella notte sembrava essere poco rassicurante.
Per quanto Christian l’avesse avvicinata a lui e si premurasse di non lasciare che lei si allontanasse, la donna abbassò lo sguardo pensieroso sul suo petto, sfuggendo dalle mancate promesse di lui che gettavano il loro destino nella più terribile instabilità.
Posò due dita sotto il mento di Katherine per alzare il suo sguardo assente.
«Non potrò baciarti per nove lunghi mesi, non voglio sprecare nemmeno un secondo prima di partire»
Intravide gli occhi celesti del marito annacquarsi. Stava cedendo anche lui, era solo più addestrato di lei a sopportare le sofferenze fisiche e psicologiche.
Christian sperava di trascorrere una notte spensierata tra le braccia di quella donna, una delle ultime prima di diversi mesi. La baciò dolcemente e con prudenza. Le offrì la possibilità di tirarsi indietro, auspicava però che il desiderio fosse condiviso. Ebbe un fremito di delusione quando lei si ritrasse; forse avrebbe dovuto attendere qualche ora prima di azzardare un approccio, era ancora troppo scossa.
«Cos’hai detto? Nove mesi?»
«Tesoro, è una missione, non una vacanza. Non torno a casa quando mi pare»
La carnagione chiara di Katherine aveva assunto un candore preoccupante. Si era sollevata, voleva sedersi per incassare meglio l’ennesimo colpo della giornata.
In quello stato persino le forze le venivano a mancare. Stringeva sconvolta nei pugni chiusi lembi di lenzuola. Era tesa, il cuore stava uscendo dalla gabbia toracica; di quel passo non sarebbe sopravvissuta nemmeno lei a quell’esperienza.
«Katherine?»
«Tu starai via quasi un anno?»
«Nove mesi…a fine maggio sono a casa. Dai, Kathe. Hai già dimenticato i nove mesi della gravidanza? Cosa sono questi in confronto?»
Cercava in tutti i modi di sminuire e sdrammatizzare, ma senza successo. Le aveva ricordato quanto l’esistenza della loro bambina rendesse ancora più triste la separazione.
«Non posso farcela, Christian, è troppo tempo…non riesco»
Iniziava a credere di dover essere lui il più forte tra i due, benché tutte le paure che serbava nel cuore, il rischio di non rivedere più la sua famiglia in primis.
Le prese il viso tra entrambe le mani, costringendola ad incrociare i suoi occhi, profondi quanto gli abissi che tanto amavano.
«Certo che ce la fai. Tu e Alisia sarete forti in questi mesi. Non dovrete preoccuparvi di nulla, ogni giorno alla stessa ora mi metto in collegamento con voi. Andrà tutto per il meglio»
 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici!

Nel prossimo capitolo vi farò conoscere Samuel Clark. Ricordate che nel prologo lo avevamo lasciato come apprendista del padre presso la redazione del Los Angeles Times? Anche per lui sono passati nove anni e tante cose nella sua vita sono cambiate, altre invece sono rimaste in linea con il passato.
Spero di essere stata esaustiva in questo primo capitolo, ho cercato di gettare le basi del passato e del presente dei coniugi Richardson, ci sarà modo e tempo per approfondire nell’arco della storia.
Nel frattempo vi ringrazio infinitamente per essere passati e, se vi va, ci sentiamo al prossimo capitolo. ❤️

Un abbraccio,
Vale

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Capitolo 3
*** Capitolo 2_Fantasmi del passato ***


Fantasmi del passato

 

 

Los Angeles; 11 agosto 2018
 
L’orologio appeso alla parete opposta rispetto al letto segnava quasi le undici del mattino. I genitori di Samuel sarebbero presto rincasati da un paio di giorni di vacanza e il ragazzo era immerso nella morbidezza del materasso in dolce compagnia della fidanzata Margaret.
Erano ancora mezzi nudi; con qualche carezza distratta sulla spalla Samuel era riuscito a farla rilassare, fino ad assopire nell’incavo alla base del suo collo.
La signora Clark era stata comprensiva con il figlio e la futura nuora. I due, ormai prossimi al matrimonio, non convivevano ancora; fosse stato per lei, Margaret si sarebbe potuta fermare a dormire in assenza dei padroni di casa. Era stata la ragazza a non aver voluto trascorrere la notte in quel letto; lo aveva raggiunto all’alba, perché teneva alla loro prima notte di nozze e desiderava iniziare a dormire al suo fianco solo dopo essere diventata sua moglie, in un letto matrimoniale e nel loro appartamento.
Era un sabato soleggiato, eppure avevano preferito godere della presenza reciproca in intimità, cogliendo l’occasione della casa vuota e di quel letto ad una piazza e mezza che in fondo ospitava entrambi con comodità; per quello Margaret non aveva resistito a lungo e tra le sue braccia riusciva a recuperare le ore di sonno perdute per trovarsi da lui all’ora stabilita.
A Samuel era stata concessa mezza giornata libera dal lavoro alla redazione del Los Angeles Times. Il ragazzo trovava gratificazione in quell’impiego; la cronaca e l’attualità erano il suo pane quotidiano, ma aveva anche ventiquattro anni e mille altri sogni per il futuro, uno fra tutti quello di creare una famiglia con la coetanea che teneva stretta tra le braccia.
Era stata proprio la redazione di quel quotidiano statunitense a fare da sfondo all’incontro tra i due giovani. Avevano scoperto una grande affinità nel momento in cui il padre di Margaret venne assunto dal direttore Daniel Clark. Non era forse buona abitudine che i dipendenti, specie i neoassunti, si facessero seguire dai figli sul posto di lavoro, il padre di Margaret però si era distinto fin da subito per le sue eccellenti doti sul campo ed era persino riuscito a far breccia tra i difficili e noiosi canoni del direttore.
Grazie alle abilità giornalistiche del futuro suocero di Samuel, i due giovani ebbero l’occasione di conoscersi sotto le luci al neon di quella famosa redazione.
Per la simpatia personale e professionale che Daniel nutriva nei confronti del suo dipendente, le famiglie Clark e Allen si erano avvicinate sempre di più o forse erano stati gli stessi ragazzi a favorire la loro amicizia, questo a nessuno fu ben chiaro, visto che per Samuel e Margaret a distanza di poco tempo dal loro primo incontro era diventata buona norma visitare le loro rispettive case.
Samuel era certo, però, che quella giovane, all’epoca appena maggiorenne, avesse avuto un ruolo fondamentale nella sua vita. L’aveva conosciuta quando ancora lui, tra una lezione e l’altra alla John Marshall High School, svolgeva il ruolo di assistente presso la redazione del padre con la viva speranza di carpire qualche utile esperienza per il futuro. Erano amici affiatati lui e Margaret quando conseguì il diploma e con una brillante carriera liceale riuscì ad aggiudicarsi l’ammissione al corso di giornalismo nella prestigiosa università di Yale.
Samuel amava quel ramo professionale, non era solo un’eredità genetica come molti avrebbero potuto pensare, ma con il tempo e la maturità degli anni si domandava spesso se in parte non avesse cercato in quel modo di conquistare l’affetto di suo padre.
Daniel Clark era l’esatto opposto dell’affettuosità: era un uomo apatico nella sfera sentimentale, da parte sua Samuel non ricordava una singola carezza. Era bravissimo, però, a compensare tutte le attenzioni di cui privava moglie e figli sul piano della sussistenza della sua famiglia; sotto quell’aspetto non gli si poteva recriminare qualcosa, era un instancabile lavoratore.
A ventiquattro anni ad un giovane non bastava sapere che il padre non gli avesse mai fatto mancare il pane in tavola, specie se il ragazzo in questione era ormai in grado di provvedere a se stesso.
A Samuel era sempre mancata la sensazione di sentirsi davvero suo figlio, non riusciva ad essere fiero del cognome che portava solo per la fama del Los Angeles Times, necessitava anche di un più intimo e riservato senso di appartenenza. Nella mente del giovane, anche inconsciamente, permaneva l’idea di rendere suo padre orgoglioso della carriera professionale che aveva intrapreso e degli obiettivi che era riuscito a raggiungere dopo tanto studio, impegno e passione per quel mestiere. Nessuna raccomandazione, quindi. Sperava di riuscire a prendere due piccioni con una fava, con l’unico risultato di una laurea quadriennale in giornalismo e la solita indifferenza di suo padre per tutto ciò che riguardasse la vita personale dei suoi figli; persino di quella figlia lontana che non viveva da anni sotto il suo stesso tetto e che era rimasta in ottimi rapporti con Samuel.
Margaret era sempre stata al corrente di ogni risvolto della vita di quel ragazzo, era stata per anni la sua confidente privilegiata, prima ancora di diventare la sua fidanzata. Anche quando il college li separava fisicamente, la ragazza era sempre stata parte delle sue giornate in un modo o nell’altro; la tecnologia assisteva la loro amicizia e nei fine settimana potevano finalmente riabbracciarsi.
Lo aveva sempre sostenuto in ogni sua scelta, aveva gioito insieme a lui per ogni suo successo. Molti avrebbero scommesso una buona somma di denaro sul fatto che presto o tardi avrebbero formato una coppia fissa. Tranne Daniel, ovviamente, non era affar suo sapere chi i suoi figli scegliessero come compagno di vita; si potevano solo ipotizzare la sua opinione a riguardo del destino dei due giovani, chi poteva dirlo se non si esprimeva mai pubblicamente.
Era giunto un giorno però – quello stesso giorno – in cui il loro coinvolgimento emotivo gli impediva di essere totalmente sincero con la sua fidanzata. Nel giro di un paio di settimane si sarebbero sposati e lui non solo non aveva la possibilità di essere presente per la cerimonia, sarebbe mancato da casa per mesi. Non avrebbe nemmeno potuto esserle accanto nell’unico momento in cui lei aveva necessità della sua presenza; non gli aveva mai chiesto qualcosa di più in sette anni in cui si conoscevano.
Settembre era alle porte e con esso l’inizio di un nuovo anno scolastico. La sua giovane e bellissima maestra avrebbe preso servizio in una scuola elementare; era il suo primo incarico, era spaventata ed emozionata in egual misura. Lui però, benché fosse al corrente di ciò che quel nuovo lavoro suscitasse in lei, non ci sarebbe stato e non sapeva con quali parole informarla dell’impedimento.
Samuel le sfiorò appena il mento arrotondato e le posò un bacio sulla nuca che si trovava a pochi centimetri dalle sue labbra. Le narici del ragazzo furono inondate da una delicata fragranza di balsamo alla vaniglia; non interruppe per qualche infinito secondo quel contatto rigenerante, chiuse gli occhi e si beò del suo profumo e della sua morbidezza.
Si sciolse dall’abbraccio della fidanzata con delicatezza, cercando di non infonderle i suoi stessi turbamenti.
Margaret era in dormiveglia, ma avvertì chiaramente quando le sue braccia scivolarono dal petto nudo del ragazzo contro il suo volere. Schiuse gli occhi e lo intravide, con i sensi un po’ sfocati, seduto di spalle: stava recuperando il pacchetto di sigarette sul suo comodino, c’era solo il tempo per quello prima che i signori Clark rientrassero.
«Sam. Dove vai?»
La voce della ragazza era flebile, ma il suo vibrato era intriso di incertezza.
Il suo fidanzato aveva ignorato sia il portafogli che il cellulare, segno che non aveva ancora intenzione di uscire dalla stanza.
Era così strano che quello smartphone non avesse ancora suonato. In redazione avevano concesso a loro qualche ora per amoreggiare in pace, senza probabilmente essere al corrente che fossero insieme e cosa stessero realmente facendo. Al direttore in fondo sarebbe importato poco o niente; quella mattina strappata alla routine era solo merito dell’influenza che la moglie aveva su Daniel.
Margaret desiderava solo godere a pieno di quei rari momenti. Ignara dell’ora, gli sfiorò la schiena con la punta delle dita, invitandolo a non privarla così presto del suo calore.
Samuel non accolse i suoi tentativi carichi di desiderio. Recuperò una sigaretta e la accese lasciando l’accendino dentro al pacchetto, riponendolo poi dove lo aveva preso.
Il ragazzo si avviò sovrappensiero verso la finestra della camera da letto, la cui vista si affacciava sulla trafficata Hollywood Boulevard. Con il bastoncino bicolore tra le labbra, liberò entrambe le mani per poter spalancare dall’interno le ante.
Fumare e respirare lo smog di una delle strade più frequentate di Los Angeles non era l’abitudine più salutare del mondo, ma lo aiutava ad organizzare le idee o meglio a placare il vulcano che ultimamente aveva al posto del cervello. Lo stavano spaventando le sue stesse reazioni, nell’ultimo periodo stava diventando sempre più simile a suo padre: irruento, menefreghista e anaffettivo.
Aveva trascorso qualche ora con la sua fidanzata sotto le lenzuola, eppure sentiva di non essere stato insieme a lei con il cuore.
Samuel aspirava tutto il fumo possibile, credendo fosse la medicina migliore contro lo stress, non certo perché fosse un accanito fumatore. Permise che il vento di quella mattina gli inondasse il viso; non era più luglio ed anche il caldo iniziava ad allentare la sua morsa, lasciando spazio ad una frescura piacevole.
Dall’altra parte della strada, a due corsie per direzione, era ben evidente la famosissima Hollywood Walk of Fame. Aveva percorso quell’itinerario pubblico almeno un centinaio di volte, sempre di corsa. Eppure ogni volta sotto i suoi passi scorrevano nomi di attori e cantanti che la sua memoria classificava - allo stesso modo in cui categorizzava ed elaborava il canto degli uccelli la mattina -, senza la minima intenzione di soffermarvi sopra il pensiero più del necessario.
A proposito di ciò che aveva sotto gli occhi, gli tornarono alla memoria solo due parole: carpe diemcogli l’attimo, dal famoso film l’ “Attimo fuggente”, il cui interprete era l’indimenticato – su quel marciapiede e nella memoria dei suoi fans – Robin Williams. 
Cogli l’attimo, Samuel pensava, stringila a te più forte che puoi, lascia che ti entri nel cuore, fai un pieno di lei per i prossimi mesi che verranno.
Le sue labbra, però, bramavano solo nicotina e non ne era nemmeno dipendente. Espirò un alito di fumo e si morse il labbro inferiore; la frenesia del lavoro in redazione non lo aiutava a riscoprire la stabilità del suo sistema nervoso.
Fu sufficiente che la fidanzata si sedesse sul letto e provocasse un leggero scricchiolio delle doghe per scuoterlo.
Margaret voleva avvicinarsi a lui e per farlo indossò la camicia bianca del ragazzo; insomma, il primo indumento che le era capitato a tiro sul letto e che le consentisse di mostrarsi in pubblico senza imbarazzo.
«Ehi, cosa mi sono persa? Da quando fumi in quel modo? E soprattutto, da quando ne senti il bisogno dopo aver fatto l’amore con me? Credevo cancellasse buona parte dello stress settimanale»
Lo rimproverò con un sorriso accorciando sempre più le distanze tra loro. Era cullata dal suo profumo; quella camicia era impregnata del suo dopobarba, come del resto lei stessa, ma avrebbe tanto voluto che il loro weekend non terminasse tanto presto.
Contro l’intensa luce che filtrava nella camera attraverso l’imposta, i capelli biondi di Samuel erano inondati dal sole alto in cielo rendendoli quasi miele.
Gli stampò un bacio accanto all’orecchio, al limite tra il seducente e il casto. Non voleva certo dare spettacolo in strada, anche se non era certa che qualcuno avesse il tempo di accorgersi di due giovani innamorati al terzo piano di una qualsiasi palazzina.
Margaret non aveva ricevuto alcun tipo di risposta o di reazione, lui preferiva consumare quella sigaretta fino al filtro piuttosto di sfiorarla di nuovo, o almeno quella era l’impressione della ragazza.
«Scusami…non sono stato molto delicato»
Samuel rivolgeva lo sguardo alla strada che si estendeva in lunghezza appena sotto la finestra e lasciava che la cenere si dissolvesse nell’aria; con quella brezza non vi era pericolo che raggiungesse l’asfalto o qualche passante.
«Indelicato dici? Non me ne sono accorta. Amore, sei stato come al solito»
Forse fino a quel momento si era persa tra le sue braccia senza porsi troppe domande. Ora lo stava fissando con più attenzione e aveva notato nei suoi gesti e sul suo viso i chiari segni del nervosismo.
Avevano trascorso insieme la sera precedente, impegnati al Pershing Square a fare a gara per chi avesse visto più stelle cadenti. Lui la prendeva in giro divertito, quando non aveva idea su cosa desiderare ed era vero, aveva tutto: un lavoro – che sicuro dopo un iniziale spaesamento le sarebbe piaciuto – e un uomo che l’amava.
Qualche ora prima Samuel sembrava più tranquillo. Margaret non conosceva molte spiegazioni valide, solo il matrimonio imminente, la cerimonia e tutto ciò che comportava avrebbe potuto destabilizzarlo. D’altronde anche lei, se si fosse soffermata a pensarci, avrebbe provato tanta eccitazione.
La ragazza provò a distendere la tensione, alludendo ad uno dei risvolti più affascinanti della cerimonia, o almeno per lei era così, sperando che l’argomento di distrazione fosse piacevole anche per lui.
«Oggi pomeriggio vado a scegliere il vestito con mia madre. Avrei chiesto a te di accompagnarmi, ma corre voce che lo sposo non possa vederlo prima del grande giorno»
Non riuscì a contagiarlo come sperava con il suo entusiasmo. Samuel si era limitato ad annuire, distratto da pensieri a lei totalmente sconosciuti. Dubitava avesse problemi con il giornale, talmente grandi da dichiarare il silenzio stampa con la fidanzata; nemmeno che avesse discusso con il padre, il dialogo con lui era talmente scarso da rendere impossibile persino una lite tale da affossare il suo umore.
«Hai preferenze? Scollature, pizzo, strascico, velo? Puoi darmi qualche suggerimento, se ti fa piacere»
Il suo promesso non stava facendo una piega. L’unico movimento era quello delle due dita che si portavano la sigaretta verso la bocca.
«In effetti posso provare a vedere se nel mio guardaroba ci sia qualcosa di adatto per una cerimonia, invece di spendere soldi per un abito che indosserò solo una volta. Non so, magari qualcosa di blu o rosso, meglio se nero come il tuo umore questa mattina»
Benché Margaret cercasse in tutti i modi di mettere alla prova la sua attenzione, il ragazzo non sembrava intenzionato a considerare la sua presenza.
La stava infastidendo terribilmente il suo menefreghismo. Non la rendeva partecipe dei suoi pensieri e nemmeno mostrava interesse per quelli di lei.
Gli tirò un manrovescio stizzoso sull’avambraccio, forse sentendo dolore sarebbe risorto dalla realtà parallela in cui era immerso. Per poco quel colpo non gli fece scivolare il mozzicone dalla bocca, una conseguenza che lo infastidì.
«Cosa c’è? Si può sapere cosa vuoi?»
«Samuel, non stiamo iniziando per niente con il piede giusto. Tra quindici giorni diventerò tua moglie e tu non mi ascolti nemmeno quando parlo. Sto forse pretendendo troppo?»
«Ti ho ascoltata. Mi stavi parlando di…tua madre, deve accompagnarti da qualche parte»
«A scegliere il vestito da sposa, per la precisione»
«Certo, sì…sarebbe meglio aspettare, non credi?»
Il giovane davanti a lei aveva detto quattro parole in croce e tre su quattro le avevano ispirato indifferenza, la restante una punta di timore.
Ma era lo stesso ragazzo che appena un anno prima le aveva chiesto di sposarlo sulle rive del fiume con in tasca il solitario che ora portava con orgoglio all’anulare? Cosa poteva averlo sconvolto tanto da arrivare addirittura a perdere interesse per il giorno più importante della loro vita?
A lei era parso che quella mattina l’avesse amata come il primo giorno. Si era sentita davvero amata dal suo promesso, aveva notato solo dopo il suo cambiamento e la sua improvvisa freddezza.
«Aspettare cosa, scusa? Non credo di aver capito»
Samuel fece un ultimo e profondo tiro prima di spegnere e buttare il mozzicone fuori, incurante dei passanti, aveva problemi più rilevanti. Prese un prolungato sospiro con la scusa del fumo che inondava le sue vie aeree. Quando si voltò verso di lei, incontrò la sua fronte corrucciata e gli occhi ebano sconvolti puntati sul suo viso.
«Maggy, tra quindici giorni non sarò a Los Angeles»
«E dove…»
«A Kabul, come corrispondente per il Los Angeles Times»
Scese il gelo tra loro, il venticello di quella mattina in confronto era il deserto del Sahara.
Samuel visse in una sorta di limbo per qualche secondo, senza sapere come la ragazza avrebbe reagito, era apatica e immobile come una statua di sale.
«Mi hai fatto organizzare il matrimonio fino a ieri. Cosa ti costava dirmelo prima?»
«Margaret, non è facile nemmeno per me parlartene e accettarlo»
La giovane si portò le mani sulla bocca cercando di trattenere la commozione per quella notizia. Non voleva cedere davanti a lui, non lo meritava, non dopo quell’affronto, quell’abbandono.
Afferrò i pantaloni e le scarpe, cercando di riscoprire la sua dignità. Lì indossò in fretta e furia, sfogando in quelle azioni tutta la sua frustrazione. Allacciò meglio la camicia candida in forte contrasto con la chioma mora e titubante afferrò il pacchetto di sigarette del fidanzato; era lei ora ad avere un disperato bisogno di nicotina.
«Dove stai andando? Hai smesso anni fa, non fare sciocchezze»
Le strappò le sigarette dalle mani e provò ad incrociare severo il suo sguardo, sfoderando l’unica arma con la quale aveva qualche possibilità di calmarla: i suoi occhi nocciola venati da sfumature d’orate erano la più grande attrazione per la ragazza.
Margaret resse il rimprovero senza troppi problemi, anzi era talmente arrabbiata che riuscì quasi a sovrastarlo.
«Lo fai per tuo padre, vero?»
«Cosa? Cosa c’entra mio padre ora?»
«Ci tieni a sentirti dire quanto sia orgoglioso di te»
«Quando mai mio padre sarebbe stato orgoglioso di me?»
«Appunto, mai, hai solo trovato il pretesto»
Recuperò le sigarette. Non le importava nulla di chi fosse il proprietario, lei ne aveva bisogno per causa sua e gliele doveva.
«Grazie, ma alla mia salute posso pensare anche da sola»
Si avviò verso la porta spalancandola con un grande tonfo – non era casa sua ma negli ultimi sette anni era come se lo fosse stata – e imboccò le scale con determinazione.
Samuel perse solo qualche istante per riflettere sulle parole della fidanzata. Avrebbe voluto darle torto con sicurezza, ma lui non riusciva ad essere abbastanza obiettivo, quell’uomo era sempre stato per Samuel la sua più grande debolezza.
Era verosimile, però, che il rapporto assente e tanto desiderato con suo padre influisse su una scelta simile?
«Margaret! Amore, ti puoi fermare un minuto?»
Le corse dietro, in quel momento voleva solo impedire che imboccasse l’uscita.
La ragazza si voltò a metà scalinata, interrompendo a lui bruscamente il cammino e iniziò a guardarlo con sospetto dal basso verso l’alto.
«Per quale ragione non mi hai chiesto un parere?»
Non sapeva risponderle. Le sue ultime affermazioni così convinte e all’apparenza ragionevoli per il modo in cui le esponeva lo avevano spiazzato e zittito.
«Capisco. L’opinione di tuo padre è più importante»
Si sentì offeso. Come poteva pensarlo? Quella ragazza gli era stata accanto molto più di quanto non avesse fatto suo padre in una vita intera. Non erano soliti litigare, ma quello era l’oggetto principe delle loro discussioni.
Margaret non aveva mai dubitato della passione del fidanzato per il giornalismo, ma il padre aveva troppa influenza sulle sue scelte. Sperava così di conquistare un angolo del cuore di quell’uomo, di farsi voler bene, visto che non glielo ricordava mai o non si interessava alla sua sfera privata.
La ragazza lo aveva sempre ascoltato, lo aveva sostenuto e cercato di colmare le sue sofferenze, ma era troppo per lei accettare che assecondasse Daniel prendendo decisioni così pericolose per la sua incolumità e il loro rapporto, specie se rischiava di mandare a monte un progetto di vita in comune. Cosa peggiore, Samuel si era sempre ostinato a negare il giogo che il padre manteneva su di lui, per quanto lei di tanto in tanto gli facesse quell’appunto, rispolverando il suo ruolo di amica. Il ragazzo mostrava sempre e solo un’inconscia volontà di diventare per Daniel un figlio amato e di conquistare l’affetto che gli mancava.
«Stai vaneggiando, mio padre non c’entra nulla, non mi ha ordinato lui di andare in Afghanistan…a lui importa poco quello che faccio»
La fece sorridere sarcastica. Sul fatto che a Daniel non importasse dell’incolumità di suo figlio erano d’accordo, ma come di consueto Samuel tendeva ad escluderlo dalla discussione.
Iniziava a credere che il fidanzato avesse qualche serio problema di autostima, si sentiva in difetto con quell’uomo, ma non lo avrebbe mai ammesso.
«Avrebbe potuto in qualsiasi momento risparmiarti la guerra, lo sappiamo entrambi, ma non ha voluto. Richiamami quando avrai vinto contro i fantasmi del tuo passato»
Daniel era prossimo alla pensione, era una delle ultime occasioni – forse la più grande – per dimostrare a suo padre di valere come figlio e uomo.
La ragazza non riusciva a dimostrargli quale fosse la scelta più saggia e a fargli capire chi tenesse davvero alla sua vita.
Gli lanciò le sigarette prendendolo in contropiede. Assorto nei pensieri, le intercettò per un soffio.
«Non vale la pena rovinarsi la salute per te»
Almeno su quel punto erano d’accordo.
«Margaret, non è vero niente. Ascol…»
La ragazza non tornò sui suoi passi. Doveva calmarsi lontana da lui e dal suo persistente negazionismo.
Appena prima che lei riuscisse a sfiorare la maniglia, la porta si aprì dall’esterno rivelando i movimenti discreti della padrona di casa, la quale temeva di disturbare i due giovani. La donna, dall’aspetto affabile e distinto – Margaret non era mai riuscita a capacitarsi del fatto che stesse con Daniel –, rimase perplessa alla vista della nuora.
«Buongiorno, signora Clark. Spero stia bene»
La ragazza passò accanto alla suocera a testa bassa, uscendo rapida. Quest’ultima era rimasta ammutolita per qualche secondo; faceva vagare lo sguardo dalla porta al figlio in cerca di risposte. Conosceva quella giovane da quando era ancora un’adolescente, avevano un rapporto di stima reciproca; non le avrebbe mai negato un dialogo, a meno che non ci fosse una ragione grave e motivata.
«Tutto bene? Non ho mai visto Margaret in quello stato»
Ora Samuel dopo la scenata della fidanzata si vedeva costretto ad informare anche la madre della partenza; era convinto che suo padre, un uomo di poche parole, non lo avesse ancora fatto. Non voleva che il rapporto con la sua fidanzata precipitasse proprio in un momento in cui la distanza non li avrebbe aiutati a risanarlo.
Non voleva perdere il suo amore e la sua amicizia. Non voleva perderla, prima ancora che pensasse la guerra a separarli per sempre.
«Mamma, ti devo parlare e forse è meglio se ci sediamo»
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Non appena Margaret richiuse la porta di casa, il nodo in gola che non smetteva di bruciarle era salito fino alla congiuntiva.
Aveva girato la chiave nella serratura con mano tremante. Solo dopo aver messo piede sul pavimento, si accorse di essersi trascinata dietro la camicia di quel giovane e con essa anche il suo profumo, che, a seguito delle ultime notizie ricevute, era diventato fastidioso.
Stava male e non sarebbe riuscita a nasconderlo nemmeno ai suoi familiari.
Ebbe bisogno di qualche istante per realizzare cosa realmente l’avrebbe attesa nei prossimi mesi.
Lui non era mai stato in guerra, possibile non avesse paura? Lei per il fidanzato, acquietata la rabbia, avvertiva una drammatica impotenza per le sue sorti e ciò le stava attanagliando le viscere.
Nella fretta non gli aveva nemmeno chiesto per quanto tempo sarebbe stato via, l’ira aveva acceso le sue vene prima che potesse farlo.
Daniel avrebbe preferito piangere suo figlio, pur di dichiararlo codardo e Samuel non lo capiva, non era mai stato in grado di vedere il reale stato delle cose. Margaret non era mai riuscita nell’impresa.
Avrebbe dovuto immaginare che quel giorno sarebbe prima o poi arrivato, quella divergenza di idee li avrebbe allontanati. Solo non a quindici giorni dal loro matrimonio e con l’incombente incertezza di una guerra.
Si chinò ai piedi della porta d’ingresso e lasciò alle lacrime il tempo di scorrere in silenzio, pensando a come poter evitare che quello screzio rovinasse gli ultimi due anni di relazione e il loro rapporto.
Ripensandoci, un tiro lo avrebbe fatto volentieri. Oltre al dolore di dover disdire tutto per la cerimonia, nessuno di loro due aveva la piena certezza che quel matrimonio si sarebbe celebrato; Samuel non poteva darle la garanzia di tornare a Los Angeles sano e salvo.
Impuntò i gomiti sulle ginocchia e si coprì il volto con entrambi i palmi. Lo aveva incentivato a diventare giornalista, per perderlo sotto il cielo grigio di Kabul? Era troppo persino per una donna che si riscopriva spesso essere una spalla su cui piangere.
«Maggy, tesoro. Cos’è successo?»
Avvertì il tono comprensivo della madre e subito dopo il suo tocco confortante tra i capelli.
I suoi genitori erano al corrente del fatto che fosse uscita di casa presto per trascorrere quel sabato mattina con il suo fidanzato. Era sufficiente per loro un semplice collegamento, per giungere alla conclusione di una lite tra i due promessi.
«Margaret»
Sentì la voce profonda del padre a pochi centimetri da lei. Anche lui doveva essersi chinato, per cercare di capire e di consolarla. Le bastò percepire la presenza dell’uomo che l’aveva messa al mondo per insinuarsi nella mente un nuovo tarlo.
Scoprì gli occhi e puntò le iridi umide proprio su quell’uomo.
«Tu lo sapevi. Sapevi che a Samuel era stato proposto quel reportage»
«Giravano voci in redazione, ma non sapevo, Maggy, che Daniel volesse proporlo a suo figlio. Non credevo potesse arrivare a questo punto, piccola. Mi dispiace»
Suo padre aveva mantenuto una voce calma, le uniche incrinature riguardavano il dispiacere per la sofferenza che sua figlia stava provando.
La madre ascoltò in silenzio e trovò utile contenere fisicamente la forte delusione di Margaret. Si avvicinò a lei e la invitò a sfogarsi sulla sua spalla. La ragazza declinò l’invito, asciugandosi le lacrime con la manica troppo lunga della camicia che indossava.
Non era quello il tempo di lasciarsi sopraffare dai sentimenti.
Samuel avrebbe potuto scegliere, nessuno era obbligato ad accettare una trasferta simile, lui compreso. Non era più un bambino che elemosinava le attenzioni del padre, attaccandosi alla stoffa dei suoi pantaloni, era un giovane uomo prossimo al matrimonio.
La fidanzata non era semplicemente tra le sue priorità, ecco tutto. Quel ragazzo aveva troppe questioni irrisolte del suo passato per iniziare insieme a lei una nuova vita.
Margaret si alzò, ignorando il supporto che i suoi genitori le stavano offrendo. Avrebbe dovuto prepararsi psicologicamente per affrontare i mesi successivi.
Nessuno era certo che il matrimonio si sarebbe un giorno celebrato o se quella disdetta sarebbe stata definitiva.
Rabbia e preoccupazione le attanagliavano il cuore. Desiderava solo sfilarsi quella camicia e lavare via il suo profumo dalla pelle; faceva troppo male sentire addosso i segni di un amore così grande che avrebbe rischiato di perdere per sempre.
 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici!

Per rendere il tutto più realistico, mi sono premurata che l’11 agosto 2018 fosse davvero un sabato.
Spero di non essermi dilungata troppo, ma tenevo a presentarvi nel modo più completo possibile i personaggi di Los Angeles, anche se non saranno i soli.
Ringrazio di cuore tutti coloro che mi seguono! ❤️
 
Alla prossima!
Un abbraccio,
Vale
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3_Verso il fronte ***


Verso il fronte




 
San Diego; 17 agosto 2018
 
In una villa modesta distante pochi chilometri dall’Oceano Pacifico, la mattina stava trascorrendo come se il normale scorrere del tempo avesse subìto un arresto e una clessidra dai risvolti drammatici stesse inesorabilmente terminando la sabbia della serenità e della felicità.
Lo specchio della camera – appeso alla parete tappezzata da carta da parati dai colori freddi e marini – rifletteva l’immagine di un uomo già spossato, prima ancora di affrontare i ritmi irrefrenabili e disumani della guerra. Christian aveva vissuto la maggior parte delle notti che lo separavano dalla partenza in bianco.
Era l’alba. Alle 6:14 a.m., i primi timidi raggi di sole avevano fatto capolino sulla superficie dell’oceano. Alle 7:00 a.m., Christian era quasi pronto per prendere il suo volo.
Aveva un lunghissimo viaggio da affrontare. Solo per raggiungere la base dell’aeronautica statunitense, situata nello Stato della California, erano necessari più di 300 km, che aveva deciso di percorrere riservandosi un taxi.
Aveva stimato poco più di tre ore per raggiungere l’Edwards Air Force Base. Alle 11 a.m., era in programma un decollo privato che lo avrebbe trasportato alla base aerea di
Bagram, a poco più di un’ora e mezza di viaggio da Kabul, dove avrebbe soggiornato per nove mesi.
Katherine si era svegliata presto insieme a lui. Gli aveva preparato un’abbondante colazione con la speranza che gli desse le energie necessarie per affrontare le interminabili ore di viaggio. Non era più riuscita a chiudere occhio, nonostante il suo turno in spiaggia iniziasse solo nel primo pomeriggio.
Il Navy SEAL era pallido: quell’ultima levataccia all’esordio della partenza non giovava alla salute, dopo una settimana di insonnia.
Il suo arrivo alla destinazione finale era previsto per il mattino seguente, considerata la quasi mezza giornata di fuso orario che avrebbe trovato a Kabul, quando a San Diego sarebbe stata notte fonda. Il tutto rigorosamente senza l’ausilio della caffeina, l’aereo e un naturale stimolante avrebbero portato al collasso il suo sistema nervoso. La sua carnagione abbronzata – segno tangibile del confine naturale settentrionale di San Diego con il Messico - quella mattina era in contrasto netto con la divisa nera da ufficiale della Marina Militare americana. A differenza di sua moglie, non si era potuto permettere di cedere davanti alla famiglia, anzi nell’ultima settimana era stato per Katherine e Alisia una solida colonna portante.
Cedeva, però, in solitudine, lontano da occhi indiscreti, che fossero quelli innocenti delle due donne della sua vita oppure quelli dei suoi sottoposti e colleghi. Christian, a parte William, non aveva altri con cui sfogare i propri pensieri e non si sentiva in coscienza neppure di assillare l’amico in continuazione.
Christian e Katherine avevano dovuto cercare il modo migliore per comunicare alla figlia la partenza e l’assenza del padre. Avevano trovato strategico non informare Alisia dei mesi che li avrebbero separati; per quanto fosse piccola, fino a nove era in grado di contare e sapeva anche che era una grande quantità. La bambina pianse, come era prevedibile e inevitabile che fosse, non appena capì che per diverso tempo non avrebbe rivisto il suo papà.
Era una mattinata strana per Christian, come se la paternità gli infondesse continue sensazioni che facevano da sfondo alla missione che stava per intraprendere. Era assurdo, gli ormoni della gravidanza avrebbero dovuto lasciare un segno tangibile solo a Katherine.
L’ufficiale stava indossando la sua elegante uniforme. Per lui non era mai stata solo una fitta trama di maglie di stoffa; aveva sempre ostentato le stelle cucite sul colletto con rispettoso orgoglio e patriottismo. Quella volta le sue dita non si decidevano ad imbroccare le asole giuste dei bottoni. Era come se inconsciamente sentisse che il suo Paese gli stesse chiedendo un sacrificio troppo elevato; non a caso negli ultimi anni non aveva preso parte a missioni così remote e rischiose.
Posò entrambi i palmi sul ripiano del mobile sotto lo specchio e cercò di calmarsi. Non era lo spirito giusto per affrontare i Talebani e nemmeno il momento migliore per dare libero sfogo alla sua frustrazione. Avrebbe dovuto salutare la sua famiglia ed era categorico mostrare tutta la serenità possibile.
Lasciò che pensieri positivi invadessero la sua mente. Qualche bel vissuto non fece fatica a riaffiorare.
Ricordava il giorno in cui la sua bambina era nata come se fosse successo pochi giorni prima. Era in mare aperto quando il suo telefono squillò, non era né una chiamata né un semplice messaggio pieno di parole, c’era un video allegato e inviato da sua moglie sul suo numero privato. Christian era partito, credendo mancasse ancora qualche giorno al parto, così era stato comunicato loro dal ginecologo in occasione dell’ultima ecografia. Invece Katherine lo aveva messo davanti al fatto compiuto, in effetti avvisare lui della rottura delle acque sarebbe stato inutile, era molto più logico chiamare un’ambulanza.
Anche se quel pomeriggio di sei anni prima Christian non era accanto alla sua famiglia, sapeva che Alisia era venuta al mondo alle 2:12 p.m. al Rady Children’s Hospital – esattamente dove avrebbe accompagnato lui stesso Katherine se non fosse stato in servizio – e pesava 2,7 kg.
Non trovandosi sulla terra ferma, passò il resto della giornata a scalpitare; attendeva solo il momento in cui avrebbe potuto stringere tra le braccia sua figlia e sua moglie. Nel frattempo aveva consumato la carica della batteria del telefono rivedendo in loop il video, in cui Katherine con un sorriso stanco e i capelli sulla fronte arruffati dal sudore inquadrava la neonata e gli ripeteva Congratulazioni, papà.
Aveva conservato il video di quel giorno come fosse una reliquia; si premurava di salvarlo su ogni nuovo dispositivo. Quel file riportava le 2:15 p.m., sua figlia aveva solo tre minuti di vita e non faceva alcuna fatica a crederlo, le ostetriche non avevano avuto il tempo di lavarla, eppure aveva già un nome, quello che i genitori della piccola avevano da tempo scelto insieme.
Il breve video si concludeva con poche parole Io e Alisia ti aspettiamo. Torna presto, capitano.
Colse l’occasione della divisa ancora slacciata per recuperare dal taschino interno il suo portafogli. Passò in rassegna i documenti, fece un controllo veloce, ma ciò che gli premeva di più era una foto di famiglia che lo accompagnava in ogni suo viaggio, che dalla nascita della bambina si limitava sempre alle dodici ore. Avevano immortalato la prima festa di compleanno di Alisia e in particolare il momento in cui la piccola avrebbe dovuto spegnere la sua candelina. In suo aiuto erano accorsi la mamma e il papà e anch’essi comparivano nella foto.
Avevano festeggiato insieme altri cinque compleanni dopo quel 7 giugno 2013. Chissà se anche il prossimo sarebbe stato al loro fianco.
Riemergendo dai ricordi più felici che la memoria conservasse, inquinati dalla triste realtà, ripose con cura la foto insieme al portafogli.
In procinto ormai di rivivere l’esperienza bellica, gli premeva anche altro. Non voleva lasciare nulla al caso e dubitava che dopo essere salito su un qualsiasi mezzo volante, ricordasse ancora le sue premure.
Aprì con delicatezza il portagioie della moglie e cercò una qualsiasi catenina che non fosse già occupata da un ciondolo.
«Cosa stai cercando? Ti bastava chiedere, lo sai. Se hai bisogno di qualcosa, ti aiuto volentieri»
Quando avvertì la voce perplessa della moglie, richiuse spaventato il cofanetto. Non stava facendo nulla di male, Katherine non lo stava rimproverando in alcun modo, ma i nervi di Christian erano talmente tesi da saltare per ogni minimo spostamento d’aria.
«Scusa…non volevo frugare tra le tue cose»
Era quasi imbarazzato per quell’intromissione. Aveva lo sguardo della donna puntato addosso in attesa che lui esplicitasse i suoi pensieri.
«Mi servirebbe una catenina, di qualsiasi materiale. Vorrei evitare di perdere o rovinare la vera, così ho pensato di portarla al collo sotto i vestiti»
Katherine lo ascoltò con attenzione senza dare un proprio giudizio. Riaprì il portagioie, facendo mente locale sugli oggetti in suo possesso. Quando finalmente trovò qualcosa che potesse fare al caso del marito, gli allungò la mano invitandolo a passarle la fede.
Mentre Christian riprovava ad allacciare i bottoni simulando sicurezza, Katherine preparava quel pendente, facendo fare un paio di giri di corda intorno all’anello per accorciarla. Gli fece cenno di chinarsi in avanti per poterla legare al suo collo.
Christian perse solo qualche istante a far scivolare quel ciondolo tra le dita, dopodiché lo nascose sotto la divisa; era convinto che lì il bene più prezioso che lo accompagnava in guerra fosse al sicuro, almeno fino a che nelle sue vene scorreva la vita.
Nessuno dei due coniugi sapeva come commentare quel momento e congedarsi. Mancavano loro anche le più banali parole e le formule di saluto più informali. Sembrava paradossale che dopo poco meno di dieci anni di pace la loro felicità fosse messa a dura prova.
Christian si schiarì la voce e provò ad evitare che i loro saluti si trasformassero in uno strazio.
«Kabul è avanti di undici ore e trenta, ciò significa che quando a San Diego sarà notte o comunque prima mattina, da me sarà giorno. Sarà più difficile per entrambi sentirci, quindi se ho la possibilità mi prendo cinque minuti la notte per potervi vedere e sentire. Credo che la soluzione migliore sia trovare un momento in cui tu non sarai impegnata in spiaggia. Io faccio il possibile per liberarmi. Sia chiaro, non resto nove mesi senza farmi vivo»
Era un desiderio condiviso e a Katherine fece piacere sapere tutto ciò che aveva organizzato per riuscire a non perdere i contatti con la sua famiglia. Peccato non si fosse premurato di tenere in nota anche i quotidiani imprevisti del conflitto armato. Era fin troppo ottimista.
«Hai preso tutto ciò che potrebbe servirti?»
«Credo di sì…cellulare, portafogli, caricabatterie, valigia…non dovrebbe esserci altro. Al massimo inviamelo alla base di Bagram»
Le sorrise. Ciò, però, non bastò a distendere le rughe di preoccupazione che increspavano il viso candido della moglie.
La donna gli diede un leggero colpo sul petto con il palmo aperto e subito dopo trasformò quel gesto in una carezza.
«Sicuro di non volerci in aeroporto?»
«Più che sicuro. Preferisco salutarvi a casa. È un viaggio troppo lungo per la bambina fino alla base aerea»
Katherine sapeva che non era l’unico motivo per il quale aveva deciso di affrontare la partenza da solo. Non voleva prolungare quel distacco e renderlo un’agonia senza fine, soprattutto per sua figlia.
Christian troncò l’argomento, infilando una mano nella tasca dei pantaloni e porgendole il suo mazzo di chiavi.
«Meglio che le tenga tu. Il rischio di perderle è troppo alto»
Le affidò, come ormai da anni faceva, tutto ciò che aveva; tranne la sua vita, quella non era nelle mani di loro presenti, ma di persone che non lo avrebbero trattato come un loro pari.
«Sono più di dodici mila chilometri da qui in aereo, quindi più di tredici ore di volo e tu hai una dannata fobia dell'aereo. Hai in valigia gli ansiolitici?»
«Kathe, non ne avrò bisogno»
«Sì, invece. Negarlo non ti farà stare meglio ed io non ti sarò accanto»
Aveva smesso di ascoltarla, non appena la conversazione si era spostata sui suoi frequenti attacchi di panico in volo. Aveva preferito concentrarsi sul ciuffo di capelli ondulati che le ricadeva su un lato e poi sul petto, inondando con quei crini la scollatura lievemente accentuata della camicia da notte.
«Fammi un favore. Non tagliare i capelli in questo periodo, li adoro esattamente come sono»
«Chris, è importante che tu...»
Spostò la mano dai capelli alla guancia della moglie. Avvicinò le labbra alle sue, stampando sopra un bacio casto e ricco di sentimento.
«Papà»
La voce triste e assonnata della bambina non interruppe chissà cosa in fondo, anzi Christian fu grato ad Alisia per averlo salvato dai rimproveri della moglie.
Andò incontro alla piccola con un sorriso, accarezzando le spalle di Katherine.
Recuperò il cappello dal comò. Si inginocchiò all’altezza di Alisia e la avvicinò a sé circondandole la vita.
La bambina si stropicciava gli occhi per la stanchezza, ma l’ansia per la partenza del papà era stata preponderante. I suoi genitori furono costretti ad informarla della partenza imminente, anche se ciò le avrebbe procurato una notte agitata.
«Tesoro, sarei passato io a salutarti. Non me ne sarei andato senza farlo»
La bambina gli sventolò davanti un foglio e lo invitò ad afferrarlo. Alisia fissava il padre, in attesa che lui interpretasse il suo disegno. Non era difficile, in fondo: erano rappresentati loro insieme a Katherine, davanti ad un cielo stellato.
Voleva che suo padre ricordasse l’ultimo desiderio che aveva rivolto ad una stella cadente. Christian le sorrise commosso, non doveva piangere, ma sua figlia gli stava rendendo quell’impresa impossibile.
«Così non ti dimentichi di me e ti senti meno solo»
«Posso davvero portarlo con me?»
Solo quando la figlia gli ebbe dato la sua autorizzazione, piegò il foglio sottile stando ben attento a non strapparlo e lo ripose nella tasca della divisa che si trovava all’altezza del cuore.
Le diede un grande bacio sulla guancia, percependo al tatto che era ancora inumidita dalla notte insonne appena trascorsa. Per provare a farla sorridere, la invitò ad afferrare il suo cappello.
«Me lo metti tu?»
Glielo fece indossare un po’ storto, ma Christian non ci fece molto caso, si premurò solo di spostare la visiera dagli occhi.
L’ingenuità della piccola di casa fece sorridere Christian e Katherine. La sua presenza era un dono del cielo, aveva un meraviglioso effetto benefico sui suoi genitori. Era uno scricciolo, mostrava meno della sua età e i suoi occhi di un intenso azzurro cielo suscitavano una bontà più radicata di quella infantile che gli anni avrebbero portato via.
La sensibilità della bambina in quell’occasione, però, le faceva provare una grande sofferenza. Christian conosceva quel lato di sua figlia, uno dei motivi per il quale temeva i saluti e aveva preferito che se li fossero scambiati dentro quelle mura.
Non riusciva neanche a contemplare la possibilità di non rivedere più la sua Alisia. Le porse una carezza tra i boccoli castani, così simili a quelli della mamma.
«Ciao, amore mio»
Quando vide che la bambina non cessava di singhiozzare, si alzò, la sollevò e la strinse forte al petto. Non ricordava di essersi allontanato da lei per così tanto tempo e nemmeno di aver intrapreso una missione tanto lontana o pericolosa, da quando aveva creato la sua famiglia insieme a Katherine. Era logico che alla parola mesi la bambina sarebbe entrata in crisi.
Le sussurrò vicino all’orecchio, visto che lei era avvinghiata al suo collo.
«Alis. Mi devi promettere che qualunque cosa accada, neanche tu mi dimenticherai. Resta accanto alla mamma. Quando è triste, abbracciala forte anche per me»
La figlia, tra le lacrime con cui gli stava inondando la divisa, gli fece un lieve cenno di assenso.
«Brava, piccola»
Le rinnovò un bacio. Delicatamente sciolse l’abbraccio, invitando Katherine a prenderla.
Riservò un ultimo abbraccio anche alla moglie.
«Aspettami, Katherine»
«Mi troverai qui, esattamente come ci siamo lasciati»
Le lasciò un bacio sul collo. Si congedò da loro, porgendo un’ultima carezza sul braccio della bambina.
«Chris!»
Si bloccò, appena prima di togliere la mano dallo stipite della porta. Tornò indietro di qualche passo.
«Cosa c’è? Ho dimenticato qualcosa?»
«Avvisaci quando arrivi. Ricordalo, noi aspettiamo tue notizie»
Le regalò un sorriso, per stemperare la preoccupazione sul volto di lei.
Il taxi lo stava già attendendo davanti alla villa insieme ai suoi pochi bagagli.
Il tempo dei saluti era terminato.

 
 
Los Angeles; 17 agosto 2018
 
La redazione del Los Angeles Times era diventata per Samuel una seconda casa, ancor prima di concludere il college. Aveva imparato in quell’edificio buona parte delle procedure redazionali, durante la sua adolescenza. Yale aveva solo affinato le sue conoscenze, affiancandole alla pratica.
I giornalisti, che dopo il conseguimento del suo titolo di laurea erano diventati colleghi, erano stati per anni amici e mentori senza i quali il suo percorso non sarebbe stato altrettanto proficuo.
Non possedeva un vero e proprio ufficio. Non perché avesse iniziato solo da pochi mesi la sua avventura come giornalista professionista.
Il piano che ospitava lui e gli altri cronisti si estendeva lungo uno spazio talmente ristretto da escludere l’esistenza di una qualsiasi stanza privata con porta e finestra.
L’unico, ovviamente, a potersi permettere un ufficio – anche abbastanza ampio - era il direttore; un angolo di mondo nel quale sfogare in solitudine tutta la propria frustrazione nei sigari. Daniel non era solo poco incline alle dimostrazioni d’affetto – a suo avviso superflue -, era anche un perfezionista nel suo lavoro e questo aumentava il suo stress; in pratica era intrattabile per la maggior parte del tempo.
Dall’altra parte della stanza, un cartello a caratteri cubitali affisso alla parete ricordava a Samuel il divieto di fumare in luoghi pubblici. Una postilla quasi illeggibile sottolineava che quella legge era stata emanata dal governatore dello Stato della California appena un mese prima, impedendogli di distendere la tensione. D’altronde non possedeva i privilegi del capo al sesto piano, che lui stesso si era arrogato; era solo suo figlio, il novellino del terzo piano, a cui era stata affidata una missione più grande di lui e della sua esperienza sul campo.
Il neo giornalista aveva in dotazione una scrivania posizionata in un angolino di quei pochi metri quadri di pavimentazione e non avrebbe nemmeno avuto l’ardire di pretendere di più, in quanto ultimo arrivato. Sul suo prezioso piano di lavoro, aveva già scritto decine di articoli. Grazie all’entusiasmo e alla passione per quel primo e vero impiego, non aveva mai carenza di parole o di curiosità verso il mondo. Dubitava, però, che ciò fosse sufficiente per ricevere un piccolo accenno di consenso da parte di Daniel, il quale si limitava ad approvare e a pubblicare gli articoli del figlio.
La mattina della sua partenza, Samuel aveva raggiunto la redazione, desideroso di lasciare in ordine la sua scrivania e i lavori incompiuti di cui si stava occupando nell’ultimo periodo; avrebbero dovuto attendere mesi prima della pubblicazione. Tra le dita del giovane passarono le sue bozze. Ad una, in particolare, teneva molto. Erano passati duecento quarantadue anni dalla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America[1], Samuel aveva preso l’iniziativa di dedicare a questo proposito un approfondimento sul Los Angeles Times. Non aveva ancora informato il direttore Clark di quel progetto, non era certo della sua riuscita, e non lo avrebbe fatto fino al suo ritorno.
Il resto delle bozze riguardava l’ordinaria amministrazione: furti, rapine, sparizioni…nulla che desse forti scosse all’ordine pubblico o allarmasse più del dovuto la cittadinanza.
Nel primo cassetto, ripose la cartellina blu elettrico, nella quale aveva sistemato con ordine i suoi lavori. Nessuno avrebbe affermato che fosse figlio di suo padre, prima di conoscere la spiccata e maniacale propensione all’ordine di entrambi; uno dei pochi privilegi – molti avrebbero avuto questa percezione – di Daniel.
Samuel avrebbe raggiunto la base aerea Edwards Air Force Base. Era una base dell’aeronautica statunitense, che si trovava nella California del Sud.
In nessun altro luogo si sarebbe sentito così tanto fuori posto. Il tragitto sarebbe stato relativamente breve – solo un’ora e mezza di auto –, ma di certo affrontare un volo di più di tredici ore tra militari non era tra le sue aspirazioni più elevate. Avrebbe forse potuto iniziare da lì la cronaca del suo viaggio, ma era sicuro che la soggezione avrebbe impregnato l’atmosfera, vanificando i suoi propositi.
Avendo in programma di partire direttamente dalla redazione, era uscito di casa portando con sé i suoi effetti personali.
Non era esperto del Continente asiatico. Da buon giornalista, aveva effettuato in rete quante più ricerche possibili per non farsi trovare del tutto impreparato. Per scegliere, ad esempio, quali indumenti gli sarebbero serviti in quel paese remoto, gli era stato utile cercare il clima che lo avrebbe atteso in quelle zone; si scoprì piacevolmente sorpreso di sapere che sotto quei termini non era poi così distante dalla California.
Ciò che Samuel stava per intraprendere aveva una definizione specifica: giornalismo di guerra. Il nome era emblematico; lui, effettivamente, andava in guerra, immergeva corpo e anima in quel conflitto, con l’unica differenza che non possedeva armi per difendersi in caso di attacco alla sua incolumità personale. Samuel era solo munito dell’attrezzatura occorrente per svolgere un reportage in territorio di guerra. Nulla di più.
Nonostante il tabacco gli avesse fatto compagnia nei giorni scorsi, dovette rinunciarvi in quell’ambiente chiuso e rimanere da solo davanti allo schermo scuro del cellulare.
Aveva inviato a Margaret più di dieci messaggi senza risposta e collezionava altrettante chiamate rifiutate. Non poteva più aspettare però. Con tutta la buona volontà del mondo, non poteva più lasciarle con pazienza il tempo di assimilare e accettare quella notizia.
Per come la ragazza si era comportata negli ultimi giorni, sembrava che stesse elaborando un lutto che richiedeva troppe fasi di passaggio. A breve sarebbe partito e per mesi non l’avrebbe rivista, non voleva lasciare una discussione in sospeso, specie se la destinazione era l’Afghanistan.
Non vedeva la fidanzata da una settimana. Ogni volta che andava sotto casa sua, si faceva negare dai genitori.
Nessuno meglio di lui avrebbe potuto comprendere la sofferenza per quel matrimonio da annullare. Lo avevano organizzato insieme. Avevano scelto persino le fedi: due anelli in oro giallo con incisi i loro nomi e quella data, 25 agosto 2018. Lui sarebbe stato troppo lontano e non voleva nemmeno pensare quale fosse il destino del simbolo della loro unione.
Mancavano solo i loro abiti da cerimonia. Era riuscito sul filo di lana almeno a risparmiarle la sofferenza della prova del vestito da sposa. Anche se avevano ormai un piede sull’altare e il sogno di Margaret di sposarsi un sabato pomeriggio di fine agosto nella Cattedrale di Nostra Signora degli Angeli si era ormai infranto.
Samuel era perfettamente consapevole del dolore e del giro di chiamate che era spettato alla fidanzata e alla sua famiglia per bloccare la cerimonia e tutto ciò che ne comportava fino a data da destinarsi.
Ciò che la sua ragazza, però, non sapeva, e forse nemmeno immaginava, era la settimana che aveva trascorso lui tra le mura domestiche in compagnia dei suoi genitori. Saputa la notizia della missione, la signora Clark aveva iniziato a lanciare minacce di divorzio al marito ogni ora, sicura che l’unico e assoluto colpevole fosse Daniel. Samuel percepiva malcontento ovunque in quella casa, non era certo la condizione ottimale per prepararsi nel migliore dei modi al viaggio. Se solo Margaret lo avesse saputo, sarebbe stata lieta di avere dalla sua parte la suocera. Forse, ripensandoci, era una fortuna che le due non si vedessero da un po’, insieme avrebbero potuto addirittura trovare il coraggio di sabotare la sua partenza. Il ragazzo non aveva fiatato neppure quando la madre gli aveva inveito contro, accusandolo di pazzia per aver accettato un incarico così rischioso e di aver annullato le nozze con un preavviso di appena due settimane.
Sua madre era fiera dei risultati che aveva ottenuto, ancor di più della grinta e della determinazione con cui realizzava i sogni che fin da piccolo teneva sotto chiave. Quella donna era lieta della realizzazione del figlio, ma quando il lavoro occupava uno spazio eccessivo nella vita di Samuel lei aveva il diritto e il dovere di protestare. Esattamente come aveva fatto, quando in nome del Los Angeles Times si era rifiutato di programmare il loro viaggio di nozze; col senno di poi era stata una scelta saggia, ma ai tempi era sembrata a tutti una decisione egoista nei confronti di Margaret.
Alla fine la signora Clark, con enorme dispiacere, non aveva potuto fare altro che accettare il volere del figlio, ma i rapporti con il marito non si erano ancora appianati. Non era difficile prevedere che presto o tardi anche quella donna si sarebbe stancata di lui. Non era la prima volta che lo accusava di essere troppo legato al dio lavoro e il tempo aveva offerto le prove, le conseguenze erano tangibili sul figlio.
Era quello l’esempio con cui Samuel era cresciuto: un vero uomo si considerava in misura al suo posto nel mondo, non al suo ruolo in famiglia o all’affetto che sapeva trasmettere ai propri cari. Per fortuna, il figlio riusciva in parte a discernere da quegli ideali, ma gli restava comunque un grande vuoto dentro che solo le attenzioni sincere di suo padre avrebbero potuto colmare.
Il giovane giornalista, in procinto di vivere quella nuova avventura, aveva dedicato qualche minuto in più per salutare sua madre e per tranquillizzarla sul fatto che sarebbe tornato negli Stati Uniti sano e salvo, forse solo un po’ più grande di spirito.
Era già passato al sesto piano per congedarsi da suo padre. La conversazione con il direttore era stata piuttosto breve e formale. Non si sbilanciava mai, ma essendo il suo ufficio un santuario fatto di tabacco, caffè e pile di cartelle, non avrebbe mai mostrato nemmeno la più piccola variazione emotiva. A Samuel piaceva pensare – e gli faceva anche meno male credere – che in qualche piega della sua anima fremesse per le sorti del figlio e un suo ritorno o una sua dipartita non avrebbero avuto lo stesso effetto su di lui.
Samuel stava attendendo l’arrivo della sorella che – memore della sua puntualità – a minuti si sarebbe dovuta far viva. Le aveva chiesto di accompagnarlo alla base aerea. Lei non seppe negargli il suo aiuto, ma anche senza lasciarlo trapelare era preoccupata per la sua incolumità.
Delilah Clark aveva solo dieci anni in più del fratello, eppure aveva nei suoi confronti un atteggiamento materno al pari quasi della sua vera mamma. Erano legati fin dall’infanzia; anche se a renderli consanguinei erano solo i geni paterni, provavano lo stesso affiatamento di una coppia di fratelli che vivevano sotto lo stesso tetto, anzi forse nel loro caso di più. Delilah era metà indiana e metà americana, ma delle sue origini orientali aveva mantenuto ben poco, tranne una carnagione olivastra e una bellezza che avrebbe acceso gli animi più puri.
Samuel, nell’attesa, fece un ultimo tentativo al numero di Margaret. Aveva con quel gesto mandato al diavolo l’orgoglio della lite e il suo autocontrollo; non ne poteva più di essere ignorato da lei.
Il telefono libero suonò una, due…cinque volte, ma della voce della ragazza non vi era nemmeno un sussurro.
Stanco, aspettò solo che la voce dell’annuncio della segreteria telefonica giungesse e si dissolvesse, per poterle lasciare un messaggio vocale.
 
Margaret.
 So che non vuoi parlarmi, il tuo silenzio è stato fin troppo chiaro in questi giorni.
Il problema è che io non ho più tempo per giocare a rincorrerti,
tra poche ore il mio aereo partirà e l’ultima cosa che voglio è perderti a causa mia.
Da una settimana non ho tue notizie.
Mi manchi,
tanto
e mi mancherai ancora di più nei prossimi mesi.
Ti amo, Maggy
e non sarà la lontananza a mutare i miei sentimenti.

Aveva dovuto stringere in poche battute tutto ciò che il suo cuore urlava, prima che il tempo a disposizione scadesse.
Si soffermò a contemplare il cellulare per qualche secondo, Era ingenuo a credere che bastasse un ti amo per farsi richiamare subito. Posò, con poca grazia, il telefono sulla scrivania e accostò entrambi i palmi al volto. Magari riaprendo gli occhi avrebbe trovato davanti a lui la sua fidanzata sorridente. A farlo tornare con i piedi per terra non fu Margaret - quello sarebbe rimasto solo un bellissimo sogno lontano anni luce dalla realtà -, ma la voce concitata di Delilah.
«Fratellino. L'hai combinata grossa, stavolta. Hai mollato mia cognata sull'altare. Sapevi che mi aveva chiesto di farle da testimone?»
La sorella aveva fatto irruzione nella redazione con un sorriso confortante, in contrasto con i suoi rimproveri. I colleghi di Samuel erano abituati all’esuberanza della donna e alle sue entrate ad effetto.
Il suo ingresso trionfale non li aveva distratti nemmeno per un istante dal lavoro.
Si era appoggiata alla scrivania e puntava il suo sguardo penetrante in quello del ragazzo.
«Ciao anche a te, Delilah. Grazie per avermi informato, ma mi sento già abbastanza uno schifo. Maggy non mi vuole né vedere né sentire. Probabilmente avrà già venduto su eBay il solitario che le ho regalato per la proposta»
Sconfortato, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il pacchetto di sigarette e ne recuperò una. Il fatto che non potesse accenderla, non significava che tra le labbra non potesse avere lo stesso effetto calmante.
La sigaretta ebbe solo il tempo di sfiorare la bocca di Samuel; la sorella, repentina e infastidita, l’aveva afferrata per poi sbatterla sul tavolo.
«Hai così poca fiducia nella tua fidanzata? Forse non vuole parlare con te, ma con me sì e so molte più cose di quante il tuo cervello ne potrebbe elaborare su di lei»
Samuel si accomodò meglio sulla sedia. Come aveva fatto a non pensarci? Delilah avrebbe potuto essere un’ottima mediatrice, in fondo le due erano ottime amiche.
«E cosa ti dice? Che sono un idiota, vero?»
«Anche stronzo, deficiente...evita solo gli insulti che coinvolgano tua madre. Di sua suocera ha particolare stima»
«Ma come ho fatto a rovinare tutto? Insomma, quanti uomini possono raccontare di un rapporto idilliaco tra la moglie e la madre?»
«Pochi. Ma il punto è che non hai rovinato niente, Sam. Margaret non si sognerebbe mai di rompere il vostro fidanzamento»
«Mi stai dicendo che vuole ancora sposarmi?»
«Sì...a patto che tu sopravviva, chiaro. Perché tu hai intenzione di sopravvivere, vero, fratellino?»
«Certo, Delilah. Che domande mi fai?!»
Samuel stava per riappropriarsi della sigaretta che la donna gli aveva ingiustamente strappato, ma lei glielo impedì posando sopra la mano. Delilah aveva aiutato Margaret a smettere di fumare e presto o tardi avrebbe raggiunto qualche risultato anche con lui; non le andava affatto giù che il padre gli avesse ereditato quel vizio, come se la sua persona non fosse già abbastanza nociva per il figlio.
«A proposito di quel ruvido di nostro padre»
«Ti prego, non iniziare anche tu»
«Chiedo solo, visto che non sono salita al sesto piano. Sa che oggi parti?»
«Ovvio che lo sa. L'ho già salutato»
«E ti ha augurato di morire in un agguato?»
«Delilah!»
La donna alzò le mani con innocenza. Aveva solo esplicitato i pensieri di Daniel, nulla di più. Era inutile tutto quello scandalo da parte del fratello.
«Samuel, non è un mistero per nessuno che quell'uomo non spicchi in sensibilità, men che meno con i suoi figli. Mi domando come faccia tua madre a sopportarlo ancora dopo tutti questi anni. La mia lo ha mollato, dopo aver scoperto di aspettare me, per il timore del padre che mi stava dando e non aveva tutti i torti»
«Lo so, non è il miglior padre del mondo, ma è quello che il cielo ci ha donato. In fondo non ci ha rinnegati e a modo suo ci vuole bene»
«Ci mancava solo che non ci riconoscesse! Sam, a volte mi chiedo se sia la tua giovane età a farti avere una prospettiva così rosea della vita e di Daniel. Forse ti basterà arrivare alla mia età, oppure ci penserà prima la guerra a farti aprire gli occhi»
Non scorreva buonissimo sangue tra padre e figlia.
 Delilah era perennemente insofferente verso la personalità di ghiaccio di quell’uomo. Quella mattina, Samuel avvertì che era successo qualcosa di nuovo tra i due; esplicitava più rancore del solito.
«Avete litigato ancora?»
Vide la sorella accomodarsi davanti a lui, sconsolata su una sedia di fortuna recuperata a pochi centimetri dalla scrivania. L’esuberanza della donna era scemata all’improvviso. Aveva ceduto e si apprestava a rivelare le reali emozioni che le stavano attraversando il cuore.
«Non volevo dirtelo prima del matrimonio, per non rovinarti il lieto evento ed ora non vorrei dirtelo prima di partire, per non darti altre preoccupazioni»
Samuel le afferrò la mano e la strinse forte. Voleva che avvertisse nel modo più caloroso possibile che lui c’era, a prescindere da tutto.
«Sono già preoccupato. Cos'è successo?»
«Io e Nathan stiamo divorziando»
«E questo da quando?»
«Intendi, da quando abbiamo avviato le pratiche per il divorzio? Un mese circa»
«Delilah, io non sapevo nemmeno foste in crisi. Margaret lo sa?»
«Sì, lei lo sa. Ma le ho chiesto io di non dirti niente»
«Non ti so esprimere quanto io sia...»
«Sam, tranquillo. È stato meglio così. Immagina se avessimo avuto figli»
Gli sorrise con gli occhi lucidi. Lei sapeva che, di quel passo, non li avrebbe mai avuti nella sua vita, per quanto a modo suo li desiderasse.
Sciolse la stretta del fratello su di lei. Prima di allontanare la mano dalla sua, gli porse una carezza. Gli era grata, come sempre.
«Cosa ha portato la fine del vostro matrimonio? Credevo fossi felice con lui»
«Tante cose, non c'è una causa primaria. Non sono la donna giusta per lui, non siamo compatibili, ci sono lati del nostro carattere che collidono troppo. Mi dispiace solo di essermene accorta tardi, avrei fatto risparmiare tempo ad entrambi. Resta un affetto immenso tra noi e un amore che sicuramente farà fatica a dissolversi. Sono certa di poter parlare anche per lui»
«Quindi vi siete separati consensualmente? Non ho capito però cosa c'entri papà nel tuo divorzio. Non si impiccia mai nelle nostre relazioni»
«E quando lo fa ci va giù pesante il vecchio. Io e Nathan ci siamo lasciati di comune accordo, non abbiamo nemmeno litigato, abbiamo solo capito che la convivenza non era più possibile. L'ho detto a papà qualche giorno fa. Prima o poi lo avrebbe scoperto, di sicuro l'assenza di Nat lo avrebbe insospettito. Ha iniziato ad addossarmi colpe dicendo che sono tale e quale a mia madre. Mi ha persino chiesto se fossi incinta e non certo per un improvviso desiderio di diventare nonno. Tra le righe mi ha dato della sgualdrina, perché in fondo lui e mamma non erano sposati, ma io e Nathan sì e sciogliere quel vincolo per lui è stato un affronto»
A Delilah era sfuggita una lacrima; la raccolse subito, ma ormai le aveva solcato la guancia, lasciando il segno di giorni difficili.
Non aveva offerto a Samuel la possibilità di sostenerla. Lo rincuorava il fatto che Margaret fosse rimasta al suo fianco; lei era la persona più forte e disponibile che conoscesse.
Non era affatto grato al padre. Lo irritò il modo in cui si era rivolto alla sorella; un trattamento simile in un momento di fragilità avrebbe potuto causarle un malessere più profondo. La donna, invece, non si era stupita della reazione del padre, ad essere ferito era stato solo il suo cuore di figlia.
«Non ci voglio credere. Delilah, mi dispiace, ma tu cerca di ignorarlo. Sappiamo entrambi che non è come pensa lui»
«Mi sono illusa. Cercavo solo una parola di conforto da parte di mio padre. Il mio matrimonio è appena fallito e io per prima mi sento una fallita. Non ha bisogno di rincarare la dose»
«Parla con me se hai bisogno, non con lui. Non è capace di ascoltare. Anche se starò via per un po', ci sono comunque. È sufficiente che tu componga il mio numero»
Suo fratello aveva ragione. Daniel non era capace di essere un buon padre, non solo di confortare. Chissà se anche Samuel lo aveva capito.
Delilah era grata a quel ragazzo, ma dubitava che la distanza non avrebbe inciso sulla sua volontà di essere presente nella vita della sorella; era fisiologico per un corrispondente in Afghanistan.
«Se sei ancora intenzionato a partire, sono io a dover aiutare te ora. Dobbiamo andare, altrimenti l’aereo ti lascia a piedi»
«Margaret»
«No, Samuel. Non facciamo in tempo a...»
La donna si accorse dopo dello sguardo incantato del fratello, puntato sulla porta. Samuel si era persino alzato.
Quando Delilah vide l’amica, decise di lasciarli qualche minuto da soli. Voleva offrire loro la possibilità di salutarsi. Meglio ancora se Margaret fosse riuscita in extremis a fargli cambiare idea, ma chiedeva un miracolo troppo grande.
«Ti aspetto in auto»
La donna passò accanto a Margaret, posando con complicità una mano sulla sua spalla.
Samuel iniziava a credere che la presenza della fidanzata fosse la risposta all’ultimo messaggio che le aveva lasciato in segreteria. Lo aveva sicuramente ascoltato. Forse dopo sette giorni di silenzi assordanti, si era soffermata davvero sulle parole del ragazzo, prima di ignorarle per partito preso.
Margaret si avvicinò a lui lentamente. Aveva temuto si fosse già avviato verso quel volo insieme alla sorella. Si era tranquillizzata, solo dopo aver scorto all'ingresso della redazione l'auto di Delilah.
«Maggy»
Gli fece cenno di tacere con una mano. Non era un rimprovero, era una semplice supplica.
«Mi stai piantando in asso ad una settimana dal matrimonio. Mi hai praticamente mollata sull'altare. Ricordati di aggiungerlo al tuo curriculum da delinquente»
Lo fece sorridere. Anche se descritto in quei termini il suo comportamento gli suscitò tanta vergogna; motivo per il quale dovette abbassare lo sguardo, prima di rispondere e reggere quei due pozzi di petrolio che la fidanzata aveva al posto degli occhi.
«Ho solo posticipato. Dai, in fondo, fine agosto non è il periodo giusto per sposarsi. Piove quasi sempre, le giornate di sole sono rare. Cosa ci è saltato in mente, quando Padre Ralph ce lo ha proposto? Ci sposiamo la prossima estate»
Glielo stava promettendo. Lui era dannatamente sicuro di sopravvivere. 
Incosciente, pensò Margaret, nessuno dei due è certo che tu ci sarai. Non sprecare promesse.
«Sarà meglio per te. Sono riuscita a malapena a fermare l'istinto omicida di mio padre»
«Ehi. Io non sono un soldato. Non mi so difendere»
Quella battuta la rattristò. Il suo fidanzato era davvero indifeso in guerra. Era armato solo di una fotocamera o poco più e ciò le dilaniava il cuore.
Solo quando Margaret gli porse la camicia di cui tempo prima si era involontariamente impossessata, lui fece caso all’indumento che teneva tra le mani; fino a quel momento era stato troppo concentrato sul volto affranto della fidanzata. Era certo fosse ancora la sua promessa sposa, gli aveva finalmente dato la conferma, alleggerendo la sua anima.
«L’ho portata via con me l'ultima volta che ci siamo visti»
«È solo una camicia. Puoi tenerla»
«È pulita, l'ho lavata»
Era solo una frase di circostanza per colmare i vuoti inaspettati che lui le avrebbe lasciato, dentro e fuori. Non era ciò che una settimana prima si era immaginata per la loro vita, anzi era l’esatto contrario.
«Sam»
«No, lascia parlare me, ho poco tempo. Hai ragione, mio padre condiziona sia la mia vita che quella di mia sorella. Ma ora, amore, ho bisogno della tua stima e non quella di mio padre. Ho bisogno che tu sia orgogliosa di me. Sto seguendo solo il mio cuore, è un'opportunità che non voglio perdere. Non ho paura, voglio soltanto crescere come giornalista e come uomo. Se so di avere il tuo appoggio non importa quanto sarò lontano, tu sarai lì con me»
Si era avvicinata a lui, costeggiando la scrivania che fino a quel momento li aveva separati nello spazio.
«Samuel, io sono già fiera di te. Non ho bisogno di dire che il mio uomo ha scritto il suo nome su un reportage a Kabul per esserlo. Nel mio futuro vedo un marito, non un martire. Magari anche qualche figlio»
Lo fece sorridere un po' imbarazzato. Ad una famiglia allargata non aveva ancora pensato, ma non la disdegnava affatto, anzi l’avrebbe desiderata solo con Margaret al proprio fianco.
Samuel vide crollare la sua roccia emotivamente. Si era commossa e raramente aveva visto le sue lacrime inumidire le pupille.
«Non privarmi del nostro futuro. È ciò che desidero più di ogni altra cosa»
La attirò a sé quasi sconvolto per lo sforzo che la ragazza stava facendo a non cedere ad un pianto disperato.
«Ci sarò nel tuo futuro. Sarà il nostro futuro. Grazie, Maggy, per essere passata a salutarmi»
Margaret lo strinse più forte, affondando la mano in quella chioma bionda e morbida. Il suo viso premeva contro la spalla del fidanzato. Era lei stavolta ad averne un bisogno vitale.
 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici!

Mi scuso per la lunghezza ma non ho potuto fare altrimenti, non volevo spezzare il capitolo e dilungarmi ulteriormente in altri preamboli. Nel prossimo capitolo inizierò ad affacciarmi ad altri territori.
Mi tocca svelare il mio modello letterario. Lo scrittore statunitense Dan Brown mi ha ispirata con la saga del professor Langdon; per chi non lo conoscesse, il professore soffre di una fobia per l’ascensore e tutti i luoghi chiusi (più semplicemente claustrofobia) a seguito di un trauma infantile. Allo stesso modo a Christian, anche se viene descritto come un eroe, ho voluto lasciare qualche fragilità umana; lui come a tanti personaggi di questa storia.
Vi ringrazio immensamente per continuare a seguirmi! ❤️

Alla prossima!
Un abbraccio,
Vale
 
[1] 4 luglio 1776
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4_La collisione delle stelle ***


La collisione delle stelle

 
 
 

Edwards Air Force Base, Stato della California; 17 agosto 2018
 
Christian era stato costretto a salire senza troppi convenevoli su un Boeing C-17A Globemaster III. Un velivolo che, nella metà del tempo di un qualsiasi aereo di linea, lo avrebbe trasportato sul suolo afghano.
Il Navy SEAL era sempre stato un uomo molto riflessivo. Era appartenuto fin dall’adolescenza alla schiera di quelle persone il cui passato non le abbandonava mai, ad eccezione di quei rari momenti di gioia che solo la sua famiglia era in grado di donargli. Sua moglie e sua figlia non sarebbero state al suo fianco per infondergli spensieratezza, stavolta sarebbe stato da solo con la triste compagnia dei fantasmi del suo passato.
Non appena mise piede nello stretto abitacolo, si accorse che l’interno di quell’aereo era ben distante da tutti quei mezzi volanti in cui fu costretto a volare in compagnia di soldati semplici, come un tempo era stato anche lui.
Prese un lungo respiro, incanalò quanto più ossigeno possibile e superò l’ultimo gradino, sfiorando con la punta delle dita le pareti rigide.
Fu il preludio di ciò che lo avrebbe atteso in guerra. Si sarebbe dovuto scordare per mesi del paesaggio sublime della sua California, intorno a lui in quel frangente campeggiava solo un ammasso di fredda lamiera che ispirava negatività.
Come era solito fare nei momenti più difficili, lasciò che il ricordo dell’ultimo viaggio tra i cieli invadesse la sua mente: non erano passati molti mesi, Alisia aveva avvertito il disagio del papà e aveva trascorso buona parte del volo con la manina intrecciata alla sua.
Christian si lasciò irradiare dalla reminiscenza di quel dolce contatto. Nulla, però, era come allora, quando aveva l’ingenua percezione che la protezione di una bambina di soli sei anni potesse curare tutte le sue fragilità. Il contesto era totalmente diverso, stavolta non era partito per le vacanze di Natale verso l’Europa in compagnia della sua famiglia, l’unica compagnia a cui in quel momento potesse aspirare era la sua arma di guerra, quella data in dotazione a qualunque Navy SEAL che prestasse servizio via mare o via terra.
Nella fondina all’altezza del femore spuntava la guancetta di una Sig Sauer P226 MK25. Aveva imparato a sparare appena maggiorenne al poligono di tiro The Gun Range a San Diego con armi di calibro inferiore. Quella di sua proprietà non vedeva polvere da sparo da diverso tempo ormai e l’ultima volta l’aveva caricata a salve per guidare l’esercitazione del suo plotone nella base militare del Coronado insieme all’ufficiale Hernandez.
Non aveva mai avuto la necessità di puntare la sua pistola munita di bossoli reali contro un essere umano né per attacco né per legittima difesa. Non era votato all’omicidio e di certo non aveva tra i suoi uomini la reputazione di tiratore scelto; dubitava di essere l’opzione migliore in un’azione di guerra senza esclusione di colpi.
Mentre Christian era alla ricerca di un posto comodo in cui sotterrarsi per le successive tredici ore, non poté fare a meno di pensare alla base di cui gli era stato affidato il comando negli Stati Uniti e che ora era nelle mani esclusive del tenente Hernandez. Era un uomo in gamba con anni di esperienza, un collega del quale avere fiducia nel corso di qualsiasi missione. Lui avrebbe coperto le spalle anche a costo della sua stessa vita; un approccio al lavoro che spesso non era gradito alla sua famiglia. In diverse occasioni in mare aperto si era premurato di accettare i compiti più rischiosi, specie da quando Christian era diventato padre. Era consapevole che quel temerario uomo di mezza età non si sarebbe mai sottratto alle responsabilità, anche da solo alle prese con un plotone di Navy SEALs, ciò, paradossalmente, lo rendeva più esposto al pericolo di quanto non lo fosse Christian in pieno conflitto armato.
Il capitano aveva adocchiato un angolino stipato accanto ad una piccola finestrella circolare. Era fiducioso che scorgere il cielo e il panorama gli avrebbe fatto avvertire meno la pressione del volo sui nervi.
Era stato costretto a riempire il caricatore della sua arma con proiettili. Si assicurò di inserire la sicura almeno durante il viaggio; convivere con una bambina lo aveva reso molto prudente. Era certo che in territorio afghano sarebbe stato rifornito di armi diverse, leggere ma molto più offensive di una semplice pistola calibro 9x21. Sapeva che non gli avrebbero risparmiato nemmeno le armi più pesanti, le stesse in fondo che erano nelle mani dei nemici giurati dell’Europa e degli Stati Uniti d’America.
Mentre Christian ultimava con attenzione e delicatezza quella procedura, onde evitare che sfuggisse un colpo al suo controllo all’interno dello stretto abitacolo, intravide i piedi uniti e le gambe tese di un uomo alla sua sinistra. Quando alzò lo sguardo su di lui, scorse un giovane aviere che in prossimità del berretto sfoggiava il saluto militare con tutto il rispetto che gli era stato insegnato verso un suo superiore.
«Signore, siamo quasi pronti al decollo. Il sergente Jones le raccomanda di allacciare le cinture»
«Ringrazia il sergente Jones per le premure, ragazzo. Tengo alla mia pelle»
Il volto del giovane non si era ammorbidito, era rimasto impassibile alla battuta del capitano. Con un distinto colpo di tacco si era congedato, lasciando Christian da solo a lottare contro funi che avrebbero accentuato la sua fobia.
Era stato addestrato per affrontare qualsiasi circostanza stressante. Al tipo di psicosi di cui lui soffriva dall’adolescenza, però, non vi era modo di abituarsi e non esisteva nemmeno una qualche tecnica di difesa, se non farmaci che Katherine si premurava di raccomandargli e che lui da buon testone rifiutava nella maggior parte delle volte.
Si premurò che i tre ancoraggi delle cinte fossero ben fissati tra loro, come se in caso di avaria al motore ciò avrebbe potuto salvargli la vita; d’altronde così non era stato per i suoi genitori.
L’aereo in fondo era solo uno dei tanti pericoli a cui sarebbe andato incontro nei mesi successivi. Il cuore fremeva sempre e solo per il dolore che avrebbe inferto a sua moglie e a sua figlia una sua eventuale dipartita.
La fobia e i conseguenti attacchi di panico non erano il risultato di una reale paura del volo, ma di un trauma vissuto che gli aveva strappato i genitori e la serenità della sua giovinezza. Per anni gli incubi si erano impossessati delle sue notti solitarie, erano penetrati nella sua mente, facendogli desiderare più volte di essere morto con loro a bordo di quel volo di linea.
Non gli erano rimasti altro che un paio di nomi su una lapide di marmo e due bare vuote sotto terra, a cui portare un fiore fresco ogni settimana; confidava che in sua assenza Katherine non se ne dimenticasse.
Quando un funesto destino travolse la vita della famiglia Richardson, Christian era appena diventato maggiorenne secondo le leggi dello Stato della California. La sua giovane età non gli aveva consentito di manifestare il coraggio per partecipare al processo che vedeva come parte accusata quella compagnia aerea, prontamente denunciata dai familiari delle vittime di quel disastro. Aveva ricevuto un misero risarcimento che non valeva nemmeno lontanamente la vita dei suoi genitori e un’esistenza segnata in modo indelebile.
Neppure anni di terapia avevano sortito l’effetto sperato. Gli incubi non erano stati vinti grazie ad un gruppo di auto-mutuo aiuto composto da persone che non erano riuscite in autonomia a rielaborare un grave lutto. La vera svolta per la sua vita era sopraggiunta con Katherine, perciò senza lei e in mezzo ad una guerra non aveva idea di come avrebbe potuto reagire, di nuovo, la sua fermezza.
Ricordava fin troppo chiaramente l’orrore che ormai da anni si stava perpetrando in Medio Oriente e dubitava che la situazione a distanza di quasi due lustri avesse assunto fattezze più liete.
Il Navy SEAL recuperò il cellulare e si accertò che fosse inserita la modalità aerea. Tredici ore consecutive senza avere la più piccola notizia della sua famiglia lo gettava nello sconforto, ma per i prossimi nove mesi quella sarebbe stata una loro triste abitudine.
Oltre il vetro simile ad un oblò, le cui caratteristiche offrivano un’immagine leggermente distorta della realtà, molti uomini dell’aeronautica militare sfilavano sulle passerelle, prendevano voli verso l’ignoto oppure facevano ritorno sul suolo amico dopo un lungo soggiorno lontano da casa.
Inconsapevole, aveva iniziato a giocherellare con la fede che pendeva al suo collo. I suoi pensieri vennero nuovamente interrotti da passi felpati che, se avessero potuto parlare, avrebbero senza dubbio domandato venia per il disturbo.
«Scusi. È occupato?»
Christian si voltò in direzione di una voce intimidita: era un giovane uomo vestito in abiti civili.
L’ufficiale interpretò la sua soggezione a causa della divisa che indossava.
«Ragazzo, è un aereo privato. I posti non sono prenotati»
Visto l’impatto che aveva sortito sul giovane, preferì non infierire con i formalismi; lui per primo non ne era mai stato un gran fautore, specie da quando era stato elevato al grado di tenente capitano. Si rivolse a lui con un sorriso e una battuta che non aveva la più vaga aria del rimprovero.
A Christian non sfuggì il tesserino che il suo compagno di viaggio mostrava all’altezza del petto; da esso riuscì a conoscere con facilità l’identità e la professione del ragazzo.
Samuel si accomodò sullo scomodo sedile in imbarazzo, anche se ad essere più scomoda sembrava essere la sua posizione da civile fuori sede. Da esperto osservatore quale era, trovò opportuno prendere spunto dal militare al suo fianco, così si premurò di recuperare le cinghie della cintura e di allacciarle nel modo corretto; non ci teneva ad essere redarguito per ogni singolo errore che nei mesi a venire avrebbe certamente commesso sul campo.
Si ripromise di non fiatare più per tutto il tragitto, lungo o breve che fosse, onde evitare di commettere qualche altra gaffe. Peccato che la naturale curiosità di Samuel non gli consentì di tacere come si era ripromesso; quel tratto, distintivo di ogni giornalista che si rispettasse, era da sempre parte integrante della sua personalità.
«È un ufficiale? La sua divisa non sembra quella di un soldato semplice. Indipendentemente dalla forza armata a cui lei appartenga»
«Dimostro così tanti anni? Guarda che non ne ho compiuti ancora nemmeno quaranta»
«Come?»
«Continui a rivolgerti a me in modo formale. Non è necessario. Anche perché qui dentro siamo soli e penso che lo resteremo per ore, tanto vale instaurare un dialogo. Sì, sono un tenente comandante della Marina Militare. È la prima volta che prendi un volo per l’Afghanistan e fai un reportage laggiù, Samuel?»
Il ragazzo rimase spiazzato. Aveva informazioni che lui non aveva trasmesso a quell’uomo e ciò era inquietante.
Christian non poté fare altro che lasciarsi sfuggire un sorriso, stavolta più accentuato rispetto al primo. Indicò a Samuel il tesserino che aveva appuntato alla stoffa leggera della camicia, sperando che fosse sufficiente per sciogliere la tensione che trapelava dagli occhi del giovane fissi su di lui.
«Sì. Scusi…scusa. Di solito non sono così imbranato, tanto da non ricordare di avere il mio nome quasi stampato in fronte. Sono un po’ nervoso per quello che mi attenderà. È un salto nell’ignoto, spero di non schiantarmi al suolo»
Fu Samuel a regalargli un sorriso poco convinto. Christian conosceva il tipo di nervosismo della prima volta. Era triste, però, pensare che quella sensazione di ansia accompagnasse anche la seconda e probabilmente la terza.
Non era il momento giusto per rivelargli la cruda realtà della guerra, avrebbe solo reso più insopportabile il tragitto che li separava dal campo di battaglia.
«Ti chiami Clark, come il direttore del Los Angeles Times?»
«Sì, proprio lui. Sono suo figlio»
Non vi era la più piccola nota di orgoglioso o di entusiasmo nella voce del ragazzo; forse anche quello era un argomento poco conveniente da sfiorare.
Per quanto le cinture consentissero all’ufficiale di protendersi verso Samuel, gli allungò la mano destra per accorciare le distanze tra loro; un tentativo che il più giovane apprezzò.
«Christian Richardson. Ma puoi chiamarmi Chris, se ti fa piacere»
«Grazie»
L’affabilità del capitano fu d’aiuto. Si sentì meno un pesce fuor d’acqua.
Qualcuno, anche se non indossava una divisa, lo stava trattando come un suo pari e non sembrava nemmeno avere ribrezzo per l’ambiente giornalistico, come invece provavano molte persone, accusando i cronisti di essere invadenti.
«Allarmarsi prima del tempo è controproducente. Prova a non pensare alla destinazione, almeno fino a che non saremo arrivati»
«Sei pratico di guerra, vero?»
«Diciamo che non vado in guerra tutti i giorni. Presto il mio servizio nell’Oceano Pacifico del Nord. Mi hanno richiamato al fronte, perché hanno alcune grane a collegarsi con l’ospedale militare nel centro di Kabul. Pare sia sotto assedio dei militanti talebani. Non l’ho detto a mia moglie, non volevo che mi immaginasse in una missione specifica, in cui con molte probabilità potrei perdere la vita. In realtà, sei la prima persona con cui ne parlo all’infuori dei miei superiori e non so se sia prudente informare un giornalista di una missione segreta»
Samuel gli aveva infuso fiducia, escludendo dal principio che potesse essere un nemico della patria; aveva perciò condiviso con ingenuità informazioni militari che non era ancora il tempo di diffondere tra i cittadini americani attraverso un quotidiano di divulgazione pubblica.
«Puoi stare tranquillo. Non sono esperto, non mi intendo di missioni militari. Sei sposato, ho capito bene? Hai figli?»
«Una bambina di sei anni. Tu?»
«Mi sarei dovuto sposare la prossima settimana»
«L’hai mollata sull’altare?»
L’aereo iniziò a percorrere la pista di volo procedendo con lentezza, dando modo alla scaletta e ai carrelli di rientrare.
Samuel non rispose all’evidente provocazione di Christian. Sapeva che era la verità, ma non eluse la domanda impiegando malizia, fu piuttosto il movimento del mezzo su cui si trovavano a distrarre entrambi.
«Stiamo decollando»
«Me ne sono accorto»
«Non hai una bella cera, tenente. Mal d’aria?»
La curiosità del giornalista irritò Christian per la prima volta da quando si conoscevano. Stava male e gli mancava il fiato, non aveva abbastanza ossigeno per spiegare a Samuel le psicosi che lo tormentavano da ventitré anni.
«È qualcosa di più. Dovrei prendere dei calmanti, ma sono restio agli psicofarmaci»
L’ufficiale estrasse il telefono, quanto bastò per leggere l’ora attuale in California sul display. L’aereo era partito puntuale come un orologio svizzero.
«Non sono sicuro che prenda la rete ad alta quota»
«Lo so e non ha alcun senso chiamare mia moglie per allarmarla del mio malessere. Sa che sono partito ed è sufficiente. Lei è l’unica, insieme a mia figlia, che saprebbe infondermi tranquillità e placare i sintomi senza il ricorso ai farmaci»
Le parole morirono nella laringe di Christian. Biascicava le ultime sillabe, era affannato, ma nonostante tutto cercava di celare la sua sofferenza fisica.
Samuel temeva di dover assistere impassibile ad una crisi respiratoria.
«Posso aiutarti in qualche modo?»
«Temo di no»
Il reporter lo vide slacciarsi la divisa sul petto, allentare il nodo della cravatta nera e sganciare i primi bottoni della camicia candida. Sotto la visiera rigida del cappello da ufficiale la fronte era madida di sudore, così come qualche ciuffo di capelli che sfuggiva al controllo del suo proprietario.
«Sono tredici ore di volo. Non puoi affrontarle in questo stato»
«Tranquillo, non è la prima volta che mi capita. Non riesco più a prendere un aereo in serenità da diversi anni. Non peggiora, te lo garantisco»
Samuel lo fissò impotente e preoccupato. Christian era pervaso dal tremore in preda alla tachicardia.
Il ragazzo decise di distrarlo dai sintomi del malessere, le parole erano l’unica medicina che avrebbe potuto sfruttare.
«Sì, ho mollato la mia fidanzata sull’altare. Ma non perché non l’amassi. Non è un buon biglietto da visita, me ne rendo conto. Non ho l’aria di una persona molto affidabile»
Riuscì a strappare a Christian un sorriso sofferente. Erano chiari i sensi di colpa di quel ragazzo, non solo le sue azioni discutibili.
Samuel si sporse verso il finestrino, avvicinandosi al capitano. Sentiva il soffio caldo e concitato del respiro dell’uomo sul collo, come se fosse reduce da una folle corsa. Si sorprese scoprendo che stavano già sorvolando la Big Apple. Il metallo dorato della fiaccola appartenente alla Statua della Libertà brillava sopra il fiume Hudson, era travolta dal sole pallido di fine agosto.
«Intravedo New York»
«Dove vivono quelle serpi velenose dei miei suoceri»
Il pensiero dei genitori di Margaret irruppe con prepotenza nella mente di Samuel. Non era certo che i signori Allen gradissero ancora che diventasse loro genero, il suo gesto aveva quasi sicuramente tradito la loro fiducia.
«Hai bisogno di un po’ d’acqua?»
Samuel aveva appena riconquistato il suo posto sul sedile; le cinghie della cintura tiravano troppo per restare a lungo in quella posizione.
Incrociò l’espressione di Christian persa nel vuoto. Declinò con un cenno del capo la sua offerta. Era concentrato e impegnato nel tentativo di regolarizzare il suo respiro, sempre affannato ma stabile nella sua disfunzionalità.
«Sicuro di poter affrontare una guerra in questo stato?»
«Sicuro. Ora mi passa, quando scenderò dall’aereo questa crisi sarà solo un ricordo»
«Parlami di tua figlia. Mi hai detto solo che ha sei anni»
Era grato a Samuel per aver sfiorato un argomento così lieto, che avrebbe giovato al suo cuore in preda alle palpitazioni.
Con un leggero tremore, Christian recuperò dal taschino esterno della sua divisa il disegno che custodiva come se fosse ricoperto d’oro e lo porse al ragazzo. Per l’ufficiale quel disegno era la prova tangibile che il cielo non riservava solo dolore, ma anche meraviglia. La sua bambina glielo sapeva dimostrare con ingenuità infantile.
«È di mia figlia Alisia. Tra qualche settimana inizierà la scuola. Mi sarebbe davvero piaciuto essere al suo fianco»
Samuel si era distratto e aveva immerso lo sguardo tra i tratti delle matite colorate che quella bambina aveva utilizzato per realizzare quel disegno.
Solo un pensiero invase la sua mente: Margaret gli aveva esplicitato il desiderio di formare una famiglia con lui e forse nel corso dell’ultima Notte di San Lorenzo che avevano trascorso insieme, lo aveva espresso ad una di quelle stelle cadenti, come quelle che Alisia aveva disegnato sul foglio. Erano quelli i momenti in cui il giornalista sarebbe saltato giù da quell’aereo e sarebbe corso da lei, attendendo il suo arrivo sotto l’altare. Per fortuna quel gesto estremo gli era precluso, non desiderava morire prima di sposarla.
Riemerse dalla realtà parallela in cui si era inoltrato e restituì il disegno al legittimo proprietario con un mezzo sorriso.
«Non deve essere stato facile lasciare la tua famiglia»
«No. So che se la caveranno anche senza di me, ma essere loro accanto è tutt’altra storia»
Christian si stava affaticando. La sua voce era diventata un rantolo strozzato e l’unico modo per farsi comprendere con nitidezza era sussurrare.
«Forse dovresti provare a riposare. Il tempo passerebbe più velocemente prima dell’atterraggio»
Il Navy SEAL socchiuse le palpebre e appoggiò la nuca contro la spalliera del sedile, provando a riscoprire la pace dei sensi.
«Se solo ascoltassi più spesso mia moglie…con l’aiuto degli ansiolitici a quest’ora starei già meglio»
 
 
 
 
Base aerea di Bagram, Afghanistan; 18 agosto 2018 (ora locale)
 
Christian e Samuel erano atterrati alla base aerea di Bagram, un comando statunitense situato poco a Nord rispetto a Kabul.
I due uomini non ebbero altra scelta che separare le loro strade, non appena ebbero messo piede sul suolo afghano. Al più giovane dispiacque dover salutare Christian, avevano condiviso un lungo viaggio e l’ufficiale continuava a mostrare in viso un pallore preoccupante, che lui sminuì al momento dei saluti; non desiderava infondere a Samuel ulteriori apprensioni.
Si erano raccomandati prudenza e si erano lasciati con la speranza di incontrarsi presto. Scherzando, Samuel minacciava di includerlo in qualche sua telecronaca, se mai un giorno lo avesse intravisto fuggire dalle bombe. Si erano salutati come vecchi amici. Avevano condiviso tredici lunghe e intense ore tra timori e tremori, molto più di quanto molti amici, o presunti tali, non condividevano nell’arco di una vita intera.
Appena sceso dall’aereo, una folata di aria bollente investì le membra già accaldate dell’ufficiale.
Nell’esatto istante in cui Samuel e Christian salirono su mezzi di trasporto diversi, quest’ultimo perse di vista l’altro. La destinazione del Navy SEAL era la base militare statunitense situata alle porte di Kabul, che avrebbe raggiunto con una delle tante jeep militari in dotazione alle truppe americane.
Lui e il suo accompagnatore, un soldato semplice che per l’occasione fungeva anche da autista, in poco più di un’ora e mezza raggiunsero la capitale. La 4x4 si fermò appena prima di valicare i confini di Kabul.
Il primo dettaglio che saltò agli occhi esperti dell’ufficiale fu una torre di controllo che ostentava con orgoglio la bandiera degli Stati Uniti d’America, posta lì per dare in ogni occasione uno schiaffo morale ai talebani, e il filo spinato che si estendeva lungo tutto il perimetro della struttura. Christian si era sempre chiesto se all’interno di quei cavi scorresse elettricità, non aveva mai osato testarlo sulla propria pelle e si augurava che a nessun civile fosse venuta un’idea così malsana.
Il resto dell’edificio era fatiscente. La maggior parte delle vetrate era rimasta vittima del tritolo dell’ISIS. Sembrava un’abitazione fantasma abbandonata da anni, non un quartier generale nel quale gli americani impegnati sul campo prendevano importati decisioni, che incidevano pesantemente sulle sorti di quella guerra sanguinosa.
Essere patriottici non includeva anche l’entusiasmo di ritrovarsi tra quelle quattro mura inzuppate di umidità. Vivere in territori bellici era tutt’altro che comodo. Alloggiare per mesi senza il progresso della civiltà occidentale non era facile e a questo si aggiungeva la consapevolezza che ogni giorno la loro base potesse diventare bersaglio dei nemici. Vivere nove mesi con il pensiero che ogni missione, ma anche ogni notte e ogni giorno nell’unico apparente rifugio, potesse essere testimone del suo ultimo respiro metteva una certa pressione sul cuore.
Il triste richiamo al passato che quel luogo tetro suggeriva a Christian venne interrotto dall’arrivo di tre figure che l’ufficiale appena giunto in Afghanistan riconobbe dalla peculiarità delle loro divise: un generale dell’esercito americano si muoveva nella sua direzione con passo cadenzato ed era in compagnia di due sottotenenti.
Christian si avvicinò a loro, lasciando indietro l’autista, e si incrociarono a metà strada. L’ultimo arrivato venne accolto con estremo orgoglio. I due sottotenenti rimasero nella posizione dell’attenti, mentre il soldato di grado superiore gli rivolse un saluto militare, sfiorando con la punta delle dita della mano mancina la visiera rigida del proprio cappello. Era più anziano di lui, forse avrebbe potuto avere l’età di suo padre se fosse stato ancora in vita; di sicuro il velo di barba bianca sulle guance non era sinonimo di gioventù.
«Capitano Richardson. Siamo onorati di averla tra noi»
«Grazie»
Christian gli rivolse un mezzo sorriso. Era davvero grato per l’accoglienza che gli avevano riservato, ma preferì ricambiare il saluto con una semplice stretta di mano. Non era particolarmente incline alle lusinghe.
«La sua fama la precede, tenente. Abbiamo voluto fortemente che fosse lei a guidarci e a consigliarci»
Ma che fortuna, pensò Christian. Non sono un eroe, sono solo un padre di famiglia che ci tiene a rivedere i propri cari.
Mantenne quei pochi e scettici pensieri sigillati nella propria mente e seguì il generale verso l’entrata oltre il filo spinato, anch’essa fatiscente, del quartier generale.
Uno dei due sottotenenti fece gli onori di casa e lasciò all’ufficiale della Marina la porta aperta, posticipandolo. All’istante un odore acre si infilò nelle narici del Navy SEAL fino a giungere nella laringe, provocandogli qualche colpo di tosse.
«Qui non siamo soliti fare uso di deodoranti per ambienti, capitano. Ricorda?»
Non era facile dimenticare. Poiché non aveva il potere di ordinare ai suoi polmoni di smettere di incamerare aria essendo muscoli involontari, ogni volta quel luogo fetido gli provocava la stessa reazione.
Una lampadina, collegata all’estremità inferiore di un filo scoperto pendente dal soffitto, penzolava su un tavolo marcio, logorato dai ratti.
Quando Christian fu abbastanza vicino all’allestimento di quella riunione di fortuna, notò che sulla superficie di legno era dispiegata una cartina di Kabul. La riconobbe subito ed iniziò a realizzare a pieno quanto fosse lontano da casa; non appena scorse quel fitto agglomerato di strade, che a piedi o su un mezzo a quattro ruote aveva percorso tante volte.
«Se per lei va bene e non è particolarmente stanco dal viaggio, le mostro subito gli itinerari che abbiamo progettato per la missione»
Più che stanco era sconvolto, un lenzuolo era meno candido di lui.
Per quanto avesse cercato di dissimulare davanti a Samuel, il ragazzo a ragion veduta se ne era accorto. In fondo quel giornalista era l’unico ad aver assistito al suo malessere, altri sconosciuti non avrebbero mai potuto immaginare l’inferno che aveva attraversato durante il volo.
Un altro paio di soldati non decorati erano accostati ai lati del tavolo e lo salutarono formalmente. Erano molto giovani. Aveva la loro età, quando mise piede su quel terreno polveroso per la prima volta, anni prima della missione che lo rese così celebre tra i militari. Chissà se si erano resi disponibili volontariamente per affrontare la messa a punto di un’ennesima azione suicida. Era proprio il caso di dirlo, non erano molto distanti dalle idee perverse dei kamikaze.
«Comodi, comodi»
Dopo aver invitato i due militari a cessare i convenevoli, si tolse lui per primo il cappello e lo posò nell’angolo, in uno spazio non occupato dalla cartina.
Uno dei soldati di grado inferiore tra i presenti, il più giovane dei due, prese la parola.
«Signore, abbiamo già perlustrato la zona rossa della città grazie all’aviazione della base aerea di Bagram, dove il suo aereo è atterrato. Dalla nostra base militare fino all’ospedale del centro però ci vuole…»
«…più di mezz’ora di auto. Sì, lo so. In quel tragitto si è troppo esposti, se non si prendono misure di sicurezza accettabili»
Il generale intervenne con fervore.
«È per questa ragione che abbiamo richiamato lei. Hanno in ostaggio un intero nosocomio, tra i cui feriti si trovano civili ma anche nostri soldati. Minacciano una strage ed è tutto confinato. È diventato loro territorio, intorno a cui hanno innalzato mura umane. Capitano Richardson, ha sventato un attacco terroristico in passato. Lei sa come ragionano, sa come si muovono. È in grado di intercettare un agguato, prima che muoiano centinaia di nostri commilitoni»
Non lo sapeva fare, no.
Christian era appoggiato con i palmi a quel tavolo in cerca di un supporto. Lo stress fisico ed emotivo delle ultime ore lo stava esaurendo. Rivolse lo sguardo al suolo in preda ad una crisi di nervi. La soluzione non era scritta nella polvere di cui era fatto quella sottospecie di pavimento.
«Non so entrare nella mente di un esercito armato di terroristi. State riponendo in me troppa fiducia»
L’ufficiale veterano non voleva infierire sull’evidente malessere dell’uomo, ma il tempo non era loro favorevole, come non la era l’indole collerica e risolutiva dei Talebani.
Il militare si avvicinò a lui e cercò di modulare il tono della voce, che diventò sottile ma rimase fermo. Era intenzionato a ribadire la gravità della situazione.
«Comandante. Non possiamo più aspettare. Stiamo parlando di una terra di fuoco che ha al centro un ospedale con migliaia di ricoverati che rischiano di morire se non ricevono cure adeguate, compresi i nostri connazionali. Ci sono attacchi giornalieri, i civili muoiono di continuo intorno alla zona rossa»
«Lo so, conosco la guerra. Ma ho bisogno di fare mente locale»
«Non abbiamo più tempo! Ufficiale, stiamo perdendo uomini nel tentativo di raggiungere quella zona. Ho interrotto le spedizioni per impedire che un altro soldato della mia unità perdesse la vita. Hanno eretto barriere umane per impedire di raggiungere l’ospedale. Ci sparano a vista. Incrociamo granate sul nostro cammino. Ho fermato tutto nell’attesa del suo arrivo, ma non significa che i civili nelle loro mani non stiano continuando a morire…non arrivano rifornimenti medici»
Christian si stava sforzando di elaborare un pensiero, di mantenersi lucido. Comprendeva la gravità, ma non era sufficiente al suo cervello per trovare una soluzione pronta all’uso.
«Non riesco dopo un viaggio di tredici ore a pensare. Dovete concedermi qualche minuto»
Recuperò il suo cappello e troncò bruscamente la conversazione.
Nel cortile della base, cercò di inalare quanta più aria possibile, anche se era rovente, specie quando giungeva nei bronchi.
Recuperò il cellulare e tolse la modalità aerea. Non aveva chiamate perse o messaggi non letti; sua moglie attendeva con pazienza, come le aveva chiesto di fare. Non aveva avuto modo neppure di avvisare la famiglia del suo arrivo a destinazione.
Katherine era sicuramente sveglia e in pena, anche se a San Diego era passata già da un paio d’ore la mezzanotte. Preferì lasciarle un semplice messaggio. Se l’avesse chiamata, lei si sarebbe accorta del suo malessere dal tono di voce e la testa di Christian non necessitava anche dell’ansia di quella donna, stava già scoppiando dopo l’esperienza appena vissuta in aereo.
 
Tutto bene. Sono arrivato. Ti amo. A presto.
 
Non fece in tempo a riporre il telefono nell’uniforme, che iniziò a squillare, ad illuminarsi ed infine il nome della moglie comparve sullo schermo.
«Kathe»
«Chris, mi senti?»
«Ti sento, amore»
Per entrambi la voce del coniuge risultò lontana, flebile e a tratti assente.
Come il Navy SEAL aveva previsto, a lei non sfuggì il suo umore.
«Cos’hai?»
«Niente. Tesoro, devo andare. Ti lascio dormire. Buonanotte»
Katherine indugiò a rispondere. Aveva atteso sue notizie, aveva bisogno di sentirlo come se fosse aria fresca e lei stesse affogando nell’arsura.
«Ricorda il nostro appuntamento giornaliero»
«Ci sentiamo più tardi. Un bacio ad Alisia»
Fu Christian a riattaccare. Gli faceva male sentirla così lontana, sapere che lei senza lui non riposava; ricordare che il cielo a San Diego era tinto di un altro colore, da lei la luna dominava la terra, a Kabul il sole riscaldava la giornata.
Rivolse uno sguardo a quel cielo. Era quasi tutto coperto da nuvole bianche, tranne uno spiraglio inondato di raggi che creava un riflesso quasi sovrannaturale. In effetti era inverosimile che lui si trovasse lì, di nuovo.
 
Non ti ho mai chiesto nulla. Non me la sono presa con te quando mi hai lasciato solo, quando me li hai portati via. Ma ti supplico, non lasciare che la mia bambina provi il mio stesso dolore. Lasciami tornare a casa sano e salvo. Ricordati di Katherine e di Alisia, hanno bisogno di me. Vivo solo per loro.
 
Ripose il cellulare, rimise il cappello e rientrò per proseguire l’intensa riunione al quartier generale.
Era un uomo di parola in fondo, aveva chiesto solo qualche minuto per fare mente locale e così era stato.
 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici!
 
Nel prossimo capitolo seguiremo Samuel nel suo primo approccio con l’Afghanistan e il Medio Oriente. Mi sono dilungata fin troppo in questo capitolo, non mi sembrava il caso di aggiungere altro alla trama.
Vi ringrazio davvero di cuore per continuare a seguire questa storia (è più un esperimento per la verità). Dedico un ringraziamento speciale a tutti coloro che mi hanno lasciato un riscontro positivo per me totalmente inaspettato, ma che mi ha motivata tantissimo. ❤️

Alla prossima!
Un abbraccio,
Vale

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Capitolo 6
*** Capitolo 5_La terra di fuoco ***


La terra di fuoco


 

 
Periferia Ovest di Kabul; 18 agosto 2018
 
Quando Samuel fu messo al corrente della terra di fuoco estesa nel centro di Kabul, il primo pensiero volò al suo compagno di viaggio e alla missione che aveva condotto Christian in quei luoghi devastati dalla guerra.
Aveva promesso al capitano che non avrebbe divulgato quell’informazione, ma sarebbe stato impossibile rimuoverla dalla mente. D'altronde gli aveva parlato di un ospedale nelle mani di gente spietata, non di un luogo qualsiasi; non riusciva ad immaginare un destino peggiore per quei poveri pazienti già fortemente provati dalla sofferenza. Si riscoprì devoto ad un dio che potesse affiancare quel soldato nel corso della missione delicata che avrebbe dovuto affrontare, affinché riuscisse a portarla a termine con successo.
L’accompagnatore del giovane giornalista era un nativo, dal quale Samuel era stato aggiornato sugli ultimi avvenimenti. Karim[1] era nato e cresciuto a Herat. L'Afghanistan era l'unico Paese che avesse conosciuto in vita sua, perciò era pratico della terra brulla che circondava la capitale e quindi era la guida più indicata e affidabile a cui Samuel potesse ambire; per un occidentale inesperto la sua presenza era questione di vita o di morte; in pochi sarebbero stati in grado di evitare una mina antiuomo inesplosa, uno di questi era proprio Karim.
I due uomini procedevano a piedi percorrendo strade ormai inesistenti. L’immenso spiazzo di periferia era diventato un deserto: i granelli di sabbia dorata tipici del Sahara erano rimpiazzati dalla polvere più insidiosa.
Samuel non si stupì di quello scenario apocalittico. Da lì le macerie dei centri abitati distrutti erano visibili in tutta la loro globalità e l’ammasso complessivo infieriva un colpo nello stomaco.
Era consapevole di non aver intrapreso una vacanza in un villaggio turistico, ciò che lo sorprese davvero infatti fu il sorriso spensierato di un paio di bambini che giocavano a cricket[2], come se nulla fosse, come se intorno non si stesse combattendo una guerra. Il ragazzo riusciva a scorgere nei loro occhi entusiasmo. E come dare loro torto? Erano riusciti a ritagliarsi in quell’orrore un angolo di paradiso; la resilienza dei piccoli superava l’immaginabile.
La strada per raggiungere il villaggio, in cui il giornalista avrebbe alloggiato, distava quasi due chilometri dalla base di Bagram, ma i militari erano riusciti a coprire solo poco più di un chilometro con la jeep, a Samuel e Karim era toccato a piedi il resto del tragitto.
Per il giovane americano fu quello il primo approccio alle terre d’oriente. Sotto la suola delle scarpe, avvertiva la scomodità di quei luoghi. Era prudente, non muoveva un singolo passo oltre l’uomo al suo fianco, come gli era stato raccomandato.
Era da escludere a priori un soggiorno a Kabul, eppure anche fuori dalle mura della città aleggiava un’aria intrisa di morte innocente, fumo sollevato dalle macerie e tensione. Un pericolo imminente era sempre presente sotto quella grigia volta celeste.
L’unica nota di colore era rappresentata dai passatempi infantili, che spezzavano un’atmosfera tetra. Più Samuel li osservava, più nella sua mente sorgeva l’idea che le nuove generazioni fossero l’unica speranza per un mondo creato sulle basi dell’odio, solide e inscalfibili come il diamante; proprio come quel materiale che riusciva ad essere scalfito solo da se stesso, anche l’odio sembrava essere combattuto da altro ingiustificato odio.
La presenza di quei bambini gli fece ricordare un dettaglio che pochi anni prima un film drammatico - ma che rispecchiava la cruda realtà - gli aveva impresso nella mente: una bambina con un cappottino rosso era dipinta da Spielberg come simbolo di speranza e purezza nel profondo grigio della morte, un destino che non risparmiò nemmeno quell’anima innocente. Era passato più di mezzo secolo dal massacro che venne causato dall’Olocausto e dalla Seconda Guerra Mondiale e che Schindler’s List denunciò sul finire del secolo degli orrori, eppure il mondo non aveva ancora imparato niente dagli errori passati.
Samuel si ritrovò a pensare al destino che sarebbe toccato a quei bambini e a tutti i loro coetanei che fino a quel giorno erano riusciti a sopravvivere. Le percentuali di rivederli erano troppo basse. Avrebbe voluto dire loro di prestare la massima attenzione con l’aiuto di Karim che avrebbe avuto l’importante ruolo di mediatore linguistico, ma non se la sentì di irrompere in quel piccolo sogno, creato dalla mente e lontano dalla realtà che li circondava.
Il ragazzo era sicuro che i suoi occhi si fossero annacquati, così si schiarì la voce, anche se Karim stava prestando la sua attenzione al suolo su cui posavano i piedi e non al volto del suo protetto.
Era stato fortunato Samuel a poter beneficiare della compagnia di quell’uomo così istruito; Karim parlava fluentemente l’americano, si era laureato a Kabul, era diventato medico pochi anni prima che nel suo Paese scoppiasse la guerra. Aveva giurato con vocazione di fare tutto ciò che era in suo potere per salvare vite umane ed era ciò che stava facendo con maggiore intensità da quasi diciassette anni.
Samuel e Karim si erano brevemente presentati nel momento del loro primo incontro. Fu quella l’occasione in cui il giornalista venne messo al corrente della carneficina che l’ospedale di Kabul stava rischiando. Il medico aveva esercitato la sua professione tra quelle mura prima che il nosocomio diventasse inagibile, ad eccezione di quei pochi operatori sanitari che avevano avuto la sfortuna di trovarsi al suo interno, prima che venisse blindato dai Talebani.
Samuel era concentrato ancora una volta sulle sorti del capitano Richardson, non aveva modo di ricevere sue notizie. I suoi pensieri vennero bruscamente interrotti da Karim. L’uomo lo aveva sfiorato all’altezza del ventre, invitandolo a fermarsi con urgenza. Il medico rivolgeva lo sguardo preoccupato su un punto distante pochi centimetri da loro, non esplicitò le sue ipotesi, ma fu facile per Samuel intuirle dalle reazioni tese.
«C’è una mina?»
Karim confermò con un leggero cenno del capo e si voltò verso il ragazzo per incrociare i suoi occhi perplessi e inesperti. Non lesse paura, solo spaesamento e molto probabilmente una buona dose di incoscienza dovuta alla giovane età.
Da quello che all’afghano era stato dato modo di apprendere, Samuel era fresco di laurea in giornalismo. A lui sarebbe tanto piaciuto sapere quale genere di sciagurato aveva avuto l’ardire di spedirlo laggiù.
«È troppo rischioso proseguire per di qua. A meno che tu non abbia una gran voglia di perdere qualche arto»
Far riflettere Samuel sull’avventura che stava compiendo non era compito di un accompagnatore e mediatore linguistico improvvisato. Siccome avrebbe potuto essere suo figlio, vista la differenza di età di circa una ventina d'anni, si sentì in dovere di farlo.
«Certo che no. Prendiamo un’altra strada?»
«Senti. Mi togli una curiosità, se non sono troppo indiscreto? Perché sei qui? Non sei un soldato né un medico»
«È un modo gentile per dirmi che sono inutile?»
Non aveva percepito alcun tipo di provocazione nella voce di Karim. Le parole e il sorriso appena accennato di Samuel erano stati escamotages per eludere la domanda, non era abbastanza in confidenza per rispondere.
«Penso solo che la vita di un uomo non valga un servizio giornalistico in zone ad alto rischio per la propria incolumità»
Karim parlava con ragione di causa. Il giovane americano poteva solo immaginare la sofferenza di cui il medico era stato testimone negli ultimi anni.
Le raccomandazioni dell'uomo fecero rammentare a Samuel di non aver avuto ancora occasione di avvisare la famiglia del suo arrivo. La madre e la fidanzata erano di sicuro in pensiero, per il padre non avrebbe messo la mano sulle braci, si sarebbe sicuramente scottato.
Presero un sentiero diverso da quello che in origine avevano in mente. Karim riuscì a scortarlo sano e salvo alla destinazione, la sua presenza era stata fondamentale.
Quando i due uomini iniziarono ad intravedere le abitazioni, Samuel ebbe la netta percezione di aver solcato l’universo intero in poche falcate e di essere atterrato su un altro pianeta. Non vi era nemmeno più l’ombra della vita che aveva lasciato a Los Angeles.
Seguì Karim nei pressi di una porta in legno. Il resto dell’abitazione era costruita con blocchi regolari di pietra. Il soffitto era piuttosto basso, l’ingresso era pochi centimetri più alto di Samuel.
Il medico di Herat batté con delicatezza le nocche contro la porta. Il rumore risultò attutito, Samuel dubitava che qualcuno dall’altra parte sentisse.
Trascorsero solo un paio di secondi e furono accolti da un uomo che si premurò di socchiudere appena l’imposta, come se stesse nascondendo qualcosa.
A Samuel era stata insegnata la buona educazione, eppure la curiosità fu più attraente e prese il sopravvento. Si sporse appena, quanto bastò per intravedere l’atrio dell’abitazione. Fece solo in tempo a scorgere un paio di grandi occhi azzurri che risplendevano nell’oscurità, prima che il padrone di casa se ne accorgesse e chiudesse la porta alle sue spalle, per tenere lontani i curiosi.
Il giornalista non comprese una singola parola tra quelle che i due nativi si stavano scambiando. Vide Karim portarsi in rapida successione la mano sul torace, sulle labbra e sulla parte centrale della fronte, prolungare quel gesto in avanti e fare un inchino davanti all’uomo. Nonostante tutta la riverenza di Karim, l’altro ricominciò a parlare in arabo e stavolta con più concitazione. Agli occhi di Samuel, sembrava essere piuttosto infastidito dalla loro presenza.
«Scusa, Karim. Perché è così arrabbiato? Cosa gli hai detto?»
«Gli ho chiesto se potesse offrirti alloggio. Lui è il capo di questo villaggio. Sua moglie è morta da pochi mesi, è rimasta vittima di un bombardamento nei pressi dell’ambasciata americana. Ora vive solo con la figlia in età da matrimonio e il figlio ancora piccolo. E proprio per questo che non desidera ospitare uomini estranei»
Samuel capì a chi appartenesse quello sguardo così penetrante che aveva intravisto. Era di una giovane fanciulla afghana e quella era l’unica parte del corpo che poteva offrire agli occhi degli sconosciuti. Era inesperto, ma non abbastanza da non sapere quali fossero i timori dell'uomo.
«Prova a dirgli che sono fidanzato. Non appena ritorno a casa mi sposo, lei mi sta aspettando»
«Temo non sia una garanzia sufficiente, Samuel»
Karim era dispiaciuto. Era l’unico a poter mediare e a contrattare tra i due, ma non riusciva a trovare un punto d’incontro tra le necessità di entrambi.
Il medico afghano analizzò sovrappensiero i vestiti di Samuel. Gli abiti occidentali civili ispiravano poca fiducia a qualunque nativo a cui fosse chiesto di offrire un tetto per un forestiero.
«Ti devi cambiare e togliere il cartellino che porti contro il petto. Altrimenti non sopravvivi un solo giorno qui. Sei americano, non è così raro che giornalisti americani spariscano e di loro non si abbiano più notizie»
Nessuno aveva ancora trovato il coraggio di descrivere con una tale schiettezza il destino contro cui rischiava di andare un ragazzo nel fiore degli anni. Per la prima volta, da quando quell’avventura era iniziata, Samuel avvertì una stretta allo stomaco per la sua incolumità. Da diverse ore ormai non metteva qualcosa sotto i denti, eppure avrebbe solo desiderato vomitare.
Il rombo di alcuni elicotteri distrasse il giovane da quella sensazione di nausea. Le eliche vorticavano sopra le abitazioni di pietra e le loro teste. Nessuno dei due afghani si stupì, Samuel invece avvertì un’insolita sensazione di assedio, quei velivoli seguivano una traiettoria a bassa quota e smuovevano un’intensa turbolenza d’aria.
Il capo del villaggio attese che i mezzi militari si allontanassero per tornare a rivolgersi infastidito a Karim. A Samuel non sfuggirono le gestualità dell’uomo, l’espressione corrucciata e il tono di voce elevato.
«Karim, è arrabbiato con me?»
«No. Dice che da giorni ormai gli aerei americani volano sopra il suo villaggio in direzione di Kabul. È solo stanco come tutti noi della guerra e non riesco a dargli torto»
Il fedele accompagnatore dedicò a Samuel uno sguardo rammaricato e il ragazzo avvertì un velo di accusa. Era certo non fosse una questione personale, ma agli occhi di Karim era un occidentale e, come molti connazionali che si trovavano in quelle terre, era favorevole ad una guerra che uccideva milioni di civili innocenti, esattamente come era accaduto alla moglie di quell’uomo.
Samuel non aveva alcuna esperienza sul campo, le pochissime informazioni che era riuscito ad ottenere su quel conflitto provenivano dalla CNN e da qualche testata giornalistica, compreso il Los Angeles Times. I colleghi che prima di lui avevano affrontato quell’avventura erano tornati tutti a casa per raccontarla, nessuno di loro era rimasto segnato nel corpo e nell’anima. Si domandò come fosse possibile rimanere totalmente indifferenti ai numerosi stimoli che lo circondavano e svolgere quel lavoro come se fosse l’ordinaria cronaca di una rapina in banca. Il direttore Clark l’avrebbe definita professionalità, Samuel la considerava semplice insensibilità.
«Karim. Puoi dirgli che mi dispiace tanto per la sofferenza che state patendo? Non sono stati gli americani a dichiarare guerra, ma gli estremisti. Non importa se non vuole ospitarmi, capisco la sua diffidenza»
L’umanità del ragazzo stupì il medico. Samuel si trovava in Afghanistan da poche ore, eppure mostrava già completo rispetto verso quella popolazione, a lui totalmente sconosciuta. Doveva trattarsi di una predisposizione al prossimo innata, non aveva altre spiegazioni plausibili.
Karim gli posò una mano sulla spalla, accennandogli un sorriso.
«Non preoccuparti, ragazzo. Puoi stare da me. Vieni, ti presto qualche vestito e ti do qualcosa da mettere sotto i denti»
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Non appena Samuel fu entrato nell’abitazione di Karim, posizionata al centro del villaggio, comprese che l’uomo che lo aveva accompagnato fin lì era il medico della sua gente, prima ancora di prestare servizio all’ospedale di Kabul.
L’ambiente in cui si trovavano era lontano anni luce dalle comodità della civiltà. Negli Stati Uniti lo avrebbero definito meno di un monolocale, forse in senso dispregiativo lo avrebbero paragonato addirittura ad una topaia. Era allestito con un tavolo di legno marcio posto al centro della stanza, un letto - se così si poteva definire - nell’angolo e un mobile anch’esso di legno con l’anta mezza diroccata che fungeva da armadio e conservava tutti i pochi averi dell’uomo.
Al giovane americano non sfuggì quello che doveva essere il bene più prezioso per Karim: una piccola libreria incastonata nella pietra, appena sopra lo scomodo giaciglio. Il medico gli aveva spiegato che si trattava di rudimentali volumi di chirurgia, essenziali per poter soccorrere con celerità i feriti più gravi, in assenza di strumentazione adeguata.
Quando Karim lo aveva invitato ad accomodarsi alla sua tavola e gli aveva offerto una razione di pane raffermo che probabilmente rappresentava la sua dose giornaliera, Samuel sentì il cuore stringersi in una morsa. Non riuscì ad accettare con leggerezza un gesto tanto generoso.
«Cosa c’è? Non ti piace il pane? Lo so, non è il massimo. Ma dobbiamo accontentarci»
Samuel allontanò la ciotola di legno con dolcezza, per poterla avvicinare al padrone di quella povera casa che si trovava dall'altro lato del tavolo. Karim gli aveva posto la domanda con troppa ingenuità. Si premurava di accontentarlo, far in modo che si sentisse a suo agio, anche molto lontano da casa.
«Non me la sento di privare te»
«Pensi sia la prima volta che resto senza cena? Ho pranzato e per oggi mi è sufficiente»
Karim riavvicinò la razione di cibo al suo ospite, non mancando di accompagnare quel gesto con un sorriso rincuorante.
«Su, coraggio, mangia. Ti cerco i vestiti»
Samuel seguì i passi di Karim fino all’armadio. Più di una domanda sorse spontanea al ragazzo, quell’uomo era troppo povero per occuparsi di un occidentale, provvedeva a malapena alla sua sussistenza.
Il giornalista ignorò il pane, non si sarebbe appropriato nemmeno di una briciola, la sua fame non doveva essere nelle priorità di alcuna persona. Si avvicinò al medico, si inginocchiò a sua volta per raggiungere l’altezza di Karim e fu Samuel ora a posare una carezza sulla sua spalla.
Il buon uomo che gli aveva offerto aiuto con generosità era un medico laureato, ma in quel paese non ricopriva un ruolo prestigioso e ciò non gli offriva alcun beneficio; solo conoscenze che sfruttava al servizio del prossimo, viveva nella stessa indigenza del resto della popolazione.
«Karim. Ti sono grato, ma preferisco tornare in ambasciata. Si occuperanno loro di me e della mia permanenza qui. Non ha alcun senso privarti di tempo e risorse, risparmiali per chi ha veramente bisogno. Ti chiedo solo un ultimo favore, riusciresti a riaccompagnarmi dove ci siamo incontrati?»
L’uomo aveva cessato le sue ricerche per ascoltarlo, ma non era affatto d’accordo con lui. Era un bravo ragazzo, meritava il suo tempo, il suo aiuto e la sua attenzione. Sentiva di non sbagliarsi, la sua anima era pura.
«Senti, Samuel. Non mi sei di alcun disturbo, vivo da solo e necessiti di qualcuno del posto che ti aiuti. Per quanto l’ambasciata risulti il luogo più sicuro per gli americani, non lo è affatto. È un bersaglio esposto ad attacchi e non mi stupirebbe se un giorno la distruggessero»
La verità piombò addosso al giovane come una doccia fredda. Era ingenuo pensare che in quei territori si potesse scovare un angolo al riparo dalla morte e dalla distruzione. La stessa moglie del capo di quel villaggio era morta in seguito ad un attentato organizzato a pochi metri dall’ambasciata americana.
Karim era fiducioso che Samuel accettasse quella proposta. Prima ancora che il forestiero gli rispondesse, aveva già recuperato una kurta[3] pulita, un paio di pantaloni e un copricapo molto simile a quello indossato dai beduini nel deserto. Gli porse gli indumenti con un mezzo sorriso, si era preso un impegno dall’esatto momento in cui aveva deciso di scortare e guidare un americano in territorio minato.
Con modestia, doveva ammettere che senza lui sarebbe già morto, fosse solo per le origini e l’esperienza di Karim.
Il medico fissava impaziente il suo ospite, il quale a sua volta scrutava pensieroso gli abiti che gli venivano offerti con una generosità disarmante.
Il momento di stasi che i due uomini stavano vivendo fu interrotto bruscamente da un violento schianto del legno della porta contro il muro di pietra.
Karim era rivolto verso l’ingresso e comprese subito la gravità della situazione. Accostò i vestiti al petto di Samuel con distrazione e si piombò ad accogliere colei che aveva fatto irruzione in casa sua.
Quando Samuel si voltò, la scena che si stava consumando davanti ai suoi occhi lo fece rabbrividire. Una donna con il capo coperto reggeva tra le braccia un bambino che dava pochi segni di vita, solo qualche leggera scossa che dimostrava quanto il suo corpicino stesse lottando contro la morte.
L’afghana lasciò che il medico si portasse dolcemente il piccolo contro il petto; quel gesto rivelò una macchia rossa estesa sulla stoffa chiara del niqab[4] della donna.
Samuel riconobbe quello sguardo femminile e delicato dall’unico dettaglio che gli era stato consentito conoscere di lei. Per una frazione di secondo, rimase incantato dall’azzurro intenso che solcava il viso della figlia del capo del villaggio. Nell’arco di quel breve tempo, lei non si accorse nemmeno della presenza del ragazzo, era concentrata sui gesti di Karim e nel suo sguardo traspariva solo una grande preoccupazione.
L’americano, con un grande sforzo psicologico, cercò di uscire dalla catalessi in cui era entrato. Abbandonò i vestiti sul tavolo e si avvicinò al suo nuovo amico.
Samuel non aveva una gran fretta di sapere cosa facesse soffrire quella creatura, il fatto che provasse così tanto dolore non lo rendeva preparato a scoprirlo. Scoprire che si trattava proprio di uno di quei bambini che aveva intravisto giocare a cricket poco prima lo sconvolse. Aveva un braccio insanguinato, ma Karim sembrava più impegnato a tranquillizzare il piccolo, porgendogli qualche carezza tra i capelli sudati e sussurrandogli dolci parole in arabo.
Samuel si avvicinò a loro e si chinò ai piedi del letto su cui il ferito era stato adagiato. Per la prima volta lesse angoscia sul volto di Karim.
«Non ho farmaci per alleviare le sue sofferenze. Non ho…»
Il ragazzo colse una lacrima percorrere rapida la guancia leggermente ispida del medico. Si voltò verso la donna e la vide appoggiata allo stipite della porta - o quel che sembrava - in evidente stato di rassegnazione. Rivolgeva lo sguardo al cielo, stava sicuramente pregando il cielo che le concedesse un ultimo miracolo.
«Karim, chi è questo bambino?»
«È Hassan, il fratello di Maryam. Ha toccato una mina. Non so come aiutarlo»
L’uomo era disperato. Faceva tutto ciò che era in suo potere per calmarlo, ma non era sufficiente, era necessario un intervento medico urgente. Samuel posò una mano sulla spalla di Karim sperando di infondergli forza.
«Samuel, se non faccio qualcosa si dissanguerà. Non arriviamo in tempo all'ospedale da campo e quello di Kabul è inagibile»
«Karim, non puoi perdere lucidità, non ora che…aspetta»
Il giovane era rimasto talmente impressionato dalla tragedia che si stava consumando sotto i suoi occhi, che non aveva pensato al tentativo più sensato da fare in quei casi. Si slacciò con rapidità la cintura dei pantaloni, la fece scivolare tra i passanti e la porse al medico. Quest’ultimo non si decideva ad afferrarla.
«Lo so, perderà il braccio. Ma avrà salva la vita, se fermi l’emorragia»
Il viso di Karim era diventato una maschera di cera, la sua mano era tremante. Hassan non era un paziente qualunque, era un amico che stava diventando un'ennesima morte innocente di un genocidio evitabile.
Accettò la proposta di Samuel, ma sapeva che in ogni caso il futuro di quel bambino non sarebbe stato roseo.
Il ragazzo non rimase a guardare in quale modo il medico si sarebbe mosso con l’aiuto della cintura. Gli faceva male il petto, ormai stanco di assistere ai tremori e ai gemiti sofferenti di una piccola vittima.
Diede una decisa spinta al letto per alzarsi, con la speranza che le gambe lo reggessero ancora. Non incrociò lo sguardo delle persone presenti in quella stanza. Anelava solo di raccogliere un po’ d’aria, sentiva una strana pressione comprimergli i polmoni.
Poco distante da una schiera di case in pietra, c’era una vasca, anch’essa in pietra, stracolma d’acqua. Samuel non si pose alcuna domanda, non era acqua corrente, ma sembrava limpida, visto che rifletteva la sua immagine provata. Necessitava di sciacquarsi il viso accaldato dall’agitazione.
Si appoggiò al bordo di quel grande contenitore e scoppiò in lacrime. Le piccole gocce d'acqua sulle sue guance erano evaporate subito sotto il sole di metà pomeriggio e avevano lasciato il posto a scie salmastre, i cui segni erano più difficili da cancellare.
Se quella era la guerra, lui non era certo di riuscire ad assistervi. Aveva su di lui un impatto emotivo troppo violento.
Sfogò in quel pianto tutta la tristezza che il suo cuore serbava. La sua mente continuava solo a riproporre l’immagine di quel bambino riverso nella pozza del suo stesso sangue.
Perché lui e Karim non avevano avvisato quei ragazzini di allontanarsi da un luogo tanto pericoloso per giocare? Perché lui non li aveva avvertiti? Samuel li aveva notati, Karim probabilmente no, altrimenti li avrebbe salutati, non avrebbe proseguito la sua strada ignorandoli.
Temeva che quella fosse la norma laggiù, una triste realtà a cui avrebbe dovuto abituarsi, se voleva portare a termine il suo compito.
In quelle terre non aveva un rifugio in cui stare, ma non avrebbe chiesto al suo buon amico altri sacrifici. In poche ore aveva provato sulla propria pelle le condizioni di miseria in cui viveva quella popolazione.
Come riusciva Christian a prendere parte a quella guerra, pur conoscendo l’inferno che spettava alla gente che viveva nel mezzo di una terra di fuoco? Si rammentò di non essere troppo ingenuo, condividere un viaggio di mezza giornata non consentiva di conoscere una persona, per quello non bastava una vita intera e suo padre ne era la prova inconfutabile.
«Si abbeverano gli animali lì dentro»
Una voce improvvisa alle spalle di Samuel lo fece trasalire. Si era voltato, ma non aveva perso il contatto fisico con la nuda roccia.
Era quella giovane afghana, Maryam. Gli era lontana qualche metro, la sua voce risuonava ovattata a causa del velo che le incorniciava il volto e le copriva la bocca, eppure dal tono al ragazzo parve che avesse accennato un sorriso sulle labbra.
In quelle vesti Samuel non riusciva nemmeno ad attribuirle un’età, c’era la possibilità che non fosse neppure maggiorenne o forse lo era appena diventata.
«Conosci la mia lingua?»
«È stato Karim ad insegnarmi l’americano. Sai, non tutti gli americani sono buoni come te ed è utile capire cosa dicono. Hai salvato mio fratello, te ne sono grata»
Non aveva salvato proprio nessuno. Quel bambino sarebbe rimasto segnato a vita per colpa di una stupida mina antiuomo. Forse gli aveva addirittura regalato un’esistenza piena di sofferenze e difficoltà.
«So a cosa stai pensando, americano. Qui però è un po’ diverso rispetto al mondo da cui vieni tu. Per noi anche un alito di vita è prezioso. È speranza e sono certa che lo pensi anche Hassan. Hai risparmiato un altro grave lutto alla mia famiglia. Come posso sdebitarmi?»
Avrebbe voluto offrire lui qualcosa a loro e non certo il contrario, ma aveva le mani legate contro una guerra più grande di chiunque. Erano ingiustizie inaccettabili le differenze tra Occidente e Oriente, le condizioni di vita che quel popolo doveva sopportare erano inumane. Avrebbe desiderato più potere per aiutarli, migliorare anche solo un decimo delle loro vite.
Recuperò un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciugò gli occhi e le guance bagnate da un misto di acqua dolce e salata. Quell'iniziativa gli diede modo di prendere tempo davanti alla ragazza, non sapeva cosa dirle.
«Samuel. È vero che ti sposi?»
Il ragazzo fece solo un lieve cenno per affermare e nulla di più. Non era dell'umore giusto per ostentare entusiasmo al pensiero del suo matrimonio imminente.
«Lo dico a mio padre, così puoi stare con noi. È il minimo che possiamo fare per te. Se sei già promesso, non avrà qualcosa da obiettare. Ti chiedo solo di rispettare le nostre regole. Mio padre è molto rigido e non transige»
La giovane stava tornando sui suoi passi, forse per parlare subito con il mullà[5].
«Maryam. Grazie»
Samuel non si era mai fermato a pensare quanto un sorriso potesse essere importante nell’interazione tra esseri umani, indipendentemente dalla cultura a cui essi appartenessero. Almeno fino a quel momento, in cui a sorridere furono solo gli occhi di Maryam, ma era sicuro che rispecchiassero la sua anima.
 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici!

Ci tengo a sottolineare che tutti i dettagli di questo e dei capitoli precedenti sono frutto di ricerche, note comprese (spero possano aiutarvi ad entrare meglio nel clima del territorio). Spero inoltre di essere stata il più attinente possibile alla realtà, anche se cruda, me ne rendo conto, ma in fondo la mia intenzione iniziale era proprio quella di descrivere quel mondo.
 
Ringrazio davvero di cuore tutti coloro che mi seguo e un ringraziamento speciale va a coloro che mi supportano dedicandomi tempo e parole incoraggianti. 💜
 
Alla prossima!
Un abbraccio a tutti voi,
Vale

 

[1] Generoso, buono d’animo.
[2] Uno degli sport più amati in Afghanistan.
[3] Capo di abbigliamento tradizionale, ampia camicia lunga fino alle ginocchia.
[4] Velo che copre l’intero corpo della donna, compreso il volto, lasciando scoperti solo gli occhi.
[5] Uomo di religione musulmana esperto di teologia islamica.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6_Il tocco dell'angelo ***


Il tocco dell’angelo


 



Poligono di tiro - base militare americana - 
confine Nord/Est di Kabul, 19 agosto 2018
 
 
 
Christian non aveva affrontato il jet lag nel migliore dei modi; da quando era atterrato, persistenti mal di testa lo avevano accompagnato nel corso delle ore, persino il silenzio insolito della notte appena trascorsa non era stato in grado di offrirgli un po’ di sollievo. La scossa di adrenalina era arrivata intorno alle sei di mattina, quando dall’altra parte del mondo riuscì a sentire la voce sottile della sua bambina; Alisia aveva sussurrato come se il padre fosse a pochi metri da lei, voleva ricreare un cantuccio di tempo tutto dedicato a loro; Christian aveva capito poco e niente dei suoi discorsi, si era lasciato solo cullare da quella dolce melodia e si era premurato di tranquillizzarla quando sul sorgere dell’alba in cielo l’anima spietata della guerra tornava a rinvigorirsi e a rombare spaventando la piccola oltre la cornetta. Grazie al breve scambio di battute con la famiglia, si era appisolato nel suo giaciglio scomodo qualche minuto con il cuore più sereno, in attesa che la sua avventura al fronte ricominciasse ufficialmente, dopo uno stallo di svariate lune. Non ricordava che le estati a Kabul fossero così calde, il surriscaldamento atmosferico, le conseguenze del buco nell’ozono e storie varie dovevano aver raggiunto anche quell’angolo della Terra dimenticato da Dio; aveva lo stomaco vuoto, non era riuscito a mettere qualcosa sotto i denti per colazione, avvertiva troppa umidità e l’angoscia per la missione che il generale Flores aveva posto nelle sue mani entrava nelle viscere contorcendole. Aveva rimuginato tutta la notte sui suoi doveri; quando si era arruolato in giovane età, lui meno di altri avrebbe previsto quel conflitto sanguinoso che ormai da anni stava radendo al suolo paesaggi e intere famiglie devastando il Paese. Era il lontano 2001 quando tutto ebbe inizio; Christian era poco più che ventenne, quando a reti unificate in mondo visione scorsero davanti ai suoi occhi immagini che sarebbero rimaste impresse sui libri di storia e nella mente di ogni testimone della tragedia che si stava consumando nel cuore di New York. Aveva come molti assistito impotente al collasso delle Torri, che minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, si sgretolavano come castelli di carta lasciando incredulo ed attonito mezzo mondo. Si erano sentiti tutti un po’ newyorkesi in quei terrificanti momenti di angoscia, motivo in più coloro che condividevano la stessa lingua e la medesima bandiera; Christian ebbe la forte tentazione di prendere il primo volo di linea e raggiungere l’altra parte del Paese, la sua fobia non lo avrebbe fermato in quelle circostanze; molti militari erano stati impiegati sul campo nel disperato tentativo di salvare i sopravvissuti, anche i feriti più gravi. Il Navy SEAL attendeva solo la più impercettibile vibrazione del cellulare che gli desse l’ordine di precipitarsi laggiù con un codice rosso. Il comando non arrivò mai da parte dei suoi superiori; era rimasto inerme per mezza giornata a sentire salire la conta delle vittime, le registrazioni delle chiamate ai soccorsi e le grida di coloro che stavano provando quell’orrore sulla propria pelle; la CNN per giorni aveva trasmesso solo volti terrorizzati e sconvolti avvolti nelle maschere bianche delle macerie, riproponendo in loop quei momenti concitati, anche quando la metropoli stava piano piano iniziando a realizzare il dramma di quelle ore. Fu l’unica volta in cui ringraziò il cielo per l’assenza dei suoi genitori, si erano almeno risparmiati lo spettacolo di quella apocalisse; erano morti con l’immagine del World Trade Center nel fiore del suo splendore. Neanche un mese dopo da quell’11 settembre, la guerra era esplosa in Medio Oriente; la televisione americana ne aveva dato il triste annuncio, molti civili avrebbero perso la vita e la loro esistenza non era certo meno preziosa dei quasi tre mila morti delle Twin Towers. Nell’ultimo ventennio i terroristi avevano iniziato a devastare il continente americano e quello europeo in nome di un dio che aveva come unica declinazione quella dell’odio; un odio che Christian mal sopportava e con il tempo fu proprio quella la miccia che accese il suo spirito patriottico; un sentimento potente verso la propria nazione era insorto nel cuore come l’amore per l’oceano e si era trasformato giorno per giorno nell’amore per la vita dei suoi connazionali e di civili innocenti. La guerra in Afghanistan per il Navy SEAL e suoi commilitoni era sempre stata occasione per un supporto all’esercito afghano e alla popolazione locale, per questa ragione non aveva indugiato ad intraprendere il suo primo viaggio in campo bellico. Non si era mai pentito di servire la propria patria e di fare tutto ciò che era in suo potere per liberare il mondo dall’odio; non aveva mai temuto di mettere a repentaglio la sua incolumità, era in fondo ciò che gli aveva procurato una medaglia al valore e i suoi attuali gradi; se fosse caduto, lo avrebbe fatto con onore e con la certezza di non aver arrecato dispiacere ad alcuno, gli unici che avrebbero avvertito la sua assenza sarebbero stati il suo buon amico William e sua moglie che probabilmente, giovane e bella, si sarebbe presto consolata.
Non era così ingenuo da credere che la svolta sensibile che aveva caratterizzato la sua vita nel corso degli ultimi nove anni non incidesse sulla sua carriera militare. Perciò le emicranie che lo tormentavano dall’esatto istante in cui aveva posto i piedi sul suolo afghano avevano un nome, anzi due – era innegabile che nel corso del tempo il legame con Katherine fosse diventato indissolubile da entrambe le parti –, e l’accaldata di cui stava soffrendo aveva una chiara causa. Da più di un’ora ormai tentava di fare entrare un proiettile della sua calibro 9x21 nel centro di un bersaglio, situato a dieci metri da lui; non era riuscito nemmeno a sfiorare il bordo esterno del cerchio; più falliva, più la frustrazione lo assaliva e con essa scemava la concentrazione, giungendo alla triste conclusione di non essere più in grado sparare; un lungo periodo di pace in mare era stato controproducente per le sue abilità già scarse di tiratore, era decisamente più ferrato nella tattica. Il posto in cui si trovava era un lerciume, veniva definito poligono per i quattro bersagli posizionati di fronte a lui a distanze differenti, per il resto c’era solo un’erba rigogliosa che saliva oltre le caviglie e un’atmosfera tetra; era uno spiazzo incolto e Christian si trovava sotto il sole cocente di metà mattina; non vi era alcun riparo, nemmeno una tettoia o un porticato e non vi era alcuna protezione né per i soldati che si esercitavano né per i visitatori, era posizionato all’ingresso solo un misero cartello in lingua americana mezzo distrutto dalle intemperie e dalle bombe. Era talmente frastornato dal rimbombo dei suoi stessi spari, che non riusciva più a distinguere gli scoppi prodotti dalle armi pesanti che avvertiva in lontananza; se una bomba gli fosse volata addosso non se ne sarebbe neppure accorto; tanto non se ne sarebbe accorto comunque, se era fortunato con un colpo secco se ne sarebbe andato all’altro mondo. Il sole iniziava ad avere pessimi influssi sulla sua mente, lui non poteva permettersi di essere colpito da alcuna bomba e l’alternativa più rosea era che lui riuscisse a difendersi con quella stramaledetta pistola. Esasperato dalla sua incapacità, iniziò a sparare una raffica di proiettili, sfogando tutta la sua frustrazione con l’unico risultato che si rintontì un altro po’. Aveva il fiato corto per la frenesia e l’afa, si placò e si chinò vinto tenendo le ginocchia sospese a mezz’aria. Posò i gomiti sulle ginocchia e lasciò che l’arma ancora fumante penzolasse dalle sue dita molli, anch’esse rassegnate all’evidenza. Abbassò lo sguardo al terreno arido sotto la natura selvatica e indomita; non riusciva più ad alzare gli occhi e a rivolgerli in direzione della palla di fuoco che risplendeva in cielo con vividi colori, le pupille bruciavano umide, reduci dalla luce intesa. Persino il metallo della fede che portava al collo era percepito da lui come rovente; non fu sufficiente indossare solo la stoffa esterna e decorata della divisa, l’aveva slacciata sul petto, gli importò poco del portamento non convenzionale, ma ciò non bastò a lenire le sofferenze fisiche e psicologiche.
«Sbagli approccio. Dovresti stare più calmo quando premi il grilletto»
«Sono l’uomo più calmo del mondo, ma con una pistola mi viene alquanto difficile»
L’inconscio di Christian – anch’esso sfinito – aveva udito quelle parole, ma le aveva attribuite ad un essere etereo. Ottimo, pensò, inizio ad avere le allucinazioni. Sentì dei passi leggeri, furono attimi infiniti, come se il tempo si fosse fermato all’improvviso e insieme ad esso anche la guerra. Un moto di delusione si impossessò del capitano, una giovane che probabilmente non superava i vent’anni gli tese la mano con risolutezza. Il portamento della ragazza era di gran lunga più consono del suo: indossava abiti militari a macchia di leopardo dalle tonalità verdi e un berretto in tinta, i capelli biondi erano rigorosamente raccolti in uno stretto chignon.
«Posso provare?»
Christian indugiò, il soldato dai lineamenti femminili era in controluce e con difficoltà distinse i suoi tratti fisici, complice la vista affaticata; accettò infine la sfida, lui in fondo aveva già perso quella mattina autostima, grinta ed ora anche la dignità davanti ad un sottoposto, aveva almeno sperato fino in ultimo che qualcuno non stesse assistendo a quella personale sconfitta. L’ufficiale munì la pistola di un caricatore pieno sostituendo quello che aveva scaricato tutto d’un fiato. La ragazza afferrò con maestria l’arma e con entrambe le mani la puntò contro il primo bersaglio distante tre metri da loro; si concesse qualche secondo per riscoprire la concentrazione necessaria, socchiuse le palpebre per mettere a fuoco la mira e con un colpo netto raggiunse il centro esatto. Si servì della stessa identica tecnica per colpire fino all'ultimo bersaglio con successo, lasciando il tenente di stucco e ancora più demoralizzato. Non c'era la minima traccia di goffaggine in lei, era delicata, premeva il grilletto con scioltezza e leggerezza, le sue dita non arrivavano quasi a sfiorarlo.
«Devi essere fresca di accademia, insegnano quella posizione lì. Metti in pratica solo le basi, nulla di più»
«Sì, tenente, non si preoccupi, non è lei ad essere un impiastro totale»
La giovane liberò una risata genuina e gioviale; non trasparì il più piccolo accenno di malizia in lei, nelle sue iridi tinte come il colore della notte a Christian sembrò di scorgere la stessa fanciullezza di Alisia.
«Ehi, signorina, ti consiglio di moderare i termini. Per quanto possa essere un fallito, stai parlando con un tuo superiore»
L’uomo si alzò dalla sua posizione accovacciata e dall’alto del suo metro e ottanta la sovrastò accigliato. Aveva infuso alla ragazza una buona dose di soggezione; si era sentito punto nell’orgoglio, per quanto fosse umile, l’istinto maschile non tardò a risvegliarsi. Lei cercò di tornare seria nel minor tempo possibile, si era accorta tardi di avere esagerato, aveva riservato troppa confidenza ad un tenente capitano della Marina Militare; l’avevano avvertita che per i mesi a venire nella base militare ci sarebbe stato un compendio di forze armate; aveva osato rivolgersi a lui con quei toni solo perché quell’uomo sembrava essere il più cordiale della base, ma forse aveva preso un ennesimo granchio. Restituì l’arma al capitano e con rispetto gli rivolse il saluto militare. A fatica la giovane riuscì a contenere la sua naturale solarità, fu costretta a mordersi le labbra per non cedere alla tentazione di proferire qualche parola di troppo. Christian non fece trapelare alcuna emozione, ma in cuor suo la invidiava; la spensieratezza di lei doveva essere dovuta all’assenza assoluta di vincoli, vista la giovane età non era sposata e con molte probabilità non aveva nemmeno un fidanzato ad attenderla, forse solo genitori che l’amavano; era un’anima libera e se a casa c’erano mamma e papà ad aspettarla poteva ritenersi fortunata, aveva la prospettiva delle loro braccia pronte ad accogliere il suo ritorno. Christian invece crepava solo per la paura di lasciare la sua famiglia, non poteva permettersi mosse azzardate.
«Le porgo le mie più sincere scuse, capitano. Sono il soldato Gwendoline Ward. Il generale Flores desidera parlarle. Le chiedo di seguirmi»
A Christian non era nuovo il cognome di quella giovane recluta, gli suonava estremamente familiare, ma non riusciva a collegarlo ad alcun evento passato; forzare la mente a ricordare accentuava le sue emicranie, così decise di aspettare che i ricordi affiorassero spontaneamente. Il soldato Ward non attese di sentire i passi di Christian alle sue spalle, la ragazza era uscita dal perimetro del poligono e si era avviata con formalità verso la torre di vedetta. L’ufficio del generale Flores era situato nell’entroterra rispetto ai confini che ospitavano l’unità militare; il Navy SEAL seguì Gwendoline attraverso una porticina diversa rispetto a quella che aveva varcato al suo arrivo, era l’edificio più alto in proporzione al resto delle costruzioni circondate da filo spinato. Christian ebbe la sensazione di essere entrato nell’atrio di una torre gotica dalle pareti strette e una batteria di gradini che si estendeva verso il soffitto, del quale dal basso non si intravedeva il termine; non era un edificio diroccato come lo era la restante parte del complesso, il tenente si sentì catapultato nel passato, le mura in pietra avevano un aspetto retrò di parecchi secoli; le pareti spesse producevano una frescura nettamente in contrasto con l’afa che attanagliava in una morsa soffocante le giornate di fine agosto; di contro però alla piacevole sensazione refrigerante, l’ambiente era intriso di una forte umidità che non si accostava bene con il sudore di cui il petto e le tempie erano imperlati, un brivido gelido perciò lo percorso lungo la spina dorsale. Christian ringraziò che insieme alle sue fobie e alle emicranie non soffrisse anche di claustrofobia e vertigini, le rampe di scale erano strette, la larghezza tra una parete e l’altra era minima e come ogni torre degna di nota toccava il cielo. Il Navy SEAL lasciò il passo alla giovane, intuendo che insieme non avrebbero potuto solcare la scalinata; proseguì dietro di lei lasciandosi guidare fino all’ufficio del superiore; doveva ammettere però che quella fosse una posizione strategica per mantenere sotto controllo le mosse dei nemici, al suo pari c’era solo la torre di vedetta.
«Mi dispiace davvero per prima, capitano, non era mia intenzione prendermi gioco di lei. Volevo solo aiutarla, la vedevo in difficoltà»
La voce di Gwendoline si era trasformata in un sussurro, i suoni in quel luogo producevano un forte eco, quasi solenne, e lei desiderava che la conversazione con lui rimanesse riservata. Christian cercò di concentrarsi sulle sue parole, benché lei fosse di spalle, e impiegò lo stesso tono per risponderle.
«Aiutarmi? Mi hai inabissato»
«Sì, lo so, tendo ad essere un po’ propositiva»
«Solo un po’?»
La ragazza con un passo sbieco riuscì a voltarsi verso di lui e a dedicargli un sorriso imbarazzato. L’uomo scorse nella penombra le gote del suo sottoposto imporporarsi, non vi era più traccia nei suoi occhi della grinta mostrata davanti ai bersagli di tiro. Era giusto e sacrosanto che conservasse con cura la sua personalità, non doveva permettere all’orrore della guerra di indurire il suo cuore; provare emozione era una delle doti più genuine dell’essere umano ed era sublime ammirare quel fenomeno sul volto di una donna nel fiore degli anni. Continuava ad invidiarla; era cosciente che l’invidia non rientrasse nella moltitudine dei sentimenti puri, ma il suo cuore a vent’anni era infiammato solo da un dolore intenso e da un profondo odio verso un destino crudele; solo il tempo e le prime esperienze in battaglia offrirono l’occasione per trasformare quel rancore in solidarietà verso le sofferenze altrui, in alcuni casi più profonde delle sue. Il passato di Gwendoline doveva essere stato roseo oppure aveva solo elaborato un lutto più velocemente di quanto non fosse riuscito a fare lui. Lo incuriosiva, il cuore della recluta era un’intricata trama intrisa di mistero; se aveva deciso di iscriversi all’accademia per arruolarsi e ne era uscita con successo, aveva di sicuro avuto ragioni profonde, il suo sguardo spensierato era solo lo strato esterno e visibile agli altri.
«Il tuo atteggiamento è utile in guerra, ma non abusarne, potresti avere gravi conseguenze. Sii contenuta in caso di necessità»
La ragazza lesse negli occhi chiari dell’uomo i ricordi indelebili di una guerra passata, era più esperto di lei, perciò non se la sentì di dissentire; sapeva di essere l’emblema dell’impulsività, molti superiori in addestramento avevano criticato un atteggiamento così leggero e superficiale che non avrebbe giovato né alla sua incolumità né a quella dei suoi compagni. Gwendoline aveva solo imparato con il tempo a cogliere il presente sfuggevole; il passato non era stato clemente con lei, era certa di non portare i segni sul viso, lottava ogni giorno contro se stessa affinché ciò non accadesse. Combatteva per la sua vita e quella di altri esseri umani, con l’intima speranza che arrivasse presto un tempo in cui nessuno più dovesse patire le pene inferte da uomini spregiudicati. Quando il generale Flores aveva ordinato al soldato di cercare l’ultimo arrivato e di scortarlo nei pressi dell’ufficio del superiore, lei non aveva avuto alcun dubbio; il nome del Navy SEAL le era risuonato nelle orecchie per anni durante la sua adolescenza, fino a giungere al punto di considerarlo parte della sua famiglia, benché non lo avesse mai visto. Con molte probabilità era riuscita ad abbinare un volto a quel nome; non aveva ancora ricevuto la conferma, eppure aveva iniziato ad emozionarsi dall’istante in cui lo aveva osservato sparare in solitudine, era in parte dovuto a quello l’atteggiamento stupido che si era permessa di tenere al suo cospetto. Nei racconti che vedevano protagonista quell’uomo, era dipinto come un fuori classe, un soldato capace di miracoli in campo; tra le mura di casa Ward, non venivano solo trasmesse le sue gesta, spesso e volentieri emergeva anche il suo buon cuore; era certa di averlo sorpreso in un raro momento di debolezza che si era concesso lontano da occhi indiscreti, ciò non lo rendeva meno capace, solo umano; lei aveva tentato di rasserenarlo, ma era stata troppo indiscreta, aveva esagerato, in fondo lui era pur sempre uno sconosciuto circondato da un’aura familiare grazie a ricordi di altri impressi nella sua memoria. Gwendoline interruppe i suoi passi lenti e affaticati, bloccando la strada anche all’uomo; accostò la schiena al muro e incrociò infreddolita le braccia al petto, l’umidità dell’ambiente le si stava infilando nelle ossa.
«Capitano, lei è lo stesso Richardson che nove anni fa evitò un agguato proprio qui a Kabul?»
Non aveva la reale necessità di ricevere una conferma, era certa secondo dopo secondo che si trattasse davvero di lui; era stato un incontro inaspettato, ma molto emozionante, nella sua mente se lo era figurato quasi come una meta inarrivabile, le infondeva quasi soggezione, nonostante lui dal vivo sembrasse un uomo cordiale ed affabile. Christian le rivolse un lieve cenno con il capo, non avrebbe potuto sopportare altri inutili elogi; tutti si sarebbero presto ricreduti sulle sue abilità, era solo stato accompagnato in passato da una buona dose di fortuna, la stessa che non lo aveva neppure sfiorato in altre circostanze della sua vita.
«Allora conosceva mio padre. Avevo undici anni, quando combatté in Afghanistan. Mi ha parlato spesso di un giovane Christian a cui voleva bene come un figlio»
La notizia lo colpì come un fulmine, mozzandogli quel poco di fiato che il calore gli aveva risparmiato nei polmoni. La mente del tenente impiegò una frazione di secondo per collegare il cognome della ragazza al volto del primo sergente da cui ebbe avuto il piacere di ricevere ordini; lo ricordava come un uomo giusto, dal quale prendere esempio come soldato e persona. Quando la missione che avevano condiviso in Afghanistan era terminata con esito positivo, si erano a malincuore persi di vista; lo commosse scoprire a distanza di anni l’opinione che nutriva ancora nei suoi confronti, era reciproco.
«Sei la figlia di …»
«Sì, sono la figlia del sergente dell’aviazione americana Barkclay Ward. Con l’unica differenza che non so volare come lui»
L’uomo iniziava a scorgere con sempre maggiore nitidezza la somiglianza tra padre e figlia, i lineamenti del volto erano i medesimi, solo femminili e più delicati. Avrebbe voluto rivelarle la sua fobia per rincuorarla, ma gli era parso di aver già compromesso fin troppo la sua integrità, dignità e professionalità davanti a lei.
«Come sta tuo padre? Non lo vedo e non lo sento da una vita. Immagino si stia godendo la pensione, l’aeronautica militare ne starà soffrendo, ha perso la sua punta di diamante»
L’aviazione aveva perso sul serio uno dei suoi migliori uomini e il miglior superiore che avesse attraversato i ranghi di quella forza armata. Gwendoline rivolse lo sguardo al suolo nel magro tentativo di celare il nodo che dallo stomaco si era incastrato nella gola, fu immane lo sforzo di ingoiarlo, come se fosse un boccone più amaro del fiele.
«È morto due anni fa, un infarto me lo ha portato via»
L’entusiasmo iniziale di Christian si dissolse, era risultato inopportuno, ma lui non poteva immaginare; la voce del tenente risultò strozzata, non più sussurrata per necessità; fu un duro colpo per lui sapere che un uomo da cui era stimato e che stimava aveva lasciato la vita terrena.
«Vedo che hai seguito le sue orme, ora capisco da chi hai ereditato l’abilità con la pistola. Era un uomo in gamba tuo padre. Buona parte di ciò che so è merito suo»
Sapeva che la moglie del sergente Ward era morta nell’attentato al World Trade Center di New York, ciò lo aveva spinto a prendere parte a quella guerra, ma non aveva mai menzionato ad una figlia poco più che bambina; ciò fece pensare a Christian che qualcosa si fosse rotto in lui dopo la morte della consorte, il suo cuore non vedeva altro che la vittoria delle truppe americane su chi gli aveva strappato la donna che amava e il tenente era a conoscenza del profondo amore che il sergente provasse per lei. Gwendoline era rimasta orfana come lui in giovane età; il capitano comprendeva bene la sensazione di rimanere soli così giovani, ma lei la stava prendendo con uno spirito diverso, amava la vita, lottava per essa, forse era davvero più forte di lui e non solo con le armi.
«Ho deciso di onorarlo arruolandomi, sì, voglio portare a termine la sua missione»
Era infervorata da un profondo senso di giustizia, per la prima volta Christian lo lesse sul suo volto; non c’era nulla di male, purché, al pari del padre, non perdesse di vista la realtà. Non riusciva però a criticarla apertamente, conosceva sulla pelle la sofferenza, perciò non voleva essere indiscreto.
«Le avrà parlato di mia madre, suppongo. Avevo solo due anni il giorno in cui morì, non ricordo praticamente nulla, ho ricostruito i ricordi grazie a mio padre ed ora non c’è più nemmeno lui. Mi scusi. Sono felice che lo abbia conosciuto ed io sono lieta di aver dato un volto al famoso Christian. Desiderava tanto un figlio maschio, mia madre è morta prima di darglielo e lui non ha voluto più alcuna donna»
Barkclay non aveva mai confessato a Christian ciò che rappresentasse per lui, ma era convinto che tra loro ci fosse sempre stato un implicito rapporto filiale, era strasicuro che si fossero lasciati come buoni amici. Forse era stato meglio che i suoi genitori fossero morti insieme, dall’esperienza del sergente, non sapeva da vedovi come avrebbero potuto reagire alla perdita del consorte. Gwendoline, in preda alla malinconia, completò la sua missione conducendo Christian davanti alla porta dell’unico ufficio presente lì dentro. La ragazza fece fatica ad alzare lo sguardo su di lui dopo aver rivelato le sue origini e dopo la loro breve e intensa conversazione.
«Ok, capitano, la lascio al generale Flores. Le auguro buona fortuna»
Seguì con lo sguardo i passi della giovane mentre riscendeva le scale e quando scomparve oltre le pareti, Christian tornò a concentrarsi sul luogo in cui lo aveva lasciato; l’augurio di buona sorte prima di affrontare un colloquio con un superiore non era affatto di buon auspicio; non conosceva quel generale per poter azzardare giudizi su di lui, gli era solo sembrato un uomo di polso, ma ciò poteva voler dire tutto come niente. Il tenente era certo volesse parlare del nosocomio, era una questione delicata ed era logico volesse essere messo al corrente dei progressi sul piano d’azione. Prese un lungo respiro, non aveva ancora la soluzione in tasca, solo qualche idea, ma comunque non sufficiente per muovere una spedizione in sicurezza dal fuoco nemico e con ogni previsione a loro favore. Socchiuse la porta ruotando delicatamente la maniglia; non vide la necessità di bussare, lo stava aspettando e questa era la sua unica certezza.
«Generale?»
«Entri, tenente»
L’ufficiale veterano stava spiando il mondo esterno da una finestrella dotata di sbarre, tipica delle prigioni d’altri tempi; non considerò subito l’arrivo del suo ospite, lo accolse con indifferenza e freddezza, benché fosse stato lui a convocarlo con una certa urgenza.
«Si accomodi»
Christian eseguì l’ordine tormentato dal distacco con cui continuava a rivolgersi a lui. Il comandate dell’unità della base militare americana situata a Nord/Est di Kabul era in quella stanza con il Navy SEAL, ma la sua mente era altrove.
«Generale, se l’argomento di questa conversazione è la missione, ho bisogno di altro tempo, sto studiando le vie limitrofe all’ospedale e …»
Gli sembrava di essere tornato sui banchi di scuola, quando si faceva piccolo piccolo sotto i riflettori dello sguardo severo del suo docente di latino; ora come allora si sentiva sotto accusa come se non stesse svolgendo con sufficiente impegno il suo compito.
«Credevo che lei fosse il migliore sul campo e di aver riposto la mia fiducia nella persona giusta. Credevo che lei fosse lo stesso uomo di nove anni fa»
Una nota di delusione trasparì nella profonda e matura voce del generale; quell’uomo si era voltato verso Christian e aveva puntato gli occhi di ghiaccio su di lui; al più giovane non rimase che tentare di giustificarsi.
«Generale, mi creda, capisco il rischio che stanno correndo civili e soldati, ma io sono solo un uomo che sta cercando di salvare migliaia di vite umane, è un’operazione delicata»
Il superiore sbatté un foglio sulla scrivania davanti a Christian facendolo trasalire, la conversazione aveva impregnato l’aria di tensione; quest’ultimo afferrò serio il foglio di carta bianca e lo lesse intimorito, si sentì sotto accusa senza capire dove avesse peccato.
«Se non si distraesse, tenente, sarebbe tutto molto più semplice»
Era una lista di turni giornalieri e notturni, nel quale più volte compariva il suo nome e sempre alla stessa ora. Christian non sollevò lo sguardo nemmeno quando l’uomo riprese a rimproverarlo posando le mani sul ripiano della scrivania e sbraitando infastidito a pochi centimetri da lui.
«Pensa forse di prendermi in giro in un modo così infantile? Si è arrogato il diritto di scegliere i turni notturni per poter sentire la sua famiglia, senza considerare che il riposo sia essenziale anche per lei, se vuole portare a termine con successo quella missione e vuole tornare dalla sua famiglia. Credevo di collaborare con un professionista, non con un uomo qualsiasi che si lascia vincere dai sentimentalismi»
«Tante cose sono cambiate dalla mia ultima missione»
«La guerra non è cambiata»
«Ma la mia vita sì! È nata mia figlia e lei non può pretendere che trascorra mesi senza sentirla. Non ho intenzione di esimermi dai miei doveri, le chiedo solo di considerare che oltre ad essere un soldato sono anche un padre»
Christian si infervorò per la prima volta; aveva sbraitato in faccia ad un suo superiore, forse il generale aveva ragione, più invecchiava e più non riusciva a contenere i propri sentimenti; si permetteva di fare la predica al soldato Ward, ma lui non era meno impulsivo di lei. Il generale lo aveva lasciato sfogare ed infine si rivolse a lui con una calma ferma e inquietante.
«Mi dia il telefono»
«Come?»
«Il cellulare, capitano Richardson. Ora. Alternerà i turni esattamente come tutti noi. Non mi importa dei suoi gradi, questa è la mia unità e lei sta alle mie regole»
Il Navy SEAL indugiò rimanendo basito; non si era mai guadagnato una punizione in anni di carriera, lo rassicurava solo il fatto di averla ricevuta in nome di Alisia. Non poté fare altro che cedere, recuperò il telefono dalla tasca interna della divisa sbottonata, che non si era nemmeno premurato di chiudere in occasione di quel confronto formale, e lo aveva posato sul legno della scrivania con un sonoro tonfo.
«Prego. Spieghi lei a mia moglie perché non le sia consentito sentirmi»
Non rivolse più lo sguardo al generale, non lo riteneva degno di considerazione; un uomo che non era in grado di capire i timori più intimi dei suoi uomini, non era un buon comandante, Christian stesso lo era con il suo plotone nel Coronado e mai si sarebbe permesso di esercitare un simile comando sui soldati che guidava nelle missioni attraverso l’oceano. Il tenente si alzò con slancio e grinta, uscì sbattendo la porta e proprio insieme a quel rumore intenso, che impedì a Christian di sentire altri suoni, sullo schermo del suo cellulare uscì il nome Kathe, lasciando Flores incerto sul da farsi.
Il Navy SEAL si precipitò all’esterno della torre, non aveva perso la rabbia nei confronti del superiore, anzi gli ostacoli che quell’uomo aveva posto lungo la sua strada avevano peggiorato le sue condizioni psicofisiche. Aveva percorso in discesa la lunga scalinata con passo celere per scaricare il più possibile l’agitazione accumulata, desiderava solo cercare lo sguardo della ragazza che aveva appena conosciuto, aveva un disperato bisogno di lei e non credeva che una recluta per lui potesse diventare tanto essenziale; lei però non era un soldato semplice qualunque, aveva avuto un modello stimato che era stato per molti, non solo per lui, una garanzia.
«Gwendoline»
La trovò seduta sopra una banca di legno a pochi metri di distanza da lui; era chiaro a Christian che si fosse abbandonata ad uno dei rari momenti di demoralizzazione e ipotizzò fosse stato stimolato dalla loro recente conversazione, parlare di suo padre doveva averla sconfortata. Christian non aveva il tempo di consolarla, aveva un’importante richiesta per lei; non le era ancora abbastanza vicino, eppure la ragazza udì forte e chiaro il tono elevato dell’uomo che richiamava con risolutezza la sua attenzione.
«Gwen. Ho bisogno che mi insegni quella tecnica»
«Quale tecnica, capitano?»
«Andiamo, sono sicuro che quella maestria sia frutto di una tecnica che l'ufficiale Ward ti abbia insegnato»
La giovane si concesse qualche secondo per riprendersi e tornare ad essere reattiva, come era giusto che fosse in tempo di guerra; tanti ricordi si frapposero nella sua mente, non solo quelli in cui suo padre le aveva insegnato a sparare, una moltitudine di momenti che rimpiangeva, erano stati troppo pochi, le era stata strappata l’unica àncora che le consentiva di sopravvivere. Con fare paterno, Christian si inginocchiò ai suoi piedi.
«Per favore, stavolta non posso permettermi di rimanere sul campo di battaglia. Devo portare a termine questa missione, salvare quell'ospedale e riunire la mia famiglia. Ho sulle spalle la responsabilità di troppe vite umane»
Gwendoline lesse una fiamma viva negli occhi del tenente, suo padre l'aveva, lei vi aspirava solo, ma era comunque suggestiva anche sul volto di un perfetto sconosciuto che le sembrava di conoscere da sempre grazie ai racconti di guerra del sergente Ward. Christian era esattamente come se l'era immaginato, tenace, non sapeva cosa fosse successo tra lui e il generale Flores, ma quel breve scambio di opinione gli aveva infuso una grinta sorprendente.
«Mio padre chiamava quella tecnica il tocco dell'angelo. Diceva che la pistola doveva essere resa mansueta per chi la impugnava, doveva essere letale solo per il bersaglio, ma sparare con eleganza e delicatezza. Ciò secondo lui garantiva una traiettoria di tiro perfetta»
Christian sorrise immaginando il suo vecchio superiore mentre pronunciava le stesse parole alla figlia, lo rivedeva in lei. Era un uomo assolutamente elegante, non ammazzava mai per il gusto di farlo, ma quando era costretto a farlo, non c'era mai crudeltà in lui, solo legittima difesa.
«Torniamo al poligono, ti va?»
Le rivolse l’invito sorridendole con dolcezza. Il soldato Ward non aveva alcun amico in un mondo di uomini, la base era stracolma di militari che diffidavano di una donna e lei era sola contro tutti, nonostante dimostrasse ogni giorno di essere all’altezza di molti di loro, se non superiore ad alcuni. Dai racconti di suo padre, Christian sembrava essere il candidato perfetto per stringere una solida amicizia, si sarebbero aiutati e supportati a vicenda, Gwendoline ci sperava.


 
Ciao ragazzi!
 
Sono un mostro, lo so e il genere drammatico non mi legittima ad esserlo. Per giunta spuntano personaggi come funghi via via che la trama progredisce ... ^^". Sono stata estremamente crudele in questo capitolo, mi dispiace. Ho esagerato anche sulla lunghezza, ammetto di essermi lasciata prendere troppo ^^”.
Grazie davvero di cuore per continuare a leggere questa storia, io non ci scommetterei mai un centesimo. In particolare ringrazio, uno per uno, tutti coloro che mi supportano con parole stupende e inaspettate <3
 
Alla prossima!
Un grande abbraccio
-Vale

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Capitolo 8
*** Capitolo 7_Notizie che risuonano da lontano ***


Notizie che risuonano da lontano
 


 
San Diego, 21 agosto 2018
 
 
Erano trascorsi già due giorni di silenzio totale e non era ciò che Christian le aveva assicurato. Katherine viveva nel vuoto cosmico da troppe ore; ciò le fece perdere il sonno dal momento in cui il cellulare di suo marito iniziò a risultare staccato, gli ultimi squilli rimasero nell’oblio e lei non sentì la sua voce nemmeno in occasione dei loro appuntamenti quotidiani. Persino i numerosi messaggi che la donna aveva spedito al Navy SEAL erano rimasti senza risposta, si erano trasformati in una sorta di sfogo all’ansia che opprimeva la mente, ne aveva inviati decine, quasi uno all’ora. Le sarebbero state sufficienti due parole per alleggerire il suo cuore tormentato; un semplice sto bene e Katherine avrebbe ricominciato a sperare in un lieto fine e di ritornare presto alla serenità che condividevano. Non era tipico di Christian rendersi irraggiungibile; era un marito attento e un padre fin troppo apprensivo, non avrebbe mai perso l’opportunità di avere notizie della moglie e della figlia se non ci fosse stata una forza maggiore della sua volontà ad impedirglielo. Non riusciva ad ignorare l’insolito comportamento dell’uomo, la guerra non era un motivo sufficiente per dimenticarsi della California e dei cuori che aveva lasciato in sospeso tra le onde alte dell’oceano. Era la seconda notte che trascorreva in un profondo stato di insonnia, senza avere la minima idea di cosa fare per tranquillizzarsi; non aveva altra scelta che rassegnarsi alla triste incertezza che incombeva come un’ombra sulle compagne dei soldati impegnati nel conflitto, con l’augurio che stavolta non fosse un pessimo presagio.
Non era facile per lei vivere tra quelle mura senza Christian; ogni angolo di quella casa le ricordava lui, le pareti erano tappezzate di foto di famiglia, in cui loro tre erano ritratti nei momenti più felici della loro vita insieme. Una fotografia in particolare le faceva fare un tuffo nel passato di quasi dieci anni, più intensamente da quando sopportava l’assenza del marito. Era un fotogramma che risaliva al loro matrimonio, il giorno più bello e strano della vita di Katherine. Pochi intimi nel loro caso era un eufemismo, alle loro nozze presenziarono solo gli sposi e un paio di testimoni, uno dei quali era William. Le era sembrato nella notte di Natale del 2008 di essersi immersa tra le pagine dei Promessi Sposi[1], con l’unica differenza che loro, diversamente da Renzo e Lucia, non avevano organizzato alcun matrimonio improvvisato e segreto, erano riusciti a programmare la data e il padre spirituale di certo non remava loro contro. Fu una notte magica – la più magica dell’anno per antonomasia –, indossavano abiti da cerimonia, ma nulla paragonabile ad un matrimonio in grande stile e godevano felici della semplicità del lieto evento che li vedeva protagonisti. I genitori di entrambi gli sposi erano assenti, ma solo quelli di Christian erano giustificabili; i signori Scott erano stati invitati da Katherine, con l’illusione che il matrimonio dell’unica figlia avesse potuto appianare ogni incomprensione, invece suo padre si era categoricamente rifiutato di consentire a quell’unione e così lei aveva solcato la navata centrale della chiesa da sola. Non si era mai pentita delle proprie scelte, le avrebbe prese e riprese ad ogni occasione; i suoi genitori non capivano che stavano odiando l’unico uomo che lei avesse mai amato, per il quale nutriva un amore corrisposto.
Un intenso temporale si stava abbattendo sulla città devastando la vegetazione; l’oceano, che Katherine e Christian amavano contemplare insieme, era in turbolenza proprio come la loro vita da una manciata di giorni. Mezzanotte era passata da tre ore, non era importante che non riuscisse a riposare, il giorno successivo non le era stato assegnato alcun turno in spiaggia. Il volume del televisore era al minimo per non disturbare i sogni di Alisia e l’unico sottofondo era il vento che sbatteva l’acqua contro le mura esterne della villa; la donna si stava augurando che l’antenna non attirasse i fulmini, l’assenza di tuoni la faceva ben sperare sia per lei che per la figlia. Lo sguardo smeraldino di Katherine era perso tra i servizi che i corrispondenti della CNN giravano in territorio afghano e la sua mente stanca era in balìa delle prospettive più nefaste.
Katherine maneggiava di continuo il telefono con la speranza che lo schermo si illuminasse. Le sporadiche notizie sulla guerra in Medio Oriente le offrivano la flebile certezza che nessun attentato grave avesse di recente colpito quelle terre. Più volte ebbe la tentazione di chiamare l’ambasciata, solo Dio sapeva quanto si fosse sforzata per resistere; l’esperienza passata con la rappresentanza americana a Kabul non era stata confortante, all’epoca non erano stati in grado di comunicare le condizioni di suo marito senza prima piegarla in due dal dolore; avevano esordito con parole che avrebbero spezzato la corteccia più robusta: ci rincresce, signora Richardson, comunicarle che suo marito risulti tra il numero dei dispersi, era la signora Richardson da poco più di sei mesi e aveva rischiato di diventare la vedova Richardson nel giro di una manciata di secondi. Christian ovviamente non era mai stato disperso, ma nel concitamento dello scampato attacco di nove anni prima non avevano ricevuto sue notizie per ore; ore in cui Katherine, sola tra le mura della casa che era diventata presto di entrambi, perdeva un anno di vita ad ogni minuto che trascorreva nell’angoscia.
Seguiva la programmazione dei canali americani senza alcun tipo di interesse, attendeva solo i tg con le notizie delle ultime ore, forse erano più rassicuranti e puntuali della stessa ambasciata; alle tre la CNN mandò in onda l’edizione notturna e fu in quel momento che la televisione conquistò la massima attenzione di Katherine. La rincuorò scoprire che non fosse in programma alcuna edizione speciale e che la guerra non fosse in primo piano, ma solo un corollario, quasi un aggiornamento di routine per tutti gli americani che seguivano con dedizione le vicende dalla patria. I riflettori si erano accesi su Kabul; in quelle terre d’Oriente era una giornata di sole qualunque, un giovane inviato si trovava sotto un cielo sereno che infondeva una finta pace; il ragazzo tentò persino un timido sorriso, Katherine non faticava ad immaginare quanta poca voglia avesse di simulare serenità. La voce del giornalista giungeva ovattata dall’altro capo del mondo e nemmeno le immagini risultavano essere particolarmente nitide; sullo schermo la CNN rendeva noto il nome del ragazzo, il quale secondo Katherine non poteva avere più di venticinque anni: si chiamava Samuel Clark e lavorava per il Los Angeles Times. La donna lo stava ascoltando con attenzione, non stava riportando nulla di diverso dalla sua testimonianza personale, in particolare si stava soffermando sui problemi sociali della popolazione che si trovava in mezzo a due fuochi e non sapeva come sopravvivere un giorno di più. Con tutto il rispetto, sussurrò Katherine, io non me la sto passando meglio; nessuno sembrava pensare alle famiglie dei soldati che combattevano al fronte. La guerra aveva conseguenze devastanti, sia fisiche che morali, su molti, di qualunque nazionalità essi fossero. Il reporter proseguiva sottolineando le condizioni del tutto inumane in cui i fanciulli trascorrevano la loro infanzia, tra bombe, mitragliatrici – per difesa e offensiva – e campi minati; era toccante il suo racconto, era nettamente in contrasto con il sole limpido che gli illuminava il viso contratto dal dispiacere, come se avesse vissuto sulla propria pelle i segni tangibili delle sofferenze di cui narrava. In condizioni normali a Katherine sarebbe scorsa qualche lacrima per il triste destino di quelle creature che non avevano meno dignità della sua bambina, ma quella notte l’angoscia che provava era dedicata solo a Christian. La donna afferrò il telecomando; lasciò il giovane al triste resoconto delle problematiche sociali che si stavano abbattendo sull’Afghanistan, infauste tanto quanto le sette piaghe d’Egitto. Anche quel Samuel stava rischiando la vita, Katherine premette il pulsante di spegnimento augurando buona fortuna a quello sconosciuto che si stava avventurando su terreni paragonabili alle sabbie mobili; la CNN stava trasmettendo il suo racconto da una steppa incolta devastata dalle bombe, l’atmosfera da cui era circondato il giornalista era tristemente suggestiva. Furono le ultime immagini che rimasero impresse negli occhi della donna, con il suo gesto non si spense solo la luce del televisore, il soggiorno rimase avvolto nelle tenebre, così come il resto dell’abitazione. Un tuono potente e inaspettato fece vibrare i vetri delle finestre, mentre Katherine accendeva la torcia del telefono. Si avvolse meglio nella vestaglia di cotone, un brivido di freddo l’aveva percorsa, e si premurò di cercare in qualche cassetto una candela e dei fiammiferi per illuminare almeno un angolo della casa in attesa che il temporale placasse la sua furia. Non la spaventavano i rovesci climatici, per quanto potessero essere intensi, desiderava solo che i forti boati non svegliassero Alisia e inquietassero il suo riposo; la piccola sentiva accentuata la mancanza del padre da quando le comunicazioni con lui erano state inspiegabilmente interrotte. La donna posò la candela già mezza consumata – non erano così rari i blackouts sulla costa – su un porta lumini di vetro, lo appoggiò sul tavolino e si accomodò sul divano; accostò i gomiti alle ginocchia unite, si stropicciò le palpebre pesanti con pollice e indice ed infine puntò le iridi sullo schermo scuro del cellulare. Un ennesimo tentativo non avrebbe causato danno ad alcuno, ma avrebbe dato a lei la percezione di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per risentirlo; in ogni caso sarebbe rimasta impotente a qualunque destino sarebbe spettato al marito. Compose il numero di Christian e attese che la comunicazione venisse stabilita; il telefono non squillò, proprio come nelle ultime ore, il cliente da lei chiamato era come di consueto irraggiungibile. Katherine interruppe la mancata chiamata prima che scattasse la segreteria e la voce cordiale dell’uomo la annunciasse. Era rimasta sola con una bambina di sei anni e le era stato tolto l’unico sollievo di cui potesse beneficiare nell’arco della giornata; così era esagerato, era un silenzio surreale e preoccupante che proseguiva da troppo. Di norma non avrebbe fatto suonare in piena notte il telefono di William che viveva in uno dei tanti grattacieli di San Diego, quindi a pochi chilometri da lei; poteva vantare di avere con quell’uomo un’amicizia lunga più di dieci anni, ma, per quanto lui fosse restio a qualunque relazione stabile, lei non era certa che non si trovasse in dolce compagnia. L’amico le ispirava sempre affabilità, ora ne necessitava più che mai, inoltre, ragione non trascurabile, in quanto testimone di nozze, si era impegnato a vegliare sui coniugi Richardson, nel bene ma soprattutto nel male; fu piacevolmente sorpresa di scoprire che non avesse spento il telefono, lo lasciò squillare una manciata di volte, finché la voce assonnata dell’uomo consentì alla donna di colmare la bolla d’aria in cui era entrata e che era inondata soltanto dallo sfogo del cielo.
«Katherine»
Quando la voce di William la raggiunse però, riscoprì il pudore che aveva perso affidandosi a lui ad un’ora così tarda; non le uscirono le parole che si era ripromessa di proferire non appena lo avesse sentito pronunciare il suo nome.
«Kathe. Mi senti?»
L’uomo possedeva una nota di preoccupazione nel tono; sentiva che lei era dall’altro capo della linea, percepiva nitido il suo respiro pesante, chiaro sintomo che il suo cuore fosse affannato.
«Katherine, mi stai spaventando. È successo qualcosa a Christian?»
«Lo hai sentito? Non mi risponde da giorni»
Al nome del marito, sentì la necessità impellente di domandare ansiosa, senza sapere se effettivamente lui avesse qualche notizia in più, anzi quasi certamente non l’aveva, lui per primo stava indugiando.
«William»
«Fino a Kabul un temporale potrebbe rendere difficili le comunicazioni. Non sono trascurabili le condizioni metereologiche»
«No, Will, non è colpa del temporale. Il telefono di Chris risulta staccato da due giorni. Sono in pensiero»
Katherine lo aveva chiamato per ricevere una parola di conforto, non certezze che non sapeva offrirle; tentò di farle percepire la sua vicinanza con un sorriso, rendendo la sua voce meno assonnata e più dolce.
«Christian sta bene. Non mi intendo di guerra o di forze militari, ma da quello che so è il migliore nel suo campo. Lo sa il mondo intero e non può essere che proprio sua moglie non lo ricordi. Abbi fede, Kathe, lui torna a casa, metterei la mano sul fuoco e non avrei affatto paura di scottarmi. Prima di andare in ufficio più tardi passo da voi. Prova a dormire qualche ora»
«Ti ho disturbato, mi dispiace»
«Stavo solo dormendo, nulla di importante»
William sminuì il suo bisogno di riposo, come solo un vero amico sapeva fare.
 

 
 
Los Angeles, 21 agosto 2018
 
 
La radio sulla stazione della CNN stava tenendo compagnia al direttore Clark dall’alba, da quando aveva ricominciato a chiudersi nel suo ufficio in redazione. Più il tempo trascorreva e più Daniel era certo che quelle quattro mura spesse insieme ad un buon sigaro fossero la soluzione migliore all’infinità di problemi che lo circondavano, dentro e fuori la sua famiglia. Casa sua non poteva definirsi luogo tranquillo dalla partenza del figlio; la rabbia della moglie incombeva da giorni su di lui e spesse volte l’atteggiamento rancoroso della compagna aveva spinto Daniel a pensare che forse sarebbe stato più sano chiudere anni prima con il genere femminile.
Buona parte dei conoscenti lo accusava di essere un pessimo padre, i più ardimentosi si arrogavano addirittura il diritto di puntargli apertamente il dito contro. Nessuno di loro però si trovava nei suoi panni, aveva percorso i suoi stessi passi o vissuto la sua vita. Nessuno di loro era il direttore di una testata giornalistica e aveva nelle mani la gestione di uno dei quotidiani più influenti negli Stati Uniti d’America.
La bufera che si era sfogata la notte appena trascorsa nei cieli di Los Angeles, e su mezzo suolo americano, gli aveva causato una persistente emicrania; in assenza del dolore fisico avrebbe riposato senza alcun impedimento, a differenza della moglie in ansia per le sorti del figlio. Daniel si augurava che quella donna avesse avuto modo di sentire il servizio di Samuel da Kabul; il ragazzo era in piena forma, la sua voce era squillante, il direttore era certo che avrebbe portato alto l’onore del Los Angeles Times tra le fila dei giornalisti più illustri di cui l’America potesse beneficiare. Daniel aveva ascoltato con interesse le parole del figlio; era rimasto piacevolmente sorpreso, aveva una buona predisposizione anche come telecronista e non era così frequente per un neolaureato che sperimentava come primo viaggio estero zone di guerra. La voce di Samuel era calma, si incrinava solo fomentata dalla passione con cui avvalorava le condizioni di vita degli afghani. Era sempre stato un ragazzo sentimentale, fin troppo, ma Daniel era certo che il pubblico avrebbe apprezzato e con esso i dirigenti della CNN che avrebbero riscontrato una buona audience.
Da giorni ormai il Los Angeles Times non pubblicava articoli interessanti sulle vicende al fronte. L’ultima notizia riguardava il rientro in patria di una decina di militari che, dopo un lungo periodo in Afghanistan, si apprestavano a vivere un meritato congedo; erano notizie liete, facevano bene al cuore degli americani, ma settembre era alle porte, il mese più difficile per la Nazione era dietro l’angolo, specie per i connazionali che combattevano e consentivano ai civili sul suolo americano di risollevare la testa dalle macerie e ricostruire così la dignità nazionale.
Non era rimasto affatto indifferente al servizio televisivo e radiofonico del figlio riproposto dalla CNN ad ogni edizione informativa sull’attualità; anche durante il lavoro, la voce del ragazzo, attraverso la radiolina posta a pochi centimetri dalle sue mani, gli teneva compagnia. Daniel era impegnato a scrivere l’ennesima e quotidiana lettera del direttore che dedicava a tutti i suoi lettori, assidui e non; ispirato dalla presenza effimera del figlio, ebbe la forte tentazione di spendere qualche parola a riguardo. Davanti al direttore erano posti un semplice foglio bianco A4 e una penna a sfera nera il cui inchiostro era quasi terminato.
 
Cari lettori,
gli ultimi giorni sono stati ricchi di speranza per la nostra Nazione, dal fronte non risuonano canti di morte per i nostri connazionali. Mi auguro insieme a voi che questo stato di quiete possa perdurare il più a lungo possibile.
La guerra sta strappando uomini, donne e bambini alla vita in ogni parte del mondo. I nostri soldati, medici, volontari e corrispondenti rappresentano la patria, portano l’orgoglio americano in Afghanistan e l’America è con loro. Affidiamo a Dio la loro anima, affinché possano fare ritorno presso le loro famiglie.
Daniel Clark
Direttore Los Angeles Times
 
Era raro che impiegasse il cuore con sincero rammarico e non per opportunismo, forse perché ne era personalmente toccato e il discorso in stile Winston Churchill era la prova tangibile. Senza rendersene conto aveva lasciato che il cuore si esprimesse al suo posto, era stata una sensazione strana, dolce e dolorosa nel medesimo angolo del petto. Sentire per la prima volta la voce del figlio risuonare così lontana gli infondeva angoscia, come se lo avesse sempre dato per scontato.
Un colpo secco contro la maniglia della porta lo riscosse dal momento di raccoglimento in cui era immerso e d’impulso avvertì la premura di abbassare il volume della radio, onde evitare che Delilah lo sorprendesse in un peccaminoso stato di debolezza. La figlia si era avventata verso di lui con il suo solito passo da paladina della giustizia; stava per ergersi in difesa di qualcosa o qualcuno e lui avrebbe scoperto presto l’oggetto occasionale delle loro regolari discussioni. La donna aveva occhiaia scure sotto le ciglia inferiori, frutto sicuramente di un lungo turno notturno al St. Vincent Medical Center; il suo nervosismo doveva essere dovuto in buona parte alla mancanza di riposo, prima ancora che all’insofferenza che provava nei confronti del padre, perciò Daniel non si scompose, non ritenne necessario alzare i toni.
«Tu e tuo fratello avete gli stessi pessimi vizi»
Delilah aveva posato i palmi sulla scrivania e sul foglio su cui stava lavorando Daniel per interromperlo con irruenza; non fece neppure caso alle parole che l’inchiostro della penna nera aveva inciso.
«Per vizi in comune intendi un padre come te? O forse più che un vizio tu sei una calamità»
«Sei ancora arrabbiata per Nathan?»
L’uomo persisteva a risponderle con voce calma e non la degnava di uno sguardo, come se stesse parlando con chiunque altro. L’indifferenza agli insulti irritava parecchio Delilah, più di un qualsiasi rimprovero; in quel modo non le offriva la possibilità di sfogare il rancore che provava, non era capace di concederle nemmeno quella soddisfazione. Lo fissava con disgusto e delusione mentre era impegnato a cercare in ogni angolo della scrivania l’accendino, i cerini e qualsiasi cosa gli avesse consentito di accendere il sigaro nuovo che teneva ben saldo tra le dita. Quando finalmente Daniel trovò con compiacimento l’agognato oggetto del suo desiderio, ben nascosto sotto l’angolo di cartoncino appartenente ad un fascicolo da visionare, la figlia repentina vi posò sopra il palmo. Il direttore aveva alzato gli occhi castani su di lei infastidito; Delilah avrebbe giurato di aver letto una punta di sfida nelle sue iridi.
«Ripeto, sei ancora arrabbiata con me per quello che ti ho detto riguardo a tuo marito?»
«No, stavolta no. Hai il dono di seminare distruzione ovunque, non sono la tua unica vittima. Ad esempio, hai venduto Samuel come giornalista alla CNN??»
Daniel riscoprì la sua solita grinta per difendere il lavoro che agli occhi di molti amava più del proprio sangue. Con le dita l’uomo forzò la presa della figlia, le sfiorò il palmo e recuperò l’accendino; solo dopo essersi occupato del suo sigaro, tornò a concentrarsi su Delilah.
«La redazione non vive d’aria. Samuel lavora sempre per me, ma siccome attualmente si trova laggiù, non cambia nulla se realizza qualche servizio per i tg nazionali»
Cercò di riscoprire nel sigaro un calmante per lui diventato naturale, il posacenere veniva in suo soccorso ogni qualvolta ne avesse avuto necessità e nel corso di quella conversazione fu vitale, il tabacco veniva consumato con una certa celerità. Era troppo preso dalle sue abitudini per accorgersi che il fumo intenso provocava reazioni fisiologiche alla figlia: colpi di tosse e un’evidente – ma non per tutti – irritazione agli occhi che si sfogava in un’eccessiva lacrimazione. Non la conosceva nemmeno un po’ dopo trentaquattro anni di vita, non la osservava quando le era un palmo dal naso, ergo non gli importava nulla di lei; non avevano mai condiviso lo stesso tetto, ma era piuttosto certa che in caso contrario la convivenza non avrebbe mutato in positivo il loro rapporto.
«Quindi il Los Angeles Times campa sulle spalle di tuo figlio?»
«Non rischia di più con i nuovi incarichi, se è questo che ti preoccupa tanto»
Era allibita per l’indifferenza del padre, non era affatto normale il suo atteggiamento e il fatto che lui tentasse di spacciarlo per una buona norma era ancora più grave.
«Sai, papà, a volte mi chiedo seriamente con c'entri io con te, siamo troppo diversi»
«Hai finito il turno in ospedale, sei stanca e hai deciso di prendere la strada della redazione piuttosto che imboccare quella di casa e sfogarti su tua madre?»
Daniel si riaccese il sigaro che nel frattempo si era spento, lo lasciò tra le labbra e si occupò di riordinare i documenti sparsi sulla scrivania, invitando la figlia ad alzare le mani ancora posate sul foglio appena stilato.
«Venire da te è stato assolutamente intenzionale, come farsi sei piani a piedi solo per rivedere la tua faccia di bronzo. Non te ne frega nulla di me e di Samuel»
Le dita dell’uomo recuperarono il sigaro, ma non si lasciò distrarre da quello che stava svolgendo con meticolosità.
«Tuo fratello non la pensa così»
«Mio fratello ha un disperato bisogno di sentirsi amato da te. Per questa ragione ti basta schioccare le dita per manipolarlo come un burattino. Tu lo sai bene e questo non ti fa onore»
Era stata lei a sbattergli rassegnata in faccia la verità, la calma con cui aveva proferito le parole era stata inquietante.
«Delilah, non ti permettere più di parlarmi in questo modo. Hai lo stesso carattere orribile di tua madre. Nathan probabilmente se n'è accorto, per fortuna in tempo»
Suo padre stava facendo congetture insensate e senza logica puntandole irritato il dito contro e a lei venne quasi da ridere; non sapeva nulla riguardo a come si fossero lasciati lei e il suo ex marito, non si era mai interessato a lei, non poteva sapere, come non capiva che l’unico problema era stato lui nella sua separazione dalla madre della figlia. Come una punizione divina, Daniel fu costretto a ritirare il braccio con il qualche stava accusando la giovane donna, una fitta lo aveva colto alla sprovvista e la smorfia di dolore che mascherava il suo volto mise in allarme Delilah.
«Papà, cos'hai?»
La figlia si placò istintivamente, la mente e il cuore la protendevano all’aiuto incondizionato a beneficio del prossimo, anche dopo una lite ai ferri corti con il padre; era una dottoressa, aveva scelto di esserlo per vocazione e la sofferenza altrui la spingeva ad agire. Delilah non osò sfiorare l’arto dolorante solo per il timore della reazione dell’uomo, pensò lui a massaggiarsi la parte dolorante.
«Niente, mi fa male da un po'»
I pensieri della donna furono poco rassicuranti.
«Devi fare degli accertamenti. Non mi piace per nulla quel dolore»
Daniel scoppiò a ridere sarcastico, distendendo in parte la contrazione del suo viso.
«E a te cosa importa? Se crepo puoi finalmente stare più serena»
«Papà, non è un dolore trascurabile. Mi viene in mente un’ipotesi più terribile dell'altra, ma ho bisogno che ti sottoponga a qualche visita prima di esserne sicura»
«Non sei il mio medico»
«Ma sono tua figlia con una laurea in medicina e questo è il mio lavoro. Chiama il tuo medico e chiedi di farti prescrivere queste analisi»
Delilah recuperò un post-it colorato e la biro con la quale il padre stava scrivendo poco prima; l’inchiostro stava per esaurire, ma lei riuscì a terminare cercando di scrivere in una calligrafia comprensibile in favore della vista del suo vecchio.
«Dimmi quando avrai i risultati, li leggiamo insieme»
«E se non volessi farle?»
«Ti vuoi troppo bene per lasciarti morire. Papà, non trascurare i segnali che ti sta dando l’organismo. Conosco bene le tue abitudini e l'eccesso di fumo potrebbe essere una causa»
Daniel era convinto di non meritare una figlia così attenta.
«Posso chiederti di non dirlo ad alcuno? Per esempio alla mamma o a chiunque altro che sia mio familiare»
«Non sono il tuo medico, con te non vale il segreto professionale»
Gli sorrise con furbizia. Era orgoglioso di sua figlia, della sua professionalità e di ciò che era diventata negli ultimi anni, ma non era in grado di condividerlo con lei.
«Vado a casa a riposare»
Delilah si alzò e gli posizionò davanti il blocchetto di post-it su cui aveva scritto, indicandolo con la punta dell’indice e alludendo con convinzione al fatto che fosse davvero importante seguire il suo consiglio. L’uomo la seguì nei suoi gesti, in una rara occasione di trasporto emotivo verso la figlia.
«Hai avuto occasione di parlare con Samuel?»
La donna si limitò a negare con la testa ostentando malinconia.
«Aspetto mi chiami lui, non voglio disturbarlo. Non gli hai nemmeno parlato tu della CNN, hai lasciato che altri lo facessero al tuo posto?»
«Tipico di me, vero?»
La figlia si riaccomodò lentamente stupita, non era sicura di ciò a cui aveva appena assistito; il padre aveva un velo di mortificazione in volto, forse però era solo un’illusione ottica per quanto risultasse strano quel fenomeno.
«Intendi tipico di te fare lo stronzo?»
Il direttore Clark le rivolse un sorriso rassegnato e sincero mentre spegneva del tutto il sigaro nel posacenere servendosi di qualche colpetto deciso.
«Sai, quando sei nata ho avuto il sentore che fossi tale e quale a tua madre, ho sperato fino in ultimo che fossi diversa da lei e che di quella donna avessi ereditato solo la bellezza. Mi tocca ricredere, sei intelligente almeno tanto quanto lei»


 
Ciao ragazzi!
Sono tornata con l’immaginazione in California, ma non ho perso di vista le vicende di Samuel. Nel mio intento c’era infatti la volontà di prendere tre piccioni con una fava, spero di esserci riuscita ^^.
Se siete giunti fin qui nonostante le mille disgrazie che semino ovunque, vi ringrazio di cuore! <3
Alla prossima
Un grande abbraccio
-Vale
 

[1] Riferimento al capitolo VIII dei Promessi Sposi.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8_Tour tra la cultura d'Oriente ***


Tour tra la cultura d’Oriente

 


Nota: ho introdotto un breve passo tratto dal Corano, tradotto in italiano, in nota a pié pagina troverete i riferimenti.


 
Periferia Ovest di Kabul, 23 agosto 2018
 
 
L’anima di Samuel era infiammata dalle intenzioni più nobili. Il giovane giornalista aveva cercato Maryam in ogni angolo del villaggio, avventurandosi per ogni centimetro di terra battuta calpestabile senza incorrere nel pericolo; in assenza della fidata guida del medico la prudenza non era mai in eccesso.
Era prima mattina, l’alba era sopraggiunta da poco, eppure il ragazzo sentiva l’energia scorrere nelle sue vene; l’età giocava a suo favore, ma anche una buona dose di curiosità verso quelle terre sconosciute. Karim aveva promesso a Samuel che lo avrebbe accompagnato all’interno di una Moschea, dopo diverse suppliche da parte del giornalista; l’afghano era stato trasparente con l’ospite, da anni ormai visitare una Moschea poteva condurre ad una morte orribile a seguito di un attentato; Karim si sentiva in debito verso l’americano, aveva salvato Hassan e loro erano riusciti ad offrire a lui solo un po’ di ospitalità nelle loro povere dimore, non avevano perciò ricambiato in modo opportuno. A loro rischio e pericolo, il medico aveva accettato e aveva chiesto a Samuel di partire all’alba per raggiungere la grande Moschea Pul-e Khishti, situata nel centro della vecchia Kabul, una posizione che avrebbe potuto donare loro una piccola percentuale di sicurezza in più, lontano dal trambusto della città e delle vie principali. Se avessero posseduto un’auto, in poco più di un quarto d’ora sarebbero giunti a destinazione, ma in mancanza di essa Karim aveva stimato quasi un’ora e mezza a piedi, salvo imprevisti. Azzardare quel viaggio all’alba avrebbe giovato all’arsura di cui era perennemente impregnata l’atmosfera e sarebbero riusciti a visitare la Moschea prima della preghiera di mezzogiorno.
Samuel si era perciò svegliato all’albeggiare emozionato, aveva indossato la sua kurta e persino il copricapo, forniti da Karim, per affrontare il difficile percorso. Era reduce da notti non particolarmente comode su un giaciglio costruito con asse di legno, ma poteva ritenersi fortunato di essere stato accolto dal rigido mullà e per avergli concesso di mangiare alla sua tavola. Karim e Maryam non avevano affatto esagerato enfatizzando la durezza del capo del villaggio; quella mattina, come d’altronde accadeva dall’arrivo dello straniero, alla giovane afghana era stato vietato consumare i pasti alla stessa tavola e alla medesima ora del resto dei commensali. Era quello il motivo per il quale Samuel si era lanciato alla sua ricerca, non aveva ancora avuto modo di darle il suo buongiorno, o, come si usava fare laggiù, salam. Il giornalista aveva colto quel breve frangente, in cui Karim era impegnato nella sua prima preghiera della giornata, per parlarle; il medico gli aveva chiesto una decina di minuti prima della loro partenza, ma lui dopo cinque non aveva ancora scorto la ragazza da alcuna parte. Stava iniziando ad arrendersi rimandando il saluto al loro ritorno nel villaggio, quando intravide una giovane nei pressi di una piccola sorgente d’acqua, un’oasi in mezzo al deserto. Impiegò qualche istante a riconoscerla e non fu nemmeno certo fino in fondo che si trattasse di lei. Il niqāb era appositamente calato dal suo capo e rivelava una magnifica chioma color rame. Era rivolta verso di lui, ma era concentrata su altro per accorgersi della sua presenza: con entrambi i palmi stava sciacquando il suo viso scoperto dalla stoffa. Samuel non l’aveva mai vista in assenza del velo, ebbe la strana sensazione di violarla, come se si fosse privata dei vestiti davanti a lui. Allo stesso tempo però non riusciva a scollarle gli occhi da addosso, nonostante l’imbarazzo, era per lui molto simile ad un primo incontro che richiedesse qualche istante di conoscenza silenziosa. Il giovane ebbe il privilegio unico - all’infuori della famiglia e di pochi altri che la conoscevano fin da bambina - di scorgere i lineamenti di Maryam, delicati e poco più che infantili; le aveva forse attribuito troppi anni, era sicuro ne avesse almeno diciotto, aveva usato la maturità della ragazza come metro di misura insieme alla sua altezza, ma doveva purtroppo ricredersi. Era poco più di una bambina di quindici anni, massimo sedici e forse non ancora compiuti.
Misericordia. L’imprecazione morì sulle labbra. Da ciò che sapeva, quella giovane era prossima alle nozze con il beneplacito del padre, il quale, data la povertà in cui riversava il villaggio, necessitava di affidare la figlia ad un marito che se ne prendesse cura. Samuel aveva sottolineato solo poche ore prima, durante un servizio per la tv americana, la disperata situazione in cui riversavano i bambini-soldato e quelli che potevano ancora godere della propria infanzia, finché una bomba non la rubava prepotentemente; doveva tristemente ammettere e ricordare che anche la condizione del mondo femminile fosse drammatica.
«Samuel!»
Il ragazzo udì il suo nome nitido senza il filtro del velo, per la prima volta; la sua presenza la spaventò, benché avesse ancora il viso umido non indugiò a voltarsi e a cercare di ricomporsi. Il giornalista le lasciò lo spazio per raccogliere i lunghi capelli e coprire i tre quarti del suo volto.
«Maryam, tranquilla. Non ho visto nulla, sono appena arrivato»
L’istinto di Samuel fu quello di tenere lo sguardo rivolto al suolo, temeva di mancarle di rispetto incrociando i suoi occhi. Era davvero strana la sensazione che quelle terre infondevano ad un occidentale. Era naturale per le donne d’Occidente mostrare il capo, le fattezze, la propria identità, anzi, non era inusuale che ostentassero la loro bellezza. Samuel non era esperto di Medio Oriente, ma erano risaputi i dogmi che pesavano sulle spalle di quelle donne; ciò che lo spiazzò fu lo spontaneo rispetto verso la discrezione che a Maryam veniva imposta; era nata e cresciuta con quella convinzione, tradirla avrebbe equivalso a tradire il suo pudore. Samuel aveva riconosciuto il rossore sulle gote della ragazza, appena prima che venissero celate ad occhi indiscreti.
«C-cosa fai qui?»
«Io e Karim stiamo per partire. L’ho pregato di accompagnarmi a visitare una Moschea, ci tengo. Ti volevo chiedere se ti andasse di venire con noi»
«Non posso entrare in un luogo di preghiera accanto a due uomini, è severamente vietato per una donna. Come lo è entrare dalla porta principale»
Come lo è parlare con te ed inoltre senza la presenza di mio padre. Gli occhi di Maryam erano severi, traspariva rigore e obbedienza; a Samuel sembrò di scorgere anche un chiaro rimprovero per il suo comportamento invadente; fu proprio quest’ultima nota stonata a spazientire il giovane americano.
«Ne hai tutto il diritto! Sei una donna, ma non sei certo meno degna di un uomo»
«Da voi tutti i diritti vengono rispettati?»
Non sapeva cosa risponderle senza tradire il proprio patriottismo. Nel XXI secolo era già tanto che venisse rispettata almeno la metà dei diritti umani degli uomini e delle donne. Non era scontato e quelle terre rappresentavano solo la cassa di risonanza più lontana da quei diritti.
«Maryam, la guerra vi toglie già abbastanza. Non lasciare che ti venga tolta anche la voce»
«La voce mi sarebbe tolta insieme alla vita se osassi ribellarmi. Non pensare che io non conosca l’Occidente, Karim mi istruisce fin da bambina. Tra una frase americana e l’altra, mi ha raccontato degli Stati Uniti d’America, mi ha trasmesso tutto ciò che ha imparato in università senza che mio padre capisse una parola, anzi senza che mio padre sapesse l’apprendimento della nuova lingua»
La catturò una dolce malinconia, la sua anima era imprigionata dal ricordo dei racconti dell’amico; era grata al niqāb che in parte contenesse le sue emozioni.
«Karim mi ha anche detto che le vostre donne non indossano il velo»
«No, le nostre donne sono …»
Non osò dire libere. Non osava ferirla e umiliarla, stavolta per davvero, facendola sentire inferiore rispetto al resto dell’universo femminile che viveva in altre zone del mondo. Non voleva accentuare il fatto che lei non fosse libera. Libera di parlare, libera di mostrarsi, libera di amare. Libera di essere semplicemente se stessa. L’aveva ferita e umiliata scrutando il suo volto, ciò non aveva il sapore della normalità, ma di una costrizione.
«Tuo padre esagera, avresti potuto sederti a tavola con noi stamattina»
«Sei un forestiero. Mi è consentito banchettare solo con mio padre, mio fratello e un marito, quando lo avrò»
Maryam spiegò con pazienza all’americano che il mondo orientale girava in modo diverso; lei conosceva bene le differenze tra i loro mondi, Karim l’aveva istruita, aveva osato ciò che solo lui e pochi altri avrebbero fatto, con il rischio reale di essere additati come blasfemi. Il mullà non avrebbe mai approvato una promiscuità tra lei e il continente americano. Da quando la madre era morta temeva ancor più di tradire gli insegnamenti del padre e i suoi comandamenti. Maryam aveva permesso che il capo del villaggio la promettesse in sposa al capo del villaggio accanto per motivi di sostentamento e per far sì che tutto il villaggio potesse beneficiare della sorgente di acqua fresca che si trovava al confine tra le due comunità. Il mullà aveva scelto sua figlia come pegno e merce di scambio. In seguito ai racconti di Karim sugli Stati Uniti, non riusciva a rimanere indifferente al sentimento che accompagnava ogni nuova unione; anche Samuel si stava sposando per amore, un’attrazione fisica e mentale che lei sentiva di non provare per alcuno, men che meno per un uomo che aveva quasi il triplo dei suoi anni. Se avesse potuto scegliere, Karim sarebbe stato il candidato perfetto, ma lui non era parte di un altro villaggio e tanto meno il loro matrimonio avrebbe portato qualche vantaggio. Era certa che Karim, benché potesse essere suo padre, l’avrebbe trattata con rispetto; avrebbe potuto offrirle solo quello, nulla di materiale, e lui per primo si sarebbe rifiutato di celebrare il loro matrimonio; era troppo paterno, troppo rispettoso e si prodigava ad arricchire la sua anima, vedeva in lei sempre e solo quella.
«Dovresti parlare con tuo padre. Dovresti obbligarlo ad ascoltarti»
«I genitori esigono rispetto, lo dice il Corano, non mi è concesso contraddirlo»
La buon’anima della madre le aveva insegnato la lettura e la scrittura attraverso le frasi del testo sacro, la sua cultura si sarebbe ridotta ad una magra eredità di madre in figlia se non fosse stato per l’impegno che Karim si era assunto. Maryam conosceva a memoria il Corano, era fermamente convinta dei principi che affermava, nella sua mente era impresso il passo che riguardava l’argomento che stavano affrontando:
Il tuo Signore ha decretato di non adorare altri che Lui e di trattare bene i vostri genitori. (…). O Signore, sii misericordioso nei loro confronti, come essi lo sono stati nei miei, allevandomi quando ero piccolo[1].
«Devi seguire il tuo cuore e il cuore non ha alcuna religione»
Aveva socchiuso le labbra per rispondere a quell’americano saccente che credeva di possedere la verità assoluta. Samuel non poteva immaginare cosa serbasse il suo cuore, la guerra che stava devastando la sua terra natìa era nulla in confronto al conflitto che il suo petto ospitava. Le parole della giovane si spensero in silenzio oltre il niqāb, la voce cordiale di Karim interruppe la conversazione.
«Salam, Maryam. Buongiorno, Samuel»
«Salam, Karim»
«Maryam. Come sta Hassan?»
Il medico per rispetto allo straniero presente in mezzo a loro aveva deciso di rivolgersi a lei in americano.
«Sta bene, grazie a voi»
Sul volto del ragazzo si dipinse uno sbuffo di rossore, perdendo così la determinazione con cui poco prima avvalorava la sua opinione.
«Molto bene. Allora meriti un piccolo tour tra i meravigliosi colori dell’Afghanistan»
Nella voce di Karim trasparirono passione ed orgoglio nazionale in abbondanza.
 
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La vecchia Kabul – come lo stesso aggettivo indicava – rappresentava la città tradizionale, uno tra gli angoli più silenziosi della periferia del centro moderno di Kabul, a parte qualche area che fungeva da confine. In quel luogo isolato le possibilità di essere coinvolti in un attacco terroristico si riducevano drasticamente, l’affluenza non era degna di nota, così come non lo sarebbe stato il numero delle vittime.
Per Samuel fu un graduale addentrarsi nell’atmosfera orientale. Il giornalista e la sua guida raggiunsero quella zona già in preda alla sete, al sudore e alla stanchezza, eppure era proprio da lì che partiva l’itinerario più emozionante della giornata. All’incrocio di Minar-e Maiwand con la vecchia arteria commerciale di Jad-e Maiwand recuperarono le forze perse durante il tragitto e si rinfrescarono il volto accaldato; non mancavano sorgenti di acqua fresca, era uno dei punti più trafficati situato al confine con la città vecchia, un luogo di intenso traffico per i commercianti, in particolare per gli ambulanti. Poco distante infatti si estendeva il Ka Faroshi, l’antico mercato degli uccelli, che resisteva alla minaccia della guerra grazie ai pochi venditori superstiti.
L’attenzione di Samuel venne del tutto catturata; ciò che lo stupì fu l’inaspettata potenzialità dell’indigenza di quei luoghi, la stessa del villaggio che si erano lasciati alle spalle. Era proprio dall’essenziale che ripartiva la popolazione e offriva ad essa la forza di salutare un nuovo giorno carico di incertezza. I suoni – da quelli più dolci a quelli più gutturali – rappresentavano una concentrazione di emozioni che colpivano l’udito dei visitatori, spogliando il contorno dall’inutile sfarzo. Era un’immersione nella natura umana e animale. A Samuel sembrò di intraprendere un tuffo nel passato, quando a scuola studiava sui libri attraverso foto e immagini i territori antichi e moderni della Palestina, c’erano tutti i presupposti in ciò che stava vivendo in prima persona ed era affascinante. Karim aveva spiegato al ragazzo che il pennuto più pregiato in quei territori era la pernice rossa, in afghano kowk[2], e veniva custodita all’interno di gabbie intagliate nel legno; si trovavano in vendita anche piccioni e uccelli canori da cui provenivano suoni melodiosi e piacevoli.
Percorsero qualche metro verso la Moschea e si imbatterono nel Bazar dei Tappeti. Samuel non credeva di aver mai visto così tanti colori e forme nel medesimo istante; era una sensazione che estraniava, ma allo stesso tempo faceva sentire di essere nel posto giusto al momento giusto. Il giornalista aveva scrutato le opere d’artigianato da vicino; una trama in particolare colpì il suo cuore: su uno sfondo rosso sangue erano state cucite le sagome di elicotteri e carri armati, per ricordare a tutti il clima di terrore che vivevano ogni giorno da quasi diciassette anni. L’ambulante rivolse al reporter qualche parola incomprensibile in lingua locale; con rammarico Samuel gli fece cenno di non capire, fu Karim allora ad andare in suo soccorso.
«Ha domandato se ti piace e se sei intenzionato ad acquistarlo»
«Non mi piace per niente»
Il ragazzo passò oltre per evitare che lo sconforto avesse una pessima influenza su di lui. La macchia di morte raffigurata sulla stoffa stonava con i colori caldi e freddi che abbellivano il banco e l’intero bazar; era masochista da parte di quel popolo ostentare ovunque la drammatica attualità dell’Afghanistan, sarebbe stato più saggio riservare un angolo ai sogni e quale miglior modo se non quello di dipingerli su quei tappeti al posto di figure regolari e anonime? Per ricordare a sé stessi e agli altri, a tutto il mondo, che odio e sofferenza non avrebbero mai potuto e dovuto spezzare le ali della speranza. Samuel preferì soffermarsi su un’antica costruzione, restaurata nel XVIII secolo, a forma romboidale con all’apice un paio di cupole concentriche che si confondevano nell’azzurro del cielo; era il Mausoleo Timur Shah[3], un importante simbolo per il popolo afghano, ma lo sguardo triste del ragazzo ne apprezzò solo le mura esterne, non percepì il desiderio di approfondire il significato grazie alla sua guida.
Finalmente la cupola della grande Moschea entrò nel campo visivo dei due uomini; essa non era il punto più alto della costruzione, un obelisco si protendeva verso il cielo e sfoggiava gli stessi colori della costruzione principale. Ogni passo che Samuel e Karim intraprendevano li conduceva in un’atmosfera più raccolta, intrinsecamente solenne, dove la folla si diradava. Persino l’americano, non praticante di quella religione, ebbe l’istinto di accarezzare il suolo con passo felpato e non di pestarlo con un’andatura svelta, benché il piazzale antistante fosse ampio e sgombro.
Mancavano pochi metri per raggiungere l’ingresso principale. Samuel, come era solito fare ogni volta che si avventurava su terreni sconosciuti, rimase un passo indietro a Karim; l’afghano non avvertì il ragazzo dell’atteggiamento rispettoso che dovesse essere tenuto all’interno, era abbastanza pudico di sua sponte. Il giovane osservò il religioso portamento che veniva raccomandato in una qualsiasi chiesa cristiana cattolica occidentale. Karim bloccò i passi del forestiero sulla soglia, i colori avevano tramortito i sensi di un occidentale abituato ad ambienti più sobri, era prevedibile l’impatto che ebbe su di lui il luogo. Il medico indicò i suoi sandali e li sfilò per riporli poi sullo scaffale accanto a loro; attese che l’altro compisse il medesimo gesto. Samuel rimase scalzo e gettò uno sguardo ai ripiani stracolmi di calzari, appartenenti principalmente a uomini. A sinistra un dispenser di caffettani[4] e copricapi – accompagnati da cestini di vimini che custodivano offerte – invitava i fedeli e i viaggiatori ad inoltrarsi nel luogo di preghiera con abiti decorosi. Davanti a loro si estendeva uno spazio vasto, sovraccaricato dalle tinte più disparate, archi e colonne; la conformazione e l’architettura interna impattavano prepotentemente sulla percezione; il grigio della polvere delle macerie e il nero della morte erano solo puntini indefiniti che si perdevano e sparivano nella trasparenza delle vetrate variopinte. I raggi del sole, alti in cielo ai primi chiarori dell’alba, filtravano e produceva giochi di luce, incrociando i colori delle vetrate diametralmente opposte e inondando così l’intero ambiente.
Quando Karim iniziò ad avanzare e Samuel lo seguì, la morbidezza dei tappeti che sfilavano sotto la pianta dei loro piedi mise il ragazzo a proprio agio, infondendogli familiarità. L’ampia sala era mezza deserta; erano presenti solo un paio di uomini impegnati nella preghiera che rimbombava con parole misteriose contro le mura e il soffitto – Karim con i gesti suggeriva a Samuel di non fissarli e di non passare loro accanto – e una donna che attendeva a testa china nei pressi di un ingresso marginale. Capì che era una donna dalle movenze e dal portamento delicati, ogni dettaglio era nascosto con rigore. Era la seconda volta in un giorno che il giovane toccava con mano la sottomissione del genere femminile; non era abituato, pensava alle donne della sua vita – la madre, la sorella e la fidanzata –, ognuna di loro aveva una propria personalità, in Afghanistan invece sembrava che le donne ne fossero prive, contenevano forzatamente la propria identità e lasciavano che esplodesse dentro di loro – l’unica via di fuga concessa. L’unica fonte di espressione era rappresentata dagli occhi, quando essi non erano rivolti al pavimento, nel pieno rispetto verso chi le circondava. Samuel si accostò al dottore e sussurrò, ispirato dai suoi pensieri, desiderava condividere la sua opinione a riguardo.
«Karim»
Quest’ultimo lo rimproverò in silenzio, non era né il luogo né il momento per conversare. L’afghano afferrò un lembo della stoffa della kurta all’altezza dell’avambraccio di Samuel e lo intimò a seguirlo con discrezione verso l’uscita secondaria. Passarono accanto alla donna misteriosa che si nascondeva con timidezza sotto un burka[5] scuro; lei alzò lo sguardo su di loro, fu un gesto utile solo a scostarsi un po’ più in là per rispettare le distanze tra l’uomo e la donna, in quel luogo sacro vigeva la massima severità sulle regole tradizionali; oltre ad una fitta rete di stoffa, i suoi occhi chiari fissarono l’uomo dalla pelle troppo chiara per essere un nativo. Karim lo tirò nella sua direzione con uno strattone; era stato preso alla sprovvista, aveva sfiorato il rischio di provocargli uno strappo muscolare. I piedi nudi di Samuel incontrarono bruscamente la dura e bollente pietra, provocandogli una smorfia di dolore; l’amico invece doveva essere temprato alle alte temperature, non fece una piega alla durezza che il tatto gli restituiva.
«Karim …»
«Samuel, non ti deve interessare. Non puoi fare nulla per loro, non puoi salvare tutte le donne di un intero Paese e vincere contro la tradizione, perché sarà sempre e solo Lei a vincere su di te. Non puoi nemmeno salvare Maryam, come non posso fare nulla io per lei. So che vorresti, voi americani state già facendo abbastanza per noi, nel bene e nel male. Non ti è consentito soggiornare qui da una manciata di giorni, criticare la nostra cultura e giudicarci. Non ne hai alcun diritto. Non intrometterti, Samuel. Se lo farai, sappi che io non ti aiuterò. Mi hai sentito?»
Karim aveva interpretato i suoi pensieri, non era stato capace di nascondere i suoi dubbi a riguardo della condizione in cui il popolo natio riversava. Erano parole ambigue però quelle del medico, avrebbe voluto agire, Samuel ne erano sicuro, ma si sentiva pressato dal mondo in cui viveva, da solo – o anche insieme – non avrebbe potuto scatenare alcuna rivoluzione; era più probabile venissero messi a tacere, sarebbe stato un sacrificio inutile, Karim preferiva servire il suo Paese in modo lecito, curando gli infermi e assistendo i moribondi.
«Karim, come puoi guardare senza fare nulla, senza lottare per lei? Non per tutte, solo per lei. Sai bene il destino che l’attende»
«Non sono suo padre, non ho alcun diritto sulla sua vita. Posso solo restarle vicino con discrezione – non potrei nemmeno farlo – e asciugare le sue lacrime senza sfiorarla»
La voce dell’uomo si era incrinata, Samuel senza proferire parola sull’argomento dall’inizio del loro viaggio aveva riaperto un cruccio nel cuore.
«Non voglio cambiare qualcosa, Karim. Non è la mia cultura a scandalizzarsi per la vita che trascorrono le vostre donne, è solo il mio cuore, ma in fondo io sono niente in confronto al resto del mondo. Però se soffri per lei significa che anche il tuo cuore ti sta urlando di aiutarla a riscoprire se stessa. Non può farcela da sola»
Un violento boato li interruppe, la terra tremò per una frazione di secondo e la confusione si impossessò di loro. Samuel trasalì, ma fu sollevato di scoprire che fosse ancora vivo e alcuna parte del suo corpo fosse dolorante; Karim chiuse gli occhi, non aveva temuto per loro, era abbastanza esperto da capire che la carneficina si era consumata a chilometri di distanza, temeva però di scoprire da quale direzione provenisse il denso fumo della morte e della distruzione. L’afghano si voltò e fece convergere il suo sguardo con quello di Samuel, entrambi avevano puntato le loro iridi sul medesimo angolo d’orizzonte; i soccorsi americani sorvolano già la zona sventrata ormai innumerevoli volte, buona parte del territorio era già un cumulo di rovine. Karim soffriva in egual misura ogni volta che il fragore delle esplosioni usciva dai suoi incubi e diventava reale, come quella mattina, così come accadeva ogni giorno; prese un respiro e mosse qualche passo verso il luogo dell’attentato, avevano con ogni probabilità a questo giro risparmiato il suo villaggio, ma non conosceva ancora il nome delle vittime, potevano essere amici, non poteva rimanere inerme.
«Karim, aspetta, non puoi andare laggiù, potrebbe esserci un secondo attentato. Gli americani staranno cercando di fermare il nemico, ci sarà una guerriglia»
«Non c’è alcuna guerriglia laggiù, Samuel, non c’è alcun nemico da punire, è saltato in aria insieme a poveri innocenti. Benvenuto in Afghanistan. Ti renderai presto conto che il velo addosso ad una donna è l’ultimo dei nostri problemi».
 


 


 


Ciao ragazzi!
Fosse per me vi riporterei tutte le foto in cui mi imbatto durante le mie ricerche, ma, onde evitare di riempirvi di riferimenti fotografici – ci pensano già le note – vi posto la più suggestiva che mi ha ispirata, la cui descrizione è inserita nel corso del capitolo.
Ho voluto intervallare con qualche descrizione più lieta, anche se è invitabile per me escludere la drammaticità da questa storia.
Ci stiamo addentrando nel vivo della trama, nel prossimo capitolo ritroveremo il capitano, l’ho accantonato per troppo tempo e attendevo solo il momento per farlo entrare in azione (azione secondaria per la sua missione, ma comunque molto importante).
Vi ringrazio davvero di cuore per il supporto, in particolare quello delle adorate fanciulle che mi dedicano parole bellissime! <3
A presto!
Un grande abbraccio
-Vale
 
 
[1] Versetti 23/24 – Sura 17.
[2] Tipo di pernice utilizzato per i combattimenti.
[3] Timur Shah è stato il fondatore della dinastia afghana Durrani, l’ultima che riuscì ad unire il Paese e a creare un impero in Asia centrale.
[4] Veste maschile lunga, di stoffa colorata spesso a righe, aperta sul davanti e con maniche molto ampie, tipica del Medio Oriente musulmano.
[5] Nella tradizione islamica, indumento femminile che copre tutto il corpo, lasciando solo una grata di tessuto a trama rada all’altezza degli occhi.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9_L'infanzia rubata ***


L’infanzia rubata




 
Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 23 agosto 2018
 
 
Dalle prime luci dell’alba, la cartina del centro e della periferia di Kabul aveva catturato l’attenzione di Christian; lo scomodo letto, offerto in dotazione a qualsiasi soldato di ogni grado, era diventato il suo piano di lavoro. Aveva accomodato solo una gamba sul materasso, il ginocchio fungeva da appoggio per il gomito, e l’altra era penzoloni giù dalla sponda, mentre la schiena era ricurva; non era confortevole, ma non si sarebbe rilassato in qualunque posizione, visto che la mente era in tensione.
Il generale Flores aveva ragione, stava perdendo di vista il reale obiettivo che lo aveva condotto tra lo squallore di quelle terre distrutte. Scacciò dai meandri più razionali della mente il pensiero di Katherine e Alisia, lo serbò nel cuore e impedì che per qualche ora tornasse a martellare; immaginò la moglie devastata senza sue notizie dal fronte, poteva solo sperare che l’animo di ghiaccio del generale avesse impiegato qualche minuto del suo prezioso tempo per confortarla, ma era solo un magro e remoto auspicio per Christian.
Kabul era immensa, da una semplice cartina si poteva cogliere la maestosità della capitale. Per il capitano però era diverso, in passato l’aveva visitata, aveva già respirato da vicino la vita della popolazione afghana. Di sicuro Christian era stato testimone del processo di urbanizzazione che aveva investito anche quella zona remota dell'Afghanistan, bombardata, annichilita, ma mai del tutto scomparsa agli occhi del mondo. L’umanità soffriva tra i grattacieli risparmiati dalla guerra; erano costruzioni simili a quelle della città natìa di Christian, ma a differenza di San Diego erano privi di colore, cupi e impolverati, come i visi dei loro abitanti.
Il tenente ricordava nitido l’odore di sangue e macerie che aleggiava nell’atmosfera della città, pregna di dolore, morte e solitudine. Leggeva i nomi delle strade sulla cartina asettica e visualizzava nella mente la posizione e la conformazione; erano passati nove intensi anni colmi di conflitto, poteva essere cambiato tutto, di sicuro buona parte dei volti che aveva sfiorato, anche solo nel tempo di un battito di ciglia, non esisteva più.
Il Navy SEAL si concentrò sull’ospedale militare posto al centro della città. Era quello l’obiettivo, il resto era solo contorno; era in quel punto l’ala più critica della zona rossa, era lì il rischio più elevato e conclamato che civili, sani e malati, stavano correndo. Circondò sulla cartina il nosocomio con un tratto di biro. Non era facile capire come muoversi, le vie esposte e gli accessi controllati dal nemico impedivano qualunque margine d’azione. Cercò di non lasciarsi attanagliare e sopraffare dallo sconforto e dall’impotenza. Ogni percorso diretto era ostruito da talebani armati fino ai denti e da trappole spesso invisibili e perciò più insidiose. Christian depennò con una croce tutti gli ostacoli, le strade più esposte e allo stato attuale impraticabili. Non restava alcun varco, anche piccolo, nemmeno una porticina sul retro non controllata e sconosciuta ai sequestratori.
Necessitava di un’idea fulminante, valida e risolutiva. Non era più solo ciò che si aspettavano da lui, era anche ciò che Christian si aspettava da se stesso. Se le idee mancavano – quelle più sicure per la sua incolumità –, ecco che i riflettori si accendevano sul sacrificio: gettarsi nell’ignoto e sperare di essere abbastanza fortunato per uscire indenne da uno scontro diretto e poterlo raccontare. Gli sfuggì un sorriso amaro al pensiero della sua fortuna, la buona sorte non lo aveva mai assistito, se non in rare – rarissime – occasioni, quelle fondamentali per continuare a vivere: la famiglia.
Nel Coronado colleghi, superiori e sottoposti vantavano le sue doti da stratega, ma San Diego non era Kabul, l’oceano – di cui sentiva la mancanza – non era la guerra. Lo scenario era diverso, la posta in palio era più alta, così come il grado di rischio. Aveva un disperato bisogno della Stella polare che indicasse il Nord, la direzione più sicura da prendere, la porta giusta tra le mille da varcare; aveva perso la bussola, il senso dell’orientamento, rischio peraltro comune su un suolo devastato in modo informe.
Il cielo che la sua bambina aveva dedicato a lui prima della partenza era candido, carico di speranza e di buoni propositi; era il cielo pacifico della California, sgombro da nuvole di polvere. Il cielo sereno che Alisia aveva disegnato era lo stesso sotto cui lei viveva; molti bambini afghani non erano altrettanto fortunati da riuscire a scorgere una stella cadente e possedere ancora l’innocenza del sogno. Si era ricordato solo in quel momento di aver lasciato il prezioso disegno nel taschino della divisa; l’aveva indossata di rado negli ultimi giorni, l’aveva presto accantonata in favore della classica uniforme dai colori militari, più comoda e più discreta tra le fila dei commilitoni. Ritrovò il disegno di Alisia, era un po’ sgualcito, ma intatto; lo dispiegò e appurò anche con sollievo che i colori fossero vividi; l’unica àncora di salvezza per la sua anima era integra. Come un fulmine a ciel sereno, un’idea lo folgorò e si sovrappose al disegno di sua figlia, la sua bussola; la strada da percorrere gli era appena stata rivelata da una bambina di sei anni, certo non intenzionalmente, ma gli aveva illuminato il percorso da intraprendere.
Qualcuno era entrato nel frattempo nella stanza, aveva avvertito passi felpati, ma non si curò di alzare lo sguardo, la sua mente era divisa a metà tra la famiglia e la missione; finalmente le sue due più grandi premure non cozzavano più, anzi il pensiero dell’una rendeva meno oneroso quello dell’altra.
«Capitano. Gradisce del caffè?»
Aveva riconosciuto la voce di Gwendoline, ma non aveva incrociato il suo volto nemmeno per un istante; il foglio che teneva ben saldo tra le dita aveva guadagnato la sua più completa attenzione. Alla ragazza intimò con la mano di attendere, pronunciare anche una singola parola gli avrebbe fatto perdere il filo dei pensieri; lei non si mosse dalla soglia, i suoi muscoli erano immobili, eseguì l’ordine – o quello che dava l’idea di essere – con ligio rigore, ma con le pupille seguì incuriosita i passi del superiore. Christian si accostò di nuovo alla cartina posata sul letto, ma stavolta rimase in piedi, la frenesia per la scoperta si era impossessata di lui; posò il foglio colorato alla sua sinistra sempre sulle lenzuola non più candide e visionò un’ultima volta l’intreccio capillare della città. Non vi era altra soluzione, il cielo stavolta non sembrava essergli così avverso, non doveva esserlo, non poteva. Deglutì il vuoto al solo pensiero di solcare di nuovo la volta celeste e stavolta con in circolo l’adrenalina di una missione delicata come il cristallo, che valeva la vita di salvatori e salvati; anche se, i talebani in primis, in quella cristalleria avrebbero scatenato presto una mandria di elefanti. Doveva essere la soluzione migliore, quella che avrebbe avuto successo al primo colpo, non vi erano altri tentativi, l’esordio avrebbe dovuto essere un trionfo. Era in fondo quello il lavoro di Christian, tentare e pregare di non aver progettato male e di aver seguito alla lettera tutte le fasi del suo piano; non aveva ancora delineato alcun piano, era fermo all’ideazione, ma era intenzionato ad elaborarlo il prima possibile, il tempo per quelle povere anime in pericolo stava scadendo.
Alzò finalmente gli occhi sulla ragazza, ma erano velati dai pensieri; lei infatti si sentì solo sfiorata dall’espressione intensa e accigliata di Christian, con la mente l’uomo era altrove.
«Gwen, l’ospedale ha un accesso sul tetto?»
Un po’ titubante, il soldato semplice si avvicinò alla cartina e si inginocchiò all’altezza del letto per indicargli un punto all’apparenza qualsiasi; non l’aveva trovata impreparata, da mesi ormai lei, insieme al resto dell’esercito insediato nella base a Nord/Est di Kabul, stava studiato la planimetria del nosocomio militare.
«Qui, tenente»
«Potrebbe essere libero, secondo te?»
«Non credo, signore»
«E se giocassimo sull’effetto sorpresa? Cosa dici?»
Christian le porse la domanda con entusiasmo; pericoloso o meno, amava il suo lavoro, amava avere la possibilità di salvare vite umane e ciò gli infondeva adrenalina insieme a grande spirito di iniziativa. L’esaltazione però non venne ricambiata dalla giovane, la quale accennò appena un sorriso fioco.
«Gwendoline. Tutto bene?»
«Sì, capitano, mi scusi. È la mia prima operazione, temo di non essere all’altezza»
«Non penso che tu non sia all’altezza, anzi hai dimostrato molta più destrezza di me, ma non ti consentirò comunque di affiancarmi in questa missione suicida»
L’uomo la fissò con uno sguardo austero, dall’alto al basso, che non ammetteva alcuna replica. Il soldato Ward ricambiò offesa le pretese del suo superiore; non voleva ripetere l’irriverenza del loro primo incontro, ma era stanca di essere sottovalutata e la sua inesperienza non era una valida motivazione.
«Perché sono una donna, vero?»
«Prego? Scusa, mi stai accusando di essere maschilista?»
Gwendoline stava affermando, ma si era trattenuta a fatica con un sospiro.
«Non ho bisogno di protezione, tenente, solo di ordini precisi. Mi affido al suo comando e so di non sbagliare. Mio padre si fidava di lei ed io mi fidavo di lui. Spero possa anche lei riporre fiducia in me»
Christian visse un suggestivo tuffo nel passato; gli occhi della ragazza erano infiammati da un luccichio intenso, proprio come quelli appartenuti al compianto sergente Ward. Solo uno stupido avrebbe potuto sminuire le sue doti in campo  per la sua appartenenza al gentil sesso. La giovane recluta era passionale, volenterosa e caparbia, su di lei il leggero velo di irriverenza non stonava.
«Gwen, il fatto che tu sia una donna non incide sulla mia decisione, ma …»
Un violento scoppio mozzò la frase dell’uomo e fece cadere nell’oblio la loro conversazione. La base militare fu inondata dal suono di un allarme intenso e insistente; entrambi scattarono in automatico verso l’uscita della stanza, non fecero congetture sull’evento appena avvenuto, ma la sua gravità fu drammaticamente palese.
 
 
 
Confine Ovest di Kabul, 23 agosto 2018
 
In coscienza Samuel non si era sentito di lasciare l’amico ad affrontare da solo il campo di battaglia. Era una paranoia del giornalista, visto che mille volte il medico aveva operato, senza valutare le conseguenze, tra le rovine ancora fresche del sangue delle vittime.
Lo scenario che i due uomini trovarono fu raccapricciante; da vicino scoprirono che non era esplosa un’unica bomba, bensì due in contemporanea e in un breve raggio d’azione, ciò spiegava il boato udibile a chilometri di distanza. Non fu solo il cuore di un occidentale inesperto a pompare meno sangue, anche lo stomaco di Karim fu assalito da crampi di dolore. In un simile scenario apocalittico restava solo che pregare; ai corpi dilaniati dall’esplosione dei sopravvissuti e di coloro che erano ormai deceduti stavano pensando i militari insieme alle autorità locali, i quali si occuparono anche di transennare la zona interessata. Karim si sentì inutile lì, fu assalito dal più profondo senso di impotenza; piegò le ginocchia, non sfiorò il suolo, ma abbassò lo sguardo su esso mortificato; la sua anima era stanca, le macerie del paesaggio, dell’amata Kabul dove aveva trascorso la sua giovinezza, irroravano il suo cuore di amarezza. Il Dio che pregavano non li stava assistendo più ormai da troppi anni, erano stati abbandonati; forse davvero stava chiedendo a quel popolo un sacrificio in suo nome, proprio come i terroristi dichiaravano. Il medico di Herat non era più sicuro che le sue suppliche raggiungessero la volta celeste ed anche se fosse, si dissolvevano nell’atmosfera come le vite spezzate dei suoi connazionali.
Le lacrime di Karim non inumidirono le iridi, fecero un balzo all’indietro quando lui e Samuel udirono la disperazione di una donna che implorava aiuto, da qualunque parte esso fosse giunto; le suppliche raccolte dagli uomini furono l’unico aiuto in cui il medico iniziava a credere, nel divino ormai aveva perso le speranze. I due uomini si precipitarono nella sua direzione, guidati dalle sue grida concitate. Non appena la scorsero, capirono entrambi che stavano prestando soccorso ad una giovane militare americana – lo stemma che portava al braccio sopra i vestiti era inconfondibile –, ma anche che non era lei ad essere ferita; la ragazza era inginocchiata sulla nuda terra – la bomba aveva sollevato lo sterrato, quel poco di civiltà che la guerra consentiva al Paese – e sulle cosce reggeva la nuca di un’altra donna, poco più vissuta di lei; a differenza del soldato, quest’ultima era moribonda, le palpebre erano dolcemente serrate e la massa muscolare si stava rilassando troppo mettendo a rischio la sua vita. Gwendoline aveva scoperto il capo della vittima dal khimar[1] per favorire il suo respiro e piangeva, riversando qualche goccia di sale sul volto candido del corpo inerme tra le sue braccia; dopo tante missioni fallite verso l’ospedale di Kabul e commilitoni morti, la giovane recluta fresca di accademia non riusciva a rassegnarsi alla morte prematura, poco importava che fossero suoi conoscenti o sconosciuti, la realtà era che una donna nel fiore dei suoi anni stava spirando davanti a lei e lei si sentiva impotente, anzi lo era, senza se e senza ma.
«Per favore, aiutatemi»
Karim accolse la preghiera che la ragazza aveva proferito tra i denti, insicura sul fatto che comprendessero la sua lingua; esaminò la vittima con un inevitabile trasporto emotivo, rappresentava la sua gente, ma prima ancora era un essere umano sofferente; sull’onda del dialogo che aveva intrapreso qualche ora prima con Samuel, notò che si trattava di una donna più libera di molte altre, quantomeno le era stato consentito di mostrare il volto. L’afghano si inginocchiò accanto alle due e cercò di intuire il motivo dello stato della vittima; sperò che la ferita fosse esterna e non ci fossero organi lesionati, in quel caso le speranze si sarebbero azzerate sul nascere. Gwendoline tremava sotto la testa della donna, il medico se ne accorse, le era troppo vicino per ignorarlo; Karim comprese l’emotività di una recluta, non poteva essere un soldato esperto per la sua giovane età; prima di occuparsi della donna ferita, sfiorò la mano della ragazza per rincuorarla, anch’essa aveva subìto un trauma, nello spirito forse, ma ciò non era ugualmente da sottovalutare.
«Tranquilla, faccio il possibile per lei»
Fu una boccata d’ossigeno per il soldato sentire quel salvatore pronunciare qualche parola in americano. Karim riuscì in breve tempo ad individuare l’emorragia, sul fianco destro della donna una macchia di rosso vivo stava imbrattando rapidamente la stoffa. Gli abiti della vittima erano stati lacerati da una scheggia di ferro; con facilità il medico riuscì a scoprire la parte che era stata colpita per valutare i danni; sperò che il frammento non fosse profondo e che avesse squarciato solo l’epidermide superficiale o al massimo i primi strati, causando il fluire copioso di sangue. Doveva affrontare una vera e proprio operazione sotto il cielo bianco ancora velato dalla polvere e a mani nude senza la strumentazione per la sutura. Non c’era tempo da perdere, era fondamentale quantomeno estrarre il corpo estraneo dalla ferita, al resto avrebbero pensato in seguito. Karim però venne distratto da una sottile voce infantile; il tono incrinato dalla sofferenza apparteneva ad una bambina che correva verso di loro e invocava in afghano la madre. La presenza dell’ultima arrivata aumentò le pulsazioni del medico; aveva una figlia, non poteva morire, la piccola non avrebbe subìto lo stesso destino di Hassan a distanza di pochi mesi, non se lui avesse potuto evitarlo in qualche modo.
«Samuel, portala via!»
Karim si era rivolto perentorio all’americano e il ragazzo non indugiò un istante, intercettò la bambina appena prima che riuscisse a raggiungere la madre riversa al suolo. La creatura poteva avere tre anni al massimo; Samuel la prese in braccio e la strinse al petto – non avrebbe comunque potuto essere d’aiuto in altro a Karim –, lasciò che piangesse sulla sua spalla e nascondesse il volto incrostato dalla polvere nelle pieghe del suo collo; sulla spalla di un completo sconosciuto il suo cuore innocente stava sfogando un immenso dolore accumulato, che assurdità, lui era la sua unica àncora di salvezza. La piccola non avrebbe compreso una singola parola in americano, ma il pianto era una lingua universale, così come le carezze; Samuel le accarezzò la schiena, sperando che si calmasse, era spaventata dal rumore delle bombe oltre che dalle condizioni della madre; nessuno avrebbe avuto il coraggio di darle torto.
«Karim, mi puoi dare buone notizie?»
«Sto facendo del mio meglio, sto improvvisando un’operazione per strada e non è proprio il luogo asettico per eccellenza»
Lo sguardo di Gwendoline non smetteva di ballare incontrollato tra le condizioni della piccola e quelle della madre ed infine si soffermò sul medico che, in una corsa contro il tempo, cercava di salvare almeno una vita in mezzo allo sterminio che si era consumato in pochi secondi quella mattina. Nessuno aveva potuto azzardare un aiuto a Karim, tra Samuel e Gwendoline non venivano raggiunte nemmeno le basi mediche; nonostante il medico avesse dovuto fare affidamento solo sulle sue forze, riuscì ad estrarre la scheggia senza aggiungere nuovi danni al corpo debilitato della donna. Come Karim aveva immaginato, un fluido rossastro cominciò ad uscire copioso senza ostacoli e non possedevano nulla per contenerlo.
«Dobbiamo accompagnarla all’ospedale più vicino. Subito»
 
~
 
Non appena Christian comprese che gli epicentri dell’esplosione erano due, decise di dividere la sua strada da quella di Gwendoline e di raggiungere il secondo luogo del disastro. Da troppo tempo ormai il Navy SEAL non toccava con mano il livello di distruzione che si era consumato all’improvviso sotto il cielo afghano, squarciando la quiete di una mattina di riflessione.
Non aveva idea di quanto la sua presenza potesse tornare utile su quel suolo randellato; molti colleghi si stavano adoprando per ripulire il caos incancellabile, l’ennesima ferita da accatastare alle mille che erano state affondate nel cuore di quel popolo sfortunato. Procedeva tra la più completa desolazione; restava in allerta nel caso qualche grido di aiuto fendesse l’aria viziata dall’odore di tritolo. Un silenzio assordante rendeva la sua anima pesante, un macigno quasi slegato dal suo corpo, talmente era insopportabile.
Christian chiedeva un qualsiasi segno di vita, una speranza che gli potesse dimostrare che nulla per Kabul era perduto. Un segno arrivò, però non fu certo quello auspicato dal capitano. Uno sparo sferzò l’aria, il rimbombo giunse al suo udito, ma non ebbe l’istinto di ripararsi dietro ai resti lasciati dall’attentato; rimase immobile in attesa di altro. Perché altro stava sicuro arrivando, non poteva ridursi tutto a un po’ di rumore, non certo in conflitto aperto. Ciò che avvertì poco dopo non fu una presenza e nemmeno una raffica di nuovi spari, ma un dolore lancinante all’altezza della scapola sinistra, abbassò lo sguardo, posò il palmo sulla zona dolorante e la sua pelle si macchiò di rosso. L’adrenalina nel sangue era scesa quasi subito, non c’erano bossoli ai suoi piedi, probabilmente il proiettile era rimasto conficcato dentro. Il fiato dell’uomo si disperse in parte nei polmoni senza trovare vie di fuga. Christian cercò la pistola nella fondina, per fortuna posta sulla coscia destra, non sarebbe stato in grado in quelle condizioni di sparare con la mano mancina. Fu un magro tentativo di difesa, la sua schiena venne sfiorata dalla punta di un’arma; al tatto il soldato riconobbe la punta di un kalashnikov, ecco cosa lo aveva colpito. Gli restava oscuro però il volto del suo assalitore.
«Hai una buona mira»
Non lo aveva visto sparare e nemmeno sorprenderlo alle spalle. Il dolore si accostò all’ansia, era in trappola; mascherò il timore per i risvolti peggiori che quell’incontro avrebbe potuto portare e il male fisico di cui stava soffrendo, accennò persino una smorfia sofferente. Difficile che il suo assalitore avesse capito le sue parole, ma non impossibile.
«Lo so»
I bulbi oculari di Christian si trasformarono in vetro, era la voce di un ragazzino, era troppo immatura per appartenere ad un adulto. La scoperta accantonò il fatto che fosse poliglotta, dettaglio che avrebbe potuto giocare a favore del soldato. L’istinto suggerì all’uomo di voltarsi e abbassare le difese, anche se erano già state frantumate da un pezzo; il suo giovane assalitore si muoveva solo in offensiva e aveva un margine di superiorità notevole su di lui.
«Getta la pistola»
Il tenente stringeva ancora tra le dita la guancetta della sua pistola, eppure da quando aveva scoperto la natura del suo assalitore l’aveva dimenticata, non avrebbe mai potuto puntarla contro un bambino, se necessario anche a costo della sua stessa vita. Christian obbedì, accostò la sua Sig Sauer al suolo, non era nella posizione per ribellarsi; trovò che l’accondiscendenza fosse l’atteggiamento migliore, desiderava instaurare un dialogo, stimolare in lui il raziocinio. Era inutile un conflitto a fuoco, era superfluo tra adulti, motivo in più contro un giovanissimo soldato. L’americano alzò le mani in segno di resa, desiderava solo la pace, con lui e i suoi mandanti, magari fosse stato il loro stesso desiderio.
«Non dovresti tenere un’arma tra le mani»
Il suo cuore di padre urlò l’aberrazione a cui stava assistendo, ma lo fece con pacatezza; l’irruenza non avrebbe giovato alla sua posizione delicata – in fondo non era lui ad avere l’arma in mano dalla parte del grilletto – e nemmeno al fiato corto provocato dalla ferita.
«Inginocchiati»
«Non voglio farti del male»
«Ho detto inginocchiati!»
Serviva a poco contraddirlo, aveva però necessità di cure, senza un intervento medico si sarebbe dissanguato in pochi minuti. Finalmente il giovane entrò nel suo campo visivo e stavolta il kalashnikov puntò dritto al cuore del Navy SEAL; era un adolescente nell’età dell’incoscienza, caduto vittima della malleabilità della sua natura fisiologica e morale. La vista di Christian si offuscò, la sua fronte era madida di sudore, se fosse stato in piedi sarebbe comunque collassato sulle ginocchia. Intravide il ragazzo vacillare, la punta dell’arma tremava contro il petto di Christian.
«V-vuoi uccidermi? O forse non vuoi e in quel caso ti chiederei di lasciarmi andare, ho bisogno di un medico»
Si era rivolto a lui con dolcezza, come se lo comprendesse. Infatti era proprio così, non aveva alcun senso accusare un ragazzino succube di una cultura deviata, in cui l’omicidio sembrava essere la norma.
«Christian!»
Una voce maschile distrasse il giovane armato. Il Navy SEAL non la riconobbe, i suoi sensi erano ovattati, ma l’intervento inaspettato di quell’uomo gli consentì di abbassare verso il terreno la canna dell’arma che lo stava minacciando e di strapparla con le poche forze che aveva riservato dalle mani del ragazzino, il quale era rimasto quasi impietrito dall’atteggiamento pacifico del soldato e dalla comparsa di un altro occidentale. Se ne andò confuso, corse via da loro, lasciando la sua vittima in compagnia del dolore che gli aveva provocato.
«Christian»
La voce di Samuel tornò ad irrompere nella mente del tenente, ma continuava a non discriminarla tra le sue conoscenze. Il giornalista si avvicinò a lui, raggiunse la sua altezza e tamponò con le mani la ferita insieme alla vittima. Per un momento il soldato ebbe l’impressione di sognare, quel ragazzo non poteva essere accanto a lui, in realtà era difficile che qualcuno lo soccorresse con una tale celerità.
«S-Samuel, c-cosa …»
«Non ti sforzare. Mi avevi promesso che saresti stato prudente e ti rivedo con una pallottola nella spalla»
Christian provò a sorridergli, tentò, ma il dolore si stava intensificando.
«Samuel, era solo un bambino»
«Lo so, ma ora non pensare a lui. Ti accompagno in ospedale, stai perdendo troppo sangue. Coraggio, appoggiati a me»
Il giornalista lo invitò ad alzarsi, afferrando il braccio sano del ferito.
«S-Samuel, non riesco a reggermi in piedi, mi mancano le forze»
«Capitano, tu devi alzarti. Sbaglio o hai una bambina a casa che ti aspetta? Pensa a lei e non a quel bambino-soldato, per lui puoi fare poco, ma puoi ancora evitare che tua figlia perda il padre»
Il giovane giornalista fissò il tenente con intensità, sperava di essere stato abbastanza chiaro, non poteva arrendersi, le drammatiche condizioni fisiche non erano una buona scusa.
 
 
 
 


Ciao ragazzi!
Sono un po’ in ritardo, scusate, ma questo capitolo era tutto tranne che semplice ^^”. Se siete giunti a leggere fin qui, significa che avete resistito alle intemperie disseminate in questa storia. Tanto angst, tanta drammaticità, ma tranquilli che io non sono in grado di fare morire i miei personaggi ^^.
Vi ringrazio di cuore, non ho parole per il supporto che mi state dando, non me lo sarei mai aspettata, mi incentivate tantissimo <3.
Prima di lasciarvi, vi posto l’immagine di Maryam, anche se in questo capitolo non viene citata. Lasciatemi però ringraziare
Amily Ross perché senza di lei gli occhioni azzurri della ragazza non sarebbero stati possibili ** <3. Sono ancora un po’ indecisa se mostrarvi Christian e Katherine, non vorrei rovinare la vostra immaginazione che sono sicura sia migliore ^^.
Alla prossima
Un grande abbraccio
-Vale


 
[1] Velo che copre il capo della donna, lasciando scoperto il volto.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10_Sogni sfumati ***


Sogni sfumati
 



 
Los Angeles, 25 agosto 2018
 
 
Era il 25 agosto. Quel dannato 25 agosto che aveva un sapore diverso da come Margaret se lo era immaginato. Da brava stupida quale era, i suoi passi l’avevano condotta nell’ultimo luogo che avrebbe dovuto frequentare quella mattina: la Cattedrale di Nostra Signora degli Angeli. Una sensazione soave l’aveva condotta davanti alla scalinata necessaria da percorrere per raggiungere l’ingresso. Le mancava il fiato, nonostante la sua andatura fosse pacata. Le mancava più di tutto la sensazione di essere giunta fin lì per un motivo; si sentiva solo una vagabonda con l’anima in pena. Il pensiero di aprire la porta e trovare lui sotto l’altare le sfiorò la mente. Diamine, era il loro giorno, uno dei pochi che le aveva chiesto di dedicarle; solo uno, due al massimo, non gli aveva chiesto la Luna, lei aveva rinunciato persino alla luna di miele a beneficio della redazione. Di cos’altro avrebbe potuto privarla? Le era rimasto solo un solitario all’anulare che a quell’ora avrebbe dovuto essere accompagnato da un simbolo d’amore e fedeltà, non più soltanto da una promessa.
I sogni di Margaret si infransero al suolo ancora una volta; la certezza che la chiesa fosse vuota davvero la colse in pieno petto, soltanto la solitudine dei suoi passi rimbombava tra le mura di quella costruzione moderna, non c’erano le voci di amici e parenti ad inondarla. Rivolse un saluto automatico al Signore di quella Casa; fin da bambina il segno di croce accompagnava le sue visite in luogo di preghiera; stavolta però non vi era sentimento, non vi era più la fede che l’aveva guidata nel corso della sua giovane età. Era facile accusare il cielo per le scelte degli uomini – Lui non si sarebbe potuto difendere; lei lo stava facendo, perché il suo cuore stava urlando uno strazio che non era in grado di riversare in fiumi di lacrime, dalle ciglia non cadeva nemmeno una goccia di sale.
Non varcò la navata centrale, quel gesto era prerogativa delle spose e lei non la era. Si accomodò su una delle ultime panche in fondo e attese un sollievo che non arrivò; era logico che non arrivasse. Margaret era una donna troppo concreta per credere in una istantanea intercessione divina a suo favore. Non riuscì a pronunciare nemmeno l’incipit di una preghiera. Iniziava a sperare che nessuno l’avesse vista entrare e cedere all’assenza della loro cerimonia mancata.
Le campane colmarono il vuoto e il silenzio dell’anima, le undici in punto risuonarono all’esterno e all’interno della chiesa, investirono l’udito e il cuore della ragazza. I rintocchi portavano con sé un solo e unico nome, un solo evento che Padre Ralph non aveva sostituito con altre celebrazioni per rispetto ai due giovani; il tempo riservato alle loro nozze era rimasto vacante, sospeso, come la loro relazione. Samuel le aveva raccomandato puntualità in quella giornata dedicata a loro, le aveva chiesto espressamente di non farlo aspettare. Lei c’era, ma lui dov’era?
La ragazza teneva lo sguardo rivolto all’inginocchiatoio della panca; aveva percepito la presenza di qualcuno dallo scricchiolio del legno al suo fianco, ma l’uomo in questione non violò subito la bolla di silenzio e di dolore in cui Margaret si era rifugiata. Non le servì incrociare il viso del suo parroco per essere certa che fosse lui.
«Sa, dopo la cerimonia e il ristorante avevamo pensato di festeggiare a Santa Monica[1]. Ero riuscita a strappargli un giro sulla ruota panoramica, solo lui ed io. Per lui era poco, per me era tutto. È sempre impegnato, ogni minuto accanto a lui è un regalo»
Si faceva forza in ricordi che le sembravano ormai lontani anni luce, ma in realtà li stava solo confondendo con i chilometri che li separavano da una settimana. Il sacerdote la ascoltava, anche se le confidenze che le stava rivolgendo erano molto intime, anzi, ragione in più, richiedevano un’attenzione più delicata; anche tolto l’abito talare la comprensione restava la sua più grande dote. Non ricevendo ancora alcuna risposta dal suo interlocutore, Margaret alzò gli occhi su Padre Ralph; il viso smunto dell’uomo era frutto dei suoi anni – venti in più di mezzo secolo –, i suoi occhi verdi erano velati dall’empatia che provava nei confronti della ragazza. L’aveva vista crescere nel corso degli anni, aveva accolto i suoi turbamenti farsi sempre più grandi accanto al crescere dell’età e dopo una serie di Sacramenti – come la catechesi comandava –, era pronto ad indossare la stola per unirla in matrimonio con quel giovane.
«Non mi rincuora anche lei, dicendomi di stare tranquilla perché lui tornerà?»
«No, cara. Solo il Signore lo sa. Affidiamoci alla provvidenza»
Si era voltato con aria pacifica verso il crocifisso posto in fondo alla navata; dalla prospettiva di Margaret, sembrava un uomo arreso alla vita e il divino era l’unico l’aggancio per la sua anima. La indispose; il suo promesso stava rischiando la vita e lei avrebbe dovuto affidarsi alla provvidenza e attendere. Solo? Lei avrebbe rivoltato il mondo come un calzino per riportarlo da lei, se le fosse stato concesso agire.
«Certo, la provvidenza. La stessa che lo ha condotto laggiù a rischiare come un soldato? Lui non è un soldato, Padre Ralph! Perché Lui non gli ha fatto sorgere nel cuore il desiderio di restare qui e sposarmi?»
«C’è un motivo che ora noi non conosciamo»
«Certo, sì. Non mi fido più. Non credo, non ho più fede in Lui. Sa cosa le dico? Non ho più voglia di affidarmi a Lui, non mi fa sentire la sua presenza. Penso che, se mai Samuel dovesse tornare, vorrò solo la celebrazione civile»
Padre Ralph era dispiaciuto per quelle parole, la sua fedele stava vivendo una chiara crisi, un conflitto con il Dio a cui era sempre stata devota. Il parroco non ricordava che la giovane avesse mai vissuto un amore così lontano e sofferto; stava trattenendo il suo dolore, lo riversava in rabbia, ciò con il tempo non le avrebbe potuto fare bene. Margaret sbraitava in chiesa, non era da lei violare la pace di quel luogo, aveva da sempre varcato quella soglia con devoto rispetto; si rivolgeva verso il crocifisso con spregio. Avrebbe voluto rinsavirla, tirare fuori dalla tasca della veste il Vangelo di Giovanni, leggerle l’episodio di San Tommaso, parlarle dell’incredulità dell’apostolo prima che si fosse accertato davvero della presenza di Gesù, ma a cosa sarebbe servito? La mente della ragazza era infiammata dalla collera contro il destino, non era disponibile al raziocinio e nemmeno al sentimento, un pensiero pacato e un sentimento sano. L’uomo le sfiorò la mano, invitandola a seguirlo.
«Vieni, voglio mostrarti una cosa»
Margaret indugiò, ma lui non l’aveva attesa, si era avviato con risolutezza verso la porticina che fungeva da limite tra la navata laterale e la canonica. La ragazza attraversò lateralmente la chiesa, sfiorò il fonte battesimale alla sua destra e a sinistra la statua di Santa Maria degli Angeli a cui era stata devota fin da piccola; incrociò gli occhi in vetroresina della Madonna, implorò pietà per il suo futuro; fu una supplica silenziosa, nessuno la sentì, sul suo viso non trasparì l’ombra della preghiera. Padre Ralph l’aveva attesa, porgendole un timido sorriso, non desiderava infrangere i pensieri della giovane.
Solo quando Margaret tornò a concentrarsi sull’uomo, i due poterono proseguire il percorso. Il parroco la condusse attraverso la sagrestia; c’era una nebbia densa, un fumo intenso e ancora rinvigorito stava inondando l’ambiente chiuso; un forte odore di incenso e solennità investì i sensi di entrambi. L’uomo si premurò di spalancare subito la finestra, mortificato si ricordò di aver dimenticato i carboncini dentro il turibolo[2]; l’aroma era piacevole, ma il vapore pizzicava gli occhi e la gola. Padre Ralph recuperò il contenitore con l’incenso carbonizzato e ormai diventato cenere, lo svuotò in un piccolo lavabo e fece scorrere l’acqua dal miscelatore; gli venne spontaneo qualche colpo di tosse.
«Padre, voleva mostrarmi che sta perdendo colpi?»
Margaret non era dell’umore per ostentare senso dell’umorismo, ma era abbastanza in confidenza con lui per mostrarsi divertita davanti ad un suo errore. L’uomo ricambiò con un sorriso, le passò accanto e riprese la strada.
«No, piccola. Vieni»
Avrebbe potuto definirla una figlioccia, non era stato suo padrino al battesimo, solo perché egli stesso l’aveva battezzata ventiquattro anni prima; le voleva davvero bene, se non come un padre per una figlia, almeno come uno zio per la nipotina. Per questa ragione aveva deciso di rivelarle il suo passato, dimostrarle che non era l’unica fidanzata che attendeva il suo uomo di ritorno dalla guerra; tante donne avevano vissuto mesi di angoscia e una flebile speranza nel cuore che lei faticava più di altre a riscoprire.
Quando giunsero nei pressi di una stanza che aveva la porta già socchiusa, Margaret si affacciò appena dopo di lui. Padre Ralph l’aveva condotta nella sua stanza e si era avviato verso l’armadio dove riponeva il suo guardaroba; si era inginocchiato e si era concentrato nella ricerca concitata di qualcosa sul fondo. La ragazza si sentì fuori luogo, le sembrava di violare la privacy di quell’uomo per il quale nutriva rispetto e la giusta distanza.
«Margaret, accomodati sul letto, arrivo subito»
La giovane era rimasta a disagio accanto allo stipite della porta; con quel piccolo incentivo cordiale aveva azzardato un passo all’interno della camera ed infine aveva accettato l’invito; era comunque rimasta perplessa sul motivo della sua presenza nella stanza privata del sacerdote, frequentata solo da lui e dalla perpetua che si occupava dell’ordine. Il parroco rovistò per qualche minuto tra i suoi effetti personali, fino a che non trovò soddisfatto una reliquia della sua gioventù; le porse una foto dai colori sbiaditi di altri tempi, risalente ad un periodo in cui la macchina fotografica non era abbastanza moderna per ricalcare le tonalità accese della realtà. Margaret la affermò incuriosita, dimenticandosi del luogo in cui si trovassero. Mentre l’uomo si accomodava accanto a lei, concedendole il tempo di esaminare l’istantanea, la ragazza perse lo sguardo tra le due figure rappresentate. Erano due giovani sorridenti, stretti l’uno tra le braccia dell’altra. I colori seppia del rullino antico sfumavano la stoffa porpora con cui era stato cucito il vestito sobrio della ragazza rendendolo rosa scuro; i capelli chiari della donna erano raccolti in una lunga treccia accostata ad un seno poco prosperoso; tra le sue dita stringeva le mani del giovane posate con intimità sul ventre, il quale a sua volta la avvolgeva alle spalle in un dolce abbraccio. Qualcosa non andava in quella foto; infondeva una grande tenerezza, specie la gioia con cui lui la proteggeva contro il petto e posava il mento sulla spalla di lei, ma era un ricordo lontano, malinconico; Margaret ne ebbe la certezza quando incontrò gli occhi velati di Padre Ralph – gli stessi che solcavano il viso del giovane uomo –, il quale con un sorriso commosso la invitava a voltare la foto e a leggere il retro; lei lo fece con un sussurro.
«Los Angeles, 2 gennaio 1968»
«Anche io ho preso parte ad una guerra e all’epoca avevo una fidanzata. Abbiamo scattato quella foto appena prima che io partissi per il Vietnam[3]. Eravamo felici, perché non avevo ancora ricevuto la notizia dell’arruolamento»
La ragazza si perse nelle iridi smeraldine del padre spirituale; erano passati tanti anni, ma gli occhi dell’uomo attempato erano ancora vispi, d’altronde come i suoi sensi; era stupita, non era al corrente del passato del parroco, forse era tra i pochi privilegiati a cui aveva deciso di rivelarlo, riesumando ricordi sofferti.
«Avevo vent’anni, Margaret, e più di un sogno nel cassetto. Desideravo laurearmi, avevo giurato a me stesso di farlo dopo la coscrizione obbligatoria, e anche di sposarmi con quella bella fanciulla. Il 16 marzo del ’68 però è cambiato tutto. Ero al fronte da quasi due mesi, quando il tenente …»
Le parole gli morirono in un sospiro. Margaret raccolse la sua mano e la strinse; doveva essere un ricordo doloroso, un ago che pungeva la sua anima e che lo teneva in scacco da almeno mezzo secolo. Il conforto della ragazza gli infuse il coraggio di parlare di un increscioso fatto che aveva vissuto sulla pelle.
«… quando il tenente Collins[4] ci ordinò di sparare sui civili disarmati, di torturarli e … Non uccisi nessuno per puro caso, l’equipaggio di un elicottero statunitense risparmiò la mia anima e mi fermò appena in tempo»
Alla giovane pizzicavano gli occhi, era stato un ricordo conciso, ma particolarmente intenso, soprattutto perché lei conosceva ciò a cui lui si stava riferendo.
«Padre. Sta parlando del Massacro di My Lai? Sono morti donne e bambini»
«Lo so. Avevo davanti ai miei occhi i loro corpi»
Margaret intuì il motivo per il quale avesse deciso di seguire la vocazione clericale, cercava il modo di espiare le sue colpe; comprendeva l’aiuto del cielo che spesso usciva dalle sue labbra, dal cielo erano giunti coloro che avevano bloccato la sua mano e la volta celeste continuava ad accompagnarlo nel suo presente o almeno così a lui piaceva credere.
«Mi sta dicendo che quando Samuel tornerà, vorrà prendere i voti?»
«Ma certo che no, ti sto solo dicendo che gli orrori della guerra mi hanno dato più fede. E che ti capisco, un amore lontano fa male»
Fu una di quelle rare volte in cui dietro gli abiti da sacerdote Margaret intravide l’uomo, con tutti i rimpianti, gli amori mancati e gli affetti perduti.
«L’ha più rivista?»
«Dopo averla lasciata no, ma non ho mai smesso di pensare a lei. Non avrei potuto però amarla dopo quello che stavo per fare e che in coscienza ho fatto. Non era giusto condividere con lei quella macchia sul cuore»
«Padre, aveva solo vent’anni. Si è flagellato per una vita intera»
«Niente di simile, Margaret. Ero convinto della mia scelta e non mi pento. La rifarei»
Non convinse la ragazza; era un uomo vittima del passato che aveva solo ripiegato sulla sua carriera ecclesiastica, nella quale però aveva riversato tutto il suo buon cuore. Le intenzioni di Margaret erano quelle di conversare con lui, lasciare che sfogasse i tormenti che serbava nel cuore, forse non era più abituato a confidarsi, si trovava più spesso nella posizione opposta. Il cellulare della giovane mandò in frantumi i buoni propositi; le squillò nella tasca e prima ancora di conoscere il nome di colui o di colei che la stava cercando, si era già apprestata a congedarsi restituendogli la foto.
«Padre Ralph, mi scusi»
«Non ti preoccupare»
Le sorrise quasi lieto, parlare a lungo del suo passato non era tra i suoi passatempi preferiti.
 
 
 
 
Ospedale da campo – Kabul, 26 agosto 2018 (ora locale)
 
 
La piccola, figlia della vittima che avevano soccorso subito dopo l’attentato, si era addormentata tra le braccia di Samuel, riponendo in lui piena fiducia; nessuno aveva rivendicato la bambina, la madre doveva prendersi cura di lei da sola. Il giornalista si era accomodato su un masso posto davanti all’ospedale da campo e attendeva impaziente notizie da Karim.
La sera era scesa sulla città; l’angolo nel quale si erano appartati era uno dei pochi sprazzi di umanità sotto il cielo stellato, eppure dentro i capannoni militari abitavano solo sofferenza, morte e lacrime. L’aria era umida, a dispetto della cappa di calore che aveva attanagliato le ore di sole; così Samuel aveva recuperato dai suoi bagagli, lasciati nel villaggio, la sua giacca e l’aveva avvolta intorno alle spalle della piccola, affinché riposasse serenamente; finché avesse dormito, la preoccupazione per la madre non sarebbe scorsa sulle sue guance. Ad essere più teso infatti era il ragazzo per le sorti della donna e di Christian; entrambi necessitavano di essere operati, ma il tenente, nonostante l’abbondante emorragia, non aveva mai perso lucidità e aveva impiegato le sue ultime forze per dare la precedenza alla donna; aveva quindi atteso il suo turno, non si stava occupando Karim di lui, ma in quanto medico avrebbe potuto ricevere notizie sulle sue condizioni.
Samuel attendeva in ansia; stringeva la bambina tra le sue braccia, era accomodata sulle sue gambe e la testa era posata sul suo petto; sentiva il suo calore, il respiro caldo della piccola filtrava oltre la sua kurta; era lei ad infondere sollievo a lui e non il contrario. Si ritrovò ad accarezzarla con dolcezza, togliendo con il pollice la polvere dal viso ambrato della bambina. Mentre compiva quei gesti la mente e i sensi del ragazzo erano altrove; sentiva ancora nelle narici l’asfissiante odore di cemento collassato e le grida di disperazione che la piccola afghana aveva sfogato appena sotto il suo orecchio alla vista dello stato in cui la madre era riversa. Lui e Karim erano corsi in soccorso del soldato Ward, da quel momento in poi lo scenario desolante post attentato era passato in secondo piano; ora però la sua mente vi si era soffermata, le immagini si erano arrogate il diritto prepotente di insinuarsi nella memoria, quella a lungo termine, quella indelebile e che non avrebbe più cancellato. Cercò di recuperare una sorta di oblio mentale, ma nulla, era tutto inutile; era martellante il grido di morte di un popolo martoriato, gente che soffriva in silenzio, con dignità, come se quello fosse l’unico destino a cui potessero aspirare. Deglutì l’angoscia che cresceva in gola ogni volta che si scopriva impotente.
Il respiro della bambina si era trasformato in un sussulto, si era aggrappata ai vestiti di Samuel stringendo la stoffa in un delicato pugno, con le poche forze che erano rimaste ad una creatura indifesa. Il palmo del ragazzo era ancora posato sulla sua guancia e si inumidì al tocco di lacrime innocenti. Samuel posò le labbra tra i suoi capelli, scuri come la notte che stava scendendo e sussurrò.
«Va tutto bene, stai tranquilla»
Desiderava che su di lei scendesse un fascio di luce, proteggerla dalle tenebre era diventato suo compito da quando la stringeva a sé. Fu sufficiente il tono della voce, profondo e avvolgente, per ispirarle protezione. Le lasciò un bacio tra i capelli, impolverati come il resto del suo povero corpo, impuri come i sogni della sua anima.
«La tua promessa sposa deve essere orgogliosa di te»
Karim li aveva raggiunti con un sorriso stanco in volto e si era accomodato sul bordo dello stesso masso per non disturbare il sonno dalla bambina.
«Non ho alcun merito, hai soccorso tu sua madre»
«Intendevo per come ti stai prendendo cura della piccola»
Il crepuscolo era particolarmente tenebroso, ma il medico colse sul viso dell’amico chiazze informi di colore scarlatto.
«Sai, Samuel, non credo sia un caso la tua presenza. Non so quanto sinceramente tu sia lieto di trovarti nel mezzo di un conflitto a fuoco, ma io sono davvero contento che tu sia qui»
Poco dopo aver proferito quelle parole sincere, si era abbandonato alle lacrime nascondendo il volto tra le mani; non temeva di mostrarsi debole, ma solo di esserlo per le persone che necessitavano di un aiuto concreto e tempestivo.
Era solo questione di tempo, prima che il coraggioso medico di Herat cedesse il passo alla stanchezza; aveva subìto troppo nel corso degli anni, troppi inverni e troppe estati a considerare la morte come unica compagna di viaggio; era sfinito, i suoi nervi erano sfiniti, aveva perso il ricordo della pace, aveva perso il ricordo dell’amore, la loro vita si era interrotta quel 7 ottobre 2001, su tutto ciò che era successo prima era calato il buio, il sipario, la guerra aveva oscurato la felicità, la spensieratezza e il futuro. Era un giovane nel fiore degli anni, quando la prima bomba era caduta, aveva sogni, progetti, aveva in mente di sposarsi, creare una famiglia, ma a modo suo, lontano dalle rigide regole islamiche. La guerra gli aveva strappato la vita sognata, gli aveva lasciato nel cuore solo macerie, vite spezzate, amori senza futuro e il macigno sull’anima di chi non riusciva a salvare; le vite appese a un filo nel quale si imbatteva potevano essere più o meno recuperabili, ma lui si prodigava di strapparle alla morte e faceva troppo male non riuscirci.
«Karim»
Samuel aveva allungato una mano sulla sua spalla, lo accarezzava con il pollice, avrebbe voluto anche abbracciarlo, ma gli era impedito dalla presenza della piccola. Il medico stava temendo per la vita dei feriti che erano stati ricoverati d’urgenza; era comprensibile uno sfogo, ma era anche un cattivo presagio da parte sua.
«Karim, dimmi che stanno bene»
«Non si sveglia, Samuel. Sua madre non si sveglia. Credevo di non aver lesionato alcun organo vitale. Io …»
«Karim, ehi. Non lo hai fatto. Se dovesse essere successo, è stata la bomba, prima che tu ci mettessi le mani. Hai capito?»
L’americano non capiva, non c’era sensazione peggiore per un medico di dover lavorare senza la strumentazione necessaria; Karim aveva potuto contare solo sulle sue mani, nulla di più; c’era la possibilità che non fossero adeguatamente attrezzati nemmeno in quel misero ospedale da campo.
«Samuel, siamo in Afghanistan, in pieno conflitto. Manca ogni cosa qui. Viviamo tra stenti, malattie e bombardamenti. Possiamo fare affidamento solo su noi stessi. Se falliamo anche noi che dovremmo aiutare la nostra gente, mi spieghi quale speranza ci rimane?»
«Il fallimento è umano, tu non hai alcuna colpa»
«No, Samuel, no. Tu pensi come un occidentale. Sei un occidentale e non puoi capire cosa stiamo passando. Migliaia di bambini restano orfani, altrettanti vengono reclutati. I bambini muoiono, restano mutilati. Questa bambina non ha futuro. Tu non puoi capire»
Aveva abbassato lo sguardo sconfitto, la voce flebile si era persa nel fiato corto esaurito dalla sofferenza e dalla rabbia.
«Karim, aiutami a capire, allora. Voglio capire, voglio aiutarvi. Come posso fare?»
Il medico sorrise sarcastico tra le lacrime.
«Per i vostri tremila morti, ne stiamo sotterrando migliaia qui. Anzi, ma cosa dico, non ricevono nemmeno una degna sepoltura. Ti sembra giusto? Maryam e Hassan non hanno nemmeno una tomba su cui piangere la madre. Non capite che più voi li attaccate, più loro ci ammazzano»
Karim aveva tolto Samuel dall’oneroso compito di dovergli rispondere, lo aveva lasciato nuovamente solo in compagnia della piccola. Aveva ragione, la violenza non si vinceva con la violenza. Aveva dannatamente ragione ed ora, giunto fin lì, era entrato anche lui nello stesso vortice di impotenza dei civili locali.
Recuperò il cellulare dalla tasca dei pantaloni; la percentuale di batteria stava scendendo, non aveva ancora trovato né il modo né il tempo di domandare in ambasciata un po’ di elettricità. Compose il numero della fidanzata, si sentiva schiacciato e solo la sua voce avrebbe potuto offrirgli una boccata d’aria fresca nei polmoni.
«Samuel! Amore, come stai?»
Una lacrima si staccò davvero dalle ciglia del ragazzo, ma aveva un sapore diverso; i colori erano tornati ad accendersi intorno a lui, aveva la percezione di essere meno coinvolto, più altrove.
«Margaret, ti prego, dimmi qualcosa di bello. Qualsiasi cosa»
La giovane dall’altra parte della cornetta aveva indugiato, aveva avvertito la voce del fidanzato sofferente, ma a soffrire sembrava solo l’anima e non il corpo, così decise di assecondarlo.
«Sono davanti alla Cattedrale di Nostra Signora degli Angeli. Sto immaginando il nostro matrimonio. Tu aspetti sotto l’altare ed io ti faccio un piccolo scherzo arrivando in ritardo. Dopo la cerimonia, facciamo insieme un giro panoramico di Los Angeles sulla ruota di Santa Monica»
Non era vero, non era riuscita a pensare al futuro e nemmeno in quel momento fu facile. Anzi, più pensava a quel sogno lontano e più la gola le bruciava, le lacrime fremevano di scorrere incassate nella laringe.
«Ti amo, Maggy»
«Ti amo anche io»
Il segnale acustico del cellulare comunicò che il tempo a loro disposizione stava esaurendo, la batteria li stava abbandonando.
«Si sta scaricando il tuo telefono»
«Lo so. Un’ultima cosa. Grazie di esistere, Margaret»
Non ricevette alcuna risposta, il cellulare si era spento all’improvviso. Era certo però che l’avesse sentito, aveva avvertito il leggero sbuffo di un sorriso dall’altra parte del mondo, in cui aveva la fortuna di vivere.
 
~
 
Christian avvertiva solo un dolore lancinante alla spalla e lo sferragliamento degli strumenti chirurgici sopra di lui. Si era imposto che operassero prima una donna con una ferita che sembrava essere messa molto peggio della sua ed ora era al limite della sopportazione. Avrebbe gradito una dose massiccia di cloroformio, ma temeva di non svegliarsi più e lui doveva in ogni caso riaprire gli occhi.
La sua vista era offuscata dal dolore, dal sudore e dalla debolezza, perciò intravedeva appena al suo fianco un uomo vestito di bianco che si prodigava di aprire la divisa e scoprire la ferita. Gli era parso di aver urlato, la stoffa impregnata di sangue si era attaccata alla carne viva. Era molto più vicino allo svenimento di quanto non lo fosse la volontà a tenerlo sveglio.
«Capitano Richardson, mi sente?»
Parlare era impossibile, muovere i muscoli era uno sforzo e gli avrebbe causato nuove sofferenze fisiche. Riuscì soltanto ad affermare con la testa, ma non riusciva a stimare ancora per quanto tempo sarebbe riuscito ad udire i rumori intorno a sé.
«Capitano, dobbiamo addormentarla, non può sopportare un’operazione simile da sveglio»
Christian negò. Avrebbe voluto dire a quel medico che aveva una famiglia, che non poteva morire, che doveva svegliarsi, che non aveva dato un ultimo saluto a Katherine e Alisia prima di un’operazione delicata.
«Signore, abbiamo ancora del sonnifero, non lo neghi»
Il suo cuore aveva accelerato all’improvviso, provocando una tachicardia, era sicuro che quei battiti avessero incisi sopra i nomi di sua figlia e di sua moglie.
«Per favore … non posso morire»
Aveva afferrato con un gesto flebile un lembo di stoffa del camice bianco; lo sconosciuto gli aveva stretto la mano con più fermezza e dolcezza. Christian dopo un ultimo forte colpo al cuore aveva avvertito il suo petto svuotarsi e il fiato abbandonarlo; solo la mente diede un ultimo segnale di vita.

Alisia, perdonami.


 
Ciao ragazzi!
Dopo la rassicurazione nello scorso capitolo, spero che questo abbia riequilibrato l’angst, visto che la strada sarà ugualmente tortuosa ^^”.
Non lo commento perché rischierei di rovinare la suspance, quindi preferisco soffermarmi su un’altra questione e portare alla vostra attenzione le foto di Chris e Kathe. Per Kathe, chiedo scusa per le scritte sulla foto (è un copyright); per Chris invece, ringrazio ancora una volta  
Amily Ross per le modifiche agli occhi e che altro dire, io di questa foto mi sono innamorata **. Spero di non aver rovinato l’immagine che avevate creato di loro.
Vi ringrazio di cuore per il supporto che mi date in ogni forma, un ringraziamento speciale a coloro che mi lasciano un loro parere che mi infonde tantissima motivazione <3
Alla prossima!
Un abbraccio grande
-Vale

                                  
 

[1] Ciò che rende famosa questa località è il celebre luna park sul molo, con la sua caratteristica ruota panoramica. Santa Monica è anche un centro cittadino affascinante, molto vivace, con vari locali, negozi e artisti di strada, nonché un bell’affaccio sul mare, rendendola una delle spiagge più famose di Los Angeles.
[2] Il turibolo (detto anche incensiere) è il vaso, spesso in metallo, dove viene bruciato incenso in grani o altre essenze profumate e penetranti durante una funzione religiosa.
[3] La guerra del Vietnam, nota nella storiografia vietnamita come guerra di resistenza contro gli Stati Uniti o anche come guerra statunitense, fu un conflitto armato combattuto in Vietnam fra il 1º novembre 1955 e il 30 aprile 1975. Il conflitto si svolse prevalentemente nel territorio del Vietnam del Sud e vide contrapposte le forze insurrezionali filocomuniste – sorte in opposizione al governo autoritario filostatunitense costituitosi nel Vietnam del Sud – e le forze governative della cosiddetta Repubblica del Vietnam – creata dopo la conferenza di Ginevra del 1954.
[4] Il riferimento è al Massacro di My Lai, un massacro di 504 civili inermi e disarmati per mano di militari statunitensi (l’ordine fu dato da un ufficiale americano, accusato in seguito per crimini di guerra, ma non sapendo se sia ancora in vita ho preferito sostituire il nome originale con uno di mia fantasia).

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Capitolo 12
*** Capitolo 11_Giornalismo di guerra ***


Giornalismo di guerra[1]


 
Egli non vive forse anche sotto terra, quando sarà per lui impercettibile l’attrattiva della vita se può risvegliarla nella mente dei suoi con nobili preoccupazioni? Questa corrispondenza di sentimenti amorosi è divina, è una dote divina negli uomini; e grazie a essa si vive con l’amico morto e il morto con noi, se la sacra terra che lo ha accolto neonato e lo ha nutrito, offrendo l’ultimo asilo nel suo grembo materno, renda intoccabili i resti dalle offese degli agenti atmosferici e dal piede profanatore degli uomini, e un sasso conservi il nome, e un albero amico profumato di fiori consoli le ceneri con le ombre gradevoli.[2]
 
 
San Diego, 26 agosto 2018
 
 
Dicevano che i fiori sulle lapidi fossero simbolo di vita. Così dicevano. Katherine in un cimitero aveva trovato sempre tutto tranne uno spiraglio di speranza. Da quando Christian era partito, si occupava lei di porgere ogni settimana un paio di fiori freschi ai piedi della lapide dei suoceri, sopra i fili d’erba rigogliosa, giovane, tinta di un verde chiaro e ordinata impedendo che crescesse selvaticamente. Suo marito prediligeva le rose bianche, sosteneva rispecchiassero la loro anima; Katherine non poteva sapere se fosse vero, ma se avevano posseduto la metà del cuore del padre di sua figlia, significava che erano state persone straordinarie. La donna si premurava di rimuovere la polvere posata sul marmo e sul vetro della foto; Christian non le aveva chiesto di farsi carico di quel compito, era per lei implicito che si sarebbe impegnata in sua assenza.
Era assurdo il destino, doveva essere stato congeniato da una mente poco razionale; due genitori che avevano amato il figlio finché era stato loro possibile giacevano sotto un metro di terra – idealmente, visto che i loro corpi non erano più stati recuperati –, mentre i coniugi Scott non avanzavano il più piccolo passo di compromesso per avvicinarsi alla figlia – se non fisicamente, almeno con il pensiero.
Katherine sfiorò con un panno umido le lettere dei loro nomi e i numeri delle date in rilievo; alcuni, dopo più di vent’anni, erano traballanti, così impiegò maggiore cura nel pulire. Quando morirono, la madre di Christian aveva poco più di quarant’anni, mentre al consorte non era stato concesso il tempo di compierli; erano solo i giovani genitori di un adolescente che necessitava del loro modello per diventare adulto, esempio che Christian non aveva permesso che si disperdesse nelle acque profonde dell’Oceano Pacifico. Le iridi azzurre del compagno di vita di Katherine assumevano la conformazione tormentata delle onde in alta marea ogni volta che li citava o venivano citati davanti a lui; cedeva persino davanti alla piccola di casa, quando chiedeva con ingenuità loro notizie. Le domande della bambina sorgevano spontanee dal confronto con i nonni materni, che aveva sentito e visto talmente in poche occasioni da poterle contare sulla punta delle dita di una mano, ma non poteva capire quanto i nonni in vita valessero meno rispetto a quelli defunti. Sarebbero impazziti per nostra figlia, Kathe, glielo ripeteva sempre con gli occhi fumosi dal sale e un macigno nel petto, ma non mancava mai di ricordarlo quando il suo cuore di padre era gonfio per la gioia e l’orgoglio. La ami così tanto, che non fai mancare ad Alis nemmeno il loro affetto, puntualmente lei gli rispondeva con dolcezza sperando che la presenza della sua nuova famiglia lo confortasse.
Christian somigliava tanto ai suoi genitori e non solo moralmente; ogni volta che Katherine contemplava la foto sulla lapide dei due coniugi, immortalati in uno degli ultimi momenti della loro vita insieme, provava un brivido lungo la spina dorsale; avevano pressappoco la sua età quando erano deceduti, il tempo non aveva avuto l’opportunità di segnare i loro volti e di sfiorire la loro bellezza. Christian portava sul viso gli stessi tratti del padre e gli occhi celesti della madre, caratteristiche che peraltro attraevano Katherine dal loro primo incontro.
La donna aveva deciso di non farsi accompagnare da Alisia in occasione di quella visita ai parenti defunti, William le aveva fatto la cortesia di intrattenerla al parco; Christian non la portava mai sulla tomba dei nonni, le raccontava solo che erano rimasti in cielo dopo un viaggio tra nuvole perché erano soffici e morbide rispetto alla Terra; era d’altronde la stessa scusa che aveva sempre raccontato a se stesso – specie prima di conoscere sua moglie –, certo con altre parole, ma che senso aveva tornare a soffrire in vita quando si era trovata la scusa buona per scappare.
Dopo aver assolto al dovere dell’anima, Katherine si inginocchiò davanti alla lapide a qualche passo di distanza e si rivolse alla foto che per l’eternità avrebbe solcato il marmo bianco e opaco. Erano gli angeli di suo marito, gli unici di cui conoscesse il nome e a cui rivolgere una preghiera diretta; memore dei ricordi di Christian, era certa continuassero a dimostrarsi ottimi genitori anche tra la volta celeste grazie alle loro anime pure. La giovane signora Richardson consentì ad una scia salmastra di percorrerle la guancia fino al mento; non si era trattenuta, in quel luogo in assenza della sua bambina non serviva. Era tutt’altro che semplice riscoprire la forza necessaria, quando si palesava davanti agli occhi il rischio concreto di perdere il compagno con il quale aveva costruito la sua vita in California; non riusciva nemmeno a prendere in considerazione che nell’immenso cimitero di San Diego si aggiungesse accanto alla lapide di quelle due anime quella di un altro giovane uomo – stavolta del suo uomo –, dopo che la sua vita fosse stata tragicamente spezzata.
Lo sguardo basso di Katherine era oscurato dalle palpebre e dai lunghi capelli nocciola riversi dalle luci insidiose del mattino; le mani congiunte in un intreccio di falangi all’altezza delle cosce e la mente erano raccolte in preghiera. Lo squillo del suo cellulare venne attutito dalla stoffa della borsetta dentro cui era stato riposto; si era dimenticata di silenziare la suoneria, ma non era quello a premerla di più, visto che sullo schermo il numero risultava sconosciuto. Dopo una settimana di silenzi da parte di suo marito, la stava contattando un numero che lei non conosceva; ciò non poteva essere di buon auspicio. Non seppe nemmeno lei dove trovare il coraggio di premere verde; lo fece ringraziando Dio che non fosse accanto a sé la figlia, avrebbe notato l’inconfondibile tremore che aveva percorso il suo corpo e la sua anima; non aveva memorizzato il numero dell’ambasciata e temeva fossero loro a chiamarla per comunicarle notizie nefaste.
«Pronto. Chi parla?»
 
Ospedale da campo – Kabul, 27 agosto 2018 (ora locale)[3]
 
 
La mente di Christian non era ancora del tutto vigile, ma i sensi avevano iniziato a sciogliersi dall’intorpidimento. Ebbe la sensazione di aver dormito a lungo; il medico che lo aveva operato era ricorso all’anestesia, ma quantomeno aveva consentito che si risvegliasse.
Il capitano aveva la gola secca e la parte inconscia del suo cervello era ancora catturata da ricordi lontani, come era solito fare nei momenti più turbati della sua vita, lasciò che il suo personale balsamo agisse sul cuore; i desideri si erano camuffati dietro a sogni troppo nitidi per essere fittizi.  Aveva avuto paura di perdere la vita, per il semplice fatto che non possedeva alcuna esclusiva sulla sua esistenza. I volti della moglie e della figlia ricorrevano nel suo immaginario, in quel mondo effimero gli era lecito tutto, persino abbracciarle e sentire le loro voci. Solo il cielo era testimone di quanto necessitasse del timbro confortante di Katherine e dei sussurri con i quali lo faceva sentire l’uomo più amato sulla Terra. Gli mancava essere chiamato papà dalla sua bambina, come anche i passi felpati di Alisia quando correva tra le sue braccia ogni volta che varcava, giunta la sera, la soglia di casa. Soffriva di non poter godere della complicità delle donne della sua vita, nemmeno da lontano, forse più di quanto non patisse per la ferita fresca sulla spalla; bruciava sempre di più, la pelle intorno ai punti tirava, ma era solo un’ipotesi, visto che intorno alla scapola e al polso c’era una stretta fasciatura per fare in modo che non compisse movimenti bruschi e avventati.
Katherine aveva ragione, nove mesi erano esagerati e ancora più pesanti con le limitazioni imposte dal generale Flores. Quell’uomo non poteva conoscere il senso della mancanza; sarebbe stato interessante gettare uno sguardo sul suo passato, qualcosa doveva aver inaridito il cuore dell’ufficiale; l’anima del tenente Richardson però non aveva subìto la medesima influenza dal proprio tragico vissuto personale, perciò non riusciva a comprendere una simile freddezza verso il prossimo da parte del superiore.
Con il braccio libero Christian fece leva sulle lenzuola per potersi sedere, ma non sollevò le palpebre; era stata una mossa avventata, un capogiro lo colse alla sprovvista, forse frutto dell’anestetico. Avrebbe posato comunque la testa sul cuscino, ma il contatto con un palmo femminile sulla spalla sana lo accompagnò con dolcezza in quel gesto.
«Katherine»
Era una speranza pressocché nulla che la donna si trovasse al suo fianco, ma lo affascinava l’idea che lei potesse vegliare in qualche modo sul suo riposo, tormentato dai pensieri e dai dolori fisici.
«Mi dispiace, capitano, non sono sua moglie»
Christian lo sapeva già, la voce dispiaciuta del sottoposto era stata solo una conferma. Non puntò le pupille su di lei, anzi posò una mano sulle palpebre, come se la luce nel quale erano immersi fosse troppo intensa.
«Gwen, dove mi trovo?»
«Siamo ancora nell’ospedale da campo. Era in condizioni critiche quando è arrivato, come d’altronde la maggior parte delle persone che sono giunte qui dopo l’attentato. È stato perciò operato solo ieri per mancanza di spazio, attrezzature e personale. Stia tranquillo, è andato tutto bene»
Il soldato Ward aveva accennato un sorriso; fu quello l’incentivo offerto all’uomo per spalancare la vista sul luogo. Era sera, Christian se ne accorse dai neon di emergenza accesi sopra le loro teste; provò subito fastidio, le iridi iniziarono ad inumidirsi, benché la luce per chiunque altro fosse flebile.
«Ti prego, spegni la luce»
Gwendoline eseguì l’ordine, lasciando che l’imbrunire filtrasse oltre la plastica opaca che avrebbe dovuto fungere da finestrella per i raggi del sole e della luna, ma anche per l’aria. I sensi del capitano trovarono pace nell’ombra soffusa del satellite e ciò gli consentì di accorgersi del suo vestiario; aveva la giacca del tutto imbrattata di sangue e lacerata al centro con un taglio netto; di certo non avrebbe potuto pretendere che i suoi soccorritori ne avessero riguardo, gli avevano salvato la vita, era ciò che contava. La ragazza interpretò i pensieri del superiore, mentre sfiorava affranto i brandelli di stoffa dei suoi abiti; gli mostrò soddisfatta una giacca dai colori scuri e intonsa, aveva intuito che l’umidità della notte avrebbe potuto avere un effetto negativo su di lui.
«Mi sono permessa di recuperare la sua divisa alla base»
Christian ne fu lieto, era stato un pensiero gradito. Gwendoline tentò di aiutarlo, era necessario sedersi per cambiarsi, ma l’uomo negò con un sorriso sofferto l’aiuto della giovane recluta che dovette rassegnarsi ad assistere impotente alle sue difficoltà. Il soldato Ward credeva che l’ufficiale non fosse toccato da alcun difetto e invece dovette ricredersi, era testardo come pochi, anche quando il bisogno di un sostegno era evidente; era proprio curiosa di vedere come avrebbe fatto a spogliarsi con un’unica mano disponibile agli sforzi; incrociò le braccia al petto e si preparò ad intervenire, il suo supporto si sarebbe presto reso necessario. L’uomo tirò il polsino della divisa distrutta con la mano immobilizzata dalla fasciatura, ma il gomito gli impediva di far scorrere la manica; fece un paio di tentativi con maggiore forza, i muscoli contratti dolevano e fu una sofferenza inutile, fallì miseramente. Gwendoline si avvicinò, lo sovrastò; prima che lei potesse sfiorarlo, la voce severa di Christian le giunse all’orecchio a pochi centimetri.
«Faccio da solo, grazie»
«Non invidio sua moglie, capitano»
La ragazza si allontanò da lui muovendo un passo indietro. Era abituata ai modi burberi degli uomini in accademia, in caserma e al fronte, senza parlare del generale, ma il suddetto era sempre stato gentile con lei. Christian per primo si accorse di essere stato scorbutico, si passò un palmo sul viso mortificato.
«Perdonami, Gwen. Di solito non sono maleducato. Accetto volentieri il tuo aiuto, grazie»
La recluta gli rivolse un mezzo sorriso, non desiderava colpire il suo orgoglio, ma il bisogno di assistenza era innegabile; gli sfilò la giacca zuppa di sangue e gli infilò la divisa da Navy SEAL, iniziando dal braccio libero.
«Grazie per essere tornata in ospedale. Suppongo tu abbia privato l’unità di forza militare»
«La assisto da giorni, signore. Non si preoccupi, le operazioni sono ferme. Abbiamo bisogno di lei per aiutare le persone che sono intrappolate nel nosocomio. Però, ho anche una bella notizia da comunicarle, i Talebani hanno accettato l’introduzione di rifornimento medico e di prima necessità, quindi abbiamo guadagnato tempo. Ha portato fortuna la sua presenza tra noi, capitano»
Rivolse stavolta un sorriso più convinto all’uomo incrociando le sue iridi; lo sguardo emozionato per la conquista trafisse Christian, l’ottimismo della giovane lo invase come i raggi bollenti di mezzodì e non era il risultato dell’inesperienza, il sergente Ward in campo era positivo di norma. Forse Barkclay non lo mostrava, il dolore della moglie morta assassinata gli rodeva ogni giorno l’anima tra le fila degli aviatori, ma nei suoi occhi non cessava mai di brillare la speranza che presto i buoni avrebbero vinto sui portatori di morte – come amava definirli lui – e lui avrebbe potuto vendicare la scomparsa della compagna.
«Temono solo che muoiano gli ostaggi e crolli la loro posizione di controllo»
Gwen liberò il braccio dell’ufficiale dalla fasciatura e delicatamente gli infilò la seconda manica; cercò di non sforzare la spalla reduce dall’operazione e si limitò ad accostare la stoffa alla ferita coperta; si premurò poi di appoggiare nuovamente l’arto al suo petto in modo tale che non si muovesse e si dedicò ai bottoni. Il breve aggiornamento sulla situazione dell’ospedale assediato era concluso, la recluta non aveva altro da riferirgli; in seguito all’affermazione distaccata di Christian, il sorriso della ragazza si spense. Il tenente non le diede modo di occuparsi delle ultime asole agli estremi, le catturò la mano per fermarla.
«Può andare bene così, grazie. Senti, ricordo una donna afghana. Era accanto a me svenuta. Ho chiesto di occuparsi prima di lei, sembrava grave. È riuscita a cavarsela?»
«Sì, capitano, ricorda bene. Grazie al suo altruismo lei stesso ha rischiato di perdere qualche litro di sangue, ma almeno il suo sacrificio non è stato inutile. La donna è fuori pericolo e potrà riabbracciare presto sua figlia»
Era lieto di sapere che una madre fosse salva, magra consolazione per le centinaia di vittime – tra cui sicuramente vi erano altri padri, madri e figli –, ma era comunque un piccolo barlume di speranza nel mezzo di una carneficina. Era una dannata abitudine dei medici al fronte occuparsi prima dei soldati loro connazionali; le donne e i bambini avrebbero dovuto avere in ogni caso la precedenza, senza ombra di dubbio.
«Certo, dovrete riposare entrambi per qualche giorno. Lei in particolare deve mettere qualcosa sotto i denti alla base, immagino sia debole, qui non hanno potuto fare di più per lei. Mi ha sentito, capitano?»
«No, lo sparo deve avermi leso buona parte dell’udito»
Le sorrise beffardo, venendo subito ricambiato dalla giovane. Era per Gwen una battaglia persa in partenza, Christian non avrebbe mai ceduto alle prescrizioni mediche. L’ufficiale era testardo, ma dopo i giorni che aveva trascorso meritava qualche minuto di spensieratezza; la ragazza aprì un taschino della sua divisa all’altezza del petto, recuperò il cellulare personale e lo porse al tenente.
«Tenga, capitano, chiami la sua famiglia. Suppongo abbiano avuto notizia del duplice attentato dai mezzi mediatici, tranquillizzi i suoi cari»
Lo aveva spiazzato, non seppe come replicare, ma era quasi certo fosse un’iniziativa della recluta.
«Il generale Flores non lo sa, vero? Non voglio metterti nei guai»
«Il generale è un uomo preparato in guerra, ma pecca in umanità. Si fidi, non finirò nei guai per questo. Coraggio, lo accetti. Lo consideri un favore del karma per aver evitato che una bambina diventasse orfana»
Christian afferrò il telefono poco convinto; sfiorò alla giovane il dorso della mano e lei percepì tutto il suo indugio.
«Si prenda tutto il tempo che le serve, capitano. Io aspetto fuori e impedisco che la disturbino»
Aveva rivolto all’uomo un sorriso cordiale, ma non gli diede modo di ringraziarla per l’intimità che gli aveva concesso. Il tenente non aveva l’imbarazzo della scelta sul numero che avrebbe dovuto comporre, ma anche se l’avesse avuta, la sua decisione sarebbe stata sempre e solo una. Il cellulare della moglie era salvato nella sua rubrica, per chiamarla gli era necessario digitare sul suo nome, eppure da quando si erano scambiati i numeri di telefono svariati anni prima, lui lo aveva impresso in modo indelebile nella mente. Era provato, non ricordava che ore fossero a San Diego, sperò che lei non stesse dormendo e nemmeno lavorando; si augurò fosse libera di conversare qualche minuto con lui, in quel momento di sofferenza fisica non chiedeva altro che la sua voce. Qualche rintoccò divise Christian dalle aspettative.
«Pronto. Chi parla?»
«Tesoro, sono io»
L’uomo cercò di mostrarsi sereno, non aveva alcuna intenzione di comunicarle di essere rimasto ferito e di essere stato salvato per il rotto della cuffia; se non fosse venuta a conoscenza dell’attentato, lui non le avrebbe menzionato neppure quello, era inutile che si preoccupasse per uno scampato pericolo. Katherine si alzò dalla posizione accovacciata in cui si trovava sull’erba del cimitero; era incredula di sentire quella voce giovane, profonda e flebile; l’ultima caratteristica l’angustiava, ma una parte del suo cuore le suggerì di tranquillizzarsi, non era l’ambasciata in fondo.
«C-Christian»
L’uomo percepì l’agitazione della moglie; era sempre stato bravo a distendere la tensione della consorte, la lontananza però rendeva più ardua l’impresa, gli era impedito ad esempio ogni genere di effusione, avrebbe quindi dovuto contare solo sulla sua voce e sul modo di porsi a lei.
«Amore, tranquilla, sono vivo, non sono ancora un fantasma»
«Tranquilla un corno! Hai idea dei giorni che ho trascorso?!»
La reazione di Katherine gli insinuò un dubbio terribile, che spense il sorriso scanzonato sulle sue labbra.
«Aspetta, il generale Flores non ti ha avvertita?»
«Chi diavolo è il generale Flores? Christian, sei sparito all’improvviso! Credevo fossi morto e che non avessero nemmeno avuto il coraggio di dirmelo. Non ho voglia di scherzare sul fatto che tu non sia un fantasma, per me lo sei stato per più di un giorno e credimi è stato tutto tranne che piacevole»
Stava urlando nelle orecchie del marito sfinita dalla preoccupazione, ma lui non era nelle condizioni psicofisiche per sopportare la sua voce squillante. Il capitano era sul piede di guerra con il suo superiore, non era quello l’atteggiamento da tenere verso i sottoposti, avrebbe solo guadagnato un’insubordinazione da parte degli stessi; Christian non aveva certo qualcosa da insegnare ad un ufficiale più longevo di lui all’interno della recinzione della sua base, ma i giudizi venivano naturali, lui stesso aveva un ruolo di comando nel Coronado e, insomma, aveva giocato con i sentimenti di sua moglie, non di una donna qualsiasi, le imprecazioni verso il generale sorsero spontanee.
«Va bene, ho capito, ora calmati. Katherine, mi dispiace per i momenti che hai passato, ma non ho più il mio telefono, questo con cui ti sto chiamando appartiene ad una mia collega»
«Ora hai anche le colleghe?»
Una punta di gelosia si insinuò nel timbro della moglie e ciò lo infastidì; aveva problemi più gravi, le accuse di infedeltà non rientravano tra le sue priorità ed era quasi certo che fossero state dettate da una forte frustrazione da parte della donna.
«Katherine, ha vent’anni»
«Ovvio che sia giovane, ci mancherebbe il contrario»
La newyorkese si appoggiò ad un cipresso lì accanto, le mancava il fiato per la foga con cui si era rivolta a lui; si sedette alla base dell’albero piegando le ginocchia verso il petto e posò la schiena contro il tronco affusolato; non era il luogo ideale per soffermarsi più del necessario, l’atmosfera era intrisa di un silenzio irreale, ma le gambe non la reggevano ed era stata l’unica soluzione possibile. Cercò di calmarsi, capì da sola di avere esagerato e lui le concesse comprensivo il tempo per riprendersi, anche perché non aveva proprio la forza per litigare contrastando assurde supposizioni; un giorno forse le avrebbe raccontato di Gwendoline e del sergente Ward, ma non era quella la sede.
«Come stai?»
«Bene, ma non abbastanza per pensare ad un’amante»
La sentì accennare un sorriso dall’altra parte della linea; fu lieto della reazione della consorte, il registro con il quale si rivolgeva a lui sembrava radicalmente cambiato nel giro di qualche secondo.
«Ci manchi, Chris»
«Voi no»
«Hai finito di fare il cretino?»
Lo rimproverò, ma era divertita, sarebbe stata ore ad ascoltarlo mentre pronunciava frasi senza senso, le faceva bene al cuore, specie in determinate situazioni di tensione; Christian lo sapeva bene, Katherine ne era consapevole, ma era soave sentirlo di nuovo in salute dopo giorni colmi di ignoto e premure, la sensazione di spensieratezza che le stava regalando vinceva su tutto.
«Perché, è così inusuale?»
«No, non lo è affatto»
La donna lo sentì ricambiare con un ampio sorriso che venne strozzato subito dopo, come se una fitta gli avesse mozzato il fiato. Katherine non comprese la sofferenza fisica del marito, quest’ultimo si premurò di camuffarla all’istante tornando serio.
«Come sta Alisia?»
«Sta. Senza te sopravviviamo, non viviamo»
Non le rispose, ma il silenzio venne colmato da un sospiro da parte dell’uomo. Katherine provò a cambiare argomento, anche se fu ugualmente triste. Si era dimenticata di trovarsi in un campo santo e di aver violato la pace di quel luogo; per fortuna nessuno di vivo era nei paraggi, ma lui lo era davvero, non stava sognando, la sua voce era troppo familiare per confonderla con un impostore.
«Ho cambiato i fiori sulla lapide dei tuoi genitori»
«Grazie, amore»
«Chris»
Non sapeva discernere quali parole fossero più importanti da impiegare in quei pochi minuti, sapeva solo che avrebbe voluto la stringesse tra le sue braccia, nulla di più impossibile.
«Anch’io, Kathe. Anche io»
Il tenente era convinto di provare le sue stesse emozioni, qualunque esse fossero.
 
 
Ambasciata americana – Kabul, 28 agosto 2018
 
 
L’ambasciata americana che aveva sede nella capitale afghana era una costruzione immensa, il cui ingresso era solcato da un ampio piazzale e dall’immancabile asta alta diversi metri con all’apice la bandiera statunitense sventolante giorno e notte. Samuel aveva già avuto il piacere di varcare la porta della rappresentanza istituzionale, ma prima di avere scoperto che poco distante dalle porte a vetri aveva perso la vita una donna, moglie e madre di due figli; un ennesimo grammo di angoscia andò ad aggiungersi ai chili che aveva accumulato negli ultimi giorni, non fu facile pensare di vivere mesi in un simile stato psicologico, caratterizzato da una forte impotenza.
Era stato convocato dalle autorità, di nuovo; dopo il servizio prestato alla CNN, non aveva più frequentato quelle mura; il pensiero di riferire lo stato di sofferenza in cui riversava la popolazione gli sfiorò la mente, non era in fondo lì per documentare? Si rifiutava di credere che il suo reportage servisse solo per uno stupido articolo su un giornale di attualità, era inutile se non avesse apportato qualche miglioramento a coloro che subivano la guerra sulla pelle. Pochi giorni furono sufficienti a Samuel per raggiungere una consapevolezza che non avrebbe mai creduto possibile da Los Angeles; non era riuscito ad ignorare la sofferenza di Karim, di colui che era diventato per lui in breve tempo un fedele amico; la condivisione di un’esperienza così forte aveva saltato più di una tappa nel loro rapporto.
Reduce dalle conseguenze del conflitto, le corde della sua anima erano state scosse con una magnitudo non indifferente e aveva varcato le porte dell’ascensore con una certa grinta. Il breve ritorno alla civiltà lo lasciò indifferente, anzi non si era premurato nemmeno di indossare abiti occidentali per affrontare il colloquio, si era limitato ad abbassare sulle spalle il copricapo che lo riparava dal sole. La sua destinazione era il terzo piano, lo avrebbe raggiunto in pochi minuti, ma nel tragitto avrebbe avuto l’occasione di sbollire dalla rabbia, evitando così di accusare i suoi superiori di disumanità, rischiando forse, a causa di quell’affronto, di deludere suo padre. Non gli importava in quel momento delle conseguenze, spinse il bottone con impazienza, non vedeva l’ora di raggiungere l’ufficio dell’uomo che si occupava della leva militare per sbattergli in faccia quanto quella sporca guerra stesse facendo più danni di quanti non ne stesse risolvendo; gli avrebbe proprio riferito tutto, non avrebbe omesso nulla, se fosse stato necessario gli avrebbe persino mostrato il segno delle lacrime della piccola che portava ancora sui vestiti. Aveva una gran voglia di fumare per stemperare il nervosismo, ma era in luogo pubblico e aveva lasciato le sigarette in valigia. Perché ogni volta che necessitava di distendere la tensione qualcosa glielo impediva? Delilah avrebbe gradito, era sicuramente stata lei a scendere a patti con il suo angelo custode per preservarlo dalla dipendenza da fumo come il padre.
L’ascensore fu pervaso da una scossa; era giunto, le porte si aprirono troppo lentamente, Samuel era nervoso. Non si aspettava però di incontrare il sorriso dell’uomo che avrebbe dovuto incontrare prima ancora di avviarsi verso l’ufficio in questione.
«Signor Clark, buongiorno. La stavo raggiungendo, ma visto che è salito, mi segua»
Non offrì al ragazzo la possibilità di ribattere; lo scortò nel suo ufficio, chiuse la porta e spalancò la finestra per rendere più confortevole l’ambiente.
«Prego, si accomodi»
L’interlocutore di Samuel era un uomo distinto, non vi era nemmeno la lontana parvenza che si trovassero su un suolo sterminato dalle bombe, anzi in ambasciata si viveva in una sorta di bolla. In fondo era proprio così, tra quelle mura era come trovarsi in territorio americano, senza affrontare un viaggio di migliaia di chilometri, si era immuni da tutto lì, si era esenti persino alla sofferenza, almeno fino a quel giorno. Lo sguardo del giornalista era tutto tranne che cordiale, ma l’uomo sembrò non notarlo; l’impiegato si era accomodato a sua volta dietro la scrivania e si era rivolto al giovane con affabilità.
«Allora, ho saputo che è stato coinvolto negli ultimi attentati»
Glielo stava riferendo come se avesse avuto una qualsiasi esperienza, anzi mostrava una certa avidità di conoscere le dinamiche dell’evento da parte di chi aveva avuto la fortuna di viverlo da vicino e poterlo raccontare. Samuel si trattenne, ormai rispondeva a denti a stretti, cercando di misurare le parole.
«No, sono giunto dopo sul posto»
«Per fare un servizio in diretta?»
Le parole dell’uomo di mezza età erano fredde, incuranti degli esiti che gli ordigni avevano lasciato al loro passaggio. Samuel iniziò a credere che non avrebbe guadagnato nulla ad accusare l’ambasciata di menefreghismo, per loro contavano solo i fatti e non era affatto escluso che proliferassero anch’essi sulla vita di poveri innocenti portando avanti quella guerra; con grande forza di volontà decise di ignorare l’evidente vera sadica dell’uomo.
«No, per aiutare un amico»
Samuel non seppe come aveva potuto pensare di smuoverlo con l’accenno al sentimento puro dell’amicizia. Era ingenuo, sua sorella aveva centrato il segno ancora una volta accusandolo di ingenuità.
«Senta, abbiamo pensato di affiancarla ad un soldato in missione, in modo che riesca a seguire più da vicino le operazioni militari. Cosa ne pensa?»
«Altri ordini di mio padre?»
L’uomo rifletté un istante sulle parole del reporter, un pensiero si era insinuato all’improvviso nella sua mente, la quale secondo l’opinione di Samuel non era particolarmente fine; fece scivolare sul pavimento le rotelle della sedia girevole e si avvicinò al pc per recuperare dalla stampante lì accanto un foglio per la maggior parte bianco, eccezion fatta per poche righe incise nella parte alta con l’inchiostro nero.
«A proposito del direttore Clark. È arrivata una mail proprio oggi che le ho stampato in vista del nostro incontro»
Porse l’A4 a Samuel, cercando di mostrare disinteresse verso ciò che c’era scritto per non essere indiscreto; in realtà fu impossibile all’uomo non sbirciare.
Sto rischiando il fallimento del mio matrimonio, ma non importa, sono orgoglioso di mio figlio.
Samuel non sapeva se essere onorato o diffidente nei confronti delle parole che suo padre aveva deciso di dedicargli. Per renderlo fiero di lui doveva forse arrivare a rischiare la vita? Margaret aveva ragione, era un uomo senza scrupoli. Era la verità, gliel’aveva mostrata lo stesso Daniel con la missiva in questione, ma faceva male accettarlo e ammetterlo a terzi. Il giornalista stava incamerando troppa rabbia in un solo giorno, senza aver la possibilità di sfogarla in qualche modo; di quel passo le conseguenze del fumo sarebbero state il meno.
«Ha preferenze? Qualcuno da propormi per affiancarla? Lungo il suo breve soggiorno ha incontrato qualche soldato di cui si fidi?»
Il ragazzo impiegò qualche istante a connettere il cervello e a riemergere dai pensieri. Non sapeva se quell’uomo fosse serio o sarcastico, ma lui aveva davvero un nome in mente.
«Christian Richardson. Il tenente capitano della Marina Militare Richardson»
 
 


Ciao ragazzi!
Mi sono incartata con l’aggiornamento di una FF, così ho ripreso in mano l’originale sperando che desse una scossa alla mia ispirazione :D.
Evvai con l’allegria! Sì, ragazzi, mi sto facendo orrore da sola per la percentuale di tristezza di questa storia, ci mancava solo il cimitero ^^”. Ho sempre la speranza che, se avete iniziato questa storia, siate pronti a questi momenti di profonda tristezza, li gradiate e non vi disturbino troppo, mi auguro solo questo, altrimenti vi avrei sulla coscienza ^^”.
Non smetterò mai di ringraziarvi per il supporto che state dando a questa storia, resto sempre più sorpresa <3.
A presto!
Un grande abbraccio
-Vale
 

[1] Il giornalismo di guerra è la branca del giornalismo che si occupa di descrivere e raccontare le vicende belliche attraverso inviati e corrispondenti di guerra.
[2] Passo tratto dai Sepolcri di Ugo Foscolo.
[3] Volevo solo ricordare (ho dimenticato di farlo nello scorso capitolo) un dettaglio che avevo specificato nei capitoli precedenti, ma con il tempo temo si perda di vista. Kabul è undici ore e trenta più avanti rispetto a San Diego e Los Angeles, quindi può succedere che a Kabul scatti il giorno successivo, è questo il significato di “ora locale”.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12_Memorie ***


Memorie
 



 
Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 30 agosto 2018
 
 
Christian era stato categorico: Samuel non lo avrebbe affiancato in alcuna operazione militare, a prescindere dal livello di rischio per la propria incolumità. Il capitano in persona era tentato di raggiungere l’ambasciata ed accusare di leggerezza quei delegati da quattro soldi, seduti alle loro comode scrivanie; non si erano presi chiaramente il disturbo di affacciarsi alle finestre dei propri uffici, si sarebbero in tal caso accorti di quanto la devastazione dilagasse sulle terre aride. A qualunque nazionalità appartenessero coloro che erano stati impiegati in prima linea, che fosse afghana, americana, italiana, inglese, francese, e indipendentemente che fossero giornalisti, militari, volontari, restavano umani, non pedine da spostare e di cui usufruire laddove facesse loro più comodo. La decisione dell’ambasciata sulla vita di Samuel era difficile da accettare per un soldato che aveva vissuto più volte sulla pelle le conseguenze di un conflitto armato. La guerra non era un contesto di lavoro comune; solo chi era stato addestrato poteva permettersi di impiegare i militari per portare a termine una missione con successo, gli ambasciatori non avevano alcuna esperienza sul campo per organizzare e gestire operazioni militari, tanto meno per decidere chi ne avrebbe preso parte. I giornalisti non erano contemplati nei piani d’azione di Christian, men che meno un giovane di poco più di vent’anni disarmato, acerbo sul campo di battaglia e con un futuro roseo all’orizzonte. Samuel non aveva scelto una carriera rischiosa, nella maggior parte dei casi il giornalismo non era una branca professionale pericolosa; dimostrare in guerra un impeto di sconsiderato coraggio non avrebbe reso più lieta e meno azzardata la decisione di sfidare il destino.
Christian era stato dimesso dall’ospedale da campo da appena ventiquattro ore. I medici avevano raccomandato riposo ed era quasi ridicolo credere che lui sarebbe riuscito a recuperare in tranquillità le energie perdute; gli era stato sufficiente infervorarsi dopo la proposta di Samuel per rendere il suo respiro affannato; la stretta fasciatura che sormontava ancora il petto del Navy SEAL gli impediva di dare libero sfogo alle pulsazioni accelerate del suo cuore. Nel quartier generale, l’ufficiale si accomodò ansimante su una sedia per buona parte marcia a causa dell’umidità del luogo; il tavolo, anch’esso in condizioni pietose, funse da sostegno ai suoi pensieri, prima ancora che al suo avambraccio libero di muoversi. Christian non era nelle condizioni per assumersi la responsabilità di un’altra vita, a malapena riusciva a badare a se stesso.
Samuel aveva lasciato spazio al capitano di esprimere la propria opinione, il ragazzo non aveva alimentato la discussione, non lo aveva contraddetto, aveva aspettato che terminasse di esporre le sue ragioni e le soffocasse poi per mancanza di fiato, accomodandosi provato. Il giornalista aveva atteso con pazienza; occupava con la schiena una striscia di parete scrostata, era appoggiato ai dorsi delle proprie mani, le quali si trovavano a loro volta tra lui e il muro. Il ragazzo aveva un portamento rilassato, ignaro dei pericoli che avrebbe corso; se solo Christian avesse dato uno scarno segnale di consenso, non avrebbe indugiato a diventare la sua ombra. Samuel era consapevole del fatto che accanto al Navy SEAL avrebbe potuto essere utile per la popolazione e anche per lo stesso militare, il quale non aveva ancora ripreso pieno possesso delle proprie facoltà; era un buon soldato, lui non combatteva per uccidere, solo per ridare la vita perduta, era un onore per Samuel affiancarlo. Il capitano, dal canto suo, era convinto che quel giovane non avesse esperito abbastanza gli orrori della guerra, pochi giorni al fronte non potevano essere sufficienti; i rischi erano elevati e numerosi, granate e mine inesplose azionate di proposito o abbandonate lungo il cammino di qualche sventurato erano solo una percentuale ridotta.
Il giornalista stava concedendo il tempo all’ufficiale di prendere una decisione, anche se l’ultima parola spettava all’ambasciata americana, eseguivano entrambi gli ordini delle istituzioni e non vi era modo di sottrarsi. Gli sguardi dei due si sfioravano; erano prede dell’ignoto, ma il capitano era più consapevole del loro destino e non avrebbe voluto condividerlo con altri. Christian era stato incaricato di una missione da portare a termine ad ogni costo, Samuel avrebbe potuto sfruttare qualsiasi mezzo per raggiungere il suo scopo, non era necessario affiancare un soldato; la guerra non avrebbe in qualunque caso risparmiato il pericolo ad un giovane reporter, ma immischiarsi in operazioni militari era un rischio evitabile per lui.
Anche il soldato Ward era in attesa del verdetto del superiore, aveva accostato la spalla ad un’altra parete e aveva incrociato impaziente le braccia contro il petto; dal suo punto di vista, il corrispondente del Los Angeles Times era un ragazzo in gamba, non avrebbe intralciato il lavoro alla base, ma era sicura non fosse quello il motivo di tanta titubanza; conosceva abbastanza Christian da credere che volesse solo proteggerlo.
La voce del tenente risultò ferma, aveva inondato il silenzio che era sceso tra i tre – ad eccezione del temporale che stava inzuppando la terra secca ormai da diverse ore – e aveva dato risposta agli sguardi interrogativi dei due giovani.
«No, Samuel. Torna in ambasciata e proponi loro un compito meno rischioso»
Il reporter era stato pacato fino a quel momento, comprendeva quanto il militare non necessitasse di pressioni, ma l’ultima decisione del tenente aveva riscosso i suoi nervi; anch’egli aveva posato i palmi sul tavolo sovrastando con quel gesto il suo interlocutore; in quella sede solo lui e il generale Flores avrebbero potuto un tale ardire.
«Avanti, Christian. Tu o qualcun altro, non ho altra scelta, il fatto è che di te mi fido. Preferisci che mi faccia affiancare a Gwen?»
Era la pura e sacrosanta verità; Samuel si fidava del tenente, era certo di affidare la sua vita nelle mani migliori, in mani esperte, ma anche sensibili ai problemi sociali radicati in Medio Oriente. Il giornalista aveva gettato uno sguardo verso la recluta, la quale gli sorrise quasi lusingata del pensiero.
«No!»
Il Navy SEAL non aveva riflettuto, era stato istintivo e si era tradito nella concitazione della discussione; le sue guance si erano imporporate per la gaffe commessa, aveva avuto il coraggio di sminuire il soldato Ward in sua presenza. Il tenente aveva a disposizione un’unica mano per coprirsi il volto contratto dal dolore e dalle premure; era sfinito dagli ultimi eventi e non temprato per affrontare due giovani nel fiore degli anni.
«Grazie mille, capitano»
«Gwen, sai che non intendevo ... è Samuel a farmi straparlare»
«Ora sarebbe colpa mia??»
A Christian stava scoppiando la testa, chi gli aveva raccomandato riposo non aveva avuto il piacere di conoscere i suoi collaboratori. Prese un respiro e trasformò la discussione in una cordiale conversazione; si mostrò comprensivo nei confronti del giornalista, quasi paterno, ma non mancò di puntualizzare con fermezza l’errore che stava per compiere, di cui si sarebbe presto pentito.
«Senti, Samuel, ti devi sposare, non ho intenzione di prendermi alcuna responsabilità sul vostro futuro, la mia coscienza è già abbastanza tormentata. Tu puoi tornare a casa e mandare al diavolo l’ambasciata. Un bravo fidanzato prossimo alle nozze farebbe questo»
Per il corrispondente non vi era alcuna logica, a maggior ragione Christian avrebbe dovuto disertare, aveva molto di più negli Stati Uniti da perdere. Già, disertare, il tenente era un soldato, mentre lui un semplice civile; per entrambi però era una questione di onore, in particolare a pesare sulla coscienza di Samuel vi era il pensiero del padre.
«No, non posso. Chris, non chiedermi il motivo, ma non posso»
Il capitano gli avrebbe dato torto, avrebbe accampato le stesse motivazioni della fidanzata e giunti fin lì era impossibile tornare indietro. Da qualche giorno però, fare breccia nel cuore del padre non era il suo unico scopo, anche Karim aveva riposto fiducia in lui e non voleva tradirlo. Lo sguardo del giovane era supplichevole, gli stava domandando una possibilità per entrare nel vivo del conflitto e apportare il suo contributo; non avevano il potere di cessare la guerra, ma avrebbero almeno potuto renderla insieme meno spietata. L’ufficiale interpretò l’anima sconvolta di Samuel attraverso le sue iridi chiare; ricordava di aver provato il medesimo senso di impotenza la prima volta in Afghanistan, aveva visto la vita abbandonare molti esseri umani e ne sarebbero morti molti di più se una fortunata combinazione di astri non lo avesse reso l’eroe che non era. Il tenente posò la mano sul ripiano in legno e si diede la spinta per alzarsi; una smorfia di dolore si dipinse sul suo viso, aveva esercitato troppa pressione sulla spalla sana e gli aveva risposto quella reduce dall’intervento.
«Devo parlare della missione con il generale e devo anche mettere in chiaro un paio di questioni»
Christian lasciò in sospeso l’argomento di cui stavano discutendo, era sfinito e mantenne la testa bassa per lasciare intendere a Samuel il suo pessimo umore; non aveva una risposta assoluta, non era nemmeno nella posizione per ostacolare la decisione istituzionale dell’ambasciata e per giudicare la scelta morale del ragazzo. Si avviò verso l’ufficio del superiore; nessuno dei presenti ebbe l’impulso di fermarlo, lo stesso Samuel lasciò cadere la conversazione. Gwendoline sapeva che i due uomini non avrebbero ceduto, ognuno era sostenuto da argomentazioni valide; era rimasta in disparte, non perché non avesse una sua opinione a riguardo, ma era certa che alla fine il capitano avrebbe preferito preservare la vita di Samuel sotto la sua ala, piuttosto che affidarla ad altri. La ragazza attraversò lo stanzone e si avvicinò al tavolo, a cui il giornalista era ancora appoggiato; si sentì legittimata a farlo quando le acque le erano sembrate più quiete. Il giovane era ancora demoralizzato per la caparbietà del capitano, fissava l'uscita sovrappensiero, ma fu presto distratto dalle movenze del soldato; la vide recuperare una bambola di pezza, dono che il Navy SEAL aveva ricevuto da parte della piccola afghana come segno di riconoscenza dopo aver salvato la madre; Christian si era ripromesso di tornare in California e portare con sé quel regalo per sua figlia, anche se la migliore ricompensa sarebbe stata il suo ritorno. Il soldato Ward strinse tra le mani con delicatezza la stoffa e vi passò sopra i pollici; la ruvidezza della guerra non lasciava spazio a gesti di affetto, alla delicatezza dell’infanzia, il conflitto spazzava via ogni cosa come cenere al vento; stavano combattendo contro una tempesta di denso fumo, era sicura che Samuel lo sapesse e proprio per questa ragione non volesse arrendersi; era così raro incontrare gli occhi vispi di una bimba a cui il cielo aveva restituito il suo unico appoggio, le iridi della piccola avevano assunto un nuovo colore da quando la madre si era risvegliata. Gwen credeva che sarebbe stato più semplice rivivere il dolore lancinante delle perdite che aveva subìto nella patria di coloro che avevano spezzato la sua infanzia; vedere reiterata all’infinito la sofferenza che aveva colpito il suo cuore di bambina riportava in superficie antichi traumi; lei prima di altri piccoli innocenti aveva vissuto sulla pelle i segni dell’odio e della violenza. Una lacrima sfuggì al controllo della ragazza, non era riuscita a fermarla e in meno di un secondo era caduta sulla nuda terra. Un tuono più intenso le ricordò che non era sola; posò la bambola nell’esatto punto in cui il capitano l’aveva lasciata e permise alla sua mente di tornare al presente.
«Ne avevo una simile da bambina. Era stata mia madre a confezionarla. Era brava con i ferri da maglia, così ha sempre sostenuto mio padre»
«Era?»
«È morta nell’attentato alle Torri Gemelle»
«Mi dispiace»
«Anche a me»
Gwendoline si accomodò allo stesso posto che poco prima era stato occupato dal capitano; la sedia era stata scaldata dalla presenza del tenente, fu piacevole in un momento di tristezza sentire di non essere sola, di essere circondata da persone che come lei lottavano per un futuro più giusto; non avrebbe forse cancellato il passato delle vittime vive e morte, ma avrebbe infuso nuova speranza ai sopravvissuti. Il tocco di Samuel sulla mano la riscosse; la ragazza ricambiò la stretta e rimase in silenzio; il soldato poteva avvertire le pulsazioni del giornalista, segno della tensione perenne che infiammava i loro cuori. Avevano trascorso giorni difficili all’insegna della preoccupazione per le sorti di almeno due vite umane. Spesso Gwen veniva accusata di essere debole agli occhi dei commilitoni, non era ritenuta in grado di affrontare un conflitto armato di quelle dimensioni; aveva dovuto lottare contro la sua natura femminile per essere reclutata nell’esercito americano al fronte, doveva dare un senso alla sua vita, alla perdita del padre e a tutti gli insegnamenti che le aveva trasmesso prima di lasciarla anche lui; era certa che anche lui avesse assistito agli stessi orrori, non gliene parlava quasi mai e di certo omettendo i risvolti più crudi. Si era sentita smarrita, senza una guida su cui contare, rendere florida e proficua la carriera militare avviata grazie al padre e al suo esempio era diventato il suo unico obiettivo.
«Samuel. Cosa possiamo noi contro questa guerra? Quando il nostro tempo scadrà al fronte, torneremo in America e nulla sarà cambiato, vero?»
Le pupille della ragazza erano umide; i due giovani condividevano i medesimi timori, il reporter la comprendeva. La ragazza era alla ricerca di una rassicurazione, affiancare un ufficiale nel corso del salvataggio di un ospedale non le bastava, era solo una goccia nell’oceano e non poteva – non doveva – essere sufficiente, la loro anima non avrebbe dovuto sentirsi più leggera dopo una singola azione di pace.
«Vero. Ora però siamo qui e possiamo lasciare un piccolo segno positivo nel cuore di questa gente. Non arrendiamoci, so che è difficile, ma non cediamo»
Samuel le rivolse un sorriso rincuorante; avrebbe voluto fare molto più di ciò che gli era concesso; il suo pensiero si posò su Maryam e sulla sua famiglia dilaniata dalla guerra, sul suo futuro diviso tra le bombe e un matrimonio infelice. Gwen aveva ragione, terminato il loro servizio in Afghanistan, la vita negli Stati Uniti avrebbe continuato a scorrere e si sarebbero lasciati alle spalle il dolore perpetuo di un popolo innocente; forse non del tutto, ma dall’altra parte del mondo erano impotenti insieme al resto del globo. La mano del soldato Ward scivolò da quella del giornalista, nell’esatto istante in cui lei ricambiava il sorriso del giovane; incrociò le braccia contro il petto e posò gli avambracci sul tavolo riscoprendo una posizione più comoda.
«Allora, non so praticamente nulla di te e pare che dovremo lavorare insieme nei prossimi mesi»
«Solo se il capitano Richardson mi accetterà nella vostra squadra»
«Oh lo farà sicuro, vedrai»
Samuel decise di fidarsi della convinzione di Gwendoline, in fondo era un soldato come Christian, pensava quasi come lui.
 
~
 
L’acquazzone che si era abbattuto su di loro era potente, ma sul viso di Christian scivolava lentamente, quasi fosse una carezza, quelle che tanto gli mancavano ultimamente. Indugiò all’interno del recinto circondato da filo spinato; era ostinato ad affrontare il generale Flores e a confrontarsi con lui sulle prime fasi della missione, non aveva neanche in nota più di un giorno di riposo.
Il cielo era illuminato e stava rischiarando un pomeriggio di fine agosto che in caso contrario sarebbe rimasto nell’oscurità più tetra; saette cariche di elettricità davano l’impressione che una guerra si stesse combattendo anche tra gli angeli e avesse una chiara ripercussione sugli esseri umani.
Signore, cos'altro ci vuoi mandare?
Pensava a cosa lo avrebbe atteso, era tutto tranne di buon auspicio il cielo avverso. Sentiva la fasciatura al braccio appesantirsi, si stava anch’essa inzuppando d’acqua insieme alla divisa; aspettava già con ansia il giorno in cui avrebbe potuto togliere i punti dalla ferita, gli sarebbe rimasta un’ennesima cicatrice di guerra, ma almeno avrebbe avuto pieno controllo dei suoi movimenti.
In lontananza le flebili luci della città illuminavano le case più umili; era rincuorante pensare che i fulmini non avessero staccato anche un piccolo chiarore dalla vita della popolazione. Sulla torre di controllo un sottotenente verificava che non ci fossero minacce imminenti all’orizzonte; era stato proprio lui a dare l’allarme degli attentati qualche giorno prima.
I suoi capelli si stavano inzuppando, ma non temeva l’umidità, l’addestramento lo aveva temprato nel fisico e qualunque condizione atmosferica non lo avrebbe fermato; era stato preparato ad agire in mare, sulla terra e anche in cielo se fosse stato necessario, per lui non faceva alcuna differenza, era preparato in egual misura. Aveva preferito, tra i tre mondi, l’oceano per un gusto personale; tra le onde si sentiva libero, il suo cuore era più leggero e riusciva persino a dimenticare che proprio in quelle acque erano scomparsi per sempre i suoi genitori; nell’Oceano Pacifico aveva conosciuto la sua Katherine, sempre lì bramava un giorno di insegnare alla sua bambina a nuotare. L’acqua salata non gli era quasi mai stata avversa, almeno non come il cielo, lo stesso che stava vomitando sull’Afghanistan le peggiori maledizioni, lo stesso che in piena notte svegliava la sua bambina spaventata, lo stesso che aveva dato una svolta radicale nella sua vita. Doveva trovare il coraggio e tornare a volare; aveva preso il brevetto di volo, era stato costretto in quanto Navy SEAL[1], ma non ne era mai stato lieto e così aveva lasciato che negli anni la sua licenza si impolverasse; ricordava bene le parole del suo istruttore dell’epoca e ogni volta gli strappavano un sorriso, anche nelle situazioni peggiori.
Richardson, sei pallido come un cencio. Hai intenzione di riportare questo ammasso di ferraglia sulla terra ferma, o cosa intendi fare, prima che io ti rimandi a casa a giocare con gli aeroplanini telecomandati?
Aveva solo diciotto anni e incubi stampati nella mente h24, avrebbe gradito un po’ più di comprensione, ma in fondo non sarebbe diventato l’uomo che era senza guide così autoritarie. Aveva rischiato diverse volte di provocare incidenti in volo, aveva addirittura imparato a controllare la sua fobia concentrandosi più che poteva sui comandi; era pressappoco lo stesso principio dell’automobile, era difficile soffrire di mal d’auto se si era impegnati sulla guida. Il suo brevetto di volo però aveva preso troppa polvere negli ultimi anni, non era certo di riuscire ancora a gestire la fobia, di riuscire a controllare un mezzo volante con un braccio fuori uso e di sorvolare il cielo di Kabul sotto un temporale di tali proporzioni. Si passò il palmo sul viso per togliere l’acqua piovana; non si guardava davanti ad uno specchio da svariati giorni, aveva la percezione di avere un aspetto trasandato, la barba lunga pungeva al tatto, ma non c’era Alisia a puntualizzarglielo ogni volta che sfiorava con le labbra la sua guancia morbida per porgerle un bacio, non c’era sua moglie a ricordargli quanto sarebbe stato meglio con il viso pulito e non c’era nemmeno il tempo per pensare a se stesso.
Per quanto il passo del tenente fosse stato blando, in pochi minuti aveva percorso il tragitto e zuppo dalla testa ai piedi aveva raggiunto l’ufficio del superiore. Non bussò, non gli importò delle formalità, provava solo insofferenza verso quell’uomo e aveva la percezione fosse reciproca; si sopportavano e mantenevano l’etichetta militare solo per apparenza.
«Capitano Richardson. Mi fa piacere vederla di nuovo in piedi»
Il generale Flores aveva gettato a Christian un’occhiata sfuggevole, sembrava avesse questioni più importanti di cui occuparsi, un soldato ribelle non era al momento nelle sue priorità. Il tenente si accomodò alla sedia davanti alla scrivania senza che qualcuno lo avesse invitato a compiere quel gesto e fu incurante del fatto che stesse bagnando la seduta. Il superiore bloccò la punta della penna sulla carta bianca che stava annotando e puntò i suoi occhi di ghiaccio sul sottoposto.
«Sto scrivendo all’ambasciata, capitano. Non si preoccupi tra un paio di giorni sarà di nuovo nella sua amata California e potrà riabbracciare i suoi cari»
Christian non era certo di aver intenso le parole pungenti dell’ufficiale. Lo stava congedando? La confusione più totale attraversò la sua mente, fino ad una settimana prima avrebbe fatto i salti di gioia, ora non riusciva ad esserne felice. Doveva essersi ammattito completamente, la pallottola aveva sfiorato il cuore, ma il sangue perduto doveva aver avuto pessime influenze anche sulle facoltà intellettive. Si morse il labbro inferiore pensieroso sulle scritte che il superiore stava incidendo nero su bianco. Gli mancava la sua famiglia, la sua anima si squarciava al pensiero di poterla raggiungere e di esserne tuttavia frenato. Non riusciva a non considerare il fatto che lui non fosse un uomo che si tirava indietro davanti al pericolo, non era mai successo, portava sempre a termine gli incarichi che gli venivano assegnati; non poteva essere altrimenti con il pensiero di un intero ospedale in pericolo.
«Ha già avvisato mia moglie del mio ritorno?»
Il generale estrasse il cellulare del tenente da un cassetto della scrivania e lo porse sotto lo sguardo del proprietario. C’erano decine di notifiche, messaggi, chiamate, Katherine aveva cercato di contattarlo in ogni modo.
«Contavo lo facesse lei. È meglio sentire le notizie dal diretto interessato, sia che siano belle, sia che siano brutte, quando è possibile»
Flores lo stava sfidando, lo stava quasi mettendo alla prova; voleva prendersi la dolce soddisfazione di vederlo crollare, cercava la dimostrazione al fatto che Christian non fosse la scelta più indicata per operazioni militari di una simile portata. Lo aveva sottovalutato; il tenente era ancora in grado di riscoprire l’audacia che lo aveva accompagnato fino alla nascita della figlia, era un talento innato, era ancora sprovveduto quanto bastava per non lasciare Samuel e Gwendoline, due giovani alle prime armi, in balìa dei talebani. Il cuore di Christian batteva più forte del previsto, stava prendendo una decisione che portava con sé l’ombra del fallimento e della morte; stava declinando un’offerta allettante, il generale stava premendo sulle sue debolezze, avrebbe rinunciato a tutto per la sua famiglia, avrebbe dato loro la precedenza su ogni cosa, ma non in quel caso. Tutto ciò lo spaventava, si faceva paura da solo. Con un gesto automatico Christian bloccò la stilografica del generale.
«Aspetti. Non posso lasciare l’Afghanistan ora. Ho un piano, ma ho necessità di sorvolare l'ospedale prima di rischiare la mia vita e quella dei suoi uomini»
Il superiore sembrava soddisfatto; lasciò la penna e si accomodò meglio sui braccioli della sedia in una chiara posizione di ascolto e contrattazione.
«Ora la riconosco, capitano. Abbiamo già perlustrato con l’aeronautica militare i dintorni dell’ospedale, ma se lo ritiene più opportuno avrà un elicottero a sua disposizione in qualunque momento, anche domani»
«Ne ho bisogno ora, è urgente»
«Tenente, ora piove, non sono sicuro sia prudente volare in queste condizioni climatiche. Sono felice abbia deciso di combattere al nostro fianco, ma desidero anche riportarla intero in America»
Christian si alzò con determinazione e puntò le iridi azzurre sul superiore.
«Ora, generale, non abbiamo tempo per la sicurezza»
Flores lo vide uscire dall’ufficio senza attendere o rispettare i suoi ordini. Appena fuori dall’edificio, il dolore per la decisione che aveva appena preso gli fece mancare il respiro; un po’ barcollando tornò al quartier generale e senza troppe cerimonie si rivolse ai due ragazzi, che si trovavano esattamente dove poco prima li aveva lasciati.
«Ho bisogno di un aviatore»
Samuel e Gwendoline lo fissarono pieni di domande; Christian aveva il volto umido e sconvolto, si reggeva al muro con la punta delle dita tentando di camuffare il suo stato psicologico. Il soldato Ward avrebbe voluto ricevere maggiori informazioni, forse anche sorreggerlo, ma decise di obbedire; si alzò e gli andò incontro per uscire.
«Vado a chiamarlo»
Christian si trovava sulla sua traiettoria e non fece alcuna fatica ad ostacolare il suo tragitto.
«No, Gwen, tu»
La ragazza rimane spiazzata, non era certa di aver inteso. Era sceso il silenzio tra i due ed esso venne spezzato solo dalla voce di Samuel.
«Bene, andiamo allora»
«Andiamo?»
«Sì, Chris, ci sono anch'io e vi accompagno»
Il capitano non era dell’umore per tornare sull’argomento.
«Ragazzi, non ho intenzione di essere il vostro babysitter. Muovetevi»
Uscì il più velocemente possibile, sul suo volto vi era un misto di lacrime e pioggia che per fortuna i due giovani non avrebbero potuto distinguere.
«Perché era più gentile quando l'ho conosciuto?»
La considerazione di Samuel racchiudeva in sé il sospetto che qualcosa di grave potesse aver turbato l’animo di Christian nell’ufficio del generale. Gwendoline non aveva idea di cosa fosse successo tra i due ufficiali, ma non sapeva neppure come far volare un elicottero senza suo padre accanto, men che meno sotto un acquazzone.
 
 
  

Ciao ragazzi!
È il preludio di una nuova azione militare che non vi anticipo, ma che è già nitida nella mia mente.
Grazie di cuore, siete meravigliosi per tutto l’importante sostegno che mi regalate <3
Alla prossima!
Un grande abbraccio
-Vale
 

[1] Navy SEALs è un acronimo che sta per Sea, Air e Land (mare, aria e terra).

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Capitolo 14
*** Capitolo 13_Spedizione nel cielo di Kabul ***


Spedizione nel cielo di Kabul




 
 
Aeroporto militare statunitense di Bagram – a 65 km dal confine settentrionale di Kabul, 30 agosto 2018
 
 
La base aerea militare, che si occupava principalmente delle catene di approvvigionamento di viveri e armi, era soffocata nella morsa dell’inerzia per via delle condizioni climatiche; i raid aerei[1] erano stati temporaneamente sospesi, così come le partenze e gli arrivi delle nuove forze in campo. L’aeroporto era avvolto da una fitta nebbia d’acqua piovana e proprio a causa della bassa visibilità le operazioni militari erano in stallo sia tra le fila alleate che tra quelle nemiche. Gwendoline era certa che nel punto d’impatto più diretto della tempesta che stava scatenando la sua ira sopra Kabul fossero le uniche tre anime a muoversi allo scoperto. Il passo pesante del superiore procedeva dinanzi a lei con fierezza; iniziava a credere che la sfrontatezza del generale avesse sferrato un colpo netto al suo orgoglio e che il capitano dovesse mostrare al cielo – perché di fatto non vi erano molti altri testimoni – il suo valore. La ragazza lo conosceva da una manciata di giorni e in un contesto extra ordinario, non aveva gli elementi per stabilire un giudizio definitivo sul cuore dell’uomo; a pelle sentiva però di potersi fidare delle sue buone intenzioni, il che non escludeva il fatto che potessero anche essere azzardate. Gwen avrebbe voluto la facoltà di afferrargli un braccio, costringerlo ad incrociare i suoi occhi e a confidarsi con lei; non lo fece per l’obbedienza che gli doveva, la divisa che il tenente portava era l’unico ostacolo che si frapponeva tra i due, i quasi vent’anni di differenza, con la conseguente discrepanza tra la quantità di esperienza vissuta, non l’avrebbero fermata in egual misura. La ragazza si limitò a qualche sguardo penetrante pieno di dubbi, convinta che la mente dell’uomo fosse altrove.
Christian fu invaso da una strana sensazione di pace, il cielo in fondo non era stato così avverso come credeva, aveva arrestato l’odio – almeno per qualche ora – e lavava il sangue innocente di cui la terra era impregnata; il temporale riportava l’atmosfera alla purezza originaria, dissolveva la polvere e la trasformava in fango, il quale era molto più naturale delle macerie. L’acquazzone aveva dissolto le lacrime sulle guance del Navy SEAL, ma non dal suo petto, all’altezza della ferita d’arma da fuoco un dolce formicolio lo accompagnava e non era dovuto all’operazione chirurgica appena subìta. Si costrinse a non pensare alla sua ultima scelta e alle conseguenze che si sarebbero abbattute nel peggiore dei casi sulla sua famiglia; auspicava che il pensiero della moglie e della figlia guidasse i suoi passi verso il giusto, loro gli avrebbero raccomandato prudenza; sentiva di non sbagliare o forse era una convinzione riconducibile alla foga del momento che si sarebbe presto dispersa come le gocce nelle pozzanghere. Aveva criticato Samuel, ma lui stesso non era stato meno sprovveduto e avventato.
Il generale Flores aveva potuto poco contro l’urgenza del tenente; si era rassegnato, non riusciva a domare un veterano di guerra con anni di esperienza alle spalle, da cui dipendeva a sua volta e altrove un ruolo di comando. Al comandante della base militare, dalla quale prendevano ordini diretti Gwendoline e Christian, non era rimasto che cedere alla volontà del soldato decorato; aveva contattato, con qualche fatica nelle comunicazioni, la torre di controllo che sovrastava l’aeroporto di Bagram e aveva avvertito dell’arrivo di un incosciente accompagnato da due giovani inesperti; certo, impiegò parole diverse rivolgendosi al sergente Bennett – ufficiale responsabile dell’aeroporto –, ma il senso era identico. Il generale aveva chiesto al tenente Richardson maggiore testa sul campo di battaglia e lui per tutta risposta si era trasformato in una macchina da guerra con l’unica prospettiva della missione davanti a sé, senza se e senza ma; il risultato non era stato affatto buono  e mai come prima di allora si era sentito così impotente per le sorti di un suo uomo, il quale aveva deciso con consapevolezza il pericolo contro cui stava andando, trascinando con sé Gwendoline e Samuel, non altrettanto fiduciosi nella decisione, ma molto di più nelle capacità del Navy SEAL.
Il sergente Bennett aveva accolto i tre incauti; anch’egli aveva cercato di metterli in guardia in un ultimo disperato tentativo, il volo che stavano per intraprendere era paragonabile ad un’azione suicida. L’uomo, quasi coetaneo del capitano, era stato messo al corrente da quest’ultimo della missione che a giorni avrebbero dovuto affrontare, decine di vite erano nelle sue mani, per cui non poteva aspettare che le nuvole color catrame scegliessero nuovi territori da oscurare. Christian non aveva proposto all’aviatore di accompagnarli, gli aveva solo domandato di mantenere con loro le comunicazioni via radio nel caso qualcosa avesse minacciato la loro incolumità; i due avevano suggellato un patto tacito di fiducia con una stretta di mano.
Il comandante della base aeronautica aveva concesso al capitano un elicottero da trasporto tattico, piuttosto leggero per l’impresa che avrebbero dovuto compiere; era il Bell UH-1Y Venom, un velivolo sfruttato dai Corpi dei Marines statunitensi per indebolire gli avversari con l’ausilio delle mitragliatrici e dei missili posizionati a bordo; nelle intenzioni di Christian non vi era alcun conflitto a fuoco, voleva essere una perlustrazione pacifica del territorio. Il tenente aveva invitato Gwendoline ad occupare il posto del pilota sulla destra, a lui era riservato il compito di affiancarla in veste di copilota. Samuel li aveva seguiti, non si era tirato indietro, si era accomodato su uno dei posti passeggeri e, memore del suo primo viaggio su un mezzo militare in compagnia di Christian, unì le tre cinghie di sicurezza facendole convergere in unico punto, premurandosi che la presa su di lui fosse ben salda. Il giornalista non si era ancora lasciato catturare dai ripensamenti, anzi l’abitacolo dell’elicottero offrì loro un riparo dall’intenso rovescio; erano fradici, ma almeno all’interno durante il volo avrebbero potuto godere di un piacevole tepore.
Il soldato e il suo superiore ai posti di comando avevano allacciato anch’essi le cinture; la ragazza era pervasa da un impercettibile tremore, mentre compiva quell’azione per lei non così inusuale; Christian era impegnato con il solo ausilio della mano destra ad indossare le cuffie per mantenere i collegamenti con la torre di controllo, ma si era accorto dell’incertezza di Gwendoline, non si era mai premurata di nasconderla. Il giovane militare aveva sotto gli occhi una serie svariata di comandi e i vetri resi opachi dalla pioggia torrenziale. Il tenente interpretò il disagio del sottoposto, lo condividevano, così azionò i tergicristalli per entrambe le postazioni di comando e le rivolse un mezzo sorriso per rincuorarla. Il soldato Ward lesse la spensieratezza di Christian come una burla, non vi erano motivi per riscoprire serenità. L’ufficiale aveva già testato le buone comunicazioni con il sergente Bennett, i collegamenti non erano ottimi a causa delle condizioni metereologiche, ma non era stato un totale incosciente, in caso di avaria avrebbero potuto chiedere un soccorso tempestivo.
«Capitano, lei si rende conto che io non abbia la più pallida idea di dove mettere le mani, vero?»
Il Navy SEAL non le credeva; aveva avuto il piacere di conoscere il padre della ragazza anche nel corso di operazioni delicate, tra cui raid aerei, lo aveva affiancato al posto del copilota, come stava facendo con Gwen, aveva assistito da una postazione privilegiata alle sue manovre di decollo e atterraggio. Gwendoline era la degna erede del sergente Ward; avrebbe solo dovuto dimostrare fiducia nelle sue capacità, la stessa che aveva ostentato durante il loro primo incontro. Sopra le loro teste vi era il pannello di controllo congiunto alla batteria dell’elicottero; Christian spinse un interruttore e il motore iniziò a girare, insieme al rotore principale a cui erano collegate le pale. Il velivolo cominciò a tremare all’esterno e all’interno dell’abitacolo; la giovane, che si era improvvisata pilota, cercò di riportare alla memoria gli insegnamenti del padre e lo fece mentre il superiore era intento a controllare i parametri e ad impostare le coordinate verso il centro della capitale. Gwendoline passò in rassegna i controlli, aveva ancora la sterile speranza che il superiore cambiasse idea, ammettesse di aver preso una sbandata e aspettasse quantomeno un giorno di sole in cui avrebbe potuto pilotare lui stesso l’elicottero. Il tenente non accolse il silenzioso grido d’aiuto del soldato Ward; dopo un controllo generale del funzionamento, attendeva solo che la giovane prendesse il comando del collettivo[2] e iniziasse le operazioni di decollo.
La ragazza, ormai rassegnata, posò i piedi sui due pedali che si trovavano sotto la sua seduta; le suole degli anfibi sfiorarono appena i comandi inferiori, Christian posò il palmo sul braccio di Gwendoline per attirare la sua attenzione.
«A quelli penso io. Ho solo bisogno che manovri il collettivo e il ciclico[3], solo i controlli manuali. Ti indico la direzione»
Solo?, pensò la recluta. Il tono del capitano era calmo e confortante, ma si trattava di un delicato equilibrio tra la leva e la barra, in confronto la gestione della frizione e dell’acceleratore della Chevrolet della ragazza erano nulla. La giovane stava buttando sudore da tutti i pori della pelle, l’acqua piovana di cui era inzuppata non era sufficiente per placare l’accaldata. Christian iniziò a ricordarle le funzioni dei comandi, convinto che un ripasso potesse renderla più sicura e rilassata durante le fasi di volo. A Gwendoline sembrò di sentire parlare suo padre; fu una sensazione dal gusto agrodolce, il senso di mancanza e dolcezza la investì facendole perdere il filo del complesso discorso del capitano. L’ansia da prestazione confuse il soldato Ward e oscurò buona parte delle esercitazioni svolte con il sergente; riscoprendo la tenacia del militare fresco di addestramento, posò la sinistra sul collettivo; il palmo strinse la manetta[4] per il gas, i piedi erano ben saldi al pavimento – come il superiore le aveva concesso –, ma tornò ad indugiare sull’inizio del decollo. L’ufficiale accolse il tentennamento di Gwendoline, posò la destra sulla sua sinistra più minuta, la avvolse, ma non la schiacciò soffocandola; la guidò con dolcezza, la incentivò a non arrendersi all’insicurezza, prese insieme a lei i comandi, ma le comunicò che riponeva in lei la massima fiducia. La giovane recluta percepì una boccata di ossigeno invaderle i polmoni e tutto l’apparato respiratorio venne investito da aria pura; si sentì protetta, come non succedeva da almeno un paio d’anni; le parve di intraprendere un commovente tuffo nel passato, tornò con la mente e con il cuore a quando ad accompagnarla nella sua formazione militare era il contatto del padre.
Christian non poteva permettere alla sua fobia di prendere il sopravvento, aveva scelto Gwendoline al suo fianco per la missione esplorativa, poteva ripagare la dedizione della ragazza solo risparmiandola dai rischi; sperava di acquietare le debolezze dello spirito guidando la giovane nel corso delle manovre di volo, quindi concentrandosi su altro purché non fosse il malessere. Il capitano compì una leggera pressione delle falangi sul retro del collettivo, invitando la recluta a sollevare con prudenza la leva; aumentò il tono di voce per sovrastare i rumori del motore e dell’elica.
«Gwen, regola la manetta, devi aumentare la velocità»
La ragazza obbedì e mosse il pollice sfiorando il palmo dell’ufficiale, il quale, nel frattempo, non aveva spostato la mano continuando a monitorare le azioni del pilota al suo fianco. L’elicottero perse aderenza con la pista di decollo e cominciò ad alzarsi verso la volta celeste, facendo violenza contro la naturale inclinazione della pioggia. Grazie all’unione dei comandi dei due piloti, il velivolo acquisì potenza. Il temporale era ancora battente, le lame delle pale vincevano sulla pressione dell’acqua e sferzavano il fiume che il cielo rovesciava sulla terra in modo perpetuo.
Il soldato Ward afferrò il ciclico con la destra; la barra di fronte a lei era simile ad un joystick e tra i presenti poteva essere gestita solo dalla ragazza. Doveva condurre il mezzo in direzione Nord; spinse perciò in avanti la barra, convinta che Christian si stesse occupando del pedale destro e stesse guidando la leva insieme alla sua mano mancina. Era certa che la situazione fosse sotto controllo, principalmente perché era l’ufficiale a tenere le redini; non aveva considerato la sua naturale maldestrezza, non ricordava che il ciclico fosse così sensibile ai comandi e l’inclinazione settentrionale che Gwendoline aveva azzardato era stata troppo profonda. L’abilità del tenente non fu sufficiente per evitare il sobbalzo, regolare nella fase di decollo, ma era comunque risultato essere un movimento eccessivo a causa dell’impulsività della recluta, la quale aveva saltato qualche step. Gwendoline era mortificata per l’incapacità dimostrata; per certi versi era giustificata, essere la figlia di un abile aviatore non la rendeva, come molti credevano, tale, ma un suo superiore le aveva assegnato una missione, si era affidato a lei e non desiderava deluderlo.
«Capitano, mi dispiace, le avevo confidato i dubbi sulla mia inadeguatezza»
La giovane aveva concesso al tenente di riprendere il controllo del mezzo, lasciando nelle sue mani il ciclico e mantenendo saldo il collettivo. Con fatica Christian si sporse dalla sua posizione e regolò la barra di persona, gestendo al contempo anche il pedale; la cinghia della cintura premeva sulla ferita alla spalla durante lo spostamento, ma cercò di ignorare il fastidio.
«Va tutto bene, sei solo un po’ impacciata. Prova a rilassarti»
Il Navy SEAL era pacato, non la rimproverò, ma nonostante le sue difficoltà per assestare l’elicottero, aveva cercato di rincuorarla.
«Christian, perché non hai guidato tu, se lei è impacciata?»
«Perché se non te ne fossi accorto, ho solo una mano disponibile, Samuel»
Il giornalista si era spaventato, non aveva mai vissuto sulla pelle un simile scossone, la sua voce perciò era leggermente incrinata, nonostante ciò l’ufficiale gli rispose distratto. Christian lasciò i comandi a Gwendoline, ma prima le lanciò un’occhiata per essere certo che se la sentisse; la ragazza gli fece un cenno affermativo facendo scivolare il ciclico dalla mano del tenente. A quel punto l’ufficiale ebbe modo di contattare la torre di controllo.
«Sergente Bennett, mi sente? Riesce a dirmi se proseguiamo nella direzione corretta? Non riesco a vedere molto davanti a noi»
«Affermativo, capitano»
Il Navy SEAL si ritenne soddisfatto per le notizie ricevute. Non riprese il controllo del collettivo; sotto la sua serrata supervisione lasciò che fosse Gwendoline a gestire i due comandi manuali, il tenente si riservò i pedali da azionare sulla base delle manovre del sottoposto. Christian non si era affatto sbagliato, la giovanissima recluta era concentrata e determinata sul suo compito, non ammetteva a se stessa più alcun errore e nemmeno la più piccola distrazione. Il ronzio all’interno dell’abitacolo era costante, ma il soldato Ward non aveva indossato le cuffie per comunicare in modo più agevole con il tenente, udì perciò l’accenno di un sorriso inorgoglito provenire dal lato del copilota.
«Oh, capitano, stia zitto»
L’aveva obbligata e coinvolta in un’impresa per la quale non si sentiva pronta; l’aveva gettata, come fosse una bambina, in un oceano in burrasca per insegnarle a nuotare; non era certa che suo padre si sarebbe comportato così, non aveva avuto in fondo occasione per scoprirlo. Il superiore aveva disteso la tensione, la serenità si dipinse sul volto della ragazza. L’atmosfera perse spensieratezza, quando il tono del comandante della base aerea tornò a riempire l’udito di Christian ricordando loro la precaria situazione in cui si trovavano.
«Capitano Richardson, mi sente?»
«Sergente Bennett, venga avanti»
Il Navy SEAL riscoprì un atteggiamento serio e schiarì la voce.
«Siete a cinquecento piedi[5] dal suolo. Vi sconsiglio di salire ulteriormente»
Christian si sporse verso lo scorcio del pannello dei comandi che si trovava nel suo campo d’azione e verificò l’altimetro[6]; la lancetta segnava una pressione atmosferica sempre più bassa, segno che la quota stava aumentando senza controllo.
«Ricevuto, grazie. Ci assestiamo»
L’uomo sfiorò nuovamente la mano di Gwendoline, la invitò a bloccarsi e a non sfruttare più la forza meccanica della leva; la lasciò solo procedere in linea d’aria, finché non iniziarono a sorvolare il nosocomio. Christian spannò con il palmo i vetri accanto a lui, l’umidità all’interno li aveva raggiunti senza troppe difficoltà; la costruzione, che era il loro obiettivo, sembrava abbandonata, i talebani si erano rifugiati oltre le numerose entrate. Vigliacchi, pensò il tenente spinto da umanità e patriottismo, lui non si sarebbe mai riparato da un temporale, pur forte che fosse. La visibilità era ridotta, dovette aguzzare la vista e oltrepassare il muro di pioggia, il quale ad una certa altitudine sembrava essere più fitto; si concentrò sul tetto, il suo piano era quello di attrezzarsi di un mezzo volante, l’elicottero su cui stavano viaggiando oppure un altro non importava, era però fondamentale sfruttare l’effetto sorpresa. Non riuscì a capire se di norma vi fossero guardie ai piani alti dell’edificio, si erano tutte ritirate e la botola che gli parve di scorgere poteva essere custodita, come anche il contrario, dipendeva tutto dalle condizioni atmosferiche che avrebbero vegliato sulla loro imminente missione. Non era certo sulla riuscita del suo piano, ma non avevano intrapreso un viaggio a vuoto, ora sapeva che il destino avrebbe giocato un ruolo di rilievo, più di quanto avrebbe potuto immaginare.
Uno scossone distolse Christian dai pensieri, lo fece sobbalzare sul posto, accelerando in modo incondizionato i battiti del suo cuore, i quali erano riusciti a stabilizzarsi nonostante la fobia; l’adrenalina aveva iniziato a scorrere nelle sue vene più velocemente dei pensieri. Una luce vermiglia illuminò ogni angolo del pannello di controllo; lo sguardo confuso del tenente venne abbagliato, impiegò qualche istante a capire cosa fosse successo.
«Capitano, ora sono sicura di non aver combinato guai»
A Gwendoline venne quasi spontaneo lasciare sciolte le briglie dei comandi, come se all’improvviso fossero diventati incandescenti, ma si rese presto conto di aver avuto un pensiero irresponsabile, doveva continuare a scottarsi, finché non avesse messo piede sulla rassicurante terra ferma; nonostante i movimenti sussultori del velivolo, mantenne salde la leva e la barra, senza sapere se fosse saggio muoverle e continuare a manovrare l’elicottero.
«Non è colpa tua, siamo stati colpiti da un fulmine»
«Cosa??»
Il giornalista era rimasto in silenzio durante la perlustrazione, la rivelazione dell’ufficiale lo sconvolse; ebbe quasi l’istinto di slacciare le cinghie di sicurezza e accostarsi ai piloti per seguire da vicino le manovre di emergenza, ma rigettò anche quell’impulso. Christian non necessitava di altra pressione, era cosciente della gravità della situazione; spinse un interruttore in mezzo ai sedili dei piloti e l’abitacolo tornò ad essere avvolto dalla calma, non riusciva a riflettere con il rumore ansiogeno che annunciava pericolo. L’asta dell’altimetro segnava valori troppo elevati e sempre maggiori, Il capitano si rivolse all’unica àncora di salvezza raggiungibile.
«Sergente Bennett, stiamo perdendo quota. Ci serve un atterraggio d’emergenza»
«Capitano, vi ha preso di striscio, non rilevo danni ingenti. Tra pochi chilometri troverete uno spiazzo. Prosegua verso Nord, aumenti la velocità più che può, il motore non è stato colpito, temo siano state danneggiate le pale»
Era già tanto non sentire un rimprovero dopo le raccomandazioni a cui l’aviatore aveva affidato Christian prima della partenza. Il tenente allungò la mano sulla manetta del gas spodestando Gwendoline, la quale non oppose alcuna resistenza, si limitò a fissarlo con aria interrogativa e a premere con delicatezza il ciclico per spostare in avanti il mezzo, pronta ad un eventuale contrordine dell’ufficiale; era fuori discussione che rendesse partecipe anche l’equipaggio dei suggerimenti del comandante, non vi era il tempo neppure per immettere ossigeno nei polmoni e per emettere anidride carbonica. Il Navy SEAL si sentì osservato, ma preferì concentrarsi sull’orizzonte che si stagliava davanti a loro; stava prestando una tale attenzione, da dimenticare lo scroscio della pioggia che continuava imperterrita ad ostacolarli. Un paio di chilometri erano infiniti, quando la vita dipendeva solo da duemila metri. Il sergente aveva pianificato un atterraggio perfetto, il piazzale che aveva previsto non era ampio, ma il loro elicottero era lungo meno di venti metri, avrebbero potuto accostare il carrello con comodità al suolo. Per il capitano scorgere il punto d’arrivo fu paragonabile ad un miraggio; sopraggiunti, pilota e copilota avevano già perso buona parte dei controlli, non si rese così necessaria alcuna manovra regolare citata nei manuali d’uso; il velivolo perse quota, prima ancora che Christian riuscisse ad abbassare la leva e Gwendoline smettesse di squilibrare in avanti il peso dell’elicottero. Erano a dieci piedi dal suolo – poco più di tre metri –, quando il mezzo finì di assisterli e con un boato precipitò di peso oscillando, ma non ribaltandosi. Il tenente prese un lungo respiro e si accertò subito che le condizioni dei suoi compagni fossero buone; si voltò verso Samuel, gettò un’occhiata al soldato Ward ed infine, avendo appurato che stessero bene, si tolse la cuffia, si slacciò le cinghie con un colpo secco e aprì con furia lo sportello dell’elicottero. I due giovani rimasero a fissarlo confusi, mentre si allontanava; il giornalista si era avvicinato alla ragazza per provare ad interpretare la reazione dell’ufficiale.
«Richardson, state bene? Mi dia aggiornamenti, non ho più la vostra posizione»
Gwendoline aveva sentito Bennett, era impossibile non notare la sua voce concitata per la preoccupazione; recuperò la cuffia e la accostò in parte al suo orecchio.
«Signore, stiamo bene. Il capitano è … aveva bisogno di prendere un po’ d’aria»
 
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La fobia che Christian aveva tentato con tutte le sue forze di ricacciare al suo posto era esplosa nel suo petto come la lava di un vulcano. Aveva una gran voglia di vomitare, ma quel gesto avrebbe liberato troppi demoni e troppe fragilità, lui non era pronto ad affrontarle a viso aperto; si chinò sulle ginocchia, occupando un angolo di terra sciolto dalla pioggia e lasciò che la stessa portasse via così il malessere psicofisico. Coprì il volto con il palmo, era troppo chiedere alla mente di cancellare gli ultimi minuti dalla mente, era impossibile riavvolgere il nastro del tempo ed impedire a Samuel e a Gwendoline di salire insieme a lui sull’elicottero, con la forza se necessario, specie nel caso del giornalista. Si era impegnato a proteggere due giovani; Barkclay non sarebbe stato orgoglioso di lui, se l’avesse visto solcare il cielo senza le condizioni climatiche favorevoli; era certo che ovunque si trovasse lo avesse insultato per aver messo a repentaglio la vita di sua figlia.
Cosa stava combinando? Cosa gli stava suggerendo il cervello? Era perverso credere di salvare qualcuno e mantenere promesse, a sé e ad altri, se prima si fosse schiantato al suolo sfidando la natura.
Aveva il respiro affannato e l’udito ovattato per via dell’acqua che persisteva a scorrere sulle sue orecchie. Nonostante avesse la percezione di trovarsi in una bolla di sofferenza, lontana anni luce dal pianeta Terra, udì nitido lo scalpiccio di passi che affondavano nel fango. Gwendoline lo aveva raggiunto, anch’ella si era accomodata sulle ginocchia accanto a lui e attese che l’ufficiale la degnasse di uno sguardo. Christian non scoprì il volto e quando si decise a proferire qualche parola, esse erano offuscate dal palmo; sentiva di aver accanto una presenza amica e non ostile, si concesse perciò la libertà di aprirle le porte del cuore.
«Il generale mi voleva congedare e ho negato la sua licenza»
«Credevo volesse tornare dalla sua famiglia»
«Lo credevo anche io. Sono un mostro»
Fece scivolare la mano, mostrando un’espressione segnata dallo sconforto più profondo. La recluta in un contesto differente avrebbe osato uno slancio d’affetto, un abbraccio avrebbe potuto accogliere la sua pena; in guerra e nelle loro posizioni, le risultò sbagliato anche solo sfiorargli il braccio; azzardò quell’ultimo gesto con accortezza, nella speranza che l’avambraccio posato sul suo ginocchio sollevato potesse avvertire un contatto umano, benché la divisa fosse zuppa d’acqua.
«Lei non è un mostro, tenente, è solo umano. Desidera tornare negli Stati Uniti con la coscienza pulita»
Le sorrise sarcastico, non era abbastanza salvare centinaia di sconosciuti, rischiando di distruggere la sua famiglia per sentirsi meglio; era solo rincuorante poter preservare vite umane, era una predisposizione naturale. Non era nemmeno più così convinto del giuramento che aveva compiuto vent’anni prima sulla bandiera americana. Eppure era lì, continuava a superare la prova più difficile, non si tirava indietro neppure quando gli veniva offerta l’occasione sul piatto d’argento, aveva una volontà di ferro, la forza di chi era nato per essere ciò che era. Il giorno in cui era diventato un soldato – era una tra le reclute più giovani –, aveva pronunciato con orgoglio il giuramento verso la propria Patria.
Giuro fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d’America, e alla Repubblica che essa rappresenta: una Nazione al cospetto di Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti.[7]
Nella mente le parole martellavano più della pioggia battente che si ostinava ad infierire sul loro umore. Aveva giurato sì, come aveva giurato fedeltà a sua moglie quando si era unito a lei in matrimonio. Vi era forse un giuramento più importante dell’altro, una scala di valori che lui non conosceva e il suo cuore ignorava? Non voleva tradire alcuna promessa, auspicava di essere un buon soldato e un marito affidabile, ma un desiderio escludeva l'altro. Maledisse il giorno in cui aveva pensato che servire l’America potesse colmare un grande vuoto, una solitudine non cercata; mai avrebbe potuto rinnegare il giorno in cui conobbe Katherine, era stata la sua salvezza, avrebbe solo potuto benedirlo.
«Cosa dico a mia moglie? Io non so mentirle, anzi avrei bisogno di una sua rassicurazione»
Gwendoline non seppe cosa suggerire al superiore, sapeva che il conforto di una recluta non era sufficiente, non era il conforto giusto per lui, non aveva bisogno di lei.
«Samuel mi ha detto che ha la fobia per il volo. Perché non me lo ha detto?»
«Non è facile parlarne per me»
«Quando si sentirà pronto, capitano»
Era stata sincera con lui, gli aveva parlato del suo passato, lei di lui non conosceva quasi nulla, ma decise di offrirgli tempo, non aveva altra scelta. Fece per alzarsi, ma si bloccò quando sentì una presa sulla sua mano. Christian la bloccò sul posto e la fissò come in quel frangente non aveva ancora osato fare per paura di mostrarsi debole. Gwen risalì con lo sguardo, incrociò il gesto grato del tenente ed infine il sorriso flebile che le stava rivolgendo; non sapeva a cosa fosse dovuta la sua fobia, ma aveva capito che il calore umano avesse un effetto benefico sulle fragilità del superiore.


 
 
Ciao ragazzi!
Sono riuscita a terminare il capitolo con un paio di giorni di anticipo ^^. Dopo aver letto il manuale d'uso di un elicottero mi sono sentita pronta per pubblicare questo capitolo … e nel caso anche per volare XD. Tutto ciò per dirvi che è stato molto difficile unire la tecnica alla parte romanzata; se avete il brevetto di volo e trovate qualche castroneria, non esitate a segnalarla, anche in privato, e provvedo con piacere ad aggiustare il tiro, anzi vi sarei grata se mi infondeste un po’ di conoscenza in questo campo 😊
Come di consueto, vi ringrazio immensamente, dimostrate tantissimo affetto per questa storia, nonostante sia intrisa di tristezza fino al midollo <3
Alla prossima
Un grande abbraccio a tutti coloro che sono giunti fin qui
-Vale
 

[1] Il raid aereo o attacco aereo è un’operazione militare offensiva effettuata da aeromobili d’attacco contro specifici obiettivi nemici.
[2] Il collettivo è una leva posizionata sul pavimento della cabina a sinistra del sedile del pilota.
[3] Il ciclico è una barra posizionata davanti al sedile del pilota.
[4] La manetta è l’impugnatura girevole all’estremità superiore del collettivo.
[5] 500 piedi corrispondono a 152 metri circa.
[6] L’altimetro è uno strumento di misura che permette di misurare la distanza verticale di un corpo da una superficie di riferimento.
[7] Pledge of Allegiance, Giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d’America.
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14_Solitudine ***


Solitudine



 

Pacific Beach – San Diego, 1 settembre 2018
 
 
L’oceano si stagliava all’orizzonte, davanti a Katherine vi era solo un’infinita distesa d’acqua salata. Era sulla torretta di avvistamento in una giornata piuttosto tranquilla in spiaggia, esattamente l’antitesi dei suoi pensieri. Era grata ai bagnanti giornalieri e alla prudenza che stavano mostrando in quella tarda mattina particolarmente difficile da digerire; sentiva di non possedere i riflessi pronti per un salvataggio d’emergenza.
Anche il clima temperato della California risentiva delle prime ore di settembre; presto sarebbe giunto l’autunno, le stagioni si sarebbero susseguite – troppo lentamente senza Christian – e un pezzo del suo cuore sarebbe rimasto altrove. Katherine riponeva ogni speranza nella primavera; era il tempo della rinascita, il periodo in cui era programmato il ritorno di suo marito, il momento migliore in cui avrebbe potuto riabbracciare l’uomo che amava. Non riusciva a comprendere se i brividi che avvertiva all’altezza delle spalle fossero dovuti al venticello che si era sollevato oppure all’umore discutibile che stava pervadendo il suo cuore. Aveva freddo, perché nessuno più l’abbracciava da diversi giorni, nessuno scaldava le notti divenute umide, nel suo petto era già sopraggiunto l’inverno. Katherine non ricordava più come si affrontasse la vita da sola, ogni suo passo veniva marcato da Christian; era stata privata di un sostegno fisico e morale, una parte del suo cuore era stata estratta con violenza dal petto e nessuno aveva la certezza che sarebbe tornata al suo posto; una tortura nel corpo le avrebbe provocato meno sofferenza. Aveva trascorso più di dieci anni accanto ad un uomo di cui era perdutamente innamorata; il destino era stato dalla sua parte, benché abbandonare la propria città natale fosse stato un grande azzardo.
Il sole era alto in cielo; non stavano ammirando la medesima volta celeste, Christian, se tutto andava bene, stava riposando. Non sapeva come trascorressero le giornate di suo marito oltre oceano; lei si occupava di lui, se ne prendeva cura, in parte riusciva a compensare la mancanza di una madre nella vita di Christian. Al telefono non si era sbilanciato, ma non era difficile intuire quanto le condizioni in Medio Oriente fossero impegnative da tollerare; Katherine non temeva solo che le restituissero il corpo di suo marito trivellato da colpi di arma da fuoco, avrebbe anche potuto contrarre una qualsiasi infezione mortale.
Venne spontaneo a Katherine accogliere fra le mani il lembo di una stoffa sottile che scivolava sulle spalle; forti mani maschili la sfioravano appena, fu una sensazione piacevole, la aiutò a ricomporre in parte i pezzi della sua anima. La consapevolezza di aver riconosciuto al tatto l’uomo la rattristò; ancora una volta non era il calore del corpo di Christian ad inondarla.
«William, cosa fai qui?»
L’amico si accertò che il golfino non si spostasse dal punto in cui l’aveva posato; aveva recuperato l’indumento da uno sdraio aperto lì accanto, aveva colto il freddo percorrere lungo la pelle della donna scoperta dal costume. Si sedette accanto a Katherine sul bordo della torretta e lasciò anch’egli penzolare le gambe nel vuoto.
«Passavo da queste parti»
«Non è vero»
La bagnina incrociò gli occhi dell’uomo; l’espressione dell’amico era trasparente, aveva appositamente deviato verso la spiaggia, anche se non lo avrebbe mai ammesso, certo non a parole. Vi era una tacita promessa tra Christian e William; il loro legame con il tempo si era esteso alla famiglia che il Navy SEAL aveva creato. Christian non era solo, William non mancava mai di ricordarlo all’amico ed ora la stessa rassicurazione doveva essere rivolta a Katherine. L’uomo non aveva idea di cosa significasse salutare un compagno di vita con l’incertezza di non vederlo più tornare; per lui Christian era un fratello acquisito, sentiva anch’egli un grande vuoto nel petto, ma era certo fosse nulla in confronto al patimento che provavano la moglie e la figlia di un soldato sul campo. William aveva perciò assicurato all’amico e a se stesso che non avrebbe abbandonato Katherine e Alisia, avrebbe evitato con impegno e costanza che perdessero la speranza; ricordarlo a loro avrebbe aiutato lui stesso a non cedere allo sconforto. Se Christian era sopravvissuto alla solitudine più profonda, aveva superato la morte delle persone più care della sua vita, nulla era davvero perduto.
«Non ha chiamato per sentire Alisia?»
Katherine negò appena; confidava che il pessimo umore che stava ostentando fosse molto più eloquente delle parole. Lei per prima si rifiutava di credere che quel 1 settembre il padre di sua figlia non fosse presente e che fosse proprio una guerra così lontana da loro ad impedirgli di esserci. La fede della donna scivolava nervosamente lungo tutte le falangi della mano mancina; non le restava altro di lui, solo un pegno d’amore datato di quasi dieci anni, un simbolo, una dolce catena che rappresentava solo la punta dell’iceberg dei sentimenti che si professavano, era stato il semplice coronamento di un amore incommensurabile. Cercava la forza nel loro amore, un sentimento raro che i mesi e i chilometri non avrebbero potuto dissolvere; niente avrebbe potuto farlo. L’influsso dell’oceano non era mai stato così debole, la pace si teneva a debita distanza; gli abissi oceanici avevano fatto da sfondo al loro primo incontro; avrebbe dovuto lasciarsi cullare dai tempi felici trascorsi in compagnia di Christian, ma non le bastavano i ricordi con cui avevano marchiato a fuoco la sabbia e le acque della California, aveva solo bisogno di altri momenti da vivere insieme alla sua famiglia. William la sfiorò di nuovo, cessò il movimento compulsivo che stava sfogando sulla sua preziosa vera; le accarezzò la mano, la intrecciò alla sua, non era un caso che proprio quella mattina lui l’avesse raggiunta, intuendo la solitudine che l’avrebbe catturata in quelle ore.
«Alis ha sentito la sua mancanza stamattina. Abbiamo scelto insieme in quale istituto iscriverla e lui non c’era. Si è perso il primo giorno di scuola di sua figlia»
«Lui contava di esserci, Kathe. Non avrebbe mai immaginato che la guerra lo obbligasse lontano da voi»
La donna recuperò un respiro soppresso dal magone che dal risveglio si era incastrato nella sua gola; venne invasa da un singulto, ma si costrinse a non sfogarlo.
«Hai idea del motivo per il quale lo abbiano richiamato al fronte?»
«Immagino per un supporto umanitario. Christian è molto bravo ad aiutare coloro che si trovano in difficoltà. Sai, ricordo quando mi disse di voler intraprendere la carriera militare. Inizialmente lo accusai di follia. Mi sono reso conto solo con il passare degli anni quanto fosse bravo a portare pace laddove la violenza sembrava l’unica soluzione. Katherine, devi essere orgogliosa dell’uomo che hai sposato. Mi sono sempre chiesto se prima o poi non avesse cambiato il mondo. Ha trasformato il dolore in dedizione, lui non serve la Patria, lui serve i cittadini, ma non si dimentica di sua moglie e di sua figlia, voi avete un posto privilegiato nel suo cuore. Non so se vorrebbe ti riferissi le ultime parole che mi ha detto prima di partire, potrebbero però aiutarti a credere che lui tornerà quanto prima»
«Cosa ti ha detto?»
«Vuole proporti un fratellino per Alisia. Non gli sembrava il caso di parlartene prima di partire per l'Afghanistan. Non voleva azzardare promesse, ma io sono certo che nel suo cuore si stia facendo guidare dal desiderio di diventare padre di nuovo»
Katherine strinse più forte la mano dell’amico, gli era grata per aver condiviso con lei una flebile speranza.
 
 
 
Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 2 settembre 2018 (ora locale)
 
 
«Capitano!»
Christian non fece alcuna fatica a ridestarsi dallo stato di dormiveglia in cui era entrato. Si era accorto tardi di aver ceduto – con grande fatica – alle braccia di Morfeo indossando la camicia e di averla stropicciata coricandosi sul letto. Era notte fonda ed era sempre più complicato riuscire a conciliare il sonno; il fatto che il soldato Ward lo avesse chiamato allarmata, prima ancora di spalancare con irruenza la porta in ferro grezzo, accostata e priva di qualunque serratura, diede una scossa al muscolo cardiaco già in tensione e abituato alla sofferenza personale e bellica. Anche Gwendoline si era ritirata per trascorrere la notte e recuperare le forze; i lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle, l’abbigliamento era informale, una semplice maglietta e un paio di calzoncini evitavano alla ragazza di subire il caldo umido delle ore notturne.
«Gwen, cos’è successo?»
«Capitano, ci sono cattive notizie. I talebani hanno iniziato ad uccidere gli ostaggi»
La ragazza lo aveva informato, comunicando la drammatica e repentina svolta della situazione, con l’unico alito di fiato ancora integro, quello che le era rimasto nelle vene; non era riuscita a scendere nei dettagli, li stava ancora rielaborando razionalmente, il cuore non smetteva di battere. La sentinella sulla torre di controllo aveva dato l’allarme al generale, la quale a sua volta era stata informata da un convoglio italiano di ritorno da una ronda notturna; era solo questione di tempo prima che l’ufficiale comandante della base convocasse il tenente Richardson per metterlo al corrente dei cambiamenti delle ultime ore. Era corsa trafelata da lui, forse per un supporto emotivo, ignorando l’ora tarda; stava male, sapeva di poter cedere davanti a lui, il tenente non avrebbe rimproverato e demonizzato il suo sconforto. Christian aveva avuto l’impulso di alzarsi, quando vide il soldato posare i palmi su un piccolo tavolino, posto nel mezzo della stanza e che rendeva ambigua la funzione del luogo in cui si trovavano; necessitava di un appoggio fisico, conseguenza della devastazione che stava divorando il suo spirito. Era stanca della guerra, della sofferenza, era stufa del suo destino che non sembrava mai favorevole.
«Gwen»
Christian le sfiorò la schiena, il contatto umano le offrì la certezza di non essere ancora morta di crepacuore; era ancora viva, ma era anche ad un passo dal baratro. Il Navy SEAL ricordava di non aver mai assistito ad un profondo crollo emotivo da parte della ragazza; stava manifestando a lui le sue fragilità.
«Gwen, hai bisogno di una pausa. In questo stato non mi sei di aiuto»
«Non toccano le donne e i bambini. Stanno uccidendo i soldati … i nostri compagni e i nostri alleati. Ci stanno dando un ultimatum, rivendicano vere e proprie esecuzioni. Capitano … per favore, lo aiuti»
La giovane recluta era scoppiata in un pianto sconsolato; conveniente o meno, la tempra fisica ed emotiva impartita in accademia era collassata, fu inutile coprire il viso in cerca di consolazione, era solo uno sterile tentativo per raccogliere le lacrime prima che potessero scorrere. Christian le afferrò dolcemente il braccio e la invitò a seguirlo. La fece accomodare sul materasso, lei si fece guidare, necessitava di un rifugio sicuro e di comprensione. Il tenente piegò le gambe davanti a lei e raccolse una mano della giovane nella sua con atteggiamento paterno; avrebbe osato il medesimo gesto, se avesse assistito alla sofferenza di sua figlia.
«Gwen, ascoltami, conosci qualcuno in quell’ospedale?»
La ragazza affermò; più i minuti trascorrevano, più lei si rendeva conto di ciò che stava succedendo ed era terribile che i suoi peggiori incubi si stessero materializzando.
«A-Alexander»
«È il tuo ragazzo? State insieme?»
Le palpebre della recluta si abbassarono lentamente; negò davanti al superiore, non vi era alcuna relazione tra lei e quel soldato, ma era parte del suo cuore da quando aveva intrapreso a New York il servizio militare; avevano attraversato insieme l’Oceano e insieme erano atterrati sul suolo afghano per affrontare la loro prima esperienza bellica. Non poteva perdere anche lui. Christian riconosceva nello sguardo che aveva davanti agli occhi l’innocenza di una giovane donna spaesata, preda di eventi che lasciavano poco spazio a sentimenti nobili come l’amore.
«Gwen, cosa significa per te quest’uomo? Lo ami?»
Il pianto del soldato accentuò, ma Christian non fu disposto ad accogliere la notizia con comprensione; ebbe l’impulso di alzarsi e sciogliere il contatto tra le loro mani. Il tono del tenente acquisì potenza, in poco meno di un minuto aveva riacquisito l’autorità propria del suo ruolo; era deluso, arrabbiato e poco propenso alla condiscendenza.
«Dannazione, Gwen, perché non me lo hai detto?? Per quale ragione vengo a sapere solo ora che i talebani stanno puntando un kalashnikov contro la tempia di una persona a te cara?»
«Il generale Flores non vuole che mischiamo gli affari personali con il lavoro»
«Al diavolo il generale Flores! Io non sono il generale e tu in questa missione prendi ordini da me. Ho bisogno che tu sia sincera per fermare quei bastardi. Se un mio soldato è coinvolto emotivamente, io esigo di saperlo»
Il tenente aveva abbassato i toni, ma non l’intensità con la quale inveiva contro il sottoposto. Era stanco del modo in cui Flores gestiva la base; non risolveva nulla a trattare i soldati come fossero statue senza cuore; provavano amore e dolore, esattamente come ogni essere umano, negarlo avrebbe ostacolato la missione, il soldato Ward ne era la prova tangibile. La ragazza non avrebbe mai potuto affrontare il nemico a sangue freddo, il timore per le sorti dell’uomo che amava l’avrebbe attanagliata.
«Era ricoverato?»
«No, Alex aveva tentato di liberare l'ospedale mesi fa, fallendo. Non abbiamo mai trovato il suo corpo, fino ad oggi avevo speranza che fosse in ostaggio. Capitano, non voglio perdere anche lui. Non ho un'anima che mi aspetti in America. Gli avevo suggerito di non andare, di attendere tempi migliori. Il generale Flores stava già pensando di far giungere dagli Stati Uniti un militare esperto come lei. Era solo questione di tempo prima del suo arrivo, perché non mi ha ascoltata?»
Christian rivedeva il suo passato nel presente della recluta; comprese l’angoscia della solitudine, aveva attanagliato svariate volte anche il suo cuore. Si sedette accanto alla ragazza, affondando pesantemente il materasso; prese un respiro, sperando di sentirsi meno in balìa degli eventi, ma fu tutto inutile. Era il soldato al suo fianco ad aver bisogno di sollievo; era quello il compito di un buon ufficiale, chissà se anche Flores prima o poi l’avrebbe capito, possibilmente prima della fine del conflitto.
«Gwen, non sei sola, non più. Io non posso assicurarti che lui sia vivo, ma se dovesse esserlo posso garantirti che lo salvo. D’accordo?»
Stava offrendo al Navy SEAL un motivo in più per portare a termine la missione con successo; era riuscito persino ad accennarle un piccolo sorriso, dopo aver sussurrato a pochi centimetri da lei una significativa promessa.
«Capitano?»
«Dimmi»
«L’ho giudicata male, sua moglie è fortunata, ma prima ancora della sua signora, lo sono i suoi uomini nel Coronado. Qualunque soldato si sentirebbe onorato a ricevere ordini da lei»
Christian non aveva smesso di tollerare poco le lusinghe, le accettò con diplomazia e spostò con astuzia l’attenzione altrove.
«Devi riposare, Gwen»
«Sono preoccupata per Alexander, non riesco a dormire»
«Nell’immediato non possiamo fare nulla per lui. Se agiamo stanotte, perdiamo. Ci serve riposo e qualche ora in più per affinare il piano. Ricorda, soldato, non devi essere impulsiva»
Era troppo giovane per subire gli orrori della guerra, non era pronta a perdere in modo cruento e crudele un giovane amore appena sbocciato, chiunque non lo sarebbe stato; in nome del sergente Ward si sentì in dovere di proteggerla nel corpo e nell’anima, non era più ammesso alcun errore da parte sua, non le avrebbe più lasciato correre alcun pericolo, sia che provenisse dal sottoscritto sia da altri.
«Gwen, prova a coricarti. Resto qui con te, finché non ti addormenti»
«Ma, capitano, questo è il suo letto, lei deve dormire, è più importante che sia lei ad essere vigile»
Le fece segno di sdraiarsi battendo con il palmo sopra il materasso; Christian non aveva alcuna esclusiva su quel letto, erano al fronte, la proprietà era effimera, erano spogliati di tutto, beni materiali e spirituali. La ragazza indugiò qualche istante, ma alla fine obbedì; si coricò, rannicchiando le ginocchia contro il petto, le sembrava di disturbare meno occupando poco spazio. Il tenente la coprì con la giacca della sua divisa, le notti erano diventate umide, le imposte non reggevano gli spifferi d’aria e le lenzuola erano già troppo leggere per affrontare le ore di sonno e i brividi di pianto.
«Dormi. Stanotte non hai il turno di vigilanza, hai tutto il diritto di riposare»
L’uomo le scostò i capelli che minacciavano di scenderle sulle palpebre chiuse con una carezza. I muscoli della ragazza erano rigidi; Christian attese che si rilassasse, vegliò sul suo sonno per qualche minuto e uscì dalla stanza solo dopo aver udito il respiro pesante e caldo della ragazza. Richiuse la porta alle sue spalle, la stanza era sovrastata da vetrate sul soffitto, non l’avrebbe lasciata avvolta nel buio, la Luna – completamente scoperta dalle nubi – avrebbe vegliato su di lei al suo posto; la luce d’avorio avrebbe svolto un lavoro migliore di quanto non fosse in grado di fare lui, il satellite l’avrebbe cullata e indirizzata verso sogni lieti.
Christian, a differenza di Gwendoline, necessitava che l’aria fresca della notte penetrasse nelle sue ossa e nel suo cervello; non era un’impresa facile farsi carico dei propri e degli altrui pensieri. La recluta gli aveva addossato nuove responsabilità, le aveva assunte di sua spontanea volontà, era scontato che lo avrebbe fatto, non avrebbe potuto consentire che quel giovane morisse, se vi era ancora il tempo utile per evitarlo. Quando il tenente raggiunse la zona limitrofa alla costruzione nella quale alloggiava, si accorse di non essere stato il solo ad avere avuto quell’idea. Il giornalista di Los Angeles si era accomodato alla base di una cassa cubica di legno vuota; era avvolto dal fumo della sua stessa sigaretta e contemplava un orizzonte desolante. Il Navy SEAL si avvicinò; non era certo che la compagnia avrebbe giovato al suo umore, avrebbe innanzitutto dovuto dare una spiegazione alla sua presenza, ma si ricordò che in fondo era Samuel e vi erano buone probabilità che non gli avrebbe domandato alcun motivo senza prima fornirne uno per sé.
«Anche per te è una notte insonne?»
Il ragazzo alzò gli occhi sul soldato; la sua espressione era confusa, era palese lo avesse riportato indietro da qualche pensiero o ricordo. Tra l’indice e il medio della mano destra stringeva il mozzicone acceso, mentre nella sinistra teneva il pacchetto che allungò all’amico, convinto che gli avrebbe fatto volentieri compagnia.
«No, grazie, non fumo»
«Saggia decisione, capitano»
Christian si accomodò accostando la schiena al lato del cubo più vicino a Samuel. In quella posizione non avrebbero potuto scrutare i loro visi avvolti nell’oscurità, avevano entrambi prospettive differenti davanti agli occhi. Il Navy SEAL alzò gli occhi verso il cielo stellato; ricordava che da bambino la nonna materna gli suggeriva di cercare tra gli astri i propri cari defunti; il nonno era sempre la stella più grande e restava quella, finché la sera e poi la notte avanzavano – in inverno sempre più velocemente – e nuove stelle di dimensioni maggiori della precedente risaltavano all’occhio nudo dei mortali. Quella sera vi erano una, due, tre … decine di stelle brillanti e grandi, non riusciva a capire a quale di esse rivolgersi per chiedere un’intercessione da parte dei suoi genitori; lo avrebbe chiesto per sua figlia, la piccola aveva la priorità su tutto, gli rincresceva ammetterlo, ma l’aveva persino su Katherine; era sempre più incredulo circa la decisione di restare, più passavano le ore e più si rendeva tristemente conto di aver preso la scelta migliore. La voce che uscì dalle sue corde vocali fu roca, rotta dal pensiero sofferto che aveva appena sfiorato la sua mente.
«Sai, ho trascorso l’ultimo momento felice con la mia famiglia guardando il cielo in occasione della Notte di San Lorenzo. Mi sembra passata un'eternità. Mi manca la mia bambina, mi manca tornare a casa la sera e poterla riabbracciare. Ora è tutto così incerto, non so se avrò l'occasione di risentirle e ancor meno di rivederle»
Samuel non rimase affatto sorpreso dalle parole di Christian, era certo fosse un buon genitore, aveva avuto diversi modi per capirlo. Il tenente era circa l’opposto di suo padre, non si vedevano né sentivano da due settimane; sembrava che padre e figlio non sentissero la necessità di mantenere un canale di comunicazione. Il reporter non poteva sapere cosa passasse realmente nella mente e nel cuore del direttore, ma era certo che l’indifferenza che stava nascendo nel suo cuore per quell’uomo iniziava a spaventarlo; desiderava ancora compiacere ogni compito affidatogli dal suo capo, ma in tutto ciò si sentiva solo, dalla California non arrivava mai una parola di approvazione - ad eccezione di una rara volta -, un mi manchi, un interessamento per un figlio al fronte che stava rischiando la pelle per pubblicare un articolo – non sarebbe stato pubblicato forse nemmeno tutto per motivi di spazio, eppure Samuel aveva già così tante cose da riferire agli americani – su un dannatissimo giornale. Era stanco di essere considerato il giornalista e non il figlio, era stufo di dover guadagnare le sue attenzioni, per poi rimanere puntualmente deluso, nonostante svolgesse al meglio il suo dovere.
«Capitano, l'avrai, il cielo non può privare quella bambina di un padre come te»
«Il cielo ha privato me di un padre e di una madre, non mi sorprenderebbe se ciò accadesse anche ad Alisia. È solo che è ancora così piccola e non voglio lasciare mia moglie»
«Sei orfano? Non me ne hai mai parlato»
Samuel gli aveva posto la domanda distratto, appena prima di inspirare il fumo della sua sigaretta; espirando si accorse di essere stato inopportuno, stava per rimediare quando il Navy SEAL iniziò a parlare con tono sommesso.
«Non è il mio argomento preferito, Samuel. Ho perso i genitori a diciassette anni. Stavano tornando in volo dall’Australia. Li ho sentiti appena prima di imbarcarsi in aereo e …»
Dare voce ai ricordi lo indeboliva nel corpo e nell’anima. Non raccontava i momenti più dolorosi del suo passato da molti anni, l’ultima ad ascoltare il drammatico racconto era stata Katherine; lei non aveva più osato domandare, con gli altri deviava il discorso, non seppe spiegarsi per quale ragione avesse deciso di amplificare proprio quella sera un dolore assopito, ma mai spento, come una cicatrice che negli inverni più rigidi tornava a pulsare. Gwendoline aveva ragione, era corretto che i suoi compagni in quel conflitto fossero pienamente consapevoli delle sue fragilità, era una questione di fiducia.
«Chris, non è necessario che me lo racconti, non voglio che tu stia male»
«È stata l’ultima volta che li ho sentiti. Mia madre mi ha detto che non vedeva l’ora di riabbracciarmi. Ho sentito la voce flebile di mio padre mentre le raccomandava di salutarmi anche da parte sua. Samuel, ho paura che questi ultimi ricordi che ho di loro svaniranno prima o poi, temo di dimenticare le loro voci»
Anche Samuel si commosse davanti alla sofferenza del soldato; non lo interruppe più, quando comprese che si stava esprimendo davanti a lui attraverso uno sfogo, di cui, considerate le circostanze in cui si trovavano, sentiva la necessità.
«Quando ho appreso la notizia al telegiornale, ho pregato non fosse il loro volo. Non sapevo chi chiamare per tranquillizzarmi. Non avevo altri parenti, avevo solo loro. È stato il Dipartimento di Polizia di San Diego ad avvisarmi e da quel momento il mio mondo è crollato, non ho più visto la luce, anche la più flebile, per diverso tempo, ero entrato in un tunnel infinito, in un vortice di impotenza. La mia fobia per il volo è nata da questa esperienza. Non voglio che la mia bambina provi lo stesso dolore, so che Katherine non la abbandonerebbe, ma ne soffrirebbe tanto comunque. In questi giorni ha iniziato la scuola, la prima elementare, credo sia lì proprio in questi minuti ed io non le sono potuto restare accanto, fremere e gioire insieme a lei. Anzi, Samuel, io ho scelto di non esserci»
Anche per Margaret era una giornata importante, iniziava il suo nuovo lavoro e Samuel non c’era; comprendeva l’amico più di quanto immaginasse, lui per primo aveva preso la decisione di non essere presente, nonostante lei avesse espresso il desiderio di averlo al suo fianco.
«Christian, tua figlia capirà un giorno»
«Ha sei anni e non sa che sono in guerra. Ha sei anni, Samuel. Mia figlia ha solo sei anni»
Il tenente si coprì il volto con il palmo della mano, non aveva alcun appiglio che lo rincuorasse; era sufficiente un alito di vento e la sua famiglia si sarebbe distrutta.
«Aspetta, Chris, mi hai detto che ha iniziato la scuola? Forse è un’assurdità, ma la mia fidanzata è una maestra di scuola primaria. In quale scuola è iscritta tua figlia?»
«A poco meno di sessanta miglia da San Diego, a San Clemente c’è la scuola primaria Concordia. Io e Katherine abbiamo pensato potesse sentirsi a suo agio in un clima più raccolto, fuori dalla città»
«Non ricordo il nome della scuola in cui lavora Margaret, ma vale la pena fare un tentativo»
Samuel spense il mozzicone e lo gettò a pochi metri da lui, desiderava concentrarsi sul suo telefono e sul numero che stava componendo. La linea era un po’ traballante, gli squilli erano infiniti e poco nitidi; quando finalmente sentì il respiro della fidanzata si mostrò soddisfatto, era essenziale che lei rispondesse.
«Margaret»
«Sam, scusami, mi hai presa in un brutto momento, sono in classe»
«Tesoro, lo so. Spero vada tutto bene. Te la stai cavando?»
«Ci sto provando, ma c’è una baraonda di piccole pesti davanti a me»
La sentì sussurrare divertita e per nulla infastidita per il caos da gestire. Samuel era certo che l’insegnamento fosse la sua vocazione; poche ore prima le aveva spedito un messaggio in cui le augurava buona fortuna, ma era sicuro che lei non ne avesse necessità.
«Maggy, avrei bisogno di un favore. So che è come cercare un ago in un pagliaio, ma so anche che tu lavori in una scuola parecchio fuori da Los Angeles. Potrebbe essere ad una sessantina di miglia da San Diego e chiamarsi Concordia?»
«Non ho fatto i calcoli, ma credo che potrebbe. Sì, si chiama così. Samuel, cosa devi chiedermi?»
«Nella tua classe c’è una bambina di nome Alisia Richardson?»
La ragazza non riuscì a capire il motivo di quella domanda, ma l’aveva incuriosita a tal punto da sentire la necessità di recuperare il registro degli alunni della classe e di far scorrere con l’indice i nomi. Aveva fatto l’appello poche ore prima, ma essendo il suo primo giorno non li ricordava ancora a memoria.
«Sì, ma come diavolo fai a sapere che ho un’alunna di nome Alisia Richardson?»
«Il padre della bambina è accanto a me e gli piacerebbe tanto poterla sentire. Credi che potrebbe essere possibile?»
«So che il padre di Alisia è un soldato. Sua madre mi ha detto che la figlia è particolarmente triste dopo che suo marito è partito per l’Afghanistan. Le ho detto che la comprendevo perché anche tu sei lì, ma non mi sarei mai immaginata che poteste incrociare le vostre strade. Faccio uscire la piccola dall’aula e le passo il mio telefono. Concedimi qualche minuto»
«Grazie, amore»
Sapeva di poter contare sulla fidanzata; era stata una piacevole combinazione di astri, a cui Christian meno di Samuel credeva. Il giornalista allungò il telefono al soldato, il quale mosse lo sguardo dal compagno all’oggetto confuso.
«Samuel, non la sento da quasi quindici giorni»
«Ora puoi sentirla»
Il reporter non smetteva di sorridergli, era felice di aver contribuito ad alleviare le sofferenze di un padre premuroso e di una figlia devota; almeno loro non avrebbero sofferto troppo la lontananza l’uno dall’altra. Christian afferrò il cellulare; il tremore frutto del racconto sofferto della sua adolescenza si sommò a quello della gioia e dell’agitazione, quando udì la voce sottile di Alisia.
«Papà»
La sentiva davvero, non la stava sognando come era capitato durante le notti più agitate da quando si trovava al fronte.
«Papà, ci sei?»
«Sì, amore, ci sono»
«Ciao, papà. Mi manchi»
«Anche tu. Non sai quanto, piccola»
«Torna presto. Io e la mamma siamo tristi senza di te»
«Lo so. Anch’io lo sono senza di voi»
La commozione minacciava di mozzargli la voce, non era il momento opportuno, voleva parlare con la sua bambina.
«Papà, hanno chiamato i nonni. Io e la mamma andiamo a New York»
«Scusa, quando andate a New York?»
«Boh. Mamma non sa quando, ma dice che dobbiamo andare, le vogliono parlare. Io non ricordo i nonni, papà. Loro mi riconosceranno?»
La notizia aveva smorzato il trasporto di Christian verso la figlia; Alisia gli aveva dato una pessima notizia e una nuova preoccupazione. Non poteva essere vero che sua moglie avesse in programma un viaggio a New York dai suoi genitori insieme alla figlia.
«Sì. Sono venuti a trovarti in ospedale quando sei nata, ti hanno vista ed anche in altre occasioni, ma eri troppo piccola per ricordarlo. Avranno sicuramente un regalo per te, Alis, è per questo che vi hanno chiesto di raggiungerli»
«Papà?»
«Dimmi, tesoro»
«Devo tornare al mio posto ora. La maestra Margaret mi sta aspettando»
«Certo. Ti mando un bacio grande, Alis. Danne uno anche alla mamma da parte mia»
«Anche io, papà. Torna presto»
Riattaccò interdetto, ma non fece in tempo ad esplicitare i suoi dubbi, una donna afghana con il fiato corto comparve davanti a loro oltre il filo spinato. Era una conoscenza di Samuel; il ragazzo non indugiò ad avvicinarsi a lei, era sconvolta.
«Maryam»
«S-Samuel, aiutami, ti prego. Karim ha bisogno di te»


 
Ciao ragazzi!
Credo di aver messo tantissima carne al fuoco con questo capitolo e anche di essermi lasciata prendere un po’ dalla narrazione, il capitolo è un po’ lunghino ^^”.
Per addolcire un po’ il tutto, vi lascio il link della Os con il missing moment sul primo incontro tra Chris e Kathe accennato nel primo capitolo: 
Apnea.
Ringrazio di cuore tutti voi per l’affetto che mi mostrate e un ringraziamento speciale va a Inzaghina per avermi dato importanti spunti sui territori californiani <3
Nel prossimo capitolo scioglierò la suspance ;).
Un grande abbraccio
-Vale

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15_Il prezzo di una vita ***


Il prezzo di una vita





 
Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 1 settembre 2018

 
Le mani della dottoressa Clark erano umide e reduci dall’ultima operazione; aveva appena terminato un intervento di tre ore a cuore aperto, era stanca, ma i muscoli e i nervi erano ancora carichi di adrenalina. La tensione era stata palpabile in sala operatoria, il paziente che le era stato affidato era in condizioni critiche; alle sei del mattino era prossima a smontare e invece un codice rosso in pronto soccorso aveva protratto il suo turno notturno. Aveva prestato immediato intervento ad un uomo di mezza età affetto da malattia coronarica cronica, soffriva di un principio di infarto cardiaco; gli aveva salvato la vita, eppure non riusciva ad esserne entusiasta.
Delilah aveva acquisito il diploma di laurea presso la Harvard Medical School, specializzandosi in cardiochirurgia con il massimo dei voti; aveva scelto un percorso di formazione impegnativo, aveva deciso di dedicare la sua vita al prossimo, aveva preso con coscienza una strada diametralmente opposta a quella del padre. Quando vestiva i panni della dottoressa Clark riusciva a dimenticare l’origine del suo cognome, con grande beneficio del suo cuore.
Avrebbe dovuto riposare dopo un intervento delicato e complesso; il suo turno giornaliero aveva sforato le dieci ore, la sua mente era vigile per eventuali emergenze da troppo tempo. Non era il momento di rincasare, non sarebbe riuscita a posare il capo sul cuscino. Erano inutili i continui squilli silenziosi da parte di sua madre; non l’aveva avvertita, il ritardo della figlia era oscuro alla signora Clark, eppure avrebbe dovuto ricordare quanto non fossero inusuali le urgenze in ospedale. Delilah accostò lo schermo del cellulare alla scrivania in legno di noce del suo ambulatorio, nel quale si era rifugiata. Indossava ancora il camice bianco personale, lo stetoscopio solcava il suo collo; fece passare lo strumento accanto al colletto della divisa e lo posò sul ripiano con pacatezza. Era pervasa da una falsa tranquillità. Recuperò dal taschino alto un paio di sottili occhiali da lettura; soffriva di una leggera presbiopia e non era il momento di fraintendere ciò che si apprestava ad esaminare. Doveva trovare il coraggio di aprire la cartelletta medica candida che si trovava davanti a lei e sfogliarne il contenuto.
La donna era rimasta qualche minuto a contemplare il nome riportato sulle analisi: Daniel Clark.
Non era arida quanto lui, Delilah scongiurò che gli esami effettuati fossero funesti. Era riuscita a procurarsi i risultati in anteprima grazie ad un collega di reparto che si occupava di effettuare l’ecocardiografia e tutti gli esami invasivi – e non – del caso; attendevano di essere letti dalla sera precedente, ma solo l’adrenalina dell’intervento appena concluso le aveva infuso l’audacia necessaria. Lo sguardo attento della dottoressa sfiorò le foto digitali dell’ecografia; esaminò i battiti immortalati di un cuore che misurava l’amore come se fosse un’arma letale, dalla quale guardarsi bene. Era lo stesso cuore di un padre che si dilettava fin da bambina ad insinuarle nella mente quanto lei non fosse degna di essere amata. Iniziava a credere che il rapporto poco sano e sofferto che da sempre intesseva con Daniel avesse un ruolo nel fallimento del suo matrimonio; aveva forse preteso troppo da parte di suo marito, troppe attenzioni che non avrebbero comunque colmato quelle del genitore, era solo un’effimera illusione. Era assurdo, ma l’idea di perdere il padre per una malattia le infondeva una drammatica impotenza, non a livello medico – su quel piano il giuramento di Ippocrate le imponeva di fare tutto ciò che era in suo potere –, ma a causa degli scarsi vissuti condivisi con quell’uomo. Non desiderava vivere nel rimpianto, eppure ultimamente ne stava collezionando parecchio. Appena sotto le anteprime dell’ecografia, un post-it azzurro recitava poche parole, ma estremamente intense.
 
Avevi ragione. Mi dispiace.
 
Morris, il collega di reparto addetto alle analisi, si era premurato di rivolgerle solidarietà e con essa anche la triste conferma. Delilah sospettava che suo padre fosse affetto da un grave disturbo alle arterie coronarie e così era. Non ebbe necessità di leggere la prognosi, il dottor Wood le aveva risparmiato con disarmante crudeltà la fatica.
Lasciò la cartelletta in disordine e si avvicinò alle ante scorrevoli della finestra che si trovava dietro lo schienale della sedia. L'imposta era leggermente socchiusa, l’aria di settembre inondava il suo viso, segnato dalla stanchezza fisica e spirituale; Delilah sfilò gli occhiali e li appese per un’asta al leggero decoltè della camicetta floreale, incrociò le braccia sotto il seno e contemplò il panorama che si estendeva ai suoi piedi dal quinto piano del maestoso edificio. Un’ambulanza si stava dirigendo verso l’ingresso a sirene spiegate; una collega di turno era già accorsa per accogliere il nuovo paziente. Cosa avrebbe provato se al posto di quell’uomo, quella donna o quel bambino ci fosse stato Daniel? Come di consueto, avrebbe messo in moto ogni singolo neurone pur di salvarlo, non avrebbe mai lasciato che un infarto o un’ischemia lo strappasse alla vita. Doveva scongiurare un ricovero d’urgenza, doveva parlare con il medico di suo padre e fissare la data dell’intervento, per sperare di tamponare l’insorgenza di sintomi ben più gravi di un dolore al braccio; doveva evitare che nell’arco di quelle ore le mani tremassero, catturate dal timore di dover vivere per sempre l’ennesimo rimpianto. Delilah aveva prosciugato la gola di saliva per mettere in guardia suo padre sui rischi del fumo attivo, ma le parole della figlia erano solo acqua fresca che scivolava su di lui e che ignorava, mentre era intento ad accendere il quarto sigaro nel giro di un paio d’ore. Si ripeté che sarebbe stata colpa di Daniel, se lo avesse perso prematuramente, lei, da figlia, aveva fatto tutto ciò che era in suo potere; ogni sorta di rimpianto e ricordo perduto avrebbe portato la firma di quell’uomo, eppure Delilah non era arida quanto lui e avrebbe spartito tra loro le colpe. Informare un paziente della diagnosi era uno degli aspetti più difficili del suo lavoro, specie se il soggetto in questione era un uomo che affrontava la vita con spavalderia, difficilmente comprendeva i propri errori prima di sfiorare il gelido fondo. La dottoressa Clark non era certa che stavolta avrebbe riscoperto uno stile di vita più sano; si sarebbe accontentata di vederlo in salute. Lei non era come lui, lo ripeteva a se stessa fino a convincersene; desiderava che il cuore arido dell’uomo che le aveva dato la vita fosse sano. Lei era diversa, generosa, pronta ad oscurare se stessa, pur di scorgere l’ombra di un sorriso sereno sul volto delle persone che amava. Voleva bene a suo padre, era innegabile, non lo nascondeva a se stessa e nemmeno a Daniel, anche se non meritava di sentire il calore di un affetto che non era in grado di trasmettere. Daniel per lei era stato emotivamente assente fin da quando la coscienza si era impossessata di lei e le era consentito ricordare la sua infanzia, eppure lei avvertiva l’impellente necessità di esserci per lui. Era assurdo.
«È un brutto momento? Am … Delilah, ti disturbo?»
La donna era stata riportata alla realtà dalla voce inconfondibile dell’uomo con il quale aveva trascorso otto anni della sua vita. Nathan aveva dato una leggera spinta alla porta accostata, dalla quale proveniva per la dottoressa uno spiffero d’aria piacevole, creando una leggera corrente con la complicità dell’anta aperta della finestra. Non era sgradevole nemmeno la comparsa del marito; il suo aspetto era sempre gradevole, i suoi capelli castani erano inondati dalla penombra della tapparella per un quarto abbassata. Le iridi nocciola dell’uomo dichiaravano, prima ancora che potesse farlo lui, tantissima confusione sul loro rapporto e sulla posizione raccolta della moglie.
«Nat. Cosa fai qui?»
«Ho atteso che terminassi l’intervento per consegnarti alcuni vestiti che hai dimenticato a casa. Non so se possano servirti. Desidero anche ringraziarti per avermi consentito di rimanere in casa nostra provvisoriamente, non me la sento di tornare dai miei»
Delilah colse con facilità il disagio dell’uomo, puntava lo sguardo ovunque tranne sulla sua interlocutrice; era triste, ma chi non lo sarebbe stato in procinto di dichiarare il fallimento del proprio matrimonio? L’uomo posò una borsa sulla sedia che di norma era riservata ai pazienti; comunicò con quel gesto alla dottoressa che era una visita veloce, avrebbe tolto presto il disturbo, non si sarebbe accomodato per tenerle compagnia qualche minuto. Delilah scoprì di avere bisogno di una parola di conforto da parte sua; pensò di trattenerlo con qualche scusa.
«Ha chiamato l’avvocato ieri nel pomeriggio. Pare manchino alcuni documenti per concludere le pratiche di divorzio»
«Sì, lo so, ha chiamato anche me. Sono entrato nell’archivio civile del tribunale, ma non ho trovato l’atto di matrimonio. Oggi provo a rovistare nell’archivio cartaceo. Ci fossimo sposati a Las Vegas potrei capire. Non preoccuparti, lo trovo, da qualche parte deve esserci una copia»
Nathan era elegante, ma non retrò; odiava cravatte e accessori simili, il suo stile gli conferiva un’aria fresca e affascinante. Delilah ricordava di essersi innamorata del suo portamento, prima ancora che del suo discorrere forbito, d'altronde era pur sempre un uomo di legge.
«Tu non sei un avvocato penalista? Come mai hai accesso a quegli archivi?»
«Sì, infatti se infrangessi qualche legge sarei sempre pronto a difenderti. Per gli archivi, ho il favore di qualche collega in debito con me»
«Già, le tue arringhe sanno essere convincenti»
La dottoressa si accostò alla scrivania, abbassò gli occhi su di essa intenzionata a riordinare gli oggetti fuori luogo. I movimenti della donna erano lenti, a tratti distratti e carichi di malinconia; non spostò la cartella incriminata, sfiorarla l’avrebbe resa reale e avrebbe risvegliato il subbuglio di emozioni contrastanti che si era annidato nel suo cuore. Nathan era a pochi passi da lei, li divideva solo il tavolo; buttò un occhio su di esso e scorse, tra parole per la maggior parte incomprensibili, un nome familiare.
«Cos’ha mio suocero?»
La stava fissando con sincero interesse, ma lei non era pronta a dar voce a quelle analisi, le avrebbe rese troppo vere. Percepiva su di sé lo sguardo indagatore del marito; era alla ricerca di un movente spinto dalla sua deformazione professionale.
«Delilah. Ti conosco troppo bene, sei preoccupata. Tuo padre ha una salute cagionevole?»
La donna diede un leggero segno di assenso.
«Non è proprio un buon periodo»
Nathan condivise la frustrazione della moglie, fu una considerazione amara, sofferta, che gettava dubbi persino sulle scelte che di comune accordo avevano preso. La dottoressa Clark iniziava a provare disagio in compagnia dell’avvenente avvocato; se le loro pratiche di divorzio non fossero state avviate da settimane, avrebbe cercato conforto tra le braccia dell’uomo, come fosse un’oasi in mezzo al deserto, ma le sembrava un’azione sfrontata e ambigua. La donna posò i palmi sul ripiano in legno, cedette all'amarezza; abbassò lo sguardo e si lasciò catturare da un pianto silenzioso. Il marito vide solo l’ombra scura dei suoi capelli lisci sovrastarla; lei aveva creato un muro tra loro, che fosse intenzionale o meno. Delilah sussultò, quando la mano di Nathan sovrastò la sua più minuta.
«Se posso fare qualcosa per te, non esitare a chiedere»
Era solo un pessimo momento della loro vita, uno dei peggiori. Divorzi, guerre e malattie incombevano su di loro. Un leggero sorriso si dipinse sul volto di Delilah; doveva ricordare per quale ragione lo stesse lasciando. Era colpa di lei ed era troppo pretendere che un uomo accorto come Nathan fosse disposto a colmare vuoti del suo passato; ammettendo che lo volesse, la dottoressa non gli avrebbe mai consentito di portare sulle spalle insieme a lei una simile zavorra; aveva osato per troppo tempo, il loro rapporto ne aveva sofferto, doveva lasciarlo libero di vivere la sua brillante carriera in compagnia di una donna emotivamente stabile.
«Ci siamo ripromessi di lasciar trascorrere un lungo periodo, prima di tornare a frequentarci come amici. Ora non credo di essere pronta, è troppo presto»
«Ciò non toglie il fatto che per te ci sarò sempre»
Le guance di Delilah erano elegantemente solcate da lacrime. Era indubbio che Nathan l’amasse, non avevano mai nascosto i loro sentimenti; scorgere la sofferenza sul volto della moglie era una pugnalata nel cuore; era a conoscenza del rapporto che intercorresse tra lei e il padre, le aveva sempre mostrato vicinanza.
«Daniel conosce l’esito degli esami?»
«Non ancora. Gli ho ripetuto centinaia di volte di preservare la salute, è il bene più prezioso che possediamo, non mi ha mai ascoltata. È così dannatamente attaccato alla vita, ma non gli è mai importato dei rischi che correva»
«Lilah, sono convinto che sarai in grado di aiutarlo. Sei il miglior medico che io conosca»
Anche Nathan si era appoggiato alla scrivania per poterla sfiorare; aveva impiegato la sua solita dolcezza per invocarla. Il loro atto di matrimonio era scomparso per qualche strana ragione; stavano divorziando, ma i contatti fisici accendevano ancora l’attrazione. L’uomo raccolse con il pollice una lacrima che stava sfuggendo al controllo di Delilah. L’emotività aveva gettato sul lastrico il loro matrimonio, Nathan restava l’unico in grado di accogliere le sue fragilità, ma Delilah non aveva alcun diritto di pretendere così tanto da lui. Si stava avvicinando pericolosamente a lei e alle sue labbra, l’avrebbe raggiunta se una voce ferma sulla porta dell’ambulatorio non li avesse bruscamente interrotti.
«Dottoressa Clark. Mi rincresce disturbarla, ma suo fratello al telefono domanda di lei. Credo sia urgente, il ragazzo sembra piuttosto agitato»
Delilah voltò in ansia lo schermo del cellulare e si accorse che vi erano almeno cinque chiamate perse da parte di Samuel. Daniel e Nathan l’avevano distratta a tal punto da non essere pronta ad accogliere il bisogno dell'unico uomo con il quale aveva instaurato un rapporto sano e appropriato.


 
 
Periferia Ovest di Kabul, 2 settembre 2018 (ora locale)
 
 
Maryam era corsa da Samuel, era stato il primo nome che era passato per la mente della ragazza. Lui era quel gancio in mezzo al cielo inaspettato e salvifico, il miracolo in un deserto materiale e dell’anima. Il futuro era meno incerto da quando il reporter aveva posto piede sul suolo afghano. La notte, che avevano attraversato per tornare al villaggio, era meno scura in compagnia di Samuel.
Sarebbe stato bello credere che la salvezza fosse giunta dal continente americano, il medesimo che prometteva pace, ma allo stesso tempo dichiarava guerra. Convincersi che il giornalista con il quale avevano stretto amicizia fosse estraneo ai soldati, avesse obiettivi diversi da quelli propri degli eserciti di più nazioni che si erano radunati nella loro Patria, accendeva la speranza che il mondo al di là dei confini dell’Afghanistan stesse davvero provando a liberarli e non li facesse solo affondare giorno dopo giorno sempre più nelle sabbie mobili.
La figlia del mullà si fidava di Samuel, ma non estendeva la buona fede agli amici del ragazzo. Christian si era offerto di accompagnarli, attraversare a quell’ora strade impervie e dissestate era rischioso per due giovani. Maryam non era inesperta, lei era cresciuta nel pericolo, era prudente quanto bastava e non aveva bisogno che un militare la proteggesse, era in grado di prevenire le insidie a diversi metri di distanza. Nel lungo tragitto che avevano affrontato, la giovane era stata in grado di risparmiare a Samuel ogni sorta di minaccia che giungesse dalla terra grezza e rivoltata dalle bombe esplose e in agguato; in cambio la presenza del reporter garantiva alla giovane protezione da eventuali malintenzionati che si aggiravano nelle ore notturne, sia all’interno che all’esterno della città. L’afghana aveva guidato Samuel attraverso scorciatoie che solo i nativi potevano conoscere così bene; dovevano cercare di giungere a destinazione il prima possibile.
Si erano difesi reciprocamente, senza sapere che il vero pericolo si trovava tra le mura del villaggio; Maryam ne era a conoscenza solo in parte, non era esperta di medicina e si rese conto che avrebbe potuto ricevere qualche utile lezione da Karim se solo fosse stata più scaltra. La porta dell’umile casa del medico di Herat era appena accostata, Samuel aveva il cuore in gola, ogni parola che tra le lacrime la ragazza gli aveva comunicato era stata al pari di una lama che non solo affondava nel suo petto, ruotava su se stessa e infieriva su ferite sanguinanti. L’americano aveva allontanato con urgenza l’imposta, la quale si era scagliata contro il muro provocando un frastuono simile ad un’esplosione. Era stato un rumore familiare per Karim, si era voltato verso i due intrusi, ma persino la luce flebile della luna infastidiva la sua vista debole.
«Karim!»
Samuel era corso dall’amico, accomodato sul giaciglio che accompagnava da anni ormai le sue notti insonni; si era inginocchiato ai suoi piedi spaventato di vedere il viso avvolto da un lenzuolo di pallore e sudore; azzardò sulla scia di una intensa scarica emotiva, provò ad afferrargli la mano, ma il dottore la ritrasse risoluto, aveva impiegato le poche forze che gli erano rimaste in quel magro tentativo di protezione.
«Non vuole che ci avviciniamo, teme di essere infetto e contagioso»
Maryam aveva imparato a comprendere i gesti dell’infermo, aveva allontanato anche lei diverse ore prima; voleva solo aiutarlo, eppure, anche in condizione critiche, desiderava essere lui soccorso per gli altri e non viceversa mettendo a rischio la loro vita.
«Infetto da cosa?»
Karim non rispose a Samuel, si voltò in direzione del lato opposto all’amico e diede due colpi di tosse nel palmo. L’interno della mano venne inondato da grumi dalle tonalità vermiglie; Samuel li intravide, per il medico furono solo una drammatica conferma alle sue ipotesi. Il giovane americano lasciò che il cuore divampasse in brucianti sensi di colpa; si era allontanato da loro, aveva frequentato per qualche giorno la base militare, li aveva abbandonati nel momento del bisogno e la loro condizione era precipitata.
«Perché il sangue, Karim?»
Temeva a chiedere, non era mai sintomo di salute, ma doveva sapere; strinse i denti, la notizia lo avrebbe devastato, avrebbe affiancato il senso di impotenza che lo stava soffocando.
«È tubercolosi»
La voce di Karim risultò roca, come se la tosse avesse già iniziato ad usurare le corde vocali e il liquido ematico stesse inibendo la sua facoltà di parola. Samuel subì il contraccolpo, ma il desiderio di vincere la malattia, qualunque essa fosse, si era annidato nel suo cuore prima ancora che Karim la rivelasse.
«Faccio tutto il possibile per aiutarvi, te lo prometto. Qui hanno bisogno di te, ti prego non ti arrendere»
Il ragazzo gli pose una mano sulla fronte; la temperatura era alta, sudore ardente lo stava inzuppando. Il medico afferrò il polso del reporter e lo abbassò; aveva esaurito la forza muscolare, ma era suo dovere placare l'ardimento del giovane.
«Samuel, fammi un favore. Stammi lontano. Hai una famiglia e una fidanzata che ti aspettano. Vai via»
Karim aveva scelto, prima ancora di domandare un parere ai diretti interessati; aveva deciso che la sua vita valesse meno di quella dei due giovani presenti in una casa che non era definibile neppure tale.
«Te la caverai, andrà tutto bene»
«Non hanno farmaci per curarmi. Non andrà tutto bene per me, ma se mi ascolterai per voi andrà molto meglio»
Lo sapeva, un medico del posto conosceva molto bene i limiti del suo Paese a livello di progresso, spesso aveva avuto l'occasione nei suoi studi di confrontare l'Afghanistan con il resto del mondo; era certo che quello sarebbe stato il suo destino accanto ai malati, aveva solo sperato di avere più tempo. Lanciò un’occhiata colma di dispiacere verso la ragazza distante pochi metri da loro; Karim colse gli occhi annacquati della giovane, anche se era in controluce rispetto al chiarore color avorio della luna; era stata una figlia per lui, era orgoglioso della donna che stava diventando, ogni giorno sempre più, faceva male il pensiero di dover lasciare che affrontasse da sola l’inferno della guerra e del suo matrimonio.
«Samuel, avevi ragione, devi aiutare Maryam. Ti prego, aiutala, non permettere che lei soffra»
«L’aiuteremo insieme, quando starai meglio»
Il giornalista gli aveva risposto distratto; il tono flebile dell’amico non lo aveva discosto dal telefono; non si sarebbe arreso senza combattere, ma sua sorella non rispondeva. Qualunque impegno la dottoressa avesse, era importante che lei lo interrompesse. Samuel non esauriva gli squilli a disposizione, ricomponeva il numero ogni volta che i primi due segnali acustici cadevano nell’oblio. Al quinto tentativo, compose disperato il numero del St. Vincent Medical Center pervarso dalla speranza che lei fosse di turno; avevano alzato quasi subito la cornetta, ma non era la persona giusta ad averlo fatto. Il giovane attese impaziente che andassero a cercarla, era urgente ed era chiaro dall’ansia che traspariva anche attraverso una linea remota e difficoltosa dall’altro capo del mondo.
«Delilah! Grazie a Dio ti ho trovata»
«Samuel, cosa succede?»
«Ho bisogno di un medico»
Era assurdo che lo dicesse, aveva un valido dottore proprio davanti ai suoi occhi; era inverosimile vederlo debilitato e bisognoso a sua volta.
«Misericordia, Samuel, cos’hai? Sei ferito?»
«Non è per me. Un amico sta male, dice che ha la tubercolosi. Delilah, non so come aiutarlo»
La dottoressa Clark impiegò qualche istante per realizzare le parole del fratello; venne pervasa dal sollievo, Samuel stava bene, ma non era del tutto serena.
«Sam, la tubercolosi è contagiosa, non stargli vicino. Mi hai sentito?»
«Non posso lasciare che muoia»
Possedeva il suo stesso dannato istinto di salvare tutti; doveva essere un difetto di famiglia, o forse no, solo lei e il fratello ne soffrivano.
«Samuel, per favore, non hanno cure laggiù, se ti ammali non torni a casa vivo. Le scarse condizioni igieniche in cui stai vivendo e la malnutrizione non ti daranno scampo, stanno abbassando le tue difese immunitarie. Devi preservare la tua salute con più attenzione, altrimenti ti contagerai con troppa facilità»
«Non preoccuparti. Dimmi piuttosto cosa posso fare per lui»
Delilah si stava scontrando con una roccia; lei era in pena per la prevenzione, lui per una cura inesistente; decise di assecondarlo, non aveva altre vie percorribili.
«Servono antibiotici. Non ne avete in Afghanistan»
«Conosco un ufficiale dell’esercito, può aiutarci. Mi premurerò io stesso di cercarli in ogni ospedale da campo. Quando può averla contratta?»
«Non meno di due mesi fa»
Conoscere il periodo di incubazione non rincuorava Samuel, ma placava i sensi di colpa, lui in quel periodo era ancora negli Stati Uniti, anzi non avrebbe mai immaginato di partire per raggiungere zone di guerra, piuttosto di sposarsi ed iniziare una nuova vita insieme a Margaret. Non aveva affatto ignorato l’avvertimento della sorella, la malattia che stava maneggiando con poca cura era contagiosa, Karim era stato contagioso ancora prima di manifestare i primi sintomi; non era certo che sarebbe tornato a casa, ma nel breve soggiorno che aveva già vissuto e che era ormai parte della sua memoria aveva attraversato indenne qualche pericolo, vi era la possibilità che quello non fosse il suo ultimo viaggio e che avrebbe rivisto e riabbracciato la sua fidanzata. Mai come in quel momento l’idea della morte lo aveva attraversato, dal momento che la intravedeva nelle iridi febbricitanti di Karim; era inutile ammettere che non la temesse, ma il trapasso non era un problema per lui, certo non se avesse avuto la possibilità di salvare una vita umana senza che rimasse incastrata nella sua coscienza; temeva piuttosto il dolore che avrebbe inferto ai suoi cari, temeva più di ogni cosa di spezzare il cuore della donna che amava. Il medico di quel villaggio restava una salvezza per molti bambini, donne e uomini; se avesse avuto la possibilità di risentire di nuovo Margaret, le avrebbe raccomandato di pregare per lui e di non smettere almeno per un paio di mesi, il tempo dell’incubazione. Non aveva dato modo alla sorella di contestare; la dottoressa aveva suggerito a lui di abbassare la temperatura, in assenza di paracetamolo avrebbe potuto solo sfruttare qualche metodo che per la civiltà era antico, per luoghi infestati dalla guerra invece era l’unica risorsa da cui avrebbero potuto attingere. Maryam aveva recuperato un catino di acqua fresca; Samuel aveva impedito alla ragazza di avvicinarsi, si era premurato lui stesso di porgergli qualche benda umida sulla fronte. Aveva costretto Karim a sdraiarsi, contrastare la spossatezza propria dell'infezione l'avrebbe solo accentuata. Il medico non sapeva più dove trovare la forza per ribellarsi alle cure, le palpebre erano diventate macigni, la frescura che passava sulla sua fronte lo rilassava dai dolori che stavano squarciando il suo petto.
«Samuel. Se mi addormento, svegliami. Devo aiutare la mia gente»
Con un sussurro Karim aveva dichiarato la sua resa alla stanchezza, ma non alla vita. Fece sorridere il ragazzo la determinazione che quell’uomo conservava dentro di sé; era troppa persino per lui conservarne così tanta in un muscolo così piccolo nella gabbia toracica, ma il suo doveva essere molto più flessibile di altri, come ad esempio quello del direttore Clark.
«Se reclamano il tuo aiuto, ti chiamo io. Ora riposa»
Samuel bagnò una pezza di stoffa, la inzuppò e ripulì l’amico dal sangue che si era incrostato sulle sue mani; Karim avrebbe fatto lo stesso per una persona nelle sue condizioni, forse anche di più, ma di certo non lo avrebbe abbandonato al suo destino. Meritava aiuto, aveva salvato troppa gente per essere abbandonato in caso di bisogno. Buttò la stoffa sporca di sangue, stando attento a non entrarvi in contatto e raggiunse Maryam, accostata alla parete esterna dell’abitazione. La ragazza aveva lo sguardo perso verso l’orizzonte, forse verso un futuro incerto che di sicuro aveva solo risvolti negativi e nefasti, quelli non sarebbero di certo mancati.
«Perché lui? Senza Karim ci viene tolta ogni speranza. Karim ha ragione, non abbiamo farmaci, non abbiamo niente. Niente!»
Si era abbandonata alle lacrime lasciando che la schiena scivolasse contro la dura pietra; non fece male l’impatto con il suolo, l’anima bruciava sempre di più, impazziva quasi, si contorceva alla ricerca di una soluzione che non vedeva e che non sarebbe mai potuta giungere da una ragazzina di sedici anni. Lei non era spaventata di un possibile contagio, lei non temeva la morte, era la vita a spaventarla, la sofferenza, oltre quella avrebbe solo trovato pace. L’idea di andare incontro alla stessa fine di sua madre l’aveva sfiorata, quasi sperata, era certa non si fosse nemmeno accorta di morire. Samuel però era lì, una flebile speranza continuava a bruciare, la candela era bassa e sottile, ma non ancora spenta. Il ragazzo le aveva accarezzato una guancia, oltre il niqāb il contatto era stato nitido, ma Maryam non aveva la forza di ribellarsi, non voleva neppure più. Il ragazzo l’aveva invitata a sfogarsi sulla sua spalla, gli aveva concesso un supporto, benché lui per primo fosse sfinito di fronte ad una tale sofferenza.
«Karim è un uomo forte e tenace. Non si farà abbattere dalla malattia, niente vincerà su di lui»
Samuel era convinto delle sue parole, ma non mancò di alzare uno sguardo al cielo sereno. Un aiuto divino sarebbe pur sempre tornato comodo; sperò che senza l’ingombro delle nubi le preghiere silenziose raggiungessero prima la loro destinazione tra gli arcangeli e i cherubini.
 
 

Ciao ragazzi!
Mi scuso con tutti gli esperti di medicina nel caso ci fosse qualche errore a riguardo, non è il mio mestiere, ma ho cercato di informarmi attraverso le mie solite ricerche.
Le chiamate misteriose sono la mia passione e stavolta è toccato alla povera Delilah. Infliggo tantissimi drammi ai protagonisti di questa storia, ma la storia non è affatto terminata, anzi tutto il contrario.
Vi ringrazio di cuore per tutto il supporto che mi regalate, dedico un ringraziamento speciale alle fanciulle che mi donano tempo lasciandomi sempre un prezioso ed emozionante parere <3
Alla prossima!
Un abbraccio grande
-Vale

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16_Nel covo del nemico ***


Nel covo del nemico





 
            Per le vie sterrate di Kabul – 5 settembre 2018
 
Dopo il duplice attentato avvenuto nei pressi di Kabul, Christian e Gwendoline non avevano ancora trovato l'occasione opportuna per varcare via terra le porte della capitale. Era stato assegnato ai due soldati un turno di ronda; percorsero, usando come mezzo di trasporto la jeep militare, le strade dissestate dal conflitto armato, pervasi da violenti sobbalzi ad ogni metro che guadagnavano. Per la popolazione afghana, ricostruire era un'utopia, vivevano in una sorta di castello di carte che crollava ad ogni flebile folata di vento; il catrame gettato per asfaltare, dopo l'ennesimo colpo inferto nel cuore di Kabul, era costantemente corroso, ribaltato dall'impeto della guerra. L'ufficiale e la recluta procedevano nel deserto circondato da rudimentali abitazioni; era una distesa di sabbia imbevuta di vento di scirocco e di respiri trattenuti e ansiosi della povera gente - priva di averi e svuotata nello spirito.
I forestieri respiravano l'aria rovente contaminata dal tritolo e condividevano con i nativi l'incombere di una minaccia imminente.
Nel cuore di Christian non vi era più serenità da diverso tempo. I medici, che esercitavano la loro professione come volontari in uno dei tanti ospedali da campo posti al servizio della popolazione bisognosa, lo avevano alleggerito del peso della fasciatura e dei punti di sutura, lasciando solo una vistosa cicatrice sul petto che lui avrebbe dovuto giustificare agli occhi di Katherine, senza angustiarla più del necessario con racconti cupi; il braccio sinistro era ancora indolenzito, in Afghanistan, specie per un soldato in missione, non veniva contemplata alcuna riabilitazione. I muscoli di Christian venivano distesi grazie alla guida; il movimento del volante sarebbe stato un ottimo esercizio motorio, se non fosse stato per il clima che aleggiava intorno a loro. Gwendoline sembrava pensierosa; non degnava uno sguardo alla strada che si estendeva davanti a loro, era concentrata sugli occhi che incrociava di sfuggita sul bordo degli stretti viottoli che non possedevano nemmeno un nome, erano luoghi fantasma per il resto del mondo. Il volto di donne e bambini scorreva nella mente del soldato Ward; giurò che una piccola tra le braccia del papà le avesse accennato un sorriso e un saluto con la manina, o forse era soltanto il sole ad infonderle allucinazioni. Alla recluta stringeva l’anima realizzare quanto migliaia di creature innocenti stessero soffrendo nelle mani dei loro carnefici.
«Gwen»
La coscienza della ragazza era proiettata altrove, sulle catapecchie in cui quei pargoli crescevano, sul loro vestiario. L’Occidente era il paradiso in confronto, l’Afghanistan invece l’inferno sulla Terra e lei si trovava in una sorta di purgatorio, un limbo trapunto di impotenza e sofferenza. Il tono pacato e comprensivo del tenente era risultato ovattato, lontano; la giovane stava affogando i suoi sensi nel dolore dell'anima.
«Gwen»
Fu impossibile per la recluta non ridestarsi dal torpore, Christian le aveva sfiorato le falangi infondendole calore umano.
«Mi scusi, signore, mi sono distratta. Mi stava parlando?»
Il capitano stava guidando, ma aveva notato l’espressione assente del suo sottoposto; si limitò a sorriderle e a rassicurarla sul fatto che non si fosse persa qualcosa di importante. Il loro tragitto venne ostacolato più volte dai pedoni; Christian non inserì quasi mai la quarta, tra i trenta e i quaranta chilometri orari era la velocità migliore, consentiva loro di perlustrare con attenzione la zona circostante. Erano entrati nel vivo delle attività orientali; quando la rara quiete regnava, la popolazione si dilettava in ogni sorta di attività commerciale, i banchi del mercato erano dietro qualsiasi angolo. Il vociare acuto e grave della gente tornò ad inondare l’udito di Gwendoline; la ragazza si era soffermata sui dettagli, i peggiori che caratterizzassero quel mondo, ma aveva perso di vista il complesso, la vita che scorreva ancora nelle loro vene e nelle arterie stradali che sezionavano la città.
Stavano cercando di concludere il loro giro e rientrare alla base militare; avevano impiegato il doppio del tempo, a causa della folla e del conseguente passo lento della jeep. Superato il confine settentrionale, davanti a loro si palesò il silenzio; il vociare della folla si era diradato, salvo ostacoli imprevisti, Christian poté accelerare e auspicare di tornare alla base prima del tramonto.
«Capitano, fermo!»
Gwen posò un palmo sul volante, intimando il superiore di aspettare a procedere. Christian non indugiò, frenò bruscamente riponendo in lei la massima fiducia.
«La sente anche lei?»
«È il mercato, ma ci stiamo allontanando»
«No. Ci stiamo avvicinando»
La ragazza riacquistò concentrazione e affinò l’udito; aveva compreso la direzione da cui provenissero gemiti e urla di dolore, era un grido di aiuto femminile che la recluta non riuscì ad ignorare. Gwendoline aprì lo sportello e lasciò che la voce la guidasse; i suoi passi vennero subito ricalcati e sovrastati dagli anfibi del tenente. Il soldato Ward raggiunse in anticipo il luogo; un muro grezzo – come d’altronde lo era ogni edificio appartenente alle famiglie più povere – fungeva da supporto per una giovane donna in evidente stato di gravidanza; era sofferente, qualche livido solcava il viso abbronzato e si lamentava per le doglie del parto; il velo che abitualmente le copriva il capo ricadeva sulle spalle, era segno della violenza che aveva subìto e del dolore che stava patendo. La recluta si inginocchiò al suo fianco per poterla confortare, non era più sola, ma non sapeva come comunicarlo a lei, di sicuro non avrebbe compreso l'americano. Christian piegò le ginocchia e si avvicinò alle due donne. Quella sofferente non aveva la forza di temere i due sconosciuti, se avessero voluto avrebbero potuto finirla in qualunque momento, ma in un barlume di lucidità capì che non era nelle loro intenzioni infierire su di lei.
«Gwen, non arriveremo in tempo in ospedale. Dovrai aiutarla tu»
«Come scusi? Capitano, l’unico ad avere figli qui è lei»
«Sì, ma non ho avuto modo di assistere al parto di mia moglie ed anche se fosse, sei senz'altro la più indicata tra noi due»
La ragazza non riusciva a capire come potesse essere in grado di aiutare una donna in quello stato, non aveva le basi, non aveva gli strumenti. Ricordò il medico che aveva salvato la vita ad una madre in un atto di puro eroismo, Karim - non era certa fosse quello il suo nome - era riuscito a mani nude, ma lei non era pratica di quella professione, non aveva le conoscenze per ovviare all’assenza di mezzi consoni e sterili, in primis un antidolorifico che la potesse calmare e alleviare il patimento fisico. Non rimasero soli a lungo, alcuni passi felpati diventarono sempre più nitidi e concitati; un giovane correva nella loro direzione, gridava spaventato in afghano alla donna riversa a terra e tra le sue mani un kalashnikov brillava sotto la luce ramata del tramonto. Christian lo riconobbe dai lineamenti e quando gli fu abbastanza vicino, anche le iridi divennero particolarmente familiari.
«Tu sei il ragazzino che mi ha sparato. Non potrei confonderti con altri»
L’ultimo arrivato era madido di sudore, le sue forze stavano venendo meno, ma trovò la forza di puntare l’arma contro i due soldati, convinto che stessero tenendo la partoriente in ostaggio.
«Lasciate libera mia sorella»
Il capitano non avrebbe accettato altri colpi di testa da parte sua; era comprensivo verso un giovane vittima della sua stessa cultura, ma non abbastanza da lasciarsi sparare senza reagire. Si alzò e con veemenza gli strappò l’arma dalle mani; era talmente infuriato che il ragazzo non riuscì nemmeno ad anticipare le mosse di Christian, si ritrovò le sue mani addosso, stava stringendo la kurta all’altezza del petto e quasi lo sollevava da terra.
«Adesso basta»
«Capitano!»
Gwendoline provò a placare la tensione, il clima che si era creato non avrebbe aiutato la donna durante il parto; la recluta stava pensando a come poterla soccorrere nel migliore dei modi, si limitò per il momento ad asciugarle la fronte con un fazzoletto pulito che custodiva nella tasca della sua divisa, l’ombra del suo corpo la riparava in parte dal sole debole, ormai prossimo a nascondersi dietro l’orizzonte.
«Parla. Perché tua sorella si trova qui e ha il volto tumefatto?»
Christian continuò a tenere ben salda la presa su di lui; non aveva necessità di sentire dalla loro voce che fossero talebani, lo sapeva già. Nonostante il ragazzino avesse una posizione di inferiorità e svantaggio al cospetto degli americani, abbassò le difese, non avrebbe potuto vincere da solo né contro loro né contro gli aguzzini di sua sorella.
«È accusata di adulterio. Il marito ha la facoltà di porre fine alla sua vita e ha deciso di seguire la Legge»
«Di chi è il bambino?»
Il ragazzo tacque, lasciando intendere che le accuse erano fondate. Il capitano era certo si fossero cacciati in un guaio più grande di loro; dichiarare guerra ai talebani era loro abitudine, ma contrastare la Sharia equivaleva alla pena di morte. Christian allentò la presa su di lui, aveva ancora il kalashnikov nel palmo della mano sinistra, si accorse in quel momento di avvertire qualche fastidio all’altezza della scapola; era pensieroso, la decisione da prendere non era semplice, alle sue spalle una donna era in procinto di partorire e fuggiva da gente senza scrupoli che voleva uccidere lei e il nascituro. Fu questione di un secondo, un’ombra lunga alle spalle del giovane talebano li raggiunge e puntò un’arma contro di loro; il capitano non riuscì a capire su chi fosse rivolto il mirino, pensò a proteggere il giovane, riafferrandolo con forza e spostandolo velocemente alla sua destra appena dietro di lui; puntò il kalashnikov contro l’uomo e sparò con la sola mano sinistra. Il rimbalzo del proiettile fece tutt’altro che bene alla spalla convalescente; fece scivolare l’arma dalle dita, lasciò che rovinasse a terra e realizzò cosa fosse successo.
«Capitano Richardson, si sente bene?»
La voce del sottoposto lo raggiunse. No, non stava bene. Aveva paura di scoprire cosa avesse appena combinato; l’uomo giaceva a terra inerme, non si muoveva e Christian pensò al peggio.
«È il marito di Nazaha. Non è riuscito lui, ma non sarà il solo a volere la sua morte»
Il ragazzino sembrava sollevato, l’americano aveva salvato loro la vita, senza il suo intervento sarebbero entrambi morti. Il tenente era dolorante, si era sforzato, stringeva il braccio con il palmo destro nell’illusione di alleviare il fastidio; ignorò la preoccupazione di Gwendoline, ma non la considerazione del giovane, gli premeva però un po’ di più accertarsi di non aver commesso un omicidio. Si avvicinò al talebano, quello che avrebbe dovuto essere il nemico giurato nella corsa alla liberazione di quelle terre, eppure non riusciva nemmeno a concepire di aver spezzato la sua vita. Si accertò che avesse polso e tirò un sospiro di sollievo, quando avvertì una flebile presenza di vita. Non era spietato come loro, non desiderava che la sua missione e le sue mani si macchiassero di sangue, era lì per salvare non per uccidere.
«Ragazzo»
Aveva chiamato il giovane da lontano, aveva impiegato un tono di voce elevato per farsi sentire, ma non perentorio; grazie al timbro più accondiscendente si era avvicinato al capitano, aveva conquistato in parte la sua fiducia.
«Come ti chiami?»
«Rashid»
«Rashid, ascolta. Quest’uomo è ancora vivo, voglio che chiami aiuto per soccorrerlo. Noi non siamo assassini. So che non lo sei»
Christian aveva battuto l’indice contro il petto del giovane talebano con atteggiamento paterno, aveva puntato i suoi occhi chiari in quelli scuri di Rashid; era convinto fosse nato e cresciuto nella famiglia sbagliata, ma il suo cuore era pronto alla redenzione.
«Io e la mia collega ci occupiamo di tua sorella. Nazaha deve partorire, altrimenti rischia la vita insieme al bambino. Mi hai detto che altri vogliono punirla, li fermo e guadagno tempo»
Rashid era sconvolto, un americano li stava aiutando, non era ciò che sapeva sui militari occidentali, altrimenti in passato non avrebbe mai nutrito il desiderio di ucciderlo a sangue freddo, subito dopo l'attentato che aveva strappato la vita a decine di persone innocenti - ma per lui la loro morte era necessaria; all'epoca - che equivaleva ad una manciata di giorni prima - non aveva considerato che quell'uomo potesse essere un salvatore; non lo aveva pensato per il semplice fatto che lui e la sua famiglia non salvavano, loro pensavano solo ad eliminare in nome di ideali superiori a chiunque o a qualunque cosa abitasse sulla Terra.
«Cosa mi garantisce di potermi fidare di te?»
Christian rifletté qualche istante, poi prese l’unica decisione giusta e sbagliata nel medesimo tempo; sciolse il nodo della cordoncina che portava gelosamente al collo, era geloso persino di quel nodo perché era stato stretto da Katherine. Porse un piccolo bacio sull’oro della sua fede, passò il pollice sul metallo liscio in segno di arrivederci e riannodò la corda al collo del ragazzo.
«Ti lascio in custodia il bene materiale più prezioso che io abbia, è il mio anello nuziale. Conservalo, quando ci rivedremo me lo restituirai. Questo in cambio della vita di tua sorella. Gwendoline, la mia collega, non ha mai aiutato una donna a partorire ma è in gamba, se la caveranno»
Rashid rimase scioccato da quel gesto, doveva tenere molto alla moglie se aveva così cura del simbolo della loro unione e attribuiva ad esso un valore così grande.
«Sono pericolosi, sono armati fino ai denti»
«Immagino, sì, ma tranquillo, sono armato anch’io»
Recuperò la sua Sig Sauer dalla fondina, Rashid la conosceva bene, lo aveva disarmato da quella pistola in occasione del loro primo incontro. Christian non aveva nemmeno contemplato la possibilità di servirsi del kalashnikov del ragazzo, lo aveva lasciato di proposito a Rashid se avessero avuto la necessità di difendersi, nel caso lui avesse fallito.
«Capitano, mi dispiace di averti ferito»
«Non preoccuparti, è tutto passato»
Non era vero, portava ancora sulla pelle i segni dell'agguato, ma non gli serbava rancore, voleva solo aiutarlo. Gwendoline stava calmando Nazaha, la stava invitando a respirare in modo regolare, qualche film che toccava il tema la stava guidando in quelle operazioni di primo soccorso; la recluta gettò un’occhiata in direzione del superiore, sapeva di non poterlo fermare, raccolse il sorriso orgoglioso di Christian e tra le labbra la ragazza gli comunicò prudenza. Faccia attenzione.

 
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Christian non avrebbe mai immaginato che per lui il momento dello scontro diretto sarebbe giunto così presto. Si era accertato che la sua arma fosse carica e che fosse emotivamente pronto ad uccidere in caso di necessità, ma era certo non lo sarebbe mai stato. Era solo ad affrontare il nemico. Solo davanti alla possibilità di non farcela. Non ricordava di aver mai vissuto una simile situazione in passato e ciò lo spaventava; non era più accompagnato dal simbolo dell’amore che lo legava alla sua famiglia, ma il pensiero, prima di ripercorrere a ritroso le strade solcate da Rashid, volò alle sue donne. Fu l’ultimo e il solo pensiero, l’unica distrazione che si concesse, doveva mantenere alta la concentrazione. Si premurò di impugnare la pistola nella mano destra per essere certo di caricare il colpo con più forza e precisione in caso di necessità.
Il ragazzino conosceva i talebani molto meglio di quanto non facesse lui – Flores non riusciva a capirlo. Il tenente aveva imboccato una strada piuttosto isolata e al tramonto era avvolta per buona parte nell’oscurità; udì nitidi alcuni passi, stavano cercando la ragazza, doveva fermarli, non poteva consentire una carneficina. Non vi era altra scelta che usare se stesso come esca; cercò di intuire prima quante fossero le minacce, udiva solo due suole che procedevano ritmicamente verso Nord, la sua direzione. Se i suoi calcoli fossero stati corretti, sarebbe riuscito a mantenere un equilibrio tra le parti in un conflitto a fuoco, aveva un vantaggio, un nascondiglio di pietra grazie al quale ripararsi dai colpi.
Quell’uomo si stava avvicinando a lui e di conseguenza a Gwen e a Nazaha. Sbirciò con prudenza oltre il muro e lo intravide; lo accompagnava un kalashnikov. Doveva essere un cognato per la puerpera, desiderava vendicare l’onore macchiato del fratello, o un qualsiasi altro parente acquisito. Christian si stava scontrando con una realtà al limite del verosimile per un occidentale; non era certo di essere all’altezza per riuscire a dimostrare a quegli uomini che un tradimento, scaturito da un matrimonio combinato, non fosse abbastanza grave da prevedere una pena di morte. Non sarebbe stato abbastanza influente per dimostrare loro che un atteggiamento più morbido avrebbe portato beneficio ad entrambe le parti; un matrimonio celebrato per amore avrebbe portato con sé minori probabilità di un tradimento. Christian parlava con ragione ed esperienza. Era così folle da credere di poter mostrare solo a parole - senza inutile spargimento di sangue - una prospettiva diversa, ma in quel momento, in quell’angolo nascosto e sperduto, in un punto qualsiasi della periferia settentrionale di Kabul, lo avrebbero solo trivellato di colpi se avesse cercato di intessere un dialogo. Doveva sparare contro di lui e rivelare la sua posizione se voleva fermare i suoi passi. Seguì ogni possibile suggerimento di Gwendoline sull’arte di sparare; il suo bersaglio non era rappresentato dagli organi vitali, non desiderava procurargli una ferita mortale. Era certo che persino sua moglie in una situazione simile gli avrebbe suggerito di uccidere, pur di avere salva la vita. Un colpo mancò inesorabile l’obiettivo e subito il talebano rispose al fuoco, provocando a Christian una ferita superficiale al braccio, lo aveva sfiorato procurando un taglio alla sua divisa. Riprovò, stavolta con più convinzione, uscì allo scoperto e ad una distanza notevole per una calibro 9x21 riuscì a colpire un polpaccio dell’uomo. Era una semplice pistola contro un kalashnikov, ma Christian non smise di puntarla contro quell’uomo. Il capitano non era certo che i due potessero comunicare attraverso la stessa lingua, non dissero nulla, si minacciarono in silenzio, ma Christian, a differenza di quell’uomo, era in piedi, l’altro era collassato sulle ginocchia. Fissò negli occhi il talebano, se si aspettava che lui avrebbe premuto il grilletto, si sbagliava, il tenente non lo avrebbe fatto; sarebbe stato più verosimile tenerlo in quella posizione inerme e dare modo a Gwen di portare in salvo la neomamma e il bambino. Di certo l’uomo che Christian aveva davanti non si sarebbe posto lo stesso scrupolo. Ne ebbe la triste conferma quando gli occhi del talebano sorrisero e a seguire la bocca si inarcò in una inquietante curva sadica; estrasse dalla tasca dei suoi pantaloni una granata, lasciando intendere che non avrebbe avuto paura di usarla.
Il capitano Richardson aveva davanti a sé un kamikaze, eppure non tremò. Non poteva finire così la sua missione di guerra, con una semplice esplosione, aveva così tanti progetti per l’ospedale che doveva liberare da gente come l’uomo che lo stava minacciando; aveva un futuro davanti e aveva una famiglia con il quale condividerlo. Sparare sarebbe stata la soluzione migliore; riusciva a sentire la voce di Katherine nella sua coscienza che gli suggeriva di ucciderlo prima che quell’uomo gli strappasse l’anima dal corpo; tante volte sua moglie prima della partenza gli aveva raccomandato di tornare a casa ad ogni costo. Non riusciva a macchiare la sua coscienza, non era in grado di vivere nel rimorso, ne collezionava già troppo. Cedette ad una lacrima, in quella miscela densa di sale, ma soprattutto di ricordi, consegnò al destino la sua anima candida, libera da un omicidio consumato a sangue freddo.
Scusa, amore, non posso.

 
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Il rumore di un’esplosione echeggiò tra la sabbia del deserto orientale. Il respiro di Gwendoline venne mozzato per un istante; era stato un boato promiscuo a loro, ma non li aveva coinvolti nel corpo, aveva sconvolto l’anima come se il cuore fosse stato attraversato da un tornado. Qualche lacrima scorse lungo le guance della recluta; era assurdo che, mentre una vita vedeva la luce del sole, un’altra venisse spezzata dalla cattiveria umana. Gwen cercò di riscoprire coraggio in quella partoriente, ormai al limite delle forze.
«N-Nazaha, più forte. Ci sei quasi, vedo il tuo bambino»
Rashid era al loro fianco e traduceva le parole incoraggianti del soldato. Non aveva mentito, vedeva la testa del piccolo o della piccola, non conosceva il sesso del nascituro; doveva assicurarsi che fosse in salute però, non poteva in alcun modo vanificare il sacrificio del suo superiore.
«Nazaha, un'ultima spinta»
Le strinse la mano per infonderle coraggio; la giovane mamma non ebbe bisogno della traduzione del fratello, le due donne si capirono al volo e subito dopo il pianto di un neonato coprì in parte il boato della bomba che non si era dissolto dalla mente di Gwen. Il soldato Ward non possedeva forbici per separare la mamma da quella che sembrava essere una bella bambina; posò delicatamente la piccola sul petto della ragazza.
«Rashid, aspettate i soccorritori. Penseranno a loro e a tuo cognato. Devo andare»
Gwendoline aveva i palmi insanguinati, ma non le importò. Imboccò senza indugiare e senza armi a portata di mano, la direzione verso cui in precedenza era scomparso Christian. Quell’uomo le aveva raccomandato varie volte di non essere impulsiva, mandò al diavolo le sue raccomandazioni, non avrebbe potuto seguirle se in gioco vi era la sua vita. Più la giovane si addentrava e più era colta alla sprovvista da un denso fumo; i suoi occhi impiegarono qualche minuto per abituarsi all’atmosfera cupa e opaca. Non smise di procedere, il tempo non era a suo favore, eppure era essenziale il tempismo in caso di pericolo mortale. Lo vide, o meglio, intravide un corpo riverso a terra che avrebbe potuto somigliare alla corporatura del Navy SEAL. Era svenuto, si gettò in ginocchio accanto a lui, piccoli tagli erano cosparsi lungo il suo corpo, gli avevano lacerato in minima parte anche il viso.
«Capitano, no, la prego. Tenente, mi sente?»
Non le rispondeva, lei non osava sfiorarlo, temeva di infliggergli nuove sofferenze fisiche.
«Christian. Ti prego, non lasciarci. Abbiamo bisogno di te»
Il dolore le ispirava l’informalità, lo invocava tra i denti e le lacrime, con un’unica speranza sul cuore. Notò attraverso le iridi nebulose qualcosa che si era conficcato nella tasca della divisa; estrasse una scheggia di pietra con facilità, non aveva raggiunto la pelle, aveva oltrepassato il risvolto della divisa, la stoffa, la tasca ed infine un foglio. Era il disegno di sua figlia, la carta spessa gli aveva salvato la vita, ma solo se infine si fosse svegliato.


 
Ciao ragazzi!
IO SONO UN MOSTRO, se lo state pensando sappiate che avete tutte le ragioni di questo mondo.
La prossima settimana con molte probabilità non avrò la disponibilità del PC per aggiornare, aggiornerò con un po' di ritardo, scusate in anticipo, soprattutto perché mi rendo conto della suspance che ho lasciato. Torno, questo è sicuro e un pochino (ma poco poco) spero di avervi infuso curiosità.
Grazie immensamente, ormai lo sapete, lo ripeto in ogni occasione, grazie al vostro supporto avete consentito a questa storiella di uscire dalla mia mente <3
Alla prossima!
Un abbraccio grande
-Vale

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Capitolo 18
*** Capitolo 17_La necessità del ricordo ***


La necessità del ricordo
 
 


 
New York, 5 settembre 2018
 
New York ad una settimana dall’11 settembre era avvolta da una nebbia di atroce ricordo. Nel cuore del World Trade Center erano iniziati i preparativi per la commemorazione annuale; nonostante la metropoli fosse protagonista della triste ricorrenza, la Nazione intera e buona parte del resto del mondo si sarebbe stretta intorno al dolore delle famiglie delle vittime nel massimo rispetto per una terribile parentesi storica.
Katherine stava percorrendo le strade limitrofe al centro di Manhattan su un taxi giallo newyorkese, scomodo tanto quanto la sua posizione. Stava tornando a casa dopo quindici anni; lei avrebbe specificato casa dell’infanzia, un mondo a cui non apparteneva più ormai da diverso tempo. Non era più tornata nella Grande Mela; negli ultimi anni erano stati i suoi genitori a raggiungerla a San Diego, quando Alisia era troppo piccola per poterlo ricordare, da allora i loro unici rapporti erano stati telefonici. Senza Christian al suo fianco non era certa di riuscire ad affrontarli. Stringeva a sé la loro bambina avvolgendole dolcemente le spalle; la piccola fremeva, era eccitata ed intimorita nel medesimo frangente, mentre Katherine si sentiva solo spaesata. Una fitta nebbia era scesa su New York, era la nebbia di settembre che preannunciava la fine dell’estate; era ancora visibile il museo a cielo aperto che aveva rimpiazzato le Twin Towers a Ground Zero e che concretizzava la dolorosa ferita mai rimarginata. Il memoriale ai caduti scorse in successione rapida davanti agli occhi della newyorkese prestata al caldo oceano della California; erano per lei nomi sconosciuti, eppure, come per ogni altro testimone del tragico evento, anche per Katherine quel maledetto giorno il tempo si era fermato per infiniti minuti. Aveva compiuto da un mese diciotto anni, quando un boato squarciò il cielo sopra le loro teste; aveva appena terminato il suo ultimo anno di liceo con ogni buon proposito per il futuro. Erano state evacuate tutte le scuole e tutti gli edifici pubblici; era scattato l’allarme in ogni distretto cittadino, buona parte degli abitanti aveva pensato al peggio, fino ad ipotizzare ad una vera e propria guerra. Il conflitto era scoppiato davvero, da quell’11 settembre 2001 niente era più stato lo stesso per migliaia di famiglie. Non avrebbe mai creduto che il suo destino un giorno si sarebbe intrecciato all’attentato che all’epoca aveva sconvolto l’anima di molti; sposare Christian aveva donato splendore alla sua vita, ma suo marito non era solo un uomo, era un Navy SEAL, lo era diventato prima che si conoscessero. Ricordava solo un’unica e insolita occasione in cui lui ammise quanto il suo lavoro fosse inappropriato per una famiglia; era successo al ritorno dall’Afghanistan, prima della nascita di Alisia. Non so come potrei riuscire ad impugnare un’arma se ad aspettarmi a casa ci fosse mio figlio, le aveva confidato; Christian aveva raccontato a sua moglie che combattere accanto a padri di famiglia aveva mostrato a lui un possibile futuro prossimo. Alisia era stata inaspettata, eppure quando Katherine annunciò al marito lo stato di gravidanza un sorriso commosso si era dipinto sul volto del seal. Nonostante la loro bambina fosse nata, nonostante venisse amata e protetta da entrambi i genitori, Christian non aveva abbandonato il porto d’armi, aveva continuato ad essere ciò che era diventato all’età di vent’anni e, come di consueto ricordava alla moglie, non si smetteva mai di servire la Patria una volta iniziato. Katherine non avrebbe potuto rimproverargli nulla, non faceva mancare loro niente. Il Navy SEAL ripeteva spesso a sua moglie di non angustiarsi, perché da ogni pericolo lui sarebbe uscito indenne; lo aveva promesso, eppure sentiva che qualcosa gli avrebbe impedito di tenere fede alla sua promessa.
Katherine non aveva perso alcun caro nel tragico crollo delle Torri, ma era comunque in lutto da quando Kabul era diventata una delle destinazioni predilette dei SEALs americani e da quando si era unita in matrimonio con uno di quei soldati. Le provocava ipossia allontanarsi in quel giorno grigio da San Diego, la lontananza dalla sua attuale dimora rendeva ancora più viva l’assenza del marito. Non era certa di aver compreso il motivo che l’aveva spinta al confine diametralmente opposto degli Stati Uniti d’America, i suoi genitori non sopportavano Christian e lei per questa ragione - e altre meno recenti - li odiava. Non sarebbe stato un incontro semplice; aveva deciso di partire con la sola compagnia di Alisia, aveva sperato che le liti senza uno dei motivi fondanti sarebbero state ridotte al minimo, eppure Christian non era solo un motivo di scontro per i signori Scott, era anche un supporto per Katherine che in quel preciso momento sarebbe venuto tristemente a mancare.
Il suggestivo clima già piuttosto autunnale le impedì di scorgere la Dalton, il liceo privato nel qualche aveva trascorso qualche anno della sua vita, si era formata e relazionata con i coetanei; tra quelle mura aveva stretto amicizie e vissuto un giovane amore, ma tutto si era spezzato molto prima che lei lasciasse New York, era partita senza rimpianti e con la voglia di ricominciare una nuova vita. Nell’Upper East Side era situato il lussuoso grattacielo, per la precisione sulla 5th Avenue tra il Museum Mile e Central Park, nel quale vivevano i suoi genitori e suo padre intratteneva i numerosi rapporti aziendali. Non riuscì a discernere l’aria viziata dallo smog e dalla boriosità, uno dei quartieri più ricchi di Manhattan le infondeva ancora più soggezione da quando aveva sperimentato altri mondi: luoghi più semplici e genuini, abitati da persone più affini al suo animo. I signori Scott abitavano al trentaduesimo piano; per Katherine il pensiero di dover salire in ascensore quegli infiniti piani dopo quasi cinque ore di volo era insopportabile. La vera fatica era mentale e dovuta all’incontro; traeva tutta la forza possibile dalla mano della figlia intrecciata alla sua. Alisia continuava ad essere pervasa da uno stato di eccitazione; anche Katherine avrebbe voluto vivere un simile stato di euforia, tutto sarebbe stato più semplice se l’illusione del mondo dal quale era fuggita non fosse svanita.
L’accoglienza fu migliore di quanto avrebbe sperato. La governante che l’aveva cresciuta era forse l’unico aspetto positivo del suo ritorno; l’anziana donna le aveva spalancato la sontuosa porta con un sorriso. Il cuore della bagnina fece un tuffo nel passato, grazie alle sensazioni di pace infuse dalla sua balia; si riscoprì malinconica rispetto al passato, ad una fetta di vissuto non del tutto trascurabile e piacevole da ricordare.
«Signorina Scott! Scusami, ti vedo così di rado che dimentico il tuo nuovo stato sociale»
«Non preoccuparti, Beulah»
Katherine era davvero lieta di rivederla, aveva immediatamente ricambiato il sorriso con un cenno della mano come era solita fare da bambina, la sua apparizione le fece per qualche istante dimenticare il vero motivo della sua presenza: affari, un capitolo che non sarebbe mai riuscita a chiudere finché avesse portato il suo cognome da nubile accanto a quello da sposata; la riportò indietro nel tempo, quando la repulsione verso quel luogo era ancora assopita e lei riusciva a vivere serenamente tra quelle mura insieme alla sua famiglia. La governante aveva riservato una dolce carezza sui capelli di Alisia; conosceva solo il nome della bambina, non aveva avuto l’opportunità di incontrarla prima di allora, eppure le era così familiare.
«Ti somiglia, Katherine»
«Ha gli occhi di suo padre»
La piccola si lasciò cullare dalle coccole di Beulah; diede fiducia alla donna anche se la conosceva solo da pochi minuti. Il sorriso della governante si spense incrociando lo sguardo della sua protetta; era diventata seria, come se stesse per affrontare un tema delicato.
«Katherine, immagino tu conosca il motivo della tua convocazione»
Beulah desiderava offrire la sua prospettiva neutrale, le voleva bene, le era affezionata e non voleva soffrisse; era stata una madre acquisita per Katherine, l’aveva trattata come se fosse sua figlia, aveva avuto l'occasione di conoscere Christian e sapeva quanto fosse felice con lui. Non ebbe modo di parlare oltre, un uomo slanciato dalla carnagione chiara si era affacciato sul salone dell’appartamento e osservava con interesse la nuova arrivata; era quasi intimidito dalla presenza di Katherine, non sembrava contento di trovarsi in quella casa e di respirare la sua stessa aria, anzi l'abbigliamento troppo elegante e tirato lo stava privando del poco ossigeno che gli era rimasto nei polmoni.
«Sebastian»
Gli occhi dei due si sfiorarono; le iridi smeraldine della bagnina erano cariche di accuse e di curiosità, lui fece un certo sforzo per reggerle. Katherine avrebbe dato inizio ad un confronto con quell’uomo, a parere della donna la sua presenza era alquanto inopportuna. I signori Scott anticiparono ogni possibile reazione; oscurarono Sebastian, togliendolo dall’impiccio del confronto, ma non riuscì a risparmiarsi lo sguardo accigliato di Katherine addosso. La voce cordiale della signora di casa accolse la figlia e la nipote con gioia.
«Tesoro, che bello vederti. Alisia, posso offrirti la merenda? Sarete stanche per il viaggio. Piccola, sei bella proprio come mi immaginavo che fossi diventata»
L’affetto che la madre stava ostentando verso la nipote infastidì Katherine, sapeva quanto non fosse sincera, non poteva esserlo nei confronti della figlia di un uomo che non sopportava e a parer suo aveva strappato Katherine dalla sua città natale.
«Merito di Christian, mamma»
La donna le gettò un’occhiata contrariata, prese per mano la bambina e la attirò verso di sé. Alisia si voltò titubante verso la madre, la quale le rivolse un sorriso di approvazione, sapeva di potersi fidare di lei, nonostante le circostanze. La merenda era solo una scusa per allontanare la figlia, ne era sicura; avrebbe dovuto affrontare il padre e l’ex con la sola forza del suo cuore.
«Grazie, Beulah, ora penso io a Katherine»
Gli occhi di ghiaccio di suo padre si erano posati su di lei, li resse; sapevano di accusa, tradimento, come ormai accadeva da diverso tempo. Gli avrebbe voluto domandare quale fosse l’utilità della presenza dell’uomo che l’aveva così ferita in passato, ma era convinta lo avrebbe scoperto presto.
«Spostiamoci nel mio ufficio, saremo più tranquilli»
Katherine seguì suo padre con un sospiro, anche Sebastian fece qualche passo tagliando per errore la strada alla donna. Gli era vicino, provò ad ignorarlo, ogni sorta di promiscuità con quell’uomo le era sgradita; per lui continuava ad essere un terreno imbarazzante, ma la vicinanza con la fidanzata della sua adolescenza non lo infastidiva, tormentava solo la sua coscienza, quella era un'altra questione. L’ufficio di suo padre era esattamente come lo ricordava, non era cambiato, rispecchiava in miniatura lo sfarzo nel quale era cresciuta e che tanto odiava; era tutto così costruito, pomposo, rappresentava tutto ciò da cui era fuggita e in cui si era ripromessa di non rimettere più piede. Non era più la signorina Scott, figlia di uno dei rampolli dell'Upper East Side, era l'orgogliosa signora Richardson, una moglie e una madre qualunque che viveva per la sua famiglia e così sarebbe sempre stato; se doveva essere ricordata, voleva che fosse solo per i meriti di guerra di suo marito. Si accomodò nella convinzione che avrebbe dovuto affrontare una lunga conversazione; venne affiancata da Sebastian, un ragazzo dall’eleganza tipica di quei borghi altolocati, non sarebbe mai potuta funzionare tra loro. Non riusciva a comprendere come avesse fatto in passato ad innamorarsi di lui, non era ciò che cercava in un uomo, non riusciva a riscoprire la stessa spontaneità di Christian in lui, la stessa umiltà e genuinità.
«Papà, risparmiami i convenevoli, perché sono qui?»
Il manager aveva estratto alcuni documenti dal cassetto della scrivania e aveva recuperato una biro da un piccolo portapenne in argento lucido.
«Vuoi che io sia diretto? Va bene. Ti offro l’ultima possibilità per decidere il tuo futuro, però ti chiedo di riflettere attentamente, perché non si tratta solo di te, ma anche del futuro di tua figlia»
«Perché mi stai dando un ultimatum?»
«Ho necessità di garantire un futuro all’azienda. Sebastian avrà una quota con o senza di te. Per quanto tu creda il contrario, è stata una cortesia da parte nostra convocarti»
Conosceva suo padre, sapeva quanto bramasse un piccolo segno di apertura, sapeva che non sarebbe stato uguale un rifiuto o un'accettazione da parte dell'unica erede di sangue, lo leggeva oltre i suoi occhi, impenetrabili per tutti, ma non per la sottoscritta; il fatto che li avesse delusi in passato negando il suo posto nell'azienda di famiglia, i cui guadagni erano stati estesi dagli antenati remoti e prossimi con grandi sacrifici, li aveva feriti e solo accettando avrebbe potuto curare il loro dolore. Leggeva questo tormento soprattutto in suo padre, aveva da sempre il desiderio di lavorare accanto a sua figlia, trasmetterle il suo sapere e un giorno lasciare a lei le redini di quell'impero commerciale.
«Ho già deciso il mio futuro. Alisia sarà altrettanto libera di scegliere quando sarà abbastanza grande per poterlo fare. Mi dispiace mi abbiate chiamato per questo, credevo aveste accettato le mie aspirazioni»
«Sposarti con un Navy SEAL da un giorno all’altro non è un’aspirazione! Speravamo che ti realizzassi, portassi avanti il nostro lavoro e onorassi il tuo cognome»
«Christian rappresenta il miglior futuro a cui potessi aspirare e se Dio ha intenzione di riportarlo a casa sano e salvo, ti giuro che non ho alcuna intenzione di lasciarlo per la tua azienda o per qualsiasi tua altra scelta sulla mia vita»
Si alzò dalla sedia dai filamenti in avorio con la stessa determinazione impiegata il giorno in cui aveva deciso di salire su un volo diretto verso lo Stato della California; la scelta di Katherine era radicata nel suo cuore, era consapevole, non era mai stato un capriccio e non rappresentava l'incoscienza della giovane donna inesperta del mondo che era stata in passato. Lanciò uno sguardo sprezzante in direzione di Sebastian e uscì con l'eleganza di chi non si faceva sopraffare dalla rabbia, ma la conteneva nell'anima e la impiegava al fine di imboccare la strada migliore per spendere la propria vita. L’uomo che aveva assistito in silenzio alla breve discussione tra padre e figlia la seguì; non si era intromesso, non lo aveva ritenuto opportuno, lui non era di famiglia, era doveroso entrare in affari privati, che fossero di lavoro o affettivi, in punta di piedi.
«Alisia»
Katherine aveva chiamato sua figlia impaziente di uscire da quella reggia tanto disprezzata da lei, attendeva la bambina sulla soglia della porta principale con la speranza che lei non indugiasse un minuto di più a seguirla; la piccola stava tardando, offrendo a Sebastian l’occasione per raggiungerla.
«Qualsiasi cosa tu debba dirmi, lascia perdere»
L'uomo si era avvicinato a lei con cautela, entrambi nutrivano insicurezze nei confronti dell'altro.
«Tuo marito è partito?»
«È in Afghanistan»
Lo informò distrattamente, non smetteva di gettare occhiate in direzione del punto oltre il quale la figlia era scomparsa insieme alla madre.
«Credo sia uno dei motivi per il quale non riescano a vedere di buon occhio quell’uomo»
«Non sei nella posizione migliore per fare la morale a Christian»
La donna lo aveva fulminato con disprezzo, lui non avrebbe potuto aspettarsi altro da un antico amore ferito e risentito.
«Grazie per non aver detto ai tuoi cosa ha posto fine alla nostra relazione. Ne avresti avuto tutto il diritto»
«Forse perché non sono schifosa quanto te. Sebastian, non mi importa più nulla che tu mi abbia tradita con una delle mie più care amiche, non mi importa né di te né di lei e tantomeno dell’azienda, è tua, la puoi tenere. Non sto giudicando le tue doti manageriali, sono certa che mio padre abbia preso la decisione migliore, ma tenetemi fuori»
Sebastian incassò il colpo, la comprendeva, anzi condivideva il giudizio che aveva maturato nei suoi confronti nel corso degli anni. Katherine aspettava solo sua figlia, non vedeva l’ora di tornare a San Diego, del resto non le importava.
«Alisia. Dobbiamo andare»
«Te ne sei andata perché ti ho tradita?»
Katherine rifletté sulla domanda inaspettata che le era stata posta, stavolta gli rispose catturando i suoi occhi.
«Ora capisco perché tra noi è finita, non sei mai stato in grado di capirmi»
La bambina giunse in compagnia della madre; la signora di casa non osò proferire parola, ma era dispiaciuta che la permanenza della figlia si fosse conclusa così presto. Sebastian catturò l'attenzione della bagnina sfiorandole un braccio prima che se ne andasse insieme ad Alisia e senza porgere loro un saluto.
«Kathe. Non sei dell’umore per decidere, parlane con tuo marito, prendete insieme una decisione»
Solo in quel momento, con quel gesto azzardato che la riportò prepotentemente indietro nel tempo,  la donna si accorse che all’anulare di Sebastian vi era infilata una fede; aveva trascorso quel breve incontro a disprezzarlo implicitamente e esplicitamente, ignorando il resto e tutto il contesto che ruotava intorno a loro e che con gli anni era mutato, non solo per lei. Sussurrò la sua ipotesi, aveva timore di sapere, paura che un dolore sopito potesse riemergere, come se le persone in cui aveva riposto la sua più sincera fiducia non avessero terminato di infierire sul suo cuore.
«L’hai sposata»
Non la riguardavano più le loro vite, chi frequentassero, quale relazione intrattenessero tra loro, eppure si sentì tradita di nuovo da lei e da lui, come se il suo mondo non fosse davvero mai stato a New York, come se tutto sotto il cielo fumoso della metropoli non le desse valore; se n'era andata, ma ciò non li autorizzava a svalutare l'amore e l'amicizia che avevano condiviso, le avevano dimostrato per l'ennesima volta quanto i loro sentimenti nei suoi confronti non fossero mai stati sinceri. Non li sentiva nemmeno lei da diverso tempo, non avrebbe potuto sapere quanto i due si amassero, tanto da pensare di ufficializzare la loro unione, non era stata quindi solo un'infatuazione come avevano voluto ingenuamente farle credere. Lo sguardo imbarazzato di Sebastian le diede la conferma.
 
 
Los Angeles, 5 settembre 2018
 
Margaret non era una donna dedita all’attesa. L’attesa la uccideva, la accendeva, la logorava, le mostrava di non essere nel giusto, come se in qualche modo non riuscisse a mostrare vicinanza all'amato. La realtà era diversa, era lei ad avere bisogno del più piccolo indizio della sua presenza. Scoprì la sua debolezza, quando l’istinto la guidò nella stessa redazione in cui lavoravano il padre e il fidanzato. Si era accomodata alla scrivania di Samuel e aveva lasciato che il suo profumo la inondasse; il suo ricordo veniva emanato da ogni oggetto, carta, biro. Aveva lasciato tutto rigorosamente in ordine come se dovesse partire per un lungo viaggio. Lui era partito per un lunghissimo viaggio in un luogo remoto.
Aprì con attenzione uno dei cassetti; non scelse il primo, sicura che fosse dedicato a documenti di lavoro, ispezionò il terzo e ultimo, il meno scontato. Lo conosceva, sapeva che in quell’angolo di mondo, del suo mondo, avrebbe trovato gli effetti più personali, ciò che riguardava anche la loro relazione. Qualche foto riposta gelosamente sul fondo rivelava l’uomo dietro il giornalista; la loro felicità si respirava attraverso le istantanee che sfiorava con le dita, erano solo due giovani innamorati desiderosi di trascorrere qualche ora insieme, lontani da ogni sorta di incombenza. Le responsabilità sarebbero sopraggiunte con il matrimonio, si ripeteva Margaret, non avrebbe mai creduto che un viaggio di una simile entità potesse allontanarli bruscamente. Nelle sue vene non scorreva nemmeno la più piccola percentuale di serenità, eppure davanti agli occhi del fidanzato ritratti nei loro ricordi le sfuggiva più di un sorriso. L’ambiente in cui si trovava le trasmetteva una malinconica sensazione di casa; lo aveva conosciuto sotto le luci al neon di una redazione mediamente frenetica, gestita da un direttore intransigente che, se tutto fosse andato per il verso giusto, sarebbe diventato suo suocero.
Non aveva sue notizie da qualche giorno, le mancava sentire la sua voce, poche sillabe, anche solo un sospiro dall’altra parte della cornetta, sarebbero state un inequivocabile segnale di vita. Niente, vuoto totale e il tempo scorreva sempre troppo lentamente. L’Inferno dantesco era nulla in confronto a ciò che stava patendo il suo cuore sotto una velata patina di disillusione; non ostentava mai le emozioni, ma le provava, forse addirittura amplificate, tanto che un giorno il petto le sarebbe scoppiato, sempre in silenzio, ma difficilmente avrebbe potuto resistere ad una pressione così intensa.
Era conservato qualunque tipo di ricordo nel cassetto, rappresentavano attimi che Margaret era riuscita a strappare alla frenesia di Samuel, sempre attivo nel campo in cui amava prestare servizio. Tra gli oggetti era spiccato un foglio, una fotocopia, che evidentemente non serviva più, utilizzata sul retro; la calligrafia del giornalista solcava il lato bianco e intonso dai segni di inchiostro meccanici, a caratteri grandi in cima vi era scritto:
 
Promesse
 
Il cuore della giovane iniziò a pompare rapido nella gabbia toracica, era indecisa se proseguire o se fermarsi e risparmiarsi un ennesimo dolore. Non poteva sapere a quando risalisse quello scritto, era certa però della sua autenticità. Si convinse che non fosse giusto anticipare i tempi, le avrebbe lette lui nel giorno del loro matrimonio; magari le avrebbe anche modificate, dopo un viaggio in territorio bellico si faceva ritorno sicuramente diversi. Ripose il foglio nell’esatto punto in cui lo aveva trovato con un unico pensiero: la spaventava immaginare cosa stesse vivendo, quali situazioni fosse costretto ad affrontare. Nell’esatto istante in cui richiuse il cassetto, una voce dai toni possenti richiamò la sua attenzione.
«Margaret. Cerchi tuo padre?»
«Signor Clark. Mi scusi, mi sono presa la libertà di …»
La ragazza si era alzata in segno di rispetto, quasi intimorita per l’azione che si era permessa di compiere.
«Resta, non credo che a mio figlio dispiaccia. Stavo scendendo per un caffè. Ti va? Posso offrirtelo?»
Non era certa di aver compreso le parole del suocero, ma si affrettò ad accettare un evento così raro. Il loro rapporto era sempre stato piuttosto inesistente, eppure l’aveva scortata con risolutezza e abitudine alla macchinetta che avevano a disposizione in redazione e si era premurato di preparare due tazzine, per sé e la sua ospite.
«Mi raccomando, non dire a Delilah che ho preso un caffè ristretto»
Le aveva addirittura accennato un sorriso, era leggero ma per nulla forzato. Daniel si era seduto al tavolo davanti alla ragazza, aveva indugiato sullo zucchero, infine lo aveva scartato.
«Signor Clark, si sente bene? Mi scusi se mi permetto, ma la trovo strano oggi, come se qualcosa la preoccupasse. Ha ricevuto notizie da Samuel?»
«Desideravo parlarti proprio di lui, ma non per angustiarti con notizie nefaste»
Margaret non seppe se rallegrarsi o spaventarsi, il cuore le era salito fino alla carotide, bloccandole respiro e circolazione. 
«Mio figlio sarà a Kabul per qualche mese, io non ho mesi a disposizione. Mia figlia sostiene che se non affronto un’operazione chirurgica nei prossimi giorni, potrei avere gravi complicazioni e la situazione potrebbe non essere più recuperabile»
La ragazza fu colta alla sprovvista, era inconcepibile e impensabile ciò che le aveva appena comunicato; non poteva essere vero, non poteva un'ennesima preoccupazione colpire la loro famiglia. Aveva così strenuamente giudicato quell'uomo, il rapporto che teneva nei confronti del figlio non le piaceva, ricadeva sul fidanzato e sulla loro relazione sentimentale, ma ciò non metteva in discussione il rispetto che nutriva nei confronti del direttore e che aveva sempre mantenuto fin dalla loro conoscenza.
«Mi sta dicendo che è malato?»
«Ti sto chiedendo di restare accanto a Samuel quando farà rientro e di non informarlo delle mie condizioni di salute. A Delilah ho già chiesto riservatezza. Ti chiedo scusa, Margaret, ti stava per sposare ed io gli ho proposto un servizio in Afghanistan. Mi rendo conto ora di aver sbagliato, non ho dato valore al vostro legame»
 
 
Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 6 settembre 2018
 
Il generale Flores protestava contro il vento di scirocco per i chiari risultati dell’avventatezza dei suoi soldati. Aveva chiesto a Richardson e a Ward di effettuare una semplice ronda di perlustrazione tra le vie cittadine e di rientrare subito alla base, invece avevano intrapreso uno scontro a fuoco non organizzato con i talebani; non gli importava troppo il motivo dell’impresa, la questione più rilevante era che non fosse stato autorizzato da alcun loro superiore, men che meno da lui. Il risultato per Christian era uno stato di coma pesante dal quale non si era ancora ridestato. Gwendoline aveva rifiutato il soggiorno in ospedale, aveva chiesto di lasciarlo riprendere alla base, sotto le sue cure non sarebbe mai rimasto solo. Il rigido generale aveva concesso la richiesta della recluta, ma non aveva ancora accettato il comportamento irresponsabile dei due; in poche ore stavano rischiando di mandare a monte un’importante operazione di salvataggio.
Avrebbe voluto e dovuto affrontare il tenente Richardson, ricordargli la sua posizione in quanto veterano di guerra; era davvero cambiato, si faceva distrasse dai dettagli, aveva salvato una vita e messo a repentaglio quella di centinaia di persone che attendevano solo di essere salvate da lui. Non avrebbe mai compreso la mentalità di un Navy SEAL sempre troppo avventato, cauto allo stesso tempo ed estremamente sensibile di fronte alle problematiche umane. Era giunta l’occasione per Flores di mostrare la sua umanità, la stessa di cui accusava spesso il capitano, la stessa che era riaffiorata quando tra le sue mani era passata una lettera spedita da San Diego e scritta dalla signora Katherine Richardson. Non rimase impassibile davanti alla busta e a quel nome, si era concretizzato in un istante il passato del seal, come se volessero insinuargli i sensi di colpa per le decine di chiamate a cui non aveva voluto dare risposta. Stavolta però Flores non si sentì di voltare le spalle a quella donna; era tardi, sapeva di consegnare una lettera ad un uomo la cui mente era sopita, ma confidava che il soldato Ward avrebbe fatto tutto il possibile per recapitare al tenente le parole della moglie. Tra il generale e la recluta nel momento del passaggio ci fu un brevissimo dialogo; il superiore agli occhi di Gwendoline parve quasi mortificato, ma oltre la ragazza non riuscì a scorgere, teneva inusualmente il capo chino verso il basso. La giovane era devastata dagli ultimi eventi, il suo volto era segnato da solchi profondi di sale; la lucidità l’aveva abbandonata già da diverse ore, si impegnava a ripulire le ferite minori sul volto del capitano, teneva fresca la sua fronte, il caldo della divisa e dell’esplosione avevano infiammato la sua pelle. Non stava bene, ma era stabile, così le avevano riferito i medici, motivo per il quale era necessario attendere il suo risveglio e constatare in seguito i danni provocati dalla granata.
Gwen sapeva che il capitano era l'unica speranza per i soldati e per i civili ancora nel nosocomio che lottavano giorno dopo giorno tra la vita e la morte; prima dell’eroe però, lei scorgeva l’uomo, l’uomo che non aveva indugiato ad anteporre la vita di una donna e di sua figlia alla sua, l’uomo che aveva risparmiato un piccolo nemico perché ancora così ingenuo da non sapere verso quale direzione si trovasse il bene, l’uomo che temeva di aver eliminato un talebano che non si poneva alcun problema ad uccidere a sangue freddo chiunque si fosse frapposto sul suo cammino. Era un onore ricevere ordini da lui; il cuore di Christian era sempre animato da buone intenzioni, anche – e spesso – a discapito della sua stessa vita. Rashid e Nazaha avevano pregato Gwendoline di ringraziare il tenente per ciò che aveva fatto per loro. La recluta aveva legato al collo del superiore il pendente della sua fede nuziale, il ragazzino l’aveva restituita, sottolineando quanto fosse stato un uomo di parola; aveva consentito ad una bimba di sorgere alla vita in mezzo ad un campo di morte, aveva donato speranza alle donne e alla Nazione intera, aveva consentito alla figlia di un amore sincero di non venire soffocata da assurde regole che offuscavano il cuore umano.
Il Navy SEAL aveva garantito a Gwendoline che avrebbe salvato il suo Alex. Non aveva trasgredito a quella promessa, aveva trascorso giorni a dettagliare il piano definitivo. Non si sentiva di rimproverargli qualcosa, era in quelle condizioni solo per colpa della sua bontà e lei era molto orgogliosa di lui. Non era certa fosse corretto da parte sua aprire la lettera di sua moglie e leggerla ad alta voce, sperando che ciò lo stimolasse a reagire e accompagnasse il suo auspicabile risveglio. Aprì con facilità la busta, troppa, stava violando un’area riservata che in condizioni usuali era sempre opportuno rispettare; non stavano vivendo però una situazione normale. Vi era contenuta una missiva e in allegato una foto; era la prima volta che Gwen scorgeva i volti di Katherine e Alisia, fu un momento commovente, una semplice istantanea aveva reso reale la famiglia del superiore. La recluta comprese facilmente l’amore che professava per quella donna; era molto bella e dal sorriso traspariva dolcezza, teneva stretta al petto la figlia – così somigliante ad entrambi i genitori –, anch’essa sorrideva verso l’obiettivo con la convinzione negli occhi di poter raggiungere con un semplice sguardo il padre e coprire gli infiniti chilometri che li dividevano. La ragazza ripensò alla scelta del capitano di restare, di aiutarli e quindi di aiutare anche lei, a discapito di tutto, della sua famiglia; si sentì morire nell'anima, lei non aveva più nulla da perdere, ma Christian rischiava di rovinare un bene troppo prezioso e fragile – lei sapeva quanto lo fosse –, non poteva pensare di togliere il padre a quella bambina o un marito alla propria moglie, Gwen lo aveva già vissuto all’interno della sua famiglia e sarebbe stato terribile per loro provare un simile dolore.
Dispiegò la lettera, convinta che quella lettura l’avrebbe devastata, ma era certa fosse necessaria.
«Ciao, amore mio. Non ho osato chiamarti, né tantomeno cercare di organizzare una videochiamata, anche se avremmo voluto tanto poterti rivedere. Ho preferito scriverti, spero per te possa essere più comodo trovare un po’ di tempo per leggere queste poche righe …»
Alla ragazza servì qualche istante per riprendere fiato. Si accomodò con leggiadria accanto al fianco del capitano, su quel materasso così scomodo da sembrare pietra e ricominciò la lettura, quasi sussurrando le parole - era molto vicina al capitano, le avrebbe percepite ugualmente - di una moglie affranta ma innamoratissima. Il tratto di inchiostro era tremolante, le parole erano profonde e rese ancora più sofferte dall'agitazione che traspariva dalla mano che le aveva prodotte; dava l'idea di voler mostrare più serenità di quanta non ne provasse realmente.
«… Non ho idea di quando ti sarà recapitata questa busta, ma immagino dopo il 4 settembre, quindi buon compleanno Chris, prego ogni giorno il cielo che ti preservi in salute. Sono quasi certa tu abbia dimenticato i tuoi quarant’anni, ami molto di più festeggiare il compleanno degli altri. Alis però non è del tuo stesso avviso, è indaffarata in questi giorni, vorrebbe tanto mostrarti un piccolo regalino che ti sta costruendo, ma penso che riuscirà a consegnartelo non prima di maggio. Nei prossimi giorni partirò per New York, mi stanno aspettando i miei, stai tranquillo non ho alcuna intenzione di cedere alle loro richieste, ma ciò non toglie che affrontarli senza te al mio fianco mi renda spaesata, non riesco a nascondertelo. Quando torni, pensiamo ad allargare la nostra famiglia (Will se lo è fatto sfuggire). Ti amo tanto. Sempre tua, Kathe»
Aveva letto le parole di una donna piena di speranza con lo sguardo rivolto al futuro; la ammirava molto, più di quanto non facesse già. Gwendoline piegò con cautela la lettera e la fece scivolare sotto le dita di Christian.
«Auguri, capitano. Le auguro ogni bene possibile»
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Samuel era stanco nel corpo e nello spirito; soffriva di una spossatezza che non sapeva attribuire ad una causa specifica. Negli ultimi giorni aveva riposato poche ore, aveva completamente dimenticato le avvertenze della sorella, nonostante la debolezza fisica lo rendesse più suscettibile alla malattia. Non aveva abbandonato Karim, si impegnava affinché la tubercolosi non lo logorasse, sperava sempre di allontanare la morte di un altro passo, si augurava di guadagnare tempo nell’attesa del farmaco dall’Occidente. In quel Paese dimenticato dal buon Dio, gli antibiotici erano rari, più miracolosi della manna dal cielo, le risorse non coprivano il fabbisogno della popolazione. Samuel, da buon americano nato e cresciuto con ogni comodità, non riusciva ad accettare che la vita di un uomo scivolasse così facilmente dalle mani senza la possibilità di impedirlo. Lo aveva vegliato con coraggio, interrompeva la sua accorata veglia solo per cercare il farmaco che, se somministrato in tempo, avrebbe salvato la vita all’amico. Si occupava lui soltanto di quel medico, impediva a chiunque altro di avvicinarsi.
L’ardua impresa del giornalista era stata bloccata quando venne informato da Gwendoline delle condizioni di Christian. La recluta aveva spiegato a Samuel le dinamiche dell’incidente; da parte del reporter non ci fu alcuna comprensione, era corso alla base americana arrabbiato, era poco comprensivo nei confronti di scelte così avventate, non aveva pensato quanto avrebbero potuto ferire sua figlia; Samuel aveva fin troppa esperienza sulla poca attenzione ai sentimenti da parte di padri superficiali, Christian non era altrettanto insensibile, ma al contrario troppo altruista verso chicchessia.
Si imbatté nella recluta in lacrime al capezzale del seal; pregava e vegliava, un’attività che lei e Samuel avevano condiviso negli ultimi giorni ai piedi di giacigli differenti. Gwendoline non aveva alzato lo sguardo dal tenente, ma aveva avvertito la presenza amica dell’ultimo arrivato.
«Dicono sia normale, è stato un evento traumatico per il suo fisico. Sostengono che potrebbe avere disturbi all'udito»
Il giornalista si avvicinò a lei di qualche passo, era intenzionato a confortarla; il volto ferito del capitano scorto a pochi centimetri fu un pugno nello stomaco per lui, ma non era il caso di abbandonarsi allo sconforto, non era nella sua indole.
«Ehi. Andrà tutto bene, Chris si sveglierà»
«Sono stanca, chiunque entri nella mia vita soffre, mi chiedo se non sia io il problema, Samuel»
Non la abbracciò solo per paura di contagiarla con la stessa malattia di cui soffriva Karim.


 

 
Ciao ragazzi!
Finalmente ho avuto la possibilità di aggiornare ^^, in ritardo ovviamente, scusatemi.
È faticosissimo documentarmi su ciò che rimane oggi del World Trade Center e sulla sua ricostruzione, navigo su un terreno difficile da rivivere, la rete è piena di materiale informativo strappalacrime. Spero di aver scritto l’essenziale e di non aver infuso troppa tristezza anche a voi <3. In questo capitolo ho cercato di raccontarvi come se la stia cavando buona parte dei personaggi della storia senza dilungarmi troppo (intenzione fallita, me ne rendo conto), nei prossimi capitoli ci sarà occasione per sciogliere la suspance su ogni aspetto.
Grazie di cuore a tutti gli intraprendenti che seguono con passione le avventure di questi ragazzi <3
Alla prossima!
Un grande abbraccio
-Vale
 
 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18_Tradimento ***


Tradimento


 



NB Verrà fatto cenno a temi molto delicati che prendono spunti da fatti reali. In fondo al capitolo troverete gli opportuni riferimenti alle fonti e ad eventuali approfondimenti.
 
 
 
 
Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 10 settembre 2018
 
A seguito di un secondo trauma, il risveglio per Christian non fu affatto semplice. Il corpo del Navy SEAL possedeva già qualche cicatrice di guerra, nulla di rilevante però rispetto all’ultima piuttosto vasta procurata da Rashid; la granata gli aveva provocato piccoli tagli un po’ ovunque, il più profondo si trovava sotto la mandibola accanto al pomo d’Adamo ed era coperto da un cerotto per evitare eventuali infezioni. La testa del tenente, subito dopo il ritorno alla realtà, aveva picchiato intensi rimbombi per svariate ore, come se un martello pneumatico gli stesse trapanando il cervello senza sosta; negò ogni sorta di antidolorifico, non era necessario consumare le scorte già abbastanza ridotte, anzi non era conveniente abusare di medicinali se non vi era lo stretto bisogno, lui non assumeva volentieri nemmeno gli ansiolitici prescritti dal medico di fiducia. Era vivo ed era ciò che contava, ogni effetto collaterale dell’esplosione era poco importante.
Il capitano aveva già avuto modo in passato di conoscere i terribili retroscena tra le schiere militari americane, fatti di dipendenze e abusi; per riuscire a tornare in Patria con la stessa sanità mentale e la medesima salute fisica serviva un’incorruttibile forza di volontà. Christian possedeva una morale che non aveva alcuna intenzione di macchiare nell’arco di nove mesi. Il seal sperava che tra i soldati dell’unità militare presso cui soggiornava non circolassero droghe sintetiche; era noto l’uso di anfetamine in campo bellico, l’Afghanistan non faceva alcuna eccezione, come anche gli schieramenti alleati che avrebbero dovuto portare man forte all’esercito locale e alla popolazione indifesa. Le difficili condizioni di vita al fronte spingevano i militari a sfruttare gli effetti benefici delle droghe in modo da resistere alla fatica fisica; insieme allo sforzo i militari perdevano anche ogni inibizione, ogni scampolo di giudizio, erano euforici quanto bastava per sopravvivere. L’assuefazione giungeva presto, trasformandoli in tossici; una volta in licenza, non erano più le persone che erano partite, erano sopravvissuti, ma gli strascichi fisici e morali li avevano seguiti fino negli Stati Uniti e si declinavano in dipendenza. Christian confidava nel generale di ferro - come era solito definirlo lui -, il suo superiore non era così insensibile da consentire un simile abominio all'interno dei confini, tracciati dal filo spinato, della sua base operativa. D’altra parte, era la medesima strategia a cui ricorrevano i terroristi; veniva definita droga della Jihad ed era la stessa che privava i kamikaze dell’umanità necessaria che avrebbe impedito innumerevoli stragi[1].
Il ronzio dell’esplosione faticava a dissolversi nei timpani del seal. Dopo giorni dal risveglio, aveva riportato un abbassamento dell’udito ed era molto fastidioso non riuscire a comprendere completamente le parole di coloro che lo circondavano; gli avevano assicurato che sarebbe stato un handicap temporaneo e che anche l’equilibrio, che aveva subìto un leggero trauma, avrebbe riacquistato la sua piena funzionalità. Christian non poteva attendere che le sue facoltà sensoriali venissero riabilitate, doveva liberare un ospedale nel più breve tempo possibile; il piccolo talebano che avevano salvato rappresentava per lui e la sua unità una fonte inesauribile di informazioni, una sorta di eldorado che sarebbe potuto tornare molto utile. Rashid si era trasformato in un infiltrato senza la reale intenzione di esserlo; Christian conosceva bene i rischi che il ragazzino avrebbe corso se lo avessero scoperto, ma il tenente lo avrebbe protetto da qualunque pericolo.
Si trovavano nel familiare quartier generale della loro base, l’unico rifugio a cui potessero aspirare. Gwen si era accomodata accanto a Rashid, stringeva la mano del talebano nei suoi palmi; il giovanissimo soldato stava crollando sotto le pressioni del capitano. Christian non comprendeva l’enorme sacrificio che stava chiedendo a quel giovane; per quanto la sua famiglia fosse discutibile, non era facile tradirla all’età di soli dodici anni, nonostante gli americani gli avessero mostrato fiducia reciproca. Il ragazzino stringeva tra le sue dita quelle della recluta; erano soffici le mani di Gwendoline, gli ricordavano quelle della madre, gli offrivano l’illusione di essere ancora a Takharand, da dove lo avevano rapito e reclutato contro il suo volere. Lo sguardo di Rashid era rivolto al pavimento grezzo che si trovava ai piedi del tavolo. Il seal sovrastava il ripiano in legno, poco curante delle schegge di legno marcio che avrebbero potuto infilarsi nella carne dei palmi, metteva pressione al giovane fisicamente e moralmente, motivo per il quale il loro ospite non osava avvicinarsi, la sua sedia era scostata di qualche metro dal bordo; se avesse potuto avrebbe indietreggiato fino al muro, la ragazza al suo fianco lo tranquillizzava con dolcezza, gli impediva di spaventarsi davanti alle insistenze del tenente, la giovane tentava di contenere il suo evidente tremore. A nulla valsero gli sguardi del soldato Ward indirizzati al suo superiore, l’ufficiale opprimeva il talebano in cerca di un aiuto, il tempo scarseggiava, Gwendoline avrebbe dovuto saperlo più di tutti.
«Sono stato io!»
Il tono immaturo – leggermente roco e ibrido - era rimbombato tra le pareti dell’enorme stanzone, fatto di pietra, ferraglia e umidità. La fronte del ragazzino era imperlata di sudore e il caldo c’entrava solo in parte; aveva appena confessato un magone che portava nel cuore da svariati giorni. Christian e Gwendoline si scambiarono uno sguardo d’intesa vano, non riuscivano a capire a cosa si stesse riferendo.
«Sono l’artefice degli ultimi attentati a Kabul. Ho posizionato io le bombe. Avrebbero così tutti pensato ad un kamikaze, invece nessuno di noi è morto, solo civili e vostri soldati. Sono davvero un assassino, capitano, ti sei sbagliato sul mio conto»
La voce di Rashid era incrinata, provava vergogna, tanta, troppa per essere egli stesso una vittima in vita. Per i due militari la notizia equivalse ad un colpo al cuore: un futuro uomo con un’intera vita davanti a sé era stato macchiato di omicidio. Le iridi azzurre del Navy SEAL avevano assunto tonalità fiammeggianti e gridavano tutto il suo sconcerto; lo stava redarguendo attraverso il silenzio, ancor più stava rimproverando lo squallore che dilagava in Oriente, un mondo distante anni luce rispetto all'Occidente, dove, nella maggior parte dei casi, vi era la finezza mentale per distinguere quantomeno un bambino da un adulto. Per Rashid era falso affermare che non volesse arrecare male ad alcuno, era ciò che gli era stato insegnato da quando – all’età di sei anni – era giunto a Kabul ed era stato allevato come un guerriero dagli abitanti di un villaggio che distava solo un paio di chilometri da Kabul.
«Mi dispiace, capitano»
Era sincero, dopo aver conosciuto i due militari sentiva i morsi della colpa, una colpa gravissima che un bambino non avrebbe mai dovuto nemmeno concepire, sia per sé che per altri.
«Cos’altro hanno in programma per la città e l’ospedale? Rashid, la verità!»
Christian aveva gridato, incurante di essere stato aggressivo, l’udito leso non gli riproponeva la reale intensità della sua voce.
«Capitano, è solo un bambino! La prego, non esageri»
Gwendoline lo aveva supplicato, avvertiva il tremore del ragazzino diventare sempre più intenso, era spaventato; le parole della giovane non suonavano come un rimprovero verso il superiore, desiderava placare gli animi, il nervosismo non avrebbe aiutato nessuno di loro, ciononostante risultò perentoria e infastidita dal poco tatto del seal nei confronti di un bambino che aveva già vissuto i peggiori orrori.
«Mi dispiace. Loro hanno prelevato me da casa e Nazaha dalla madrasa[2] di Takharand. Ci hanno allontanato dalla nostra famiglia con la forza. Non siamo più tornati nel nostro villaggio, siamo lontani dai nostri genitori da sei anni. Capitano, io eseguo solo gli ordini, mi hanno addestrato per obbedire in cambio della mia vita e di quella di mia sorella. Dopo il tradimento di Nazaha non so cosa accadrà, non so se si arrenderanno, ma per favore non fateci tornare in mezzo a loro. Ci uccideranno. Mia sorella voleva solo essere libera e amare un uomo che la ricambiava, nulla di più, Dio non può essere contro questo»
La storia dei due ragazzi fu toccante per i soldati. Era crudele il destino per coloro che nascevano in quei territori. Gwendoline non aveva idea dell’opinione che potessero aver maturato verso i militari i giovani reclutati dai talebani, ma loro non avevano alcuna intenzione di abbandonarli nelle mani di gente spietata, era certa di poter parlare anche per conto del superiore. La ragazza attirò a sé Rashid avvolgendogli le spalle, gli consentì di sfogare sul suo petto il dolore dei soprusi subiti nel corso degli ultimi anni; offrì la possibilità ad un bambino cresciuto troppo in fretta di tornare a sentire calore umano dopo troppo tempo in cui davanti ai suoi occhi vi erano state solo morte e distruzione. Il cuore di entrambi batteva a ritmo irregolare; la recluta lo accarezzava in volto, raccoglieva le scie tiepide di sale che scorrevano sulle sue guance, posava la sua stessa guancia sul capo di Rashid tra i morbidi boccoli mori rivolgendo lo sguardo all’ufficiale. Christian sciolse il nervosismo davanti alla sofferenza di entrambi; circumnavigò il tavolo e si chinò piegando le ginocchia proprio davanti al ragazzino; modulò intenzionalmente il tono di voce, anche se il ronzio – a cui aveva fatto l’abitudine – copriva le sue stesse parole, fino ai pensieri più profondi.
«Siete al sicuro, calmati. Qui nessuno ha intenzione di riportarvi da loro. Nazaha e la sua bambina saranno aiutate, tu non sarai più costretto a toccare un'arma in vita tua. Ma prima, Rashid, ho davvero bisogno del tuo aiuto, ti chiedo di rivivere un'ultima volta quell'orrore. Svesto gli abiti militari, indosso quelli civili e mi scorti tra i talebani. Dobbiamo scoprire cos’hanno in mente e solo tu puoi aiutarmi. Ti prometto che nessuno oserà farti del male, finché sarai accanto a me»
Per il piccolo soldato era stata una proposta dolce, nessuno da quando si trovava a Kabul gli aveva mostrato attenzione, nessuno lo aveva considerato una persona; lui era al pari dei kalashnikov che impugnavano i jihadisti e sua sorella, dopo essere stata una schiava, era stata sposata dal suo aguzzino. Era difficile credere che una speranza per loro si stesse aprendo all’orizzonte. Rashid stava accettando il piccolo compromesso che Christian gli aveva domandato in cambio della libertà, ma per il giovane era solo il degno contraccambio di un favore che valeva la vita. Il fiato spezzato di Gwendoline fu molto più rapido di quello del suo protetto.
«C-capitano, lei non può farlo. Il generale Flores …»
«Mi assumo ogni responsabilità davanti al generale. Dirò che hai tentato di fermarmi»
«Signore, ha ripetuto decine di volte a me di essere prudente, non impulsiva ed ora …»
Le iridi del soldato Ward si inumidirono e si velarono, vi era la nebbia davanti a lei, era sfocato il mezzo sorriso del suo superiore. Si era affezionata a lui, non sarebbe stata in grado di pronunciare un ennesimo addio, il suo cuore non avrebbe retto.
«Vengo con voi, voglio accompagnarvi»
«Non pensarci nemmeno, Gwen. Stai tranquilla, ho intenzione di parlare con Flores. Non temere, avrò la sua benedizione»
Christian era stato costretto a leggere il labiale del sottoposto, le mancava il respiro e il poco fiato che la notizia aveva lasciato nei suoi polmoni era fermo tra la laringe e la faringe; non smetteva di sorriderle per rincuorarla, almeno fino a che non udì la voce flebile di Rashid.
«Capitano, non tutti i soldati che ci aiutano sono buoni. Alcuni miei amici sono spariti, li ha portati via l’esercito afghano. Puoi aiutare anche loro?»
«I nostri colleghi li avranno portati al sicuro»
Il ragazzino scosse la testa con convinzione; le usanze culturali in Medio Oriente erano note anche tra i più piccoli, i quali rappresentavano tutti i bambini che non avevano avuto il privilegio di trascorrere la propria infanzia godendo dell’innocenza di quegli anni. Rashid sapeva, sua sorella aveva subìto lo stesso trattamento, la stessa barbarie giunta a Kabul, non potevano stare bene, lui era stato forse il più fortunato.
«Loro li imprigionano, li picchiano e abusano di loro. È un loro diritto farci del male. È stata Nazaha a dirmelo, mia sorella sa che è sbagliato ed io mi fido di lei»
I militari impiegarono solo una manciata di secondi per realizzare la situazione, poi tutto fu drammaticamente chiaro. Gwendoline si limitò a stringere più forte Rashid al suo petto; era magrolino, dimostrava meno della sua reale età, il pensiero che creature come lui stessero subendo un destino simile le dilaniò l’anima. Lungo la gola di Christian un reflusso gli impedì di commentare, conseguenza anche dei numerosi giorni trascorsi in convalescenza; fu costretto ad inalare più ossigeno per impedire al conato di vincere sulla sua volontà. Il tenente gettò un’occhiata sfuggente al terreno sotto i suoi piedi, si alzò, recuperò il suo cappello posato sul tavolo e si diresse verso l’uscita, senza offrire ai presenti alcuna spiegazione. Provava solo odio, tantissimo odio viscerale. L'udito era ancora lesionato, eppure aveva sentito molto bene quella terribile confessione, purtroppo per il suo cuore messo già così duramente alla prova. Il suo unico desiderio era portare soccorso a quei bambini il prima possibile, erano vittime indifese sia dei talebani che li facevano combattere sia dei soldati che avrebbero dovuto aiutarli anche a costo della loro stessa vita.
«Capitano»
Gwendoline lo aveva raggiunto dopo pochi minuti, si stava dirigendo verso la torre che ospitava l’ufficio del comandante dell’unità militare. L’ufficiale l’aveva attesa, non aveva ignorato il suo richiamo, aveva indossato con orgoglio il berretto da Navy SEAL e si era voltato verso di lei.
«Ha capito anche lei che ... »
«Purtroppo sì. Occupati di lui, è traumatizzato. Non sono certo di poter cambiare le schifose usanze di questo posto, ma vale la pena fare un tentativo»


 
Periferia Ovest di Kabul, 10 settembre 2018
 
In pochi giorni Maryam aveva trasgredito a più di una regola, a cui era costretta a sottostare fin dalla nascita. Samuel era diventato una presenza costante nella sua vita; il mullà lo aveva ospitato nella loro umile abitazione, ma solo all’esterno di quelle mura era concesso alla ragazza entrare in confidenza con lui, lontano dagli occhi indiscreti di suo padre. Era sorpresa, non riusciva a capire come le voci dei connazionali che la conoscevano non fossero ancora giunte alle orecchie del capo del villaggio; forse la guerra toglieva la forza e la voglia per i pettegolezzi.
Era una di quelle rare albe in cui suo padre e suo fratello erano partiti per raggiungere il grande mercato di Kabul, i cui banchi erano collocati ad un chilometro dalla moschea di Sher Shah Suri che si trovava in un quartiere nella parte occidentale della capitale. L’imam[3] della moschea era un caro amico di famiglia, non lo vedevano da tempo ed era l'ora della preghiera, perciò era quasi certa che suo padre facesse tappa lì prorogando il rientro nel villaggio. Forse verso il primo pomeriggio avrebbe respirato di nuovo, Maryam stava male ogni volta che si allontanavano da lei per le cause più svariate; temeva che qualche attentato potesse interrompere la quiete tra i banchi del mercato o all’interno della moschea, durante una delle ore più sacre per la religione islamica. Non era così inusuale, il timore della giovane aveva ragioni fondate; nella provincia di Helmand vi erano attacchi giornalieri, avevano distrutto più volte il mercato a Sangin e a Kandahar; moriva chiunque in quei casi: donne, bambini, anziani, uomini, senza alcuna distinzione di sesso o strato sociale. Lei non voleva e non poteva perdere il resto della famiglia che Dio aveva avuto la clemenza di lasciarle accanto.
Si era totalmente dimenticata che Samuel si trovava in casa con lei. Le drammatiche prospettive che la sua mente aveva delineato le avevano consentito di perdere concentrazione, la mano del giovane le aveva impedito di rovesciare il liquido giallognolo quasi trasparente che stava versando in un bicchiere intagliato nel legno di platano, confezionato da suo padre con le piante cresciute sulle colline intorno a Kabul.
«Attenta, Maryam»
L’afghana alzò lo sguardo sul forestiero e sfiorò gli occhi nocciola che stavano sorridendo rivolti a lei. Avevano colto l’assenza del padrone di casa per poter conversare in tranquillità, oltre le formalità. Samuel, dopo giorni al capezzale di Karim, si era ritagliato un breve momento di ristoro per rinfrescarsi e radere l’accenno di barba che stava crescendo sulle sue guance; non vi era nulla di comodo nelle umili case dei civili afghani, solo un bacile di acqua fredda e un piccolo specchio poco riflettente, ma era meglio di niente. Il giornalista aveva ancora i capelli bagnati, era più in ordine rispetto ai giorni precedenti, ma era pallido, non ricordava l’ultima volta che aveva dormito almeno sette ore di fila.
«Cosa stai preparando?»
«È il raa[4], una bevanda tipica delle nostre parti. Non penso tu lo abbia ancora assaggiato, ma non puoi soggiornare qui senza averlo provato almeno una volta»
Maryam gli porse il bicchiere. Gli occhi della ragazza brillavano, orgogliosa delle sue usanze, sotto la stoffa del niqāb doveva essersi dipinto un grande sorriso, così sembrò all’americano. Samuel si bagnò appena le labbra, non osò di più, anche se si fidava di lei. Stava riflettendo sul verdetto, era concentrato su un punto qualsiasi davanti a sé; la ragazza lo scrutò e notò evidenti occhiaie sotto le ciglia inferiori, gli strappò il bicchiere dalle mani con fare apprensivo.
«Dovresti riposare, Samuel»
Il giovane annuì quasi divertito per la preoccupazione dell’afghana e recuperò la bevanda che Maryam aveva posato sul tavolo.
«Dovrei tornare da Karim. Prima però vorrei scambiare due parole con te, se tuo padre non torna prima. E, per la cronaca, mi piace, l’hai preparata tu?»
«Diciamo di sì»
Il giornalista si accomodò senza chiedere il permesso e con un’occhiata invitò lei a fare lo stesso, recuperando la sedia accanto a lui.
«Sentiamo, di cosa vuoi parlarmi?»
«Di te. Parlami dei tuoi sogni, delle tue aspirazioni, del futuro che …»
«Non sapevo fossi anche psicologo»
Maryam non ebbe bisogno di sentire altro, lo interruppe con risolutezza, si alzò e tentò di allontanarsi dagli assurdi spropositi di un occidentale dalla mentalità troppo aperta. Samuel non le consentì di compiere altri passi, le afferrò con delicatezza il braccio e la costrinse a voltarsi verso di lui.
«Maryam, non sto scherzando»
Sapeva perfettamente quanto desiderasse correre in suo soccorso, ma lui non era sacrificabile dalla sua cultura; non voleva rischiasse la vita a causa sua. Era commossa, non aveva mai ricevuto tanta dedizione.
«È fortunata la tua fidanzata. Può scegliere chi amare. Ha scelto te, Samuel, non devi deluderla, è categorico che tu debba tornare negli Stati Uniti sano e salvo. Non scontrarti con mio padre, è un uomo ancora più ottuso dalla morte di mia madre, non è cattivo, ma … Samuel»
Aveva lasciato all’improvviso la presa sulla ragazza, la sua mano era scivolata per poter posare il palmo sul tavolo. Si sentiva debole; pensò subito alla malattia che stava rendendo un incubo i suoi giorni e le sue notti, ma si tastò la fronte con il dorso della mano scoprendo con sollievo che era fresca, non aveva i sintomi della tubercolosi.
«Tranquilla. Sono solo stanco, provo a riposare qualche ora. Mi passa prima di quanto immagini»
 
 
 
Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 10 settembre 2018
 

«Generale, lei si rende conto di ciò che mi sta chiedendo?! Come posso voltarmi dall’altra parte! Mia figlia ha l’età di quei poveri bambini»
«È la cultura locale, capitano. Se la famiglia lo ritiene necessario può dare anche in moglie una bambina, lo sapeva?»
Flores era in piedi dietro la scrivania e lo ascoltava appena, aveva questioni più importanti da affrontare. Christian batté il palmo sul ripiano, con tutta la forza che la rabbia gli stava infondendo per attirare la sua attenzione.
«Questa è omertà, questo è uno squallore! Lei si sta rendendo complice di pedofilia[5]»
«Le consiglio di essere prudente con le accuse, capitano. Non si trova a casa sua e qui non stiamo parlando di sua figlia. Non ha motivo di infervorarsi»
Christian cercò di calmarsi, solo per semplice educazione. Flores fu costretto a concedergli qualche minuto del suo tempo, altrimenti non si sarebbe mai liberato di lui e delle sue chiare insubordinazioni; si tolse scocciato gli occhiali da vista, chiuse alcuni fascicoli e puntò lo sguardo severo sul seal. Non vi era più l'impedimento delle lenti sottili tra le iridi dei due; si scontravano in una sorta di sfida silenziosa che Christian non aveva alcuna intenzione di perdere.
«Capitano Richardson, forse lei non è al corrente del fatto che questi reati siano già stati segnalati al Pentagono[6]. Siamo ospiti in queste terre, non ci è consentita alcuna intromissione, noi portiamo solo aiuto per combattere gli estremisti. Il non intervento non rende noi dei complici. Non mi importa come intende gestire la sua morale, tenente, ha dimostrato più volte di essere un uomo d’onore, ma non avrà la mia protezione se deciderà di dichiarare guerra ai nostri alleati per questioni di ordine culturale. Spero di essere stato chiaro. Gradirei inoltre che per una volta uscisse da questa stanza come si conviene»
Christian non era convinto che le truppe americane stessero facendo il possibile per aiutare quei bambini innocenti, non era neppure certo di poter cambiare qualcosa, anzi da solo, senza alcun supporto, era destinato ad una rovinosa sconfitta. La conversazione con il generale aveva sfiorato solo un argomento su tre; il superiore l’aveva congedato, ma lui in ogni caso non aveva alcuna intenzione di restare un minuto in più in sua compagnia. Sfiorò e abbassò leggermente la visiera del cappello per uscire subito dopo dall’ufficio del generale, ma non vi era segno di rispetto in quel gesto. Si era sbagliato sul conto di Flores, non vi era morale in lui e ciò che stava consentendo era peggio della circolazione di droga tra i suoi soldati.
Appena fuori dalla torre, si concesse qualche istante per riacquistare lucidità. Si accomodò per terra sopra i ciottoli, ma non sentì dolore fisico. Gli sembrò di vivere nella peggiore distopia, non sapeva come modificare la realtà e nemmeno se lui avesse la reale facoltà per poterlo fare. Il conato di vomito tornò a bussare al suo stomaco, ma non mangiava nulla da ore, perciò non riuscì nemmeno a liberarsi del macigno che stava nascendo nel suo petto. Pianse silenziose lacrime amare, era troppo doloroso sapere di essere a pochi passi dal luogo in cui si stava consumando più di un efferato crimine e avere le mani legate.
Recuperò il suo cellulare, aveva una voglia terribile di rivedere la sua famiglia, di sovrapporre l'immagine della moglie e della figlia a quei pensieri. Gli era tremato il cuore quando al risveglio era riuscito a leggere le parole di sua moglie; non gli erano suonate nuove, doveva averle sognate e doveva aver sognato Katherine, non vi era nulla di insolito. Con poche probabilità sua moglie avrebbe accettato una videochiamata, non riusciva a calcolare che ore fossero a San Diego, era troppo scosso. Attese fissando lo schermo, si asciugò il viso bagnato da sale e sudore e attese impaziente che l’immagine della sua compagna apparisse. Fu sufficiente intravederla per strappare un sorriso alla sua sofferenza.
«Christian? Amore, mi senti? Che bella sorpresa mi hai fatto!»
L’immagine era un po’ sgranata, non la sentiva benissimo, sia per la connessione che per l’udito ancora debole a causa della bomba, ma la vedeva ed era raggiante.
«Ti vedo e ti sento, Kathe. Sei sempre bellissima»
Sembravano trascorsi mesi e invece non si vedevano solo da venti giorni. La donna avvicinò lo schermo al viso e scrutò meglio suo marito, non era certa che l’immagine riproponesse la realtà.
«Chris, hai pianto? Sbaglio o hai un cerotto sul collo, vedo bene?»
Era inutile mentirle, decise di non entrare nei dettagli, ma di lasciarsi comunque confortare da lei che era la sua compagna di vita e la sua confidente privilegiata.
«Come si fa secondo te a sopravvivere agli orrori della guerra? Sto impazzendo, Katherine»
Lei non lo sapeva, era una domanda molto difficile, troppo per colei che ne aveva una misera esperienza soltanto attraverso lo schermo di un televisore; il fatto però che suo marito stesse così male e non potesse ricevere nemmeno un abbraccio la rese impotente.
«Ti aspettiamo, Chris. Non vediamo l’ora che tu sia qui con noi. Passa tutto, poi, ti dimentichi dell’Afghanistan. Abbiamo altro insieme a cui pensare»
Gli sorrise, convinta che lui comprendesse la sua allusione. Christian l’afferrò, ma se solo Katherine avesse saputo le atrocità che si stavano consumando in quelle terre, avrebbe anche lei trascorso notti insonni e non era nemmeno certo che la lontananza dalla guerra avrebbe favorito la sua serenità.
«Siamo sulla spiaggia io e Alisia. Senti il rumore dell’oceano? Oggi è un po’ mosso»
Christian provò subito una forte malinconia per la sua amata California; prima che Katherine glielo facesse notare non aveva percepito il rumore della natura intorno a lei, era troppo preso da altro. Sentì lo scroscio delle onde conto la battigia, la linea ballerina non fu un impedimento e tutto ciò fu un toccasana per la sua anima tormentata; in un istante sentì San Diego e coloro che vi abitavano più vicini di quanto non fossero in realtà.
«Preferisco sentire le vostre voci»
Trascorse qualche attimo di silenzio tra loro, colmato solo dai loro sguardi che si scrutavano attentamente in ogni singolo dettaglio.
«Ti trovo bene, Kathe»
«Io ti trovo sciupato, invece»
L'uomo tentò di ostentare serenità, ma ormai la maschera era caduta all'inizio della loro chiamata ed era stato proprio lui l'artefice; la moglie non riuscì a nascondere la sua preoccupazione. Aveva tentato di ricomporsi nell'eventualità di doversi mostrarsi a lei, eppure non era riuscito nel suo intento, il suo aspetto era costantemente indecente, imbarazzante nella civiltà ma comprensibile al fronte, in quei territori la mente non era mai sgombra per le frivolezze. La famiglia, però, nonostante tutto, per ogni soldato aveva sempre un’influenza positiva, il suo pensiero, il fatto che ci fosse infondeva la forza necessaria per reagire e per non abbandonarsi allo sconforto, per non lasciarsi andare nonostante le mille avversità che la guerra per definizione prevedeva.
«Chris, ti stai riguardando?»
«Certo. Katherine, non è il massimo qui, ma sto bene. Alis?»
«È con William, sta prendendo un gelato al chiosco. Se hai tempo di aspettare, ora tornano»
«Ho tutto il tempo che vuoi»
Christian aveva una pena sul cuore troppo grande che portava il nome della sua famiglia e il segno insostenibile del tradimento, non riusciva a nasconderla a lei, non era solito mentirle. Il suo sorriso si spense, lasciando poca immaginazione sulla gravità della notizia che le stava per comunicare.
«Tesoro. Ho rifiutato un congedo da parte del mio superiore e devo affrontare un'operazione militare piuttosto complicata. Devo guidarla e non so quale esito potrebbe avere. Domani provo ad infiltrarmi tra i talebani, è l’unico modo che ho per cercare di salvare vite umane che contano su di me»
Un fiume in piena la travolse, una lacrima scorse sulla guancia di Katherine. L'immagine era sgranata, c'era la possibilità che lui non se ne accorgesse; cercò di mantenere un'espressione composta, gettò qualche occhiata all'orizzonte per provare a calmarsi e a rivolgersi a lui con tutta la forza morale e con tutto il coraggio di cui era capace. Non voleva che lui soffrisse per la sofferenza di sua moglie, aveva troppo a cui pensare.
«Se ti sei rifiutato di tornare da noi, significa che c'è un motivo più che valido, ne sono sicura. Noi stiamo bene, Chris. Aiuta quella gente. Però torna, non posso pensare che potresti fallire»
«Mi dispiace per averti dato nuove preoccupazioni»
«So bene che sei un Navy SEAL e che nel tuo cuore non ci siamo solo io e nostra figlia»
«Avete la parte più grande del mio cuore»
«Questo mi fa piacere»
Gli sguardi dei due coniugi esprimevano più di quanto riuscissero a dire attraverso le parole. Per quanto l'anima di Katherine tremasse alla sola prospettiva di perderlo, gli rivolse un grande e commosso sorriso per esprimergli tutto l'orgoglio e l'amore che provasse per lui. Christian si sentì meglio, non l'aveva delusa; avrebbe solo voluto sfiorarla, ma ancor più sperava di poterlo fare un giorno.
«Stai attento. Ti prego»
«Sarò il più prudente possibile»
Erano stati necessari i passi leggeri e veloci della sua bambina per risollevare l'umore, Christian li riconobbe, si stavano avvicinando al telefono della moglie. Subito dopo la voce di Alisia, resa ancora più sottile dal microfono, riuscì a sfondare le conseguenze dell'ultimo attacco che era stato mosso ai suoi danni. Katherine le intimò di non correre con il gelato in mano.
«Will è dovuto correre in ufficio»
La piccola si avvicinò alla madre quanto bastò per intravedere lo schermo.
«Papà!»
Christian sentì nitida la voce della figlia, ma continuava a non scorgere il suo viso.
«Tesoro, vedo solo la mamma, dove sei?»
La madre la fece accomodare sulle sue gambe, entrò così nell’inquadratura con le labbra carnose e il contorno sporchi di cioccolato; gli provocò un sorriso sincero. L'innocenza della sua bambina era il regalo più grande che un soldato potesse ricevere, lo aveva imparato con l'esperienza.
«Papà, ho preso A+ nel compito di matematica, quando torni te lo faccio vedere, la maestra Margaret mi ha fatto tanti complimenti»
«Brava, amore, ma non avevo alcun dubbio sul fatto che fossi bravissima. Com’è andata a New York? Hai incontrato i nonni?»
«Solo la nonna, poi siamo andate via»
Katherine era in difficoltà, lui la stava fissando interdetto, ma era un argomento troppo delicato da affrontare in poco tempo e in quelle condizioni.
«Quando torni, ti raccontiamo tutto, Chris»

 


Ciao ragazzi!
Mi è servito tempo per mettere insieme tutto ciò, non è stato semplice per me affrontare alcuni temi, ho avuto difficoltà sia a citarli in modo appropriato all'interno del capitolo sia ad affrontarli moralmente.  Mi auguro di non essere stata troppo frettolosa, nonostante il capitolo sia piuttosto lungo. Purtroppo questi sono i fatti ed è inutile nascondersi dietro un dito quando esistono prove ovunque. Visto però l'argomento molto delicato, anche se solo accennato (non credo nemmeno sia possibile su questo sito approfondire ulteriormente, al massimo ci sarà modo più avanti di addestrarsi un pochino di più, ma senza entrare troppo nei dettagli), ho preferito avvertire e riportare tutti i dovuti riferimenti. 
Ho deciso di dare un quadro più realistico possibile della guerra, è stata una decisione molto ponderata. Spero di non aver urtato troppo la vostra sensibilità, ma se siete giunti fin qui sono certa non abbiate il timore di addentrarvi insieme a me in questo mondo così distante da quello occidentale. Vi ringrazio per accompagnarmi ormai da mesi in questo viaggio, spesso doloroso, sto imparando a conoscere quei territori insieme a voi e grazie all'affetto che dimostrate per questa storia. <3 Trovavo doveroso smorzare tutta questa drammaticità con una breve conversazione tra Christian e la sua famiglia. Come sempre, spero di essere riuscita ad equilibrare le parti e a non snaturare il genere.
Vi anticipo che le scoperte che faranno Christian e Rashid non saranno per nulla liete, anzi la quiete apparente di questo capitolo (almeno per quanto riguarda le azioni militari) sarà ripagata nel prossimo, quindi scusate in anticipo per eventuali momenti di intensa adrenalina.
Alla prossima!
Un abbraccio grande 
-Vale
 

[2] Istituto di studi superiori in cui si ultima lʼapprendimento garantito dal maktab (indica la prima precaria e rozza scuola islamica in cui un adulto volenteroso e discreto conoscitore del Corano insegnava a leggere e a scrivere la lingua araba ai ragazzi, in cambio di un magro emolumento da parte dei loro genitori) e dalla moschea.

 
[3] Lettore di sacri testi islamici, il confratello a cui è affidata la direzione della preghiera spirituale.
[4] Bevanda locale, un vino di palma dolce estratto direttamente dal tronco delle piante.
[6] L'edificio sede del quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d'America.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19_Il soffio della vita ***


Il soffio della vita
 



 
 
Los Angeles – Palazzo di Giustizia, 11 settembre 2018 (ora locale)[1]
 
Per Delilah la vita era diventata un mestiere dal suo primo turno al St. Vincent Medical Center; il fatto che spesso strappasse vite umane alla falce della morte la rendeva speranzosa davanti ad ogni alito di vita, diventava più difficile però riporre fiducia nel suo animo ottimista se sotto i suoi ferri si fosse presto trovato un parente stretto. La vita del padre era nelle sue mani, era una responsabilità professionale, morale e personale; non era certa di essere pronta ad assumersela, ogni forma di orgoglio, incomprensione, discussione nei confronti del direttore stava svanendo a vantaggio di un atteggiamento più diplomatico, comprensivo, affettivo. Si era riscoperta essere una figlia premurosa, attenta, legata ad un genitore che l'aveva cresciuta come un dovere e non come il diritto insostituibile di essere suo padre.
Per un medico che esercitava la propria professione con zelo e passione, non vi era nulla di più terribile che assistere ai tg in quella giornata di lutto nazionale; rivivere l’impotenza di quegli attimi terribili le fece dimenticare per un istante il motivo della sua presenza davanti al maestoso e antico edificio del Tribunale. Le commemorazioni a New York in memoria dell’attentato alle Twin Towers erano così lontane in linea d'aria, eppure vicine al cuore, un muscolo che fremeva al solo ricordo. Il televisore al plasma riproponeva le immagini in alta definizione, all’epoca le dirette non erano così nitide e la polvere delle macerie aveva creato confusione negli spettatori. Nei tempi odierni il rumore aveva lasciato posto al silenzio, al pianto delle famiglie che avevano perso i propri cari; era un dolore composto, dignitoso, un modo come un altro per dimostrare che le vittime vivevano ancora nei loro cuori, che la violenza non aveva vinto, non aveva preso possesso delle loro vite, non aveva infuso abbastanza paura da dominare il loro futuro dopo essersi appropriata illegalmente del loro passato.
Il peso del ricordo oscurava anche il cielo sopra Los Angeles. Samuel si trovava nelle terre da cui era giunta quella violenza efferata, ingiustificata e mai giustificabile, in ogni caso, per quanto l'odio tra popoli potesse essere radicato. Le mancava suo fratello, le mancava condividere con lui i tormenti, eppure trovava sbagliato confidargli la malattia del padre; angustiarlo e trasgredire la promessa fatta al direttore era una prospettiva che Delilah non riusciva a contemplare. Era fedele al segreto professionale, era dedita alle promesse, era anche legata a doppio filo a suo fratello - era un sincero amico prima ancora di essere sangue del suo sangue -, ma non avrebbe aggiunto altri funesti pensieri alle sue giornate.
Indugiò sul maniglione d’ingresso; proprio nel medesimo istante alcune persone stavano uscendo facendola arretrare di qualche passo, le avevano dato un segno, stava sbagliando, non doveva trovarsi lì, piuttosto in solitudine a casa o nel suo ufficio in ospedale a rimuginare sull'intervento che avrebbe dovuto effettuare; ciò che avrebbe dovuto affrontare l’indomani non era una giustificazione valida per la sua presenza. Solo che i passi, accentuati dal mezzo tacco che era solita portare con innata eleganza, la condussero nei pressi della portineria senza che lei se ne accorgesse. Dietro la vetrata un giovane sorvegliante a lei sconosciuto era impegnato a riordinare il suo ripiano di lavoro; sembrava teso, era forse alla ricerca di qualcosa che aveva perso o forse erano solo i suoi primi giorni di lavoro e non aveva compreso ancora ogni sua mansione. A Delilah rincresceva disturbarlo nella sua attività così impegnata, schiarì appena la voce e le iridi chiare del ragazzo si puntarono stranite su di lei; gli era scesa la montatura degli occhiali sul naso a causa dello scatto, ma lei ignorò la reazione spaurita dell’altro e si rivolse a lui con urgenza, prima che avesse cambiato idea.
«Salve. Sono la signora … cercavo l’avvocato Rogers. Mi sa dire se è in Tribunale?»
«Signora, non posso lasciarla passare senza un valido motivo. Mi è stato chiesto di prendere ogni nominativo in entrata e in uscita»
Il giovane uomo dall’altra parte del vetro nella confusione della scrivania si premurò di recuperare un foglio, ove vi era già stilato un elenco di nomi; fece passare il foglio e una penna attraverso la bassa fessura sotto la vetrata e posizionò il tutto davanti alla donna. Per lui era semplice svolgere il suo lavoro, vedeva facce nuove nell’arco di pochi minuti, presentava loro davanti un foglio firme e aveva concluso il suo compito, invece lei era in difficoltà persino a dichiarare il proprio nome; l’inchiostro non voleva scorrere lungo la linea apposita riservata ad un nuovo visitatore, non sapeva se fosse ancora opportuno sfruttare il suo cognome da sposata, non aveva idea se quell’incontro avrebbe portato frutti positivi, ma lei ne sentiva un disperato bisogno. Afferrò la penna con la mano mancina e con un leggero tremore iniziò a scrivere il suo nome. Non vi era alcun fastidio all’anulare ormai nudo; vi era rimasto solo un segno, il bruciante sole estivo aveva contornato l’anello di una lieve abbronzatura, rimarcando la sua carnagione ambrata, così, quando un mese prima con dolore lo aveva riposto nel portagioie, vi era rimasto ben visibile il solco del suo passaggio. Era giunta al suo cognome, ma non ebbe il tempo di riflettere e decidere quale sarebbe stato opportuno dichiarare ora che il loro rapporto si trovava in una sorta di limbo. I passi felpati di un paio di mocassini in pelle si stavano avvicinando alle sue spalle; il passo leggero e deciso era familiare alla dottoressa, si voltò con l’unico pensiero nella mente di incrociare gli occhi dell’uomo che stava cercando tra le antiche mura del palazzo di giustizia di una delle città più famose dello Stato della California. Era proprio Nathan, intento ad aggiustarsi il colletto della giacca e a gettare qualche occhiata all’orologio da polso in evidente ritardo per un appuntamento importante; appoggiò con grazia una mano al cornicione in legno della portineria in modo da poter rivolgersi ad entrambi, era leggermente affannato e accaldato.
«Delilah, cosa fai qui? Thomas, avrei bisogno delle chiavi della sala riunioni. Ho un’udienza a breve e devo recuperare alcuni documenti che ho dimenticato ieri. Lei è mia moglie, vi siete già presentati?»
Più da vicino Delilah notò che la cravatta dell’uomo era storta in prossimità del nodo e qualche bottone della camicia alla base del collo era slacciato. Era tentata di sistemarlo, era solita farlo quando correva in ufficio o in tribunale trafelato, ma i tempi erano cambiati, non condividevano neppure più le stesse abitudini; sapeva però quanto lui odiasse portare accessori eleganti, ogni occasione era buona per toglierli o allentarli, come in quel caso specifico. Le sfuggì un piccolo sbuffo divertito che attirò l’attenzione dell’uomo; riuscì a contagiare anche lui, senza avere la reale percezione di ciò che avesse provocato quel sorriso da cui era ancora terribilmente attratto. Thomas non aveva colto la complicità che si era creata in pochi secondi tra i due, non aveva notato gli sguardi che si erano agganciati; preso dall’euforia della notizia, si era sporto dalla guardiola, aveva raggiunto la mano di Delilah e l’aveva stretta con calore e genuinità.
«Signora Rogers! Mi deve scusare, non l’ho riconosciuta o forse non ho nemmeno mai avuto il piacere di incontrarla. Avvocato, sua moglie è davvero graziosa»
«Lo penso anch’io, Thomas»
Nessuno dei due si premurò dell’imbarazzo che si era dipinto sul volto del medico. Nathan non aveva perso orgoglio nei confronti della donna che aveva sposato; pensare che un giorno non avrebbero più avuto alcun legame davanti alla Legge lo spaesava, rendeva le sue iridi nocciola velate da un’ombra oscura, la malinconia si era impossessata di lui da diverso tempo ed emergeva ogniqualvolta la speranza lasciava il posto ad una dura certezza. L’avvocato Rogers era un uomo di Legge, non aveva contemplato alcun divorzio nella sua vita, men che meno con la donna che ancora amava e con la quale non poteva esprimere quanto fosse contrario alla loro separazione; avevano preso una decisione, erano giunti alla conclusione che le loro vite non fossero una combinazione perfetta. Si erano allontanati ed ora si mancavano in silenzio, perché veder soffrire l’altro in una vita stretta, non soddisfacente e fargli patire l’assenza delle attenzioni che meritava feriva ancora di più. Il sorvegliante era troppo giovane e inesperto per comprendere i loro sguardi, li interruppe con ingenuità allungando le chiavi della sala riunioni a Nathan.
«Lilah, mi accompagni?»
Fece segno alla moglie di seguirlo, era un cenno che non ammetteva alcuna replica, lui aveva iniziato ad avviarsi nella speranza che lei fosse alle sue spalle a pochi passi di distanza. Insieme attraversarono un lungo corridoio, le cui pareti erano tappezzate dalla riproduzione di portoni in serie, molto simili agli accessi degli immensi auditoria di Harvard a Delilah molto familiari. Il soffitto toccava il cielo, era un vastissimo spazio che a chiunque che non fosse del mestiere metteva addosso una certa soggezione. Un avvocato penalista non sentiva il peso del rimbombo solenne dei suoi passi, avanzata con un’andatura sicura, come se tra quelle mura vi fosse casa propria. Delilah lo invidiava, avrebbe desiderato un terzo della sua sfrontatezza; lei sapeva che il suo atteggiamento non era frutto di sicurezza, lui vinceva cause sfruttando la sua spontaneità, la sua scioltezza; la sua mente brillante era un connubio di preparazione e predisposizione. La affascinava ancora il suo portamento da ragazzo di periferia trapiantato in una delle città più grandi degli Stati Uniti d’America; il tribunale era l’unico luogo dove aveva il piacere di ammirare la sua eleganza formale, che agli occhi della donna forzava per non risultare inadeguato al suo ruolo. Nathan era ormai abituato a quel luogo, era normale per lui conservare in sé le due personalità che lo rendevano ciò che era, unico per Delilah, un uomo duttile in ogni circostanza e trionfante in qualunque sfida che la vita gli ponesse davanti. Aveva una grinta e una concentrazione invidiabili, non si lasciava scalfire da niente durante le udienze; se lei avesse avuto la stessa predisposizione emotiva durante l’operazione non avrebbe avuto alcun problema ad affrontare il cuore di pietra di suo padre. Non aveva affatto smesso di trovarlo affascinante; Nathan si sforzava di essere più professionale possibile, ma era un confusionario. Sul lavoro era in gamba, era la sua vocazione, era ciò che amava fare. Si erano conosciuti così, era l’avvocato di una collega accusata di negligenza, era riuscito a toglierla dai guai ed infine aveva conquistato lei tra le corsie dell’ospedale. Lui era un avvocato alle prime armi, ma che non aveva nulla da invidiare ai veterani, lei era una giovane tirocinante vogliosa di mettere in atto i suoi studi. Si erano trovati all’incrocio tra due mondi, si erano amati certi che il sentimento nato tra loro potesse colmare le differenze nelle rispettive vite professionali, ma avevano puntato troppo in alto, non erano riusciti a giungere ad alcun compromesso utile per tenere fede alle loro promesse matrimoniali; i turni di lavoro non consentivano a lei di tenere in piedi quella famiglia e nel caso allargarla. Delilah si rincuorava con il pensiero che avrebbe riscoperto presto l'amore in una donna migliore di lei, più sicura nelle relazioni e in grado di realizzare con lui il sogno di una famiglia. Non lo aveva mai visto cedere come in occasione del loro divorzio, ricordava il suo polso tremare, si mordeva le labbra e sospirava nell’apporre a piè pagina la firma che avrebbe posto fine alla loro vita coniugale; l’aveva vissuta come una sconfitta, aveva perso, l’aveva persa e non era stato in grado di impedirlo, di portare le argomentazioni utili, era stata la prima causa che lo aveva visto dalla parte dei perdenti.
Nathan salutava con un sorriso la maggior parte dei colleghi e delle colleghe che incrociavano sulla loro via, non si intratteneva con alcuno, tirava dritto a passo celere lanciando qualche occhiata sbieca al suo orologio; nel giro di pochi minuti si sarebbe dovuto trovare in aula, non era professionale tardare davanti al giudice e al proprio cliente. Raggiunsero l’ascensore senza proferire parola; l’avvocato lo aveva chiamato con impazienza premendo più volte il pulsante luminoso alla sua destra e quando le porte si erano finalmente aperta aveva invitato Delilah a precederlo con un lieve cenno della mano. Erano soli nella cabina, Nathan prenotò il quinto piano e si concentrò sulla donna al suo fianco; le scostò con due dita i capelli dietro l'orecchio e schioccò un bacio sulla guancia; la solita disinvoltura di lui la prese alla sprovvista, avrebbe forse dovuto rimproverarlo per il gesto ambiguo, invece arrossì in silenzio per le attenzioni che le erano state riservate.
«Non ti avevo salutata»
«H-hai un’udienza?»
«Sì, tra pochi minuti. E tu perché sei qui? A cosa devo la sorpresa?»
Non vi era nulla di lieto nella visita di Delilah, ma vi era solo il tempo di un breve tragitto in ascensore per parlare. Il medico allungò una mano verso il petto dell’uomo e ruotò il nodo della cravatta di qualche grado verso destra; azzardò il gesto con distacco, dopo il bacio di lui non desiderava alimentare in entrambi false speranza in un finale felice per loro.
«Domani devo operare mio padre e ho paura. Non ho mai avuto così tanta paura davanti a lui. Mi sento così fragile, Nat. Voglio salvarlo più di ogni altra cosa, ma so anche che lui non merita tutta questa dedizione. Ho paura di sbagliare, ho paura di perderlo, ho paura di mostrarmi troppo accondiscendente davanti a lui»
Nella penombra della cabina, Nathan vide gli occhi della donna inumidirsi e rivolgersi al pavimento in acciaio; teneva le braccia intrecciate contro il petto in evidente stato di chiusura verso il mondo e verso di lui. Non vi era la necessità che lei esprimesse l’origine del suo sconforto, conosceva il rapporto tra il suocero e la moglie, non c’era nulla di roseo e da quando non convivevano più era molto più difficile supportarla. La invitò a sfogarsi in un abbraccio; Delilah rifiutò, gli posò un palmo sul petto, gli impedì di avvicinarsi a lei.
«Devi lavorare. Rischi di arrivare tardi. Come sta andando il processo?»
«Siamo alla fase istruttoria. È un’udienza pubblica, se hai voglia puoi assistere»
«Lo stai vincendo?»
«Più o meno»
«Come mai più o meno? Per te è sempre bianco o nero»
«No, non sempre»
Tra loro ultimamente esistevano diverse gradazioni di colore, sfumature a loro incomprensibili, veli di grigio opaco attraverso cui la luce non filtrava da tempo. La donna che era stata sua moglie per anni non gradiva più il contatto fisico con lui; poco importava che fosse ciò che realmente voleva o solo ciò che si stava imponendo di accettare per il bene di entrambi.
«Dopo l'udienza posso offrirti un caffè?»
Nathan azzardò un blando invito. Delilah gli avrebbe voluto dire che gli mancava, che l’invito che le aveva mosso era troppo poco per ciò che avevano vissuto e esagerato per due che dovevano sopportare una distanza forzata per riuscire a voltare pagina. Gli avrebbe voluto dire Nathan, non ti affannare a cercare la nostra certificazione di matrimonio, io non voglio più divorziare. Più di una voce suggeriva alla dottoressa di tornare sui suoi passi, la loro separazione era stata una prova sufficiente: era molto più semplice soffrire insieme, piuttosto che separati. Sperò che lui cogliesse i suoi pensieri, decifrasse la tristezza che l’aveva inondata. Le porte si spalancarono un piano sotto la loro destinazione, un paio di persone li affiancarono, una delle quali conosceva Nathan.
«Avvocato Rogers. Non hai udienze oggi?»
«Sì, ora vado»
Non aveva posato gli occhi nemmeno un istante sulla collega, era più interessato ai passi di sua moglie che si stavano avviando verso l’uscita dell’ascensore e al suo sorriso malinconico appena accennato con cui si congedava da lui. Avrebbe voluto urlare il suo nome, ricordarle e convincerla che l’indomani forse non sarebbe cambiato nulla tra lei e suo padre, ma l’operazione nelle sue mani sarebbe stata una garanzia di successo. Avrebbe voluto innanzitutto esserle accanto, non aveva neppure avuto modo di chiederle l’orario dell’intervento prima che le porte si richiudessero e l'ascensore ricominciasse a salire.
 
 
 
Kabul – rovine settentrionali, 11 settembre 2018 (ora locale)
 
Christian si trovava in un tugurio, in un rifugio di talebani pronti a scaricare l’artiglieria su poveri innocenti, non avrebbe potuto sperare di trovare un luogo più confortevole. Non si respirava ossigeno in quelle abitazioni diroccate e pericolanti; vi era un’atmosfera tetra, le vite spezzate che vi avevano abitato incombevano su chiunque fosse entrato negli anfratti squarciati dagli attentati. Sul petto del capitano pesava un senso di ansia, lui non riusciva a restare indifferente davanti a tanta crudeltà, il suo cuore non era in grado di contemplarla. Sostituire gli abiti militari con quelli civili - tipici afghani - gli aveva garantito di giungere fin lì passando inosservato, ma non gli aveva impedito di rabbrividire al pensiero che quello stesso abbigliamento fosse il medesimo dei nemici che stavano strenuamente combattendo, Christian non voleva possedere nulla che riconducesse a quegli assassini. L'aiuto di Rashid era stato fondamentale, in caso contrario non avrebbe riconosciuto le scorciatoie più convenienti per entrare in zona rossa. Il ragazzino era in gamba e la sua scaltrezza era sprecata tra le fila di gente senza scrupoli; in quel momento il piccolo soldato non smetteva di controllare che qualcuno facesse di ritorno, era teso, stavano sfidando gente spietata che non avrebbe risparmiato loro la vita.
Il seal aveva fretta, non aveva idea del tempo che avesse a disposizione prima che gli occupanti abusivi ritornassero alla loro base, eppure non riuscì a restare insensibile davanti a quello strazio. Era rimasto solo lo scheletro di ciò che quella casa era stata in origine, come era stata progettata; si intravedeva dietro le rovine un’abitazione modesta ma non povera, la famiglia che vi abitava doveva appartenere alla classe sociale media. Il capitano si inoltrò con rispetto, quasi sicuramente la famiglia aveva perso la vita nell’ennesimo tragico attentato; se per qualche fortunata congiunzione di astri così non fosse stato, quel luogo era comunque diventato un altare di ricordi che era buona creanza non violare. Il silenzio era assoluto, inquietante, segno della pace che era avanzata dopo una tempesta; quando Christian mosse un ulteriore passo leggero, uno scricchiolio sotto la suola dei suoi calzari lo bloccò. Non erano macerie fatte di sassi, intonaco o calcinacci; era vetro delicato, il tenente aveva pestato una cornice di foto che di norma adornava la mobilia. L’uomo si abbassò sulle ginocchia per raccoglierla. Era dispiaciuto per aver distrutto il vetro; oltre le crepe si intravedevano visi giovani e più maturi. Cercò di salvare la foto, evitando che si strappasse; tolse delicatamente i frammenti rotti, ma era troppo preso dai pensieri e sconfortato, si era deconcentrato causandosi un taglio sul palmo con il materiale tagliente e scalfito. Uscì sangue dalla ferita, ma non bruciava o almeno lui non percepiva nulla di simile, era niente in confronto a ciò che erano state costrette a subìre le anime raffigurate nell’istantanea di una comune giornata di sole. Lasciò la cornice nell’esatto punto in cui l’aveva raccolta e contemplò la fotografia, stando attento a non macchiarla con il suo stesso sangue; rappresentava una celebrazione, forse un matrimonio, Christian non era esperto di usanze locali, ma davanti ai suoi occhi era stato immortalato un momento lieto, qualunque fosse l’oggetto dei loro festeggiamenti. Nella grigia nebbia che era scesa sopra Kabul non vi era più niente dei visi sorridenti dei piccoli uomini e delle piccole donne che forse non sarebbero mai cresciuti, il sorriso gioioso della sposa scoperto dal chador[2], così raro quanto unico in quei territori, e lo sguardo innamorato del marito. Era stato tutto sperduto nel vento, insieme alle polveri sollevate dalle esplosioni. I defunti che una volta erano appartenuti a quella famiglia invocavano un altro Dio, ma Christian, ancora in ginocchio, li omaggiò con un accorato segno di croce, in qualunque luogo fossero sepolti i loro corpi, dovunque fossero volate le loro anime o, nel caso la morte non li avesse presi, ovunque si fossero rifugiati; rivolse una preghiera silenziosa ad una divinità che in fondo era la medesima. Con dolcezza posò la foto su un tavolo in ferro arrugginito che si trovava lì accanto ed era resistito alla violenza dell'esplosione, sperando che ciò potesse scuotere le coscienze inesistenti dei terroristi. Quella rappresentata non era la sua famiglia, ma ne possedeva una, provava empatia verso quel padre che con molte probabilità non era riuscito a proteggere il bene più prezioso che avesse in vita. Christian non poteva fallire la sua missione, doveva vincere in nome di più persone, conosciute o sconosciute; la guerra trasformava chiunque la combattesse e la subisse in un unico fronte comune. Si appoggiò al bordo del ripiano, prese un respiro, allontanò i pensieri che gli impedivano di mostrarsi totalmente lucido ed iniziò a passare al vaglio gli oggetti sotto i suoi occhi: vi era conservato qualsiasi tipo di strumento offensivo - armi, materiale per esplosivi e bombe già fabbricate e pronte all'uso -, qualche effetto personale dei terroristi - che li rendeva più umani di quanto si potesse credere - e droghe, un mondo che Rashid aveva imparato a conoscere troppo presto. Gli effetti dell’ultimo incidente erano tornati a bussare allo stomaco e alla testa di Christian, forse stimolati dall’ambiente malsano e fatiscente. Il tavolo in ferro ospitava qualsiasi tipo di oggetto, tra cui molta carta grezza e vecchia; intravide anche i progetti riguardanti l’ospedale, li riconobbe dagli schizzi realizzati a mano, ma era solo una mera progettazione dell'edificio, non venivano menzionati gli ostaggi. Il tenente rimase deluso, avrebbe sperato di carpire qualche informazione utile. Si stava arrendendo al fatto che avesse rischiato in quell'edificio di cadere in un'imboscata per nulla, quando la sagoma di una moschea spiccò su un foglio; il seal lo afferrò e lo scrutò attentamente rivolgendolo verso la luce che filtrava attraverso l'ampia fessura presso cui un tempo vi era collocata la porta d'ingresso dell'abitazione: le scritte intorno alla figura disegnata erano in arabo e lui conosceva solo poche parole che non riusciva ad individuare però in quelle specifiche righe. 
«Capitano, non vorrei metterti fretta, ma dovremmo sbrigarci»
Rashid si era allontanato dalla sua postazione, si era rivolto con premura al tenente, ma quest'ultimo non gli aveva prestato attenzione. Fu il ragazzino ad essere distratto dal foglio che l'ufficiale teneva tra le mani; lo capovolse spontaneamente facendolo ruotare tra i palmi di Christian e lo lesse prima ancora che l'uomo gli chiedesse di tradurre quelle parole incomprensibili.
«Oh no. È in programma un attentato alla moschea di Sher Shah Suri, si trova nella zona Ovest di Kabul. Ci sarà una strage, a quest'ora i fedeli si avviano in processione verso il luogo di preghiera»
Il seal non era affatto sorpreso della notizia, ciò che lo allarmò fu l'idea di non riuscire a tornare in tempo verso la città per evacuare il luogo il più velocemente possibile. Stava abbandonando il foglio sul ripiano, nell'esatto punto in cui lo aveva trovato, ma nel voltarsi un'ombra inondata di luce aveva attirato per un istante la sua attenzione. Nonostante non avesse nemmeno un istante da perdere, non ignorò il segnale di vita che aveva intravisto, era sicuro non fosse un'allucinazione, la sua mente debilitata non lo stava ingannando; si avvicinò e vide chiaramente l'esatto punto in cui boccoli biondi si confondevano contro i raggi del sole. Era un bambino molto piccolo; restava per metà nascosto contro un cornicione di legno, marcio e pieno di schegge pericolose per la pelle delicata del bimbo che vi si stava reggendo.
«Ehi. Non avere paura, non voglio farti male»
Christian avrebbe lasciato qualunque cosa in quell'abitazione, armi comprese, anche se avessero potuto rivoltarsi presto contro di loro, ma non si sognava di lasciare quella creatura in balìa e indifesa di fronte alle peggiori violenze. Il tono calmo, flebile e dolce dell'ufficiale rese meno diffidente il piccolo e colmò le pesanti difficoltà comunicative tra i due. Il bambino aveva perso il dono del sorriso, il suo viso era coperto dal gesso bianco della polvere, non riportava ferite evidenti, ma la sua anima doveva essere a brandelli. Il seal non attese oltre, si avvicinò a lui e lo sollevò per accoccolarlo contro il suo petto; il piccolo afghano non oppose alcuna resistenza, era abituato all'impotenza, ma ancora non sapeva che l'uomo che lo stringeva era il suo salvatore e non l'ennesimo suo carnefice.



 
Moschea di Sher Shah Suri - quartiere occidentale di Kabul, 11 settembre 2018 


L'unità militare guidata dal generale Flores era stata allertata, in città era stato posizionato un ordigno, ma nessuno aveva idea del luogo in cui si trovasse; non erano nemmeno certi che si trattasse di una bomba o di un'autobomba, brancolavano nel buio. Ogni militare, di qualsiasi grado e nazionalità era stato impiegato per evacuare i luoghi più affollati con maggiore concentrazione di civili. Gwen si stava occupando della zona occidentale, in particolare della moschea che sovrastava con la sua maestosità il quartiere circostante. Il soldato aveva valicato le soglie del suolo di preghiera senza alcun accorgimento religioso ed era certa che presto l'imam l'avrebbe accusata di blasfemia; onestamente le importava di più portare in salvo vite umane, piuttosto che onorare un mero simbolo di rispetto verso il loro Dio, per quell'accorgimento ci sarebbe stato tempo quando tutti sarebbero stati al sicuro.  
Non appena la recluta si affacciò all'interno della moschea dall'ingresso principale, una moltitudine di colori, caldi e freddi mescolati in un'unica tavolozza, colpì la sua retina; sarebbe stato uno spettacolo ancor più affascinante, se in lei non dilagasse la paura per la vita dei civili che vi erano radunati. Era da escludere l'impresa di allontanarli singolarmente, necessitava di un aiuto, una guida di cui loro si fidassero e che avrebbero ascoltato senza resistenze, benché a quell'ora ci fosse spazio per la preghiera e nient'altro. L'imam si trovava a pochi metri da lei, non temeva un loro confronto, era un uomo colto e l'avrebbe compresa sia a livello di linguaggio che di morale. L'anziano stringeva al petto una copia del Corano e rivolgeva di tanto in tanto gli occhi al cielo in segno di preghiera. Gwendoline lo interruppe con arroganza, ma, nonostante la frenesia, riuscì a modulare il tono di voce in riferimento al luogo in cui si trovavano.

«Deve evacuare subito la moschea. C'è l'alto rischio di un attentato e siete tutti in pericolo»
L'uomo la fissò attentamente catturando i suoi occhi; non si preoccupò del suo vestiario, aveva riconosciuto l'uniforme e la lingua americana.
«Siamo nelle mani di Dio, qualsiasi cosa accada lui sa cosa sia giusto. I fedeli non si allontaneranno da questo luogo durante le preghiere. La minaccia di un attentato non basterà a spaventarci»
«Signore, lei non comprende la gravità della situazione, deve assolut ... »
Si era interrotto tutto all'improvviso, come se avessero staccato la luce, tolto l'ossigeno e inferto un colpo netto dietro la nuca. Era stato un istante, Gwen non si era accorta di nulla, solo i suoi sensi avevano subìto gli effetti dell'esplosione. La bomba fu il primo pensiero della ragazza, l'aveva trovata, ma non era riuscita a prevenire alcuna strage, anzi temeva di aprire gli occhi e di essere circondata da cadaveri. L'unica certezza era la vita che scorreva ancora nelle sue vene, non sapeva ancora nulla, ma era certa di respirare, i suoi polmoni non erano lesionati. Sentiva un intenso dolore all'altezza del ginocchio sinistro e per scoprirne la causa non le restava che sollevare le palpebre. Era sdraiata sul pavimento caldo, ricoperto da tappeti; la prima immagine che gli occhi le restituirono fu quella di un uomo riverso prono accanto a lei, era rimasto schiacciato da un pezzo di parete e per lui non c'era stato alcuno scampo. Se un attimo prima l'intorpidimento le aveva concesso uno stato di quiete, la lucidità si era con prepotenza insinuata nella sua mente mostrandole la cruda realtà: l’imam era morto
[3]. Le iridi dell'uomo brillavano ancora di una luce intensa, benché la vita lo avesse ormai abbandonato; i colori accesi non provenivano da un gioco di colore tra il sole e le tempere, le vetrate erano esplose frantumandosi al suolo e sopra le loro teste. Gwen seguì la traiettoria dell'espressione assente dell'imam e lo vide: un incendio stava divampando all'interno della moschea a pochi metri da lei. Non poteva più aiutare l'uomo che si trovava al suo fianco, ormai era un corpo senza vita, rivolse solo un pensiero alla sua anima, credeva ed era certa si fosse salvata dall'inferno in cui si trovavano; tentò di alzarsi, ma il dolore al ginocchio si trasformò in una lama che minacciò di amputarle la parte inferiore della gamba. Si accorse con disperazione di essere bloccata e di non poter fuggire, una parte della parete che aveva ucciso l'imam teneva in scacco anche lei. Si ritenne spacciata, era certa che quella moschea, una delle poche che era riuscita a visitare, si sarebbe trasformata nella sua tomba, ma non aveva fatto i conti con il destino e soprattutto con la tenacia del suo superiore.
La ragazza non ebbe il tempo di capire da dove provenisse la voce di Christian, lo scorse al suo fianco come se fosse caduto un miracolo dal cielo.
«Gwen!»
«Capitano. È-è morto, mi dispiace, io …»
«Calmati, Gwen. Sei viva, stai calma»
Aveva trovato la forza di accennarle un flebile sorriso, una luce in mezzo ad una devastazione di cui lei non conosceva ancora la portata a livello di perdite umane. L’ufficiale non aveva considerato il corpo dell’imam, sembrava solo interessato alla gamba della ragazza; era consapevole dell’incendio che stava divampando, il fumo stava già raggiungendo le loro vie aeree provocando regolari colpi di tosse, ma non si arrendeva e continuava a studiare un modo per liberarla dalla trappola mortale in cui era caduta.
«Capitano, deve uscire di qui prima che sia troppo tardi. La sua vita è più preziosa. Ha una famiglia che l’aspetta, io non ho nessuno»
«Non voglio più sentire una sola parola, Ward. Non ti lascio. Io non lascio indietro i miei uomini»
Christian le aveva lanciato uno sguardo intenso che non ammetteva alcuna replica, era un ordine che proveniva dal cuore prima ancora che dai gradi cuciti sulla sua divisa. Il tenente impiegò tutta la forza che gli era rimasta nelle braccia per sollevare la parte di parete crollata sulla recluta; Gwen non rimase a guardare, non vanificò le fatiche del superiore, si spinse all’indietro con le braccia e cercò di far scivolare la gamba ormai insensibile al dolore all’esterno della pietra. Il seal non proferì alcuna parola, grazie alla complicità che era maturata tra loro riuscì a risparmiare il fiato e riuscì infine a liberarla; togliere la parete da sopra la ferita aveva dato libero sfogo al liquido ematico ed ora fluiva senza alcun impedimento, privandola della forza che le era rimasta.
«G-Gwen, resta con me»
Nessuno dei due militari aveva energie da spendere, ma Christian fece un ultimo sforzo; la prese tra le braccia, mentre il sangue e l’impeto della bomba la stavano facendo cadere in un coma profondo.
«Gwen, non ti addormentare, ti porto via di qui. Te la caverai»
 


Ciao ragazzi!
Mi infondo angoscia da sola con questi capitoli e fatico a scriverli, questo è un motivo del mio ritardo, oltre al tempo che mi è mancato, perdonatemi.
Pubblico questo capitolo in prossimità dell'avvio di un contest a cui questa storia sta partecipando e ho un po' di ansia, quindi credo che la stesura di questo capitolo ne sia stata un po' influenzata.
Il capitolo è piuttosto lungo, quindi non vi annoio oltre. Vi ringrazio di cuore per l'importantissimo supporto che mi date a più livelli. <3
Alla prossima!
Un abbraccio grande
-Vale

 

[1] Il fuso orario sta mandando in tilt me, quindi immagino voi. Mi ritaglio questo piccolo spazio solo per ricordarvi che questo capitolo è ambientato tutto l’11 settembre, ma in realtà l’11 settembre di Los Angeles non è lo stesso di Kabul, la capitale dell’Afghanistan è quasi dodici ore avanti [perdonatemi se risulto ripetitiva, ma questo capitolo per come è impostato rischia di creare confusione].
 
[2] Il chador è un indumento tradizionale iraniano simile a una mantella e a un foulard indossato dalle donne quando devono comparire in pubblico.
 
[3] Ho preso spunto da un fatto reale risalente a giugno 2020, in cui nella moschea citata tra le vittime vi era anche l'imam.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20_La morte è solo un'incognita ***


La morte è solo un'incognita
 
 

Ospedale da campo – Kabul, 11 settembre 2018

 

Gwendoline stava rispecchiando la sua immagine disordinata in un bacile di acqua fredda, gelida come l’atmosfera che la circondava e come il sangue nelle sue vene. I capelli dorati - che era solita raccogliere in una coda di cavallo o in un morbido chignon - ricadevano a ciocche sparse sulle spalle minute. Il volto della ragazza era coperto di fuliggine, fregava la pelle con entrambi i palmi per liberarsi dal nero della combustione, ma si sentiva sempre macchiata, come se le ultime ore della sua vita fossero destinate a stamparsi per sempre sulla sua anima. La carnagione chiara era marchiata dagli evidenti segni di ciò che aveva vissuto, a partire da una stretta fasciatura all’altezza del ginocchio sinistro. Era pallida e infreddolita. Christian si era premurato di avvolgerle le spalle con la giacca della sua divisa, di cui era tornato in possesso svestendo i panni dell'infiltrato; la ragazza si stringeva dentro la stoffa pesante dell’uniforme, si faceva piccola piccola per cercare calore umano e conforto. L’emorragia aveva causato alla recluta una leggera ipotermia, erano stati scongiurati lo stato più grave e le possibili conseguenze grazie alla prontezza dei medici, i quali l’avevano presa in carico con un codice rosso. La ragazza stava ancora male, era reduce dall’operazione, era scossa per l’esperienza di morte e devastazione a cui era stata costretta ad assistere, aveva visto un uomo morire, la sua anima era ferita, ma soprattutto era in soggezione al cospetto del silenzio del suo superiore. Si stava sciogliendo dal torpore dell’anestesia, le doleva ogni parte del corpo, ma il cuore in particolare non aveva smesso di fremere; sgorgavano lacrime dai suoi occhi e lei non sapeva come controllare un pianto sopito, un semplice sfogo di nervi che non deformava la sua espressione impassibile, severa eredità dell’addestramento in caserma. L’acqua scioglieva il sale sulle guance, purificava la pelle, camuffava i sentimenti del soldato Ward.
Lo sguardo più attento del tenente avrebbe colto gli occhi arrossati della ragazza, avrebbe accolto lo stato emotivo del sottoposto; nella medesima stanza in cui entrambi si trovavano, l'aveva lasciata da sola a ricomporre i pezzi della sua coscienza, frantumata a seguito dell'ultima esplosione. Non vi erano cattive intenzioni nella mente del seal, la riflessione aveva avuto il sopravvento dopo essersi preso cura del risveglio tormentato della giovane e averle fornito tutto l’occorrente per farla sentire a suo agio. Christian era appoggiato a braccia conserte allo stipite della porta del capanno nel quale era stato insediato l’ospedale da campo; il petto era scoperto, sotto la divisa che aveva offerto a Gwendoline non indossava altri indumenti, nonostante ciò sudava, dopo il calore provato tra le fiamme della moschea non riusciva a trovare refrigerio. Ammirava il cielo con disincanto, le nuvole stavano diventando minacciose, erano gonfie di scariche elettriche e di pianto per le nuove anime che avevano attraversato di recente la volta celeste per non fare più ritorno. L’estate stava lasciando il posto a correnti più fresche; anche in Afghanistan, dove la vita sembrava avere ogni giorno un arresto violento, le stagioni si susseguivano con naturalezza, esattamente come nella sua amata San Diego, un pensiero che lo trasportò tra i lidi familiari dell’Oceano Pacifico. Benché fosse un veterano, le immagini dell’ultimo attentato tornarono vivide nella sua mente; l’ennesima carneficina si era consumata e aveva sterminato un numero indefinito di civili, le autorità locali erano ancora impegnate nella conta delle vittime. Se si fosse fermato a pensare più del necessario, la testa sarebbe scoppiata. Era stata una magra consolazione salvare un piccolo orfanello strappato dalle grinfie di una violenza cieca; era certo che si trovasse al sicuro, si era premurato lui stesso di fornirgli un alloggio più sereno. Dopo aver scorto gli occhi smorti del bambino - uno sguardo che avrebbe dovuto essere vivace e gioioso -, l’idea di poter accostare l’arrivo di un nuovo membro nella sua famiglia con la salvezza di quel bambino lo abbagliò di speranza; si ripromise di proporre a sua moglie l'adozione di un piccolo bisognoso di affetto, se mai un giorno avesse avuto l'occasione di scrutare i suoi occhi smeraldini, quello stesso giorno avrebbe rappresentato per loro e per lui un nuovo inizio.
Un palmo morbido e delicato sfiorò la spalla nuda di Christian alla ricerca di un appoggio. Gwendoline aveva raggiunto il superiore, zoppicando e sfruttando qualsiasi appiglio si trovasse sulla sua strada, ma il suo equilibrio continuava ad essere precario, era impensabile fare pressione sulla gamba ferita. I riflessi lucidi del seal la ressero appena in tempo, l’uomo la trattenne afferrandola per le spalle, in caso contrario avrebbe rischiato una rovinosa caduta. La recluta aveva riportato il tenente alla realtà in modo brusco.
«Ehi. Non dovresti alzarti, i medici hanno raccomandato riposo»
Le venne quasi da ridere, in Afghanistan non c’era tempo per il riposo, lui avrebbe dovuto ben saperlo; le poche ore di sonno notturno erano un evento raro tra il turno di guardie, le emergenze e l’anima costantemente scossa e altalenante tra timori ed esperienze al limite dell'umanità. La recluta si divincolò dalla presa dell'ufficiale e sfruttò lo stipite opposto della porta per sorreggersi; fece scivolare la divisa graduata dalle sue spalle - non le apparteneva - e la porse all'uomo con gratitudine.
«Si copra, capitano, rischia un raffreddore a causa mia. Io sto bene»
«Non stai affatto bene, Gwen»
Il tenente non accolse la premura del sottoposto. Ogni volta che i loro sguardi si sfioravano, racchiudevano tutto tranne l’immagine dell’altro, quanto piuttosto i ricordi che condividevano da poco meno di un mese, il rapporto con il sergente Ward, gli ideali che attraversavano i loro cuori, mai scontati tra i soldati. Christian non conosceva il motivo che vi era stato alla base dell’ordine del generale Flores, non riusciva a spiegarsi per quale ragione avesse ordinato ai suoi uomini di gettarsi alla caccia della bomba; era sicuro del fatto che, al pari di Gwendoline, non desiderasse più perdere persone care, il destino aveva remato contro di lui per troppe lune. Aveva riflettuto con attenzione per ore ed era giunto alla conclusione più logica e meno dolorosa per ognuno di loro; non fu in grado di incrociare lo sguardo della giovane, l'idea di separarsi da colei che era diventata, oltre ogni formalismo, un'amica - nonostante entrambi celassero nel cuore quel legame - non lo lasciava indifferente, eppure era consapevole del fatto che fosse un passo necessario. Non era certo che Flores fosse orgoglioso di lui, non riusciva a comprendere se, anche in quell'occasione, i sentimenti gli avessero giocato un brutto tiro.
«Il fronte non è il luogo per una donna»
«Capitano …»
«No, lasciami finire. Ti sto dicendo che la sensibilità femminile soffre troppo davanti a questa violenza inaudita. Gwen, ti hanno operata quattro ore fa e hai avuto un sonno molto agitato, lo so, sono stato per buona parte del tempo al tuo fianco. Io non voglio che tu stia male e non voglio più rischiare che tu muoia»
Gwen non riusciva ad interpretare le parole del capitano, era indecisa sulla reazione; confusione, gratitudine, delusione e onore si frapposero nel suo petto. Christian aveva rivolto lo sguardo al cielo; non era facile proporre un congedo ad una donna tenace e coraggiosa, al soldato più valoroso che lui avesse mai conosciuto.
«Mio padre aveva ragione, il suo cuore è nobile. Ma è anche un po’ ingenuo, capitano, se pensa che io mi arrenderò alla prima difficoltà»
Il tenente abbassò lo sguardo sul sorriso beffardo della ragazza; non vi era stupore nel seal, anzi una parte della sua coscienza lo aveva anche previsto, sperarlo sarebbe stato da egoista. Gwendoline si avvicinò a fatica e gli posò lei stessa la divisa sulle spalle; i loro sguardi si incatenarono per una frazione di secondo, le iridi del sergente Ward fiammeggiavano di determinazione sul viso della figlia. Christian la sentiva vicina come mai prima, percepiva che il loro rapporto stava diventando unico nel suo genere; era una complice in campo, un'anima nella quale cercare conforto quando la malinconia di casa risuonava più forte e la resa incombeva sulle loro teste. Aveva creduto che un animo fine avrebbe potuto spezzarsi più facilmente ai limiti della crudeltà, invece era proprio nella fragilità femminile a risiedere la vera forza dello spirito. Lei stava guidando lui e non il contrario, non era certo che lei lo avesse capito, ma non si sarebbe sognato di rivelarlo, avrebbe colto l'occasione di prendersi gioco di lui, esattamente come durante il loro primo incontro.

 
“Barkclay, saresti stato orgoglioso di lei”
 
Christian sorrise fiero e preoccupato, era diventato veicolo degli stessi sentimenti che avrebbe provato il padre nei confronti della recluta se fosse stato ancora tra loro; in fondo il tenente era padre e poteva condividere buona parte dei sentimenti di un genitore. Seguiva i passi del giovane soldato in silenzio, mentre si avviava verso il letto sopportando con dignità il dolore all'arto ferito; a metà strada l'ufficiale si decise a raggiungerla; la aiutò invitandola a circondare il suo collo con il braccio, la accompagnò fino al bordo del letto dove poté tornare ad accomodarsi riscoprendo un po' di sollievo dalla sofferenza fisica. Era ancora a pochi centimetri dal viso della ragazza, riuscivano a percepire i loro reciproci respiri, affannati dall’adrenalina della giornata. Fu in quel piccolo angolo di riservatezza tra superiore e sottoposto che Gwendoline rivolse una promessa al seal, dal quale prendeva con fierezza ordini, e a se stessa.
«Non la abbandonerò, capitano. Non lascerò Alex nelle loro mani. Vivo o morto lo voglio rivedere»
Il tenente lasciò che il braccio della ragazza scivolasse piano dal suo collo. Riprese possesso della sua divisa, la infilò e si premurò di allacciare ogni singolo bottone con un sorriso malinconico sul volto.
«Ti ho sottovalutata»
«Mi ha salvata, la ringrazio. L’imam è morto, vero? Stavo parlando con lui, poi credo di essere svenuta. Ricordo solo le sue braccia che mi sorreggevano»
La imbarazzava pensare ad una certa promiscuità tra loro, a quel tipo di vicinanza, eppure era consapevole che senza il suo tempestivo intervento sarebbe morta con ogni probabilità.
«Hanno spento l’incendio. Ho preferito occuparmi della tua ferita, l’ho fasciata con ciò che avevo a disposizione e ti ho accompagnata in ospedale»
«Le devo la vita»
«Non mi devi nulla»
Christian infilò una mano nella tasca alta dell'uniforme ormai del tutto chiusa sul petto ed estrasse un oggetto: era un semplice sasso, liscio e piatto al tatto. Appena Gwen lo vide, sorrise commossa, era quasi divertita; sul viso della recluta si scavarono un paio di fossette ai lati della bocca per la prima volta dopo diverso tempo. Il tenente rivide in lei l'espressione della giovane innamorata e inesperta della vita.
«Ti è caduto dalla tasca. Immagino abbia un valore affettivo»
«È di Alexander. Mi ha promesso che tornati in America mi avrebbe insegnato rimbalzello sull’Hudson. È stupido, lo so»
Lei lo recuperò dalle mani dell'uomo e lo strinse nel suo palmo, come se fosse in grado di infonderle coraggio, le parve così di sentire più vicino quel ragazzo; ricordare i loro ultimi dialoghi, le promesse di felicità e di serenità avevano un profumo di normalità.
«No, non lo è. Ti prendo un po’ d’acqua per sciacquarti la gola, sarà secca dopo tutte queste ore»
Rimase sola e gettò uno sguardo verso il cielo, stringendo più forte il sassolino; una lacrima tornò a percorrere il suo viso, ma stavolta l’acqua non la fermò. Si chiese se lei e Alex si trovassero ancora sotto la stessa volta celeste o se lui fosse passato ad una vita migliore; in quel caso, immersa nello squallore dell’Afghanistan, un po’ lo avrebbe invidiato.


 

Periferia Ovest di Kabul, 11 settembre 2018

 
Karim era a disagio, non ricordava l’ultima volta che qualcuno si fosse preso cura di lui; era un'abitudine che non era solito vivere, era molto più facile il contrario, anzi il medico di Herat lo apprezzava maggiormente. Era nato e cresciuto in una famiglia molto numerosa, prendersi cura del prossimo era una vocazione, una predisposizione maturata fin dalla più tenera età. Per compensare il dolore provocato dall'improvvisa solitudine, si era imposto di non inaridire la sua anima, gli era stato insegnato a non lasciarsi trascinare dall'odio che il cuore umano talvolta generava; aveva perso buona parte della sua famiglia, la guerra in corso aveva disperso i sopravvissuti, ma lui non si era mai arreso alla vita e aveva sempre cercato di strappare quante più anime possibili alla morte. Aveva sempre riscoperto un atteggiamento ottimista, anche il più flebile alito di vita era sinonimo di speranza e lui non si arrendeva prima che l'evidenza dichiarasse il decesso più veloce di quanto avrebbe potuto fare lui.
Samuel non lo aveva abbandonato, aveva rischiato al suo fianco e da buon amico aveva mosso le redini della sua situazione sanitaria - nonostante la sua inesperienza - , molto difficile da gestire in territori bellici; da medico conosceva il valore dei farmaci, la carenza di essi li aveva resi molto più preziosi e introvabili. Il dottore del piccolo e sperduto villaggio sentiva di aver sacrificato un’anima bisognosa per salvare la propria vita; il giovane reporter lo aveva rassicurato, avrebbe potuto salvare molte più vite in salute, senza di lui la sua gente non avrebbe avuto alcuna speranza di sopravvivenza, gli ospedali erano distanti e inagibili, spesso impreparati, lui era necessario per un primo soccorso che avrebbe potuto fare la differenza tra la vita e un'atroce morte. Dopo diverso tempo, il giornalista americano era stato il primo a farlo sentire meno solo, aveva scoperto una spalla su cui contare e non era una sensazione così spiacevole; di norma era lui un valido sostegno per gli altri. Samuel era un dono che il cielo aveva deciso di mandare loro, un segno, la conferma che l'umanità non aveva del tutto abbandonato Kabul e il giovane era la differenza necessaria per continuare a credere nella bontà del genere umano.
Era ancora convalescente, ma sentiva che le forze si stavano rigenerando velocemente nei muscoli e nelle vene; non era mai stato privo di tenacia, se così non fosse stato non avrebbe mai potuto attraversare indenne - nel corpo, meno nel cuore - diciassette anni di conflitto. Era vivo, respirava ancora, qualcuno oltre la volta celeste gli aveva concesso una seconda possibilità, aveva deciso che dovesse continuare il servizio presso la sua popolazione; era convinto che Dio avesse posto una mano sul suo capo e lo avesse protetto, unico effimero appiglio quando ogni bene materiale e spirituale veniva a mancare e persino la speranza minacciava di abbandonarli. 
A fatica si diede la spinta per sollevarsi dalla posizione supina dopo un lungo riposo, da tempo non toccava il suolo freddo con i piedi scalzi; sentì la colonna vertebrale scricchiolare leggermente, fu una sensazione piacevole, sinonimo di rinascita, qualcosa dopo giorni difficili stava cambiando, avvertiva chiaro un miglioramento nel suo fisico, il peggio era passato. Da medico era consapevole che qualche ulteriore giorno avrebbe giovato alla sua ripresa; era ancora molto debole, l'equilibrio non era stabile, rischiava una ricaduta, eppure accantonò le sue stesse raccomandazioni, la sua impotenza era durata fin troppo.
«Karim!»
La voce affannata di Maryam interruppe la sua concentrazione e catturò la sua attenzione. La ragazza si era affacciata con furia alla porta mezza diroccata, lasciata spalancata da Samuel; aveva il niqāb slacciato all’altezza delle labbra e lacrime cariche di dolore che sgorgavano senza alcun freno. Non era solita mostrarsi in quello stato; dava l'impressione di aver corso, scoprire le vie aree era stata per lei una questione di sopravvivenza preda dell'affanno e del pianto sconsolato. Karim riusciva a scorgere il volto arrossato dell'amica; qualcosa non andava e iniziava ad essere coinvolto nella medesima ansia dipinta nello sguardo innocente della giovane.
«L’imam è morto. Karim, c'è stato un attentato in moschea»
«Maryam, calmati»
Si alzò per raggiungerla con grande fatica; dimostrava molto più della sua età in quelle condizioni fisiche, necessitava di sorreggersi ovunque per compiere il breve tragitto. La figura della ragazza era illuminata da una luce insolita; l'azzurro del cielo era coperto da nubi compatte e il leggero chiarore era dovuto alle ore di un metà pomeriggio ancora estivo. Era certo di non contagiarla con la loro vicinanza, gli antibiotici che Samuel si era premurato di somministrargli lo avrebbero impedito, era sicuro che i farmaci avrebbero svolto il loro lavoro, avevano ormai dissolto la carica attiva dell'infezione.
«Non troviamo Hassan. Temiamo sia rimasto coinvolto»
Aveva il fiato mozzato, non respirava, un attacco di panico la stava catturando; si portò la mano al petto e alla base del collo. Il medico si stava allarmando, erano chiari sintomi di un disagio fisico e psichico.
«Maryam, respira»
Provò a calmarla con affetto, le porse una carezza sul viso raccogliendo in parte lo sfogo della sua frustrazione, fece scivolare il palmo sulla sua spalla; stava davvero male, fu tentato di abbracciarla, ma non si spinse oltre, non violò anche quel divieto. Karim temeva un arresto respiratorio, era molto agitata, troppo, serviva un tranquillante di cui lui non era munito.
«Non lo aiuti così»
«S-Samuel lo sta cercando insieme a mio padre. E se … non voglio perderlo»
Piangeva disperata con il volto scoperto; l'amico non scorgeva i suoi lineamenti sotto il velo da quando era diventata una donna e aveva iniziato a perdere le fattezze più infantili.
«Sono certo stia bene. È un bambino in gamba. Maryam, rischi di sentirti male ed io non voglio, non darci altri pensieri»
Era troppo tardi per chiedere al cuore di placarsi, era entrata in un tornado di malessere e da sola non sarebbe stata in grado di vincere. Maryam non era abbastanza forte per lottare contro i tormenti, era debole, possedeva un'anima fragile, crepata da continue sofferenze, ogni parte del suo corpo dichiarò la sconfitta; si accasciò al suolo grezzo, svenne senza preavviso, eppure Karim aveva previsto un simile epilogo. La caduta per la giovane non fu così violenta, l'uomo la attenuò, lasciando che lei scivolasse tra le braccia e si accostasse al pavimento; il medico si era premurato di sorreggere la testa e di soccorrerla con tempestività con le poche forze rimaste in circolo. Samuel li raggiunse nel momento più opportuno.
«Maryam. Cos’ha?»
Karim mantenne il sangue freddo, era una dote che oltrepassava ogni possibile coinvolgimento emotivo.
«Un calo di pressione. Per favore, adagiala sul mio letto, provo a controllare i suoi parametri»
L'americano accolse preoccupato la sua richiesta. Era appena rientrato nel villaggio per comunicare il fallimento delle ricerche; era demoralizzato per la notizia nefasta che avrebbe dovuto comunicare a malincuore alla sorella del piccolo scomparso; credeva ci fosse un limite alla sofferenza e invece in Afghanistan non vi era alcun confine, la sofferenza era sempre dietro l'angolo pronta a svelarsi.
«Tu dovresti riposare, Karim»
«Ti sembra il momento di riposare?»
Non era il tempo di adagiarsi, non lo era da anni. Con cautela Samuel aveva scortato la ragazza nell'abitazione e l'aveva accomodata tra le lenzuola disfatte. Non avrebbe potuto visitarla, era un compito riservato alle donne, ma si avvalse del giuramento che ogni buon medico avrebbe dovuto pronunciare, non poteva e non voleva negare le cure ad alcun essere umano. Il dottore le ascoltò il cuore dal polso e dalla carotide, era flebile, ma non minacciava di abbandonare il suo corpo; era concentrato, ma si rivolse comunque serio a Samuel che era rimasto accanto a loro. 
«Avete trovato il bambino? Temo che Hassan sia la sua migliore cura»
Le controllò le pupille senza il favore della luce, le alzò leggermente le palpebre; era assente e non era certo che svegliarla fosse la soluzione. Le porse una carezza sulla fronte imperlata di sudore, non serviva ad alleviare il malessere, ma le infondeva la vicinanza di un uomo che le voleva davvero bene.
«Non ancora. Non è tubercolosi, vero?»
«No. È colpa delle condizioni in cui viviamo. Ha bisogno di qualche flebo, ma io non ne ho a disposizione»
«Come posso aiutarla?»
Il giornalista sentiva viva sul petto la pressione della giornata, l'impotenza lo stava attanagliando, in poche ore la situazione precaria in cui riversavano era precipitata. Piangere era l'unico modo per sfogarsi, non vedeva altre vie, stavano affondando nelle sabbie mobili e non vi erano appigli.
«Karim, come posso aiutarvi!»
Il medico gli rivolse un dolce e commosso sorriso, scostando per un momento lo sguardo dalla giovane donna.
«Samuel, stai facendo abbastanza per noi. Non puoi sfidare il destino e fermare la guerra»
Quando Karim si voltò di nuovo verso di lei, un dubbio si insinuò nella sua mente. Pronunciò lo stupore tra i denti, la tenerezza lo aveva abbandonato; sperò di sbagliarsi, ma vi erano pochi margini di errore per un uomo che negli anni aveva dovuto soccorre ogni genere di paziente ed era dovuto diventare per necessità qualsiasi specialista nel campo medico, pur di salvare una vita e in molti casi due con lo stesso intervento.
«Non può essere»
Alzò l’orlo laterale del vestito; non si premurò di violare l'intimità della ragazza. Lo vide con orrore; le mura e il soffitto della casa in cui si trovavano si erano avvicinate così tanto a lui, offrendogli la drammatica e soffocante percezione di schiacciarlo, in quel caso sarebbe stato meno doloroso.
«Karim, cosa ti prende?»
Il medico non gli rispose, lo shock si era impossessato di lui, non appena scorse il ventre leggermente gonfio.
«È incinta … Maryam aspetta un bambino»
La sua voce risultò sottile; era preoccupato, rassegnato, scosso. L'incredulità e la delusione vincevano su ogni emozione. Non si era accorto di nulla, eppure si erano incrociati ogni singolo giorno per strada, si confidavano, si confrontavano, parlavano dei timori e delle sofferenze reciproche. Non era deluso da lei, solo da se stesso per non aver capito; era lui l'adulto, era lui il medico, lui avrebbe sempre e solo voluto proteggerla dal mondo in cui vivevano, ma non aveva mai saputo come fare. Era arrivato tardi.
«Non sapevo che avesse una relazione con qualcuno»
Si voltò esasperato verso Samuel, ma era l’ultima persona su cui vomitare ogni genere di frustrazione.
«È una bambina! Era solo una bambina, Samuel, qualche bastardo l’ha … è colpa mia, non ho saputo proteggerla. Non si è confidata con me ed io non l’ho capito»
«Karim, ti sei ammalato gravemente e poi la gravidanza non sembra avanzata, o lo è?»
Il medico negò con un lieve cenno, rassegnato.
«Cosa succede se suo padre lo scopre?»
«Lei è promessa, non decide chi amare. Non capisco per quanto credeva ancora di nasconderlo»
Karim non gli stava dicendo nulla di nuovo. Il fatto di non essere stato in grado di aiutarla e confortarla in un momento drammatico della sua vita feriva l'afghano; era una figlia per lui, qualcuno da difendere, anche a costo di costruire intorno a lei una campana di vetro, finché tutto quell'orrore non fosse cessato. Aveva promesso a lei e a se stesso di farlo, ma aveva miseramente fallito.
«Suo padre la ripudierà, non sono ammesse relazioni prematrimoniali. Questi sono i vostri soldati, pensano di poter fare ciò che vogliono sulle nostre donne. Devono trovare una valvola di sfogo e decidono di sfogarsi su di noi»
Samuel non seppe cosa rispondere. Succedeva anche quello in Afghanistan, ogni giorno scopriva un lato oscuro e terribile di quei luoghi così lontani dalla sua coscienza. L'ufficiale che aveva avuto modo di conoscere non avrebbe mai commesso un crimine così vile e barbaro, non avrebbe mai alzato un dito su una donna; non potevano essere tutti nobili al pari di lui, non tutti gli uomini erano buoni in fondo, la guerra era una prova sufficiente. Ora capiva la poca fiducia di Maryam verso i soldati, capiva le sue parole sulla poca fede nel genere umano. La determinazione di Karim lo riportò al presente; la debolezza fisica aveva in parte abbandonato l'infermo, nel dramma della scoperta fu piacevole leggere tanto ardimento nell'espressione del medico.
«Non mi resta che sposarla prima che la gravidanza si noti, non so in quale altro modo aiutarla. Dirò che il bambino è mio. Avevo già pensato di chiedere la sua mano al padre per salvarla da quell’uomo, così non avrebbe dovuto sopportare un matrimonio poligamo. Con me sarebbe libera, libera di scegliere chi amare, non le rimprovererei nulla»
Era assurdo per Samuel, per proteggere una giovane la soluzione migliore era prenderla in moglie, acquisire ogni diritto su di lei e lasciarla libera di violarli, perché nel caso con il nobile medico di Herat non avrebbe subìto alcuna punizione.


 

Boschi di platano - periferia settentrionale di Kabul, 11 settembre 2018


Il profumo di vegetazione inondava le narici del generale, offriva a Flores la possibilità di sentirsi più uomo e meno soldato. Nessuno dei suoi commilitoni avrebbe sospettato che anche il comandante dell'efficiente unità militare statunitense sentisse la necessità di altro rispetto alla ruvida terra scavata dalle bombe. Indossava gli abiti militari, ma non bruciavano sulla pelle; il sole si era nascosto oltre le nubi. Tutto faceva presagire ad una tormenta: la luce tetra, la brezza fresca, le foglie quasi ingiallite di piante più fragili del platano iniziavano a posarsi leggere al suolo. Non temeva la pioggia, non temeva la tempesta, era stato trapassato da parte a parte dalla peggiore furia che avrebbe potuto vivere, una pallottola gli avrebbe provocato meno cicatrici.
Con l'ausilio di un cortellino svizzero stava incidendo un pezzo di legno; era pervaso da una foga irrazionale e inedita per chiunque lo conoscesse - manteneva i nervi saldi in qualsiasi occasione -, ma non per lui, non in quel giorno. La lama gli scivolò e percorse il suo palmo, recidendo la pelle e incidendo una profonda linea obliqua; non avvertì dolore, vide il sangue macchiare il legno e l'erba sul suolo, ma non se ne curò.

 

Berlino Ovest, 3 gennaio 1985

Sotto la soffitta il vociare persistente di una festa era sfumato dal rintocco dei tasti di un pianoforte, antico ma ancora funzionante. Mark Flores, un giovane appena trentenne di buona famiglia, produceva una lenta melodia seguendo con rigore il pentagramma di un vecchio spartito impolverato, di cui si serviva durante le sue lezioni di musica all’Istituto Julius Stern che aveva frequentato fino al termine dell'adolescenza. Aveva smesso di suonare almeno dieci anni prima, in occasione dell’ultimo anno di guerra in Vietnam; aveva combattuto come soldato tra le fila tedesche e aveva affiancato e supportato gli americani, connazionali della sua famiglia prima del loro trasferimento in Germania negli anni '50. Non andava fiero dei suoi vent'anni e di tutto ciò che aveva compiuto nei dodici mesi del suo arruolamento; era stato consolante tornare in Patria, ma lo sarebbe stato ancor più se ad attenderlo non fosse stato ancora presente lo stato di assedio che si era lasciato alle spalle all'atto della partenza.
Era lieto di festeggiare la mezza età di sua madre, ma necessitava di qualche minuto di pace, lontano dalla folla di amici e parenti. Era diventato un uomo piuttosto solitario dalla sua prima e unica esperienza bellica al fronte; non riusciva a godersi i piaceri della vita come forse avrebbe dovuto. La guerra aveva lasciato ricordi difficili da rimuovere che emergevano nelle giornate meno opportune, in quelle rare occasioni di pace in cui la gioia avrebbe dovuto celare per qualche istante la desolazione che si respirava all'esterno delle abitazioni, specie nella stagione più fredda dell'anno; la coltre bianca al suolo e su ogni tetto attutiva rumori e suoni. Il calore dei cari era l'unica àncora di salvezza, la presenza della famiglia era una fortuna che smorzava malinconia e nostalgia.
Erano in piena Guerra Fredda, la zona occidentale della città era ben distinta da quella orientale attraverso un muro in calcestruzzo, alto nemmeno quattro metri, ma con un grande impatto emotivo sui cittadini. Lui per primo subiva l’influenza della recinzione; dall’altra parte viveva la donna che amava e che non perdeva mai occasione per trasgredire le severe leggi della polizia di frontiera. 

Sapeva di avere lo sguardo della ragazza addosso, proveniva dalla porta, i suoi sensi di militare non lo stavano tradendo. Dopo pochi secondi si avvicinò a lui per affiancarlo sulla panca e sfiorare le dita dell’uomo prima ancora che i tasti bianchi e neri. La giovane conosceva il bisogno di solitudine del fidanzato, ma non poteva lasciare che si abbandonasse a sentimenti grigi. 
«Dovrai insegnarmi prima o poi. E la scusa di aver smesso di suonare non regge con me»
Gli rivolse un dolce sorriso senza smettere di contemplare con aria sognante la lunga tastiera; amava ascoltare le melodie prodotte dal ragazzo, non si sarebbe mai stancata, si lasciava cullare e inabissare dalla delicatezza delle vibrazioni che le mani di lui sapevano infondere nell'atmosfera. Mark non riusciva a togliere gli occhi da lei, dal suo vestito lungo ed elegante, candido come lei. Una ciocca di capelli minacciava di oscurarle il viso; il ragazzo la scostò con dolcezza provocando alla ragazza un brivido e facendola voltare nella sua direzione.
«Te lo insegnerò … ma prima sposami, Isabel»
«Cosa?»
«Ti farebbe piacere essere mia moglie? Mi faresti questo onore? Non ho anelli, nulla, spero tu possa accettare comunque»
Non aveva alcun senso, a loro, che vivevano separati da un muro di cemento, non era consentito unirsi in matrimonio. A lei piaceva sognare, credere che il loro amore fosse sufficiente; lui era felice di assecondarla, accendere uno sguardo sognante sul suo viso perfetto.
«Quando?»
«Domani»
Era la loro promessa di felicità, l'idea che un "domani" per loro ci sarebbe stato davvero, un futuro che avrebbe dato una svolta definitiva alla loro relazione, ad un rapporto solido, a un amore incancellabile. Isabel catturò le labbra del fidanzato in compagnia di scie salmastre che avrebbero offuscato la vista se non avesse abbassato le palpebre per assaporare al meglio quei pochi attimi di spensieratezza. Il loro desiderio non si sarebbe mai realizzato, ma non volevano pensarci, si imponevano di non farlo. Mark aveva combattuto in Vietnam, in un anno di servizio aveva assistito ai peggiori orrori; credeva che il peggio fosse passato e invece era solo ingenuo; aveva lasciato un conflitto per viverne un ennesimo, una guerra silenziosa, bianca, fatta di ribellioni più che di armi, era il desiderio di libertà a spingere al sacrificio, alla lotta, non vi erano ideologie per i cittadini, a scontrarsi per la supremazia erano solo i capi delle nazioni. Era un malessere psicologico più che fisico, era un'agonia che cessava solo con la morte o se si aveva la fortuna di spegnerla tra le braccia della persona amata. 
«Ci sposiamo e scappiamo»
La fece sorridere; non mancava mai di ricordarle che prima o poi sarebbero insieme saliti su un volo con destinazione America, la nazione che era stata la terra promessa per i suoi antenati. Erano soliti ammirare Berlino dal cornicione della soffitta, guardare oltre il muro, sognare la libertà. Quella sera così fredda non ispirava stare seduti fuori a rischiare di infreddolirsi, piuttosto perdersi l’uno tra le braccia dell’altra. La sollevò cingendole le gambe e la schiena, la attirò contro il suo petto e la scortò verso il letto spoglio su cui erano soliti consumare il loro amore; in pochi minuti la solitudine non era più tra i suoi primi desideri, chiedeva una sola e unica compagnia, strappata ad ogni possibile destino funesto. Su quel giaciglio la sovrastò dolcemente con l’unico pensiero di proteggerla, amarla e viverla ancora per una sera che era stata regalata a loro dal fato.

Per colpa dei sentimentalismi aveva perso Isabel. Il cuore si stringeva, la testa girava e la vista si oscurava quando il ricordo del giorno più tragico della sua vita tornava alla memoria; riemergeva come uno tsunami indelebile, un dolore che provocava lacrime ad un uomo che raramente ne conosceva il sapore. Un paio di giorni dopo la proposta di Flores, la ragazza venne fucilata nel tentativo di raggiungere la sua famiglia nella Germania Est; le avevano sparano sotto gli occhi del fidanzato inerme. Ricordava di aver gridato al vento, ricordava il sangue che macchiava la neve candida, i vestiti pesanti non erano riusciti ad attutire i tre colpi di fucile Mondragon che lui riconobbe subito e che rimbombavano ancora nitidi nei timpani dopo trent'anni. L'ultimo ricordo era di una giovane quasi esanime in preda alle convulsioni per un'emorragia inarrestabile. Era corso da lei, l'aveva stretta a sé nel disperato tentativo di strapparla alla morte, ma le sue braccia non erano riuscite a proteggerla. Lui, un soldato, non l'aveva salvata. Prima di spirare in un'ultima nuvola di vapore freddo, gli aveva ricordato quanto lo amasse; lei era sua moglie a tutti gli effetti, non aveva mai voluto vedere in vita sua altre donne. I sentimentalismi in guerra erano nocivi, pericolosi, lei aveva seguito i sentimenti ed era morta. Flores aveva sempre creduto, fin dal Vietnam, che sarebbe morto prima lui, col senno di poi se lo sarebbe augurato, pur di non vivere un lutto così lancinante. Era morta con il sorriso sulle labbra, convinta di morire per amore, ma l'amore non aveva vinto, la Guerra Fredda si era portata via la sua esistenza, la loro vita. Era scoppiato a piangere solo quando lei non avrebbe ormai più potuto sentirlo, non serviva più infondere coraggio durante l'estremo saluto, nel momento del trapasso, lei non respirava più, gli era stata strappata da ideali di potere che non riguardavano i cittadini, loro subivano ignari e impotenti; le aveva sfiorato le guance prima che esse potessero ghiacciarsi, voleva sentire un'ultima volta il calore del suo corpo, bearsi della forza di una donna, senza la quale non avrebbe saputo come proseguire e vivere i giorni a venire.
Quattro anni dopo, il muro era stato abbattuto, ma per Flores non vi era alcun motivo di gioia, lei era morta prima di poter godere della libertà e di poter coronare il loro sogno. Aveva lasciato la Germania, era tornato nella terra d'origine della sua famiglia, con la speranza di alleviare il dolore e di coronare il sogno che condivideva con l'amata. Aveva lasciato la tomba di Isabel a Berlino presso la famiglia, non erano sposati, non aveva alcun diritto sulle sue spoglie. Prima di partire per l'Afghanistan era tornato nella capitale federale tedesca - ormai così diversa nelle fattezze rispetto a ciò che aveva vissuto lui a suo tempo - per un saluto alla promessa. Da trent'anni l'anello di fidanzamento che il giorno successivo alla proposta le aveva regalato lo aveva accompagnato nei suoi viaggi, lo aveva voluto tenere per conservare l'esistenza di quella donna, non era riuscito a lasciarlo al suo anulare durante il riposo eterno. 
Flores scivolò dal tronco mozzato su cui si era accomodato per meditare, si accasciò sulle ginocchia e pianse nel gomito per non macchiare il viso basso con il suo stesso sangue; non si vergognava, nessuno lo vedeva e anche se fosse stato, non riusciva più a trattenere il dolore di quella giornata così cupa nel suo cuore. Era stato privato di lei e dei figli che avrebbero potuto avere. Avrebbe dovuto puntarsi la pistola contro anni prima, non sapeva più vivere senza di lei e con il rimorso di non aver saputo proteggerla.

"Isabel, ti prego, aiutami. Ovunque tu sia, restami accanto"

La sognava ancora, sognava i loro ultimi momenti. Il rimpianto era un tormento, come il rimorso di non aver saputo vincere contro le severe leggi e portarla al sicuro molto prima che fosse per lei e per loro troppo tardi. I passi incerti di un compagno d'armi, un alleato, si stavano avvicinando a lui; un uomo zoppicava a pochi metri da lui, fu facile riconoscerlo. Mark non si scompose, scoprì il volto, ma non si preoccupò di rimuovere dalle guance i segni della sua debolezza; l'ultimo arrivato era in confidenza con l'ufficiale.
«Generale Flores, non la vedevo piangere da un po'»
«Colonnello, non stavo piangendo»
«Sicuro, Mark? Sono già trentatré anni»
Era il fratello della ragazza che aveva amato; anch'egli portava i segni della guerra, aveva lasciato una parte del suo femore in Vietnam e da un occhio aveva perso metà diottrie. Avevano combattuto spalla contro spalla fin dalla gioventù e continuavano a farlo in qualsiasi territorio bellico venisse richiesto loro di portare l'esperienza maturata nel corso degli anni.
«È colpa mia se lei è morta. Pensare il contrario non mi aiuta. Ha sfidato quella gente per me»
«Isabel ti amava, se non avesse lottato per te la sua vita non avrebbe avuto alcun senso»
«E la sua morte lo ha? Avrei preferito sapere che fosse tra le braccia di un altro, purché viva»
«Lei non sarebbe stata dello stesso avviso. Sono passato al campo santo prima di tornare al fronte. Sarebbe fiera di te»
«Non lo sarebbe. Le avevo promesso che non avrei più combattuto, dopo il Vietnam avevo chiuso con il servizio attivo»
«Le sei rimasto fedele tutti questi anni»
Un misto di sorpresa, ammirazione e rimprovero si dipinse sul volto del colonnello tedesco; voleva bene a Flores come se fosse un fratello di sangue diverso, erano accomunati da una grande perdita. Non aveva mai rimproverato nulla al cognato, anzi gli era grato per aver dato modo alla sorella di vivere l'amore, che in caso contrario non avrebbe mai conosciuto.
«La amo troppo per pensare ad un'altra donna. Sarei dovuto morire io, lei avrebbe trovato il modo di andare avanti, era molto più forte di me. Era così pura. Ogni volta che penso a lei mi manca il respiro»
«Penso che il respiro ti mancherà anche dopo la notizia che ti avrò dato oggi»


 


Ciao ragazzi!
Sono ritardo di almeno una settimana, ma è stato molto più semplice realizzare nella mente questo capitolo piuttosto che scriverlo.
Sono davvero capace di ogni malvagità. ^^" Io spero che tutto ciò sia almeno verosimile, altrimenti sarebbe una sofferenza mia e vostra totalmente inutile.

Ringrazio Bloody Wolf per l'aiuto e il prezioso suggerimento e tutti coloro che supportano questa storia con grande affetto <3
Alla prossima!
Un grande abbraccio
-Vale

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Capitolo 22
*** Capitolo 21_Brezza gelida dal passato ***


 
Brezza gelida dal passato






 
Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 12 settembre 2018
 
Delilah aveva cercato il padre ovunque, la camera nella quale era stato collocato si presentava spoglia e silenziosa, come se non avesse ospitato fino a pochi minuti prima alcun paziente; erano però presenti e ordinati gli effetti personali del direttore Clark, segno che l’uomo non aveva avuto alcun ripensamento circa la delicata operazione che avrebbe dovuto a breve affrontare. Daniel si era reso irreperibile proprio nell’ultima mezz’ora che separava padre e figlia dall’intervento, esattamente come era solito fare da sempre, con l’unica differenza che stavolta la sua salute era a repentaglio. 
Prima di raggiungere la cappella dell’ospedale, la dottoressa aveva attraversato gli interminabili corridoi dei reparti, respirando l’aria sterile impregnata di disinfettante e sofferenza; era accompagnata dal suo inseparabile stetoscopio – una seconda pelle per un cardiologo –, il camice candido svolazzava con risolutezza, era l’antitesi del tremore che scorreva nella sua anima. Aveva salutato colleghi e pazienti cercando di celare il turbamento, una sofferenza che solo poche anime a lei conosciute sarebbero state in grado di interpretare, ma suo fratello dall’Afghanistan e sua cognata immersa nell’angoscia non erano disponibili a confidenze. Aveva, infine, intravisto una figura longilinea e slanciata, le cui spalle erano rivolte nella direzione della donna; era deperito nel fisico come non lo era mai stato in vita sua. Daniel teneva un piede fuori e l’altro dentro la cappella; a pochi metri di distanza, il medico scorse lo sguardo del padre rivolto al protettore degli infermi, a cui quel luogo era dedicato. Se l’uomo non avesse stretto tra le mani la sua agenda beige da lavoro, Delilah avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo; era affranto e impotente, avvilito e convinto di vivere i momenti precedenti all’intervento in piena solitudine. Sentiva di non meritare alcun genere di conforto. Aveva modificato le sue abitudini dal momento della diagnosi, la malattia lo aveva intimorito; i soliti sigari non erano più così dolci, prediligeva il caffé amaro e in numero limitato. Il lavoro era rimasto frenetico, eppure cercava di affrontarlo senza l'ausilio di nicotina e caffeina, ci provava per sé, ma anche per Delilah che si stava prodigando per aiutarlo e ciò era innegabile.
Agli occhi della figlia non gli si addicevano le vesti del malato, possedeva il suo consueto portamento da uomo d’affari, con un leggero pallore sul volto e abiti poco consoni per un infermo ricoverato; a lui non importava del luogo in cui si trovasse, le energie non gli erano mai mancate, ne strabordava, sul lavoro era sempre in prima linea, lo stesso approccio che in fondo aveva richiesto al secondogenito. Si destreggiava tra l’agenda e il cellulare in cerca di una normalità che iniziava a rimpiangere persino la dottoressa e che nel qui ed ora lo aiutava a non crollare del tutto sotto il peso del destino. Era intento a riordinare le ultime questioni prima di un intervento delicato; il luogo in cui Delilah lo aveva ritrovato comunicava l’intensa irrequietezza del direttore. Qualunque buon medico avrebbe provato a consolare e a rassicurare un paziente malato di cuore, qualunque cardiochirurgo che non fosse in preda al timore di fallire e quindi anch’ella in dubbio sulla riuscita dell’intervento.
«Ehi. Pensi che mi libererò di te così facilmente? Rimanda qualcosa a più tardi, non serve affannarsi ora»
La voce di Delilah tremava in modo impercettibile di ansia e paura: paura di perderlo e sentirsi davvero orfana di quel padre così snaturato e per questo così fragile. Lo affiancò rivolgendo un saluto religioso alla medesima statua del santo protettore; la donna si avvicinò ai cerini, ne afferrò uno spento e lo congiunse ad uno già accesso per catturare la fiamma viva. Le vetrate colorate producevano un gioco di luci affascinante, Delilah non se ne era mai accorta, prima di allora non aveva avvertito la necessità di soffermarsi in preghiera in quel remoto anfratto dell’ospedale; sapeva fosse il rifugio di molte madri e molti figli in angoscia per le sorti dei parenti, anime in pena, associava solo questo a quel silenzioso angolo. Lei non si era mai trovata nella scomoda posizione di doversi affidare al cielo, ma nelle sue mani umane iniziava ad avere poca fiducia, esattamente da quando rivestiva il ruolo sia di medico che di  figlia indossando il camice bianco.
Daniel non ricordava di essersi mai soffermato così a lungo sull’immagine della primogenita; i suoi movimenti erano aggraziati, rivide in quelle movenze – oltre il gesto particolare – la bambina che non aveva avuto l’opportunità di crescere ed educare. Non era stato per Delilah una figura costante, l’aveva reso padre, ma la loro lontananza fisica - la mancata condivisione della quotidianità - non gli aveva consentito di diventare l’esempio che la figlia avrebbe meritato; non possedevano lo stesso animo, forse era considerata una fortuna da parte di Delilah. La vedeva per la prima volta, non avevano mai spartito così tanto tempo senza battibeccare – senza che lei provocasse e lui si sentisse punto nell’orgoglio. In una rara occasione si era soffermato sui dettagli di cui non conosceva neppure l'esistenza, era sempre troppo preso dal loro disaccordo ogni qualvolta condividessero lo stesso spazio vitale; la dottoressa che portava il suo cognome era cresciuta diventando una donna bella e delicata, una donna in carriera di cui qualunque padre sarebbe stato fiero. Era assurdo, l’ansia stava catturando entrambi, eppure non si erano mai sentiti così in pace l’uno con l’altra, uniti nella medesima preoccupazione - ad eccezione della pena per Samuel solo in parte dichiarata da Daniel. Il direttore incrociò le braccia al petto, reggendo il cellulare e l’agenda in un’unica mano; accantonò per un momento la frenetica quotidianità da affrontare in redazione che aveva sminuito gli affetti più prossimi, la malattia lo aveva costretto a fermarsi e a riflettere. Affiancò la figlia con pacatezza, insieme alla debolezza si fece strada l’idea di non essere mai stato in grado di starle accanto, nei piccoli e nei grandi dolori. Daniel non riusciva a capire se Delilah stesse soffrendo per il quadro clinico del genitore, i loro sguardi si incrociavano e respingevano nello stesso frangente, consapevoli entrambi dell’eccezionalità dell’evento che stavano vivendo, del tempo di amara e nostalgica serenità che in compagnia l’uno dell’altra stavano trascorrendo. Sul volto della dottoressa si dipinse un mezzo sorriso, il suo tono di voce si addolcì, come era accaduto poche volte al cospetto del padre, nei confronti del quale negli anni aveva maturato una buona dose di diffidenza.
«Tua moglie non è qui?»
Daniel rivolse un’espressione sfinita verso il pavimento lucido e si passò un palmo sul viso pallido; si stropicciò gli occhi, prese tempo, non aveva alcuna risposta pronta, solo una magra scusa da accampare. La reazione remissiva del padre paralizzò Delilah, le stava mostrando e svelando un volto inedito. Era il clima giusto per parlare: avrebbero dovuto pregare, invece la quiete prima della tempesta che era calata tra loro ispirava confidenze, con il rischio che sarebbero potute essere le ultime.
«Credo arrivi più tardi. Senti, ogni volta che mi chiami papà, quelle rare volte che lo fai, mi sputi addosso odio e ...»
«Io non ti …»
«… ed hai ragione»
Il direttore del Los Angeles Times non era rinomato per la sua delicatezza; sentire dichiarare fallimento dalla sua voce profonda, colorita da anni trascorsi al comando di una famosa testata giornalistica, equivaleva ad un presagio di morte e il pessimismo non era un aiuto per la figlia. L’aveva pregata di non interromperlo con un gesto flebile della mano; fissava punti immaginari ai lati della donna, ma non riusciva a proclamarsi sconfitto incrociando gli occhi che appartenevano alla madre di sua figlia e che un tempo aveva amato, avrebbe avvertito una doppia dolorosa accusa, non sopportabile nelle sue condizioni di degenza.
«Così non riesco ad operarti. Perché me lo dici solo ora?!»
Il fiato di Delilah era spezzato, rimbombò a tratti nella piccola cappella ritornando amplificato all’udito dell’uomo. Non era in grado di rispondere alla domanda della figlia, ma ebbe la triste conferma di non saper parlarle senza ferirla, così come aveva osato fare a proposito del marito di lei pochi mesi prima; non era sua intenzione insinuare che lei avesse colpa per la fine del suo matrimonio, eppure lo aveva fatto e non era in grado di rimediare a quell'errore, agli sbagli e alle innumerevoli mancanze di anni.
«Perché sono pessimo, Delilah, e non so in quale altro modo amarti»
«E ciò ti giustifica? Hai l’alibi, vero? Io non sono Nathan, non sono un avvocato, non mi devi fornire ragioni valide per difenderti e salvarti da una condanna. Sono solo la stupida dottoressa che proverà a salvarti la vita dopo averti messo in guardia sui rischi a cui saresti andato incontro con il passare degli anni. Sono la cretina che ti vuole bene nonostante tutto! Papà, io non riesco a condannarti per il male che mi hai fatto, non meriti di soffrire»
Avrebbe voluto chiederle di ripetere, non gli dedicava simili parole da quando era solo una bambina; anche se aveva gridato arrabbiata, la sua furia era stata melodiosa, così diversa. Anche quella donna gli stava dimostrando affetto in un modo del tutto anticonvenzionale, eppure era piacevole sentirsi urlare addosso pensieri così sinceri e carichi di considerazione. Non avrebbero mai potuto cancellare il passato, esso era un fiume in piena che avrebbe continuato a travolgerli; solo insieme avrebbero potuto fermare l'onda anomala dei ricordi, trovare una terra di mezzo asciutta sulle cui sponde creare nuove radici. Era tutto un'incognita, navigavano a vista sotto un cielo ancora minaccioso, tra le onde di un mare in tormenta e l'illusione della sopravvivenza.
«Credevo sarebbe stato più semplice togliere il disturbo»
«Lo credevo anche io»
Era stata così tremendamente onesta, non si era affatto smentita, non aveva temuto di ferire il suo vecchio; il rancore che la accompagnava riusciva ad evadere dalla sua anima e brillare attraverso crepe che il padre aveva aperto nel corso degli anni. Il cuore di Daniel iniziò a pompare più sangue, quando le dita della figlia scivolarono tra le sue e lei tentò di rimediare con un goffo approccio fisico; anche Delilah tremava al loro contatto, ancor più quando l'uomo azzardò e fece una leggera pressione sulla mano della dottoressa; il direttore sfiorò la pelle ambrata con un'unica carezza difficile da interpretare per un uomo d'altri tempi, non era scontato fosse affetto o solo costrizione. Erano separati da pochi passi, lei li colmò con apparente pacatezza, eppure fremeva di abbracciarlo, stringerlo, trattenerlo proprio quando la vita minacciava di abbandonarlo. Anche il muscolo involontario della donna si era trasformato in un vulcano. Daniel non oppose alcuna resistenza, lentamente sciolse le braccia ancora raccolte contro il petto, lasciò che Delilah gli cingesse la vita e avvolgesse la schiena con il suo calore e la sua apprensione; seguì i gesti come se la vedesse compiere quel passo per la prima volta ed era effettivamente così da diverso tempo. La mano e le braccia della figlia erano inedite, sentiva un affetto immeritato; il cuore debole percepiva nuove corde che non aveva mai provato o forse non aveva mai ascoltato oppure, nel caso meno estremo, solo dimenticato. La sorpresa rallentò la reazione dell’uomo, nei gesti di Daniel non vi era entusiasmo, finché non venisse invocato con dolore. 
«P-papà»
Le lacrime con cui la dottoressa inondava gli abiti del direttore provocarono una stretta più ferrea su di lei. I loro sguardi non si incrociarono, in quel caso le confidenze sarebbero state più faticose. 
«Non lasciarmi ancora. Ho bisogno di mio padre»
Mesi trascorsi ad accumulare eventi funesti vennero riversati sull’artefice di buona parte della sua sofferenza. Più la stringeva più il suo cuore risentiva i colpi dell’agitazione; Daniel camuffò il malessere, Delilah però si trovava in prossimità dell’organo che curava per professione, il cui funzionamento conosceva particolarmente bene. Posò il palmo sul petto dell'uomo, sentì il battito irregolare. Era ancora tra le sue braccia, i loro cuori si sfioravano, eppure esprimevano diversamente l'emozione che stavano provando, il direttore non sembrava nelle condizioni migliori per viverla con gioia e serenità. 
«Papà, ti ho raccomandato di stare calmo. Ricordi?»
«M-mi dispiace, Delilah … per tutto»
Il tono dell’uomo si era indebolito, stava sciogliendo l’abbraccio contro la sua volontà. Stava succedendo ciò che lei si era impegnata a scongiurare da quando i risultati degli esami avevano restituito un esito preoccupante. Lo condusse verso una panca di legno, lo sorresse e lo invitò a sedersi, mise in atto ogni strategia possibile per tenerlo sveglio; stava riscoprendo una lucidità che non avrebbe mai creduto possibile con la prospettiva della morte del padre. La donna prese posto accanto a lui, tolse qualsiasi oggetto inutile si trovasse nelle mani di lui. Sapere di non essere solo, sapere che proprio lei ci fosse nel dolore fu un conforto; era certo fossero i suoi ultimi respiri, la gabbia toracica si stava squarciando e sotto le dita della figlia ardeva, insieme agli arti superiore. Il respiro mancava, temeva che a breve non avrebbe avuto più il fiato necessario per comunicare il disagio fisico e psichico di cui soffriva. 
«D-Delilah, credo sia un infarto. Mi fa male …»
«Direttore, ognuno ha il proprio mestiere. Cerca di rimanere sveglio»
La dottoressa Clark catturò gli occhi del malato, simulando sicurezza, la situazione doveva essere sotto controllo, Daniel aveva bisogno di tranquillità per superare indenne la fase più critica senza antidolorifici; recuperò la radiolina dal taschino del camice per poter comunicare con il resto del personale medico. Delilah aveva avviato la comunicazione, non si accertò che dall'altra parte qualcuno la stesse ascoltando, aveva solo urgenza e l'estrema necessità di un aiuto tempestivo. 
«Ho bisogno di una barella in cappella e di un codice rosso in sala operatoria»
Tastò il polso, monitorò i battiti, erano deboli e radi. Si sentì impotente, Daniel soffriva in silenzio per non angustiarla e lei senza un bisturi o un defibrillatore non era in grado di aiutarlo. Le guance della dottoressa erano purpuree, rabbia e tristezza si sfogavano sulla sua superficie cutanea.
«Papà, resta con me. Stanno arrivando i soccorsi»
Non era professionale, eppure fiumi di lacrime scorrevano sulle guance olivastre della donna, la vista era sfocata, offuscata dal timore; nelle condizioni in cui si trovava il cuore di suo padre, temeva che l’arresto cardiaco giungesse presto. Daniel provò ad allungare un braccio per raccogliere il dolore che Delilah stava riversando nella chiesetta attraverso persistenti scie salmastre. I battiti stavano diventando sempre più irregolari e nessuno era ancora giunto per prestare loro aiuto.
«Papà! Non ti azzardare a morire!»
Aveva urlato con l’intento esplicito di mantenerlo legato alla realtà; nonostante il suono amplificato tra le mura solenni, le palpebre di Daniel stavano diventando pesanti. Non doveva farle anche questo, la razionalità della dottoressa venne lasciata da parte, non poteva fallire e lasciarla, non di nuovo.
«D-Delilah, non è colpa tua. Qualsiasi cosa accada … non è tua la colpa»
La dottoressa udì scorrere le rotelle del lettino alle sue spalle, l’intenso rumore aveva rintoccato l’ultimo battito di Daniel.
«Papà»
Lo invocò sfinita dal dolore, ma non si arrese, era certa che il suo cuore avrebbe ricominciato a battere. L’uomo aveva colto la dolce supplica della figlia, ma ciò non bastò, come avrebbe desiderato, a salvarlo.

 
Quartier generale degli alleati – Kabul, 12 settembre 2018
 
Il cielo continuava ad essere testimone delle peggiori atrocità e delle più incerte prospettive. Christian non scorse le sfumature turchesi dell’oceano nella volta celeste - il solo rifugio al quale potesse ambire -, lampi impetuosi e sommessi dominavano il paesaggio devastato da decine di strati di macerie; la mente ribolliva a causa della rabbia, non era mai stato più in disaccordo con il generale Flores. Il tenente non era un codardo, lui non scappava, lottava, talvolta era dedito al sacrificio – spesso per mantenere integra la sua coscienza e per portare in salvo i commilitoni. Non era maturata alcuna sintonia tra Christian e il superiore, non erano riusciti ad oltrepassare le formalità, a riscoprirsi nella loro umanità. Non era sufficiente minacciare il capitano per preservarlo dal pericolo, intimorirlo interpellando Katherine non era abbastanza convincente. Nel corso della loro ultima discussione, il generale aveva concluso dicendo Capitano, non sarò io a comunicare il decesso del marito alla signora Richardson e su quelle parole la questione era caduta.
Mancava una manciata di ore al tramonto, i talebani avrebbero avuto il favore delle tenebre per radere al suolo la base americana. Flores non capiva – o forse si ostinava a rifiutare l’idea – che ogni forza in campo li avrebbe preservati dalla disfatta; il comandante aveva deciso di sollevarlo dall’impresa e di non contemplarlo nel novero dei soldati volontari che si sarebbero prodigati a difendere la loro base. Asseriva che Christian e Gwendoline avessero un compito da portare a termine e senza di loro la conta delle vittime tra civili e militari sarebbe stata più lunga. Il generale dal cuore d’acciaio aveva deciso di sacrificarsi, non aveva serbato alcun dubbio a riguardo da quando il colonnello Keller lo aveva informato dell’imminente pericolo. All’annuncio del piano d’azione, Flores non aveva sorpreso i suoi uomini, nessuno lo aveva mai giudicato un vigliacco, ma aveva seminato una buona dose di apprensione. Era stato ordinato a Christian e Gwen di lasciare la base prima del tramonto. Il seal indugiava, il soldato Ward era stata l’unica ragione valida per non mandare al diavolo seduta stante gli ordini del superiore; lei doveva essere portata al sicuro, non si reggeva ancora in piedi in autonomia e, per quanto rischiasse di essere accusato di maschilismo, lui non avrebbe mai smesso di proteggerla.
«Capitano Richardson, è ancora qui?»
Christian riconobbe l’accento tedesco che nelle ultime ore aveva imparato a distinguere da quello americano dei connazionali o da quello degli altri alleati europei. Il colonnello Keller, a differenza di Flores, era un uomo diplomatico, propenso all’ascolto; aveva notato il passo nervoso e preoccupato del seal mentre si congedava dalla riunione straordinaria indetta dalle massime autorità degli eserciti cobelligeranti. Mark aveva lasciato che il tenente soddisfacesse il suo bisogno di solitudine, il cognato invece si era sentito in dovere di seguirlo; zoppicando lo aveva raggiunto dopo qualche secondo, Christian era più giovane e sano di lui, ma ciò non gli impedì di confortarlo.
«Deve esserci un’altra soluzione per evitare che la base cada nelle loro mani»
Keller, al suo fianco, gettò uno sguardo al prossimo tramonto che stava avanzando nella loro direzione, dipingendo l'orizzonte ma anche l'aria circostante di tonalità calde, infuocate; non replicò, si limitò ad allungargli una fiaschetta - recuperata dalle tasche interne della divisa in parte slacciata - che aveva tutto tranne l’aria di contenere acqua fresca.
«Coraggio, capitano, nessuno rifiuta il whisky tedesco senza pentirsi»
Era stato frainteso, ubriacarsi per evadere dall’incresciosa situazione in cui si trovavano era il suo più grande desiderio, ma allontanò presto la tentazione, non era il  genere di uomo che ovviava ai problemi affongandoli nell'alcol. Il seal fissò la fiaschetta senza realmente scrutarla; la sua vista era attraversata da pensieri più che da immagini.
«Perché il generale Flores avrebbe preso una decisione simile? La base può essere ricostruita, ma gli uomini non possono essere sostituiti»
Lo chiese al colonnello senza la pretesa di ricevere in cambio una risposta, era un'amara constatazione, una velata forma di ammirazione nei confronti di un uomo che li stava guidando nel mezzo di una carneficina; Christian non era a conoscenza del passato che i due condividevano, non sapeva che aveva domandato chiarimenti ad un amico, ad un compagno di gioie e di dolori, Mark per Keller era un fratello.
«Perché ha smesso di vivere anni fa. La morte di mia sorella lo tormenta. Se si fermasse, se non combattesse e si arrendesse, cederebbe ai sensi di colpa»
«È morta per colpa sua?»
«Lui crede che sia così. Capitano, non lo fermi. Mark ha bisogno di vincere la guerra, almeno questa»
Una lacrima sfuggì al controllo del colonnello, il ricordo di Isabel era ancora vivo nel cuore di coloro che l’avevano amata, doleva molto più della sofferenza fisica e dei segni che il tempo aveva lasciato sul suo corpo; gli avevano reciso una parte di gamba sotto la divisa, avrebbe preferito perderle entrambe, pur di rivivere la sorella avrebbe scambiato qualsiasi cosa. Keller avrebbe offerto persino informazioni ai russi per salvare Isabel. Avrebbe tradito la Germania Est o quel che rimaneva della sua dignità; avrebbe voltato le spalle agli americani, i loro aguzzini, coloro che li tenevano prigionieri, ma nessuno aveva mai chiesto un baratto, i sovietici le avevano semplicemente sparato a bruciapelo, senza la possibilità di un addio e di assistere ai suoi ultimi respiri. Lo rincuorava in minima parte che non fosse morta da sola, ma tra le braccia dell'uomo che amava.
«Mi dispiace, colonnello, non ne ero a conoscenza»
«Lo aiuti a salvare quante più vite possibili. Mark se la caverà. La mia unità non ha alcuna intenzione di abbandonare gli alleati»
La vista di Keller non era più da diverso tempo nel pieno delle sue capacità, ma in compenso l'udito si era affinato e riconobbe l'intenso frastuono di una raffica di colpi di mitragliatrice scaricati contro il filo spinato. Il colonnello recuperò l'arma leggera di cui era dotato dalla fondina della sua divisa e intimò con un gesto militare a Christian di prendere la direzione opposta.
«Porti al sicuro il soldato Ward. E, mi raccomando capitano, per l’America non esiti a sparare»
Il generale Flores doveva davvero essere in confidenza con il tedesco per conoscere la sua poca propensione all’attacco oppure era particolarmente empatico e lo aveva compreso scrutando i suoi occhi.

 
San Diego – 12 settembre 2018
 
La notte era il momento peggiore della giornata, il silenzio scendeva sulla villa nella quale i signori Richardson avevano costruito la loro famiglia. Alisia stava trascorrendo ore agitate, era una consuetudine da quando il padre era partito; sul comodino di Christian il regalo della piccola stava prendendo polvere da giorni ormai. La bambina occupava il lato del letto matrimoniale riservato al suo valoroso capitano e lasciava che la madre placasse la sua angoscia. Katherine trascorreva le notti insonni cullando il riposo della figlia; la accarezzava, cercava di colmare l'assenza, ma spesso tutto ciò era inutile e l’alba le sorprendeva in dormiveglia. Ogni oggetto, ogni ricordo, ogni respiro lasciato tra le mura dell'abitazione infondeva la forza necessaria a non cedere alla mancanza e alla preoccupazione. Mancava tutto di Christian, il bacio del buongiorno e della buonanotte, la colazione che non aveva smesso di preparare da quando Katherine era entrata nella sua vita, anzi si prendeva cura della sua famiglia con amore e dedizione. Ora la loro bambina era cresciuta, frequentava la scuola e Katherine non chiedeva nulla più che vivere la normale quotidianità insieme al marito, gestirla insieme a lui. La bagnina rigirò tra le dita affusolate le chiavi di casa che il seal le aveva affidato prima della partenza; nel mezzo del tintinnio - una dolce ninna nanna che favoriva il riposo della piccola - un sobrio portachiavi d'argento scintillava, era stato il regalo di Katherine per il loro nono anniversario di matrimonio; a dicembre avrebbero festeggiato dieci anni di un'unione così felice da sembrare irreale. Lei di certo non si sarebbe mai immaginata di provare un amore tanto intenso e di doverlo dividere con il resto del mondo. Katherine non poteva ignorare chi fosse suo marito, quale impegno si fosse preso prima di lei, un onere che da anni condividevano insieme al loro destino. Si nutriva di ricordi, di baci sospesi, sfiorati, consumati, di parole pronunciate, sussurrate, urlate a mezza voce. Si focalizzava sulla sua voce limpida, libera dal gracchiare della linea telefonica che non aiutava a sentirsi più vicini. Stringeva il prezioso frutto del loro amore, lo custodiva, lo proteggeva dal dolore di una perdita che restava sempre in agguato nelle loro vite.  Ebbe svariate volte la tentazione di comporre il numero di Christian, riversare su di lui l'angoscia che stava provando; non lo fece, si ripeté che lui per primo stava vivendo momenti difficili il cui esito era incerto e non necessitava di ulteriori pensieri. Nascose il viso tra i lunghi capelli della figlia, si sfogò nel calore che Alisia le infondeva, la strinse a sé più forte e lasciò che un pianto silenzioso inumidisse i crini castani della bambina.
Katherine ebbe un sussulto quando il telefono rimbombò tra le mura di casa. La piccola tra le sue braccia si mosse, la madre si premurò di tranquillizzarla e di placare la tensione che catturava perennemente entrambe.
«Papà»
Alisia diede voce agli stessi pensieri della donna, l'atroce pensiero che potesse trattarsi dell'ambasciata si materializzò nella mente di Katherine. La bagnina si congedò dalla figlia porgendole un piccolo bacio nell'esatto punto in cui aveva riversato tutta la sua frustrazione. Non si premurò di calzare le pantofole, scivolò sul pavimento a passo celere per raggiungere la cornetta il prima possibile. Non seppe a quale santo affidarsi, nei giorni trascorsi senza il suo compagno aveva invocato l'intera schiera celeste, qualcuno avrebbe dovuto accogliere le sue suppliche.
«Katherine?»
L'interlocurote dall'altro capo del telefono fu incerto; era appena sorto il sole e ciò che udì fu solo un respiro affannato e angosciato in attesa di notizie che non fossero funeste.
«Fabian. È successo qualcosa? Per quale ragione mi chiami all'alba?»
Era il capitano Hernandez, il collega di suo marito, lavoravano ogni giorno a stretto contattato nel Coronado. Da quando Christian era partito, ormai un mese prima, non lo aveva più sentito né visto; la sua chiamata era insolita, non si trattava dell'ambasciata, ma era preoccupante in egual misura sentirlo.
«Perdonami, ti ho svegliata. Non ho notizie di Christian, credo lo senta più tu. Tranquilla, non sono ambasciatore di pene, anzi credo possa farti piacere quello che ho scoperto»
Il comandante non poteva sapere che Katherine non stava riposando, ma che si era solo appisolata accanto a sua figlia per non abbandonarla nella solitudine e nell'oscurità notturna, cullata dal calore della sua bambina. Fiaban non ricevette alcuna reazione da parte della donna, anzi credeva che avesse smesso di respirare in attesa della notizia, non così fiduciosa sul fatto che fosse lieta.
«Stavamo ispezionando i fondali dell'Oceano insieme ad alcuni sub e abbiamo trovato il relitto di un vecchio aereo segnalato dai radar. Ricordo che Christian mi accennò alla morte dei suoi genitori. Potrebbe essere quell'aereo?»
«Fabian, sono passati più di vent'anni»

«Lo so, ma è in pessime condizioni. Da una prima analisi abbiamo rilevato dei corpi. Non voglio illudere Christian, specie ora che si trova lontano da casa, ma credo ci sia la possibilità di dare degna sepoltura a sua madre e suo padre»


 
Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 12 settembre 2018

Le mani di Delilah erano coperte di sangue fresco. La mente della dottoressa stava cedendo alla stanchezza, le ore di concentrazione l'avevano sfiancata; davanti ai suoi occhi scorrevano le immagini degli ultimi vissuti, non era mai successo dopo un'operazione, eppure un conato di vomito la colse, lo trangugiò con resistenza ma la scelta le procurò più male che bene. Era categorico che dovesse allontanarsi dal reparto di cardiologia, uscire diventava la sua unica fonte di salvezza, anche il suo cuore minacciava lesioni permanenti. Correva e non si accorgeva di lasciare orme insanguinate sulle pareti candide dell'ospedale; le era sufficiente svoltare un angolo per raggiungere l'uscita, inalare l'aria fresca di fine estate. Fu un istante che durò svariati attimi; si scontrò con un corpo maschile, imbrattò di sangue una camicia bianca, nel tentativo di evitare il violento impatto e di ammortizzarlo. Delilah uscì dallo stato di trance in cui era immersa, cercò gli occhi del malcapitato per scusarsi nonostante si sentisse al limite della sofferenza; erano iridi a lei familiari, più confortevoli di qualunque altro luogo.
«Com’è andata?»
La dottoressa era incantata dalla presenza dell'ex marito. Era lì davanti a lei, Nathan aveva ignorato la macchia vermiglia che si era allargata sui suoi abiti, era solo in pensiero per lo stato emotivo della donna. Delilah si buttò addosso a lui, gli implorò un abbraccio e dall'altra parte non trovò alcun indugio, soltanto una stretta che fremeva di essere condivisa.


 
Ciao ragazzi!
È trascorso un mese dall'ultimo aggiornamento, il lavoro ha assorbito del tutto il mio tempo, le mie energie e i miei pensieri. Elaboro questo capitolo da un po’, vi ho lasciato tantissima suspance, perciò spero di riuscire ad aggiornare presto e a ritornare nel prossimo capitolo su questioni che avevo lasciato in sospeso nello scorso capitolo.
Grazie di cuore a tutti coloro che non hanno abbandonato questa lettura e hanno atteso con pazienza la continuazione. Siete fantastici e spero di non aver deluso le vostre aspettative <3
A presto!
Un grande abbraccio
-Vale 

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Capitolo 23
*** Capitolo 22_La retorica del male ***


 

La retorica del male





 

Kabul - Ospedale da campo, 12 settembre 2018
 

La vista di Maryam era sbiadita, un riflesso candido davanti alle pupille la confuse sul luogo in cui si trovasse. Strizzò le palpebre per cercare di avere una visione più nitida della realtà. Doveva aver raggiunto il paradiso, riusciva solo così a spiegare la luce abbagliante sul suo volto, un presagio di pace, lontana da ogni sorta di sofferenza.
Il ricordo di Hassan le penetrò la mente; non aveva sue notizie, preda dell’ignoto la prospettiva migliore era che si trovassero insieme in quel regno di sollievo fisico e spirituale.
Un lieve pizzicore all’altezza del gomito la fece sussultare, un paio di mani fredde la stavano sfiorando con accortezza. Si concesse qualche secondo per mettere a fuoco il volto dell’uomo che si stava occupando della sua salute: era stanco e ancora provato dalla malattia che lo aveva debilitato. Gli occhi dell’afghano erano velati da un paio di lenti sconosciute alla ragazza e disordinate sulla punta del naso.
Maryam lo vide spezzare con i denti una parte di scotch medico per evitare che l’ago appena inserito uscisse dalla vena. Non lo vedeva in quella tenuta professionale da quando il nosocomio del centro di Kabul era stato assediato dagli estremisti.
«Sei tornato in piena attività, dottore. Non credo di aver mai visto quel paio di occhiali. Cosa mi sono persa? Quanto ho dormito?»
Maryam si sistemò meglio sul cuscino voltandosi verso di lui, si sentiva a proprio agio nelle sue mani. Karim le rivolse un mezzo sorriso, mentre lo scotch passava ancora sotto i suoi denti.
«Sto perdendo colpi, Maryam. Me li hanno prestati per evitare di farti male»
Con delicatezza il medico bloccò l’ago e controllò il corretto funzionamento della flebo. Maryam gli sfiorò la mano che aveva distrattamente abbandonato accanto al braccio della giovane amica.
«Perché sono in ospedale?»
La voce flebile della ragazza tentò di gettare una luce su ciò che potesse essere successo nelle ultime ore. Afferrò debolmente il camice del medico di fiducia per attirare la sua attenzione e rendere reale ciò che la circondava, a partire dall’uomo chinato verso di lei e dal suo dolce sorriso. La mente vorticava, un’intensa nausea le lambiva le viscere, ma lei non era in grado di denominare uno stato così insolito di malessere. 
La lucidità della ragazza tornò quando il torpore del sonno affievolì, si accorse con angoscia di essere vulnerabile davanti a Karim senza la protezione del niqāb. Maryam si coprì interamente il volto con i palmi delle mani, ma lui glieli scostò senza indugio e con delicatezza; aveva compreso quale fosse il problema per la paziente.
«Tranquilla, siamo solo io e te qui. Non sono necessarie le formalità tra noi»
Era stato un occidentale a ricordargli quanto fosse inumano nascondere le donne dietro un metro di stoffa; Samuel era fratello di coloro che avevano rigirato il terreno afghano a suon di armi e violentavano le ragazzine come fossero indegne di rispetto, eppure, a differenza loro, il giornalista era animato da uno spirito puro. Contro ogni possibile regola, Karim le era accanto, la curava e accudiva come fosse suo padre e lei rappresentasse per lui la figlia che non avrebbe mai potuto avere. L’idea di proporle un matrimonio riparatore per preservare la sua vita lo inquietava e gli provocava il voltastomaco.
Maryam si perse nell’intenso sguardo dell’amico, era lei a vederlo per la prima volta e non il contrario, non le aveva mai scorto il volto da quando la sua adolescenza era iniziata, non prima delle ultime ore trascorse in compagnia. Nessuno dei due sembrava volenteroso di approfondire l’argomento; le parve di avere di fronte un uomo nuovo, che, per quanto gentile, non aveva mai osato trasgredire così apertamente alla Legge; erano imbarazzati e Maryam, la più inesperta, era anche la più spontanea nel palesare le proprie emozioni.
«Hassan»
Pronunciò il nome del fratello quasi come fosse una supplica, spaventata più per la salute del bambino che per la sua, benché fosse lei ad occupare un letto in quel rudimentale ospedale. Karim temeva che comunicarle notizie incerte potesse non giovare al suo stato. Recuperò la mano della ragazza per accarezzarla e si accomodò al suo fianco; cercò di tranquillizzarla come lei non gli aveva dato modo di fare in passato omettendogli il drammatico episodio della violenza subita. 
«Non posso analizzare il tuo sangue, non ho a disposizione un laboratorio, ma non ci sono dubbi sul fatto che tu sia incinta»
Ogni singolo respiro di Maryam era rimasto sospeso, impiegò qualche istante per ricomporre i pezzi della frase appena pronunciata dal medico e per decifrarla. Strinse più forte la mano di Karim, lo pregava di negare ciò che aveva appena detto.
«Non può essere … non può essere che io sia … Karim»
Maryam sussurrò nella speranzosa attesa di una smentita. L’uomo comprese che lei non fosse al corrente del suo stato di gravidanza e ciò rendeva la posizione del medico ancora più scomoda. La ragazza, per quanto fosse giovane, non aveva più una madre con la quale confidarsi e condividere ogni avvenimento naturale della vita di una donna; aveva notato la scomparsa del tempo della luna, ma così giovane e inesperta non aveva pensato potesse essere una conseguenza della violazione che aveva dovuto sopportare. Si vergognava a confidare a Karim gli istanti di puro terrore che aveva vissuto, l’umiliazione che aveva subìto e il timore verso qualsiasi militare si trovasse nelle sue vicinanze. Il padre non doveva sapere, non avrebbe capito, non l’avrebbe compresa nel suo dolore, lo immaginava, l’avrebbe solo condannata. Ora l’amico più fidato che lei avesse sapeva grazie alle sue doti mediche e la fissava con estremo dispiacere, una sofferenza talmente intensa che gli sembrò di aver subìto la violenza sulla propria pelle.
Per Maryam fu uno sforzo inimmaginabile reggere il giudizio di un uomo, che, per quanto confidente, era pur sempre rispettoso della Legge e non aveva mai dato prova di volerla trasgredire così apertamente. La ragazza promise a se stessa di nascondersi dietro un velo di imbarazzo e pudore, rappresentati dalle uniche armi di difesa che avesse a disposizione: i suoi palmi; le mani iniziarono a tremare a contatto con la pelle ambrata e arrossata, era terrorizzata dai ricordi, dalla gravidanza e dal futuro più prossimo. Dalla perdita prematura della madre, il suo futuro non si era mai tinto di tonalità così scure. Fremeva per il pianto che bramava di riversarsi sulle sue ciglia, ma la tenacia di Maryam riusciva a controllarlo, affinché esso esplodesse solo dentro di sé, nel suo cuore, nel suo stomaco e in ogni sua vena e arteria. Karim la affiancò subito in quella lotta interiore; le afferrò i polsi, non indugiò nemmeno per la paura di una presa troppo ferrea su di lei, la costrinse a sollevare la schiena, quanto bastò per sedersi e la invitò a sfogarsi sul suo petto. Stavolta ci sarebbe stato, anche sfidando qualsiasi Legge divina.
Non ci fu bisogno di parlare, lui sapeva e lei intuì che l’amico avesse capito cosa poteva aver causato una gravidanza indesiderata. Karim la strinse a sé posandole un palmo sulla nuca; fece scivolare le falangi tra i crini ramati. La cullò tra le braccia com’era solito fare quando era solo una bambina e non indossava il niqāb.
«Mi dispiace, lui mi ha …»
«Non lo voglio sapere»
La tentazione di domandare a Maryam una descrizione dettagliata dell’uomo fu allettante, ma per fare un identikit avrebbe dovuto riportare alla mente quei momenti. Si limitò a posare le labbra sulla fronte umida della ragazza e ad ascoltare gli ultimi singulti di pianto - sperava davvero di riuscire a tranquillizzarla e di non vederla più piangere. La distanza che li separava poteva essere misurata con il palmo di una mano di medie dimensioni. A Karim bastò sussurrare per farsi comprendere da lei. L'uomo catturò con intensità le sue infinite pupille lucide e arrossate.
«Ti sposo io, cosa ne pensi? Chiedo la tua mano al mullà. Non sarebbe romantico, ma almeno ti salvo da una lapidazione certa. Dirò che è mio figlio, non temere, la gravidanza non dovrebbe notarsi fino alle nozze e sarebbe tutto secondo la Legge. Con me saresti salva, hai già sofferto abbastanza»
Maryam era scioccata per la proposta di Karim, eppure una parte del suo cuore si aspettava una simile reazione da parte dell’uomo, anche a costo di diventare complice del suo peccato.
«Purtroppo non ho molto da offrire, né a te né a tuo padre, se non qualche consulenza medica. Sono solo un povero medico che vive come può» 
«I-io ne sarei onorata, ma non posso accettare che rimedi così ai miei problemi. Tu meriti una donna al tuo fianco. Meriti di rendere felice una donna che ami e credimi, ne saresti in grado con o senza denaro»
Non era un argomento che lui affrontava serenamente e lei non poteva sapere quanto gli fosse sgradito parlarne.
«Maryam, io ti voglio bene, al pari della figlia che non ho»
«… ma che potresti avere, non è troppo tardi per questo e non ti renderò padre di una violenza che ho subìto io»
«Maryam, ascoltami, se non ti lasci aiutare il tuo destino … ti prego, non voglio ti accada qualcosa ed io non potrò più salvarti. Tu sai che mi imporrei tra te e chiunque provi a farti del male, anche se fosse tuo padre non indugerei. Prenderti in moglie è la soluzione migliore per entrambi. Vuoi rischiare che mi arrestino?»
La devozione del medico di Herat nei suoi confronti la commosse e preoccupò. Maryam si concentrò sulla parete che si ergeva alla sua sinistra, senza tuttavia vederla davvero; non riusciva a reggere lo sguardo sincero di Karim, non era in grado di negare il suo aiuto e nemmeno di accettarlo. Lasciò che intense scie salmastre le percorressero le guance, stavolta non si impose alcuna inibizione.
«Ti parlo di matrimonio e tu piangi? Dovrebbe essere un lieto evento. A meno che tu voglia sposare il tuo ricco promesso»
Le sorrise malinconico e le afferrò la mano, al cui braccio la flebo continuava incessantemente a svolgere il suo lavoro e lei grazie alle attenzioni amorevoli del suo medico iniziava davvero a sentirsi meglio nel corpo e nell'anima. Maryam trasalì e si voltò scossa nella sua direzione.
«Piccola, te ne andrai presto da qui. Devi arrivare in Occidente, ma finché sarai a Kabul, mi occuperò io di te. Desidero solo che passi sotto la mia custodia, non ti sfiorerei con un dito»
«Non ho il minimo dubbio su questo, Karim»
Le dita nodose del medico la stringevano con affetto e rispetto; erano il segno di un uomo colto, catapultato in un mondo per il quale non si era preparato, ma che aveva una estrema necessità di lui.


Villaggio - Periferia Ovest di Kabul, 12 settembre 2018
 

Non fu facile per Samuel cercare Hassan attraverso strade non familiari e su un terreno sconosciuto; non aveva la minima idea da quale parte iniziare e non conosceva abbastanza bene il bambino per azzardare ipotesi. Tra la più terribile incertezza si allargava nel suo cuore una cocente preoccupazione. La giornata si stava esaurendo in fretta, in cielo la palla infuocata che accompagnava il giorno dall'alba al tramonto si stava ormai spegnendo per lasciare il posto ad una luna che aveva aria di casa. Mai come in quella sera, da quando la sua trasferta era iniziata, sentì nostalgia della fidanzata. I colori fiochi che lo circondavano mostravano ancora nitidamente la via davanti a sé. La loro intimità si consumava spesso a luci basse, si lasciavano cullare dal tepore dei loro corpi e dall’impazienza di amarsi, sempre più e sempre più a fondo. A Samuel mancava ogni singola promessa che aveva rivolto a Margaret. Gli mancava ed ogni giorno era sempre più difficile negare quanto avrebbe voluto sposarla prima della partenza. Il cielo solo era testimone dei suoi più profondi desideri: essere suo marito e sfidare la sorte con la consapevolezza che lei fosse sua moglie. Margaret non gli diede modo di proporle di anticipare il matrimonio e lui si ritenne semplicemente egoista a legarla a sé prima di compiere una missione pericolosa dai risvolti incerti.
Samuel stava ormai vagando senza meta. Il cuore pulsava tra la carotide e la giugulare, non era pronto a fallire la ricerca di Hassan e tornare da Maryam senza il fratello, la ragazza aveva già ricevuto la sua buona dose di patimento. Percorse la via principale a passo tranquillo per il timore di lasciarsi sfuggire qualche prezioso indizio. Circa a metà della strada sterrata, un’anziana con il capo coperto da un chador scuro era accomodata davanti all’uscio di casa e contemplava affascinata il tramonto, o così parve al ragazzo. Le onde calde della luce ormai al culmine della loro bellezza la inondavano quasi del tutto. Furono gli occhi luccicanti della donna ad attirare l'attenzione del giovane reporter; gli rincresceva spegnere uno dei momenti di pace e serenità che Samuel immaginò fossero molto rari per la popolazione afghana.
La dura pietra non era scomoda per l’anziana e Samuel l’avrebbe volentieri affiancata per mostrarsi amichevole, ma aveva poco tempo da dedicare alla socievolezza e allo scambio interculturale.
«Mi scusi? Signora, mi perdoni, ha per caso visto un bambino di circa otto anni, moro e alto suppergiù così?»
Samuel simulò l’altezza di Hassan, ma fu tutto inutile, quella donna non comprendeva una sola parola in americano. Fissava il giornalista con profondità, dando modo a quest’ultimo di scorgere la guerra sospesa nelle sue iridi chiare e le rughe del tempo che non riuscivano a celare le numerose cicatrici di una donna che non si era arresa alla triste realtà. Il giovane non ebbe cuore di spezzare il raro attimo di raccoglimento della superstite, non era quello il modo migliore per trovare il piccolo, lei non avrebbe comunque compreso la sua lingua. Gettare la spugna e dichiarare la resa non era nell’indole di Samuel, specie se a rischio vi era la vita di un bambino. Nell’esatto istante in cui l’anziana dagli occhi sognanti abbassò lo sguardo verso il terreno e le mani del ragazzo, forse per replicare e dirgli che non aveva capito, una pelle morbida e delicata sfiorò le falangi del giovane, ma ciò non impedì a Samuel di scorgere anche la condizione di cecità della donna, di cui non si era accorto fino a quel momento, le iridi gli erano sembrate tutto tranne che vacue. L'anziana signora doveva aver avvertito i passi leggeri del disperso e un tenero sorriso si dipinse sul suo viso, aveva chiaramente distinto l'arrivo di un bambino. Il reporter non poteva credere che Hassan avesse trovato lui e che lo stesse fissando anch'egli con un sorriso malinconico, bagnato da un paio di lacrime accanto agli angoli delle labbra sottili.
«Ehi, piccolo, ci hai fatti spaventare. Dove ti eri nascosto? Io e papà ti abbiamo cercato ovunque»
Le scie salmastre sulle guance del bambino non cessavano di scorrere in silenzio. Samuel si chinò fino all’altezza dell’amico e si accertò che stesse bene, ma non sembrò riportare ferite più o meno gravi. Il giornalista non ebbe il tempo di terminare l’ispezione, Hassan iniziò a tirarlo nella sua direzione, rischiando di fargli perdere l’equilibrio nell'alzarsi dalla posizione accovacciata che aveva assunto, e lo invitò a seguirlo. Sembrava risoluto e convinto della direzione verso cui stava scortando l’americano, come se in precedenza ci fosse già stato. Samuel si lasciò condurre, era sollevato che Hassan fosse vivo e che fosse sotto la sua protezione, perciò lo assecondò, curioso  di scoprire ciò che sembrava avere in mente.
Il luogo nel quale i due si stavano addentrando era sempre più appartato, sarebbe stato inutile chiedere spiegazione al piccolo, non sarebbero mai riusciti a comprendersi, erano natii di luoghi troppo distanti geograficamente e culturalmente. Ogni loro passo era scandito dai raggi bicolore del sole e della luna che si univano e si salutavano in un intenso abbraccio per lasciare infine il posto alla regina del cielo. Arrivarono a destinazione quando le stelle non furono ancora del tutto visibili ad occhio nudo e Samuel capì dove si trovava trattenendo un lungo sospiro di stupore. Un ammasso di terra rivoltata e informe si estendeva al centro di un piccolo spiazzo verde dimenticato dalla barbarie degli uomini. Una lastra di ferro con incise scritte incomprensibili a lui si ergeva verso il cielo, affondando le radici in zolle di terriccio secco. Il pianto del bambino al suo fianco gettò una luce inconfutabile sull’identità del defunto. Samuel non si avvicinò alla lapide, si limitò a seguire lo sguardo affranto del piccolo che contemplava ciò che restava della madre. Il cuore del reporter si crepò, ancora una volta l’impotenza fu padrona della sua anima. Le mani del giovane e del bambino erano rimaste intrecciate l’una all’altra, Samuel scese lentamente sulle ginocchia e fissò gli occhi annacquati del piccolo. Le parole sarebbero state incomprensibili da parte di entrambi, eppure nel silenzio della sera si compresero. Hassan chiedeva al forestiero aiuto e conforto; il giornalista lo attirò contro il petto e lo strinse, lasciando che il bambino gli circondasse la base del collo con il braccio ancora sano e superstite dall'incidente avuto con la mina, mentre si dilettava nel passatempo più puro e ingenuo per un bambino. Singhiozzava al sicuro nel caldo abbraccio dell’amico; Samuel avrebbe voluto dirgli di calmarsi, per lui e per Maryam ci sarebbe stato. Era certo che Hassan lo sapesse, altrimenti non lo avrebbe condotto in quel luogo e non avrebbe condiviso il suo dolore.
Hassan aveva fiducia in Samuel. 
Hassan credeva ancora nel buon cuore degli uomini. 
Hassan era un bambino a cui la vita aveva chiesto gratuitamente il conto. 
Ad Hassan non importava di quale nazionalità fosse Samuel, due braccia amiche erano un’oasi in un deserto pervaso dal fuoco e dalle fiamme.


Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 12 settembre 2018
 

Delilah era crollata, i suoi nervi avevano ceduto sotto il peso della preoccupazione e delle lunghe ore di intervento che aveva presieduto. Non era riuscita a raccontare a Nathan cosa fosse successo nella sala operatoria; lui la comprese e lasciò che riposasse sulla sua spalla, accomodati su una delle tante panchine a disposizione dei visitatori nei pressi delle porte scorrevoli per l'ingresso in ospedale. Aveva coperto la schiena della dottoressa con la sua giacca elegante, le era rimasto accanto annullando qualunque appuntamento, non importava quanto fossero importanti, le aveva ceduto un po' del suo calore, le aveva dedicato tutto il tempo necessario. In attesa che lei riaprisse gli occhi studiava casi e sentenze lasciati in sospeso e gettava di tanto in tanto occhiate preoccupate lungo il corridoio d'accesso ai reparti in cerca di notizie che riguardassero il suocero. Al pari di ogni compagno dei figli, anche su Nathan cadeva il sipario dell’indifferenza da parte di Daniel. Non si erano mai portati alcun rancore, per quanto fosse il marito di Delilah e avesse potuto sperare in un minimo di considerazione, non la chiedeva, la donna che aveva sposato era l’unico affetto che gli importasse davvero. Quando giunsero alla dolorosa decisione del divorzio, rispettò ogni singola motivazione della moglie, cercò di non mostrarsi sofferente, anche quando il pensiero di allontanarsi da lei diventò soffocante. Temeva per le sorti del suocero, ma soprattutto temeva le ripercussioni che una sua eventuale mancanza avrebbe potuto avere su Delilah; per quanto considerasse temprata la sua personalità, per quanto tra lei e il padre non corressero buoni trascorsi, era certo che una parte del cuore della donna sarebbe morta insieme al direttore Clark.
Nathan non si era mosso dall'ospedale. La sua camicia bianca era macchiata di sangue ormai rappreso; aveva arrotolato le maniche, a differenza di lei aveva caldo, e la sua odiata cravatta era allentata sul petto; si concesse libertà che solo fuori dal tribunale gli erano consentite e che non vedeva l'ora di riscoprire terminato il suo lavoro giornaliero. Aveva avvisato della sua assenza la portineria del tribunale e i colleghi, la maggior parte di loro aveva compreso l'emergenza, altri invece continuavano a far squillare il suo telefono, convinti che qualsiasi cosa stesse facendo potesse attendere qualche ora. Non rispose nemmeno al giudice che l'indomani avrebbe presieduto l'udienza nel quale Nathan avrebbe dovuto difendere la parte lesa; silenziò il cellulare e lasciò che le chiamate perse si accumulassero in segreteria, non era il momento di pensare al lavoro e tantomeno di muovere un passo lontano da lei, l'avrebbe svegliata inutilmente. Il respiro caldo e regolare di Delilah placava anche i suoi battiti, rendeva insulso ogni pensiero, il respiro della donna solleticava la pelle di Nathan, nel sonno si stringeva a lui e gli piaceva credere che lei accanto a suo marito si sentisse ancora a casa; mentre recuperava le energie fisiche e mentali perse, sembrava più tranquilla di quanto non fosse in realtà. Nessuno aveva reclamato le attenzioni della dottoressa Clark, ma in caso contrario lui avrebbe impedito a chiunque di interrompere il suo riposo.
L'avvocato Rogers avrebbe potuto impedire a chiunque di disturbarla, ma non al suono delle ambulanze che scalpitavano appena fuori dall'accesso del pronto soccorso. I nervi della donna vennero riscossi dall'intenso allarme del codice rosso, si svegliò di soprassalto con il pensiero del padre nella mente e il rumore dell'ultima strumentazione che aveva sentito in sala operatoria; associò il suono ad uno stato di pericolo e si agitò spaventata. Impiegò qualche istante a capire da dove provenisse l'urgenza, fu quello il lasso di tempo buono per spegnere la frenesia nello sguardo della donna.
«Ehi, calmati. Non è successo niente»
«Mio padre ...»
«Tranquilla»
Nathan le accarezzò a fior di pelle la guancia con il pollice. Ogni lembo di lei fremeva, l'unica fonte di pace furono le iridi dell'uomo che aveva amato e per qualche strana ragione erano lì per lei. Il resto del mondo spariva al suo fianco, ogni problema - grande o piccolo che fosse - possedeva una soluzione raggiungibile. Gli avrebbe voluto dire che trovava inappropriata la promiscuità tra loro, gli era grata, ma non era il momento di pensare al loro rapporto, non lo era mai. La stava solo sfiorando, nulla di più, non stava violando alcuna decisione presa di comune accordo, ma lei sentiva di non meritarlo da parte sua. Delilah percepiva che le era legato ancora più del necessario; lo sguardo della donna scivolò sullo schermo dell'avvocato, il numero delle chiamate perse era significativo e le diede conferma dei suoi peggiori timori: stava influenzando ancora la vita dell'uomo da cui stava divorziando e per un motivo più che valido, dovevano solo convincersi che lo fosse.
«Devi andare»
«No, posso restare, ho avvisato. Oggi dovranno cavarsela senza di me, non penso che un mio giorno di assenza assolvi o condanni qualcuno che non lo merita»
Nathan spense e ripose il cellulare nella tasca dei pantaloni; lei seguì rammaricata i suoi gesti.
«Era esattamente ciò che avrei voluto scongiurare»
«A cosa ti riferisci? Delilah, ti ho detto che non ci sono problemi, oggi la mia presenza non è così indispensabile in tribunale»
«Non volevo che ti trovassi nella condizione di dover scegliere tra me e la carriera, Nat. Ti prego, non scegliere noi, così rendi tutto più difficile» 
«Tu hai bisogno di me, oggi più che mai, e non ho intenzione di lasciarti sola. Non me ne frega niente se stiamo divorziando, intesi?»
L'avvocato diventò serio, il suo sguardo intenso e avvolgente si scontrò con le lacrime del medico, che scorrendo inumidirono le falangi dell'uomo posate ancora sul viso di lei.
«Dottoressa Clark!»
La chiamarono con una tale veemenza che Nathan aumentò le distanze tra di loro, allontanò la mano e la lasciò libera di muoversi. Quando Delilah si voltò, alle sue spalle vide sulla barella una ragazzina ormai prossima all'adolescenza incosciente; i capelli biondi sull'emisfero destro erano intrisi di sangue vivo, il rosso inzuppava un vestito dai colori variopinti e floreali, era forse reduce da una festa. Nella fretta di raggiungere la paziente, la giacca del marito scivolò dalle spalle della dottoressa e andò a posarsi sul pavimento lucido dell'atrio. Un'infermiera le allungò uno stetoscopio, l'aveva vista sprovvista e andò subito in suo soccorso per poter aiutare la ragazza il più tempestivamente possibile. Non avevano mostrato al medico alcuna cartella clinica, la paziente era appena entrata in ospedale, nessuno l'aveva ancora visitata e aveva ipotizzato una diagnosi; Delilah non era abbastanza lucida per essere efficiente, si passò l'esterno del polso su entrambe le palpebre e si sforzò di aiutare la ragazza e i colleghi, era un'emergenza e non poteva permettersi riposo o distrazioni.
«Cos'è successo?»
«Un incidente stradale. Ci sono altri feriti, hanno la stessa età della ragazza»
La dottoressa pose una carezza di incoraggiamento sulla nuca della giovane e iniziò ad indossare lo stetoscopio per effettuare una visita iniziale. Il dottor Wood glielo impedì, le sfiorò le mani e recuperò lo strumento prima che lei potesse terminare di indossarlo; Morris era appena salito dal laboratorio di analisi, aveva finito il suo turno di lavoro, si stava avviando verso casa e si era imbattuto anch'egli in quell'emergenza.
«Devi riposare, penso io alla ragazza»
Il collega sapeva ciò che era stata costretta ad affrontare solo poche ore prima e non aveva indugiato a prendere il suo posto, anche se il pronto soccorso e qualsiasi intervento a stretto contatto con i pazienti non erano parte della sua routine in ospedale. La barella passò oltre, attraversò il lungo corridoio; Delilah lasciò che le gambe cedessero, non vi era più alcun motivo di mostrarsi forti. Crollò sul pavimento duro e freddo, l'unica fonte di calore proveniva dal corpo di Nathan che in una manciata di secondi si trovò di fronte a lei e anch'egli si pose in ginocchio. Nessuno attraversò il reparto, nessuno, per fortuna della donna, stava assistendo alla scena pietosa, tranne il suo ex marito, davanti a cui poteva permettersi di mostrarsi debole.
«Non ho il coraggio di chiedere come stia. L'operazione non è andata come avrei sperato»
«Delilah, non siamo infallibili»
«Dovresti dirmi che nonostante tutto sono riuscita a salvarlo e che sta bene. Dovresti dirmi che non ci sono altre possibilità diverse da queste. È così che pretendi di aiutarmi, ricordandomi quanto sia alta la possibilità che io possa fallire?!»
Aveva gridato disperata a pochi centimetri da lui, ma lui non aveva arretrato. Nathan le afferrò il polso con il quale cercava di non collassare sul pavimento, cercò di trasmetterle tutta la risolutezza di cui era capace.
«Il nostro matrimonio è fallito, il mio caso in tribunale è fallito. Ogni cosa può fallire, ciò non ti rende una pessima persona o un medico incapace»
Le parole dell'uomo la sconvolsero, fece fatica ad immaginarlo fallire nel suo lavoro, la sua abilità era una delle poche certezze per Delilah, una delle poche certezze che le erano rimaste. Era convinta che il pensiero del loro divorzio avesse fatto la sua sporca parte. Le mancò il respiro. La vicinanza di Nathan le fece male, la mano dell'uomo sul suo polso la scosse più del dovuto, il pensiero del loro matrimonio finito non l'aveva mai sconvolta tanto. Era un fallimento sopra altri fallimenti, era un delicatissimo castello di carte pericolante che li stava per travolgere e sotterrare sotto un cumulo di macerie troppo pesanti da sostenere. Nathan fissò intensamente il suo sguardo in quello della moglie e lo mantenne costante, finché lei glielo permise.
«È mio padre. Lui non può ... Nathan, è mio padre e io non voglio fallire, almeno non in questo»
Le posò il palmo sulla guancia umida e coprì la distanza di pochi centimetri, avvicinandosi e sussurrando.
«Tu non hai mai fallito. Amore, qualsiasi cosa accada ricordalo»
L'avrebbe baciata lì, in mezzo ad un corridoio, su un pavimento gelido, con una procedura di divorzio in atto che pendeva sulle loro teste. Era sincero, non poteva essere colpa di Delilah se il loro matrimonio stava fallendo. Sfiorò le sue labbra con la punta del pollice, erano morbide come le ricordava, si era fermato il mondo intorno a loro, nessuno sarebbe stato testimone della loro trasgressione. Delilah non fu d'accordo e senza la sua complicità Nathan aveva le mani legate. La dottoressa abbassò lo sguardo per impedirgli quel bacio e di commettere l'errore di riavvicinarsi.
«Ti prego, vai»
«Lilah, io credo ...»
«È ora che tu vada. Grazie per esserci stato, ma ora devi proprio andare»
Sentì scivolare le mani dell'uomo dalla sua pelle, percepì nitidi i suoi passi mentre si allontanava da lei. Non avvertiva più lo sguardo caldo e amorevole di Nathan, le iridi della dottoressa Clark incontrarono  solo la giacca del marito abbandonata sulla panchina dell'ospedale. Si sentiva cento volte, mille volte più vuota di quanto non fosse uscita dalla sala operatoria ore prima.
Aveva fallito. Aveva fallito davvero.


Ad un paio di chilometri dalla base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 12 settembre 2018
 

Christian scortò Gwendoline per svariati metri, la aiutò a camminare invitandola a reggersi a lui. La ragazza non ebbe altra scelta per allontanarsi dalla base e consentire all'ufficiale di uscire in tempo, prima che gli estremisti facessero irruzione, era certa che senza lei lui non si sarebbe mai messo in salvo. Per almeno due chilometri, nessuno dei due soldati ebbe lo stimolo di proferire parola; il seal aveva potuto accertarsi di quanto fossero pericolosi gli invasori e non riusciva a negare quanto fosse preoccupato per il generale Flores, i commilitoni e gli alleati che in quegli istanti stavano combattendo per salvare la loro base operativa e le loro stesse vite.
«Capitano, per favore, ho bisogno di riposare un istante»
Il tenente la sentì scivolare dalle sue braccia; nonostante la preoccupazione, dovette cedere e lasciare che il soldato Ward si accomodasse ai piedi di un vecchio platano. L'uomo gettò un'occhiata alle sue spalle, ma da quella angolazione non vedevano né sentivano - per il momento - cosa stesse succedendo alla loro unità.
Gwendoline si tolse delicatamente gli anfibi della gamba infortunata, sollevò i pantaloni e notò che la fasciatura candida si era inzuppata di colore rosso; iniziò a temere che qualche punto fosse saltato. Christian non ebbe bisogno di alcuna spiegazione, seguì i gesti del suo sottoposto e comprese la situazione. Stava scendendo l'oscurità, ma non fu un male per due soldati in fuga che desideravano passare inosservati.
«Riposiamo qualche minuto, vorrei evitare un'emorragia, siamo troppo lontani dall'ospedale»
La tentazione per l'uomo di avvicinarsi e controllare lui stesso la ferita fu forte, ma non voleva che la giovane si sentisse a disagio, così appoggiò la schiena ad un secondo albero e perse lo sguardo nella volta celeste ormai oscura.
«Capitano, io credo di aver indossato la divisa fin da bambina. Mio padre ai tempi me la fece odiare ed amare in egual misura. Indossavo la sua uniforme quando volevo sentirmi più vicina a lui e la indossavo per renderlo orgoglioso di me. Non le nego che a volte quella stoffa pesava sulle mie esili spalle. Ero convinta di perderlo in guerra ed invece ... invece sono qui ad ereditare una guerra che so di non volere»
Si stava confidando con lui, proprio nel momento in cui Christian aveva imparato a conoscerla e sapeva che ogni sua parola non era frutto di codardia. Era stata brava, aveva scelto il momento giusto, la stessa occasione che lui non riusciva a trovare per rivelare a lei i suoi più intimi tormenti.
«Mi manca. Era un esempio per me, sono un soldato solo grazie a lui»
«Sei un bravo soldato, Gwen, e sono certo lo saresti diventata comunque. Sono sempre più convinto che non sia stato il nostro passato a desiderare questo futuro per noi, almeno non solo. Credo ...»
Christian prese un lungo respiro e rivolse lo sguardo a terra in cerca del coraggio per parlare di sé.
«... credo sia una nostra vocazione e non colmi solo una nostra mancanza. Gwendoline, io ti capisco più di quanto immagini. Sono orfano da quando avevo diciassette anni. So cosa vuol dire non avere qualcuno che ti aspetti a casa, so cosa vuol dire prendersi cura di se stessi e non avere un esempio su cui fare affidamento. Mi dispiace così tanto che lo abbia vissuto anche tu»
«Perché non me lo ha detto prima?»
«Perché non è facile ricordare»
«Ho perso mia madre su quelle stramaledette Torri Gemelle, eppure gliel'ho detto prima ancora di sapere che uomo fosse diventato dall'ultima guerra combattuta accanto a mio padre! Crede forse che per me sia così facile parlarne??»
La ragazza aveva alzato il tono di voce risentita, provò anche ad alzarsi con il supporto del tronco, ma ricadde nell'esatto punto in cui era seduta.
«Gwen, zitta»
«Non mi dica di tacere, capitano. Non sono sua figlia. Non si permet ...»
Senza troppe cerimonie o avvertimenti, Christian si avvicinò a lei e le posò un palmo sulle labbra. Il soldato Ward comprese il disperato gesto del superiore, quando avvertì alcuni passi intorno a loro, la direzione era ignota, potevano sperare solo nel favore delle tenebre. Fissò negli occhi il seal, gli concesse una piccola tregua dalla discussione. Era impensabile affrontare il nemico nelle condizioni in cui Gwen riversava, a malicuore - e se lo comunicarono attraverso i loro sguardi - dovettero lasciare che quegli estremisti raggiungessero la base, con la speranza che i loro compagni riuscissero a difendersi. Solo quando non udirono più alcuna presenza capirono che erano al sicuro, anche se al prezzo delle vite dei loro soldati. Il tenente consentì a Gwendoline di parlare, ma stavolta le rimase accanto, nell'oscurità della sera era faticoso da lontano scorgere il suo volto ed iniziò a sussurrare per il timore che qualcuno di poco raccomandabile potesse avvertire la loro presenza.
«Scusami per averti zittita e per averti mentito, ma ho impiegato mesi solo per confessarlo alla donna che sarebbe diventata mia moglie e ancora oggi non riesco a parlare di loro a mia figlia, nonostante sappia quanto sia importante che lei li conosca almeno attraverso i miei ricordi»
«Capitano, sul campo ci vuole fiducia. Lei non mi ha dato fiducia. Ho bisogno di poter conoscere i soldati che mi sono accanto, i soldati con cui combatto e, nel suo caso, da cui prendo ordini»
«Gwen, io ti affiderei la mia vita se fosse necessario. Intesi?  Quante volte te lo devo ripete, prima che tu lo capisca? Non siamo soli e tu non puoi camminare»
L'ufficiale aveva urgenza di terminare quella conversazione, non era tempo di abbandonarsi ai ricordi e lasciare che essi indebolissero i suoi pensieri e la sua lucidità, doveva essere vigile per riuscire a proteggere se stesso e la sua compagna di armi.
«Lo so ed io le affiderei la mia. Cosa facciamo? Non possiamo muoverci da qui senza rischiare di imbatterci in loro»
«Li distraggo, così penseranno di cercare altrove e noi potremo rimanere qui stanotte»
«Lei non oserà fare nulla di simile, tenente»
«Allora proponi tu un'idea migliore, ma ti ricordo che le tue condizioni di salute non sono ottime e se ci muoviamo senza una nuova medicazione alla tua gamba, rischi di perderla. Aspettami qui, torno presto»
L'idea di separarsi da lui non la convinceva. Prendere due strade diverse era sinonimo di debolezza, dividevano le loro forze, dividevano i loro pensieri e li rendeva più vulnerabili davanti al nemico. Era certa che Christian lo sapesse, ma non vedeva soluzioni migliori e Gwen iniziò a ritenersi solo un peso per lui. Il tenente le mise tra le mani la sua radio in modo tale che lei non potesse rifiutarla e controllò infine che avesse un'arma carica e alcune munizioni di scorta.
«Capitano, lei esce allo scoperto, ha più bisogno lei di un modo per comunicare in caso di pericolo, di armi e di munizioni»
«Resta nascosta. Voglio capire quanto siamo esposti qui. Stai tranquilla e se sei in pericolo, non esitare a contattatare l'ambasciata, d'accordo?»
Non le diede il tempo di rispondergli, era corso in esplorazione, lasciandola sola, ferita e preoccupata per le sorti del suo capitano.


Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 12 settembre 2018

 

La base a cui Flores era a capo da almeno dieci anni iniziò a tremare, come se un terremoto si fosse abbattuto su Kabul. Li stava attendendo nel silenzio del suo ufficio, nel luogo in cui aveva diretto centinaia di missioni; la maggior parte di esse aveva avuto un lieto fine, alcune avevano causato vittime tra i suoi uomini, altre, come l'ultima, avevano contato qualche disperso. Il giovane soldato Alexander Campbell si ritrovava nelle mani degli estremisti e Mark non riusciva a darsi pace per averlo inviato fin laggiù senza un piano ben definito. Era sicuro che Richardson e Ward fossero i candidati perfetti per diventare gli eroi di quell'ospedale, le loro vite erano troppo preziose per essere sprecate in una missione di difesa. Si domandò se gli fosse concesso l'onore di assistere a quell'importante trionfo e alla liberazione degli ostaggi, per cui non avrebbe avuto alcun merito. 
Le pareti della torre nel quale Flores aveva ubicato il suo ufficio iniziarono a tremare e qualche calcinaccio iniziò a staccarsi dal soffitto. Gli uomini che avevano deciso di affiancarlo e accompagnarlo in quella che sarebbe potuta essere la sua ultima operazione militare avevano organizzato una controffensiva, sapevano nitidamente quali fossero le loro posizioni per respingere il nemico, Mark invece avrebbe agito dove fosse più necessario per fare in modo che la sua unità perdesse meno uomini possibile.
Aveva appena terminato di riversare i suoi pensieri su un semplice e sbiadito foglio di carta; era una semplice preghiera rivolta al cielo e all'anima che ospitava da diversi anni ormai, troppi.

 
Mia cara Isabel,
mi manca poterti scrivere e inviare lettere dal fronte, 
mi manca poterti dire che ci rivedremo presto,
mi manca sapere che ci sei tu ad aspettarmi.
Vorrei spedirti questa missiva senza francobollo ovunque tu sia per dirti che mi dispiace, ho consentito che ti portassero via, ho tradito la tua fiducia.
Mi appresto a combattere la mia ultima battaglia. Se sarà davvero l'ultima, non me ne dispiacerò, saprò che un angelo sarà lì pronto ad attendermi.
Sempre tuo,
Mark
 

Gli accordi delle melodie che era solito suonare accanto e insieme alla sua donna accompagnarono le parole della lettera senza destinatario, rimbombarono ancora nella soffitta ormai vuota e impolverata, dove erano rimasti i loro ultimi sospiri, i loro ultimi momenti felici e il loro amore. Era rimasto tutto sopra quelle scale e da lì non era più sceso. Immaginò di essere ancora lassù insieme a lei a consumare uno dei loro ultimi battiti, a scambiarsi una delle loro ultime promesse, mai divenuta realtà, ma mai tradita e sempre mantenuta. Aveva desiderato per anni che avessero sparato anche a lui, in quel giorno, in quello stesso istante, morire al suo fianco sarebbe stato un sollievo, ma con il tempo comprese che avrebbe potuto spendere nel modo migliore la sua vita, avrebbe potuto tornare al fronte - anche contro le ultime volontà di lei -, combattere fino all'ultimo respiro un'ennesima ingiusta guerra, con la speranza di vedere un giorno un tempo di sola pace, un sogno che avrebbe voluto realizzare a fianco della sua Isabel.
Lasciò la lettera aperta sulla scrivania su cui l'aveva scritta, insieme alla sua stilografica. Rivolse uno sguardo al cielo, convinto che quelle parole fossero giunte a destinazione; nell'ora più buia, nel suo ultimo respiro lei lo avrebbe accompagnato. Infine prese una seconda missiva, stavolta riposta accuratamente in una busta e la pose nel taschino sinistro della divisa. Se fosse morto, era certo che avrebbero recuperato il suo cadavere e con essa i suoi ultimi pensieri.
Recuperò il cappello, impugnò la sua pistola già munita e con la sicura tolta. Era tempo di combattere e di uscire allo scoperto, quella torre non sarebbe diventata la sua tomba prima di lottare accanto ai suoi uomini.

Sulla busta che Flores conservava gelosamente tra la stoffa della divisa e il cuore vi era un unico nome, quello di Christian Richardson.

 


Ciao, ragazzi!
Sono parecchio dispiaciuta per il silenzio di questi mesi, non vi voglio annoiare e non vi elencherò i mille disguidi, i mille impegni e i mille problemi ... tra le mille cose sono riuscita ad aggiornare solo ora, mi dispiace davvero tanto.
Grazie di cuore per avermi aspettata, non immaginavo che questa storia potesse interessare a voi lettori. Grazie infinite, per me è importante ❤
Voglio rubarvi qualche minuto in più per mostrarvi un meraviglioso aesthetic che ha creato la mia adorata Bloody Wolf sulla famiglia Richardson. Bloody mi ha regalato tantissime grafiche meravigliose su Congiunzione astrale, insieme alla carissima Miryel, se siete curiosi e avete piacere fate scorrere la mia bio ❤
Vi segnalo inoltre la one-shot che ho scritto di recente e che approfondisce il passato di Christian, si intitola Orizzonte, se non siete ancora passati e vi potrebbe interessare, vi aspetta sul mio profilo. 
Detto ciò, non vi tedio più, il capitolo è stato sufficientemente lungo. Vi auguro sicuramente un anno migliore, lo auguro a noi tutti, visto che siamo stati colpiti da un destino comune. Vi auguro soprattutto che il prossimo anno sia ricco di progetti lasciati in sospeso e di ripresa per tutto e tutti. Mi auguro che il prossimo anno sappia curare le numerose ferite che l'anno che sta ormai per chiudersi ha lasciato ❤

A presto! 
Vi abbraccio fortissimo
-Vale

 




 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23_L'oceano restituisce i ricordi ***


L'oceano restituisce i ricordi




 

San Diego - Base navale/Coronado, 14 settembre 2018
 

Katherine provò una sensazione di profondo spaesamento. Il Coronado non era il suo habitat naturale, l'estensione degli spazi e l'immensità della costruzione in muratura bianca la metteva in soggezione. Non le era familiare una base affollata di Navy SEALs, specie se a mancare era l’unico marinaio di cui le importasse davvero.
Era una visitatrice occasionale nel cuore di una delle basi più attive della California; non era abituata al trambusto di voci, sirene e macchinari, lei operava sulla spiaggia e spesso solo lo sciabordio delle onde accompagnava le sue giornate di lavoro. L'animo della bagnina era graffiato da una vena solitaria, malinconia e socievolezza l'avevano resa la candidata perfetta per strappare dall'oceano i poveri malcapitati che finivano prede delle correnti. La sorprese il fatto che suo marito si sentisse a suo agio in un clima così concitato, credeva che le loro anime fossero affini, forse era la sua unica arma per combattere la solitudine di cui aveva sofferto in tempi passati, non avrebbe potuto recriminargli qualcosa. Christian aveva molto da insegnarle, in primis a non lasciare che il passato influisse sul presente, a non lasciare che due genitori dagli orizzonti limitati chiudessero anche i suoi, ma consentire all'oceano di aprirle nuovi porti navigabili. San Diego le aveva regalato una nuova vita, una vita che New York al civico sulla 5th Avenue nell'Upper East Side non le avrebbe mai offerto. San Diego le aveva donato l'amore, non un amore qualsiasi, l'amore di Christian era sorto dalle ceneri della sua sofferenza e ciò che le offriva era ancora più prezioso.
Era un amore che mancava ogni giorno di più.
Per quanto si fidasse dell'affetto che entrambi provavano nei confronti della loro famiglia, pregava ogni giorno che rimanesse intonso e inviolato, che la morte e il destino non giocassero loro un tiro mancino. Ogni giorno la scelta del marito era più nitida, soltanto lui poteva sapere quanto la Marina Militare potesse lenire le ferite. Era stata una decisione troppo intima e personale che, benché presa in giovanissima età, era certa fosse stata ben ponderata. Christian era un uomo equilibrato e razionale, il suo stato di ansia e gli attacchi di panico sempre in agguato non avevano indebolito la sua integrità psichica. Katherine avrebbe potuto scommettere solo sulle sue abilità; non le restava che appoggiarlo nella scelta che aveva intrapreso, in quella strada che era diventata anche un po’ la sua. Arrivati a quel punto, giunti ad una simile consapevolezza, la base in cui suo marito spendeva la maggior parte delle sue giornate non era più così estranea, era diventata da anni ormai una scelta di vita condivisa da lei e, volente o nolente, da ogni componente della loro famiglia.
Il comandante Hernandez – a cui era stata affidata l'esclusiva guida e responsabilità della base in assenza dell'ufficiale Richardson –  aveva proposto a Katherine di raggiungere il Coronado per poter prendere parte all’identificazione delle salme rinvenute. Fabian le aveva assicurato che la visita alla base non avrebbe urtato la sua sensibilità, i corpi non sarebbero stati presenti, essi erano stati trasportati nel reparto di medicina legale in collaborazione con la polizia di San Diego; il tempo trascorso sui fondali dell’oceano aveva reso complesso il riconoscimento, solo un esame scientifico avrebbe potuto restituire un nome alle vittime. 
L'ufficiale si era premurato di trattenere alla base gli effetti personali di alcuni di quegli sfortunati passeggeri. Da quando il relitto dell'aereo era stato individuato, Fabian non aveva smesso di lavorare, negli ultimi giorni si era prodigato a raccogliere i resti, consapevole del valore affettivo che potessero racchiudere in sé per le famiglie coinvolte. Katherine non aveva idea di quanto la sua presenza potesse essere utile, dal momento che non aveva avuto il piacere di incontrare i suoceri, conosceva solo un paio di nomi e il loro aspetto dalle foto che le erano state mostrare;  in assenza del marito però si sentì in dovere di provare, fosse solo per la stima che nutriva per quella che fu la famiglia Richardson.
Il comandante accolse Katherine all’ingresso del centro di comando con informalità; aveva scorto sulle guance della donna una buona dose di tensione. Katherine era davvero agitata, l’uomo aveva dato una giusta interpretazione alla sua espressione tesa; non le era confortevole il luogo, non era solita far visita a Christian durante l’orario di lavoro, l’impazienza l’aveva colta solo nel giorno in cui gli annunciò di aspettare la loro piccola Alisia. Fabian comprendeva quanto fosse arduo il compito, non desiderava che si sentisse in soggezione e la confidenza che aveva maturato nel corso degli anni nei confronti della compagna del collega era l’unico beneficio che potesse offrirle.
All’interno della base Katherine respirò la presenza del compagno, le sembrò di trovarsi a lui più vicina. Il tenente la invitò a percorrere prima di lui uno stretto corridoio rivestito da mura candide e la condusse fino ad una lucida porta d’acciaio, davanti alla quale le fece cenno di fermarsi. A lato vi era posta una targhetta rettangolare che recitava un nome completo:

Tenente Comandante Christian Aiden Richardson

Nell’angolo della base in cui si trovavano si respirava un’atmosfera angusta. Il silenzio tra le strette calle era surreale e Fabian lo rispettava per abitudine ed etichetta militare. Il fatto che Katherine si trovasse lì era un privilegio che portava il suo nome da sposata.
La donna avvertiva tra le caviglie nude un’aria gelida provenire da lontano; lo interpretò come un segno, il marito in qualche modo inspiegabile le sfiorava le spalle, la incitava a compiere un passo in più. 
Il silenzio tra l'ufficiale e la bagnina era stato assordante lungo il breve tragitto, la cadenza dei loro passi aveva aumentato la distanza tra i due. L’apparente formalità durò pochi minuti e venne dissolta da una manciata di parole sussurrate da Katherine.
«È l’ufficio di mio marito?»
«Sì, ma non lo sfrutta quasi mai. Preferisce la cabina di controllo o i luoghi comuni per lavorare. Forse non sai e se lo sai non lo ricordi, a Christian non piace stare seduto alla scrivania e ammetto che litighiamo spesso per questo. È fin troppo temerario, ma solo per eccessivo zelo e altruismo, non disdegna affatto la sua vita, sa bene quanto abbiate bisogno di lui. Mi dispiace, non sono riuscito a risparmiargli la guerra»
Fabian era sinceramente mortificato, lo sguardo basso infondeva soggezione. Lui, che per età sarebbe potuto essere suo padre, avrebbe voluto tutelare l’incolumità di Christian, come era solito fare nelle missioni più pericolose. Il giovane ufficiale non volle lasciarsi aiutare, lo spirito di Patria fu più resistente di qualunque pensiero, anche della sua amata famiglia.
«Ho provato a sostituirmi a lui. Ho chiesto di parlare con il consolato americano a Kabul, ho ricordato a loro che il tenente Richardson aveva troppo da perdere. Avevano bisogno di lui, non di un vecchio servitore degli Stati Uniti d’America»
Katherine rispose allo sconforto dell’uomo con un sorriso che dipingeva tanta gratitudine. Gli pose una mano sulla spalla, non era certa che lui sapesse quanto il gesto contasse per lei. Da buon amico non aveva informato Christian del suo tentativo fallito, aveva mandato giù il magone cercando di accettare la volontà e la partenza del collega.
«Se l’America, la tua famiglia e noi ti perdessimo, lasceresti un dolore immenso. Tua moglie e i vostri ragazzi non avrebbero sopportato che tu fossi al fronte»
Fabian incontrò gli occhi malinconici della giovane donna e lo ferirono, benché lei cercasse di sortire l’effetto contrario. L’ufficiale spostò la loro attenzione sull’argomento del giorno, il quale non era affatto più lieto.
«Penso non gli dispiacerà se ci accomodiamo qui»
Hernandez recuperò dalla tasca dei pantaloni un mazzo consistente di chiavi, le quali appartenevano alla maggior parte delle serrature della base. Katherine fu la prima a varcare la soglia. Trovò un ufficio quasi spoglio, ma non si stupì, Christian era ordinato e Fabian le aveva appena rivelato che il marito prediligeva svolgere le sue attività altrove.
Pochi passi dietro Katherine vi era Fabian che tolse il suo cappello e lo appese ad un piccolo attaccapanni in prossimità della parete. Ebbe rispetto per ciò che i Navy SEALs - lui compreso - avevano posto sulla scrivania di Christian; non erano semplici reperti, ma ricordi rinvenuti dalla carcassa di un aereo precipitato, come tali Fabian li trattò e ne ebbe cura.
Katherine scorse gli oggetti dalla soglia e intravide in un angolo la scatola nera aperta, i nastri erano stati estratti, segno che le indagini - anche se forse informali - erano già iniziate. La bagnina non era affatto acerba sull’argomento, conosceva bene la funzione di quel reperto, forse il più importante di tutti se ci si basava sui formalismi. Il resto non era in buone condizioni, perciò non riuscì ad identificare qualcosa nello specifico a metri di distanza. 
La donna mosse qualche passo pacato in direzione della scrivania di legno robusto e sbiadito dal sale dell’oceano, sostanza naturale con la quale Christian divideva le sue giornate. Arrivata fin lì, avvicinarsi fu la scelta più logica per Katherine. Passò una mano sulla superficie liscia, era un movimento lento che lasciò il solco della mancanza del comandante. Non esaminò gli oggetti - almeno non subito -, ad attirare l'attenzione della donna fu quello che era stato lasciato dal proprietario prima della sua partenza. Una foto in particolare non la ricordava nemmeno lei, raccontava la loro più grande follia; poteva sembrare un giorno qualunque, invece immortalava la notte santa delle loro nozze, una notte di luna piena che rischiarava i loro sorrisi gioiosi. Era una delle poche testimonianze della loro unione, la più preziosa e lui la custodiva come tale. Katherine sfiorò la cornice con la punta delle dita per non macchiare il vetro con le impronte.
«Gliel'hai detto?»
La voce di Fabian la riscosse dal torpore malinconico nel quale era caduta.
«Cosa?»
«Non gli hai parlato del ritrovamento dell’aereo?»
«Non mi sembrava una notizia da comunicare per telefono. E poi non ci sentiamo spesso quanto vorrei»
Katherine si accomodò sconsolata sulla sedia del marito; la seduta era morbida e ancora calda, anche se lui mancava già da diverso tempo. Fabian si avvicinò a lei oltre la scrivania e sussurrò quasi, scorgendo la sua preoccupazione. 
«Ehi. Sono certo stia bene»
Continuavano a ripeterle quanto suo marito fosse in gamba e preparato per affrontare situazioni estreme come una guerra spietata. Katherine credeva in lui, nelle sue capacità e nella sua prudenza. Nessuno di loro, però, si trovava nella sua posizione, nessuno tra coloro che la circondavano aveva una bambina di sei anni da difendere dall'assenza del padre. Alisia non conosceva la destinazione di Christian, era triste benché fosse all'oscuro di buona parte degli eventi. Un altro pensiero sullo stato di suo marito l'avrebbe condotta alle lacrime, di cui in pubblico si vergognava.
«Cosa avete riportato a terra?»
Lo sguardo di Katherine vagò sulla scrivania. Muschio e licheni serpeggiavano fra gli anfratti dei reperti. Il metallo era incrostato, la carta e la stoffa erano zuppe dell'umidità accumulata nel corso di più di due decenni. Esaminò ogni oggetto con il pensiero rivolto alle vite che essi nascondevano. Non osò sfiorare qualcosa, ai suoi occhi era tutto troppo fragile e prezioso.
Fabian le allungò con accortezza un piccolo oggetto recuperato dalla mischia. Vi passò sopra il pollice per eliminare le impurità che avrebbero reso più complessa l'identificazione.
«Una fede. Potrebbe appartenere alla madre di Christian, il nome dell'uomo coincide con quello riportato sulla lapide, ma il compagno di viaggio al suo fianco non la indossava»
«Christian conserva ancora la vera di suo padre. Non era solito portarla all’anulare, così mi ha detto lui tempo fa»
L'espressione che entrambi si rivolsero in sincrono era sgombra dal più flebile dubbio sul fatto che fossero loro. Erano tristi e sollevati nel medesimo tempo. A Katherine parve di rivivere in parte il dolore del marito alla notizia. Quegli oggetti erano impregnati dei loro ultimi respiri, gli ultimi con i quali avevano parlato un'ultima volta con il figlio. Erano figure lontane, eppure così vicine a lei, fosse solo per l'amore che nutriva per Christian. Una lacrima scorse sulle sue guance, Katherine la asciugò subito per ribellione alla sua stessa emotività. Provava per i signori Richardson un affetto incondizionato per aver reso suo marito l'uomo che era.
Katherine fece scivolare tra le dita la fede in oro placcato, così diversa da quella che le aveva donato Christian.
«Fabian. Li avete trovati davvero?»
«Non lo so. Prova ad esaminare il resto»
Il comandante guidò lo sguardo della donna verso un cumulo isolato di oggetti. Era chiaro che Fabian avesse già fatto una selezione logica dei reperti, elemento di cui lei non si era accorta fino a quel momento, troppo presa dalla malinconia.
L'ufficiale posò i palmi sul bordo della scrivania, avido di sapere. Non era sua intenzione imporle alcun genere di fretta, ma era preda dell'impazienza di conoscere la portata della loro scoperta.
Nel cumulo di oggetti vi era un orologio da polso arrugginito e fermo nel tempo ad un momento preciso e drammatico. Accanto ad esso un portafogli da uomo ormai incolore attirò l'attenzione di Katherine. Scottava al tatto della giovane donna, ma si fece forza e lo aprì. Al suo interno una fotografia sbiadita immortalava un bimbo moro dagli occhi profondi come l'oceano. Katherine ne rimase affascinata.
«Ora capisco perché conserva la foto di sua figlia nel portafogli. È un'abitudine di famiglia»
«È lui? Sei sicura?»
Non gli rispose e si girò pensierosa verso la scatola nera.
«L’avete ascoltata?»
«Dovrò consegnarla alle autorità, ma prima voglio fare una copia della registrazione»
«Voi non siete le autorità?»
«Ci sarà un altro processo, Katherine. Il caso verrà rivalutato insieme alla sentenza. Sei sicura che Christian sia pronto a riaprire vecchie ferite?» 
«Christian ha sempre voluto dei corpi su cui piangere la loro memoria, non gli importa più nulla della giustizia»
«Allora dimmi tu cosa dovrei fare. Fingo che non sia successo nulla davanti alla Giustizia? Sopra quell'aereo non sono morti solo i genitori di tuo marito»
Il comandante era combattuto, l'entusiasmo iniziale per la scoperta era quasi del tutto sparito, non desiderava ferire il collega. 
«Gliene parlo io quando torna»
«Richardson non tornerà prima di maggio»
«Lo so bene, ma temo possa sentirsi male. Converrai con me che non sia il caso di fargliela ascoltare»
«Tuo marito è sveglio e me la chiederà»
«Dì che l’hai consegnata alle autorità e che non ne hai più la disponibilità»
«Vuoi che gli menta?»
«No, non chiedo a te di farlo. Gli dirò solo quello che potrà farlo sentire meglio. Gli risparmio il resto. Ora fammi ascoltare le registrazioni, voglio capire cos’è successo a quel maledetto aereo»

 

Fabian non aveva ancora ascoltato gli ultimi istanti del Boeing 747, non sapeva di cosa sarebbero stati testimoni. La donna al suo fianco era determinata e, paradossalmente, l’ufficiale era più intimorito di lei, l’esperienza in campo militare non lo rese più disinvolto. Sfruttò una cabina vuota e concesse a Katherine di prendere posto su una sedia riservata ai SEALs. Il comandante indugiò a fornirle l’occorrente per ascoltare, sperava che alla fine decidesse di risparmiarsi la tortura, lui avrebbe potuto occuparsene più tardi, invece era tenace almeno tanto quanto suo marito. Christian non avrebbe potuto scegliere compagna migliore: una donna forte nelle sue debolezze, che sapeva farsi carico delle fragilità dell’uomo con il quale spartiva la vita, lo stesso del quale soffriva la mancanza e con il quale condivideva i fantasmi del passato, come se ella stessa avesse vissuto il drammatico giorno di ventitré anni prima. 
Katherine rivolse un leggero cenno con il capo all’amico. Era pronta qualunque cosa ci fosse in serbo per loro. Fabian collegò i fili necessari ai macchinari che aveva a disposizione alla base. La donna trattenne le cuffie contro le tempie con risolutezza. La sbobinatura iniziò nel momento in cui Fabian premette il pulsante di accensione. Sentirono rumori striduli in sottofondo, durarono qualche secondo, il tempo sufficiente per far credere all’ufficiale che per qualche assurdo motivo i dati fossero andati perduti, invece erano solo i motori che ruggivano.
Una voce giovanile e vivida subentrò più tardi.

«Qui Boeing 747. Torre di controllo, mi ricevete?»
«Ti riceviamo, comandante. Decollo completato con successo»

Gli sguardi di Katherine e Flores si sfiorarono, la fortuna doveva averli abbandonati in seguito. Passarono almeno venti minuti prima che i due ascoltatori udirono nuovamente la voce del giovane comandante. Provarono tanta angoscia in quel lasso di tempo, erano coscienti di come sarebbe terminato quel volo. Fiaban, munito di penna e taccuino, si appuntava informazioni ai fini delle indagini, sia che fossero private sia che diventassero pubbliche. Il comandante eseguì qualche calcolo veloce tra i dati che aveva a disposizione: il tempo stimato per il tragitto, conoscendo il luogo di partenza e di destinazione, e il punto in cui l'aereo aveva perso autonomia in volo. 

«Torre di controllo? Qualcosa non va, ho avvertito un vuoto d’aria insolito. Potete analizzare il problema?»
«Comandante, puoi effettuare la procedura d’emergenza e segnalarci le spie accese e spente davanti e sopra di te?»

La voce di Fabian si intromise seria, approfittando di una pausa nella conversazione tra il pilota e la giovane donna che lo stava guidando in quelle manovre.
«Sta inserendo il pilota automatico»
«Cosa significa la procedura d’emergenza?»
Non era un buon segno. Fabian era piuttosto ferrato sull'argomento, aveva trascorso qualche anno nell’aeronautica militare all’inizio della sua carriera e i voli erano all'ordine del giorno. 
«Il copilota avvisa i passeggeri di prepararsi al peggio, mentre il primo pilota controlla il funzionamento del mezzo, codifica ogni spia con il libretto di istruzioni alla mano»

«Torre di controllo, stiamo perdendo altitudine, seppur molto lentamente. Non capisco...rilevi un malfunzionamento del motore? Il carburante non scende»

La voce del pilota cercò di non far trasparire agitazione, eppure entrambi ostentavano preoccupazione durante il volo, chi dal velivolo chi dalla terra ferma.

«Comandante, riporta l’aereo sopra i trenta mila piedi. Abbiamo bisogno di tempo per identificare il malfunzionamento»
«Ho più di trecento passeggeri a bordo, non ho tempo per le vostre stime»

La voce del comandante del mezzo non era esigente, ma inspiegabilmente comprensiva, dispiaciuta e dolce. 
«Ti prego, Fabian, blocca»
Lui la ascoltò con prontezza e Katherine discostò la cuffia dalle tempie, la posò delicatamente davanti a sé e si portò le mani sul volto. Era emotivamente sfinita e tesa. Sussurrò qualche  secondo dopo prendendo un lungo respiro fatto di singhiozzi contenuti e celati. 
«È stata una catastrofe» 
Fabian non negò, avevano già stimato il numero di corpi che l’oceano aveva restituito, doveva con pazienza essere dato loro solo un nome. 
«Può essere stata una negligenza?»
«Non da parte dei piloti, sono anch’essi semplici vittime. Ora questo lo sappiamo, sono innocenti»
Fabian continuò ad ascoltare, dopo un primo momento di diffidenza volle sapere avidamente. Lo fece con professionalità, come se fosse uno specifico compito da portare a termine e da cui non poteva esimersi. In realtà non voleva arrendersi per Christian. 

«Comandante, se collaborate ti prometto che andrà tutto per il meglio»
«Procedo. Riporto l’aereo sopra i trenta mila piedi. Disattivo il pilota automatico e lo tengo stabile manualmente»
«Molto bene, Brian»
«Sophie, cerca di fare presto. Non so per quanto potrò resistere»

Era nata una certa confidenza tra il pilota e la ragazza con la quale era in comunicazione. Erano entrambe voci giovani, non potevano avere più di trent'anni, eppure la voce femminile aveva un timbro familiare per l'ufficiale che stava ancora assistendo alla conversazione. Passò qualche minuto di assoluto silenzio, Fabian si voltò verso Katherine, ma cercò di essere impassibile per non angustiarla.

«Sophie. Sto perdendo il controllo del mezzo. Ho bisogno di un atterraggio d’emergenza»
«Sotto di voi c’è l'Oceano Pacifico» 

La ragazza era spaventata. Qualcosa le impediva di svolgere il suo lavoro con obiettività. 

«Devi resistere qualche chilometro» 

Era una supplica accorata. Stava pregando il pilota di non arrendersi per alcuna ragione, sfidando anche le leggi gravitazionali. 

«Negativo» 
«Brian, ti prego. Hai a bordo più di trecento passeggeri e tu sei su quell’aereo»

Fabian udì un silenzio intriso di addio.

«Sophie, ti amo»

La voce del ragazzo era commossa, non si trattenne più e lasciò trapelare il suo immenso sconforto.

«Ti amo anche io, Brian»

Affaticata, lei cercò di mantenere la calma.
Fabian non sentì più nulla, solo singhiozzi femminili, non utili ai fini del processo, non raccontavano nulla di nuovo sulla fine dell’aereo. La comunicazione era caduta nel vuoto, i motori si erano spenti lentamente come una candela priva di cera.
«Cos’è successo?»
«Non lo so, Katherine. Dovranno analizzare lo stato dell’aereo per comprendere l’avaria»
«Sono passati ventitré anni, non riusciranno più a capirlo»
«Forse qualcuno ci può ancora aiutare»
Il tenente pensava alla voce femminile che aveva udito, la stessa che aveva in sé qualcosa di familiare. Forse aveva appena ascoltato una vecchia collega che, scosso, non riusciva a riconoscere. Doveva trattarsi di un controllore del traffico aereo specializzato nel suo campo, quindi poteva ipotizzare cosa fosse successo, anche a distanza di anni. 

 

 

Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 12 settembre 2018
 

L'unico rumore che fece breccia nella notte fu lo scalpiccio dei passi del tenente Richardson. 
La luna nascente lo guidò fino alla base. Fu più facile di quanto credesse ritrovare la via nell'oscurità, il satellite proprio come il sole sorgeva ad Oriente. Ripercorse le proprie orme, sicuro della direzione che stava seguendo. Non era possibile trascurare ciò che stava succedendo alla base, indirettamente l'esercito nemico stava minacciando anche lui e Gwen che si erano stanziati sulle distese di vegetazione limitrofe. 
La sua Sig Sauer era carica e a portata di mano. Forse era l'unico particolare che non smetteva mai di gettarlo in un stato di disagio - ormai credeva che quella sensazione sgradevole non sarebbe più stata cancellata dagli innumerevoli anni di servizio; sperò di non doverla usare lungo il tragitto, se non per depistare qualche soldato dell'esercito avversario. 
Gemiti sommessi giunsero all'orecchio del capitano a pochi metri dalla sua destinazione. Una guerriglia si stava consumando all'interno del filo spinato che non era riuscito a respingere il nemico. Ampie fessure aperte da possenti armi da taglio, quali cesoie o seghe, avevano creato più di un varco per l'accesso sul suolo americano
Christian ignorò i colpi sparati tra le mura, la sua mente non riusciva a realizzare che in quel preciso momento uno dei suoi compagni d'armi stesse esaltando l'ultimo respiro. Era proprio ciò che Flores aveva voluto risparmiare a lui e al soldato Ward. Il generale però con i suoi ordini non aveva cancellato la loro coscienza. Il dispiacere per i commilitoni era così intenso che Christian fu sfiorato dal pensiero di entrare nel vivo dello scontro, se non fosse stato per una distrazione di notevole importanza lo avrebbe fatto, con tanto di avventatezza e convinzione. 
La sua attenzione  venne attirata da una sagoma familiare accostata alla base di un possente e irregolare masso. Fu la flebile e suggestiva luce che si spalancava dalla volta celeste a rivelargli il volto dell'uomo. 
Flores soffriva in modo composto accostato ad un angolo scomodo. Tentava di contenere con la mano l'emorragia che copiosa gli stava dilaniando il fianco e di riprendere fiato per tornare nel pieno della battaglia con più energie, le stesse che lo stavano inesorabilmente abbandonando. L'ufficiale più anziano non attendeva impassibile la morte, non si arrese a lei, cercò di alzarsi per tornare a combattere accanto ai suoi uomini e fu quello il momento in cui Christian intervenne per tutelarlo da se stesso. 
«Generale! Non è il caso di muoversi, rischia di peggiorare»
Christian lo aiutò a contenere la ferita con sangue freddo, anche se nel cuore era diventato un vulcano attivo di emozioni. Era senza dubbio una notte sfortunata per loro, il cui esito si prospettava essere sempre più drammatico. 
Flores lo fissò pensieroso. Tra le mille domande che gli sorsero una vinse su tutte. 
«Capitano, lei crede nell’Aldilà?»
Christian rimase confuso. Forse cercava un conforto nei suoi ultimi istanti di vita, rassicurazione che non era in grado di offrire in quei minuti. Era una domanda difficile in un momento simile, non riusciva a prendere in considerazione che il diretto superiore morisse. Aveva visto troppe volte la morte attraversare il suo cammino, il solo pensiero di rivivere la dipartita di un conoscente gli devastava l'anima. 
«Sto provando a crederci» 
«Se avessi la certezza di rivedere lei, non chiederei altro che non fosse la morte. Se ne è andata così»
«Sua moglie è morta per una ferita simile?»
Chris ripensò alle parole del colonnello Keller, con ingenuità, non ritenne di risultare indelicato e indiscreto, nonostante tra loro non vi fosse alcun grado di confidenza. Christian non sapeva con esattezza come avesse spirato quella donna a lui misteriosa. Sapeva, però, come l'anima del generale lo stesse salutando: nel silenzio, in una pacata tarda sera d'autunno Flores era diventato - contro ogni sua volontà - una placida foglia ormai secca che si avvicinava leggera alla fine
[1]. Il pensiero della compagna lo stava aiutando a rendere il passaggio dalla vita meno oneroso. Christian sentì il cuore del superiore rallentare le pulsazioni sulla ferita, si stava rilassando, forse troppo per scongiurare l'ultimo respiro. 
Flores non ebbe la forza per dissentire, anzi si mostrò insolitamente vulnerabile davanti al comandante, tanto da non domandare alcuna spiegazione sulle informazioni note al seal.
«Non era ancora mia moglie, non è riuscita a diventarla»
Gli occhi di Christian erano velati da una sottilissima patina lucida percepibile dall'attento sguardo altrui. Si commosse per le condizioni del superiore, non temeva affatto che l'intransigente generale dell'esercito americano lo rimproverasse per quel suo attimo di debolezza. L'ufficiale di marina si concesse la libertà che Flores gli aveva negato fin dalle prime ore in cui aveva messo piede sul suolo afghano. 
Mark sorrise procurandosi qualche spasmo alle viscere lesionate. Era grato al seal per il supporto che gli stava offrendo, non era certo di meritare un simile grado di lealtà da parte di un uomo a cui aveva arrecato una buona dose di sofferenza; sfiorò la mano con la quale Richardson stava tentando di contenere il flusso del liquido ematico, fu l'unico slancio di affetto che riuscì a permettersi nei confronti del suo soccorritore. 
«Ora piange per me? Credevo di esserle antipatico»
Christian non ebbe il tempo di replicare. Lo scatto di un grilletto si fece largo nella notte. Intravide la canna di un mitra puntato su di loro. La penombra rivelò un giovane uomo dai lineamenti delicati contornati da un copricapo tipico dell'Oriente. La kurta scura appena visibile era macchiata di sangue rappreso, ma non sembrava del diretto interessato. L'ombra del copricapo e della luna oscurarono le cicatrici che deturpavano il suo volto, ancora vagamente innocente. Flores impiegò un filo di voce prima di svenire e rilassare i muscoli in tensione per il dolore fisico. 
«Campbell … sei vivo»
Il soldato appena giunto abbassò l'arma con discrezione, ebbe il timore di essere osservato da sguardi compromettenti. 
La confusione di Christian si dissolse subito e lo riconobbe, benché non avesse mai avuto modo di incontrarlo. 
«Alexander»
Il ragazzo si rivelò, uscì dall'imbrunire e si palesò alla luce naturale del satellite. Fissò Christian disorientato, non sapeva chi fosse, ma la divisa lo classificò come un alleato. Le generalità non erano importanti in quel drammatico frangente. Alexander era in apprensione per il superiore, provò subito a soccorrerlo, non perse tempo prezioso. 
«Sono arrivato tardi»
«Penso io a Flores. Raggiungi Gwen, è sola e ferita nella foresta. Ha bisogno di te»
L'uomo che aveva appena conosciuto gli aveva riferito un'informazione allarmante ed emozionante. Gli dispiacque allontanarsi dal capezzale del generale privo di sensi. Lo consolava il fatto che il militare decorato di fronte a lui gli infondesse fiducia, era certo che il generale fosse al sicuro. 
Alexander non se lo fece ripetere. La raggiunse di corsa, senza badare ad altro; i passi rimbombavano sul terreno arido, ma non ebbe paura di spaventarla. 
La trovò, la scorse al suolo e lasciò che il mitra scivolasse dalle sue mani non appena ebbe appurato il suo stato di salute. Gwen lo riconobbe, dopo aver escluso che si trattasse di Christian o di un qualsiasi nemico dal quale si sarebbe dovuta difendere. La tensione non si sciolse comunque, era stupita e a tratti impassibile. Il dolore alla gamba aveva alterato i lineamenti della ragazza, aveva offuscato la sua mente. Per qualsiasi motivo i suoi occhi non esprimevano gioia a quell'incontro. 
Gwendoline si alzò con le poche forze che le erano rimaste e Alexander ebbe occasione di scrutare la ferita sanguinante. Le andò incontro per evitare che si affaticasse e la raggiunse a metà strada. Più lui si avvicinava, più lei faticava a riconoscerlo. La giovane non gradì le mani gelide del soldato sui fianchi; tentò di colpirlo con un pugno sul petto spinta dall'ira, ma era troppo debole, aveva perso sangue a gocce, ogni dimostrazione di forza fu vana. Si lasciò andare tra le sue braccia, priva di energie, non riuscì a lottare contro la volontà di Alexander. 
«Mi hai abbandonata. Mi avevi promesso che non lo avresti mai fatto»
Svenne, lasciando che le parole le morissero in gola; una parte di lei sapeva di essere al sicuro, abbassare la guardia non sarebbe stato rischioso né tantomeno fatale per la sua incolumità. Alexander la strinse a sé, non consentì al corpo della ragazza di sfiorare il terreno. Adagiò la nuca di Gwendoline sul suo ginocchio e la abbracciò affondando il volto nell'incavo della sua spalla. Lo stato della giovane compagna gli assestò un violento colpo al centro del petto. Nessuna tortura subita era stata altrettanto dolorosa. Si limitò a scaldarla e a proteggerla con il suo calore. Se solo avesse incrociato prima il suo cammino, lei non avrebbe rischiato la vita e nemmeno Flores. 
Non riusciva ad esprimere quanto la amasse. Si era innamorato di lei giorno dopo giorno, ma non glielo aveva mai confessato. 


Kabul - Ospedale da campo, 14 settembre 2018
 

Karim si avvicinò a Samuel con passo leggero, sospeso anch'esso insieme ai pensieri che avevano colmato le sue ultime notti accanto a Maryam. Aveva riposato su una scomoda sedia di legno, pur di non lasciare che la ragazza si abbandonasse al dolore per la scoperta. Era in salute, la violenza subita non aveva lasciato altri segni oltre la gravidanza, Karim si premurò di accertarsene. I colleghi gli avevano suggerito di stendersi qualche ora, ma lui aveva negato ogni tipo di consiglio, preferendo occuparsi dei pazienti e rivolgere un'attenzione particolare a Maryam. 
Era sfinito, ma fermarsi significava ricordare anche quanto l'apocalisse fosse vicina per le sue amate terre d'Oriente. Era impotente davanti all'onda anomala che li stava investendo, ogni azione che compiva per la sua gente era solo una goccia d'acqua nel deserto, irrigare era una vana illusione.
Non vi era una sala d'aspetto per un ospedale rudimentale come quello in cui Maryam era ricoverata. L'esterno e le zone limitrofe erano diventate il luogo di attesa per gli amici e i parenti dei pazienti. Non avrebbe potuto pretendere nulla di più, era uno sprazzo di umanità nel mezzo di una distesa di emozioni bistrattate. 
Agli occhi di Samuel, Karim aveva l'aria del medico che forse in passato - prima che lui lo conoscesse - era stato. Le mani nelle tasche e gli occhiali nell'occhiello del camice bianco gli offrivano un'atmosfera professionale; la stessa che avrebbe meritato, ma che la guerra gli aveva strappato. Il conflitto perpetuo gli aveva negato un ambiente nel quale esercitare e da quando l'ospedale di Kabul era diventato una prigione la situazione per lui era precipitata. 
Il medico si accomodò accanto al giornalista con un sospiro sofferto; percepì dolore nel fisico e nello spirito. Lo sguardo dell'afghano era rivolto al suolo, era solo un modo per ricaricare le energie e ritornare accanto al letto di Maryam con un rinnovato sorriso di speranza. Non aveva studiato per curare le anime, eppure in quel clima di sopravvivenza aveva imparato sul campo e sulla propria pelle a fare di ogni necessità virtù. I suoi concittadini si appellavano a lui come la più attendibile fonte di speranza, un oracolo - nel comune sentire -  che avrebbe potuto mutare ogni singolo destino. Salvare vite non lo rendeva un eroe, ma un uomo che non era in grado di arrendersi all'evidenza; si infieriva più male che bene, la malattia che lo aveva colpito recentemente era sintomo della debolezza del suo corpo. Eppure si ostinava a credere che ciò che compiva ogni giorno per il prossimo non fosse mai abbastanza. Era una condanna non riuscire mai a colmare il dolore e le mancanze che la guerra seminava al suo passaggio.
Scrutò la mano destra del giovane americano che reggeva tra le dita una sigaretta ormai giunta al filtro.
«Ne avresti una anche per me?»
«Dottore, è nociva per la salute. Lo sai, vero?»
Karim la accettò nonostante gli avvertimenti. La accese con facilità e sorrise con amarezza, facendosi beffe delle sue conoscenze mediche. Il fumo era l'ultimo dei danni che potesse ricevere il loro corpo in Afghanistan.
«Non è la prima sigaretta. Non ne accendo una da tanto, ma ora ne ho bisogno»
Pensò ai mille motivi che rendevano i suoi nervi incontenibili e lasciò che la nicotina gli offuscasse la mente. Aveva cercato Samuel, aveva bisogno del suo sguardo rassicurante; da quando era arrivato tra loro aveva donato sincera speranza, la stessa che nel cuore del dottore stava esalando i suoi ultimi respiri. Da settimane Karim e Samuel si erano divisi con implicito assenso i compiti: il medico guariva il popolo nel corpo e il giornalista si occupava delle loro anime. Samuel era un supporto per loro, più di quanto il reporter credesse.
Il medico di Herat prese coraggio e si confidò con il suo buon amico. 
«Ho chiesto a Maryam di sposarmi»
«Congratulazioni, Karim! Spero lei abbia accettato»
Forse in Occidente sarebbe stata una gioia, Samuel lo sapeva senza che Karim lo spiegasse, il suo sguardo sconfortato fu più eloquente delle parole. Gli era venuto spontaneo complimentarsi, lo aveva fatto senza pensarci troppo, così era stato per lui quando aveva annunciato insieme a Margaret le nozze a parenti e amici. Era stato superficiale e troppo impulsivo, se ne rese conto tardi.
«Lo fai per aiutarla. È fortunata ad avere un amico come te. Karim, qual è il problema? Non ti vedo più così convinto. Ha forse rifiutato? Spero abbia compreso le tue buone intenzioni»
«Non sono il candidato perfetto per un matrimonio e imprigionarla in una vita infelice non è mia intenzione»
«Più che infelice, si sentirà protetta» 
Samuel non poteva capire cosa lo angustiasse davvero. Nessuna donna lo avrebbe meritato accanto, a nessuna donna avrebbe provocato un dispiacere se non fosse stato strettamente necessario, come nel caso di Maryam. Diede un tiro alla sua sigaretta, la spense con le dita e la buttò al suolo quasi intonsa. Tornò a scrutare il suolo posando i gomiti alle ginocchia, mai prima di allora un suo limite gli era pesato tanto.
«Farò finta che quel bambino sia mio, ma non può esserlo, Samuel ... io non posso concepire, penso da sempre»
Non se lo aspettava e in effetti i timori di Karim potevano essere fondati.
«Lo sa qualcun altro?»
«No»
«E allora non c'è alcun pericolo»
«Il fatto che sia solo alla mia età non ti sembra strano?»
«In America non sarebbe strano»
«Qui non siamo in America e tendi a dimenticarlo un po' troppo spesso»
Dovette ricordarglielo, non poteva pretendere comprensione totale da parte di un occidentale, ne era consapevole.
«Temi possa rischiare comunque? Karim, se la sposi e riconosci il bambino, non diventa un problema solo tuo? Chi altro potrebbe accusarla, se tu non vuoi?»
Non gli rispose.
«Maryam lo sa?»
Karim negò con un leggero cenno del capo.
«Glielo devi dire»
«No. Si sentirebbe ancora più a disagio con me»
«Senti, Karim, scusa la franchezza, ma se voi non avete alcuna intenzione di consumare il vostro matrimonio continuo a non vedere alcun problema»
Samuel aspettava fiducioso una risposta, evidentemente gli stava sfuggendo cosa comportasse davvero la sterilità di Karim. Il medico prese un profondo respiro, non era nelle condizioni psichiche giuste per spiegare con razionalità. 
«È il fondamento del matrimonio. Da noi una donna è costretta a diventare madre, quindi un uomo come me diventa pressoché inutile accanto ad una moglie. Quando quel bambino nascerà e non arriveranno altri figli, la gente inizierà a parlare e lei si sentirà a disagio al mio fianco, la faranno sentire così e daranno la colpa a lei solo perché è una donna. Certo che non ho intenzione di toccarla, solo che nel mio caso diventa anche inutile. Non mi fraintendere, non sono d'accordo con la Legge. Voglio solo che sia serena e che abbia la possibilità un giorno di andarsene da qui. Desidero sia libera di amare, come di non amare»
«Stai facendo tutto il possibile per lei»
«Dovrei fuggire con lei per proteggerla davvero, ma non credo di essere abbastanza forte»
Karim era pallido e sconsolato. 
«Ora devi solo riposare. Non preoccuparti, saprai starle accanto»
«Evita la retorica, Samuel. Riesco a malapena a preservare la salute delle persone che mi circondano, ma non so aiutare lei. Capisci ora perché non ho mai osato farmi avanti?» 
L’aveva accusato di disinteressarsi delle condizioni di Maryam senza sapere davvero cosa l’avesse spinto a compiere quella scelta fino a quel momento. Non si stava comportando da buon giornalista, aveva giudicato prima di approfondire i fatti, ma soprattutto si era fatto portavoce di pregiudizi, un atteggiamento sconveniente per qualunque essere umano, motivo in più per un reporter che faceva della verità la sua ragione di vita.
Il telefono dell'americano nella tasca iniziò a squillare nel momento più sconveniente.
«Pronto»
«Samuel»
Era la voce della madre spezzata dal pianto. Il ragazzo si voltò preoccupato verso Karim, ma quest'ultimo non riuscì ad interpretare lo sguardo dell'amico.

 

 

Los Angeles – St. Vincent Medical Center, 14 settembre 2018
 

Quando Daniel aprì gli occhi, la confusione dell'anestetico lo colse. I muscoli erano atrofizzati, aveva perso la percezione del tempo, era possibile che avesse dormito per più di ventiquattro ore senza rendersi conto di nulla. Tentò di liberarsi del respiratore che gli copriva bocca e naso, paradossalmente lo stava soffocando. Essere preda dei macchinari in una condizione di inerzia lo agitava.
«Non ci pensare nemmeno. Tieni quella museruola ancora un po', così magari sei meno rabbioso»
La voce della figlia lo rimproverò. La vide al suo fianco seduta sul materasso, la dottoressa riposizionò la mascherina con uno scatto deciso e subito dopo una luce intensa venne puntata da lei nelle sue iridi.
«Mi sento meglio, non è necessario … Delilah mi stai accecando, smettila»
Intravide la sagoma della donna allontanarsi e inforcare una biro dal camice. Stringeva una cartella clinica tra le mani. Cercava di camuffare la stanchezza e il malessere psicologico, non voleva mostrarsi debole davanti a lui.
«Ti senti meglio? Davvero? Papà, non hai subìto un'operazione semplice. Potresti per una volta ascoltare e tacere?»
Fu molto più serio rispetto a pochi minuti prima. Gli aveva salvato la vita, ne era sempre più consapevole man mano che la lucidità rinvigoriva. Discutere con lei in fondo era parte del loro rapporto, ignorò perciò i modi poco delicati della figlia. 
«Grazie, Delilah. Come sta tuo fratello?»
Il ricordo di Samuel le fece alzare lo sguardo dai fogli. Anche se nelle ultime ore i pensieri erano stati impegnati su altre questioni, continuava ad essere in pena per lui e per la malattia fatale che rischiava di contrarre con la più piccola distrazione. Daniel interpretò la sua premura.
«Sei preoccupata?»
«Tu no?»
«Conosco Samuel e non gli avrei mai affidato un reportage simile se non fossi stato certo della sua prudenza»

 


Ciao ragazzi!
Con una buona dose di ritardo, riesco ad aggiornare tra le difficoltà della trama (spero sia tutto comprensibile, nel caso chiedo scusa), del lavoro e della vita. Sono quasi tre mesi che mi impegno su questo capitolo. Perdonatemi, davvero, e grazie di cuore a tutti i lettori che mi hanno attesa con pazienza, dote non da tutti. ❤
Millenni fa ho scritto un approfondimento sul rapporto tra Flores e Isabel ai tempi della Guerra Fredda, ve lo lascio qui se dovesse interessarvi: 'Macchie di sangue innocente - segni di amori (im)puri'. Se approfondissi all'interno della trama principale vi annoierei sicuro, quindi preferisco creare tanti piccoli spin-off per i flashbacks. 
Spero a presto!
Un grande abbraccio
-Vale
 


 

[1] Per la metafora mi sono ispirata alla poesia Soldati di Giuseppe Ungaretti.


 

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Capitolo 25
*** Capitolo 24_Gioventù sepolta ***



Gioventù sepolta
 

 

 

Ospedale di Charikar - a tre quarti d’ora da Kabul, 13 settembre 2018
 

Era sopraggiunta l'alba ormai dopo una notte spesa nella più cupa trepidazione. Il sangue del generale si era incrostato tra le dita di Christian come prova delle ore concitate trascorse da quando aveva soccorso il superiore. Un elicottero dell’aeroporto di Bagram aveva scortato entrambi i militari a chilometri da Kabul, in uno dei pochi nosocomi risparmiati dalle bombe nemiche. Il seal era rimasto accanto a Flores per tutto il tragitto; lo aveva abbandonato alle cure dei camici bianchi solo dopo che la porta in laminato della sala operatoria venne richiusa a pochi centimetri dal suo volto sfinito. Avrebbe desiderato accompagnarlo nei difficili momenti che sarebbero seguiti, ma i medici erano stati categorici sulla sua presenza, era troppo agitato per infondere quiete ad un uomo in fin di vita.
Christian, in alternativa, si era rifugiato in un rudimentale bagno e lì fece scorrere l’acqua ghiacciata prima sulla mano destra e poi sulla sinistra rovesciandola da una tinozza in terracotta. Uno specchio sopra il lavabo ingiallito restituiva l’immagine di un uomo spossato e ferito. Era accaldato per la forte tensione che aveva accumulato. Passò i palmi umidi sul viso e sul collo; trovò refrigerio, ma non la pace dei sensi. Nel silenzio della stanza il ronzio all'udito che non lo aveva mai abbandonato diventò più acuto. Cercò il modo per sovrastare le conseguenze della granata di cui era rimasto vittima pochi giorni prima, recuperò il telefono dalla tasca della divisa e scorse la batteria quasi scarica. Era un segno evidente, non avrebbe dovuto angustiare sua moglie, la sua unica fonte di certezze e pace. Stava riponendo l'apparecchio, spinto da un moto altruistico - e a tratti masochista - che gli era proprio. Intravide tardi un paio di messaggi in segreteria da parte di Katherine. Li ascoltò, ma dall’altra parte non udì parole, bensì un sospiro rassegnato, come se lei si stesse trattenendo. Comprese i suoi silenzi: se gli avesse spiegato a parole il messaggio, non gli sarebbe stato così chiaro. Abbassò le palpebre e lasciò che il pensiero della sua famiglia invadesse la mente stanca. Era stata sua figlia ad indicargli la via del cielo, non era escluso che il ricordo di Katherine e Alisia potesse illuminarlo ancora, mai come allora necessitava di una loro guida.
Quando riaprì gli occhi nulla era cambiato, la sua divisa era ancora imbrattata del sangue di Flores. Sua moglie teneva la stoffa impeccabile, lei si sarebbe premurata di togliere i segni dei tragici momenti che aveva vissuto accanto all'ufficiale. Era una sciocchezza in territorio di guerra, ma gli mancavano le sue amorevoli cure fisiche e morali.
Una improvvisa spia da codice rosso spaventò Christian e irrigidì la sua muscolatura già in tensione, temeva per le sorti del generale più di quanto avrebbe ammesso. Si appoggiò al lavello madido e abbassò lo sguardo cercando di calmarsi. In quella giornata infernale aveva perso valorosi compagni, una parte di loro aveva subìto ferite gravi, la restante parte se l’era cavata con lievi traumi. La base poggiava ancora sulle fondamenta, ma al prezzo di più di una vita umana che aveva scelto volontariamente di affiancare il generale Flores. Era stato, a suo parere, un sacrificio inutile paragonato alle perdite, ma non era lui il comandante, per cui non aveva alcuna voce in capitolo sul destino del loro centro operativo.
Il tenente non invidiava coloro che avrebbero dovuto comunicare alle famiglie la tragica dipartita dei loro cari. Avevano consegnato a lui gli effetti personali di quegli sfortunati soldati, ma non aveva avuto ancora il coraggio di guardare ciò che rimaneva di loro ed era da riportare in Patria. Non sarebbe stato presente quando avrebbero fatto rientro in America, non avrebbe assistito al pianto dei famigliari che aveva tutto tranne il sapore del valore dei caduti ma solo della grande perdita che avrebbero dovuto affrontare. Era ciò che rischiavano ogni giorno tutti loro, oltre i gradi che esibivano sul petto. La sensazione di essere nel posto sbagliato sorgeva anche nella mente del tenente e la dolorosa accondiscendenza di sua moglie non gli infondeva serenità. 
Un’infermiera comparve sulla soglia del bagno interrompendo il raccoglimento del militare. Christian avrebbe voluto ringraziarla, il pensiero in territorio di guerra era il veleno dell'anima. Le rughe della donna erano accentuate dalla sofferenza che leggeva ad ogni nuova alba sul volto delle vittime civili.
«Capitano Richardson?» 
Non lo conosceva personalmente, le avevano solo raccomandato di cercarlo; il volto provato e l'uniforme macchiata da sangue fresco non resero difficile il riconoscimento. L'uomo che trovò era prosciugato della sua vitalità, la accolse manifestando solo una gran premura, accantonò qualsiasi cerimonia di saluto che era solito porgere. 
«Come sta il generale?»
«È nelle mani dei dottori. L’operazione si sta protraendo, il proiettile si trova ancora nella ferita, sembra essere in profondità. I medici dicono che è un intervento delicato, bisogna avere pazienza»
Christian rifletté sulla voce delicata dell'infermiera scrutando la propria immagine distorta nello specchio, era fiducioso sul fatto che i medici sarebbero riusciti a salvarlo, almeno ci sperava. 
Voleva dare giustizia a Flores, prendere i criminali che lo avevano colpito, non potevano restare impuniti anche se si trovavano in un territorio in cui lealtà e punibilità erano relative; si uccideva come se fosse la norma, si abbatteva il nemico come se fosse un bersaglio mobile da rovesciare e non una persona dai diritti inalienabili, in primis quello della vita.
Era convinto avessero smosso le acque e i timori di coloro che tenevano in pugno l'ospedale. I sequestratori avevano cercato di neutralizzare loro, il nemico, principiando una guerra nella guerra. Christian non era solito attaccare nella massa, lui elaborava strategie per risparmiare quante più vite possibili. Era una differenza sottile se alla resa tutti impugnavano un'arma. Era umanità che valorizzava anche l'esistenza di spietati terroristi che non si facevano alcuna remora. Era ciò che il seal aveva imparato sulla propria pelle, ciò che gli aveva insegnato il destino, ciò che gli suggeriva la sua personale missione di pace.
Gli ostaggi si trovavano in grave pericolo e ogni perdita umana sarebbe rimasta indelebile nella coscienza del comandante. 
«Ho bisogno di quel proiettile, dica loro di conservarlo, mi serve per risalire agli aggressori del generale»
L'infermeria annuì complice, non era un soldato, ma dopo anni al fronte conosceva bene le priorità sul campo di battaglia. 
«Sarà fatto, signore. La cercavo per consegnarle questa busta. È indirizzata a lei. Si trovava nella divisa dell’ufficiale»
Il seal indugiò e lesse la scritta accanto all'intestazione prima di conservarla nella tasca più sicura della sua uniforme.

Da aprire solo in caso di morte

 

◦•●◉✿✿◉●•◦

 

Lo schiaffo era risuonato oltre la dura coltre di silenzio che era scesa tra i due giovani compagni d'armi. 
Gwendoline era instabile accanto al davanzale della finestra. Il dorso della mano con il quale aveva colpito Alexander in un impeto di frustrazione tremava sulle labbra, nel vano tentativo di contenere gli spasmi di un controllato pianto che lei non era intenzionata a versare. Non per lui, non più. Il cuore fremeva nell'incredulità di ciò che aveva appena compiuto. La gamba accuratamente fasciata dai medici cedeva a tratti, ma non se ne curò, lei non avrebbe preso posto sul materasso che l'aveva ospitata durante la notte, non se prima lui non si fosse alzato. 
Campbell non predicava il perdono, non era innocente e perciò non si oppose all'ira di lei. Rimase a testa bassa come se fosse stato di fronte alla più severa corte marziale e gli avessero già annunciato la reclusione militare (1) o peggio il congedo con disonore. Si aspettava qualunque provvedimento disciplinare per non aver sfruttato al meglio il libero arbitrio che il cielo gli aveva concesso e per non aver tenuto fede al giuramento pronunciato sulla bandiera americana; avrebbe sopportato le punizioni che gli spettavano, ma il disdegno con il quale la ragazza gli voltava le spalle era più difficile da accettare.
Le cicatrici che Alexander portava sul volto erano il segno inequivocabile della sua ribellione, ma Gwendoline non voleva sentire ragione, una kurta era sufficiente per renderlo uno schifoso traditore - così lo apostrofava da quando si erano ricongiunti.
Un leggero spostamento d'aria costrinse il ragazzo ad alzare lo sguardo. La giovane aveva recuperato la sua stampella per potersi avviare verso la porta della stanza, stanca di sopportare la presenza del soldato accanto a lei. Alexander non poteva consentire alla guerra di separarli, la stessa che entrambi avevano il desiderio di debellare per sempre. Le si parò davanti con il rischio che il gesto audace non fosse gradito da lei, aveva già testato su di sé i livelli della rabbia della sua compagna.
«Gwen»
«Alexander, non provare a giustificarti, non osare farlo! Resti un bastardo a cui non è importato nulla dei miei sentimenti. Non ti sei chiesto cosa avrei potuto provare se avessi perso anche te??»
Lui non lo stava facendo, era pienamente consapevole di aver oltrepassato il segno. Era stato temerario, incosciente e trasgressivo agli occhi della giovane, un comportamento che aveva compromesso la sua integrità. Non aveva trovato altro modo per raggiungere il suo scopo, ma per lei il fine non giustificava i mezzi usati. Era inconcepibile pensare che anche per lui valesse quel cinico principio machiavellico, almeno fino al giorno della sua scomparsa. Gwendoline aveva davanti un uomo totalmente diverso, macchiato dalle scelte che aveva compiuto.
«Ti ho perso davvero. Non sei più l'uomo che eri»
«Preferivi fossi morto??»
Non poté evitare di scrutarlo, i suoi lineamenti erano induriti, non riusciva ad avvicinare il pensiero di ritrovare in lui il ragazzo che era stato oltre gli sfregi che il suo volto sfoggiava. 
«Ma guardati, sei diventato uno di loro. Per quanto mi riguarda lo sei, tu non sei più tornato vivo da me»
Gwendoline tentò di allontanarsi, di dimenticare che lui esistesse ancora, voleva solo piangere in solitudine tutto ciò che aveva perduto mesi prima a seguito della sua scomparsa. Alexander le bloccò bruscamente i passi costringendola ad arretrare spalle al muro, offrendole comunque il tempo di indietreggiare con impaccio. La sovrastò, impedendole di ritrarsi posando un palmo sulla parete vicino a lei. La fissò con sguardo severo, convinto che ogni parola sarebbe servita a poco. Era colpevole, ma non aveva affatto dimenticato chi era stato, lei aveva frainteso.
La porta della stanza si spalancò interrompendo il loro contatto visivo. La reazione della ragazza fu quella che manifestava ad ogni emergenza che scattava a seguito di un attentato. I due giovani rimasero a guardare i soccorritori impegnati ad adagiare il ferito sul materasso intonso posizionato accanto a quello del militare. Gwendoline richiamò l'attenzione di Alexander in un sussurro per non disturbare le operazioni di soccorso e rendersi invisibili nella camera.
«Quanti ne hai uccisi? Quanti innocenti ti hanno chiesto di uccidere?»
Le iridi del soldato Ward erano imbevute di lacrime al solo pensiero che per mano del ragazzo di cui lei si era sempre fidata fossero state mietute nuove vittime. Alexander rimase sconvolto, non riusciva a credere che glielo avesse chiesto davvero; non gli rimase che abbassare lo sguardo imbarazzato e udire l'impercettibile ilarità sarcastica e delusa di lei.
«Sei un assassino»
L'accusa da parte di Gwendoline venne intensificata dal tragico passato della giovane recluta. Assassini erano coloro che avevano attentato alla vita di sua madre sulle Twin Towers. Assassini erano coloro che uccidevano donne e bambini nella terra di fuoco ogni giorno. Alexander poteva solo immaginare quanto la ferisse apostrofarlo in quel modo e quanto fosse rimasta ferita da lui per arrivare a tanto, per paragonarlo a quella  gente.
«Sarei voluto tornare subito. Mi hanno torturato, porto ancora i segni, ma io non ho parlato, non vi ho traditi. Non sono stato io a condurli fino alla base. Non ti ho tradito, Gwen, non avrei mai potuto tradire la tua fiducia e rischiare la tua incolumità. Mi hanno venduto come mercenario in cambio della vita. Non mi pento di non averti ascoltata, perché ora abbiamo informazioni utili e non avevo altri modi per ottenerle, in caso contrario sarei morto pur di non commettere atrocità. Sapevo che non avresti compreso,  fin dalla mia partenza non eri d'accordo»
Di cosa non si pentiva? Delle cicatrici che avevano deturpato il suo viso? O della sua anima diventata buia? E cosa l'avrebbe tranquillizzata sul fatto che non fosse ancora devoto alla jihad, per pura facciata o per convinzione? Come aveva fatto a tornare da loro senza destare il minimo sospetto? Era un ingenuo se credeva davvero di dimenticare l'esperienza vissuta oppure stava solo dissimulando davanti a lei per non angustiarla o peggio per ingannarla.
«Dannazione, quante persone hai ammazzato?!»
Per una donna stanca della guerra e delle carneficine che si consumavano ogni giorno, le parole e le azioni di Alexander erano ingiustificabili. Gli urlò tutto il suo disappunto a pochi centimetri dal volto, dimenticando l'ennesima tragedia che si stava consumando nella sua camera d'ospedale, mentre un elettrocardiogramma dichiarava che un altro cuore aveva appena cessato di battere nel sibilo di un suono lungo e piatto. Lo sguardo di lui rimase impassibile.
«Con me hai chiuso. Qui o a New York non rivolgermi più la parola»
Gwendoline uscì forzando, con la stampella per non sfiorarlo a mani nude, la gabbia entro cui l'aveva imprigionata e il giovane non oppose alcuna resistenza alla volontà di lei, non stavolta. 

 

◦•●◉✿✿◉●•◦

 

La gamba le pulsava, Gwendoline avrebbe dovuto coricarsi, non marciare a passo spedito il più lontano possibile da Alexander. Erano in ospedale per un motivo, una ragione che sovrastava la rabbia e la delusione che provava per il ragazzo che credeva di conoscere. Diede la colpa all'inesperienza, la guerra la stava travolgendo insieme ai legami più importanti della sua vita, quelli che le erano rimasti.
Vi era un intenso trambusto all'interno del nosocomio. Non domandò alcuna informazione, necessitava di estraniarsi dal mondo bellico che le aveva strappato l'uomo di cui era innamorata insieme ai ricordi migliori che lo riguardavano; impresa impossibile, lei continuava ad esserne sommersa, boccheggia in quell'oceano, si sentiva annegare in un mondo che somigliava ai peggiori gironi dell'inferno dantesco.
A pochi passi dal soldato Ward, Christian era assorto su una sedia, anch'egli non coglieva le urla di disperazione che giungevano da ogni angolo dell'edificio, era concentrato su questioni che sembravano urgenti. Gwendoline si accomodò sulla sedia al suo fianco e fissò l'oggetto che il seal stava rigirando tra le dita, ma la mente della giovane stava ancora fluttuando altrove.
«Credevo di voler ritrovarlo, ma non avevo messo in conto in quale stato ci saremmo rivisti»
Il tenente alzò lo sguardo sulla ragazza; le iridi della recluta erano annacquate. Era successo esattamente ciò che Christian aveva temuto fin dal loro primo incontro: l’emotività femminile le aveva fatto perdere lucidità, nulla da rimproverarle, ma ciò non giovava alla sua salute psichica e sul campo.
«Gwen, ci ha fornito notizie preziose per salvare l'ospedale. Parlagli e soprattutto ascoltalo, non credo tu lo abbia fatto abbastanza, sei troppo impulsiva»
La giovane era infiammata e prevenuta, era certa che l'ufficiale avrebbe preso le difese di Alexander considerando anch'egli la questione sul mero piano militare e strategico. Per lei non vi era né comprensione né consolazione, così sembrava.
«Capitano, non ci provi nemmeno. È un assassino e stava per sparare a Flores»
«Per sbaglio. In guerra non ci sono regole, si lotta per la sopravvivenza»
«E allora per quale ragione non l'ho ancora vista uccidere?»
«Sono stato più fortunato di Alexander, avevo quasi sempre qualcuno che mi copriva le spalle»
«Non è vero e lo sa anche lei»
Christian accennò un lieve sorriso e tornò a concentrarsi con amarezza sul proiettile che teneva tra le mani.
«Lo ami, Gwen. Avrà già abbastanza problemi con la corte marziale, non può perdere anche te»
«Davvero, capitano? Riesce ancora a pensare all'amore sotto il cielo grigio di Kabul?»
«Non ci ho mai perso la speranza e non credo capiterà mai»
Gwendoline comprese il riferimento ai genitori del tenente, le aveva parlato di loro in un raro momento di confidenza. Riuscì a zittirla, lei non osò protestare alle parole di lui, le parve di essere indiscreta davanti al suo dolore.
Lo sguardo del soldato Ward si incrociò nello stesso punto di fuga di quello del superiore e anch'ella si distrasse sul proiettile.
«È lo stesso che ha ferito il generale?»
«Combacia con un fucile di precisione. Gli hanno sparato da lontano, ciò significa che Flores era un obiettivo da abbattere. Questo proiettile appartiene ad un M40, lo utilizziamo in Marina. Non riesco a capire come possa essere ancora vivo con un sette millimetri nello stomaco. Non so chi fornisca le armi ai terroristi che tengono in ostaggio l’ospedale, ma sono quasi certo siano stati loro gli artefici dell'agguato alla base, quindi non ci resta che approfittare di un carico di rifornimento per introdurci nell'edificio. Dobbiamo parlare con la balistica in ambasciata, voglio capire come un talebano sia entrato in possesso di un'arma data in dotazione alla Marina statunitense»
Si stava alzando, ma non riuscì ad allontanarsi dalla sedia, Gwendoline lo trattenne prontamente afferrandogli un braccio. Prima di parlare la ragazza gettò uno sguardo verso la sua stanza, un gesto allusivo che insospettì Christian.
«Capitano, lei non penserà che sia stato Alex, vero?»
«Mi fido di quel soldato e dovresti farlo anche tu»
Forse il tenente era a conoscenza di qualcosa di cui lei era rimasta all'oscuro. Non poteva smettere di pensare allo scempio commesso da lui nelle mani di spietati assassini pur di vivere, pur di guadagnare informazioni. Erano passati mesi dall'ultima volta che aveva parlato con il vecchio Alexander, non riconosceva più lo stesso sguardo.

 

San Diego - Aeronautica militare/Coronado, 16 settembre 2018
 

L'ala riservata all'aviazione era in fermento, Fabian se ne accorse non appena ebbe iniziato ad attraversare i lunghi corridoi dell'arsenale che congiungeva le due forze armate al servizio degli Stati Uniti d'America - la Marina e l'Aeronautica.
Era in corso un'esercitazione di media importanza, ma come ogni volta coinvolgeva più della metà del personale che si occupava di aviazione nel Coronado. Il tenente intravide la prua della portaerei e un viavai insistente sul ponte di plancia attraverso gli immensi finestroni della base. Mantenne un passo sostenuto e disperse l'attenzione sui fascicoli che teneva tra le mani, senza il timore di imbattersi in qualche pilota sulla sua stessa traiettoria, si sarebbero premurati altri di evitare uno scontro con lui, aveva altro a cui pensare in quei minuti che lo dividevano dal suo obiettivo.
Aveva esaminato più di una volta i documenti a lui disponibili relativi all'avaria. Ogni questione era rimasta aperta, non erano stati segnalati formalmente indagati nel registro, non erano state riscontrate anomalie causate da un errore umano. Iniziava a credere che fosse stata una nefasta sciagura, un disastro inevitabile causato dal destino. Erano stati interrogati i tecnici che avevano ispezionato la stabilità del mezzo, la torre di controllo che aveva verificato le condizioni del meteo alla partenza e tra coloro che avevano dato l'assenso al volo vi era anche Sophie Lefebvre, una giovane pilota francese che aveva il compito di seguire le fasi di volo del Boeing 747. Fabian aveva deciso di parlarle per fare chiarezza sulle dinamiche prima di rimettere le indagini nelle mani degli organi competenti. Era la testimone più diretta e forse la più attendibile, sicuramente l'unica rimasta in vita per non essersi trovata in quella prigione di morte.
Tra le mani Fabian reggeva i quotidiani dell'epoca, la Rete gli aveva permesso di risalire alle notizie uscite a poche ore dallo schianto. I quotidiani americani che avevano menzionato l'incidente si sprecavano, il fatto poi che non fossero mai stati recuperati né i corpi né le lamiere dava adito a più ipotesi, alcune sfioravano il sovrumano, altre la scienza secondo cui l'aereo fosse esploso a seguito di reazioni e per buona parte fosse andato distrutto in cielo. I giornali a seguito di interviste dichiaravano che fossero tutti sconvolti all'aeroporto internazionale di Canberra sulla costa pacifica dell'Australia e piangevano la scomparsa dei due piloti portando cordoglio alle loro famiglie. Un pensiero era rivolto alle numerose vittime che avevano perso la vita, specie le più  giovani.
La foto di Sophie spiccava tra le colonne della carta stampata; era esattamente come la ricordava all'epoca del loro primo incontro, non era cambiata, aveva solo guadagnato qualche ruga. Affermava davanti ai giornalisti di non sapere cosa fosse successo negli attimi antecedenti allo schianto, non si proclamava innocente ma nemmeno colpevole, era incredula e profondamente addolorata. Il reporter la dipingeva come una principiante sconvolta e travolta dai tragici eventi. Fabian non la riconosceva in quelle parole, il maggiore Lefebvre era più di quello e dubitava lo fosse mai stata. Era frutto del cinismo dei mezzi d'informazione, ne era sicuro. Le parole più ricorrenti della donna erano non so nulla, ma tramite dei fogli di carta Fabian non poteva intuire lo stato d'animo che l'aveva travolta mentre le proferiva. L'unica certezza che lei si ostinava a difendere con determinazione era che non fosse responsabilità dei due piloti, anch'essi vittime innocenti del disastro. 
Sophie non aveva mai accennato nulla a Fabian e lui poteva ben capirne la ragione, o forse no.
Giunto nella sala di controllo, il tono deciso di Sophie lo fece tornare al presente, lo riportò con i piedi ben saldi alla terraferma, come sapeva fare solo lei. La donna teneva lo sguardo rivolto all'Oceano e attraverso una radiotrasmittente guidava con maestria i suoi uomini nel corso dell'esercitazione. Nella sua tenuta verde esprimeva tutta la grinta che ostentava fuori e dentro la base. Il tenente riuscì a contemplare il suo operato in silenzio solo qualche secondo prima che lei se ne accorgesse. Il pilota diede una leggera spinta alla sedia con le rotelle per ruotarla verso lo sguardo insistente che avvertiva su di sé; abbassò le cuffie sulla nuca e coprì il microfono con le dita.
«Comandante Hernandez. C'è una visita della Marina ed io non ne sono a conoscenza?»
Fabian si avvicinò il più possibile a lei e si chinò per lasciarle un bacio tra i capelli raccolti. La donna non oppose resistenza per l'esplicito slancio di affetto, l'inaspettata presenza di lui la impensierì.
«No»
Le rispose dolcemente con un sussurro. Sophie si lasciò sfuggire un tono meno formale mentre il respiro dell'uomo le accarezzava ancora la chioma cremisi.
«Fabian, tutto bene?»
Il seal non le rispose, serio si appoggiò con entrambi i palmi al ripiano accanto a lei come se si trovasse in un luogo familiare; la invitò a proseguire quello che stava facendo, scrutando a sua volta oltre il vetro che si affacciava sul Pacifico. Sophie sistemò le cuffie perplessa e tornò a concentrarsi sull'esercitazione che stava portando avanti. Non fu la presenza del capitano a provocarle disagio, solo il pensiero che lui l'avesse cercata per un motivo preoccupante. Rischiò di distrarsi in più di un'occasione, anche se lui era diventato una presenza silenziosa e paziente alla sua destra, attendeva e seguiva gli ordini del maggiore rivolti ai piloti come se da quell'esercitazione dovesse trarre qualche insegnamento, anche se così era solo in parte. 
Sophie interruppe la comunicazione con il portaerei e i veicoli con una fugace gratificazione per i militari che avevano superato egregiamente la prova. Si concentrò sull'espressione contratta di Fabian, aveva accumulato apprensione e sospetto nell'attesa e non poteva più aspettare. 
«Ora mi dici a cosa devo la sorpresa? I ragazzi stanno bene? Stamattina quando sono uscita di casa mi è sembrato se la cavassero, in fondo non sono più bam ...»
Lo sguardo del tenente si indurì su di lei, la conversazione non sarebbe stata facile.
«Da qualche giorno abbiamo recuperato sui fondali dell'oceano il relitto di un aereo. Stando alle analisi si tratta del Boeing 747, è precipitato ventitré anni fa»
Fabian valutò attentamente la reazione di lei, quasi con diffidenza convinto di non dover aggiungere ulteriori dettagli per ricevere una confidenza spontanea. Scrutò lo sguardo lucido della donna, la comunicazione tra loro era diventata silente. Sophie gli stava urlando tutto il suo dolore, ma non trovò solo conforto, il comandante esprimeva un'aria interrogativa, aveva fame di conoscenza. Lei per prima distolse lo sguardo da quello in apparenza giudicante di lui. 
«Non riesco a ...»
«A parlarmene? Sophie, eri sulla torre di controllo quando l'aereo si è schiantato. Sei stata l'ultima persona con cui il comandante ha parlato prima di morire»
Tentava di giustificare il fatto che cercasse risposte da lei dopo così tanti anni, non voleva certo riportare a galla ricordi spiacevoli per il semplice scopo di vederla soffrire, non lo avrebbe mai desiderato, ma non poteva nemmeno ignorare il fatto che la madre dei suoi figli gli avesse nascosto un passato così sofferto vissuto prima di incontrarlo.
«Fabian, ti prego, basta»
Il comandante di Marina alzò sempre di più il tono di voce, inconsciamente la spronò nel modo meno delicato possibile, quello che entrambi avevano imparato ad esibire al cospetto dei loro sottoposti. Il tenente ottenne una reazione indesiderata da parte della donna, ma non si fermò, sentiva di dover conoscere tutta la verità e che essa sarebbe stata scomoda per loro. L'ufficiale dell'aeronautica accostò i palmi al volto devastata, un profondo trauma stava riemergendo per lei troppo freneticamente. Sophie contava di non doverne più riparlare in futuro, invece Fabian lo stava facendo con le modalità peggiori; ne aveva tutto il diritto e non era certa che avrebbe compreso le sue ragioni fino in fondo per avergli nascosto una parte del suo passato professionale e personale.
Era arrabbiato con lei o con l'idea che gli avesse mentito? Alla resa l'aggressività verbale la riportò al senso di colpa verso Brian, i passeggeri ed infine Fabian. Era infuriato con lei, sicuramente deluso e incapace di comprendere come la sua compagna potesse essere stata coinvolta in un simile evento senza che lui ne sapesse nulla. Non era ancora a conoscenza della causa del suo trauma più profondo, Sophie leggeva nei suoi occhi quanto ne fosse all'oscuro e lei non poteva più nasconderglielo nonostante il male che facesse ricordare. Si accorse con rammarico, dopo quella conversazione, di non averlo mai superato come avrebbe sperato.
«C'era un legame affettivo tra te e quell'uomo. Che genere di legame? Quanto lo conoscevi per affermare con certezza che la morte dei passeggeri non sia stata una sua responsabilità?»
«Fabian, mi sento male se ...»
Esibiva il suo tono potente incurante delle suppliche della donna. Costrinse Sophie a deglutire il vuoto, la gola era in fiamme, la voce incrinata era un sibilo che faticava a rompere le incrostazioni del rimpianto. Anni di malessere erano fermi sulle corde vocali e avrebbe voluto urlare più forte di lui per liberarsi, se solo fosse riuscita a portare alla luce la parte più tenace di sé dall'inconscio inibita come mai da quando era diventata maggiore dell'aeronautica militare.
«C'erano trecentoquattro passeggeri a bordo. Sophie!»
«Conoscevo bene Brian perché era mio marito»
Riuscì a strapparle un'inaspettata confessione pronunciata con dolcezza e malinconia per sfinimento, ma nulla avrebbe reso Fabian più infelice. Per qualche istante entrambi udirono solo il respiro pesante di lui mentre la fissava incredulo, a tal punto da non sapere replicare con comprensione. I pensieri si affollarono nella mente dell'uomo, non ricordava di aver mai ricevuto un colpo così infame, diventare un bersaglio al poligono di tiro sarebbe stato meno doloroso.
«Dannazione, Sophie, io ti ho sposata! Avevo il diritto di conoscere il tuo passato, avevo il diritto di sapere che la donna che stavo per sposare era vedova, che aveva avuto una storia importante alle spalle conclusasi con un lutto»
Lei provò a riprendere in mano la discussione nonostante si sentisse male all'eventualità di rivivere quegli istanti. Fabian le aveva comunicato di aver ritrovato il cadavere dell'uomo che aveva amato, ebbe la percezione di perderlo di nuovo, una volta in più e lei aveva perso il conto delle volte in cui era successo.
«A te avrebbe cambiato qualcosa saperlo?»
Non era una provocazione, solo il timore che il loro futuro sarebbe potuto essere diverso se avesse confidato a Fabian di avere l'animo in pezzi e che lui non sarebbe mai del tutto riuscito a ricomporlo anche con tutto l'amore possibile che effettivamente le aveva donato, senza sapere quanto fosse stato indispensabile per lei. 
«Mi sembra di non conoscerti più»
Il tenente abbassò i toni deluso da lei e dalle sue menzogne; era incapace di superare l'omissione e accogliere la sofferenza che la moglie stava manifestando. Per Sophie fu necessario provare a difendersi dalle sue accuse.
«Tu non c'eri, tu non ...»
Non sapeva cosa aveva vissuto dalla torre di controllo, il percorso psicologico che aveva dovuto affrontare per superare l'indelebile esperienza, gli attacchi di panico ogni volta che sognava di perderlo ed infine la fatica per essere riabilitata nell'esercito ed essere considerata nuovamente idonea al servizio.
«Ho ascoltato le registrazioni della scatola nera, ho ascoltato le vostre ultime parole»
Batté furioso un palmo sul ripiano, un gesto inaspettato per lei, non era da lui perdere il controllo.
«Perché mi hai mentito??»
Davanti alla reazione di Fabian e al ricordo la sua grinta maturata in anni di lavoro su di sé e in aeronautica stava scemando.
«Ho speso anni a dimenticare prima di conoscerti, come avrei potuto parlartene? Ho omesso, non ti ho mentito»
Il capitano cercò di calmarsi, la stava prendendo troppo sul personale, non era necessario ai fini delle indagini.
«Cos'è successo all'aereo?»
«Non lo so. Brian ha effettuato un decollo perfetto, andava tutto bene, fino a quando...»
«… fino a quando ti ha detto di avvertire un vuoto d'aria»
Sophie provò un'intensa amarezza.
«Da quel momento è precipitato tutto, ho perso il controllo del mezzo insieme a lui. In pochi minuti ho perso tutto»
Omise che perse anche il controllo della sua vita e che l'America avesse rappresentato per lei una nuova vita. Fabian si passò una mano tra i capelli agitato, la sua divisa blu dei seals divenne cobalto sotto il limpido sole del mattino.
«Se riporto il caso in tribunale,  tu finisci ancora davanti ad un giudice»
«Fa' ciò che devi, mi fido di te»
Fabian allontanò la mano dal ripiano, incredulo quanto lei per aver esagerato. Era mortificato, ma non lo espresse, era ancora offeso per essere stato escluso dai ricordi della moglie. L'orgoglio lo condusse in silenzio verso la porta della centrale. La lasciò freddamente sola con il ricordo del comandante O'Connor.
«Fabian. Brian è stato l'unico vero amore che io abbia mai conosciuto, ma se ho ricominciato a vivere è stato grazie a te e alla nostra famiglia. Mi dispiace tu l'abbia scoperto così»
Il tenente provò a dare un ordine alle priorità, non riusciva a mettere in discussione l'amore che si erano sempre professati, nemmeno quello da parte di sua moglie, eppure era certo di aver udito bene e di aver compreso di non essere pienamente stato ricambiato da lei. Era stata tagliente, pungente nella sua autorità. La riconosceva in verità: schietta e sincera. Non dubitava del trauma che aveva subìto, a quanto pareva il ricordo rappresentava il suo Tallone d'Achille, superata l'impasse a parlarne con lui ogni confessione era lecita, anche a costo di risultare crudele. Le aveva chiesto di essere onesta,  le aveva rimproverato di non esserlo stata per anni. La verità aveva un prezzo, ma Fabian non si sarebbe mai aspettato che nel presente l'avrebbe pagato soprattutto lui sulla sua pelle.
«Ora hai un corpo su cui piangerlo, ma ti sconsiglio di vederlo, se lo ami ricordalo per come era»
Stava per oltrepassare la soglia, ma la compagna non glielo concesse. Sophie si alzò per avvalorare le sue affermazioni. 
«Fabian! Voglio la verità su quel volo. Se sono responsabile del disastro sono disposta a pagare le mie colpe, ma dammi un colpevole. Ne ho bisogno, voglio promettere a Brian sulla sua tomba che chi ha spezzato la nostra vita venga punito»
Il maggiore Lefebvre si sciolse in un pianto silenzio, si vergognava persino di fronte all'uomo che aveva accanto da anni, ma non poteva evitarlo, sul cuore premevano chili di macerie.
«Te lo prometto, amore»
Era consapevole che senza l'incidente, senza l'aiuto del destino Sophie non avrebbe mai fatto parte della sua vita. Si sentiva complice del fato per quanto ne fosse stato all'oscuro fino a quel momento. Si ritrovò ad essere triste per le lacrime di sua moglie consapevole del fatto che non sarebbero state versate se al suo posto ci fosse stato Brian. Era stata chiara, il suo cuore batteva da sempre per un altro uomo, che fosse defunto poco importava.
«Stanno eseguendo le autopsie sui cadaveri e pare che i due piloti non abbiano sofferto»
Sophie si asciugò una lacrima lungo la guancia e porse un leggero sorriso a Fabian cercando di ricomporsi.
«Grazie»
Si sarebbe accontentato della sua gratitudine per qualche bugia raccontata a fin di bene nel vano tentativo di proteggerla dal suo passato. Non vi era alcuna autopsia da consultare e di certo nell'oceano non si moriva indolore dopo un volo di trentamila piedi sopra il livello del mare. Sperò che lei non ci pensasse. Anche il mondo del comandante Hernandez cambiò in pochi minuti, ma esattamente come era successo a Sophie dopo l'incidente,  anche i suoi sentimenti rimasero immutati.
 





Ciao a tutti, carissimi lettori!
Innanzitutto vi sono immensamente grata per essere tornati insieme a me su questa storia ♡
Ho complicato la trama arrivati a questo punto, spero sia tutto chiaro e i pezzi combacino (spero anche di non avervi traumatizzato ^^'). Mi sono dilungata e anche questo capitolo risulta un po' lungo, quindi spero di non avervi anche annoiati.
Grazie di cuore a tutti voi per continuare a seguirmi nonostante il ritardo negli aggiornamenti, siete un supporto prezioso, senza voi non credo esisterebbe questa storia ♡
Spero di aggiornare il prima possibile!
Un abbraccio 
-Vale



 





(1) Tre mesi di incarichi di servizio gravosi

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Capitolo 26
*** Capitolo 25_Un eroe non era mai stato ***


Un eroe non era mai stato

 

 
 

Ambasciata americana - Laboratorio di balistica, 16 settembre 2018

Christian non era solito frequentare l'ambasciata americana al fronte, le informazioni che giungevano dagli uffici degli ambasciatori erano solo relativamente utili senza buone notizie sulle sorti della popolazione afghana. Erano anni che le truppe alleate non collezionavano un successo rilevante, nulla che facesse intravedere un futuro di pace per civili e soldati. Sradicare lo stato islamico era un'impresa sulla quale non si riusciva mai a scrivere l'epilogo, con immenso dolore di tutti.
I diplomatici dialogavano con i loro pari, spesso erano gli ultimi ad intendersi di strategia militare, però erano i primi a ricercare uno strenuo conflitto contro i nemici - si sperava quantomeno non avessero tutti questa forma mentis; qualcuno di loro doveva pur credere che una tregua fosse la soluzione migliore per appianare la crescente tensione che alimentava le stragi di innocenti, un'escalation controproducente per giungere al fine ultimo.
Senza il supporto di un comando, l'iniziativa personale aveva condotto Christian fino all'unico punto di riferimento da cui ripartire per portare a termine la sua missione, diventata ormai in egual misura militare e personale. Il peso della fiducia che avevano riposto in lui era una zavorra e lui non si sentiva nelle condizioni di onorarlo. Eppure fallire sarebbero equivalso ad una condanna, perdere la loro scommessa sul suo conto avrebbe portato nel baratro persone indifese e avrebbe suscitato al comandante una devastante sensazione di complicità per una strage che in qualche modo avrebbe potuto evitare.
La frenesia dell'edificio che ospitava il consolato americano non era paragonabile all'adrenalina che scorreva ancora nelle vene del tenente, nel bene e nel male ricoprire un ruolo militare non lo lasciava impassibile, anzi in pochi fra quei corridoi e sugli sconfinati piani avrebbero potuto comprenderlo. Non riusciva ad intuire se anche loro vivessero in uno stato di apprensione perenne, per il seal era una condizione emotiva costante. Vi era un'atmosfera di rigida quiete che non lasciava trasparire alcun grado di tensione, anche se il pericolo restava consistente oltre le vetrate degli immensi finestroni, i segni della minaccia erano evidenti anche su un suolo che avrebbe dovuto offrire a Christian la percezione di respirare un clima familiare, soprattutto democratico.
I soldati avevano un solo compito: difendere la popolazione, anche a costo di sparare. Sparare restava ciò che non faceva parte della sua predisposizione, eppure la sua sig sauer non lo abbandonava mai, riposta fedelmente nella sua fondina in qualunque luogo si spostasse. Non era facile imporre un principio democratico attraverso mezzi tutt'altro che diplomatici. La parola era un'arma che raramente veniva chiesta di utilizzare ai militari impegnati al fronte, eppure l'unica in cui Christian non aveva mai perso fiducia, l'unica che avrebbe potuto avere insito in sé un potenziale benefico, se sfruttato nel modo giusto. Chissà però se si sarebbe astenuto dallo sparare se avesse incrociato islamisti che si trovavano ai ranghi superiori della jihad e si dilettavano a dirigere operazioni di morte, erano conosciuti pertanto dalle autorità per gli efferati crimini commessi.
La stoffa delle sue divise aveva battuto gli ultimi rintocchi e non gli restava che indossare la divisa blu con cui i SEALs erano soliti identificarsi nel Coronado per le loro esercitazioni quotidiane. Aveva indossato abiti puliti che comunque non cancellavano ciò che aveva trascorso negli ultimi giorni, i segni erano marchiati a fuoco sulla pelle. Il pensiero era interamente dedicato al generale Flores e al suo stato di salute. Non aveva alcuna intenzione di violare la busta che il comandante aveva destinato a lui, la conservava in tasca con la speranza che l'occasione di aprirla non si presentasse mai, era categorico che lui non potesse morire.
Tra le mura dell'ambasciata non si sentiva affatto al sicuro, ogni lieve vibrazione del terreno metteva in allarme, specie lui che era ancora fortemente scosso dalle esperienze vissute ancora nitide nella sua mente. Gli ultimi ricordi legati al consolato risalivano a nove anni prima e non erano piacevoli: era appena sopravvissuto ad un attentato e tutti raccontavano che era stato lui a scongiurarlo, ma non riusciva a realizzarlo - ora come allora. Ricordava di essere finito sulla prima pagina delle maggiori testate giornalistiche del Paese, eppure non era un evento che riportava alla memoria con letizia, tant'è che Alisia non aveva mai conosciuto l'esistenza di quell'episodio, la piccola di casa Richardson era all'oscuro di qualunque dettaglio che riguardasse la guerra e al contempo il padre in situazioni rischiose.
Non ricordava di essere stato un eroe, erano vivide le ferite dei suoi compagni, ma sul campo non era rimasto alcun caduto, di quello era sicuro. Rimembrava con rammarico il dispiacere che aveva dilaniato il cuore di Katherine quando l'ambasciata le aveva annunciato la sparizione del marito e che le possibilità di ritrovare anche solo il suo corpo si riducevano al minimo. Non riusciva nemmeno ad immaginare cosa avesse potuto provare la futura madre di sua figlia in quei momenti in cui il fiato era sospeso per lui e il loro futuro non era mai stato più incerto. Erano sposati da pochi mesi e forse aveva sbagliato ad accettare una missione, era stato incosciente, a distanza di tempo lo avrebbe ammesso, anche se si ostinava a commettere i medesimi errori nonostante fosse diventato padre pochi anni dopo il terribile attentato che era riuscito a scongiurare. Era stato solo fortunato,  si ripeteva, aveva avuto il privilegio di ricevere un raro dono da parte della buonasorte.
Tutti lo salutavano tra le mura del consolato, era una vecchia e piacevole conoscenza, in fondo. Lui si sforzava di essere cordiale, benché fosse sommerso da pensieri che impedivano il normale flusso dei convenevoli rivolti alle persone che incrociavano il suo cammino. 
Accanto al comandante Richardson, Gwendoline non si poneva le medesime questioni, lei era ammaliata come una bambina che si dondolava per la prima volta sull'altalena. Anche lei avvertiva scosse lontane provenienti da qualche campo di battaglia improvvisato tra le steppe dell'Afghanistan, ma non se ne curava, l'ambasciata aveva attirato la sua piena attenzione. Era quello il loro unico contatto con l'America, non si era sentita così a casa come in quegli istanti da quando era partita per il fronte, da quando aveva perduto per sempre una parte di Alexander in quelle terre ancora profondamente ignote per la sua magra esperienza.
Nonostante la stampella il passo del soldato Ward era più lungo e meno demoralizzato rispetto a quello del superiore. Gwendoline era diventata per Christian la sua unica certezza nelle ultime ore, aveva espressamente chiesto che lei lo affiancasse durante la visita al consolato; era un'importante fonte di supporto, il seal non era certo che lei lo sapesse, anche se lo sospettava. Quando raggiunsero l'ascensore, trovarono le porte aperte e la ragazza lasciò il passaggio al tenente, ma ebbe un tempismo talmente pessimo che solo la prontezza della recluta con l'aiuto della stampella riuscì ad evitare che le porte si richiudessero rischiando che il seal si ferisse al volto.
«Capitano. Faccia attenzione. È preoccupato?»
Christian navigava in pensieri non propriamente felici e non si sforzò di celarlo alla sua più fedele compagna sul campo bellico.
«E chi non lo sarebbe in guerra?»
Gwendoline stimava il superiore proprio perché non si atteggiava mai come un infallibile eroe, soffriva come ognuno di loro e non temeva di mostrarsi fragile davanti ai sottoposti. La faceva sentire meno sbagliata ogni volta che cedeva, era in quel modo sicura di non essere l'unica a provare debolezze se persino un veterano e sopravvissuto veniva pervaso da momenti di sconforto. 
Entrati in ascensore, la tensione di Christian non accennò a placarsi, tanto che indugiò sul tastierino dei piani ed infine dovette provvedere Gwendoline in pensiero per le condizioni del suo superiore. Le era grato per essere giunta in suo soccorso, sul volto del seal si dipinse un sorriso spossato.
«Signore, forse ha necessità di rip...»
L'ascensore intraprese la discesa e giunto a destinazione si spalancò con un boato che squarciò il tentativo di dialogo della ragazza; il tragitto dal piano terra al piano inferiore fu breve e non concesse loro nemmeno una parola in più di confidenza. 
Lo pseudo laboratorio di scientifica che il consolato aveva allestito si trovava a pochi passi da Christian e Gwendoline, era solo necessario attraversare una piccola porzione di oscurità per raggiungere il comodo ingresso. I due militari stavano per varcare senza indugi la sezione dell'ambasciata che si occupava di balistica. Il luogo era costellato dai più svariati macchinari utili all'identificazione delle armi alleate e nemiche. I visitatori vennero accolti da una voce che fu familiare soltanto al seal, di contro la ragazza ebbe un sussulto impreparata alla comparsa di una presenza sconosciuta.
«Credevo fossi felice insieme a tua moglie, così mi hai sempre detto. Chi è la fanciulla che ti accompagna?»
Nel tono dell'uomo vi era un velo di ironia che Gwendoline non colse, anzi le allusioni poco pudiche le donarono un colorito rossastro. Le venne spontaneo voltarsi verso il superiore per accertarsi che ci fossero le dovute distanze fisiche tra loro, aveva il timore di aver dato per errore l'impressione sbagliata scivolando involontariamente in un atteggiamento irrispettoso.
«No, noi non...»
Christian incrociò le braccia al petto assumendo una posa rilassata. Rivolse un mezzo sorriso alla giovane al suo fianco e le fece cenno di non prenderlo sul serio, non valeva mai la pena assecondare le sue battute pungenti e provocatorie. Il seal non ebbe difficoltà a riconoscere il suo tono scanzonato e audace, fu automatico un tuffo nel passato dal sapore tutt'altro che sgradevole; i momenti trascorsi in sua compagnia erano stati una luce nel buio del conflitto. Lo sguardo del tenente iniziò a vagare tra le mura del laboratorio alla ricerca impaziente della chioma dorata dell'amico e compagno delle missioni più ardue affrontate in passato sul suolo afghano.
«Hai sempre voglia di scherzare, vero Elijah? Ti farà piacere sapere che io e Katherine siamo diventati genitori sei anni fa»
«E me lo dici così? Non mi hai mandato nemmeno uno straccio di lettera o di messaggio per annunciarmelo. Congratulazioni, papà!»
L'uomo comparve oltre un ripiano con un grande sorriso senza l'ombra del minimo rancore. Elijah era intento a spingere le ampie ruote di una sedia a rotelle provocando la reazione sconcertata di Christian; per qualche secondo quest'ultimo avvertì il respiro venir meno nei polmoni. Il seal scorse un'impeccabile divisa pluridecorata sul petto e un camice candido sbottonato che la sovrastava rivelando il nuovo ruolo del soldato tra le file dell'esercito americano. Amareggiato il tenente Richardson comprese per quale ragione un valoroso ed esperto militare non si trovasse sulla striscia d'azione, ma fosse stato retrocesso ad una posizione d'ufficio, pur con le opportune onorificenze. Avevano impiegato Elijah nell'unico modo in cui non avrebbero potuto intaccare la sua autostima e il suo umore; era sempre stato un grande intenditore di armi, era abile nel tiro al bersaglio, tra i migliori che il capitano avesse mai conosciuto. Si sarebbe reso utile alla patria in un modo differente, ma non per questo meno indispensabile; la prova era il fatto che Christian dovette ricorrere alle conoscenze di uno specialista come lui.
L'umorismo che Elijah aveva acceso nello sguardo dell'amico era lentamente affievolito, non si sarebbe aspettato di incontrarlo in quelle condizioni dopo nove anni: metà gamba sinistra era stata amputata sotto la rotula rendendolo a tutti gli effetti un mutilato di guerra ancora in pieno servizio, anche se meno attivo rispetto al passato.
«Quando mi hanno comunicato che un certo comandante Richardson era alla ricerca di un consulto scientifico non potevo crederci. Cosa fai ancora in Afghanistan dopo quello che è successo? Pensavo non ci saremmo più rivisti al fronte»
Il loro rapporto era fermo a nove anni prima, ma l'uomo predilesse un passato meno remoto per rivolgersi a lui come se nulla fosse cambiato tra loro. Elijah riusciva sempre a portare una ventata di ottimismo, il suo sguardo era rimasto limpido e spensierato, le situazioni estreme non lo avevano mai spaventato, come era evidente non lo avesse fatto la sua condizione di invalidità. Il tempo trascorso non aveva scalfito i lineamenti morbidi, ma aveva sicuramente infranto i suoi sogni di giovane recluta, animati da intime speranze.
«Christian. Saluti così un vecchio amico? O forse ora dovrei essere più formale, dopotutto sei diventato un mio superiore, io sono un semplice sottotenente»
Elijah allargò le braccia in segno della più calorosa accoglienza, ma il comandante non riuscì a smuovere l'attenzione da ciò che gli mancava perdendo di vista tutto ciò che il tempo aveva preservato: un uomo solare che non aveva trovato soltanto la strada per sopravvivere, ma anche quella per continuare a vivere. Al tenente Richardson non importarono i gradi, in altre circostanze avrebbe scambiato con lui un abbraccio fraterno, la confidenza tra loro non era affatto mutata. A nulla servirono i richiami di Elijah per dimostrare al seal quanto ormai avesse conquistato uno stato di serenità e di rassegnazione; gli dispiacque che quell'incontro così inaspettato si focalizzasse su una sua mancanza che con il passare degli anni era diventata un nuovo stile di vita, a cui lui non faceva nemmeno più caso, ma poteva comprendere anche la reazione di Christian che non lo vedeva da diverso tempo.
«La tua gamba»
«La mia…? Ah, la gamba! Non ricordo più cosa voglia dire averla. Io invece ti trovo tutto intero e questa è una splendida notizia. A proposito di notizie, non mi hai nemmeno  detto se vostro figlio è un maschio o una femmina, né come si chiama. Conoscendoti presumo tu non abbia cercato ad ogni costo l'erede»
Elijah sapeva già la risposta. Christian non desiderava affrontare argomenti di circostanza dopo ciò che aveva scoperto sull'amico; voleva solo approfondire se lui fosse stato complice di quel destino avverso, per parlare del resto avrebbero cercato un altro momento più sereno.
«È stata colpa mia?»
«Come?»
«Sei rimasto ferito per causa mia, vero?»
Elijah non riuscì più a deviare l'argomento che il tenente sembrava impaziente di affrontare, così accettò il confronto cercando di trasmettergli tutta la comprensione  che aveva sempre provato nei suoi confronti. Era bizzarro, secondo l'ordine naturale il diretto interessato avrebbe dovuto esigere una spiegazione, qualunque logica che desse ragione al suo stato, invece Elijah non voleva niente, non aveva bisogno di niente, soprattutto da colui che, evidentemente senza rendersene conto, gli aveva donato una nuova possibilità per sopravvivere a morte certa così come i talebani avevano deciso.
«Nove anni fa ci hai protetti, sarebbe potuta andare peggio. Non angustiarti, nel corso del tempo ho avuto qualche complicazione che tu in quei momenti non avresti potuto prevedere in alcun modo»
«Elijah, ti prego, se ho distrutto la vita ad un compagno voglio saperlo»
«Christian, ciò che devi sapere è che hai salvato la vita a tutti, a te compreso. Possibile non ti basti? Non è una consolazione per te? Io sto bene, ho imparato a conviverci»
Gwendoline non riuscì a distogliere l'attenzione dallo sconforto del superiore. Da quando Flores era rimasto ferito non faceva altro che scorgere l'umanità più profonda e intima del tenente. Era meno somigliante all'eroe che tutti dipingevano - media compresi - e ciò non poteva essere considerata per forza una rivelazione negativa. Ogni cosa in quel frangente commosse la recluta e per la reazione il suo buon capitano avrebbe additato l'emotività femminile, poteva senza dubbio essere la principale responsabile, non sarebbe stata lei a negarlo. Il soldato Ward non poté evitare di rivedere Alexander nell'uomo che aveva appena conosciuto; la mente avrebbe preferito che il giovane di cui era innamorata ritornasse ferito nel corpo più che nell'anima, il cuore invece le ricordava che il soldato Campbell sarebbe potuto andare incontro ad una sorte ben peggiore e perenne. Ammirava la tempra dello sfortunato compagno del tenente, per Gwendoline la preparazione militare non sarebbe bastata a sopportare una vita di limitazioni. 
Christian non riusciva a ricordare quale errore potesse aver commesso ai danni dei suoi compagni, ma in ogni caso non lo avrebbe più dimenticato. In quei concitati momenti aveva riposto la massima attenzione ad evitare che l'attentato potesse essere portato a termine, ma a quanto sembrava aveva compreso tardi il pericolo a cui stavano andando incontro. Erano tutti salvi e non aveva capito che potessero esserci stati feriti gravi; si era lasciato pervadere dal sollievo quando aveva scorto che tutti respiravano. Ricordava di aver riportato lui per primo qualche escoriazione e contava che anche la gravità delle ferite dei suoi compagni fosse lieve. Era stato ingenuo e superficiale.
«Ha avuto coraggio tua moglie a creare una famiglia con un Navy Seal, visto che prendi spesso il volo. La signora Richardson ha tutta la mia stima, dovrai farmela conoscere un giorno»
«La stimo molto anch'io»
Fu l'unico rimprovero mosso da Elijah nei confronti dell'amico; aveva tutte le intenzioni di provocargli un sorriso, invece non riuscì, con il pensiero di Katherine ottenne solo di ammorbidire i suoi lineamenti contratti dall'appresione. L'uomo avrebbe proseguito la conversazione sul tenore spensierato che era riuscito a ristabilire, se non si fosse lasciato distrarre dalla ragazza accanto a Christian. 
«Tu mi ricordi...»
«È  Gwendoline Ward, la figlia del sergente Barclay Ward»
«Ma guarda, aveva una valorosa figlia e non ci ha mai detto nulla»
Per fortuna della giovane recluta, Elijah non pose ulteriori domande sulle sorti del padre, non riusciva ad annegare nei ricordi così frequentemente. L'uomo trattenne qualsiasi quesito, preferì rivivere silenziosamente i piacevoli ricordi che erano sorti all'udire il nome dell'ufficiale.
«Come posso esservi utile, Chris?»
Elijah condusse la sua sedia a rotelle accanto ad uno dei monitor che l'ambasciata gli aveva affidato, sicuro che gli sarebbe servito da lì breve. Attese indicazioni da parte dell'amico, la sua non era una visita di cortesia.
«Puoi avvicinarti, se vuoi, non mordo»
Christian seguì l'invito e colse l'occasione per porgergli il proiettile recuperato dai medici nel corso dell'operazione, dopodiché si mise comodo appoggiando i palmi sulla scrivania e restando così accanto allo storico compagno. 
«È un M40»
«L'avevo intuito. Riesci anche a capire a chi appartiene l'arma che ha sparato?»
«Posso scoprire se qualche connazionale ne ha denunciato la sparizione. È morto qualcuno?»
Il tenente fissò con interesse le operazioni effettuate da Elijah sull'elaboratore di dati, erano rapide e mirate, tant'è che l'amico riuscì ad identificare l'oggetto con estrema facilità. 
«È rimasto gravemente ferito il generale Mark Flores, è il comandante della nostra unità»
Fu sufficiente il nome per sconvolgere Elijah. Le dita si fossilizzarono sulla tastiera e gli occhi agganciarono avidi quelli del compagno.
«Hai detto Mark Flores?»
«Lo conosci?»
«È un veterano della guerra in Vietnam»
Riprese la ricerca sul monitor recuperando un foglio e una biro che si trovavano alla sua destra per evenienze come quelle.
«Gira voce che non abbia trascorso momenti felici dopo gli eccidi commessi nel sud-est asiatico»
Christian lanciò uno sguardo complice in direzione di Gwendoline. I due non seppero più cosa pensare sul conto del generale; era spesso burbero, il seal in parte poteva immaginare il motivo emerso dalle confidenze del colonnello Keller, ma non era in grado di ritenerlo complice dello sterminio di civili disarmati. 
Dio non voglia.
«È stato accusato per aver commesso crimini di guerra?»
«Si dice avesse chiesto il congedo pur di non perpetuare simili brutalità, lo avrebbero accusato di diserzione se non avessero ordinato il rientro delle truppe americane e alleate. Ha la fama di essere un comandante intransigente. Prima che mi parlassi del suo ferimento non ero nemmeno certo fosse fatto di carne e ossa. Ti ha preso in simpatia?»
«Non esattamente,  anche se credo sia maturato reciproco rispetto tra noi»
Christian non avrebbe potuto immaginare che alle spalle di una personalità così austera nascondesse una storia così travagliata caratterizzata da sangue e perdite, men che meno avrebbe potuto ipotizzare che le mani insanguinate fossero sue ai danni di innocenti. Provò una morsa all'altezza del petto, non riuscì a realizzare da chi avesse ricevuto ordini fino a quel momento, ma fu più semplice comprendere la sua mancata empatia nei confronti del prossimo, dell'insensibilità che ostentava aveva avuto prova sulla pelle. 
«Ecco il tuo uomo, o meglio donna»
Il tenente sbatté più volte le palpebre per tornare con la mente tra le mura del laboratorio di balistica e mettere a fuoco le scritte sul foglietto che l'amico gli stava presentando. La sorpresa più pura attraversò lo sguardo del seal, un nome e un cognome - Beatriz Reyes - ebbero il potere di farlo sussultare per lo stupore.
«Ci deve essere un errore. Lei non può essere in Afghanistan»
«Nessuno sbaglio, capitano, è la persona che stavi cercando»
 

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Richardson risalì le rampe di scale fisicamente in solitudine, ma in compagnia di certezze vacillanti e un malessere che non era in grado di decifrare; Gwendoline aveva ragione, necessitava di riposo, di dimenticare per qualche ora dove si trovasse e le questioni che lo circondavano. Non era ancora giunto il momento però, innanzitutto aveva bisogno di riflettere, così lasciò che la recluta si servisse dell'ascensore, anche se era convinto di non essere riuscito a tranquillizzarla sul suo apparente stato di quiete. Alla collega avrebbe spiegato più tardi le sue ragioni, lui doveva riordinare i pensieri prima di comunicarli a terzi, anche se probabilmente sul conto del generale Flores erano in parte condivisi da Gwendoline. Al tenente venne a mancare la tenacia che gli avevano insegnato nel corso dei suoi vent'anni di servizio, era stordito dalle ultime novità di cui era venuto a conoscenza e non sapeva come riprendere il controllo della situazione, ricomporre almeno i pezzi su cui si fondava la sicurezza che lo rendeva stabile su un terreno scosceso come quello di una guerra priva di regole.
Non aveva ancora superato l'ultimo gradino della lunga scalinata che si estendeva verso i piani più alti, inavvertitamente il suo sguardo si posò su un paio di occhi nocciola familiari e attraenti. Non pensava di incrociare così presto il suo cammino, aveva appena scoperto che si trovava nella capitale, non era pronto per un loro incontro dopo anni di silenzio. 
La donna ricambiò con intensità. Il tempo non l'aveva sfiorita, l'accademia aveva reso tonico il suo fisico senza tuttavia perdere morbidezza e leggiadria. A Christian parve che non fosse passato nemmeno un giorno dal loro ultimo saluto sulla terrazza fatiscente della caserma, specchio dei mesi che avevano condiviso tra quelle quattro mura.
«B-Beatriz. Cosa fai a Kabul?»
Era molto più abile di lui a reggere il confronto, aveva imparato a farlo in un ambiente formato prettamente da uomini non sempre disposti a cedere parte del loro orgoglio, ma non aveva mai saputo difendersi dagli impenetrabili occhi celesti del compagno, li aveva spesso rimpianti - forse a ben vedere al pari di una sciocca. Avrebbe voluto sorridere in nome degli indimenticabili ricordi che le aveva donato durante il loro periodo di leva, ma la fede che brillava sul petto di Christian le suggerì quanto fosse inopportuno riportare alla mente le loro prime esperienze in campo sentimentale. A Beatriz fu necessario mordersi il labbro inferiore per non esternare considerazioni inappropriate davanti ad un uomo inaspettatamente sposato. L'avevano preparata sulla sua presenza, lo stava cercando per necessità e non sapeva cosa aspettarsi dal loro incontro. Era stata risucchiata in un vortice di sensazioni e l'accenno di un sorriso le parve la soluzione migliore per riconquistare il controllo della sua sfera emotiva.
«Potrei porgerti la stessa domanda, capitano Richardson. L'ultima notizia che ho sul tuo conto risale a nove anni fa. Ti dipingevano come un eroe. Ti ho lasciato recluta e ti ritrovo comandante. È bizzarra la vita, sai, non ti vedo da vent'anni, eppure ora siamo entrambi qui»
«Non ho mai sostenuto, in realtà, di essere un eroe. Non mi sono mai sentito tale. Avrei preferito rivederti in circostanze più tranquille»
Tra la silenziosa e celata commozione che Beatriz stava sfogando vi era sconfinato orgoglio nei confronti dell'uomo che in giovane età aveva scaldato più di una sua notte, ma forse non le era più lecito essere fiera di lui, non spettava a lei. Fu lieta di scoprire quanto fosse rimasta inviolata l'ingenuità di Christian, benché non fosse più una recluta inesperta. Non era cambiato proprio tutto, anche se non era sicura che non aspettasse altro che incontrarla.
«Sei troppo modesto, giornali e testimoni affermano altro. Un giorno dovrai raccontarmi la tua impresa»
Riuscì ad intimidirlo come forse non era più riuscita a fare dai loro primi incontri amorosi in accademia. Christian si limitò a schiarire la gola, le lusinghe erano fuori dalla sua portata e lei vedendolo così in difficoltà decise di cambiare argomento; la deliziava il colorito roseo della sua vecchia fiamma, ma in quel contesto era decisamente fuori luogo.
«Ero passata a denunciare la sottrazione della mia arma e hanno colto l'occasione per affidarmi il comando dell'unità del generale Flores, almeno finché non tornerà in forma. Se non ho capito male tu fai parte di quell'unità. Dovrai scortarmi fino alla base o a quel che ne è rimasto»
Era contenta di constatare che lui stesse bene, le avevano descritto un attacco spietato da parte dei talebani che aveva contato più di un militare deceduto.
Il tenente era appena scampato ad un assedio, aveva accompagnato il suo diretto superiore dalla morale discutibile fino alla soglia della sala operatoria e aveva riconosciuto i volti dei compagni che avevano spirato da pochi giorni il loro ultimo alito di vita. Il tempo all'improvviso stava girando troppo velocemente al fronte. Il tenente superò malamente l'ultimo gradino rimasto; dovette reggersi alla ringhiera, un capogiro lo prese impreparato, ma non il tocco leggero sulla spalla del comandante Reyes.
«Christian! Tutto bene?»
«Sono solo stanco e la stanchezza non mi aiuta a superare le avversità. Spero mi assista la fortuna o il cielo, mi è sufficiente che si mettano d'accordo. È stata la tua arma a sparare a Flores. Chiunque te l'abbia sottratta aveva un omicidio in mente»
Beatriz era a pochi centimetri da lui, il tocco della donna lo aiutava a non cedere alla debolezza, ma fu costretto ad abbassare lo sguardo per non incrociare il suo; lei non si accorse di quanto fosse promiscua a lui spinta dall'appressione, ma ciò lo mise in soggezione. Un nuovo peso sul petto gli aveva mozzato il respiro, era il rischio che si correva a trascurare la salute, ma non trovava tempo e pensieri nemmeno per preservare la sua incolumità. Le notizie del tenente passarono per lei in secondo piano.
«Christian. Stai sanguinando»
Una macchia scarlatta si era espansa all'altezza della spalla. Il fluire del sangue sembrava essere cessato, ma non era il caso di trascurarlo, era ciò che l'espressione tesa di Beatriz cercava di comunicargli.
«È una vecchia ferita, dovrà aspettare. Spero tu sia già al corrente della missione,  non abbiamo più molto tempo»
Non le diede modo di rispondergli, si diede una spinta sul corrimano dedicandole solo un ultimo fugace sguardo e sciolse bruscamente il loro contatto. Lo riconosceva, ma aveva il timore che subentrasse in lui l'incoscienza e lei conosceva bene anche quel suo pericoloso lato; sperava solo che la maturità degli anni l'avesse affievolito.


Base militare americana (o quel che ne rimane) – confine Nord/Est di Kabul, 16 settembre 2018

 

Christian scortò Beatriz nell'esatto punto in cui sorgeva la base. 
Vi era desolazione. 
Le mura portanti erano ancora erette, ma la vita si era del tutto spenta. Le rovine frutto di granate e mitragliatrici abbandonarono il tenente allo sconforto. In un mese di permanenza al fronte aveva iniziato a maturare un legame affettivo con i commilitoni con cui era costretto a condividere tempo e spazio. La nuda terra era macchiata con il sangue dei suoi compagni; in quello scenario di morte non vi era più nemmeno l'ombra dei momenti più spensierati condivisi con loro, erano minimi, ma erano il carburante che manteneva fresco il loro animo. 
Christian smosse le macerie più piccole. Ritrovò qualche effetto personale dei commilitoni; non ricordava a chi appartenessero, ma sperò che il legittimo proprietario fosse ancora in vita per poterglieli consegnare. Accostò il palmo impolverato alle palpebre in un gesto di raccoglimento per la carneficina consumata tra le mura del luogo che per loro sarebbe dovuto essere il più sicuro. 
Lungo il tragitto Beatriz non gli aveva rivolto una singola parola, si era solo premurata di guidare fin alla base seguendo le indicazioni di Christian. L'ambiente che stava esplorando non sfiorò la sua emotività, complice il fatto di non essere stata parte di quell'armata; non si premurò di rivolgere un gesto di conforto per il lutto del compagno, la tristezza di Christian non era tra le sue priorità. Il comandante Reyes cercava indizi, informazioni utili, armi e la prova che quella base fosse ancora agibile e strategica per portare a termine le loro missioni. Esplorava insieme al tenente le quattro ali dell'edificio ormai divenuto pericolante a causa del fuoco nemico, ma i due militari vagavano per quel luogo spettrale animati da uno spirito diverso. Nel silenzio tombale Beatriz lo sorprese con un pensiero che sembrava essere riservato più a sé che a lui.
«Dobbiamo cambiare centro operativo»
«Non credo che il generale sarebbe d'accordo»
«Sono io al comando dell'unità, ora»
Avevano opinioni diverse a riguardo, ma soprattutto Christian aveva deciso di lasciarsi guidare dal cuore, nonostante le evidenze dessero ormai per persa la loro base. 
Beatriz era sfuggente mentre faceva valere la sua autorità su di lui. Non aveva alcun problema a prendere ordini da lei, si fidava della sua competenza e della sua coscienza, ma da quando erano giunti sul luogo dell'assalto era diventata impenetrabile senza una ragione apparente. Christian la bloccò afferrandole il polso mentre lui si trovava ancora in ginocchio, intento a valutare i danni e speranzoso sul fatto che si potessero rimediare.
«Ferma. Non riesco a lavorare se c'è astio tra noi. Mi porti rancore per qualche motivo?»
Beatriz tentò di liberarsi con un gesto stizzoso, era un contatto non desiderato, ma lui aumentò la pressione e si alzò quasi sovrastandola con il suo fisico slanciato. L'aveva irritata esplicitando un semplice pensiero oppure il livore era più radicato; si convinse che la seconda ipotesi fosse purtroppo più plausibile. 
«Sei cambiata»
«Scusa, ma non ho più l'entusiasmo dei nostri vent'anni in accademia, la guerra mi lascia piuttosto indifferente, non c'è alcuna novità nella morte giornaliera di compagni che saremmo potuti essere noi. E poi mi risulta sia cambiato molto da allora, non solo per ciò che mi riguarda»
La voce di Beatriz divenne un sussurro nel tentativo di rendere la constatazione una confidenza personale. Benché in guerra fossero soli nella maggior parte dei casi e potessero contare solo sui compagni, non lo si era mai davvero nel bene e nel male. Lo sguardo della donna ricadde sul petto del tenente macchiato di sangue, ma anche ornato dalla fede nuziale portata con una tale disinvoltura da far credere a Beatriz che il suo matrimonio fosse consolidato da anni. 
«Non mi hai più cercata uscito dall'accademia, c'era già tua moglie ad aspettarti?»
«No. Non volevo ...»
Anche lo sguardo del capitano fu attraversato da uno scintillio, un gioco di luci creato dal sole alto nella volta celeste, probabilmente lo stesso effetto che aveva rispecchiato la lucentezza della vera negli occhi di Beatriz. Christian si distrasse dalla loro conversazione, sciolse la presa su di lei e le porse distratto una carezza di scuse sul braccio per poi superarla. Il tenente si concentrò sul lato opposto della stanza in cui si trovavano; era il salone nel quale il comandante dialogava con i suoi uomini e comunicava le sue decisioni, non sempre in modo democratico. Il tavolo, sul quale era posizionata una cartina del luogo che li circondava per non perdere mai le coordinate anche nei casi più rischiosi, era stato scaraventato al suolo con irruenza. 
«Cosa? Relazioni serie?»
L'uomo non la stava già più ascoltando, la sua attenzione era stata catturata da una questione più urgente. Era uscito dall'edificio per avviarsi verso un altro stabile a pochi metri dalla base quasi rasa al suolo. Beatriz lo seguì senza porre a lui ulteriori domande. Fecero un paio di rampe di scale fino a giungere al piano su cui si affacciava la finestra che Christian aveva scorto da lontano e contro cui il riverbero del sole aveva rivelato cocci di vetro rotti e appuntiti. Beatriz avanzò per esplorare la stanza in cui erano giunti e riconobbe al suolo il suo fucile da precisione; si inginocchiò e lo raccolse come se con esso avesse instaurato un legame affettivo, notò che era scarico - scoprendo il motivo principale per cui avevano deciso di disfarsene - e difficilmente avrebbero scoperto a chi fossero stati destinati gli altri proiettili,  intristiva il solo pensiero. Sulla canna fredda vi erano residui di polvere da sparo che rimasero sui polpastrelli del comandante Reyes. Christian si avvicinò alla finestra con le ante semidistrutte e capì che da quel punto avrebbero potuto ferire Flores; la traiettoria coincideva con il punto nel quale aveva soccorso il generale.
«Non può essere stato un ragazzino, ci vuole esperienza per prendere la mira da una tale distanza, anche se per fortuna non sembra avere una mira perfetta, non ha puntato agli organi vitali. Temo che la milizia che tiene in ostaggio l'ospedale sia coinvolta, il generale deve avere pestato loro i piedi»
Un pensiero fu rivolto ai numerosi bambini-soldati che, volenti o nolenti, erano costretti a macchiarsi di crimini pur di avere salva la propria vita e quella di persone a loro care. Pensò al giovane che lo aveva ferito, alla sua terribile storia. Non sapeva dove si trovasse Rashid, era sicuro di averlo affidato a mani amiche e sperò fosse già molto lontano da ogni tipo di violenza. La compagna rispose con prontezza ai dubbi di Christian e cercò una soluzione tattica.
«Raduniamo gli uomini di Flores che sono sopravvissuti, dobbiamo entrare in quel nosocomio ad ogni costo»
L'uomo si limitò ad annuire favorevole. Beatriz recuperò l'M40 e si diresse verso le scale per entrare in azione il prima possibile. Stavolta fu il turno del tenente seguirla senza porre domande. L'assenza del superiore non lo spaventava se era lei a guidarlo, anzi era pronto a suggerirle strategie e a collaborare con una vecchia conoscenza di cui si fidava.
 


Ciao, cari lettori e care lettrici!

Pubblico questo capitolo sulla scia della gioia per il ritiro delle truppe americane dalla base di Bagram. Il mio sogno sarebbe quello di spostare questa storia nella sezione storica e relegare così la guerra in Afghanistan ad un tempo passato. Nutro la speranza che possa arrivare davvero quel giorno entro la fine dell'anno, ma dubito purtroppo possa estinguersi presto e definitivamente. 
Ho presentato tanti personaggi fin qui, mi auguro sia sempre chiaro il quadro generale della storia e di non fare confusione. Recupero tutti i personaggi nei prossimi, non lascio in sospeso la trama per nessuno. Sto cercando di trattare tanti temi, spero che la narrazione non risulti troppo lenta e noiosa. 
Grazie davvero di cuore per la costanza con cui mi seguite, scommetto sempre poco su ciò che scrivo e voi mi offrite un grandissimo supporto ♡
Spero a presto! 
Un grandissimo abbraccio
-Vale

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Capitolo 27
*** Capitolo 26_Venti di Tramontana ***


 

Venti di Tramontana



 

San Diego - Pacific Beach, 20 settembre 2018
 
Agli occhi di Katherine il tramonto sul Pacifico non era mai stato così privo di intensità, i suoi occhi non brillavano alla visione di uno degli spettacoli naturali che all'orizzonte e sulla superficie dell'oceano la affascinavano di più. La California non aveva mutato attrattiva per lei, ciò che aveva sostenuto davanti ai genitori era la pura verità: con o senza l'uomo che aveva sposato la sabbia dorata di San Diego avrebbe occupato un posto speciale nella sua anima. La lontana prospettiva in linea d'aria di quella sera però non rifletteva l'immagine sperata.
Di norma dalla battigia si aveva l'opportunità di assistere ad un gioco di luci e nastri di colori caldi che si intrecciavano inondando di meraviglia mente e cuore. Per la bagnina era diventato tutto un susseguirsi di tonalità grigie e tenebrose, come se una nuova notte di solitudine fosse rintoccata con qualche ora d'anticipo; una notte senza luna né stelle, non concedendole nemmeno il lusso di esprimere un misero desiderio. Si era illusa che le notti potessero essere più quiete per sé e per sua figlia dopo aver assistito al moto calante del sole sull'oceano, invece le fece compagnia la fedele povertà d'animo, ancora una volta, come sempre all'affacciarsi delle tenebre, per un tempo la cui fine non era stimabile dal suo ottimismo.
Katherine si strinse e si appartò nella sciarpa in voile di cotone distesa sulle spalle e su metà schiena. La falsa percezione che ciò bastasse per vivere il dolore lontano dallo sguardo innocente della sua bambina fece capolino nella mente. Il clima tiepido resisteva grazie all'influsso dell'oceano, ma non abbastanza per ripararsi con un filo di stoffa leggera durante le ore notturne.
Nel corso della silenziosa passeggiata, le orme lasciate sulla spiaggia erano affiancate da quelle meno discrete di William. Sul petto dell'uomo giaceva il battito di Alisia serenamente addormentata; la bambina circondava le spalle dell'amico accoccolata e protetta tra le sue braccia. Sarebbe stata una serata tormentata se il migliore amico di suo marito non l'avesse aiutata a riscoprire un po' di calma per sé e per sua figlia. Era inconcepibile per lei credere di non essere più in grado di assolvere a quei compiti che normalmente le venivano naturali. La CNN con notizie nefaste le aveva del tutto sottratto la cognizione di se stessa e del suo ruolo principale. Avrebbe dovuto evitare di ascoltare le notizie che risuonavano da lontano confuse e agglomerate; avrebbe dovuto invece affidarsi alla speranza e a Christian, ma era stato allarmante scoprire che diversi soldati avevano perso la vita in una base statunitense sperduta da qualche parte nei pressi di Kabul - era troppo sconvolta per comprendere le esatte coordinate. Avrebbe sofferto meno se le mura di casa le si fossero frantumate addosso. In quei momenti si era trovata sola e travolta da un dolore che avrebbe dovuto sopportare ad ogni costo; sapeva quanto non fosse trascurabile la presenza di una bambina di cui avrebbe dovuto occuparsi con coraggio, ma cedere alla prospettiva di rivivere l'esperienza di nove anni prima le sembrò l'unica scelta possibile.
Era grata all'uomo che negli ultimi anni era diventato più di un amico, era il fratello che nemmeno nei migliori sogni avrebbe potuto immaginare. William aveva accolto le suppliche di Alisia sulla soglia di casa, in lacrime la piccola gli aveva chiesto di aiutare la madre che attraverso i suoi occhi fanciulleschi si era sentita male. Lui non aveva indugiato, l'aveva trovata impietrita davanti al televisore, le gambe le stavano cedendo tanto che dovette sostenerla fisicamente, la mente era attraversata dai peggiori pensieri. L'amico aveva spento lo schermo riportando Katherine alla realtà lontana dalle terre afghane, lei si era limitata a scrutarlo spaventata. Nel conscio della donna era risuonata una singola parola dalle labbra dell'amico: basta. Era stato perentorio, l'aveva trascinata sul divano intimandole di stendersi e di recuperare la lucidità perduta davanti alle scene di guerra riproposte dai canali nazionali, del resto si sarebbe occupato lui stesso. Si era addormentata davvero a seguito del cortocircuito che aveva accusato la sua psiche. Si sentiva estranea a se stessa, incapace di pensare a qualunque incombenza. Si era occupato William della cena di Alisia, si sarebbe premurato anche di quella di Katherine se solo avesse accettato di rifocillarsi. Quella sera lei aveva insistito per sdebitarsi con lui, invece l'amico aveva dovuto provvedere a loro accumulando ogni genere di favore che lei non sarebbe più stata in grado di restituire. 
William era riuscito soltanto a convincerla ad intraprendere insieme a lui una passeggiata. Non affrontarono esplicitamente le conseguenze dell'attentato trasmesso dalla CNN; anche lui era spaventato dall'ipotesi che potesse essere stato coinvolto l'amico, ma fu più abile di lei a nascondere la preoccupazione. 
Katherine era grata a William per intuire con prontezza i momenti di sconforto e correre con tempismo in suo soccorso. Le gote della figlia erano ancora solcate dalla frustrazione accumulata e poi esplosa per l'assenza del padre, ma il volto non era più contratto dalla tristezza; non erano le braccia del papà a stringerla, ma l'affetto che l'abbraccio infondeva aveva disteso la tensione. William era a conoscenza dei giorni trascorsi dall'amica, la notizia dell'aereo l'aveva sconvolta proprio come se tra i passeggeri fossero stati presenti i suoi cari. Katherine aveva preso a cuore la fine tragica dei suoceri, così come mostrava sensibilità per il dolore del marito, a tal punto da non riuscire a trovare le parole giuste per informarlo.
«Immagino tu non abbia detto a Christian che non riesci più a sostenere questa situazione da sola»
Il lieve tono di rimprovero che Katherine scorse nella voce dell'amico la sorprese e la riscosse dai pensieri tormentati. William non era mai duramente critico nei confronti delle scelte di Christian, anzi trovava sempre il modo di giustificarlo davanti a lei; stavolta la più comprensiva sembrò essere proprio la moglie.
«Certo che no, non sarebbe comunque sufficiente per riportarlo da noi, ne soffrirebbe soltanto. Ce la caviamo»
Lo sguardo basso della donna la colse in fallo. A lui sembrò l'esatto contrario: una moglie aveva bisogno del marito e una bambina del padre. William non doveva rendere conto ad una famiglia delle scelte compiute, eppure aveva ben chiari i doveri che Christian stava mancando di onorare. Un sospiro più profondo e agonizzante di Alisia lo spinse ad accarezzare la guancia della piccola per trasmetterle serenità. A Katherine non sfuggì la dolcezza dell'approccio e si intenerì.
«Saresti un ottimo padre, Will, se solo lo volessi»
«Lascio volentieri questa incombenza a Christian. Io prendo le dovute precauzioni»
Il sorriso malizioso dell'uomo le offrì un istante di spensieratezza e la irritò nello stesso tempo. La vita da scapolo non gli si addiceva per niente, non sfruttava affatto le sue potenzialità. Katherine però non si aspettò la reazione successiva: William deglutì il vuoto e subito dopo abbassò lo sguardo sulla sabbia rosata della spiaggia. Lo osservò per qualche secondo convinta che avrebbe condiviso con lei i suoi pensieri e invece in modo riservato - come non lo era mai stato - non lo fece. Katherine cercò di dissipare il silenzio imbarazzante. 
«William. Tu sai qualcosa circa il periodo che Christian ha trascorso in accademia?»
Si stupì lo chiedesse a lui e non al diretto interessato. Una punta di diffidenza e di curiosità si dipinse nello sguardo di Katherine, ciò convinse William a misurare le parole nel caso la conversazione avesse assunto una piega compromettente. 
«Dipende cosa vuoi sapere. Ha frequentato la United States Naval Academy, un college di Annapolis nel Maryland. Da ciò che mi ha sempre raccontato, era determinato a raggiungere i suoi obiettivi. Si è diplomato brillantemente, il Coronado non ha mai dubitato sul suo arruolamento»
«Ed ha avuto qualche distrazione, che tu sappia?»
Si sarebbe aspettato domande più accessibili, magari sulla sua carriera, sugli anni che avevano condiviso. 
«Come? Mi viene solo in mente la sua poca propensione alle armi, il tiro al poligono non è mai stato il suo migliore passatempo, ma d'altronde un giovane che aspirava alla Berkeley[1] prima dell'incidente è comprensibile sia più logico che materiale»
Si mostrò stranamente ingenuo e evasivo, un atteggiamento insolito per l'amico tanto da insospettire Katherine. 
«Lo so, conosco mio marito, o almeno credevo. William, sto parlando di quel tipo di distrazione, tu più di tutti dovresti capire»
«Mi parlava di una recluta all'epoca»
La informò con un sospiro rassegnato convinto di alimentare un'inutile gelosia che non avrebbe giovato ad un rapporto a distanza. Il successivo gesto che Katherine compì prese William in contropiede, convincendolo sul fatto che l'amica avesse già più prove di quante ne avrebbe potute fornire lui a lei: estrasse dalla tasca dei pantaloni larghi di lino una foto piegata in malo modo e più volte da mostrare all'uomo. La luce riflessa sulla superficie oceanica consentì a William di distinguere nell'istantanea un giovanissimo Christian in tenuta militare accanto ad una ragazza vestita con abiti simili. Erano abbracciati, stretti in un gesto affettuoso che non scadeva nel romanticismo; alle loro spalle spiccava la caserma in tutta la sua imponenza e in essa non vi era nulla di poetico.
«Questa, per caso?»
«Non lo so, non l'ho mai vista, né in foto né di persona. Di certo non ha mai messo piede in casa sua, l'avrei saputo»
William afferrò la foto con la mano libera ed esaminò il retro. Era curioso quanto lei di conoscere l'identità della giovane. Poteva essere un'amica o qualcosa di più, far credere il contrario a Katherine non sarebbe servito; per quanto fosse rimasta stordita dagli eventi delle ultime settimane fino a quella sera, era ancora dotata di un fine raziocinio. Ciò che prese del tutto impreparato William però fu la reazione di Katherine all'idea di una possibile relazione sentimentale del marito in giovane età. 
«È datata 1996. Aveva diciotto anni, risale al periodo che ha trascorso in accademia, anche il luogo in cui si trovano somiglia ad una caserma»
«William, non parlarmi dell'ovvio. Perché conserva quella foto?»
«Forse per ricordarsi ciò che era e ciò che è oggi»
«Pensavo lo avessimo reso io e Alisia ciò che è oggi»
Il tono della donna era profondo, comprese quanto la sua non fosse mera gelosia, ma il timore che il loro legame si indebolisse a causa del tempo e della lontananza.
«Katherine, non puoi pensare di avere accanto l'uomo che è stato a diciotto anni e nemmeno di aver potuto conoscere il ragazzo della foto quando lo hai incontrato. Ti sei innamorata di ciò che è e che era anche grazie ai suoi incontri passati, compresa questa ragazza. Pensi forse che io per primo non lo abbia influenzato in qualche modo? Anzi, per fortuna hai evitato danni irreparabili e lo hai trasformato in un padre di famiglia»
Non riuscì a strapparle il sorriso sperato.
«Lei lo ha conosciuto, vero? Ha conosciuto il giovane della foto»
«Probabilmente si è goduta il peggio di Christian. I suoi genitori erano appena morti e non era sereno. Quando lo hai conosciuto questa donna non era più nella sua vita. Cosa ti importa di chi si portasse a letto tuo marito ai tempi della leva? Sbaglio o all'epoca eri poco più che una bambina?»
William era diventato molto serio e si rese conto tardi di aver impiegato le argomentazioni sbagliate. Il tramonto fu per lei l'unica via d'uscita da una conversazione scomoda, ma non la rese meno irrequieta. 
«Avanti, non puoi essere gelosa di una storia che risale a più di vent'anni fa. Posso garantirti che nel vostro letto non sia entrata alcuna donna, né prima né dopo averti conosciuta»
La veemenza di William la imbarazzò e si trovò costretta a ricordare all'amico con uno sguardo allusivo la presenza della bambina serena tra le sue braccia. L'uomo acquietò i toni, ma non perse di vista il suo scopo di sempre: l'arduo compito di difendere Christian dal passato.
«Katherine, mi stai spaventando. Cos'è questa mancanza di fiducia nei suoi confronti? Lui non potrebbe mai dimenticarvi. Non importa per quanto tempo sarete lontani, restate la sua migliore fonte di benessere»
William indicò lo sconfinato orizzonte oltre il quale si trovava Christian, ma lei si soffermò sul riflesso cristallino distorto ai suoi piedi. Un leggero vento lo mutava, come la guerra minacciava di fare con suo marito.
«Temo possa tornare cambiato dall'Afghanistan»
«La guerra può cambiare tutto di lui, ma non ciò che prova per voi»
La donna si voltò con un'espressione quasi illuminata e un mezzo sorriso in direzione dell'uomo. Lo prese alla sprovvista tornando di nuovo su un argomento che apparteneva ad un passato remoto, convinta che lui sapesse risponderle, dal momento che era consapevole del legame confidenziale che univa da sempre i due amici. William cercò di essere più onesto possibile, certo che a Christian non sarebbe dispiaciuto che lo fosse davanti alla moglie.
«La amava?»
Un velo di tristezza e sospetto la attraversò. Si sentì estranea al mondo militare del marito, non era mai accaduto in modo così netto, Christian aveva sempre cercato di evitarlo. Ad un tratto non ricordava più cosa avessero in comune, la lontananza gettò un vuoto sul loro rapporto; il confronto con donne appartenute al suo passato la fece sentire estranea alle aspirazioni di suo marito. Era una civile che avrebbe solo potuto attenderlo insieme alla figlia. La donna della foto aveva condiviso molto di più con lui, seppure in un tempo più breve.
«Aveva paura di innamorarsi, temeva il confronto con sua madre. In accademia è stata solo la compagnia di qualche notte»
«Ho il terrore che questo viaggio possa dividerci, William. E se cercasse la compagnia di una notte anche in Afghanistan?»
Voleva bene a Katherine, non potevano lasciarlo indifferente la sua insicurezza e la sua stanchezza, a tal punto da mettere in discussione l'esclusività del suo matrimonio, senza peraltro avere la forza di ribellarsi all'eventualità, non riusciva sfinita a biasimare suo marito. Era giunta dritta alla questione con rassegnazione. William era certo che la frustrazione la stesse travolgendo, tanto da non ricordare quanta fiducia meritasse Christian e che la gelosia dovesse continuare ad essere estranea al loro rapporto. La donna piegò le ginocchia verso la sabbia ma non la sfiorò, come se volesse fuggire da una situazione scomoda; i suoi pensieri erano tutti dedicati all'orizzonte davanti a loro, l'unico elemento che quella sera rendeva mutevole un paesaggio ormai deserto al termine delle vacanze. William predilisse un registro pacato e accomodante per dissipare ogni dubbio in lei.
«Katherine, so che è difficile da credere, ma dall'esperienza in accademia non ha più cercato donne prima di conoscerti. Non puoi nemmeno immaginare quante ragazze gli abbia presentato affinché uscisse dal blocco del suo passato, ho iniziato a temere che la morte dei genitori gli avesse precluso un futuro. Alla fine, però, sei arrivata tu. Non dirmi che prima di Christian non hai avuto modo di conoscere ragazzi! Farei fatica a crederlo»
«Io e Sebastian non eravamo compatibili, mentre loro sembrano piuttosto affini»
L'ultimo incontro con l'ex le aveva offerto più di una conferma sul destino che aveva pesato sulla loro relazione e sulla sua vita newyorkese. Katherine riportò la foto datata all'attenzione dell'amico posandovi sopra un fugace sguardo. 
«Cos'ho in comune con Chris, l'oceano? Insomma, perché si è innamorato proprio di me? Gli ricordo sua madre?»
«Avete una figlia ed è l'unica donna che ama più di te. Non so chi ti abbia mandata sul suo cammino, ma al tuo fianco è rinato. Con te ha ritrovato il calore di una figura femminile e ha creato la famiglia che non aveva più. Christian è l'uomo più leale che io conosca, non penserebbe mai di condividere l'intimità con una donna che non sia tu e lo farebbe per entrambi. Si è innamorato di te dal primo momento in cui ti ha vista. Dopo il vostro primo incontro la sua euforia era incontenibile e da testimone che dovrebbe vegliare sul vostro matrimonio posso dire che non è ancora sbiadita»
Era stato convincente, conosceva ogni singola emozione che ipotizzava potesse provare Christian, ma il pensiero di quanto si fossero sempre amati non debellava il pericolo che minacciava la stabilità della loro famiglia.
«Non lo sento da giorni. Ho provato a chiamarlo, ma è scattata la segreteria. Non so cosa dirgli in quei pochi minuti dopo il segnale acustico e a quanto pare nemmeno lui se non mi richiama.  Non era così tra noi prima che lui partisse, non perdevo le parole davanti a lui. William, so che non sarebbe corretto da parte mia chiedergli di tornare, cerco di sopportare lontananza e incertezza come posso, so che tiene a ciò che sta facendo in quel posto dimenticato da Dio. Ma, cielo, mi manca! È come se all'improvviso fosse uscito dalla mia vita lasciando una voragine. I cronisti mi fanno mancare il respiro, ci sono continui attentati ed io non so più a quale dio affidarmi affinché lo protegga. Non so nemmeno se sia vivo»
La mano di Katherine contro le labbra raccolse la sofferenza che non riuscì più a contenere, mantenendo però un'attenzione particolare alla serenità di Alisia che non avrebbe dovuto sentirla. La foto che William stringeva ancora tra le mani diventò un ostacolo, la stropicciò in tasca incurante del valore simbolico che potesse ancora rappresentare per l'amico e recuperò il telefono lasciando la donna perplessa.
«Kathe, chiamalo. Ora. Se non lo fai tu, ci penso io»
Non le concesse il tempo di riflettere, l'uomo compose il numero e si portò l'apparecchio all'orecchio. Lei gli era grata, ma non diede al marito la possibilità di ricevere la chiamata, fece pressione con il palmo sul cellulare, lo abbassò lentamente e lo allontanò da William; lo fissò dritto negli occhi supplicandolo di non farlo.
«Lascia stare. Penso che Christian sarebbe così onesto da parlarmene se qualcosa tra noi fosse cambiato»
Dedicò un leggero sorriso all'amico, dispiaciuta per aver espresso timori meno fondati di quanto avrebbe dovuto credere, in fondo la prospettiva di un tradimento in una guerra che metteva così duramente a repentaglio l'incolumità era la situazione più rosea e risolvibile tra loro.
La bambina nel sonno richiamò le attenzioni della madre, Katherine la fece scivolare con delicatezza dalle braccia di William. Avrebbe voluto fargli notare quanto non fosse normale che fossero le braccia dell'amico a far addormentare Alisia, quanto non fosse logica l'assenza del padre, ma William aveva dimostrato di esserne già al corrente, anzi avrebbe voluto che il suo intervento non si ritenesse necessario, che Christian e Katherine fossero entrambi presenti ed emotivamente stabili per occuparsi della figlia. La sconsolazione sul volto dell'amico impedì alla bagnina di dirigersi verso casa e troncare la loro conversazione. 
«Sei agitato e nervoso»
«Come?»
«Qualcosa ti turba e Chris c'entra solo in parte»
William si sentì sottoposto ad un interrogatorio che riguardava la sua sfera personale.
«Tu mi turbi, Kathe. Se vacilla il vostro legame, ci restano poche certezze»
In una serata così tormentata fu l'unico frangente in cui lo sguardo di Katherine si illuminò davvero per la sorpresa e l'orgoglio.
«C'è una donna»
«Una? Per chi mi hai preso, per quel bigotto di Christian?»
«No, William, stavolta nel tuo cuore c'è spazio solo per una»
La fissò malinconico per poi rivolgere la sua attenzione all'oceano incantato ormai da un cielo stracolmo di stelle. Ironia della sorte: nessuna stella lo avrebbe ascoltato.
«E ti sta provocando sofferenza»
L'empatia di Katherine lo riscosse quasi spaventato sul fatto che l'amica potesse avere un'opinione fuorviante su quella donna.
«No, lei non c'entra. Sono io a non voler iniziare alcuna relazione con lei»
«Cosa mi tocca sentire, ci tieni davvero»
«Tengo all'idea che lei possa stare male per causa mia»
«Per come sei?»
«Per come sono, penso»
 
San Clemente - a poco meno di sessanta miglia da Los Angeles, 21 settembre 2018
 
Margaret aveva appena raggiunto una casa modesta e al contempo graziosa. Faceva parte di un agglomerato di abitazioni, ognuna provvista di un giardinetto autonomo e privato. Un cancello e una lieve salita la separavano dalla porta d'ingresso.
Era stato Samuel ad insistere, ripeteva quanto fosse perfetta per loro e comoda per la compagna, la distanza dalla scuola in cui lavorava era percorribile in breve tempo; la giovane mostrava però chiari segni di temere che la distanza dalla redazione del Los Angeles Times avrebbe potuto privarli di tempo ed energie. Era ironico pensare che tre ore fossero nulla in confronto alle tredici di fuso orario che si divertivano a ledere il loro rapporto.
I timori della ragazza sfumarono il malumore, il ricordo di progetti condivisi e i contrasti per l'acquisto di una casa vantaggiosa solo in parte erano la migliore sensazione a cui potesse ambire in sua assenza. Era l'unico modo per sentirlo ancora vivo al suo fianco. Margaret non riceveva notizie del fidanzato da giorni che le parvero mesi. Una scintilla di preoccupazione nel petto la stava pregando di sfogare la frustrazione in un pianto liberatorio, il rischio era tangibile, avrebbe presto perso il senno della ragione trattenendo un dolore eccezionale per la consuetudine. Non riusciva a cedere alle lacrime, il suo subconscio l'avrebbe dichiarata sconfitta sotto il peso di una debolezza che non poteva permettersi, a cui non voleva dedicare più attenzioni di quante realmente ne meritasse uno sciocco crollo emotivo.
Era certa di non doversi spingere fin laggiù, fino allo spazio che avrebbero dovuto condividere già da un mese abbondante per avere finalmente quella notte tutta loro a cui lei ambiva tanto e che tanto avevano atteso. Quando fece girare la copia della chiave nella toppa della serratura una sensazione di solitudine la pervase. Fu una ferita accarezzare la maniglia senza Samuel e respirare tutti i profumi che avrebbero contraddistinto ogni giorno trascorso l'uno affianco all'altra. Gli unici rumori erano causati dal tintinnio delle chiavi. Non vi era il rimbombo dei passi della ragazza lungo il pavimento delle stanze, tutti gli spazi erano riempiti, i mobili era stracolmi dei loro effetti personali e scoperti dal nailon, già tolto da poco prima del matrimonio previsto e annullato. Mancavano solo loro e la vita che si erano ripromessi di iniziare tra quelle mura dalle tonalità leggere e sfumate, tanto quanto il futuro dinanzi alla giovane coppia. C'era solo un velo di polvere sui davanzali e l'erba del giardino era leggermente incolta, puntinata dalle placide foglie autunnali. 
Si trovava tutto racchiuso in un quieto fermo immagine, esattamente come la loro relazione, proprio come la fragile vita del suocero. Lasciò che una parete discretamente dipinta trattenesse il suo peso raddoppiato dall'inerzia. Scrutò il soffitto, ma il vero obiettivo era il cielo cinereo, lacrimevole al suo posto. Si era nascosta a lato di un'ampia tenda candida, lontana dagli sguardi indiscreti dei suoi futuri vicini che avevano già iniziato a porre domande sul loro mancato trasferimento. 
«Piangere non ti rende meno degna di lui»
La voce familiare inattesa le mozzò il fiato, fissò la sagoma di suo padre con una certa nota di incredulità. Non si era accorta della sua presenza, non si era resa conto che qualcuno l'avesse seguita per un lungo tragitto in auto, forse preoccupato per il silenzio di cui la figlia si era circondata nell'ultimo periodo. Margaret non seppe replicare alla sua dolce provocazione, era certa che nel caso le avrebbe offerto anche una spalla su cui sfogarsi; era sicura avesse colto le sue più intime esigente, ne era sempre stato in grado, fin da bambina.
«Sapevi che Padre Ralph è un reduce della guerra in Vietnam?»
«Hai parlato con il Padre?»
«Lui dice che Samuel è partito per un disegno divino»
La ragazza pronunciò l'ipotesi del padre spirituale come fosse un'ovvietà, eppure era certa che nel corso del loro breve colloquio fosse stato l'uomo che era e che era stato a confortarla. Non si addentrò nelle confidenze di Padre Ralph, mantenne il riserbo sul suo passato, lui avrebbe gradito. Per quanta fiducia potesse ancora conservare nel cielo, il motivo per il quale le fosse stata strappata la felicità a pochi metri dal traguardo non le fu chiaro, ma per mettersi l'animo in pace aveva deciso di continuare a credere che qualcuno lassù avesse per loro un piano prestabilito, un provvidenziale e sereno epilogo. 
Il giornalista non aveva mai nascosto il proprio scetticismo in materia religiosa, non si esponeva quanto avrebbe voluto, ma la sostanza della sua opinione non mutava. Sbuffò in risposta alle notizie della figlia. 
«Non posso esprimermi, tua madre non vuole»
«Allora pensi sia influenzato dalle aspettative di suo padre?»
L'uomo continuò a mostrare prudenza nel proferire parole. Diventò pensieroso, un indugio che irritò Margaret.
«Ah già, non puoi criticarlo, il direttore Clark è il tuo capo»
Non riuscì ad interpretare se fosse la rabbia verso Daniel a rendere la figlia così insofferente, ma era certo fosse emotivamente stanca e ciò era comprensibile; nessuno meglio dei suoi genitori avrebbe potuto entrare in empatia con lei, vivevano sotto lo stesso tetto, la sua sofferenza era la stessa loro. Il padre non provò a difendersi, ma era intenzionato a chiarire ciò che la mente offuscata di Margaret si rifiutava di cogliere.
«Certo che posso criticarlo liberamente quando è necessario! Io e il direttore non abbiamo alcun tipo di problema a mostrarci schietti l'uno con l'altro. Margaret, sei mia figlia e mi fa male sapere che soffri. Io non credo sia colpa di Daniel. Ad essere onesto ho perso fiducia in Samuel, ti sta ferendo e non riesco a giustificarlo come vorrei. Sono anche io un giornalista, ma non avrei mai pensato di fare qualcosa di simile alla mia famiglia e ai miei cari. È stato incosciente a non considerare le conseguenze delle sue decisioni»
Fu un fiotto di acqua gelida in volto la considerazione del padre. Era la verità più difficile da ammettere, quella contro cui stava lottando da un mese. Anche lei stava combattendo la sua battaglia, una guerra di cui non riusciva a scorgere la fine dentro di sé.
«Io lo amo, papà»
«Non lo metto in dubbio»
«Anche lui mi ama, ne sono sicura»
«Non ho detto il contrario, ma l'amore non basta, bambina mia»
Era profondamente dispiaciuto, la fissava con dolcezza come se un semplice amorevole sguardo potesse spazzare via settimane di tormenti. Le mostrò un palmo invitandola ad accogliere un gesto di conforto. Lo abbracciò consentendogli di stringerla, affondò il volto nell'incavo della spalla e circondò il collo del padre. Non aveva permesso ad alcun famigliare una simile prodezza prima di quel momento, aveva chiesto solitudine, almeno fino a quando suo padre non prese il coraggio di violarla con prepotenza.
Margaret trovò che quello fosse un buon posto per continuare a soffrire, un luogo discreto in cui cedere senza versare lacrime.
«Maggy, ti accompagnerò all'altare presto o tardi»
Suonò come una promessa su cui lui non aveva alcun potere; lo fissò grata per l'apprezzabile pensiero. L'uomo le scostò i capelli liberi dall'acconciatura morbida che nascondevano le guance. Avrebbe voluto ridonarle il sorriso a qualunque costo, ma non possedeva alcuna autorità sul destino o sulla provvidenza in cui padre Ralph credeva.
 
Periferia Ovest di Kabul, 21 settembre 2018
 
Lo sguardo di Samuel vagava oltre le grezze pareti dell'abitazione del mullà. Era immerso in un ricordo recentissimo; percepiva ancora nitidi i singhiozzi della madre oltre la linea telefonica, lo aveva informato delle condizioni stabili ma serie del padre, facendogli crollare una parte delle sue certezze, in primis quelle sulla salute di un uomo dal temperamento forte e robusto. Si era impegnato a consolare lei mentre rabbia e preoccupazione si insinuavano nel suo cuore; non ricordava di aver mai provato così tanto disappunto nei confronti della fidanzata, la quale si era premurata di non coinvolgerlo e di non avvertirlo subito. Era infuriato con la famiglia per averlo tenuto all'oscuro, sentiva di aver perso tempo prezioso. Ogni cellula del suo corpo gli aveva suggerito di raggiungere la base di Bagram e salire sul primo volo di ritorno negli Stati Uniti; la coscienza gli ricordò la nuova ragione della sua permanenza a Kabul che aveva maturato nell'ultimo mese di esperienza. Gli era bastato poco meno di un mese per rendersi conto che un giornalista non restava mai tale su quelle terre, un reporter era innanzitutto un uomo che cercava di capire per aiutare prima ancora che per la mera informazione fine a se stessa.
Il giovane era seduto a gambe incrociate su un morbido tappeto sbiadito con il cuore ricolmo di tormento e di impazienza. Era ogni giorno più grato al mullà per averlo ospitato, il rischio corso dal capo del villaggio a stringere amicizia con un americano era alto, non tutti avrebbero gradito. Era stato ruvido nell'accettare un confronto in cui Karim avrebbe mediato, ma alla resa aveva accettato la richiesta dell'ospite al fine di onorarlo, all'infuori della sua nazionalità. 
Il mullà aveva offerto a Samuel il raa, una bevanda tipica del popolo afghano che aveva già avuto occasione di provare dalle mani di Maryam, anzi era quasi certo ormai di poterla preparare in autonomia grazie a lei. Il pensiero fu dedicato alla ragazza mentre sorseggiava e gustava il delicato sapore. La giovane afghana si trovava reclusa in un angolo della stanza nascosta dal suo inseparabile niqāb; teneva gli occhi celesti rivolti al pavimento polveroso sotto i suoi sandali. Samuel era dispiaciuto, era stata la sua presenza a costringerla distante dal tavolo dei commensali, era categorico che lei non potesse presenziare al loro fianco davanti al padre, ogni rapporto all'infuori della supervisione del mullà era considerato un sacrilegio.
La bevanda che i tre uomini stavano sorseggiando era stata servita loro dal piccolo Hassan. Il giornalista regalò al bambino una carezza affettuosa tra i capelli e un sorriso complice; Hassan apprezzò e ricambiò il sorriso, benché nemmeno a lui fosse consentito condividere il banchetto con gli adulti. Accanto ad un muro portante era conservato un aquilone dai colori sbiaditi, unica nota infantile in una abitazione dall'atmosfera dura e severa, rara presenza di vita nel grigio del conflitto.
Il reporter aveva richiesto un esplicito colloquio con il mullà e il supporto di Karim per poter raccogliere quante più informazioni possibili sul Medio Oriente. Era ostinato e la sua determinazione si era scontrata con la volontà del medico che non riteneva opportuna alcuna intervista ufficiale. I due avevano avuto una discussione dal quale un uomo ancora debilitato nel corpo e nella mente non sarebbe mai potuto uscire vincitore; così Karim era stato costretto a ricoprire il ruolo di interprete tra Samuel e il mullà premurandosi di tradurre le domande del giornalista a beneficio della pacifica convivenza di tutti. Il dottore sapeva bene quanto il mullà non vedesse di buon occhio il giovane americano ed inoltre lo stesso Karim si sentiva in soggezione al suo cospetto al pensiero di quando avrebbe preso il coraggio di chiedere a lui la mano della figlia, senza nemmeno possedere le risorse sufficienti per il mahr[2]
Le domande di Samuel erano poco consone e sfioravano la polemica, più di una volta Karim fu costretto a filtrare la richiesta secondo la sensibilità del mullà. Perché non consentite alle vostre figlie di sposare uomini che amano e all'età in cui si sentono pronte? era diventata in lingua afghana Secondo la Legge, a quale età le donne possono essere offerte in matrimonio? Karim lo aveva redarguito con lo sguardo per aver pensato che lui traducesse davvero una domanda simile al mullà; era costernato che Maryam udisse simile discorsi, ma erano costretti ad assecondare il capo del villaggio, non avevano scelte migliori, anche per il bene della ragazza nello stato in cui si trovava, suo padre non doveva avere alcun sospetto. 
Bastò lo spostamento della giovane afghana per distrarre Samuel dalla conversazione; la vide abbandonare il suo posto rilegato ed ebbe l'istinto di compiere il medesimo gesto, solo la prontezza di Karim riuscì a scongiurare un'offesa al mullà e alle loro tradizioni. Ormai però la ragazza aveva catturato la totale attenzione del giornalista, tant'è che il medico di Herat fu costretto a richiamare l'amico per nome.
«Samuel»
La voce di Karim lo fece uscire dallo stato ipnotico in cui era immerso, sbatté le palpebre un paio di volte, ma ciò non bastò ad ignorare lo sguardo malinconico di Maryam e ad evitare che seguisse da lontano i suoi passi mentre si congedava attraverso un'uscita secondaria. 
«Sì. Scusate, ho un'urgenza»
Seguì la ragazza alzandosi con uno scatto sotto l'espressione sconcertata dei due uomini che fino a poco prima stavano banchettando in sua compagnia. Samuel si diresse verso la porta dietro cui era scomparsa Maryam elargendo una carezza distratta sulla nuca di Hassan che si trovava in traiettoria. 
La scorse abbandonata alle lacrime con la schiena poggiata contro le mura esterne dell'abitazione. Le si avvicinò, si inginocchiò sulla terra arida per arrivare alla sua altezza e non sovrastarla. Non accennarono al modo in cui il padre l'aveva costretta all'angolo e le aveva vietato di prendere parte alla conversazione, era un'abitudine a cui lei non dava più peso ormai ed inoltre i loro sguardi si erano già scambiati un parere a riguardo poco prima.
«Ehi. Va tutto bene?»
A Maryam sfuggì un amaro sorriso per rispondere a quella frase di circostanza. 
«Karim mi ha chiesto la mano»
«Lo so. Vuole solo che tu sia al sicuro»
«Non saremo mai al sicuro. Lo so io, lo sa Karim, lo sai persino tu»
Scie salmastre si infiltrarono oltre la stoffa chiara del niqāb e scomparvero alla vista dell'americano. La rassegnazione più profonda la investì, poi si voltò verso Samuel come se si stesse rivolgendo a se stessa.
«Mi ha strappato l'anima»
Samuel comprese a chi si stesse riferendo senza che lei lo specificasse. Le unghie del giornalista si conficcano nella terra e si chiusero a pugno. Conosceva Maryam da un mese, ma il pensiero che qualcuno l'avesse toccata con violenza gli fece ribollire il sangue.
«Non voglio coinvolgere qualche innocente, tantomeno Karim. Devo dire la verità a mio padre e prendermi le mie responsabilità»
«No, Maryam!»
Non era esperto, ma era consapevole di ciò che implicasse rivelare il terribile segreto al mullà. Non aveva alcuna responsabilità per la violenza subita, era una vittima, ma Maryam non riusciva a definirsi tale, non le avevano insegnato che anche lei talvolta poteva esserlo e il male che le veniva inferto poteva essere un errore di altri, uno sbaglio che lei non poteva subire inerme. La fece sorridere e stavolta di cuore la preoccupazione nei suoi confronti, era un evento che raramente aveva sperimentato sulla pelle e solo grazie a Karim. Si stupì che un occidentale avesse così a cuore la sua vita; allo stesso tempo un occidentale le aveva strappato brutalmente l'innocenza, sapeva essere vario il cuore umano e la nazionalità non era un metro di paragone.
«Grazie, Samuel, per un po' mi hai fatta sentire una donna degna di rispetto»
Aveva smesso di piangere, l'aveva attirato a sé e abbracciato, posando il mento sulla sua spalla e dimostrandogli di conoscere da tempo la sottile linea tra dignità e disprezzo, lei si rifiutava solo di riconoscerla per paura di affrontare un percorso tortuoso e accidentato in un mondo in cui gli uomini dominavano su ogni fronte. Samuel ricambiò l'abbraccio con delicatezza, ma solo per accertarsi che lei non si allontanasse; in quella posizione fu più semplice sussurrare a lei per avvalorare le sue suppliche.
«Maryam, ci sono tante soluzioni alla morte, per te e il tuo bambino»
«Non lo voglio, Samuel»
Si allontanò da lui scattante accentuando tutto il livore che provava.
«Non lo voglio ricordare. Non voglio essere sua madre e se per evitarlo non mi resta che morire con lui, così sia»
La disperata furia balenò attraverso gli occhi azzurri di Maryam, ma fu solo una frazione di secondo, tornò a guardare il cielo confondendo le iridi buone nella volta sopra Kabul. A modo suo si stava ribellando alla vita che le era stata predestinata da tutti gli uomini che avevano incrociato il suo cammino.
«Credo di non averlo mai confessato a qualcuno e tantomeno voglio che lo sappia lui, ne soffrirebbe solo. Ho sempre visto in Karim molto più di un amico. Da bambina credevo di poterlo paragonare ad un fratello, poi ad un padre ed infine»
Prese fiato fissando con intensità il reporter, conscia di ciò che stava per affermare.
«Sono certa di essermi innamorata di lui»
Samuel rimase sconvolto per la notizia appena ricevuta.
«Maryam, non capisco, ti vuole sposare e tu sei decisa a rifiutare la sua proposta»
Gli sorrise, per una volta sentì di essere lei una fonte di informazioni per lui.
«È inutile che fai finta di credere che sarebbe tutto normale. Nel tuo Paese credo sarebbe vietato dalla Legge. Confermi, americano?»
Nominò il termine legge quasi come una beffa assurda per tutte le donne afghane che avevano la fortuna di intrattenere qualche contatto con il mondo occidentale.
«Non usare i miei sentimenti contro di me, Samuel, non mi convincerai a non parlare con il mullà solo per la prospettiva di essergli accanto. Vuoi che sia una donna libera, o no?»
Si alzò lasciandolo in pensiero, gli voltò le spalle, ma Samuel le consentì pochi passi lontano da lui. Il giovane si alzò a sua volta per fermarla con la forza se fosse stato necessario. 
«È sterile. Karim è sterile»
Rimase sbalordita. 
«Non potreste avere figli, anche volendo»
«So cosa vuol dire. Non mi ha mai accennato nulla di simile»
«È una confidenza molto intima e tu sei molto giovane. Credo sia questo il motivo per cui non te ne abbia mai parlato»
Scorse maturità in Samuel nonostante la sua giovane età, ma non poté evitare di sentirsi tradita come amica da Karim; era convinta non ci fossero segreti tra loro e fossero aperti ad ogni tipo di confidenza. 
«Il vostro matrimonio sarebbe una via per salvarti»
Avrebbe voluto dirgli che avrebbe desiderato averlo accanto per sempre in qualunque modo, che forse quello che provava non era amore ma forte ammirazione maturata nel corso degli anni, in fondo lei non conosceva cosa volesse dire essere innamorati. D'altronde tra loro non vi era attrazione fisica, ma solo di mente e di cuore. Maryam non fece in tempo a rivelare altro a Samuel, alcuni spari spezzarono la loro conversazione. L'obiettivo era proprio la ragazza e Samuel se ne accorse subito frapponendosi tra lei e i talebani che la stavano attaccando con ferocia. Il reporter scorse lo sguardo di uno dei due uomini mentre si allontanavano a bordo di un'autovettura militare. 
Il giovane americano percepì il grido di Maryam attraversare ovattato i suoi timpani. Il respiro era un insieme di coltellate nello stomaco. Non trovò più ossigeno, incespicò nei suoi piedi e collassò sulle ginocchia. Toccò il punto in cui il dolore era più intenso e trovò solo copioso sangue. Molte cose attraversarono la sua mente, molte persone che era certo di non rivedere più. Era dispiaciuto per le promesse che non era riuscito a mantenere, per le lacrime che avrebbe causato, per l'amore che non avrebbe più potuto vivere. Avvertì passi concitati, scorse attraverso la vista offuscata umili sandali che attribuì a Karim.
«Maryam, ho bisogno di acqua fredda»
All'udire il nome pronunciato dall'amico Samuel si preoccupò e tentò di comunicare con tono incrinato.
«È ferita anche lei»
«Ha solo una ferita di striscio sul braccio, sta bene»
Il sorriso rassicurante e preoccupato del medico era sovrastato dalle imprecazioni in lingua afghana del mullà. Karim comprendeva ogni singolo insulto rivolto a Samuel per aver messo a repentaglio la vita della figlia con la sua presenza, ma non aveva tempo di ricordare a lui che senza l'americano lei sarebbe rimasta uccisa sotto i colpi dei talebani, era più urgente salvare la vita all'amico piuttosto che risvegliare la coscienza di un vecchio afghano inaridito. 
Il dottore prese tra le braccia il reporter, gli sollevò la nuca dal terreno e cercò di valutare la gravità delle ferite riportate; era essenziale per lui superare il coinvolgimento emotivo per riscoprire sangue freddo. Un rivolo vermiglio scivolò lunga il viso di Samuel dalle labbra; il sangue e le convulsioni gli impedirono di articolare una frase limpida.
«Karim. Margaret. Ti prego»
L'afghano provò ad arginare le ferite a mani nude. Abbondanti lacrime scesero lungo le guance del dottore per il rischio di perdere la vita dell'amico davanti ai suoi occhi, per il sacrificio che per loro stava compiendo. Si asciugò le guance umide con la stoffa che gli copriva le braccia. Non gli avrebbe mai chiesto di mettere a repentaglio la sua incolumità, non lo avrebbe permesso se solo avesse immaginato che potesse accadere una simile tragedia. 
«La mia fidanzata. Devo sentirla»
Afferrò debolmente il polso di Karim per essere più convincente.
«Non puoi parlarle in questo stato. Te la caverai»
Gli rispose distrattamente, era impegnato a scrutare le ferite per scorgere i danni. Vide una pallottola insanguinata per terra, riconobbe munizioni da mitragliatrice, ne aveva viste ed estratte tante da corpi esanimi, una singola pallottola era fuoriuscita dalla ferita, ma più di una era andata a segno e si era sfogata su Samuel. Maryam fece ritorno con acqua e bende, pose subito una garza imbevuta sulla fronte madida del giovane. Era sconvolta, la sua ferita bruciava all'altezza del gomito, ma il dolore che provava nell'anima per le sorti del reporter americano era più intenso.
Karim frugò nelle tasche di Samuel sotto la kurta candida e macchiata in cerca dell'accendino e lo trovò con soddisfazione e speranza; ebbe l'idea di cauterizzare i labbri frastagliati delle ferite per ritardare l'emorragia che stava sbollendo abbondante in più punti. Si premurò prima di allontanare la giovane per non lasciare che assistesse alle sofferenze del ferito. 
«Maryam, cerca aiuto»
Intervenne prontamente Samuel al limite della lucidità. 
«Trova il tenente Richardson, è all'ospedale di Charikar, hanno ferito il suo comandante»
La ragazza non indugiò a dirigersi sul posto per cercare il militare che avrebbe potuto scortare Samuel in una sala operatoria, era certa che il dottore si sarebbe impegnato per superare la fase più critica fino al suo ritorno. Rimasti soli, Karim accese l'accendino rivolgendo uno sguardo dispiaciuto all'amico per la sofferenza che avrebbe patito dalle sue mani a breve, ma non aveva altri mezzi per mantenerlo in vita in attesa dei soccorsi. Samuel fece cenno a Karim di avere avuto un'ottima idea, nonostante tutto.
«Fa' ciò che devi»
«Penso che il tabacco possa salvarti la vita. L'avresti mai detto?»
«Non posso dire lo stesso per mio padre»
Karim cercò di sdrammatizzare, ma Samuel al contrario provò un senso di profonda amarezza prima che i suoi sensi venissero intorpiditi dall'emorragia e dal dolore provocato dai nobili tentativi di Karim.
 

Ciao, carissimi lettori e carissime lettrici!
Fa profondamente male oggi per me pubblicare questo capitolo. Avevo scritto i dettagli prima di Ferragosto ed ora rileggerli con il senno di poi mi mette i brividi. Come avrete già intuito, questa storia si concluderà molto prima di giungere al 2021, ciò che descrivo io è ormai Storia. Mai e poi mai fino a pochi giorni fa avrei creduto che in futuro si sarebbe verificata una situazione ancor meno rosea di quella che sto raccontando. Ho perso ogni genere di commento, ormai mi rifugio nella scrittura di queste pagine, unico luogo in cui trovo ancora una speranza per il popolo afghano. 
È solo un dolore immenso e penso lo sia per molti di voi. Vi abbraccio forte e vi ringrazio per continuare ad accompagnarmi in questo viaggio, nonostante tutto ♡
Spero a presto!
-Vale
 
Ps vi chiedo scusa per la lunghezza del capitolo, non avevo idea di come spezzarlo per renderlo meno pesante, grazie per la pazienza ♡
 

[1] Università della California
[2] Donativo nuziale, cifra che il marito dovrà elargire alla moglie a seguito della stipula del contratto nuziale.

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Capitolo 28
*** Capitolo 27_Controllo mancato ***


Controllo mancato




 
Ospedale di Charikar - a tre quarti d’ora da Kabul, 21 settembre 2018
 
Quando Christian fece il suo ingresso nella stanza di Flores, impiegò tutto il rispetto di cui era capace. I medici avevano raccomandato prudenza, sforzi fisici o tensioni eccessive avrebbero potuto peggiorare le sue precarie condizioni di salute; necessitava dei giorni di riposo opportuni per una completa riabilitazione, perciò dai piani alti non avevano esitato a sostituirlo per portare a termine quantomeno la missione più urgente che prevedeva l'apertura dell'ospedale agli alleati. I sanitari avevano comunicato al seal quanto il generale non fosse lieto di essere ancora in vita, si limitava alla gratitudine verso coloro che lo avevano liberato da un'acuta sofferenza. Non aveva appetito e i traumi riportati con la ferita erano responsabili solo in parte. Il seal ricordava le parole del superiore agonizzante, non erano rassicuranti, ma nel momento concitato dell'attacco non vi aveva posto grande attenzione. 
Se avessi la certezza di rivedere lei, non chiederei altro che non fosse la morte. Se ne è andata così.
Non era certo di poterlo capire fino in fondo, riusciva solo ad essere egoista e a rallegrarsi per la sua salvezza, ma si impose uno sforzo di comprensione davanti a lui. Stava bene, era ciò che contava a seguito di un assalto che avrebbe desiderato annientarlo; l'idea che i nemici avessero incassato almeno una sconfitta avrebbe dovuto rasserenarlo: lui respirava ancora e la speranza non era dissolta. Christian non era certo di sapere come affrontare il passato dell'uomo senza risultare indiscreto, ma immaginò necessitasse di qualcuno che confortasse la sua anima, perché, con ogni probabilità, la sua personale fiducia in tempi migliori era svanita ormai da tempo. L'impotenza che il marine scorse dal profilo chiaroscuro del comandante accantonò ogni tipo di rancore accumulato nei suoi confronti e lo destabilizzò. Era abituato a ricevere ordini da lui, nell'ultimo mese era diventato un solido punto di riferimento che gli aveva concesso di tornare nel rigido ordine di idee dopo un lungo periodo di astensione bellica. Era diventato un mentore senza che lui ne fosse consapevole, realista e a tratti spietato, ma funzionale alla loro missione in Afghanistan; il tenente non rimase indifferente all'insolito stato di vulnerabilità del superiore. Portava con dignità negli occhi la morte, avrebbe dovuto scorgere quel dettaglio comune durante il loro primo incontro. Entrambi erano stati segnati dalla tragica scomparsa di cari, Christian era stato solo più fortunato, il futuro aveva in parte oscurato il suo vissuto. Era stato superficiale, aveva gli strumenti per identificare le radici della sua austerità, ma non li aveva sfruttati.
Il generale aveva avvertito la presenza del sottoposto; avrebbe preferito non mostrarsi in uno stato indecoroso - debole e bisognoso. Il malessere lo costringeva a letto, l'unico contatto con il mondo era rappresentato dalla finestrella dell'ospedale che si affacciava sulla arida città di Charikar, un panorama che non avrebbe potuto risollevare il suo umore. Eppure continuò a puntare lo sguardo oltre le madide vetrate per svuotare la mente da qualunque pensiero compromettente sulla sua posizione di comando. Il destino aveva deciso ancora una volta ai suoi danni, il desiderio di raggiungere Isabel ovunque si trovasse lo aveva sfiorato davvero, gli aveva donato la certezza che rivederla sarebbe stata la migliore ricompensa per la sofferenza che lo avrebbe guidato verso la morte. Si sentiva inutile tra le lenzuola logore e macchiate del suo stesso sangue; lui era vivo, mentre giovani compagni d'armi avevano perso la vita, il fatto che si fossero offerti volontari per la resistenza non lo preservava dalle responsabilità. 
Flores avvertì passi lenti e incerti avanzare verso la sponda della lettiga. Il seal fece scivolare la busta firmata a nome del generale sopra un tavolino sul quale erano poste medicazioni pronte all'uso. Al capitano era stato ordinato di allontanarsi dal luogo dell'attacco per portare in salvo il soldato Ward, non era solito fuggire senza voltarsi indietro verso la scia di sangue che rischiava di lasciare e che effettivamente aveva lasciato alle sue spalle. In passato aveva consentito ai commilitoni di salvare la propria vita senza alcun indugio, stavolta un ufficiale che esibiva più gradi di lui gli aveva impartito un ordine contrario ai propri intenti. Nemmeno per un istante Christian aveva pensato di scaricare le esclusive responsabilità sul comandante. A lasciarlo perplesso furono piuttosto le rivelazioni di Elijah sull'esperienza in Vietnam di Flores; non aveva la pretesa di entrare in confidenza con lui né di conoscere ogni aspetto della sua carriera militare, ma lo scosse l'ipotesi che la sua integrità avesse ceduto di fronte a crimini di guerra.
«Mi ha salvato la vita, non posso negarlo. Grazie, anche se avrei preferito combattere al suo fianco. Ma questo lo sa già»
Flores si voltò in direzione del seal, fu costretto a spostare con flebile energia un'asta portaflebo inutilizzata per poter agganciare lo sguardo riconoscente del sottoposto. Gettò un'occhiata anche alla busta intonsa; Richardson era un uomo di parola, come da lui richiesto in mancanza della sua morte aveva ignorato le parole scritte di getto sotto la pressione di un attacco imminente. Non riuscì però a comprendere la gratitudine, a lui risultava l'esatto contrario, era stato Richardson a strapparlo da morte certa - purtroppo, la situazione attuale in cui si trovava non lo soddisfava. Il comandante riaccomodò la nuca sulla barella accompagnando il gesto con un sospiro sofferente.
«Non la vedo felice di essere ancora tra noi, signore»
Era certo che il marine fosse già al corrente della sua ribellione alla vita, glielo aveva confessato lui stesso in un momento di debolezza. I sentimenti gli avevano annebbiato la coscienza prima ancora che agisse il dolore sulla psiche e sulla sensorialità. Non aveva mai mosso accuse infondate a Richardson, aveva vissuto sulla pelle quanto fosse rischioso abbassare la guardia in nome dell'amore. 
«Il colonnello Keller mi ha confidato che lei non desidera arrendersi, lo ha dimostrato con coraggio in quella base. Non lo faccia, generale, abbiamo bisogno della sua esperienza. La vittoria di questa guerra può diventare un suo personale riscatto»
Percepì un leggero stupore nello sguardo di Flores. La poca propensione alle confidenze lo spinse ad ignorare l'indiscrezione del cognato e insieme ad essa la dichiarazione di stima. Christian era pronto ad avvalorare il suo pensiero, ma la freddezza e la chiusura dell'ufficiale gli impedirono di portare il conforto di cui era certo avesse bisogno, anche se forse non era la persona desiderata.
«So che una collega della Marina è giunta in suo soccorso, ora prendete ordini da lei. È qui per portarmi qualche aggiornamento?»
Al seal non rimase che rassegnarsi, il militare era disposto solo ad un confronto sul mero piano militare. Christian sbuffò con discrezione e ricompose nella mente i pezzi disordinati di una missione che si era rivelata ancora più ardua e urgente del previsto.
«Il comandante Reyes desidera avviare un'offensiva nel minore tempo possibile. Stiamo lavorando agli itinerari dei rifornimenti per infiltrarci tra le loro truppe»
«Allora sta perdendo tempo, vada a formare un'unità armata funzionale alla missione. Non devo essere io a dirle come gestire un reggimento di soldati, era nel suo curriculum. E interroghi Campbell, può aiutarvi»
«È molto provato, gli ho concesso qualche giorno»
«Lo sa meglio di me, il tempo è un'arma letale in guerra»
Non riuscì a sostenere lo sguardo critico di Flores; aveva sempre una marcia in più di lui, lo riportava sulla via della logica ogni qualvolta il cuore decideva di prendere il sopravvento. 
«Le persone rinchiuse avranno bisogno di assistenza, dobbiamo pensare anche alle loro cure»
A Flores sfuggì un sorriso di scherno, la fitta avvertita allo stomaco non nascose il suo disappunto. 
«Ha sbagliato mestiere, capitano, il missionario le si addirebbe di più. Rispetti i ruoli e si occupi di debellare l'assedio della milizia jihadista, al resto penseranno altri»
Christian non era altrettanto divertito, era serio e in pena per decine di vite che avevano poche aspettative all'infuori di loro. Parlò a bassa voce dispiaciuto, era così semplice capire un punto di vista umano e forse altrettanto sconveniente in simili situazioni limite. Eppure Christian ne era convinto, entrare con armi e portare disordine sarebbe stato rischioso per l'incolumità di civili infermi e di soldati provati dalla prigionia di svariati giorni; non mancava di ripeterlo a Beatriz, importava poco che colleghi e superiori non fossero d'accordo con lui.
«Lo pensa anche il comandante Reyes, mi ripete di essere razionale»
I pensieri si posarono sull'espressione contrariata della collega che bocciava ogni possibile intento umanitario che non prevedesse in primis la neutralizzazione del nemico.
Fu la voce di un infermiere loro connazionale a spezzare la conversazione. L'uomo aveva raggiunto la stanza del generale trafelato e senza porsi problemi si rivolse a Christian con tono affannato.
«Tenente, una giovane civile afghana la sta cercando. Comprende la lingua americana, le vuole parlare con urgenza»
Flores invitò con un cenno infastidito della mano Christian ad accogliere il bisogno della ragazza, sicuro fosse nei suoi desideri. Nessuno dei due sapeva di chi potesse trattarsi, ma il generale fu sollevato di riuscire ad evitare ulteriori argomenti scomodi.
Il seal si lasciò guidare dall'infermiere attraverso i corridoi dell'ospedale. Impiegarono un paio di minuti per raggiungere l'ingresso principale, presso cui stava attendendo una giovane impaziente, velata quasi totalmente da un niqāb color cenere. Christian si avvicinò a lei preoccupato, gli parve subito di riconoscerla. L'irruenza del marine che avanzava a passo celere nella sua direzione la spaventò e la fece trasalire, benché non fosse un volto inedito e intimidatorio per lei. I pessimi ricordi che ruotavano intorno ad una divisa erano ancora troppo freschi per non lasciare ripercussioni sulla sua mente. Maryam aveva trovato il coraggio di affrontare traumi passati solo per il giornalista in pericolo, gli doveva più di un favore. Era stanca, aveva corso. Era stata lievemente colpita e la gravidanza la stava prosciugando di forze. 
«Tranquilla, non ho cattive intenzioni. Tu sei amica di Samuel?»
Christian alzò le mani, le mostrò a lei con dolcezza. Era una ragazzina intimorita, una natìa e lui non poteva immaginare il suo vissuto, ma decise comunque di usare tatto. Maryam affermò con un cenno del capo le ipotesi del seal. La macchia scarlatta che si allargava sul gomito della giovane era ben visibile su uno sfondo chiaro e non passò inosservata al militare. 
«Sei ferita»
L'uomo ebbe l'istinto di sfiorare il punto leso per accertarsi del suo stato, ma lei indietreggiò scontrandosi contro una parete di cemento. L'inconscio le suggerì di accostare un palmo sul ventre per non limitare la protezione a se stessa in caso di eventuale minaccia. A Christian non sfuggì il gesto familiare e per lui ebbe un'unica interpretazione; diverse volte Katherine in attesa della figlia aveva avuto l'istinto di proteggerla e non necessariamente in situazioni di reale pericolo.
«Ci hanno sparato, Samuel è grave. Mi ha chiesto di cercarti, abbiamo bisogno di un mezzo per raggiungere l'ospedale e ha pensato tu potessi aiutarci»
Christian avvertì nel timbro candido della ragazza un forte accento afghano che lo riportò spaventato con la mente a Kabul. 
«Accompagnami da lui»
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Christian non perse di vista l'amico, gli rimase accanto. Avevano scortato la barella su cui Samuel era adagiato quasi incosciente d'urgenza verso la sala operatoria. Il seal parlava all'amico per essere certo che non si facesse sopraffare dal torpore. Il giovane soffriva in silenzio, tentava di ridurre il respiro al minimo per avvertire meno le fitte lancinanti all'altezza delle ferite. Christian, al suo fianco, gli offriva consigli, era già passato attraverso simili inconvenienti, anzi spesso i colpi ricevuti creavano problemi a distanza di tempo; era certo che il reporter sarebbe sopravvissuto, non poteva essere altrimenti. Samuel continuava a ripetere al tenente di non dimenticarsi di Margaret, di avvertirla di persona, di non lasciare che ricevesse una notizia così dolorosa per telefono, nel caso non fosse tornato vivo a Los Angeles. Si sentiva in colpa per non averla chiamata più spesso dal fronte, ma nonostante tutto non riusciva a sentire i morsi del pentimento per essere partito, il popolo afghano aveva un bisogno vitale di occidentali che avessero il coraggio di raccogliere le loro testimonianze e denunciare le loro privazioni. Margaret l'avrebbe odiato, maledetto fino allo sfinimento per aver distrutto i suoi sogni, ma lei sapeva di non potersi aspettare altro dal fidanzato, nel bene e nel male lo conosceva come solo poteva fare la sua più fedele amica; amica che pur di non tormentarlo in guerra aveva atteso il suo ritorno per informarlo delle condizioni del padre.
La notizia peggiore raggiunse il marine: l'ospedale non disponeva di altri anestetici. Samuel non comprese le parole dei medici, era stordito dalla sofferenza. Christian sentì il terrore nel petto per ciò che avrebbe dovuto vivere l'amico nelle ore a venire; un giornalista non era addestrato a sopportare un simile dolore, si impose sui dottori che gli consentirono di seguire l'operazione da vicino, accanto al ragazzo per provare a rendere più leggera la sua anima e più sostenibile un intervento in piena sensibilità. Samuel scorse il sorriso preoccupato di Christian sfumato da una luce abbagliante; immaginò che la situazione fosse disperata se lui non accennava a congedarsi per lasciare i medici al loro lavoro. Il giovane strinse il braccio del seal, non aveva avvertito alcuna flebo sotto pelle, non c'erano macchinari intorno a lui; comprese da solo che era come trovarsi nel mezzo di una strada sterrata e non in un ospedale. Percepì le mani di dottori e infermieri sfiorarlo freneticamente. Ebbe paura, come non ricordava di averne mai avuta.
«C-Christian»
L'ufficiale non aveva dubbi che avrebbe intuito le condizioni drammatiche prima ancora di percepirle addosso. Si abbassò verso l'infermo, si appoggiò alla sua barella e tentò un sorriso più convinto.
«Sarà questione di poco tempo, non te ne accorgerai»
«Quante ferite ho? Sono gravi?»
Christian non le distinse, ma se fossero state letali Samuel non avrebbe avuto la facoltà di parlarne, se qualche organo vitale fosse rimasto leso sarebbe spirato subito o avrebbero dovuto rianimarlo; così non era stato, respirava in autonomia, il suo cuore batteva e si ritrovò a ringraziare qualsiasi entità celeste lo avesse ascoltato lungo le giornate trascorse al fronte. Si rivolse all'amico con serietà e pacatezza.
«Cerca di non pensarci, fa' respiri corti e lenti»
Samuel ascoltò la voce del seal, il quale gli porse una carezza sulla spalla per incentivarlo a continuare a respirare piano e a provare a rilassarsi. Sentì i muscoli del reporter irrigidirsi sotto il movimento preciso dei ferri che lo stavano operando. Il viso contratto del ragazzo restituì sofferenza e impegno a resistere immobile; le iridi del giovane erano annacquate, ma Christian fu fiero di lui. 
«Stai andando benissimo. Senti, non mi hai mai detto come vi siete conosciuti tu e Margaret»
Samuel gli lanciò un'occhiata polemica e tornò a stringergli il polso.
«È un modo per distrarmi?»
«È il modo migliore per distrarti»
Il giornalista tentò di sorridergli, ma il tentativo fu spezzato dal suo stesso grido; serrò strette le palpebre per le fitte provocate dai medici.
«Samuel, guarda me»
Christian cercò di scongiurare che svenisse. L'infermo mantenne lo sguardo su di lui, ma sudore e debolezza non gli consentirono di mettere a fuoco la figura ambrata e slanciata dell'amico.
«C-ci … siamo conosciuti in redazione, prima che diventassi giornalista. Mio suocero è un collega. Margaret era un'amica»
«Un amore che nasce da un'amicizia si fonda su presupposti validi»
«Immagino sia così»
 
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Era ormai una triste abitudine di Karim avere le mani umide di sangue. Aveva prestato i primi soccorsi a Samuel, imbrattandosi egli stesso dell'emorragia che metteva a serio rischio la vita dell'amico. Lo aveva affidato alla professionalità di medici americani e alla fermezza di un navy seal, non poteva arrendersi circondato da così tanto aiuto. Indugiò qualche istante sulla soglia della sala operatoria, sarebbe rimasto in quella posizione per ore in attesa di buone notizie. L'immagine di Maryam seduta più avanti, appoggiata contro il muro e con lo sguardo rivolto al cielo lo convinse a sciogliere poco dopo il suo solitario raccoglimento.
Si inginocchiò accanto alla ragazza, posò le braccia sulla sedia vuota davanti a lui e puntò l'espressione stanca e sconsolata sul pavimento. Maryam seguì i gesti rammaricati dell'uomo, ebbe la tentazione di posargli una mano tra i capelli per infondergli forza, ma si trattenne, non le era consentito davanti ad occhi estranei; sarebbe forse stato strano anche per lo stesso Karim, anche se, era certa, non avrebbe mai pensato di ribellarsi.
«Avrei dovuto impedirgli di aiutarci, la sua nazionalità era una condanna sufficiente a Kabul. Ho messo a repentaglio anche la tua vita. Mi dispiace, tuo padre deve ritenermi l'unico responsabile»
«Karim, tu vuoi sempre salvare tutti, ma nessuno possiede questo potere. Allah forse, ma non si volta mai verso di noi»
Il medico le gettò un'occhiata complice. In situazioni diverse l'avrebbe rimproverata, era un sacrilegio mettere in dubbio l'operato di un'entità divina.
«Vieni, ti medico la ferita»
 
La condusse in un ambulatorio libero e provvisto di strumenti sterili. La invitò a sedersi sul lettino, mentre lui si occupava di lavarsi le mani e di recuperare dagli armadietti ciò che gli sarebbe servito.
«Forse dovrei farmi medicare da una dottoressa. Non trovo conveniente sia tu a farlo»
Si fidava di Karim e non aveva alcun problema ad affidarsi alle sue cure, ma in quell'ospedale non erano soli, non mancava infatti di gettare occhiate in direzione della porta per assicurarsi che nessuno li avesse visti. La fissò severo e la rimproverò con fare paterno. 
«Accomodati e sposta la manica del niqāb»
Seguì il suo suggerimento titubante. Karim la affiancò quasi subito; divise l'attenzione tra la ferita scoperta e il disinfettante da preparare imbevendo cotone idrofilo. Gettò acqua ossigenata pura sulla parte lesionata e fece pressione sulla ferita, pulendo in un unico gesto il sangue rappreso rimasto sul braccio. La sentì irrigidirsi e lamentarsi per il dolore. Karim ritrasse subito la mano per darle sollievo, non si era accorto di essere stato indelicato. La udì sorridere piano oltre il velo, mostrava una spensieratezza smorzata dall'apprensione.
«Sei per caso arrabbiato con me?»
«Certo che no. Scusa, stavo pensando»
Non colse i tentativi della ragazza per distendere la tensione. Si riscoprì inaspettatamente a disagio con lui, le stava offrendo una protezione che non gli spettava, il destino che Karim aveva progettato per loro non era condiviso da lei, sulla proposta del medico aveva ancora libertà di scelta. Lo vide servirsi dei denti per strappare la busta della garza e aprire un tubetto con un po' di pomata chiara che lui applicò subito sulla ferita pulita. L'uomo notò con sollievo che non erano necessari punti di sutura. Era provato mentre lavorava, ma non si tradiva nei gesti, stavolta fu più prudente e la sfiorò con dolcezza e accortezza.
«Karim? Posso farti una domanda?»
La fissò con un leggero sospetto.
«Come ti sei sentito quando l'ospedale di Kabul è caduto in mano ai talebani e tu non hai più potuto aiutare quelle persone?»
Continuò a fissarla a tratti e con diffidenza, mentre distendeva con precisione la benda coprendo il gomito.
«Ci preoccupiamo per loro, tu ti preoccupi per noi, ma chi si preoccupa per i tuoi sentimenti? E non dire che non sono importanti, perché lo sono per me»
«Maryam»
Era saggia oppure solo poco razionale a causa della sua giovane età, qualcuno l'avrebbe accusata di essere illogica in quanto donna, ma non lui.
«Non puoi avere il controllo su tutto per il semplice fatto che sei solo un uomo, un essere umano e non puoi addossarti il destino di un popolo intero»
Sussurrò a lui con comprensione, gli sfiorò appena la mano con cui la stava medicando. Karim la fissò consapevole del fine ultimo del suo discorso; immaginò che lei gli stesse sorridendo, lo intuì dalle rughe intorno alle sue iridi celesti.
«È stato Samuel a farmi aprire gli occhi, non rendo vano il suo sacrificio. Non lascerò che tuo padre continui a toglierti la libertà. Sono un dottore innanzitutto e non è nella mia natura accettare di perdere vite, la tua compresa»
«Karim, ciò che vuoi fare per me è troppo. Non puoi dedicarmi la tua vita»
Le rivolse un sorriso sincero.
«Sai, ricordo di aver fatto un giuramento quando sono diventato medico, tu non eri nemmeno nata. Ho promesso che non avrei mai voltato le spalle al prossimo»
«Non lo stai facendo»
«Se non ti aiuto, sì. Samuel ha ragione»
«Karim, non lo stai facendo! E Samuel ha non so quanti proiettili addosso per aver sostenuto una simile assurdità. Quante persone dovranno ancora soffrire?!»
Alzò il tono zittendolo per la sorpresa e la terribile verità dietro le sue parole.
«Non è necessario inventare che è tuo figlio, non terrò questo bambino»
Omise di sapere che era sterile, non sarebbe cambiato il loro pensiero, così opposto e contrastante. Karim interpretò la sua pericolosa volontà, lei non pensava affatto a tecniche simili all'aborto, per giunta illegali e insicure in Afghanistan.
«Non ti consentirò di dirlo al mullà»
«Peccato tu non abbia alcun diritto su di me, almeno non tu. Non desideravo che tu lo sapessi. Avrei voluto lo scoprisse il promesso che mi è stato destinato da mio padre. Non mi sarebbe importata la sua reazione. Tu dovevi restarne fuori, non c'entri nulla, sei solo un medico»
Karim si accigliò contrariato, avrebbe voluto imporsi su di lei, costringerla, anche con la forza se ciò avesse potuto salvarle la vita. Non gli piacque affatto il disprezzo con cui aveva apostrofato la sua professione per accentuare la sua estraneità ai fatti.
«Ascoltami bene, yaftaqid[1]»
Un violento tremore intorno a loro gli impedì di proseguire il fermo rimprovero che le avrebbe riservato e che le avrebbe impedito di ribellarsi ulteriormente. Maryam lo fissò spaventata a pochi centimetri da lui, come se cercasse nell'amico la causa del rumore che entrambi avevano udito chiaro. Le pareti del nosocomio vibrarono come se un terremoto si fosse abbattuto su Charikar e forse su tutta l'Afghanistan, non riuscivano a valutarne l'entità. Il medico si affacciò lesto alla finestra e scorse in cielo aerei che sfrecciavano in direzione della sua amata Herat.
«È l'esercito americano»
Proferì le parole con malinconia, un'emozione che non sfuggì alla sensibilità di Maryam. Notò una lacrima scendere lungo il mento del dottore. Provò ad asciugarla subito affinché lei, giunta al suo fianco, non la scorgesse. Lo fissò con insistenza in cerca di risposte. 
«Ho paura per la mia famiglia, non so dove siano coloro che sono sopravvissuti alla guerra. Si sono precipitati verso Herat tre aerei militari, temo sia successo qualcosa laggiù»
Lo vide fragile e impotente, proprio lui che aiutava tutti senza alcun indugio. Non gli fece mancare affetto, l'unico beneficio di cui disponeva; lo cinse prendendolo alla sprovvista, tanto che lui non riuscì a ricambiare il gesto. Maryam non si offese per l'abbraccio mancato, immaginò fosse quella la reazione del medico. Karim aveva gradito però, era da tanto che non sentiva calore umano, ma non osò commentare lo slancio della giovane. Attese che lei si allontanasse di poco per poter fuggire verso la porta.
«Torno da Samuel, ti tengo aggiornata»
La lasciò con l'accenno di un passato di cui non le aveva mai parlato. Si rese conto che il loro rapporto era sempre stato volto a proteggerla, era sempre stato quello l'obiettivo di Karim. Non la trattava da amica leale, ma da figlia. 

San Diego, 21 settembre 2018
 
La notte rappresentava per Fabian il momento peggiore della giornata, specie quando le sue ore lavorative si concludevano al crepuscolo. Negli ultimi giorni la mente non aveva avuto fonti di distrazione, le notizie avevano occupato i pensieri e casa sua somigliava ad una prigione più che a un gradevole focolare nel quale rifugiarsi. Nel silenzio della luna si godeva l'intenso frusciare della pioggia che si abbatteva sulle ante serrate delle finestre. Seguiva il veloce scorrere dell'acqua sui vetri scrutando il panorama desolato, accomodato sul davanzale. Restava a luci spente, i lampi illuminavano a giorno la tazza di camomilla tiepida che stringeva nei palmi. I tuoni lo tenevano saldamente ancorato alla realtà, anche in quella situazione in cui era inconsapevolmente scivolato. Sorseggiava la tisana senza fretta, la preoccupazione stava divorando la fermezza che era stato addestrato a padroneggiare; gestiva qualunque difficoltà, stava dimostrando una buona dose di resilienza nel Coronado in assenza del co-comandante Richardson.  Era diverso nel momento in cui veniva coinvolta la sua famiglia, nel caso specifico era addirittura stata messa in discussione. Non era la stabilità del suo matrimonio a spaventarlo di più, voleva credere non fossero cambiati i requisiti fondanti, almeno quelli, anche se forse erano meno solidi di quanto pensasse. Avvertire le autorità competenti aveva trascinato la sua famiglia sotto un'onda di processi e mediaticità. I giornali locali come il San Diego Union-Tribune lo descrivevano come colui che aveva riportato alla luce un relitto, lo avevano scambiato per un archeologo, forse, desideroso di condividere una scoperta che ai suoi occhi risultava ogni giorno più agghiacciante. Aveva rifiutato ogni sorta di intervista, ma l'articolo era uscito comunque in prima pagina con la gigantografia della sua postazione di lavoro e il titolo in corpo maggiore recitava:
 
Sorprendente ritrovamento sui fondali del Pacifico dopo ventitré anni di silenzio
 
Si faceva solo un breve cenno alle vittime, come fossero ossa e nulla di più, centinaia di scheletri senza nome. Lo irritava la superficialità di coloro che valutavano l'evento dall'esterno, non avevano gli strumenti opportuni per capire e giudicare. Fabian era stato discreto, aveva evitato che la copia di giornale venisse intercettata dalla moglie. Venivano rivelati i nomi dei piloti e le loro foto; erano entrambi molto giovani, non avevano compiuto nemmeno trent'anni, Sophie era rimasta vedova giovanissima. L'idea che l'incidente potesse essere stato causato dalla loro inesperienza lo sfiorò; ripensando ai suoi primi anni di servizio, non era certo di essere in grado di pilotare alla perfezione un aereo civile di quelle dimensioni, in aeronautica le taglie dei velivoli erano inferiori, ma pur sempre complesse da gestire.
Non avendo ricevuto notizie fresche, la giornalista aveva compiuto la sua medesima operazione, aveva cercato negli archivi informatici e aveva costruito ipotesi del tutto prive di credibilità. Aveva accennato a Sophie, alla curiosa relazione tra il pilota e colei che dalla torre di controllo avrebbe dovuto sorvegliare il volo; avrebbe attirato gli appassionati delle tragedie romantiche, anzi l'inviata si era lanciata alla ricerca della donna per riesumare i peggiori dolori sepolti, senza troppo successo però, Fabian era stato più scaltro.
Aveva solo voglia di bruciare il giornale, lo indisponeva già abbastanza essere stato costretto a riaprire le dolorose ferite della moglie e del collega. Lo ripiegò stropicciandolo con una mano; lo lasciò distrattamente sul davanzale udendo alcuni rumori provenire dal soggiorno che alzarono la sua allerta; nel silenzio notturno della casa i suoni furono accentuati. Fabian si fece accompagnare dalla sua camomilla e scorse appena oltre l'arcata della parete la moglie in tenuta da notte intenta a smontare la sua pistola semiautomatica, appoggiandosi al tavolo. Il tenente si accostò allo stipite e continuò a sorseggiare piano la tisana. La fissò con interesse, amore e apprensione.  Colse a memoria ogni gesto che la donna compiva; manovrava l'arma con automatismo, era attenta ma non troppo, in fondo fino a quel momento era sola, non rischiava di mettere in pericolo qualcuno. Smontava la Beretta 98FS nelle sue parti fondamentali, lasciando cadere il caricatore sul ripiano rigido; diede un colpo secco al retro del carrello e recuperò la cartuccia che era sfuggita al suo blando controllo.
Fabian era certo fosse al corrente della sua presenza, era però ben attenta a non intraprendere un confronto con lui. Avrebbe potuto continuare a mantenere tra loro l'ombra del silenzio in cui lui si trovava, lei non lo avrebbe di certo reclamato. Non avevano speso più molte parole sull'argomento, Sophie era stata limpida gettandosi addosso in pochi istanti un'omissione di anni. Da quel giorno la questione pesava sul loro rapporto, benché il seal facesse di tutto per ignorare ciò che era successo, specie in presenza dei figli. Fabian lasciò la luce soffusa proveniente dalla finestra, si avvicinò piano a lei e posò la mano libera sul calcio della pistola, resa innocua, che stava smontando. 
«Avevo dimenticato di scaricarla»
Non alzò lo sguardo su di lui, sussurrò e non riprese nemmeno l'operazione che stava compiendo finché lui non tolse la mano per consentirglielo. 
«Non è da te lasciare le munizioni nel fondello»
«Forse in realtà non sono la persona che pensavi di conoscere»
Lo sfidò con le stesse parole con le quali lui l'aveva attaccata in un istante di rabbia alla base. Sfiorò con durezza l'espressione del marito, ma l'uomo non voleva raccogliere la sua sfida.
«Non credo»
Sorrise canzonatoria verso l'amore che lui continuava a nutrire per lei e che tentava di esprimere in qualsiasi occasione propizia. Non era arrabbiato, era in pena, per ciò che aveva vissuto e che aveva subìto un brusco risveglio. Non avrebbe voluto che i ricordi vincessero su di lei, eppure riaffiorò il giorno peggiore della sua vita, non riuscì più ad oscurarlo con i pensieri positivi che aveva conosciuto accanto a Fabian. La colpa tornò ad annidarsi nel suo cuore, non era certa di essere estranea alla causa del disastro, alla quale non erano mai stati così vicini. Era viva in lei la voce dell'uomo che aveva amato e che continuava ad amare, le sue ultime parole martellavano non dandole pace; eppure era così importante ricordarle per non perderlo mai davvero, per provare a ricercare in esse le cause dell'incidente. Le aveva esplicitato le sue difficoltà a tenere in volo l'aereo, lei aveva controllato che non vi fossero anomalie. Non si era accorta di alcun problema, era tutto regolare da terra, il problema era sorto dopo il decollo. Ricordava di essere spaventata, la sua mente aveva realizzato solo in ultimo e solo insieme a lui il tragico epilogo. Fabian non avrebbe potuto comprendere il senso di impotenza che l'aveva assalita, la preghiera che stesse solo vivendo un incubo, un dannatissimo sogno dal quale si sarebbe svegliata. Aveva chiamato i soccorsi totalmente in apnea con la certezza di non riuscire a salvarlo, aveva solo la speranza di recuperarlo. Il destino aveva deciso che non le fosse consentito nemmeno rivederlo un'ultima volta. Erano passati più di vent'anni, ma il pensiero di quel giorno persisteva ad annientarle l'anima. Dopo l'incidente continuavano a ripeterle che aveva subìto un forte trauma e che gli incubi erano i sintomi di un disturbo post traumatico da stress. Credeva di aver affievolito la sintomatologia grazie al tempo e all'affetto della sua famiglia. Era impossibile soffrire meno se Brian non si era mai mosso di un millimetro dal suo cuore, esattamente come aveva comunicato a lui durante il loro addio.
«Le condizioni erano favorevoli, non ho riscontrato anomalie, i monitors me le avrebbero segnalate, ho guardato più e più volte per esserne certa e recuperare in tempo la disfunzione. Ero convinta di rivederlo, non ho avuto il più piccolo dubbio, ci eravamo dati appuntamento, il giorno successivo sarebbe tornato da me senza alcuna difficoltà»
Il turbamento emotivo rimase nella mente di Sophie, dalle sue labbra uscì un racconto fermo e limpido.
«Non deve essere stato per forza un errore umano tuo o suo, potrebbe anche essere stata una tragica fatalità. Può capitare che le condizioni perdano attendibilità all'improvviso e noi non possiamo controllare tutto»
Fabian proferì le parole con leggerezza rispetto ad un evento di cui non conosceva i dettagli che sarebbero sorti da un'analisi più approfondita, eppure era animato da una onesta convinzione. 
«Avete trovato i suoi effetti personali? Ricordo la sua divisa, era pulita quella mattina, me ne sono occupata io stessa. Quando è uscito di casa aveva con sé le chiavi dell'auto con cui ha raggiunto l'aeroporto. Ho impiegato tre giorni a cercare il mazzo di scorta per aprirla, non ho voluto venisse forzata la serratura»
Sophie fu costretta a fermarsi per non cedere al malessere che stavolta fu chiaro al marine al suo fianco. L'uomo stava per sorreggerla fisicamente, ma lei dimostrò di non averne bisogno continuando lo sfogo da dove lo aveva interrotto. 
«Aveva in tasca il cellulare, il portafogli e le chiavi di casa nostra. Le chiavi sono ormai inutili, quella casa non è più mia. Vorrei avere indietro ciò che è ancora possibile recuperare»
«Li stanno esaminando per le indagini. Era il primo pilota, qualsiasi indizio può essere utile. È passato tanto tempo e non è facile ricostruire le dinamiche in queste condizioni»
Il tatto del marito non bastò a placarla, anzi la irritarono le sue ovvietà.
«Ed io ero sua moglie! L'ho pianto per ventitré anni su una tomba vuota, credo di avere il diritto di riaverlo almeno a pezzi! Cosa pensate di scoprire? Brian era pulito, non mettetevi in testa assurdità»
Urlò a pochi centimetri da Fabian, come se fosse lui il responsabile delle disposizioni delle autorità o avesse esposto una qualsiasi ipotesi che potesse compromettere la reputazione del pilota. Non lo avrebbe fatto in alcun caso, almeno fino a prove che confermassero il contrario, ma chiaramente lo aveva sfiorato di recente il pensiero che i piloti non fossero nelle condizioni migliori per decollare, aveva solo scelto la discrezione per non angustiarla e alterarla. Il tenente impiegò qualche istante per trovare le parole più consone. Sua moglie aveva pianto per un altro uomo per vent'anni e lui non si era accorto di nulla, ciò metteva in seria discussione il suo spirito d'osservazione e l'attenzione che riservava alle persone a lui più care. Gettò uno sguardo in direzione delle camere dei figli per essere certo che la madre non li avesse svegliati. 
«Mi dispiace, Sophie. Mi dispiace per averlo ritrovato e averti inferto un nuovo dolore, avrei potuto evitartelo. Come avrei potuto evitare la tensione tra noi che presto o tardi i ragazzi avvertiranno»
«A te dispiace solo vivere all'ombra di un altro uomo»
«Può essere e non puoi biasimarmi. Ciò però non toglie che mi dispiaccia per la tua sofferenza e la sofferenza che ho portato in questa casa. Tu avresti continuato a nascondere il tuo doloroso passato, avresti continuato a piangere in silenzio e a sorridere davanti a tuo marito e ai tuoi figli. Come se tutto andasse bene»
Era pacato ed estremamente razionale e asettico. L'amarezza aveva però preso il sopravvento e si era scagliata contro la sua stoltezza o presunta tale.
«Anzi no, sai cosa ti dico? Non mi dispiace affatto conoscere la verità, avresti dovuto immaginare che un giorno l'avrei scoperta. Capisco facesse male ricordare, ma non ti avrei imposto alcuna fretta. Non voglio tu senta alcun tipo di pressione da parte mia»
Era stata ingiusta, ma aveva saputo tenerle testa. Sophie tornò a concentrarsi sulla pistola ricomposta accertandosi di aver svolto un buon lavoro prima di riporla in cassaforte. Fabian le concesse qualche secondo, poi le sfiorò la mano posata sul tavolo.
«Posso proporti una tazza di camomilla?»
«Non sono nervosa, non mi serve»
«Consentimi di dubitarne»
Il maggiore Lefebvre non scostò la sua mano, gradì il suo contatto e tutto il calore fisico e morale che emanava. Rese la sua voce un semplice sussurro e la dolcezza con cui si rivolse al marito fu sintomo di una nuova confidenza. 
«L'ho sognato, mi sono spaventata e non sono più riuscita a riaddormentarmi. Non ti ho trovato al mio fianco e ho immaginato non riuscissi a prendere sonno nemmeno tu, se ci fosse stata qualche emergenza nel Coronado mi avresti svegliata.  Mi è sorto il dubbio di aver lasciato la pistola carica. Sono distratta in questi giorni, forse dovrei prendermi una pausa dal lavoro, rischio di commettere gravi errori»
Le rivolse un sorriso comprensivo senza la certezza che lei nella penombra lo scorgesse; il seal però notò la fronte umida della moglie, sintomo dell'incubo che aveva appena vissuto. Gli stava inviando una velata richiesta di supporto e di consiglio. 
«Sophie, se hai bisogno di prenderti tempo lontano dal lavoro o da noi lo capisco, ma non escludermi dai tuoi pensieri. Affronteremo il processo insieme. Ogni volta che me lo hai permesso, abbiamo superato qualunque difficoltà»
Attese una risposta che non giunse, desiderava una conferma da parte di sua moglie, ma lei rimase in ascolto, si limitò a quello.
«Posso garantirti che non sono arrabbiato per avermi nascosto il tuo passato e nemmeno deluso da te. Ho avuto una reazione eccessiva e ti chiedo scusa»
«Qualunque altro uomo se ne sarebbe andato»
Allontanò la mano da quella di suo marito porgendole sul dorso una carezza.
«Ti ho nascosto il mio stato civile, c'erano gli estremi per lo scioglimento del matrimonio»
«Non l'ho pensato nemmeno per un istante»
Sophie sorrise amareggiata, la certezza non le offriva la serenità che avrebbe dovuto infondere sapere di non aver perso il compagno. 
«Vedi? Sei migliore di me. Sei onesto e comprensivo. Io ho lasciato che la mia famiglia vivesse nella menzogna»
Prese un respiro sofferente accorgendosi di aver ferito le persone che l'avevano riportata alla vita nel corso degli anni.
«Quando si terrà il processo?»
«Non si conoscono ancora i dettagli»
«Mi interrogheranno? Non ho altro da aggiungere»
«Ripeti ciò che hai sempre sostenuto. Andrà tutto bene, tu e Christian avrete giustizia»
Le aveva rivolto parole convinte, gli era grata. Sophie gli sfiorò appena le labbra con un bacio casto che aveva il delicato sapore della promessa. Fabian le aveva assicurato che sarebbe stato paziente, perciò trattenne qualsiasi impulso a stringerla tra le sue braccia, non osò per il timore che potesse sfociare in qualcosa che lei non avrebbe desiderato quella notte. La lasciò libera di tornare a dormire, sperando più tranquilla dopo le sue rassicurazioni. Lui invece decise di riempirsi un'altra tazza di camomilla e bruciare davvero il giornale con l'articolo incriminato, prima che turbasse l'umore instabile della moglie. 

 

Ciao, cari lettori e care lettrici!
Stavolta le tempistiche per l'aggiornamento sono state inaspettatamente più accettabili, ma ho lasciato ancora molti punti in sospeso e soprattutto Samuel in grave pericolo.
Non vi tedio oltre, mi auguro solo che questa storia, nonostante l'inevitabile angst, riesca ancora a portare un messaggio di pace e di speranza.
Vi ringrazio di cuore per continuare a seguirmi con vivo interesse. <3 
A presto!
Un abbraccio
-Vale
 
 
[1] Signorina in lingua afghana

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Capitolo 29
*** Capitolo 28_Tempo di reazione ***


Tempo di reazione



 
 
 
Base militare americana semidiroccata – confine Nord/Est di Kabul, 22 settembre 2018
 
Sarebbe stato un affronto al generale Flores e una soddisfazione per i nemici abbandonare la consueta base operativa, testimone di troppo sangue nelle ultime ore. Christian aveva sfruttato le sue remote ascendenze su Beatriz, in primis la fiducia che lei dimostrava ancora di riporre nelle sue doti decisionali. Era lo stesso luogo a ricordare loro quanto non fosse contemplata la resa e quanto fosse categorico non rendere vano il sacrificio di soldati che sapevano gettare lo sguardo su un epilogo lieto, avevano donato la vita per scorgerlo.
I giorni trascorsi avevano messo a dura prova l'ottimismo del tenente, il ferimento dell'amico giornalista lo aveva scosso, non aveva voluto prendere in considerazione la drammatica eventualità fino ad una manciata di ore prima quando l'impensabile si era concretizzato. L'ambasciata stessa aveva posto il reportage di Samuel sotto la sua ala protettiva, l'incolumità del civile era diretta responsabilità del militare. Aveva creduto di preservare la vita del giovane costringendolo a debita distanza dalle imprese più rischiose, era tassativo che non si dovesse ripetere l'incidente che lo aveva coinvolto a bordo dell'elicottero pilotato da Gwendoline e Christian, invece era stato bravissimo a compromettersi da solo. Il seal aveva dato per scontato che non si sarebbe opposto all'ideologia dominante tra le truppe nemiche, aveva riposto le sue speranze nel naturale timore di un giornalista alle prime armi. Alla resa l'unico ingenuo si era rivelato essere il marine, un ufficiale che aveva quasi il doppio degli anni di Samuel, onorificenze e una notevole esperienza per mare e per terra. I dottori che lo avevano preso in cura continuavano a ripetere quanto fosse stato determinante l'intervento del collega natìo che aveva contenuto con tempismo l'emorragia. Christian avrebbe voluto esporsi di più per lui, non gli fu nemmeno consentito donare il proprio sangue per le trasfusioni, i gruppi erano incompatibili. Erano in attesa che il cielo rivolgesse una minima attenzione a Samuel, lo assistesse nella fase più critica. Il tenente non riusciva a contemplare di dover comunicare la notizia di una simile perdita alla maestra di sua figlia; gli mancava il fiato al solo pensiero, era sicuro che non avrebbe trovato né la forza né il coraggio per una simile prodezza.
Christian era riuscito a sopportare qualunque inconveniente da quando era tornato ad abitare il suolo afghano, ma non era riuscito a resistere all'impotenza nei confronti dell'amico. Continuava a ripetersi che lui non doveva soffrire, era un civile, non aveva scelto di combattere, non aveva scelto di impugnare armi, non aveva scelto di ferire altri esseri umani nelle cui vene scorreva sangue dello stesso colore. Accettava ogni cicatrice su di sé, ma non su Samuel, non contro un civile indifeso. Alla fine aveva ceduto a quei farmaci in cui Katherine gli aveva raccomandato di rifugiarsi quando la sua mente era troppo stanca di pensare ad eventi nefasti. Aveva ceduto per rendere le lacrime che aveva versato in solitudine meno rassegnate. Era spaventosa l'idea che non avesse nemmeno cercato di comporre il numero di sua moglie, che non si fosse rifugiato nel suo conforto. Il dolore di Katherine era il suo, non poteva sovraccaricarla di preoccupazioni a chilometri di distanza, non se la sentiva più.
Flores aveva ragione, seppure non avesse la minima idea di ciò che Christian fu costretto sopportare in passato, la sensibilità che provava in guerra lo stava uccidendo più delle pallottole; la sua coscienza era inadatta, ma non la sua anima. Se fosse rimasto accanto a Samuel, era certo che sarebbe stato in grado di difenderlo, era convinto che ne avrebbe avuto la facoltà, invece non lo aveva protetto. La macchia della colpa si era allargata sul cuore, avrebbe continuato a provarla anche se Samuel si fosse ripreso. Aveva trascorso la sua peggiore notte da quando si trovava al fronte. Era stato fedele alle prescrizioni mediche, non aveva abusato degli ansiolitici, era pur sempre un soldato che faceva della lucidità la sua migliore arma; l'avevano aiutato a calmare il tremore che minacciava di perseguitarlo anche durante le ore di sole in cui era stato impegnato nei turni di sorveglianza in rigorosa solitudine.
Aveva trascorso l'ultima notte e l'ultima giornata a riflettere, a riscoprire ottimismo, a cercare la luce in fondo ad un tunnel troppo oscuro e spaventoso. I pensieri non avevano cessato di tormentarlo nemmeno verso l'imbrunire; in tutta onestà non provò a reprimerli, lasciò che essi scorressero liberi nella sua mente, non aveva il tempo di imbrigliarli per preservare la sua salute psichica. Aveva mangiato poco e niente tutto il giorno, doveva sicuramente risultare pallido e debole, ma nessuno osò puntualizzare il suo stato di malessere. I militari intorno a Christian continuavano a discorrere quasi ignorando la sua presenza, era stato di poca compagnia per una ragione di cui tutti erano già al corrente. Le voci dei compagni d'armi giungevano a lui ovattate, se avesse dormito qualche ora avrebbe anche smaltito i farmaci, invece la tensione sembrava essere più resistente. Aveva inteso i racconti del soldato Campbell sulle condizioni del nosocomio, ne era stato un triste testimone e negli occhi del giovane sfilava tutta la sofferenza per le vittime. Le rarefatte parole che Christian captava provocavano pungiglioni alle tempie.
Alexander non omise i dettagli più crudi della sua prigionia, non si preoccupò della presenza di Gwendoline, contava sulla sua tempra, ammesso e non concesso che avesse davvero rivelato proprio tutto. Aveva visto medici sfiniti lottare contro la morte e con pochi strumenti a disposizione; militari disarmati e spesso uccisi per avere addosso l'onta del nemico. Non era orgoglioso di essere in vita, ne avrebbe pagato le giuste conseguenze, ma non prima di aver concluso una missione di cui faceva parte da svariati mesi. Con il senno di poi, avrebbe preferito la morte a cicatrici che non gli facevano affatto onore, si sarebbe risparmiato un macigno sulla coscienza e l'espressione disgustata del soldato Ward che pendeva sulla sua testa come una condanna e che trafisse Alexander come una lama da parte a parte. Solo lo sguardo duro del comandante Reyes riuscì a distrarlo dall'idea di aver perso l'affetto di Gwendoline. 
«Soldato Campbell, sai di dover rispondere davanti alla corte marziale per i crimini che hai commesso?»
Il militare le stava rispondendo accondiscendente, ma dalle sue labbra uscì appena un sibilo. Christian aveva sbattuto un palmo contro il ripiano a cui era appoggiato per disincantarsi dai pensieri a cui aveva ceduto una volta in più. Si alzò dalla posizione raccolta che aveva assunto e si fece sostenere dalle mani rimaste a contatto con il tavolo. Attirò l'attenzione su di sé, come se si fossero accorti solo in quel momento della sua presenza.
«Penso che la corte marziale non scalpiti di processarlo nelle prossime ore. Converrai con me, comandante, che altre questioni siano molto più urgenti. Prima di tentare un'offensiva voglio tutelare le condizioni dei pazienti. Attaccando rischiamo la loro vita già precaria, dobbiamo evacuarli in sicurezza, altrimenti rimarranno uccisi da fuoco amico»
Beatriz lo stava ascoltando, nonostante negli ultimi giorni fossero stati discorsi già affrontati anche in privato. Si rivolgeva a lei con contenuta disperazione e sfoggiando sotto gli occhi i segni delle ore che aveva trascorso, quelli erano inequivocabili. Non riusciva ad ignorare i suoi discorsi sulla protezione dei civili, spesso malediceva se stessa di cedervi e di non riuscire ad infondere anche a lui lucidità. Una parte di lei era sicura che il tempo non avesse spento la scintilla che aveva sempre scorto nel cuore del parigrado, era stato fedele alle aspettative che l'annuncio dell'ambasciata sulla presenza di Christian al fronte aveva portato con sé. 
«Quelle persone hanno bisogno di aiuto umanitario, non di armi. Almeno non subito»
Christian fissava la sua interlocutrice supplicandola di ascoltarlo, ma non sempre lei ricambiava lo sguardo; la pregava con pacata dolcezza come se in quell'ospedale fosse rinchiuso qualche suo caro. Era stanca anche lei e lui persisteva ad ostentare simili discorsi con una tale convinzione che chiunque avrebbe finito per arrendersi all'evidenza. 
«Non ricominciare, Richardson»
Il tono era incrinato, faticava a mostrare autorità e distacco, più per le argomentazioni che per la persona che le stava proferendo. La guerra l'aveva indurita senza che lei dovesse impegnarsi più di tanto a dimostrare che una donna non era preda delle emozioni. Christian non si preoccupava di ostentare sensibilità, contrastava qualsiasi preconcetto con spontaneità; se fosse stato meno preda della sofferenza per le condizioni del giornalista, Beatriz era certa che lui stesso ne sarebbe stato fiero, lei lo era molto di lui. Le stavano scoppiando le tempie e non si preoccupò di nasconderlo, coprì la fronte con un palmo della mano e cercò di alleviare il dolore con lenti massaggi circolari. Christian non si arrese nemmeno davanti all'evidente cedimento fisico dell'ufficiale, non perdeva occasione di accentuare l'importanza delle sue parole. Era sua intenzione convincerla con qualunque mezzo fosse a sua disposizione. 
«Sono sincero»
«Oh lo so bene»
Beatriz aveva tolto con uno scatto le mani dal viso sfinito per rispondergli. Aveva impiegato notte e giorno per rifinire un piano accettabile e Christian glielo stava demolendo, come d'altronde aveva infierito sulla sua gioventù. Si chiese per quale ragione non avessero affidato l'unità al controllo esclusivo del tenente, non riusciva a capire il motivo che li aveva convinti a coinvolgerla. Richardson era perfettamente in grado di portare a termine la missione, certo con le sue modalità, ma almeno nessuno dei due avrebbe perso tempo prezioso a discutere per far prevalere la propria opinione.
Gwendoline aveva assistito in silenzio allo scambio di battute che era presto diventato a senso unico e non le passarono inosservate le occhiate complici che si stavano scambiando i due ufficiali: lesse dispiacere nello sguardo del comandante Reyes e compassione in quello del collega.
«Uno scontro a fuoco all'interno delle mura pone a rischio troppe vite ed io non sono disposto a perderle se c'è un'alternativa»
Resistere ancora a lungo alle convinzioni di Christian non avrebbe giovato, si augurava solo che non avrebbe mandato all'aria una missione per assecondare uno spirito fanciullo che francamente in guerra, seppur apprezzabile, rimaneva fuori luogo da parte di un soldato. Udì un silenzioso e confidenziale Ti prego, Beatriz, anche se lui di fatto non pronunciò nulla di simile.
Il comandante decise di essere accondiscendente basandosi sulla fiducia che riponeva nelle sue abilità di militare, le conosceva bene e sperò che il tempo non le avesse sciupate, si rifiutava di credere che lui non avesse escogitato un piano di assalto, seppur meno apertamente aggressivo del suo. 
«Sentiamo, cos'hai in mente?»
Si decise finalmente a rivolgersi a lui soffiando la domanda per accentuare il suo grado di stanchezza. Christian la tenne in sospeso senza malizia, era quasi incredulo che lei avesse accettato di accogliere le sue proposte; cercò di essere più convincente possibile, se ci avesse creduto lui aveva possibilità che ci credesse anche lei.
«Entriamo tu ed io, sotto copertura. Simuliamo una ferita, sotto il burqa[1] non sarà difficile, fingiamo di essere due civili in cerca di aiuto medico. Il problema è uscire da lì, non entrare disarmati»
«Vuoi fingere che io sia la tua consorte?»
Lo guardò accigliata per l'idea da principiante che aveva proposto. Aveva in mente di svestire abiti militari per indossare quelli civili. Era una soluzione singolare da parte di un ufficiale, quanto suicida.
«Se dico che sei mia sorella, rischio che ci chiedano i documenti. Se non gradisci, lo chiedo a qualcun'altra. Non mi offendo, non c'è alcun problema»
Era stato inaspettatamente acido nei suoi confronti, avrebbe dovuto essere il contrario visto che Beatriz aveva deciso di assecondarlo. Forse era solo in pena per l'ospedale e quindi scattante, eppure quei modi poco eleganti che non lo avevano contraddistinto in quelle ultime ore trascorse insieme al fronte non erano ancora emersi. La donna aveva assistito svariate volte a modi bruschi durante il loro addestramento anni prima, li rivide in quell'occasione, la spaventò sapere che la guerra tirava ancora fuori il peggio di lui. Sperò fosse solo una sua impressione, attribuì la colpa alla giornata soffocante che lui aveva trascorso, alla lontananza dalla sua famiglia, ad un reporter amico gravemente ferito. Insomma, si rifiutava di credere che la sua sensibilità di tanto in tanto potesse anche cedere il passo alla durezza, non gli si addiceva affatto. Sicuramente erano rimasti in sospeso molti conti tra loro, ma era certa fossero problemi a cui dovesse fare fronte solo lei, in fondo era stata lei ad essere abbandonata.
«Il piano deve passare sotto il mio beneplacito, sulla carta dirigo ancora io questo reggimento e se qualcosa dovesse andare storto ricordati che finiamo tu ed io davanti all'ambasciatore. Siamo entrambi responsabili per la riuscita della missione»
Christian non aveva nulla in contrario a condividere le responsabilità, non avrebbe proposto una simile azione, non l'avrebbe esposta ad un pericolo, se non fosse stato convinto che potesse rivelarsi la decisione migliore. Beatriz non ne se rendeva conto, lui non osava manifestarlo, ma in cuor suo non aveva smesso di volerle bene; aveva sempre desiderato il suo bene, anche quando era certo che il suo comportamento avrebbe lasciato intendere l'esatto contrario. Se l'avesse amata avrebbe desiderato condividere la vita con lei, non era amore ciò che aveva provato per la compagna, se ne rammaricava per averla illusa e forse un giorno sarebbe anche riuscito ad ammetterlo davanti a lei. Ciò che aveva provato e continuava a provare per il suo comandante era un bene immenso, un bene che portava con sé l'istinto di proteggerla anche da se stesso, perché ne era convinto, accanto ad un giovane ferito lei non avrebbe mai trovato serenità. 
«Allora pare ci servano abiti civili. A te e a Ward spetta la ronda, stasera»
«No, ti sbagli, è il turno di Gwendoline e Alexander. Avrei bisogno anch'io di qualche ora di riposo, se non ti dispiace»
Accennò un sorriso stanco e Beatriz non si oppose nemmeno a quello. Il comandante Reyes si congedò con amarezza in compagnia degli appunti di un piano che non era destinato a fruttare.
La recluta chiamata in causa dai superiori si avvicinò al marine e venne accolta da un'espressione paterna. Christian era certo che la ragazza non avrebbe gradito i suoi tentativi di creare spazi di confronto tra lei e il giovane sopravvissuto. In realtà Gwendoline pensava ad altro, almeno per il momento. 
«Mi faccia capire, lei vuole entrare per la seconda volta disarmato in un covo di talebani? Non pensa di sfidare un po' troppo la fortuna?»
«Avrà Beatriz le armi sotto il burqa, per una volta le tradizioni opinabili di questo popolo ci torneranno utili»
Ebbe di nuovo la sensazione che tra i due ufficiali ci fosse un certo grado di confidenza. Aveva menzionato il comandante chiamandola per nome, non era nelle sue abitudini perdere il rispetto dettato dai ruoli. Gwendoline stava per chiedergli spiegazione, dando sfogo alla sua impulsività e alla sua sfacciataggine; convenne però con se stessa che ci fossero questioni più urgenti da affrontare. 
«Non conoscete la lingua afghana»
«Il comandante in quanto donna non avrà facoltà di parola ed io ricordo qualche espressione efficace da esperienze precedenti»
«Qualche espressione?? Si sta prendendo gioco di me, capitano? Se lei parla americano, la giustiziano sul posto»
Era sinceramente spaventata e preoccupata per lui, non provò a nasconderlo. Nemmeno Christian si premurò di placare l'ansia della giovane.
«Devo correre il rischio, Gwen, altrimenti rendo vani questi mesi lontani dalla mia famiglia»
«Non conosco sua moglie, ma sono certa che non sarebbe d'accordo con lei»
Provare a dissuaderlo citando Katherine era un colpo davvero basso, a cui lui rispose con un tono triste.
«Chiedo al medico afghano che ha salvato Samuel qualche ripetizione sulla lingua locale, mi sembra ben disposto all'aiuto»
«Sta sottostimando i rischi. Capitano, la prego»
«Mi fido del tenente Reyes, è sempre stata in gamba e lei sarà al mio fianco. Prendo ogni precauzione possibile»
La fissò con determinazione lasciandole intendere i suoi sospetti. Quasi sicuramente aveva conosciuto il nuovo comandante prima di quella missione. Si sentì esclusa dal passato del seal, ma rincuorata. Intraprendere l'argomento sarebbe stato indiscreto e lui aveva tutto il diritto di non rispondere al suo spirito di curiosità. Gwendoline decise di fidarsi, era sempre stato un uomo coscienzioso e un militare preparato; se lui si fidava del comandante Reyes, avrebbero dovuto farlo tutti, c'erano le possibilità che il piano riscontrasse un grande successo. La ragazza decise di spostare la conversazione altrove, anche se fu ancora più imbarazzante per lei. 
«Cosa spera di ottenere lasciandomi sola con Alex?»
«La pace, nulla di più»
Christian le rispose quasi distrattamente, ma con sincerità. Era impegnato a sciogliere la cordicina che portava al collo insieme alla fede nuziale. La rigirò tra le dita manifestando nostalgia. Fece sussultare Gwendoline quando si avvicinò a lei quanto bastò per legarla sul suo petto. Si mostrò confusa e in estremo imbarazzo per quel gesto; non osò nemmeno sfiorare il metallo prezioso, si limitò ad osservarlo con rispetto.
«Ho bisogno che tu la custodisca fino al mio ritorno. Pensi di potermi fare questo favore? È un simbolo occidentale, sarebbe da imprudenti mostrarla alle guardie armate che si trovano di fronte all'ospedale»
 
Boschi di platano – confine Nord/Est di Kabul, 22 settembre 2018
 
Il tenente Richardson, per quanto sensibile, non aveva previsto il disagio che i due avrebbero dovuto condividere durante la ronda serale lungo i confini della base. Gwendoline persisteva in un profondo mutismo e Alexander non riusciva ad intendere se si trattasse di una sorta di punizione per averla delusa. Il giovane non osava avvicinarsi a lei, fu la ragazza ad intraprendere nella sua direzione qualche occhiata compassionevole. Era stata costretta dai superiori, stava eseguendo gli ordini, in caso contrario non avrebbe gradito avventurarsi con lui in un fitto bosco per sventare agguati. Lo fissava più di quanto avrebbe voluto, attraverso la luce soffusa dell'imbrunire il viso di Campbell risultava indurito e scalfito dalle cicatrici; era triste e provato dalla sofferenza. Le parve di scorgere maturità nel suo sguardo. L'esperienza di Alexander aveva segnato entrambi e ciò che feriva di più Gwendoline era la certezza che non avrebbe più colto dolcezza nei suoi occhi. Avrebbe voluto domandargli tanti dettagli per consentirgli di sfogare le sue pene e convincersi che il suo compagno di addestramento avesse ancora l'anima pulita. Una tale esperienza avrebbe trasformato chiunque, ma lei non riusciva ad accettare che avesse cambiato l'unica persona cara che l'avesse affiancata nei giorni più difficili della sua vita. Non l'aveva abbandonata quando le era mancato il padre, era stata la sua unica salvezza. Non riusciva a capacitarsi come un uomo che le aveva dimostrato così tanto, avesse ceduto infine al male.
Gwendoline era zoppicante senza la sua stampella, ma cercò di dissimulare, non desiderava che lui la sfiorasse per sostenerla fisicamente. Era convinta che Alexander avesse colto le sue difficoltà e avesse rispettato le sue volontà. Ebbe il sincero impulso di rivelargli quanto le fosse mancato, quanto fosse stata preoccupata per lui, quanto lo amasse anche con il rischio di essere respinta da lui. Non l'aveva mai intimorita a tal punto, si erano sempre scambiati pareri, avevano sempre collaborato nel corso degli addestramenti, avevano una buona affinità. La giovane recluta sentiva che la fiducia tra loro aveva subíto un colpo e non era ciò che aveva sempre sperato per loro. Rivolgersi a lui equivaleva discutere, aveva perciò mantenuto il silenzio e non aveva lasciato che lui la riempisse di giustificazioni a cui lei avrebbe rischiato di cedere in nome di un sentimento represso.
Gwendoline procedeva a debita distanza dal soldato. Notò che Alexander aumentava i metri tra loro, soprattutto in lunghezza per riuscire ad essere sempre qualche passo avanti a lei; una mossa che lei interpretò come un tentativo per proteggerla in caso di pericolo, sperava tanto fosse una scelta intenzionale da parte sua. Le era mancato davvero, le era mancata la sua ombra su di sé. Era concentrata sull'incedere lento del compagno, quando un suo stesso passo la bloccò sul posto. Non osò muoversi, il piede non affondava nella terra umida, il suolo non era morbido. Scelse la prudenza, i segnali erano chiari anche per una recluta inesperta come lei.
«Alex?»
Abbassò qualsiasi barriera difensiva nei confronti del giovane, le ultime ore trascorse insieme tra diffidenza e delusione sembravano essersi dissolte. La mente era stata offuscata dalla preoccupazione, la voce era spezzata, Campbell avrebbe dovuto intuire che la ragazza non si trovasse in uno stato di quiete, ma la attribuì alle difficoltà nella loro comunicazione. Alexander si mostrò irritato, i suoi nervi erano al limite della sopportazione e il rapporto in bilico con lei non lo stava rasserenando. 
«Ti sei decisa a parlarmi?»
Il giovane si voltò verso Gwendoline con uno scatto, la trovò immobile e pensierosa. Ward abbassò gli occhi tesi sulle sue scarpe e il compagno eseguì il medesimo gesto spaventato. 
«Credo di non aver pestato un ramo»
La carnagione chiara della ragazza perse qualche gradazione di colore e lui ebbe la stessa reazione.
«Calma»
Alexander la ammonì con le mani di non compiere movimenti bruschi. Si avvicinò a lei con cautela, non avevano previsto che potessero incorrere in qualche mina ben appostata. Furono vani i tentativi di Gwendoline di dissuaderlo negando con il capo, lui si era abbassato sulle caviglie per scrutare da vicino l'arma che teneva in ostaggio la recluta. Temeva che rimanesse ferito insieme a lei, ma non poté fare altro che mantenere alta la concentrazione per evitare di innescare il meccanismo e coinvolgere entrambi. Alexander, dal canto suo, non sembrava porsi il problema sul rischio che stava sfidando. Estrasse un coltello militare da un taschino della giacca della divisa e con delicatezza senza esercitare pressione spostò la terra che gli impediva una buona visuale.
«Non mi risulta tu sia un artificiere»
Non lo era, ma si sentiva dannatamente in colpa per essere lui al suo fianco e non il capitano che avrebbe saputo come aiutarla. In quelle condizioni avrebbe solo potuto condividere il destino di Gwendoline ed era una magra consolazione. Campbell recuperò la ricetrasmittente e ammise la sua incapacità nel provare a disinnescare un qualsiasi ordigno.
«Tenente Richardson, mi sente?»
Passò solo il tempo di un singolo e fugace pensiero, Christian aveva avviato subito la comunicazione. 
«Forte e chiaro. Vieni avanti, Campbell»
«Abbiamo un problema, Gwendoline è rimasta bloccata su una mina antiuomo. Sa come renderla innocua senza danni?»
Alexander rivolse un'occhiata complice in direzione del cielo lasciando intendere a lei che l'unica perdita di cui gli importasse davvero era la vita della ragazza. Era intenzionato a colmare le sue mancanze, cancellare il dolore che le aveva inferto, era consapevole di quanta sofferenza provasse già; per tenere fede al suo impegno però doveva concedere un futuro ad entrambi. Era tutto nelle sue mani sotto la guida del marine.
Il silenzio della sera inquietava, era quasi fastidioso. Intravedeva a malapena Gwendoline nell'oscurità, il fascio di luce proveniente dalla torcia rischiarava l'espressione tesa della ragazza.
Christian si era concesso qualche secondo per riflettere e reagire in modo lucido alla notizia.
«Campbell, devi rendere visibile con cautela la mina. Sposta tutta la terra che puoi. Non fare pressione per alcun motivo»
Il tono del seal era impaziente, ma Alexander provò ad ignorare l'urgenza che gli stava imponendo il superiore. Tolse con le dita i residui di sottobosco accanto agli ingranaggi; aveva rivelato l'ordigno in minima parte per il timore che potesse esplodere in anticipo. Fu costretto a slacciare qualche bottone della divisa per consentire all'aria di settembre di rinfrescarlo e di asciugare il sudore. 
«Capitano. Cosa faccio ora?»
Sentì il tenente sospirare, consapevole dell'ardua impresa che i due giovani erano chiamati ad intraprendere. Era preoccupato per loro, dalla base si sentiva impotente.
«Capitano»
«Serve qualcosa che sostituisca Gwendoline e che abbia un peso non inferiore ai quaranta chili»
Alexander scrutò con urgenza l'ambiente circostante, ma non trovò qualcosa che corrispondesse ai parametri. Quando tornò con lo sguardo sulla ragazza, la fissò illuminato e dispiaciuto. Lei aveva capito, le stava comunicando quel senso di protezione che le era mancato per mesi, ma non poteva accettare un simile sacrificio. Ignorò le silenziose suppliche della compagna e si rivolse al superiore con stoicismo. 
«Nei paraggi solo io peso più di quaranta chili. Quante possibilità ho di riuscire a sostituirmi a lei?»
«Non più del venti percento. Vi mando subito un artificiere, Alexander non muoverti» 
Christian si mostrò nervoso e Gwendoline condivideva lo stato del marine, entrambi sapevano che era escluso qualsiasi tentativo di persuadere il giovane. Si trovava su una mina innescata, ma le era ancora consentito ribellarsi. Era disperata e non le rimase che rompere il silenzio di quella radura sfogando tutto il suo dolore.
«Alex, no!»
«Non mi ucciderà, al massimo rimedio una ferita, ne ho tante»
Cercò di sorriderle, sminuì il carico esplosivo della mina. Non era un artificiere, ma sapeva riconosce un ordigno che avrebbe potuto al massimo recidere un arto, poca cosa a confronto della vita di Gwendoline. Si alzò dalla sua posizione accovacciata senza smettere di tranquillizzarla mantenendo in viso un'espressione rilassata. Nei momenti peggiori perdeva le parole davanti a lei, proprio come quando mesi prima si era ostinato a portare a termine la sua missione per liberare l'ospedale. Quella sera era diverso, non avrebbe commesso alcun errore di calcolo, sarebbe riuscito a portarla in salvo.
«Alex, io non voglio. Ascolta il capitano, per una volta dà retta a chi ne sa più di te!»
Era scettica. Tentò a dissuaderlo con sussurri carichi di disperazione; cercò di mantenere un contegno per restare immobile, ma iniziava ad incolpare la sua stupidità per aver creato una situazione simile, se fosse rimasta accanto al suo braccio non sarebbe mai successo. Il tenente le aveva ripetuto spesso di essere meno impulsiva ed ora pagava insieme al compagno il prezzo della sua imprudenza. Era certa che Alexander cercasse il modo di ottenere il suo perdono, ma la verità era che non le doveva alcuna spiegazione, loro in fondo erano niente.
«Neanche io voglio che tu sia in pericolo»
Le fece cenno di allungare le mani per coordinare meglio lo spostamento dei due in contemporanea. Gwendoline non lo fece e tentò un'ultima azione ribelle. 
«Alexander, io ti amo!»
La fissò quasi stranito e contrariato sul momento inopportuno che aveva scelto per confidargli i suoi sentimenti. Non aveva mai nemmeno sospettato che lei potesse ricambiarlo, la rivelazione non lo aveva reso insicuro sul da farsi, ma lo distrusse. Fu il tenente a riportare l'attenzione del giovane sull'importanza del suo successo.
«Ragazzi, siete ancora lì? State bene?»
«S-sì, capitano. Procedo, non posso aspettare il suo artificiere, sta diventando troppo rischio per Gwen»
Gli offrì una ragione in più per salvarla, non per tirarsi indietro. Lasciò scivolare la radio tra le sterpaglie, la accompagn
ò a pochi centimetri da terra per essere certo che uno spostamento d'aria non compromettesse l'equilibrio precario della mina. Non attese che fosse lei ad afferrargli le mani, la costrinse senza dimenticare di essere delicato. Ignorò il respiro pesante di Gwendoline, era impegnata a trattenere uno sfogo. Lo vide poggiare un piede accanto al suo, si sfiorarono. Le diede un leggero strattone per allontanarla, ma fu in quel momento che udirono un rumore inquietante sotto le loro suole. La ragazza chiuse gli occhi, non era intenzionata a muoversi e ad abbandonarlo al suo destino, fu lui a spostarla di peso accanto alla sua schiena per provare a farle da scudo.
Nei secondi successivi non si innescò alcuna esplosione. Alexander prese la coraggiosa iniziativa di sollevare il piede, anche se era certo che l'allarme non fosse rientrato.
«Andiamo via»
Serio e preoccupato, recuperò la ricetrasmittente per avvisare subito il tenente in caso di scampato pericolo e afferrò il braccio di Gwendoline per trascinarla via il prima possibile. Fecero un centinaio di metri in rigoroso silenzio. Solo quando fu sicuro di essere a debita distanza dalla fonte di pericolo le concesse di procedere da sola, senza una guida che la conducesse fisicamente e le dettasse il ritmo dei passi. 
«Ho colto bene? Hai detto che mi ami?»
La lasciò libera di spostarsi lontano, ma lui si piantò al suolo e non si mosse, decise che era giunto il momento di parlare. Aveva avuto prova di quanto fosse effimera la loro vita, ogni istante di respiro al fronte poteva rivelarsi un'occasione persa.
«Può essere che per paura mi sia scappato. Volevo fermarti e non sapevo in quale altro modo riuscirci»
Gli stava mentendo e ne erano certi entrambi. 
«Ti è scappato?? Lo pensi o non lo pensi?»
«Lo pensavo. Ora non so più se voglio amare un uomo che non sa prendere la decisione giusta»
Riconosceva la verità dietro le sue parole. Era stata spietata e sincera. Senza lei accanto aveva optato per scelte opinabili. Gwendoline non immaginava quanto avesse bisogno di lei, almeno tanto quanto lei di lui. Sentiva di averla persa prima di poter rivendicare tra loro un qualsiasi legame sentimentale. La situazione non migliorerò nemmeno dopo aver rischiato la vita insieme, lei prese la via in solitudine, portando avanti il suo turno di ronda esattamente come lo avevano iniziato. Udirono in lontananza lo scoppio della mina, erano stati fortunati, qualcosa doveva essersi inceppato nel meccanismo e la dea bendata aveva girato il volto dalla loro parte. Gwendoline si era accertata con uno sguardo che Alexander stesse bene, associò l'esplosione ad un pericolo, ma non prese in considerazione la distanza di sicurezza tra loro e l'ordigno.
L'udito fine del giovane gli consentì di percepire altre presenze umane, passi che procedevano nella loro direzione. Ancora una volta le afferrò il polso contro la sua volontà, la appiattì tra sé e un tronco di grandi dimensioni per nasconderla. Da quella posizione Gwendoline scorse più nitide le cicatrici del ragazzo grazie al favore dell'influsso lunare; le vide quasi pulsare come se sfogassero e custodissero un tragico vissuto. Ebbe l'istinto di accarezzarlo, ma si trattenne. Fu lui a cullarla con un respiro caldo e agitato che a quella distanza tra loro le sfiorava viso e collo. Alexander era concentrato sui movimenti che udiva oltre il platano, non la stava degnando di uno sguardo, ma lei non smise si fissarlo. Lo vide imbracciare il fucile già carico e pronto all'uso.
«Cosa fai?»
«Mi preparo»
L'uomo che conosceva non avrebbe ostentato sangue freddo, avrebbe trovato una via di fuga e insieme avrebbero cercato un riparo da occhi a loro sconosciuti. Non erano più sullo stesso piano, solo lei era rimasta una recluta inesperta. Semmai la corte marziale avesse lasciato cadere le accuse contro di lui, era certa lo avrebbero premiato con qualche grado e Gwendoline non poteva esserne orgogliosa, non lo riconosceva più. Lo vide puntare l'arma contro il buio, non sparò solo perché i passi sospetti si udivano sempre più lontani, ma era stato nelle sue più sincere intenzioni premere il grilletto. Non era quella la protezione che cercava da lui. Alexander tornò a concentrarsi su di lei e lesse una chiara delusione. 
«Tutto bene?»
La vide smarrita e non poté evitare di porgerle un bacio sulla fronte. 
 
Los Angeles, 23 settembre 2018
 
Delilah era - contro ogni previsione - seduta accanto a Nathan. L'avvocato aveva invitato a casa loro la moglie per una consulenza professionale, ma aveva messo in conto che ci fossero alte probabilità che lei rifiutasse. Aveva avuto poca fede nella sua persona, ma le aveva chiesto aiuto ed era corsa, nonostante il luogo dell'incontro l'avesse lasciata contrariata. 
Nathan le aveva offerto un caffè, si era accomodata dove erano soliti accogliere gli ospiti. Lei era ancora la legittima padrona, il fatto che non desiderasse più esserla non poneva in discussione un dato di fatto. Le dedicò attenzione, si premurò che si sentisse a suo agio. 
Aveva cercato il fidato contributo della donna con la quale aveva condiviso buona parte della vita come era solito fare, sapeva di poter contare sulla sua discrezione e sulle sue competenze scientifiche. La dottoressa non si era opposta, benché portasse sul volto i segni un periodo non proprio brillante. Nathan ebbe svariate volte la tentazione di domandarle come stesse; si trattenne per il timore di mostrarle una confidenza indesiderata.
L'avvocato avrebbe dovuto concentrarsi sul caso che aveva tra le mani e per il quale l'aveva convocata, eppure non poteva fare a meno di scrutarla mentre era impegnata a decifrare in modo molto professionale i referti medici che lui stesso le aveva fornito. Non era sicuro che avrebbe trovato qualcosa di interessante, ma non sapeva da dove iniziare se non dalla documentazione che gli era stata resa disponibile dalle autorità di San Diego, dove si sarebbe tenuto il processo. Avrebbe dovuto declinare una questione aperta da ventitré anni; i nuovi elementi emersi non erano una garanzia di successo e una prova era il tempo che stava impiegando Delilah ad esaminarli. Avevano a disposizione un intero relitto precipitato in acque continentali, corpi irriconoscibili se non da oggetti personali corrosi dalla salsedine e un affare mediatico che era giunto dall'altra parte del Paese grazie al Los Angeles Times[2] e che Nathan non era certo di riuscire a reggere mentalmente. Eppure la vicinanza della moglie, anche se sporadica, gli stava offrendo nuove energie e la certezza di riscoprire la grinta di un tempo. La prima udienza dalla riapertura del caso era ancora lontana, ma non voleva farsi trovare impreparato nel ruolo dell'accusa in favore della parte offesa. Voleva vincere e riscoprire fiducia nelle sue capacità, ultimamente si era affievolita.
Nathan continuò a fissare la donna concentrata a sfogliare il plico di fogli redatto dal medico legale che aveva coordinato le autopsie sotto la giurisdizione della città di San Diego. Delilah si era accomodata in prossimità del bracciolo del divano opposto al suo, un dettaglio che a lui non sfuggì e ciò gli provocò dispiacere, pur certo che potesse essere stato un gesto non voluto, le concesse il beneficio del dubbio.
«Come sta tuo padre?»
«Un po' meglio, ma deve sottoporsi a cure specifiche se vuole essere certo di invecchiare»
Era seria, ma sul suo viso non vi era più l'ombra del cedimento a cui aveva assistito al St. Vincent Medical Center. Per anni era stata per lui una garanzia di tenacia. Era difficile credere che non percepisse lo sguardo del marito su di sé, lo ignorava con discrezione, ma Nathan non riusciva ad essere altrettanto discreto, le mura di casa avevano assunto nuove sfumature da quando lei era tornata, seppure per un casuale frangente. Si maledisse, forse aveva sbagliato a domandarle aiuto; aveva ragione lei, qualche tempo lontani li avrebbe aiutati ad intraprendere strade diverse. Più la figura di sua moglie gli attraversava gli occhi, più era certo di non riuscire a lasciarla andare, a vederla sparire dalla sua vita. Avrebbe potuto risparmiare ad entrambi il momento che stavano vivendo in quell'abitazione tra ricordi vissuti e mancati, tra lacrime e sorrisi. Avrebbe voluto lo avesse rimproverato, non che accettasse di correre in suo soccorso; avrebbe preferito si fosse imposta e gli avesse dato appuntamento solo in sede in divorzio, un ostacolo che avrebbe devastato entrambi.
Delilah si convinse a posare gli occhi su di lui disincantando la mente dai referti.
«È esattamente come lo ricordi, non sono riuscita a cambiare il suo cuore come avrei voluto. Però riusciamo a comunicare ed è già qualcosa»
Gli accennò un sorriso compiaciuto, da cui l'avvocato dovette spezzare lo sguardo per non restarne ammaliato.
«Mi fa piacere saperlo»
«Allora, Nathe. Cosa cerchi di preciso tra questi referti?»
«Un movente. Una causa per lo schianto dell'aereo»
«Pensi sia stata una responsabilità dei piloti?»
«Non lo so, cerco solo di trovare una qualsiasi spiegazione»
A Delilah non sfuggì la nota malinconica nella sua voce. Aveva preservato sensibilità, era certa fosse rivolta alla natura del caso e non alle sue difficoltà professionali. Era inevitabile per l'avvocato lasciarsi coinvolgere in simili tragedie. La contagiò, la donna assorbì il suo stesso umore, argomenti tristi non avrebbero potuto distendere la nebbia di tensione tra loro.
«Certo, è il tuo lavoro. Dunque, sono passati molti anni e i corpi non si sono conservati nel migliore dei modi a metri di profondità sui fondali, quindi è stata esclusa l'attendibilità di molti esami autoptici. Hanno trovato sabbia e alghe sugli abiti, lesioni traumatiche post mortali, morsicature di animali acquatici, macerazione e saponificazione»
«Delilah, non sono un medico, me lo puoi spiegare in parole povere?»
«Nathe, se l'aereo è precipitato nell'oceano, queste persone possono solo essere spirate per asfissia acuta e conseguente arresto cardiaco»
Glielo disse con ovvietà, convinta che anche un avvocato con studi diversi potesse giungere a quella considerazione. Il marito viveva di speranze, ma la realtà era scritta nero su bianco ed era incontrovertibile, oltre ad essere molto dolorosa per un legale a cui servivano disperatamente elementi di accusa.
«Accenna allo stato di salute dei piloti?»
Non ebbe il coraggio di ricordargli quanto non fosse rimasto più molto degli esseri umani che erano stati, la morte aveva cancellato le tracce del loro passato e i medici non avevano il potere di creare organi e tessuti da analizzare. Delilah gli riservò un'espressione dispiaciuta, a cui lui rispose con una buona reazione, nonostante l'evidente svantaggio. L'uomo le allungò un foglio, ulteriori prove che provenivano da indagini della scientifica. La dottoressa Clark intravide un nome di persona, la denominazione di un medicinale familiare e la foto dello stesso.
«Il comandante Ashton Hall aveva in tasca questi farmaci. Erano nel suo sangue al momento del decesso, secondo te?»
Si concesse qualche istante per riflettere, conosceva bene le loro proprietà, ma gli stava fornendo solo responsi negativi che non sarebbero stati utili all'avvocato. Le dispiacque sconfortarlo, più di quanto non fosse già.
«Non possiamo conoscere le abitudini del pilota sulla base delle analisi. Dovresti contattare qualcuno che fosse nella sua cerchia più intima di conoscenze»
«A cosa servono?»
«Sono benzodiazepine, più comunemente noti come ansiolitici assunti per via orale, ma è difficile dire se ne abbia abusato»
«Potrebbero aver influenzato le sue facoltà di volo?»
«Non credo, qualcuno se ne sarebbe accorto in tempo su un aereo di linea»
Delilah rimase impotente davanti al marito. Lo vide coprire il volto con le mani in evidente stato di sconsolazione, lo udì sbuffare contro i palmi. Era deluso da se stesso.
«Non è la strada giusta»
«Mi dispiace, Nathan»
«Tu non hai colpe»
«Mi hai chiesto aiuto, posso provare a dare un'occhiata più attenta se mi concedi qualche giorno»
«Ti ringrazio, non riesco a concentrarmi come vorrei»
«Va male in tribunale?»
«Va tutto male da quando ci siamo lasciati»
Il botta e risposta con la moglie lo confuse a tal punto da osare confidenze che aveva giurato di trattenere nella mente il più a lungo possibile. Mortificato, posò i gomiti sulle ginocchia e stropicciò le palpebre con indice e pollice. Perdere lucidità non era nel suo stile, non avrebbe giovato né al ruolo di avvocato né alla sua vita privata.
«Mi dispiace, mi ero ripromesso di non tornare sull'argomento con te»
Tentò di giustificarsi per evitare che lei scappasse. Non era un rischio così remoto, vi era la grossa possibilità di infastidirla e lei non avrebbe retto un minuto in più al suo fianco, confermando la tesi che non fossero pronti ad intraprendere una sincera amicizia.
«Non preoccuparti e mi dispiace che la fine della nostra relazione abbia inciso sulla tua carriera. Speravo tanto che il tuo nome brillasse di più nell'albo degli avvocati»
Le sorrise sarcastico, cercò di tenere a freno i pensieri, ma gli risultò particolarmente difficile non difendersi dal colpo che la moglie gli aveva assestato. Non avevano mai desiderato che il loro divorzio si trasformasse in una battaglia, avevano lasciato scivolare le accuse del coniuge comprendendole, ma senza alcuna condivisione. Delilah definiva spesso loro stessi incompatibili, ma Nathan era certo fosse solo una scusa dietro cui ripararsi per rendere meno dolorosa e più naturale la loro separazione. Con il beneplacito di entrambi avevano abolito le discussioni tra loro, riuscivano a fermarsi sempre un minuto prima che esse sfuggissero al controllo. Era un grande segno di maturità per due giovani sposi che non intendevano infierire l'uno sull'altra, anzi allontanarsi sarebbe dovuto rappresentare un bene per la vita di entrambi.
«Delilah, voglio solo che tu sappia che ero felice e se ti ho dato ragione di credere il contrario, è stato un errore mio»
Si portò una mano al petto per accentuare i sensi di colpa che nutriva nei suoi confronti. Dopo aver provato il vuoto lasciato dalla moglie nelle sue giornate, ebbe la prova concreta di aver perso una parte della sua serenità, la stessa che gli consentiva di svolgere con raziocinio ogni mansione quotidiana. Delilah ricambiò lo sguardo dell'uomo, ma fu la reazione di un istante in cui si nutrì di tutte le energie positive che quel frangente ormai raro le infuse. Posò subito dopo la vista altrove, ricoprendo i panni della dottoressa Clark, benché ultimamente anche quella obiettiva posizione fosse stata macchiata da dolorose questioni personali.
«Mi stanno aspettando in ospedale, ho in programma una visita importante con un paziente»
«Certo, grazie per la disponibilità»
«Non ho potuto fare molto, ma ci rifletto»
Si sforzò di essere cordiale e di ignorare la noncuranza con la quale la moglie aveva evitato un argomento scomodo; in fondo era stata chiara, non voleva più parlarne, Nathan stava solo rispettando un volere infraintendibile. 
La donna si alzò e recuperò la sua borsa. Non ebbe bisogno che lui la accompagnasse alla porta, ma la tentazione di voltarsi un'ultima volta verso le mura che aveva chiamato casa per almeno dieci anni vinse sui tormenti. Non riusciva a prevedere cosa sarebbe successo dopo che la penna avrebbe apposto la sua firma sulle carte del divorzio, non sapeva quale destino sarebbe spettato alla loro abitazione, in fondo era di entrambi ed entrambi avrebbero dovuto prendere una decisione. Sarebbe stato il momento più doloroso, quello che avrebbe posto fine ad una porzione indimenticabile della sua vita ed era ingenua a credere che potesse scappare da essa. Tutto si sarebbe sgretolato dopo quel fatidico giorno, esattamente come ogni cosa era fiorita nel giorno delle loro nozze. Ebbe la tentazione di domandare al marito se le pratiche di divorzio si fossero sbloccate, ma non trovò l'enfasi giusta. Preferì soffermarsi sui dettagli della casa che forse non avrebbe più avuto modo di osservare così composti, posizionati negli angoli che avevano concordato insieme.
«È tutto come lo hai lasciato»
Sembrava leggerle nella mente come il più attento dei compagni, come il padre mancato che avrebbe voluto essere, come l'avvocato che non difendeva mai chi era nel torto, gli occhi dei suoi assistiti erano una prova inconfutabile per selezionare i suoi clienti.
«Anche tu? Sei rimasto come ti ho lasciato?»
«Intendi un uomo solo e disperato che non fa altro che pensare a come salvare il proprio matrimonio prima che venga ufficializzato il divorzio? Ma tu non farci caso»
Le rispose con dolcezza.  La dottoressa alluse ad una compagnia esterna al loro rapporto, ma la risposta del marito le fu sufficiente. 
«Devi vincere quel processo, ho letto in redazione da mio padre che sono morte tante persone e meritano giustizia. Hai molte responsabilità, ma io credo in te»
Non stava offrendo al consorte la possibilità di replica, aveva spalancato la porta con urgenza, quando lui la richiamò alzandosi in piedi per incentivare la sua supplichevole richiesta.
«Delilah! Se io ti dimostrassi che il nostro rapporto può ancora funzionare, tu mi concederesti una seconda possibilità?»
Si mostrò speranzoso, le iridi color tenebra luccicavano. Se non fosse stato tanto doloroso deciderlo Delilah avrebbe quasi sorriso davanti ad un evento di cui lui, era certa, non si stesse nemmeno accorgendo. Le sarebbe mancata più di tutto la sua semplicità. Dovette prendere un respiro per formulare una frase di senso logico, per non lasciare che la sofferenza incontrasse la commozione e si sfogasse in lei in un manifestarsi di sfoghi umorali confusi.
«Avvocato Rogers, conserva le tue energie per il caso che ti è stato affidato. Temo non si possa salvare ciò che eravamo anni fa»
«Sei una eccellente cardiologa, come puoi dirlo? Tu salvi tutti»
La elogiava con sincerità ed orgoglio. 
«Appunto, Nathan, e so che ci siamo spezzati il cuore. Non mi sembra il caso di infierire, conserviamo una parte della nostra anima per il futuro che ci attende»
Lo disse con rassegnazione, senza rabbia. Troncò il fiato a Nathan facendo scattare la serratura con decisione. Le mura si svuotarono all'istante di buone speranze. Aveva portato con sé ottimismo, ma senza di lei era sparito di nuovo tutto. Non riuscì più a concentrarsi sul lavoro, i pensieri lo bloccavano sulla sua vita privata, sul matrimonio e su ciò che potesse ancora recuperare. Negli ultimi giorni era sempre più viva l'idea di opporsi alle intenzioni della moglie. Era quasi certo che avrebbe perso il processo contro Delilah, non che avesse prove schiaccianti a suo sfavore, ma non poteva costringerla al suo fianco.
Avrebbe solo voluto tornare indietro nel tempo, non lasciare che si deteriorasse tutto. Avrebbe voluto comprendere prima il disagio della donna che continuava ad amare. Avrebbe voluto non domandarle alcun sacrificio. Sembrava troppo tardi per riavvolgere il nastro dei suoi sbagli.
 
Ciao, cari lettori e care lettrici!
Spero sia risultato credibile questo capitolo. È stato complesso scriverlo dal punto di vista narrativo, si sono incrociate tante ricerche su più fronti. Chiedo scusa nel caso qualche lettore più esperto di me riscontri imprecisioni, ho cercato di passare in rassegna le notizie più attendibili a riguardo.
Continuo a lasciare aperti molti interrogativi su Delilah e Nathan, ne sono consapevole, ma non è ancora giunto il momento opportuno per rivelarli.
Per le altre questioni, ammetto di aver sempre lasciato in bilico anche il rapporto tra Gwendoline e Alexander, di proposito non ho voluto sbilanciarmi troppo sul legame che li unisce, in questa occasione dovrebbe essere un po' più chiaro, ma conto di riprendere in mano il percorso che ha portato entrambi in Afghanistan e quindi anche quanto sono stati coinvolti nel loro rapporto. 
Su ciò che accadrà dovrei aver gettato qualche importante spunto e prevedo un po' di movimento nei prossimi capitoli. 
Vi ringrazio come sempre di cuore per continuare ad accompagnarmi in questo viaggio, siete l'anima di questa storia ♡
Spero a presto!
Un abbraccio 
-Vale
 
[1] Abito, solitamente di colore nero o blu, che copre sia la testa sia il corpo. All'altezza degli occhi può anche essere posta una retina che permette di vedere parzialmente senza scoprire gli occhi della donna.
[2] Il giornale di San Diego è un inserto del Los Angeles Times da febbraio 2018.
 

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Capitolo 30
*** Capitolo 29_L'innocenza dei tempi che furono ***


L'innocenza dei tempi che furono 




 
Milat Super Speciality Hospital - Kabul, 23 settembre 2018
 
Era essenziale riuscire a comunicare con i militanti appostati alle porte del nosocomio. Karim era l'unico interprete disponibile per Christian, mentre il soldato era il solo americano che avrebbe potuto tentare un approccio diplomatico con i talebani; Beatriz sarebbe stata tenuta ad uno scalpitante silenzio oltre i tenebrosi veli del burqa. Al comandante dell'unità era stato assegnato l'importante compito della difesa, in caso di un eventuale attacco.
Per la seconda volta nell'arco di una manciata di giorni, Christian era in procinto di svestire abiti che erano diventati parte integrante della sua personalità fin dalla tarda adolescenza per indossare stoffe di un Paese lontano, ma tassello dell'anima di coloro che si prodigavano a renderlo un luogo vivibile. Si era accorto di ricordare ben poco della lingua afghana, gli anni di pace trascorsi accanto alla sua famiglia avevano assopito dolore e successi della precedente esperienza bellica. Il dottore del luogo gli aveva offerto speranze e gratitudine. Secondo Karim scorreva nel capitano Richardson il potenziale per riuscire ad ingannare i nemici: la carnagione olivastra richiamava i popoli d'Oriente, una buona predisposizione all'apprendimento insieme ad una notevole memoria lo avrebbero trasformato in un convincente natìo agli occhi degli spietati talebani. Dopo il drammatico episodio che Maryam era stata costretta a subire, Karim non nutriva particolare fiducia negli uomini in divisa, ma in presenza di Christian non provava diffidenza, si era dimostrato un fedele amico di Samuel, un americano buono e coraggioso.
La sola scossa efficace per superare l'oblio di una missione intentata era la tenacia congiunta alle conquiste di un eventuale successo. Christian non negava a se stesso di nutrire timore, lo mal celava, ma la donna che percorreva al suo fianco le strade del centro di Kabul non avrebbe comunque potuto coglierlo, era concentrata su altro, sulle vetrate smeraldine dell'università che riflettevano un sole alto incorniciato da un cielo limpido. Sulla facciata frontale del Campus di Kardan spiccavano i volti di due giovani studenti afghani - un ragazzo e una ragazza - sorridenti; due ricercatori fiduciosi nelle pari opportunità che quel luogo offriva loro. Il gentile tocco di Christian sul braccio la invitò a proseguire; il capitano aveva intuito l'oggetto dei pensieri della compagna di guerra, proprio per quella ragione stavano combattendo, lottavano per una missione umanitaria, le armi erano solo un mezzo non da tutti apprezzato. Esportare uguaglianza in Oriente era fra gli obiettivi degli occidentali. 
Il comandante Reyes aveva insistito affinché non si trovassero del tutto privi di una copertura, era suo dovere abbassare al minimo i rischi che avrebbero potuto correre, in caso contrario il consolato non sarebbe stato transigente. Gli elicotteri americani sorvolavano il cielo della città, senza tuttavia attirare l'attenzione dei cittadini, abituati ad un persistente traffico aereo ormai da decenni. Christian sapeva che su uno di quei velivoli Gwendoline manteneva con destrezza il controllo del mezzo, per quanto lei non avesse altrettanta fiducia nelle sue abilità; era stata lei stessa ad insistere, non avrebbe voluto assistere dalla base, sia che fosse stata una sconfitta sia una vittoria. Il perimetro del nosocomio era circondato da fuoco amico ben celato. Erano così riusciti a trovare un equilibrio tra pace e sicurezza, spettava al tenente Richardson dimostrare se fosse anche un piano convincente.
I metri diminuivano, erano sempre più vicini al loro traguardo, ancora pochi passi e trovare nuove alternative sarebbe stato impossibile. Beatriz dava l'idea di essere sempre meno convinta, ma l'azzardo di Christian era solo in parte la causa. Il tenente si bloccò non appena smise di avvertire il fruscio dell'abito del comandante al suo fianco. Nelle avvolgenti stoffe locali, la donna era del tutto irriconoscibile, aveva perso qualsiasi tratto dell'Arma occidentale; i lineamenti erano inesistenti, forme e colori annullati, l'unica tonalità era una macchia informe e scura che la copriva dalla testa fin sotto le suole. Beatriz forse non si accorgeva di aver perso persino la postura fiera del militare; era un'evidente oppressione psicologica che schiacciava persino un orgoglioso seal dell'esercito americano. Christian comprese le titubanze della collega, il disagio era palpabile nell'atmosfera; si premurò di chiederle come stesse, era arduo affrontare una missione moralmente abbattuta.
«Cos'hai?»
L'uomo scrutò gli occhi sinceri e imbevuti di lacrime attraverso la retina trasparente del burqa. Lo fissava nella speranza che cogliesse i suoi pensieri, anche se lui non avrebbe mai potuto conoscere i suoi tormenti. Era fuori tempo parlarne in quel contesto, al limite di un'azione di guerra che Christian aveva trasformato in un delicato cammino diplomatico. Beatriz scorgeva lo sguardo contrito dell'uomo, era sempre stato attento e premuroso, lo era stato fino al momento in cui le loro strade si divisero.
«Da quando è nato mio figlio, fatico a mantenere la calma in guerra. Se dovessi morire, ci rimetterebbe lui. È poco più che un bambino, per quanto suo padre non lo capisca ha ancora bisogno di me»
Aveva espresso pensieri scollegati appartenenti ad un contesto di cui Christian era all'oscuro. Riuscì solo ad empatizzare con il suo ruolo di madre, erano entrambi genitori e in quanto tali mancanze e timori erano identici lontani da casa. Non si premurò di approfondire la questione, le tese la mano e la invitò ad afferrarla.
«Beatriz, ti prometto che oggi andrà tutto bene»
Era sicuro di non sbagliarsi, era certo di trovare la soluzione prima di ricorrere alla violenza, alternativa che in qualche modo lei non aveva comunque escluso. Lo promise al suo comandante e a se stesso con convinzione. Aveva il dovere di far funzionare quella missione, di cui era il principale responsabile e mai avrebbe osato addossare a lei qualche colpa. 
Condividevano più di quanto avrebbe immaginato, l'amore per un figlio poteva essere capito solo da chi era padre o madre, da coloro che lo erano in coscienza. La sentì vicina come mai prima di allora, anche se in passato erano stati così prossimi da diventare un solo corpo. Le sorrise, era stato bello incontrarla a distanza di anni e condividere con lei nuove e diverse esperienze.  
Con dolcezza, la convinse ad afferrare il suo braccio e a proseguire. Le poche anime che percorrevano le vie della città nei dintorni dell'ospedale ignoravano il loro passaggio, erano riusciti a camuffarsi efficacemente tra la folla assumendo le sembianze di due giovani coniugi afghani diretti verso le porte del nosocomio occupato. 
Un paio di talebani altrettanto giovani vigilavano sull'ingresso principale dell'ospedale. Quando i militari li videro, non si lasciarono intimorire. Christian accelerò il passo suggerendo anche a lei il ritmo, dovevano simulare un'emergenza, all'interno di quelle mura bambini, donne e uomini avevano davvero urgenza di uscire; dovevano essere sfiniti, amareggiati, prossimi alla resa dopo mesi. Gli uomini armati imbracciarono i loro kalashnikov, si sentirono minacciati dalle figure sconosciute che si stavano avvicinando; non era così usuale che civili prendessero una simile spontanea decisione. Il seal non si identificò davanti a loro, ignorò le palesi minacce e tentò di simulare un dialogo in lingua afghana.
«Lei ha bisogno di assistenza»
Non spese molte parole per il timore di sbagliare, ma i due natii non furono convinti. Christian sottolineò l'urgenza delle condizioni della donna che aveva accanto, impiegò toni più concitati, ma la risposta fu tutt'altro che piacevole, ricevette un colpo ben assestato con il calcio dell'arma nella totale indifferenza dei passanti. L'afghano lo colpì all'altezza dell'orecchio privandolo del respiro per qualche istante. Il tenente avvertì la pressione di Beatriz sul suo braccio e rivoli di sangue caldo scendere lungo il collo. Non sapeva come si dicesse in afghano a cosa serviva una tale brutalità, si erano presentati con le migliori intenzioni e avevano scaturito comunque una reazione violenta. Ciò che i due talebani proferirono con disprezzo fu incomprensibile, li lasciarono passare e nonostante il dolore lancinante provato, il militare non si lasciò fermare alla prima difficoltà. Trascinò la compagna all'ingresso penetrando il varco concesso dalle guardie; preferì trattenere qualsiasi commento e lo stesso pensiero attraversò la mente di Beatriz che non smetteva di scrutare preoccupata la ferita di lui.
Non vennero lasciati soli, una delle due guardie li scortò minacciandoli di sparare alle loro spalle. Avevano previsto quel risvolto, ma erano riusciti ad entrare, era quello in fondo l'obiettivo principale. Nonostante l'udito leso, Christian avvertì il pianto e la sofferenza di coloro che si trovavano in quel luogo rimbombare fra le pareti candide. Era una cappa di nebbia scesa su loro e sulle emozioni che erano in grado di provare con sincerità, un campo di battaglia chiuso fra quattro mura. Erano entrati con il macigno di una grande suggestione, ma la verità non si discostava dall'immaginazione. Le urla squillanti furono i rumori più impressionanti per il seal, erano sottili e infantili, delicate e innocenti. L'uomo arrestò il passo cercando di comprendere da dove provenissero. La canna del kalashnikov contro la sua schiena non fu clemente, premeva con più ostinazione provocandogli una smorfia e costringendolo ad avanzare. Christian non sapeva dove li stesse scortando, strinse forte la mano di Beatriz contro il suo braccio per il timore che li separassero, anche se era certo che lei se la sarebbe ugualmente cavata. La presa della compagna su di sé era leggera, pronta all'azione in caso di necessità. Il tenente ebbe la sensazione di essere più al sicuro lui di quanto non lo fosse lei l'uno a fianco all'altra. Il velo oscuro mascherava una tenacia che solo al capitano era dato conoscere. Beatriz mostrava delicatezza unicamente nel premurarsi che la ferita del seal non peggiorasse, ma il portamento restava vigile, privo di compassione.
Giunsero nei pressi di una stanza dalle porte scorrevoli. Fu Christian ad aprirle per evitare di dover comunicare con il talebano che si trovava alle sue spalle, rischiando così che la loro identità potesse comprometterli ulteriormente. Il militare non seppe cosa aspettarsi. A prima vista non individuarono alcuna traccia di vita; i loro passi risuonarono su un pavimento spoglio, ad eccezione di un esiguo numero di macchinari medici stipati in un angolo e ormai in disuso. Beatriz indugiò a proseguire, alzò la stoffa del vestito, sotto le suole si delineavano chiazze scure sfumate da riflessi scarlatti. Dalle pareti proveniva un odore acre di umidità e violenza. Quel luogo avrebbe dovuto ispirare vita, rinascita, invece appariva come l'angolo adibito alle esecuzioni degli indegni. 
Le porte si richiusero dietro di loro con un boato che li fece sussultare.
«Sembra ti abbiano creduto»
Scrutò premurosa il taglio che sanguinava sopra il lobo del compagno. Avrebbe voluto medicarlo, ma non aveva modo di farlo.
«Ora sei tu ad avere bisogno di assistenza»
Christian negò distratto, alcuni rumori oltre la parete attirarono la sua attenzione, insieme a loro era presente altro di animato. Era scettico circa le buone intenzioni di quegli aguzzini, un agguato poteva celarsi ad ogni angolo e lui era disarmato per sua scelta convinta, ma non indugiò a scoprire di cosa si trattasse. Ciò che gli era parso di percepire equivaleva a terrore e non si era affatto sbagliato: scorse sguardi di civili emaciati in attesa di una libertà effimera anche all'aria aperta. Una finestra nella mente rese limpida e pericolosa la decisione, ma i rischi valevano il tentativo. Ridare dignità a persone private della volontà avrebbe ripagato la temerarietà. Un uomo, in apparente buona salute, fu il primo ad accorgersi di loro; li scrutò per un breve lasso di tempo, quanto bastò per scorgere le fattezze di Christian, le quali, con un occhio attento, erano ben lontane dalla popolazione afghana. Era impegnato in azioni che ricordavano una visita medica, non indossava il camice, l'aspetto era trasandato e il portamento sfinito, ma muoveva con abilità e attenzione lo stetoscopio sul corpicino di un neonato tra le braccia della madre accomodata contro la parete. Il piccolo non si lamentava, come se sapesse che il pianto avrebbe potuto porre fine alla sua fragile vita in quel luogo. Consapevole delle povere condizioni di assistenza in cui lavorava, il medico invece sentì il bisogno di sfogarsi. I nati da poche ore non potevano ricevere le cure adeguate, lui poteva solo donare la vita, ma non era sufficiente se non veniva preservata. I due soldati riconobbero in lui un connazionale, Beatriz non ebbe il timore di uscire allo scoperto, lo aiutò ad identificarli liberandosi grata del burqa e mostrando la sua divisa militare. Erano sorti i presupposti per un dialogo tra loro che non fosse basato sull'odio.
«Siete americani?»
«Siamo ufficiali di Marina»
Un moto di sollievo percorse il medico. Erano volti sconosciuti, ma amici per natura. Nella delicata arena in cui si trovavano, il nemico era fuori dalla loro cerchia, erano estranei ed alleati, nulla che fosse strano in guerra. L'uomo era disilluso, non ripose complete speranze nei nuovi arrivati, la sua propensione al prossimo fu più forte; scorse il sangue grondare dalla ferita del marine, l'istinto gli suggerì di riporre gli strumenti del mestiere e di avvicinarsi di qualche passo ai soldati. 
«Sono il dottor Smith e lei è ferito»
Christian si ostinò a negare con il capo spostando l'attenzione da sé e dalla gravità della lesione che gli avevano procurato. Non era lui a patire e a soffrire, non era lui ad essere privato di cure accettabili da mesi. Dalla prospettiva del seal, le condizioni di quelle persone erano inumane e l'espressione rassegnata del medico rivelava più di quanto avrebbe potuto esprimere a parole.
Il dottore accarezzò il polso del neonato e forzò un sorriso verso la madre che lo stringeva al petto come se fosse il bene più prezioso, se non l'unica vita a cui aggrapparsi fuori dall'ospedale. Non poteva intervenire in altro modo, solo limitarsi a monitorare i parametri vitali dei suoi pazienti; i bambini rischiavano molto in quelle condizioni di incertezza, senza garanzia di nutrimento e di pace, restava solo l'affetto di una madre sfinita ed essa stessa priva dei mezzi per sopravvivere. Le puerpere non avevano alcun sollievo, la loro fragilità non veniva tutelata se non dai medici occidentali rimasti al loro servizio. L'uomo raggomitolò il piccolo in una copertina calda e iniziò a seguire con interesse lo sguardo del tenente mentre scrutava i dettagli del luogo, soffermando la propria attenzione su finestre e pareti.
«Se riuscite ad evadere, portate fuori prima i bambini e le donne. Ci sono neonati e giovani gravide che non riusciamo più a curare qui dentro»
Christian annuì pensieroso, mostrando un'indifferenza che non provava. Scrutò le più impercettibili movenze del piccolo di cui il dottor Smith si stava occupando con dedizione; era ignaro della guerra sanguinaria che si stava combattendo oltre le imposte, era all'oscuro del futuro privo di certezze che lo attendeva. Il bambino si limitava a stringere la stoffa sul petto della madre, l'unica fonte di sollievo che cancellava ogni timore.
 
La primavera aveva appena concesso il tramonto sulle spiagge della California. Il clima era già rovente, benché l'estate non avesse ancora fatto capolino. Con quel caldo la tenuta dell'ufficiale Richardson non era più così formale di ritorno dalla base nel Coronado. Da quando la moglie era in maternità, il rientro dal lavoro risultava più emozionante. Erano trascorsi solo pochi giorni dalla nascita della piccola Alisia, aleggiava sulla sua famiglia ancora un moto di entusiasmo e incredulità. 
Non annunciò il suo arrivo dall'ingresso di casa, si premurò di essere discreto; era un padre inesperto, ma aveva compreso subito l'irregolarità dei ritmi sonno e veglia, per moglie e figlia. Trovò la sua famiglia accomodata sul letto matrimoniale e inondata dalle sfumature rossicce del crepuscolo. Le persiane erano socchiuse, la nudità della compagna era semi oscurata nel gesto dell'allattamento. Dalla soglia della camera Christian scrutò la neonata quasi addormentata; la manina minacciava di scivolare dal seno turgido della madre. Katherine curava ogni singolo dettaglio della bambina, aveva posto la totale attenzione su di lei fino all'arrivo del marito. La neomamma dedicò appena un lieve sorriso all'ultimo arrivato. I coniugi si porsero un saluto silenzioso attraverso lo sguardo. Per Christian fu quello il momento di avvicinarsi a loro, scrutare i capelli appena accennati della piccola scommettendo su quale sarebbe stata la sfumatura definitiva, se più scura come la sua o un po' più tenue come quella della compagna. 
«Se la prendi, mi rivesto»
Katherine invitò il marito a chinarsi per accogliere la piccola tra le braccia, ma i riflessi dell'uomo non furono tempestivi, la figlia lo aveva catturato, perciò impiegò qualche istante a realizzare l'invito della moglie. Alisia attaccò subito la manina alla divisa di Christian; era sazia e assonnata, ma serena e protetta.
«Alisia ti vuole bene»
«Mia figlia ha solo quindici giorni, le voglio più bene io»
Le accarezzò la manina che giaceva inconsapevole sul petto del padre. Katherine si avvicinò alla sua famiglia più in ordine e pudica.
«Sì, Chris, ma guarda, quando un bambino sente di essere amato è tranquillo»
 
Christian ripensò alla frase della consorte e poi scrutò il neonato afghano tra le braccia della giovane madre. Era tranquillo davvero, ignaro di tutto grazie all'affetto dei propri cari. Si chiese se anche Alisia lo fosse tra le braccia di Katherine in sua assenza, aveva paura a scoprire la risposta. 
Pensò Beatriz a dissipare ogni dubbio sull'atteggiamento di Christian e a distoglierlo dalla sofferenza che stava facendo patire alla moglie e alla figlia con le sue numerose e recenti mancanze.
«Deve sapere, dottore, che il tenente Richardson sta elaborando proprio ora il piano di evacuazione»
Le sfuggì una punta di rimprovero e ammirazione per la tenacia con cui il collega pensava di riempire i nervi scoperti di una strategia improvvisata. L'espressione del seal era addolcita dai ricordi, ma concentrata sulla delicata missione di cui stava per prendere le redini.
«Dottor Smith, conosce la planimetria di tutti gli ingressi?»
«Le mostro quelli più vicini a quest'ala dell'ospedale»
Il medico si congedò dai suoi pazienti e offrì massima disponibilità al capitano. Prima di seguirlo, Christian indugiò sullo sguardo contrariato della compagna al suo fianco.
«Beatriz, conta quanti neonati sono presenti in questa stanza»
«Da quando sono io a prendere ordini da te?»
«Per favore»
Gli accennò un sorriso irritato, nonostante il seal non mostrasse alcun segno di arroganza. 
 
 
Periferia Ovest di Kabul, 23 settembre 2018
 
Gli elicotteri sfrecciavano incuranti nel cielo di Kabul. Per Maryam udire lo sferzare delle eliche era doloroso. Era nata quando la guerra dilagava ormai da un paio d'anni nelle sue terre, non conosceva altri scenari, eppure li desiderava. Nulla avrebbe potuto restituirle l'affetto della madre, strappata alla vita con quella stessa inspiegabile violenza. 
Karim le aveva fatto cenno di una missione militare a cui lui stava contribuendo; avrebbe potuto sperare in una missione di pace se il medico in persona era coinvolto, ma i soldati americani non avevano la fiducia della ragazza dopo il patimento che aveva subìto dalle forze armate. Sfiorò il ventre più per istinto che per amore materno, lo avrebbe strappato se fosse stato in suo potere. Si limitò a stringere la stoffa e a scrutare il mullà mentre era impegnato nel suo lavoro. Era certa l'avesse notata, ma non abbassava la concentrazione. Era un vasaio minuzioso, lavorava l'argilla con abilità. Da quando la moglie era rimasta vittima dell'attentato, non scorgeva più delicatezza nei gesti dell'uomo, era diventato grossolano, attento, ma severo. Era cambiato anche nei confronti dei figli, Maryam pativa il lutto del padre raddoppiando quello di una figlia rimasta orfana di madre per mano della crudeltà umana.
 
«Mamma. Ho paura»
Una giovane donna in lunghi abiti di cotone la avvolgeva, proteggendo la bambina dal freddo e da cupi rumori lontani. Dietro il niqāb chiaro la piccola percepiva baci sui capelli fulvi. Maryam manifestava lievi tremori contro il petto della donna; di lei scorgeva solo gli occhi, l'espressione le era preclusa, ma poteva immaginarla attraverso le pieghe della pelle ambrata.
La bambina stringeva nel palmo una mezzaluna e una stella accostate in un’unica figura[1], dono della madre, un'eredità di famiglia, un cimelio a cui lei era stata destinata in tenerissima età. 
Gli occhi rassicuranti della donna si posarono su un'ombra bianca che si chinò verso di loro. Maryam percepì una carezza sulle dita, proprio su quelle che custodivano tra loro il simbolo. La donna fece appena in tempo a dischiudere le labbra per pronunciare qualche parola, il buon medico la anticipò sussurrando affettuoso. 
«Mi occupo io di lei»
Fu una promessa sincera, nata dal petto di un uomo che aveva affondato le mani nella sofferenza.
 
Il ciondolo che Maryam non aveva smesso di indossare era un simbolo coranico, manifestazione di ciò che sentiva di aver tradito. Avrebbe voluto domandare perdono alla madre, ovunque si trovasse immaginò la delusione nei confronti della figlia. Maryam e Farah condividevano il medesimo destino, ma il suo era stato più crudele rispetto a quello della donna che l'aveva generata. 
Non era sicura che suo padre amasse sua madre, ma la rispettava, si rispettavano come se avessero scelto il loro futuro, anche se così non era stato. Non avevano scelto il compagno, era stato loro imposto subendo la decisione delle rispettive famiglie. 
Vederlo così perduto senza la moglie commosse Maryam, esisteva qualcosa di prezioso nel loro rapporto che era morto insieme a lei e che lui non riusciva a superare. Lei era profondamente devota alla Legge che lui predicava con fermezza. Quando era giunta la notizia, il mullà aveva trascorso giorni in Moschea. La figlia non ricordava le sue lacrime, ma non riusciva nemmeno più a riconoscerlo; rappresentava la guida spirituale di un villaggio, ma in quei mesi non riusciva neppure a condurre se stesso. Era destabilizzato, il fulcro intorno a cui ruotava era venuto a mancare. 
Il matrimonio che aveva destinato alla figlia era un futuro a cui sarebbero andati incontro anche in presenza di quella donna. Non era giunta fino alla bottega per giustificarsi, per criticare le scelte dei genitori, anzi la madre non sarebbe stata fiera di lei in quelle condizioni. Grazie al buon esempio dei suoi genitori era fiduciosa sul rapporto che avrebbe intrattenuto con il futuro consorte, non l'aveva mai spaventata sposare un uomo di cui non era innamorata e che conosceva solo per il tempo di un saluto. Maryam aspirava al rispetto, così le avevano insegnato, presupposto destinato a cadere dopo la violenza che aveva subìto. Aamir non era malvagio, ma sarebbe stato inconcepibile accettare una donna incinta di un altro uomo.
«Papà»
Il palmo della ragazza giaceva ancora sul ventre a pugno, stavolta fu l'unica fonte da cui trarre il coraggio di deludere suo padre. Avrebbe preferito la sorte della madre, pur di evitare il dolore che stava per infliggergli. Il mullà la scrutò con pacatezza terminando di modellare il bordo del vaso. Riponeva grande precisione nella sua professione, un modo per allontanare dalla mente il peso dei pensieri e delle preoccupazioni causate anche da avvenimenti recenti. 
«È vivo quell'americano?»
Maryam colse disprezzo nella sua voce, lui di certo avrebbe preferito non lo fosse. Suo padre era rigido, ma non insensibile nei riguardi della vita altrui; stava nascondendo un grande spavento, aveva rischiato di perdere anche la figlia e non era ancora a conoscenza del fatto che in passato il rischio era stato altrettanto presente. Maryam in qualche modo sentiva che una parte di lei si era frantumata e il mullà non avrebbe mai più potuto ritrovarla. La ragazza stava per farglielo notare con dolore, con il rischio che non avrebbe capito, che l'avrebbe disconosciuta e abbandonata ad un destino atroce.
«Sopravviverà grazie al dottore»
La giovane si premurò di non mostrare confidenza nei riguardi di Karim, era determinata a non coinvolgerlo. Il mullà non colse le iridi lucide della figlia, la notizia lo lasciò insoddisfatto. Controllava che l'argilla fosse cotta a pochi passi dal forno, stava incanalando la concentrazione altrove per non aprire il discorso su coloro che definiva invasori, gente irrispettosa, portatori di disordine. Maryam non voleva provocarlo, conosceva la sua opinione a riguardo e l'aveva sempre rispettata, anche se dopo aver conosciuto Samuel era sempre più arduo condividerla. Gli americani, a parere dell'uomo, erano una fonte di disgrazie, la moglie era morta davanti all'ambasciata statunitense, non era un caso a parere suo. Non sapeva ciò che un americano aveva inferto a sua figlia, forse l'avrebbe addirittura protetta, ma era una remota possibilità.
«Samuel non ha...»
Colpe, avrebbe desiderato dire, ma non lo fece. Si interruppe certa che ogni parola potesse risultare inutile, il flebile tono di voce non sarebbe stato convincente, non era nelle condizioni psichiche migliori per trovare le argomentazioni più efficaci. Tolse la mano dal ventre con un gesto lento che contrastava con il nervosismo, una parte di sé era rassegnata. Il mullà la scrutava in modo sostenuto, la sua era finta indifferenza; conosceva a memoria ogni posizione della figlia e l'ultima che aveva assunto non era abituale.
«Papà. Devo dirti che...»
Un rumore alle spalle della ragazza attirò l'attenzione di entrambi e scosse i nervi già tesi. Karim si era scontrato con un paio di vasi facendoli ondeggiare pericolosamente. Il mullà non si preoccupò del rischio corso sui suoi lavori, la presenza di Karim lo impensierì. Il medico del villaggio era ancora imbrattato del sangue dell'amico giornalista, in quelle condizioni si rivolse al padre della giovane.
«Avevamo deciso di comunicartelo insieme, ma Maryam era talmente impaziente da distogliermi dai doveri»
Quella che rivolse alla ragazza sembrò un'occhiata complice, invece fu un duro rimprovero, tanto che lei ebbe l'istinto di muovere un passo indietro, non aveva mai subìto tanta severità da parte sua. La intimorì, le discussioni avute a tal proposito le tornarono in mente ed era convinta di doversi ormai rassegnare alla volontà dell'uomo - di un altro uomo che avrebbe deciso al suo posto del futuro che le sarebbe spettato, contro il suo personale ma non legittimo volere. 
«So che lei è promessa...»
«Maryam, lasciaci soli»
Il mullà accantonò il lavoro che stava svolgendo e incatenò lo sguardo a quello di Karim. La conversazione stava assumendo toni ufficiali, l'uomo sembrava accomodante, ma fermo nella sua posizione di guida. Persino il medico si ritrovò ad avvertire un moto di soggezione, la reazione dell'interlocutore fu inaspettata, anche se prevedibile; tentò di chiarire i presupposti di quel confronto improvvisato.
«Non volevo...»
«Non discuto del suo futuro davanti a lei»
La ragazza in questione non avrebbe pianto, avrebbe resistito, gli ormoni di una gravidanza indesiderata non avrebbero vinto su di lei. Prima dell'arrivo di Samuel forse sarebbe addirittura stata d'accordo con il padre, avrebbe accettato la sua dovuta esclusione da simili accordi, ma ora non poteva permettersi che le venisse tolta la possibilità di esprimere il suo parere, di ribellarsi innanzitutto alla volontà di Karim. Era infuriata con il tempismo del dottore, le aveva in qualche modo tolto l'opportunità di essere libera, pur proteggendo la sua vita. Non riusciva a provare piena gratitudine verso il medico di Herat. Karim si mostrò dispiaciuto per la scelta del padre, in ogni caso avrebbe desiderato averla accanto, comunicare insieme la decisione presa, seppur a senso unico, ma pur sempre da un adulto che aveva qualche anno in più di esperienza.  Karim le comunicò con un fugace sguardo quanto fosse mortificato. Maryam lo colse e si allontanò da loro affranta. Il dottore era ancora intento a scrutare il passo lento della ragazza che si stava allontanando, quando il mullà affondò nel cuore della questione.
«Perché vuoi sposarla?»
«Sulayman, non ho qualcosa da offrirti in cambio di Maryam, solo il bene che le voglio»
Aveva rivelato molto più di ciò che avrebbe voluto. Aveva ammesso di intrattenere con lei un rapporto lontano dal controllo del padre, al mullà non era dato sapere di quale natura, ma percepiva un legame stretto tra i due. Fissò severo il medico, temeva di chiedere se fosse lui la causa della gravidanza che aveva stravolto i piani futuri della figlia.
«Mi ha mentito»
«Lo abbiamo deciso insieme. Le ho consigliato di mantenere il riserbo, a lei avrei pensato io»
Il mullà non chiese il nome del padre del nascituro. Fu preso alla sprovvista dal comportamento del dottore, sapeva fosse un uomo altruista e responsabile, ma non riuscì a comprendere quanto fosse realmente coinvolto nelle condizioni di Maryam; fu Karim stesso a non rivelarlo e il padre della giovane preferì non chiedere, nella certezza di poter strappare al medico una nuova promessa. 
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Quando Karim raggiunse la ragazza, la trovò in un potente stato di agitazione. Piangeva per la rabbia accanto al pozzo d'acqua che sarebbe costato la sua libertà legandosi ad Aamir. L'impotenza era il male peggiore a cui era costretta a sottostare. Non aveva mai alcuna voce in capitolo, nemmeno davanti a Karim che diceva di volerla rendere libera. Non faceva più così tanta paura pensare alla libertà, ma per lei continuava a non esserci; Karim sosteneva fosse il territorio ad impedirle una vita diversa, ma era casa sua e casa era in ogni luogo si trovassero il padre, il fratello e il ricordo vivo della madre. Non avrebbe mai pensato di lasciare l'Afghanistan. 
Karim comprese solo in parte la reazione della giovane, ma ebbe l'istinto di allontanarsi con dispiacere. Desiderava condividere con lei la gioia di saperla finalmente al sicuro sotto la sua protezione. Era consapevole della vita che le stava offrendo, ma Maryam avrebbe dovuto immaginare che al suo fianco non avrebbe mai più subìto alcun tipo di umiliazione. L'intenzione di lasciarla ai suoi pensieri c'era, ma sentì il dovere di rassicurarla sul futuro che l'avrebbe attesa. Provò ad avvicinarsi per consolarla sfidando qualsiasi legge sacra vigente fino alla celebrazione del matrimonio. La giovane non gli fu grata, lo spinse via contrariata tirandogli un pugno sul petto. Il medico indietreggiò per rispetto, più che per offesa o per dolore inferto.
«Maryam. È stato molto comprensivo. Credo abbia capito il tuo stato»
«Cos'hai ottenuto? Contrattare alle mie spalle??»
Lo sguardo di Karim sfiorò il ventre della ragazza e lei lo ricambiò con ardore. Il dottore notò una luce nuova negli occhi della ragazza, ne era fiero. Avrebbe voluto sorridere, ma trattenne qualunque considerazione che avrebbe potuto infervorare la sua ira. Comunicò con lei attraverso pacati sussurri per provare a calmarla.
«Tra pochi giorni dobbiamo incontrare l'imam per prepararci al matrimonio. Tuo padre esige solo una condizione: il rispetto della Legge»
«Di quale Legge stai parlando?? Io ho infranto la Sharia. Aamir non accetterà mai lo scioglimento delle trattative tra le nostre famiglie»
«Tuo padre mi ha assicurato che parlerà con Aamir quanto prima»
«Lui non può sciogliere un contratto di matrimonio senza conseguenze»
Maryam posò i palmi sul bordo del pozzo che non le sarebbe mai appartenuto per diritto nuziale. Sospirò sconsolata, si sentiva preda di tutti, meno che artefice di se stessa.
«Tu sei folle»
«O affezionato. Ho detto a tuo padre che tengo a te e non ho mentito»
«Sei completamente pazzo, dottore. Se Aamir scopre che sono incinta, uccide entrambi»
«Correrò il rischio»
«Perché? Sono solo una donna»
Stavolta Karim non si sottrasse dal rivolgerle un sorriso paterno. Si avvicinò a lei quanto bastò, anche con il rischio di essere respinto ancora una volta. Recuperò una mano della giovane tra i suoi palmi in profondo segno di rispetto e catturò i suoi occhi celesti.
«Grazie a tua madre. Era una donna brillante. Meritava di meglio. Non ho potuto aiutarla, ma con te sarà diverso. È sempre stato diverso, da quando eri solo una bambina. L'ho promesso a Farah, le ho detto che mi sarei occupato io di te. Così è stato e così sarà, finché mi sarà concesso di farlo. Non impedirmelo, ti prego»
L'aveva istruita da quando era solo una bambina con il beneplacito della madre. Maryam non era al corrente dell'implicito patto tra la donna e il medico. C'era sempre stata una promessa tra loro, di cui chiunque era all'oscuro. Fu una rivelazione talmente grande e commovente per la giovane da lasciarla senza fiato, persino il gentile tocco di Karim su di sé risultò impercettibile. La madre le voleva offrire un futuro diverso dal suo ed ora Maryam non aveva nemmeno più il timore di credere che fosse più dignitoso. Il medico le era stato accanto per un motivo, il camice bianco dei suoi ricordi di bambina, l'angelo custode che aveva vegliato sulla sua famiglia era sempre stato lui. Non l'aveva mai abbandonata e il calore paterno che le aveva offerto nel corso degli anni le era rimasto impresso nella carne. Il pensiero dell'uomo era stato presente anche negli istanti più bui della sua breve vita.
Il rumore delle eliche costrinse Karim all'urgenza. Non avrebbe voluto lasciarla con quella notizia, avrebbe voluto raccontare del profondo rapporto fraterno che lo legava a Farah, ma non c'era tempo né per il ricordo né per la malinconia, solo per recuperare tutto ciò che era ancora possibile salvare: persone e affetti in un mondo di odio e di violenza. 
«Devo andare»
Portò la mano della ragazza al petto in segno di deferenza e amorevolezza. Mentre lo vide allontanarsi, Maryam pensò al ciondolo che conservava sotto il niqāb; sarebbe potuto diventare il suo mahr, un perfetto simbolo della loro unione, una benedizione da parte della donna che aveva intrecciato le loro vite; era molto più della rappresentazione di una tradizione e di una religione, esso era la prova di un legame indissolubile contro cui lei non avrebbe mai vinto, nemmeno per salvaguardare l'incolumità di lui.
«Karim»
Il tono con cui lo chiamò fu dolce, in lei non vi era più ombra della furia che aveva travolto l'uomo poco prima. Il medico si voltò senza esitazione.
«Samuel sta meglio»
«Avviso il tenente Richardson. È una bellissima notizia»
 
Buonasera a tutti, cari lettori e care lettrici!
Non sono sparita, ma sono stata travolta da tutto, compresa la difficoltà a scrivere.
Spero sempre che la trama fluisca, i tasselli da incastrare sono tanti e ci tengo che il quadro complessivo sia chiaro. 
Mi auguro anche che la reazione dei personaggi sia verosimile, la cultura e gli eventi che narro sono lontanissimi da me e ho sempre il timore di commettere errori. 
Ho lasciato tutte le frasi in italiano, ho evitato l'arabo per rendere più fluida la lettura, specie negli scambi tra afghani e americani, benché entrambi parlino arabo in quella occasione.
Mi scuso per l'attesa e vi ringrazio tanto per la pazienza. ♡
Un abbraccio grande,
Vale
 

[1] Simbolo della religione musulmana.
 

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 30_Ferite aperte ***


Ferite aperte 
 
 
 
 
Milat Super Speciality Hospital – Kabul, 23 settembre 2018
 
«Gwen, mi senti?»
«Capitano, la ricevo»
La voce di Christian, attraverso la ricetrasmittente fornita dal comandante Reyes, era un contenuto sussurro. La ragazza era rimasta in attesa trepidante di notizie, purché esse non si rivelassero nefaste. Gwendoline lottava contro le sue stesse paure, non si era allontanata dai centri abitati, diventando per i due militari impegnati nell’operazione un valido supporto. A bordo dell’elicottero che le era stato affidato, manteneva uno stabile controllo e senza la fiducia del tenente Richardson non avrebbe mai creduto di esserne dotata. Era innegabile che si fosse affezionata al seal, al ricordo che lui potesse ancora possedere del sergente Ward; si era legata all’idea di non sentirsi più sola nella vita e in missione, apprezzata nella sua divisa anche se essa non copriva del tutto le fattezze femminili.
«Stai sorvolando l’ospedale?»
«Sto perlustrando i dintorni. Al momento non rilevo anomalie, è ancora tutto tranquillo»
La giovane risultava essere per Christian la migliore scommessa per non rendere vana la loro incursione nel segno della pace. Avrebbe voluto ricordarle quanto fosse orgoglioso del soldato che era e con la quale collaborava dai primi istanti in cui aveva rimesso piede in Afghanistan. Il tenente scrutò il cielo attraverso le imposte, non la scorse, lei aveva valutato con prudenza la debita distanza dai bersaglieri della milizia jihadista. Le aveva raccomandato di mantenere un atteggiamento misurato e stava dimostrando, con soddisfazione del seal, di seguire quel valido consiglio.
Beatriz era profondamente contrariata. Non le importava che Christian fosse insubordinato al cospetto di ogni sua decisione, non le importava che fosse totalmente incurante dei ruoli, sospettava fosse una pessima abitudine nei riguardi di qualunque superiore. Lo fissava nervosa. Non era preoccupata di affidare a lui la sua vita, ad impensierirla era il destino che avrebbe riservato a se stesso. Il tenente aveva contattato tutti i velivoli coinvolti nella missione e Gwendoline rappresentava l’ultimo mezzo disponibile da sfruttare; aveva condotto a bordo degli elicotteri bambini e madri, coprendo loro le spalle nel caso in cui i talebani avessero impedito l’evacuazione di ostaggi indifesi. Al capitano non rimase altro che esporre il piano alla giovane aviatrice per attuare il prima possibile in sicurezza l’ultimo volo verso la base.
«Cosa stai pilotando?»
Christian sentì la recluta indugiare. Ebbe l’accortezza di attendere una sua reazione, non aveva mai smesso di considerare la poca esperienza di Gwendoline e di averne rispetto.
«È un Boeing AH-64 Apache»
«Hai solo un posto libero per l’equipaggio»
«Signore, è un elicottero d’attacco. Quella di cui parla è la postazione del copilota mitragliere»
«Lo so, ma ora la mitragliatrice non ci serve»
Il tenente gettò un’occhiata pensierosa alla collega con la quale condivideva la stanza; la donna ricambiò confusa. Christian lasciò in sospeso la conversazione con la recluta e si rivolse a Beatriz.
«Tu e Gwen portate fuori da qui quel bambino. È appena nato e necessita di cure urgenti»
«Perché non lasci che il neonato salga sull'elicottero con sua madre?»
«Perché tu non pagherai ancora una volta per le mie scelte»
Non riuscì a comprendere di preciso a quale circostanza si stesse riferendo; non osò chiedere, si limitò a scrutare lo sguardo imperativo dell’uomo.
«E tu come pensi di uscire da qui? Sentiamo. Se ti capita qualcosa, sarà solo una tua responsabilità. È bene che tua moglie lo sappia»
Gli sfuggì un sorriso, Katherine avrebbe creduto a quelle parole senza alcuna remora. Beatriz voleva mostrare risolutezza e distanza morale, ma temeva davvero che lui potesse rimetterci la vita e non allontanarsi dall’ospedale sulle sue gambe, in quel caso non si sarebbe sentita estranea ai sensi di colpa. Il comandante dell’unità militare si privò di una delle sue armi per cederla a lui e alla sua temerarietà; la impose tra le sue mani in modo tale che non potesse rifiutarla per alcuna ragione.
«Ne avrai bisogno e non fare lo stupido. Se devi sparare, spara. Prendi la mira»
Non mollò la presa su di lui, continuò a sfiorargli le dita, finché fu sicura di averlo convinto. Christian non indugiò per mero spirito di sacrificio, a lasciarlo sorpreso furono le raccomandazioni di lei; la compagna conosceva ogni sua singola debolezza sul campo, in primis la vita altrui, che fosse amica o nemica poco importava. Beatriz temeva proprio che potesse cedere alla compassione che aveva dimostrato di nutrire ancora verso il prossimo. Gli era mancata e fino a quel momento non era riuscito a rendersene conto; ebbe l’istinto di abbracciarla, ma temeva potesse fraintendere quello slancio d’affetto. Era sicuro in passato di aver scambiato la loro intensa complicità in campo per un sentimento che potesse sfociare in amore, si pentiva solo di non averglielo confessato a tempo debito e di averla illusa; per la precisione, un giovane appena maggiorenne e ferito lo aveva fatto. Trovò inadatto confessarlo in quel covo di talebani, aveva un ennesimo motivo per salvarsi e tornare vivo alla loro base.
Il tenente recuperò la ricetrasmittente con urgenza, in parte contava sul fatto che la donna al suo fianco si fosse rassegnata all’idea di voltargli le spalle per fuggire dal pericolo e anticiparlo verso una via di salvezza.
«Gwen. Abbassati il più vicino possibile al tetto dell’edificio. Aspetta il comandante Reyes, ma sii prudente. Mi raccomando»
Non concesse alla ragazza la possibilità di ribattere, lei comunque non avrebbe posto esplicite questioni, anche se le rimase il dubbio che lui potesse rischiare si costrinse a fidarsi incondizionatamente. Christian incentivò Beatriz a sbrigarsi, indicandole la direzione con la canna dell’M40. La donna lasciò che fosse il dottor Smith a spiegare in lingua afghana alla madre del piccolo le buone intenzioni del seal in divisa che si stava avvicinando a loro con aria rassicurante. Richardson assisté al dramma di quella madre, nella certezza che sarebbe riuscito presto a ricongiungerla a suo figlio. Quando con delicatezza Beatriz trasportò tra le sue braccia il piccolo verso l’uscita, si fermò un istante davanti al collega. Avrebbe voluto dirle che anche a casa sua si trovava una bimba in attesa del suo ritorno, ma non ebbe il coraggio, temeva potesse giudicare il rischio che stava correndo in quell’ospedale come un atto di pura incoscienza. Beatriz si limitò a pregarlo di essere prudente attraverso un fugace sguardo.
«Andate. Porta il bambino al sicuro, il dottor Smith ti indicherà la strada»
Era la stessa via che Christian aveva percorso diverse volte in quelle ore con il rischio che i talebani li scoprissero e uccidessero civili innocenti. Non se la sentì di rischiare oltre, si ritenne soddisfatto, riuscire a salvare per il momento poche anime senza inutili spargimenti di sangue era un successo in guerra e mancava poco per portarlo del tutto ad adempimento.
Christian attese il ritorno del medico accomodandosi sul pavimento e sostenendo la schiena contro il muro, in una porzione di parete ancora intonsa, risparmiata dalla crudeltà degli occupanti per attuare le loro esecuzioni. I due avevano diviso brevemente le loro strade, consapevoli che insieme avrebbero dovuto affrontare la parte più rischiosa del piano: uscire e scortare con loro la madre del neonato. Il dottor Smith esigé solo una condizione: lui avrebbe fatto ritorno dai suoi pazienti e non avrebbe lasciato l’ospedale, finché anche l’ultimo ostaggio non si fosse trovato al sicuro. Gli faceva onore, a malincuore il tenente fu costretto a cedere alla richiesta del medico, nonostante ci fosse la concreta possibilità di non rivedersi più.
Nell’attesa Christian iniziò una revisione sommaria del fucile di precisione che stringeva tra le mani, accertandosi che fosse inserita la sicura, ma anche che fosse dotato di abbastanza munizioni in caso di bisogno, in ciò parve che Beatriz fosse stata piuttosto accurata. Era quasi certo che sarebbe giunto allo scontro diretto e doveva essere pronto, aveva la responsabilità di più di una vita, non poteva fallire. Solo una leggera vibrazione nella tasca della kurta lo distrasse. Il nome sullo schermo del telefono fu del tutto inaspettato in quella circostanza, quasi dissociante. Rispose cercando di trasmettere entusiasmo, ma mantenendo un tono di voce misurato per rispetto alla sofferenza vissuta in quel luogo.
«Amore mio, che splendida sorpresa!»
Per Katherine l’impeto di Christian dall’altro capo del mondo risultava intenzionalmente smorzato. Colse le sfumature nel tono del marito, fu un processo naturale, l’uomo non riusciva mai a nasconderle né gioia né tristezza: lei era troppo perspicace e lui troppo limpido.
«Ti ho disturbato?»
«Non mi disturbi mai, è sempre un piacere poterti sentire. Mi sei davvero mancata, non puoi immaginare quanto»
Lo sguardo del capitano fluttuò sulla porta che a breve avrebbe dovuto sfondare per imboccare insieme ad altri due fuggiaschi una via di evasione. La mente dell’uomo era catturata da quei pensieri, la voce della moglie, però, aveva un effetto rassicurante sul cuore; non riusciva a valutare se il tempismo di Katherine fosse perfetto o pessimo. Dal canto suo, la donna si trovava tra il sollievo e la confusione: suo marito stava bene – o almeno così sembrava –, ma non erano quelli gli accordi con cui si erano lasciati; cercarlo lei equivaleva a trovarlo spesso irreperibile. Le aveva assicurato che non l’avrebbe lasciata vivere per mesi nell’incertezza, era sempre stato in grado di onorare la parola data, almeno fino a quella missione lunga ed estenuante per entrambi.
«Katherine, non ti sento»
«Perché non sto parlando»
Il velo di delusione nella voce della consorte catturò del tutto la sua attenzione.
«Non abbiamo più avuto tue notizie»
«Lo so, ma ormai avrai capito che non riesco a contattarti spesso»
Katherine si impose di trattenere qualunque tipo di lamentela, avvertì da sé quanto fosse rammaricato. Razionalmente lo comprendeva, era il cuore ad affogare nell’apprensione costante.
«Amore, mi dispiace. Un amico ha rischiato la vita e…»
«Non sono arrabbiata, se è questo che ti preoccupa»
Lo interruppe per impedirgli qualunque riferimento alla situazione di pericolo che viveva di continuo, la conosceva già dai media; era una tortura ricordare le condizioni in cui si trovava.
«Mi rincuora un po’ saperlo. Sto bene, Kathe. Se non ricevi notizie, non ti allarmare. Almeno non subito»
«Hai ragione, il silenzio dell’ambasciata dovrebbe tranquillizzarmi»
Non la sentì convinta, tentava di mascherare un'intensa preoccupazione. Era impegnata a preservare il suo umore e quello del marito, lui non avrebbe dovuto subìre anche l'angoscia della sua sofferenza con quasi dodici ore di fuso orario tra loro. Quasi dieci anni di matrimonio avevano dato la possibilità a Christian di riconoscerla in ogni sua sfumatura emotiva, in ogni tentativo di proteggere l’anima di coloro che amava.
«Non voglio trascorrere il nostro anniversario lontano da voi»
«A Natale mancano novanta giorni di attentati, Chris. Non siamo nelle condizioni per darci appuntamento»
Era più consapevole di lui del pericolo che correva ogni giorno. Poteva solo immaginare cosa la rendesse così tristemente lucida a chilometri di distanza dal luogo in cui si trovava il marito. I mezzi di comunicazione erano fonte di ansia per i familiari di coloro che si trovavano a combattere altrove per l'America. Cercò di coinvolgerla in ricordi lieti, quegli stessi che per lui rappresentavano un rifugio dalla crudeltà umana. Katherine sembrò apprezzare, solo accompagnata dalla voce del marito riusciva ad abbandonarsi a quei momenti trascorsi insieme dimenticando il presente di solitudine che stava vivendo.
«Sono dieci anni, amore»
«Quasi dieci anni. Ricordo che era appena terminata la Messa di Mezzanotte, ti sei voltato verso di me e mi hai detto...»
«…"non voglio vivere alcun Natale futuro senza di te. Lo vuoi anche tu?"»
«E sei volato dal parroco dopo un mio impercettibile assenso»
«"La prego, Padre, ci dedichi solo cinque minuti. So che è tardi"»
«Era l'una passata»
«Ci ha sposati solo ad una condizione: dovevamo buttare William giù dal letto»
Sentì il sorriso della moglie, era fresco e liberatorio per entrambi. Settimane di esplosioni e sparatorie erano seppellite da quel dolce suono; era terribilmente lontano però, unica nota della telefonata che rattristò Christian. 
«Ci avrà maledetti?»
«In chiesa non penso, magari sul sagrato»
«È stata una follia»
Il vibrato di Katherine era diventato malinconico. Lo stava contagiato, gli stava trasmettendo agitazione, a tal punto da convincersi che i timori della moglie sulla guerra potessero essere fondati e nel luogo in cui si trovava ancora più concreti. 
«Una follia che rifarei ogni giorno»
La voce di Christian si stava incrinando. Il silenzio che seguì tra loro diede la possibilità al seal di raccogliere i pensieri e l'onda di emozioni che il breve dialogo con Katherine gli aveva infuso. Per quanto il sacrificio in Afghanistan fosse stato ben ponderato dal tenente, restava un uomo stufo di non poter parlare con la moglie sfiorando gli occhi che tanto amava. 
«Sono prudente e tu lo sai, Katherine. Sono solo un po’ stanco e sento la mancanza della serenità della nostra famiglia. Ma tu potresti tranquillamente biasimarmi, dicendomi che ho deciso io di partire. So che in cuor tuo vorresti insultarmi, urlarmi quanto sei stufa di pensarmi in guerra. Stanca di vedere Alisia soffrire a causa mia. Non lo fai mai e questo ti rende l’unica compagna che un seal potrebbe avere accanto. Sei la sola donna che vorrei al mio fianco. Penso sempre a quello che vi sto facendo sopportare e ti...prometto che ciò che abbiamo vissuto prima che partissi non diventerà la nostra ultima volta»
«Christian»
«A Natale sarò a San Diego»
«Ti amo»
Avvertì la voce di lei spezzata sotto il peso di intime confidenze e sincere promesse, per lui fu una lama nello stomaco che gli impedì quasi di tornare a parlare. I timori della donna di non essere all’altezza del marito si sciolsero in quel frangente, le aveva offerto importanti convinzioni.
«Katherine, mi hai insegnato ad amarti e ad amarmi. Ora devo andare, perdonami»
Sentì i passi del medico avvicinarsi, li riconobbe con sicurezza, provenivano dalla direzione verso cui erano spariti poco prima lui e Beatriz.
«Solo un istante. Non potrei essere più fortunata ad averti sposato»
Fu lei ad attaccare per non trattenerlo oltre. Le ultime parole di Katherine non ebbero una giustificazione, ma gli offrirono certezze essenziali in un clima di conflitto armato.
«Mi scusi, dottore, era mia moglie»
Il medico lo notò emotivamente provato. Lo vide stropicciarsi le palpebre, manifestava la fragilità umana di un civile comune, soldato o meno non era nulla più che un uomo, esattamente come i pazienti di cui si occupava ogni giorno il dottor Smith. La donna che avrebbero dovuto salvare giaceva ancora nel suo angolo, la speranza non la sfiorava, era rassegnata per se stessa e sollevata per le sorti del suo bambino.
«Capitano, se la sente?»
Christian rispose ai dubbi del connazionale alzandosi e imbracciando con convinzione l'arma.
«Certamente»
 
 
Base militare semidiroccata – Confine Nord/Est di Kabul, 23 settembre 2018
 
Beatriz affidò il piccolo sopravvissuto alle giovani braccia di Gwendoline, che lo accolsero tese senza opporre resistenza. 
Le due donne erano appena atterrate nei pressi della loro base, ma il comandante non perse tempo, sfruttò il tempismo dell'esperienza e della freddezza, evitando di abbandonarsi ai sentimentalismi. Prese possesso dei comandi cercando la radio e indossando le cuffie. Andò a colpo sicuro, intercettando la frequenza giusta con tenacia. 
«Comandante, chi sta contattando?»
«Chiedo rinforzi all’ambasciata. Questa storia è giunta al capolinea»
«Non sono sicura che il tenente Richardson sia d’accordo»
«Il tenente Richardson è incosciente. Non ho più intenzione di assecondarlo»
Gwendoline avrebbe voluto strapparle le cuffie, impedirle un errore, lei si fidava del capitano, ma non osò tanto, remore proprio dell’insegnamento di Christian che l’aveva sempre invitata a non essere impulsiva. Per tentare la dissuasione, trasformò la conversazione in una confidenza, o almeno sperava di riuscirci. La recluta strinse al petto il piccolo appena affacciato ad un mondo di sofferenze, la sua presenza calmava l’apprensione per il tenente; la ragazza stessa era in pena per le sue sorti, ma non poteva permettere alla preoccupazione di spegnere il barlume di lucidità che avrebbe potuto evitare a Beatriz di compiere uno sbaglio.
«Se non sono indiscreta, sembra che siate emotivamente legati»
«Sei molto indiscreta, Ward»
«Dico solo che forse è questo a renderla più protettiva nei suoi confronti»
Lei non replicò, ma si bloccò lasciando la comunicazione con l'ambasciata in sospeso.
«Boeing AH-64, vi riceviamo»
«Sa, il generale Flores ci ripete sempre di non mischiare vita privata e lavoro. Forse ha ragione, non crede?»
Gwendoline lo ricordò a se stessa. Le parole della giovane recluta spinsero Beatriz a riflettere.
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Veniva chiamato con enfasi. Venne distratto dal lavoro che stava svolgendo, ma sentiva di non poter ignorare le grida di terrore che giungevano dalle porte della base. Una bambina era riversa a terra in una pozza scarlatta. Le gambe di Christian erano di cemento; nonostante la fatica a muoversi, un'energia lo costrinse a scrutare il volto della piccola. L'orrore di riconoscere sua figlia gli fece rifiutare il pensiero che fosse la realtà. Provò a svegliarsi, ma non riuscì, una stretta sulla spalla lo tenne ancorato ad un mondo che rifiutò di credere fosse la verità. Incrociò lo sguardo della moglie dietro una maschera di lacrime e quella fu l’ultima immagine che comparve davanti al suo volto.
«Katherine...è colpa mia»
Una surreale disperazione lo stava pervadendo. Si sentì impossibilitato ad agire, ma il pensiero della sofferenza di moglie e figlia continuava a martellare nel cervello. Le tempie pulsavano e il tocco di una mano sul polso gli infuse una scossa inaspettata. Provò a ritrarsi spaventato. Non vi era nulla di minaccioso, anzi chiunque fosse era delicato; sperò con il cuore si trattasse di Katherine, pronta a rassicurarlo su un incubo così terribile. L'amarezza del sogno gli era rimasta sotto pelle.
«Capitano, stia tranquillo, è al sicuro»
Riconobbe la voce di Gwendoline senza scrutare il suo viso, l'aveva udita in tante occasioni ed aveva sempre rappresentato una fonte di conforto nel grigiore della guerra. Impiegò qualche istante per mettere a fuoco ciò che lo circondava; era confuso come se faticasse a riconoscere la base dilaniata. La recluta rispose ai suoi silenziosi interrogativi.
«È svenuto. I colleghi dell'ambasciata l'hanno trovata riverso a terra. Il comandante Reyes ha chiamato rinforzi, ma stia tranquillo, non hanno fatto irruzione nell'ospedale, ha trovato opportuno rispettare la sua volontà per oggi»
Un barlume di lucidità lo colse spaventandolo. Il recente passato ricompose i dettagli nella sua mente. Uscito dal nosocomio aveva una missione da compiere, ma non era certo di essere riuscito a portarla a termine.
«Il dottor Smith e la madre del bambino!»
«Non erano con lei quando l'abbiamo trovata, ho ragione di credere che siano riusciti a mettersi in salvo»
Christian sperò solo che fossero davvero riusciti a scappare e che la ragazza non gli stesse riservando solo false e vuote certezze per non inquietarlo. Non furono notizie liete, persino Gwendoline indugiò ad informarlo, convinta di ferirlo. La ragazza attese qualche istante, lo aggiornò a tratti; nelle sue condizioni psicofisiche la prudenza fu maggiore. Lei era convinta che la notizia lo avrebbe spiazzato.
«A pochi metri da lei si trovava un afghano senza vita»
La giovane attese che il tenente ricordasse. L'uomo esibiva uno sguardo vacuo, perso in un passato che non riusciva a mettere a fuoco. Era mortificato, per mano sua o di altri era comunque morto un essere umano, che fosse buono o malvagio poco importava; le conseguenze del loro ingresso nel nosocomio erano ben distanti dalle reali intenzioni.
«Pensi lo abbia ucciso?»
«Ha estratto la pistola dalla fondina»
Christian sfiorò il punto in cui aveva riposto la sua arma sotto la kurta, ma ebbe l'amara certezza che era vuoto. Se insieme all’arma fornita da Beatriz, era stato anche costretto ad estrarre la sua pistola significava che la situazione in cui si era trovato era degenerata rapidamente.
«Tenente, si è solo difeso»
«Come faccio a guardare negli occhi mia figlia e dirle "Sai, Alisia, tuo padre è un assassino"?»
«Lei non lo è affatto, è l'uomo più buono che io conosca. Piuttosto, hanno la sua arma, questo può rappresentare un potenziale problema. Il comandante Reyes ha già informato il suo amico in ambasciata fornendo la matricola. Karim, invece, le ha suturato la ferita all'orecchio. Ah, quasi dimenticavo, ci sono anche buone notizie: Samuel è fuori pericolo»
Glielo riferì con commozione, ma Christian riuscì ad essere felice solo in parte. Si accorse della fasciatura all'orecchio in quel momento; la pelle tirava, ma risultava essere un male minore, rispetto alle numerose ferite dell’anima che aveva subìto nelle ultime settimane.
«Gwen, non ricordo cosa sia successo uscito dall'ospedale»
«È solo una piccola amnesia, potrebbe aver battuto la testa»
«Dov'è Beatriz?»
«È appena qui fuori. Attende il suo risveglio»
Tentò di sedersi, ma la stanza iniziò ad ondeggiare. Ebbe bisogno di qualche istante per assestare l'equilibrio; quando si sentì pronto, fece il passo successivo, ma Gwendoline si mostrò contraria a qualunque azione precipitosa. Diverse volte Christian era rimasto ferito e mai aveva goduto del tempo necessario per una massima riabilitazione; rischiava di cedere e la sua unità di restare priva di una forza fisica e morale diventata ormai essenziale.
«Capitano, faccia attenzione. Necessita di riposo»
«Ce la faccio»
Quando ricadde seduto, la ragazza si sporse per sostenerlo. Il seal rifiutò la mano pòrta dalla recluta, ma lei non si offese, aveva imparato a conoscere il lato orgoglioso del superiore.
«Non c'è fretta»
«Devo parlare con il comandante»
Le suppliche di Gwendoline erano quasi materne, la sua voce era accomodante, ma a nulla servirono. Con una spinta più convinta Christian riuscì ad alzarsi. Per camminare attese qualche secondo, si voltò verso lo squarcio nel muro a sagoma di finestra ed intravide l'ombra della donna riflessa sul terreno sterrato. La raggiunse con precaria stabilità, Beatriz si trovava in una posizione apparentemente rilassata, appoggiata alla parete esterna della base, intenta a contemplare una fotografia. Avvicinandosi, il tenente si accorse che il volto della donna riluceva, strisce salmastre lo stavano solcando.
«Sei preoccupata per me?»
Si asciugò le guance, ma la speranza che lui non avesse colto il suo stato d'animo fu flebile, non desiderava essere posta nelle condizioni di dover fornire spiegazioni. 
«Neanche per sogno, so che hai la pelle dura»
Gli accennò persino un sorriso per dissimulare. Christian non ringraziò Beatriz per il tempismo con cui l'aveva salvato, era certo che la compagna avesse trovato in quel gesto il modo per sdebitarsi; soffermò la sua attenzione sulla foto che lei continuava a stringere tra le mani: era un ragazzino che non poteva superare i dodici anni, poteva solo essere il figlio a cui aveva accennato, i lineamenti erano molto vicini a quelli della madre.
«Ho una figlia piccola anch'io»
Lo fissò come se non se lo aspettasse. Dopo un primo istante di incredulità, la confidenza di Christian le offrì l'incentivo di aprirsi con lui, avvertiva la più vera e reale comprensione da parte sua.
«Il padre di mio figlio non mi consente di trascorrere del tempo con lui. Sostiene sia una pessima madre. Non si trovano nemmeno più negli Stati Uniti da mesi ormai. Si è rivolto ad un giudice per ottenere l'affido del bambino e l'ha ottenuto per il semplice fatto che la mia presenza è troppo incostante»
La donna scrutò l'orizzonte, oltre il quale si trovavano i suoi affetti. Si lasciò catturare dalle luci del cielo, per lei risultavano un angolo di pace nei momenti più sconfortanti nello scenario di guerra che stavamo vivendo. Il conflitto, in fondo, era anche nella sua vita di ogni giorno lontano dall'Afghanistan. 
«Hanno ragione, Christian, non sono affidabile, un soldato non può esserlo. Tu dovresti capirmi. Tua moglie è comprensiva?»
«Evita di dirmi cosa pensa veramente, ma non credo faccia i salti di gioia»
«Tienila stretta, è raro trovare una compagna di vita che ti sostenga come fa lei»
Lo sapeva, era consapevole che Katherine fosse la sua fortuna più grande, lo era sempre stata.
«Mi ha chiamato in ospedale, le ho ricordato proprio questo»
Beatriz gli accennò un mezzo sorriso sincero, a cui lui però non rispose per rispetto alla sofferenza di lei.
«Sei innamorato davvero di lei. I tuoi occhi risplendono quando ne parli. È una semplice constatazione, come lo è il fatto che sia stato un suicidio la tua missione. Ti senti orgoglioso? Sei riuscito a salvarli come desideravi?»
A quella missione lei stessa aveva preso parte; nonostante le titubanze lo aveva seguito, il rimprovero era poco credibile, se non per sottolineare la preoccupazione che l'aveva attanagliata nelle ultime ore. Si era fidata di lui e il peggio era che l'avrebbe rifatto senza rifletterci troppo. Non aveva mai negato la sua posizione discordante da quella del tenente, benché i fatti rivelassero altro.
«Alcuni sì e per ora mi ritengo soddisfatto»
«Doveva essere l'atto finale della nostra missione, non l'inizio di una guerra contro quegli uomini!»
«Bea, siamo in guerra»
Pronunciò le parole con dolcezza e pacatezza, ebbe l'istinto di chiamarla come se il tempo dei loro anni in accademia si fosse fermato. Si rivolse a lei con un'ovvietà per nulla offensiva, delicata quanto la pazienza che avrebbe impiegato con sua figlia. Espressero i loro ricordi attraverso gli sguardi, ma Beatriz non cessò le critiche e nemmeno la retorica che esibiva in preda allo stato d’animo.
«Non me ne ero accorta, sai?»
La rabbia del comandante fu prevedibile per il tenente, ma era per lui una conseguenza minore. L'atmosfera in cui erano immersi defibrillava, era inquieta e solitaria. Christian non mutò opinione, non venne catturato dai rimorsi.
«Non ho peggiorato la situazione»
La donna si voltò di scatto stizzosa, non lo scosse, ma spense nei suoi occhi la soddisfazione per i successi conseguiti.
«Tu credi??»
«Ho detto che mi sarei assunto le mie responsabilità e intendo farlo, ma io non credo sia stato un fallimento»
«Dipende dalla prospettiva, Christian»
Il seal puntò la spalla contro il muro, era debole e pensieroso, come se volesse quasi cambiare discorso, in effetti per lui non vi era più nulla su cui discutere.
«È come se avessero voluto lasciar scappare quei bambini, non ti sembra strano?»
«Sei tu ad essere strano»
Gli occhi della donna diventarono tristi, cambiarono sfumatura, non erano più quelli del soldato carico di esperienza e di fermezza, gli stessi con cui spesso scrutava anche lui; la sua mente era tornata prepotentemente ai pensieri originari di quegli attimi di raccoglimento in solitudine risalenti a pochi minuti prima. Beatriz fu grata a Karim, quando spezzò quel confronto con il suo arrivo.
«Occupati di lui, dottore, è ancora frastornato»
Il comandante se ne andò, lasciando Christian contrariato; al seal non restò che rivolgersi al medico, ma fu costretto a cercare le risposte ad interrogativi diversi.
«Come stanno?»
«La loro salute non è compromessa»
Karim rimase a qualche passo di distanza, scrutò il sollievo del capitano, il quale riuscì solo a temere in silenzio per le sorti della giovane madre e del dottor Smith che li stava accompagnando verso la libertà.


 
Redazione Los Angeles Times - Ufficio del Direttore, 3 ottobre 2018
 
Daniel non era nel massimo della sua forma: le palpebre si affaticavano più facilmente e il cuore in convalescenza rendeva spesso il respiro affannoso. Nonostante le condizioni non fossero ottimali, si impose di rioccupare la sua scrivania. Era mancato da troppo e le notizie non si pubblicavano da sole, necessitavano di una guida. Aveva delegato il consuocero per svolgere le attività più urgenti, il giornalista lo aveva fatto beneficiando di competenze e della fiducia del superiore, ma il direttore desiderava tornare a ricoprire al più presto il suo ruolo.
Le prime notizie che passarono tra le sue mani non furono confortanti. Nel suo angolo di lavoro erano state riposte alcune buste di provenienza estera; all'interno di una di esse un biglietto firmato da Samuel lo informava del contenuto. Aveva chiesto un reportage su quelle terre al figlio e lui gli aveva inviato un set fotografico che documentava la vita a Kabul. Daniel aveva indugiato, consultare il contenuto delle buste significava scoprire la vita e i pericoli che stava affrontando Samuel su quel fronte. Erano scorci di vita immortalati, istantanee di guerre. Macerie, volti sfibrati. Fra quegli scatti il fotografo non compariva mai, Daniel non aveva l'occasione di conoscere le sue condizioni, Dio solo sapeva quanto desiderasse avere sue notizie, ma un'incapacità emotiva gli impediva di cedere come forse avrebbe dovuto; l'ultima notizia di suo figlio risaliva a pochi giorni prima e giungeva da sua moglie che aveva avuto la malsana idea di informare Samuel circa la sua salute. Ebbe l'istinto di comporre il numero dell'ambasciata, indugiò appena sulla cornetta, non seppe se per paura di mostrarsi come non era mai stato o per le notizie che avrebbe potuto ricevere.
«Uffici consolari, sezione per la stampa e la cultura. Chi parla?»
«Sono il direttore Clark. Chiamo da Los Angeles per avere notizie del mio corrispondente a Kabul»
Dal Medio Oriente intercorsero attimi di pesante silenzio, anche se non era insolito che comunicasse con il consolato per fornire direttive a Samuel mediante le agenzie governative. Non era certo fosse proprio quell'uomo a tenere la corrispondenza con lui per quanto riguardava il lavoro e le sorti del figlio, quella volta aveva stranamente scelto di comporre direttamente il numero senza, tuttavia, poter riconoscere la voce del suo abituale contatto; non si premurò di alcunché e per un uomo estremamente ponderato nelle azioni e nelle emozioni non fu un gesto naturale.
«Direttore, non è a conoscenza dell'agguato? Suo figlio è rimasto ferito»
«C-come?»
L'indelicatezza del diplomatico gli assestò un contraccolpo notevole. Era seduto, ma ebbe anche l'esigenza di appoggiare i gomiti contro il ripiano che ospitava da anni le sue ore di lavoro. Il cuore di Daniel iniziò a battere forte, si portò una mano al petto iniziando ad avvertire qualche fastidio. Persino la porta dell'ufficio lo fece sobbalzare. Era sua figlia, presa alla sprovvista dal suo malessere, lo spavento circa le condizioni del padre non le diede modo di annunciarsi.
«Ehi, papà»
La dottoressa si avvicinò a lui preoccupata con l'intenzione di afferrargli un polso e valutare i suoi parametri. Aveva subìto un'operazione molto delicata, la ripresa era cominciata da troppo poco per tornare a vivere emozioni intense. Daniel le fece segno di attendere con un'aria sconvolta che contagiò anche lei. 
«D-dove si trova adesso?»
«È ancora ricoverato. Direttore, mi dispiace, non so nulla di più al momento»
«Grazie. Lo contatto tramite il suo recapito privato. Spero mi risponda»
Riattaccò, parlare con i diplomatici non era più fra le sue priorità. Non allontanò le dita dalla cornetta. Lo sguardo interrogativo della figlia non lo convinse a fornire spiegazioni, ma solo a nascondere il malessere dietro una mano per stropicciarsi gli occhi e costringersi a pensare ad una soluzione. Daniel si rimpossessò con convinzione del telefono e si rivolse esasperato a Delilah, rendendosi conto di non conoscere a memoria il recapito di Samuel.
«Mi serve il numero di tuo fratello»
«Cosa gli è successo?»
«Delilah, ho bisogno di quel numero. Ora!»
La donna trovò opportuno assecondarlo, non tanto per i modi burberi, a cui era abituata fin dalla più tenera età, quanto piuttosto per l'urgenza di ricevere ella stessa informazioni sulla salute del giovane reporter.
Trascorsero diversi squilli a vuoto, si sommavano l'uno all'altro aumentando il timore dei due che rimanevano impazientemente in attesa di udire la voce di Samuel. Lo spazio in cui lui avrebbe potuto rispondere era terminato troppo presto. Daniel affogò il viso nei palmi riattaccando la cornetta con maggiore violenza; soffocò le parole a tal punto da renderle quasi eteree per Delilah, ma tristemente comprensibili.
«È colpa mia»
«Sì, è solo colpa tua»
La dottoressa si abbandonò a lacrime dignitose e furiose, ma quando sentì il fiato pesante del padre cercò un contegno, non poteva permettere alla sua rabbia di prendere il sopravvento verso un uomo in convalescenza, non era nella sua etica. 
Il telefono squillò quasi subito, entrambi esitarono. Delilah fu sfiorata dallo sguardo del padre: non le stava domandando consiglio, ma rassicurazione sull'innocenza della chiamata. La donna ricambiò con uno sguardo vacuo, non riuscì ad empatizzare con l'uomo che aveva spinto il fratello in guerra. Daniel cercò da solo un po' di calma e rispose.
«Pronto»
«Papà. Mi hai chiamato?»
La voce di Samuel era flebile, ma c'era. Non era mai stato più bello sentirla per Daniel; invocò il figlio quasi incredulo.
«Samuel»
Notò la figlia tornare a respirare a pieni polmoni, anche il benessere di Delilah gli giovò.
«Figliolo, come stai?»
Samuel indugiò, faticò a riconoscere il padre.
«Immagino tu abbia saputo dell'agguato, ma mi sto riprendendo. Tu, piuttosto, come stai?»
«Bene bene. Tranquillo, Samuel»
Non si soffermò troppo su se stesso, si mostrò molto svogliato nel rispondere al ragazzo, minimizzò qualsiasi riferimento alla sua salute. Colse, però, il tono preoccupato del figlio, provò un sadico piacere nel trovarsi al centro delle preoccupazioni di Samuel, anche se era stato contrario fino in ultimo con l'intenzione della moglie di comunicare le sue condizioni di salute al giornalista; cercò di accantonare quei pensieri e di concentrarsi sul giovane. Avrebbe voluto intrattenere una conversazione più lunga con lui, ma Samuel la troncò per esigenza. 
«Papà, fatico ancora a parlare, necessito di riposo. Ti dispiace se rimandiamo questa chiamata?»
Daniel fu accondiscendente, ma quando riattaccò la linea, un vuoto gli rimase addosso, rincarato dal rancore della figlia. 
«Fallo tornare»
«Temo non vorrebbe, hai mai visto l'impegno di Samuel nel realizzare reportages per il Los Angeles Times?»
Lo spazio e il tempo tra loro venne attraversato da una profondissima tensione. Delilah aveva potuto osservare e udire quanto il lavoro di suo fratello fosse efficiente e appassionato. La donna evitò qualsiasi altro rimprovero verso il direttore e qualsiasi elogio verso Samuel che entrambi condividevano, scelse di uscire dall'ufficio in silenzio, lasciando Daniel amareggiato con se stesso. Il direttore, rimasto ancora una volta solo, si portò le mani sul volto in pensiero per suo figlio e impossibilitato a spiegare le ragioni della sua opinione. Stavolta recuperò il telefono con più pacatezza e si rimise in comunicazione con l'ambasciata, la frequenza con cui componeva quel numero era inedita. Scoprire che Samuel fosse vivo, placò gli spasmi del suo cuore, anche se l'affanno non accennava a svanire.
«Ho bisogno di parlare con il console»
Il direttore rimase profondamente contrariato dalla risposta, così scelse di esibire un carattere poco piacevole. 
«No, un funzionario non può aiutarmi, solo il console può farlo. Devo parlare subito con lui»
 

 
Coronado - Base navale, 3 ottobre 2018
 
«Fabian. Ti disturbo?»
Sophie entrò con discrezione, non era mai stata così prudente nel muoversi fra corridoi e postazioni del Coronado; non era la sua ala della base, ma quel giorno qualsiasi luogo le avrebbe dato la sensazione di essere in fallo. Intravedere suo marito in una posa informale e familiare le infuse una piacevole sensazione di calore, quella su cui a breve, era certa, non avrebbe più potuto contare; Fabian era seduto su un ripiano, un piede sfiorava terra mentre l'altro era sospeso a qualche millimetro, tra le mani reggeva una tazza fumante con un atteggiamento rilassato, anche se persisteva a fissare pensieroso un punto invisibile nel vuoto. Solo il tono incerto del maggiore dell’aviazione spezzò quell'istante di immobilità. 
«Affatto. Vuoi una tazza di caffè? È bollente, l'ho appena preparato»
Il tenente era cordiale, nelle ultime settimane aveva cercato di mantenere buoni rapporti con la moglie, farle respirare un clima famigliare sereno era stato fra i suoi migliori propositi. Nonostante gli sforzi del coniuge, l'espressione di lei dipingeva un umore pessimo e preoccupante.
«No, grazie»
«Tutto bene? Intendo, per quanto possa andare bene in questo periodo»
«È arrivata la convocazione del Tribunale. Ho trovato la lettera stamattina uscendo di casa. È fra diversi mesi»
«Ti accompagno»
«Non è necessario»
«Devo comunque essere presente, abbiamo trovato noi l'aereo»
Nell'entrare Sophie non aveva chiuso la porta alle sue spalle, trovò conveniente rimediare e al seal il gesto della moglie insospettì. 
«Fabian, devo parlarti»
«Cos'altro c'è?»
Lo squillo del telefono camuffò la diffidenza dell'uomo, ma non la neutralizzò.
«Scusami un istante»
Appoggiò la tazza sul ripiano, consapevole che sarebbe diventata l'ennesima razione di caffè lasciata inesorabilmente raffreddare. Sophie ebbe la tentazione di andarsene, non aveva alcuna voglia di affrontare quel discorso, le interruzioni non erano un incentivo; continuava a fissare la porta tentata, ma si costrinse a concentrarsi sull'espressione tesa del marito. Il maggiore dell'aviazione non ebbe il coraggio di domandargli spiegazioni circa la preoccupante chiamata. 
«Ci sono, dimmi»
Quando bussarono anche alla porta, la donna si spostò appena, esternando tutta la sua rassegnazione, ma non mancò di mostrare anche comprensione, d'altronde era consapevole degli impegni che impartiva il Coronado ai suoi ufficiali. 
«Forse a cena riusciremo a parlare con più tranquillità»
Non le sarebbe comunque dispiaciuto prendere tempo, riflettere sul da farsi e magari alleggerire in qualche modo la notizia che stava per comunicare. Fabian non era mai stato un uomo scostante, i suoi gradi militari erano la prova di quanto fosse un uomo onorevole nella vita come in battaglia, che fosse per mare, per cielo o per terra. Lo sguardo determinato del tenente la sfiorò provocandole un sussulto, la fece riemergere dai pensieri strappandola dalle sue fragilità. 
«Attendi solo un secondo. Avanti»
«Comandante, abbiamo terminato…»
Quando il sottoposto vide che il superiore non era solo, non osò sbilanciarsi nelle informazioni; fu una premura non necessaria, ma era una formalità dovuta a qualunque soldato prestasse servizio nel Pacifico. 
«Grazie. Puoi andare»
Fabian si accomodò spossato sulla poltrona accanto ai comandi, con la speranza di poter dedicare a lei qualche minuto senza ulteriori interruzioni. 
«Da quando Christian è partito, i miei oneri sono raddoppiati. Ti ascolto»
Sophie non aveva ancora trovato le parole giuste ed era troppo agitata per camuffare il suo disagio. Era difficile persino ammetterlo ad un uomo comprensivo come lui. 
«L'aereo era manomesso»
Uscì un sussurro dalle labbra della donna, la sua proverbiale tenacia minacciò di svanire. Lo sguardo basso faceva a pugni con la divisa che indossava con orgoglio, era quasi in imbarazzo. Il comandante si era appena rilassato contro lo schienale, quando la notizia lo costrinse ad assumere una nuova posizione tesa. 
«Sono accuse molto gravi. È un'ipotesi o lo sai?»
«Lo so»
«Da chi?»
Gli occhi le si inumidirono davanti all'espressione dura del marito; avrebbe ritenuto legittima qualunque sua reazione, rivelare le menzogne ogni volta a metà era controproducente e sintomo di conseguenze inevitabili. Sophie lo sapeva e non aveva più armi per difendere le sue colpe. 
«Sophie? È stato lui?»
Non servirono risposte, il quadro fu limpido. 
«Da quanto lo sai?»
Fabian rivolse un sorriso amaro verso l'oceano. La superficie dell'acqua profonda e agitata rispecchiava il tumulto che era nato nel suo cuore. 
«Lo sai da sempre. Hai protetto la memoria di un terrorista»
«Lui non era un criminale! Per quale ragione avrebbe dovuto sabotare quell'aereo con la certezza di rimanere coinvolto?»
«Per quale ragione avrebbero dovuto schiantarsi contro le Twin Towers? Sophie, dammi una motivazione, pare tu ne sappia molto più di me. Ti prego, dimmi almeno che non sei coinvolta»
La supplicò in preda alla disperazione.
«Certo che no! Brian...nei giorni precedenti all'incidente mi ha parlato di questioni strane, non le ho veramente capite. Diceva che insieme ad alcuni colleghi voleva apportare migliorie all'aereo»
«Migliorie? E tu gli hai creduto?»
«Quale motivo avrei avuto per non credergli? Mi rifiuto di pensare che lui abbia ucciso intenzionalmente quelle persone e si sia ucciso. Lo hai sentito anche tu, era spaventato quanto me, voleva atterrare prima che fosse troppo tardi»
«Troveranno la verità su quel relitto, ma tu devi dire ciò che sai, altrimenti inizierò a pensare che tu sia davvero colpevole, tanto quanto lui»
«È la fiducia che ti è rimasta in me?»
«Continui a mentirmi»
«Non mi stai ascoltando, Fabian»
«Presumo che un terrorista fosse più bravo di me ad ascoltarti»
«Lui non era un terrorista!»
«Continuare a difenderlo non lo renderà innocente»
Si era alzato con veemenza, ma ebbe bisogno di appoggiarsi per riprendere fiato, il suo cuore minacciava di esplodere. Sophie provò a riportare la discussione su toni normali, aveva notato il comprensibile malessere del marito. La donna non si era allontanata dalla soglia della stanza, non osò avvicinarsi a lui per il timore di essere respinta in malo modo, in lui era sorto un misto di gelosia e delusione che non sapeva come disinnescare in breve tempo.
«Che tu mi creda oppure no, ero all'oscuro delle intenzioni di Brian. Ciò che mi ha detto era troppo confuso per capire. Ho compreso tardi, ma nulla mi potrà dare le sue ragioni ed io sono convinta non abbia voluto provocare l'incidente. Eravamo felici, Fabian»
Il seal si riaccomodò reprimendo l'impulso di scrutare nello sguardo della donna la verità. Per assurdo non riuscì a vincere la rabbia con il terrore che quell'ultima notizia potesse compromettere Sophie; non si sentì nemmeno di spingerla verso una testimonianza forzata, della memoria di Brian gli importava poco, voleva solo preservare la sua famiglia. 
«Mi dispiace di averti coinvolto, sei l'uomo più onorevole che io conosca»
«A cui hai raccontato vent'anni di bugie. È uno strano modo per dimostrare ciò che pensi di me. Sophie, ricorda: vivere con una persona non ti offre la certezza di conoscerla. Io e te ne siamo la prova»
Il telefono tornò a suonare, non gli diedero tregua e forse per lui fu un bene non trovare il tempo di rimuginare. 
«Hai ragione. Ora ti lascio al tuo lavoro, ne riparleremo»
Fabian seguì i passi del maggiore mentre usciva dalla stanza; non alzò la cornetta, finché udì la moglie sulla soglia della sala comandi. Prese un respiro profondo, avvertiva un tremore pervadere tutto il suo corpo, le mani erano altrettanto coinvolte. Non era consono cedere, la solitudine nella quale stava affrontando la situazione lo stava abbattendo più di quanto avrebbe ammesso a terzi. Alzò la cornetta respingendo qualsiasi sintomo di malessere.
«Comandante Hernandez»
«Fabian. Spero tu mi senta, qualche ora fa è saltata la linea»
Dal Coronado avvertì una voce lontana, che gli infuse in parte sollievo e in parte accentuò il suo stato alterato. 
«Christian»

 

Ciao, cari lettori e care lettrici!
Ho impiegato più tempo del previsto per concludere questo periodo, mi dispiace. Fra mancanza di serenità, tempo ed energie non ho potuto fare altrimenti. Inoltre, ad essere onesti, nell’ultimo anno non è emotivamente semplice scrivere sulla guerra.
Vi chiedo davvero scusa, ma ringrazio anche di cuore tutti coloro che sono tornati su questa storia per continuarla insieme a me.  Vi sono davvero grata per la pazienza, è un grande dono per me.
Spero sempre di essere più celere negli aggiornamenti, resta un buon proposito che mi prefiggo sempre.
Un abbraccio grande,
Vale

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Capitolo 32
*** Capitolo 31_Anche se fosse un azzardo ***


Anche se fosse un azzardo




 
 
Ospedale di Charikar - a tre quarti d'ora da Kabul, 10 ottobre 2018
 
A Samuel era stata raccomandata una lunga degenza per rimarginare al meglio le ferite subite; ferite che non aveva mai avuto occasione di sperimentare in vita sua e poteva affermare con certezza fossero alquanto sgradevoli. I suoi ventiquattro anni, però, continuavano a ripetergli quanto il tempo della guarigione fosse terminato, di certo non era giunto in Afghanistan per osservare il conflitto dalla finestra di un ospedale. Sospettava che il tenente Richardson in persona avesse esercitato una qualche pressione per giungere a quella decisione, non era in fondo un mistero che vegliasse fin da subito sulla sua sicurezza, da quel viaggio condiviso e partito dall'Edwards Air Force Base nello Stato della California; eppure era sicuro che sarebbe dovuto essere lui ad occuparsi di un militare sofferente, soggetto a patire crisi in volo, e non il contrario.
Obbligato nel letto di quel nosocomio, il reporter non riconosceva l'istinto innaturale con cui desiderava essere accanto a coloro che erano oppressi da quella guerra, le stesse persone che lo avevano ospitato senza condizioni. Se anni prima gli avessero anticipato che quello sarebbe stato il suo futuro, non ci avrebbe creduto. Stava riscoprendo un coraggio che non immaginava di possedere, prima che suo padre gli proponesse una trasferta in territorio ad alto rischio. Incolpava la giovane età e l'incoscienza. Margaret era la sua promessa sposa, era legato a lei, ma loro non erano ancora marito e moglie, nulla di indissolubile dava maggiore valore alla vita del giornalista; il tenente Richardson aveva una famiglia a cui rendere conto e da cui tornare, Samuel non l'aveva ancora costruita. La sua fidanzata, però, rimaneva la più grande certezza a cui affidarsi, il domani sperato - vicino o lontano che fosse - rappresentava tutto ciò che voleva rivivere presto.
In quel presente Samuel non poteva ignorare ciò che documentava; gli era stato insegnato ad essere professionale, eppure ogni volta che il suo obiettivo si posava su volti segnati da profondi solchi, quella sofferenza diventava anche un po' sua. Era certo che il padre non avesse colto il messaggio ricevendo il suo lavoro sulla scrivania della redazione, eppure era convinto che il suo ruolo al fronte venisse considerato un'importante risorsa per il Los Angeles Times. Non osò credere che il suo compito a Kabul si riducesse ad un mero gioco d'affari; feriva pensare di essere un semplice dipendente per il direttore, non chiedeva favoritismi, solo l'affetto e la fiducia di un padre. L'atteggiamento che aveva ostentato il genitore nel corso della loro ultima chiamata aveva dato modo a Samuel di riflettere: nella voce di Daniel era ben riconoscibile una nota di preoccupazione che non era mai stata rivolta al ragazzo e, più in generale, ad entrambi i figli. Non era sicuro di aver riattaccato solo per stanchezza; per la prima volta si era trovato in seria difficoltà a sostenere una conversazione con l'uomo che lo aveva generato. Sapeva sopportare ogni sfumatura dell'indifferenza che gli riservava, ma rispondere alle sue apprensioni diventava più complicato, non sapeva come gestirle. Lo avevano informato del fatto che fosse stato malato, forse la sofferenza lo aveva turbato a tal punto da migliorare la sua personalità, ma erano solo le assurde illazioni di un infermo di guerra.
«Buonasera, signor Clark»
Samuel ebbe un sussulto nell'udire quel nome, non aveva avvertito il cigolio della porta. Stava pensando proprio al padre e la sua mente associò al direttore quella rispettosa invocazione. Voltandosi, incontrò il rassicurante sorriso di Karim; nella sua voce vi era appena accennato un velato buon umore. L'entusiasmo del medico, nato dal fatto che l'amico si stesse riprendendo ogni giorno di più, si spense sotto lo sguardo confuso del reporter.
«Sono qui per cambiare la medicazione»
Il dottore si avvicinò a lui con cautela, posò sulle lenzuola gli strumenti del mestiere e offrì a Samuel una mano per alzarsi dalla posizione distesa in cui si trovava. Il tocco caldo dell'amico gli infuse la sensazione che il patimento di quelle ore valesse la vita di quel popolo; in primis, aveva la certezza che il suo status di occidentale, e in quanto tale privilegiato agli occhi dell'ambasciata, potesse risultare un vantaggio anche per coloro che necessitavano di aiuto in mezzo alle macerie di un Paese lacerato.
Una lieve smorfia di dolore si dipinse sul volto del giovane, faticò a dissimulare la sofferenza fisica abbastanza bene da mentire a Karim, un medico che riconosceva in breve tempo i danni delle munizioni, suo malgrado aveva imparato nel corso degli anni.
«Come ti senti?»
«Se dico che sto bene, consigli ai tuoi colleghi di dimettermi?»
«No»
Il dottore non impiegò durezza, lo rimproverò con autorevolezza, ricordando a lui chi tra loro avesse le giuste competenze per valutare le sue condizioni di salute. Karim recuperò garze pulite e si accomodò sul bordo del giaciglio accanto all'amico. Ebbe la discrezione di accertarsi che fosse pronto, sfiorò lo sguardo del giornalista con atteggiamento paterno, nella convinzione che ferite d'arma da fuoco non fossero la consuetudine per un civile americano. Samuel gli rivolse un deciso cenno di assenso, sapeva di essere in buone mani, ne aveva avuto svariate prove e in ultimo aveva anche impedito che la morte lo prendesse. Karim iniziò a sciogliere le bende umide con prudenza; le ferite si stavano rimarginando in modo corretto e il ragazzo non provava più troppa sofferenza durante la medicazione, sia all'interno sia all'esterno del suo corpo l'agguato non sembrava aver lasciato segni irreparabili. Fu il medico a  spezzare il velo di silenzio che si era creato tra loro, anche se lo fece con mestizia.
«Abbiamo parlato con l'imam, ci guiderà fino al matrimonio»
«Quindi vi sposate presto?»
«Sì e a tue spese. Se non ti fossi intromesso, non avresti rischiato la vita»
Il giovane americano non replicò subito, si arrogò qualche secondo per riflettere su parole inaspettate e sature a loro modo di gratitudine. 
Se non mi fossi intromesso, non l'avresti mai sposata.
«È il mio mestiere, dottore»
Samuel rivolse al suo soccorritore un sorriso sbarazzino, provocando in Karim una vistosa rassegnazione. Il dottore aveva avuto modo di osservare il lavoro dei forestieri occidentali, erano dediti al sacrificio e al servizio che prestavano alla loro nazione. Nello sguardo cristallino dell'amico si coglieva un forte coinvolgimento emotivo nei confronti della vita di coloro su cui si informava; era forse dovuto alla giovane età o, molto più probabilmente, ad un cuore puro. Tutto ciò che Karim riuscì a provare nei riguardi del reporter fu un grande sollievo per essere riuscito a scongiurare la sua tragica dipartita. 
Il medico di Herat terminò il bendaggio, appena prima che un uomo distinto facesse il suo ingresso nella stanza. I muscoli di Samuel si irrigidirono, sul suolo afghano solo soldati in borghese o rappresentanti consolari indossavano abiti occidentali; lo stesso Karim ebbe un sussulto nel notare il giovane così agitato. Il nuovo arrivato non mostrò invadenza, solo una certa urgenza di riferire ciò per cui era stato incaricato.
«Buonasera, signor Clark. Sono un funzionario dell'ambasciata americana. Sono qui per conto del console. Dopo il rischio che ha corso, suo padre ha chiesto protezione per lei»
«In che senso?»
Karim era rimasto accanto all'infermo, ma non riuscì ad impedirgli di alzarsi per reggere la conversazione con quell'uomo a pari livello. Il giornalista sembrava sconvolto dalla notizia, ma il rappresentante non aveva chiaramente preso in considerazione una qualche resistenza da parte di colui che necessitava di essere condotto in sicurezza.
«Dovrà permanere in un luogo protetto, dove potrà svolgere il suo lavoro con regolarità»
«Non potrò più avere contatti con la gente del posto?»
Il diplomatico gli rivolse un lieve cenno di dissenso, quasi dispiaciuto per l'afflizione del connazionale; per la verità iniziava ad essere confuso sulla reale utilità della sua presenza in quella stanza, era certo che il reporter fosse ben contento di ricevere aiuto dalla sua ambasciata dopo il grave attentato che lo aveva visto vittima,  ma non sembrava affatto così. Il dottore represse ogni tentazione di intervenire, si finse un sanitario qualsiasi di quell'ospedale e non un amico dell'infermo, un afghano a cui quest'ultimo si stava riferendo provando a far valere la sua volontà con convinzione; desiderava che Samuel fosse al sicuro, ma allo stesso tempo avrebbe rimandato da dove era giunto quell'uomo che dalla sua scrivania pulita e ordinata non poteva immaginare cosa succedesse a cielo aperto.
«Assolutamente no! Può dire a mio padre che so badare a me stesso»
«Suo padre è d'accordo con il console. Signor Clark, temo lei non abbia facoltà di decidere»
In preda alla disperazione per non riuscire a dissuadere i suoi superiori, Samuel tentò di muovere un passo verso l'interlocutore; un dolore al fianco smorzò la sua intraprendenza costringendolo a sussurrare. Karim ebbe il vano istinto di correre in suo soccorso, ma stavolta a bloccarlo fu la passione dell'amico che trasudava da ogni poro della pelle: stava lottando per loro, a scapito della sua incolumità. Non avrebbe potuto ingannare un natìo circa la sua reale capacità di difendersi in un clima di guerra così rischioso, in parte il medico era lieto che qualcuno preservasse Samuel dai pericoli, meglio di come avrebbero potuto fare dei poveri afghani sprovvisti di ogni cosa.
«Può dire al console che mi assumo io ogni responsabilità sulla mia vita. Come faccio a raccogliere informazioni sull'Afghanistan senza conoscere questo Paese?»
Il funzionario, giunto da Kabul pochi minuti prima con una vettura militare,  rimase sorpreso dalla determinazione del giornalista, anche se ormai aveva compreso l'entità della motivazione contro cui si stava scontrando e che avrebbe dovuto abbattere per portare a termine con successo la sua missione al nosocomio di Charikar. 
«Non può abitare a casa di questa gente, ne va della sua incolumità»
Si voltò verso la terza presenza nella stanza con espressione scettica e giudicante. Karim finse di non comprendere l'opinione dell'americano, anche se uno sguardo più attento avrebbe colto un misto di dispiacere per non avere più accanto l'amico e di sollievo nella certezza che avrebbe trovato un luogo più sicuro in cui abitare durante il suo soggiorno in Afghanistan.
Quando l'intransigente e ostinato diplomatico uscì senza attendere un'ulteriore replica, Samuel appoggiò entrambi i palmi sul bordo del materasso per provare a far cessare il dolore insorto durante l'accesa discussione.
«Samuel, calmati, ti fai del male così»
Il medico di Herat avrebbe voluto tranquillizzare l'amico, cercò di trasmettergli serenità con il tono della voce. Il giornalista si concentrò solo sul suono del cellulare che si trovava accanto a lui, posato su un tavolino di legno.
«Tuo padre mi ha informata dell'agguato. Cos'è successo?»
Quando udì il tono allarmato della fidanzata, assunse una posa meno agonizzante per cercare la forza di non angustiarla. 
«Mio padre è sempre molto delicato»
Era sarcastico, il direttore non era mai stato affettuoso e quando lo era commetteva disastri, come ad esempio allarmare Margaret; avrebbe forse preferito non lo fosse, almeno non in circostanze così importanti e a distanza di migliaia di chilometri. 
«È solo preoccupato»
Era sconvolto dalla risposta della ragazza, era inedito ed estraniante udire simili considerazioni provenire da lei; proprio lei che aveva da sempre ritenuto Daniel causa di forti scompensi emotivi ed affettivi in Samuel. 
«È bastato che partissi, affinché mio padre entrasse nelle tue grazie? Senti, Margaret. Visto che è diventato il suocero ideale per te, gli puoi riferire che non ho alcuna intenzione di chiudermi in un bunker?»
Diede alla giovane la possibilità di ribattere, ma vi era solo un palese silenzio dall'altra parte della linea.
«Maggy?»
Gettando un'occhiata sullo schermo del telefono, si accorse che aveva riattaccato. Non prese bene la lite inaspettata con la fidanzata, tanto che ebbe l'istinto di lanciare il cellulare contro la parete; lo sentì vibrare appena prima che riuscisse a compiere quel gesto istintivo. Gli veniva annunciato un nuovo messaggio.

 
Non so cosa ti abbia fatto quel posto, ma torna a casa intero.

Sentì di aver esagerato e il carattere inscalfibile di Margaret aveva fatto il resto. Buttò il telefono sulle lenzuola scomposte e rivolse una sincera domanda a Karim.
«Quando si terrà il matrimonio?»
Il dottore non era certo di voler rispondere, non desiderava che nell'arco di un mese Samuel rischiasse di nuovo la vita, doveva tornare negli Stati Uniti per sposarsi, non dovevano esservi priorità differenti. Il ragazzo comprese la prudenza dell'amico, ma decise di mettere in chiaro la sua posizione. 
«Voglio esserci»
 
 
Ambasciata americana - Laboratorio di balistica, 11 ottobre 2018
 
Christian aveva riposto grandi aspettative nella visita all'ambasciata. Era speranzoso di trovare coloro da cui era stato costretto a separarsi nel nosocomio, eppure ricevette una magra consolazione: gli americani erano soltanto riusciti a recuperare la sua arma, non avevano trovato traccia del dottor Smith o della giovane madre. 
Il tenente, dopo l'ultima esperienza, impugnava la Sig Sauer con maggiore sospetto; l'aveva riposta nella fondina e dalla riconsegna non l'aveva più estratta né tantomeno caricata. I talebani avrebbero potuto commettere i peggiori crimini con la sua pistola, perciò lui preferì evitare di sfiorarla. In vista dell'incursione nell'ospedale, ricordava molto bene di averla munita con un caricatore pieno; mancavano un paio di proiettili e temeva per l'incolumità dei civili che aveva conosciuto. Continuava ad esserci il buio nella sua mente circa le concitate ore al termine delle quali aveva perso conoscenza. Del valoroso dottor Smith non aveva avuto più notizia e non riusciva a non pensare al suo destino; la scomparsa di quell'uomo aveva privato di un'importante risorsa umana e professionale l'ospedale assediato. 
Il tenente non smetteva di fissare in silenzio il monitor del laboratorio di balistica. Attendeva notizie, possibilmente liete dopo i giorni che aveva trascorso. Era illusorio ritenere che alla resa quella missione si fosse conclusa con un flebile lieto fine, che, in fondo, per il luogo in cui si trovavano, era soltanto una gioia parziale. E allora perché il cielo non concedeva loro almeno un piccolo successo? Beatriz aveva ragione, Christian si stava nascondendo dietro irreali speranze, aveva fallito e continuava a farlo, a scapito della gente comune. 
Elijah notò il nervosismo del tenente, stringeva i pugni e corrucciava il volto immerso nei pensieri, non tentò nemmeno di coprire la sua emotività. Christian sapeva di potersi affidare al sottotenente, era stato un brillante compagno in campo e il suo lavoro dietro uno schermo era altrettanto attendibile. Ciò che Elijah non comprendeva era il motivo per cui l'amico avesse chiesto un esame autoptico sul corpo di un afghano qualsiasi, privo di un'identità conosciuta e rilevante per le forze armate.
Il capitano era stato accusato di eccessiva emotività fin dall'accademia. Beatriz aveva assistito a più di un episodio di ammonimento, ma nessuno conosceva ciò che aveva vissuto prima di iniziare il percorso da seal e che aveva accentuato la sua umanità verso il prossimo. Christian non riteneva ci fosse qualcosa di sbagliato nel non voler privare qualcun altro della vita, era un valore per lui imprescindibile,  senza il quale qualunque possibilità di redenzione si sarebbe dispersa. In caserma Beatriz non lo aveva mai visto cedere davanti al ricordo del passato, perché si guardava bene dall'osare in pubblico. Lei e nemmeno Elijah avevano idea di quanto la sua emotività fosse compromessa dagli eventi e forse quella compassione considerata da tutti sconsiderata era in parte effetto della sua adolescenza. A fronte di quei pensieri, vi era un compromesso da pagare e il seal lo stava vivendo ogni singolo giorno sul suolo afghano; le remore di Christian erano a senso unico e questo diventava molto rischioso per la sua sicurezza. Era ciò che pensava il sottotenente, lo metteva in guardia, ma il compagno non era in grado di seguire quei validi consigli. Il pensiero della famiglia negli Stati Uniti non lo rendeva più cinico, anzi se c'era una certezza nella sua vita riguardava proprio la morale che desiderava tramandare a sua figlia, prima ancora di qualunque bene materiale.
Elijah non vedeva l'amico da diversi anni, eppure le iridi chiari del seal erano per lui limpide; iniziò ad attribuire un nome ai gradi che Christian esponeva sul petto; agli occhi del nemico potevano risultare debolezze, eppure era tornato in Afghanistan per un motivo, gli stessi generali avevano chiesto di lui per portare a termine missioni complesse. Elijah stesso era convinto che di lui ci si potesse fidare davvero.
Christian era chiaramente preoccupato, si era dimostrato tale dal primo momento in cui quella mattina era tornato in laboratorio. 
«Non hanno trovato proiettili nel corpo dell'afghano, è saltato in aria. Nel rapporto che farò non risulterai un assassino, contento?»
Elijah fu intenzionalmente superficiale e provocatorio nel comunicare la notizia a Christian. La notizia proferita con leggerezza non fece sospirare di sollievo il tenente; egli non smise di scrutare corrucciato il monitor, mentre il sottotenente stampava il verbale sugli esami che i medici legali avevano eseguito.
«Dovrai seriamente spiegarmi come riesci a provare pietà per i talebani»
«Provo pietà per la mia anima. E inizio anche a temere per la mia incolumità»
Il capitano si appoggiò sconsolato al bordo della scrivania. In passato aveva temuto di dover intraprendere un giorno il fronte di guerra da padre, ricordava di averlo confidato a Katherine più volte, temeva di imporre a sua figlia un destino simile al suo. Quell'ennesima bomba avrebbe potuto rendere vittima anche lui. Rivolse lo sguardo sconfortato al cielo che si trovava oltre gli sterminati piani dell'ambasciata, ma non seppe più se pregare, ringraziare o arrabbiarsi con la volta celeste che non gli metteva in testa l'idea di tornare e restare a San Diego.
Elijah era impegnato ad archiviare i documenti, ma prestava accurata attenzione all'umore dell'amico e pensava solo al modo in cui avrebbe potuto aiutarlo a sentirsi meglio dopo uno scampato pericolo.
«Ricordo nove anni fa quando mi dissero che senza la nostra salute non avremmo potuto aiutare civili in difficoltà. Credo che quel mio compagno avesse ragione. Era il soldato semplice Christian Aiden Richardson»
L'autore di quella saggia considerazione non ricordava di averla pronunciata e nemmeno in quali possibili circostanze.
«Proprio tu mi parli di salute?»
Non smetteva di sentirsi mortificato per le condizioni del compagno e forse avrebbe provato quel fardello per il resto della sua vita, ma al sottotenente quell'atteggiamento compassionevole e carico di rimorsi da parte sua infastidiva. Elijah spinse la sedia a rotelle altrove per lasciargli il tempo di tornare a ragionare su questioni più urgenti. Dalla posizione in cui si trovava alzò i toni trasformando la loro conversazione in una discussione, sperando che con maggiore convinzione sarebbe riuscito a persuadere anche lui.
«Christian, mi stai ascoltando, vero? Devi ucciderli se vuoi sperare di vincere questa guerra e tornare dalla tua famiglia. Prendere quella dannata pistola e sparare senza alcuna pietà! Amico, devi rassegnarti, non c'è spazio per la tua compassione, riservala per i tuoi cari»
Gli indicò persino la fondina in cui sapeva che avesse riposto l'arma. Il seal tornò a parlare con tono basso, quasi fosse una confidenza e si stesse rivolgendo a se stesso, nell'ambito del suo inconscio. Fissò il vuoto davanti a sé, mentre le immagini dell'ultimo periodo in missione scorrevano vivaci nella sua mente. 
«Settimane fa ho conosciuto un giovane costretto ad uccidere per conto dei talebani, il suo nome era Rashid. Pochi giorni fa abbiamo ritrovato un soldato americano della mia unità, è stato nelle loro mani per mesi, ha commesso atrocità per avere salva la vita. Come faccio a conoscere l'identità del nemico che ho davanti, il passato che lo ha spinto ad essere l'uomo che è diventato?»
«Allora devi accettare il rischio e non tradire la tua morale»
«Anche se fosse un azzardo?»
«È un azzardo. Diremo a tua moglie di scrivere sulla lapide quanto tu sia stato umano, ma ciò non ti riporterà da lei. Non credo che le potrà bastare pensarti come un uomo senza macchia»
Il tenente ne era sicuro, ma il discorso schietto del sottotenente non spense la palese determinazione sul volto. 
«Oh no, conosco quello sguardo, l'ultima volta ha salvato decine di soldati. Christian, cos'hai in mente?»
«Devo parlare con il nostro commilitone, ha trascorso diverso tempo fra i militanti»
Il generale Flores aveva ragione, non c'era più tempo per rispettare il dolore di Alexander, al contrario l'esperienza subita avrebbe potuto preservare la vita di molti innocenti.

 
 
Base militare semidiroccata – Confine Nord/Est di Kabul, 11 ottobre 2018
 
Il soldato Ward aveva vent'anni, ma il suo continuo indugiare sull'ingresso la faceva sentire in piena fase adolescenziale; dopo l'accademia le era sembrato di aver raggiunto un più alto livello di maturità, invece non aveva ancora deciso se ascoltare l'istinto che le suggeriva di intraprendere un confronto diretto e propizio con Alexander. 
I ricordi di una breve vita si sovrapponevano l'uno sull'altro, quando pensava al giovane soldato. L'accademia era stata diversa con lui accanto, non più semplice ma molto più significativa. Ricordava di aver inizialmente odiato il suo essere temerario; il tenente Richardson condannava lo spirito incauto intravisto nella recluta, prima di conoscere quello ostentato di Alexander. Non poteva negare a se stessa di essersi innamorata di lui nel momento più basso della sua vita, il più solitario. Lui l'aveva tirata fuori dall'angolo in cui si era rintanata alla notizia della morte dell'amato padre. Lui, che senza sfiorarle mai le labbra, l'aveva amata. Ed ora Gwendoline sentiva che quell'amore custodito intimamente nei loro cuori era stato tradito da lui, ironia della sorte, dal temperamento spavaldo di Alexander che aveva lasciato sulla propria scia solo sofferenza.
La giovane cercò la forza d'animo di affacciarsi nel salone devastato dall'ultima incursione nemica e lo scorse. Non comprese l'attività su cui era concentrato, era accomodato con il capo chino. Gwendoline riconobbe un brillante colore scarlatto colare dalla mano di Alexander; a quel punto si affrettò ad avvicinarsi a lui preoccupata, dimenticando ogni esitazione. 
«Ma cos'hai fatto??»
Il ragazzo tentava di pulire e tamponare la ferita a mani nude. Sangue e polvere gli impedivano di scorgere la zona lesa, ma lui era riuscito ad estrarre il corpo estraneo prima dell'arrivo della compagna. Per Alexander fu un'impresa relativamente semplice e indolore rispetto alle esperienze che aveva già attraversato nel corso della sua giovane vita.
«Gwen, era solo una scheggia»
Non sembrava intenzionato a raccontarle i dettagli dell'incidente, di cui lui parlava già al passato, ma la giovane convenne che avrebbe potuto rischiare conseguenze ben più gravi a causa della sua imprudenza - la stessa che ultimamente era solito esercitare spesso. Si affrettò a cercare un panno pulito, ma nella sporcizia della base risultava complicato. Le attenzioni della ragazza non stupirono né rallegrarono Alexander; si erano sempre scambiati tali accortezze e non pensò al fatto che potessero essere un segnale di riavvicinamento, lei avrebbe prestato soccorso a qualunque commilitone con la medesima dedizione e la medesima premura. La tranquillità del soldato non contagiò anche Gwendoline, la quale si sedette accanto a lui e con delicatezza iniziò a strofinare con la stoffa di una benda di fortuna la ferita; non ricordava dove fosse la cassetta per le medicazioni, nel subbuglio dell'ultimo attaccato subìto molte attrezzature erano risultate disperse. Posò il dorso della mano sulle sue ginocchia per lavorare meglio sotto lo sguardo amorevole del giovane uomo che le sfiorava il viso.
«Se mi avessi detto che ferirmi sarebbe stato un buon pretesto per avere la tua attenzione, lo avrei fatto prima»
Lo bloccò sul posto con un'occhiata truce, era rimasta infastidita dalla battuta. Era sciocco da parte sua credere che una considerazione tanto frivola nel luogo in cui si trovavano potesse sortire l'effetto sperato.
«Non sei mai stato divertente»
La smorfia di dolore che seguì costrinse Gwendoline ad essere più accomodante.
«Scusa»
La ragazza allentò subito la pressione sulla parte lesa per alleviare il dolore che gli aveva procurato.
«Figurati. Me lo merito»
«Per essere stato stupido a farti male? Non è il modo migliore per espiare le tue colpe»
«No. Per non averti dato ascolto»
Ward alzò lo sguardo su di lui e anche Campbell non tolse gli occhi da lei, salvo quando riprese a parlare con un velo di imbarazzo che si concesse di provare durante un incontro così intimo e familiare. Nonostante Alexander fosse sinceramente affranto, Gwendoline non colse dispiacere, la sua espressione era il riflesso dell'ultimo periodo trascorso in solitudine lontano dai suoi compagni, oppure era solo ciò che lei si ostinava a vedere dopo l'apprensione dei mesi trascorsi. Alexander non cercava compassione, i suoi muscoli erano resi più severi dai ricordi, si incupì; la solarità della sua età sembrava essere svanita per sempre.
«Vorrei tornare indietro, ma purtroppo non posso. Avrei evitato la sofferenza di molti. Non sarei stato costretto a veder soffrire bambini senza poter fare nulla per aiutarli, assistere alle torture che subivano senza impedirlo»
Gwendoline catturò ogni gesto del giovane, nessuno di esso era superfluo rispetto a ciò che stava narrando; le iridi della ragazza si tramutarono in specchi: per lui e per tutte le persone che vedeva soffrire attraverso i ricordi del soldato Campbell. Una lacrima le sfuggì, uscì dal suo controllo, Alexander la raccolse con destrezza in una carezza della mano libera, prima che lei potesse nasconderla alla sua vista. Gwendoline gli impedì di allontanarsi da lei. Lo sorprese, era convinto di aver osato troppo, invece fu costretto a ricredersi. Sentì così vivo sulla pelle l'uomo che insieme a lei era diventato un militare dell'esercito americano; riuscì persino a dissolvere dalla mente i crimini commessi per conto dei talebani. Per un impercettibile istante abbassò le palpebre e lasciò che quel momento le infondesse calore, rappresentava una protezione che le era mancata e non era certa di poterne fare più a meno. Lo avvertì sempre più prossimo a lei, ma non si oppose a lui né aprì gli occhi fino a che non percepì il suo respiro avvolgente e il palmo della mano che sfiorava la superficie della sua guancia, desideroso di approfondire il contatto. La breve distanza costrinse entrambi a sussurrare.
«Sei ferito, devo medicarti»
«E non può aspettare?»
Lanciò una fugace occhiata alla sua ferita senza allontanarsi da lei; diede alla questione poca importanza. Per la giovane recluta insorsero i rimorsi; era stata egoista ad illuderlo per ottenere una manciata di secondi in più del suo calore.
«Si infetterà»
Gli rispose con dispiacere, abbassando lo sguardo sulla mano di lui e cercando di trattenere la malinconia dell'idillio che scorreva tra di loro. Maledisse la guerra e insieme ad essa se stessa per esserne entrata a far parte.
«Gwen. Mi ascolti un istante?»
Gli fece un lieve cenno di assenso che discordò con il reale volere. Aveva cercato in prima persona un confronto, ma continuava a temerlo profondamente. 
«Anche io sono innamorato di te»
Avvertì una lacrima di lei precipitare sul suo palmo ferito, non provò fastidio, anzi forse era la cura migliore, soprattutto per la sua anima. Il pensiero di essere ricambiata avrebbe potuto fare in modo che si riavvicinasse a lui, ma la notizia non la scosse, tranne per quella singola goccia di sale che si era staccata con tempismo dalle sue ciglia.
«Gwendoline»
Colse il fatto che il compagno si trovasse ancora a pochi centimetri per accostarsi al suo petto con la fronte e piangere in maggiore libertà. Esattamente in quel punto in passato aveva sfogato la sofferenza per il padre defunto; provò in quel modo a rivivere il medesimo conforto. Ad Alexander venne spontaneo far passare le dita fra i suoi capelli in un atteggiamento molto comprensivo. 
«È ancora troppo presto, lo so»
Anche se sperava non lo fosse, nonostante il poco tempo a disposizione prima che la corte marziale lo condannasse. Era un frangente emotivo e allo stesso tempo statico che catapultava i due giovani in un luogo non lontano dalla guerra, ma in cui ritornavano insieme; non era una consapevolezza che rendeva lieti, era impossibile scoprire gioia in quel capannone dilaniato e con il sottofondo dei perpetui scoppi nelle terre su cui camminavano. Donava speranza sapere che si fossero riuniti, niente era più come mesi prima, ma la presenza dell'altro non lasciava indifferenti.
Il capitano Richardson, concitato dall'ultimo incontro con il sottotenente, non si premurò di cogliere nei due giovani la necessità di scambiarsi un composto e silenzioso abbraccio. Li interruppe con innocenza, pentendosi all'istante di non essersi accertato di non disturbare. 
«Alexander!»
Non appena Gwen udì il tono del superiore, tentò di celare il viso umido; le lacrime che aveva versato erano intime, totalmente estranee alla posizione che ricopriva in nome dell'America, sentì perciò il dovere di reprimere quei minuti di debolezza. Il fatto era che il soldato Ward si sentiva fragile e non era affatto pronta ad ammetterlo, ciò sarebbe stato controproducente per tutti. Come lo avrebbe spiegato al tenente? Come avrebbe ammesso a se stessa di aver deluso suo padre? Sicuramente il sergente Ward era convinto che sua figlia fosse più valorosa. Non ammise alcun timore ai due uomini, decise di mentire ad entrambi congedandosi.
«Scusa, pensavo fossi solo»
«Me ne stavo andando, signore. Alex, hai bisogno solo di una fasciatura»
Il compagno le rivolse un lieve sorriso di gratitudine. La dolcezza non la sconvolse accostata al nuovo sguardo del soldato Campbell, segnato dagli orrori di una violenza ingiustificata. Christian era talmente mortificato per averli interrotti da non cogliere neppure i loro sguardi complici. Quando Gwendoline lasciò la stanza, il capitano esternò sul volto pena e speranza.
«Come va con lei?»
Alexander rimase molto sorpreso dalla domanda, il generale Flores non l'avrebbe mai rivolta ad alcun sottoposto. Da quando era tornato alla base e aveva riconquistato il suo posto, il soldato si era stupito per quante cose fossero cambiate, il tenente Richardson considerava importanti aspetti della loro vita a cui nessuno tra le file degli ufficiali erano mai importati.
«Non è il contesto. Risolveremo tornati negli Stati Uniti»
Non era chiaramente abituato ad essere trattato come un uomo intriso - volente o nolente - di sentimenti, era in soggezione, non era certo di capire fino a che punto potesse spingersi e svelare la sua sfera emotiva, come richiesto dal superiore. La diffidenza del soldato non stupì Christian, ricordò viva la considerazione di Gwendoline sulla posizione del generale.
«Non sono Flores. Se i miei uomini sono emotivamente instabili, gradirei saperlo»
Con tono e atteggiamento comprensivo il seal si accomodò accanto alla giovane recluta. Raccolse la mano di Alexander e esaminò il palmo con preoccupazione paterna, ma era fiducioso del fatto che Ward se ne fosse già occupata con dedizione. Alexander non si scompose e si confidò, ormai certo che da quell'uomo si sarebbe potuto aspettare qualunque cosa.
«Credo di aver superato abbondantemente la soglia di emotivamente instabile, tenente. Negli ultimi mesi temo di aver perso davvero una parte di me. Gwendoline ha ragione, non mi riconosce più e non si fida. Non mi riconosco più nemmeno io»
Christian appurò che la ferita non fosse tanto grave da richiedere un intervento medico; ad impensierirlo fu soprattutto chiedere a quel giovane di rivangare nelle ferite invisibili e ancora sanguinanti, per quello avrebbe potuto fare ben poco, non esistevano cure mediche che lui conoscesse. 
«Alexander, necessito del tuo aiuto»
«Non esiti a chiederlo»
«Ho bisogno di sapere tutto quello che sai, anche i dettagli più insignificanti»
Non era spaventato dal ricordo, solo dalle conseguenze che continuavano a sortire le sue azioni. Confidare ciò che era successo avrebbe potuto rendere giustizia alle vittime, anche quelle di cui si era macchiato lui stesso. Il ragazzo ritirò la mano dalla debole presa del superiore e abbassò lo sguardo verso il terreno polveroso. Dei giorni di prigionia ricordava soprattutto sangue, le sue scarpe ne erano costantemente imbrattate. Ricordava di aver attraversato diverse regioni dell'Afghanistan, di aver ferito innocenti con armi che appartenevano alla fazione nemica, in caso di rifiuto le stesse armi gli si sarebbero rivolte contro. Persisteva a chiamarsi codardo, in quei momenti e nel presente che stava vivendo. Aveva visto bambini reclutati, donne maltrattate, uomini uccisi; i veri eroi erano loro che donavano la vita per un futuro di pace. Lui vedeva, ma non li fermava, anzi era costretto a diventare loro complice. Gli orrori a cui assisteva tornavano a tormentarlo negli incubi o da sveglio e in solitudine; in quei momenti provava potenti conati di vomito, specie verso la sua indifferenza e il suo comportamento spregevole.
«C'erano esecuzioni sommarie. I medici sfiniti hanno provato a salvare tutti, anche gli aguzzini, ma mi hanno portato fuori presto da quell'ospedale. Avrei dovuto aiutare i civili, non schierarmi dalla loro parte»
«Campbell, no. Non saresti qui»
«Mi vergogno per ciò che ho fatto. Non ho giurato di difendere l'America così»
«Non abbiamo tempo per la vergogna. Il comandante Reyes non è informata, ciò che ti chiederò è una mia personale iniziativa. Se devo pensare ad una strategia, voglio accanto qualcuno che conosca i loro punti deboli»
Alexander rifletté sulla richiesta del superiore; non ricordava nervi scoperti nella loro organizzazione, solo cieca violenza che li rendeva spietati e vittoriosi. Richardson continuava a risultare strano agli occhi del sottoposto, eppure una sensazione gli suggeriva che quella proposta potesse davvero rivelarsi la soluzione giusta e definitiva. Ancora una volta Gwendoline aveva dimostrato di avere in tasca la ragione, quell'uomo poteva rappresentare la svolta.
«Capitano, posso rivolgerle prima una domanda? Me lo consente?»
Christian accettò con un silenzioso cenno del capo.
«Perché si fida di me, quando la maggior parte dei miei compagni dubita delle mie intenzioni?»
«Perché ho il vizio di azzardare, anche la mia vita quando è necessario»

 
 
Base aerea di Bagram - Afghanistan, 11 ottobre 2018
 
I pasti in guerra erano spesso solitari e ricchi di pensieri, lo ricordava bene Christian che per reggersi sulle proprie gambe era stato costretto a cedere a qualche minuto di ristoro. Intorno al seal il vociare contenuto e rispettoso dei militari accompagnava quel momento di tregua, ma era solo una calma apparente, fuori da quelle mura, seppur ancora solide, morte e desolazione ricoprivano la maggior parte del suolo afghano. Pur essendo un uomo affabile, aveva deciso di ritagliarsi un angolo di tavola per riflettere, solo lui e il suo vassoio con la poca razione di cibo che riusciva a deglutire fra le preoccupazioni. Katherine non avrebbe apprezzato questo suo nuovo stile di vita, anche se forse lo aveva già intuito attraverso lo schermo durante la loro ultima videochiamata. 
La conversazione con il collega dall'altra parte dell'Oceano non gli era stata di conforto come avrebbe sperato, nella voce era annidata ansia e apprensione, oltre a stanchezza per il lavoro che stava svolgendo nel Coronado senza alcun supporto. Christian si era sorpreso nell'udire che ogni aspetto della base stesse funzionando a pieno regime sotto lo stretto controllo di Fabian, ciò gli provocò disagio, consapevole dello sforzo del collega. Il capitano era certo che lo svilimento non fosse dovuto alla spossatezza, Hernandez si era lasciato sfuggire che una mole di lavoro maggiore lo avrebbe aiutato a non pensare. Da cosa non era dato sapere, anche se Christian aveva provato a fare una lieve pressione affinché gli venisse confessato. Quando Richardson citò la moglie, il dubbio si accentuò; nel tentativo di rassicurare il collega il tenente Hernandez aveva gettato l'ombra del sospetto, erano uscite così informazioni che mai Fabian avrebbe voluto rivelare in quella sede.
«È molto preoccupata per te»
«Hai visto Katherine di recente?»
«Io? D-di sfuggita qui alla base»
«Per quale ragione dovrebbe frequentare il Coronado in mia assenza?»
Christian udì il distinto rumore di una penna contro un ripiano rigido, Fabian era chiaramente nervoso. 
«Non ne ho proprio idea. Forse cercava qualcosa nel tuo ufficio»
Ci furono interminabili istanti di silenzio tra i due colleghi. 
«Fabian, mi stai nascondendo qualcosa?»
Non era difficile intuirlo, lavorava al suo fianco da sufficiente tempo per decodificare l'incrinatura della sua voce e i suoni che facevano da sfondo alle misteriose parole di Fabian.
«Pensa solo a tornare a casa, sto diventando pazzo a gestire tutto da solo»
Immerso nei pensieri, un rumore metallico a pochi centimetri dalle mani fece sussultare il tenente. Un luccichio rotolò nella sua direzione. Christian ebbe l'istinto di fermare la sua folle corsa con le dita prima che raggiungesse il bordo del tavolo. 
Il seal svelò e inquadrò il prezioso gioiello; sfiorò il colletto della divisa confuso, era convinto di aver già rimesso il ciondolo al suo posto. Non era una mancanza tipica di lui, l'abbondante mese trascorso al fronte lo aveva lasciato provato fisicamente e mentalmente, tanto che in questioni simili rimase deluso da se stesso per la poca lucidità dimostrata. 
«Gwen, avevi ancora la mia fede?»
«Le consiglio di rimetterla al dito, capitano, è il luogo più sicuro»
«Tanto sparo con la destra»
Si rattristò per la sua stessa infelice considerazione, si rendeva conto che prima o poi avrebbe dovuto trovare il coraggio di sparare contro il nemico, era un presagio molto realistico. Non ricordava di avere mai dimenticato la vera nuziale in quasi dieci anni di matrimonio, forse perché non aveva mai avuto necessità di sfilarla. Era meglio evitare di replicare, nel caso in cui avessero trovato il suo corpo senza vita avrebbero potuto riportarlo a Katherine identificandolo; in una simile circostanza non avrebbe potuto fare altro per lei. Quei macabri pensieri non gli diedero modo di rendersi conto di ciò che stava ingurgitando, anzi le viscere si stringevano alla sola eventualità che sua moglie potesse essere destinata ad un tale strazio. Gwendoline notò lo stato assorto del superiore, così cercò di distrarlo con innocenza. 
«Com'è?»
In un primo momento non comprese a cosa lei si stesse riferendo, ma la ragazza indicò subito il piatto posto dinnanzi al seal per evitare fraintendimenti.
«Non è il massimo, ma è molto più di quanto possa permettersi la maggior parte degli afghani»
«Immagino le manchino le leccornie di sua moglie»
Christian tentò di contenere un genuino sorriso, fu il primo veramente sincero da diverso tempo. La considerazione del sottoposto gli fece immaginare come potesse svolgersi la quotidianità in sua assenza a San Diego.
«Katherine è negata in cucina, lei stessa disperata mi chiede aiuto. Quando il lavoro me lo consente provvedo io. Sai, essere orfano, ha anche i suoi vantaggi»
«Già»
La pessima battuta rattristò la giovane, il seal se ne accorse tardi e provò a rimediare sviando subito l'argomento. Christian allontanò dal tavolo una sedia accanto a lui per essere più accogliente e alla fine cedette, dopo un breve istante di smarrimento nei tristi ricordi che il tenente aveva stimolato. 
«Dai accomodati. Cosa volevi dirmi?»
«Non ho molto appetito»
«Devi mangiare»
«Mi tratta come sua figlia»
«Sembri proprio lei quando deve assaggiare qualcosa che non gradisce, anche quando lo preparo io. Discutiamo spesso per questo»
«Le mancherà molto»
Le iridi celesti di Christian si annacquarono e lui non tentò nemmeno di celarlo. La recluta aveva sfiorato un tema sensibile. In certi momenti gli sembrava che l'aria venisse meno, talmente intensa era la mancanza di Alisia. In quelle sfortunate volte in cui considerava la possibilità che un disgraziato incidente potesse impedirgli di ritornare dalla sua bambina, la voglia di prendere un aereo per gli Stati Uniti era quasi irrefrenabile. 
«Non la sento da troppo, mi mancano persino i suoi capricci»
«Dove ha conosciuto sua moglie? È un soldato anche lei?»
«È una civile. Si è trasferita a San Diego anni fa. Ha impiegato un po' a notarmi»
«Come si può non notare lei?»
Gwendoline mosse quella personale considerazione senza alcuna malizia, si accorse solo più tardi del senso ambiguo e arrossì d'stinto. Il superiore ignorò la reazione della giovane per non metterla a disagio ulteriormente. 
«È molto più facile notare Katherine»
«Ne è ancora molto innamorato»
Quando si trattava della moglie, l'indiscrezione della recluta non lo infastidiva, non era un segreto ciò che riguardava la consorte. Per Christian, Katherine continuava a rappresentare l'isola felice dei suoi pensieri, una cura naturale per il passato insieme alla figlia. Avevano accumulato sterminati ricordi, eppure quello in cui la vide per la prima volta rimase indelebile. Per capire cosa Christian intendesse, Gwendoline avrebbe dovuto pensare con la sua mente e vedere con i suoi occhi.
«Siamo insieme da più di dieci anni»
Era diventato molto malinconico, ma continuava ad ignorare il fatto che si stesse confidando con la giovane, una recluta, ma soprattutto una ragazza con poca esperienza in campo sentimentale. Il loro rapporto era diventato simile ad un'amicizia, anche se la formalità continuava ad intromettersi duramente tra loro; ciò che li legava era un vissuto sofferto che aveva spento la gioventù di entrambi. 
«La rivedrà, capitano, non si angusti per questo. Necessito di un consiglio, sono quasi certa di non doverlo chiedere ad un mio superiore, ma non so a chi altro. Ho fiducia nel suo giudizio»
«Riguarda Alexander?»
Ricordava la complicità che aveva intravisto tra loro quando li aveva interrotti; sfiorava la curiosità di sapere cosa fosse cambiato tra i due giovani, si rifiutava di pensare che alla loro età ogni speranza di riconciliazione fosse perduta. Le afferrò la mano posata sul tavolo, avvolgendola. Gwendoline sussultò appena per il gesto inaspettato, ma non si ritrasse grazie ad un'estrema forza di volontà, sentiva di necessitare proprio di quel genere conforto; il dolore e la solitudine l'avevano costretta a crescere in fretta e nessuno meglio del tenente Richardson avrebbe potuto comprendere le sue necessità emotive.
«Gwen, devi cancellare dalla tua mente ciò che è successo ad Alexander. È l'unico modo per offrirgli un'opportunità»

 
 
Ciao, cari lettori e care lettrici!
Torno a pubblicare amareggiata, ma con la consapevolezza che nei racconti che creiamo, se vogliamo, possiamo trovare un lieto fine, spesso precluso nella realtà. 
Ho voluto dedicare questo capitolo alle riflessioni che guideranno i protagonisti negli eventi futuri che dovranno affrontare. I personaggi di cui narro in questo capitolo sono solo una parte di tutti quelli che ho citato nell'arco della storia, quindi credo sia giusto il momento di farveli conoscere prossimamente. 
Vi ringrazio di cuore per la costanza con cui mi seguite, ogni volta è per me una splendida sorpresa. ♡
A presto!
Un abbraccio
Vale
 

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Capitolo 33
*** Capitolo 32_L'incontro ***


L'incontro
 

 

Una rosa di carta si spezza sotto il peso della pioggia.  
Una rosa di anime resta viva nel lieve vociare dell'oceano.


 
 
Ufficio Comandante Unità - Confine Nord/Est di Kabul, 16 ottobre 2018
 
Christian non si premurò di bussare, da quando la scrivania del superiore era presidiata da una sua vecchia conoscenza ebbe l’impressione di trovarsi più vicino ai luoghi familiari che era solito frequentare prima della partenza per l’Afghanistan. Al seal bastò socchiudere la porta per scorgere Beatriz; era concentrata su una cartina che aveva consultato spesso nelle ultime settimane, alla disperata ricerca di una soluzione praticabile: la mappa guidava i soldati nel mezzo delle vie dissestate che circondavano la capitale. Credendo di trovarsi sola in quegli istanti di riflessione, la donna non ebbe timore di ostentare rassegnazione, il suo sconforto non avrebbe così potuto demoralizzare gli uomini della sua unità lontano dai loro sguardi. I capelli selvaggi avvolgevano parte delle spalle, aveva trascurato il suo aspetto sempre austero e quel portamento le regalava qualche anno in meno di vita.
Il tenente indugiò troppo a lungo sulla maniglia, la forza impiegata nelle braccia aveva provocato un rumore stridulo che nel silenzio della stanza attirò l’attenzione di lei. Beatriz provò a ricomporsi, ma senza successo; rinunciò presto, l’umore pessimo causato da una vita insoddisfacente non le offrì la grinta necessaria: la situazione familiare che aveva lasciato in America la stava mettendo a dura prova come moglie e come madre, perciò un eventuale fallimento sul campo le avrebbe inferto il colpo di grazia.
«Christian»
Si era esposta tanto davanti a lui - troppo per una persona che aveva promesso a se stessa di non cedere alle più intime debolezze -, non era contemplato rivelare la tristezza che stava attanagliando i suoi pensieri; forzò un sorriso poco convinto per accoglierlo nel migliore dei modi. Il seal non scostò lo sguardo dall’aspetto così fragile del suo comandante; avrebbe voluto tranquillizzarla, ma non possedeva una sola condizione che avrebbe potuto risultare efficace. La donna, che stava cercando di insultare la sua intelligenza simulando una serenità inesistente, somigliava alla giovane allieva che aveva conosciuto in accademia e che ambiva a solcare cieli e oceani lontani da orizzonti e coste conosciuti; la ragazza, con la quale aveva instaurato fin da subito una certa affinità, non si sarebbe mai arresa alle difficoltà e nemmeno la donna più matura avrebbe preso in considerazione di farlo.
«Devo condividere alcune scoperte con il mio comandante»
I buoni propositi di non coinvolgerla erano presto sfumati; da quando gli aveva confidato di essere madre di un ragazzino con il quale aveva un rapporto genitoriale burrascoso avrebbe desiderato preservarla da ogni rischio, da qualunque operazione che avrebbe potuto anteporre il lavoro alla sua vita. Alexander aveva confidato al tenente importanti notizie che avrebbero potuto rendere complessa la situazione in cui verteva l’ospedale di Kabul, privare la collega di quelle informazioni equivaleva a sabotare qualunque piano futuro, chiunque fosse l’ideatore. Beatriz recuperò la sua sedia e invitò Christian a seguire il suo esempio. Il seal si limitò ad accostarsi alla scrivania, posò i palmi sulla superficie liscia per avvicinarsi a lei il più possibile e rendere riservata la conversazione. Il comandante non si allontanò dallo schienale, il suo sguardo era concentrato sull’espressione tesa del collega; era stanca di ricevere pessime novità, la maggior parte delle quali non possedeva una soluzione, semplice o complessa che fosse, in guerra non pretendeva certo di ricoprire un ruolo facile, ma almeno sperava di intravedere una piccola vittoria ogni tanto.
«Vogliono trasformare il nosocomio in una base militare con infrastrutture sanitarie. Questo spiegherebbe il motivo per il quale ci hanno concesso di evacuare donne e bambini. Potrebbero aver bloccato il medico che ci ha aiutati per preservare all’interno dell’ospedale una buona percentuale di personale sanitario, quantomeno la parte più collaborativa. Secondo Campbell potrebbero aver rilasciato la madre del neonato dandole la possibilità di salvarsi»
Beatriz contemplò la cartina rimasta aperta sulla scrivania. Compì quel gesto per prendere tempo, non fu utile né funzionale ad un loro successo contro il nemico, ma fu un momento di riflessione necessario per fare chiarezza sul nuovo stato della situazione. Christian aveva già avuto modo di assimilare la notizia, i suoi riflessi erano volti all’azione; posò una mano proprio nel punto in cui gli occhi della donna si muovevano, per attirare l’attenzione di lei.
«Beatriz, voglio trattare con loro. Portare fuori i civili deve essere la nostra priorità. Vorranno delle concessioni in cambio, conosco l’Afghanistan abbastanza da poter contrattare»
Fra tutte le possibilità che il comandante aveva passato al vaglio nell’ultima manciata di secondi, quella avanzata da Christian non era stata contemplata da lei e a ben vedere. Beatriz non si sentì in alcun modo spodestata, ma persistevano evidenti contrasti nel modus operandi dei due; riscoprì determinazione, si fece scivolare sul bordo della sedia per potersi avvicinare a lui a sua volta e accorciare le distanze tra loro; non lo fece per complicità, ma per il solo desiderio di prevaricare sulle sue ragioni.
«Ma perché non ci sediamo tutti ad un tavolo e ne parliamo con i talebani?»
«Sarebbe una saggia decisione»
Il capitano non colse il sarcasmo della collega, era molto serio e volenteroso nel portare a termine una volta per tutte la missione per la quale era stato incaricato pochi mesi prima.
«Hai per caso notizie del generale Flores? Tenerti a bada è molto difficile. Christian, forse non ti è chiaro che non tratto con i talebani»
«Un giorno potrebbe essere l’unica soluzione»
Lo scrutò combattuta, l’ultima considerazione la colse impreparata; era scettica, ma non severa, si mostrò più donna di quanto non fosse comandante. Le idee di Beatriz erano ben distanti da quelle di una carneficina, ma la diplomazia non era nelle loro mansioni; erano dotati di artiglieria per una ragione, ai loro livelli dovevano essere le armi a parlare, non le bocche e tantomeno il cuore di un seal reticente alle pratiche violente. Umanamente era d’accordo con Christian, ma l’esperienza bellica le aveva insegnato che un’iniziativa diplomatica poteva essere mossa solo dal console. Non credeva fosse folle a domandarle un permesso che di sua sponte non poteva accordare, vedeva  solo nei suoi occhi celesti un'eccessiva dose di idealismo. Scostò i capelli dietro le orecchie da entrambi i lati nel tentativo di riscoprire forza; fissò verso il basso un qualunque punto che non appartenesse all’uomo con cui stava discutendo. Fu lui a ricercare il suo sguardo, obbligandola a considerarlo senza sfiorarla; sussurrò, nessuno meglio di lui poteva comprendere le difficoltà in simili circostanze.
«Beatriz mi avete chiamato voi. Organizza l'incontro, va bene anche l'ospedale, Karim è disposto ad aiutarmi. Credimi, possiamo salvarli»
Quell’appellativo plurale la annoverò proprio fra coloro che lo avevano strappato alla sua famiglia. Per convincerlo a desistere non impiegò la carta delle persone a lui care, in quel modo si rendeva conto di intersecare ancora una volta la vita privata con il lavoro, per quanto esso fosse compromettente per definizione: consentirgli un incontro così rischioso con il nemico la spaventava. Era assurdo che Ward, una semplice recluta, le avesse ricordato quanto a distanza di anni si premurava ancora che lui non corresse alcun pericolo.
«So che non ti fidi più di me»
«Chris, non è questa la questione»
Il seal prese posto sulla sedia che fino a quel momento aveva ignorato. Ora i loro sguardi si trovavano alla stessa altezza, ma fu lui ad evitare quello di lei, un atteggiamento intimidito a cui Beatriz non riuscì a dare una spiegazione. Persino il tono di Christian mutò, divenne più profondo, come se le stesse per affidare una confidenza dolorosa.
«Ero appena diventato orfano, quando sono entrato in accademia. Se loro non fossero morti, non ti avrei conosciuta, era scritto un altro destino per me»
Ciò la stupì e la confuse; non aveva mai lasciato trapelare qualcosa a riguardo e una notizia simile a distanza di così tanto tempo non aveva senso in quella sede.  All’epoca della formazione militare non si erano presi il disturbo di conoscersi, non si erano interessati al passato del compagno, erano impegnati a vivere il presente l’uno accanto all’altra. 
«Non me ne hai mai parlato»
Le lanciò un'occhiata allusiva sul motivo. Beatriz trovò poco proficuo domandarsi la ragione per la quale un diciassettenne ritenesse più opportuno chiudere il passato nelle pieghe del petto, piuttosto di riaprire ferite ancora sanguinanti.
«E non ho intenzione di farlo ora. Un lutto non mi giustifica, ma spiega molte mie scelte di quel periodo. Mi hai aiutato a superare un momento difficile e te ne sono grato. Ci sei stata. La deriva della nostra relazione è stata un errore da parte mia. Avrei preferito avere vicina un’amica fidata, piuttosto che tradire la tua fiducia illudendoti e sparendo»
A Beatriz non sfuggirono le sue parole: li aveva definiti un errore, eppure non riusciva ad esserne infastidita. Christian scelse di essere sincero, rischiando davvero di compromettere la sua fiducia; riconobbe le buone intenzioni, archiviare il loro personale passato era un modo per rinsaldare i loro rapporti sul campo, senza una fiducia incondizionata in quell’ambito difficilmente avrebbero potuto progredire.
«Perché me lo dici proprio ora?»
Le sorrise malinconicamente, non era affatto facile offrirle una spiegazione, aveva solo sentito fosse giunto il momento.
«Perché non so se ci rivedremo altrove o se questa guerra ci risparmierà. Sono poco affidabile, lo so, ma…»
«Per la verità, ti descrivono tutti come un tenente molto coscienzioso. Ed io non ho mai pensato fossi un uomo sleale, ma Christian, stiamo parlando di un tentativo davvero molto rischioso che può compromettere gli equilibri»
«Ti ho già chiesto molte volte di avere fiducia in me, se non te la senti lo capisco»
«Flores si fida di te, hai conquistato la fiducia dell’intera America nove anni fa. Sei tu lo stratega tra noi, devo affidarmi a te, non ho altra scelta»
La malinconia che aveva pervaso Christian nel corso della sua confessione lo aveva abbandonato; gli rimase un po’ di amarezza, avvertiva di averla delusa. Ebbe la triste certezza che raccontarle i demoni con tempismo avrebbe potuto giovare, ma era inutile rimuginare, per quello era ormai troppo tardi. Ricambiò il sorriso rincuorante della donna, non era convinta delle decisioni da prendere, ma si sentì in dovere di mostrargli vicinanza, quando lui le diede l’occasione di farlo.
Un movimento insolito del terreno riscosse entrambi dai ricordi. Cessato il tremore del suolo, Christian intravide caldi colori contrastanti con il cielo ceruleo divampare oltre la finestrella che si trovava alle spalle di Beatriz. L’irruenza con cui il seal si precipitò fuori dalla stanza gettò a terra la sedia su cui si era accomodato; non avvertì i passi della collega che lo stava seguendo con disappunto, era solo concentrato a raggiungere la sua destinazione. 
«Christian!»
Quando il tenente giunse sul posto che distava poche centinaia di metri dalla torre in cima alla quale era situato l'ufficio del comandante, riconobbe una scritta sulla facciata dell’edificio mezza divorata dalle fiamme; era incisa in lingua locale, ma comprese con ansia la parola che tradotta in americano significava orfanotrofio. La scoperta gli infuse terrore; una giovane donna, attratta dai suoi abiti militari, avvicinandosi a lui lo riscosse: gli indicava in lacrime le finestre al piano superiore, da cui stava uscendo fumo di colore grigio. I soccorritori non si intravedevano e il seal non esitò, non lo fermarono nemmeno le grida di Beatriz alle sue spalle che lo supplicavano di fermarsi. Sfidò le fiamme senza indugio, anche se la paura di non uscirne vivo era intensa. L’ansia e l’adrenalina accelerarono subito il respiro, inalò denso vapore appena entrato in quell’ambiente viziato; fu costretto a fermarsi un istante per tossire ed espellerlo prima che raggiungesse i bronchi. Coprì le vie aeree con il braccio e la divisa, anche se la stoffa asciutta avrebbe potuto fare poco contro le alte temperature. Cercò di individuare con qualche difficoltà le scale prima che venissero divorate dall’incendio, causato da un’esplosione la cui origine non era ancora ben nota; la buona vista che lo aveva sempre accompagnato subì limitazioni tra la cenere e le fiamme. Provò ad isolare i pensieri dalle sensazioni di calore che provava sulla pelle; socchiuse le palpebre, incurante del pericolo. Il pianto sofferente di un neonato gli indicò la via da percorrere. Erano grida lievi e familiari, le avrebbe distinte fra qualunque altro suono da quando era nata sua figlia; chi piangeva non poteva avere più di qualche giorno di vita. Corse in quella direzione, sfidando le lingue di fuoco che minacciavano di lambire ogni stanza al piano inferiore, l'istinto gli indicava di seguire quella via.
 
Era tornato dal Coronado senza vedere la strada davanti a sé; era sempre stato un automobilista prudente, ma il desiderio di trovarsi al Rady Children’s Hospital nel più breve tempo possibile lo aveva reso sprezzante del pericolo che avrebbe potuto incontrare. Era sceso trafelato dall’imbarcazione che lo aveva portato in missione per poter tornare a San Diego e abbracciare la sua famiglia. Aveva avuto modo di vedere la figlia nata da poco attraverso uno schermo, ma non poteva essere sufficiente. 
Quando entrò nella stanza, il grande sorriso di Katherine lo accolse, lo invitò a prendere un respiro e a tranquillizzarsi; l’aveva raggiunta in divisa e armato, era un mistero come avesse fatto a superare la sicurezza dell’ospedale. Vederlo fu una gioia dopo aver sofferto da sola durante il parto, ma a lui non accennò gli sforzi compiuti appena qualche ora prima.
«Non saremmo comunque scappate. Siediti»
Christian si rifiutò di prendere tra le braccia la sua bambina a causa dell’agitazione.
«Ho corso e ho le mani sudate, temo di farle male»
A lui bastava sapere che stessero bene, non averla accompagnata nel reparto maternità lo aveva fatto trepidare tutto il giorno. La piccola Alisia aveva anticipato ogni loro previsione e stroncato i loro piani, convinti di abbracciarla qualche giorno più tardi. Si limitò a porgere un bacio tra i capelli scompigliati della moglie. Scorse nei lineamenti della figlia qualche tratto familiare; non ritrovò se stesso, ma i dettagli della madre e del padre defunti erano vivi sul suo volto delicato. Katherine donò al marito una carezza sul viso, era sicura di interpretare i suoi pensieri. 
 
Una porta sigillata interruppe la sua strada, ma non poteva fermarlo, il pianto proveniva proprio da quelle pareti. Ardeva qualunque cosa in quell’edificio, le ceneri iniziavano a privarlo del tutto del fiato, sentire la vita nei polmoni del bambino però lo rincuorava: il piccolo si stava sforzando di urlare, affinché qualcuno giungesse in suo soccorso. In quello scenario di devastazione, c’era ancora speranza. Con la manica della divisa fece pressione sulla maniglia incandescente e con forti spinte contro lo stipite provò a sfondarla; per quanto la spalla gli dolesse fece innumerevoli tentativi, senza però sortire i risultati desiderati. Usare l’arma sarebbe stato impensabile, le fiamme avrebbero provocato un’esplosione che non avrebbe dato loro scampo. 
Recuperò il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni con l’intenzione di trovare una tessera che potesse far scattare la serratura e si imbatté nella foto della sua famiglia; si ritagliò un mezzo istante di sentimentalismo sfidando le fiamme, fu il fumo nei bronchi a costringerlo a non perdersi a lungo nei pensieri. Scelse una tessera rigida qualsiasi e la infilò tra lo stipite e la porta; si premurò di riporre il portafoglio ed estrasse la Sig Sauer dalla fondina solo quando trovò un modo alternativo in cui sarebbe potuta tornargli utile: la scaricò da tutti i proiettili, li ripose in tasca e impiegò il calcio come leva per scardinare la serratura. Si sforzò, in un luogo privo di ossigeno una fatica simile minacciò di abbatterlo; quando riuscì, ripose la pistola nella sua cintura e si gettò alla ricerca del neonato, anche se a malapena si reggeva sulle gambe. Nell’intento di cercare un modo per entrare non si era accorto che il pianto del piccolo era cessato. Vide una culla e al suo interno un ingarbugliato cumulo di coperte; si portò il bambino al petto, lo sollevò prestando attenzione alla testa, come gli aveva sempre raccomandato Katherine con Alisia, si accertò subito che respirasse tastando i piccoli polsi e passando un dito sotto il suo naso; lo coprì completamente con le lenzuola per evitare che inalasse altro fumo.
Per Christian non fu difficile trovare un varco nella nebbia, la voglia di portare in salvo quella creatura gli infuse intraprendenza. All’uscita, nell’unico momento in cui avrebbe potuto cedere sfinito sulla ginocchia, un abbraccio trepidante gli impedì di collassare; non ricambiò solo perché il piccolo sopravvissuto si frapponeva ai due. La stretta conservava in sé la forza del perdono e della riconoscenza. Beatriz fu costretta ad allontanarsi da lui, quando alcuni medici si avvicinarono a loro per soccorre il piccolo superstite.
«Ho solo qualche scottatura»
«Sei troppo impulsivo, tu non tratti con i talebani. Ci penso io»
Il tenente sorrise di cuore fra i colpi di tosse; la collega aveva accolto la sua idea, ma non gli era dato ancora conoscere le condizioni. Criticava la temerarietà di Gwendoline, ma lui era il primo a gettarsi tra le fiamme all'occorrenza.

 
 
Periferia Ovest di Kabul, 21 ottobre 2018
 
Samuel fissava Karim intento a scrutare i suoi volumi di medicina impolverati; non riusciva a comprendere nulla, erano tutti in afghano, ciò che però riconosceva era la passione con cui il dottor Sharifi si impegnava a consultare le pagine ingiallite. Il giornalista aveva la metà dei suoi anni, eppure si rivide in lui ai tempi di Yale; erano accomunati dallo stesso impegno e dallo stesso interesse per il proprio mestiere. Il reporter iniziava a convincersi che non fosse partito solo per compiacere suo padre, quel viaggio era stato cercato dalla sua volontà, ammetterlo ad una furiosa Margaret era più difficile. Si era rifugiato nel monolocale in cui viveva Karim in cerca di una compagnia amica, poco importava fosse silenziosa; si era accucciato a braccia conserte sul tavolo di legno e rifletteva sulle più svariate questioni, convinto innanzitutto di dover chiarire con la fidanzata. 
Gli ultimi giorni per Samuel si erano rivelati ricchi di cambiamenti. Contro il volere del reporter, il suo alloggio era cambiato; ora occupava una stanza singola in un albergo riservato a giornalisti occidentali, ma nonostante le premure dell'ambasciata trascorreva parecchio tempo al villaggio insieme ai suoi amici. All'inizio incontrare i colleghi della CNN non lo aveva entusiasmato; si era sbagliato di poco, alcuni corrispondenti della rete statunitense erano più socievoli di altri, nulla di strano paragonato al naturale scorrere dei rapporti umani. La maggior parte di loro era stata gentile e comprensiva, gli aveva suggerito di riposare dopo l'agguato, ma non lo conoscevano abbastanza per credere che avrebbe proseguito il suo soggiorno in un letto. 
Dopo due mesi in Afghanistan si era accorto di conoscere ben poco della gente di quel popolo, ma soprattutto non si era fermato ad indagare il loro passato, l'anima di un giovane reporter era molto meno riflessiva e più pragmatica; lo scorrere inesorabile dei giorni però era un elemento che li accomunava a prescindere dalla loro nazionalità. Sciolse la sua posizione raccolta e intensificò lo sguardo sul medico.
«Karim? Mi togli una curiosità? Perché sei rimasto a Kabul dopo gli studi? Non hai avvertito il desiderio di tornare dalla tua famiglia?»
Una pagina rimase sospesa tra le dita del natìo; era stranito per la domanda così personale giunta all'improvviso, quella fu la prima reazione, in un secondo momento subentrò la malinconia, a cui si rifiutò di cedere. Riprese a leggere per distrarsi dai ricordi, nascondendo un nodo in gola che gli impedì di verbalizzare i pensieri. Samuel era giovane ma non ingenuo, comprese subito il silenzio del medico, era carico di sentimento.
«Perdonami, non avevo idea fosse un argomento delicato»
«Nemmeno tu mi hai mai risposto riguardo a tuo padre. Ho sentito parlare del Los Angeles Times, diversi tuoi colleghi hanno lavorato qui per un periodo più o meno lungo. Sembra un giornale prestigioso. Non riesco ancora a comprendere per quale ragione il direttore abbia inviato proprio suo figlio»
«Non è affatto un buon padre»
«Sì, questo l'avevo capito»
Non era intenzione di Karim ferire il ragazzo, si pentì di aver impiegato il medesimo poco tatto e da parte sua con malizia per impartirgli un insegnamento non richiesto. Lo sguardo vacuo del giornalista al pensiero del genitore infuse al dottore sensi di colpa; Samuel non doveva rendere conto ad uno straniero delle ragioni che lo avevano spinto in Afghanistan, il dottore ne era consapevole. Un atteggiamento paterno e meno risentito suggerì un sorriso incoraggiante sul volto del medico, affinché l'americano non si abbattesse. Distrasse il giovane rispondendo alla domanda, ma senza alzare lo sguardo dai suoi volumi che raccoglievano le più svariate formule di cura. 
«A Herat ho lasciato una sorella, un fratello e due genitori. Sono il primogenito. Ero giovane quando ho iniziato a studiare medicina all’università di Kabul. Ho impiegato i miei risparmi negli studi. Mia madre avrebbe voluto mi sposassi con una giovane scelta da mio padre. Mio fratello contava che mi occupassi della famiglia e accasassi nostra sorella»
Karim accarezzò con malinconia le pagine che teneva tra le mani. Ciò che più amava nella vita era inconciliabile e lo sarebbe sempre stato. Era caduto spesso in errore verso la sua famiglia, l'aveva ammesso svariate volte a se stesso, eppure la volontà di essere ciò che era non lo aveva mai portato alla redenzione. Incrociò lo sguardo serio e attento di Samuel. Il dottore affievolì il tono di voce, rendendo la conversazione più intima.
«Penso di essere stato la più grande delusione dei miei cari. Non so come stiano, mi mancano, anche se non penso di essere ancora ben accetto. Io e mio fratello non ci siamo salutati nel migliore dei modi. Ogni volta che sento aerei volare verso Herat, trattengo il fiato»
«Le tue scelte sono state legittime»
«Non in Afghanistan. Anche gli uomini qui hanno doveri. Provo rimorsi soprattutto verso mia sorella, lei è più grande di nostro fratello, ma di certo non può occuparsi della famiglia. Volevo risparmiarle un matrimonio infelice e non penso di esserci riuscito. Volevo evitare un matrimonio infelice anche alla mia promessa. Me ne sono andato, non sono tornato e non ho impedito proprio nulla, altri hanno scelto per loro»
«Eri innamorato di lei?»
Il reporter aveva notato la malinconia con cui Karim aveva citato il suo passato e in particolare quella donna che ad esso apparteneva; non si era sbilanciato sulla sua identità, era rimasto vago.
«Lo hai scoperto con lei?»
Il dottore comprese subito a cosa si stesse riferendo; sbuffò in modo educato richiudendo il libro con pacatezza, ma anche con una chiara nota di fastidio nel discutere di un argomento così personale; quasi si pentì di essersi confidato con il giovane riguardo alle sue capacità di concepire.
«Senti, Samuel, anche la curiosità di un giornalista ha un limite»
«Era la domanda di un amico»
La spontaneità e la dolcezza con cui si definì suo amico lo stupì, ma non lo scompose.
«Visto che ti interessa tanto, in Afghanistan le regole sono un po’ diverse e di certo non inizio una relazione con una donna che so di non poter sposare. Chiaro?»
Il ragazzo non si rassegnava ad ostentare i suoi pensieri da occidentale.
«Non penso che la tua famiglia ti rifiuterebbe solo per questo»
Karim lo fissò comunicandogli quanto fosse ingenuo a pensarlo e poco pratico di un contesto tanto complesso come il suo. Riaprì il volume, riprendendo una ricerca che sembrava stargli a cuore. Dedicò la sua ultima riflessione a sé più che all’americano.
«Non conosci mio fratello. Era solo un ragazzino quando me ne sono andato, ma non dimenticherò mai il suo disprezzo. Spero solo che i miei genitori siano ancora vivi, ero molto legato a mia madre»
Un’illuminazione sul libro che stava consultando impedì alla nostalgia di prendere il sopravvento. Puntò il dito sulla pagina che stava sfogliando per non perdere il segno delle righe che erano passate sotto i suoi occhi, la sua lunga indagine aveva portato risultati.
«Maryam mi ha chiesto un rimedio per le sue nausee. Non teme di stare male, la spaventa l’opinione comune»
La dedizione con cui il dottor Sharifi si occupava della giovane sventurata non sorprese Samuel, aveva dimostrato in più occasioni di essere un uomo d’onore. Karim gli aveva più volte fatto notare quanto la sua opinione da occidentale fosse fortemente influenzata da una cultura talvolta superficiale, eppure non riusciva comunque a condannare le scelte che l'amico aveva preso nel corso della sua vita, anche se queste superavano qualsiasi logica della Legge.
 
 
San Diego -  Stati Uniti d’America, 30 ottobre 2018
 
Sophie accostò il cappello da pilota-comandante all’angolo della lapide; una lapide che aveva scelto lei stessa di costruire in America, per avere la percezione di averlo ancora accanto, ma una tomba vuota non avrebbe mai potuto colmare la voragine lasciata dal compagno. La stoffa di quel cappello, dopo anni sui fondali, era sgualcita, portava i segni del passato; le ricordava quanto quell’incidente avesse stravolto la sua vita più di quanto fosse riuscita ad ammettere a terzi, persino agli affetti più prossimi. Il tempo non aveva cancellato l’incredulità; vedere la sua foto sul marmo era la cosa più illogica che avesse mai vissuto. Per anni era stato un tumulo commemorativo privo di qualunque corpo, fino a quel momento era stata una circostanza che offriva meno realtà alla sua tragica perdita. Ora lui era lì e il senso di tradimento che aveva provato così intenso nel primo periodo di relazione con Fabian tornò a bussare al suo cuore; il suo attuale compagno non sarebbe stato in grado di comprenderla, la loro ultima discussione le offrì quell’amara certezza, ma lei in fondo non seppe biasimarlo.
Dopo la scomparsa di Brian nulla era stato semplice, ma una giovane aviatrice offuscata dal dolore non si sentiva pronta a chiudere con il futuro; era dovuta scendere a compromessi con la sua determinazione, con la tenacia di non abbandonarsi alla disperazione, vanificando così tutto ciò che erano stati lungo il breve viaggio che avevano attraversato insieme.
Non era stato facile tornare ad approcciarsi ad un uomo che non fosse il marito defunto e amato, ad abbandonarsi alle braccia di un altro uomo. Si era procurata molto male, anche se Fabian le aveva donato solo amore; non lo aveva mai ammesso ad anima viva ed ora che i suoi vissuti riemergevano dal passato le emozioni erano diventate un fiume che travolgeva lei e chiunque le fosse accanto. Forse non si era davvero innamorata del suo navy seal, ma solo dell’idea di sentirsi ancora amata e ciò era straziante. 
Sulla lapide di una vita trascorsa, Sophie portava fiori, ricordi e illusioni. Non importava più mentire, tradire la fiducia di Fabian, oltre alla memoria di Brian. La verità era che aveva deluso se stessa. Aveva sciolto i pensieri in lacrime senza più nascondere le fragilità; sfiorò il vetro lucido della foto del giovane pilota: le sorrideva orgoglioso, ma non certo della donna che in vita aveva amato.
«Mi dispiace»
Non gli aveva mai chiesto perdono fino a quel momento, ma gli occhi immortalati in quello scatto le trasmettevano la pace di cui aveva così disperatamente bisogno; non era certa che lui da lassù fosse al corrente delle scelte intraprese dalla moglie, per lei fu molto più comodo credere che la sua anima si fosse dissolta nel nulla, si accontentò che lui in vita sapesse quanto lo avesse amato.
Nel giorno in cui il corpo di Brian era tornato sulla terraferma, il tenente Hernandez aveva deciso di essere accanto alla madre dei suoi figli. Si teneva a debita distanza, rimaneva alle spalle di Sophie accostato ad un tronco incaricato di ombreggiare le lapidi; per la prima volta si palesava su quella tomba, non era mai stato al corrente della sua esistenza. Osservare Sophie in quel luogo estraneo gli diede ulteriori conferme di aver condiviso anni della sua vita con una donna a lui sconosciuta, faticava a riconoscerla nelle azioni che compiva nei riguardi di un altro uomo in quel camposanto; si sentì persino un terzo incomodo, non più un sostegno nelle situazioni più impervie.
Il maggiore dell’aeronautica percepì i passi dell’uomo provenire dalle sue spalle. Accostò un ginocchio al terreno umido accanto a lei e depose un fiore scomposto alla base della lapide.
«Non hai commesso alcun crimine, ti sei solo fidata di un compagno di vita e di lavoro»
Erano così vicini che fu sufficiente sussurrare per non disturbare la quiete del luogo. Fu quello il momento in cui incrociò lo sguardo sorpreso della moglie; potevano avvertire i respiri tormentati di entrambi e i loro pensieri si intrecciavano inesorabili sulle medesime questioni.
«Lui non era un criminale. Ti prego, Fabian, mi sono confidata affinché tu mi aiutassi a scoprire che non lo è. Credevo e credo ancora in lui, ma non ho prove per dimostrarlo. Non ho potuto aiutarlo in vita, consentimi di farlo ora»
Si sentì in colpa per non essere riuscito a comprenderla come aveva promesso di fare fin dall’inizio, glielo doveva anche solo per il vincolo indissolubile che lo legava a lei. Pensò al modo più consono di poter indagare sui giorni precedenti all’incidente con le poche informazioni che gli aveva fornito la moglie sul conto del pilota; avrebbe voluto accontentarla, sfruttare per una giusta causa il potere che aveva fra i ranghi della Marina Militare.
«Hai ragione. Un uomo amato da te non può essere un criminale»
Sophie gli rivolse un sorriso sincero, non era sicura che il marito le credesse, era più propensa a ritenere che fosse un tentativo di rimandare il discorso per non rischiare una nuova discussione.
«Allora vale lo stesso per te»
Il sorriso di Fabian fu più malinconico; era disilluso, più volte la compagna aveva ammesso i suoi reali sentimenti nell'ultimo periodo e non aveva avuto alcun motivo di mentire, compromettendo il loro rapporto.
«Non credo, Sophie. Il tuo cuore è sempre rimasto in questo cimitero»
Il tenente si alzò, la sua anima era leggera, non provava rancore o gelosia, la tenacia con cui da sempre faceva i conti in veste di militare lo rendevano consapevole dell’inutilità di simili sentimenti, non avrebbero portato ad alcun risultato, tantomeno per lui o per la loro famiglia; il seal sapeva di amare sua moglie e ciò gli bastava. Sophie preferì non rispondere, avrebbe solo espresso per l’ennesima volta il suo dispiacere e lo trovò inutile, convinta che lui lo sapesse già, non aveva bisogno di ripeterlo. Non osò seguire i passi del comandante, mentre si allontanava da lei e da quella scomoda lapide; preferì concentrarsi sulla foto del compagno perduto, a lui si rivolse direttamente.
«Lo hai messo tu sulla mia strada, vero?»
Sfiorò un’ultima volta quel volto giovanile che ormai esisteva solo in pochi scatti che le erano rimasti e nei ricordi, dall'anima del defunto cercava vane rassicurazioni. In ultimo gesto ricompose il fiore di Fabian nel vaso stracolmo d’acqua accanto agli altri petali: era una calla dalle sfumature candide, simbolo di stima.
«Addio, amore»

 
Buongiorno, cari lettori e care lettrici!
Il ritardo è colossale, vi chiedo scusa, hanno deciso che darmi pace sarebbe stato troppo lussuoso.
I temi che desidero affrontare in questa storia sono tanti, quindi li sto affrontando progressivamente lasciando lo spazio per approfondirli.
Ringrazio di cuore tutti coloro che continuano a seguirmi, siete una luce. ♡
A presto!
Un abbraccio 
Vale
 

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Capitolo 34
*** Capitolo 33_Polvere di guerra ***


Ho spezzato il capitolo in più parti, quindi questa parte risulterà un po' più corta del solito.
Mi dispiace per la lunga assenza.
Grazie per essere di nuovo qui. ♡

 
 

Polvere di guerra

 



 
Base militare semidiroccata - Confine Nord/Est di Kabul, 5 novembre 2018
 
Lo sconforto era nascosto dietro a ogni oggetto, rimasto intatto per uno strano segno del destino o mutilato da mani sgraziate, la demoralizzazione dovuta all’inerzia si alzava insieme alla polvere; i detriti lasciati dai talebani dopo il loro ultimo attacco erano di poco conto rispetto ai pensieri dilanianti che vagavano nella mente e nell'animo del seal.
Il luogo era dominato dalla distruzione, la stessa in cui avevano vissuto e lavorato per settimane senza mai demordere - arrendersi a quella guerra non era nella loro indole. La frenesia che li aveva catturati nel raggiungimento dei loro obiettivi aveva reso impensabile anche solo fermarsi e riflettere sulla devastazione che aveva attraversato il quartier generale, come se l'uragano Katrina[1] fosse tornato e avesse sganciato tutto il suo potere distruttivo nello spazio fisico e morale. 
Vivere e svolgere il proprio dovere su un fronte di guerra era un'impresa tutt'altro che facile, il tenente non si era mai illuso che potesse diventarlo a distanza di anni dalla sua ultima missione sul suolo afghano; per sopportare con tenacia le difficoltà, il pensiero di casa si trovava in ogni oggetto che conservasse un frammento di vita vissuto tra le pacifiche lande americane, quel legame esigeva di non essere dimenticato e lottava affinché ciò non accadesse.
Christian aveva raccolto i cocci di uno specchio; era opaco, intriso di sporcizia, ma si potevano ancora distinguere le condizioni in cui riversava prima dell'attacco e ciò che ne restava: era un reperto di medie dimensioni e testimoniava ogni colpo subìto.
Era un luogo logorato dalla natura grigia del conflitto, eppure si aveva sempre la percezione che oltre quel filo spinato le bombe non sarebbero cadute e i kalashnikov non avrebbero mietuto vittime. Il seal credeva davvero nel profondo spirito di coesione conosciuto accanto a validi compagni d'armi, la sua carriera militare era costellata di buoni esempi; ognuno di loro aveva lasciato nel suo cuore un insegnamento e un evanescente senso di custodia, nessuno escluso, anche la recluta con cui lavorava da pochi mesi e che non perdeva occasione di ricordargli quanto fosse importante per lei la sua guida. Aveva imparato l'arte della collaborazione in accademia, alla Coronado High School invece era sempre stato stimato per il rendimento individuale; l'esperienza militare aveva sortito effetti benefici, ricordava con piacere gli anni dell'addestramento, li riportava alla memoria come se fossero acqua di fiume dispersa nel mare: ciò che era stato era parte del suo essere, il presente però doveva guardare verso l'orizzonte. Non avrebbe voluto rivivere quel passato, non avrebbe più voluto vivere quegli anni senza la sua Katherine.
L'occasione di rimettere mano ai ricordi era giunta con la stagione più fredda, come se il calore di un affetto ricevuto potesse allontanare il gelo dalle ossa. Gwendoline si offrì per svolgere i lavori più lievi, nonostante Christian le avesse raccomandato riposo, dalle ultime ferite non aveva trovato attimi di pace per rigenerare le forze.
Il tenente si occupò di recuperare legno di platano e di spaccare i ceppi in modo tale che entrassero nel vecchio camino situato nello spazio principale del capannone, l'unica fonte di calore su cui avrebbero potuto contare per diversi mesi. Era riuscito a prendere in tempo quei tronchi prima che si inumidissero; li rompeva con una tale potenza da spaventare la recluta, era incurante degli sforzi non indicati per un uomo rimasto leso nel fisico parecchie volte. Tra i colpi di tosse, Gwen si sforzava di rimuovere la polvere, anche quella alzata dal superiore; rendere accogliente quel luogo, per loro che lo abitavano, non era un'impresa semplice senza le basilari caratteristiche che distinguevano un magazzino da un alloggio per esseri umani. 
«Capitano, un ordigno crea meno confusione. Chi sta pensando di decapitare sotto quell'ascia?»
La ragazza scherzò con ingenuità, ma non lo contagió. Si ritrovò a pensare a quanto le mancasse un sorriso da parte del superiore; suo malgrado era stato spesso una forza nei momenti bui e senza il suo supporto una piccola parte di lei avvertiva il pavimento scricchiolare sotto i piedi. 
Christian non provò disinteresse nei confronti della collega, quando si sottrasse al suo sguardo confuso e demoralizzato, si limitò a passare un palmo sul ripiano di lavoro per agevolare entrambi nelle loro mansioni.
«Si sente bene?»
Il tenente le riservò solo un lieve cenno d'assenso, troppo poco convincente per qualcuno che lo frequentava nella quotidianità più di chiunque altro da mesi. Il marine riprese a spaccare tronchi con foga, nessuno lo avrebbe accusato di avere una mano pesante, era ciò che serviva in quel gioco di forza. La recluta non poté evitare di ritenere quanto fosse stupido a non confidare a lei i suoi tormenti, in fondo erano già diventati l'uno per l'altra buoni confidenti; valutò l'ipotesi di interpellare un padre confessore, ma non era sicura che ciò avrebbe fatto al caso di un uomo così riservato.
L'improvviso e leggero schianto di un bastone contro il suolo sterrato fece trasalire solo la giovane, l’altro militare era disperso nei suoi pensieri.
«Generale!»
Il viso di Gwendoline si illuminò di sincera gioia, la conversazione che il nuovo arrivato avrebbe voluto intraprendere con Richardson scivolò al secondo posto, l'entusiasmo della gioventù fu travolgente. Flores era comparso all'ingresso del capannone un po' malconcio, ma si reggeva sulle proprie gambe. La ragazza non lo accolse né salutò in modo formale, come si conveniva, la felicità di vederlo in piedi prevalse. Il generale le rivolse un'occhiata rapida e come di consueto impenetrabile, ma lei giurò di aver intravisto qualcosa di diverso nel suo sguardo: si abbandonò ad una frazione di dolcezza, come se la commozione del sottoposto avesse scalfito l'animo rigido che lo accompagnava da diversi decenni. Christian intuì l'arrivo dell'ufficiale solo scrutando l'espressione gioiosa della collega.
«Tenente Richardson. Mi segua in ufficio»
Flores iniziò ad avviarsi un po' sbilanciato verso la torre; esibiva un tono rassegnato e sofferente. I militari, che stavano assistendo alla scena, compresero che l'ufficio a cui il superiore faceva riferimento doveva essere tornato sotto il suo comando, quindi era di nuovo in pieno regime operativo. 
«Buona fortuna, capitano»
La convalescenza di Flores non aveva reso del tutto inaccessibili i suoi pensieri, le espressioni del volto esprimevano una certa eloquenza per la ragazza. 
Con sospetto, Christian posò sul ripiano lo strumento da lavoro che stava utilizzando. 
«Credo mi servirà tanta fortuna»
Non sapeva dove avesse sbagliato o forse nell’inconscio se ne rendeva conto. Non sfiorò lo sguardo preoccupato di Gwendoline, era concentrato sui passi dell'ufficiale che si stavano allontanando sempre di più da loro.
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Flores era entrato spalancando la porta con noncuranza, ma in quel caso lasciar entrare uno spiraglio di luce in ufficio non era sintomo di buona accoglienza. Christian lo trovò dietro il bancone della scrivania, i palmi appoggiati sul ripiano reggevano tutto il suo sconforto. Il seal, impolverato e impresentabile davanti a un ufficiale del calibro del generale, non riuscì a comprendere se fosse sofferente: mantenere lo sguardo basso non era un’abitudine e nemmeno le palpebre socchiuse nel corso di un qualsiasi colloquio; il comandante aveva escluso qualunque formalità nel luogo più autorevole della base. 
L’atteggiamento silenzioso del superiore invitò il tenente a intercedere davanti a lui; non si lasciò intimorire, anche se ogni indizio avrebbe dovuto provocargli sensazioni sgradevoli.
«Generale Flores»
«Tenente»
La voce dell’uomo risuonava da lontano, come se fosse rimasto imbrigliato nei ricordi; aveva parlato evitando di sfiorare lo sguardo del sottoposto, il quale iniziò a percepire se stesso come una presenza scomoda. 
«È importante che lei sappia»
«Capitano, non mi anticipi»
La mano perentoria che alzò nella sua direzione non bastò per zittirlo, Christian non aveva alcuna intenzione di rispettare i gradi durante quel confronto, forse addirittura meno del solito; era evidente quanto il superiore fosse già stato messo al corrente di tutto ciò che era accaduto in sua assenza. 
«Non è stata colpa del comandante Reyes, solo mia. Posso giurarlo sulla bandiera americana, se lo crede necessario»
L’enfasi e l’impegno con cui il seal difendeva la donna che aveva indossato le vesti di comandante per un breve periodo costrinse il generale ad alzare lo sguardo verso il suo interlocutore; molti sospetti sull’affiatamento sbocciato tra i due vennero confermati, eppure il superiore avvertiva un sentimento più radicato tra loro, come un’antica amicizia, un affetto non nato di recente - egli si intendeva molto bene di sentimenti remoti e mai sfioriti.
«Ha rischiato il fallimento dell’operazione»
Christian si resse alla spalliera della sedia dedicata agli ospiti e abbassò il capo; poche parole gli puntarono contro il dito, non servì aggiungere altro, gli errori commessi agli occhi di un soldato esperto e intransigente erano palesi. Accettò i rimproveri come se fosse un figlio ubbidiente e Flores un padre pronto a mostrare la retta via; anche se non ne aveva accanto uno da tempo, riconobbe l'autorevolezza. 
«Sarò sincero con lei, così non va da alcuna parte. La guerra ci costringe a un compromesso con la nostra coscienza, non possiamo permetterci di farne anche con il nostro nemico»
A Christian il superiore era mancato davvero, aveva sentito persino il vuoto lasciato dalla durezza con cui gli sbatteva in faccia la verità. Il tono dell’ufficiale mutò dopo una breve pausa, il suo respiro diventò più difficoltoso e non era dovuto allo stato di convalescenza.
«Hanno ammazzato Isabel davanti ai miei occhi. Nessuno meglio di me conosce il sacrificio degli innocenti in guerra»
Il suo tono era dolce e malinconico, si addiceva più a un uomo innamorato che a un ufficiale al fronte. Flores ne era consapevole, era perciò irritato con se stesso. Christian non credeva che un giorno avrebbe mostrato il desiderio di condividere con lui un dolore che giungeva dal passato e che - secondo il colonnello Keller - non era mai sfumato. Il cerchio si chiudeva intorno all’immagine imperscrutabile del generale: provava ancora forti sensi di colpa per ciò che era stato, stava espiando con sofferenza le responsabilità che non avrebbero mai cessato di pesare sulle sue spalle. Non era dato sapere di preciso quali colpe si stesse attribuendo, il tenente non riusciva a immaginare, il vissuto del generale era per lui ancora troppo fumoso. Solo Dio da lassù poteva conoscere la tribolazione che lo accompagnava lungo i suoi giorni. A Christian furono più chiari i gesti e le parole; compatirlo sarebbe stata una mossa azzardata - proprio in nome del rinomato orgoglio di Flores -, così si limitò a dimostrare solidarietà; aveva già ricevuto la prova inconfutabile della bontà d’animo dell’uomo da cui riceveva gli ordini. 
«Abbiamo perso fin troppo tempo, domani entriamo»
«Generale!»
Il seal era certo che le intenzioni del superiore fossero nobili, ma non le trovò opportune. 
«Richardson, Reyes era più accomodante, ma quei giorni sono finiti»
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Christian tornò da Gwendoline con un'espressione scura in volto. Non ebbe paura di intimorire la ragazza, spinse sul pavimento cocci di legno intonsi e una sedia riposta lì accanto, a cui mancava già un bracciolo. La recluta non aveva ancora avuto modo di conoscere la via attraverso cui l'impotenza decideva di agire, ma lo sguardo del seal ne esprimeva tanta; mostrando perplessità raccolse la sedia, mentre il superiore aveva trovato rifugio in quel suo piccolo tavolo da lavoro improvvisato, aveva appoggiato i gomiti e soppesava la testa con i palmi, come se i pensieri riuscissero in quel modo a risultare più leggeri. 
«Capitano»
Il sussurro della giovane placò una rabbia che non gli apparteneva. Il seal la avvertì al suo fianco, gli teneva compagnia con un respiro lento, indecisa su ciò che le fosse consentito per portare sollievo al tenente. Gwendoline azzardò, gli posò una mano tra le scapole per infondergli calore umano: con quel gesto percepì il cuore dell'uomo accelerare. Christian non si sottrasse da lei, anzi, gli fu grato e si ritenne persino fortunato, era certo di non dover essere lei un punto saldo, quanto piuttosto il contrario.
«Vuole tentare un’irruzione domani»
«Domani? Non abbiamo idee migliori da quando lei è qui. È ancora troppo presto»
Presa dall'euforia si era sporta in cerca dello sguardo del superiore e aveva impiegato un fervore simile a un'accusa, ma era ben lontana dalle sue intenzioni; si accorse tardi di essere stata ambigua, non desiderava offenderlo.
«Esatto, Gwen. Sono stato inutile»
«Lei non è affatto inutile!»
Lo disse con irruenza, non si mosse dalla sua posizione, fece prevalere senza inibizione la sua opinione; l'uomo da cui prendeva ordini le insegnava cosa significasse essere un buon soldato, ma ancor più quanto le fragilità non fossero menomazioni, solo segni dell'anima che lo avevano reso unico. Era certa che lui non sarebbe stato d'accordo.
«Capitano, esistono pochi uomini come lei»
«Per fortuna, vorrai dire»
Christian si lasciò scivolare sulla stessa sedia che poc'anzi aveva buttato a terra, preso dallo sconforto. Si passò le dita fra i capelli, cresciuti troppo in lunghezza dopo averli accorciati appena prima della partenza.
Gwendoline restava a un passo da lui. Un'ombra di dispiacere si era allargata sul viso della ragazza; mostrò saggezza quando decise di lasciar cadere il discorso, aveva già le risposte necessarie per comprendere quanto una bassa stima di sé potesse essere frutto dell'assenza di due figure di riferimento scomparse prematuramente, due punti saldi che lo avevano potuto accompagnare soltanto fino alla maggiore età. 
«Troppe persone moriranno domani, sarà una carneficina» 
Il marine sussurrò fra i denti. La rassegnazione prese il sopravvento, l'ambiente che lo circondava era diventato il suo interlocutore, la figura slanciata della giovane recluta era stata oscurata da pensieri di morte. La guerra era il peggiore dei massacri, ma l’ospedale era l’unico angolo di quel conflitto su cui Christian avrebbe potuto avere un controllo, peccato lo stessero privando anche di quella opportunità.
L'intromissione di Beatriz in quel luogo non portò notizie migliori, anzi ricordò a tutti quanto il tempo di agire per preservare il salvabile fosse giunto al termine.
«Chris. Flores vuole la presenza di entrambi per organizzare le squadre d’assalto»
La donna lo attese sulla porta; colse uno sguardo affranto sul volto del compagno, ma si impose con coraggio di reggere l’amarezza, in parte condivisa.
«Allora ha preso una decisione definitiva»
«Non posso nulla contro la sua volontà. Mi dispiace, Christian» 
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Erano riuniti all’interno dei confini della base, segnati dal filo spinato; somigliava più a un centro detentivo che ad un campo per militari in servizio attivo. Erano ordinati come soldatini in resina; Christian ne possedeva un plotone intero risalente alla prima guerra mondiale, da bambino si divertiva a muoverli, ma simulare battaglie non era mai stato il suo gioco preferito; ironia della sorte, era diventato il mestiere di una vita.
Non rimase sorpreso dal senso di unione che si respirava tra le schiere dei militari, era tra i pochi vantaggi della divisa che portava sul petto. Christian aveva indossato il berretto in segno di rispetto e aveva preso posto accanto ai compagni, alla stessa loro altezza benché i gradi lo riconoscessero superiore; attendeva anch'egli ordini dal comandante di unità. 
Si respirava un'aria intrisa di aspettativa. I festeggiamenti per il ritorno di Flores si erano svolti in un breve lasso di tempo, presto la gioia era diventata una maschera di apprensione.
Il bastone con il quale il generale si reggeva non sembrava impedirgli di passeggiare a sguardo basso davanti ai suoi uomini. Era in cerca delle frasi più rassicuranti, lo stesso ufficiale era consapevole dell'avventatezza delle sue scelte, ma Richardson aveva ragione, civili innocenti non avrebbero dovuto più perire in una situazione di grave pericolo. Non si sarebbe tirato indietro, avrebbe preso parte all'operazione, non avrebbe rischiato la vita delle sue migliori forze in campo preservando la propria. Mark scrutava i loro volti, erano diretti verso di lui e attendevano ordini con cecante obbedienza. Erano poco più che ragazzi, l'esperienza con Campbell lo aveva reso più prudente nei riguardi della vita altrui; Alexander era sopravvissuto, la responsabilità sulla sua incolumità era sempre stata sua, lo era quella di ogni giovane soldato dell'unità. 
Flores si rivide nella gioventù che conduceva per le vie di Kabul, nelle trepidazioni malcelate, negli sguardi fiduciosi in attesa di ricevere ordini. Il bastone che lo accompagnava resse la sua anima prima del corpo malconcio. I ricordi lo riportarono in Vietnam, ai giorni distanti da Isabel - solo i primi del loro per sempre -, in una terra macchiata anche dalle sue mani. In giovane età la guerra era diventata per lui la scelta peggiore che un uomo potesse prendere, la sarebbe rimasta se Isabel fosse stata ancora al suo fianco. La guerra aveva strappato a lui il futuro, eppure come un folle non trovava altro senso alla sua esistenza. Vincere una battaglia sarebbe diventato per lui il riscatto a tutte le guerre perse.
Si accorse di non sapere nulla degli uomini con cui lavorava; aveva impedito a Richardson di mantenere un contatto assiduo con la sua famiglia perché era convinto che ciò avrebbe potuto distrarlo: guerra e affetti non potevano esistere senza che uno dei due prevaricasse. A pochi metri da Mark la donna che aveva preso decisioni in suo nome si rimetteva alle sue volontà e lui non considerava il fatto che potesse essere stata più giudiziosa. Scorse una delle reclute più giovani raggiungere i compagni; aveva un'aria malinconica, la gioia con cui lo aveva accolto era svanita, si mostrava pronta, ma trepidava all'idea di ciò che avrebbe potuto attenderla e la comprendeva.
Si avvicinò senza fretta a Christian, agganciando lo sguardo del seal che non aveva mai smesso di seguire i passi del superiore.
«Tenente Richardson. Ci guiderà lei all'interno del nosocomio, ha avuto modo di studiare la planimetria in questi mesi. Guiderà anche me. Mi fido delle sue capacità strategiche, non ne ho mai dubitato. Può salvare molte vite domani» 
Non era l'idea di salvezza che possedeva lui, buttarlo nell'arena con infinite variabili poteva essere una buona idea per il generale, ma non per il diretto interessato; Flores lo avrebbe affiancato benché si trovasse in uno stato precario, avrebbero condiviso lo stesso destino, era la prova che non fosse un uomo codardo e che si fidasse di lui senza riserve. Per Christian rifiutare equivaleva a un'insubordinazione: a testa alta fissò negli occhi il superiore e gli rivolse un saluto militare.
«Signorsì»
Flores non accolse quel gesto di rispetto, non lo ritenne adeguato al momento e ai loro gradi, così allungò la mano per trattarlo come suo pari. Il capitano indugiò, solo quando si riprese dalla sorpresa riuscì a ricambiare la cortesia; aveva ricevuto la dimostrazione di quanto nel suo comandante dominasse un sano senso di giustizia e di lealtà, insieme avrebbero dato un degno epilogo alla missione. In nome dello spirito di coesione accettò senza remore l'ordine di Flores, che sembrava più un fiducioso grido di aiuto, come d'altronde lo era stato dal primo istante in cui Christian mise piede in Afghanistan. 

 
Buongiorno, cari lettori e care lettrici!
Torno dopo tanto tempo con un capitolo più corto per motivi di trama. Avrei avuto bisogno di tanto spazio, ma sarebbe stato improponibile pubblicarlo, per cui il capitolo che avevo in mente sarà diviso in almeno tre parti.
Perdonate l'assenza, sono stati mesi molto difficili. 
Grazie di cuore a chi è giunto fin qui e non ha abbandonato questa storia. Vi auguro uno splendido 2023. ♡
A presto!
Un abbraccio 
Vale
 

[1] Uragano che ha colpito gli Stati Uniti d'America nel 2005 causando numerose vittime e ingenti danni. 

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Capitolo 35
*** Capitolo 34_Condizioni di contratto ***


Condizioni di contratto



 


 
San Diego, 5 novembre 2018
 
Rincasare dal Coronado non diede sollievo a Fabian, i pensieri lo schiacciavano dall’alba al tramonto in qualunque luogo egli si trovasse. La famiglia, da qualche mese, era la sua primaria fonte di apprensione, ma avrebbe più volentieri sperato lo fosse solo l’assenza di Christian.
Rimase sulla soglia della porta, in un tempo che al seal parve sospeso, come quel periodo che non accennava a lasciare campo libero nelle loro vite. Era pensieroso, teneva le mani posate sui fianchi in segno di frustrazione e lo sguardo rivolto al pavimento, in attesa ricalcitrante di leggere sulle mattonelle una soluzione che fosse accomodante per tutti.
Soltanto i passi della figlia, che si muovevano cadenzati nella sua direzione, lo convinsero a sciogliere la posizione raccolta che aveva assunto. Con gesti più abitudinari, come slacciare i bottoni della divisa, cercò di trasmettere naturalezza; tolse la giaccia e la lanciò con precisione su una sedia che gli era accanto.
La visione della sedicenne non annullò l’amarezza che provava, lei in fondo non sembrava più serena del padre; dopo una giornata di lavoro lo accolse con un’espressione contrita. Il tenente inghiottì un sospiro sofferente.
«Maëlys»
Fabian tentò di mantenere alto l’umore dedicandole un sorriso, ma la giovane non perdeva diffidenza nello sguardo sconfortato del padre. Il seal esaminò a sua volta gli abiti che stava indossando, come se volesse fuorviarla oppure credesse davvero di portare addosso i segni del malessere.
«Cos’ho?»
«Cosa sta succedendo? Papà, dimmi la verità. Mamma continua a piangere e non ne trovo la ragione»
Il seal spostò sconsolato lo sguardo verso le scale che conducevano al piano superiore, dove immaginava si trovasse sua moglie.
«Maëlys, è complicato»
«Vi state lasciando? Hai un’altra?»
«Ma certo che no!»
Si mostrò offeso da simili insinuazioni, finché si rese conto che la ragazza non avrebbe potuto cogliere una spiegazione migliore, in casa tra i coniugi non si respirava un clima lieto. Tutti i tentativi per non far pesare le preoccupazioni ai figli stavano fallendo.
«Ha lei un’altra persona?»
«Forse nel cuore»
La notizia non rasserenò la giovane, la quale sbarrò gli occhi e accostò un palmo alle labbra; avvertiva chiara la sensazione che qualcosa fosse mutato nel loro equilibrio famigliare e un’adolescente era suscettibile ai cambiamenti.
«Ma non c’è più»
«Mamma piange per una persona che è morta?»
«Sì. Non ti devi preoccupare, risolvo tutto io. Tesoro, ora scusami, sono stanco. Salgo dalla mamma per accertarmi che stia bene e poi mi corico qualche ora»
Il sorriso che le dedicò fu sincero e fu proprio lei con la sua esistenza a stimolarlo; il frutto della loro unione rappresentava la luce che impediva di venire travolti dagli eventi, spesso lui e Sophie lo avevano confessato l’uno all’altra, era una solida certezza che teneva stabili i loro baricentri. Nel passarle accanto, le lasciò un tenero e fugace bacio tra i capelli sciolti, ma Maëlys non sembrava soddisfatta del loro confronto.  
«Papà? Sta succedendo qualcosa di grave, vero?»
«Maëlys, ti fidi di me?»
«Sempre»
«Allora continua a farlo. Non sono fedele all’America, per poi essere infedele ai miei figli»
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Fabian entrò in camera con pacatezza, sapeva di violare un delicato momento di sconforto per la moglie e non era sicuro di aver preso la decisione giusta. A detta della figlia, la madre non nascondeva più le lacrime e questo era motivo di angoscia per la famiglia, nessuno escluso.
«Sophie. Hai spaventato Maëlys»
Non la stava rimproverando, il tono era il più dolce e comprensivo che riuscisse a produrre; desiderava ricordarle che era circondata da affetti che tenevano al suo benessere. Era seduta sul ciglio del materasso, relegata accanto al suo comodino, non a caso nell’angolo più remoto della stanza. Tra le mani reggeva gli ultimi tabulati telefonici di Brian – che Fabian stesso le aveva fornito grazie al favore di qualche conoscenza nelle forze dell’ordine – e una foto che immortalava il momento fatidico di una cerimonia nuziale; i gesti che i due festeggiati si stavano scambiando erano familiari al seal, ma non si riconosceva nello sposo.
Senza chiederle il permesso, Fabian fece scivolare la fotografia nelle sue mani strappandola da quelle della moglie, lasciandola perplessa. L’uomo si avvicinò alla lampada accesa sul comodino e lesse l’anno sul retro di quel ricordo, che dai colori sbiaditi sembrava essere lontano nel tempo; l’uomo – che poteva solo essere Brian – indossava un’uniforme dell’aviazione americana e una giovanissima Sophie sull’altare accanto a lui sfoggiava la sua più sincera felicità.
«Rimpiango di non aver concepito figli nostri, mi sarebbe rimasto qualcosa di lui. Non avrei mai immaginato che pochi anni dopo quella divisa lo avrebbe portato via. Contavo di vivere per sempre al suo fianco, ce lo siamo promessi quel giorno. Mi è rimasto un mucchio di polvere. Ho voglia di andarmene, Fabian»
Sopportò che la moglie parlasse del defunto marito in quei termini, assolutizzasse la sua assenza come se dopo la sua morte ci fosse stato nient’altro che oblio. Lo sconvolse di più il desiderio che la moglie espresse ad alta voce. Il tenente ebbe la sensazione di reggere tra le mani una mina pronta a scoppiare da un momento all’altro.
«E dove? Spero non lontano da noi»
«Non sto bene. Il passato mi sta travolgendo come una cascata, come se avessi riavvolto il nastro della nostra ultima conversazione. Non mi capacito fosse un addio»
Fabian si accomodò al suo fianco, cercando di riscoprire pace per entrambi e convincendosi del fatto che, qualsiasi cosa avesse riservato loro il destino, non avrebbe potuto fare di più per impedirlo. Lo doveva a se stesso e a tutte quelle volte in cui decideva di ascoltarla con pazienza, piuttosto di soffocare la sua frustrazione in un cuscino. Continuò a scrutare con amara rassegnazione la foto che teneva tra le mani: Sophie era una sposa innocente, entusiasta delle novità e fiduciosa nel futuro; indossava l’abito bianco con la discrezione di chi non voleva sgualcire le pieghe del velo, una forma di attenzione sopravvissuta allo scorrere del tempo nei modi di essere della donna. Non l’aveva mai vista così luminosa e non splendeva per lui. La prospettiva da cui Fabian guardava quella giovane donna era distante, come se lei non fosse sua e appartenesse a chiunque altro, come se il loro matrimonio non fosse mai stato celebrato e quel giorno raccontato dalla foto fosse rimasto immortale, una pietra contemplativa tra loro.
Sophie perse a sua volta la mente in quel ricordo, da parte sua vi era ardore e coinvolgimento emotivo, ma non le sfuggì nemmeno quanto esso demoralizzasse suo marito; si convinse di provocargli un dolore inutile, così gli strappò la fotografia dalle mani e la ripose in un cassetto del suo comodino, lontano dallo sguardo sofferente del compagno. Ciò che lei non sapeva, anche se avrebbe potuto intuirlo, era che quell’immagine aveva affondato le radici negli occhi e nel cuore di Fabian e da lì non si sarebbe più dissolta.
«Mentre ti stavi sposando ero in Iraq, stavo combattendo la Guerra del Golfo[1]. Ero in mare aperto sulla Wisconsin[2] e bombardavo con missili bersagli nemici. Non era scontato ci incontrassimo»
Non avrebbero potuto cambiare ciò che avevano vissuto, sarebbe stato risparmiato loro il tormento attuale. Conoscersi meno di dieci anni dopo era stata una gentile concessione del fato, per assopire gli orrori di un passato di sangue per entrambi.
«Lo penso anche io. Ma da quando ti conosco, credo in noi»
Gli strinse una mano per comunicargli quanto importante fosse stato il loro incontro nella sua vita, negli ultimi giorni temeva – senza realmente volerlo – di aver svalutato il loro rapporto, affidandosi ai consigli distruttivi del dolore più che alla stretta amica del marito. La famiglia costruita con Fabian restava il bene più prezioso che avesse.
«Ho un appuntamento con l’avvocato che segue il caso»
«Ti accompagno»
«Non è necessario, ho un volo diretto per Los Angeles fra poco»
La donna aveva già deciso di intraprendere da sola il colloquio, desiderava solo informarlo e Fabian non avrebbe potuto contraddirla. Si era concentrata subito sui vestiti da indossare per non perdere la coincidenza dei mezzi e aveva chiuso il breve scambio di battute con il marito per non crogiolarsi oltre nei sentimenti che impantanavano le sue giornate. Stava scegliendo semplici abiti civili, segno che desiderava presentarsi a lui in qualità di vedova di una delle vittime e non di testimone visiva e uditiva; era stata anch’essa una scelta ponderata.
«Ho letto le celle telefoniche che mi hai fornito. Stai rischiando l’uniforme»
Si rivolse a Fabian continuando ad allacciare con precisione i bottoni del maglione. Il timbro di voce era ovattato, quasi distratto su altri pensieri che non potevano discostarsi dal medesimo argomento.
«Non più di quanto stia rischiando tu. Hai trovato qualcosa?»
«Non ti voglio più coinvolgere. Penso tu abbia fatto abbastanza»
Le afferrò una mano staccandola dalle asole dell’indumento che stava abbottonando e intrecciò le loro dita con intimità. Sophie si avvicinò con passo lento alla sua postazione da seduto, attirandola a sé la invitava a diminuire le distanze tra loro. La donna non si oppose alle amorevoli attenzioni del marito.
«Se hai scoperto qualcosa, lo comunichiamo ai colleghi della scientifica. Diciamo loro che ti è tornato in mente un dettaglio, non serve rivelare la fonte»
Gli dedicò un sorriso compiaciuto annegando i pensieri nei suoi occhi, baluginanti di determinazione. Se le fosse stato accanto fin dalle prime ore dell’incidente, il suo cuore avrebbe attutito meglio il trauma dell’impotenza. Era convinta che se ci fosse stato lui quel giorno sulla torre di controllo, avrebbe salvato tutti.
«Cosa c’è? Oggi mi guardate tutti male. Prima Maëlys, ora tu»
«Ho solo ricordato cosa mi ha attratta di te»
«Il mio fascino, per caso?»
Risero entrambi con sincerità; nonostante da diverse settimane la pace non fosse più parte del loro rapporto, la complicità non era mai venuta meno.
«La forza che trovi sempre per non arrenderti»
Approfittando delle sue parole e dell’attrazione che non riusciva più a reprimere, Fabian si alzò e le schioccò un bacio sulle labbra, poteva accettare la memoria di un altro uomo nel cuore della compagna; l’idillio non durò molto, lui si allontanò mortificato credendo di averla forzata.
«Mi dispiace, Sophie. Ti avevo detto che avrei aspet…»
Non aveva colto i desideri più profondi della moglie, ma lei si affrettò ad esplicitarli. Si rifiondò sul marito e approfondì il bacio che era stato smorzato; interruppe quel contatto solo per porgergli una carezza sul viso. Fabian provò a trattenerla, lasciandosi guidare dai sentimenti, incurante che due adolescenti vivessero sotto quello stesso tetto; il braccio della donna scivolò via lungo il suo petto, spezzando la passione da cui si sarebbe volentieri lasciato coinvolgere, ma la decisione ultima spettava a lei.
«Vai già?»
«Parlo con l’avvocato. Se puoi, prepara la cena anche per i ragazzi, non credo di tornare in tempo»
«Certo, ma tu hai mangiato qualcosa?»
Gli sorrise, grata per il pensiero premuroso e uscì dalla stanza.
 
 
 
Los Angeles, 5 novembre 2018
 
Giunta ormai la sera, Nathan si ritrovava solo con i suoi pensieri davanti ad una tazza di tè ancora calda ma ormai vuota e qualche fascicolo aperto sui suoi ultimi processi. In attesa del maggiore Lefebvre, ispezionava le fasi delle udienze cercando di capire dove avesse sbagliato per perdere un numero così elevato di cause solo nei mesi più recenti, ma la risposta era sempre la stessa: la richiesta di divorzio di sua moglie.
Non avrebbe fissato in agenda un incontro così tardi, se a casa ci fosse stata Delilah ad aspettarlo. Stava diventando uno di quegli uomini scapoli che, pur di non pensare al fallimento sentimentale, buttavano anima e corpo sul lavoro. Vi erano solo due differenze: non era celibe ed era un cataclisma anche tra i banchi delle aule in tribunale.
Gli uffici si erano svuotati ore prima, erano rimasti nello stabile soltanto Nathan e la guardia di sorveglianza che si era ostinata a rimanere all’ingresso per non lasciarlo solo, anche se già più volte lui l’aveva invitata a staccare il turno serale. L’avvocato attivò il collegamento con la guardiola tramite il telefono posato sulla sua scrivania.
«Miranda, non è necessario che resta. Posso accoglierla io»
«Avvocato Rogers, per me non è un problema aspettare»
«Vada a casa. Ci vediamo domani»
Nathan la sentì indugiare, con lei le parole si disperdevano nel vento.
«Mi fermo ancora qualche minuto per fare qualche fotocopia»
«Grazie, Miranda. È preziosa»
Quella donna lavorava nell’edificio da diverse decadi ed era stata l’unica a cogliere l’espressione sempre più demoralizzata del giovane, esattamente da quando Delilah gli aveva fatto recapitare a casa dagli uffici giudiziari del tribunale, pochi giorni dopo che di comune accordo avevano preso la decisione di interrompere la loro relazione, il foglio che ora reggeva tra le mani.
 
Lettera di divorzio
 
Era stato pessimo a credere che i loro desideri si incontrassero, aveva compreso tardi quanto le aspettative sul loro rapporto non fossero sempre concilianti. Era certo avessero preso insieme le decisioni più importanti per la loro famiglia – comprese le più dolorose –, invece sua moglie aveva scelto di assecondarlo senza tuttavia esserne davvero convinta.
 
«Ginevra? È lontanissima da Los Angeles»
«Il concorso era per l’OMS[3]»
«Spero tu non voglia trasferirti lì»
«Certo che no, se tu non vuoi»
 
Le aveva lasciato mancare un’occasione unica per la sua carriera, a favore di un’idea che aveva deciso ad ogni costo di renderla madre, senza domandarsi mai se i sacrifici di una famiglia valessero tanto quanto i suoi progetti personali; non era previsto alcuno spostamento di sede per lei o per loro, per Nathan era scontato fosse così; non vi era malizia in lui, solo stupore.
Quell’episodio aveva segnato la fine.
Non voleva costringerla al suo fianco se era insoddisfatta, perciò aveva accettato un divorzio consensuale. Non si erano mai dichiarati guerra e non avrebbero iniziato davanti ad un giudice, ma non voleva nemmeno perderla per aver frainteso le diverse prospettive sul loro futuro insieme. Delilah era tornata ad abitare con sua madre, rimasto solo Nathan aveva provato ciò che avrebbe comportato un trasferimento della moglie a Ginevra: gli mancava tutto di lei.
La porta dello studio si aprì con cautela e Rogers ebbe il tempo di riporre il foglio incriminato nel cassetto. Non era la sua ospite; tirò un sospiro di sollievo, a causa di quegli spiacevoli pensieri il suo sguardo era lucido e non sarebbe stato conveniente mostrarsi ad occhi estranei in quelle condizioni. Benché all’esterno il clima fosse instabile, si sentiva avvampare; tolse la giacca e allentò la cravatta, anche a costo di risultare poco professionale sul lavoro, ma necessitava di aria fresca.
«Avvocato, io vado allora. È sempre sicuro?»
Miranda aveva notato, ancora una volta, il malumore di Nathan; una donna della sua età sapeva cogliere la demoralizzazione negli occhi di un giovane uomo rimasto deluso dall’amore. La guardia si allontanò dal punto in cui si era fermata accanto allo stipite e si incamminò verso la scrivania. Quando fu abbastanza vicina, appoggiò le mani al bordo del ripiano e sussurrò con apprensione materna.
«Avvocato. Se mi posso permettere. Il matrimonio è un continuo compromesso. Se tiene alla sua signora, non dovrebbe importarle cosa vi riserverà il futuro, purché siate insieme»
Nathan la fissò affascinato da quelle parole, pronunciate da lei avevano un senso; la realtà però, sempre più complessa della teoria, non era così facile da immaginare.
«Buona serata, avvocato. Mi raccomando, ha bisogno di riposo anche lei»
Miranda si congedò socchiudendo appena la porta per agevolare l’accoglienza di Sophie. Con poca delicatezza, il suono del citofono riportò la presenza di Nathan tra le pareti dell’ufficio. Sentì che la sorvegliante aveva già provveduto ad aprire il cancello all’ospite e le aveva indicato la strada da percorrere per raggiungere la stanza giusta.
Si preparò al meglio delle sue capacità a quell’incontro inaspettato con il maggiore Lefebvre. Il suo nome compariva a più riprese nel dossier delle indagini, era perciò pronto ad acquisire informazioni utili; si era ripromesso di farlo con la mente sgombra da pregiudizi, che le parole di altri – giornalisti, militari e uomini di legge – avrebbero potuto inculcargli. Decise di accogliere quella donna – insieme al dolore che di sicuro portava con sé – come una potenziale persona informata dei fatti.
Nathan si costrinse a tornare con la concentrazione su quell’aereo per provare a risolvere, in un periodo così tormentato, almeno un caso giudiziario. Quando avvertì passi leggeri avvicinarsi all’ufficio, si alzò per accogliere la sua assistita; era certo di incontrare un ufficiale dell’aeronautica militare, invece lei si era presentata a lui in abiti civili cambiando forse il tono della conversazione che si apprestavano a sostenere.
Sophie gli rivolse un sorriso appena accennato e gli allungò una mano; la stretta della donna era avvolgente.
«Maggiore Lefebvre. Prego, si accomodi»
I fascicoli ancora aperti sul ripiano della scrivania non le passarono inosservati, ma avevano smesso di incuterle soggezione.
«So che il mio nome si trova nel registro degli indagati»
«È solo una formalità. Se fossi negli agenti, credo non indagherei su di lei»
Sophie era grata all’avvocato che, in quanto difensore delle famiglie delle vittime, era anche suo legale, era quindi importante che tra loro esistesse stima e fiducia. Si rendeva conto di metterlo in una condizione scomoda, ma pur senza averlo mai visto di persona confidava nella sua comprensione.
«Non ho voluto incontrarla per convincerla che sono innocente. In realtà non ne sono nemmeno sicura»
Nathan si mostrò da subito propenso all’ascolto e disponibile per ogni eventuale consiglio. Lei rappresentava per lui la più intima testimone dell’incidente del Boing 747, ragion per cui ancor prima di conoscerla non aveva mai dubitato della sua negligenza; poteva solo immaginare il lutto che la accompagnava e avere davanti i suoi occhi sofferenti gli diede la conferma. Non era un investigatore, ma nel corso della sua rinomata carriera aveva imparato a riconoscere gli impostori.
L’avvocato era al corrente dell’argomento del colloquio, Sophie gli aveva confidato di essere entrata in possesso di documenti riservati e destinati solo a coloro che avevano un ruolo decisivo nelle indagini e nel processo; si era imposto di non porre domande sulla reperibilità di quelle prove e intendeva tenere fede ai suoi propositi.
«Dovranno fornirli presto anche a lei, in quanto nostro legale. È il registro delle chiamate effettuate dal telefono di mio marito»
Nathan osservò con attenzione sul foglio che le stava mostrando l’insieme di codici, ma non era in grado di decifrarli sia per inesperienza sia perché era all’oscuro della vita privata di quel pilota.
«Ha trovato qualcosa di insolito?»
«Molte chiamate sono a mio nome. Alcuni numeri appartengono a nostri colleghi, altri mi sono sconosciuti»
A quella rivelazione si mostrò perplesso. Andò cauto con le domande, ma alcune erano d’obbligo.
«Crede che suo marito sapesse qualcosa?»
Sophie prese un lungo respiro prima di rispondere, vacillò per la prima volta, ma non si arrese alle evidenze.
«Avvocato, io sono convinta della sua estraneità»
«Conosceva anche il secondo pilota?»
«Sì»
La domanda risultò inaspettata per la donna, la fece dubitare di molte convinzioni risalenti alla sua gioventù.
«Cosa può dirmi di lui?»
«Una persona affabile. Conosco la famiglia»
Nathan appoggiò i gomiti al bordo della scrivania e si stropicciò il viso affranto. Assunse una posa informale, intrecciò le braccia sul ripiano e si rivolse a lei in tono confidenziale, pur conoscendola solo da una manciata di minuti, ma la disponibilità da lei mostrata e la generosità delle prove meritavano attendibilità.
«Non le voglio mentire, le autorità stanno brancolando nel buio. Inizia a farsi strada l’ombra della fatalità»
Sophie negò risoluta. All’epoca della tragedia era una giovane aviatrice con poca esperienza e tanta passione, ma comunque non sufficiente per affrontare situazioni di grave emergenza con maestria e tenacia.
«Non c’erano malfunzionamenti su quel velivolo. Le apparecchiature non me li segnalavano»
Nathan accolse con un cenno del capo le informazioni di cui era già entrato in possesso attraverso i resoconti pubblici e privati.
«Un aereo può precipitare senza dare prima segno di cedimento?»
«Entrambi i motori funzionavano»
«È possibile un difetto nell’assemblaggio? Potremmo fare causa all’azienda aerospaziale che lo ha collaudato»
 
«Delle innovazioni?»
«Immagina se esistesse un aereo civile più efficiente»
 
«Signora?»
L’avvocato notò preoccupato lo sguardo vacuo del maggiore, temeva avesse accusato un malore.
«Ricorda il nome dell’azienda?»
Sophie provò a visualizzare il logo sui documenti che in quegli anni le erano passati tra le mani, ma i ricordi e le illazioni sconvolgenti del suo legale le avevano offuscato la mente. Si passò la punta delle dita sulla fronte, manifestando disagio. Non riusciva a capire se l’uomo con cui aveva stretto un’unione davanti alla legge fosse un’ennesima vittima, un testimone o un complice – anche involontario – dell’incidente. Domande e dubbi iniziavano ad essere legittimi, lei stessa pensava che non fossero un insulto alla sua memoria.
«C’è la possibilità che mio marito collaborasse ad un progetto»
A Nathan servì qualche secondo abbondante per assimilare, poi recuperò dai cassetti della scrivania un pezzo di carta e una penna.
«Mi dica di più»
«Nei giorni precedenti all’incidente mi sembrava entusiasta per qualcosa che aveva scoperto»
«Suo marito era un ingegnere aerospaziale?»
«Non esercitava in quell’ambito, no, era un semplice pilota di linea»
Nelle sue parole si fece largo l’ombra del dubbio che si fosse immischiato in una questione che non lo riguardava da vicino.
«Aspettiamo dalla scientifica di sapere l’origine dei numeri che non conosce. Potrebbe essere una pista»
Nathan era concentrato ad appuntarsi tutto ciò che aveva scoperto.
«Avvocato?»
Sentendosi chiamare annuì, ma impiegò qualche istante ad incrociare i suoi occhi.
«Grazie per avermi dato ascolto senza giudizio»
«È mio dovere portare giustizia alle vittime e suo marito è tra coloro che sono deceduti in circostanze sospette. Nel frattempo faccio una ricerca, se in quegli anni l’aeronautica ha progettato un prototipo dovrebbe risultare in qualche archivio. A meno che non abbiano occultato la verità. Ma dall’entusiasmo di suo marito deduco lui fosse convinto della buona riuscita»
«Lo era»
«Maggiore Lefebvre, la sua collaborazione è stata preziosa»
 
 
 
Periferia Ovest di Kabul, 5 novembre 2018
 
Stavano tutti aspettando Maryam in moschea, ma lei aveva deciso di ritardare le nozze. Deciso, come solo una donna occidentale avrebbe potuto osare, ma lei non la era. Si era imposta su coloro che la circondavano, i quali sapevano di poter nulla contro la sua ostinazione. Era però certa di conoscere lo sposo, non si sarebbe risentito per essersi arrogata quel diritto.
Davanti all’imam si era presentato persino Samuel; imperterrito a voler presenziare alla cerimonia, aveva sfidato le disposizioni di sicurezza dell’ambasciata americana. Con la presenza del giornalista una parte del mondo libero si trovava al loro fianco. Maryam non rinnegava la sua terra, aveva solo ampliato i suoi orizzonti, ciò le era vietato, ma per fortuna i pensieri erano ancora sotto la sua giurisdizione.
La giovane sposa aveva confidato i suoi dubbi al padre che le aveva concesso qualche minuto in solitudine per pensare; Karim rappresentata il solo e unico uomo che avrebbe voluto accanto, ma non fingendo un amore che non sarebbe stato consumato e crescendo il frutto di una violenza – questo però non lo aveva detto al mullah. Il padre l’aveva rassicurata informandola dello scioglimento delle promesse di matrimonio con Aamir, ma non aveva voluto confessarle cosa era stato concesso in cambio della sua libertà e della vita di Karim, reo di aver disonorato le promesse stipulate; il loro comportamento inopportuno aveva fatto perdere benefici alla gente del villaggio, ma nessuno conosceva le reali motivazioni che avevano mosso azioni in apparenza irragionevoli per gli abitanti di quei territori.
La cerimonia in moschea al cospetto dell’imam era solo l’ultimo dei passaggi rituali del matrimonio compiuti dai due sposi.
Se Karim pensava di sposare una bambina, lei non la era più da tempo. Se era così tenace da legare le loro vite, avrebbe almeno potuto concederle la possibilità di vivere quell’unione amandolo, esprimendo sentimenti immutati e conservati da quando aveva memoria nel cuore per lui, solo quello avrebbe potuto donarle felicità, ma il dottore si era convinto fosse abominevole sfiorarla – seguendo la scia dei paesi più civili del pianeta –, eppure non si rendeva conto che una carezza amorevole era la cura per guarire il male subìto da una violenza senza scrupoli.
Il velo, che le copriva metà volto impensierito e i capelli ramati, fu la sola fonte di sfogo per la sua frustrazione. L’abito che indossava era candido, come sarebbe dovuta essere una sposa; per le donne del villaggio che l’avevano abbigliata e adornata con premura in assenza di una figura femminile al suo fianco la era ancora di più. Non era più pura da mesi e lo stato verginale perduto con la forza c’entrava solo in parte; la sofferenza proveniente da ogni dove le aveva strappato troppo presto l’innocenza dell’infanzia, non facendole nemmeno intravedere gli effetti dell’adolescenza nella sua mente e nel suo cuore. Lei si sentiva donna ed era solo stata trattata come tale, a volte convincersene era una forma di amor proprio. Samuel e Karim le ricordavano quanto meritasse di meglio – sebbene loro colmassero molte mancanze –, ma pensarci e non poterlo stringere la demoralizzava.
Era catturata dai pensieri riguardanti il passato e il futuro, tanto da non notare la presenza di Karim accanto alla porta, almeno finché lui non decise di schiarire la gola facendola trasecolare dallo spavento.
«Non ti ho vista arrivare e mi sono preoccupato. Ho pensato avessi bisogno di un dottore»
Osò la battuta con un sorriso, ma non smise di scrutare l’espressione spenta di Maryam che si trovava a pochi passi da lui: era tesa e triste. L’afghano riuscì ad attirare la sua attenzione, benché fosse sconfortata, richiamandola con un tono profondo e confidenziale; la sintonia, era certo, non sarebbe mai mancata nel loro matrimonio. Si sedette al suo fianco, il profumo dolce di Maryam scelto dalle donne del villaggio – un misto di primula e giglio di mare – placò i tormenti, prese un respiro e si lasciò travolgere dalla malinconia dei ricordi, senza il timore di mostrarsi vulnerabile davanti a lei.
«Ti racconto una storia di cui avrei dovuto parlarti tempo fa. Prima che scoppiasse la guerra, ero molto giovane e lavoravo per l’ospedale che oggi è in mano ai talebani. Ho imparato tanto»
«Hai imparato a curare le persone?»
«Sì, ma non solo. Ora immagina: non c’era la guerra e gli americani non sparavano in cerca di terroristi dell’ultima ora. Ma tua madre non era comunque felice. Il giorno prima dell’attentato in cui perse la vita, mi confessò di essere molto in pena per il tuo futuro»
Instillarle il dubbio che sua madre fosse morta insoddisfatta della vita che trascorreva accanto al marito la confuse. Per anni Farah era stata per la figlia un esempio da cui prendere spunto per sopravvivere a quella società; ora emergeva dai racconti di un buon amico che aveva sempre seguito le sue orme che ella stessa era stata travolta da ciò in cui credeva, fino in ultimo a toglierle la vita.
Karim abbassò lo sguardo sul ventre della ragazza, manifestando un profondo senso di colpa.
«Non ti ho protetta come avrei dovuto, tua madre mi starà maledicendo»
«Ti starà benedicendo, invece. Sono stata imprudente, è poco conveniente per una donna camminare sola per strada. Ho sfidato un pericolo di cui ero a conoscenza»
Scagionarlo dalle responsabilità non lo fece sentire meglio, sentiva sulle sue spalle troppe promesse disattese e un affetto tradito.
«Karim? Potrò chiederti una concessione, quando sarò diventata tua moglie?»
«Ma certo. Sai che…»
«Vorrei seguire il tuo esempio, studiare e diventare un medico»
Maryam lo annunciava con orgoglio, mentre Karim rimase perplesso e spaventato. La determinazione e la freschezza della giovane età le avrebbe sempre fatto scoprire una nuova ragione di vita. Il dottore non dubitava delle sue doti, ma del contesto insidioso in cui avrebbe dovuto esercitare quella professione. Aveva cercato di fornire alla giovane un’istruzione base, ma suo padre non le aveva consentito di acquisire alcun titolo di studio, indispensabile per esercitare quel ruolo. Forse era molto più ferrata di molte sue coetanee che non conoscevano la cultura e la lingua americana. La guerra sarebbe stata più longeva della carriera di Maryam, logorata dal tempo e dalle sofferenze; Karim era pessimista circa il loro futuro, ma non aveva intenzione di rivelarle questo suo pensiero e non si sentiva nemmeno di rivolgerle nuove promesse.
Chi era lui per infrangere sogni o illuderla?
Il medico estrasse dalle pieghe della kurta gli unici giuramenti che le avrebbe dedicato e una rosa damascena[4] che le avrebbe offerto al momento propizio nel corso del rito nuziale del quale erano i protagonisti; pensieroso fece passare gli oggetti tra le dita. Si mostrava a lei insicuro e nervoso come ogni sposo, rileggeva quelle righe scritte con calligrafia tremolante su un pezzo di carta strappato malamente come se lei non fosse presente e lui non stesse ripassando il discorso che avrebbe dovuto tenere pubblicamente. Maryam era certa che le parole che le avrebbe rivolto in moschea escludevano i pilastri di un matrimonio classico: anche se tra loro il rapporto non sarebbe cambiato, le avrebbe promesso in segno di rispetto di non desiderare altre mogli al suo fianco. Non le avrebbe chiesto, solo donato. Il figlio che la ragazza portava in grembo sarebbe rimasto l’unico frutto di fecondità, con o senza l’infertilità di Karim. Un sorriso impercettibile e nostalgico si dipinse sul volto di Maryam oltre il nijab.
Il dottore si sporse senza fretta verso di lei per porgerle un bacio sulla fronte appena scoperta dal velo, esattamente come quello che le avrebbe offerto al termine della cerimonia e che avrebbe suggellato la loro unione nel corpo e nello spirito agli occhi di tutti. Le ricordò così, però, l’affetto che nutriva nei suoi confronti e non avrebbe dovuto fingere quel sentimento, lo provava davvero.
Le porse la mano, accompagnando l’invito con un sorriso. Maryam estrasse la sua con qualche difficoltà dal lungo gonnellone bianco del nijab e strinse le dita di Karim. Il promesso la trascinò con sé fino all’ingresso dell’abitazione. La sposa oppose qualche resistenza, ma rispetto all’inizio del loro incontro era molto più blanda.
 
 
Buongiorno, cari lettori e care lettrici!
 
Era ora che qualcosa si smuovesse anche per gli altri personaggi ed io svelassi qualcosa di più su loro. Per questa ragione ho inserito questo piccolo intermezzo narrativo, prima di avventurarmi nella missione di Christian.
Mi scuso sempre per l’immenso ritardo e vi ringrazio per essere tornati tra queste righe. ❤️
 
A presto!
Un abbraccio,
Vale

 
[1] 2 agosto 1990 – 28 febbraio 1991, il conflitto oppose l’Iraq a una coalizione di 35 Stati, formata sotto la protezione dell’ONU e guidata dagli Stati Uniti, che si proponeva di restaurare la sovranità del piccolo emirato del Kuwait, dopo che questo era stato invaso e annesso dall’Iraq.
[2] La USS Wisconsin fu una delle molte navi dispiegate per la missione Desert Shield.
[3] Organizzazione Mondiale della Sanità, con sede a Ginevra in Svizzera.
[4] Rosa di Damasco o Rosa di Castiglia.

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Capitolo 36
*** Capitolo 35_Il fronte più vicino ***


Il fronte più vicino

 
 
 

Base militare semidiroccata, confine Nord/Est; 6 novembre 2018
 
In anni di onorato servizio militare, diverse missioni e un distintivo a grado di tenente, Christian non si era mai domandato come avrebbe potuto giudicare sua madre una scelta professionale così usurpante. In realtà, non si era mai fermato a riflettere quanto le avrebbe frantumato l’anima immaginare il figlio fra quattro mura sudice di umidità, impegnato a giocare a dadi con il proprio destino.
Christian non era certo che avrebbe assistito ad una nuova alba. Eppure, quella stessa notte accompagnato dalle stelle e da un cielo terso, aveva elaborato con le sue mani un piano d’azione, aveva dato ordini precisi ai suoi uomini, aveva escogitato ogni possibile ritirata in caso di emergenza.
La planimetria di Kabul e dell’ospedale erano costellate da cerchi, linee e croci per dare una forma chiara e tangibile allo schema della missione.
Era seduto sul suo materasso pieno di acari. Avrebbe dovuto immergersi nel geraniolo[1], prima di trovare il coraggio di riabbracciare la piccola Alisia. Ogni tentativo di dare un assetto a quel giaciglio era una sfida persa in partenza.
Accanto alle cartine, aveva posato fucili, pistole e ogni genere di strumento offensivo che gli sarebbe potuto tornare utile. Avevano scoperto che la fazione opposta difendeva gli ideali per cui combatteva con le stesse loro armi. Non vinceva chi era un più abile cecchino, ma chi senza remore avrebbe sparato per primo e Christian in quello aveva evidenti limiti. Avrebbe voluto ammettere il contrario, ma era un uomo perfettamente imperfetto e con quei difetti al fronte si sarebbe giocato la vita.
Dalle ore più buie gli era balenato il pensiero di chiamare la sua famiglia, prima di affrontare quell’impresa. Continuava ad allontanare da sé il cellulare dopo averlo afferrato, non si sentiva in diritto di spaventarle.
Si era accertato di essere solo in quella stanza, prima di concedere ad una lacrima il permesso di sciogliersi e ad un sospiro più pesante il tempo di districarsi. Alcun soldato avrebbe potuto affidare la propria vita e quella dei propri cari all’incoscienza di un capitano che si abbandonava senza controllo ai sentimenti.
Si coprì gli occhi con i palmi delle mani e si perdonò di provare tanta frustrazione in un momento così delicato. Scoprì che trattenere il respiro rendeva meno reale lo sgomento che avrebbe inferto fino a San Diego per non essere riuscito a tradire se stesso.
Si asciugò il viso con la manica della divisa che avrebbe indossato durante l’irruzione nell’edificio. Quella stoffa presto non si sarebbe macchiata solo delle sue lacrime.
Impugnò il telefono senza ripensamenti e compose il numero di sua moglie. Il vero atto di temerarietà nelle ore a venire sarebbe stato quello che stava per compiere. Dopo qualche squillo sentì riattaccare la linea e nell’istante successivo ricevette la richiesta di un videocollegamento. Il panico lo pervase, era impresentabile nel fisico e nell’anima.
Il seal scivolò lungo il materasso, il più lontano possibile dalle armi che aveva posizionato pronte all’uso. Accettò la chiamata solo quando fu sicuro di trovarsi in un angolo del capanno spoglio da ogni riferimento bellico.
L’ambiente fatiscente venne illuminato all’istante dal consolante sorriso di Katherine.
«Credevo avessi cambiato idea e non volessi più sentirmi. Amore, cosa sta succedendo laggiù? Non vedo altro che preoccupazione nei tuoi occhi»
I lineamenti della moglie si indurirono ed era proprio l’effetto che Christian temeva di sortire in quella trepidante mattinata di preparativi.
«Ti prego, non smettere mai di sorridere…mi è di conforto»
La richiesta del marito la rese pensierosa.
«Christian, stai bene?»
L’uomo le rivolse un cenno rincuorante per non angustiarla, ma preferì non concentrarsi sulla telecamera del telefono.
«Katherine, ho perso la catenina che mi hai dato prima di partire. Mi dispiace»
«Hai perso la fede?»
«No, quella è al mio dito»
La mostrò soddisfatto alla moglie, ma non la vide sollevata. Era faticoso sostenere lo sguardo di Katherine, sapendo di non potersi permettere la verità.
«Chris, non avere paura. Io e Alisia ti siamo accanto»
«Vi sento vicine»
Uno schermo li divideva, ma i sentimenti dell’uomo che amava le erano nitidi, come se gli fosse accanto. Lo spazio circostante era di maggiore interesse per lui oppure era solo un pretesto, una banale fuga da una conversazione scomoda.
«Christian, sei ancora in tempo per tornare a casa»
«Un capitano non abbandona mai la nave prima dei suoi uomini»
«Anche a rischio della vita?»
La domanda fu inaspettata dalle labbra della moglie. Venne avvertita da Christian al pari di un’accusa. La sua non era una decisione, ma un dato di fatto, una legge per coloro che avevano scelto il mare come filosofia.
«Anche a rischio della vita»
Katherine non sapeva in quale modo fosse riuscita a ricevere quella sentenza, celando il dramma che il suo cuore stava attraversando.
«Sapevo di non potermi fidare di un seal»
Un sorriso amaro si dipinse sulle labbra della donna, ma non era sintomo né di rabbia né di delusione. Era una consapevolezza con cui aveva imparato a convivere da diverso tempo.
Le mandò un bacio con la mano e lei fu costretta ad accontentarsi. Non potevano permettersi di più.
«Hai sposato proprio il peggiore. Ti amo tanto. A presto, Kathe»
«Christian. Ricorda le stelle di agosto. Alisia ha desiderato che fossimo al suo fianco. Non c’è niente che possa andare storto»
Lasciò sua moglie con quell’illusione. Le regalò un sorriso, il pensiero della sua famiglia lo rese la manifestazione di serenità più sincera degli ultimi mesi.
 
 
 

Milat Super Speciality Hospital, Kabul
 
Le puntuali informazioni fornite da Alexander si erano rivelate preziose. Conoscere il funzionamento delle catene di rifornimento e l’appostamento delle guardie all’interno dell’edificio aveva rappresentato la svolta per l’irruzione.
Flores, dall’alto della sua esperienza, sapeva prima di altri quale fosse il momento giusto per sferrare l’attacco finale e uscirne vittoriosi.
La sola operazione d’ingresso nell’ospedale era costata cara ad afghani ribelli e a soldati americani della loro unità. Il percorso per raggiungere la meta era stato turbolento.
Il generale aveva deciso di rischiare dividendo le loro strade, a detta sua, per riuscire a perlustrare l’ospedale ad ampio raggio. A nulla valse il disaccordo del tenente Richardson, che avrebbe preferito tenere sotto la sua ala protettiva le reclute al loro primo battesimo di fuoco.
Nei primi minuti all’interno delle mura, Christian si era procurato una leggera lussazione alla spalla nel tentativo di aprire una porta difettosa e liberare quanti più civili possibile, intrappolati in condizioni miserabili. Di rado i militari erano in grado di scortare gli ostaggi all’esterno con discrezione, dipendeva dallo stato in cui riversavano e dal fondamentale intervento dei medici, che in quella galera avevano mantenuto fede al giuramento di Ippocrate.
Con ordine e disciplina – virtù che ogni buon soldato aveva allenato in Accademia – Christian si prodigava per evacuare l’ospedale di Kabul, affiancando i suoi compagni.
Non era la sua prima missione, eppure avvertiva il peso dell’inesperienza, come quando suo padre gli aveva insegnato a nuotare nelle gelide acque del Pacifico. Più volte, proprio come allora, si sorprese a recuperare una boccata d’aria.
Non era il solo a rivangare il passato davanti a quell’inferno di dolore. Per Flores il ricordo della popolazione innocente del Vietnam era ancora vivo. Salvare quei civili significava per lui espiare in parte le sue colpe, lo aveva confessato al tenente prima di lasciare la base.
Beatriz procedeva a pochi metri da Christian. Non aveva perso la concentrazione e la metodica affinate in addestramento. Era rimasto intatto il rigore dei suoi vent’anni.
Richardson vide scomparire la compagna dietro un angolo di parete attraverso l’occhiello del fucile. Ebbe l’istinto di aumentare il passo per non perderla di vista, ma la ragione gli suggerì di non farlo. Tentò di sopprimere un’autentica sensazione di apprensione nei suoi confronti che lo pervase. Non vi era la necessità e i piani concordati erano diversi. Beatriz non aveva bisogno di essere protetta, non più di qualsiasi altro soldato a cui coprire le spalle in un’operazione militare.
Sebbene Christian non avesse conosciuto l’amore con lei, era rimasto affascinato dalla sua intraprendenza e non aveva smesso di esserlo. Non riusciva ad immaginare in quale stato di impotenza avesse abbandonato una donna così profondamente artefice del proprio destino, quel giorno in cui lasciò per sempre la caserma della sua formazione militare.
Christian procedeva con prudenza. Elijah – da buon amico – gli aveva raccomandato di non lasciarsi sopraffare dall’umanità verso persone senza scrupoli. Era necessario essere anche egoisti. Secondo la legge militare esistevano coloro con cui era lecito mostrare il proprio istinto di sopravvivenza.
Persino Flores aveva tentato in ogni modo di preservare la vita di Christian, difendendolo dai suoi lampanti difetti per riportarlo sano e salvo dalla sua famiglia. Tutti i consigli del generale erano volti a non lasciare una bambina orfana di padre. Di questo Christian doveva iniziare a darne atto al superiore.
Alcuni spari ravvicinati si mossero nella direzione del seal e lo riscossero dai pensieri. Cercò riparo dietro la parete che stava costeggiando. Gli stavano svuotando contro un caricatore di proiettili che presto o tardi avrebbe raschiato il fondo.
Christian tolse la sicura del suo M40 e preparò l’arma all’azione facendo scattare il carrello delle munizioni.
La frenesia e la paura con cui l’aggressore lo stava attaccando erano sintomi della sua giovane età. Era estenuato di dover assistere a quel traffico di esseri umani. Erano ragazzini che agivano sotto minaccia e da cui Christian era costretto a difendersi.
Uno degli ultimi proiettili – una mina vagante senza controllo – sfiorò il braccio del marine procurandogli un graffio superficiale, mentre con pessimo tempismo usciva allo scoperto per rispondere al fuoco nemico. Si concesse qualche secondo per prendere con cura la mira, supportato dal suo fucile di precisione.
Un primo tentativo andò a vuoto, complice il dolore alla spalla che non rispondeva del tutto ai suoi comandi. Evitò di colpire gli organi vitali, riuscendo comunque a disarmarlo con successo. Quando Christian lo vide cadere al suolo, si avvicinò a lui con passo felpato. Fu sollevato nel constatare che era vivo, solo la mano con cui il ragazzo aveva sparato era sanguinante.
Il tenente fece scivolare l’arma del giovane con un calcio per allontanarla da loro. Si abbassò all’altezza del ferito, gli afferrò il polso e valutò i danni che aveva causato. L’afghano ebbe l’istinto di indietreggiare sul pavimento, ma Christian catturò affabile i suoi occhi per rassicurarlo. Non aveva preso un’ottima mira, aveva colpito il fucile del ragazzo, ma il colpo in canna era esploso anche sulla mano di chi lo reggeva.
Lo aveva risparmiato, ma avrebbe perso qualche dito. Estrasse un pezzo di stoffa dalla sua divisa e avvolse la mano mutilata, invitando il giovane a stringerla forte con la mano sana.
Si scambiarono solo qualche sguardo. Non vi era gratitudine, ma grande sorpresa e confusione per il trattamento che gli era stato riservato. Temeva di essere in balìa del suo carnefice, invece lo aveva salvato.
Christian proseguì rapido il sopralluogo con il fucile spianato di fronte a sé. Superò l’ennesimo anfratto e incrociò gli occhi umidi di Beatriz. La trovò inginocchiata accanto ad un muro imbrattato di sangue fresco, contro cui vi era accovacciato un giovanissimo talebano privo di sensi.
Le mani della donna tentavano di contenere una copiosa emorragia. Era sconvolta al pensiero di aver spezzato una vita nel fiore degli anni. Christian tentò di aiutarla imitandola e facendo pressione sulle ferite visibili. Dal collo del militante fluiva una grande quantità di sangue, doveva aver reciso un’arteria importante.
Il capitano sapeva che non vi era più alcuna speranza per quella giovane vita, ma pronunciare ad alta voce quella sentenza l’avrebbe fatta sprofondare negli abissi.
Non lo lasciarono spirare in solitudine. Beatriz strinse la mano di quel ragazzo, come se davanti a lei ci fossero gli occhi sofferenti di suo figlio e non quelli di un qualunque sconosciuto.  
Per la donna assistere ad una morte così violenta fu uno strazio. Le stesse mani che avevano ucciso il giovane, con delicatezza abbassarono le sue palpebre, per celare quelle iridi vitree e nella resa innocenti.
«Mi dispiace»
Dalla gola di Beatriz uscì un soffio di fiato reso gutturale dal pianto. Con la manica della divisa si asciugò le guance bagnate di lacrime e sudore.
Era consapevole che in quegli ultimi istanti Christian fosse rimasto al suo fianco. Si rivolse a lui, senza mai incrociare il suo sguardo mortificato.
«Avevi ragione. Stiamo versando sangue. Nessun uomo, donna o bambino merita una fine simile»
Christian osò porgerle una carezza sul viso con una falange del dito rimasta intonsa dal sangue della vittima, ma la compagna si ritrasse risoluta da quel gesto di conforto.
Beatriz imbracciò la sua arma, nonostante tutto era ancora animata dalla solita determinazione, appena sporcata – quanto bastava – dall’anima di una donna che era anche madre. Riprese il suo cammino senza più voltarsi indietro. Si lasciò alle spalle ciò che era stato per trovare il coraggio di portare a termine il compito che gli era stato assegnato da un suo superiore.
Il seal rimase solo davanti a quel cadavere ancora tiepido. Non doveva essere più maturo del figlio di Beatriz, dedusse che a sconvolgerla in quel modo fosse stata la giovanissima età del nemico.
 
 
 

Cattedrale di Nostra Signora degli Angeli, Los Angeles; 10 novembre 2018
 
Padre Ralph era impegnato a distribuire i libri dei salmi sulle panche in legno, in cui qualche fedele si era rifugiato per raccogliersi in preghiera.
Rivolgere un saluto a quegli uomini e a quelle donne e assolvere ai suoi impegni sacerdotali erano diventati gesti abitudinali.
Spesso la mente si posava su altre questioni, lontane nel tempo e nello spazio. Non era inusuale che i fatti di gioventù non dessero tregua alle sue giornate.
Nonostante il dolore che aveva vissuto e procurato, nonostante il Vietnam gli avesse imposto di vendere la sua anima per onore di patria, continuava a prestare il suo servizio per la nazione che lo aveva ferito nel profondo. Da un’intera esistenza camminava sul suolo americano con la vana illusione di nascondersi dai peccati commessi in giovane età. Le quattro mura di una chiesa erano una roccaforte troppo fragile per il suo cuore, un delicato castello di carte che un banale ricordo era in grado di polverizzare.
Si sentiva tradito da tutto ciò in cui in passato aveva creduto, nel corso degli anni il suo spirito patriottico si era ridotto ad un mucchio di cenere. Credere in quella bandiera lo aveva indotto a distruggere quanto di più puro avesse mai conosciuto, un amore per cui avrebbe offerto la sua vita. Per ordine di generali spietati e compagni d’armi soggiogati a disumane direttive, Ralph aveva compromesso il suo futuro.
Sorrise sovrappensiero ai fedeli, ma era solo un riflesso incondizionato per rispondere alla loro cortesia. Soltanto l’arrivo di una figura trafelata lo distolse davvero dai suoi tormenti e dai suoi doveri ecclesiastici.
Margaret varcò il portone, senza preoccuparsi di rivolgere un saluto al crocifisso. Ormai quella mancanza per lei era diventata una esecrabile abitudine, a cui Padre Ralph non riusciva a non far caso, fosse anche per il significato che ne attribuiva. Il luogo sacro in cui si trovava era un’inezia, un dettaglio di poco conto. Ciò che le importava era trovare il suo padre confessore.
Padre Ralph attese che fosse lei a raggiungerlo, si limitò a seguire con sguardo attento e preoccupato i passi nervosi della ragazza che si muovevano nella sua direzione. Ebbe il vivo timore che fosse giunta fin lì come foriera di terribili notizie. Il pensiero si posò su Samuel e presto il suo cuore accelerò i battiti. L’ansia placò solo dopo le parole concitate di Margaret.
«La prego, mi dica che le voci sul suo conto sono false»
Il sacerdote non prese in considerazione l’eventualità di mentirle, anche se forse con la consolazione di una bugia avrebbe potuto lenire la sua sofferenza.
«Mi hanno chiesto di portare conforto. Samuel è laggiù, cerco di capire come sta»
«Anche lei, no»
La giovane indietreggiò di qualche passo nella mera illusione di allontanare una dolorosa verità, che in pochi minuti aveva assunto contorni troppo reali da sostenere. Le iridi senza fondo della ragazza erano ricolme di suppliche e sincera disperazione.
«Margaret, per quanto tu creda il contrario, dall’Afghanistan si può fare ritorno»
«La smetta di dirmi di avere fede! Non mi basta più»
L’impotenza della giovane rimbombò in ogni angolo della cattedrale. Si voltarono tutti i presenti in cerca dell’origine di tanto frastuono, ma persino Padre Ralph ignorò i loro sguardi confusi. La sua unica inquietudine era rivolta alla pena ulteriore che aveva inferto a lei.
L’idea che una sua parrocchiana tenesse così tanto alla sua incolumità lo lasciò sorpreso e amareggiato. Era evidente quanto l’affetto tra loro fosse reciproco.
L’uomo avvertì rammarico nel petto, quando la vide ripercorrere a ritroso la navata centrale. Osservarla mentre fuggiva da un luogo che le offriva più dolore che speranza lo affranse.
Avrebbe voluto spiegarle che la sua decisione era stata suggerita dall’ardente desiderio di portare aiuto, di alleviare i turbamenti di due giovani innamorati e risparmiare loro le medesime conseguenze che aveva subìto lui a causa della guerra. Nessuno avrebbe dovuto conoscerle.
Tormentato nell’intimo, Padre Ralph riprese a riordinare i libri dal punto in cui si era interrotto. La presa non era salda. La visita inaspettata di Margaret e la sua reazione lo avevano scosso. Una copia dei salmi si schiantò a terra, aprendosi su un’immagine della Madonna che aveva visto centinaia di volte. Si chinò sulle ginocchia per raccoglierlo dal pavimento, ma nel contemplare quei lineamenti il suo sguardo non era  innocente come sempre: gli occhi celesti della figura rappresentata erano così simili a quelli che nel corso degli anni non era mai riuscito a cancellare dalla memoria.
Richiuse il libro e distolse la mente dalla pagina. Lo ripose in ordine sulla panca per non peccare di blasfemia.
Per codardia non aveva cercato notizie di quella donna. Aveva preferito restare all’oscuro delle gioie e dei dolori che avevano accompagnato gli anni trascorsi lontani. Temeva di scoprire fosse ancora furiosa per il percorso che aveva intrapreso. Si era arrogato il diritto di prendere una decisione irreversibile per la vita di entrambi. Viveva nella speranza di averle donato un futuro migliore, pregava ogni giorno affinché ciò si realizzasse.
 
 
 

Luglio 1968

 

Una giovane donna, non ancora ventenne, ammirava l’altare con aria sognante.
Rachel era seduta accanto al fidanzato. Da quando Ralph era tornato dal Vietnam, il suo sogno più grande era diventare sua moglie e la madre dei suoi figli. Intrecciare i loro destini era un desiderio che contava di realizzare il prima possibile.
Le rughe di gioia che le increspavano il viso la rendevano ancora più bella agli occhi del giovane.
«Rachel»
La ragazza udì il dolce sussurro con cui era stata chiamata e si voltò nella sua direzione. Gli regalò uno dei suoi migliori sorrisi, dipinto sulle labbra dagli armoniosi pensieri di cui si stava beando.
«Ti prometto che sarai felice»
Rachel afferrò la mano del fidanzato e la intrecciò alla sua con intimità.
«So che lo saremo»
Stava conducendo le loro mani verso il suo ventre, quando Ralph la anticipò, ignaro di ciò che lei avrebbe voluto comunicargli. Il giovane avvolse in un palmo le loro dita ancora unite e si sporse verso di lei.
Rachel colse un velo di tristezza nel suo sguardo. La guerra l’aveva lasciato turbato, ma lei credeva fosse un sentimento comune ad ogni soldato di buon cuore che sperimentava un campo di battaglia. Vide gli occhi del giovane annacquarsi senza un apparente motivo e anche il suo sorriso di gioia sincera si affievolì.
Con la mano libera Rachel gli porse una carezza sul volto.
«Amore, posso aiutarti?»
«Dobbiamo interrompere la nostra relazione»
A malincuore Ralph bloccò il delicato tocco della ragazza sulla sua guancia. La notizia la pietrificò a tal punto da non riuscire a ribellarsi alla sua volontà.
Fu arduo per lui incrociare l’espressione confusa della fidanzata.
«Ho capito che il matrimonio non può essere la mia strada. Non riesco a portare avanti il nostro rapporto. Ti amo, ma non mi sento più degno di te»
La giovane si liberò dalla sua presa. Pensare che quella fosse l’ultima occasione in cui la sfiorava dilaniò Ralph. Era stata una decisione ponderata, rinunciava a lei secondo una logica maturata nei mesi.
«Ho intenzione di prendere i voti. Rachel, ti prego, non lasciamoci così. Mi piacerebbe non ci perdessimo di vista»
Il dolore che gli comunicò in una fugace occhiata risentita fu più letale di un colpo di fucile. Eppure non era mai stato così tanto altruista nei confronti di un altro essere umano.
La ragazza scivolò sconvolta lungo la panca, un centimetro dopo l’altro era sempre più lontana da lui. Si alzò lentamente, sperando stesse vivendo solo un incubo. Fuggì via, reggendosi ad ogni asse di legno si trovasse lungo la navata e sul suo cammino.
«Rachel!»
Anche il giovane soldato abbandonò la panca su cui erano accomodati insieme poco prima. La vide dirigersi verso le porte d’uscita, ma in coscienza non si sentì in diritto di seguirla per provare ad ottenere il suo perdono.
Ralph tornò al suo posto, si portò le mani al viso e appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Non sentirsi più in grado di amarla come avrebbe voluto – con la pace, la purezza e la serenità nel cuore – era il più grande fallimento della sua vita.
Nei palmi riuscì a soffocare una sola e semplice parola.
«Scusami»

 

 
Ralph cercò aiuto, ancora una volta, in quel crocifisso, una croce che lo aveva accompagnato per buona parte della sua vita.
Tentò di seguire Margaret, ma l’abito talare glielo impedì. Era un limite che la sua mente non riusciva a valicare.
Aveva fallito nei rapporti con l’amore e non aveva la facoltà di confortare i fedeli affranti. Per un uomo che aveva perso l’innocenza in giovane età, era più il bene che riceveva rispetto a quello che riusciva a dare.
Ripercorse tramite i passi di Margaret i dolorosi momenti in cui aveva perso per sempre l’amata.
La ragazza si trovava già sul sagrato e provare a rincorrerla avrebbe attirato troppo l’attenzione dei presenti. Era l’ennesima scusa che raccontava a se stesso.
 
 
 

St. Vincent Medical Center, Los Angeles
 
Il bisogno di conforto condusse Margaret laddove sapeva di trovare consolazione.
Quando la giovane raggiunse il reparto di cardiologia, Delilah era impegnata a consultare alcune cartelle cliniche insieme a un collega.
La dottoressa si accorse subito della cognata accostata con la schiena alla parete; stava cercando di controllare con estrema difficoltà le proprie emozioni.
Le lacrime insolite di Margaret allarmarono Delilah. Fu sufficiente avvicinarsi a lei, la nuova arrivata non le diede nemmeno il tempo di domandarle spiegazioni, si buttò tra le braccia dell'amica.
In preda all'incertezza, il cuore del medico accelerò, mentre la stringeva ancora a sé. Le stava inzuppando il camice di lacrime, ma in quei mesi era uno sfogo comprensibile.
Non ricevere risposte era insopportabile, così afferrò con dolcezza il polso di Margaret e la trascinò verso il distributore dell'acqua, dove le riempì un bicchiere e la invitò a sedersi.
Delilah cercò di mantenere un tono pacato, ma nel petto l'ansia stava esplodendo.
«Margaret. Samuel sta bene?»
«Non ho sue notizie»
La giovane bevve distrattamente un sorso d'acqua. Il suo sguardo era disperso nel vuoto davanti a sé.
«Padre Ralph parte per l'Afghanistan»
 
Buongiorno, carissimi lettori e carissime lettrici!
Questa manciata di giorni di ferie mi ha dato l’opportunità di scrivere questo capitolo. Perdonate sempre il ritardo con il quale pubblico. Ringrazio di cuore chiunque continui ad attendere i miei aggiornamenti. ❤️
Vi auguro una serena Pasqua e vi abbraccio forte,
Vale

[1] Estratto dai fiori di geranio

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