L'orgoglio di stare con te

di LittleRed_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima della chiamata ***
Capitolo 2: *** Bloccati in un sogno dal cielo arancione ***
Capitolo 3: *** Sons of anarchy ***
Capitolo 4: *** Metti in valigia i ricordi ***
Capitolo 5: *** Whisky and sakè ***
Capitolo 6: *** Whisky and sakè (pt.2) ***
Capitolo 7: *** Kintsugi, riparare con l'oro ***
Capitolo 8: *** I had a plan ***
Capitolo 9: *** Dirty soul ***
Capitolo 10: *** Try again ***
Capitolo 11: *** And again ***
Capitolo 12: *** Lettere dal paradiso ***



Capitolo 1
*** Prima della chiamata ***


Quello che mi avevano raccontato nelle favole della buonanotte sui samurai era riguardo l’orgoglio e la testardaggine. E pensai subito allora che dovevano assomigliarmi. 

Mai avrei pensato di scrivere tutto ciò con uno di loro addormentato in parte su di me. 

E quanto lo detestavo quel samurai, dalla punta del suo stupido codino fino al suo prezioso arco. Sorrisi tra me e me, sentendolo girarsi su un fianco e stringendosi più forte a me.  

“Sparagli, mc, uccidi gli zombie...mmmm” 

Ecco ieri sera avevamo giocato a un nuovo sparatutto post apocalittico zombie, e ora li stava sognando. Stavo giusto iniziando il nuovo capitolo del mio libro quando: 

“Jesse, non morire, Jesse!” 

Stava piangendo?  

“Dormi sereno” Sussurrai al suo orecchio appoggiato sul mio petto. “Era solo un incubo, shhh” 

Gli passai una mano tra i capelli, così lisci e morbidi, e gli asciugai una lacrima solitaria che si era separata per andare a scorrere sulla sua guancia. 

Sembrava stare meglio ma dovetti liberarmi dalla stretta mortale in cui mi avvolgeva prima di soffocare nel caldo estivo.  

Andai in cucina a versarmi una tazza di caffè, ormai erano le 4 del mattino, chi avrebbe più dormito. Hanzo, ridacchiai, lui avrebbe continuato a dormire almeno un paio d’ore. Mattiniero e preciso, il mio contrario, notturno e disorganizzato. Eppure la nostra chimica funzionava così. 

Il libro, giusto, stavo scrivendo una specie di biografia, dalla blackwatch al ritiro di overwatch e infine a questo. Non so se ero davvero adatto a questa vita isolata senza soprattutto senza combattimenti e adrenalina, e scrivere di essi non faceva che aumentare la mia speranza di tornare sui campi di battaglia un giorno. Mischiati, questi sentimenti, alla paura di perdere chi mi ero riscoperto di amare. 

Non sarei scappato, come da Ashe, come facevo sempre quando avevo paura di affrontare la realtà delle cose. La mia realtà dormiva nel letto di là e non sarei scappato, non questa volta. 

“Che scrivi?” 

Certo, dormiva, non era esattamente alle mie spalle, e come diavolo aveva fatto a non fare rumore? 

“Solito, di te.” Blaterai, senza rendermene conto, per poi girarmi e vedere il suo viso esattamente a pochi centimetri dal mio, fissarmi serio. 

“Ahem, buongiorno! Anche tu sveglio?”  

Mi diede una rapida occhiata, dovevo avere un aspetto terribile non dormendo da giorni. Eppure l’unica cosa che fece fu avvolgermi le braccia attorno alla vita tirandomi verso di sé in un lungo bacio. 

“Penso di averti sognato, dicevi stronzate, quindi sarebbe stato plausibile anche nella realtà, ma penso fosse proprio un sogno” 

“Stronzo” Biascicai staccandomi da lui e fingendo un broncio. 

“Che dicevo?” Continui incuriosito, chiudendo lo schermo del laptop sul tavolo. 

“Dicevi che sarebbe andato tutto bene” 

“E non sarà così?” Il suo sguardo si era fatto malinconico, non ci credevo nemmeno io, ma dovevo farlo. Le cose in overwatch non andavano bene, il loro ritorno aveva fatto paura a chi di dovere per qualche momento, ma le forze si stavano riorganizzando. E quando la chiamata sarebbe arrivata qui da noi, avremmo risposto.  

 

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Capitolo 2
*** Bloccati in un sogno dal cielo arancione ***


Urlai di dolore quando la freccia mi trapassò la spalla sinistra inchiodandomi a una parete. Ero in trappola, cercai di mordermi le labbra per non lasciar uscire suono, ma diamine se faceva male. 

Arrivò qualcuno improvvisamente, misto al colore della notte fuso ad essa, tappandomi la bocca con la mano. 

“Mio fratello è qui, silenzio o verrai ucciso.” 

Ok che cazzo stava succedendo in quella semplicissima missione di recupero che mi era stata affidata. Dovevamo andare in Giappone e recuperare i documenti della famiglia Shimada. Punto. 

Chi si aspettava un maledetto samurai a frecciarmi. Sputai sangue per terra, mentre un ninja cyborg mi liberava dalla freccia e rispariva nella notte. Sospirai rumorosamente. Perché qualcuno poi mi stava aiutando. 

“Vuoi uccidermi o cosa cecchino, vieni a prendermi, allora codardo!” Ecco come agivo, incurante di quello che mi era stato appena detto. Da solo. 

Rotolai nella luce di un lampione mentre un’altra freccia passava velocissima sopra la mia testa. Almeno avevo capito da dove arrivavano. Aveva un punto debole se continuava a restare nascosto e io l’avrei trovato. Così mi arrampicai lungo delle scale di legno fino al tetto di un palazzetto in perfetto stile giapponese, provando a non scivolare sulle tegole. Ed era lì davanti a me che mi dava le spalle. Era il mio momento dovevo agire subito. Ma qualcosa mi fermò.  

Lui posò l’arco davanti a sé e si alzò in piedi. Senza voltarsi a guardarmi. 

“Sei finalmente giunto, Jesse McCree, ti aspettavo” 

La spalla bruciava da impazzire. Non andava bene, iniziavo a barcollare. 

“Cosa vuoi da me, arciere del diavolo” 

“Tu vuoi gli stessi documenti che voglio io, semplice, solo io ho fatto bene i conti con chi avrei avuto a che fare, la mia stessa famiglia” 

Alzò le spalle, voltandosi verso di me. Smisi di respirare tra il dolore della ferita e la sorpresa.  

“Ti avrei già ucciso se avessi voluto, ma tu perché non l’hai fatto?” 

Perché non l’avevo fatto? Ero paralizzato, e non riuscivo né a muovermi né a sparare. Sarei poi davvero riuscito a sparargli?  

Avanzò un passo nella mia direzione, senza fare rumore. “Sono Hanzo Shimada, a te la scelta se essere amici o nemici.” 

“Va, accendimi una sigaretta.” Riuscii solo a biascicare, la voce impastata. Stavo per svenire dal male, probabilmente la freccia era avvelenata o soporifera.  

“Lo prenderò come una collaborazione...” 

Sembrava mi stesse per dire ancora qualcosa. Ma le parole arrivavano distorte e confuse.  

“Jesse, vuoi alzarti per favore è mezzogiorno.” 

Poi riaprii gli occhi. 

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Capitolo 3
*** Sons of anarchy ***


Era arrivata una mail, da Winston, e ora l’icona casella posta elettronica continuava a lampeggiare mentre la fissavo intontito dal sonno.  

“Gli diremo di no, davvero, ormai siamo fuori dal giro, guarda ho imparato a preparare i pancake” 

Disse lui indicandomi quelli che aveva chiamato pancake, ovvero degli sgorbi di pastella bucherellata.  

Sospirai, non per i pancake, quelli li avrei ovviamente mangiati, come avrei mangiato volentieri chi li aveva preparati. E invece bisognava affrontare questa nuova emergenza. La curiosità era troppa. Cliccai sull’icona delle mail e mi si visualizzò davanti un videomessaggio del nostro amico scimmione.  

La mail era indirizzata a Jesse McCree, nessun riferimento ad Hanzo, ovviamente non lo sapeva nessuno, ma pensavano davvero solo che mi fossi stufato di loro? Ero così uno stronzo nel loro immaginario? Ancora un sospiro poi feci partire il messaggio. 

 

“Ehm ehm, mi si sente forte e chiaro? Si posso iniziare a registrare. Sta già registrando dite? Bene! Eccoci qua, Jesse, sei sparito davvero per troppo tempo, e te l’avremmo lasciato fare se non fossi richiesto come il migliore sul campo. Si tratta di una cosa TOP SECRET, quindi in realtà non posso accennarti niente, la posta non è sicura. Devi venire subito in Europa, qualcuno verrà a prenderti per scortarti qui. Le forze nemiche si stanno muovendo e anche noi. Portami del buon burro d’arachidi e salutami Hanzo, anzi porta anche lui che dici? A presto ragazzi, spero. Mi appello al vostro buon senso. Voi ditemi solo che accettate.”  

Lo schermo si fece nero, mentre il mio cuore accelerava impazzito. 

Cosa cazzo voleva dire salutami Hanzo. Salutami. Hanzo. 

Una risata roca mentre il mio samurai mi abbracciava da dietro mettendo la sua testa sulla mia spalla e schioccandomi un bacio.  

“Calmati ok, l’avranno capito, non ci vuole un genio, siamo spariti praticamente in contemporanea” 

Mmmmm” Il mio cuore non voleva calmarsi, e come potevo con lui così vicino. Cercai di liberarmi dall’abbraccio, dovevo pensare lucidamente. E invece finii con l’essere ancora più intrappolato tra le sue braccia. Un ghigno sul suo volto mi fece sussultare.  

“Potremmo non poter essere più soli, sempre che tu voglia accettare, io comunque non ti lascerò andare via tanto in fretta ora.”  

Indietreggiai, ma secondo i suoi piani finii contro il tavolo della cucina, e Hanzo mi ci schiacciò contro col suo corpo. Ero bloccato.  

“Dimmi basta e mi fermerò subito.”  

Non dissi niente, mi avvicinai al suo volto per perdermi tra le sue labbra in un caldo bacio, la mani avvinghiate ai suoi capelli si muovevano frenetiche. I nostri corpi erano così vicini che sembrava si stessero fondendo. Non avevo molto lasciato all’immaginazione, potevo sentire tutto. Ovviamente la mia mente era tutto fuorché libera di pensare lucidamente.  

“Non voglio perderti...” Sussurrai tra un bacio e l’altro. 

“Non succederà.” Sembrava sicuro di sé, potevo crederci? Il nostro destino sarebbe stato clemente o crudele con noi? Non potevamo saperlo. 

Chiusi gli occhi, perché pensavo ancora quando avevo il mio maledetto arciere qui davanti a me, pelle contro pelle, leggermente sudata nella calda mattinata estiva, e molto, molto eccitati. 

“Andiamo almeno in camera da letto? Sento i pancake che mi fissano.” Dissi ridendo. 

Non l’avessi mai detto, mi sollevò in braccio portandomi via dalla cucina, mentre cercavo di ribellarmi e farmi mettere giù.  

Quello che sapevo era che non ci saremmo separati. Avremmo accettato o rifiutato assieme. Qualcosa continuava a suggerirmi che Hanzo aveva già deciso di accettare.  

E alla fine anche io.  

Poi spensi il cervello e mi lasciai trasportare via in una scia di baci e carezze. 

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Capitolo 4
*** Metti in valigia i ricordi ***


“Questa la portiamo?”  

Hanzo mi stava indicando una vecchia mug scheggiata con sopra scritto Go Cowboy. 

Non sapevo se ridere o piangere davanti a un’espressione di amore così stupida. 

“Mi sa che porteremo solo l’indispensabile, odio doverlo dire ma: buttare.”  

Dovevamo ripulire tutto, come se non fossimo mai stati lì. Era davvero frustrante. No peggio, era come cancellare anni di convivenza felice. Certo c’erano stati alti e bassi, ma eravamo stati felici. 

Quelle erano le regole, cancellare la nostra presenza, documenti falsi, un jet privato e, senza nemmeno sapere la destinazione, partire. Avevano fatto bene le cose ad overwatch per farci tornare.  

Dopo quello che era successo quando ce n’eravamo andati. Del perché eravamo andati via. Senza un saluto, ne un addio.  

Era la stessa cosa adesso? Non avevamo fatto amicizie essendo isolati dal mondo nel grande e sconfinato parco di Yellowstone, Wyoming, nella nostra casa di legno. Le lunghe passeggiate, i lavori saltuari come guardie del parco.  

“Non piangere... non sarà per sempre.” Stavo piangendo? Non me n’ero accorto. Bene, ero messo davvero di merda.  

“Non avremo niente a cui tornare, cancelleranno la nostra presenza qui, non resterà nemmeno un ricordo di noi.”  

“Avrai sempre me, costruiremo nuovi ricordi.” Un sorriso forzato, senza illuminargli gli occhi. Non riuscivo a vederlo così, dovevo sforzarmi. Mi asciugai gli occhi. 

Andai verso il cestino e presi la stupida tazza. Go Cowboy, diceva. “Portiamola. Non si sa mai che io abbia bisogno di più incoraggiamento.” Sorrisi e come in uno specchio anche Hanzo sorrideva, non raggiante ma almeno più convinto di prima. 

“E portiamo anche questo. Il capellino della tua prima volta a una partita di baseball.” 

“Ok non esageriamo, odio ancora il baseball...” Sbuffò. Adorabile.  

“E ti ricordi di quella volta in cui...” I ricordi iniziarono a piovere gli uni sugli altri, incontrollabili come le lacrime che stavamo condividendo tra una risata poco credibile e l’altra. 

Ovviamente finimmo a fare l’amore sul letto vuoto dai ricordi che avevamo rimosso accuratamente dalla stanza, ma non dalle pareti dei nostri cuori. Le fotografie degli anni passati erano ancora lì, indelebili, nella memoria. Mentre rimanevano sagome bianche dove erano state tolte nella stanza.  

Stavo guardando il soffitto, in pace con la mia anima mentre raccoglievo un momento per dire addio a quelle quattro mura. 

“Arrivederci.” 

Fu l’unica cosa che riuscii a dire, nella speranza di poterci un giorno tornare.  

Poi mi alzai, in cerca dei miei vestiti puliti per il viaggio. Le valigie erano pronte all’ingresso. Dovevo solo svegliarlo, ma ogni volta che dormiva avrei solo voluto restare ad accarezzargli i capelli, dolcemente.  

“Cosa saluti, vengo anche io cretino.” 

“Certo che vieni anche tu, muovi il tuo culo pigro da lì, e mettiti qualcosa addosso.” Arrossii davanti a tanta perfezione.  

Gli tesi una mano per farlo alzare, ma ovviamente mi tirò contro di lui sul letto. Persi l’equilibrio e gli caddi addosso.  

“Che diavolo...” ma la mia frase venne stoppata dalla sua bocca sulla mia. Mi sciolsi nel bacio, il mio corpo sapeva reagire anche senza che lo seguisse la mente. Non so per quanto tempo rimanemmo così a non pensare a niente, se non l’uno all’altro. 

Quando mi staccai sorridevo malinconico. Non sapevo davvero niente del nuovo futuro promesso dalla overwatch.  

Ma eravamo pronti a incamminarci assieme mano nella mano. Lungo una nuova via. Verso i nostri nuovi ricordi ancora da vivere.  

“Guarda che ti lascio indietro se non ti muovi.” Era Hanzo che già mi guardava dalla porta della stanza, mentre mi ero perso a pensare.  

“Sono pronto”  

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Capitolo 5
*** Whisky and sakè ***


Il liquore bruciava la gola, come piaceva a me, ma era diverso dal solito a cui ero abituato. Caldo come un bacio, il sakè scendeva piacevole a solleticare le papille gustative di nuovi orizzonti.  

Mi trovavo in una piccola bettola di Tokyo, a pianificare la prossima mossa, con quello che stavo ancora considerando se amico o nemico.  

Insomma aveva cercato di uccidermi, o no? E la ferita bruciava ancora se ci pensavo attentamente, un doloroso ricordo di un pessimo primo incontro.  

“Bah, preferisco di gran lunga il Whisky.”  

Lui non rispose, aveva lo sguardo serio, concentrato.  Gli si disegnava una fossetta sulla fronte, tra le piccole rughe di concentrazione. E perché diamine stavo osservando così attentamente la sua faccia? 

“Dovresti berne ancora, per abituarti al sapore.” Mi guardò per un momento, poi tornò a guardare le carte sparse sul tavolo.  

“Dovremmo ripartire dall’inizio, e provare a prevedere le loro mosse.”  

Dovevo dirgli di suo fratello? Forse sarebbe stato meglio, ma probabilmente già lo sapeva, ecco, e non avevo idea di come iniziare a parlare dell’argomento. Da sobrio almeno, pensai versandomi l’ennesimo bicchierino di quella magica pozione alla quale ancora faticavo ad abituarmi. Berne ancora, aveva detto lo Shimada, e sia.  

 

-Cinque bottiglie dopo- 

 

“Quel samurai non può prendersi gioco di me così!” 

“Sono io quel samurai? Stupido pistolero da quattro soldi, parli forse di me?”  

Come eravamo arrivati a quella conversazione, feci uno sforzo di memoria, passando attraverso il momento in cui avevo ballato su un tavolo richiedendo una canzone country al jukebox e la scena in cui avevo quasi perso contro un tipo a braccio di ferro, uno che nemmeno sapeva le regole, stava barando sicuramente. Barai anche io.  

Poi ci avevano cacciato per disturbo e schiamazzi eccessivi. Poi, giusto, avevamo fatto casino fino a quel momento ma avevano deciso solo alle 3 di notte che fosse troppo. O avevamo fatto di peggio? 

Non ricordavo, volevo solo insultare ancora la gente e lamentarmi. 

“Tu sei uno stupido pistolero, no un arciere, però sei stupido quello è il punto.” 

“E tu sei molesto, e anche fuori forma.” 

Fuori forma! Mai osare insultarmi, avrebbe visto ora la mia furia. 

Lo presi per il bavero del kimono sbattendolo contro il muro del vicolo dove barcollavamo.  Alzai l’altra mano a pugno chiuso, ora avrebbe visto chi ero davvero. Una fitta di dolore alla spalla mi fece digrignare i denti. Sopportai. Quello lo sopportai. 

“Smettila” Ansimai. “Smetti di fare quella faccia insopportabile.”  

“Quale faccia! Cosa aspetti a colpirmi?” La mia mano era ancora a mezz’aria.  

Calai su di lui la mia furia, ma in modo diverso da come mi ero aspettato. La mano si aprì andando a posizionarsi dietro la sua testa tirandola verso la mia. 

“Sta zitto.”  

E lo baciai. 

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Capitolo 6
*** Whisky and sakè (pt.2) ***


Prima sentii lo schiaffo, poi il bruciare della vergogna.  

Cosa avevo fatto! Mi tirai indietro di scatto. Solo dopo aver ripreso fiato trovai il coraggio di guardare di nuovo in quegli occhi, scuri e indecifrabili. Era rosso paonazzo, respirava faticosamente, e aveva un’espressione comica a metà tra l’imbarazzo e l’incazzato, con una punta in fondo di non fermarti ora. O me la stavo solo immaginando? 

Non sapevo bene cosa dire per scusarmi del mio gesto, l’alcol mi rendeva impacciato e fragile. Datti un contegno Jesse, non puoi piangere dopo aver baciato un mezzo sconosciuto in un vicolo da ubriaco. E nemmeno metterti a ridere. 

Questo pensavo fissandolo, incapace di fare un singolo movimento, quando mi si riavvicinò chiudendo gli occhi.  

Mi baciò, prima uno schiocco leggero, poi sempre più appassionatamente. Ricambiai stordito, aprendo le labbra al tocco leggero delle sue sulle mie. La sua mano, che prima mi aveva colpito, mi stava ora carezzando la guancia sulla barba rada. Affondai le mie senza pensare tra i suoi capelli, sciogliendo il nastro che li teneva legati. Un profumo nuovo proveniva da essi, misto al nostro fiato alcolico, mi inebriava e pensavo non mi sarei più fermato. 

Non so quanto tempo passammo in quel vicolo a mischiare le nostre paure e speranze tra un bacio e l’altro. Fu lui a scostarsi per primo, tornando subito serio e cercando di riprendere un contegno. Gli porsi il nastro blu per legarsi i capelli. Non avevo idea di cosa dirgli. A rompere il silenzio solo qualche sporadico passante e le auto passare sulla via principale.  

“Ecco, tieni” provai, ancora con il nastro in mano. Lo prese ringraziandomi sottovoce e in giapponese. “Arigatou”  

“Eh?”  

“Vuol dire, grazie. Ma è un grazie profondo e sincero. Non come il vostro inglese ingannevole.” 

Mi ero finora abituato a lasciarmi scortare in giro per Tokyo affidandomi esclusivamente al suo parlarne la lingua madre. Forse era tempo di provare a imparare qualcosa di nuovo. 

“Come si dice prego?” Azzardai, sorridendo, ignorando il mezzo insulto. 

Si riscosse un momento dalla sorpresa, mentre si stava ancora legando i capelli, interrompendo il gesto a metà. 

“Si dice shite kudasai... come mai ti interessa?” 

“Mi interessi tu... ecco non l’ho lasciato molto trasparire, ma anche te ecco sei così silenzioso e introverso.” 

“Ti devo delle scuse, e delle spiegazioni. Come me le devi tu per quel... quello che era...” 

Tornò ad arrossire, mentre una ciocca sfuggiva ribelle al laccio. Gliela risistemai prontamente dietro l’orecchio. Ancora una volta senza pensare alle conseguenze delle mie azioni. 

Si tirò indietro di scatto andando a sbattere da solo contro il muro dietro di lui. “C...Cosa stai facendo.”  

“Non sei abituato a essere trattato in un modo gentile vero? Beh nemmeno io.” 

Ma quello era diverso dall’essere gentili e lo sapevamo entrambi. 

“Forse è meglio tornare al motel. Sarebbe meglio dormire almeno un po’.” 

Suonava così triste la sua voce, così malinconica e solitaria. Non avrei permesso di trasformare questa avventura di una notte in un fiasco. Fosse anche solo per provare a renderlo su di morale.  

Avevamo parlato del più e del meno mentre camminavamo lungo la strada del rientro, senza ovviamente citare nulla di quanto successo tra di noi. Così appena arrivati davanti alle nostre rispettive porte ci salutammo, con un cenno della mano e un piccolo inchino alla perfetta maniera giapponese. Ero pronto ad attuare il mio piano senza sospetti, quando andai ad aprire la porta per sgattaiolare nella sua stanza. E me lo trovai davanti. In piedi in mezzo al corridoio, la vestaglia, aperta leggermente sul petto nudo.  

Deglutii pesantemente. Sgamato, pensai.  

“È permesso?” disse solo in maniera molto compita. 

Non riuscii a trattenermi nemmeno per un secondo trascinandolo dentro la stanza e sbattendo la porta dietro di lui con un calcio. 

“Era ora, ti aspettavo.” mentii sogghignando.  

Lui disse solo, sussurrando al mio orecchio: “Fammi tuo”.  

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Capitolo 7
*** Kintsugi, riparare con l'oro ***


Il jet planava come se non avesse peso tra le nuvole, al mio contrario sentivo i pensieri pressanti come macigni nella mia testa. Ero davvero pronto a tornare? Mi avevano perdonato, o meglio mi ero perdonato?  

Mi ritrovai a fissare l’unica certezza che avessi al mondo. Hanzo mi guardava placido, leggermente nervoso.  Non sapevo come provare a iniziare quella conversazione. Eravamo rimasti in silenzio per buona parte del volo avendo viaggiato di notte. E ovviamente avevo dormito pochissimo, alternando la veglia tra incubi e orribili ricordi.  

Sweetheart...” accennai scherzoso “Avresti voglia di versarmi un bicchierino?” 

“Dovresti restare lucido, mancano poche ore all’arrivo. E sai che la smaltisci male la sbornia.” 

Aveva maledettamente ragione, grugnii un dissenso silenzioso, ma aveva ancora ragione. Non avrei dovuto bere in quella circostanza. 

“C’è qualcosa che ti senti di dirmi Jesse?”. Appoggiò una mano sul tavolino che divideva le nostre poltrone, una di fronte all’altra. E io presi al volo l’occasione di stringerla.  

“Non saprei, sento tanto risentimento. Per me, loro non hanno colpe. Ma come potrebbero prendere un ritorno così?” 

“Beh ce l’hanno chiesto loro.” Di nuovo ragione. Cominciavo a non sopportalo.  

“Beh poteva farlo prima allora!”  

“Jesse, non usare quel tono con me. Che ti ho fatto? Se vuoi startene nel tuo lasciami in pace. Cosa credi che io sia pronto a riaffrontare mio fratello? Dopo tutte le lettere mai aperte che mi ha mandato?” 

“Dovresti leggerle... Non sono male.” Cosa cazzo avevo appena detto. Mi morsi la lingua ma era troppo tardi. 

“Le hai lette? Tu le hai lette!”  

Oddio, perché l’avevo detto ad alta voce. Avrei solo voluto aiutare quella riappacificazione. Sicuramente parlarne ora così a bruciapelo durante uno stupido litigio sotto pressione non avrebbe mai potuto servire a niente di buono.  

Ritrasse di scatto la mano dalla mia, tirandosi indietro sulla poltrona. Chiuso in un mutismo dal quale non potevo scappare. Dovevo risolvere la cosa. Dovevo parlargli ora che eravamo bloccati su questo maledetto aereo. 

“Le ho lette... e dovresti farlo anche tu.”  

“Adesso sei in grado di dirmi quello che devo fare?”  

“No ... Io non sono nessuno, non ho autorità. L’ho persa quando ho iniziato ad amarti.”  

“Non funziona così, non dici una cosa carina e passa tutto. Tu hai violato la mia privacy. Io ti ho seguito nel bel mezzo del nulla e tu mi fai questo!” 

Stavamo urlando, ed eravamo sul punto di piangere in preda alla rabbia. Gesticolando in aria la nostra frustrazione.  

“Benissimo” Risposi di nuovo incazzato “allora tu hai invaso la mia privacy seguendomi nel più lontano buco del mondo”  

“Tu davvero pensi questo? Che non avrei dovuto farlo...?” Il tono si abbassò, passando da infuriato a malinconico. 

Ero alle strette. Qualunque cosa avessi detto ora rischiavo di perderlo, c’era in gioco molto più del mio orgoglio. C’era in gioco la nostra relazione per quella puttanata che avevo combinato. No, non l’averlo detto, peggio l’averlo fatto davvero.  

“No, ovviamente sono felice che tu l’abbia fatto... io... scusami”  

E non riuscii più a trattenermi mentre la prima lacrima scorreva bruciante sulla mia guancia. Non fece molta strada prima di essere raccolta dalle dita tremanti dello Shimada.  

Poi venni travolto da un abbraccio che rimise un po’ a posto i pezzi nei quali mi stavo frantumando.  

“Ecco, è che ho paura. Ho solo paura. E ho girato questa paura contro di te.” 

“Parlamene, non era il momento certo, ma parliamoci delle cose che accadono, che pensiamo. E anche degli errori che commettiamo. Te ne prego.” Disse in aggiunta a quello che già pensavo io.  

“Adesso...” prese un respiro profondo prima di continuare. “Parlami di quelle lettere.”  

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Capitolo 8
*** I had a plan ***


Il piano era stato discusso, deciso e approvato.  

Appena arrivati a destinazione avrei agguantato Winston e buona parte del gruppo distraendoli con le mie solite scenette da monopolizzatore dell’attenzione. Nessuno avrebbe sospettato che Hanzo più chiuso stesse in disparte, e nemmeno di vederlo sparire. Non avrebbero avuto il tempo di fare domande, avrei risposto in anticipo cambiando i loro discorsi.  

Ecco come avevamo previsto di agire.  

Ed ecco come andò davvero. 

Il comitato d’accoglienza non c’era stato. Delle persone in uniforme erano venute a prenderci in areoporto facendoci uscire da una porta laterale. Nessun cartello ‘bentornati, scemi’, niente di niente.  

Riuscivo a sentire nella mia testa le risate e i sospiri di sollievo nel vederci arrivare, e invece risuonavano solo i nostri passi nel silenzio assordante.  

Andava così male a overwatch? Così male da restare nascosti in segreto, e mandare dei tipi a scortarci chissà dove senza darci indicazioni? 

Continuavo a pensare fosse uno scherzo per una stupida festa a sorpresa, lo pensai anche quando provai a sbirciare chi fosse a guidare l’auto di servizio. Un banalissimo omnic, mai visto prima.  

“Il piano è cambiato leggermente caro, ma dobbiamo aspettare solo un pochino di più, no?” 

Il samurai era silenzioso, e si torceva nervosamente le mani in grembo, i sensi all’erta. 

Shh, fammi pensare.”  

OooookMcCree esce di scena.” Cercai di farlo ridere, fallendo miseramente. 

“Non vorrei disturbare i due piccioncini, ma sapete che stiamo per farvi saltare in aria? Potreste almeno darvi un bacino, no? Dite che è troppo?”  

Una terza voce, metallica, uscì dall’altoparlante della radio. E ahimè era una voce molto famigliare. 

“Puttana!” Ebbi il tempo di esclamare, mentre la macchina accelerava andando a tutta velocità, e sbandando qua e là. Una mano strinse forte la mia mentre in preda al panico provavo ad aprire le portiere e i finestrini. Panico per lui, per averlo messo in pericolo. Poi inspirai profondamente e la paura si diradò.  

In tutto questo appurammo che l’omnic era spento e l’auto stava proseguendo controllata a distanza.  

“Non hai scampo Jesse, ora la pagherai davvero.” Ancora lei. Mi trattenni dal risponderle prendendo invece dal fodero una pisola per sparare ai pistoni della portiera e farla saltare.  

Jes non ascoltarla, troveremo una soluzione.”  

Proprio in quel momento, mentre riuscivo ad aprire la portiera per rotolare fuori, l’auto sobbalzò andando a finire nella corsia di marcia opposta alla nostra. Non c’era più tempo, un grosso tir avanzava dritto verso di noi.  

“Salta mc, non fare l’eroe o moriremo entrambi.” Saltare? Da solo? Era questo quello che mi stava dicendo?  

Poi arrivò l’impatto, facendomi davvero volare fuori dalla macchina, le dita sudate della mano che lasciavano la sua.  

Caddi metri più in là sul selciato mentre la macchina si accartocciava su sé stessa. E chiusi gli occhi.  

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Capitolo 9
*** Dirty soul ***


La sua risata mi faceva impazzire, nel senso che volevo ucciderla e mettere fine a quello strazio. Questo avevo sempre pensato di Ashe. Anche se in quel momento ero più concentrato a evitare eventuali pallottole vaganti, che a ignorare la fastidiosa risata di quella killer psicopatica. 
“Non potrai nasconderti per sempre Jesse, tu e i tuoi nuovi amichetti dovrete uscire prima o poi.” Ci stavano stanando, mentre andava tutto a rotoli: la missione, il piano e la mia possibile copertura all’interno della banda; tutto saltato per aria, come noi tra poco. Ashe aveva annusato puzza di bugie fin dalla lettera che le avevamo mandato qualche giorno fa, chiedendole appunto un possibile incontro, solo io e lei. Io avevo portato la mia squadra e lei, beh, aveva fatto lo stesso. Ecco tutta la Deadlock Gang, al completo. 
“Doc, coprimi, provo a parlarle.” Dissi alla Ziegler dietro di me, pronta a sostenermi in caso riaprissero il fuoco su di me. Dovevo solo dare tempo a Winston di decifrare i codici nella loro base, per avere informazioni su eventuali collaborazioni con Talon, in effetti il piano ero ancora in atto. Poteva farcela. “Ashe, voglio solo parlarti.” Sbucai dal mio nascondiglio in tempo per sentirmi forare il cappello, e non aveva sbagliato mira, se avesse voluto colpirmi in fronte l’avrebbe fatto, da quel punto di vista mi ricordava qualcuno di mia conoscenza. Sospirai, pensando ad Hanzo appostato dietro di noi su un’altura. 
“Bene, facciamo passi avanti. Fanne uno falso e siete tutti morti.” Cortese come sempre, pensai. I suoi occhi rossi lampeggiavano di furia, vergogna, abbandono e odio. Tutto verso di me, pacchetto completo. 

Poi lo vidi, era troppo vicino, non andava bene così. Anche la stronza notando il mio sguardo, seguì con gli occhi dove era rivolto, centrandosi su Hanzo, prima che risparisse dalla visuale. Se continuava a spostarsi così come potevo tenerlo d’occhio, ebbi il tempo di concedermi questo momento prima di iniziare la frase. 

“Senti... lasciamo fuori le faccende personali.” Sperai davvero che Hanzo non ascoltasse, ma ne dubitavo. 

“Tu? Ahahahahah, Tu vieni a dirmi questo? Pensi che non abbia visto come lo guardi?”  

Dovevo solo prendere tempo, pensai masticando e sputando il tabacco misto a saliva rimasto in bocca.  

“Che ci vuoi fare! Sono un rubacuori. Dovresti saperlo.” Si la scenetta avrebbe funzionato, stuzzicandola a dovere l’avrei distratta. Speravo solo di non fargli troppo male... avrei spiegato tutto dopo.  

“Quello che so, sono tutte le persone a cui hai fatto del male...” “NO! Fermati subito!” 

Rise ancora più di gusto, lei sapeva che stavano ascoltando tutti, beh meno Winston. Ma chi se ne fregava era abbastanza perché dovesse stare zitta. Per sempre. Mi montò una rabbia cieca mentre puntavo la pistola nella sua direzione. E una mano la riabbassava. Era lì al mio fianco, come nella vita, così ora a sostenermi. Il mio cuore inchiodò rendendomi conto che si stava esponendo a un pericolo per me, per aiutarmi a gestire la situazione. 

Elizabeth Caledonia Ashe.” Iniziò pacifico “Tutto quello che dobbiamo sapere l’abbiamo già saputo, è tempo di andarcene.” Quindi il piano era riuscito? Vecchio scimmione ce l’aveva fatta!  

“Certo, certo, questa era solo una copertura come sospettavo. Eppure non sei curioso di sapere di più? Jesse procedo io o tu? Hai le palle per dire cosa facevamo assieme? E beh, si oltre al sesso spinto.” Pregai che si fermasse, o l’avrei fermata a tutti i costi. Ma ero immobile senza riuscire a dire o fare nulla. E lei continuò. 

“Delle bugie che hai raccontato per poter entrare a overwatch? Di come hai coperto tutto con le favole della macchietta che sei diventato? Insomma tutti qui hanno combattuto delle guerre e ucciso persone che forse non lo meritavano, ma ehi ti sei superato con quella volta: quando abbiamo messo a ferro e fuoco un’intera città. Eravamo i padroni del mondo.”  

Le urla non si spegnevano tutt’ora nella mia testa, anche dopo che il fuoco era finito da tempo. Da anni per la precisione.   

 “Oh oh, ma non finisce qui. Quando hai rubato a overwatch per scommessa? Esilarante.”   

 Si sarebbe mai fermata? E forse la mia colpa e vergogna con lei.   

 “Basta così Lizzy, ha funzionato siamo nel loro archivio.” urlò qualcuno alle sue spalle. Era stata una sconfitta su tutti i fronti. Ci avevano contro hackerato.  

 “Ti uccido, io...” Mentre ero davvero pronto a sparare, lei se ne uscì così: “Devo andare ragazzi alla prossima, godetevi la dinamite.” Salutò con la mano e fu l’ultima cosa che vedemmo, in una nuvola di fumo lei era sparita. Una forte esplosione ci stordì, mandandomi a terra. I pensieri confusi accartocciati l’uno sull’altro. 

Dovevo essere forte, sarebbe passata anche questa, come tutte le altre volte. 

Dovevo cercare i feriti, dovevo aiutare, dovevo rifarmi per i miei peccati. 

Anche se nei suoi occhi leggevo vergogna. Per me. Non era abbastanza, la mia era superiore, ero io quello che stava peggio, pensai. 

Dovevo farcela, per non dargliela vinta. 

Dovevo riaprire gli occhi. 

“Jesse. Svegliati. Ti prego, non farci questo.”  

Doc?  

 

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Capitolo 10
*** Try again ***


 

Quel giorno non persi solo il braccio sinistro, ma anche parte del mio orgoglio. Persi i miei amici e lasciai overwatch. 

Sapevo di non essere più l’uomo a capo della Deadlock, e neppure con Gabriel in blackwatch, dove ahimè avevo continuato a fare cose terribili. Eppure il senso di vergogna non si lavava via facilmente. Sentivo ancora le dita insanguinate per il male commesso.  

“Doc?”  

Socchiusi gli occhi, la luce bruciava attraverso gli spiragli aperti tra le palpebre. Era tutto bianco, forse ero morto stavolta.  

“Riesci a sentirci Jesse?” No, non ero morto, anche se Mercy era una gran bella donna, non il mio tipo, troppo angelica. Ero più uno da demone. E io sicuramente sarei finito all’inferno. 

Mi tirai su di scatto al pensiero del mio demone personale. “Hanzo!” Urlai, ma il mio corpo ricadde molle, mi faceva male dappertutto. Ero uno straccio.  

“Ok, chi glielo dice?” Era Lena quella? Oddio erano tutti lì. “Chi mi deve dire cosa, se sono brutte notizie giuro che vi ammazzo.” 

L’immagine dell’auto che si schiantava tornò a tormentare la mia mente, già costellata dagli incubi precedenti.  

Riaprii gli occhi, stavolta senza lasciarmi accecare. Ed ero, come avevo immaginato, in un letto d’ospedale. Tutto attorno a me era pulito e asettico, l’odore del disinfettante pungente copriva anche il profumo dei fiori freschi sul mio comodino. Fiordalisi, i fiori della speranza.  

“Ok fuori tutti, ci penso io.”  

Avrei riconosciuto quell’accento così familiare tra tutti. Per me voleva dire tanto: famiglia, amore. Eppure era diverso da quello che ricordavo. Certo non era il mio Shimada. Era l’altro. 

Genji avanza verso di me, mentre riuscii a intravedere qualcuno degli altri uscire: Lena, Winston, Angela, persino Mei? Come minimo gli altri erano tutti di fuori.  

“Da quanto tempo eh. Ora i convenevoli sono finiti. Dimmi come sta!” Gli sbraitai in faccia senza ritegno.  

“Lo vedrai tu stesso.” Disse avvinandomi una sedia a rotelle, come se avessi bisogno di quella roba. Eppure faticavo a rialzarmi. E sia avrei acconsentito a quel trattamento, pur di vederlo.  

Ti prego ditemi che sta bene, continuavo a ripetermi come un mantra. Ti prego... 

Genji mi diede una mano a sedermi, tenendomi su a forza mentre riprendevo i comandi del mio stesso corpo. Poi una volta sulla sedia la spinse fuori dalla stanza.  

Il corridoio era deserto, forse per lasciarmi privacy, forse perché non gliene fregava niente a nessuno ... no questo no, erano tutti nella stanza, tutti preoccupati. Stavo pensando troppo. E alle cose sbagliate, dovevo concentrarmi su di lui ora. Solo su di lui. 

“Vuoi anticiparmi qualcosa? Ah... Lascia stare...” Ero amareggiato, e non avrei cavato un ragno dal buco, men che meno con quel ninja buddista ad ascoltarmi vaneggiare.  

Il corridoio bianco e azzurro sembrava infinito, e giuro che stavo perdendo la pazienza, quando svoltando l’angolo vidi comparire una scritta: terapia intensiva.  

Sentii mancare il respiro, mentre un nodo mi stringeva la gola. “Go cowboy”. Ecco cosa avrebbe detto Hanzo per darmi coraggio, eppure lui non era qui, era in quella stanza e io non ero minimamente pronto. Ecco perché fortunatamente non ero io a decidere, anzi le rotelle della mia sedia avanzano impassibili verso le risposte che cercavo. 

Le porte scorrevoli si aprirono davanti a noi, mostrando una sola stanza occupata da un unico letto. E in quel letto Hanzo. Gli occhi chiusi, la vita aggrappata a dei tubi di plastica, e un monitor accusatorio che continuava a emettere lo stesso suono continuo, quello del battito del suo cuore.  

Sapevo di dover essere sollevato perché era vivo, ma non lo ero. Ero atterrito. Volevo solo gridare al mondo di ridarmelo indietro sano e salvo, che era solo colpa mia.  

“Prendete me, piuttosto...” Mi accorsi di stare piangendo, ma che altro potevo fare?  

“Nessuno ascolterà il tuo grido interiore meglio di te stesso, rivolgi le parole essenziali solo a chi sa ascoltarle davvero.”  

“Davvero? Tutto qua quello che sai dire? Su quale stupido libro l'hai letto?” Gli volevo solo mangiare la faccia. Dovevo prendere a pugni qualcosa, dovevo fare qualcosa per sfogarmi. Eppure ignorai Genji, ignorai tutto il resto, e andai verso quel maledetto letto. Il suo volto calmo e immobile mi stava lacerando l’anima.  

Gli presi una mano, quella senza la flebo. Poi iniziai a cantare una stupida canzone country triste e malinconica: “Well I had a dream, I stood beneath an orange sky”, canticchiando fino ad addormentarmi, con la testa sul suo petto.  

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Capitolo 11
*** And again ***


La sveglia suonava presto ogni mattina, verso le sette. Non ero abituato a svegliarmi così presto, ma nemmeno avevo mai avuto davvero una ragione per farlo. 

La Ziegler mi portava la colazione, mentre aspettava che fossi pronto per iniziare la quotidiana riabilitazione delle gambe. Forse se continuavo a provarci sarebbero tornate a funzionare. Anche lei lo credeva, ed era bello non sperare da solo. 

A proposito di speranze, quello là dormiva che era una meraviglia invece. Ogni giorno, dopo l’esercizio, prendevo il mio pranzo e dei fiori freschi al banchetto fuori dall’ospedale (quasi sempre fiordalisi, a volte rose, a volte tulipani, insomma fiori) e andavo nella sua stanza per fare due chiacchere e raccontargli dei miei progressi con la fisioterapia. Facevo quasi sempre il duro, in caso qualcuno mi ascoltasse.  Solo ogni tanto mi concedevo un pianto liberatorio o qualche frase melensa, solo per noi due eh darling?  

Già, se solo avesse risposto. Almeno una volta, un movimento, una speranza. No, ma io continuavo a crederci lo stesso.  

Ogni pomeriggio mi mettevo sulla poltrona della terapia intensiva, col portatile, e provavo a continuare il mio libro. Erano le notti le peggiori, non volevo restasse solo, così spesso mi addormentavo così mentre scrivevo fino a tardi, mandando a farsi benedire la riabilitazione e la routine quotidiana, mentre Doc impazziva a cercarmi per tutto l’ospedale. 

Dopo la prima settimana lo capirono, e misero un altro letto accanto al suo. Alleluia, pensai.  

Le ricerche di Mercy continuavano senza sosta, assieme all’aiuto della piccola Mei, per cercare una soluzione. E quel testone continuava a dormire, fregandosene dei nostri sforzi.  

“Forse dovrei davvero chiederglielo... “  

“Chiedere cosa Doc? E a chi?” Mi avvicinai incuriosito, mentre parlava tra sé e sé.  

“Eccolo qui, il nostro paziente preferito.” Esclamò sentendomi arrivare.  

“Pensavo fosse Hanzo, almeno lui non si lamenta in continuazione.” Abbozzai una risata. Era tutto ciò che riuscivo a fare in quei momenti, sparare cavolate e provare a riderci su. Lui avrebbe riso, ne ero sicuro, e questo bastava a rincuorarmi.  

“Sputa il rospo, Angela. Cosa devi chiedermi?” 

“Non sei il centro del mondo Jesse.” Sbottò con un sorriso nascosto in una finta imbronciatura.  

“Ero convinto, giuro, mi hai smontato anche stavolta. E allora a chi?” Continuai nello scambio di battute.  

Sospirò, persa attraverso quali pensieri ai quali non voleva, o meglio non riusciva, a dare forma. 

“Mc, ricordi la dottoressa O'Deorain?”  

Chi cavolo era? Mai sentita: “Nope”  

“Moira” Era palesemente esasperata dalle mie reazioni esageratamente sbruffone, tanto da prendersi la fronte tra le mani. 

“Certo, Moira, quella stronza, la ricordo bene, perché non l’hai detto subito?” 

“Si ecco, lei.” Continuò ignorando la mia risposta colorita. “La dottoressa O’Deo... insomma Moira e io eravamo solite scambiarci impressioni e pareri strettamente professionali sulle nostre ricerche scientifiche. Devo dire che lei ora sta dall’altra parte della barricata e non siamo più in contatto da anni, ma sarei curiosa di mettere le mani su quegli elaborati.” Era arrossita?  

“Doc! Questo potrebbe aiutare Hanzo? Dobbiamo assolutamente escogitare un piano, per intrufolarci e... “  

Mi stoppò a metà della frase: “Sì, potrebbe aiutare. Le manderò una mail. Se non lo dirai a nessuno. Per favore Jes, è in gioco la mia professionalità.” E anche l’orgoglio a quanto pareva. Ma perché scriverle, c’era qualcosa che non mi aveva voluto dire, me lo sentivo. 

Eppure non indagai oltre. L’avrei lasciata fare a suo modo, ero stufo di intromettermi nella vita degli altri. E lei stava facendo molto per me, mi stava dando una speranza. 

Dopo averla salutata tornai da lui, nella nostra bianca e pulita cameretta d’ospedale. Niente a che vedere col macello disordinato che condividevamo in Wyoming. 

A lui potevo dirlo, potevo dire tutto. Non c’erano più segreti. Quello avevamo deciso sull’aereo, dopo aver letto di nascosto le lettere di Genji. Ecco un’altra cosa che avrei dovuto affrontare assieme al budda robotico. Ma ora ero con l’altro Shimada, il sole tramontava inondando la stanza di nuovi colori, arancione e rosa pesca, e io guardavo perso il suo bellissimo viso.  

Valeva la pena provarci, e ancora, e ancora...  

 

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Capitolo 12
*** Lettere dal paradiso ***


“Ho messo via il mio rancore, e sono qui a parlarti a cuore aperto.”  

Era passata un’altra settimana. Doc non mi seguiva nemmeno più nella mia riabilitazione, quasi ultimata. Era completamente assorbita dalle sue email segrete, per tutti tranne che per me, e spesso lavorava al nuovo progetto fino a notte fonda. Che si desse una mossa.  

La mia routine con l’avanzare dei giorni si stava sfasando: posticipavo la sveglia, saltavo fisioterapia, ero stanco, frustrato, ma soprattutto stavo perdendo le speranze. 

Io mi tenevo impegnato come possibile, ma non era facile. Avevo escogitato una strategia per far sì che aspettassi con ansia il nuovo giorno: leggere ad Hanzo le lettere di suo fratello. A volte anche Genji stesso mi incoraggiava a parlare con il bello addormentato e mi teneva compagnia, rigorosamente in silenzio, da spettatore invisibile.  

“Genji, tu pensi che si sveglierà?” Non so cosa mi spinse ad aprirmi così con lui, forse il legame di parentela, anche se i due appunto non si parlavano da anni. Le sue lettere mi tenevano ancorato alla realtà. Tener viva la speranza che Hanzo riaprisse gli occhi. 

“Tutti noi abbiamo delle speranze alle quali aggrapparci, questo non porta per forza dei risultati, ma nemmeno ha senso abbatterle.” Come se mi avesse letto nel pensiero... 

“Ottimo, un’altra risposta incomprensibile.” Commentai sarcastico 

“Solo fintanto che non perdonerai te stesso.”  

Questo era abbastanza vero, fare i conti col mio passato era stato disastroso, proprio perché io non riuscivo a passare oltre. Ma ci avrei pensato la prossima volta, ora i pensieri facevano più male che bene, e mi stava venendo mal di testa.  

“È pronto!”  

Ecco che entrava gente urlando, proprio mentre affrontavo il problema emicrania e il discorso col bonzo.  

È pronto? Ripetei nella mia testa. Era la voce di Angela. Entrò infatti nella stanza seguita da una sfilza di aiutanti in camice bianco e mascherine.  

“Jesse il progetto è ultimato!” Aveva il fiatone, era venuta di corsa. Che tesoro. Oddio, voleva dire che Hanzo si sarebbe svegliato davvero! Non stavo nella pelle, come potevo aiutarli? Dovevo fare qualcosa.  

“Vi posso chiedere di lasciare la stanza per qualche ora?” Continuò Ziegler, imparziale. Ed ecco che venivo tagliato fuori.  

Uscimmo nel corridoio, io sospirando pesantemente. “Fa in modo che funzioni.” Sussurrai mentre le passavo accanto, con tono vagamente minaccioso. “Per favore.” Aggiunsi poi. Da quanto tempo non chiedevo per favore a qualcuno? 

“Hanzo, passami il tabacco!” “Passami il tabacco cosa?” Come coi bambini era andata avanti quella scenetta per tanto tempo. Forse ora stavo imparando. Avrei dovuto dirglielo, poi. Sorrisi tra me e me. 

Camminai nervosamente avanti e indietro per praticamente tutto il tempo che l’intervento necessitò, con solo qualche pausa sul balcone per fumare il mio prezioso sigaro.  Aspiravo le boccate con avidità, come se il tempo stesse per finire. E invece stava per iniziare.  

Quando vennero a chiamarmi, ero seduto con la testa tra le mani, perso nei miei pensieri: qual era la prima cosa che volevo dirgli? Probabilmente che lo amavo, ma era troppo scontata come cosa. Una battuta? Scortese, non volevo essere riconosciuto come un pagliaccio. Un bacio. Si quello andava bene. Forse tutte e tre. Mmmmm. 

Erano passate tre ore. Angela uscì con lo sguardo esausto, ma allo stesso tempo raggiante.  

“È sveglio?” urlai. “Shh, no ma lo sarà presto, forza va da lui.” Mi incoraggiò. 

Corsi dentro rallentando solo quando arrivai vicino al suo letto. Gli presi una mano tra le mie, sperando non fossero troppo fredde. E impaziente del suo risveglio, proseguii nella mia lettura: 

“Scusa per l’interruzione. Dove eravamo arrivati prima, giusto: -Ho messo via il mio rancore- questo io lo sto ancora facendo, ma facciamo passi avanti, giusto amore?” 

“Giusto.” Sussurrò una voce rauca. Come di qualcuno che non la usava da un po’ di tempo.  

“Ma buongiorno.” Ero al settimo cielo, così confuso e felice da non sapere cosa avevo deciso di fare, forse il bacio l’avrei tenuto per dopo, avevo paura di fargli male. Così dissi solo: “Ti amo, per favore.” 

“Per favore cosa?” Disse confuso aprendo finalmente gli occhi scuri sul mondo circostante. 

“Per favore... Resta con me.” “Quanto vorrai.”  

La mia mano stringeva la sua e lui ricambiava anche se più debolmente la stretta.  

“Sai, ho fatto un sogno lunghissimo, in cui tu e Genji mi leggevate delle lettere.”  

“E se non fosse stato un sogno?” Ridacchiai indicando la busta di carta bianca ancora tra le mie mani. Dopodiché mi avvinai per baciarlo. Una, due, tre, dieci volte. Tutte le volte che si era perso.  

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