Forgetfulness

di AmyJane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Tempesta in arrivo ***
Capitolo 3: *** 221 B ***
Capitolo 4: *** Empatia ***
Capitolo 5: *** Royal Opera House ***
Capitolo 6: *** Paper & Cup ***
Capitolo 7: *** La cabina ***
Capitolo 8: *** Il cigno nero ***
Capitolo 9: *** La lettera G ***
Capitolo 10: *** Millicent & Harriet ***
Capitolo 11: *** Il pianto della Banshee ***
Capitolo 12: *** La cena ***
Capitolo 13: *** I gioielli di famiglia ***
Capitolo 14: *** I biscotti della sfortuna ***
Capitolo 15: *** Duello al primo sangue ***
Capitolo 16: *** La Bibbia e la pistola pt. 1 ***
Capitolo 17: *** La Bibbia e la pistola pt. 2 ***
Capitolo 18: *** Oro ***
Capitolo 19: *** Il corvo, il gufo e la colomba ***
Capitolo 20: *** Il pacco rosso ***
Capitolo 21: *** Tempo ***
Capitolo 22: *** Un aquilone sul cimitero blu ***
Capitolo 23: *** Sirene ***
Capitolo 24: *** Santa Lucia ***
Capitolo 25: *** Le aringhe affumicate ***
Capitolo 26: *** L'islandese ***
Capitolo 27: *** Marea ***
Capitolo 28: *** Solitario ***
Capitolo 29: *** Delirium ***
Capitolo 30: *** Ginevra, Artù e Lancillotto ***
Capitolo 31: *** Il frutto della conoscenza ***
Capitolo 32: *** Memorie fantasma ***
Capitolo 33: *** E.V.O.L. ***
Capitolo 34: *** Clérambault ***
Capitolo 35: *** Il paradiso brucia ***
Capitolo 36: *** Hier Kommt die Sonne ***
Capitolo 37: *** Epilogo ***
Capitolo 38: *** Edgar Allan Poe e le esequie premature (finale alternativo) ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


South Yorkshire. Niente tiepidi raggi di sole quel giorno, solo una coltre di nubi compatte che oscuravano una vasta area di campagna posta nei dintorni di High Bradfield. Una densa foschia attorniava gli alberi spogli e lesi dal rigido clima invernale. Non c'era nulla nei dintorni se non foglie secche, rocce e tanto legno rivestito da una corteccia fredda, umida e dal colore grigiastro. Il cielo e tutto l'ambiente, posto al di sotto di esso, sembravano pervasi da sfumature cineree.

Al di sotto dei rami spogli, una giovane donna camminava lentamente, calpestando con i piedi nudi il terreno bruno, madido, e il fogliame secco. Aveva addosso dei pantaloni lunghi e larghi, di un candido bianco; di uguale colore era anche il pesante cappotto di lana premuto intorno al corpo, con il fine di nascondere un'ampia macchia vermiglia che aveva tinto la stoffa chiara della blusa. Il sangue, ancora fresco, aveva inoltre macchiato la pallida pelle delle mani e del collo.

Quieta, la figura si mosse nella nebbia e, rivolgendo gli occhi scuri e vacui dinnanzi a sé, avanzò con movimenti passivi verso un'elegante struttura circondata dalla sola natura. Varcò il cancello aperto e incustodito, per poi giungere presso una Bentley Continental ben parcheggiata all'interno di un piccolo cortile d'ingresso. Mise mano nella borsa che le ciondolava dalla spalla, prese le chiavi e infine entrò nell'auto. Un giro nella fessura e subito dopo sopraggiunse il rombo del motore. La radio s'accese automaticamente, facendo squillare le news giornaliere.

«La tempesta Nate uccide 22 persone in Costa Rica, Nicaragua, Honduras...»

Il veicolo abbandonò il cortile e prese sempre più velocità.

«Incidente automobilistico presso il Natural History Museum, uomo detenuto dalla polizia...»

Con impeto imboccò una Kirk Edge Road del tutto desolata.

«Dove gli americani si sentono cittadini di seconda classe?»

Solo pochi chilometri da percorrere per raggiungere Sheffield.

«Culverton Smith, condannato all'ergastolo dalla Central Criminal Court di Londra. A un anno e sedici giorni dall'arresto, l'imprenditore confessa i suoi crimini e accetta la sentenza. Trova conclusione l'ennesimo caso risolto attraverso la collaborazione del celebre detective del 221 B di Baker Street. È Sherlock Holmes a porre fine a un altro complicatissimo caso.»

La donna continuò la sua corsa con lo sguardo sempre assente e fisso verso l'orizzonte. Il suo volto mantenne un'espressione apatica, quasi distaccata dalla realtà circostante.

Le dita eseguirono una maggiore pressione sul volante e sostennero una guida articolata da movimenti automatici e lenti. La Bentley acquisì ancora più velocità e proseguì oltrepassando la Moor Road per Sheffield e imboccando la Burnt Hill Line. Si susseguirono la Wheel Line, la Town End Road ed infine la M1, composta dalle centosettantatré miglia che separano il nord dell'Inghilterra dalla sua capitale, Londra.

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Capitolo 2
*** Tempesta in arrivo ***


Tempesta in arrivo

Londra, Baker Street.

«Segnaliamo un ulteriore calo delle temperature. Violente precipitazioni si abbatteranno su Londra, sull'Essex e su parte dell'Herfordshire. L'allerta meteo avrà inizio dalle diciannove, e si concluderà solo nel primo pomeriggio di domani. Consigliamo di rientrare nelle proprie abitazioni entro i tempi appena indicati. Questo è tutto!»

Il tono squillante della presentatrice del meteo risuonò all'interno di una comune caffetteria nei pressi di Blandford Street, proprio nel centrale quartiere di Marylebone.

John Hamish Watson si era accomodato lì, presso un piccolo tavolo posto dinnanzi a un enorme lastra trasparente, perfetta nell'incorniciare un panorama alquanto plumbeo. Sui tipici edifici della Londra turistica grandeggiavano nubi cupe, dense; nembi gonfi d'acqua e di fulmini.

Sta cominciando...

Il medico osservò il cielo nefasto con sguardo imperterrito, sfiorando con i polpastrelli una tazza di tè tiepido. Con rapidità gettò un'occhiata all'orologio legato al polso, per poi bere l'ultima amara sorsata. Infine, prese le buste della spesa accuratamente poggiate accanto alla sedia, pagò il conto e si diresse all'uscita con fare ancora sereno.

Fuori, tuttavia, lo colpirono delle impetuose raffiche, soffi che lo costrinsero a stringere con maggiore forza i lembi dell'impermeabile. L'assordante suono della corrente e i lampi di luce gli imposero di percorrere a passo svelto i pochi metri di strada necessari a raggiungere casa. Le scarpe batterono sul marciapiede, ma quando l'ex soldato finalmente arrivò al 221 B, fu così ostacolato dal peso delle buste penzolanti e dalle palpebre trafitte dai sibili d'aria, che quasi non riuscì a inserire la chiave dentro la toppa. E persino quando la spinse all'interno dell'apposito spazio, sentì il metallo incespicare al primo giro.

«Dannazione!» sussurrò a denti stretti, per poi ritentare ancora e ancora.

Fu proprio in quell'istante che le prime gocce caddero sulla strada deserta, inaugurando il primo rovescio della serata.

«Dannazione!» ripeté l'uomo con più aggressività. «SHERLOCK!» Sbatté con irruenza il pugno sulla porta, sperando di far udire la sua voce. «MRS. HUDSON!»

I molesti rumori dell'imminente tempesta, tuttavia, ingoiarono ogni sua parola, intimandogli di premere quel pezzo di metallo all'interno della toppa per meglio forzarla con un energica e continua spinta. Il materiale intorno all'impugnatura si spezzò e parte della struttura interna alla serratura sembrò stridere a causa di una frantumazione.

Irritato, John cacciò un sospiro dalla bocca e aprì la porta cigolante. Una volta all'interno, trascinò la poltrona di Mrs. Hudson per tutto l'ingresso, cercando di ben bloccare la porta principale. Con forza spinse contro il legno e subito dopo pregò affinché quella momentanea sistemazione resistesse. L'istante dopo, le sue gambe salirono le scale, dirigendosi al piano superiore. Lì, l'intensa melodia di uno strumento, gradualmente, sovrastò il fragore della pioggia.

Quando il medico entrò nell'appartamento, vide lo scuro profilo di un uomo alto e slanciato contrastare la luce emessa dalle fiamme zampillanti del camino. William Sherlock Scott Holmes era dedito a far scivolare con delicata agilità l'archetto sulle corde del violino, così articolando tutte le distese note della Lacrimosa di Mozart. [1]

«La riparerai quanto prima, spero.»

D'un tratto la musica cessò e due iridi fredde puntarono John con attenzione. Il medico lasciò ricadere i sacchetti e quasi istintivamente posò lo sguardo sull'evidente arrossamento stampato sul proprio palmo destro, ospitante il marchio del recente avvenimento.

«Be'...»

«Non è per quello», lo interruppe Sherlock, per poi volgere gli occhi altrove e ricominciare il brano da dove era rimasto interrotto. «Ho solo sentito quel gran baccano al piano di sotto.»

«Quindi tu...» John cercò di ribattere, ma il suo tono risultò represso. «Niente!»

Tenne le labbra serrate, scuotendo piano la testa e scrollò l'impermeabile bagnato, per poi riporlo accanto alla cucina. Infine, andò a riporre tutto ciò che era stato acquistato.

Si fecero le ventidue, la pioggia divenne sempre più scrosciante e il cielo come non mai vomitò un'interminabile serie di saette e lampi. Quella brutale perturbazione sembrava essere l'unica cosa capace di tenere Sherlock, almeno per poco, lontano dai suoi intricati casi.

Il maltempo lo aveva costretto a ripiegare il tempo giocando con il ritaglio di un tronco encefalico, un ampio contenitore con della formaldeide, un bisturi e un telescopio.

«Cristo, Sherlock!» John fece il suo ingresso in cucina.

«Non deconcentrarmi, isolare il locus ceruleus può essere un processo molto insidioso.»

«Noi ci mangiamo lì sopra», lo ammonì il collega.

«Il Bart's è troppo lontano e il maltempo non mi consentirebbe alcuno spostamento. Tecnicamente non esiste migliore luogo di questa cucina per una dissezione.»

Il tono aggressivo e un leggero gonfiore della carotide sul collo del riccioluto fecero desistere John che, allontanandosi, cominciò a farfugliare tra sé e sé come al solito.

«Sempre il solito bambino!»

Il medico si sedette sulla poltrona e prese il Daily Mail accuratamente ripiegato sul tavolino, per rileggerlo con sollecitudine. Suo malgrado, non scovò niente di nuovo, nessuna notizia di considerevole importanza, nessun omicidio, né casi particolari o degni di poca attenzione.

Proprio a causa di ciò, emise un leggero rantolio ricco di disappunto: l'ultima settimana era stata considerata poco proficua. Tutti i possibili criminali del Regno Unito forse si erano presi le ferie natalizie, così eliminando qualsiasi misfatto dai duecentomila chilometri quadrati dell'intera nazione.

John osservò la scatola di cerotti alla nicotina poggiata sulla poltrona posta accanto, ben constatando che il cartoncino era spoglio del contenuto.

Tre giorni. Li ho comprati solo tre giorni fa!

Tirò allora l'ennesimo sospiro di giornata e, preso da altri pensieri, comprese che non avrebbe dovuto essere così rigido nei confronti di un caro amico, del suo migliore amico.

«Sherlock?» Dalla cucina nessuna risposta, ma John ben sapeva che lui stava già prestando orecchio. «Forse sono st–»

Una scarica di folgorante luce sembrò inghiottirli assieme a tutta Baker Street e il boato che seguì fu indescrivibile: una cacofonia talmente brutale da far tremare i vetri delle ampie finestre che, dopo qualche secondo, riuscirono a contornare solo il buio totale. Ogni lampione, ogni singola luce ospitata dalla capitale, morì istantaneamente, lasciando della pioggia battente nient'altro che il penetrante scroscio.

«John? Hai sentito?»

«Sì, Sherlock. Tutta Londra l'ha sentito. Un momento, vado a prendere la torcia. Dovrebbe es–»

«Non mi riferivo al lampo, John» aggiunse il detective, caricando le proprie parole d'ovvietà.

«Di che cosa stai parlando?»

Una flebile luce irradiò il salotto.

«Quello è un otoscopio?» chiese John, analizzando il collega, flebilmente illuminato da un raggio argenteo, quello di un utensile sanitario. «A cosa ti serve un otoscopio?»

«Non è importante al momento.»

Il bruno s'avvicinò alla porta d'ingresso. Il suo sguardo si fece concentrato e un sorriso quasi impercettibile fece capolino all'angolo della bocca carnosa.

«Abbiamo un cliente» aggiunse.

«Cosa?»

«Il forte scricchiolio del legno dopo il boato.»

«Forse la porta rotta, Sherlock.»

«È esatto.»

Sherlock cinse la maniglia e rapido tirò il legno. Un secondo lampo fece irruzione e con il suo accecante folgore delineò una sagoma dalle evidenti sembianze femminili. Quando anche la luce dell'otoscopio raggiunse la donna, fu più semplice cogliere dei tratti consumati, bagnati dalla tempesta. Del sangue scuro e secco, inoltre, si era depositato sui candidi abiti incolore.

Holmes acuì la vista e squadrò la sua ospite cercando di captare tutte le informazioni necessarie. Dopo diversi secondi, sul suo viso si stampò un'espressione di pura curiosità.

«Missus? Miss?»

John sentì ogni possibile pensiero sfuggirgli dalla mente, dal momento che era accanto a una giovane ferita e probabilmente reduce da una qualche violenza. L'esperienza medica e militare gli comandarono di accoglierla, controllare il suo stato di salute e farla rimanere al sicuro per tutta la durata della perturbazione.

«Venga dentro!»

La sconosciuta non diede alcuna risposta, ma si limitò a mantenere un piglio incredibilmente freddo e talmente assente da incutere non poca inquietudine.

«Inutile parlare a questa donna, John!»

«Sherlock, è ferita!»

«E non penso che lei ne sia consapevole.»

«Che intendi?»

L'ex soldato si fece prossimo alla ragazza, cercando d'introdurre un contatto visivo. In seguito, ripeté: «Miss, la prego di entrare!»

«Te l'ho detto, lei non è qui» ripeté il detective.

Istantaneamente, i neuroni di John s'attivarono e accesero i ricordi di un manuale accademico, soffermandosi sul linguaggio tecnico del suo primo volume di medicina psichiatrica. Quello sguardo inconsistente, quella postura così rigida, così controllata, quei sintomi.

«Uno stato ipnotico...»

«Proprio così.»

La ragazza divenne pian piano più ansimante e attirò così l'attenzione dei presenti.

«Per favore...» Un suono dolce e flebile quanto un miagolio uscì dalle sue labbra secche e consumate.

Bastò solo un momento e la donna cedette a ogni forza e fece per stramazzare a terra. John, però, afferrò prontamente il suo corpo freddo e intriso d'acqua, per poi poggiarlo con delicatezza al suolo. Infine, rivolse il volto a Sherlock, sempre più intrigato dalla situazione, e chiese:

«E adesso?»

«E adesso risolviamo il caso!»

Un leggero schiocco e la luce tornò a illuminare tutta Baker Street.

2.

Londra, Scotland Yard.

La mattina seguente, quell'irrefrenabile temporale sembrò voler dare una tregua. Un solco di pura luce sembrò fendere quella massa informe di nuvole così scure da sembrare ovatta sporca. Persino l'atmosfera si fece più tenue e le strade, seppur ancora ombrose e umide, ritornarono a ospitare l'interminabile flusso di turisti e cittadini. I negozi riaprirono e i tipici suoni urbani, la confusione e quell'usuale chiacchiericcio gradualmente rianimarono ogni piazza e ogni remoto angolo dei quartieri. Quel giorno, il cuore di Londra riprese lentamente a pulsare e anche Scotland Yard pose fine al suo letargo natalizio.

«Fuga dissociativa» dichiarò Greg Lestrade dinnanzi ai suoi colleghi. «Niente di più, niente di meno.»

Parte dei collaboratori e dei funzionari civili si erano raggruppati all'interno di uno dei numerosi uffici della sede su Broadway e Victoria Street. L'atmosfera sostenuta come non mai indicò l'inizio di una faticosa giornata nella sede principale.

Proprio lì, una bianca luce artificiale colpì un buon cumulo di tante facce fiacche e tra queste inconfondibile apparve quella della sergente Sally Donovan che, con espressione perennemente accigliata, mosse qualche passo in direzione di Lestrade, per poi rivolgersi ai presenti.

«Non c'è mai stata alcuna violenza, nessun abuso. E non ha alcun senso aprire un caso per un banale episodio psichico. La presunta vittima, Gwendolyn Blomst, presentava diversi disturbi mentali da tempo.»

«Da ben sette anni, per l'esattezza» continuò Greg con tono pacato. «Abbiamo fatto qualche ricerca contattando qualche collega di Sheffield e High Bradfield, ed è saltato fuori questo nome: Scarlett Blomst, morta il ventitré gennaio di due anni fa. Nessun omicidio, solo un tragico incidente stradale. La scomparsa della sorella maggiore è stata identificata dagli psichiatri del St. Bartholomew's Hospital come l'evento traumatico scatenante. Il soggetto ha preso congedo dalla sua occupazione per qualche mese dopo questa tragedia. Pensiamo a causa di un peggioramento del suo stato. E giorni fa, c'è stato l'episodio dissociativo. Probabilmente era in pieno stato confusionale ed è caduta, procurandosi un'ampia ferita superficiale all'addome. Questione chiusa, direi.»

«E Sherlock Holmes?»

La voce schietta di uno degli agenti appena reclutati spezzò il silenzio creatasi. L'eco di quella domanda, così ingenua e semplice, riecheggiò più volte nella mente della Donovan, inasprita dalla pronuncia di quel maledetto nome.

«Prego?»

Lestrade spalancò gli occhi e accartocciò la bocca in una smorfia. Non era mai una buona idea fare il nome di Sherlock Holmes al cospetto della sua fidata sergente.

«Perché lì, a casa sua? Cosa ci faceva lei a casa sua?»

«Niente. Te lo assicuro» disse Greg, allarmato.

La sala vuota si era fatta testimone di quell'improvviso litigio. Tra sguardi impacciati e suoni gutturali, entrambi erano rimasero immobili, l'uno di fronte all'altra. Lestrade, in particolare, si sentì alle strette come un minuscolo ratto dinnanzi a un crotalo e perciò s'aggrappò disperatamente alle parole, cercando di sforzare un po' la sua scarsa logica.

«P-Parliamo di una donna che a malapena ricorda il suo nome. Per quanto non ti piaccia ammetterlo, Sherlock ha la sua parte di fama. Il suo nome è stato sui giornali, in tv, il blog. Lei ne avrà sentito parlare. In pieno stato dissociativo si perde coscienza. La gente fugge, senza una meta e senza un motivo. Era confusa e non sapeva dove andare. È stato il caso a portarla al suo indirizzo.»

«Sì certo, magari a prendere un tè. Diamine, so che lui c'entra qualcosa e tu me lo stai nascondendo. Suvvia, non ti sono bastati tutti i problemi che ci ha dato, Greg? Gli permetti ancora d'intromettersi negli affari di Scotland Yard. In ogni nostra indagine...»

«Cosa? No. Nessun problema. Quella donna vive a centottanta miglia di distanza da Londra. Cristo, pensavo avessimo già risolto la questione. La storia finisce qui. Nessuna indagine verrà aperta.»

Il viso mulatto di lei guizzò verso una lunga macchia scura che si era posizionata presso la porta per ascoltare quella conversazione così privata.

«Davvero Greg? Eppure adesso è qui!» La bocca di Sally divenne più amara del fiele. «Nessuna indagine verrò aperta, no? Raccontale a qualcun altro certe stronzate.»

Lestrade girò lo sguardo verso la porta che dava sul corridoio centrale e finalmente lo vide ben avvolto nel suo lungo cappotto nero e con sguardo fisso davanti a sé: Sherlock sembrava lì solo per aspettarlo.

La medesima sagoma riempì di risentimento la sergente Donovan che, sopraffatta dalla situazione, lasciò la stanza a grandi falcate, senza risparmiarsi un'occhiata malevola e qualche infida provocazione nei confronti del nemico.

«Prima o poi lo farai.» Sally si fermò davanti a Sherlock, rizzò la schiena e gonfiò il petto per apparire più forte, proprio come un'insignificante bestiola determinata a confondere inutilmente l'altro per mera autodifesa. «Il passo falso. Sì che lo farai. E io sarò lì, geniaccio. Lo prometto!»

Il detective sostenne incurante quello sguardo astioso per poi guidare il proprio sugli altri minuscoli dettagli intorno al collo della donna. Il tessuto di una sciarpa scura era pervaso da microscopiche macchie beige. Si trattava sicuramente di un liquido corposo, probabilmente un cosmetico di bassa qualità. Un lieve profumo d'aloe circondava la pelle ramata.

Crema lenitiva, sciarpa, correttore...

Trarre le conclusioni fu terribilmente semplice.

«Fino ad allora spero ti terrai occupata con insulsi casi di rapina a Redbridge. E se ti annoierai, Philip Anderson sa già come tenerti compagnia.»

Sally lo rimbeccò con un tetro sorriso alquanto tremolante. Tenne per sé quella chiara istigazione e, con l'orgoglio ferito, si ritirò dalla situazione.

Totalmente impassibile a tutto ciò, Sherlock fece il suo ingresso, con fare quasi teatrale. La corporatura snella e importante, da sempre avvolta da tessuti pesanti e scuri, lo rese paragonabile a un'ombra prominente, sempre intenta a muoversi silenziosa e leggiadra in qualsiasi contesto.

«Non dovresti essere qui. La tua presenza è ingombrante per tutti quelli che in questo edificio ci lavorano.»

Lestrade, non più incatenato alla presenza della sergente Donovan, sembrò persino respirare meglio. Nuova calma lo aveva sedato, rendendolo meno indisposto.

«Davvero? Fino ad ora d'impaccio lo siete stati voi per me. Si trattava di una mia cliente.»

«Ma ha smesso di esserlo nel momento esatto in cui la donna è entrata nel reparto psichiatrico di un ospedale. Una volta diagnostica una possibile fuga dissociativa, i medici hanno l'obbligo di rivolgersi a noi. È la procedura, sopratutto quando subentra la teoria di una possibile aggressione. E comunque abbiamo esaminato i documenti. La questione è stata già risolta.»

Per il detective il danno era stato compiuto. La Metropolitan Police era partecipe di un caso fin troppo complesso persino per il migliore di loro e il colpevole di tutto ciò era, senza dubbio alcuno, John.

Il medico non avrebbe dovuto insistere nell'accompagnare la donna in ospedale alle prime luci del mattino. Dopotutto, quella bizzarra visitatrice sarebbe stata bene anche senza una dose di fluoexetina. Dalla dissociazione si sarebbe ripresa ugualmente, ma solo con minore rapidità.

«Un incidente!» Le parole marcate del bruno riempirono tutto lo spazio circostante. «Semplice, ma ineccepibile, chiaro e cristallino. Hai fatto davvero un buon lavoro, Lestrade!»

In pochi secondi l'espressione dell'ispettore mutò e i tratti di una faccia sofferente lasciarono posto alla contentezza. «Sherlock. Tu... Tu stai dicendo sul ser–»

«Spiegami come hai fatto», lo interruppe il detective. «Sul serio, voglio saperlo.»

Conferì alla propria voce un tono amichevole, cordiale e sin troppo caloroso per i suoi standard, da sempre segnati da freddezza e saccente ironia.

«È stato piuttosto semplice a dire il vero. I quadri clinici e i referti parlano da soli.» Una breve pausa mozzò quella spiegazione generale. «Sono episodi rari. Ma siamo stati efficienti e siamo arrivati alla verità. Be', sono stato io a trovare del bromazepan nella borsa di quella donna.»

«Bromazepan?»

«Esattamente, ansiolitici.»

Sherlock diminuì la distanza che lo separava dall'agente, ben ostentando il proprio metro e ottanta. «Ansiolitici, sei in forma smagliante! Certo, hai solo tralasciato tutte le cose importanti.»

«Figlio di...» Greg abbassò la sguardo e digrignò i denti, tentando di reprimere il leggero imbarazzo. «Dovevo immaginare che mi stavi solo prendendo per il culo. Non dovevo darti retta.»

«Ho solo esposto un dato oggettivo. Non prenderla sul personale» Dalle pallide e piene labbra di Sherlock sfuggì del sarcasmo, pungete e sottile quanto l'acciaio di una lama.

Non era accettabile di certo cedere a toni lusinghieri di fronte a tanta incompetenza da parte di uno dei più importanti elementi di Scotland Yard.

«Bene, quindi siamo arrivati alla conclusione sbagliata?»

«Come sempre, del resto.»

La calma dell'ispettore mutò rapidamente in risentimento: l'essere rimproverato per dello scarso successo nelle indagini da quell'uomo così arrogante lo rese rancoroso e sempre meno sereno. Tuttavia, depennata l'irriverente voglia di sbattere il piede contro il pavimento, diede corda a Sherlock.

«Allora illuminami! Usa il tuo superpotere!»

«Si tratta di aggressione» sentenziò il detective rapidamente.

«La ferita non corrisponde a nessuna arma, ma a una brutta caduta.»

«La questione non riguarda solo la ferita. Il soggetto è stato aggredito a casa sua, subito dopo essere rientrato da lavoro. Non hai notato i piedi? Le sue scarpe dovevano essere molto scomode a giudicare dai segni sul tallone e sulle dita. Indossava un tacco quando è andata a lavoro, un tacco davvero poco confortevole, a quanto pare. Rientrando a casa, togliersi le scarpe è stata la prima cosa che ha fatto. E proprio lì che è avvenuta l'aggressione; qualcuno o qualcosa l'ha turbata a tal punto da farla scappare. Non ha nemmeno avuto il tempo di togliersi il cappotto o di mettere via la borsa. È successo tutto molto rapidamente. L'evento traumatico è ciò che ha scatenato la dissociazione. Qualcosa di sconcertante l'ha fatta correre per le foreste del Peak District National Park, a giudicare dal tipo di terriccio e dagli evidenti graffi sulle caviglie.»

«Come diavolo sai del luogo dell'aggressione?»

«Concentrati, Gavin!» L'affermazione seguì un leggero sbuffo. «Un evento dissociativo raramente si prolunga per un'intera giornata e il sangue sui tessuti stava già cominciando a seccarsi. Ha preso l'auto–»

«L'auto? Di quale auto stai parlando?» Greg precipitò giù, allontanandosi dal suo mondo fatto di conclusioni inaffidabili.

«Parlo dell'auto che ha ereditato dopo la morte del padre.» Sherlock si fece sempre più impaziente e aggressivo. «Una giovane psicologa, con indosso vecchi orecchini comprati a New Bond Street; abituata a curare il proprio aspetto, probabilmente cresciuta in un ambiente borghese. Stiamo decisamente parlando della figlia di un medico con un ottimo stipendio. Con soldi sufficienti per una casa isolata, a giudicare dalle dinamiche dell'aggressione e, naturalmente, per la Bentley ancora parcheggiata a Baker Street.»

«Un veicolo?» Greg cominciò a svegliare la mente. «E se un genitore l'avesse comprata alla figlia come regalo? Non abbiamo trovato molto. Sappiamo che la ragazza vive da sola, ma ciò non implica che sia davvero senza alcun parente.»

«Parliamo di un'auto prodotta nel novantanove. Certo, quale padre non comprerebbe alla figlia di cinque anni una macchina da duecentoquattordicimila sterline? È la figlia di un medico, non di una noiosa celebrità. Quella è l'unica auto prestigiosa della famiglia e la utilizza lei solo perché non ci sono più altri familiari a cui serve.»

Il disappunto immobilizzò il viso di Lestrade.

«Dicevo, la secchezza del sangue, i tempi di dissociazione, percorso in auto. Parliamo di quattro o cinque ore al massimo. Quale parco naturale ti viene in mente dopo questo ragionamento?»

«Incredibile» sussurrò Greg con fare assorto, lasciando sfuggire un risolino al proprio controllo. «Be', è davvero molto strano. Stai parlando di una psicologa con attacchi d'ansia?»

«Una studentessa molto vicina alla laurea» specificò Sherlock, intransigentemente. «Usa scarpe scomode perché è abituata a rimanere seduta durante le ore lavorative. È ben vestita, perché a contatto con altre persone. Per di più presenta dei residui d'inchiostro al lato del palmo. Penna, sempre seduta, borghese, ben vestita. Una tirocinante a giudicare dall'età. E no, niente ansia. Il cartoncino contenente il farmaco è consumato, ma il contenuto è solo in parte assente. Il bromazepan aiuta contro l'insonnia. Usava poco prodotto e solo per dormire. Ecco il perché delle occhiaie... Una semplice deprivazione da sonno passeggera.»

Lestrade rimase senza parole a causa di ogni frase pronunciata dalla lingua di Sherlock. Allora, incrociò le braccia e sospirò. L'orgoglio nei confronti di Scotland Yard e, soprattutto, nei confronti di se stesso sembrò vacillare per pochi secondi poiché il lavoro svolto non era arrivato nemmeno alle conclusioni più evidenti. Ciononostante, ogni risentimento fu soffocato dal buonsenso.

«Cosa dobbiamo fare?»

Sherlock mosse qualche altro passo, esibendo al di sotto delle luci biancastre un volto più cereo e serioso.

«Apri il caso e lasciamelo risolvere. L'amnesia dissociativa cancella parte dei ricordi, ma mai tutti. Se è venuta da me è perché credeva fossi l'unico in grado d'aiutarla. Vive da sola e in mezzo ai boschi, quindi non permettetele di ritornare a casa. Non per adesso, almeno! La scena del crimine deve restare intatta. L'aggressore le ha già preparato un agguato. Sarà sicuramente ancora da quelle parti e vorrei evitare che finisse il lavoro.»

«Bene. E dove hai intenzione di metterla?»

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Capitolo 3
*** 221 B ***


221 B, Baker Street

Londra, St. Bartholomew's Hospital.

«Conosco un posto, ma non posso aiutarti in questi giorni.» 

Un suono fioco, appena accennato e pieno d'insicurezza e disagio, echeggiò nella stanza. Molly Hooper emise parola ma senza fare troppo rumore. Tenne sempre lo sguardo distante e il capo basso, ostentando gesti e comportamenti che nient'altro erano se non il frutto di una sottomissione autoimposta.

Le ore scorsero e lei, come sempre, si era dedicata a trascorrendo il tempo in solitudine, rintanata come d'abitudine nell'obitorio del St. Bartholomew's Hospital, luogo soggetto a sporadiche visite, se non a quelle dei morti, di qualche infermiere e di un singolare individuo.

Sherlock Holmes, quel giorno, concentrò la propria attenzione su uno dei corpi deposti sulla fredda superficie di metallo. Con gli occhi puntò ai particolari del cadavere di un anziano e con le orecchie captò i sussurri delle patologa, intenta a compiere mosse rallentate dalla distrazione.

«No, sul serio, ho da fare» continuò la dottoressa.

Con attenzione e innata delicatezza, Molly mosse le esili dita all'interno di un torace dischiuso, dedicando la propria attenzione al sangue stantio e ai tessuti in decomposizione. Senza successo, si era sforzata allontanare la concentrazione dal discorso dell'uomo accanto; dalla sua presenza asfissiante.

«Ho fatto gli straordinari per settimane, solo per il viaggio a Skye. Ci tengo molto e ci tiene anche lui. È stata una sua idea, sai?»

Un impalpabile entusiasmo colorò quell'affermazione poiché, da qualche parte – in uno piccolo spazio nascosto nell'anima – la donna sperò che al tanto distante Sherlock Holmes importasse qualcosa della sua recente relazione.

«Non durerà.»

Evidentemente non era così.

Postura ed espressione, tutto il corpo di Molly sembrò pietrificarsi. I suoi mesti occhi caldi si fecero lucidi e il petto contenne l'implosione di un tormentoso rammarico.

«Come puoi dirlo? Da cosa l'hai capito stavolta?»

La risposta fu breve, ma ineluttabile.

«Ho notato che ti trucchi più spesso e hai perso molto peso. Quattro chili in questo mese.»

«Solo tre» evidenziò lei con fare sconvolto.

«Quasi quattro» sentenziò il bruno.

I battiti della donna accelerarono, si fecero irregolari a causa di quella permanenza, l'unica a darle conforto e cruccio allo stesso tempo. Era arduo guardare Sherlock e nel mentre essere assediati da un miscuglio di sensazioni contrastanti. Ma ancor più arduo era maledire una persona così intrigante.

«Non ti piace truccarti. Lo fai solo per farti notare, ma lui sembra non notarlo. T'ignora. Questo ha generato in te del malessere. Non ti nutri a sufficienza e il tuo peso ne ha risentito. Non sono un esperto, ma questi sono i segnali inequivocabili di una cattiva relazione. Ti consiglio di interromperla. Naturalmente prima che lo faccia lui.»

Molly resistette alle lacrime, ma non al resto.

Stai rovinando tutto, di nuovo...

L'amore, sfortunatamente, non era mai stato cordiale nei suoi confronti: da sempre le aveva fatto collezionare fallimenti e poche storie scialbe. Tanti erano stati i suoi uomini, ma nessuno era mai capitolato, nessuno si era realmente innamorato. Tra tutti il peggiore era al suo fianco, proprio in quegli interminabili momenti, così alimentando il risentimento di un affetto mai contraccambiato.

«Prima o poi verrà il giorno in cui scoprirai di avere torto, Sherlock.»

La patologa si allontanò dal pallido materiale, liberò le mani dai sudici guanti e scappò come una bambina oltraggiata dalla sua prima cotta. Dinnanzi a quella scena, il bruno comprese che la chiacchierata era stata conclusa in modo brusco e quasi accolse il fastidioso senso di colpa. Non era sua intenzione ferire l'amica, ma non era ancora in grado di arginare le sue possibili delusioni sentimentali in altro modo. E, inoltre, lo stress era ricomparso, ripristinando le brutte abitudini.

Colto dal malumore, Sherlock uscì dall'obitorio per raggiungere uno dei corridoi desolati della struttura; lì furono comparvero ben due figure. 

Il suo collega John era fermo, con le spalle appoggiate al muro e un'espressione di disappunto sulla faccia. «Non ci posso credere» dichiarò, amareggiato. «Ti ho sentito, sai. Lo hai rifatto. Perché lo hai rifatto?»

«L'ho solo–»

«Ferita. Sì, Sherlock. L'hai ferita e umiliata.» Le lamentele furono controllate per via delle circostanze. «Pensavo avessi messo la testa a posto, ma ovviamente mi sbagliavo.»

Sherlock, nonostante il recondito dispiacere, non diede alcuna risposta all'ammonizione; si dedicò piuttosto solo al soffocamento di ogni possibile suono partorito dalla gola.

«Ascolta! So che è stata una settimana difficile... ma il tuo malumore non è una buona scusa per fare lo stronzo con le persone. Ne abbiamo parlato... ma... Lasciamo perdere!» bisbigliò il medico, cercando di dimenticare tutto. «Immagino che quella camera non sia disponibile.»

«E da cosa lo hai desunto?» domandò l'altro, ironico.

Con indosso un sorriso amaro, John mise a tacere la litigata e scollò le spalle dal muro. Impettito, cercò d'assumere un atteggiamento molto più formale per cambiare argomento.

«No, non è il momento di litigare.»

Il suo lungo naso fece cenno in direzione di una figura seduta a pochi metri di distanza su una panchina del corridoio.

«Solo due giorni e qualche dose di SSRI» puntualizzò il detective, analizzandola con cura. «Si è ripresa in fretta.»

«Ti ricordo che è una ragazzina. Ha subito un trauma ed è stata appena dimessa. È sola e ancora confusa. Tienilo bene a mente quando le parli. E se puoi cerca di essere meno... te!» L'ex soldato risultò particolarmente autoritario. Sciolti i toni confidenziali, si girò di scatto e, tenendo la braccia salde al attirò quell'insolita cliente.

«Miss Blomst!»

Sherlock, rapido, posò lo sguardo sulla ragazza che smise di fissare il muro, per poi alzarsi e raggiungere il duo. Era indubbiamente la stessa che si era presentata due notti fa, a Baker Street, ma allo stesso tempo era diversa: meno sfibrata, sicuramente più lucida e serena.

Il suo esile corpo esile fasciato da abiti meno sporchi e malridotti; le argentee ciocche erano lanose e incorniciavano le guance diafane. Sicuramente, i tessuti, la pelle lattea e quella strana capigliatura erano perfetti nel conferire alla donna l'aspetto di una statua di gesso. Bianca e quasi inumana.

In mezzo a tutto quel candore, spiccavano degli occhi grandi e così neri da impedire ogni deduzione per mezzo delle pupille. Distinguere l'iride dal centro era quasi impossibile.

«Lui è il mio collega, Sherlock Holmes.» John fece le presentazioni e, nell'imbarazzo, cercò di dare normalità a quel clima teso. «Sherlock, lei è Miss Gwendolyn Blomst.»

«Lo so bene.»

«Già... come non detto!»

Miss Blomst assistette inerme alle circostanze, cercando di reprimere il bisogno di fuggire e di nascondersi lontano. 

«Mr. Sherlock Holmes.»

Un tono fresco, ma fragile e refrattario, soggiogò Sherlock, già stordito da quei modi pacati e sconnessi da quelli appartenenti alla fradicia creatura supplicante di qualche sera addietro.

«Gli agenti mi hanno parlato di lei per spiegarmi l'accaduto. Mi hanno detto che le sono piombata in casa di nascosto, forzando la porta d'ingresso. Non ricordo niente... e non so come scusarmi per quello che è successo. Non ho mai fatto una cosa del genere e adesso ho paura di ricord–».

«Oh be', non c'è bisogno di scusarsi.» Il medico si mostrò rassicurante. «Non era cosciente. E gli psichiatri mi hanno rassicurato dicendomi che è tutto passato. Sono casi acuti, ma passeggeri. Basterà prendere qualche farmaco e ridurre al minimo lo stress.»

Uno sbuffo si distese silenziosamente.

«Direi che abbiamo svolto le dovute presentazioni e onorato le formalità. Cosa ricorda?» tagliò corto il detective.

Quella domanda sembrò piombare addosso alla ragazza come un macigno. L'atmosfera creatasi perdette quella confortevolezza, per lasciar posto ad altro disagio. Tuttavia, John represse i rimproveri e Gwen passò oltre.

«Non molto.» La sua voce perse consistenza e si spense come l'esile fiamma di una candela. «Io... ricordo chi sono e tutto il resto. Non ricordo bene quello che è successo in questo mese. E ho rimosso completamente quel giorno. Be'... quello dell'aggressione, per intenderci»

La sorpresa colpì John. «Lei sa...»

«Sì. È stata la prima cosa che mi hanno riferito. Ho cercato di capire cosa mi fosse successo. E loro non si sono fatti molti scrupoli nel dirmi che qualcuno mi ha aggredita e che sono stata sotto effetto ipnotico per ore» raccontò, nonostante il groppo alla gola. Le dita tremarono nell'indicare l'ampia ferita al centro del petto. «Sto ancora cercando di accettare tutto. Non so come mi sono fatta questa. Mi dispiace.»

Sherlock rimase fermo, impassibile.

«Per sua fortuna, quello spetta a me scoprirlo!» esclamò, assottigliando lo sguardo ceruleo. «Le comunico che ho già fiutato una buona pista e che, ricordi o no, riuscirò presto a scoprire quello che le è successo due giorni fa.»

Gwen alleggerì l'animo con un sospiro.

«Lo spero. Ho sentito molto parlare di lei nei giornali» disse ancora disorientata; poi sorrise amaramente, ma solo per non piangere. «Forse non è stato un caso entrare nella casa del migliore detective in circolazione.»

«No, lo penso anche io. E Il termine tecnico è consulente investigativo» precisò lui schietto, per poi porre i suoi saluti. «Direi che è tutto. Se la memoria le dovesse ritornare, si faccia viva al 221 B di Baker Street. Possibilmente non lo faccia di pomeriggio. Mrs. Hudson è parecchio mattiniera ma sa come accogliere i miei clienti. Lei cerchi di non finire in altri guai.»

Le lunghe gambe di Sherlock si allontanarono di qualche passo, senza lasciare indietro nemmeno un cenno di saluto. Fu John a seguire il collega per fermarlo e farlo riflettere.

«Sherlock» lo chiamò, sciogliendo piano la presa e arricciando le labbra sottili. «Non dimentichi qualcosa?»

Il bruno rifletté un istante. «Ho posto le mie domande e le ho dato qualche informazioni sulle indagini. Direi di no.»

«È appena stata dimessa. È sana adesso. E l'ospedale non è un posto per la gente che sta bene» considerò il medico, duro. «Non ha nessuno qui e non ha nemmeno un posto in cui dormire. Non possiamo lasciarla a se stessa.»

«Lo hai detto tu stesso. Sta bene adesso.» Il bruno si diede alle spiegazioni, mettendo in chiaro la propria posizione e giustificando le proprie scelte. «Ho pensato fosse in condizioni peggiori ma ora mi sembra abbastanza lucida da riuscire a reperire una buona sistemazione. Certo, potrei approfittare della sua presenza per racimolare indizi, ma credo di sapere già tutto il necessario.»

L'ex soldato riafferrò il cappotto del coinquilino. «Non ha un soldo. E ha bisogno di aiuto.»

«Non mi risulta sia mai stato un nostro problema.»

«È una ragazzina!»

«Ti correggo, John. È un'adulta!» disse Sherlock, cercando d'ignorare gli occhi delusi del migliore amico. Non era mai stato capace di sopportarli. «Ma forse posso fare qualcosa.»

I due si girarono per afferrare ancora la donna all'interno del corridoio. Non si sorpresero nel notarla ancora immobile nello stesso punto, proprio come un cucciolo triste e senza dimora.

2.

«Rendlesham Road, Hackney.»

Il tiepido getto d'aria all'interno del taxi fasciò i loro corpi intorpiditi dal rigido clima di gennaio. Tutti e tre si sistemarono composti nei sedili posteriori, mentre il rombo del motore cancellò il silenzio, smorzando la tensione creatasi.

Sherlock e John, occupati i lati accanto ai finestrini – quasi come se non si conoscessero – concentrarono gli occhi sulle strade circostanti, senza emettere alcun suono. Gwen, invece, stette al centro e nel pieno imbarazzo guardò davanti a sé, cercando di annullare l'incresciosa sensazione di essere l'eccezione in uno strambo contesto.

Per tutta la prima parte del tragitto, si sentì fuori luogo e indifesa quanto una lumaca senza guscio. L'essere in mezzo a estranei e con la memoria menomata da un trauma la portò a riconoscere l'ansia e a torturare il labbro inferiore con i denti.

Tutta la realtà si era sgretolata come creta umida e ricomposta in una sola notte. Ogni cosa era stata rimodellata dall'amnesia, senza una spiegazione e senza un indizio.

Fu John, con la faccia puntata sul finestrino, a recidere la quiete. «Perché questa destinazione? È per la tua pista?»

La domanda fu posta con scetticismo a Sherlock, che non si smentì nel formulare risposte sempre atipiche. «Laggiù conosco qualcuno che mi deve un grosso favore. L'ho appena contattato e ha una stanza disponibile nel suo albergo. Non è il quartiere migliore ma una buona soluzione per Miss Blomst.»

«È per caso uno scherzo?» L'ex soldato pronunciò parole che trasudarono allarme. Per poco, dimenticò di non essere solo e diede inizio a una qualche strana forma di discussione. «So quali sono le tue intenzioni e, ti avverto, non è il quartiere adatto. È troppo pericoloso!»

Sherlock, di tutta risposta, continuò a osservare Londra.

«Ti sbagli. Le rapine a mano armate si sono fatte rare, quest'anno. Ci sono state meno risse tra gang e secondo le mie fonti anche lo spaccio è diminuito del trenta per cento.» Ricordi della droga consumata in quel luogo s'impastarono alle frasi. «Basterà serrarsi in camera e non succederà nulla.»

Il medico trattenne lo sdegno e continuò a usare un tono basso. «Non so essere più preoccupato per quello che stai facendo o per quello che hai dichiarato. Ne riparleremo a casa di queste tue ricerche. Ma prima abbiamo bisogno di cercare qualcosa di meglio che un letto in un covo di tuoi amici tossici.»

I due si abbandonarono ancora al silenzio, dimenticando di quell'essere in mezzo ai loro corpi. Non ci fu alcuna reazione da parte di Gwen, che rimase rigida, con il cuore galoppante e la paura da reprimere.

La giovane, abbattuta dall'irrefrenabile corso di accadimenti mangiati dall'oblio, si fece allarmata nel ripensare alla propria esistenza da poco tempo tranquilla e ordinaria. Le carte si erano rimescolate e al posto delle calme foreste delle Yorkshire si era materializzata Londra, la peggiore giungla metropolitana d'Inghilterra.

Digerire l'aggressione non era stato un atto facile, ma non era il momento di arrendersi a due sconosciuti intenti a trasportarla in un buco di periferia, imponendole decisioni.

«Potete fermare il taxi?» La ragazza si fece insolente e cominciò a reagire a tutto quel trambusto di fatti e persone.

«Cosa?» chiese il medico.

La black cab continuò a percorrere il suo tragitto, ma niente bloccò Gwen dal far sentire le proprie lamentele.

«Due giorni fa ho saputo di essere stata aggredita e non sto urlando solo perché sono imbottita di farmaci. Sono state due brutte giornate e non ho intenzione di rischiare e finire in mezzo alla criminalità di Londra.» Gli occhi neri mutarono in due pozzi pregni d'indignazione. «Non le sfugge qualcosa, Mr. Holmes?»

«Sarebbe la prima volta.» Quell'irriverente affermazione precedette un annoiato «Cosa?»

«La mia opinione. Fatemi tornare a casa» dichiarò lei, consumata dallo stress, dalla confusione e dai farmaci assorbiti.

Le camere di quella struttura immersa tra le fronde degli alberi sembrarono quasi richiamarla. Sentire l'abbraccio delle proprie mura era di sicuro un rischio, ma un rischio preferibile a quello proposto dallo scorbutico Mr. Holmes e dal suo collega.

«Non ho intenzioni di frappormi tra lei e il desiderio di fare da esca umana. Ma mandarla da sola e in mezzo al niente non mi sembra la migliore delle mie alterative. Tornerà a casa a tempo debito, dopo la mia personale ispezione, ispezione che non avverrà stanotte. Se proprio desidera fare da preda, mi lasci almeno il tempo di elaborare il piano adeguato alla cattura del suo aggressore.»

«Sherlock!» John gonfiò le guance che già erano state macchiate da una leggera tonalità rubiconda. Il fastidio dato dagli irriguardosi modi dell'amico, purtroppo, non tardò a giungere. «Lo perdoni. Ha passato una brutta settimana.»

Gwen si concentrò sul modo in cui Sherlock aveva pronunciato ogni parola, ricavando dal'uomo un atteggiamento alquanto infantile e molto lontano del tatto di un comune essere umano.

Io sono sotto la sua tutela adesso...

Incapace di trattenere l'ansia, cominciò a battere le unghie sulla dura plastica posta al di sotto del sedile. Lo fece solo per semplice sfogo.

«La smetta!» Il bruno diede bruscamente il comando. «Interrompe il filo dei miei pensieri.»

«Lo perdoni ancora» disse John, mascherando l'imbarazzo. «Non gli piace essere distratto. Lo fa sembrare peggiore di quello che è in realtà.»

«Perfetto. Non mi rimane che prenderne atto» disse la giovane, per poi rivolgersi al tassista. «Cambio di destinazione. Hotel Imperial, Holborn. Faccia in fretta!»

3.

Londra, Baker Street.

«Banale.»

Il soqquadro all'interno del 221 B era senza alcun dubbio disorientante. Ogni mobile o libro, ogni piccola e insignificante cianfrusaglia era posta così male da sembrar occupare lo spazio sbagliato. La carta da parati, ingiallita dal tempo e dall'incuria, era stata trafitta dalle puntine di documenti, immagini e strane scritte. Proprio accanto a essi, il graffito di raffigurante una faccia sorridente era stato sfregiato dai residui dei proiettili.

In ogni angolo erano stati posizionati strani utensili e curiosi soprammobili al limite del grottesco: quadri dalla dubbia connotazione psicologica, un teschio e libri dalle tante dimensioni. Tutto il soggiorno era infestato dal disordine e da uno spesso strato di sporcizia.

Due poltrone antiquate, situate al centro, erano premute dal peso di dottor Watson e di Mr. Holmes che, sotto il paralume di una lampada, si era dato ai suoi lamenti.

«...E soprattutto poco stimolante.»

Una donna, dagli occhi mesti, concentrò la sua attenzione sulle due bizzarre figure poco distanti, soffocando qualche rantolo.

«Abbia pazienza. Non si ancora ripreso dalle feste. Forse...» John cercò di risollevare una qualche questione, ma non ebbe nemmeno il tempo d'articolare poche parole.

«L'uscita è alla sua destra.» 

Inesorabile, Sherlock parlò ponendo fine a ogni aspettativa della donna che era appena giunta a Londra. Nonostante la scena lacrimevole, rimase impassibile a qualsiasi forma di compassione e si limitò a non rivolgere inutili sguardi a quella che nient'altro era se non la terza cliente della giornata.

Gli ultimi casi si erano fatti inaccessibili e, accoltellata la mensola con un pugnale, non erano rimasti che indagini senza alcun sapore. Il tempo si era fermato, arrugginendo la mente dell'uomo, distrutto dall'inerzia e dall'astinenza.

«Io ho bisogno di sapere chi ha fatto del male alla mia coinquilina. Ho del contante.»

«Niente soldi.»

Secondo il bruno, qualsiasi ricchezza non era minimamente equiparabile al piacere elargito dai misteri. Nessuna ricompensa era capace di offrirgli quel brivido, quella meravigliosa scarica. John intanto rimase seduto, senza più proferire niente e, abituato alle stranezze dell'amico, si limitò ad assecondare ogni suo capriccio, ignorando ogni cosa.

Persino Gwen assistette alla scena in una cucina abbandonata al lerciume. Sopportò il puzzo delle stoviglie stagnanti per spiare un po' di quelle insolite scene: le persone richiedenti aiuto e le straordinarie abilità del suo ospitante. Mai nella sua vita si era imbattuta in una forma d'intelligenza così acuta: capacità quasi al limite della premonizione.

Sherlock Holmes era semplicemente geniale, tanto geniale quanto inadatto a offrire aiuto in termini più sentimentali di quelli da sempre adottati. Dare soluzione agli enigmi era il suo unico modo per eccellere.

Io sono il suo divertimento...

Le tante bizzarrie di quel consulente sembrarono esasperare la mente della ragazza, ancora scossa dai cambiamenti, ma abbastanza lucida da ascoltare la storia raccontata dalla giovane sconosciuta nel soggiorno. Il racconto offerto all'attenzione dei due uomini era triste e pieno di risentimento nei confronti di un orribile episodio.

Con gli abiti stropicciati e i capelli arruffati dal vento esterno, Gwen fece comparsa nell'ampio soggiorno e, come un fantasma, s'aggirò attirando l'attenzione dei presenti.

«Doveva essere molto arrabbiato.» La ragazza s'avvicinò al tavolino posto accanto a un divano logoro e concentrò lo sguardo sulle foto al di sopra del legno e su di una busta alquanto consumata e datata due maggio duemilasette.

Tutte bene in ordine, quelle nitide raffigurazioni diedero idea della scena di un crimine stroncato in tempo e, soprattutto, delle sensazioni di quel terribile giorno.

«Lo chiamano delirio di gelosia. Secondo i nostri manuali corrisponde a una credenza errata che trascende la realtà.»

La cliente rivolse alla giovane uno sguardo sorpreso e, solo per un momento, desistette dal mostrare il proprio affanno.

«Non è raro riscontrare episodi di violenza. Insomma, prendere quell'oggetto così pesante. Si vede persino il segno sul comodino. Forse un raptus. E poi ci sono delle scritte dietro questa foto. Sono i nomi dei possibili sospetti. L'ha fatta proprio lui. Sa, l'ex compagno della sua coinquilina ha una calligrafia così marcata. Ha quasi strappato il foglio. Era stressato e furioso. Riesco a percepire il suo sangue ribollire. Forse riesco ancora a sentirlo mentre la colpisce. È stato terribile quello che le ha fatto. Mi dispiace molto.»

La ragazza, ridestandosi dal proprio stato assorto e concentrato, dichiarò le sue intuizioni. Il silenzio, subito dopo, piombò nell'appartamento per rimanere interi minuti.

4.

Tre. Solo in tre restarono circondati dalle mura, sopportando il clima teso e un'insolito disagio crescente.

«Non ha ancora fatto ritorno a casa? Eppure ieri è scappata, rifiutando il mio aiuto» constatò Sherlock. «La sua auto è qui sotto, ma lei è stata così premurosa da venire a salutarci. Se è per i soldi che le abbiamo dato per quella stanza di albergo, la prego di lasciarli pure sul camino.»

Gwen non si fece prendere dalla timidezza e, con addosso il bisogno di dare un senso alle circostanze, rispose. «Non sono qui per l'auto. Quanto ai soldi, restituirò tutto quando potrò, e con gli interessi. Pagherò bene, se indagherà per me.»

Chiara fu la proposta messa in atto con la speranza di cancellare le parole della notte precedente. Qualcosa era mutato e lei era ritornata per non sentirsi minacciata dalla paura di un aggressore ancora riparato dal suo nascondiglio.

«Be', ha cambiato idea molto in fretta» farfugliò John, destando l'attenzione del coinquilino.

«Con la notte si ragiona meglio, dottore.»

Gwen replicò e, intanto, il bruno la analizzò minuziosamente. Non impiegò molto a comprendere che il terrore non era solo riuscito a farla scappare, ma anche a farla tornare indietro.

«Con la notte si ragiona meglio, è noto. Soprattutto quando sono i pensieri a tenerci svegli.» Così parlò, prima di mandare un messaggio al coinquilino. «John, prepara altro tè.»

Il medico, corrugata la fronte, intuì le esigenze di Sherlock e si fece da parte, lasciando in salotto lo stazione per inaugurare un semplice confronto. Il detective, allora, si espose.

«Come ha notato, ho anche altri clienti.»

Gwen incrociò le braccia al petto.

«Eppure non noto nessuno, al momento.»

«E se anche ci fossero, cosa farebbe? Si metterebbe in mostra come ha appena fatto. Cosa ha sperato di conquistare? La mia attenzione o la precedenza sugli altri?»

La risposta non tardò a giungere.

«Potrei non fare niente e lasciarli a lei. Forse li caccerebbe, proprio come ha fatto con quella donna.»

Sherlock non si concesse nemmeno un sorriso, ma si limitò a unire le mani sotto al mento. 

«Non ne sia così sicura» disse, prima di farsi serio e porre un freno alla preoccupazione della ragazza. «Ha ottenuto quello che per cui è salita in questa stanza. Ha una seconda occasione, Miss Blomst. Non la faccia scappare.»

Conclusosi l'incontro, Gwen tolse il disturbo dall'appartamento, così dando il permesso a John di ritornare in soggiorno. Questi, finalmente in compagnia del proprio collega, si accomodò sulla poltrona, distese leggermente le gambe e tenne ben aperte le palpebre degli occhi, sforzandosi d'apparire calmo.

Quello che era successo era fuori dal comune, intrigante. E Sherlock, di conseguenza, preferì il silenzio a tutta quella situazione e mai si abbandonò a tentennamenti o alle domande. Si affidò alle sue conoscenze per spiegare le doti dalla donna appena congedatasi. I perché, purtroppo, rimasero senza risposte nonostante gli sforzi intrapresi.

«Tu lo hai visto, prima? Hai sentito?» chiese l'ex soldato.

«Sì. E non è quello che pensi tu.»

«Oh, stai dicendo che non l'ha dedotto?»

Il bruno s'alzò di scatto, estendendo tutta la propria imponente figura. Il suo interesse, intanto, sembrò incrementare nel corso dei minuti.

«Ha usato un linguaggio tutt'altro che analitico. Era assorta, insolitamente assorta. Ha compreso molte delle dinamiche dell'omicidio, ma ha sbagliato l'identità dell'assassino. Per essere precisi, era proprio la nostra cliente, nessun fidanzato. Tutto questo perché Miss Blomst non ha usato la logica, ma qualcosa di molto diverso.»

«Bene, ma cosa?» Il dubbio turbò John, ammaliato da quei quesiti appena nati. «È per caso uno... strano potere come la telepatia?»

Un leggero sospirò si fece carico dell'impazienza.

«Certo che no, John!»

«E allora che altro?»

Sul possente e bianco collo di Sherlock la carotide si gonfiò; una leggera smorfia storpiò i lineamenti di due pallide labbra e lo sguardo si acuì. Dopo qualche minuto, del detective, non restò altro che frustrazione e un'espressione di puro fastidio.

«Non ne ho idea!»

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Capitolo 4
*** Empatia ***


Empatia

Londra, Baker Street.

«Ma è un fiore?» 

Le parole di Mrs. Hudson e un'effimera gioia occuparono tutto il piano superiore del 221 B di Baker Street. L'anziana, con le sue maniere garbate e quel savoir-faire da perfetta donna inglese, cercò di dare il benvenuto all'insolita figura da poco entrata in quella peculiare abitazione.

«Oh, Sherlock, mai mi sarei immaginata di vederla con una simile compagnia.» 

Versò un tè dalla colorazione ambrata in una piccola tazzina di porcellana – la più bella in mezzo al caos della cucina – e, con un sorriso confortevole, rivolse lo sguardo alla giovane donna rannicchiata accanto alle braci del caminetto sporco.

In poco, i suoi occhi ridenti del 221 B si concentrarono su quei tratti sconosciuti: quelle labbra secche e incolore, quella pelle sottile e, infine, quei due cerchi neri e profondi situati al posto degli occhi.

«Non sa quanto sia lieta di accoglierla qui, mia cara.»

«La ringrazio per la sua gentilezza, Mrs. Hudson.»

Gwen premette con le dita sottili sul manico della chicchera, e con mosse lente portò la candida porcellana alla bocca, per poi bagnare poco le sottili labbra con l'amaro liquido.

Il calore della bevanda che s'intiepidì all'interno della bocca le diede un senso di puro conforto. Forse, quello fu uno dei rari momenti in cui la sua preoccupazione sembrò sciogliersi teneramente. Come il ghiaccio al sole di marzo.

«Mi chiedevo solo se a John importi qualcosa della sua nuova amica?» Mrs. Hudson continuò a maneggiare la teiera e a far cadere caldo tè bianco in una tazza leggermente scheggiata. In seguito, poggiò qualche biscotti su un piatto. «A proposito, dov'è adesso?»

«John aveva un impegno. È andato dalla sorella a prendere la piccola peste, Mrs. Hudson. E lei? Non è ora delle vitamine pomeridiane?» Il bruno modulò il tono affinché risultasse prepotente e costringesse l'anziana ad abbandonare l'abitazione.

«Se proprio desiderava stare da solo con questa dolce creatura, bastava dirlo.» Mrs. Hudson andò oltre quel comportamento impertinente e, con il sorriso, mascherò il risentimento. Posò la calda porcellana e girò tacchi in direzione dell'uscita.

Sherlock rimase composto sulla poltrona di pelle, con la schiena dritta e le mani congiunte. Le punte delle dita sfiorarono delicatamente la carne polputa del labbro inferiore; i riccioli scuri e disordinati ricaddero leggiadri sugli zigomi marcati e le attente iridi cerulee.

Quegli occhi attenti squadrarono Gwen senza alcun ritegno e richiamare nella memoria a lungo termine un qualcosa di anche collegabile alle doti della ragazza che, con le spalle ben poggiate contro il morbido schienale della poltrona di John, si era smarrita nei tizzoni ancora ardenti.

«L'ho studiata, Mr. Holmes. Lei non appartiene affatto a Scotland Yard.» La cliente diede sfogo ai propri dubbi dinnanzi all'uomo.

«Non nel modo in cui la gente comune crede.»

Il dialogo si preannunciò intriso d'imbarazzo.

«Be', sono sicura che nessun membro dell'MPS mi avrebbe trattenuta a Londra contro la mia volontà.»

Gwen, sentendosi come un campione sulla piastra di Petri, tirò su col naso per sfuggire allo sguardo indiscreto del suo interlocutore.

«Questo perché gli agenti di Scotland Yard sono degli incompetenti. Inoltre, le faccio presente che è stata lei a infiltrarsi in casa mia di notte per chiedere il mio aiuto.»

I neuroni sembrarono ripercorrere i punti ciechi delle giornate precedenti, ma riuscirono solo a fondere le memorie passate a quelle recenti, così dando inizio a uno strano intruglio di sensazioni e di meste emozioni.

Quella censura nient'altro era che l'atto disperato di una mente offesa dalle esperienze, da un aggressore mai conosciuto, mai toccato, mai percepito o immaginato.

«Ho bisogno dei miei effetti, delle mie cose. Non posso continuare a stare qui. Sarei solo un peso. Torno a casa mia» confessò la donna, in modo reticente.

«Tornare a casa? Magari farsi un'altra doccia o spostare le cose lasciate per terra. Giusto una piccola rassettata.» Solo altro sarcasmo dalla bocca del detective. «Poco importa contaminare la scena del crimine distruggendo eventuali prove.»

Sherlock strategicamente scelse un approccio freddo, così da umiliare la cliente ed esaminare ogni sua reazione. Gwen, d'altra parte, non si fece da parte e, stuzzicata dall'arroganza di quell'essere, si fece brusca.

«Oh non posso crederci. Lei lo sta rifacendo» sussurrò, impensierita come non mai. «Perché lo sta facendo a me?»

Midriasi, rapida ma palese. La bionda notò le pupille di Sherlock dilatarsi e ridurre di molto la gelida superficie delle iridi. Quello sguardo, prima glaciale, si fece molto più umano dopo il sopraggiungere di quel riflesso causato dalla tensione.

«Sa, non mi piace il suo atteggiamento. Mi fa sentire a disagio il modo in cui guarda gli altri... Probabilmente sa tutto quello che le interessa di tutti. Sa tutto anche di me...»

Il cuore di lui perse parte del proprio consueto controllo e accelerò i battiti. Il raziocino, però, riuscì a cogliere qualcosa nella donna, nella modulazione della sue frasi, nello stravagante metodo usato per cogliere l'altrui emotività. Era solo necessario prendere la palla al balzo.

«Lei crede?»

La risposta può essere più semplice di quanto sembri...

«Per adesso ho notato solo una strizzacervelli dello Yorkshire con un buon conto in banca, ma allo stesso tempo parsimoniosa. Pulisce regolarmente i suoi gioielli, usa abiti comprati nei comuni negozi di Sheffield. L'eredità di suo padre non è di certo eterna.»

Le deduzioni continuarono a scorrere interminabilmente come l'acqua di un ruscello in piena: senza mai cedere a una pausa.

«Lei è giovane ma non ha molti rapporti sociali. Perde gran parte del suo tempo a lavoro, a cui si è dedicata costantemente nonostante l'evidente deprivazione da sonno. Tende a evitare qualsiasi contatto al di fuori delle sue sedute. In teoria, niente di speciale! Davanti a me c'è solo una donna che nemmeno riesce a sfruttare il suo quoziente intellettivo medio per dare una risposta alla sua crescente insoddisfazione.»

La ragazza, intontita dalla lunga lista d'informazioni, si limitò a dire: «Lei è incredibile!»

«Me lo hanno già detto.»

L'indignazione di Gwen prevaricò sulla regione e, da quel momento, il suo cervello e la sua bocca obbedirono sola alla collera. «No, non era un complimento!»

«Peccato!» biascicò lui senza alcuna esitazione.

«Il suo collega ha ragione. Dovrebbe imparare ad avere più tatto. Ho sentito come ha trattato quella donna all'obitorio. È stata una scena davvero pietosa.»

Lei lo aveva visto, anzi lo aveva sentito. Il detective si era crogiolato nel sottomettere e canzonare le persone accanto, esternando quel bisogno egoista di sentirsi differente, migliori di chiunque altro essere umano nel paese.

In Sherlock c'era qualcosa di anomalo, ma niente di lontanamente collegabile a una comune disfunzione cognitiva. I sentimenti in lui funzionavano, in modo atipico rispetto alla gente comune, ma funzionavano. E lei riusciva automaticamente a captarli senza alcuna difficoltà.

«Lei lo sa?»

I battiti di lui accelerarono ulteriormente e un filo invisibile sembrò connettere ambedue le menti.

«Cosa?»

«Di mentire costantemente a se stesso? Lei lo sa? Ogni singola volta che si definisce un sociopatico ad alto funzionamento. Io l'ho capito, Mr. Holmes. Lei non è un soggetto affetto da disturbo antisociale della personalità ma solo un uomo che gioca a fare l'idiota. Comprende bene i sentimenti, ma fa finta di non riconoscerli. E il suo modo per scansarli, non è così? È molto curioso: dietro un essere così intelligente si nasconde un... insopportabile bambino che non sa fare altro che lamentarsi in continuazione.»

Lei rigettò le parole, una dopo l'altra, senza mai cedere al bisogno di prendere fiato. Nemmeno si rese conto di aver sconquassato i pensieri logici di Sherlock che, nonostante tutto, si finse imperturbato.

Il bruno cercò di rilassare i muscoli facciali, ma gli occhi, nonostante il buon tentativo di simulazione, lo tradirono: le pupille rimasero ampie e nitide, sussurrando a Gwen tutta la preoccupazione che non si era fatta uccidere dall'autocontrollo.

«Cosa c'è, adesso? Leggere gli altri le piace, ma quando sono gli altri a farlo a lei non si sente a disagio? Io posso capirla, Mr. Holmes... Io la sento. Quella sua frustrazione... Non oso pensare cosa significhi essere nei suoi panni.» Le ramanzine mutarono in suoni afoni a causa del senso di colpa recentemente sopraggiunto. «Io... Io... Mi dispiace, non avrei dovuto...»

2.

«Meccanismi empatici.»

Nel quartiere di Paddington scorreva il flusso dei turisti attratti dagli smeraldini prati di Hyde Park. Nonostante il freddo e l'inaspettato nevischio, la gente continuava a muoversi per le ampie e trafficate strade della metropoli, contribuendo con schiamazzi al chiasso generale. Proprio al di sotto delle vistose luci natalizie, ancora accese e penzolanti, Sherlock e John camminarono a passo svelto, conversando animatamente.

«Ne sei sicuro?»

«Certo che sì, mi è bastato provocarla. Empatia» ripeté il detective lentamente, quasi assaporando quella parola. «La maggior parte di noi è dotata di meccanismi empatici, ma i suoi sono molto più efficienti. Non si tratta di un disturbo, ma può causare disagio quando incorre in un prolungamento atipico, a quanto pare.» [1]

«Straordinario, decisamente.»

John proseguì a passo lento, tenendo stretta tra le braccia la piccola Rosie, per meglio proteggerla dal clima di gennaio.

«Riflette le menti delle persone. Comprende quello che gli altri sentono e riesce a intuire le loro azioni. Siamo tutti in grado di empatizzare ma per lei non è lo stesso. La sua mente amplifica quello che sente. I neuroni-specchio hanno lo stesso ruolo di un'antenna.»

Il fascino di quell'abilità conquistò l'interesse del bruno. Un simile dono non era mai essere stato sfruttato in miglior modo, ma sarebbe potuto rappresentare un'immensa risorsa.

«Stai dicendo che è riuscita a sentire le sensazioni di un aggressore?» John sussurrò le parole, come per non farle sentire alla piccola cosa stretta al suo petto. Un brivido danzò lungo la sua schiena ma non derivò dalle rigide raffiche di un stagione giunta a maturazione.

«Proprio così. Ha intuito il tentato omicidio per mezzo delle emozioni e sono solo bastate delle immagini. Non penso sia una donna molto acuta, ma i miei modi l'hanno spronata a dare il massimo. Le ho dato un buon motivo per mettermi in riga e lei ha colto l'occasione due volte.»

I due continuarono il loro cammino e svoltarono a Glaucester Terrance, presso la fermata di Lancaster Gate.

«Bene. Ora che sai di questo, qualche brillante idea sul caso?»

«Tre, per adesso.» La mente analitica di Sherlock le aveva costruite e, in quel momento, le teneva ben fisse in testa. «Penso che ci sia un individuo pericoloso dietro la sua aggressione. Uno psicopatico, probabilmente. Il suo lavoro la mette in contatto con molta gente affetta da particolari disturbi. La sua posizione sociale, l'essere completamente sola, l'età e il suo ruolo professionale la rendono una preda ideale per chi affetto da psicopatia. Il modus operandi non entra nella dinamiche di una rapina... No, qualcuno le ha teso un agguato...»

Il detective si fermò sull'ampio marciapiede, in mezzo al continuo scorrere di individui. Il suoi tratti si fecero insolitamente assorti nell'arco di pochi istanti.

«Sherlock...»

«Non aspetterò oltre, John. Raggiungerò la scena del crimine. Oggi stesso.»

3.

Londra, Baker Street.

Raggomitolata in un angolo del bagno, Gwen era ancora nella stessa posizione: flebilmente le lunghe e magre braccia si erano attorcigliate intorno alle ginocchia ancora marcate da tagli rosseggianti e sfumature color prugna. Gli occhi furono fissi sul la parete spoglia; le ciocche dondolarono poco sopra le spalle.

Perché non ti sei trattenuta?

Sicuramente sarebbe stato meglio guerreggiare contro quell'ostinata tentazione offerta dalla rabbia e tenere occultato l'intuito, senza sfoggiarlo come un superpotere. Ma le cose erano andate per la loro strada ed offendere Sherlock Holmes per ripagarlo dell'oltraggio era stata di gran lunga la scelta più naturale.

Perché sei ti comporti come una stupida?

Da poche ore il senso di colpa si era insinuato nella ragazza, costringendola a delle riflessioni razionali. Dare del filo da torcere a una persona era stato inutile, controproducente e uno sgarro alle comuni regole dell'etica.

Perché lo hai fatto?

Della debolezza si era piantata in quell'uomo e, crescendo come un'inestirpabile erbaccia, aveva tenuto in ostaggio i bei sentimenti. Lei lo aveva sentito, ma alla fine se ne era approfittata per cedere alle Legge del Taglione.

Toc-Toc.

Due colpi secchi e ben udibili echeggiarono dal legno della porta, strappando la donna ai suoi pensieri.

«Miss Blomst!»

Non era una tono profondo e penetrante, poiché contraddistinto da un timbro fioco, particolarmente gentile.

«Apra pure, dottor Watson!»

Rapido, lo stridio del meccanismo seguì l'abbassarsi della maniglia di metallo. Il legno scricchiolò e si mosse, lasciando libero il passaggio al medico. Questi indugiò, però, all'entrata e diede un attento sguardo alla ragazza che, non pronta, stirò le gambe come per assumere una posizione più adeguata.

Gwen fece in tempo a nascondere gli indizi di quella leggera tristezza e infine si girò in direzione dell'uomo. John, in risposta, mascherò i suoi modi impicciati, limitandosi a qualche parola schietta.

«Si prepari» disse con fare gentile. «È ora di tornare a casa!»

Quando entrambi scesero le scale, su la donna s'abbatté una demoralizzante constatazione, ovvero che l'ex soldato sarebbe rimasto in città a far da padre a un piccolo cucciolo tutto boccoli biondi e schiamazzi.

Persino Sherlock era stato costretto ad accettare la separazione dal collega e, pur non esibendo alcun espressione di rammarico, si fece prossimo al portone d'ingresso con il solito portamento raffinato.

Lasciato tutto scorrere, alla giovane non restò che accettare il disappunto nato dalle circostanze: passare intere ore con la persona con cui si era battuta per mezzo di parole e qualche insulto dettato da reciproche punzecchiature.

Purtroppo, era bastato un solo giorno e per distruggere parte di un rapporto nemmeno iniziato e Sherlock non era il miglior soggetto con cui poter ricominciare da capo. Il consulente era scorbutico persino nei confronti degli amici e sempre disposto a costruire una solida barriera di ghiaccio per la maggior parte delle persone appena conosciute.

La tristezza giunse spontanea nella testa della donna, che cominciò a interrogarsi sul come scaldare con la propria mente il freddo blocco di quell'uomo così insolito. In lui era necessario adocchiare qualcosa di profondo e disseppellire una qualche forma d'affabilità. Operazione alquanto rischiosa.

Il detective buttò a terra un provvisorio catenaccio di metallo e spalancò rapido la nera porta dell'ingresso, lasciando all'occhio le nude strade di una Londra sempre più soggiogata da altra neve. Infine, per primo mosse i passi sull'ampio marciapiede sdrucciolevole.

Gwen lo seguì, cingendo con le mani le estremità di un lungo cappotto scuro da poco prestatole a malincuore. Non era stata colta una migliore soluzione e quella spessa stoffa nerastra era ottimi per fronteggiare l'immersione nel gelo.

«Sono addolorata, Mr. Holmes, per prima.»

«Non dovrebbe esserlo. In fondo ha superato il test» rivelò lui, sbrigativo.

«Test? Di cosa sta parlando?»

L'ovvietà di quella frase la cadde come un masso, schiacciando tutto ciò che lei si era degnata di riconoscere come perspicacia. Lui si era dilettato nel testarla come un animale, per raggiungere una conoscenze approfondita di quella... cosa.

Per un momento Gwen si sentì quasi beffeggiata. «Lo ha già capito... Come non aspettarselo?»

Di sicuro avrebbe dovuto sospettarlo. Un buon intuito e una mente analitica erano sufficienti ad arrivare a delle corrette deduzioni. E in un certo modo, nel corso di poche ore, si erano letti l'un l'altro, ma a modo loro.

«Be', è stato incredibilmente rapido» ammise la ragazza.

«Lo so.»

Raggiunsero la Bentley ancora ben posta sull'asfalto e sepolta da bianchi cumuli raggrumati sulla superficie nera della carrozzeria. Lui aprì svelto la portiera, ma non prima d'aver gettato uno sguardo alla cliente. La sua espressione mutò per un singolo istante, ma lei riuscì a catturarla e a trarne delle conclusioni. Sherlock Holmes era disposto ad accogliere qualsiasi tipo di complimento, superficiale o meno. Essere acclamato era sempre un piacere, il migliore per esporre facce compiaciute e rilassate.

Primadonna...

Il bruno si sistemò comodo sul sedile e Gwen fece lo stesso, riflettendo sul punto debole appena reperito. Sherlock era una realmente primadonna e per smorzare l'atmosfera era sufficiente dedicargli tempo e concentrare parte dell'attenzione sulle sue abilità con qualche dialogo.

Il motore rombò, il navigatore s'accese e la carrozzeria presto penetrò il pieno traffico londinese.

«Ha risolto molti casi, immagino» disse lei, cercando di apparire cordiale, ma subito si rese conto di essere caduta in una considerazione decisamente troppo scialba.

Sherlock, difatti, si limitò a non rispondere e quasi la costrinse a scegliere una domanda interessante.

«Cosa ne pensa del mio?» Come se fosse fatto di fiele, il quesito fu subito sputato fuori.

«Psicopatia.» Lui si limitò a scandire lentamente quel termine con il solito tono profondo e solenne. «Non mi sembra essere piena di nemici. La sua famiglia è sempre stata rispettatile e dubito che ci siano mai stati conflitti con altri possibili soggetti. Non ha idea di quello che è accaduto e non riesce nemmeno a farsi un sospetto. Direi che chiunque l'abbia aggredita non appartiene alla sua storia familiare. Credo sia un uomo affetto da psicopatia. Lei presta servizio in un reparto psichiatrico di Sheffield e ha incontrato molti possibili candidati attirati dal suo essere da sola... piacente...»

Gwen in quel momento si rese ulteriormente conto di quanto l'uomo in realtà fosse parecchio impacciato nel rapportarsi con qualsiasi essere umano.

«...Ha tutte le caratteristiche ideali per essere preda di un dei suoi pazienti. E parliamo di uno buon numero di possibili aggressori. Ma chi è quello che l'ha notata?»

Numerosi immagini del Royal Hallamshire Hospital ritinsero i ricordi della donna. Il reparto psichiatrico era pieno di personaggi stravaganti, ma nessuno era mai ricaduto in pessime intenzioni.

L'amnesia è ancora presente. La mia mente conosce chi mi ha traumatizzato, ma non riesce a ricordarlo. Non può farlo...

«Non lo so, Mr. Holmes!» Un'improvvisa debolezza ammalò le gambe e la braccia della donna, scoraggiata dalle brutte supposizioni e sempre meno concentrata nella guida.

«Non sarebbe qui, ovviamente.» Per un po' la voce di lui sembrò scaldarsi e farsi quasi più mite. «Non riesce a controllarlo, giusto?»

Sherlock fece la domanda ma il suo tono era di conferma e Gwen, reggendo il peso di quell'interrogativo, si limitò a rispondere senza ulteriori esitazioni.

«Non come vorrei.» Cedette ai modi confidenziali e, senza nemmeno pensare, aggiunse: «Ho studiato psicologia per imparare a gestirlo. Ma quello che ho può rendere le cose molto strane. È come essere risucchiati dall'emozioni e non riuscire a controllarle. È complicato da spiegare...»

Lui cominciò a fissarla con la coda dell'occhio, mostrandosi inalterabile come al solito, immune al sentimento. Ciononostante, la cliente era a conoscenza di quanto la cosa lo interessasse. Quelle iridi cerulee sembrarono volerla trafiggere solo per trovare qualche informazione in più.

4.

«Dannazione!»

Greg Lestrade, impazientito e scosso, rimase fermo sul ciglio della strada a Baker Street. Presso di lui si erano fermati John, Mrs. Hudson e persino l'esile Rosie. Una situazione di pieno allarme li aveva sconvolti tutti, pietrificandoli come tante statue di sale in mezzo al correre delle raffiche.

«Avete detto che sono partiti da poco?» Greg pose la domanda freneticamente, incespicando con le sillabe. I suoi occhi rimasero spalancati, seri, e il sudore solcò la sua fronte.

«Solo un quarto d'ora!» John rispose senza indugiare, avendo percepito la criticità del momento.

«Sarà bloccato nel traffico, per forza. Cristo!»

L'ispettore, con mano tremante, afferrò il cellulare e lo portò immediatamente all'orecchio. Un leggero panico sembrò avere preso controllo del suo sistema simpatico, causando palpitazioni e ansimi difficilmente controllabili.

«Emetti un avviso a tutte le unità. Cercate una dannata Bentley! Trovate Sherlock. SUBITO!»

5.

«Ci stanno inseguendo» osservò Gwen, preoccupata. La constatazione era evidente, chiara come l'acqua di sorgente. «Perché ci stanno inseguendo? Oh, se non la conoscessi a sufficienza crederei che abbia commesso qualche reato.»

Sherlock tirò fuori lo smartphone dalla tasca dei pantaloni, così da effettuare qualche rapido controllo. Lo schermo s'illuminò, mettendo in risalto una notifica alquanto particolare: ventitré chiamate perse, dodici da Lestrade, le restanti da parte di John.

Il bruno, allora sbuffò, proprio come un bambino tediato dall'oppressione dei suoi pessimi genitori. «L'unica cosa di cui sono colpevole è la mia troppa indulgenza nei confronti dell'incompetenza di Scotland Yard. Fermati!»

La Bentley frenò bruscamente, producendo uno stridio dall'attrito delle ruote sull'asfalto. Si arrestò, ma troppo rapidamente, e Gwen sentì una forza spingerle il busto contro lo sterzo e subito dopo contro il sedile. Un sospiro giunse subito a causa della mossa, brusca ma non così tanto da impedire al detective di uscire dall'auto.

«Rimani qui!» disse quest'ultimo, prima di dileguarsi.

Il cielo si era fatto buio e all'esterno furono mal contemplabili le case di mattoni a schiera, ben ordinate e circondante da prati appena falciati. La periferia attorno all'A41 era un ambiente molto meno caotico e sicuramente confortante. Nessun turista, niente traffico, solo ordine e poca luce.

«So bene cosa state per chiedermi, ma sto già lavorando a un caso.» Sherlock si raggiunse uno dei due poliziotti, un omuncolo dalla chioma scura e dalle gambe lunghe.

Nuove reclute...

«Sono l'agente Fletcher. E non è mia intenzione ostacolarla con il suo lavoro, Holmes.» La tensione trapelò dallo sguardo del giovane uomo, che invece cercò di mantenere la postura eretta e la parole controllate. «Ma c'è assoluto bisogno di lei... adesso!»

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Capitolo 5
*** Royal Opera House ***


Royal Opera House

Londra, Royal Opera House.

Rosso, tanto rosso.

Le lunghe tende ricadevano ondeggiando verso il pregiato legno che rivestiva la piattaforma rialzata. Il palco della Royal Opera House era maestoso e imponente, pieno di decori e ghirigori dalle pregiate tonalità color oro. Un profondo cremisi era parte del materiale circostante: gli ampi sedili, la moquette, tutta la pregiata tappezzeria. La bellissima sala principale era così estesa da poter ospitare la popolazione di una comune cittadina inglese al di sotto di un tetto scuro e molto simile a un bel cielo notturno. 

Tutta la struttura con i suoi tanti sfarzi era ben capace di mozzare i respiri di chiunque accogliesse. Persino Gwen si lasciò improvvisamente avvolgere dallo stesso stupore che già si era era fatto palese durante il secondo passo eseguito dentro l'edificio. La magnificenza di quel luogo d'arte aveva depennato ogni sua buia preoccupazione, relegandola temporaneamente a un gentile oblio. Entrare in quel teatro era come introdursi in un sogno fatto di morbida seta scarlatta e tondeggianti ghirigori scintillanti.

Il buonumore campò per qualche minuto, sino a quando gli occhi neri codificarono l'algida figura di Sherlock Holmes, intento a camminare con aria imponente e distaccato. La bellezza non era riuscita a imporre alcun ascendente su di lui, immune alla magnificenza di un palco indorato.

«A quest'ora saremmo dovuti essere in auto, diretti verso lo Yorkshire.» Gwen non si trattenne e farfugliò le amare parole in direzione dell'orecchio del bruno.

Il completo scombussolamento dei piani stabiliti diede un severo colpo ai i suoi nervi, che tenacemente avevano retto le ambigue e bizzarre situazioni dei giorni precedenti.

«Non mi lamenterei fosse in te. Oggi hai l'onore di conoscere uno dei luoghi più stimolanti di Londra.» Sherlock sembrò torreggiare accanto alla cliente, una minuta ombra bianca dai tratti ancora acerbi.

I suoi approcci da detective scorbutico sembrarono essere meno duri, addolciti da un'ironia meno beffarda.

«Ci siamo conosciuti di recente e lei è già passato già al tu» convenne lei, senza ottenere nemmeno un fiato in risposta. «Mi ha trascinata qui ingannandomi. Come se andare in cerca di criminali per me fosse un passatempo eccitante.»

«Io, al suo contrario, l'ho sempre definito così.» La testa di lui scattò e quelle fredde iridi si concentrarono su un accompagnatore che, purtroppo, non era John, non sarebbe mai stato John.

Sherlock, ciononostante, esibì un sorriso, contenendo l'euforia. Strana linfa percorse il suo corpo, dando testimonianza dell'amore per quel genere di situazioni catastrofiche.

«Finalmente, Sherlock!» Un grido roco echeggiò per tutto lo spazio circostante e l'acustica del teatro lo amplificò a dismisura, quasi drammatizzando ogni fonema.

Greg Lestrade raddrizzò la schiena, alzandosi da uno dei raffinati sedili della prima fila e, solo dopo, mosse qualche passo con fare ansioso e impacciato.

«Non so quanto tempo abbiamo.» Il suo aspetto stropicciato diedero una piena idea di quanto gravi fossero le circostanze. «Pensiamo sia in corso un attentato. Adesso!»

Gwen perse un battito e sentì il tremolio ghermirle la punta delle dita e persino le due ginocchia. Serrò i denti, cominciò a stringere le braccia al petto e congiunse le gambe, dando inizio a un inconscio rituale messo in atto per anestetizzare l'ansia.

La sfortuna si era trastullata con lei per tutto il tempo. In qualsiasi luogo andasse il pericolo era presente. Se solo fosse stata alla larga da Holmes, si sarebbe risparmiata gli attacchi di una paura sempre più insidiosa, silenziosa ma costante.

«Londra non ha che vedere con un attentato da parecchio tempo» evidenziò Sherlock. «Vedremo se questo è all'altezza di quello che ho scongiurato... Sempre che esista.»

«Posso solo dire che abbiamo avuto una soffiata oggi stesso. Siamo arrivati a questa conclusione, ma non abbiamo scoperto quando e come accadrà.» Greg si fece incerto e angosciato, con lo scorrere di quei secondi fatali. «Noi...»

«Sta' zitto adesso e smettila di pensare! Mi deconcentra» fece il bruno, fermo. «Organizzare un attentato in un luogo come questo richiede un progetto capillare e intraprendente.»

Mosse qualche passo in direzione dell'ispettore e gli porse uno dei cerotti alla nicotina sempre custoditi nella tasca dell'elegante giacca nera. Labirinti di venule erano riaffiorati presso le tempie di Lestrade, bisognoso di uno sfogo.

«Anche tu girati, ho bisogno di pensare!» Sherlock guardò torvo uno degli agenti, quello con l'espressione scettica.

La sue guance della recluta erano sfregiate dal rossore dell'acne e una dentatura sporgente era mal accompagnata occhi poco eloquenti.

«Perché?»

«Fa' come ti dice!» Lestrade rimproverò la sua matricola, mettendola a tacere una volta per tutte.

Così, privato di qualsiasi distrazione, il detective parve farsi di pietra. Rimase immobile, chiuse gli occhi e cominciò a mettere in ordine tutte quelle idee nella sua testa. Dopo qualche minuto, avanzò verso una delle strette vie che serpeggiavano lungo il retro del palcoscenico e a ruota lo seguirono Lestrade e, degli artificieri, solo i più esperti.

Gwen, paralizzata da una qualche insidiosa forma di terrore, stette con le braccia conserte e le gambe tremule. La sua esistenza era appesa a un filo di ragnatela, a un'invisibile e non così resistente attaccatura.

Era sufficiente un soffio di vento e...

«Blomst!» L'appello del bruno si diffuse lungo i sedili. «Evita di uscire e di mettere le mani dove non dovresti. Io non ci metterò più di un'ora. Se ti fai prendere dal panico, cose che di certo accadrà, fissa il pianoforte e pensa a della musica.»

2.

Nel dietro le quinte, il caos si era preso il dominio di ogni di cosa. La maggior parte degli strumenti musicali rimase mal posizionata su di superfici di noce. Stoffa, qualche oggetto, scartoffie e spartiti leggermente consumati si erano sulla moquette bruna e sporca. Sherlock fece scendere la mano affusolata lungo il fianco e raggiunse la tasca dei pantaloni per poi estrarre una particolare lente d'ingrandimento. Infine, s'allontanò, calibrando il fiuto e lasciando agli altri il cuore martellante e il fantasma della tensione.

«L'orario dello spettacolo?» chiese.

«Ventidue e dieci» rispose Lestrade, teso.

«Abbiamo così tanto tempo? Be', parliamo di gente banale e priva di qualsiasi copertura. Non lavorano qui, tanto meno hanno finto di essere dei normali collaboratori. Se così fosse stato, me ne sarei sicuramente accorto. Inoltre, non avrebbero fatto le cose così di fretta, ma avrebbero avuto molto più tempo. Sarebbero rimasti qui, avrebbero monitorato la situazione e dato il via all'attentato.»

Il detective continuò a cercare attentamente.

«No, hanno agito d'anticipo, dovevano. Non potevano aspettare il pienone. Hanno seguito un piano semplice e nemmeno ben articolato: una bomba, sicuramente. Una volta stabilito dove doveva essere messa, non avrebbero più avuto il controllo su di essa, ma per un buon risultato bastava solo trovare il nascondiglio perfetto e svignarsela.»

Interruppe la sua ricerca e tutta la concentrazione fu rapita da una fotografia incastrata nella fessura del legno di uno specchio posto presso una console piena di trucchi.

«Non molto interessanti i tuoi dinamitardi, Lestrade.»

«Che intendi?»

«Si tratta di incompetenti. Non hanno mai messo piede dentro l'intera struttura. Hanno agito da fuori, se queste sono le dinamiche. Qualcuno, volente o meno li ha aiutati, qualcuno che lavora qui. Di certo non un comune collaboratore, qualcuno di più manipolabile, più inconsapevole e più semplice da eliminare una volta compiuto il misfatto.»

I polpastrelli sfiorarono l'inchiostro nero sulla fotografia macchiata da inusuali caratteri stranieri. Le sembianze di una donna bella bionda – dalla faccia piena e rosea – erano ritratte. Lo sguardo di Sherlock, allora, guizzò sulla consolle, su un foglio ingiallito dal tempo e tenuto fermo da un lungo archetto.

Concerto per violino ed orchestra. Čajkovskij. Aleksandrinskij Theater, San Pietroburgo.

«È un'orchestra straniera.» Il responso si palesò rapidamente per mezzo di un'intuizione. «Chiedete informazioni ai musicisti, a tutte le persone coinvolte nell'organizzazione del concerto. Scoprirete che all'appello manca una donna di origini russe. Probabilmente non molto alta e dalla costituzione esile. Muovetevi!»

3.

«Oxana Mikhailova, ventitré anni. Pianista.»

Lestrade, affiancato dai suoi collaboratori riportò tutte le informazioni ottenute.

«Perfetto, direi che ci siamo.»

Sherlock, seduto su di un divanetto del salottino d'ingresso, rimase fermo e completamente lontano da qualsiasi preoccupazione legata alle circostanze. La situazione non gli diede puro terrore, ma solo del tedio.

«È stata sicuramente uccisa da poco e al di fuori di questa zona. Prima o poi il corpo spunterà fuori. Per adesso gli assassini hanno bisogno di dare un motivo alla sua scomparsa, per non destare troppi sospetti. Hanno sicuramente il suo cellulare e si limiteranno a contattare i numeri della sua rubrica. Forse useranno delle immagini. Il russo è un lingua complessa con cui destreggiarsi. L'importante è che il concetto, seppur strano, sia chiaro.»

L'uomo s'alzò e cominciò a incamminarsi verso la sala principale, facendosi seguire prontamente dagli agenti di Scotland Yard. Si catapultò dentro gli spazi limitati dalle lunghe file di posti, sorpassando Gwen che, in completa solitudine, si era rifugiata accanto al palco.

La ragazza si era proposta di fare qualcosa, di aiutarlo con l'indagine, nonostante il terrore. «Sherlock...»

«Non ora!»

Il detective percorse i gradini del retro e raggiunse uno dei tanti strumenti già posti al centro della piattaforma. Un piccolo leggio si fece palese e il quaderno sopra poggiato si presentò ordinato e pulito da qualsiasi segno. Il nome, ben delineato sulla carta chiara e profumata, era se a alcun dubbio quello della presunta scomparsa.

Tenuto adeguatamente era anche il pianoforte: tre quarti di coda, pregiato legno d'abete per la cassa, preziosissimo avorio per singoli tasti. L'antico pezzo era stato recentemente restaurato da mani sapienti e molto metodiche, quelle di un professionista.

«Parliamo di un evento importante, a cui assisterà soprattutto gente di un certo rango. L'organizzazione è fondamentale e non appena accertata la scomparsa, qualcuno ha l'obbligo di riparare al danno, senza porsi nemmeno domande. Lo spettacolo deve andare avanti. Un sostituito avrebbe preso il posto della musicista mancante, ma ovviamente non il pianoforte. Petrof, 1870-80 circa, un pezzo d'antiquariato niente male. Prodotto originariamente nell'attuale Repubblica Ceca ed esportato a San Pietroburgo. Sarà costato molto solo farlo arrivare fino a qui. Ma questo è il protagonista dello spettacolo. Sono stati molti a occuparsene, ma scommetto che quella più interessata sia stata propria la donna che stasera lo avrebbe suonato. Lei conosceva i meccanismi interni, ogni corda e ogni singolo martelletto. Ogni piccolo scomparto...»

I suoi polpastrelli premettero tenacemente sulla tavola. Un rantolo precedette lo sforzo, dopodiché, con vigore, il bruno spinse l'ampia copertura in alto. Digrignò i denti, mentre il suo collo si fece teso e ospitò la carotide sempre palpitante. In poco, tutta la struttura interna fu ben analizzabile e Sherlock finalmente riuscì a prendere un respiro e muovere le braccia dentro al complesso meccanismo.

«Chi se non la pianista conosceva al meglio tutto ciò che riguarda questo pezzo. È lei che ha trascorso il suo tempo a suonarlo. Magari non qui. La sicurezza è importante. Il piano era a Londra da tempo, da qualche parte. È stato sicuramente portato alla Royal Opera House oggi stesso.»

Le sue nocche bussarono decise sul legno al di sotto del telaio.

«Doppio fondo, direi che il caso è risolto.»

Le sue unghie s'infilarono nella fessura e spinsero la copertura. La mano s'agitò all'interno dello scompartimento, prima ben occultato, ma senza sfiorare niente di sospetto. Il buon umore dell'intera squadra fu martoriato e il disappunto marcò i tratti facciali dei tanti presenti. Il detective non proferì più parola.

«Sherlock?» Lestrade sembrò perdere il controllo.

La situazione prese la peggiore delle pieghe e il respiro del riccioluto divenne più grave, molto più profondo e irrequieto. Il tarlo del rammarico infestò la sua coscienza, obbligandolo a contrarre il suo volto in un groviglio di increspature.

«Mr. Holmes!» Gwen si pose dinnanzi a lui con modi calmi e controllati.

Gli occhi del bruno, allora ben aperti, si posarono rapidi su di lei, sul suo sguardo, sul suo viso, sulle sue mani che stringevano un pacchetto con un'ingente quantità di fine polvere bianca.

4.

«Fulminato di mercurio.» [1]

Sherlock Holmes e John Watson si ritrovarono seduti davanti al camino, appollaiati sulle proprie poltrone con addosso soffici coperte di spessa lana. Entrambi straordinariamente rilassati, interloquivano in modo amichevole accanto allo zampillare del fuoco.

«Ovvero?»

«Un precipitato cristallino estremamente pericoloso. Si presenta come comune polvere biancastra, ma se esposta anche a poco calore diventa un potente esplosivo primario. Basta davvero poco. L'evento sarebbe iniziato dopo le ventidue, il pianoforte si trovava al centro del palco, ed era costantemente illuminato dal riflettore principale. Il legno al di sotto del telaio si sarebbe surriscaldato durante il concerto e, nel bel mezzo dello spettacolo... Boom!»

«Boom!» fece eco il medico. «Geniale, non c'è che dire!»

«Alquanto acuto usare un prodotto chimico, invece della solito timer connesso a bomba. Nessun ticchettio, niente metallo. Gli artificieri non ci hanno nemmeno provato. Era troppo complicato per le loro testoline.»

«E gli attentatori chi sono? Li hanno presi?»

«Lo scoprirò presto... e no, ma non sono lontani.»

Il detective apparve provato dalla stanchezza. Fiacco, si fece cullare dal subdola incursione del sonno, quando il cigolio della porta catturò la sua attenzione. Gwen entrò nel soggiorno, con sguardo basso e nelle mani una camicia da notte moderatamente succinta e contraddistinta da pompose maniche a sbuffo.

John la fissò con fare curioso, per poi serrare le labbra e trattenere il desiderio di ridere. Suo malgrado, soffocare l'ilarità della situazione fu difficile e dovette lasciarsi andare. Lei non si risparmiò commenti.

«Non la definirei castigata come una tenuta da notte» proferì con in faccia un sorriso incerto, ancora amareggiato per l'accaduto.

Dopo un pomeriggio al limite dello stressante, era arduo racimolare la forza di ridere e smaltire la scarica d'adrenalina ancora ingabbiata nella carne e nella mente.

John, nel frattempo, si morse le labbra. Forse non era il momento di tirare quel comportamento per le lunghe. «È di Mrs. Hudson? Be'... è molto... carino. Molto carino!»

«Sì, certo. Era la camicia da notte più sobria di tutto il suo armadio. Mi ha sorpreso sapere le avventure che questo pezzo di stoffa ha vissuto» confessò la donna, ghignando per reprime lo stesso l'imbarazzo presente nelle facce dei due uomini. «Ma non mi lamento. Quando tornerò in albergo, avrò qualcosa da mettere.»

«Già, esilarante!» Del sarcasmo spezzò la giocosità di quel clima spensierato.

Sherlock abbandonò la poltrona per non dar conto alla Gwen che era riuscita a destabilizzare il suo umore, spingendolo a congedarsi da tutta quella circostanza. Troppo freschi erano i ricordi di quel pomeriggio. Il fastidio era ancora persistente.

La ragazza fece per andargli dietro, ma nell'istante seguente si fermò, limitandosi a qualche rimprovero. «Sai cosa non è esilarante? Che tu mi abbia costretto a stare in quel luogo per ore. Mi hai ordinato tu di fissare quel pianoforte. Non era mia intenzione rubarti la scena.»

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Capitolo 6
*** Paper & Cup ***


Paper & Cup

Londra, Baker Street.

«Da-Da...»

Gwen con fare stanco raggiunse il soggiorno. Permette con una mano il fondoschiena dolorante, con l'altra massaggiò il collo esile e provato dallo scomodo materasso che le aveva offerto solo un sonno disturbato. Spontaneamente, raggiunse il divano e lì trovò, sulle spesse coperte lanuginose, una piccola bambina intenta a guardarsi intorno con aria attenta.

«Oh, qualcuno ha voglia di parlare...»

La donna si abbassò lentamente, ricambiando lo sguardo curioso dell'infante di diciotto mesi all'incirca. Lo osservò incuriosita, concentrandosi sul tratti ancora morbidi e paffuti, la corporatura ancora minuscola, ma pronta a crescere e a fortificarsi gradualmente di giorno in giorno.

Rosamund Watson, all'apparenza, era d'indole molto tranquilla e non ostentava alcun segno di timidezza dinnanzi agli sconosciuti, a cui regalava versi di una tarda lallazione.

«Da-Dah...»

«Cosa hai detto? Da-Da o Ma-Mah?»

I toni si acutizzarono e il baby talking fuoriuscì naturalmente da Gwen, che si rese conto di essere ben capace di guidare la piccola in direzione di altre semplici sillabe.

«Ma-Mah...»

«È esatto! Mamma...»

«Ma-Ma... So... no...»

Rosie espresse le sillabe con aria incurante, spostando lo sguardo da ogni parte. Dopodiché portò un giocattolo alla bocca e cominciò a saggiarlo con le soffici labbra da pargolo.

«Mamma.» La giovane le accarezzò delicatamente i ciuffetti dorati sulla fronte tenera. Li sistemò con fare gentile, cercando di trasmettere con quel gesto del conforto, un po' di sano affetto. «Mi sto chiedendo dov'è la tua, di mamma.»

Così disse in un solo sussurro impercettibile, così leggero da sembrare solo un pensiero. Un piccolo dubbio, allora, si barricò nella sua mente. Spontaneo fu l'ipotizzare l'esistenza di una qualche figura materna nel mondo di Rosie, qualcuno oltre il padre e il matto dentro l'appartamento.

Tuttavia, quel desiderio di conoscere scemò d'un tratto, dacché la cosa non era né importante, né tanto meno utile. Risolta la sua questione, tutto il 221 B di Baker Street e i suoi inquilini sarebbero solo stati parte di uno dei tanti stravaganti ricordi compromessi dal tempo. Niente sarebbe stato un suo impiccio, chiusa la questione.

«Vedo che è ritornata.»

Un leggera paura implose dentro il petto della giovane che di scatto s'alzò, girando lo sguardo e focalizzandolo sulla persona alle sue spalle. John Watson era sempre stato lì, sulla poltrona, sotto tanti strati di colorato tessuto pungente. Era ben disteso, ma con un'espressione storpiata dall'imbarazzo momentaneo.

«Sa non l'avevo notata sotto tutte quelle coperte» confessò la donna. Spalancò gli occhi e, in quel frangente, si mise alla ricerca di una spiegazione capace di giustificare la propria inopportuna indiscrezione.

Il medico notò la preoccupazione deformarle la faccia e, proprio per questo, s'accinse a togliere peso a quella innocente situazione. «Lo capisco. Be', coperte a parte, immagino il disordine non abbia aiutato. Comunque, non deve preoccuparsi, mi ero solo appisolato. Non mi ha disturbato. È stata Rosie a svegliarmi. È da un bel po' che lei ha cominciato a... be'...»

«Credo abbia solo sonno» precisò la ragazza, gentile.

«Sì. Quello!»

John guardò un punto della parete e le iridi chiare risucchiarono tutta la luce proveniente dall'estesa vetrata. Il gonfiore sotto i suoi occhi era un chiaro indizio del poco sonno racimolato in quel periodo. I capelli corti, leggermente brizzolati, erano un poco spettinati e l'abbigliamento non era di certo nelle migliori condizioni.

Il disordine dell'abitazione si era fatto parte anche del dottore, ancora disteso sulla poltrona dopo la seconda notte passata a contenere i capricci della figlia. Conoscere quel disagio, portò Gwen a mettersi nei panni del dottor Watson, il quale continuava a mostrarsi sempre accomodante. Il perfetto opposto di Sherlock Holmes, la figura consacrata alla follia e ai modi di un comune isterico.

Non si assomigliano in niente...

La giovane sfregò le mani e poi cominciò a dialogare con spensieratezza, dimenticando ciò che era successo. «Le faccio le mie congratulazioni, dottor Watson. Ha una splendida figlia. Sembra molto vispa.»

«Be', grazie. E sì, si sa far rispettare.»

La malinconia balenò fugacemente negli occhi dell'uomo, che quasi sembrò rabbuiato da una fantomatica nube scura.

«È anche molto intelligente» continuò l'altra. «L'ho notato da come si guarda intorno. Ha una curiosità notevole!»

John sorrise, ma i suoi occhi sembrarono spegnersi a causa di un leggero sconforto che era piombato dal nulla. In Gwen, nel frattempo, il dispiacere era mutato in un qualche bisogno di rendersi utile e arginare un po' di quel dolore.

«Ma-Mah...»

Rosie lasciò cadere minuscoli oggetti per guardarli tonfare sulla morbida coperta. E la donna, allora, si girò in direzione di quelle sillabe confuse e subito comprese ogni perché.

La madre. Lui si sente triste per la madre...

Il dubbio di prima ritornò a rigenerare la curiosità, maa la priorità era fare qualcosa per gettare un po' di luce sull'umore dell'ex soldato. «Se ha sonno, forse è meglio metterla a letto.»

«Oh, certo. Lo dirò a Mrs. Hudson. Io... non mi sento molto bene oggi» confessò lui, sopraffatto dalla stanchezza.

«Il sonno non è qualcosa con cui scherzare. Io non dormo mai e la cosa mi fa un brutto effetto.» La giovane cercò di compatire quel genere di disagio. Si accostò all'attaccapanni, afferrò un impermeabile e lo porse a John subito dopo. «Lo conosce un buon rimedio contro l'insonnia?»

«Qualcuno, ma non ha mai funzionato.»

«Be', oggi ne imparerà uno nuovo.»

E John accettò l'offerta.

2.

Carnaby Street era parecchio nota al turismo per via dei suoi squadrati edifici dai colori accesi, per i bei mattoni di gran parte delle strutture e per la straordinaria affluenza di gente che, come un ruscello, era solita fluire disordinatamente lungo la strada. La confusione era sempre sparsa per tutto lo spazio e una gran quantità di persone, di differente nazionalità, mormorava contribuendo ad accrescere il frastuono generale.

Tornato a Londra, per John Watson, il primo scopo era stato reperire una sistemazione economica e stabile in cui passare il tempo serenamente. L'incontro con Sherlock, aveva assicurato la possibilità di esplorare la capitale, ma lui era solito preferire quartieri lontani da Soho, sempre frenetica ed eccentrica. [1]

La cliente però aveva dato priorità ai propri desideri e il medico dovette accondiscendere. Perciò, entrambi si sedettero presso il Paper & Cup, un locale apprezzato dai salutisti della capitale. Meno intorpiditi dal calore interno alle mura, si sistemarono accanto alla lastra posta innanzi ai mille colori del quartiere.

«Spero le piaccia il cibo che fanno qui dentro. Non conosco bene i suoi piatti preferiti ma ho come l'impressione che sia un grande fan della cucina inglese.» La ragazza aveva già captato ogni sfumatura del temperamento dell'uomo con un'innata facilità.

«Io... Be'... la Full Breakfast. Solo quella per adesso.» [2]

Il medico cercò una migliore posizione. Tolse il giubbotto con un unico brusca mossa e fece sopraggiungere un fastidioso scricchiolio. Una smorfia e un lamento condirono la scena.

Qualcosa si era mossa male all'interno dell'uomo, testimoniando un articolazione saltata o semplicemente una schiena martoriata dalle terribile nottate. Persino le braccia gli rimasero bloccate all'indietro.

«Dannazione!» Un sibilo imbarazzato si disperse.

Durante l'esperienza militare egli si era abituato a dormire in luoghi inimmaginabili, ma gli anni erano passati ed era sempre più facile sentirsi impediti nel quotidiano. Quella situazione, sicuramente, non fu in alcun modo fonte di onore.

«Sta bene?» La donna si fece confusa.

«Penso di essere... bloccato.»

«La aiuto io.»

Gwen sopraggiunse e frettolosamente sfilò da lui il giubbotto. Dopodiché si mise dietro alla seggiola e appropinquò le labbra accanto all'orecchio dell'uomo. «Sempre se non le dispiace.»

Le parole soffiarono sulle guance di lui e, nel mentre, una mano candida premette presso le scapole con sempre più forza, proprio contro la parte più rigida. Un tocco delicato cominciò a esercitare poca pressione sul muscolo protetto dal cardigan.

«Affatto!» Un leggero imbarazzo fece breccia dentro al medico, non abituato a quel genere di situazioni da lunghi anni.

Ottenuto il consenso, la ragazza eseguì piccolo massaggi, fino a quando la tensione al di sotto della pelle si sciolse con il dolore.

«Un po' meglio?»

Gli arti di lui ritrovarono mobilità. «Decisamente!»

Gwen, allora, ritornò al proprio posto e prese la borsa poggiata sulla superficie di legno lucidato. Ci frugò per pochi secondi e da lì cacciò un antidolorifico. Lo avvicinò a John e fece un sorriso in segno d'incoraggiamento.

«Lo prenda più tardi a stomaco pieno.»

«Grazie» rispose lui, abbassando lo sguardo.

Un po' di imbarazzo si depositò sul fondo della sua coscienza. In fondo, era pur sempre un ex militare e non era stato dignitoso apparire così malconcio.

«Non c'è di che» replicò l'altra, teneramente.

John si trattenne dallo squadrare troppo la cliente, sia a causa del semplice orgoglio, sia a causa del riguardo. Piuttosto mascherò l'imbarazzo con un sorriso che non risultò troppo inappropriato. Infine posò lo sguardo a terra, concentrandosi su altro. Si sentì un rottame, ma Gwen mai era sembrata molto turbata dalle circostanze, al contrario. Il suo piccolo incidente con il giubbotto la tenne in allerta, ma non in modo esagerato.

«Mi spiace vederla in questo stato, dottor Watson. Sta anticipando i soldi per il mio albergo e so che un'aspirina non è il miglior modo per sdebitarmi per quello che lei sta facendo per me.»

«No, si sbaglia. Lei è bloccata qui da giorni. La stiamo trattenendo a Londra e non ci stiamo nemmeno dedicando al suo caso. Le assicuro che la prossima volta che si farà viva a Baker Street, Sherlock riprenderà le indagini.»

Un sorriso timido fu delineato.

«Nessuno mi sta trattenendo. Sono capace di scegliere e sarei scappata se non avessi avuto fiducia in voi.» La donna guardò la strada, gli edifici, quel gradevole movimento.

La neve stava cominciando a fioccare e presto il bianco si sarebbe depositato sulle superfici, formando un sottile manto su tutta la capitale. Una cartolina sarebbe stata molto meno graziosa di quel quadretto che si era già formato oltre la lastra.

«Quando sento la mancanza di casa, fingo di essere in ferie. Inoltre oggi è splendido qui» disse lei. «Londra ha il suo fascino. È aperta. Grigia come al solito, ma paradossalmente anche così piena di colore. Le origini non hanno importanza, a Londra c'è sempre un posto per tutti... Mi chiedo cosa l'abbia portata a viverci, dottore.»

«La mia misera pensione di guerra. Londra potrà essere affascinante, ma i suoi affitti sono un duro colpo di questi tempi. Senza un coinquilino, non sarei mai rimasto.»

Gwen fece una faccia sorpresa e subito dopo poggiò il mento sul palmo della mano che, assieme all'intero braccio posizionato sul tavolo, fece da sostegno. «Quindi lei è un medico-militare?»

«Lo ero. Tre anni, Afghanistan.»

John sembrò compiaciuto nell'affermare il proprio passato nell'esercito, poiché era come conferire a se stesso un'idea coraggiosa e intrepida. Non pensò nemmeno al come tutto ciò non fosse altro che un blando processo di compensazione.

«Non so molto al riguardo della professione militare, ma posso immaginare sia stato molto intenso» osservò lei.

«Oh, sì. In un certo senso sì...»

«Cosa desiderate?» Una cameriera si presentò a loro, esibendo una bella presenza, accento latino e un approccio forzatamente educato. Senza tanti preamboli, cercò di fare in fretta per giungere ai prossimi consumatori della mattinata.

«Be'... direi...» John diede un occhiato al menu. Si sorprese nel leggere solo di strani piatti senza calorie. «Io... penso che...»

«Non era nei nostri accordi.» Gwen lo interruppe e dopo gli elargì uno sguardo accompagnato da un sorriso. «Le ho promesso un cura contro l'insonnia. Se la lasciassi scegliere, non funzionerebbe. Deciderò io per entrambi, se non le dispiace.»

E dopo pochi minuti le portate furono servite. Piatti immacolati, lucenti erano la base a due pagnotte integrali ripiene di formaggio fresco, spinaci e carne sfilacciata. In due ciotole a parte erano state poste abbondanti porzioni d'insalata ai legumi; un pasto singolare, o meglio, un brunch molto lontano da quello che la cucina inglese era solita offrire.

«È molto... non saprei» confessò il medico con la pancia brontolante. Niente riuscì a stuzzicare il suo appetito, tendente a cibi modesti e calorici. «E quindi le piacciono questi locali salutisti. Segue qualche dieta... o qualcosa del genere?»

«No. Mi dispiace ma non appartengo a nessuna di quelle categorie. Posso solo dirle che soffro d'insonnia da tanto tempo. Se mi chiedesse da quanto non saprei nemmeno risponderle. Ma saprei elencarle ogni metodo che ho usato per riuscire a dormire. Forse il cibo è stato uno dei miei alleati migliori.»

La ragazza prese la forchetta e con i rebbi cominciò a tastare la verdura all'interno della ciotola. Infine diede a John un'occhiata complice, inusuale per un rapporto appena nato.

Lui riabbassò lo sguardo, concentrandosi sugli ingredienti: formaggio fresco, pane integrale, legumi. Tutto si fece più comprensibile e, riconsiderato qualche lontano appunto di neurologia, finalmente fu possibile capire il perché di quelle particolari pietanze così legate a un regime ipocalorico.

«Triptofano. Produce la serotonina.»

«È esatto!» notò la donna, congratulandosi. «Il neurotrasmettitore del sonno. Direi che ha fatto bene i suoi compiti durante gli studi di medicina. Molti dimenticano alcune delle conoscenze di base dopo la specializzazione.»

E cominciarono a mangiare, godendo di ogni attimo per mezzo delle chiacchiere. Le parole giunsero da sole, nascendo dalle loro labbra e dando forma al dialogo. Entrambi si eclissarono dal frastuono e da tutto il trambusto all'interno di quel café.

Gwen restò ferma, maneggiò il pane e lo mangiò a piccoli morsi, masticando lentamente. Interloquì con l'uomo, ascoltando attentamente le sue parole e in poco notò che quella precedente malinconia intrappolata nei suoi occhi bluastri era sfumata assieme alle parole dette. Era riuscita a distrarlo.

«Senta. Io non sono di certo un ispettore e non amo intromettermi negli affari degli altri... ma ho come l'impressione che nemmeno lui non dorma molto. O forse mi sbaglio» disse la ragazza con aria alquanto frastornata nel ripensare ai giorni scorsi.

Fu semplice comprendere di chi stesse parlando. Sherlock non le aveva risparmiato la graduale scoperta di tutte le sue stranezze: il suo insolito modo di campare, di passare il tempo, di offendere e di cercare stimoli con cui calibrare le proprie scariche cerebrali.

«No, non molto. Diciamo che gli piace rimanere... efficiente. La sua iperattività lo fa concentrare sui casi. Non gli piace farsi distrarre. Ma ha anche bisogno di fermarsi di tanto in tanto. Suona il violino per rilassarsi, o per pensare. Molti anni fa notai che dopo le settimane più piene restava per giorni interi seduto in silenzio. Senza fare niente.»

...Perché sotto effetto di droghe.

John non lo specificò. L'uso di stupefacenti era una questione personale che non riguardava altri se non Sherlock; era la sua valvola di sfogo e una delle bizzarrie che gli permettevano di pensare meglio. Per quanto si trattasse di salute, gli altri non avevano diritto di sapere.

«Io non so cosa sia successo ieri. Ma mi scuso al suo posto per alcuni comportamenti. Le chiedo di perdonarlo. So bene che può sembrare scorbutico... Be'... a dire il vero, può anche apparire come l'essere più insensibile di questo mondo, ma le assicuro che sa essere anche molto umano... quando s'impegna.»

Ricordi fulminei gli penetrarono la mente. Sherlock si era mostrato non così disadattato come tutti gli altri credevano. Sin da bambino aveva sofferto e il trauma subito in tenera età era stato la molla dietro alle sue troppe particolarità. Impiegare la maggior parte del tempo a costruire una barriera era stata una difesa, ma da adulto si era deciso pian piano a disfarla, mattone dopo mattone, sentimento dopo sentimento.

Lui sa essere straordinario.

John sorrise e la donna subito notò ogni cosa.

«Sa una cosa?» chiese, diretta. «Le credo!»

«Bene.»

Gwen mugugnò. E l'ex soldato si chiese cosa fosse riuscito a farle cambiare idea. Non si rese nemmeno conto di essere stato un libro aperto per tutto il tempo e non solo per mezzo dei racconti snocciolati e delle leggere chiacchiere intraprese.

«Non nego che si possa avere voglia di tirargli un pugno in faccia, qualche volta.»

«Oh, qualcosa mi dice che lei lo ha fatto?» Gwen sorrise, rivelandosi una buona compagnia con cui spendere le ore.

«Posso giustificarmi dicendo che anni fa, durante un caso, ha scatenato una rissa nella comunità pacifista di una chiesa di Charlton. Si è buttato nella mischia e il sottoscritto è stato costretto a medicare le sue ferite per tutto il fine-settimana.»

Le risa traboccarono dalle loro labbra, edulcorarono il dialogo e accelerando il tempo. Tutto si era fatto leggero, pregno di buone sensazioni e lontano dalle brutte esperienze dei giorni precedenti.

«Sa cos'ha di buono Sherlock Holmes?»

John la guardò, languido.

«Lei come amico.»

E la serenità su di lui distese un'espressione appagata.

3.

L'incrocio tra Carting Line e Savoy Way nient'altro era che un sottopassaggio angusto e immerso nell'ombra dei tanti edifici circostanti. I muri sporchi e la strada continuamente illuminata da una fioca luce aranciata erano parecchio discostanti dalla tante bellezze di Covent Garden, un quartiere d'arte ben esteso lungo uno spazio non tanto distante.

Lestrade, Anderson e gli altri membri della scientifica si erano raccolti proprio lì, nella penombra. Degli agenti avevano di recente delimitato parte della strada con il nastro segnaletico per impedire ingressi inopportuni, mentre gli scienziati forensi erano già intenti a scattare tutte le foto necessarie alla ricerca di possibili indizi chiarificatori.

Sherlock li raggiunse subito dopo l'ultimo scatto della macchina fotografica, constatando che le procedure fortunatamente erano state rispettate. Niente era stato rimosso o, addirittura, spostato di pochi millimetri.

«Avete sfiorato qualcosa?»

Il bruno mosse lo sguardo da un punto all'altro, cercando di ricavare una qualche rapida analisi dal suolo, dalle pareti sudicie, dalla zona e le singole piccolezze marcanti il luogo.

«No, è rimasto tutto come lo abbiamo trovato» affermò Lestrade, sicuro.

Sherlock s'avvicinò alla lunga fila di bidoni carichi d'immondizia, in direzione di una larga e profonda pattumiera che era stata posta al lato del sottopassaggio, nella zona più oscura e lercia. Cercò di non inspirare il tanfo nell'aria, si appoggiò all'enorme recipiente e guidò gli occhi oltre il coperchio completamente spalancato.

Il cadavere di una donna – giovane età e caucasica – poggiava su una catasta di sacchetti scuri e maleodoranti, donando una raccapricciante immagine: un freddo corpo posto di profilo, con gli arti quasi intrecciati e un occhio vitreo.

«La nostra pianista» constatò il detective, ghignando.

«Sembrerebbe proprio di sì. Come al solito, avevi ragione su tutto.» Lestrade ammise ogni cosa.

«Io ho sempre ragione, Garreth.»

L'ispettore tenne tra le mani guantate una piccola pochette nera, permettendone l'ispezione da parte di un agente, il quale cominciò a curiosare tra le carte di credito e i documenti d'identità. Niente era stato trafugato e questo perché all'assassino non era interessato a nascondere il crimine.

Sherlock, intanto, osservò il turbinare di persone accanto a lui, ben constatando la loro inettitudine e superficialità. Quasi tutti quanti preferirono spostarsi autonomamente, senza dar importanza al fenomeno di Baker Street, che subito cominciò a perdere la pazienza.

«Qualcuno venga a darmi una mano, allora!» Il detective fu intransigente.

Philip Anderson si mosse in direzione del strambo collaboratore con addosso la tutina azzurrognola e la propria consueta espressione sempre contraddistinta da un broncio.

«Oh Anderson, da quanto tempo?»

«Limitati al tuo lavoro. Nessun convenevole!» impose l'uomo, in modo gretto.

Sherlock sorrise di rimando. «Allora, prego...»

Con la mano invitò a educatamente Philiph a entrare nella pattumiera, lasciando ben intendere che, così come avrebbe evitato di indossare una tuta anti-contaminazione, si sarebbe risparmiato di entrare tra i rifiuti.

L'altro indossò la consueta mascherina, nascondendo per un po' il proprio ghigno, e s'introdusse dentro il contenitore per poi tuffarsi sui sacchetti laterali. Per prima cosa, spostò il corpo, scoprendo l'altra parte della donna e mostrando un profondo foro rosso su l'orbita sinistra.

«Un unico colpo, dritto in un occhio» notò Anderson.

Sherlock guardò rapido ogni singola parte del corpo, traendo un qualche filo conduttore a tutto ciò che il suo sguardo aveva prontamente catturato in pochi secondi.

«Allora? Trovato qualcosa?» domandò Lestrade.

«Abbastanza.»

«Nessun'altra occhiata?» chiese Anderson. Le sue dita tastarono, del cadavere, la pelle pietrificata dal rigor mortis.

«Non ce n'è bisogno» affermò il bruno. Inducendo gli altri a seguirlo, si allontanò in direzione di una zona dove l'aria fosse meno stantia, per poter parlare in maniera approfondita. «La vittima conosceva l'assassino.»

Ma non tutti furono d'accordo.

«Cosa? Sherlock, parliamo di una donna giunta a Londra da pochi giorni. È improbabile» disse Lestrade, sconcertato.

Si mostrò scettico dinnanzi a quella spiegazione così schietta.

«E con questo? Era ben vestita, trucco impeccabile. Deve averci impiegato molto a prepararsi. Nessuna fede, nessun segno che mi faccia credere che abbia una relazione. Niente segni di tortura o di aggressione. Stava andando a un appuntamento con l'assassino. Si conoscevano, anche se da poco. È stato lui a fare il primo passo. Ha scoperto tutto ciò che era necessario sapere sul concerto e ha organizzato il piano. Non ha avuto problemi nel sedurla. Si è fatto dire tutte le informazioni che gli servivano, ha scoperto dove posizionare una possibile esplosivo e come farlo in modo da non destare sospetti. Lei era tutto ciò che gli serviva. Una volta eseguito il piano, le ha dato appuntamento a Covent Garden, lo stesso giorno dell'evento. Dopo l'ha condotta qui e l'ha eliminata. Era tutto così facile, nessun si sarebbe allarmato. Dopotutto, si trattava di una giovane donna in un paese straniero... Nessun familiare, sola e ingenua. La preda perfetta!»

«Chi diavolo farebbe tutto questo?» Lestrade, rimase interdetto. Qualcosa andava ben oltre i suoi ragionamenti molto più propendenti, sin dal primo istante, in direzione di un attentato terroristico a sfondo religioso, o a qualcosa di semplice e comprensibile. «Non pensi si possa trattare di qualche altro terrorista schizzato?»

«Certo che no, Garreth. Il nostro colpevole ama giocare con le sue prede. Buona conoscenza della chimica; il fulminato di mercurio non si trova in commercio. Ciò vuol dire che è stato lui a produrlo. Si mette in gioco, viene allo scoperto e finge una relazione. Molto tempo libero a giudicare da come agisce. Una persona poca metodica e carente di esperienza...»

I suoi occhi cerulei si spalancarono eccitatati.

«...Un giovane studente.»

L'entusiasmo aumentò i suo battiti, il sangue fluì più rapido e una lieve eccitazione seguì le tante scariche cerebrali. Quella sensazione, conseguita dopo la giusta conclusione, diede al detective un incontenibile piacere.

«Un giovane studente di chimica.»

E d'un tratto tutto divenne chiaro.

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Capitolo 7
*** La cabina ***


La cabina

Londra, Russell Square.

Bianchi, leggiadri e gelidi. I fiocchi fluttuavano nell'aria per poi attecchire dolcemente al suolo. Una pioggia di magnifica neve aveva formato un soffice manto sotto cui il riposava il terreno madido. Il ghiaccio si era depositato sulla corteccia degli alberi, sui loro rami, sull'erba tenera e le foglie irrigidite dall'inverno.

La temperatura era decisamente calata e aveva reso Londra una paese delle meraviglie così candido da sembrare persino più lindo. L'aria frizzante e il dolce scricchiolare della suole su di candido tappeto naturale contribuirono a redente la città lontana da un'ordinarietà fatta di sole luci, gente e foschia.

La magica stagione non si era risparmiata nel togliere calore alle strade, densificare le fontane di Russell Square e pungere il con insolenza tutto il corpo di Gwen.

Quest'ultima strinse le braccia attorno al petto, come per isolarlo dal rigido clima inglese. Rubare il bel cappotto di Sherlock Holmes non era mai stato il suo scopo e alla fine, per riparare la pelle dal gelo, si era ricoperta con un'accozzaglia di indumenti lanosi da indossare contemporaneamente con l'intento di riuscire ad ottenere lo stesso calore del suo bel soprabito distrutto. Tuttavia, in quella mattinata sentì il busto soffocare a causa dagli strati di urticante lana spessa e perciò stette immobile su di una panchina del parco a sopportare il freddo con le falangi bloccate e il naso rubicondo.

La decisione di fare due passi dopo il brunch non era sicuramente la migliore stata la scelta e la ragazza sfregò le mani per poi unirle presso la bocca alitante respiro caldo. Nonostante la sofferenza, il catturare con gli occhi quel panorama surreale la fece sentire come imprigionata in una deliziosa palla di Natale.

«Non c'era tutta questa neve quando siamo andati in quel locale; o il cielo ha fatto presto o siamo stati noi a indugiare troppo tra una chiacchiera e l'altra.» La condensa dell'alito fuoriuscì dalle labbra di lei. «Forse abbiamo solo perso la cognizione del tempo.»

«O forse abbiamo perso la condizione del tempo mentre le temperature si sono abbassate di colpo. Nessuna delle due ipotesi esclude l'altra.» John Watson rimase seduto accanto alla cliente. «Non siamo al confine con la Scozia, ma le assicuro che il clima sa essere un problema anche nelle contee a sud dello Yorkshire.»

Consumato il pasto, boccone per boccone, si era piegato ai desideri della donna, felice di esplorare la capitale da turista. Dopo la morte della moglie, uscire e conversare era sempre stato arduo e per questo si era imposto di dialogare con spensieratezza e assaporare la stessa atmosfera dei suoi appuntamenti sfumati negli anni, quegli ingenui ricordi repressi con testardaggine.

Gwendolyn Blomst, con i suoi miseri anni, non era come le tante donne mature sperimentate durante l'ultimo decennio; il suo modo d'essere era eccentrico, tanto quanto il suo aspetto appena sbocciato. Era quasi capace d'infondere disagio nel medico, che si sentì sopraffatto da una presenza ancora così ingenua e delicata.

«Non credo sia una buona idea restare qui. Le temperature potrebbero abbassarsi ancora e il nostro camino ha ben altre utilità; non è solo qualcosa in cui infilzare documenti.» John cercò di mostrarsi il disponibile. «La riaccompagno a casa!»

Lei condusse gli occhi grandi e scuri su di lui, accennando a un sorriso schietto e simile ai tanti dilatati dal sarcastico e sempre cinico Sherlock Holmes.

«Non ancora, la prego!» implorò mentre le sue iridi si mossero rapide e toccarono tutto l'ambiente circostante come in cerca di qualche dettaglio in più o di qualche particolare sfuggente. «Mi piacerebbe rimanere e farmi spiegare come mai questa sua scelta. Non ho sono mai stata qui, a Russell Square.»

«Oh... be'...» Dalla bocca del medico sgusciarono fuori solo parole perplesse. «Prima di finire il pranzo, mi ha chiesto di portarla in giro per Londra. È stata lei a optare per un parco, non se lo ricorda?»

«Certamente, dottor Watson» ammise lei.

I fiocchi continuarono a galleggiare nell'aria, incastrandosi di tanto in tanto tra le ciocche argentee, quasi mimetizzandosi. La sue pelle aveva assunto una sfumatura lattescente e, per un istante, sembrò essere composta della stessa sostanza di quei fiocchi mulinanti. Il medesimo candore e la medesima freschezza.

«Di solito la gente preferisce recarsi nei parchi più noti al turismo: Hyde Park o Regent Park. Eppure lei ha preferito portarmi qui. Mi chiedevo solo cosa si nascondesse dietro questa iniziativa.»

«Io... non lo so. È perché non mi piace il rumore, credo. Non gradisco tutti quei turisti e le attrazioni. Hyde Park ne è pieno in questo periodo. E inoltre preferisco stare qui quando ho bisogno d'aria fresca.» Lui accattò le parole, astenendosi da giustificazioni.

Non gli erano mai piaciuti i luoghi infestati dai turisti, né aveva mai sentito il bisogno di camminare per i mercatini o di perdersi nell'ennesimo Winter Wonderland. Invero, gli bastava un luogo calmo e una tazza di tè fumante per stare un po' in pace.

Ciononostante, qualcosa in quella spiegazione mancò e la giovane lo comprese subito. Difatti, fissò con attenzione il suo accompagnatore per un piccolo lasso di tempo, e poi rise.

«E quindi mi ha ingannata. Ero sicura le piacesse tanto il caos, dopo tutto quello che mi ha raccontato stamattina.»

John aggrottò le ampie sopracciglia e arricciò il labbro. Un insolito dubbio forzò la sua lingua a chiedere: «In che senso?»

La donna inspirò, in modo lento e profondo. Prima di rispondere, stette ferma e con un piglio assorto. Dopodiché lasciò che la bassa temperatura trasformasse il suo respiro in condensa.

«Ho pensato le piacesse... la confusione, intendo. È stato lontano per molti anni, in uno dei peggiori territori di guerra degli ultimi decenni. Come se non bastasse, adesso passa le sue giornate in un appartamento occupato da un sedicente consulte investigativo dallo stato psichico molto discutibile. E lo aiuta nelle indagini. Ero sicura che il caos le piacesse il caos molto.» I pensieri si susseguirono nella sua mente. «A meno che lei sia attirato solo da un certo tipo di caos.»

Il medico sentì il battito celere nel constatare che la donna lo stava leggendo in un modo non molto dissimile da quello attuato dal collega. Per un solo attimo si sentì decifrabile.

«Davvero? E da cosa, di preciso?»

«Rovinerei tutto, se glielo dicessi» rispose lei.

Di nuovo quel sorriso balenò sulla sua bocca, ma lui lo notò con una naturale facilità, come se fosse stato temprato da anni di continua pratica. In seguito, ascoltò la cliente ricominciare a parlare e poi dilettarsi nel tenerlo sulle spine.

«Per adesso posso limitarmi a esprimere un pensiero: a lei piace molto qui, ma non di certo per la solitudine o, non so, per la forma di quegli alberi accanto. Questo è un luogo molto modesto e non sembra possedere niente di speciale. Tutto ciò mi porta a chiederle cosa è successo su questa panchina?»

John si fece afferrare dallo stupore nel toccare il dono di una donna capace di analizzare le persone così come era solito fare il coinquilino. Suo malgrado, non fu abbastanza abile da porre una misurazione tra i due approcci.

«L-Lei... C-Come... Lei...» borbottò John, ma la risposta giunse da sola.

Empatia.

Quella parola s'insinuò nella sua mente per poi essere riassorbita dalla memoria, che ne diede una chiara etimologia. Sentire dentro; comprendere a pieno lo stato d'animo della gente generando uno stato affettivo isoformico nel sé; collegare la propria psiche a quella altrui, così da condividere le emozioni.

L'ex soldato lo tenne a mente e rispose alla donna. «È stato molti anni fa ed ero appena rientrato in Inghilterra. Ho abbandonato il quinto reggimento di fanteria del Northumberland per una ferita alla spalla. Ero già guarito quando ho incontrato un compagno del college, Mike Stamford... proprio su questa panchina. Mi sono lasciato sfuggire delle informazioni sulle mie entrate e sulla mia permanenza a Londra. E così lui mi ha presentato Sherlock. Può intuire il resto.»

Quelle immagini, appartenenti agli anni trascorsi, si proiettarono nella sua testa e la scia dei ricordi si formò, portando allo stato di coscienza qualche feeling passato.

«Ora capisco.» La voce di lei pose fine alle memorie.

John ritornò a osservarla, azzardando un sorriso tutt'altro che beffardo. Gwen intanto incrociò le braccia al petto per proteggersi dal gelo. Pochi istanti e le sue mani si fecero tremolanti; la bocca assunse un leggero colore purpureo e il naso emise uno starnuto

«Non per essere un guastafeste, ma ho come l'impressione che le temperature precipiteranno tra poche e se non ci sbrighiamo le cose potrebbero prendere una brutta piega. Suppongo se ne sia accorta, ma sarò lo stesso chiaro: sta andando in ipotermia» dichiarò il medico, cercando di sollecitare la donna a lasciare la gelida panchina.

«E lo ha intuito dallo starnuto?» domandò lei.

«Non solo da quello.»

Proruppe un momento si pausa.

«Sappia che non desidero aggiungere alla lista altre emergenze di cui non ho bisogno. E non ho intenzione di imbattermi in un ospedale per molto tempo. Che ne dice di rientrare?»

«È una saggia decisione!» Guidato dalle buone intenzioni, John s'alzo di scatto, si tolse di dosso il giubbotto impermeabile e lo porse alla donna con fare gentile e tono mansueto.

«Prenda questo intanto, la riparerà dal freddo.»

«Ne è sicuro?» chiese lei con un certa preoccupazione. «Rischierebbe lei l'ipotermia. E dopo mi lascerebbe con addosso i sensi di colpa.»

«Lo ha detto lei stessa, condivido l'appartamento con un uomo dalle tendenze sociopatiche e quando posso lo aiuto ad acciuffare i criminali. Sopravvivrò a qualche spruzzo di neve.»

La ragazza prese delicatamente quel soprabito nero e lo posò sulle spalle come una mantella. Dopodiché si mise ritta e lanciò un'ultima occhiata al meraviglioso spettacolo che la circondava. Permise alla propria memoria di imprimerne ogni fotogramma, ogni sensazione e, infine, assieme John abbandonò Russell Square e il suo incanto.

2.

«Uno studente? Sei sicuro di questa tua idea?» Lestrade si mostrò incerto e, nonostante la cieca fiducia nei confronti di Sherlock Holmes, si fece incendiare la dubbio.

Presso Exeter Street, a solo pochi metri dalla scena del crimine, il noto detective, Philiph Anderson e Dimmock si erano incontrati per discutere di una situazione inasprita da una trama sempre più fitta.

«Mi sembra ovvio!» Sherlock s'abbandonò a toni pungenti, come per minare inutili interrogativi.

«Non lo so, la cosa suona strana. Passare da un possibile terrorista a uno studente non ha alcun senso. Questa indagine sta decisamente sfuggendo al nostro controllo.» L'ispettore Dimmock disse tutto quello che gli passò per la testa, glissando su censure e atteggiamenti bonari.

Difficile era tollerare che le redini del miglior caso degli ultimi mesi fossero state concesse a della gente non qualificata.

«Ho tirato fuori Scotland Yard da tunnel così profondi, che sembrava impossibile vederne il fondo. Brancolavate nel buio prima che io indagassi. Nonostante questo, ancora sperate di vedermi giungere a conclusioni errate.» Sherlock si fece intransigente, sentendosi punzecchiato da un tale affronto.

«Penso solo che sia altamente improbabile. Uno studente? Oh andiamo, non è affatto convenzionale!»

Il bruno aggrottò la fronte, esibendo un'espressione che mutò nell'immagine della frustrazione. Il continuo ascolto delle tante idiozie – pronunciate da ogni singolo collaboratore – rasentò la soglia della sua poca longanimità.

«Ho appena spiegato le dinamiche del caso nel miglior modo per renderle semplici, non per confondervi. Ma a cosa diavolo serve a voi la testa, come ornamento del collo?»

«Scusa?» Dimmock cercò di ribellarsi alle offese.

«Credevo di essere stato chiaro. Non riuscite a collegare nemmeno gli indizi più semplici, quando la soluzione è davanti a voi. È lampante... ma voi non ci arrivate! Siete troppo occupati a riflettere su quanto sia convenzionale che uno studente annoiato decida di far saltare in aria il più importante teatro di Londra. La vostra esistenza deve essere dannatamente mortificante!»

Il silenzio scandì il tempo. Nessuna sillaba, solo il remoto suono del traffico cittadino.

«Sempre il solito stronzo!» Philiph sussurrò le parole, tanto per placare quella voglia di reazione che si era fatta breccia nel suo cuore.

Essere ceduto a un insulto contro il collaboratore di certo era stato come togliere un fastidioso sassolino nella scarpa. Sherlock, tuttavia, ignorò ogni provocazione, poiché troppo concentrato nel seguire le tracce dei suoi rapidi pensieri.

«Maledizione, avrei dovuto pensarci prima!» Spalancò le palpebre, accogliendo un entusiasmo sparsosi per tutto il corpo. Pochi secondi e riuscì difficoltosamente a contenere tutta l'eccitazione che gli era scoppiata dentro alle ossa. «C'è sempre qualcosa. La soffiata, Gavin! La soffiata!»

Un pezzo del puzzle andò a comporre la figura all'interno sua testa riccioluta. Ciononostante Lestrade, tutt'altro che concentrato, dimostrò ancora la propria incapacità nel seguire qualsiasi riflessione partorita dalla genialità di Sherlock e, intontito, si limitò a un chiedere: «È importante?»

Di punto in bianco, tutti si precipitarono in un'estremità del distretto di Fitzrovia, un lembo di territorio al confine con King's Cross e Saint Pancras. Pur trattandosi delle Londra centrale, accanto all'architettura classica si accostavano altre strutture dal design moderno. Estese lastre, tenute insieme da un freddo scheletro metallico, andavano costituendo la Euston Square Station. Parallelo a quest'ultima era un gigantesco edificio accanto a un incrocio.

L'ampio marciapiede antecedente alla struttura era occupato da una cabina telefonica di colore rosso e abbellita da una corona d'oro sulla scritta Telephone, scolpita sulla parte superiore. Di certo, era una bella scatola surclassata dalle recenti tecnologie.

«Gower Street, eccoci arrivati!» esclamò Dimmock.

«Tutto s'incastra alla perfezione.» Sherlock era sul giusto sentiero.

Pian piano, traccia dopo traccia, avrebbe cominciato ad abbandonare l'oscuro abisso dei dubbi, per meglio sfiorare la superficie luminosa della soluzione.

«Una telefonata. "Presto, accadrà all'Opera House!" partita proprio da qui» disse Lestrade.

Per lui, mettere in moto Scotland Yard con il fine di rintracciare la chiamata, era stato semplice. La frase di quella donna, seppur contaminata dall'apparecchio telefonico, si era distesa su pochi secondi di registrazione.

«E adesso?» domandò Dimmock.

«E adesso vediamo cosa la cabina ha da dirci.»

Sherlock mosse i passi verso quella postazione, concentrandosi sulla la neve fresca che aveva di recente pulito ogni possibile rimanenza di vecchie impronte. Realizzò di dover controllare l'interno della scatola, ma dei leggeri dubbio lo colsero.

C'erano poche porbabilita che qualcuno avesse usato il telefono pubblico; tutti possedevano un cellulare e i turisti, seppur amanti di quel simbolo londinese, da anni preferivano immortalarlo nelle zone centrali.

Il bruno allora, con la pelle del guanto, sfiorò la piccola maniglia dorata e aprì la porta, senza mai metter piede all'interno del box: non era sua intenzione cancellare le orme stampate sulla superficie, due macchie più scure lasciate da un piede femminile.

Scarpa con tacco spesso, numero trentotto, orientata in direzione del telefono, telefono anche mal riposto.

L'uomo guidò il piede dentro, stando attento a impedire un possibile insozzamento delle prove; tese le gambe e con delicatezza spinse il busto in avanti. Le iridi quasi incolore si concentrarono sulla tastiera, laddove il sebo delle dita aveva marchiato, tra tutti i tasti, solo uno.

Il nove è stato premuto ripetutamente e anche con una certa pressione. nove-nove-nove, il numero delle emergenze.

Sherlock estrasse la lente e la guidò in direzione dei solchi che circondanti ogni bottone. Piccole tracce, quasi impercettibili, furono scovate e ingrandite dal materiale: consistevano in corpuscoli color azzurro che si erano insinuati tra i pulsanti e i minuscoli fori della cornetta. Proprio tra quest'ultimi si palesò un ultimo indizio: dei fili blu intrappolati nel microfono: semplicissimi capelli.

Il detective, scovata ogni cosa, uscì dalla cabina con fare serio e pacato. «È abbastanza per oggi. Siamo sulla giusta strada.»

«Io non vedo a cosa può portarci questa tua strada.» Dimmock deformò il suo bel muso da scapolo con una smorfia.

«Oh, al vostro assassino. Ne abbiamo già discusso» dichiarò Sherlock, ignorando l'ispettore che, quel giorno, alternava atteggiamenti menefreghisti ad altri più minacciosi.

«Cosa hai trovato là dentro?» Lestrade non nascose la sua impazienza.

«Non molto. Una donna... età compresa tra i diciotto e i trenta anni. Tinta di capelli insolita. Una possibile collega del nostro criminale.»

«Sei ancora convinto che si tratti di uno studente?» chiese l'amico, in maniera ferma.

Il bruno lo guardò freddo, dimostrandosi pronto a far fronte a qualsiasi contraddizione. «Certo che ne sono convinto. Guardati attorno, cosa vedi?»

Greg sbuffò e dopo poco cominciò a girare gli occhi intorno, in maniera disinteressata, fingendo di stare al gioco. Obbedirgli ciecamente all'amico era un'abitudine non ancora assimilata, nonostante il solido legame intrecciato.

«Una strada? Palazzi?»

Sherlock, allora, si finse esasperato. I neuroni del suo collaboratore funzionarono a scoppio ritardato e cavare un risposta corretta dalle sue labbra sembrò un compito troppo arduo persino per la mente più arguta della Gran Bretagna.

«Un ospedale?»

La tensione appesantì l'aria.

«Ci sei arrivato! Si dà il caso che non si tratta di un comune ospedale, ma dell'ospedale dello University College di Londra che, ti faccio presente, si trova a solo pochi metri da qui. Parliamo di un college orientato alle scienze mediche, biologiche e chimiche.»

Le riflessioni combaciarono nella mente dell'ispettore più adulto. Ogni elemento sembrò indissolubilmente legato a un insieme compatto, ma articolato. Fu quasi come ripercorrere tutti fili appartenenti a una fitta ragnatela. Stanare il ragno era lo scopo, ma la strada era ancora irta di ostacoli.

«Sembra coerente, in effetti.»

Sherlock gli regalò una sguardo saturo di orgoglio personale, poiché nessun era in grado di confutare le supposizioni partorite da quel calcolatore all'interno del suo cranio.

«Lei sapeva tutto! Per questo ha deciso di avvertirvi del pericolo: era nervosa, molto nervosa. Prima di prendere la cornetta ha ricominciato a mordersi le unghie. Un vizio da tempo abbandonato, a giudicare dallo smalto azzurro. La troppa ansia l'ha portata a spezzare lo smalto secco con i denti. E quando ha premuto sulla tastiera ha lasciato dei frammenti. Lo stress inoltre ha contribuito a una maggiore perdita dei capelli. Quando ha posizionato la cornetta all'orecchio, qualche filo è rimasto incastrato nella plastica. Tinta insolita, molto più adatta a una donna di giovane età.»

Greg si fece catturare da una semplice idea balenante. «Se ne sei sicuro, è possibile rintracciarla. Potrebbe...»

«No, non vi dirà assolutamente niente!» Sherlock lo interruppe, stroncando quell'intenzione così sciocca e rischiosa. «Lei non ha intenzione di collaborare. È spaventata e non si esporrà. Per questo ha preferito contattarvi da quella cabina.»

L'ispettore sentì il disappunto distendersi ancora sulla pelle del volto, ricomparire come un tarlo fastidioso e pronto a consumare tutta la sua inesauribile pazienza. «E allora?»

«E allora basterà che ti faccia da parte, lasciandomi lavorare... a modo mio, ovviamente.»

3.

Londra, Baker Street.

A Londra, quel giorno, non esisteva luogo più silenzioso e tranquillo del 221 B di Baker Street. Le tende, con il loro tessuto chiaro, attenuavano la calda luce del sole pomeridiano. Qualche raggio, inoltre, era riuscito a penetrare il vetro e aveva forato il tappeto al di sopra del parquet. 

Completamente rapito dai pensieri che scorrevano dinamici nella testa, Sherlock rimase seduto nel soggiorno come di consueto e, con le lunghe dita affusolate, si dilettò nel pizzicare le corde del violino di tanto in tanto. John, in quel frangente, sopraggiunse nel soggiorno e gettò qualche occhiata al computer sopra il tavolo: lo schermo era ancora luminoso e la testiera si presentò soffocata dalle scartoffie.

«Hai preso ancora il mio portatile?» chiese, corrucciato.

Sherlock girò il viso verso il collega e, abbandonato qualsiasi possibile legame con lo sconfinato mondo che si erano espanso all'interno della sua cognizione, acquisì coscienza. Come in seguito a un sogno, ritornò al tempo e allo spazio, alla realtà che si stava rimodellando lentamente.

«Smetterò di sfruttarlo solo nel giorno in cui tu finirai di pensare a password ridicole come Hamiltonscandal1230» disse, schernendo il collega.

«Sai cosa trovo ridicolo io? Che il tuo punteggio nei test d'intelligenza spieghi il fatto che sai intuire la password di ogni computer, ma non perché ti rifiuti di comprartene uno tuo.»

«Perché attingere alle mie finanze se, come hai detto tu, posso accedere a qualsiasi laptop del paese?»

Sherlock diede la sua risposta e John sospirò per poi mirare al tavolo e alla carta posizionata sul legno. Per quanto fosse difficile, cercò di reperire una possibile spiegazione che andasse a spiegare come quel codice fosse stato facilmente decriptato.

«Se te lo stai chiedendo, Times, articolo a pagina quarantacinque, data trenta dicembre. Il campione Hamilton è sospettato di evadere il fisco. Recentemente ti sei offerto di gettare tutte le carte inutili. I Daily Mirror, e i Daily Telegraph. Hai però lasciato quella vecchia copia del Times accanto al portatile, proprio a pagina quarantacinque. Non ti sei nemmeno sforzato di chiudere il giornale. Avevi paura di dimenticare la tua password... Prevedibile!»

«Bene, lo terrò in mente. E in futuro passerò alle misure drastiche, magari una cassaforte senza un codice che tu possa decifrare» asserì il medico, inarcando le sopracciglia. «Sbaglio o stai ancora lavorando al caso?» 

La curiosità lo spinse verso i documenti disordinatamente mescolati accanto allo schermo e l'ampia tastiera del portatile. Lettere scure marcavano i fogli ancora bianchi e profumati. La maggior parte delle scritte erano riguardanti una giovane studentessa dello University College, facoltà di scienza biomediche, una certa Michelle Graves.

La foto incollata sul fascicolo ritraeva il suo viso spigliato, gli occhi tondi e una folta chioma di capelli dalle mille sfumature violacee e azzurrognole. Le altre immagini erano impresse sul schermo del portatile ospitante le pagine di molti social network.

Sherlock seguì John con lo sguardo, ben controllando che non spostasse niente. «Mi sbagliavo. La situazione si è rivelata più complicata del previsto. Sono giunto a un testimone, ma se voglio ottenere qualcosa da lei, dovrò farlo con l'astuzia. È troppo spaventata per collaborare, o forse ha solo intenzione proteggere il colpevole dopo averne limitato i danni. Anche questo ha senso!» In seguito si lasciò distrarre. «Hai cambiato maglione. È nuovo!»

«Sì, più o meno.»

Sherlock squadrò il collega.

Morbido cachemire dalla tenue tonalità beige. Intreccio delicato, sobrio ma leggermente elegante. È un maglione di buona qualità, migliore rispetto ai capi nei suoi cassetti. È un regalo recente, molto probabilmente risalente al giorno di Natale. 

Le deduzioni fluirono.

Lo ha indossato oggi per la prima volta, e lo ha abbinato correttamente a una camicia fresca di bucato. La barba è stata da poco rifatta nel miglior modo. C'è odore di dopobarba profumato alle felci. È pungente e deciso... Capelli ben pettinati, postura retta, pupille apparentemente normali.

Il detective deglutì. Che tutto questo sia per lei?

«Qualche soluzione per farla parlare?» John deviò la conversazione, riportandola all'argomento principale.

«Infiltrarsi dentro casa sua senza farsi riconoscere e raggiungerla. Esistono molti modi di raccogliere le informazioni. Gli incompetenti si affidano alle parole che sentono, ma io non sono un incompetente. Mi basterà incontrarla e cercare di comprendere il necessario. Vive in una appartamento a Brixton, non proprio il migliore dei quartieri. La gente si serra casa e non lascia entrare nessuno, ma se...» Il viso del bruno acquisì vivacità, ma poi ridivenne assente. «John, il computer. Presto!»

Il medico arricciò il naso e un'irrequieta smorfia gli increspò le guance. «Non puoi prenderlo da solo?»

«Mi costringi a chiamare Mrs. Hudson? Oggi è la giornata delle pulizie e sta ascoltando della musica con le cuffie che le hai regalato nei giorni di festa. Dubito riesca a sentirmi da qui» disse l'altro, beffardo. 

John, riempì d'ossigeno i polmoni e nell'espirare cercò d'espellere assieme anche lo stress accumulato. Ben presto, si arrese al comando, prese il computer e glielo poggiò sui palmi appena tesi, senza però risparmiarsi la presa in giro.

«Io sono il geniale Sherlock Holmes e tutto mi è dovuto.»

Incurante del gabbo, il bruno cominciò furiosamente a premere sulla testiera. Le sue dita si destreggiarono sui pulsanti e altre pagine digitali crebbero espandendosi sullo schermo.

«Che cosa hai intenzione di fare?» chiese l'ex soldato.

«Cerco d'infiltrarmi nelle mura della ragazza con una semplice e-mail.»

Il detective continuò a pigiare senza sosta sulle lettere, senza battere minimamente ciglio e creando intere righe sul bianco sfondo. Premette un pulsante e la barra di caricamento si allungò istantaneamente.

«Entro pochi secondi Michelle Graves, alias la nostra testimone, riceverà posta da una certa Julie Ainsworth. Una nuova collega trasferitasi la scorsa settimana dall'università dell'Essex. Julie desidera andare da lei per scaricare le ultime lezioni. Ne ha urgente bisogno e ha trovato la sua e-mail sulla piattaforma dedicata agli studenti. Ha controllato il suo indirizzo, quindi può raggiungerla e sbrigare tutto in pochi minuti. Niente perdite di tempo, sarà tutto finito entro le undici di domattina.»

John conosceva il coinquilino, uomo attratto dalle maschere e dalla finzione. Mentire era una qualità appartenente al suo essere, la sua stranezza più umana ma, in quell'occasione, la situazione era andata ben oltre un costume da prete.

«Sherlock, conosco molto bene le tue performance teatrali, ma nemmeno il miglior chirurgo plastico della nazione potrebbe farti assomigliare a una donna. Questo piano è da folli.»

«Oh, non lo è affatto, invece!» Il bruno puntò al luccicante cerchietto nero al di sopra dello schermo del portatile. L'occhio rigido e onnisciente della telecamera contraccambiò lo sguardo. «Mi basterà usare la telecamera del tuo computer. Non se ne accorgerà mai, nella stanza ci sarà solo la nostra cara Julie.»

La furbizia si fuse ai tratti del bruno. Il piano appena escogitato era semplice, ma gli avrebbe assicurato le informazioni necessarie; l'importante era solo attendere la suddetta Julie.

«Stai mettendo in conto che qualcuno porterà la telecamera all'interno dell'abitazione. Be', non sarò io» protestò l'altro. «Ora dimmi chi hai intenzione di mandare dal quel testimone?»

Toc-Toc.

Delle nocche bussarono sul legno duro della porta d'ingresso, originando un suono secco e forte. Una risposta giunse e lo stridio accompagnò l'ingresso di una figura all'interno dell'appartamento. Gwen entrò timidamente, mostrando lo stesso atteggiamento spaesato dei giorni precedenti e tra le mani una tazza di latte caldo, offerta dalla cara Mrs. Hudson, residente al di sotto della rampa.

Trascorrere del tempo al piano terra era un ottimo metodo per andare incontro a un buon pasto caldo gratuito e passare del tempo da quella adorabile anziana non era poi così male. Molto meglio che indagare per un uomo eccentrico.

«La signora al piano di sotto mi ha passato un messaggio.» La ragazza chiuse la porta. «Dice che fino a quando non la smetterete di trattare il suo appartamento come un deposito, getterà il bollitore dalla finestra e non assaporerete una sola goccia di tè per molto tempo.»

Il detective – lo stesso che fino al giorno precedente soleva ignorare qualsiasi la presenza – tenne gli occhi inchiodati a lei. Qualcosa era sicuramente andato storto e la donna si sentì ancora trafitta da sgradevoli sensazioni.

«C'è qualche problema?» chiese, titubante.

Si portò automaticamente la mano sui capelli spettinati dalle raffiche di giornata e li aggiustò con gesti frettolosi e goffi. Nel frattempo cercò di comprendere il motivo dietro la loro attenzione, ma nessuno dei due uomini diede chiarimenti.

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Capitolo 8
*** Il cigno nero ***


Il cigno nero

Londra, Baker Street Station.

Gwen risalì faticosamente le scale mobili che si frapponevano tra l'ampia superficie della capitale e le sue viscere. Infine uscì frettolosamente dalla Baker Street Station con il respiro compromesso dalla mattina impegnativa. Le gambe si fecero stanche, tendenti allo spasmo, e il petto un continuo abbassarsi e rialzarsi. Nonostante il freddo, la faccia si fece bollente e lo stomaco solleticato da una nausea data dal bisogno di cibo.

Le dita, allora, recuperarono dalla tasca tutte le monetine che le erano rimaste e le accumulò sul palmo, originando un leggero tintinnio. Infine, si rifugiò dal vento ululante e dalla rigidità della stagione fredda in un Prêt-à-Manger poco distante. Lì, prese un tramezzino al prosciutto affumicato e dell'acqua.

Con la mani occupate, andò presto a pagare, per poi scegliere un posto ben isolato e, quando si accomodò, sentì il peso sulla sua cassa toracica sciogliersi dolcemente e lasciar posto al calore. Il petto era ancora ansante, ma aveva adottato un ritmo sempre più lento e graduale. L'adrenalina secreta dalle sinapsi era sul punto di consumarsi quasi del tutto, per lasciar posto a uno stato di rilassamento.

Gwen rimase incredula, completamente incapace di pensare in cosa si fosse immischiata: si era infiltrata nelle mura di una sconosciuta fingendosi un'altra persona sotto i comandi di Sherlock e poi era scappata come un comune ladro, portando con sé una semplice fotografia dai bordi consumati. Un sorriso fece capolino all'angolo della sua bocca.

Quell'esperienza era stata strana e sbagliata, ma anche irripetibile. Il detective si era coordinato ai suoi gesti e, monitorando tutto tramite un computer e qualche messaggio, era riuscito a racimolare qualche indizio e porre fine al piano.

Non è stato così difficile!

Nonostante il proprio temperamento narcotizzato dalle abitudine, la ragazza abbassò lo sguardo e, accogliendo quel pizzico di fierezza, poggiò il cibo sul tavolo; sfilò il computer ancora accesso dalla sua custodia e lo dispiegò per poi notare con disappunto che Sherlock Holmes era ancora online.

2.

Quando John Watson entrò nell'abitazione del 221 B, dopo essere sceso giù a prendere il giornale fresco di notizie, s'imbatté nella visione del proprio collega sbadigliante.

Sherlock Holmes presentava un viso molto ristorato rispetto ai suoi comuni standard. I suoi capelli, ancora arruffati, contornavano la pelle pallida e – a dispetto della leggera umidità nella casa – il suo corpo era coperto solo da un lenzuolo. 

Raggiunta la cucina, sempre sporca e piena di ciarpame, il bruno fece per prendere una tazza di caffè bollente, con il fine di riuscire ad annullare quell'assopimento intento a rendere la sua mente meno concentrata e brillante. John, di conseguenza, sopraggiunse e diede una rapida occhiata all'amico, che cominciò a sgambettare in direzione del soggiorno con fare tediato e con quella tipica insoddisfazione sulla faccia imbruttita da un clima terribilmente sereno.

«Mattinata tranquilla?» chiese il medico.

«Non me ne parlare!» I modi del detective palesarono un umore decisamente lugubre.

Le gelide iridi cerulee sbirciarono oltre la finestra, oltre la folgorante crepa intenta a squarciare una coltre di nubi. Proprio al di sotto del grigiume, la città continuava a esistere senza reali intoppi o qualche dramma. Nelle strade c'era troppo ordine e nemmeno l'ombra di una possibile disgrazia.

Noia...

Sotto il ruggire del cielo, il giorno era sul punto di cominciare e nessun possibile omicidio sarebbe stato capace di allietare l'animo atterrito del folle inquilino di Baker Street. Fu John a raggiungerlo, ma le parole che uscirono dalla sua bocca sembrarono appigliarsi alla punta della lingua.

«Lo sai, questa situazione mi sembra familiare. Tu... non... non indossi...»

«No!» rispose l'altro, schietto.

Completamente a suo agio nonostante la nudità, fece ondeggiare l'eccesso del lenzuolo e, come se niente fosse, inghiottì il liquido a piccoli sorsi, degustandone l'amarezza.

«Oh, santo cielo!» sussurrò il medico tra sé e sé. «Questo non è Buckingham Palace, ma girare nudo per casa è sempre di pessimo gusto in presenza di una cliente. E no, il fatto che non sia la regina di Inghilterra non è un'attenuante. Quindi, corri in camera e mettiti addosso i pantaloni prima che lei ti veda.»

«Non essere polemico, John! Mi sembra quasi di scorgere in controluce i fili di Mycroft su entrambe le tue braccia.»

Rifiutando il ruolo del burattino, l'ex soldato affilò la lingua.

«Non sono affatto polemico!» esclamò, cercando di mostrarsi ancora il genitore serio che a Sherlock era sempre mancato nel corso della sua infanzia. «Sto solo cercando di darti un freno. Non so perché, ma da quando non siamo soli sembra che tu ce la stia mettendo tutta per farla scappare.»

E l'altro replicò in un modo per niente intaccato dalle brusche frasi dell'amico. «Ti stai fasciando la testa ma ancor prima di sbatterla. Il tuo comportamento mi sembra esagerato. E inoltre lei non è in casa, al momento. Preoccuparmi mi pare inutile.»

La mente di John lesse tra quelle parole e quasi sfiorò l'idea di una cliente delusa e obbligata a lasciare quel manicomio di abitazione, dopo gli strani comportamenti di un matto.

«Oh, hai ragione, preoccuparmi è inutile ora che ce l'hai fatta. Tu l'hai già costretta a scappare, non è così?» La domanda si erse. «Be', ti consiglio di lasciar perdere il caso per qualche ora. Hai una seconda buona ragione per metterti addosso qualcosa; mi seguirai fino a quando non la raggiungeremo e gli porgerai le tue scuse. Sarà lei a decidere se lasciar perdere tutto e andarsene.»

Il bruno aggrottò le sopracciglia, nel comprendere l'equivoco. «Come al solito hai dimostrato una ragionamento affrettato e una mancata comprensione delle circostanze attuali. Che la cosa ti sia rilevante o meno, lei non è scappata. Probabilmente è da qualche parte tra il Brixton e Baker Street, in questo momento.»

Una seconda supposizione sostituì la precedente nella testa del medico che, per mezzo di quei nomi, finalmente comprese in che fine si fosse imbattuta la donna: era da qualche parte a fare ciò che Sherlock non era in grado portare a termine.

«Non posso crederci. L'hai davvero costretta a farlo?» L'indignazione prese possesso del suo tono. «Hai mandato la tua cliente più giovane in missione per raccogliere indizi sul caso di un attentato terroristico? Ti è andato di volta il cervello?»

«Errato. La proprietaria di Bluebell è stata la mia cliente più giovane. E, in secondo luogo, ho mandato Miss Blomst solo da un testimone. Si è mostrata contraria in un primo momento, ma dopo mi ha assecondato. Penso non l'abbia fatto per me, ma per aiutare indirettamente la polizia e il coinquilino che ritiene meno problematico. Suppongo tu le stia simpatico.»

Il detective replicò, sistemandosi il lenzuolo con la grazia di una signora. Fece in tempo a notare come i tratti del suo coinquilino si fossero rilassati dopo le ultime affermazioni.

«È al sicuro, adesso?»

Le rassicurazioni non tardarono nel sopraggiungere e fare da balsamo alle ire appena stemperate. «Non è mai stata in pericolo. Eccetto il giorno della sua aggressione. Ma quello è un problema che affronteremo subito dopo questo. Londra ha la precedenza.»

John sospirò. Tutto si era risolto date le buone condizioni della cliente, ma qualcosa di molto meno turbolento lo colse, un desiderio di conoscenza che lo spinse a proferire parole.

«Sappi che sono ancora molto arrabbiato per le tue scelte. Ma adesso ho bisogno di comprendere meglio la situazione. Non so perché, ma quello che è successo oggi ha l'aria di essere interessante.»

E l'altro replicò, ma senza cedere a troppi fronzoli. «Non c'è molto da approfondire. Il piano ha funzionato in maniera impeccabile e sono a un passo dalla conclusione di un caso stimolante.»

Un quesito tartassò la curiosità dell'ex soldato, che quasi si incastrò nel proprio imbarazzo prima di spalancare la bocca.

«Perfetto. E come è stata?»

Il bruno temporeggiò un attimo.

«Senza sbilanciarmi, oserei dire fantastica.»

«Be', credo sia così. Lei è... fantastica.»

«Lei?» fece eco l'altro, mostrandosi quasi oltraggiato da un complimenti nei confronto della donna che nelle scorse ore si era resa una complice. «Credevo stessimo parlando della mia idea, ma forse c'è stato un fraintendimento. Non ne sono sorpreso, conoscendoti.»

«Ehm... aspetta! È quello che ho detto. La tua idea.»

«Non direi affatto. Ma come non capirti? Hai sempre mostrato uno spiccato interesse per certe compagnie.»

Sherlock si sporse in direzione della finestra e nel frattempo ripensò a John, abituato alla frequentazione delle donne. Dopo la morte della moglie Mary e la nascita di Rosamund, la sua sete si era placata, ma il tempo era trascorso ed era bastato poco per ridare luce agli indomiti istinti di dieci anni prima.

«I sentimenti sono spesso sono un errore umano.»

Gli occhi limpidi quanto il mare sereno si concertarono sul coinquilino, sul suo maglione pulito, sulle scarpe lucidate, sulla barba rifatta e quelle pupille non ancora dilatate. Il medico, intanto, afferrò le parole dell'amico e si sentì oltraggiato.

«Oh, ho capito a cosa la tua mente onnisciente sta pensando e, diamine Sherlock, hai proprio fatto un buco nell'acqua» disse, dando un argine alle deduzioni. «Tu non te ne sarai reso conto ma lei ha solo ventiquattro anni. E al contrario di quello che credi, sono abbastanza adulto da pormi dei limiti. Cosa ti fa pensare che io sia–»

Il suono inconfondibile di una notifica partita dal portatile ancora acceso destò entrambe le figure. John presto s'accorse che quello poggiato sul tavolo, in soggiorno, non era il suo computer, ma un modello molto più recente.

Il suo portatile era, molto probabilmente, nella mani di Gwen, i cui tratti candidi in quel preciso istante occuparono tutto lo schermo dello schermo custodito nel 221 B di Baker Street, dando luogo a una ridicola situazione.

«Sherlock?»

Il bruno restò immobile e, dando di spalle al laptop, cercò di riorganizzare al mente da quella strana forma di discussione.

«Cosa?»

Senza pensarsi, eseguì un passo mal posizionato sopra il lembo di lenzuolo a terra. Il suo tallone destro scaricò tutto il peso del corpo sulla stoffa bianca mentre la gamba sinistra, in uno scatto, si mosse con eccedente rapidità. Le dita persero la presa e il lenzuolo cadde dalle spalle, percorse il busto e tutto il fondo della schiena.

L'uomo riafferrò con la mano un brandello, quello necessario a coprire solo le parti poste sul davanti. Nonostante l'eccentricità della situazione, impedì che ogni rossore colorasse le sue guance contratte a causa di un'espressione imbronciata.

«Hai...» L'ex soldato spalancò gli occhi, ma subito dopo mosse lo sguardo verso altre direzioni. Non aveva intenzione di apparire interessato a quel genere di spettacolo. «Hai dimenticato di spegnere la telecamera del computer.»

3.

Quando Gwendolyn Blomst varcò la soglia del 221 B, l'imbarazzo della situazione precedente continuò a tormentarla. Mantenere lo sguardo basso divenne una necessità adottata solo per non arrossire ogni qual volta il suo sguardo avrebbe incrociato quello del detective. Malgrado tutto, cancellare dalla memoria quei fotogrammi le fu infattibile e cercare di dimenticare quasi amplificò il desiderio di recuperare quelle immagini.

«Posso?» disse, accennando un sorriso indiscreto.

«Finalmente. Ero sul punto di chiamare a raccolta Lestrade e i suoi uomini per un caso di scomparsa.» Il bruno si fece sardonico. «E dire che stavolta non hai nemmeno attraversato tutto il paese.»

La ragazza scorse i suoi occhi freddi, intenti a premerle addosso. Il suo burbero ospitante teneva le mani congiunte e le dita intrecciate nei pressi di un bianco collo esacerbato da una camicia purpurea.

«Ti ho dato il tempo di rintracciare un paio di pantaloni oltre che i tuoi criminali, Mr. Holmes. Sono felice di notare che in questo momento hai addosso qualcosa con cui coprirti.»

Gwen non riuscì a tenere lo sguardo puntato sui propri piedi, poiché impossibile era non distogliere gli occhi dal quel corpo e cercare di replicare con altrettanto sarcasmo a quel pungolo.

«Be', lo siamo tutti!» John ruppe il silenzio e salutò la cliente in maniera formale. «Bentornata, Miss Blomst!»

Quell'intonazione rilassata e in apparenza garbata distrasse la donna che, sempre meno soggetta al sottile sghignazzare, allungò le gambe in direzione del duo e per porgere un telefono proprio al medico, ritto accanto alle tende.

«È stato parecchio utile, John. Ti ringrazio.»

L'uomo notò maggiore scioltezza nel modo di parlare di lei. L'uso del semplice nome e non di boriosi titoli formali portò il suo petto a ospitare una strana sensazione.

«Ah, sì. Ho appena scoperto che ti è servito per...»

«LA FOTO!» Burbero e ostinato vibrò il grido di Sherlock, il quale irruppe come un tuono nel silenzio.

L'aspettare una complice per un semplice indizio era un irrecuperabile spreco di tempo e di energie. Inoltre, parlottare di qualsiasi cosa non riguardasse il caso era cedere a capricci.

«Un giorno lascerò da qualche parte il numero un buon terapeuta per questi attacchi di rabbia.» Gwen, poggiata la custodia del computer a terra, introdusse le mani nella tasca dei suoi jeans, cercando di ignorare la pressione. Infine afferrò la foto e, tenendola stretta tra le dita, la porse al bruno, comodo sulla propria poltrona di scura pelle.

«Smettila con quella domanda!» Sherlock restò immobile e con una faccia di pietra, ferma e dura.

«Cosa? Se non ti ho rivolto alcuna domanda.» La donna cercò di chiedersi il perché di quel comando così insolito. Tuttavia, cercare di comprendere quell'uomo era come cercare l'acqua del deserto, se non più arduo.

«No, ma la stai formulando nella testa. Fa male persino vederti pensare.»

Detto questo, Sherlock afferrò con un unico gesto la fotografia sospesa a pochi centimetri dal suo lungo naso.

4.

Il tempo corse e, durante il dissiparsi delle ore, il soggiorno di Baker Street divenne ancora più sciatto e preda del caos. Nuovi documenti avevano monopolizzato tutto lo spazio e altro ciarpame aveva coperto le superfici deturpate dalla poca cura.

In mezzo al silenzio, mentre il sole era in procinto di calare dietro le tante ciminiere, un'angelica melodia si espanse per tutte le stanze, penetrando ogni muro. La soave voce del violino cantò una mesta litania e, alternando i dolci suoni dati delle corde graffiate dall'archetto, sembrò evocare tristi ricordi.

Gwen poggiò la schiena sul muro della cucina e diresse il viso su quella folle figura in vestaglia che si muoveva a scatti, davanti al camino acceso. La luce del fuoco, calda e luminosa, si era poggiata da ogni parte creando una chiaroscuro che conferì a tutto quell'ambiente un'atmosfera a dir poco surreale.

Sherlock, immerso nel cocente bagliore del camino, continuò a eseguire mosse sicure e aggraziate. Intanto, regalò sguardi concentrati ala finestra, ma senza dar segno di consapevolezza nei riguardi di quella meraviglia creata dalle sue mani.

Con le braccia incrociate, la ragazza restò ferma ad ascoltare quelle note scorrere nel tempo, una dopo l'altra e dare corpo a quel motivo, così amaramente bello da fondersi al suo spirito e generare dall'occhio nero una goccia di sale.

In un attimo, l'asciugò con la stoffa della manica. Dopodiché, si trascinò come uno spettro al di fuori del buio in cui si era immersa e, appropinquandosi al tavolo della cucina, notò altre scartoffie rimestate sul legno. Tra queste c'era la foto rubata sotto comando del strambo detective.

Con un solo gesto, Gwen la rubò ancora e poi la tenne con sé. Si ritirò nel corridoio e codificò la foto e i suoi particolari. L'inchiostro si era depositato sul bianco, formando una piccola ballerina con un tutù al quanto particolare: un tulle bianco, ma accompagnato da un busto color pece e un trucco troppo scuro poco adatto a una bambina.

Quel volto innocente era triste: gli occhi erano lucidi e le labbra storpiate in un broncio poco rassicurante. Dietro di esso erano state altre ritratte altre danzatrici avvolte da morbido tulle bianco e da un bustino candido come il gesso. Erano tutte simili, quasi indistinguibili l'una dall'altra. Tutte tranne lei.

Gwen girò la foto, come in cerca di qualcos'altro e si sorprese nel notare una scritta nera.

A mia sorella Abigail, da sempre il cigno nero della famiglia. La calligrafia era molto sfiziosa. Ballo, cigno nero, Odette. Lago dei cigni, Čajkovskji.

Si trattava di un'opera da balletto e non uno spettacolo qualsiasi; bensì l'apice artistico di ogni aspirante étoile. La soavità di quella musica russa era la stessa a cui Sherlock, pochi minuti prima, aveva dato forma con le corde di uno strumento.

5.

Londra era un groviglio di strade sempre sveglie, un continuo turbinio di mezzi e persone che si muovevano senza nemmeno il più breve attimo di riposo; un eterno via vai intento a delinearsi presso strade ridenti e perennemente alacri.

Un ammasso informe di luci di differente colore scintillarono così ardentemente da dar competizione al cielo con tutte le stelle. Sotto di questo, gli strepitii e il clamore si erano accaniti sul dolce suono del silenzio, debilitando un sonno tranquillo. La gente era condannata a un'incontrollata frenesia e, completamente immune a qualsiasi stanchezza, si muoveva, si raggruppava e si comprimeva fino a soffocare negli angusti spazi dei pub, nel freddo metallo del primo tram notturno o nelle strettoie di scuri mattoni.

Londra ha sempre il suo bel da fare...

Gwen, prima di ritirarsi nel suo albergo, si rifugiò sul tetto del palazzo, mai contaminato da nessun'altra presenza. Con le ginocchia rannicchiate e le rotule incollate l'un l'altra, sgranò gli occhi in cerca di qualche particolare. 

Sopra il pezzo di mondo sdraiato dinnanzi al suo sguardo, rimase seduta su di una stuoia ad aspettare un momento di silenzio. Intanto vagò con la mente per altre terre, ad High Bradfield, dove desiderare il silenzio era come bramare un filo d'erba in mezzo a un prato. La quiete, lì, era un dono da accogliere assieme al melodioso fruscio delle brezze. Non c'era niente altro che muschio odoroso, terriccio e pietra.

La donna cominciò a pettinare le punte della propria chioma con le dita. Nel mentre, desiderò ritornare a casa, in mezzo alla rugiada e alla corteccia, o a Sheffield per indossare ancora il suo bel camice lindo e stirato; magari per aspettare tramonti così rossi da sembrare coperte purpuree.

Un ghigno sfuggì al suo controllo e sopraggiunse la nostalgia di un ambiente rassicurante. Le mani intanto strinsero la fotografia che, nella sua fragile materia, era riuscita a riesumare ricordi perduti. Una tristezza da sempre ignorata, allora, ritornò per dare il tormento.

«Sottrarre una foto a qualcuno con la mia reputazione è stato un gesto impudente.» Una voce profonda fece breccia nella notte. «Difficilmente qualcuno può nascondermi qualcosa. Ci hanno provato in molti ma senza raggiungere i risultati sperati.»

Il buio fenduto dall'intruso fecero perdere un battito alla giovane, che accolse lo spavento come una scossa. Una figura, intanto, emerse dall'ombra molto lentamente e depennò lo spazio passo dopo passo, esponendosi sotto l'alone delle luci.

Sherlock era sicuramente inconfondibile: il mondo di camminare, l'altezza pronunciata, un viso unico nel suo genere. L'oscurità non rendeva giustizia ai suoi tratti peculiare e così affilati da essere lontani dal comuni canoni di bellezza.

«È così che di solito ti comporti con gli altri? Sgusci fuori dal nulla come una ladro per le tue entrate in grande stile? Be', mi hai fatto prendere un colpo» disse la donna.

Spinse la faccia in direzione del panorama, cercando di impedire il contatto tra occhi o la sensazione di sentirsi fragile dinnanzi una mente così abile nel leggere la gente.

«Non programmo mai le mie entrate in grande stile.» Il bruno si posizionò al fianco della cliente, esibendo il suo bel cappotto scuro – posto sopra una vestaglia cobalto – e anche il puzzo asfissiante della nicotina appena consumata. «E non era mia intenzione spaventarti. A dire il vero, non pensavo fossi così suscettibile; non dopo quello che hai passato. Hai subito un'aggressione e, cosa più incredibile, sei rimasta in questo palazzo per dei giorni senza mai scappare. Nessuno ha mai resistito così a lungo. Tranne che per Mrs. Hudson e John, ovviamente.»

La ragazza, infine, si confessò.

«Solo perché non lo do a vedere, non vuol dire che non abbia paura» dichiarò, lasciando andare la paura di essere giudicata. «Sono terrorizzata dal ricordare. Che tu l'abbia dedotto o no, mi è difficile accettare di essere stata incosciente per ore e a causa di qualcosa che nemmeno conosco.»

«Non spetta a te scoprirlo. Quanto alla paura, è solo frutto dell'oblio. È ciò che non comprendiamo a renderci inermi.» Anche Sherlock mantenne lo sguardo distante, abbandonandolo ben oltre l'orizzonte.

Gwen allora sentì tristezza, così tanta tristezza da nemmeno saperla contenere nel petto. Il bisogno di sentirsi meno sola la indusse a dare inizio a una possibile conversazione con l'essere che la stava fiancheggiando, il cinico essere di Baker Street.

«Non ha importanza, Holmes. Sei impegnato con altre indagini al momento. Mi auguro tu raggiunga la tua soluzione.» La ragazza girò il viso pallido verso di lui in uno scatto di lieve coraggio. «Ti chiederei come stanno andando le ricerche, ma ora so che odi le domande stupide.»

Sherlock si distrasse dal panorama e puntò la donna. In poco, si rese conto di quanto la situazione fosse differente rispetto ai giorni scorsi. Per la prima volta aveva codificato un'altra Gwen, molto meno sicura e con gli occhi arrossati dal dolore.

«Per la cronaca, tutti mi fanno domande stupide. Nessuno potrà mai imparare a pensarne di migliori, ma io posso imparare ad accettarlo.» Una pausa marcò il dialogo e ogni attenzione ritornò al cielo. «Preferirei comunque non parlare di oggi. Il perché non indossassi i pantaloni rimarrà un segreto tra me e quel lenzuolo.»

La ragazza corrugò la fronte, aggrovigliando un'espressione di lampante sorpresa. «E cosa ti fa pensare che io prima mi stessi chiedendo proprio quello?»

«Non stai negando di essertelo chiesto.»

«No» rispose senza riflettere.

«È perché te lo sei chiesto.»

Touché.

La risposta si distaccò dalle labbra di lui, sempre fredde e così dannatamente obiettive. La vergogna, seppur sottile, nel frangente colorò le guance della donna e, in effetti, due sfumature rosa regnarono dove prima era presente il bianco.

«Può darsi. Ma è stato solo per un secondo.»

Sfregò gli occhi, per asciugarli ulteriormente e presto si rese conto che quel dialogo, nonostante i modi sgarbati dell'altro interlocutore, aveva cominciato a disintegrare la malinconia.

«Puoi comunque rispondere al mio secondo dubbio. Hai fatto qualche progresso con le indagini?»

«Pëtr Il'ič Čajkovskij» disse Sherlock, limitandosi alla pronuncia di un celebre nome. «Compositore ottocentesco, famoso per opere di diverso genere. Quel giorno alla Royal Opera House era in progetto una sua opera, Concerto per violino ed orchestra. Čajkovskij, tuttavia, è sopratutto noto per la composizione di musica per balletti. Roba come La bella addormentata o–»

«Lago dei cigni» continuò Gwen.

«Esattamente. La foto incriminata raffigura Abigail Graves. Sorella di Michelle Graves, nonché ex studentessa allo University College di Londra, facoltà di scienza infermieristiche.»

La ragazza lanciò un altro sguardo alla foto, concentrandosi sul piglio corrucciato che la bambina aveva imposto all'obiettivo. Quella palese rabbia aveva deformato i tipici tratti dell'età infantile, rendendoli cupi.

«Pensi sia stata lei?»

«Certo che no, non è minimamente possibile.» Sherlock sembrò irritarsi al solo sentire quelle sciocche domande, ma passò oltre e cercò di rilassarsi. «È un'infermiera, non Lavoisier. Non è mai stata in grado di fabbricare una sostanza complessa come il fulminato di mercurio. Per di più ho ragione di pensare che il nostro colpevole sia un uomo. Uno giovane studente di chimica, in base a come agito. Ha molto tempo libero. È giovane e si crede furbo. Non ha avuto grossi problemi nell'attirare l'attenzione della pianista russa, cavarle dalla bocca le informazioni necessarie e farla fuori subito dopo aver messo in atto il piano. Ha agito senza alcuna inibizione.»

Manipolatore... cinco... apatico...

«Uno psicopatico, da quanto stai dicendo.» Gwen fece la sua diagnosi. «Un elemento affetto da disturbo antisociale della personalità; una persona che non si fa molti problemi ingannare la gente, che non si lascia intaccare dai rimorsi. È freddo, calcolatore, furbo e, cosa più importante, è annoiato.»

Tutto quello che era stato detto un po' aveva ricalcato la folle personalità del detective. Eppure, non era intenzione della ragazza osare paragonare la mente di un criminale a quella di un personaggio solo molto particolare.

Il bruno, d'altra parte, non sembrò nemmeno farsi sfiorare da quella spiegazione ineccepibile. «Sapevo di non essere l'unico ad annoiarsi.»

«Tuttavia, voglio dire... Il caso riguarda Čajkovskij, e tu sei riuscito a trovare questa immagine di una piccola ballerina del Lago dei Cigni. E l'hai trovata a casa di una possibile testimone. Non hai mai pensato che tutto questo non sia altro che uno scherzo dato da coincidenze?»

Il detective non accettò nemmeno l'idea di una simile ipotesi. «Coincidenze? Davvero? Le coincidenze esistono solo per chi ha non ha il coraggio di scoprire realtà lontane dalle apparenze. Ragionare risulta impossibile a certe persone.»

«A tutti tranne che a te.»

«So fare un calcolo probabilistico e ti assicuro che nemmeno il destino si dà tanto da fare.»

Un risolino illuminò il viso della donna e radiò tutte le ombrose preoccupazioni sospese nella sua testa bionda. Superfluo ammettere che Sherlock Holmes, per quanto acido e sarcastico, in realtà aveva un buon senso dell'umorismo.

Il detective restò fermo dinnanzi alla corrente fredda. Benché fosse al quanto coperto, il freddo di gennaio aveva penetrato i tessuti della sua tenuta da notte, regalandogli qualche brivido lungo tutta la schiena. La ragazza, notando ciò, con la mano spostò la coperta invitandolo a unirsi a lei.

«Congelerai se stai ancora in piedi. Hai sconfitto malviventi di ogni genere, sarebbe un peccato se fosse un raffreddore a metterti fuori uso. E questa coperta è ancora calda.»

Sherlock divenne restio, ma bisognoso di calore, si decise ad accettare quella particolare proposta. Si sedette sulla stuoia, trascinò la coperta sulle gambe e cominciò a strofinare le mani contro la lana per scaldarle.

«Riguardo al discorso precedente... Non credo davvero che tutti siano incapaci di articolare un deduzione. La maggiori parte preferisce spegnere la testa e affidarsi al caso. Ma esistono persone che riescono a fare ben altro. Io stesso non sono il migliore a studiare le dinamiche emotive dietro un essere umano. I sentimenti hanno ancora dei segreti per me.» La richiesta venne fuori in modo semplice. «Per questo ti chiedo di fornirmi una tua opinione sulla foto.»

Il bruno aveva voluto dirlo senza una motivazione esaustiva. Sapeva che la donna era riuscita a trarre qualcosa dall'immagine incriminata, qualcosa di troppo profondo e sentimentale per essere colto da un essere cinico come lui.

«Dici sul serio?»

«La bambina nella foto» aggiunse lui. «Cosa provava?»

«Niente di così importante, credo» replicò lei, quasi scostandosi dalle possibili risposte.

«Dovrei essere io giudicare.»

Gwen non sentì dentro di sé la voglia di intuire qualcosa da quella foto, né di leggere il complesso emotivo che si nascondeva dietro l'inchiostro sulla plastica. Eppure farlo, le sembrò un dovere utile ai fini investigativi e, perciò, condusse gli occhi verso la vecchia fotografia.

«È solo una bambina triste» sentenziò.

«Ottima analisi, ma speravo in qualcosa di più. La tua intelligenza emotiva è in grado di cogliere sfumature che tanti altri non possono nemmeno immaginare. Non insultarla con qualche frase al limite dell'ovvio.»

La lingua di Sherlock ricominciò a pungere l'orgoglio di Gwen, la quale parve divenire sempre meno disponibile alle impensabili richieste del detective. L'ispezione della foto, ciononostante, continuò.

«Odiava quella situazione. Lei teneva molto allo spettacolo, ecco perché era così abbattuta. Voleva fare una bella figura, si era impegnata tanto, ma qualcuno è stato stato più bravo di lei ed è riuscito ad ottenere la parte migliore.» Gli occhi neri inseguirono ogni sottigliezza. «Voleva solo essere la regina Odette, ma ha ottenuto la parte di Odile, il cigno nero.»

Era una favola, solo una semplice favola, ma Sherlock cercò di collegare le novità all'immenso magazzino rinchiuso all'interno della sua memoria: il filo conduttore era stato prontamente afferrato ed era solo necessario seguirlo.

«La scritta dietro la fotografia» dichiarò con lo stesso tono di un uomo invischiato in uno stato di trance.

Gwen focalizzò la propria attenzione sulle labbra del detective, come per scorgere ogni sillaba scandita da quest'ultime. La storia si stava pian piano delineando indizio dopo indizio, divenendo sempre più fonte d'attrazione.

«Immagino fosse una bambina molto permalosa. Quasi quanto me.» La donna sorrise.

Le reminiscenze, seppur sbiadite, ancora si proiettarono nel suo cervello, che venne invaso dai ricordi riguardanti la sua famiglia, sua madre, suo padre, sua sorella. Il passato era lontano, ma aveva lasciato comunque qualche sfregio. Il sentirsi tra le figlie quella complicata, quella sbagliata; essere per tutti la piccola Gwen con una testa e un modo di fare molto particolare e antistante a quello della giudiziosa Scarlett.

La giovane sentì gli occhi, già molto provati, bruciare di nuovo a causa del contatto con il vento ghiacciato. Con il dorso delle mani li strofinò, cercando di limitare il fastidio arrecato dal quella temporanea irritazione.

«A mia sorella Abigail, da sempre il cigno nero della famiglia» ripeté con fare teatrale.

Qualcosa sembrò cambiare anche negli occhi di Sherlock, intento a spegnersi per una manciata di secondi. La sua perplessità fu evidente agli occhi della cliente che, ancora una volta, legò la sua mente a quella altrui. La stessa emozione penetrò due corpi differenti.

«Tu riesci a comprendere questa frase?»

Braccata dalla sua insana immaginazione, Gwen ipotizzò nuove teorie riguardanti l'uomo accanto a lei. Sherlock doveva per forza venire da una qualche famiglia.

«Non ho idea di cosa tu stia parlando» disse il bruno.

Le bugie vennero fuori, ma non furono convincenti.

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Capitolo 9
*** La lettera G ***


La lettera G

Londra, University College.

«Era così palese!»

Sherlock, percorso da una scarica elettrica, esplose con tutta la propria euforia. Finalmente tutto era divenuto chiaro ed era bastato solo trovare i nessi necessari alla formazione di uno schema logico e corretto.

Il detective, assieme a John, era riuscito a simulare un finto controllo da parte dell'MPS, con lo scopo di penetrare negli immensi archivi dello University College di Londra. Raggirare gli impiegati nella segreteria era stato alquanto semplice. Tuttavia sapere in quale angolo cercare – in mezzo a cassetti e scatoloni appesantiti da documenti – era stata cosa assai più impegnativa.

Con un po' d'arguzia e di pazienza, il duo era riuscito a metter le mani su ogni singolo dettaglio anagrafico della donna. Era tutto stato scritto in una cartella risalente agli anni precedenti. In essa, un particolare tra tutti era saltato all'occhio del bruno: la data di nascita della suddetta, o meglio l'ennesima improbabile coincidenza. Un altro frammento andò a così comporre quel complesso mosaico.

«Diciotto gennaio 1989!» esclamò Sherlock.

La sue parole profonde rimbalzarono tra le grandi mura della stanza e John fu costretto a far segno di silenzio con il dito. Creare baccano, dopotutto, avrebbe potuto creare inutili sospetti e far naufragare tutta la copertura.

«Calmati adesso! E spiegami cos'hai trovato» comandò il medico, interessato.

«Il giorno dell'attentato coincide con la data di nascita di Abigail Graves. Un'altra interessante coincidenza, non credi?»

«No, Sherlock. Da giorni non fai altro che ripetere che Abigail Graves non è la colpevole.»

«E non lo è. Ho fatto qualche ricerca ieri, ed è tornata dalla madre a Barnstaple in Cornovaglia, proprio per il suo compleanno. È stato per forza qualcun altro, John. Un uomo vicino a lei, che la conosce abbastanza da sapere molto sul suo conto. Lui ha organizzato tutto e lo ha fatto solo pensando lei.»

«Come?» chiese il medico, sconcertato. «Quale essere in questo mondo farebbe una cosa del genere?»

«Un sociopatico.» Il detective fu chiaro. «La vera domanda è perché?»

Finite tutte le ricerche necessarie, Sherlock e il suo fidato collega ritornarono al quartier generale. Dopo aver preso in prestito alcuni documenti dagli archivi da poco ispezionati, raggiunsero il portone più conosciuto di tutta Baker Street. John afferrò le chiavi, le infilò nella serratura nuova di zecca e fece il primo giro, ma il metallo ancora incespicò.

«Non è possibile! Non di nuovo» disse, sul punto di imprecare.

«Non l'hai rotta, John!» confermò il bruno. I primi ragionamenti s'impadronirono della sua testa e, ipotesi dopo ipotesi, il perché di quella strana situazione venne subito esplicato. «La porta è stata aperta. Qualcuno è entrato, mentre eravamo via.»

«Cosa? Preferirei pensare che tu stia scherzando, ma dopo questo...»

«I fatti non mentono mai.»

Il detective girò il pomello, dimostrando a pieno ciò che il suo intelletto aveva colto. Bastò solo uno scatto e la porta s'aprì lentamente, causando un cigolio prolungato.

Presi dall'ansia, entrambi si catapultarono all'interno dell'abitazione, pensando a qualsiasi possibile nefandezza. Tuttavia, quando giunsero nel soggiorno, altri particolari attirarono l'attenzione di Sherlock, che scovò dei piccoli graffi sul porta del soggiorno: i segni di una lotta.

La maggior parte delle scartoffie, prima raccolte sui tanti mobili della casa, erano state riversate a terra, divenendo in un candido puzzle di totale confusione. Qualcuno era giunto e si era dato alla caccia di qualcosa, lasciando cadere nel frattempo qualche goccia di sangue.

John rimase completamente attonito. Scioccato e completamente incapace di riflettere su cosa potesse essere successo, mosse qualche passo in direzione delle due poltrone e ricordò che una sola persona era presente in quello spazio.

«Gwen?»

Un suono flebile fu soffiato dalla sua bocca.

«L'ha presa lui, John» sentenziò Sherlock.

E il silenzio cadde su di loro.

2.

Londra, Baker Street.

«Non può essere!» John rimase di stucco.

Un uragano di emozioni confuse la sua testa. Mai avrebbe pensato che una cosa del genere potesse accadere quel giorno; che qualcuno fosse riuscito a penetrare nella loro abitazione e, soprattutto, che fosse riuscito a rapire una donna con tanta facilità.

I segni di lotta si erano diffusi insudiciando la stanza e nella mente dell'ex soldato si crearono le immagini di quella presunta aggressione. Il disagio di saperla in pericolo, accanto a un assassino, lo rese agitato e completamente furioso.

«Dannazione!» Sherlock imprecò, sfogando la rabbia.

Non si diede pace per non essere riuscito a prevedere quello che era accaduto. Si era fatto prendere in giro sol perché non era stato abbastanza furbo, abbastanza analitico. I ruoli erano stati scambiati: era il malfattore a gestire il mirino.

«Vuole giocare.» 

Un sussurro giunse dopo qualche respiro.

«Sherlock... Non rifarlo!» Il volto del medico divenne di cera. «Ti conosco da anni e ti prego di non prendere tutto come una partita. Si tratta di un assassino... uno psicopatico. E ha Miss Blomst! Lui ha una persona, Sherlock! Potrebbe ucciderla se non facciamo qualcosa.»

«Lo so bene» disse l'altro, passivamente.

Di punto in bianco, il detective sembrò voler tornare alle note abitudini e alla sua onnipresente insensibilità dinnanzi alle situazioni critiche. Il sangue rimase freddo e la mente concentrata, poiché dispiacersi era inutile e debilitante. Provare a depistare qualsiasi forma di sentimento o emozione era assolutamente necessario per riuscire a elaborare una strategia utile a redimere la situazione. E, soprattuto, a porre una soluzione quel dannatissimo caso.

«La troveremo, John!»

Dinnanzi a quelle parole il medico sembrò riuscire a cogliere un qualche raggio di luce in fondo a un mare di tenebre.

«Lo spero per lei.»

Restò con piedi pianti a terra e serrò le labbra, per dare al collega tutta la concentrazione necessaria. Il bruno, allora, si mosse lentamente in direzione degli indizi scottanti: capelli e graffi rimasti impressi nel legno. Un sottile strato di fogli grigiastri si era depositato presso i supporti di legno, in mezzo a una grande quantità di scarti e altro materiale. 

Il Times – pur trattandosi di una copia recente – era gualcito e alquanto malandato. Sherlock, allora, s'abbassò e afferrò la carta stropicciata e con delicatezza la distese, conferendogli una forma simile a quella originale. Pian piano le lettere si stirarono, divenendo leggibili.


PAURA A COVEN GARDEN

Attentato fermato da Scotland Yard, alla Royal Opera House di Londra. Dopo una un'assidua ricerca, i poliziotti di Scotland Yard riescono a trovare una bomba chimica posizionata al centro del palcoscenico della più importante teatro di Londra. La zona è stata evacuata lo stesso giorno. Nessun testimone e nessun possibile sospetto.

Si è abbandonata, di recente, la pista terroristica. La polizia è indirizzata verso un possibile omicida seriale. Si sospetta che il colpevole abbia già mietuto una vittima, Oxana Mikhailova, donna di nazionalità russa, ventitré anni. A contribuire al caso è intervenuto il celebre investigatore di Baker Street. Sherlock Holmes continua tuttora a collaborare con la Metropolitan Police, in cerca dell'attentatore.

19/01/2017


I colori stinti di una foto aveva modellato la lontana sagoma del detective che, incurante del fotografo, si accingeva a uscire dall'enorme struttura biancastra. Un'altra figura, accanto a lui, era intenta a lasciare il teatro: Gwen, poco dietro, guardava davanti a sé con aria frastornata.

Sherlock strinse la carta sottile e ancora profumata di stampa. È sempre colpa dei giornalisti, pensò abbandonando la concentrazione.

«E così che è arrivato a noi» affermò infine, sollevando con il braccio i foglio. «Ci ha tenuti d'occhio, per giorni. E quando siamo andati via, è entrato nell'appartamento scassinando la porta. È salito qui, ha trovato Gwen e l'ha aggredita. Ci sono segni di lotta, questo vuole dire che lei ha cercato di difendersi. Inoltre, ho ragione di credere che abbia usato etere o del cloroformio per metterla K.O.»

John annuì leggermente. La tensione gli conferì quel portamento eretto e stabile, perfetto nel rievocare il suo lontano passato da soldato. «E secondo te cosa ha intenzione di fare con lei?»

«Credo che...»

Toc-Toc.

Il rumore del legno leggermente percosso stroncò quella conversazione, distogliendo il duo dalla scia di riflessioni. Tutto sembrò sospendersi nell'esatto momento in cui lo stridio della porta accompagnò l'ingresso di Mrs. Hudson.

«Cucù!» Un sorriso seguì una voce avvizzita dal tempo.

«Mrs. Hudson?» la chiamò John.

La donna pose gli occhi gentili su di lui, sul detective e poi anche sull'ambiente circostante. Il caos la forzò a un espressione risentita e frastornata. Quel marasma di carta e sporcizia era assolutamente inaccettabile.

«Oh Sherlock... cosa hai combinato in salotto?» Piccoli passi calpestarono il centro dello spazio, proprio presso quello che era il nucleo del terribile scompiglio, il cuore di uno smisurato pasticcio. «Oh, non posso crederci, sei stato tu a macchiare il mio bellissimo tappeto? Eh no! No, giovanotto! Ripagherai i conti della tintoria con il tuo prossimo affitto...»

«Mrs. Hudson, non abbiamo tempo per questo, adesso!» Il tono del medico fu molto più risoluto. Il bisogno di frenare quel turbinio di parole inasprite andò oltre la necessità di mostrarsi poco spudorato nei confronti di una signora.

«Oh, non era mia intenzione interrompere qualcosa d'importante.» D'un tratto l'anziana divenne molto più remissiva e si tirò indietro. «Ma comunque è solo questione di poco. Sono venuta qui per sapere se qualcuno di voi due è entrato nel mio appartamento, stamattina. La mia porta è stata aperta mentre ero fuori.»

Sherlock e John intrecciarono i loro sguardi. I loro occhi subito comunicarono un silenzioso messaggio colmo di complicità.

«Continui pure, Mrs. Hudson!» Il bruno esortò la donna.

«Oh, non ho altro da aggiungere! Sono uscita a comprare i suoi biscotti alla cannella e quando sono tornata la porta era ancora aperta. Qualcuno è entrato e ha rotto una delle mie tazze nella credenza. Mi chiedevo solo se qualcuno di voi due c'entrasse qualcosa.»

Il detective s'arrampicò ancora ai possibili fili logici nella sua testa. Il quadro della situazione andò sempre più colorandosi di nuove sfumature e, da tempo, egli aveva imparato che il segreto di un buon operato era nelle sottigliezze.

«Be', noi non... noi...» John cercò di obiettare.

«Quindi è uscita dalla porta sul retro, stamattina?» domandò Sherlock, sempre un passo avanti.

«Proprio così. Lo faccio sempre quando ho bisogno di fare la spesa. È più facile raggiungere il supermercato.»

«Perfetto!» Il bruno abbandonò la propria immobilità e, puntellato dal sua solita fretta, raggiunse Mrs. Hudson, per poi spingerla – nel modo più garbato possibile – verso l'uscita del soggiorno. «Ci è stata molto d'aiuto, Mrs. Hudson. La lascio libera di andare a mettere la sua crema anti-età.»

Chiuse la porta, provocando un tonfo che introdusse nuovo silenzio. Fu John a dover pronunciare: «E allora?»

«Proprio come avevo dedotto» disse il detective, per poi guardare l'amico. «Lui ci ha studiati. Non sarà difficile considerando che le nostre vite da anni sono sui giornali di Londra [1]. Bastava leggere il blog per trovare l'elemento più fragile. Rapire Mrs. Hudson non sarebbe stato difficile, ma non l'ha vista uscire perché oggi ha usato la porta sul retro. Quando ce ne siamo andati, si è introdotto in casa ma ha trovato la persona sbagliata. Ha riconosciuto Miss Blomst grazie a quella foto sul giornale e subito ha avuto inizio l'aggressione.»

John prestò orecchio ma, nonostante l'enorme quantità di informazioni ottenute, non riuscì ugualmente creare una qualche buona spiegazione sul perché della vicenda. Tutto sembrò insopportabilmente complicato e riuscire a concepire cosa l'assassino tenesse in mente risultò un'impresa.

«Bene, adesso abbiamo un'idea di quello che successo. Ma non sono ancora chiare le sue intenzioni. Se ha rapito qualcuno che conosci è per ripagare il torto che gli hai fatto, il giorno dell'attentato. Sta cercando di fartela pagare.»

Sherlock sembrò non dare importanza alle sue parole. Preferì avvicinarsi al freddo vetro della finestra per osservare qualcosa che stava al di là delle mura domestiche.

Proprio sulla strada, ancora insozzata dai residui di una neve sporca, un taxi era stato parcheggiato dinnanzi il 221 B di Baker Street.

«Non è del tutto corretto, John!» disse, impassibile. «Sta cercando di eliminarmi e ha deciso di architettare un piano per ingannarmi. È tutto una trappola!»

3.

Riscatto, contrattazione, intimidazione...

Ogni opzione era stata metodicamente esclusa e la migliore spiegazione rimase proprio quella di una trappola ben architettata. Dopotutto, era uno psicopatico antisociale e tendere possibili inganni era alla base del suo essere. Sherlock era a conoscenza delle ultime circostanze. L'assassino si era solo procurato il cibo per la trappola e Gwen, prima o poi, sarebbe riapparsa da qualche parte. Soccorrerla era preferibile, ma senza far scattare il tranello mortale. Prima era necessario aggirare il meccanismo.

«Una Hackney Carriage, proprio con nel nostro primo caso» dichiarò il detective a John. «Il nostro amico è un tipo nostalgico.»

Il flashback fu insopprimibile e la sua mente collegò quella bizzarra situazione a una lontana scia di ricordi risalenti ad alcuni anni addietro. Sgattaiolare fuori dal 221 B per infilarsi in un taxi sospetto e incontrare uno spietato assassino seriale era stata un esperienza ben immagazzinata.

«Dimmi che è uno scherzo? Se hai imparato qualcosa durante i tuoi casi è che entrare in un taxi per incontrare i serial killer non è buona idea.» l'ex soldato si fece più serio. «Non ci andrai da solo.»

«Non sarebbe la prima volta.»

Sherlock, grazie alla fiducia nelle proprie capacità, accolse il gioco proposto dal suo criminale; in fondo non era sua intenzione di cedere a un poco rispettoso ritiro.

«Sherlock, ascoltami! Io non posso lasciartelo fare. Sarebbe da incoscienti. E per quanto ammetterlo sia incredibile, sono quello che puoi ancora ritenere il tuo migliore amico. Qualsiasi cosa accada, noi la affronteremo insieme.»

John ripiegò sul ruolo del personaggio responsabile.

«Un blogger di fiducia è sempre utile, ma è una questione tra me e lui. Non sarebbe lo stesso se tu mi affiancassi.»

Quella frase così egoista s'infiltrò nelle orecchie dell'ex soldato e fece a pezzi tutto quello che era rimasto della sua buona pazienza. I muscoli del corpo minuto si tesero come le corde di uno strumento e lo resero rigido quanto una colonna.

«Ora smettila, Mr. Ho-un-disturbo-di-personalità! Tutto questo non solo riguarda te. Riguarda Miss Blomst, riguarda Lestrade e Scotland Yard. Riguarda tutti. Non cercare di farlo passare come un conto personale, perché puoi darla a bere agli altri ma non a me.»

«Mi conosci da molti anni e sai bene chi sono. Non ho bisogno di aiuto. La solitudine mi protegge» asserì l'altro, pacatamente.

Permaloso, primadonna, idiota..

«Ti sbagli. Tutti hanno bisogno di aiuto» controbatté il medico, assetato di ragione. «Sei cresciuto abbastanza da riconoscere i tuoi errori e ripeterli sarebbe troppo stupido per uno come te.»

Il bruno raggiunse il collega, rivolgendogli uno sguardo intimidatorio. «Non sto commettendo alcun errore. Questa è la nostra unica occasione e lui mi sta già aspettando. Sai bene che sono costretto a farlo.»

«No, tu vuoi farlo.» L'ex soldato contraccambiò l'occhiataccia. «Ti conosco e so quanto ti piace dimostrare al mondo quanto sei dannatamente intelligente. Preferiresti avere una pistola puntata alla tempia pur di aver ragione. Tu farai il suo gioco solo per fargli capire che sei più furbo.»

La verità fu lampante e difficile da mandar giù. Sherlock, mosso dall'orgoglio, aggrottò la fronte e si morse il labbro in segno d'impazienza. L'amaro sapore delle parole appena udite lo frastornò. D'altro canto John, ancora carico di biasimo e buone intenzioni, aggiunse:

«Fa' come ti pare! Ma io vengo con te...»

L'altro sembrò quasi addolcirsi per quella affermazione generata da un desiderio di protezione. Tuttavia, pur accogliendo di buon cuore quella manifestazione d'affetto, preferì rimanere saldo alle sue teorie.

«Se sono da solo, lui abbasserà la guardia e sarà più facile acciuffarlo. È inesperto e ambizioso, un assassino alle prime armi. È sagace e, lo ammetto, molto più stimolante di quanto mi aspettassi, ma come preda non è poi così intoccabile.»

Una preda, non un predatore.

Completamente contrario ai classici metodi di Scotland Yard, il bruno prontamente intuì che esisteva un solo modo per porre un freno alle mani del carnefice con un paio di gelide manette: seguire il suo gioco e cambiare le sue rigide regole.

4.

Entrato nel taxi – subito dopo la benedizione e i migliori auguri da parte di John – Sherlock sentì dentro al corpo l'eccitazione crescente. La frenesia delle imminenti peripezie gettò scariche in ogni cellula e, in un solo istante, le dita cominciarono a tamburellare sulla coscia. La logorante attesa, però, si prolungò a dismisura e la Hackney Carriage continuò a percorrere chilometri, licenziandosi dal traffico cittadino per raggiungere mete ancora ignote. Dopo una serie di minuti, file di alberi frondosi, foglie secche e tanta solitudine presero il posto di palazzi, rumore e bus sfreccianti.

Sherlock, memorizzato ogni singolo quartiere della metropoli, si aggrappò alle sue conoscenze e notò che l'auto si era allontana dalla parte centrale per raggiungere l'estremità nord-orientale della città, Havering. Lì, si distese Warley Road, una piccola stradina immersa nella natura e mascherata dalle tante ramificazioni al so sopra di una coperta di fogliame.

Niente è peggio che essere prevedibili e ambientare il crimine in una zona completamente desolata e lontana dal centro. Dopo la Royal Opera House, questo sembra quasi uno scherzo di pessimo gusto.

Il tassista, ignaro di qualsiasi cosa stesse accadendo, portò a termine il suo incarico. Condusse l'auto presso una piccola stradina perpendicolare, parcheggiò e – senza chiedere nemmeno un penny – fece uscire il cliente. Sherlock rimase da solo con le sue deduzioni. Percorse quella sentiero malandato fino a raggiungere un magazzino abbandonato immerso nelle sterpaglie, una struttura di medie dimensioni con due piani di mattoni e due ingressi. Di questi, uno era serrato da lunghe catene, mentre l'altro era completamente aperto a causa della penzolante porta scardinata.

Oltrepassata la soglia, il bruno s'addentrò nello spazio sconosciuto, lasciandosi pian piano inghiottire dalle fauci del buio e dell'umidità. Con la torcia del telefono illuminò tutto intorno, ma non trovò alcunché se non polvere e sporcizia. Raggiunse le scale diroccate, stando ben attento a non ruzzolare giù per un passo mal posizionato e infine percorse il corridoio del piano superiore. Infine, seguì l'istinto e s'infiltrò in una della tante stanze logore e al limite dello spettrale: nessuna finestra, ma solo un buco sul soffitto.

Gwen, al di sotto di un flebile alone, tenne la testa bassa. I suoi occhi erano chiusi e la sua labbra mute. Le corde stringevano il suo corpo, le sue mani e i suoi piedi, immobilizzandola a una sedia sbilenca.

«Ho sempre pensato avresti lasciato Baker Street, ma il come era al di fuori di qualsiasi mia abilità.»

Il detective puntò la luce su di lei, richiamandola. E fu allora che la donna, identificata la presenza del folle uomo, si svegliò e cominciò a emettere parole nonostante un cencio i bocca.

«Sta' calma, adesso. Non deconcentrarmi!»

Sherlock oltrepassò l'entrata, facendo scattare un nefasto bip. Un timer aveva appena cominciato il suo inflessibile conto alla rovescia. Quindici minuti e trenta secondi, e ventinove, e ventotto...

Gwen s'abbandonò agli ansimi. Una bomba attivata da un sensore, attimo dopo attimo, minacciò di esplodere e cancellare qualsiasi essere all'interno della struttura.

«Fa' silenzio!» Due parole cercarono di bloccare gli strilli della donna.

Sherlock, completamente immune al terrore, si avvicinò al marchingegno e guidò la luce dello smartphone in dire ogni singola componente della piccola scatola metallica, contraddistinta da colorati fili mal collegati e ingarbugliati l'uno con l'altro. Infine, studiò il meccanismo e poi si lasciò sfuggire un un'espressione imbronciata.

Un minuto e quarantuno secondi, e quaranta, e trentanove...

Trotterellò per un po' avanti e indietro, come un segugio in cerca di una traccia da fiutare. S'inginocchiò presso la sedia su cui era legato l'ostaggio e con l'occhio analizzò il filo spinato attorno alle gambe e ai fianchi. Erano tre metri di sottile metallo delicatamente attorcigliato attorno alla carne. Delle funi, inoltre, erano state strette attorno ai piedi e al bacino.

Sessanta secondi, cinquantanove, cinquantotto...

«Odore di bitume» specificò il bruno, dopo aver annusato l'olezzo nell'aria.

Ogni indizio parlò, rivelando gradualmente tutte le intenzioni della mente che aveva organizzato quella insolita condizione.

Trenta secondi, ventinove, ventotto...

Gwen si sentì in bilico, sull'orlo di un crollo psichico. Il cuore minacciò di uscire dal petto e il terrore si prese gioco della sua cognizione. Il suo corpo d'un tratto non sentì più niente, ma solo sgomento, mentre la mente si congelò rendendo inaccessibile ogni pensiero. Inutile fu dimenarsi come una preda nella trappola e tentare di urlare.

«Faresti meglio a non muoverti» disse il detective.

La donna nemmeno gli diede ascolto e, pietrificata in quell'incubo, diede retta solo all'impietoso scorrere tempo.

Tre, due, uno.

E il Nulla.

6.

Qualche minuto dopo Gwen, ripresasi dallo stato di shock, sembrò di nuovo riacquistare la capacità di pensare. Il cieco terrore del trauma si era finalmente affievolito, ma ogni forza era stata prosciugata dalla tensione. Complesso fu persino tendere un singolo muscolo di qualsiasi arto.

«Perché non mi hai detto che era finta?» domandò lei con la voce rotta dalla paura e le braccia intente ad asciugare le lacrime.

«Ero impegnato a pensare» rispose il bruno, giustificandosi.

La giovane provò a comprendere quello strampalato tentativo di discolpa, ma senza successo. L'uomo era sembrato così immedesimato nel suo perfetto ruolo di segugio, da non aver nemmeno fatto caso al suo contorcersi.

«E a cosa stavi pensando mentre pensavo di morire?»

«Solo a come salvarti la vita.»

Sherlock si posizionò dietro di lei e con una forza inimmaginabile – poco associabile al suo fisico così magro – cominciò a tirare la spessa corda per poi passare al filo spinato. Con i guanti di pelle, cominciò a premere delicatamente sul ferro, stando attento agli spilli acuminati.

«Era tutta scenografia. Un trucco audace che avrebbe sicuramente fregato gli idioti di Scotland Yard. Qualsiasi agente, notando il timer e l'assenza di artificieri, si sarebbe gettato su di te per slegarti, ignorando che sei ricoperta di veleno. Curaro a giudicare dall'odore.»

Era sufficiente una puntura e lo strano composto avrebbe fatto quasi immediatamente effetto: un lungo patimento prima avrebbe colpito i muscoli più semplici per poi giungere agli arti. Il blocco del diaframma sarebbe stato inevitabile come la morte per soffocamento.

«Puoi stare tranquilla. È innocuo se ingerito, molto meno se a contatto con graffi e ferite. Senti formicolio al collo?» chiese Sherlock, con fare umano.

Completamente libera, Gwen cominciò a tastarsi il collo per meglio valutare la propria sensibilità. «Non credo.»

Dopo quella risposta, l'uomo si fece più sereno. «Bene. Hai rischiato molto, ma non sei ancora al sicuro. Guardando il lato positivo, adesso non sei da sola» disse, prima di originare nella superstite un disperato pianto fatto di gemiti acuti. «Forse sono stato troppo catastrofico. Sei moderatamente al sicuro, adesso. Non c'è bisogno di piangere.»

La ragazza, affogando nella sue lacrime, tirò su con il naso rubicondo e fece una smorfia ricca di scontentezza e collera. «Sto solo cercando di superare quello che ho appena passato, boriosa macchina piena di arroganza.»

Il detective aggrottò la fronte.

«Siamo passati dal tu agli insulti in poco tempo.» La mano, ancora poco esperta di contatto fisico, si distese sulla schiena della donna in segno di confronto, ma estrasse solo un grido di dolore. Fu istantanea la scoperta di qualche livido. «Ti medicheremo dopo. Ora dobbiamo uscire da qui.»

E Gwen si aggrappò all'uomo per rassicurarsi.

«Sherlock, secondo te dove può essere nascosto? Lui, intendo» specificò, prendendo sempre più le distanze da ciò che prima era accaduto.

«Senza indizi non formulo ipotesi. Si crearono solo pregiudizi...»

Da profonde oscurità, un uomo emerse presso la soglia di quella enorme stanza. Il poco bagliore superstite si era depositato sui tratti dello sconosciuto. Poco si poteva notare a causa del buio pesto, ma distinguibile era il suo abbigliamento pesante e mal accompagnato a un paio di piedi nudi. Un braccio sinistro ciondolò giù, ma quello destro era fermo e ben teso contro il detective e la ragazza. Un luccichio rifletté il freddo metallo del carrello di una pistola.

«Sherlock!» Gwen squittì.

L'assassino li codificò, prendendo piano la mira. Questione di poco e li avrebbe colpiti, ma non fece in tempo nemmeno a premere contro il metallo che qualcosa da dietro lo fece stramazzare al suolo. Un botto echeggiò tra le pareti.

«­­Fermo o sparo ancora!»

Greg Lestrade fece irruzione nella stanza e saltò addosso al criminale, spiaccicato al suolo. In poche mosse tirò fuori le sue manette le utilizzò per impedire una catastrofe. Dopo, con la mano libera, afferrò il suo telefono e mandò un avviso ad altri suoi colleghi, in modo da procedere con l'arresto.

«Lestrade!» Sherlock lo chiamò. «Ottimo tempismo!»

Greg annuì in segno di disponibilità nei confronti dell'amico, che mai prima di allora si era mostrato così riconoscente per dell'operato altrui. Il detective sorrise, ma smise quando sentì il corpo di Gwen crollare a terra. Non si sorprese nel notare piccoli graffi sopra la sua pelle e, preso dal panico, ordinò a all'ispettore di chiamare un'ambulanza. Il criminale, intanto, continuò a strisciare come una serpe e a imprecare.

7.

Londra, University College Hospital.

Lo University College Hospital era struttura ospedaliera molto moderna: immense lastre trasparenti, sorrette da impalcature di metallo, erano trafitte da grandi quantità di luce che si infrangeva sul bianco dei corridoi e delle tante sale. Ogni spazio interno era esteso e arredato in maniera molto minimale. In particolare, le sale d'attesa erano arricchite con file di poltrone colorate nei pressi del bancone d'accoglienza.

John si catapultò all'interno della sala d'attesa e con gli occhi andò in cerca di qualche faccia familiare. Dopo aver percosso qualche miglio qua e là, finalmente trovò una una prominente figura ben infagottata nel suo bel cappotto scuro. Sherlock, con le mani in tasca, era intento a parlottare con un ispettore Lestrade apparentemente nervoso.

L'ex soldato li raggiunse, porgendo un accenno di saluto solo al membro dell'MPS, il qualche rispose con educazione per poi dare qualche scartoffia nella mani del bruno, andarsene. La quiete, allora, ritornò nel corridoio.

I due uomini, procrastinando, si limitarono a sguardi seri e, solo dopo qualche minuto, si decisero a dialogare.

«So che sei stato tu a chiamare Lestrade» esordì Sherlock.

John, lasciata da parte la falsa discrezione, decise di ammettere il misfatto. «Sì, l'ho fatto. Tu hai ordinato solo a me di restare a casa con Mrs. Hudson. Non ho disobbedito ai tuoi comandi, come puoi notare.»

Sherlock non accennò sorrisi. «Mary aveva ragione, anche se finissi all'inferno tu troveresti un modo per seguirmi. E sarebbe giunto il momento che io ti ringraziassi per questo.»

«Gli amici servono a questo» rispose John.

Prendere il numero di targa del taxi per far pedinare il coinquilino era stata di un'idea azzeccata. Per quanto il medico confidasse nelle abilità di un collega troppo orgoglioso, non era era consigliabile lasciare tutto al destino.

«Lo avevo previsto. Immaginavo avresti chiesto aiuto a Lestrade, dovevo impedirti di mettere piede in quel taxi e farmi credere solo. Un intervento più rapido sarebbe stato migliore. Almeno, non saremmo qui per Miss Blomst.»

«Non ti smentisci mai. E comunque ho letto i tuoi messaggi e so cosa è successo. Spero solo che la nostra cliente non abbia riportato ferite peggiori di quelle a cui ti sei abituato.» Il dubbio morse la curiosità dell'ex soldato, non a del tutto a conoscenza delle circostanze. «Non è qualcosa di grave, no?»

«Avvelenamento da tubocuranina. Le hanno somministrato della neostigmina qualche ora. Dovrebbe riprendersi a breve.»

John spalancò la bocca.

«E tu me lo dici solo ora?»

Sherlock si mostrò altrettanto ferrato nel mantenere i segreti. «È stato per non allarmarti. Prendilo come un gesto di cortesia.»

L'ex soldato fu sbigottito, ma non rispose all'istante. Si limitò ad analizzare il corridoio, in cerca di una traccia della loro cliente, e poi a sussurrare. «È scappata da un aggressione, ha incontrato te ed è stata aggredita ancora. Questo è troppo per chiunque.»

E il bruno cercò subito di sminuire l'accaduto. «Direi che è stata una sfortunata serie di eventi. Ma ammetto che se esistesse un record per tutto questo, sarebbe sorprendentemente tetro.»

L'ex soldato aggrottò la fronte, sbigottito. «Fossi in te, preparerei un buon discorso su come hai catturato uno dei suoi aggressori. Quando si sveglierà sarà contenta di sentirselo raccontare.»

«Sempre se si sveglierà» dichiarò il detective in modo neutro. Furono gli occhi spalancati dell'amico a farlo rinsavire. «Oh, andiamo, era solo uno scherzo. Non lo fate tutti?»

«Non in questo modo» precisò il medico, mettendo dei paletti. Indugiò un poco prima di riconsiderare quel desiderio di conoscere le dinamiche di quello che era successo. «Puoi imparare dopo a essere normale quanto gli altri. Mi interessa di più sapere per colpa di chi siamo in questo ospedale.»

Il detective, conoscendo la curiosità del collega sorrise appena.

«Si chiama Thomas Darling, un dottorando in chimica. Un ragazzo brillante a detta dei suoi professori. È originario del West Sussex. Nessuna famiglia dietro. Ha vissuto con i prozii fino al raggiungimento dell'età adulta. Vive da quattro anni a Londra, in uno dei dormitori dello University College. Da come ha detto Lestrade, ha di recente confessato i suoi crimini, in seguito a un estenuante interrogatorio da parte di Scotland Yard. Tuttavia...»

Il suo volto sembrò di nuovo alienarsi dalla realtà circostante.

«Tuttavia?» John cercò di sottrarlo al suo mondo interiore.

«Manca ancora qualcosa!»

«Una testimonianza?»

«Il movente, John» obiettò il bruno. «Per qualche incompetente di Scotland Yard basta una diagnosi d'infermità mentale per rendere chiudere il caso, niente di più. Ma ci sono state troppe coincidenze, tutte riguardanti il primo omicidio, l'attentato alla Royal Opera House e una certa Abigail Graves, anche lei ex studentessa dello University. Ho controllato e ho scoperto che Thomas Darlin ed Abigail avevano una relazione. O meglio, loro continuano ad avere una relazione.»

«Una relazione?» John restò sorpreso da quella dichiarazione. «O quella donna è in pericolo o qualcosa non quadra? Nessuno frequenterebbe uno psicopatico con tendenze da omicida.»

«Nessuno tranne che donna altrettanto disturbata» sentenziò Sherlock. «Questi sono documenti che ho appena richiesto. Lestrade li ha sottratti a Dimmock. Si tratta di un caso risalente ad alcuni mesi fa. Una certa Dottie Bell è morta in seguito a dei sintomi abbastanza comuni: crampi allo stomaco, vomito. Sembrava un banale virus, ma dopo solo ventitré ore l'anziana è morta. Dopo aver studiato il caso, i medici si sono accorti che, sempre nel reparto di geriatria, altri pazienti erano deceduti in seguito a complicanze simili. Naturalmente si trattava di gente malata e, considerando che per gli anziani una raffreddore può essere fatale, la cosa è passata inosservata. Eppure c'era qualcosa di strano. Per questo la polizia ha aperto un inchiesta... Inchiesta che però sta per essere chiusa per insufficienza di prove.»

«Non ti seguo!» John cercò di annaspare sotto quella valanga di parole.

«Abigail Graves lavora come infermiera proprio qui. Nel reparto di geriatria. Ragiona per qualche secondo!»

E l'altro così fece.

«Tu pensi che anche lei sia una specie di... assassina seriale?» chiese, pur già conoscendo la risposta.

«Ovvio. Lei è un killer e Thomas Darling voleva dedicarle il suo attentato. Ne sono sicuro...»

La mente di Sherlock si fermò, ma dopo corse rapida, più del vento. Si trattava di due menti omicide perfette nel condividere oscure passioni; due amanti singolari che si sfidavano al gioco del più furbo e si crogiolavano nel fare piani, nell'uccidere per scherzo e, naturalmente, nel fregare la forze dell'ordine.

«Lui si era messo in testa di dedicare qualcosa a lei, commettendo un attentato. E se lei avesse anche cercato di dedicare un qualcosa a lui?» Sherlock gridò di gioia. «CERTO!»

Riprese le quattro carte che Lestrade gli aveva portato poco prima e lasciò che le sue pupille si posassero su tutto quel materiale. Erano sei morti in tutto, tutti elencati in base alla data del decesso: Dottie Bell, Angela Wilkinson, Richard Smith, Lydia Katherine Cook, Ian Carter, Nuncy Drebber.

Dottie, Angela, Richard, Lydia, Ian, Nuncy.

«È un sigla! Era così semplice... Una sigla!» [2] 

John si avvicinò al coinquilino e, con il pollice e l'indice, tirò l'angolo di una delle carte verso di sé per meglio guardare.

«D-A-R-L-I-N. Darling» ripeté il detective, agitato dall'entusiasmo che presse possesso del suo spirito «Thomas Darling, Darling vuole dire anche...»

«Tesoro.» John sfilò il foglio dalle lunghe dita del bruno e lo osservò con più premura. «Ma è incompleta. Manca una lettera!» dichiarò il medico. «L'ultima lettera, la G...»

Una riflessione, come una nube nera, fece ombra sul suo umore. Solo un nome riuscì a riempire quel vuoto prontamente notato. 

«Che assurda coincidenza! Proprio come la G di...»

Sherlock spalancò le orbite a causa dell'apprensione. «Gwendolyn!»

8.

Quando Gwen aprì gli occhi, riuscì a solo a codificare uno sfocato ammasso di colori sin troppo chiari persino per essere classificati. Batté più volte le ciglia, permettendo all'acqua dentro le palpebre di essere riassorbita. Dopo qualche secondo, linee più marcate contraddistinsero il suo campo visivo.

La ragazza, allora, girò per un po' le pupille, per meglio collaudarle. Dopodiché si concentrò anche sugli altri sensi. Mosse leggermente qualche arto, un muscolo del braccio e pure la punta dell'alluce. Infine, annusò l'aria, distinguendo per lo più il fastidioso odore di disinfettante. 

Tutte le folli memorie di quella giornata ritornarono a bussare alla porta della sua coscienza. La rapidità con cui gli eventi si erano susseguiti resero quell'esperienza più assimilabile al frutto di un qualche rimasuglio onirico, un qualcosa di non associabile al mondo reale.

Con la coda dell'occhio, Gwen puntò ai graffi sulle braccia. Sospirò, allora, cercando di non pensare al pizzicore attorno alla pelle ferita e cercando di reprime le lacrime e concentrare l'attenzione sull'ambiente circostante.

«Tutto bene?» Note acute la destarono.

Un'infermeria fece capolino dalla porta, esibendo un capello scuro e modesto quanto la tenuta sanitaria. S'addentrò in camera con garbo e molto tatto. «Sei stata addormentata per tanto tempo. Ma forse desideri riposare ancora.» Chiuse la porta, isolando la camera dal resto della struttura. «Immagino che brutta esperienza. »

La bionda annuì, risparmiando il fiato.

«Ti chiami Gwendolyn, non è vero? È un nome adorabile.»

Gwen non riuscì a sorridere per riconoscere il complimento; preferì continuare a pingere in silenzio come era abituata a fare nelle situazioni stressanti. Non le importò di sostenere la loquacità della donna che, controllando la cartella clinica della sua paziente, sembrò aver cambiato completamente umore.

«È stata la miglior notizia di questa giornata, sentire il tuo nome. Ho pensato fosse un colpo di fortuna.»

Quel modo di tener compagnia scombussolò la ragazza, che sentì addosso la sensazione di un allarme inaspettato.

«Chi sei?» domandò con un filo di voce.

«Nessuno d'importante. Non per te» ripose l'altra, moggia. La calma nella sua voce non sembrò comunicare alcuna rabbia. «Niente ha importanza per chi se ne va. Non avremo più coscienza. Nessun dolore, niente per cui lamentarsi. Tu starai bene, Thomas no. Soffrirà in quel carcere. E io soffrirò senza di lui... ma è troppo tardi, ora che lo hanno scoperto. È tutto finito. Tutto quanto...»

La sconosciuta infilò la mano nella tasca dell'uniforme e tirò fuori una piccola boccetta lunga, stretta e ben imbottita con un contenuto bruno e granuloso.

«Tu...» Gwen nel panico perse ogni forza.

«Ti darò della ricina» affermò l'infermiera. «Thomas l'ha estratta dal ricino. Potresti sentire i sintomi dell'influenza, ma non preoccuparti.» Un sorriso indecifrabile marchiò il piccolo viso ossuto della donna. «Le complicazioni purtroppo sono imprevedibili, ma ho appena ricevuto un consenso speciale, quindi ti assisterò personalmente fino a quando non finirà. Non devi sforzarti. Non ti costringerò nemmeno a parlare...»

«Stammi lontana!»

«Ti ho chiesto di non parlare, altrimenti dovrò sedarti. Hai un assoluto bisogno di riposo. Forse è quello che farò. Dimmi in cosa preferisci la ricina? Nel tè o nel latte caldo?»

Tuttavia, uno scatto metallico echeggiò.

«Per me caffè con due zollette. Ma eviti quella roba, ho sentito dire che fa venire mal di stomaco.» Una voce profonda e calda smorzò l'atmosfera.

Sherlock era sgusciato dentro la stanza come un felino, senza provocare urti o rumori. Fermo, torreggiò dietro la carogna, bloccandole qualsiasi possibile via di fuga. John, appresso a lui, puntò la sua pistola d'ordinanza proprio contro la nuca dell'incriminata, così intrappolandola. Nel frangente, Gwen si riprese dallo stato di apnea che aveva accolto. Ritornò a respirare e, boccata dopo boccata, si rese conto di essere momentaneamente lontana da ogni pericolo.

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Capitolo 10
*** Millicent & Harriet ***


[La lettera G/Il pianto della Banshee]

Il clima ospedaliero, per quanto confortevole, non offriva molte possibilità di svago e Gwen, ricoverata per un avvelenamento da curaro, lo sapeva molto bene. Il cibo insipido e l'immobilità rendevano quell'inusuale soggiorno a Londra un martirio continuo.

La donna si chiese quale fosse la colpa da espiare, il motivo per il quale si era accaparrata un posto in un purgatorio di consulenti investigativi e serial killer dall'oscura psiche contorta. Niente sembrava darle una risposta soddisfacente e non rimaneva altro che lasciare che le ore slittassero lentamente, tra i controlli e il dolore.

Fortunatamente, come un angelo intento a scacciare un po' di quell'inferno fatto di medicinali, flebo e controlli medici, John Watson con la sola presenza, era riuscito a colorare le giornate con racconti e aneddoti relegati al passato.

«C'era una certa Millicent Bucks» disse un giorno, seduto accanto al lettino. «Era solo una bambina del West Sussex. Ma non la lasciava mai in pace. Harriet [1] piangeva, giorno e notte. Non riuscivo più a vederla in quello stato e così ho deciso di fare qualcosa. Nel parco in cui andavo c'era un roseto. Non era molto grande, ma io sapevo come usare i suoi baccelli per estrarre il cetilico. Ho cosparso le vesti di quella piccola peste di polvere urticante... Non riusciva a smettere di grattarsi. Peccato che dopo mi sia lasciato cadere il cetilico secco dentro i pantaloni. Credo sia stata la settima peggiore della mia vita... Be', la settimana peggiore prima di conoscere l'addestramento militare.»

«Polvere urticante nei pantaloni?» La giovane non riuscì a soffocare la ridarella, ma solo a distogliere lo sguardo lucido dalla finestra. «Harriet era una bambina molto fortunata con un fratello come te.»

John fece una smorfia intrisa di sofferenza.

«Può darsi. Non è mai facile essere il più grande in famiglia. Ho cercato di essere un padre per lei. Ma non so ancora se sono riuscito a gestire bene certe situazioni» controbatté. «Onestamente, ci sono momenti in cui mi chiedo se sono davvero riuscito a badare a lei; a impedire che si facesse del male...»

L'imbarazzo riempì il silenzio.

«E perché te lo chiedi?» Gwen si fece ben intendere. Dopotutto, la famiglia in cui era cresciuta non aveva avuto solo un'unica figlia, ma bensì due, due antipodi dai rapporti mal andati. «Ti ascolto da giorni e non riesco nemmeno a concepire come tu possa essere stato un pessimo fratello. Hai fatto tanto per lei. Ed è ammirevole!»

«Come... Come puoi dirlo?»

«Perché, in un certo senso, io sono stata l'Harriet di mia sorella maggiore. E se lei fosse stata come te, se fosse stata buona e disponibile come tu sei stato con tua sorella, tante cose sarebbero state migliori.» Le confessioni furono pronunciate con malinconica descrizione. «Non è stato facile nemmeno per noi, dopo la morte di mia madre. E dopo quella di mio padre, il mondo ci è crollato addosso. Siamo state separate e solo adesso sento il peso dei rimorsi. Mi fa male pensare che ci sarebbe potuto essere un modo per noi due... un modo per restare unite.»

Il medico si sentì compreso dopo la dichiarazione di una donna finalmente così disinvolta da poter cedere a qualche piccola informazione molto più personale.

«Capisco» fece, curioso.

«Hai fatto quello che era nelle tue possibilità, John.»

Un sorriso di rammarico fu indossato da entrambi.

«Forse non è bastato.»

«Non dirlo nemmeno!» rispose lei, cercando di comunicare con gli occhi ammirazione. «Non ho molta esperienza, ma ho imparato che esistono due categorie di persone al mondo. Molti di noi non desiderano essere salvati. Quello che vogliono è osservare gli altri correre in soccorso, provarci. E per questo si mettono in situazioni pericolose.»

John ripensò alle ricadute della sorella, alle chiamate inaspettate e a tutta quella preoccupazione onnipresente durante i fine-settimana. «E dopo? Qual è l'altra categoria?»

Gwen sentì il cuore martoriato dai brutti ricordi. Quello stato d'inconsistente depressione era stato comandato dalle cure di una sorella poco empatica e disponibile. Si erano combattute per anni, scrollandosi di dosso l'un l'altra come insetti.

«Forse quella delle persone che hanno davvero bisogno di essere salvate.» La risposta giunse lenta. «Le riconosci facilmente. Molti non hanno mai qualcuno disposto a correre da loro. E per questo si tirano su le maniche e imparano a salvarsi da soli.»

Pochi attimi di silenzio si dilatarono. Nel mentre, John arricciò le labbra in un secondo sorriso triste.

«Avrei tanto voluto avere qualcuno come te» disse l'altra poggiando la propria mano su quella di uomo così buono.

«E tua sorella? Dov'è adesso?»

«Scarlett si trova lontano, adesso.»

«Tanto lontano?» chiese lui, confuso e inconsapevole.

«Terribilmente lontano.»

John sentì una sintonia con quella donna che, nell'arco di poco, si era come cristallizzata in un'espressione meravigliosamente malinconica. Lui non riuscì a tollerare quello sguardo così lucido e bisognoso di altro conforto.

«E tu?»

Gwen asciugò una lacrima ribelle, illuminando le guance con un sorriso. Le parole dell'uomo avevano un che di calmante. 

«Ho imparato a sopravvivere anche senza supervisione.»

L'ex soldato, allora, ribatté con tenacia.

«Pensi lo farà anche Harriet?»

«Prima o poi imparerà...»

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Capitolo 11
*** Il pianto della Banshee ***


Il pianto delle banshee

Londra, Baker Street

Sherlock passeggiò per il salotto con le mani congiunte dietro la schiena e, completamento privo di materiale con cui dilettare il proprio intelletto, inaugurò una nuova giornata di visite al 221 B di Baker Street. La mattinata, tuttavia, fu ricolma di appuntamenti molto poco eccitanti.

Coloro che erano giunti presso l'abitazione avevano portato soltanto qualche fattaccio scialbo e senza alcun fascino. Le menti criminali del Regno Unito non sembravano aver alcun collegamento con le storie didascalicamente narrate.

L'ultimo cliente – un uomo di mezz'età, alcolista e con problemi d'alitosi – si appollaiò sulla sedia disposto in fondo alla stanza. Con enfasi e un tono burbero, blaterò un'insulsa storia riguardante il come, la sera addietro, qualcuno avesse gravemente ferito il suo bobtail e poi dato fuoco al suo sgabuzzino esterno, così provocando enormi danni. Il tutto mentre lui era addormentato al piano superiore di piccola casa presso la cittadina di Farningham.

Sherlock esaminò attentamente l'individuo, rilevando con attenzione i peculiari dettagli. Ben presto, colse il segno di un'abrasione sulla pelle intorno al pollice e parte del dorso della mano del cliente. Per di più, dei corpuscoli rossastri si erano introdotti nelle unghie dell'indice e del medio.

«È stato lei. Solo che era ubriaco e non ne ha ricordo. Monotono!» La soluzione fu espressa.

Il cliente, faticosamente, si sollevò con la medesima ineleganza di un orso e rivolse uno sguardo corrucciato al bruno, che ancora passeggiava in salotto con aria tediata.

«Lei cosa osa insinuare?» domandò, riscaldandosi.

John, ben ritto dinnanzi al camino e con le braccia incrociate, gonfiò il petto e corrugò la fronte, come per ammonire il comportamento di quel piantagrane. Dopodiché, fece per contraddirlo, ma la voce del collega troncò ogni sua intenzione.

«Ieri le temperature nel Kent si sono abbassate fino a toccare i meno tre grandi. Lei vive in una abitazione in aperta campagna, una casa in pietra molto probabilmente. Ubriaco, ha tentato d'accendere il fuoco. Per questo si è recato nel suo personale sgabuzzino esterno, dove ha preso dei fiammiferi extra large. Completamente incapace di ragionare, ne ha acceso uno, come deduco dalla ferita creata dalla carta abrasiva e dai residui di clorato di potassio sotto le unghie. Per sbaglio ha dato fuoco al legno e, nel panico, è riuscito persino a ferire il cane. Fortunatamente per lei, l'incendio non si è propagato oltre.»

L'uomo subì il peso di quelle parole e, completamente ammutolito, strabuzzò gli occhi a causa della sorpresa. Pettinandosi i baffi, cominciò pian piano a realizzare di essere il principale colpevole di tutti i suoi mali.

«Io pensavo fosse stato quel matto di Gibbs. Maledizione!» disse, affranto.

Sherlock, fermatosi nei pressi della finestra, parlò con fare scocciato. «E invece no, molto rincuorante. Adesso, la prego di andarsene!»

2.

Tutti i possibili clienti non si erano risparmiati nell'infrangere la soglia di sopportazione del detective che, frustrato, cominciò a frugare in ogni pertugio dell'abitazione. Esausto a causa dell'inutile perdita di tempo, si dilettò nello schiantare qualche libro a terra e a insinuare le dita all'interno di ogni spazio ristretto della libreria, dei comodini, persino fra le fenditure di ambedue le poltrone. Inaspettato fu un bisogno che lo bersagliò così tanto da renderlo, in tutto e per tutto, un continuo fremito.

«Quattro clienti e ancora niente» disse il detective. Schiodandosi da un punto all'altro, cominciò a dar segno della propria iperattività. «Troverei più eccitante una giornata tra le mummie del Diogenes Club che ognuna delle loro insulse richieste. Come possono sperare nel mio contributo?»

John con le pupille seguì Sherlock che, freneticamente, si era dedicato alla ricerca delle sue Silk Cut. Senza lasciar passare troppi pensieri per la testa, controllò il coinquilino.

«Cosa stai facendo? Spero tu non stia cercando le tue sigarette.»

Il bruno si girò di scatto e i riccioli neri ondeggiarono sulla sua fronte, sempre più solcata da una sottile vena pulsante. La dolce nicotina, benché solo la più innocua tra le sue droghe, supplicava di essere scovata e consumata.

«Ne ho bisogno, non biasimarmi!»

Dunque l'ex soldato, come era solito fare, si cimentò nell'interpretare la parte della coscienza e cercò di arginare la trepidazione del collega.

«Ti darei della nicotina solo per metterti a tacere ma, fino a quando starò qui dentro, ti toccherà accontentati e rigettare la tua frustrazioni su altro. E per la cronaca, il caso del Weimaraner con il collier di zaffiri, non era poi così male. Per lo meno sembrava interessante.»

«Sì, certo» mormorò l'altro, rimbeccandolo.

John raggiunse il culmine della sua pazienza. Da tempo aveva letto le news giornaliere, aveva guardato la tv, ogni singolo servizio, e aveva persino controllato più volte il telefono, ma senza riuscire a reperire alcuna violenza, né alcuna terribile calamità. Poiché scocciato, si mise presso la vetrata e da lì osservò la gente passeggiare serenamente per i marciapiedi, incurante di qualsiasi rischio latente.

Giacche e cravatte non hanno alcun senso se sotto di loro si nasconde una bestia. È solo questione di tempo...

Presto un aspirante criminale avrebbe fatto la sua comparsa e avrebbe dato a Sherlock il compiacimento tanto anelato. Tuttavia, non potendo sperare in una qualche carneficina, mise le mani in tasca e adottò un timbro pacato.

«Sherlock, di certo non posso scendere giù in strada, e dire alla gente "Senta, non può commettere qualche omicidio? Sa, il mio coinquilino si annoia". Ti consiglio di essere più indulgente con chi cerca il tuo aiuto o passerai i prossimi giorni ad aiutarmi a pulire il frigorifero. Ti ricordo che ci hai lasciato marcire un piede.»

Il detective diede per scontate le parole dell'amico e continuò a perlustrare ogni centimetro del soggiorno, tastando e palpeggiando ogni superficie, da quelle più morbide alle più compatte.

«O potrei passare tutta la settimana a cercare le mie sigarette. È incredibile che tu riesca a pensare a un buon nascondiglio. Giurerei che le hai buttate» dichiarò, per poi indugiare su quella deduzione. «Tu le hai buttate...»

John non riuscì nemmeno a controbattere che un suono secco e ben articolato spezzò la situazione. Due battiti secchi diedero segno di una presenza al di là della porta d'ingresso.

«Rimandiamo a dopo questo argomento. Questo dovrebbe essere l'ultimo cliente...»

Sherlock, inquieto, s'accovacciò sulla poltrona tirando su le lunghe gambe e appiccicandole al busto, proprio come un bambino ammorbato dal tedio. «Se è così, mandalo via!»

L'ex soldato per un attimo sospese le sue emozioni, ma ben presto la collera gli annebbiò i sensi.

Cosa mi porta a sopportare un idiota che non sa fare altro che infantilizzare continuamente ogni suo comportamento?

«Spero tu non dica sul serio» disse. I panni del genitore autoritario gli stettero sin troppo scomodi, ma lo stesso si posizionò accanto al coinquilino con l'indice puntato. «Ascolto le tua lamentele da troppo tempo. Adesso, io aprirò la porta e lascerò entrare il cliente. Mi auguro tu abbia almeno la decenza di ascoltare cosa ha da dire.»

Toc-Toc-Toc.

E altri tre colpi, molto più decisi, echeggiarono nella camera.

Sherlock, come per allontanarsi da tutta quella situazione, si acciambellò ulteriormente, voltandosi esclusivamente verso il camino pieno di cenere. Nel frattempo John, ignorato quel comportamento puerile, si indirizzò alla porta e la spalancò, con un gesto rapido. Quando mosse il braccio, la prima cosa che colse fu la familiare e sempre sorridente Mrs. Hudson.

«John, caro» disse quest'ultima.

«Mrs. Hudson... prego!»

Il medico si fece da parte e, dopo un cenno, permise alla donna di entrare.

«Spero di non aver interrotto qualcosa?»

«No, non ha interrotto proprio niente. Glielo assicuro.»

L'appassita proprietaria del 221 B camminò dentro le quattro mura, facendo da strada a una seconda figura, che prima si era rintanata nella parte dell'atrio più nascosta. La seconda donna entrò a passi sicuri all'interno del soggiorno superiore del 221 B di Baker Street, ben mostrando una florida età e un'apparente risolutezza. Si mise ferma, lasciando agli altri notare il suo crine biondo e luminoso quanto una scia di oro colato, gli occhi grandi quanto chiari, e un viso delicato, seppur arrossato da qualche inestetismo.

Mrs. Hudson aggrovigliò le dita delle sue mani rinsecchite. «Prima che possiate cacciarmi, sono qui solo perché questa dolce creatura era così smarrita. Vi stava cercando e mi sono sentita in dovere di accompagnarla.»

Sherlock pescò quelle parole con l'orecchio attento e, ancora accovacciato, mosse leggermente la testa e puntò l'occhio ceruleo sull'ingresso per meglio scorgere colei che si era insediata nello spazio circostante. La bionda, al quanto sorpresa, mirò prima al medico e solo dopo alla strana creatura raggomitolata sulla poltrona. Espulso l'attonimento, fece un cenno con la testa, limitandosi ad un brusco:

«Mi scuso per l'intrusione, ma l'appuntamento era per oggi. Ho le indicazioni nella mia borsa. E anche l'orario dell'incontro.»

John, che per un istante parve essersi congelato, riacquistò mobilità e asserì. «Sì certo, lo ricordo.» Dopodiché rispose anche alla sua affittuaria. «Ha fatto benissimo, Mrs. Hudson.»

«E lo credo. Sono l'unica che ha ancora la decenza di occuparsi degli ospiti. Sa cosa le dico? È meglio che prepari per tutti qualcosa di caldo con cui scaldare la pancia. Questo freddo è un tormento per le mie povere ossa. Buon Dio, quando finirà?»

Detto ciò, l'anziana si nascose nella cucina, s'attinse a prendere una scatolina di tè nero e dopo mise il bollitore sul fornello meglio pulito. Nel frattempo il medico, dedicandosi alle presentazioni più formali, gonfiò la voce e porse la mano in attesa di una semplice stretta.

«Buongiorno, sono il dottor Watson. Per intenderci, quello che ha risposto alle sue e-mail. Se non sbaglio lei è...»

La ragazza strinse la sua mano, o meglio, stritolò le sue ossa con energia. «Piacere, io sono Miss O'Ghallager, Fiona O'Ghallager. E sono qui per Mr. Holmes. Come le ho comunicato tempo fa, ho un assoluto bisogno di un buon professionista che indaghi per me e con la massima discrezione.»

John, provato dall'energica stretta, portò la mano sul fianco e cominciò a scuoterla un poco per scrollare un po' di quel dolore.

«Be', chi viene qui, di solito, cerca le stesse cose. Queste richieste non sono una novità» disse. «Sherlock?»

Il detective, come ritornato al mondo, si prese la briga di girarsi, mostrando il suo aspetto alla cliente. Poggiato lo sguardo su di lei, cominciò a reperire ogni sorta d'informazione. Era Donna sulla trentina e irlandese, di origine nobile. Impegnava il suo tempo con una lunga serie di passatempi. 

Calli da pianista, un iperlordosi lombale causata dalla danza classica; ha i polsi pallidi tipici del tennista e un costoso abbigliamento molto somigliante allo stile di un'amazzone. Ricca e disoccupata...

John, nel frattempo, cedette a qualche presentazione. «In cosa non te ne fossi accorto, lei è... »

«Ho sentito, John. Non soffro ancora d'ipoacusia» dichiarò l'altro, rapido e tagliente come il colpo di una spada. Si mise composto e assunse un tono decente. «Spero per lei che la sua storia sia interessante. Gli altri clienti mi hanno annoiato e non sono una buona compagnia quando mi annoio. Quindi, si sbrighi e mi dica tutto.»

Un'ultima possibilità fu tutto ciò che l'uomo concesse alla donna. Tuttavia, quest'ultima sembrò modificare il suo atteggiamento e la sicurezza ostenta si ridimensionò fino ad estinguersi del tutto.

«Non credo che la mia storia sia noiosa. A essere sincera, è anche troppo incredibile per essere raccontata a un normale agente. Proprio per questo ho sempre pensato a lei come mio detective privato. Io... non sono sicura che...»

«Mi ascolti. Qui non deve sentirsi in imbarazzo, o preoccupata. Le assicuro che siamo abituati un po' a tutto.»

Il medico la incoraggiò. La donna intanto prese una boccata d'aria e il coraggio con due mani. Ciononostante, le parole che desiderava staccare dal bocca sembrarono perire prima ancora di toccare la lingua. Il timore di fare il passo più grande della gamba con una storia così straordinaria da sembrare un mucchio di fandonie, giunse. Malgrado tutto, lei riuscì a dare un inizio al suo discorso coinciso.

«Sì. Be'... Io abito a Coleford, nel Gloucestershire, nei pressi della Foresta di Dean [1]. Tutta la mia famiglia si è staziata in quella zona da anni. La nostra permanenza è stata abbastanza tranquilla fino al marzo di due anni fa. Quando mio padre... Be', lui... ha deciso di suicidarsi.»

Fiona irrigidì il busto dopo la propria confessione, mentre John al silenzio predilesse una la formalità.

«Mi dispiace molto per la sua perdita, Miss O'Ghallager.»

Sherlock, indifferente a ogni garbo, sorrise appena.

La ragazza, sempre più tesa, ben face intendere che la precedente dichiarazione era solo la foglia di un intero cespuglio. Il resto presto sarebbe giusto sotto forma di frasi incerte e titubanti.

«Mi ha parlato di un storia incredibile. Se c'è qualcosa a cui tutti credono è un banale caso di suicidio. C'è dell'altro, a quanto noto. Continui pure a parlare» ordinò il bruno, leggendo l'irrequietezza della cliente.

Fiona deglutì e, con lo sguardo sempre più sfuggente, continuò la sua storia. «Sì, be'... Il giorno prima che accadesse, è successa una cosa... una specie di... apparizione.»

«Che genere d'apparizione?» domandò l'altro, intrigato dal racconto.

Lo donna, completamente turbata dal timore di non essere creduta, diede vita a un inutile giro di parole atto a somministrare con delicatezza ogni insolita informazione.

Non è qualcosa in cui ci s'imbatte tutti i giorni. Si tratta di un'apparizione molto rara. Lei crede all'impossibile, Mr. Holmes?»

Impossibile. Sherlock gustò il suono di questa parola che nient'altro era se non il limite tanto bramato, il confine da recidere per mezzo di ogni straordinaria capacità mentale.

«Preferisco credere a tutte le cose possibili che si nascondono dietro ciò che sembra infattibile, Miss O'Ghallager» specificò.

Fiona annuì e, presa da una scarica di fiducia, disse: «Spero lei sappia cosa sia una banshee. Ne ha mai sentito parlare?»

3.

Mrs. Hudson verso il tè bollente nelle tazze, colorando ogni fondo di porcellana con l'ambrato liquido fumante e aromatizzò l'atmosfera, rendendola serafica. Ricoprì un piatto con dei sandwich con burro salato e cetriolo; infine, prima di portare tutto ai suoi inquilini, ripescò dal disordine la sua bella zuccheriera.

Fiona, seppur ritemprata da tutti quegli onori di casa, non volle nemmeno mandar giù qualcosa e, perciò, si limitò a prendere la propria tazzina e lasciare che le dita assorbissero il calore della superficie bianca e traslucida. Bevve un sorso per fare compagnia e, in seguito, mise da parte l'amaro tè.

John, disteso sul sua poltrona, si lasciò prendere dal desiderio di conoscere. «Una banshee? È così che ha detto?»

La donna, più sicura e calma, annuì.

«Noi abbiamo sangue irlandese, dottor Watson. Siamo molto legati alle nostre tradizioni. E qualcuno anche alle nostre leggende. La mia è una famiglia antica e molto superstiziosa. Proveniamo da Tulach Mhór, una cittadina posta nell'attuale contea dell'Offay. Ci siamo trasferiti in Inghilterra circa cinquant'anni fa, ma non è qui che sono le nostre radici.»

John cercò di rimuginare sul termine prima udito. «Banshee. Forse ho già sentito questo termine. È fantasma? O una specie di... spirito indemoniato?»

«Non proprio. Si tratta di una figura appartenente al folklore celtico. Per l'esattezza è ritratta come una donna con un abito nero e la faccia coperta. Ogni famiglia irlandese è legata a una banshee e quando un membro s'imbatte in lei o persino nel suo pianto... be', è un presagio, un cattivo presagio...»

«Un presagio di morte.» Il bruno irruppe, freddo.

«È esatto!» confermò la ragazza.

Sherlock rimase composto e concentrato, ma dentro al corpo sentì l'eccitazione divampare come un fuoco costantemente alimentato. «Suppongo, quindi, che suo padre prima di morire abbia malauguratamente fatto questo tipo d'incontro. Tuttavia, anche lei ha assistito a quel fatidico momento.»

Fiona spalancò gli occhi e dischiuse le labbra. 

«E lei come lo sa?»

«È cresciuta in tempi troppo moderni per credere a questo genere di situazioni. Le leggende appartengono agli anziani e ai pazzi. E se non sono loro a tramandarle, si disperdono come nebbia al sole. Ha parlato con sicurezza e non si è mostrata scettica. Se ci crede è perché ha toccato con mano ogni cosa.»

La donna sentì di poter esporre le sue impressioni.

«Lei è davvero efficiente, Mr. Holmes!»

Sherlock congiunse i palmi, come in preghiera, e disse: «Non sarebbe venuta qui, tanto per cominciare.»

4.

Londra, University College Hospital.

Gwen, dopo un lungo periodo di stallo trascorso in ospedale, era riuscita ad acquisire sessioni di sonno meno ammorbate dagli incubi e dalle brutte sensazioni. La resilienza, sia fisica che psicologica, era cresciuta con il passare del tempo. Un solido aiuto fu ampiamente offerto dal buon John che, essendosi sentito in dovere di aiutare una cliente, quasi ogni giorno era andato a informarsi sulle sue condizioni mediche, portando di tanto in tanto qualche attimo di compagnia.

In poco, l'ex soldato si era addossato il ruolo di consolatore e spalla su cui piangere nei momenti bui. La ragazza, allo stesso tempo, si era costretta a far uscire tutto il malessere e a combattere contro la paura di quei ricordi con chiacchierate e pianti catartici. Solo in un secondo momento, era riuscita meglio a elaborare la triste esperienza mettendo su di un foglio digitale l'accaduto.

John, assieme a lei, scrisse dell'attentato e di quella folle corsa all'ospedale. Tutto sommato, era riuscito a tirare fuori un pezzo ricco di particolari e pronto per la pubblicazione nel suo celebre blog; era necessario solo un degno titolo.

«Una questione di chimica.»

Gwen, con la schiena poggiata sul cuscino, assottigliò gli occhi e si mise a riflettere. «L'amore è una questione di chimica.»

Il titolo scelto si mostrò perfetto, poiché era capace di connettere tutti i punti del racconti: il passato dei due scaltri assassini in erba e una storia d'amore dai toni lugubri.

«I titoli non sono mai stati il mio forte. E tra i miei lettori c'è anche chi li trova dozzinali e poco pertinenti al vero» disse il medico, premendo sulla tastiera del portatile poggiato sul letto stridente.

«Ho una mezza idea di chi possa essere.»

John distolse lo sguardo dallo schermo e lo rivolse a lei. «Faccio finta di ascoltarlo da anni e credo che la cosa mi abbia risparmiato un'ischemia cerebrale da stress. Per fortuna ha un caso interessante, adesso. Lo terrà impegnato per un po'.»

La frase risultò concisa ma e ben lasciò intendere a Gwen il come quell'uomo, nonostante tutto ciò che era successo, si fosse già prodigato nel cercare un altro crimine con cui far cigolare gli ingranaggi nella testa.

«Si sta già occupando di un altro caso. Be', potrebbe alimentare il paese con tutta quell'energia» dichiarò la donna, per poi continuare. «Questo significa che mi rimanderete nello Yorkshire, non è così? Non gli interessa affatto scoprire cosa mi è successo. Preferisce pensare a indagini più interessanti.»

Le lacrime inumidirono gli occhi neri e l'ex soldato rispose.

«Sherlock non rinuncia mai a un caso che gli piace. È troppo orgoglioso per farlo. Ma dopo quello che ti è accaduto, ha preferito distrarsi con degli altri clienti. Tu hai bisogno di tempo per riposare e Baker Street non è un posto abbastanza sicuro.»

«Come se casa mia lo fosse. Non sarei qui altrimenti.»

La donna si mostrò decisa nel rendere chiara la situazione ed esprimere tutto il disagio nato nella sua mente dopo una mezza giornata di prigionia forzata. Il medico, d'altra parte, non resistette a quel pianto e pose una domanda.

«Prolungheresti ancora la tua permanenza al 221 B?»

«Dopo quello che ho passato, passerei le notti anche sotto i ponti del Tamigi, ma mai nello Yorkshire. L'ultima aggressione è stata abbastanza per me. E non ho intenzione di tornare a High Bradfield da sola.»

La sua espressione supplicante ben si amalgamò a quei tratti innocenti, sprigionando un'ondata di compassione. John non riuscì a resistere a quella preghiera silenziosa e, comprendendo quel terrore, cercò di edulcorare le circostanze.

«Sai bene che puoi restare con noi. Finché ci sarò io, farò in modo che non ti succeda nulla. Tu cerca solo di rimetterti.»

Il medico parlò con fare sincero e subito notò la bocca della sua protetta allungarsi in un sorriso grato. Per poco non cedette al desiderio di toccarle le spalle, accarezzargliele e sentire rimbombare dentro al petto i battiti mossi dall'imbarazzo.

Ricorda che ha solo ventiquattro anni. Non puoi permetterti certi pensieri.

Non approfittò mai del momento di debolezza, ma qualcun altro con tanta caparbia lo fece e senza nemmeno rimuginare tanto. Gwen allungò la mano e la fece aderire a quella dell'uomo. Mosse le dita, solleticandone il dorso e poi il palmo in segno di gratitudine per la tanta gentilezza. Infine, rese lo sguardo languido, lasciando che la labbra articolassero un sentito «Grazie!»

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Capitolo 12
*** La cena ***


La cena

1.

Londra, University College Hospital.

L'adolescenza per la piccola di casa Blomst non era mai stata bella quanto un cielo azzurro, ma tetra quanto le plumbee mattinate della campagna inglese. Persino il sole si era fatto freddo durante il tragitto quotidianamente intrapreso per giungere alla Bradfield School, un mattone bianco in mezzo a tondeggianti collinette ricoperte da immensi tappeti di morbida erba.

Le lezioni erano sempre state le stesse e le persone erano sempre state le stesse, spente nelle loro ordinate uniformi scure e nel loro camminare lento durante le rapide pause concesse dal personale. In quel periodo, non era mai esistito migliore rifugio di un parco-giochi abbandonato adiacente alla struttura, un piccola porzione bruna e trafitta dalle metalliche aste di qualche altalena cigolante. Proprio su quel sedile scrostato Gwen era solita appoggiarsi per meglio tenere la presenza lontana dalla chiacchiere dei suoi compagni e dal dinamismo delle comune giornate scolastiche.

La solitudine forzata era sempre stata un'arma vincente dinnanzi a tutto il trambusto di emozioni e quel contatto con altri coetanei. Molto meglio era stato riuscire a reperire una scappatoia e cedere solo allo stridente suono dell'altalena, al cantare malinconico della pioggia.

Nessun amicizia era mai riuscita a scoccare la scintilla all'interno dell'anima della ragazza, più che tendente a lasciare mascherati i propri indistruttibili disagi. Da sempre era stata etichettata all'interno della famiglia com un essere totalmente differente da quello avrebbe dovuto essere, la spina di un fiore e non il bel petalo delicato.

L'autostima si era consumata sotto le critiche della sorella maggiore e molto arduo era stato agognare alla bella sensazione della fiducia. Tutto si era tramutato in un infinito attimo ricolmo di tristezza e poche erano stati gli sprazzi dell'adolescenza desiderata. Riuscire a conquistare l'attenzione di un ragazzo era stato un qualcosa di inaspettato quanto il ghiaccio nei deserti californiani. Andrew Radcliffe – detto Kermit, la rana – era sembrato un ottimo amico durante quel quindicesimo anno di esistenza, ma solo per un periodo limitato.

Presto le bugie erano giunte e si erano tramuta in pressioni, le pressioni in un insopprimibile senso di colpa e il senso di colpa in scelte discutibili. Gwen era stata solo una preda perfetta, poiché attaccabile e constante bisognosa di affetto. Era stato molto facile manipolarla e renderla una bimba obbediente e pronta a rischiare qualsiasi cosa per trattenere quel poco di amore mai raggiunto nel corso degli anni.

Gli errori erano sopraggiunti come una condanna e, quando quell'insano rapporto si era finalmente dissolto in ricordi dolorosi, non era rimasto molto. La ragazza si era data mentalmente della stupida e, accettando le ferita, si era imposta di dimenticare l'accaduto e – dopo il giusto tempo – anche ad accogliere tra le braccia la compagnia notturna di uomini appena conosciuti per semplice passatempo.

L'adolescenza si era dissolta e anche i suoi problemi avevano lasciato il posto alla terribile età adulta, agli studi e alla carriera da intraprendere. Tuttavia, ancora complicato era riuscire a porre la preziosa fiducia in qualsiasi persona esistente. Il destino, sicuramente, non era riuscito a tenere in conto il passato della donna e le aveva elargito l'ennesima opportunità, un nuovo pacchetto da scartare.

Di certo John Watson, tra tutti i pacchi, non era il più allettante: forse la sua carta, per quanto ancora intatta, era troppo usurata dal tempo e il fiocco in cima e si era disfatto. Il contenuto, però, era un ottimo sostegno a cui aggrapparsi in quei giorni di follia.

Gwen non era riuscita a ignorare l'ossitocina, la dopamina e tutte le altre sostanze chimiche che si erano diffuse nella testa del suo medico scatenando tremoli, dilatando le sue pupille, accelerando le palpitazioni. Tutti i sintomi dovuti alla fase di una prima infatuazione si erano palesati.

E se gli dessi corda? 

Il dubbio rese la donna frastornata. Tale condizione, però, scemò nel momento in cui l'imputato, John Watson, comparve alla porta della asettica stanza ospedaliera, macchiando con le sue vesti scure il freddo bianco dell'ambiente circostante.

«Sono venuto a prenderti. Come promesso» disse lui schietto, reggendo una busta scura e contenente e materiale soffice e colorato, abiti lanosi e caldi.

«È la mia ricompensa per essere stata una buona paziente?» chiese Gwen, sorridendo.

«È gennaio e siamo a Londra. E si suppone che faccia freddo a Londra... a gennaio.» John andò presso la donna e le porse la busta, con il suo consueto modo di fare impacciato. «Potrei lasciarti camminare per Londra con il pigiama sanitario, ma sarebbe una pessima idea.»

«Molte grazie» disse la donna, divertendosi a scandire con tono ironicamente pomposo ogni fonema. Dopodiché prese la busta penzolante e ne ispezionò con attenzione il contenuto. «Perfetto... Puoi aspettarmi fuori, adesso. Sai, dovrei cambiarmi.»

«Oh, sì. Certo.» L'ex soldato abbandonò la sua condizione da uomo distratto. Infine, s'affrettò nell'abbandonare la stanza il prima possibile e con falcate troppo grandi persino per la sua bassa statura.

2.

Londra, Old Park Line.

Tra i tanti ristoranti giapponesi, il Nobu London era sicuramente uno dei più gettonati della capitale inglese. La sua atmosfera soft sembrava emanare tranquillità a qualsiasi uomo varcasse l'ingresso della costruzione. L'interno, effettivamente, era tinteggiato da una luce calda e soffusa che riempiva le pareti e dava splendore agli ampi tavoli circolari, fiancheggiati da estrosi divani tondeggianti. Per di più, articolate ramificazioni di ciliegio, si arrampicavano fino al tetto, per poi cingere gli angoli di ogni camera. Una maestosa raffinatezza, di certo, glorificava ogni singolo spazio, dalla possente zona bar alla sala principale, addobbata con peculiari mosaici perlescenti.

«È lussuoso più dentro che fuori.» Gwen, nei suoi abiti scomposti e minimalisti, sentì l'impellente necessità di fuggir via e abbandonare quell'ambiente così opprimente.

«Forse un po' pretenzioso?» commentò John, del tutto a suo agio nonostante l'abbigliamento sciatto e poco consono a quel luogo.

Un dubbio destò la mente della donna, che era sin troppo consapevole degli scarsi guadagni sia del detective che del medico. Entrambi campavano con il reddito dei singoli casi e, molte volte, si erano ritrovati a rifiutare persino del denaro extra dal parte di un misterioso benefattore del Diogenes Club.

«Devo proprio chiedertelo. Possiamo realmente permettercelo?» domandò lei, soffiando le parole scherzose con una astuta discrezione. «Sai, le mie ferite mi impediscono di scappare, anche se necessario.»

«Immagino si spenda molto qui» confermò l'uomo tranquillamente. «Ma scappare è fuori questione. Per questa notte ci accontenteremo di mangiare in questo posto.»

Non aveva mai messo piede al Nobu e non era sua intenzione farlo, ma il destino aveva voluto ciò e la combinazione degli eventi era stata irrefrenabile, particolarmente insolita.

«Ne sei davvero sicuro? Niente piano di fuga?» chiese Gwen, sempre più perplessa. «Mangiare a casa era così inopportuno, stasera?»

Pose le domande, senza più nemmeno domandarsi il perché scegliere proprio quell'esuberante ambiente.

John prese coraggio e s'addentrò nella sala principale, invitando la donna a seguirlo tra la clientela ben agghindata per un'occasionale cena nel Mayfair, quartiere agiato e pieno di lussi. Passo dopo passo, mise su una semplice spiegazione.

«Sherlock ha portato dei campioni dall'obitorio e adesso il frigorifero è pieno di carne... carne che non mi piace definire commestibile. Be', a meno che...»

«A meno che non mi trasformi in una delle creature di George Romero.» [1]

«Sì, hai colto nel segno» aggiunse John.

Gwen non amava la carne e parte del suo pallore era dovuto a un leggera anemia causata dalla carenza di ferro e dalla discontinua consumazione di proteine animali. Il filetto alla Wellington era la sua unica eccezione e, di certo, non si sarebbe piegata all'antropofagia.

«Che mi dici Mrs. Hudson? Il suo frigo è sempre pieno di cibi surgelati. Potremmo chiederle qualcosa da scongelare.»

«Non credo. Stasera ha la serata di Poker con un suo... con il panettiere. Non tornerà prima di domani mattina.» John si sedette presso uno dei tavoli laterali e incitò la donna a fare lo stesso. «Ma per quanto ne so, questo è l'unico luogo dove chiuderanno un occhio, considerando che Sherlock ha lavorato a un caso ed è riuscito a tirare il proprietario fuori da grossi guai. Lo ha salvato da un'accusa d'omicidio premeditato.»

La bionda piegò le labbra, lasciando esposta la sua dentatura perlacea. Dopo la zuppe insipide, patate lesse e puré di carote, sentì la forte necessità di ripagare il suo stomaco con piatti calorici e saporiti. La cucina giapponese, dopotutto, era un buon compromesso dopo giornate di digiuno e cibo ottenuto clandestinamente.

«Tu stai parlando di un pasto gratis.» Le iridi nere caddero sui camerieri e i loro piatti ricolmi di prelibatezze come tartare di salmone, succulenta carne d'anatra caramellata e gamberi con salsa. «Sicuramente un ottimo pasto gratis.»

La ragazza si sistemò come meglio poté. Cercò di portare qualche abbondante ciocca dietro l'orecchio, stirò con le mani il maglione e arricciò le maniche con precisione millimetrica. La consumata stoffa informe e dalla dubbia origine, soprattutto se paragonata alle griffata seta delle altre clienti. John non mancò di osservare il comportamento dell'accompagnatrice, che intanto lanciò rapide occhiate sul vestiario di qualsiasi figura femminile. 

«Stai bene» farfugliò, fingendo disattenzione.

Gwen inarcò le sopracciglia, ben esternando il suo ragionevole disappunto.

«Oh, le tue parole sì che mi danno conforto» scherzò, leggermente delusa, ma quella affermazione così innocua assunse un altro significato. Se non fosse stato per la clemenza del medico, nemmeno avrebbe avuto di che coprirsi. «Oh, non che stia dicendo che... tu sei stato gentile... molto gentile e...»

John rimase impassibile, sino a quando la cameriera giunse con un tablet, una bella camicia di seta e tanta cortesia.

«I sini-ori ordinano?»

Gwen rimase interdetta e, ciancicando scuse, srotolò rapidamente il menu accuratamente richiuso come un'antica pergamena decorata con idiomi. «Mi imbarazza ammetterlo ma non sono mai stata in un ristorante giapponese.»

John, in quel preciso momento, aggrottò la fronte e compensò alle mancate richieste con un dito sul foglio spesso. Ordinò i pochi sapori nipponici a cui era abituato ma, poco dopo, la superficie legnosa fu imbandita con altre pietanze ricche e appetitose. Sulla porcellana candida erano state depositate prelibate tipologie di sushi, anguilla caramellata, tempura, tentacoli di polipo, zuppa d'aragosta, sashimi di branzino, tofu e gelato al tè verde.

Ignorando tutto quel cibo, già posizionato sul legno, una secondo cameriere mosse passi svelti verso Gwen e il suo accompagnatore, poggiando sul poco spazio superstite, un pregiatissimo vassoio esotico con sopra due bicchieri, una delicata teiera e una larga bottiglia contente un fulvo liquido trasparente.

«Omaggio della casa, per Mr. Sherlock Holmes» disse il cameriere, ricalcando un perfetto accento britannico e, nel frattempo, cimentandosi in un tipico inchino orientale.

«Quanto era grossa quell'accusa di omicidio?» farfugliò ironicamente Gwen. «Conoscendo la dieta del tuo coinquilino, questo mi sembra incredibile.»

Sherlock Holmes e il suo collega di certo non avevano casseforti ricolme d'oro e gioielli. Ciononostante, erano molto conosciuti tra i londinesi come dei supereroi di un contesto quotidiano.

«Tetradotossina. Una delle neurotossine più mortali al mondo. È contenuta nei pesci palla. Qui li servono, dopo averli sfilettati con attenzione. Gli incidenti capitano.» John afferrò il collo della bottiglia e agitò il suo ambiguo contenuto, così da passarlo a un attento giudizio. «E questo?»

«Ume-shu» rispose il cameriere, gentilmente. «È succo di prugna!»

«Succo di prugna?» domandò una Gwen, titubante.

Analizzò con attenzione il liquido incriminato, ben constatando che qualsiasi cosa esso fosse, si discostava sin troppo dal tipico consistente succo di frutta. Quella bevanda era ambrata, cristallina e terribilmente assomigliante a un buon bourbon americano.

Il giapponese, prima di licenziarsi da quella situazione, aggiunse un semplice: «Bisogna metterci dentro l'o-cha, il tè...»

La donna presto scoperchiò la teiera, sprigionando un caldo vapore aromatico che ben simboleggiava le più preziose fragranze di un Sol Levante ancora pregno delle sue antiche tradizioni.

«Sì, penso di aver capito» confermò, seguendo con il naso quella nuvola profumata e lasciandosi coccolare dal torpore. Lesta, prese i bicchieri, ci versò il tè caldo e, infine, aggiunse l'ume-shu.

«Subito al dunque» farfugliò l'ex soldato.

«Niente brindisi» dichiarò lei infine, trascinando il minuscolo boccale verso l'altro commensale apparentemente perplesso e poco disposto a sperimentare dei sapori sconosciuti.

«Be', se proprio ci tieni» disse lui stranito, portando alla bocca quella calda bevanda aurea.

Le loro lingue, in breve, s'impregnarono di un liquido estremamente zuccherino, ma allo stesso tempo piacevolmente acidulo e con un retrogusto simile a quello del dolce vino bianco francese. Il bruciore grattò le loro gole, testimoniando la presenza di una buona percentuale alcolica.

«Oh, questo non è succo di prugna!» affermò Gwen, roteando giocosamente il bicchiere.

Dopo molto tempo, la sua bocca aveva accolto un po' di ottimo alcol che, scendendo, aveva intorpidito il suo esofago e cominciato a sciogliere le sue membra, regalandole una sensazione da tempo assopita sotto la professione, gli impegni e le responsabilità.

Sempre più desiderosa di bere la bionda cinse con le dita il vetro freddo e liscio, ma John la bloccò, immobilizzando delicatamente la sua mano per poi allontanarla da quel nettare ambrato.

«No. Non è succo di prugna. E preferirei che non ne bevessi ancora. Non potrai più prendere i tuoi antidolorifici e passerai una... pessima nottata.»

La ragazza sbuffò e riportò con sveltezza il soave liquore a sé.

«Da quel che ne so, anche l'alcol sa essere un buon antidolorifico. Dicono sia anche migliore del paracetamolo. E alla fine, è solo per questa notte» disse, esibendo un che di supplichevole. Euforica, fece colare il liquido nel proprio bicchiere di scintillante porcellana.

Concedersi un bicchierino era per John Watson un'abitudine non perfettamente consolidata nel tempo e questo perché l'idea d'imitare il cattivo esempio della sorella lo incentiva più volte ad astenersi dal consumare troppo alcol nell'arco delle settimane lavorative. Eppure, quella sera, l'irrefrenabile voglia di bere aveva avuto la meglio su di lui e ben presto la dolce bevanda giapponese aveva cominciato a giocare con i suoi sensi, sempre più confusi e alterati. 

John cercò di serbare tutta la lucidità che gli era rimasta e, come l'adulto della situazione, tenne stretta a sé il corpo di una Gwen barcollante a causa di passi tremolanti. Il cosiddetto succo di frutta si era rivelato qualcosa di ben più pungente: un forte distillato ricavato dalle acerbe prugne del Giappone, una bevanda che ben si accompagnava al dessert, ma che poteva essere devastante se consumata senza dei limiti.

La cliente era riuscita a mantenersi sobria per solo metà pasto, ma poi aveva cominciato ad accusare la prima sintomatologia dell'alto tasso di alcol nel suo sangue. Il distillato, purtroppo, aveva completamente annebbiato ogni sua capacità, sciogliendole la sua lingua e regalandole risolini incontrollabili. Persino sorreggersi autonomamente divenne arduo e la ragazza fu costretta a premere la testa e il busto sull'ex soldato che si fece, in tutto e per tutto, un bastone umano.

Entrambi arrancarono in direzione della stazione metropolitana di Green Park, fendendo gruppi di gente che, bighellonando, rivestiva ogni singolo centimetro del marciapiede. Incurante dei turisti e dei comuni londinesi, John continuò a muoversi, cingendo con il braccio la vita dell'accompagnatrice che, con il solo respiro, solleticò il suo collo.

«Tutto bene?» chiese, notando la sonnolenza della donna.

Gwen sorrise e, con uno sguardo estasiato, schiacciò la guancia sulla spalla del medico. «Sei così gentile, tu... a preoccuparti per me» biascicò lei, quasi miagolando. «Non sei come Kermit, la rana... non lo sei. Tu sei come... Non lo so come sei, sei... Tu... Tu...»

Comprendere di cosa la donna stesse blaterando, era troppo difficile per John, che preferì ignorare quelle sue folli e scombinate frasi dall'inintelligibile senso. Si limitò a soffocare una risata e a stringerla ulteriormente, per poi asserire:

«Niente più alcol, Gwen... per molto tempo. Gli antidolorifici...»

Lei sorrise e i suo occhi scuri catturarono una luce tutta loro.

«E non sei nemmeno come il tuo schizoide» continuò, strusciando il naso sul cappotto di lui.

I pensieri si rimestarono nella sua mente, lasciandole poco meno che tracce mestiche a cui aggrapparsi con le parole. Una totale confusione disorganizzò il suo linguaggio, le sue emozioni e le sue riflessioni e Gwen, abbandonando ogni decoro, cominciò a blaterare come se niente fosse. Dopodiché, lanciò le pupille all'uomo, ricominciando a sogghignare in modo incontrollato.

«Gwen», la chiamò l'ex soldato, allertato.

Senza alcun segnale, il cielo tuonò rabbioso e cominciò a espellere dalle nubi gocce sempre più copiose. La pioggia in un istante ritornò a inumidire le strade, per poi affogarle sotto litri di acqua. Londinesi e turisti cominciarono a correre, cercando riparo e persino John, per quanto preparato ai capricci del clima inglese, si comandò di prendere sotto controllo la situazione per salvaguardare la cliente troppo ebbra.

«Torniamo a casa» ordinò prima di trascinarla sotto alcuni scorci riparati dai balconi e dai margini dei tetti.

Nel momento in cui i tuoni si ricongiunsero alla terra per mezzo di crepe folgoranti, fu la ragazza a spingere lui dentro una cabina telefonica, senza prima dire parola, né esporre alcun piano. Il medico, in un battibaleno, si ritrovò dentro quello spazio esiguo, fradicio dalla testa fino ai piedi e con ancora addosso la confusione.

Gwen poggiò la schiena sulla stretta parete di quello spazio e cominciò a gonfiare il petto umido per riprendere fiato e a stirare il collo per poggiare la testa su di una superficie abbastanza solida da reggerla. Nonostante il turbinare di idee e sensazioni, si rese conto di quanto il suo fisico fosse premuto dalle braccia dell'ex soldato.

«È tutto okay?» farfugliò, gentile.

Lui ignorò i loro corpi uniti dal contatto o, almeno, tentò di farlo.

«Oh, sì... diciamo di sì» rispose, impacciatamente.

La ragazza assunse un'espressione ingenua e, nonostante la lieve sensazione di colpevolezza. «Ti faccio sentire in imbarazzo.» Si aggrappò al petto del medico, sbattendo le ciglia come un cerbiatto. «Non voglio farti sentire in imbarazzo.»

L'uomo deglutì e, per un secondo, si distaccò da quello sguardo melenso, così dannatamente intrigante nella sua semplicità.

«Sul serio. Nessun imbarazzo.»

Gli occhi di lei si assottigliarono.

«È perché ti piaccio, no?»

L'uomo sembrò congelarsi nel tempo e nello spazio, ma il suo battito accelerò, pompando il sangue e scaldandogli le guance. Per quanto avesse cercato di negare quelle sensazioni così eclatanti, il sentire quelle parole sgusciare fuori lo rese capace di realizzare i fatti: di essere stato troppo tempo senza Mary e di provare attrazione per un'altra donna.

«Gwen...»

Lei si mise a fissare l'uomo con gentilezza e, presa dal tenero momento prospero, spinse il viso in avanti e molto dolcemente premette le sue labbra su quelle di lui, poggiando i gomiti sul torace. L'alcol le diede l'opportunità di procedere a briglia sciolta con quel bacio, di smettere per un istante e poi ritornare a giocare dischiudendo leggermente la bocca per stuzzicare il suo medico, attonito e completamente impreparato a quel gesto.

John, manipolabile come creta, approfondì quel contatto, lasciandosi trascinare dai sensi sempre più amplificati dalla peccaminosa bevanda che aveva preso possesso del suo raziocino. I suoni divennero remoti, il tempo parve rallentare il suo corso e il movimento circostante sembrò arrestarsi definitivamente.

Per la prima volta, dopo diverso tempo, la sua mente si fece priva di qualsiasi ingombrante pensiero: nessun problema, nessun imprevisto, nessun affitto da pagare, nessuno coinquilino snervante, nessun omicidio. E soprattutto, nessuna Mary.

3.

Coleford, Gloucertershire

La foresta di Dean era un infinito agglomerato di flora differenziata da una vasta gamma di brillanti colorazioni. Il verde lambiva la corteccia di alberi secolari, i cui numerosi rami si contorcevano al soffiare del gelido vento invernale. Le foglie, malconce e friabili, avevano ceduto via la propria clorofilla in cambio di un caldo colore aranciato che macchiettava le diverse aree di quella selva, apparentemente immensa. Inoltre, minuscoli fiori di un tenero lilla, intrepidi, erano spuntati fuori nonostante le spine di ghiaccio.

In mezzo ai tronchi e al terriccio, un'enorme ed elegante struttura, ergendosi con i suoi due piani, faceva la sua gloriosa comparsa: era una magione tradizionalmente inglese, costruita con mattone rosso e accuratamente rifinita con particolari biancastri. Una lunga serie di colonne accompagnava l'entrata principiale, anticipata da un lunga e ampia scalinata che serpeggiava lungo un prato non molto curato. Proprio accanto a essa, un disteso spazio esterno era stato dedicato al parcheggio di alcune auto prestigiose, le cui scure finestre erano state ridipinte da un aggregato di fiori di ghiaccio.

Oh, avrei potuto intuirlo.

Così pensò il detective, contemplando il tocco dell'inverno sulla gelida superficie di una Porsche. Se solo fosse stato più attento ai particolari della strada, quel giorno a Baker Street, si sarebbe accorto della brina sull'auto della donna per poi dedurre l'esatta destinazione.

Nel Gloucestershire, il cielo sereno e l'assenza di nebbia avevano favorito la dispersione di calore solare ma il punto di rugiada – per quanto inferiore a zero gradi – era maggiore della temperatura superficiale e aveva causato una brina da irraggiamento. Tutte le altre zone del paese non riuscivano a soddisfare i giusti criteri per quel fenomeno atmosferico in quanto troppo soffocate dalle raffiche.

Con le fredde iridi, Sherlock puntò in ogni direzione, identificando – nonostante la fitta foresta – una vigneto che, malgrado s'espandesse per una manciata di chilometri, era costituito da viti troppo vulnerabili al gelo per generare grappoli succulenti. Compiuta la prima ispezione, giunse con la valigia alla porta e sbatté con forza la massiccia maniglia del portone d'ingresso, causando un robusto suono metallico che spezzò la solenne quiete di un paradiso bucolico. La governante fu la prima a offrire il benvenuto al detective, elargendogli una riverenza e lasciando il passaggio libero. L'uomo, allora, entrò nella lussuosa abitazione e, proprio presso la sala d'ingresso, trovò ad attenderlo la sua cliente, Fiona O'Ghallager.

«Mr. Holmes, benvenuto a Cloverfield Manor.»

La giovane salutò l'atteso ospite.

«Molto interessante» biascicò lui, toccando con lo sguardo ogni particolare. Presto un intrigante mistero sarebbe stato estratto da quelle possenti mura centenarie.

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Capitolo 13
*** I gioielli di famiglia ***


I gioielli di famiglia

1.

Coleford, Gloucestershire

«L'uomo non ha accesso al paradiso, ma si deve accontentare dell'inferno» era ciò che Mycroft Holmes aveva sempre ripetuto al giovane Sherlock per meglio temprarlo agli amari frutti della malasorte. «Veniamo al mondo da soli e da soli moriremo. Questa è l'unica e triste realtà delle cose, fratellino.»

Ciò si era imposto, dopotutto, come un mesto frammento di saggezza collegabile un po' a tutti gli uomini: l'essere delle stelle incastonate nell'oscurità, pronte a farsi luce per combattere il buio della solitudine, ma senza ottimi risultati. Sherlock Holmes, tuttavia, aveva sempre cercato oltre la coltre di pece fino a scorgere un bagliore pronto a gettare sulla sua esistenza un tiepido alone. La luce, generosamente offerta dalla compagnia di John Watson, era il suo tesoro inestimabile, l'ancora a cui aggrapparsi durante i momenti tempestosi.

Erano bastati solo pochi anni e tra di due la lega si era fusa, consolidandosi e dando origine a un peculiare rapporto, troppo indefinito e atipico per essere etichettato con comuni termini di definizione. La complicità saldata con tanta naturalezza, si era perfettamente armonizzata alle loro abitudini e persino ai loro ritmi circadiani, creando un atmosfera contraddistinta da fiducia e affetto.

Ciononostante, quel giorno, Sherlock era stato condannato a essere un'ombra senza proprietario. La figura che lo seguiva in ogni dove – come fosse una sua protesi – era da tutt'altra parte, abbandonata nella Londra centrale e circondata da ben altre compagnie oltre quella della figlia e della cara Mrs. Hudson. Per la prima volta, John aveva scelto di rimanere rintanato al 221 B di Baker Street con il fuoco acceso e le coperte calde sopra le ginocchia piegate.

Il perché di quell'insolita decisione ronzò come un molesto insetto nella mente del detective, che cercò un'esplicazione che non fosse interamente riconducibile alla presenza della piccola Rosamund e un mal di schiena di poco conto. C'era qualcosa di strano nel suo collega, qualcosa che si era palesato pian piano, come i sintomi di una malattia; l'uomo era sempre curato, rasato e alquanto irritante in certe occasioni.

L'influenza di Gwen su di lui era interessante da studiare. Il medico, in alcuni momenti, si trasformava in un sussulto ininterrotto, altre volta in un melenso. Erano bastati solo un bell'aspetto e uno sguardo da daino ferito per allontanarlo dagli impegni, dalle responsabilità e, sopratutto, da un suo amico. Il fedele soldato lo aveva lasciato solo, in mezzo alla campagna, con i piedi impastati di fango, la faccia schiaffeggiata dalle raffiche e l'udito assordato dal continuo sbattere delle fronde di querce.

Come un segugio solitario, Sherlock subodorò persino l'aria, fiutando il penetrante odore delle ortensie che erano state piantate al limite della possedimento terriero appartenente a Cloverfield Manor.

Secondo le parole di Fiona, l'intera residenza risaliva all'inizio del XIX secolo, ed era stata edificata per volontà di un certo conte, Ferdinand Januarius Chandler, che le aveva dato il nome di Hazelfield Residence. Solo qualche secolo dopo, un certo irlandese di nome Phineas O'Ghallager era riuscito a comprare l'intera proprietà, ribattezzandola Cloverfield – trifoglio – in onore della cultura celtica.

«Un pezzo di terra niente male» disse un uomo bianco, pallido e villoso.

Dwayne O'Ghallager era un individuo alquanto appariscente: tanto alto quanto massiccio e con una chioma fiammeggiante ben nascosta sotto una coppola piatta e bluastra. Seppur di sangue nobiliare, era solito indossare gli abiti di un comune campagnolo, parlava come un assiduo frequentatore di pub e portava delle mani sfregiate da calli e tagli.

«Notevole, e soprattutto molto utile con una famiglia è così numerosa» convenne il detective, dandosi un tono mansueto.

«Be', forse lei non lo sa, Mr. Holmes... ma qualsiasi magione o castello non è mai troppo grande quando è affollato di gente.»

Proprio per questo era necessario fare un po' di pulizia e potare un pezzo del ramo familiare, rifletté Sherlock, analizzando l'espressione beffarda del l'interlocutore che, come un megalite, si era inchiodato al terreno con tutta la sua abnorme stazza.

«Si dedica molto alla sua produzione. Sente passione per questa terra e il suo aspetto ne porta ogni marchio» confermò il bruno, fingendosi interessato al panorama campestre.

O'Ghallager, tutto contento, si avvicinò alla vite più prossima e, come un buon padre, accarezzò la corteggia ruvida, smorta e priva di fogliame, sfiorandola con una delicatezza prima non molto ostentata.

«Wortham Pinot, un clone minore del più che conosciuto Noir, ma altrettanto buono e pregiato» disse allungando il braccio sinistro in direzione dell'intero vigneto che, devastato dalla fredde temperature inglesi, quasi pareva un singolare cimitero di sole stecche ben allineate.

«Interessante. Immagino, quindi, siano presenti delle cantine, qui vicino.» Il bruno parlò con serenità sol per non apparire rigoroso o troppo aggressivo dinnanzi a uno dei tanti componenti della famiglia. «Tenete le botti presso le stalle. Le ho adocchiate dal primo giorno. Non sono molto grandi, ma non posso dire lo stesso delle cantine. Tiene tutto lì dentro o mi sbaglio?»

O'Ghallager sorrise, comprimendo le sue guance rubiconde e aggredite dal pizzicore del gelo britannico.

«Di certo non ho ma messo le botti in cucina, tanto meno nel soggiorno della magione. Se fossi stato così sprovveduto, avrei di cambiato mestiere, mi creda.»

Sherlock individuò nel comportamento istrionico dell'uomo un insidioso mascheramento: rideva convulsamente e senza ritegno, ma quelle due sopracciglia rosse restavano ferme, come se alcuni muscoli della faccia fossero completamente immuni alle più banali contrazioni.

Stando alla micro-mimica facciale e le norme del linguaggio non verbale, l'ospitante ha qualcosa da nascondere. Cela i suoi segreti con una gestualità da abile millantatore. Il detective scavò più a fondo.

«Dicono che un buon Pinot abbia effetti benefici sull'organismo, proprietà antiossidanti, polifenoli...»

«Un bicchiere e si fa pace con il mondo, Mr. Holmes.»

Anche Sherlock sorrise, ma molto delicatamente. «Era il mio modo per dire che non mi dispiacerebbe assaggiarne un po'.»

O'Ghallager chinò la testa e fece un cenno al suo ospite.

«Mi segua, allora.»

Le cantine erano composte da una sequenza di ampie stanze, tutte costituite da fredda pietra scura, ottima per tenere l'umidità. Sotto agli archi, presso la scalinata collegata al sottosuolo, erano disposte una lunga fila di botti robuste e ben incastrate al muro. Un odore pungente infettava l'aria, rendendola troppo sgradevole per essere inalata dai nasi non abituati al tanfo. In quel puzzo, una scrivania era stata coperta da scartoffie riguardanti la contabilità e altri documenti di differente genere. E a vigere su essi, c'era una donna dalla costituzione robusta e un abbigliamento comodo.

«Mr. Holmes, le presento la mia adorata moglie Helen» disse Dwayne O'Ghallager, rivestendo il ruolo di guida per il londinese che, nel frattempo, mosse i piedi sugli ultimi gradini della scalinata.

Helen O'Ghallager, come ridestata dal suo stato di pura concentrazione, spostò lo sguardo dalle sue carte per volgerlo verso le due nuove figure che avevano riempito, con la sola presenza, quell'ambiente così vuoto. Sorpresa a causa dell'inaspettata visita, spostò qualche ciocca mora dietro l'orecchio, per poi dischiudere la bocca fine ed esclamare:

«Oh cielo, Dwayne! Non aspettavo alcuna visita oggi.»

L'uomo, ridendo leggermente, s'avvicinò alla moglie e le baciò la fronte, come per rabbonirla.

«Esistono le eccezioni, cara» disse, richiamando con un piccolo gesto alla presenza del detective ancora fermo, nel suo bel cappotto, dinnanzi alla scalinata e in attesa delle presentazioni.

«Mr. Holmes, che grande piacere fare la sua conoscenza» dichiarò la donna, strofinando la mano sul pantalone e poi porgendola educatamente a quell'individuo ancora sconosciuto.

«Onorato» recitò lui, con i palmi incollati alle tasche.

Rinnegata la stretta, Helen ritrasse il palmo aperto, ed esibì un sorriso marchiato dall'imbarazzo. Dopodiché chiese: «Cosa vi porta qui?»

«Ho portato Holmes qui solo per fargli assaporare il Gloucestershire. Non capita tutti i giorni di avere ospiti del genere in questa cantina. Be', non capita tutti i giorni di aver ospiti qui, a dirla tutta. Preferiamo accoglierli in casa.»

Dwayne con movimenti burberi si diresse presso un mobiletto aderente all'arcata principale, aprì lo sportello, esibendo una lunga serie di calici contraddistinti da brillante vetro sottile e da un collo sin troppo esile per delle dita troppo grasse. Il nobiluomo, tuttavia, preferì cingere la porta superiore di uno dei bicchieri, per poi riempirla con il corposo liquido color rubino.

«Un piccolo omaggio della casa» aggiunse, cimentandosi nelle galanterie ed esponendo il bicchiere colmo.

Sherlock lo accettò di malavoglia e portò il suo bordo presso le bocca, tanto per bagnare le labbra con il vino aromatico. Deglutii quel misero sorso e subito ritornò il calice educatamente.

«Un sapore inconfondibile!» esclamò O'Ghallager, riprendendosi il calice e lasciando scorrere nell'esofago il liquido rimasto.

Il detective esaminò ogni piccola azione, ogni singola sillaba appartenente al suo ospitante. Quella pavoneggiante estrosità sembrava comunicare qualcosa di molto inconsueto e preoccupante. Effettivamente, quell'esuberanza era tutt'altro che spontanea.

«È una zona molto ampia. C'è un'altra stanza» notò il bruno, concentrandosi sulla disposizione delle umide cantine.

È a elle, comprese allungando il collo verso l'apertura parallela alle botti. Si trattava di una coincidenza assolutamente interessante, soprattutto se collegata ad altre considerazioni prima plasmate.

«Non si stupisca. La fama del Pinot inglese sta crescendo con il tempo. Per soddisfare tutte le richieste di produzione è necessario tanto spazio. Riempiamo ogni anno circa duecentotrenta botti, per un totale di 23000 litri. Una cifretta niente male. Non è così?» Dwayne cinse con il braccio le spalle della moglie in modo apparentemente affettuoso.

«Un lavoro decisamente sfiancante. Ma ora, se non le dispiace, devo ritornare al mio lavoro. È stato un incontro molto interessante.»

Come se niente fosse, il detective girò il piede e fece per ritirarsi.

«Mr. Holmes, aspetti!» esclamò Helen, improvvisamente.

La donna, presa dalla frenesia, si liberò dalla stretta del compagno, per raggiungere rapidamente la sua consueta postazione. Con gesti lesti e maldestri, recuperò un brandello di carta e ci scrisse sopra poche parole mal annodate.

«Per lei» disse, porgendo il biglietto ben ripiegato all'ospite. «È il numero del nostro assistente Louis Thompson. Se ha bisogno di qualche bottiglia, non esiti a contattarlo. Sono sicura che il prodotto sarà apprezzato dai suoi familiari. O dalla sua clientela, perché no?»

Sherlock arraffò la carta e osservò la donna per cogliere un qualcosa d'inespresso. Invero, Mrs. O'Ghallager, divenuta molto più scrupolosa e attenta, prese la sua mano e la strinse con vigore. Troppo vigore.

L'uomo comprese il necessario e, con un cenno di saluto rivolto ai coniugi, risalì la scalinata per allontanarsi dalle cantine e immergersi ancora nell'invernale atmosfera offerta dall'ambiente esterno. Posta fine alla recita del gentleman, distese la carta sdrucita e, facendo scattare le pupille, lesse.

Benvenuto tra i gioielli di famiglia. In mezzo ai diamanti, carbone da vendere agli stolti. [1]

Le sue labbra si piegarono in un sorrisetto malizioso. La situazione, minuto dopo minuto, stava cominciando ad acquisire sempre più fascino.

2.

L'interno di Cloverfield Manor era sgombro, ampio e stantio. Le sconfinate camere si succedevano l'una dopo l'altra, costituendo file di lunghi spazi che assai ricordavano un caratteristico labirinto composto da un'obsoleta oggettistica e un mobilio consumato. La luce, filtrata da gigantesche lastre circondate da una possente intelaiatura, rifletteva sull'onnipresente pulviscolo galleggiante. Tutta la struttura quasi sembrava un mausoleo.

E proprio come un gigantesco sarcofago, tutta l'abitazione era l'involucro a un intera famiglia di mummie. Gli O'Ghallager – a eccezione di Dwayne e della sua coniuge – erano persone abbastanza smorte e poco interessate a qualsiasi elemento esterno. Difatti, passavano intere giornate rintanati nelle proprie camere, come delle serpi nel periodo del letargo. Ciò li portava a incontrarsi raramente; preferivano rimanere in determinate zone del maneggio, già spartito per non essere condiviso dai singoli nuclei familiari.

L'ala est era stata assegnata a Fiona e alla madre, confinate tra due camere da letto, un bagno e ampio salottino riscaldato da pareti di legno levigato e cosparso da pregiate decorazioni accuratamente intagliate. La camera principale era stata munita di un bel tavolo, due divani in pelle e un caminetto in pietra ben isolato dalle mura in ciliegio.

Accomodatosi sul cuscinetto della poltrona, Sherlock si era dedicato a una proficua conversazione con la propria cliente che, ritta presso le braci del focolare, lo puntava assiduamente in cerca di informazioni e altri indizi che testimoniassero i fatti.

«Non mi menta, lo capirei. Piuttosto mi dica a chi era realmente destinata questa proprietà?» chiese il detective.

Fiona, con le mani tese in direzione del calore emanato dai carboni incandescenti, rispose schietta: «A mio zio Dwayne, Mr. Holmes.»

«Eppure siete in sei in tutta l'abitazione.»

La ragazza, prese la paletta e spazzolò accuratamente la cenere dal camino, pulendolo distrattamente e senza alcun impegno.

«Il mio bisnonno Phineas ha ritenuto molto più equilibrato comprendere nella sua eredità tutti i nipoti, non solo uno. Proprio per questo la residenza è stata suddivisa in ben tre parti. L'ala est appartiene a mia madre, Edith. L'ala ovest è stata data alla nostra cugina Catherine e a suo figlio, Desmond. La parte centrale è di mio zio Dwayne e di Helen.»

Il bruno ascoltò attentamente, deducendo che un qualcosa di grande portata aveva violentemente sfilacciato ogni legame di quell'assurda famiglia. Un cavillo, seppur sepolto nel passato e ancora poco comprensibile, doveva aver fatto marcire ogni rapporto di parentela, lasciando solo astio da digerire.

Che sia solo per una questione d'eredità?

Sherlock cercò di calibrare la mente, così da renderla più efficiente, molto meno limitata. «Cosa è avvenuto tra i suoi familiari?»

Fiona rivolse all'altro uno sguardo indignato.

«Prego?»

«Non mi lascio abbindolare da qualche donazione a un ente benefico o dalle croci appese nei corridoi. Cerchi di non farmi credere che la sua sia l'allegra famigliola cattolica del Gloucestershire? Ho avuto modo di sondare la vostra indiscutibile coesione» dichiarò il detective, ostentando un sarcasmo amaro quanto la china.

La ragazza, come per sfogo, prese l'attizzatoio e menò qualche colpo sulla legna superstite, spezzandola e rendendola più consumabile dal calore del fuoco che pian piano divampava.

«Non lo è, lo so benissimo. Ma siamo sempre stati così» disse, infine. «L'unica cosa che siamo in grado di condividere è il cognome. Mi rendo conto quanto ciò possa apparire ridicolo, Mr. Holmes.»

«Non è affatto ridicolo. È stimolante» dichiarò l'uomo.

Fiona posò l'asta e andò a mettersi comoda sul sofà. Completamente ignorando le bizzarrie della persona accanto, si decise di sapere qualcosa di più riguardo al caso e proprio per questo, mossa dal bisogno di conoscenza, chiese:

«Come procede con il suo lavoro? Ha scoperto qualcosa?»

Sherlock, come di consueto, tenne per sé le conclusioni più eclatanti, come per dare maggiore protezione all'indagine.

«Può darsi» disse, senza lasciare intendere alcunché. «Fino ad ora, ho compreso che suo padre era nelle cantine quando ha visto la donna in nero. È stato di notte.»

La donna, come sradicata dal suo lembo di sicurezza, sentì le forze retrocedere a causa dello stupore. La sua testa soccombette all'impossibilità di riuscire a comprendere come l'uomo fosse riuscito a intuire così tanto.

«Come fa a saperlo?»

«Ho solo preso in considerazione la sua descrizione dell'essere. Ieri ha parlato di una figura leggermente trasparente e capace di galleggiare a mezz'aria. Una specie d'ectoplasma dalle macabre sembianze femminili e con un lungo abito scuro.»

Fiona, abbrancando quel poco della sua consueta sfacciataggine, tallonò il detective con convinzione. «E questo cosa vuol dire?»

L'uomo, sentendosi puntato, si scollò dalla poltrona e s'alzò, un po' per sottolineare il suo ruolo di unico responsabile nei riguardi delle indagini attuate. «Ha mai sentito parlare del Fantasma di Pepper?» [2]

La donna mosse spasmodicamente il viso. «No!»

E quindi, il bruno, gesticolando di un attore, esplicò ogni cosa.

«È un illusione ottica, particolarmente usata nell'ambiente teatrale. La cantina, con le sue pareti sufficientemente scure e la sua disposizione, è la zona che più permette una buona realizzazione del trucco. Sono sufficienti una lastra di plexiglass e una buona illuminazione per la creazione di un'immagine speculare che, in tutto e per tutto, ha le sembianze di un spettro.»

Fiona passò la mano sulla fronte, fino a sezionare con le dita la chioma dorata. Un brutto presentimento sembrò contaminare la sua risolutezza, regalandole uno sguardo vacuo, spento.

«E con questo?» domandò.

«Qualcuno ha macchinato tutto solo per dare un senso alla morte di suo padre. Non esiste altra spiegazione, Miss.»

Quello stesso presentimento esplose all'interno nella testa della ragazza, sbrindellando tutte quelle supposizioni create solo per allontanare il dolore offerto dalle peggiori aspettative.

«Intende quindi, che...»

«Che suo padre è stato ucciso, Miss O'Ghallager.»

3.

Londra, Baker Street.

Il seguente giorno, a dispetto di quello precedente, sembrò ammorbato da una spiacevole sfortuna. Il sabato era iniziato con una tetra alba intrisa di freddi colori bluastri e Marylebone mai era apparsa così spenta e moscia. John aprì lentamente le palpebre e pian piano realizzò di essere nella propria stanza, immobile al di sotto di una flebile luce grigiastra e con il corpo intrecciato al suo lenzuolo, la cui stoffa sgualcita si era impregnata di uno strano odore di alcol e sudore.

Le domande corsero nella sua testa ma in quel frangete, sia per il sonno che per la stanchezza, non ebbe nemmeno la forza di spronare la memoria. L'unica cosa che desiderò fu spazzar via quella angosciante sensazione giunta con la prima luce del giorno. Quindi, premette la faccia contro il cuscino, soffocando un rantolo. 

Cosa accidenti è successo questa notte?

La preoccupazione giunse nell'arco di poco tempo, tramutandosi in una piccola ossessione.

Le sono saltato addosso? No, no... Lei è saltata addosso a me. Era ubriaca e farneticava, non aveva idea di quello che stesse facendo. No, non ce l'aveva. Non poteva davvero volerlo. È stato un errore! Uno maledettissimo errore!

Nonostante la leggera ansia e la debolezza, John cercò di farsi coraggio e di trovare l'energia indispensabile per trascinarsi via dal letto. Con lentezza, cominciò a muoversi, per poi sedersi a sul materasso cigolante. Solo dopo qualche minuto realizzò di non indossare il cardigan, né la camicia. Si ricordò della seria addietro, del petto rovente quanto un ferro da stiro e della voglia di distendere la pelle nuda contro il lenzuolo freddo. Per tal motivo, s'era tolto di dosso qualche indumento.

Ma c'è dell'altro...

Rifletté, prima di ricordare ogni cosa, ciò che aveva fatto prima di raggiungere la camera. Con innata semplicità aveva condotto Gwen nella camera di Sherlock – assente da un solo giorno – per poi adagiarla sul suo letto. Infine, se ne era andato con la stanchezza nelle gambe e il batticuore nel torace.

Nient'altro. Non era successo nient'altro.

Eppure il medico, in quella mattinata, sentiva ancora il sapore dolciastro di quel bacio sulle labbra e ciò basto a farlo ricadere nel senso di colpa. L'aver corrisposto a quella insolita richiesta lo portò a maledirsi per aver approfittato della poca lucidità della giovane. Non avrebbe dovuto cedere alla bocca di lei, né tanto meno avrebbe dovuto prolungare quel contatto.

Oh, dannazione!

Fortunatamente, era riuscito ad arrestare il tutto prima del pericolo, della via senza ritorno. Con un unico gesto l'aveva staccata dal proprio corpo, quietandola dolcemente. Gwen, a causa dell'alcol, aveva assecondato ogni suo volere e, nonostante lo stato di trance, era riuscita a contenersi.

Sono un idiota. Ecco, sono un idiota!

Le reminiscenze riaffiorarono nella testa dell'ex soldato, che preferì ignorare il ticchettio della sveglia al di sopra del comodino. Se non fosse stato per il forte stato di vergogna, sarebbe già sceso a ritirare il quotidiano e a fare colazione sorseggiando caffè.

Riuscì a prendere coraggio e, infilato un maglione, uscì dalla sua camera per scendere verso il soggiorno. Raggiunse l'ingresso e allungò l'occhio da una parte a all'altra, fino a scorgere una figura rannicchiata sulla poltrona e con le braccia attaccate alle rotule. Gwen, seppur ancora provata dalla lunga nottata, volse il viso verso John e con tono emaciato, lo salutò. 

«Buongiorno.»

Il medico parve non avvertire più la scarica d'audacia che, come un medicina, aveva preso pieno possesso del suo flusso sanguigno. Non appena le sue pupille codificarono l'immagine della donna, un senso di debolezza smorzò ogni sua precedente intenzione.

«Buongiorno anche a te» biascicò il medico.

«Io...» La ragazza cominciò a balbettare. «Sono mortificata. Terribilmente mortificata, per ieri. Non sono riuscita a contenermi. E se si è offeso, lo capisco.»

I suoi occhi si fecero grandi e sempre più mesti; le sue guance bianche si ravvivarono a causa di una lieve sfumatura rosacea; la sua bocca, poiché contratta in una smorfia, si fece smilza e sottile. Tutti quei minimi particolari la resero associabile ad una statuetta di bianca porcellana danese, ben modellata e accuratamente colorata con pregiate tinture.

John ispirò, come per arginare quel guazzabuglio d'emozioni dentro al petto e ritornò ad ascoltare la donna.

«Non potevo immaginare che–»

Tuttavia, non volle sentire altro.

«Non ha importanza. È stato tutto un incidente!»

Un incidente evitabile per entrambi. L'ex soldato però, nonostante il risentimento, mosse l'occhio sulla giovane, concentrandolo involontariamente sulla sua bocca. Per la seconda volta immaginò quella soffice pressione, la stessa ricevuta nella sera addietro; la bramosia infiammò le sue labbra e lo portò a chiedersi se, baciandola in quell'istante, il contatto avrebbe avuto il medesimo sapore.

«Solo un incidente.»

Lui ripeté ancora quella frase e Gwen esibì un aspro sorriso per poi abbassare il capo, esponendo la tristezza al tappeto. «Certo» farfugliò, infine, con un che di malinconico.

John, toltasi la spina dal fianco, arricciò le labbra. Svelto andò a prendere il suo impermeabile e, con fare apparentemente disinteressato, s'appropinquò alla porta, fingendosi tranquillo.

«Be', io vado a prendere il Daily Mail. Non abbiamo del cibo per colazione, quindi se ti serve qualcosa, puoi dirmelo adesso.»

La ragazza sembrò riflettere per un poco e, solo dopo, cacciò via dalla sua lingua un secco «No, John! Non preoccuparti.»

Il medico annuì e, uscendo dalla porta, lasciò l'abitazione. L'eco del legno sbattuto sancì la solitudine di Gwen che, sentendosi un po' meno fragile, permise a stessa di erigersi. Il pugno chiuso picchiettò leggermente sulla sua fronte, come per assestare la valanga di pensieri appena scatenata. La mente l'aveva ancora tradita, imponendole di sfogare chissà quale bisogno di protezione, sopperito nel suo inconscio, su un uomo di quarant'anni stordito da un liquore.

Idiota, idiota, idiota, idiota...

Come per sfogo, la ragazza portò le dita intrecciate presso la bocca e con gli incisivi cominciò a mordicchiarsi le nocche.

Per lui è stato un semplice contrattempo.

Eppure era riuscita a percepire qualcosa di impetuoso rianimare John, durante quel contatto di labbra fameliche. Era stato come sentire un defibrillatore gettare una scarica sui loro corpi. Infine, lui si era lasciato trascinare come nelle tante assurde occasioni proposte da Sherlock.

In un primo momento, il medico era sempre in disaccordo con le cose sbagliate, ma dopo ne era attratto. Era costantemente immerso nel rischio, nei rapporti squilibrati e nelle follie di un coinquilino che si era prodigato a rincorrere crimini per tutto quanto il paese. Essere un medico-militare era stato parte di una natura consolidata nel tempo. Lui era un amante del caos e del disequilibrio, del pericolo e delle persone con storie atipiche.

«Proprio come me...»

Un pensiero sgusciò fuori dalla bocca e Gwen scorse il proprio riflesso emergere dalla finestra del soggiorno. In poco, si accorse di essere meno che la foce di un desiderio inconscio atto a fluire come un fiume impetuoso dentro il corpo di John.

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Capitolo 14
*** I biscotti della sfortuna ***


I biscotti della sfortuna

1.

Londra, Marylbone.

Il supermercato gremiva di persone che, come ogni sabato pomeriggio, erano giunte come da rituale per invadere tutti i corridoi appartenenti alla struttura. Nonostante fossero soltanto le cinque, ogni reparto era già stato ostruito da londinesi, membri del personale e carrelli ricolmi di mercanzia.

Gwen rimase inerte dinnanzi allo scaffale dedicato ai tanti dolciumi. Un'ampia parete era stata completamente oscurata da semplici confezioni cartacee, scatole di latta e contenitori di grande portata, contenti zuccherose leccornie al burro. 

Parte degli scomparti erano stati ordinatamente sistemati con sacchetti colmi di biscotti d'ogni genere: grezzi, integrali, americani, farciti, al cioccolato, alle mandorle, alla frutta e tanto altro. Tuttavia, lei era alla ricerca di qualcosa con cui accompagnare il tè caldo pomeridiano. Molto probabilmente, era sul punto di acquistare solo a un biscotto burroso, abbastanza spesso da esser immerso nella tiepido liquido aromatica, ma anche così gustoso da rappresentare la miglior coccola quotidiana.

Solo il cielo, in effetti, era a conoscenza di quanto, in quella giornata uggiosa, sentisse il bisogno del calore del tè e del sapore di un dolce secco. Il conforto offerto dal sorseggiare una bevanda calda – soprattutto durante quell'assedio di grigie nubi – era una concessione che il suo cuore reclamava dopo una brusca mattinata.

Crawford's Garibaldi.

Un pacchetto purpureo e scintillante fece la sua apparizione.

Mr. Kipling's Viennese Whirls.

Un seconda scatola di cartone, ben sigillata, era stata posizionata nel palchetto inferiore.

McVities Rich Tea.

La donna corrucciò lo sguardo, prese la prima confezione che colse e ne lesse le scritte: controllò i grassi, la percentuale di fibre e gli ingredienti. Dopodiché la riposò, afferrò un altro sacchetto e ripeté tutto il protocollo. Rifece la stessa cosa per innumerevoli volte, lasciando il tempo libero di fluire ininterrottamente. Più le informazioni andarono a sommarsi nella sua mente, più crebbe la confusione che già s'era messa a debilitare quello sciocco processo decisionale. La feroce impazienza conflagrò, sollecitandola a grido che poi fu prontamente soffocato.

Quale marca dovrei prendere? Perché c'è tanta scelta? E perché devono essere tutti così maledettamente uguali?

Il pudore guidò ogni sua azione, permettendole di mantenere il controllo su tutta quell'accozzaglia sentimentale nella sua testa. Placato l'impulso di far tuonare imprecazioni, Gwen posò l'ennesimo pacchetto nell'apposito spazio e inspirò, anestetizzandosi.

Sono solo biscotti. Prendi qualsiasi cosa! E fa' alla svelta!

S'avvicinò allo scaffale e con le dita accarezzò un tubo di Cadbury Biscuits. Tuttavia, l'incertezza nuovamente la sfiorò.

E se stessi compiendo una scelta sbagliata? Se fossero diversi da quello che realmente desidero? Se in realtà comprarli fosse un errore? Insomma, ha senso spendere energie per un momento di conforto? In fondo, è solo un momento di conforto. Solo uno...

La preoccupazione batté forte su di lei, come pioggia. Tutte quelle domande, apparentemente sciocche e di poco conto, non erano altro che il brutto travestimento d'interrogativi molto più consistenti. Difatti la donna, da quando John aveva lasciato il 221 B di Baker Street, aveva riempito la testa di dubbi e insinuazioni riguardanti l'uomo e i suoi bislacchi gusti.

Il medico, poiché troppo lontano dall'Afghanistan, aveva fatto di Londra il suo personale campo di battaglia e di Sherlock Holmes il suo commilitone, così sancendo un stile di vita sempre più relegato alle indagini e qualche rischio di tanto in tanto.

Gwen, con le dita ancora agganciate allo spesso cilindro di cartone, era divenuta immobile quanto una statua, inespressiva. Per questo, attirò l'attenzione di buona parte degli altri clienti, che la puntarono assiduamente. Fu allora che, rotta quella fastidiosa catena di pensieri, ritirò la mano dallo scaffale e abbassò gli occhi per far finta di nulla. Quella temporanea alienazione, purtroppo, l'aveva destabilizzata, deconcentrandola dalla banale intenzione di comprare dei semplici biscotti sufficientemente compatti per il tè. Dopo la pessima figura, gli occhi neri si posarono sull'ennesimo bel contenitore dorato.

Maryland's cookies...

Lei li aveva già mangiati.

Maryland's cookies...

Ma non erano così buoni.

Maryland...

Erano pessimi.

Mary...

La sua testa si mise ancora all'opera, inaugurando la forgiatura di un'altra catena di pensieri sempre più intrusivi. Quel nome, sgusciato fuori così infidamente, si era fatto carico di alcuni collegamenti tanto scontati, quanto appariscenti.

Mary Watson era l'unica moglie avuta da John, il quale s'era ben visto dal nominarla troppo apertamente davanti a qualsiasi individuo in tutto il Regno Unito. Per volere del destino, la donna aveva tirato le cuoia da tempo, lasciando il compagno alla solitudine e la piccola Rosamund a un destino meno docile. Niente altro era stato scoperto, chi fosse Mary, come fosse, di cosa si occupasse. Erano tutte solo un cumulo d'incognite da disseppellire piano e con il massimo del garbo, nonostante la curiosità e la frenesia del momento.

John è attratto dal caos, tanto quanto dalle menti caotiche.

Gwen si morse il labbro fino a consumarlo.

Solo dalle menti caotiche. Dalle loro storie strambe.

Per depennare ogni congettura, scosse la testa con la stessa irruenza di un cane bagnato. In seguito, nonostante la tendenza a esser catastrofica, confinò le sue problematiche nell'angolo più lontano della testa e ritornò alle proprie compere.

«Scegli pure quello che vuoi, cara» scandì un suono teneramente familiare.

Mrs. Hudson comparve alle spalle della sua ospite e, con espressione affabile, la invitò a prendere qualsiasi cosa le piacesse. La ragazza, di tutta risposta, le diede un sorriso castigato.

«Grazie Mrs. Hudson. È sempre molto gentile con me.»

Presa dall'impellenza, lanciò il braccio sulle confezioni, afferrando casualmente una scatola di latta bluastra e lasciando cadere a terra numerose e pesanti sacche, prima perfettamente allineate sulla superficie dello scaffale. Un rumore secco esplose non appena il suolo fu raggiunto dalla pesante merce che, nell'attrito si dischiuse, lasciando fuoriuscire una buona quantità di briciole brune.

«Dannazione!» sussurrò la bionda, attirando ulteriormente la concentrazione della clientela.

«Oh, cielo!» Mrs. Hudson, nonostante gli acciacchi dell'età, si piegò sulle ginocchia, cominciò a raccattare tutto ciò che era finito a terra e, con celerità, riportò ogni pacco al suo posto. «Non preoccuparti, cara! È capitato anche a me, sai?»

La ragazza storpiò le labbra in una smorfia e nascose la sua espressione affranta dietro la mano. L'imbarazzo si era sollazzato nel cingerla per il braccio e mai più lasciarle un attimo di tregua.

«Scusatemi tanto» disse lei, quasi mugolando, alle gente che attorno, ancora stranita dallo sciocco incidente.

L'anziana, nel frattempo, si limitò a stringere il manico del carrello. «Non fa niente, cara. L'importante è che non sia accaduto a casa. Avresti rischiato di contaminare i campioni di Sherlock. Non sopporta quando qualcuno usa la cucina per mangiare... Lo fa davvero infuriare! E pensare che una volta, preparando delle tartine, ho rovesciato le sue provette. Credevo stesse per impazzire quel giorno. Santi numi...»

«Più di quanto lo è già?» chiese sardonicamente la ragazza, stringendo la scatola con su scritto Lucky Charms Cookies, i biscotti portafortuna. Entrambe le donne, infine, si diressero presso la cassa automatica con l'intento di concludere la spesa.

2.

Tre...

Contare ogni double decker si era mostrato un passatempo al quanto efficace per riuscire dimenticare qualsiasi genere di molesta preoccupazione all'interno della testa. Procedendo a passo celere, la donna si distrasse concentrandosi su quell'insolito compito, piuttosto che su sciocche riflessioni riguardanti i suoi trascorsi sentimentali.

Quattro...

Il quarto bus rosso e lucente procedette lento, assecondando il traffico londinese. Mrs. Hudson intanto passeggiò, trainando il suo carrellino e occhieggiando l'accompagnatrice al suo fianco. La giovane era chimicamente calma e silenziosa quanto una bomba a orologeria, pronta a scoppiare da un momento all'altro.

«Oh cara, a cosa stai pensando?» chiese l'anziana.

La ragazza guardò la strada, continuando a camminare con lo stesso ritmo, nonostante le numerose buste appese alle braccia. Spronata dal freddo, continuò a muovere le gambe.

«A niente. Niente d'importante, credo» disse, assorta.

Mrs. Hudson si lasciò scappare un risolino.

«L'amore è sempre importante. Non pensare che non me ne sia accorta. Ho un certo intuito per queste cose.»

Gwen sentì le braccia cedere e non per il peso della spesa. Le emozioni, piuttosto, sembrarono resero le sue ginocchia malleabili e fermare i piedi per maggiore stabilità fu d'obbligo.

«Mi sembra troppo parlare di amore. Non sto affrontando nulla di così sentimentale in questo momento. Non proprio, almeno» proferì, moggia, cercando di non lasciar trapelare alcunché.

«Mia cara, riconosco bene quello sguardo. Non sa quante volte l'ho visto sulle facce dei miei spasimanti» disse Mrs. Hudson, sognante a causa dei ricordi sbiaditi. «Bontà divina, se è passato il tempo!»

Gwen si sentì esposta, come se la sua inquietudine fosse capace di far lampeggiare un qualche segnale luminoso e pronto a mandare un chiaro avvertimento a qualsiasi individuo nelle vicinanze.

«Io... be'...» tentennò. «Mi chiede solo se...»

L'altra, presa dalle buone intenzioni, la interruppe.

«Prestami ascolto. Conosco Sherlock da anni e, lo so, sa essere un po' scorbutico, ma presto scoprirai che è una persona splendida. È un po' come il pane. L'impasto è duro, ma con le mani giuste...»

Una busta cadde a terra, lasciando la famigerata scatola di biscotti libera di ruzzolare per qualche metro lungo il marciapiede. Gwen, purtroppo, non era riuscita a trattenere le forze, soprattutto dopo quell'insinuazione modellata dalla lingua della proprietaria del 221 B di Baker Street.

Aveva passato poco più di una settimana a Londra e solo pochi giorni nel disordinato buco di Baker Street. Le brutte occhiaie non erano indizi inconfutabili di una relazione.

«Si sbaglia di grosso. Io e Holmes non ci frequentiamo. Non in quel modo, almeno...»

Mrs. Hudson poggiò affettuosamente la mano sulla spalla della sua accompagnatrice. «Come le pare, cara. Di certo non sono io la persona più adatta a sproloquiare sul come una donna debba gestire la propria intimità. Non si preoccupi di parlarne.»

Detto ciò, riprese la camminata e Gwen, completamente allibita, percepì quell'affermazione schiaffeggiare la dignità che, quel sabato, le era rimasta. Si sentì smarrita, turbata e anche leggermente fraintesa.

«Non c'è niente. Proprio niente, tra me e lui!»

Presa dalla trepidazione, ignorò il precedente brivido sulla schiena e andò a recuperare quella maledetta confezione di biscotti.

3.

Tre. Erano solo tre messaggi che si erano susseguiti con rapidità.

- Raggiungimi se puoi

- Raggiungimi anche se non puoi

- Porta la pistola. SH

Preoccupato, John fissò quelle poche righe impresse sullo schermo del telefono e sentì un brutto presentimento cominciare a molestarlo. Sherlock aveva bisogno di lui, per una ragione ancora ignota. Cosa si nascondesse dietro quelle poche parole era purtroppo un mistero. Fare pronostici, inoltre, non era ancora necessario.

- Che diavolo stai facendo? Devo preoccuparmi? JW

Il medico inviò il messaggio e cominciò ad aspettare. Nel frattempo prelevò la piccola Rosie dalla poltrona, la premette contro il petto e le accarezzò la testolina bionda. La tenne con sé per un bel po', come avrebbe fatto un qualsiasi padre prima di dover partire. L'azione fu, sicuramente, spontanea dal momento che era certo di una cosa: se Sherlock lo aveva contattato, era a causa di un'importante motivazione riguardanti le indagini o un pericolo.

Di conseguenza, lasciato trascorrere del tempo, John riprese con la mano libera il suo telefono dalla tasca, sperando in un'altra informazione, ma nessuna notifica segnalò l'arrivo di un messaggio. Sbuffando, riposò quel dannatissimo apparecchio e fissò Rosie, che si era aggrappata a lui proprio come un cucciolo.

«Io lo prenderò a calci, tesoro. Te lo prometto.»

Inalò l'odore appartenente a quei ciuffetti biondi per meglio imprimere nella memoria quel profumo così puro, dolce e buono. Il ricordo della delicata fragranza della figlia lo avrebbe accompagnato per tutto quanto il periodo d'assenza.

4.

Quando John trovò all'interno dell'abitazione Gwen, con le buste penzolanti e un leggero affanno dovuto alle scale, non corse in suo aiuto come di solito avrebbe fatto, al contrario. Intontito dalle troppe problematiche giunte contemporaneamente, stette con le mani basse, la bocca serrata e lo sguardo impigliato alla finestra. Nemmeno la ragazza, invero, rese chiaro il suo bisogno d'aiuto e, arrancando, stipò tutta la spesa contro l'angolo della cucina. Dopodiché raggiunse ancora il soggiorno, incrociando le braccia al petto e abbassando gli occhi scuri.

Dopo un po' rimasero da soli, muti. Solo il silenzio parlò al loro posto, risaltando in quel clima d'imbarazzo che si era appena formato. Restarono seduti, come due sconosciuti in una sala d'attesa, pur non esistendo niente per cui attendere. Parlare era lecito, ma inizialmente nessuno voleva cedere al dialogo.

Il medico era certo che la questione del bacio fosse stata archiviata in quella stessa mattinata. Ciononostante, il muro della vergogna ancora persisteva, allontanandoli sempre di più e quasi si sentì obbligato a indebolire quella dannatissima barriera creando una crepa. 

«Credevo non ti servisse niente, oggi?»

La donna prese il primo libro sul tavolino e cominciò a sfogliarlo con aria assente. Non aveva intenzione d'incontrare il suo sguardo e, con il cuore in gola, tamburellò con le dita sulla pagine per placare l'ansia. 

«Io volevo dei biscotti per il mio tè.»

John annuì, biascicando un «Sarei potuto and–» Ma lasciò la frase incompleta per non apparire troppo disponibile. «Niente.»

Gwen, presa dal coraggio, lo fissò e desunse che quel confronto era ancora in atto e gridava per la giusta attenzione. In effetti, era necessario rendere chiara la faccenda e comprendere se fosse il caso di rischiare per solo il desiderio di brava persona da tenere accanto.

«Non era nei piani, ma Sherlock ha bisogno di me. Parto stasera per Coleford. Resterai con Mrs. Hudson» La voce dell'ex soldato colse l'attenzione della ragazza, impantana nelle riflessioni.

Questa aggrottò la fronte, a causa dello stupore imposto dal quelle parole che erano andate a distruggere ogni premeditazione. Se lui fosse partito, non ci sarebbe stato il tempo per approfondire ciò che era accaduto e il tarlo non sarebbe mai stato soppresso.

«Come? Hai intenzione di andartene?»

John rimase stordito da quell'atteggiamento. «Spero per poco, ma non assicuro niente.»

La giovane inchiodò gli occhi al muro.

Per quanto tempo riuscirai a tenere dentro la curiosità? Un giorno? Un settimana? Un mese? Due mesi? Tre? Sarai capace di resistere così a lungo? Cosa potrai fare nel frattempo? Scenderai in strada a contare i double decker per distrazione e così sembrerai una donna affetta da D.O.C.

«Non ha importanza. Preparo subito i bagagli.»

Gwen sentì quelle parole lasciare la sua bocca. Quell'affermazione risuonò nell'atmosfera e ristabilì ancora un temporaneo silenzio.

«Cosa?» Il medico divenne attonito. «Che intendi fare?»

Qualsiasi donna, dopo tante orribili esperienze si sarebbe rinchiusa in casa con la sola compagnia del cibo e, di certo, si sarebbe risparmiata altri drammi. 

«Le tue ferite stanno guarendo e hai bisogno di riposare. Hai già dimenticato quello–»

E lei lo interruppe.

«No che non l'ho fatto. E per questo che non ho intenzione di rimanere da sola. Chiunque mi abbia costretta a scappare è ancora fuori, da qualche parte. E la cosa non mi fa sentire tranquilla.»

John subito rispose.

«Il tuo aggressore è lontano da Londra. Il tuo caso è stato messo da parte dagli agenti e, a parte noi, nessuno sa che sei qui. È solo questione di pochi giorni, ne sono sicuro. Sherlock non spreca mai troppo tempo dietro ai suoi casi. Tiene molto ai suoi record.»

«E allora portami con te. Non appena ci sarà qualcosa di storto, cercherò di allontanarmi.» Lei supplicò l'uomo, mantenendogli testa. «Quante probabilità ci sono che possa essere ancora ferita? Nessuno è così boicottato dalla sfortuna, non credi?»

Il suo tono si fece sarcastico quanto quello di Sherlock.

«Comincio a credere che a te piaccia giocare con la sfortuna.»

La donna incassò quella battuta, ma non demorse ed edulcorò il proprio parlare. «Mi hai assicurato la tua protezione. Come farai a mantenere la parola, se sarai troppo lontano da me?»

L'ex soldato, dimenticato ogni imbarazzo, strizzò gli occhi con le dita. Sperò di comprendere meglio quell'assurda circostanza, ma ben presto si rese conto di non riuscire nemmeno a realizzare da cosa fosse nato quell'assurdo dialogo.

«Dimmi solo perché. Perché ti ostini a fare a modo tuo?»

«Non lo so. Ho solo paura di restare da sola, credo.» Gwen diede quella confessione. Non cercò un perché reale, sentì solo il suo umore peggiorare al pensiero di restare lontana dal quel bisogno di dialogo. «Sai, mi sono cresciuti i denti del giudizio. Credo di saper decidere cosa è giusto per me.»

Non fu obbligatorio il permesso dell'adulto della situazione, in quanto lei era perfettamente capace di prendere le proprie decisioni e difenderle nonostante tutto. Inoltre, l'angoscia era stata domata dalla decisione di remare contro le ogni incertezza. John fissò la cliente, imbambolato. Si chiese quale fosse la migliore opzione per lei, ma il tempo era in procinto di scemare.

«Fa' presto, allora» asserì, infine.

5.

Coleford, Gloucestershire.

«Miss, mi spiace interromperla, ma–»

«Non adesso, Tatiana. Sono occupata.» In breve, Miss. O'Ghallager mise a tacere la robusta figura femminile che aveva fatto capolino dall'entrata delle cucine.

La governante, anche se leggermente oltraggiata dai modi del proprio superiore, si limitò a un'espressione stizzita e lasciò la stanza, sussurrando qualcosa in una lingua poco decifrabile.

Sherlock, curioso, si guardò attorno, codificando le possenti travi attaccate al soffitto e ogni singolo utensile atto ad addobbare le pareti. Proprio al di sotto del pentolame appeso, erano stati uniti degli antichi piani di lavoro, il cui materiale aveva assorbito tutto l'odore del cibo cucinato negli ultimi due secoli. Il freddo imperava in quell'ampio spazio, dal momento che la pietra aveva preso il posto del legno, non immune alle fiamme dei fornelli. La stanza, in conclusione, era esageratamente ampia, rustica e decorata con una moltitudine di arnesi tanto antiquati quanto arrugginiti.

Il detective non poté lamentarsi. Le cucine di Cloverfield Manor sembravano un posto alquanto intimo e ben isolato da personaggi molesti. E proprio per questo, si dedicò con molta sollecitudine alla figura che, in quel pomeriggio, si era presentata con il nome di Catherine Moira O'Ghallager, cugina della sua nobile cliente.

«Perdoni questa interruzione, Mr. Holmes. Il personale non è lo stesso di un tempo. Sono un branco di incompetenti.»

Il detective restò fermo presso l'antica ghiacciaia.

«Passerò oltre questo piccolo contrattempo. Stavamo giusto parlando della famosa apparizione.»

Catherine, tanto alta quanto ossuta, agitò il caschetto biondo a destra e a manca per meglio controllare tutto lo spazio, apparentemente privo di qualsiasi fastidiosa spia pronta ad udire.

«Certo, come ho già detto» disse, abbassando il tono. «Era sera quando è accaduto. Il giardiniere Benson ci ha avvertiti di un piccolo incidente: le botti centrali si erano come spaccate, lasciando cadere tutto il prodotto per terra. Un'inconveniente perdita. Ricordo che pioveva, diluviava. Ci siamo incontrati tutti nelle cantine, ma Connor era già lì da un pezzo. Quando lo abbiamo raggiunto era come pietrificato, ma non siamo riusciti a capire perché. Solo dopo abbiamo notato questa strana... cosa... galleggiare nel buio. Era raccapricciante quanto il demonio. La banshee lo ha indicato per qualche secondo e dopo è scomparsa, come se niente fosse.»

Nonostante si trattasse di un evento alquanto dedicato, la quarantenne raccontò il fatto con la stessa tranquillità di una signora intenta a spettegolare dal parrucchiere. Non esistette paura, né tanto meno sgomento nel suo tono roco.

«Perfetto. È stata molto chiara, Miss O'Ghallager.»

«E come potrei non esserlo. Quell'immagine mi perseguiterà per tutto il resto dei miei giorni. Ne sono più che certa. Mr. Holmes.» Catherine s'avvicinò alla portafinestra e la aprì il tanto che bastava per far entrare un soffio di vento dall'esterno. Celere, prese una sigaretta dal suo pacchetto personale e l'accese con nonchalance. «Non so a cosa lei possa credere. Le tradizioni sono solo tradizioni. Può trattarsi di un mito o, forse, isteria di massa. La chiamano così, se non sbaglio.»

Sherlock analizzò meticolosamente la donna. Questa a stento era capace di controllare il tremolio alle mani e, perciò, aveva cominciato a inalare nicotina per rilassarsi. Immobile, accolse il fresco e gli ultimi sputi di ghiaccio infiltratisi dalla finestra.

«Il suicidio di Connor Bates è perfettamente giustificabile. Ma potrebbe anche trattarsi di un evento raro e inspiegabile. È difficile tracciare un confine tra quello che è sembrato e quello che realmente è stato. I sensi possono ingannare.»

Catherine portò la sigaretta alle labbra, prendendosi l'attimo necessario per eseguire una profonda tirata. Dopodiché espirò via il fumo che i polmoni avevano filtrato.

«Il suo collo era destinato al cappio. Era uno sbruffone e–»

«E un traditore recidivo, ne sono già a conoscenza.»

Sherlock annusò il penetrante odore offerto dalla sigaretta accesa.

«Bene. E allora parta da questo. Indaghi e scopra se si è trattato di risentimento, oppure di semplice vendetta» pronunciò la donna, sempre più coinvolta in una fase d'inviperimento.

Catherine, in effetti, sembrò volersi tramutare in una serpe piena di tossine utilizzabili contro chiunque peggiorasse il suo perenne malumore. Tra le vittime, quella più probabile era sicuramente la governante, che ancora aveva fatto cigolare il portone, esponendosi.

Mrs. O'Ghallager, con i nervi provati dallo stridio, strinse ancor di più la sigaretta tra le labbra e inspirò. «Cosa c'è, ancora?»

Tatiana entrò nella stanza. «Signora, non voglio essere insistente, ma c'è una persona che cerca Mr. Holmes, un certo James Watson, o–»

«John!» Sherlock sentì una scarica ricaricare il suo corpo.

La mente corse al di là delle mura, verso il collega che si era presentato nella struttura.

«Prego?» chiese la donna.

Il detective controllò l'eccitazione.

«È il mio assistente.»

Catherine schiacciò il filtro della sigaretta contro una pietra incastonata nel muro. «Fallo entrare, Tatiana!»

Gwen era abituata allo sfarzo, dal momento che aveva sempre passato i suoi anni in una residenza dignitosissima. Invero, casa sua era molto più compatta e, soprattutto, meno abbandonata all'incuria e al disordine. Il salottino d'ingresso di Cloverfield Manor, per quanto ampio, era poco curato, spoglio di mobili e polveroso. Probabilmente, una sola domestica non era capace di tenere a bada lo sporco di un'intera magione.

John rimase seduto di una poltrona dall'esuberante stile rococò e, con in mano una tazza di tè fumante, aspettò il collega.

«Si lascia attendere» disse.

«Oh, lo sto notando.»

Il viaggio per il Gloucestershire era stato rapido e per niente faticoso. Il treno partito da King's Cross, dopotutto, aveva impiegato solo un'ora e mezza per raggiungere la sua destinazione e, in quel breve lasso di tempo, Gwen aveva avuto la possibilità di smussare l'imbarazzo prima giunto. Entrambi dialogarono e senza nemmeno troppi intoppi.

Naturalmente non furono affrontati né dubbi né curiosità. Qualsiasi cosa avvenuta nel passato dell'ex soldato rimaneva un'incognita da estrarre per mezzo di discrete pillole quotidiane. Battere con irruenza sul delicatissimo argomento Mary non sarebbe mai stato il migliore dei modi per affrontare in modo profittevole l'argomento.

Rimandato il confronto, Gwen diede un'occhiata al tavolino che aveva davanti: il legno era stato occupato da piatti sporcati con muffin salati e sandwich poco farciti; tra la teiera e la zuccheriera era stata posizionata anche una scatola contenente dei biscotti.

La donna strabuzzò gli occhi, poiché quella confezione identica uguale a quella acquistata precedentemente al supermercato, con Mrs. Hudson. Prese il tutto, di conseguenza, come un strano segno del destino. Perciò, spostò il coperchio della scatola, arraffò due biscotti e, con naturalezza, cominciò a modelli per mettere a tacere ogni brontolio. John invece posò la sua tazzina e ricominciò a parlare.

«Lui è così...»

Gwen non gli diede il tempo di finire.

«Primadonna! Sherlock Holmes è una primadonna. Lo so.»

Piegò le labbra in un sorriso e nel frattempo addentò il suo biscotto. Dopo una manciata di secondi, avvertì un'ombra dilatarsi sul suo corpo, inghiottendolo. Fu questione di attimi e Sherlock Holmes torreggiò su di lei in tutta la sua spiccata altezza. La ragazza, allora, sbarrò gli occhi e, incredula, si rese conto che quei biscotti non era portatori di fortuna.

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Capitolo 15
*** Duello al primo sangue ***


Duello al primo sangue

1.

Riuscire a tenere testa all'iperattività di Sherlock era arduo per qualsiasi essere umano occupasse un posto nel mondo ma, nonostante tutto, John Watson era riuscito nell'impresa, abituandosi al turbine di situazioni che rapidamente si susseguivano, l'una dopo l'altra. La vita al 221 B non era controllata da rigidi programmi, ma era accompagnata dalla sola costante certezza che la giornata sarebbe potuta radicalmente cambiare, trasformandosi nell'arco di poche ore in qualcosa di buono o pessimo. Lì, impossibile era ricordare il concetto di stabilità dal momento che, nel corsi degli ultimi anni, i periodi burrascosi erano stati molti e i momenti di riposo erano diminuiti drasticamente. [1]

John mosse un po' le articolazioni, torpide per via del viaggio, e subito ritornò a pensare al come il suo stile di vita, in fondo, fosse rimasto inalterato per davvero troppo tempo: stava sull'attenti e si preparava alla missione tanto in Afghanistan, quanto a Londra. La guerra l'aveva continuata in un certo senso, ma ciò era riuscito a turbarlo ben poco, giacché il ruolo dell'infermo non era gli era mai calzato, nemmeno dopo la brutta ferita alla spalla.

Ciononostante, il bisogno di stare lontano dal collega, anche solo per un po', doveva sempre lasciar posto all'ennesimo omicidio nel Tottenham, o al traffico dalla difficile risoluzione. John sentiva il bisogno di dedicare del tempo a se stesso, a sua figlia e non solo al testardo bambino già intento a fissarlo con fare accigliato.

«Noto che stai bene. Non mi sembri ferito e nemmeno in difficoltà. Ciò mi spinge a chiuderti a cosa ti servo, allora?»

Il medico fece la domanda con forzata pacatezza, ma da Sherlock diede in cambio un'espressione alquanto strana: il suo, prima molto mite, nel momento in cui guizzò su Gwen, cominciò ad assottigliarsi, facendosi duro e inflessibile. Non erano più Holmes e Watson, o più semplicemente Sherlock e John. In quel lungo istante, si erano trasformati nel trio di Holmes, Watson e Miss Blomst.

«La guarigione è stata molto rapida. Non mi sorprende, ma il periodo di riposo è ancora lungo. Questo non è un albergo, per quanto ci assomigli. Lei non dovrebbe essere qui.»

Il detective finse di non aspettarselo, ma in realtà lo aveva già previsto per mezzo di ogni singolo indizio racimolato giorno dopo giorno. Gli ultimi segni stampati sul medico e la donna parlarono.

«Sherlock» farfugliò lei, annunciando la sua presenza.

Non riuscì a continuare, perché a conoscenza di non essere mai stata gradita al suo investigatore. Le situazione era, purtroppo, anche peggiorata negli ultimi istanti e fu proprio John ad accorrere.

«Ti ricordo che anche lei è una tua cliente, in caso la tua mente brillante lo abbia scordato» dichiarò, con fare intransigente. «E non si sente al sicuro, da sola. Il suo aggressore è a piede libero e la padella di Mrs. Hudson non potrebbe mai fermarlo.»

Sherlock lo rimbrottò con tono paurosamente apatico.

«Mi sembra di aver detto che il suo aggressore sia nello Yorkshire, di certo non nell'appartamento di Mrs. Turner o nel bar sotto casa. Nessuno conosce la posizione di Blomst. Londra è distante e troppo grande per essere setacciata da un solo uomo. È lì che sarebbe dovuta rimanere.»

Gwen sentì quelle affermazioni squarciale il petto.

«Londra o meno, io sto ancora aspettando» disse, stanca di essere uno scoglio pronto a raccogliere l'impetuosità di una pungente ironia. «Hai abbandonato il mio caso, lasciandomi in una stanza d'ospedale per giorni. Te ne rendi conto?»

Si sentì ancora bloccata in un limbo senza confine.

«Io non mi lamenterei, al tuo posto. Sono stato io a impedire che un'infermiera omicida ti riempisse il tè di veleno.»

Quella non fu una buona giustificazione secondo la donna, che cominciò a sentire un fastidioso risentimento prendere il comando della sua bocca. Bastò qualche secondo e le parole cominciarono a sfrecciare contro quell'essere dal cuore di ghiaccio.

«Eccome, se mi lamento. Sono stata aggredita e portata in un cantiere abbandonato. Come se non fosse abbastanza, sono stata quasi uccisa. Ho paura, adesso. Ho paura di restare da sola e che possa accadere ancora.»

«Il tuo continuo blaterare è il miglior indizio per dedurre che non sei morta» disse lui, infine, incurante della scarsa educazione.

«SHERLOCK!» tuonò John.

Si sentì come l'arbitro costretto a controllare una lotta di sole parole e, perciò, sempre più intollerante nei confronti delle circostanze, s'impose di rimproverare il coinquilino come un comune genitore.

«Non ha importanza, adesso. Stiamo solo perdendo tempo» dichiarò, riducendo il tono.

Il detective alzò le gambe, intrecciò le mani dietro la schiena e mitigò l'espressione sulla propria faccia. Incapace di reggere il silenzio, si rivolse esclusivamente al proprio collega

«Ho bisogno di parlarti. In privato.»

2.

Il cioccolato è per i damerini, ma il liquore è più rapido.

La mente di Sherlock cominciò a proiettare la nitida immagine di John attaccato a quella donna, nel suo soggiorno a Baker Street. Entrambi erano imprigionati nella sua testa a scambiarsi sguardi languidi; difficilmente sarebbero scomparsi.

«Prima che ricominci a urlare, per favore, puoi dirmi cosa sta succedendo?» chiese il medico.

I bruschi modi di John scacciarono ogni fantasia inopportuna, riportando Sherlock nel suo personale alloggio, a Coleford. Dopo quella scena, aveva condotto l'amico nella sua stanza personale, un buco foderato con della sudicia tappezzeria rossastra e soffocato da un letto a baldacchino esageratamente grande.

«Prima dammi la pistola!»

John deglutì e, per quanto ancora troppo confuso, mise la mano nella fodera interna del suo impermeabile e sfiorò quel metallo liscio e familiare. Con cura sfilò la pistola d'ordinanza dal tessuto e la porse all'altro, che nel frattempo aveva già dispiegato il palmo. Sherlock afferrò l'arma e la esaminò come se fosse per la prima volta. Dopodiché, eseguita qualche carezza sull'impugnatura, si grattò la fronte con la canna. Il materiale freddo del metallo diede alla sua pelle una piacevole sensazione.

L'ex soldato, nel frattempo, fissò tutta la scena con piglio imbambolato. «Ho, per caso, raggiunto la costa occidentale solo per questo? Dimmi che non è così, ti prego.»

Il detective corrugò la fronte in segno di naturale dissenso. «E farti sprecare le energie. Certo che no. La pistola potrebbe servirmi ancora.»

John scosse la testa, cercando il senso della propria presenza a Coleford, compito paragonabile a un'impresa faticosa, se non del tutto irrealizzabile. Infine, flettendo le sopracciglia, sfruttò la lingua per esporre un'unica considerazione. «So bene che sei capace di procurarti un'arma, e anche senza il mio aiuto. Trovare le cose è ciò che sai fare meglio.»

Sherlock mandò a John uno sguardo remissivo e, nel mentre, gli porse l'impugnatura della pistola, comunicando altro. «Potrebbe servirmi anche un buon tiratore.»

Il medico dischiuse la bocca, facendo risaltare il suo stupore e, in seguito, riprese l'arma.

«Cosa stai complottando?»

Il detective, allora, scandagliò l'espressione dubbiosa del collega, ma la sua concentrazione soprattutto premette sulle quella finissime labbra; quella molestissima fantasiaintanto ritornò ad albergare nella sua mente, distogliendolo dalle indagini.

«Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a scuotere le acque. Tu sei l'unico che può aiutarmi, ma mi servi concentrato. Cerca di non pensare troppo alle labbra di Miss Blomst, in questi giorni.»

Quel comando inopportuno paralizzò John, che fu costretto a riassaporare mentalmente tutta quell'inaspettata esperienza. Addirittura, una pressione fantasma – simile a quella percepita durante la serata fatidica – ritornò a solleticare la sua bocca.

«Come...» biascicò. «Come fai a sapere–»

«Hai lo sguardo stanco, perché la fase REM del tuo sonno è stata ridotta dall'alcol. Poco prima hai bevuto una quantità di tè superiore ai tuoi standard, avevi bisogno d'idratarti. Però non hai toccato cibo. Ti sei massaggiato la testa in due occasioni. Lo fai sempre quando assumi un alcolico. Non sei mai stato in grado d–»

«Questo non spiega niente!»

Il medico non poteva cancellare quel poco che era successo.

«E allora perché lei è qui, John?»

Gwen ha insistito.

John forse non si era nemmeno preso il disturbo di chiederselo, poiché non aveva alcun interesse nell'approfondire la questione. Sperava solo di dimenticare l'accaduto. Depennare la memoria quell'attimo era necessario per prendere le redini della dialogo e condurlo in direzione di altri temi.

«Non è questa la nostra preoccupazione. Hai detto che ti servo? Cosa sta succedendo?» chiese ancora.

«Un semplice omicidio» sentenziò Sherlock, ricomponendo la propria inflessibilità.

«Da quel che mi ricordo, l'uomo si era suicidato.»

«No, è solo stato ucciso da un membro della famiglia.»

«Perfetto. E il corpo? La scena del crimine?»

Il bruno sembrò alterarsi nell'udire quella domanda. «Non esiste più né il corpo né una scena del crimine. L'assassinio è stato compiuto due anni fa, nella foresta di Dean. Le indagine sono state chiuse di recente e non mi è concessa una riesumazione del corpo. Devo lavorare con ciò che ho dedotto.»

John seguì il filo logico del collega, ma incontrò solo garbugli.

«Quindi l'hanno ucciso nella foresta?»

Sherlock raggiunse il letto a passo lesto e poggiò le mani al di sopra della parte morbida. Con una leggera spinta, spostò il materasso, mostrando un fascicolo che era stato posizionato al di sopra delle doghe: le carte, leggermente sgualcite e ingiallite, si erano piegate l'un sull'altra, quasi incollandosi.

«È stata un'esecuzione. La morte è sopraggiunta a causa della rottura del collo per mezzo di un cappio. Lo hanno lasciato appeso all'albero, in modo che gli agenti lo trovassero» confermò, dispiegando la copertina cartonata e spiattellando qualche cruenta foto.

Il medico, seppur lontano, riuscì a focalizzare lo sguardo sulle macabre foto ritraenti il corpo nudo e duro del disgraziato, già disteso lungo un letto d'acciaio. I segni della della corda si erano tatuati sul suo pallido collo, quasi esacerbando l'espressione contratta dallo sgomento. Nemmeno il decesso era riuscito a levargli il terrore dalla faccia.

«Hai detto un membro della famiglia. Ne sei sicuro?»

«L'assassino ha cercato di giustificare il finto-suicidio con la messa in scena della donna in nero e solo un membro della famiglia sapeva come sfruttare le cantine. Hanno usato la disposizione a elle e le pareti scure per un semplice trucco conosciuto come il Fantasma di Pepper. Con un vetro, o anche una lastra di plexiglas, è possibile ottenere la perfetta rappresentazione dell'immagine di uno spettro.»

John contraccambiò la parola. «Okay, vedo che sei già a buon punto. Ma ancora non riesco a capire il mio ruolo in questa faccenda.»

«Ogni cosa a suo tempo, John.»

3.

Lo studio di Cloverfield Manor era una grande scatola di lucido legno intagliato, sezionata con tanta precisione dalla presenza di grandi finestroni accarezzati dalle smeraldine frasche appartenenti alle querce millenarie della proprietà. Nonostante la presenza della fitta vegetazione, la sala era a rischiarata da una luce argentea che, trapassando le singole aperture, si adagiava su ogni bassorilievo accuratamente intagliato nelle pareti inglobanti enormi librerie imbottite di preziosi libri d'epoca. Oltre a ciò, proprio al centro dello stanza, sopra un esteso tappeto persiano arabescato, era stato posizionato un possente biliardo ornato con decorazioni dorate e piccole sculture che ben richiamavano le naturali bellezze della campagna britannica.

Un caldo bagliore, proveniente dall'articolato lampadario aureo, aderiva agli scattanti movimenti di Dwayne O'Ghallager che, con il sigaro fumante in bocca, era intento a schioccare con una stecca di legno colpi secchi sulle biglie da pool inglese.

Il gioco non solo era condotto da lui, ma anche da altre personalità al quanto spiccate: Terence Sullivan, George Bill Carpenter, Rodney Singleton e Harold Cunningham erano solo un gruppo di rozzi bifolchi che, proprio come il loro caro amico Dwayne, si mascheravano sotto gli abiti del dandy. Tutti erano apparentemente simili a un cicisbeo solo fin quando non aprivano la spocchiosa bocca per rigurgitare idiozie.

«Merda, Harold. La tua decrepita prozia Millie tirerebbe con un più energia. Non hai ancora imparato il movimento giusto.»

Harold, un uomo grasso quanto un maiale, sghignazzando, fece ondeggiare la sua chioma bionda. Seppur già un po' brillo, continuò a sorseggiare il suo bicchiere di pregiato Hennessy Cognac.

«Non è ancora morta?»

«No, sfortunatamente» bofonchiò George, con una punta d'amarezza.

Rodney, nello sfiorare con energia il gesso sulla punta del suo legno, cominciò a sproloquiare. «È il paradosso di chi possiede un'eredità. Più invecchiano, più si aggrappano alle loro vite. Porta pazienza, George. Prima o poi tirerà le cuoia e metterai le mani su ciò che ti spetta. Bisogna saper aspettare, amico mio.»

O'Ghallager rise come un bambino e, solo dopo, si piegò sul morbido panno scuro per eseguire il suo colpo. Non appena la biglia percosse le altre in uno snooker, si dedicò al chiacchiericcio, ma concentrandosi solo sul dottor Watson.

«Allora, John Watson, se ricordo.»

«Sì» confermò il medico.

John e Sherlock rimasero fermi sulle poltrone poste accanto alla libreria centrale. Per il solo fine investigativo, avevano preso parte allo sciocco incontro, organizzato dal padrone per meglio passare il tempo nella gioia della compagnia.

«Ex militare?» chiese Dwayne, con il sigaro in bocca.

John eresse ulteriormente la postura e specificò:

«Ex medico-militare.»

Sentì la necessità di dare importanza ambedue i suoi ruoli, per ben esplicitare il come lui sapesse ferire, ma anche medicare. Non era una bestia, ma un persona capace di saper togliere e dare.

Purtroppo, O'Ghallager non colse il concetto. «E che ho detto?»

Rodney, puntellandosi sulla sua stecca, emise ancora parola.

«Deve aver avuto una vita interessante, dottore.»

Sherlock fremette dalla voglia di rispondere al posto del collega.

«Be', dipende da cosa s'intende per interessante. C'è da dire che la guerra ha sempre il suo oscuro fascino.»

Rodney rimise i suoi spessi occhiali da vista, si posizionò sul legno bigliardo e, accarezzando dolcemente la bacchetta con i polpastrelli delle dita, prese la mira con precisione millimetrica. Dopodiché, quasi grugnendo, continuò a conversare.

«Scommetto che sei proprio un uomo con le palle, Watson!»

L'ennesimo brutale schioccò echeggiò nell'atmosfera. Sherlock, sorridendo, mostrò una strana di abilità nel dialogare e, senza mai indugiare, si dedicò con educazione all'ascolto dei presenti.

«Rimane anche un ottimo tiratore. Con la pistola, intendo.»

O'Ghallager rise ancora.

«Non lo metto in dubbio. Watson me lo proverà presto.»

Diresse le guance paffute e rubiconde al medico che, sempre più disorientato dalla situazione, con le parole incespicò a tal punto da non riuscire nemmeno a scandire un insulso «Cosa?»

L'irlandese, felice quanto una pasqua, chiarì subito le sue intenzioni. «Oh, stiamo organizzando una battuta di caccia, giusto questa settimana. Siete invitati, naturalmente. Un buona mira è sempre utile contro i cinghiali, e Dio sa se ho voglia di mettere mani sul mio fucile.»

Terence, serbando un tono molto più consono al contesto, orientò il capo bruno in direzione degli ospiti più recenti e con delicatezza continuò:

«Provvederemo noi alle armi, e possibilmente anche al necessario. Forse anche al cane. Sono indispensabili con le volpi.»

«Sembrerebbe un'idea ottima, ma...» biascicò il medico.

«Ma a John non piace la caccia» concluse Sherlock.

L'ex soldato, pur sentendo lo scompiglio regnare nella testa, cercò di mantenere intatta la propria sicurezza. Sperò, inoltre, in una qualche spiegazione silenziosa da parte del collega che, molto stranamente, lo ignorò.

«La guerra lo ha reso un ottimo tiratore. Tuttavia, dovete comprendere che per un uomo abituato al terreno bellico, sparare contro una lepre non è mai davvero... gratificante

Tutti risero, sopprimendo la quiete.

«Come non dargli torto?» pronunciò Terence.

Harold si sbellicò a tal punto da cambiare colore e, solo quando il silenzio riprese il comando, adunghiò il bordo delle bicchiere con la bocca, prosciugando l'alcol in poco tempo. In seguito, sempre più ebbro, diede sfogo alla lingua.

«Che peccato! Non ho mai incontrato un professionista all'opera. Immagino solo le magie che il dottore sappia fare con un ferro in mano.»

«Lo credo. D'altronde il miglior tiratore che abbia mai conosciuto» disse Sherlock, lasciando che l'esca attirasse quei cinque pescecani.

Dwayne posò la propria stecca sul panno scuro e fissò il medico, compiaciuto. «Non corriamo troppo. Il titolo di migliore bisogna aggiudicarselo e, ahimè, non ho alcuna testimonianza della bravura del suo amico, Holmes. Solo l'esperienza diretta può darmi un riscontro. Solo quella...»

Il detective ghignò, poiché tutto era andato come nel suo progetto. La sua messa in scena, in effetti, stava dando dei buoni frutti, e presto gli avrebbe consentito di raggiungere il suo fine.

«Saprebbe colpirla nell'occhio anche a dieci metri di stanza.»

O'Ghallager stette in silenzio e dopo rise con ancora più foga, dispensando occhiate ai presenti. George, nel frattempo, rimase seduto su una grande poltrona in pelle nera e, completamente rapito dalla situazione, accavallò le lunghe gambe. Sollazzato da quel chiacchiericcio spontaneo, con il naso adunco indicò il medico.

«È una provocazione, Mr. Holmes? Perché a me è parso di sì.»

John sentì il sangue ghiacciarsi pian piano.

«No, assolutamente no. Non deve» biascicò, intimorito.

O'Ghallager raggiunse l'ultimo arrivato e troncò il suo discorso. «Nessuna offesa, Watson. Prima o poi le mostrerò qualcuno dei miei colpi. E lei, naturalmente, contraccambierà. No?»

Sherlock, freddo, chiese. «Perché non subito?»

Il medico sentì una sensazione d'allerta predominare sulla percezione. L'angoscia data dal momento gli impedì di discutere animatamente contro quel branco d'idioti in cerca del rimbombo di pallottole.

«Le andrebbe un duello all'inglese?» continuò il bruno, parlando al padrone di casa.

O'Ghallager si massaggiò la pancia con le grosse dita, ridacchiando di tanto in tanto. Il capo rossiccio cominciò a ospitare delle strane idee, idee parecchio ingentilite dall'alcol.

«Mi sta chiedendo per caso di sparare al suo amico, Holmes?»

Sherlock rispose con tanta tranquillità.

«Siete entrambi molto esperti con la pistola. Di conseguenza non penso si corrano grandi rischi con un semplice duello al primo sangue. Niente di troppo pericoloso, in fondo. Solo un giochetto banale per capire chi è il migliore, qui dentro.»

Il sorriso di George acquisì nuova luce.

«Non male come idea!»

Rodney abbandonò il suo legno e, contento, diede un'espressione eloquente a ogni anima rinchiusa nella camera. Non si fece alcun scrupolo nel mostrare il suo desiderio indirizzato a un gioco tanto aristocratico quanto bieco e obsoleto.

«Non assistiamo a un primo sangue da un'eternità. Non è così, Terence?»

«Oh, assolutamente!» rispose l'altro.

Harold, lasciando cadere dell'altro cognac nel bicchiere, si dedicò a qualche aneddoto da sciorinare con la solita giocosità di sempre.

«Conoscete Mason Prüst, quello che possiede Beverstone Palace? Era talmente ubriaco che, in un duello al primo sangue, ha ferito l'avversario con il proiettile e se stesso con il rinculo del colpo. Sarei dovuto esserci, ma solo per ridergli in faccia.»

George sogghignò, come se avesse il singhiozzo.

«Harold, mai pensato di partecipare a qualcosa del genere?»

Terence rispose con immediatezza al posto dell'amico.

«Certo che no. Ogni chilo che possiede è una chance in più per il contendente. Sarebbe come sparare a uno zeppelin

Tutto il gruppo si lasciò trascinare dall'ilarità dell'ultima battuta becera. Il medico, invece, percependosi sprofondare nell'abisso de guai, si sentì in dovere di contenere tutta quella assurda situazione, prendendone il comando. Con impertinenza, decise d'irrompere nella conversazione, dimostrando tutto il suo dissenso.

«Io non penso di essere d'accordo.»

Ma Harold, tutto contento, esclamò:

«Suvvia, dottor Watson, non abbia paura!»

O'Ghallager, sempre più intrigato dalla gioco, poggiò la mano gigante sulla sua spalla del medico in segno d'incoraggiamento e lo scosse con delicatezza. «Useremo le mie pistole antiche. Un solo colpo, uno solo. È vietato colpire alle parti vitali. Questo è il mio methodus pugnandi. Se uno dei due viene graffiato, la lotta verrà immediatamente interrotta e chiameremo il pronto soccorso. Il colpo a vuoto sarà considerato valido. Ha la mia parola, Watson.»

George diede la sua esortazione. «Saremo preparati al peggio, dottore. Non si preoccupi.»

«Io...» sussurrò il medico.

Sherlock diede forza alla propria voce. «Accetta!»

4.

Restarono immobili, con le spalle attaccate e la serietà sul volto, già concentrato sulla densa foschia attorno alle querce. Entrambi si erano posizionati al centro di un pezzo di terra non menomato da radici e arbusti. Il fogliame e sprazzi di neve erano, in effetti, le uniche cose a ricoprire leggermente il suolo umidiccio e freddo.

John tenne l'arma presso il fianco, cingendola con solo un poco di forza per meglio permettere lo slancio al momento della mira. Si sentì rigido, come un chiodo conficcato nel legno e, soprattutto, teso. Un leggero terrore, purtroppo, indebolì le sua gambe e, per di più, l'ansia da prestazione premette sulla sua concentrazione. Nonostante il leggero tremolio alle dita, restò focalizzato su quello che era il suo intento: contare dieci falcate, raggiungere il paletto piantato a terra, girarsi e sparare un buon colpo.

Gli amici di O'Ghallager, pur essendosi staccati dal terreno di battaglia, fecero sentire le loro grida eccitate e sempre più animalesche, proprio come dei comuni tifosi strepitanti appena giunti presso lo stadio. Tra questi c'era anche Sherlock, fermo e austero. John lo notò, nel suo modo di fare sempre distaccato, e sentì il bisogno di buttar giù la sua pistola per andare a scuoterlo con forza e farlo rinsavire, ma non ebbe nemmeno di imprecare che Terence, entusiasta, raggiunse i duellanti per dare inizio all'incontro.

Tenne tra le dita il collo di una raffinata bottiglia di whiskey, per poi porgerla a entrambi per un ultimo sorso. Infine sfilò dalla tasca un fazzoletto bianco, la cui caduta avrebbe inesorabilmente dato inizio al conteggio dei passi. Quando gli schiamazzi cominciarono a farsi sempre più animati, il pezzo di stoffa levitò giù, fino a coprire l'erba fredda. Fu allora che Terence cominciò a urlare. 

«Uno, due, tre...»

John, completamente incapace di osservare le mosse dell'avversario, percorse i primi passi soffocando con difficoltà l'eccitazione. Questa si era messa a pilotare il suo andamento. Il tempo, ritmato dal celere battito cardiaco, cominciò a dilatarsi.

«Quattro, cinque, sei...»

Percorse metà del suo cammino con la testa leggera e il passo pesante di un condannato a morte. E proprio la morte, in quel momento, si era fatta prossima a quel ramo puntato nel terreno.

«Sette, otto, nove...»

Il tranello doveva essere da qualche parte.

«Dieci.»

Passò un frammento di secondo e l'eco di un solo colpo crudele si espanse nell'atmosfera assieme allo stridulo strepitio delle cornacchie che si materializzarono dagli scuri alberi frondosi per fuggire lontano da quel campo, appena macchiato dal sangue.

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Capitolo 16
*** La Bibbia e la pistola pt. 1 ***


La bibbia e la pistola pt. 1

Cloverfield Manor, Coleford Gloucestershire.

John Watson, nel corso della sua esistenza, aveva esaminato ogni tipo di ferita, abrasione o escoriazione cutanea. La professione di medico gli aveva offerto la possibilità d'osservare un'ampia serie di lesioni, delle quali molte erano state inasprite dalla fuoriuscita di copiose quantità di sangue. Di conseguenza l'ex soldato, per far fronte all'emorragia arteriosa – una fiumana dal rosso flusso pulsante – ricorse alla propria esperienza e mise in atto le norme di un pronto soccorso.

Fu proprio quel giorno, al di sotto di un mare di fronde protratte a un orizzonte soffocato da una mesta foschia, che si sentì l'elemento di un losco sotterfugio di Sherlock. Gli era bastato ferire Dwayne O'Ghallager in uno sciocco duello al primo sangue organizzato da una combriccola di finti aristocratici.

Dopo un unico colpo, il proprietario di Cloverfield Manor era caduto a terra, picchiando su un tappeto di foglie che, battute dal tonfo, schiopparono in alto per poi sfarfallare nell'atmosfera. O'Ghallager, appiccicato al suolo e pallido di dolore, gridò contraendo le guance. Una macchia purpurea continuò a insozzare il pregiato tessuto dei suoi pantaloni deturpati da un foro. Questo, seppur poco profondo, aveva dirottato il flusso sanguigno, facendolo zampillare fuori pelle nuda e cadere sulla stoffa degli indumenti, persino sul suolo granuloso.

John osservò l'uomo e sentì l'ansia da prestazione cedere il posto ad altra agitazione. Non ebbe nemmeno il tempo di pensare, che una forza prese il controllo delle sue gambe, spronandole a correre in direzione del ferito. Sherlock, al contrario, s'atteggiò da elemento assente e osservò con serenità tutta la tragica scena. Per nulla scosso dal tutto, scelse di restare fermo come una statua in mezzo alla campagna, lasciando tutti gli altri liberi di soccorrere il nobiluomo.

Terence, George, Harold e Rodney, sghignazzando e ululando, si fiondarono dall'amico, che cominciò tremare e urlare.

«Fate qualcosa, branco d'idioti!»

Rodney diede un controllata al ferito quasi con un leggero disgusto, codificando un strana immagine: Dwayne O'Ghallager, oltre che al sangue, aveva smarrito parte della sua immagine autoritaria.

«È così che si è dato da fare in guerra, dottor Watson?»

George afferrò il fazzoletto da taschino, lo arrotolò e lo fece mordere a Dwayne, che strinse il tessuto con ferocia per far fronte a un dolore.

«Un colpo perfetto» confermò Harold, ancora entusiasta.

Terence, impassibile e serioso, cinse il proprio smartphone e, irreprensibile quanto un giudice, lo porse a Cunningham, pronunciando poche parole ricche di senno.

«Basta stronzate, Harold. Chiama il pronto soccorso e non osare perdere altro tempo. Datti una mossa!»

John, seppur nel bel mezzo del caos, ignorò tutti e rese O'Ghallager il solo protagonista della propria attenzione. Esaminò con precisione l'irlandese che, d'un tratto, cominciò a rilassarsi gradualmente, come se stesse perdendo il controllo sui cinque sensi. Gli occhi cerulei, solleticati dalle folte sopracciglia biondastre, sembrarono perdere consistenza.

Il medico, allora, con lestezza portò la mani verso il bacino e con le dita sfiorò il cuoio della cintura. Con poche mosse spinse la fibbia, sconficcò il rebbio dal suo buco e fece passare la cinghia per i passanti dei jeans, che gli si afflosciarono lungo i fianchi.

«Che sta facendo, Watson?» domandò Rodney.

«Cerco di fermare l'emorragia.» 

Terence osservò Harold, allontanatosi per chiamare il pronto soccorso e, in seguito, puntò anche George Carpenter, per meglio accalappiare la sua attenzione. Con la tenacia di un abile barelliere, attirò l'amico. «George, va a prendere un asciugamano, stoffa, qualsiasi cosa. Basta che sia pulita.»

John intanto osservò lo spilungone raggiungere l'entrata secondaria della struttura, dopodiché strizzò energicamente con la propria cinta la coscia di Dwayne, che da quel momento si gonfiò a dismisura.

«Mi dispiace molto» disse infine.

2.

John, per tutto il resto della giornata, sfruttò le mani solo per tener su le braghe che scendevano giù continuamente, mostrando parte del suo intimo. Le dita gli si erano intorpidite e il braccio, continuamente piegato, non face che tirare la stoffa oltre la carne. Suo malgrado fu complicato puntare l'indice per dimostrare biasimo.

«Cosa ti è saltato in mente? Perché organizzare qualcosa di così... stupido

Sherlock, disteso sul proprio personale letto e con le braccia nude e ricoperte dai cerotti alla nicotina, assunse la sua migliore posa per pensare. «Avevo solo bisogno di tenere il patriarca O'Ghallager lontano per qualche giorno. E ci sono riuscito.»

Il medico rimase allibito per quella spiegazione. «Quindi mi hai fatto sparare a un uomo solo per le tue indagini?»

«Sparare? L'hai solo sfiorato alla gamba con un proiettile. È robusto e in buona salute. Quel colpo sarà per lui una benedizione, quando si accorgerà di poter restare lontano dalla sua famiglia per qualche settimana.»

John non resistette ai nervi. Tese entrambe le braccia e strinse i pugni, liberando la presa dai jeans, che ancora scesero giù scoprendo qualcosa di troppo. Con l'espressione bestiale di un toro, s'accanì contro il bruno, la sua mantellina rossa. 

«Potevo ucciderlo, Sherlock. O lui poteva uccidere me.»

«Scorretto, John. Era altamente improbabile» convenne Sherlock, calamitato dal medico sempre più furente.

L'ex soldato, litigando sia con il coinquilino che con un paio di jeans, riportò il denim alla giusta altezza e ricominciò a riflettere su tutto ciò che era accaduto. Si chiese se l'amico fosse così matto da escogitare un piano così rischioso; se si fosse servito delle mani del migliore amico senza nemmeno tenere conto le conseguenze.

«C'è dell'altro. Ti conosco sin troppo bene» affermò.

Il detective ritornò a fissare il tetto del baldacchino e distrasse l'iride dal corpo del collega. «Non poteva colpirti, nemmeno se l'avesse voluto.»

Quelle parole echeggiarono nella testa di John, che sentì le sinapsi operare più duramente fino a raggiungere una qualche ipotesi sensata. In un solo istante, proiettò nella sua mente la figura di Dwayne, lento e con lo sguardo stranamente assente.

«Oh, mio... Tu l'hai drogato?» chiese, quasi in modo retorico.

Il bruno rimase completamente quieto.

«Ho solo alterato la sua percezione con un sostanza istantanea. La psilocina lo ha subito rallentato. Non che l'alcol fosse stato inutile. Ma sai, mi tengo sempre preparato.»

John ricordò la pregiata bottiglia di Whiskey che Terence aveva portato per battezzare l'inizio del duello. Aveva usato il liquido solo per bagnare le labbra, ma Dwayne aveva mandato giù due grandi sorsi, trascurando il contenuto del recipiente.

«T-Tu...» balbettò il medico. «Non posso crederci.»

«Sapevo che non avresti mai bevuto per davvero, non prima di sparare. Non lo faresti mai, hai bisogno dei tuoi sensi.»

John aggrottò la fronte che, presto, fu schiaffeggiata dal palmo della mano libera. «Cristo!» imprecò, cercando di frenare quel diluvio di brutte conclusioni all'interno del suo cranio. «Hai per caso portato della droga con te?» chiese infine, sperando in una qualche riposta negativa.

Sherlock addolcì il proprio guardo.

«No, John.»

L'ex soldato allora cominciò a zampettare, come per placare il proprio stato ansioso. 

«Non riesco a crederti, Sherlock» asserì a denti stretti.

Il bruno, allora, lo tranquillizzò.

«Ho semplicemente ridotto in poltiglia qualche funghetto allucinogeno racimolato nel bosco. Tecnicamente, non ho mai portato degli stupefacenti con me. Sono pulito, da tempo.» Trasformò le sue parole in un miagolio che ben esplicitò un profondo bisogno di attenzione. «Dico sul serio...»

John si chetò un attimo.

«Mi hai fatto ferire un uomo.»

E Sherlock cercò di giustificarsi.

«Un uomo che è stato coinvolto in un omicidio.»

«Non mi fa sentire meno in colpa.»

Il medico sospirò e poi diede ascolto alle parole del collega.

«La moglie Helen sembra sapere qualcosa d'interessante. E adesso che Mr. O'Ghallager è lontano da Cloverfield Manor, si sentirà più libera di comunicare con me. Mi ha consegnato un messaggio, naturalmente lo ha fatto di nascosto. Non è al sicuro con lui e ha qualcosa d'interessante da dire.»

«E ne sei certo?» chiese John.

«Decisamente.»

3.

Cloverfield Manor per quanto simile a un'immensa cripta, spoglia e smorta, dopo qualche ricerca ben condotta, offriva qualche camera discostante dal clima tetro della residenza. La biblioteca, con le sue mura composte dal caldo legno e con le pregiate tende di lucente satin, rappresentava il più bel posto del maneggio. Gli scaffali erano imbottiti di libri; i più recenti erano custoditi nei ripiani inferiori, attorno a un sofà e due scrittoi. Presso l'ingresso era stata creata una sottile scala a chiocciola, utile a raggiungere un balcone interno delimitato da ulteriori scaffali contenenti opere antiche e qualche classico della letteratura inglese nella sua prima edizione. L'intera camera era, invero, un piccolo scrigno dei tesori.

Gwen perlustrò tutto lo spazio, focalizzandosi su ogni titoli che il suo occhio riuscì a raggiungere. Non era nei piani lasciare la sicura rimessa esterna per entrare nella struttura, ma la calma di quella giornata accese in lei il desiderio di esplorazione. Le dita sfiorarono una fila di rugose copertine rigide fino a scorgere un bel tomo nero, decorato con qualche ghirigoro argentato. Dopo, lo afferrarono, trascinandolo lontano dalla sua consueta posizione.

Le fluer du mal di Charles Baudelaire

Gwen lesse il titolo, per poi accarezzare i fogli odorosi.

«Da Satana o da Dio, che importa? Angelo o Sirena, se tu ci rendi – fata dagli occhi di velluto, ritmo, profumo, luce, mia unica regina! – l'universo meno odioso, meno pesante il minuto?» Un timbro maschile elettrizzò il cuore della ragazza che, spaventata, chiuse il libro con impeto e girò il viso verso quello che poteva essere un fantasma emerso dalle pareti.

«Buongiorno» disse un giovanotto, tanto alto quanto ammaliante nei suoi modi aristocratici.

«Buongiorno a te» rispose lei, con la lingua titubante.

Il ragazzo raggiunse la sconosciuta, esibendo un tratti facciali magri, spigolosi e pallidi. Il suo fisico, asciutto e allampanato, lo fece sembrare uno scheletro foderato da pelle, ma ogni mossa lasciò ben intendere una buona agilità.

«Baudelaire, detto il poeta maledetto. Una scelta audace, Miss?»

«Blomst, Gwen Blomst.»

Il ragazzo sorrise, come per lasciare intendere una qualche segreta illazione e poi continuò a interloquire con innata naturalezza.

«Dal gallesse Gwyn, bella e bianca. Omen nomen, un nome e un destino, mia adorabile Lady.»

Gwen si sentì quasi pizzicata dallo sguardo dello sconosciuto che, come un bellimbusto, si era dilettato con una qualche strana forma di flirt. Nonostante si sentisse lusingata da quelle attenzioni decise di mozzare l'imbarazzo della situazione.

«Stai usando l'etimologia del mio nome per farmi un complimento?»

Lui sorrise, con aria smaliziata.

«Qualcun altro lo ha già fatto, per caso?»

Gwen dovette abbassare il viso per nascondere l'imbarazzo.

«No, nessuno è mai stato così audace.»

Il ragazzo, con l'aria del tipico impertinente, si fece prossimo all'ospite e usò le dita per sfiorarle le mani fredde e candide. Con innata delicatezza, sfilò il libro nero dalla flebile presa.

«Be', avrebbero dovuto. Gwen è un nome poetico. Richiama alla mia memoria Le avventure di Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda. Credo tu conosca molto bene la struggente e peccaminosa storia sentimentale fra Ser Lancillotto e la bellissima regina Gwenivar. Io personalmente ne sono sempre stato affascinato. Gli amori turbolenti sono i più intriganti.»

La donna sentì l'effetto di quell'approccio così diretto. Divenne assolutamente necessario stemperare la situazione con un tono freddo.

«Non amo quel genere di letteratura. E il mio nome è Gwendolyn, non Gwenivar!»

Il ragazzo, subita la predica, divenne più cauto.

«Recepito il concetto. Come mai da queste parti?»

L'altra sentì il bisogno di creare una scusa plausibile, ma nessuna bugia sembrò abbastanza grande da riuscire a mascherare il perché della sua presenza.

«Sono di passaggio» farfugliò, indecisa.

«Sei qui per Sherlock Holmes. Forse avrei dovuto immaginarlo.» Il giovane le rivolse un sorriso beffardo. «Forse è il mistero ciò che ti affascina...»

«Relativamente.»

Gwen incrociò le braccia al petto, lasciando gli occhi liberi di girare da un punto all'altro, tranne che sul corpo quella presenza. Sentì la situazione farsi scomoda, ma non per questo preferì mantenere il silenzio.

«E tu? Come ti chiami?»

«Desmond, Desmond O'Ghallager» rispose lui, istrionicamente.

«Leggi molto, Desmond?»

Il rampollo sorrise ancora e pronunciò poche parole melliflue quanto lo sciroppo d'acero. «Ovvio, mia dolce Gwendolyn. La cultura ha un forte ascendente sul cuore delle donne.»

Gwen eseguì qualche passo indietro e proseguì la sua ricerca, interessandosi alle tante carte che erano state raggruppate negli scompartimenti di legno profumato.

«Tolkien, Lewis, Bradley, Brooks, Pullman e Howard; siete fanatici del genere fantasy, a quanto vedo» notò, inaugurando un nuovo tema per quella frivola conversazione.

«Lo è mia madre, e anche Dwayne. Loro adorano la roba di Tolkien» confermò Desmond.

«È interessante, molto.»

La ragazza sfogliò qualche pagina de Il Signore degli Anelli e, come volle il caso, trovò una piccola fotografia tra le pagine. La carta, sporca ma integra, ritraeva due bambini intenti a giocare presso un enorme tronco di quercia. La bimba, esile e bionda, esibiva una corona di candidi fiori con gli steli intrecciati. Lui, invece, poggiava tutto il peso su di un lungo bastone storto.

In un solo istante, Gwen chiuse il libro con uno schietto botto, occultando la scoperta appena conseguita. «Vorrei leggerlo» dichiarò timidamente al ragazzo.

«Prendilo pure, se vuoi. So che mi ripagherai.» E Desmond, nonostante l'immaturità dei suoi diciannove anni, lanciò all'ospite un'espressione ammiccante.

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Capitolo 17
*** La Bibbia e la pistola pt. 2 ***


La Bibbia e la pistola pt. 2

1.

Gloucestershire, Cloverfield Manor.

«Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante che l'amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte.» Un sussurro recitò una celebre frese di J. R. R. Tolkien.

Un suo libro era stata ghermito dalle piccole mani di Gwen che, incapace di mantenere la propria presenza lontana dalle indagini, era rimasta impantanata nelle losche circostanze. La carta, seppur ingiallita, era stata tenuta con cura, proprio come se si trattasse di una reliquia fatta di inchiostro e ricordi. Era naturale percepire l'affetto legato al libro, custode della piccola immagine di una bambina bionda, solita decorare le proprie ciocche con una delicata corona di fiori candidi.

Con le dita, la donna prese quel ricordo e lo girò, notando sul retro piccoli scarabocchi, tracce di una penna stilografica dal tratto spesso e grondante. Piccoli grumi di liquido si erano fusi alla carta spessa, che sembrò acquisire l'aspetto di una piccola mappa del tesoro contraddistinta da strani nomi. Una croce era stata tracciata presso un luogo denominato Mordor e ciò bastò a comprendere che raggiungere Sherlock Holmes era un atto necessario per il buon esito delle indagini.

Sherlock si era impegnato nel corso delle ricerca, senza mai risparmiarsi nemmeno le fatiche meno importanti. Per questo, si era immerso in una stanza color confetto, ospitando sul corpo un turbine di riflessi caleidoscopici originati da un prezioso lampadario di cristallo.

Tra l'argenteria e il legno massello aveva incontrato la maggiore delle sorelle O'Ghallager, Edith, per un colloquio piuttosto superficiale. Erano bastate poche tracce sul corpo della strana donna a porre fine alla lista di domande e far proseguire le indagini.

John si era infilato nell'impresa quasi per un proprio capriccio personale e anche per una buona dose di noia. Senza nemmeno rendersene conto, si era infiltrato in quel interrogatorio solo per sentire la sospettata – bloccata nel suo letto e con la mente estremamente confusa – scandire qualche parola di cortesia.

«Desidera uno shortbread, Mister?»

Lo aveva ripetuto in continuazione, come una filastrocca; allorché Sherlock, per porre un freno alla situazione, aveva ordinato al collega di mangiare uno dei quei biscotti poggiati su un comodino coperto di piatti e cibo appena spizzicato. Il medico, come d'abitudine, si ribellò all'ordine per qualche minuto, per poi cambiare idea e accondiscendere ai capricci del coinquilino. Con lo stomaco pesante assaggiò il dolce e quasi non gemette dal dolore quando un dente sembrò crocchiare dopo il primo morso. Quei biscotti sembrarono d'amianto, tanto erano duri e lontani da dei morbidi shortbread al burro.

«Credo di essermi quasi rotto un dente. Maledizione!»

John, alterato, continuò ad accarezzare la pelle della guancia strusciando le dita contro l'accenno di barba che gli era cresciuta. Il dolore cominciò a regredire, ma il suo umore non diede alcun segno di miglioramento.

«Quel cibo era stantio. Mi chiedo come hai fatto a non accorgertene» dichiarò Sherlock, risoluto.

L'ex soldato spalancò gli occhi e agitò la lingua. «Cosa? E allora perché me lo hai fatto mangiare?»

«Era solo per esserne sicuro.»

«Tu...» barbugliò il medico, cercando di ammonire il collega. «Sarai tu a pagare il conto del dentista, intesi? E non ti opporrai con la scusa dei soldi; dovessi cercare il miglior odontoiatra di Londra.»

«Su, avanti! Cosa hai notato?» lo interruppe il bruno, depennando qualsiasi altro argomento non riguardante il caso.

John strizzò gli occhi, focalizzando tutta l'attenzione lontano dal piccolo malinteso e, smorzata l'agitazione, cercò di unire tutte le minuzie legate alla figura conosciuta. Collegando il filo, paletto dopo paletto, cercò di creare la propria idea di Edith O'Ghallager.

«Niente, a parte che è una donna mal ridotta. E sconvolta.»

«Le chiazze e il sudore, John» evidenziò Sherlock.

«Forse sono i segnali dell'ansia; forse è coinvolta nella morte del marito. Se non sbaglio la figlia non porta nemmeno il cognome del padre. Hai sempre detto che il padre era un traditore recidivo. Tra tutti quella che ha un buon movente è proprio lei. Non gli altri...»

Il detective, durante la camminata, sbatté i piedi contro il pavimento del corridoio deserto, ostentando la sua scarsa pazienza verso qualsiasi conclusione errata. Si avvicinò al collega, relegandolo a un piccolo angolino situato nello spazio appartenente all'ala est del maneggio.

«No, no, no» ripeté irritato. «Hai travisato ogni singolo indizio. Non può essere stata lei. Soffre di depressione da molto tempo, da anni a giudicare dal suo aspetto. Gli shortbread erano lì da settimane. Non ne ha toccato nemmeno uno a causa dell'inappetenza provocata dall'anedonia. Le chiazze e il sudore sono degli effetti collaterali dati da un grande consumo di psicofarmaci. È lenta, assente e parla poco, sono tutti i sintomi di una depressione maggiore che è iniziata molto prima della morte del marito. Era troppo inerte per premeditare un finto suicidio.»

John si stupì di quella spiegazione e, preso dall'interesse, chiese:

«Pensi sia stato qualcun altro?»

Sherlock rese chiare tutte le sue congetture. «Solo un altro membro della famiglia sapeva sfruttare al meglio la struttura delle cantine per la creazione della donna in nero. Direi che il campo è decisamente ristretto.»

John, sforzando la mente, ribatté.

«Potrebbe trattarsi di qualcuno che lavora qui. Un impiegato dalla produzione vinicola.»

«Certo, chi non farebbe un favore al buon Dwayne liberandolo dal suo cognato odioso?»

Il medico rifletté per qualche istante, cercando di tralasciare ogni elemento superfluo. Ciononostante, ancora molti erano gli interrogativi pronti a minacciare la sua logica, spronandola alla continua ricerca di nuove di strade laterali.

«Però, hai anche detto che Mr. O'Ghallager è attaccato alla sua produzione. E dubito che quella notte abbia sacrificato così tanto per attirare la famiglia in cantina per un fantasma. Non hai pensato a questo?»

Sherlock distolse lo sguardo dall'amico e ricominciò a camminare.

«Solo sua moglie Helen può confermarcelo, John.»

2.

Proprio al di sotto del fogliame, in mezzo alle raffiche contro i tronchi, due figure erano intente a passeggiare. Gwen e Sherlock, affondando i piedi nella neve, procedettero a passo lento e seguirono le astruse indicazioni riportate sulla foto reperita in uno dei libri della libreria apparente alla magione. Entrambi camminarono per circa quaranta minuti, perdendosi nell'immensità di quel mare di foglie che era la foresta di Dean. Oltrepassarono un piccolo ruscello, non molto distante dalla presenza di John che, per accelerare le ricerche, aveva seguito un stradina collegata a una parte di bosco poco sicura, poiché confinante con un ripido strapiombo che spezzava la selva.

Il detective, tenendo la concentrazione sulle poche linee mal fatte, fece da guida e conducesse la donna in direzione di un tesoro sconosciuto, impensabile. Cosa fosse sepolto nel terreno era un mistero, forse, utile a comprendere il torbido passato della famiglia irlandese.

«È davvero così importante raggiungere il tesoro?» chiese Gwen, sgambettando tra i ramoscelli e le pietre.

«Qualsiasi cosa possa darmi anche un indizio su come funziona quella famiglia, mi è utile. Non è difficile capirlo.»

Gwen si fermò quel tanto che bastò a protestare contro l'uomo.

«Siamo tornati a essere la Regina delle Nevi?» domandò con esasperazione, notando accanto il solito freddo e insensibile robot.

Si chiese se, poggiando l'orecchio sul petto del bruno, molto probabilmente sarebbe riuscita a sentire solo il rimbombo di un battito inalterabile, secco e metallico. Per quanto la pessima educazione fosse frutto una fallace tecnica di autodifesa, impossibile era non tenere in considerazione quei comportamenti scorretti e deleteri.

«Quello era solo un approccio. È questo che la gente fa quando sente il bisogno di parlare con gli altri.»

«Da quello che ne so, con me preferiscono mandare un'e-mail. E non solo per parlare. Imparano presto che non sono il migliore, quando si ha a che fare con la conversazione, e lo accettano. Tu lo sai meglio di loro e non sei qui per chiacchierare. La tua salute è tornata quella di un tempo, ma non hai più paura. Se c'è qualcosa che più forte della paura, quella è la curiosità. E tu muori di curiosità.»

E la ragazza proiettò nella sua mente un abaco, perfetto nel contare le occasioni in cui Sherlock l'avrebbe sorpresa, sconfiggendola con l'astuzia.

«Di cosa stai parlando?»

Sherlock, senza mai perdere la concentrazione sulla mappa, superò ogni albero, perdendosi in un ambiente carente di colore, a eccezione del bianco e del rosso appartenente a un fogliame acceso. Quella terra si era fatta calda e fredda nel medesimo tempo.

«Ti ostini a partecipare alle indagini, ignorando il pericolo. Sto realmente cominciando a chiedermi quale trauma possa essere stato così forte da resettarti come un computer e farti scappare a Londra da un branco di matti in un appartamento.»

Il bruno parlò, ma Gwen non lasciò correre quella provocazione e, con l'orgoglio frantumato in mille pezzi, liberò la gola da ogni freno.

«Da come ho potuto notare, sei tu l'unico matto in quell'appartamento.»

Sherlock scavalcò una fossa continuando a parlare in maniera rilassata, nonostante la recente provocazione. «E da quali indizi lo hai capito?»

Gwen lo seguì rapidamente, scacciando via con le mani qualche sottile ramoscello penzolante di tanto in tanto.

«Non sono mai stati necessari degli indizi. Sei intrattabile, apatico e completamente inadeguato a qualsiasi rapporto sociale. Nessuno è come te, né Mrs. Hudson, né John.»

Il detective, sentito il nome di John sgorgare dalle pallide labbra della donna, crollò. Gwen, nell'arco di poco, si era fatta simile a un parassita e altrettanto debilitante. Era obbligatorio limitarla e allontanarla dalla famiglia del 221 B.

«John Watson ha sparato al legittimo proprietario della maneggio, questa mattina» disse, gonfiando le parole. «Non si è fatto scrupoli nel farlo, come non me ne sono fatto io a chiederglielo, ieri sera. Eppure, il mostro sono solo io.»

«Che cosa?» Lei si fece titubante.

«T'illudi di conoscere le persone, Blomst, ma stai facendo solo buchi nell'acqua. Noi siamo come credi. Io sono uno sociopatico, Mrs. Hudson era moglie di un spacciatore pluriomicida. Io stesso ho garantito la sua sentenza di morte, in Florida. E perché non parlare di Mrs. Watson? Una donna apparentemente normale, solo una comune infermiera. Peccato che fosse anche un sicario. Era molto intelligente e scaltra, lo ammetto. Ci ha tenuto nascosto il suo nome per mesi.»

Gwen sentì le sue speranze cadere giù come un castello di carte colpito dai sibili di quella giornata. Le sottili crepe, sulla sua autostima, si erano dilatate in un reticolato di linee profonde.

«Ti piace così tanto prendermi in giro?» chiese, confidando in un ultima ed estrema illusione.

«Mai quanto confessare i fatti» concluse l'altro, lasciando solo alle gementi brezze l'arduo compito di riempire l'assoluto silenzio. «Finalmente un po' di pace.»

Nei presso una caverna scavata nella roccia, aveva trovato posto una quercia centenaria, esibente un'innumerevole serie di ruvidi rami che si contorcevano in direzione di una coltre nerastra. Quell'enorme gigante di legno sorvegliava la vegetazione, fronteggiando le mitragliate del vento grazia a delle lunghe e possenti radici che serpeggiavano lungo il terreno e penetravano buona parte del grasso sottosuolo. Sherlock, raggiunto da John, osservò molto attentamente la sua scena del crimine.

«Sembra proprio essere lo stesso albero della foto» confermò John, attento.

«È qui che è avvenuto, precisamente sul terzo ramo a destra. È quello più spesso e anche il più adatto per un impiccagione a caduta lunga. Connor Bates, da quanto sono riuscito a constatare, non è morto per asfissia, né per stiramento del nervo vago. Il suo collo si è spezzato come un ramoscello, ma la testa non si è mai staccata dal corpo. Le mie deduzioni si sono rivelate esatte.»

«È incredibile. È davvero accaduto qui?» chiese il medico, sorpreso.

«Un posto simbolico e, per i miei gusti, anche troppo sentimentale. È qui che la piccola Catherine giocava con suo con il suo migliore amico, Dwayne. Fingevano che questo luogo fosse un mondo a parte, una piccola terra in cui essere se stessi.»

«E adesso?» L'ex soldato non scollò gli occhi dalla corteccia del lungo titano, cresciuto a pochi metri di distanza.

Il bruno, intanto, controllò ancora la carta e conteggiò qualche passo per poi raggiungere un punto ben preciso del suolo. Si piegò con un unico scatto e arpionò le zolle di terra con le grandi mani, scagliando briciole scure lontano dal suo ennesimo indizio.

«È una caccia al tesoro, John. Non ci rimane che scavare.»

Gwen, in silenzio, cominciò ad accusare una strana sintomatologia. Raggiunto quel luogo di morte, la nausea aveva preso in ostaggio il suo stomaco, estraniandola dall'intera situazione. Debilitata dalla conferma delle sue supposizioni, non le restò che riempire la mente con pensieri malsani. Sherlock, intanto, la ignorò e continuò a gettare terra in aria per un tempo indefinito, fino a quando premette con i polpastrelli contro una materia dura, ma poco associabile a un freddo macigno. Era una grossa scatola logora e maleodorante, con sul coperchio una piccola incisione eseguita con un coltellino.

Mordor

«È stato più facile del previsto. È stata disseppellita di recente» notò il detective, aprendo con un schiocco metallico l'obsoleto baule.

«Cos'hai trovato?» chiese John, curioso.

«Un indizio» proclamò entusiasta l'altro, esponendo un semplice anello dorato e un foglietto spiegazzato con su poche parole componenti una celebre citazione.

È vento cattivo quello che non porta bene a nessuno, come ho sempre detto. E tutto è Bene ciò che finisce Meglio!

John Ronald Reuel Tolkien.

Un continuo ansimare spezzò l'atmosfera, attirando l'attenzione sia di Sherlock che di John. Quest'ultimo, preoccupato, girò la faccia in direzione dell'unica donna presente in quella luogo. Gwen si fece ricca di apprensione, pallida quanto una luna.

«Gwen, stai bene?» chiese il medico. «Gwen?»

La ragazza cominciò ad attorcigliare le braccia intorno al proprio busto, come per protezione. Il suo respiro, inoltre, cominciò a farsi sempre più rarefatto, alludendo a un qualche brutto malessere. Tutto cominciò a sfuggire al suo controllo, le palpitazioni, le emozioni, le sicurezze, persino John. Lei non era mai riuscita a controllare John, non ne era mai stata capace. C'era qualcosa di sfuggente in lui, qualcosa atta a renderla odiosamente impotente.

«È solo panico, un maledettissimo attacco di panico» piagnucolò lei, raggomitolandosi come un micio in un groviglio di radici e foglie secche. «Sento di non riuscire a respirare.»

Gli occhi neri strariparono di lacrime e le braccia tremarono.

«Okay, ma ora calmati. Va tutto bene. Respira!» disse il medico che, abituato a differenti attacchi psicosomatici da parte dei commilitoni, raggiunse la donna e fece per sfiorarla.

«Non toccarmi, per favore. Non voglio averti vicino» dichiarò lei, scansandosi da ogni tocco offerto dall'ex soldato.

3.

«I look at you all, see the love that is sleeping, while me guitar gently weeps...»

Dolcemente ammantata dall'oscurità, Gwen rimase ferma e con il corpo infossato nelle morbide coperte di flanella che, come una carezza, erano aderite alla poca pelle scoperta. Isolata nel nulla, rimase con gli occhi incollati al cuscino, per meglio nascondere il buco immaginario sulla fronte.

«I look at the floor, and I see it needs sweeping, still my guitar gently weeps...»

Proprio al di là della finestra, le stelle continuavano a raggiungere un posto in cui perire. La donna si mise a osservale, distraendo la mente dal dolore, dallo squarcio sulla superficie del suo cuore.

«I don't know why nobody told you how to unfold your love...»

Nel frattempo, la musica donata da una radio riempì l'oscurità. Le dolci note di Paul McCartney rimbombarono nella rimessa esterna attenuando l'atmosfera, che acquisì un carattere surreale e sempre più lontano dalla boriosa quotidianità delle cittadine inglesi.

«I don't know how someone controlled you.»

Toc-Toc.

«They bought and sold you.»

Gwen, destata dal proprio stato catalettico, si girò in direzione dell'eco. Con il cuore galoppante e lo stomaco in subbuglio, si trascinò presso l'abat-jour sopra il comodino e l'accese. Dopodiché, con un filo di voce, pronunciò un debole «Avanti!»

«I look at the world, and I noticed it's turning, while my guitar gently weeps.»

John fece stridere la porta, dischiudendola lentamente. Lei intanto si ricompose, mettendosi ritta e puntando all'uomo, che nonostante la forte tensione del momento, era riuscito a reperire il coraggio d'entrare per far sentire la propria domanda.

«Io avevo bisogno di sapere come stavi?»

«With every mistakes we must surely be learning, still my guitar gently weeps.»

«Meglio» rispose la ragazza, secca.

«Bene. Posso parlarti, adesso?»

«I don't know how you were diverted, you were perverted too.»

«Ho notato che ti comporti e comincio a essere preoccupato. Se ho fatto qualcosa che ti ha offesa, mi dispiace» aggiunse il medico, prendendo con le mani il coraggio.

«Non mi bastano le tue scuse.»

«I don't know how you you were inverted, no one alerted you.»

«Ve bene, penso d'aver capito. Stai ancora pensando a quella sera. Io non so come... Io... penso che... Ho...»

«I look from the wings at the play you are staging, while my guitar gently weeps.»

«Tu non pensi affatto! Credi che io sia rimasta disgustata da un bacio, ma non ti è chiaro quanto tu mi stai a genio. Non mi fai ribrezzo, John Watson. È il contrario»

Gli occhi scuri mutarono in due continui luccichii.

«Io... Io...»

«As I'm sitting here doing nothing but aging, still my guitar gently weeps.»

«Io...»

«Non so cosa tu senta, onestamente. Ma se io sono così interessante ai tuoi occhi, è solo perché ti stuzzica l'idea di avere a che fare con l'ennesimo caso disperato–»

«Ora sono più confuso.»

«Pensavi non mi fossi resa conto di come sei. C'è davvero bisogno che te lo spieghi, quando ho ben saputo che non ti fai problemi a sparare alla gente come se fossi ancora in guerra? Porca puttana, abiti con una persona che tiene pezzi di persone nel frigo. La tua affittuaria era moglie della copia di Pablo Escobar. E tua–»

John stroncò quello sproloquiare. «Sì, va bene. Ho afferrato il concetto, Gwen.»

La ragazza deglutì, abbassò lo sguardo e portò il pugno contro la fronte lucidata da un sudore freddo.

«Ho adorato l'idea di piacerti. Non so perché. Ho solo gradito i tuoi modi. Sei sempre stato gentile con me e ho creduto che ti fossi sembrata una brava persona. Ma solo ora capisco che a te interessava altro. Sono un fenomeno per te?» chiese lei, stizzita.

«Ma di cosa stiamo parlando?»

«Sei una calamita per i matti, non negarlo» decretò Gwen, pungente.

John sospirò, stanco. «Sai, penso tu abbia ragione, ma la cosa non riguarda te, affatto. Non nel modo in cui credi, almeno.»

La ragazza non si arrese. «Non sono abbastanza conturbante? Forse ne potremo riparlare quando anch'io avrò sparato a qualcuno.»

Il medico addolcì lo sguardo, per meglio rendere chiaro ogni suo pensiero reale, ogni sua riflessione sincera. «Ascoltami, adesso. Ho sparato a quell'uomo prima che lui sparasse a me. E non penso che tu sia come le altre. Solo che tu sia... So apprezzare ogni lato delle persone, anche quello più strano. L'ho fatto con molti prima di te e ti assicuro che nessuno è perfettamente normale, o mentalmente sano. Tu lo dovresti sapere meglio di chiunque altro. Sono i nostri problemi a renderci migliori di quello che siamo. Tutti noi, incluso me... e te... e Sherlock... anche lui.»

Lei trasformò la proprie corde in una supplica. «Non puoi capire quello che ho passato.»

«Ognuno conduce una battaglia personale. E non è necessario essere lontani da casa per affrontare una guerra.»

Il medico mosse qualche basso, ostentando il bisogno di un contatto con quel candido viso dinnanzi ai suoi occhi. La fragilità di quella donna era riuscita a sciogliere qualcosa in lui, l'aveva come scosso, ma molto dolcemente. Forse, era tutto reale. Lui non era capace di gestire l'attrazione scaturita da personalità completamente uniche.

«Non guardarmi così, come se avessi frainteso tutto» implorò la donna.

John con lei aveva ostentato la bibbia, ma non avrebbe mai rinunciato alla pistola: anch'essa era parte di lui. Erano le sue due essenze, le sue due anime. Quel buon cuore, dopotutto, era sempre accompagnato da un lato oscuro.

«Be', forse ho frainteso anch'io.»

«Sì, lo hai fatto» disse lei, annuendo. «Le persone magnetiche attirano gli spilli, John.»

Soffiò sulle guance di lui e ciò basto a ribaltare le circostanze.

In meno di un secondo, quella esigua distanza sembrò essere sempre più intollerabile. Perciò, proprio come dei magneti, i due s'aggrapparono l'uno all'altra con una foga incontenibile. Le loro labbra si cercarono e poi si fusero in un solo tocco umido.

Gwen sentì la sua bocca dischiudersi e chiudersi con più energia e seguire languidamente l'uomo, intento a condurre quel bacio, così irrazionale, con un ritmo altalenante. L'approccio cominciò a farsi sempre più intimo e poi si tramutarsi in un metodo per conoscersi, comprendersi e apprezzassi.

John, percependo il bisogno sempre più famelico, affondò ancora di più il viso su quello di Gwen e sommerse le dita nella sua morbida capigliatura chiara, per tenerle fermo il capo e per assaporare meglio quel contatto. Senza accorgersene, sancì il preludio di un'intensa esperienza destina a culminare in sensazioni amplificate, tiepide carezze e nell'irresistibile richiamo della passione.

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Capitolo 18
*** Oro ***


Oro.

Gwen non era mai stata una buona amica del sonno, dal momento che era solita trascorrere le notti sotto la coperte, ma senza mai chiudere occhio. Le ansie, seppur di natura sconosciuta, le erano sempre accanto, tormentando il richiamo di un dolce dormire. Con il tempo, la mente si era abituata alle poche ore di riposo, rigenerandosi con poco, ma le angosce interne non erano mai riuscite ad abbandonare il loro consueto ruolo, nemmeno durante i periodi contraddistinti dalla percezione di una sottile pace.

Solo in quella notte umida, a pochi chilometri dalle melmose acque dell'oceano, la donna era riuscita ad accogliere il sonno, con il cuore appagato dalle attenzioni di un uomo. La notte era giunta, così come nei giorni precedenti, ma per portare un tetto di stelle sotto cui sognare.

Paesaggi dorati, fiori e simboli si erano fusi nelle reminiscenze oniriche di Gwen, che finalmente fu costretta ad abbandonare il torpore dopo la nascita di pallidi raggi. Le palpebre si dischiusero con estrema lentezza, temendo di incontrare lo sguardo dell'uomo accanto, o meglio, di incontrare il proprio riflesso nello sguardo dell'uomo accanto. Tuttavia, fu solo della pelle della morbida pelle ciò che riuscì a incrociare.

«È un buon giorno, non pensi?» farfugliò con tono roco e le braccia legate al busto del medico. «So che sei sveglio. Lo sento dal tuo respiro. Non lo hai letto in uno dei tuoi manuali?»

«Sì» disse lui, solo per riempire il silenzio. «Sì, l'ho fatto!»

Gwen inspirò, strofinando il naso sulla spalla del medico.

«Spero che tu abbia il coraggio di guardarmi in faccia, dopo questa notte» chiese, cercando di sembrare ironica nonostante tutto. «Sarebbe un peccato fingere che non sia mai accaduto.»

John sentì il mento, leggermente solleticato dai morbidi ciuffi di lei. «Io... non...»

«Sta' calmo!»

Si scostarono pian piano, strusciandosi l'un l'altro. I loro occhi si rincontrarono, ma la cosa non fu poi così spiacevole. John sentì tutto il disagio evaporare, per poi lasciare posto solo a una bella sensazione: lei era perfetta, dolce quanto un una pesca matura e carnosa quanto una le rose di maggio. La sua giovane età esprimeva freschezza, un qualcosa di poco associabile a qualsiasi delle sua passate conoscenze, bellezze consumate, non più ingenue. Le altre erano state l'autunno, ma Gwen si era mostrata come l'estate: ricca di linfa, di profumo e di speranza.

«È stato così difficile?» chiese lei, dolcemente

«No. Non lo è più, almeno» rispose lui, cogliendo negli occhi della donna una luce peculiare.

«Sei caldo. Potrei quasi usarti come un calorifero» scherzò lei, timidamente.

«È una cosa buona?» chiese il medico, dubbioso.

«Il calore è conforto, dicono» dichiarò lei, sincera.

Indifesa quanto una primula sotto la pioggia...

Così la percepì John che, intimato da chissà quale desiderio, diede inizio all'ennesimo languido bacio. Pian piano, si pose come guida di quell'attimo, di quel lento sciogliersi in un vortice di pulsazioni e sentimenti.

2.

Oro, semplice oro scintillante.

Fiona analizzò l'anello che Sherlock le aveva portato quello stesso giorno, notando che il piccolo cerchio era un gioiello senza nemmeno un castone, molto simile a quello descritto nella trilogia di Tolkien. Nel metallo era persino rintracciabile una scritta abilmente incisa nella parte interna.

Briana O'Ghallager.

«Briana O'Ghallager è mia nonna» confermò Fiona, risoluta. «Questa è la sua fede nuziale. Dove l'ha presa?» chiese, sempre più intrigata dalla strana scoperta appena effettuata.

Sherlock trattenne un sospiro e, con le mani dietro la schiena, continuò a percorre a passo lento il percorso tracciato dal sentiero che segava la foresta bionda. Parlottare degli indizi lontano da Cloverfield Manor era un'azione messa in atto con il fine di scongiurare le intrusioni da parte della famiglia.

«Non è importante dove l'abbia trovata. Tutto ciò che voglio sapere è che cosa può rappresentare.»

«Non ne ho idea» confessò Fiona, insicura.

«Conosce gli scritti di Tolkien?» chiese il detective.

«Non molto.»

«Me lo farò bastare.»

«Be', è una storia semplice, molto etica. Roba riguardante la brama di potere, il corrompersi dell'animo umano. È un testo quasi biblico. La semplicità nelle piccole cose, che sono in realtà le più straordinari–»

«Non ho bisogno di insulsa poetica. Leggerei gli articoli del mio collega John, altrimenti. Voglio solo sapere che cosa rappresenta quell'anello negli scritti di Tolkien.»

Fiona continuò a camminare, annuendo, e in seguito cercò di contenere la propria risposta. «Be', è semplice, credo. L'anello era l'essenza del male. E naturalmente anche l'assenza del bene.»

Sherlock sentì le proprie sinapsi concentrarsi a causa del dubbio ed elettrizzare il cervello, sempre iperattivo e produttivo. «L'assenza del bene» pronunciò, mentre il quadro continuò a essere sempre più nitido. «Tutto è molto chiaro, adesso.»

3.

Oro, tanto oro.

In quella giornata di sole, La foresta di Dean, finalmente libera dalla neve che si era raggrumata in ogni dove, sfoggiava centinaia di alberi illuminati da un rigoglioso fogliame dorato. Il sole accentuava ulteriormente quella calda brillantezza, intenta a esplodere a ogni metro, rallegrando tutto l'ambiente. Sotto le possenti ramificazioni, le foglie piovevano con leggiadria, finendo sul capo di Gwen che, sorpresa dalla bella giornata, era uscita a raccogliere della legna, per meglio fronteggiare il freddo all'interno del rimessa.

Per quanto il compito fosse alquanto faticoso, niente sembrò compromettere la sua energia. Tutte le sue ansie, almeno per il momento, sembrarono essersi sciolte a ogni tocco percepito in quella mattinata. Il mondo non era più tanto cupo, poiché la percezione della ragazza era stata rischiarata da sfumature auree.

«Serve un passaggio?» Una voce familiare si unì al canto delle fronde sfregate dal vento.

La ragazza si girò di scatto, continuando ad abbracciare la legna raccolta e colse Desmond O'Ghallager, troneggiante su un esemplare equino dal lucente e dal fisico snello, così esteticamente bello da non sembrare nemmeno reale.

«No, ma grazie lo stesso» rispose la ragazza, accennando un saluto con la testa.

«Ne sei sicura? È scortese rifiutare l'invito di un cavaliere» disse sarcasticamente Desmond, trotterellando con il suo destriero attorno alla ragazza, sola quanto la preda circondata dalla pinna di un famelico squalo bianco.

«Lo è anche insistere» confermò lei.

«Touché

Nonostante il bel panorama e il corteggiamento proposto da un ragazzetto immaturo sul suo purosangue, tutto sembrò inadeguato agli occhi della ragazza, che cercò di non apparire troppo brutale e scorbutica nei confronti del suo ospitante.

«Scusa, non era mia intenzione essere maleducata.» Porse le sue scuse, abbassando lo sguardo.

«Se senti il bisogno di sdebitarti, fa' pure. Io sono più che disponibile, adesso.»

«Forse farò un pensierino» pronunciò lei, cercando di andarsene.

«Solo uno?»

Desmond, con aria di sfida, le si parò dinnanzi bloccandole la strada. Lei deglutì e, per smorzare la strana atmosfera della situazione, ignorò la brusca avance offerta dal ragazzo, concentrando tutta la sua attenzione sul lungo muso del cavallo. Con tenerezza, grattò il mento della bestia che, senza dubbio alcuno, presentò i chiari segni di stanchezza.

«E tu sei?» chiese Gwen, dispiaciuta.

«Perseus. È un esemplare spettacolare, non credi? È un Akhal-Teke. Molti che credono che Bucefalo, il destriero di Alessandro Magno, fosse di questa razza. È davvero affascinante!»

La ragazza bevve quelle parole, dopodiché eseguì una carezza sul muso di Perseus con la mano libera, trasmettendo un po' di calore.

«Ehi Perseus, sembri stanco» sussurrò, con il dolore nel petto.

Desmond, tutt'altro che impietosito dalla fiacchezza del proprio animale, tirò la redine causando un'impennata rapida. La creatura, intanto, emise un forte nitrito soffrente.

«Lo sto allenando. Non posso permettere che si disabitui alla fatica.»

Gwen annuì, celando tutta i suoi mesti pensieri. Si guardò attorno, bagnando con la lingua le labbra, in cerca di qualcuno che potesse soccorrerla. Fu John, uscito con lei per lo stesso fine, a comparire dal nulla, trasportando con le braccia un bel mazzo d'arbusti.

«Qualcuno è già a buon punto.» La donna tirò un sospiro.

«Cosa mi sono perso?» domandò l'ex soldato, con aria frastornata.

Il ragazzo raggiunse la nuova figura e sfruttò tutta l'altezza, offerta da Perseus, per meglio incutere soggezione in quell'uomo giunto così per mandare alla malora il suo corteggiamento. Un piccolo colpo sulla coscia de destriero e quest'ultimo s'impennò ancora, con la stessa maestosità dei tanti cavalli raffigurati in antichi sculture.

«Parlo con Mr. Holmes o con il suo taglialegna?»

John, tutt'altro che intimorito da quel bambino schizzinoso, arricciò la bocca in segno di scarsa sopportazione nei confronti di cotanta idiozia. In seguito rispose con educazione.

«Nessuno dei due, mi dispiace.»

Il ragazzo sorrise, dimenandosi assieme all'animale.

«Suvvia, stavo solo scherzando. Lei è?»

«Il dottor John Watson» rispose il medico, corrugando la fronte.

«Oh, un dottore, uno di quelli bravi?»

Una pausa precedette una risposta sprezzante.

«Saprei come spezzarle tutte le ossa, nominandole una per volta.»

Desmond indietreggiò, sopprimendo il suo consueto ghigno. Cercò, al contrario di concentrare tutta la sua intelligenza per comprendere chi fosse quel personaggio dalla chioma stinto e l'espressione burbera.

«Risposta intimidatoria, ma anche molto efficiente» dichiarò, secco. «Oh sì, lei è quello che ha spedito quell'idiota di Dwayne all'ospedale di Cinderford. Tuo padre sembra un tipo tosto, Gwendolyn?»

«Cosa?» chiese John, confuso.

«Non proprio» sussurrò Gwen, sentendo addosso il fastidio dell'imbarazzo.

Il dischiuderei della bocca di Desmond era sempre solita anticipare un danno. Di conseguenza, era necessario fermare il rampollo ancora prima che umiliasse John ulteriormente con un comportamento asfissiante.

«Mi dispiace. Lui non è mio padre. Non lo è affatto» chiarì la donna, lasciando la mano libera di scivolare lungo il morbido manto della bestia.

Fingendo qualche carezza, raggiunse la cinghia che teneva salda la sella al martoriato dorso di Perseus, e la allentò con un rapido movimento.

«Oh, come non detto. Ero sicuro che davvero si trattas–» Il ragazzo scivolò con tutta la sella e cadde sul terreno, tonfando in mezzo alle foglie secche e al fango. Il lercio macchiò la sua faccia, deturpando tutta la sua bellezza e regalandogli un odore acre.

«Oh Santo Cielo!» esclamò Gwen.

John, per quanto non avesse la voglia di soccorrere l'ennesimo gradasso della famiglia, dovette cedere all'etica e con tranquillità raggiunse il ragazzo disteso a terra come un corpo morto. S'accovacciò accanto al biondo, tirandolo su con le braccia.

«Si sente bene?»

«Secondo lei?» pronunciò Desmond, mordace.

La giovane, soffocata una risata, s'inginocchiò e con le dita afferrò le mascelle del giovane per meglio notare contusioni, piccole ferite o altro. Tuttavia, al di là del solo fango, non c'era niente, se non un piccolo graffio sul labbro superiore, già arrossato dal sangue.

«Ohhh» urlò Desmond, non appena sentì le sottili dita della ragazza premere contro il taglio.

«È solo un graffio, sta' fermo!» comandò lei, tirando fuori un fazzoletto dalla tasca. Con cura strofinò la carta contro la pelle ferita, togliendo qualsiasi traccia di liquido rosso e sporco. Ripeté il tutto ancora e, solo dopo, tamponò lo scorcio purpureo con energia.

«Sì, solo un taglietto superficiale» confermò John, con disinteresse.

Il frastuono delle foglie calpestate aumentò, annunciando l'arrivo di altre presenze. Sherlock Holmes, accompagnato dalla sua cliente Fiona, era giunto in quel lembo di foresta, dopo aver udito qualche rumore sospetto e delle grida poco distanti.

«Desmond?» Fiona chiamò il parente, con preoccupazione.

«Sherlock?» Il medico, invece, invocò il nome del collega.

«John» rispose il bruno, sorpreso.

Il giovane O'Ghallager, stanco di interpretare la parte del maldestro in mezzo al pubblico costituito da tante così tante persone, sussurrò un imprecazione. «Merda!»

Fiona gettò lo sguardo in direzione della lucente creatura che si era fatta ferma presso i faggi. Un piccolo dolore attanagliò il suo petto e la fece calare nei panni della madre pronta a raggiungere il proprio cucciolo.

«Oh, Perseus!» pronunciò. «Che cosa è successo?»

John, consapevole di ogni dinamica, s'affrettò a tranquillizzare la nobile cliente. «Oh va tutto bene. Colpa della sella.»

Nell'istante dopo lanciò a Gwen uno sguardo ammonitore, che fu presto contraccambiato da una finta espressione d'innocenza.

«Mr. Holmes, lui è il figlio Catherine, Desmond» esplicò Fiona, con amarezza.

Sherlock si focalizzò su quell'essere sdraiato a terra

«Che immenso piacere!» pronunciò il ragazzo, sardonico.

La bionda, dopo qualche minuto, tolse il fazzoletto intriso di sangue e di uno strano liquido color carne. Osservò le macchie che si erano stampate nella carta, deducendo un qualcosa di molto particolare.

«Tu... indossi il fondotinta?» chiese, arcuando il sopracciglio.

«Cosa?» chiese Desmond, negando quell'insolita scoperta.

Sherlock non mancò di dire la sua.

«Interessante cicatrice, residui di un labbro leporino?»

Il giovane portò la mano sopra il segno rosa sulla pelle compresa tra il labbro superiore e il crus mediale. In seguito, si morse il labbro, per far fronte a tutto il nervosismo che gli ribolliva dentro al torace sempre più ansante. «È per caso affar suo?»

Seppur già protetta da schiere di folte conifere, la rimessa accanto al maneggio degli O'Ghallager era stata ultimamente celata dallo spandersi di una lunga notte blu. Dentro quell'aggregato di assi legnose, non era c'era altro se non un camino in pietra, appena scaldato da carbone infuocato, qualche cassettone logoro e un letto appesantito da spessi strati di coperte soffici.

Sotto alle carezze della lana, Gwen era rimasta ad assaporare la presenza di John, alquanto contento di trascorrere le poche ore di sonno sullo stesso materasso della donna da cui era giunto trepidante per delle chiacchiere notturna e qualche effusione.

La morte della moglie non era stata un toccasana per il suo umore, rabbuiato dalla notti solitarie e lontane dal respiro di un altro essere umano con cui scambiare il conforto di un abbraccio, di un bacio rubato e le tante tenerezze prima della buonanotte. Sicuramente, restare con Gwen sarebbe stato un beneficio.

«So che sei stata tu a farlo cadere dalla sella» disse lui, tenendo il braccio attorno alla spalla della ragazza.

Questa si posizionò meglio sul suo torace. «Questione di tempo e lo avrebbe fatto il cavallo. E comunque, qualcuno doveva fermarlo; non riuscivo più a sopportare tutte le sue idiozie. Non è stato per niente educato nei tuoi confronti. Nemmeno nei miei, a essere sinceri.»

«Ha fatto qualcosa d'inopportuno?»

«No, è stato solo irritante. Non puoi aspettarti altro da un rampollo educato con le banconote» dichiarò lei, mentre sentì ancora quel sesto senso addosso.

Desmond non era un misogino, ma probabilmente era stato cresciuto male e con insegnamenti protratti al limite di un modo di pensare saldo al rigido patriarcato di un tempo.

«È solo un bambino arrogante!»

«Tale a quale a suo a suoi parenti» sentenziò il medico.

Gwen sorrise con delicatezza.

«Ti è avanzato un colpo nella pistola?»

«No, purtroppo no» ripeté John, ridendo.

Sherlock, disteso sul letto, continuò a far scorrere i pensieri. Era giunto alla conclusione del caso, ma la sua missione non era stata del tutto compiuta, poiché aveva bisogno di una confessione che ribaltasse l'atmosfera all'interno del maneggio. Il malfattore si era dedicato a un gioco silenzioso, fatto di educazione e belle parole.

Le gambe scattarono sul suolo e le pupille sul foglietto accuratamente ripiegato accanto al comodino. La carta, macchiata dal tempo, era stata marchiata con delle piccole incisioni lineari e ben distinguibili se a contrasto con la luce della lampada. L'uomo afferrò la matita posta accanto al taccuino del collega e sfumò sopra le solcature, scoprendo una scritta.

The Mourning Wraight

«Il nome della banshee...»

Forse, giocare con la superstizione era un metodo assai curioso da prendere in considerazione. La banshee, dopotutto, sarebbe potuta ritornare dal suo mondo di morte per ricomparire dinnanzi la famiglia. Era solo necessaria una donna abbastanza pallida da poter apparire come un fantasma nella notte misteriosa.

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Capitolo 19
*** Il corvo, il gufo e la colomba ***


Il corvo, il gufo e la colomba

1.

Cloverfield Manor, Coleford. Gloucestershire.

John era felice, indiscutibilmente felice e appagato nel suo recente status di uomo ancora capace di intrattenersi con le donne. Sherlock non era uno sciocco e mai negò ciò che era successo. Gwen, come un monsone, si imbattuta a Baker Street, ma non solo per portare scompiglio. Era riuscita a dissetare un po' dell'anima del dottore, rendendo meno consistente l'opprimente spettro di Mary Elizabeth Morstan.

Il bruno, a causa della gelosia, aveva smunto tutto ciò che la realtà aveva da offrire con il fine di allontanare Gwen dal suo migliore amico. Tuttavia, era stato solo capace di allontanare se stesso da John, senza badare alle conseguenze. Lui era il suo faro e, brancolare nel buio delle relazioni sociali, non mai stato facile. Sotterrare l'ascia di guerra fu la sua ultima intenzione e, perciò, giunse dai due ma senza mai sputare tossine contro la cliente. Si limitò a guardarla in un modo meno rude.

«Ho un piano» esplicò infine, raggiungendo la rimessa esterna, scaldata dal camino acceso.

«Uhm, sparerò a qualcuno, per caso?» chiese John, sarcastico.

«Potrebbe essere, ma sarebbe meglio non spargere altro sangue» scherzò il bruno. «È l'ultimo tassello del nostro mosaico, ma non ho posso farcela da solo. Tu mi aiuterai con il progetto e anche Miss Blomst parteciperà e farà la sua parte.»

Gwen sentì il corpo irrigidirsi a causa di quell'affermazione. Un sentimento di sfiducia, purtroppo, la portò a chiedere una spiegazione al perché di quel possibile coinvolgimento.

«Cosa hai intenzione di fare?»

John, colto dall'apprensione e dal ricordo di esperienze recenti, si oppose. «Hai intenzione di orchestrare un inganno per farci partecipare a uno dei tuoi piani? Perché dovrai fornirmi dei motivi migliori di quelli che ci trattengono qui. E anche quali sono i rischi.»

«Primo, potrai ritornare a casa da tua figlia. Miss Blomst, nonostante le mie prime supposizioni, ha dimostrato una solida resilienza e un buon spirito di adattamento. Non sarà un problema per lei gestire il mio progetto. È sicuro e lontano da rischi.»

Gwen pensò per qualche istante, fino a giungere alla giusta decisione. Senza indugiare, accolse l'occasione e cedette a un strano sesto senso. «E che cosa dovrei fare?»

«Lo scoprirai dopo. Non possiamo perdere altro tempo.» Sherlock mise da parte l'astio anche in onore del caso, bisognoso di una complice femminile.

In seguito, puntò il proprio collega con l'intento di trasmettergli un messaggio sobrio, ma molto trasparente e ricco di significato.

«Devi accompagnala, John» pronunciò con il patimento nel petto.

Miss Blomst non era stata la prima. Forse, sarebbe stata l'ultima.

«Cosa?» chiese il medico, sempre molto frastornato.

«Non appena ti è possibile, aiutala a trovare un buon travestimento.»

Da ore il bruno, dopo quella scenata di gelosia, si era posto dei limiti, così come aveva fatto nel conoscere Sarah, Janette o Mary. Il suo ribellarsi non era degno di spegnere nella bocca del medico le risa originate da una dolce compagnia.

«Posso farlo, ma solo se mi garantisci che saremo al sicuro.» L'ex soldato non riuscì a capire le intenzione del collega e, senza riflettere, si limitò a regalare il proprio consenso.

Gwen, in solo pochi secondi, ruppe il dialogo sganciando qualche parola al detective. 

«E tu hai intenzione di restare solo qui dentro?» chiese, cercando di apparire altrettanto garbata. «So che ti piacciono le cose strane. Ma potresti anche ritornare tra i vivi, di tanto in tanto. Che ne dici di aiutarci?»

2.

Gloucester, Gloucestershire.

Coleford, un piccola cittadina di circa ottomila abitanti, non offriva molto a coloro che erano i suoi turisti. Non c'erano negozi, tanto meno aere sufficientemente adatte alle compere e allo svago. L'unico luogo idoneo alla socializzazione era un piccolo Golf Club non molto distante dall'attrazione principale, la Town Clock.

Il trio, per poter adempire in maniera capillare al folle progetto escogitato da Sherlock Holmes, fu costretta a recarsi alla stazione dei bus, per poi partire in direzione del capoluogo della contea, Gloucester, tradizionale città portuale conosciuta per le poche attrazioni. Soltanto dopo un'ora, i tre giunsero alla meta prestabilita, in una piazzetta arricchita da una cattedrale gotica.

Quindi, scesero dal mezzo e cominciarono a sbirciare tutti gli edifici circostanti, comuni cottage, case dalla robusta mattonatura bruna e condomini coperti da possenti tetti grigi. Tutta la loro attenzione fu catturata dall'enorme entrata dell'edificio religioso, contraddistinto da ghimberghe ricche di dettagli, una lunga fila di doccioni, guglie, trifori e, nella parte centrale, gli splendenti riflessi di un ampio rosone.

«Sembra quasi uno di quei set in cui girano gli show preferiti di Mrs. Hudson» notò Gwen, perspicacemente.

«Non lo sembra. È proprio quello» aggiunse John.

La ragazza aggrottò la fronte a causa del disappunto.

«Grande attenzione dei dettagli. Sei anche tu un fan di questo genere» chiese, ghignando con aria furba.

«No. Certo che no» negò John, con forse troppo fretta.

«Solo quando è troppo giù di tono per riguardare le sue partite di Rugby. O quando ha il raffreddore» obiettò Sherlock, introducendosi nel dialogo in modo moderatamente scaltro.

Gwen, sorpresa, cominciò a trattenere le risate ingabbiate in gola. Immaginare l'uomo in soggiorno, con gli occhi da militare puntati sullo schermo animato da nobildonne in costume, non fu d'aiuto.

«Sul serio?» La domanda si susseguirono. «C'è altro da sapere?»

«Sa suonare il clarinetto, e lo fa discretamente; ama i film di un certo James Bond, quanto al suo soprannome, ne riparleremo in miglior circostanze» anticipò Sherlock, nonostante il desiderio di scherzare.

Il diffondersi della risata fu istantaneo. Gwen l'aveva sentita bruciare all'interno del petto e, per non trattenerla, l'aveva resa libera di echeggiare nell'ambiente circostante. Il bruno, nel mentre, non poté nascondere il singhiozzo dentro la bocca.

«Smettetela!» esclamò John, con il broncio. «E per la cronaca, ero il migliore del mio corso.»

«Il migliore e anche l'unico clarinettista» decretò il bruno.

L'ex soldato, ascoltate quelle ironiche obiezioni, sciolse la mutria, rilassando le mascelle. Subito, cedette al sorriso, ma senza sbilanciarsi.

«Direi che è abbastanza per oggi» sentenziò infine, ristabilendo un clima serioso e degno delle indagini intraprese.

Gwen agitò un poco le gambe, così da liberarle dal freddo. Saltellando sul posto, contrasse i muscoli sino a quando questi, seppur debilitati dalla posizione seduta e dal clima rigido, riacquistarono la propria sensibilità.

«Bando alle idiozie. E adesso?» L'incertezza contaminò ogni sua sillaba. «Potremo chiedere informazioni alla gente o cercare un negozio di costumi sulle mappe del telefono.»

«Negozio per costumi? No, non cadremo in basso» disse il detective, caustico. «Il diavolo si nasconde nei dettagli. Quindi, non compreremo qualcosa di banale.»

John fece scattare la testa in direzione del proprio collega, esprimendo tutto il proprio dubbio. «E cosa hai intenzione di fare?»

«Ho fatto delle ricerche e risulta che gli abiti delle banshee non sono solo neri. Il bianco è un colore meno comune, ma tipico della loro cultura. Compreremo un abito da sposa. Molto più credibile» rispose Sherlock, secco.

«Cosa?» Gwen spalancò le labbra, per lo sbigottimento.

Il cervello di Sherlock era un pozzo d'imprevedibili idee stravaganti e, per avere che fare con esse, era necessaria un'ottima dose di pazienza. «Hai idea di quanto costa un abito da sposa? È da pazzi spendere così tante sterline per un trucco.»

«È fuori dalla portata delle nostre tasche, Sherlock. Potremo rimediarlo da qualche altra parte.» L'ex soldato appoggiò la ragazza, mostrando il suo spirito contrario a tale iniziativa.

«Non è necessario recarsi in un comune negozio di abiti da cerimonia. È meglio usare altre strategie» confessò Sherlock che, con espressione altezzosa, assottigliò lo sguardo e distese le labbra, accennando a uno stato rilassamento. Un'idea era cominciata a ballare all'interno della sua testa, sedandolo gradualmente.

«Non mi piace quello sguardo» confessò la ragazza.

3.

Il quartiere di Cattle Market non era poi così differente da qualsiasi zona periferica appartenente alle tante ordinarie cittadine britanniche. Proprio accanto a un piccolo centro commerciale, erano disposte delle vie principalmente composte da tante bancarelle e chioschi di cibo etnico. Percorrendo qualche metro, era possibile trovare mobili austriaci, antiquariato polacco, sombreri messicani, cibo italiano e quadri francesi di vario tipo. Proprio presso la fine della St. Catherine Street, dopo i tanti colori delle tende dispiegate sulla merce, trovava luogo un piccolo negozio d'abbigliamento, targato Whole Sale Wang. Dentro di esso, era reperibile a poco prezzo ogni genere di capo: costumi di Halloween, abiti cerimoniali, smoking e molto altro.

Gwen, nel corso della sua esistenza, non si era mai dedicata all'immaginare il giusto abito per le nozze. Mai era riuscita a fantasticare sul proprio matrimonio o sul proprio marito, tanto quei sogni erano remoti rispetto alla sua attuale posizione. Eppure, era stata costretta a comprare un lugubre abito nuziale di quarta mano, dalla stoffa spenta e dai merletti scuciti.

«Continuo a pensare che sia un'idea stupida» confessò John, fuori dal negozio. «Ma potrebbe funzionare. Sbaglio o abbiamo già fatto qualcosa del genere?» [1]

«Oh sì, Mycroft lo ricorderà fino al resto dei suoi giorni» confermò il bruno. «Mancano solo gli ultimi dettagli. Potremmo anche ritornare, se Blomst ci degnasse della sua presenza.»

John si rese conto dell'assenza della donna e cominciò a far dondolare lo sguardo sulle bancarelle di quel mercatino. Dopo pochi secondi, colse Gwen accanto a un chiosco posto al lato della strada, sotto un balcone pieno di trifolium pratense [2].

«Da quanto osservo, la sua colazione è la nostra priorità.»

La ragazza aspettò che la donna dietro al bancone le desse la dovuta attenzione. Indugiò prima di parlare; preferì piuttosto dare un'occhiata a tutte le specialità contenute nei cestelli posizionati dietro alla sottile lastra trasparente.

«Mi auguro faccia presto. Non ho intenzione di aspettare oltre.» Sherlock guardò il collega, aggrottando la fronte. «È il momento peggiore per fare delle compere. Dubito lo capisca.»

I due la raggiunsero e fecero per prenderla dal braccio con il fine di trascinarla lontano, in direzione della fermata del bus, ma senza alcun successo.

«Non oserete mettermi fretta» ordinò Gwen, liberandosi dalla presa. «Io sto aspettando da settimane, voi potete aspettare un istante.»

«Hej, hvad vil du have, Kære?» La donna del chiosco si affacciò alla sua cliente, allargando il sorriso e gonfiando le gote rubiconde, accompagnate a delle fredde iridi straniere.

«Dobbiamo aggiustare gli ultimi dettagli del piano. Ordina quello che puoi e andiamocene!» esclamò freddo, Sherlock.

Tuttavia, Gwen non avvertì alcuna preoccupazione. Nella sua mente, in quel frangente, non esistette più il caso, né i criminali, né il maneggio, né altro. Esistettero solo i rimasugli di ricordi consumati dal tempo e una lingua tentennante.

«Je vil gerne have en wienerbrød. Tak, dame.»

«Selvfølgelig!»

La sconosciuta si licenziò, per poi mettere in un sacchetto qualche pasticcino. Li diede a Gwen che, contenta dell'acquisto, lanciò sorrisi a destra e a manca e con tanta spensieratezza. John intanto, raggiunto l'amico, rimase sorpreso nel notare la ragazza interloquire in una lingua straniera.

«Prima che possiate lamentarvi, ho finito» dichiarò la bionda, spegnendosi leggermente.

«T-Tu parli...» Il medico gettò l'occhio su di una piccola bandiera trafitta nel legno della piccola costruzione, un rettangolo rosso segnato da una sottile semplice croce bianca. «Cosa?»

«Danese» rispose Sherlock con fare scocciato.

Il cognome esotico era stato un ottimo indizio, ma spiegare agli altri le giuste conclusioni sarebbe stato inutile. Era abbastanza semplice riuscire a captare l'origine nordica della cliente, ma molto meno lo era riuscire abbinare il termine Blomst a un preciso paese d'origine. Norvegia e Danimarca erano sicuramente state le migliori opzioni.

4.

Il wienerbrød era da sempre il dolce preferito di Gwen, disposta a tutto per assaporarlo durante le colazioni danesi. Tuttavia, le possibilità di acquistare quelle morbide brioche erano diminuite in seguito al periodi dell'adolescenza, quando episodiche si erano fatte le gite a Ribe, un minuscolo borgo turistico della Danimarca meridionale. Il cielo terso, il colore delle ninfee e le fiabe erano mutati nei pezzi di un'infanzia complessa, frammenti di colore in un'esistenza immersa nel grigiume dell'immutabile clima britannico.

La ragazza, seduta al suo posto nel bus, sbocconcellò la pasta zuccherosa molto lentamente, cercando di tenere sulla lingua quel gusto così buono. Nel frattempo, cercò di ignorare gli sguardi fissi dei suoi due inconsueti accompagnatori, particolarmente sorpresi da quella scoperta. Entrambi si erano fatto smarriti, poiché sicuri di sapere tutto sul conto della loro cliente. Sherlock, in particolare, era stato persuaso dall'idea che quel cognome così notifica celasse molto di più.

«Gwen e Scarlett. Bianco e rosso» disse, con piglio apatico.

«Prego?» Gwen si girò in direzione del detective.

«È semplice. Sono i colori della bandiera danese.» Il bruno sentì il bisogno di riparare a quello smacco, deducendo qualcos'altro sulla ragazza, ancor intenta a magiare.

Il ragionamento era, di certo, molto semplice. Le tracce del remoto Nord Europa erano impresse persino nei primi nomi delle due sorelle Blomst.

La cliente, scacciato qualche triste ricordo di troppo, sorrise con debolezza al bruno e confermò solo in parte la sua tesi.

«I colori della bandiera danese? È di sicuro una bella deduzione, ma non è esatta. È il titolo di un racconto» spiegò, per ampliare il concetto appena introdotto. «Mia madre era ossessionata dalle fiabe. È solo un stupido gioco di parole. Blomst significa fiore.»

Sherlock mosse le sopracciglia come in segno di risposta.

5.

Il piano era appena stato messo in atto e Gwen era a conoscenza di ciò che sarebbe successo. Era tutto pronto e il suo compito era semplice: era importante soggiogare il sospetto e condurlo in direzione di una trappola al laccio, posizionata accanto al tronco di un larice, non molto distante dalla quercia appartenente al luogo del crimine. Grazie a una distanza di sicurezza e con la protezione di John tutto era sul punto di compiersi, incontrare la meritata fine.

La notte, sfortunatamente, non tardò a giungere, rendendo l'ambiente spettrale. Gli alberi, colpiti dalla scarsa luce del cielo, soffocarono lo spazio. La foschia, esacerbata dal bagliore delle stelle, per di più rese la foresta una deserto cupo e pieno di incognite. 

Gwen sentì il cuore stremato dai battiti rapidi, ma restò nascosta dietro la roccia, in attesa del carnefice. Fece ricadere il velo sull'espressione insicura e premette con gli occhi contro i nascondigli dei suoi folli collaboratori, pronti e armati. Il frusciare delle foglie avvertì ogni anima dell'arrivo del colpevole, il loro colpevole. La ragazza di conseguenza restò al buio e osservò un uomo, ancora sconosciuto, cominciare a scavare nel terreno scuro, proprio come un cane in cerca dell'osso sepolto.

Lo strano individuo si mosse al di sotto del freddo chiarore lunare e scoprì la propria lugubre sagoma. Mentre martoriava il suolo con la vanga, però vide una strana forma a pochi mentre di distanza. Allora, fece un balzo all'indietro fino ad aggrapparsi al tronco della quercia.

«Qualcuno si diverte a mascherarsi. E tu chi saresti?» chiese infine, senza lasciarsi abbindolare.

Gwen, con il cuore in gola, spostò uno strato di tulle per meglio lasciar intravedere solo l'accenno dei tratti completamente estranei all'uomo, che rimase amareggiato nel non riconoscere nessuno. La poca logica di quest'ultimo non andò oltre i possibili perché di quella apparizione. Tuttavia, proprio mentre fece per rincorrere quella lontana creatura, sentì qualcosa bagnare le sue dita. Tolse la mano e la ispezionò, notando sangue, ancora caldo e corposo sulla pelle.

Il plasma era sgorgato dalla corteccia, gocciolando sul prato umido. Fu principalmente quella situazione orripilante e disgustosa a distruggere la razionalità dello sconosciuto, che cadde nel più completo terrore. Impossibile fu reperire una spiegazione alle lacrime di quegli alberi. E il tempo per raggiungerla sembrava anche troppo limitato.

Gwen sentì il terrore crescere nell'uomo, come il seme delle piante infestanti, e continuò la sua messa in scena, compiendo qualche passo in direzione della preda. Lui cominciò a indietreggiare con rapidità, in quanto troppo soggiogato dalle credenze legate alla superstizione. Non era stato il costume ben fatto a creare tutto ciò, ma la suggestione. La mente della preda, non sentendosi al sicuro e non rispondendo alla logica, aveva ignorato qualsiasi spiegazione dietro a quel poco di sangue filtrato con sottili canali preinstallati.

«Chi sei?» chiese il carnefice, accanto al larice.

Indietreggiò, sino a mettere la gamba nel posto sbagliato. Il ramo scattò, attivando il laccio e mise fine alla fuga. Il colpo stirò un muscolo della gamba, spronando l'uomo a un urlo straziante, un grido che si estese lungo l'intera foresta, sino al maneggio.

Come spettri, John e Sherlock raggiunsero la loro complice e lì squadrarono meglio il tanto cercato assassino, il responsabile dell'omicidio di Connon Bates. Come un animale nella tagliola, allora, lui contrasse la faccia in un cipiglio di puro odio nel riconoscere il duo artefice dell'inganno.

«Siete dei matti. Liberatemi subito!»

«Oh, io non mi lamenterei. Lei il cappio ce l'ha intorno alla gamba e non attorno al collo» confermò Sherlock con ironia. «È un sempre un piacere rivederti, Terence!»

6.

«Non potete tenermi legato? Non avete nemmeno le prove.» 

Terence Sullivan, seppur ammanettato, non sfruttò un tono berbero poiché volle parlare con calma a ognuno dei tanti presenti. Proprio nell'atrio principale di Cloverfield Manor si erano raccolte parecchie persone, come l'agente Hawking, l'ispettore Price e il sergente Cruz, membri della stazione di polizia di Cinderford. Erano giunti per meglio capire cos'era successo nella residenza, ma si meravigliano nell'incontrare il famoso Sherlock Holmes e il dottor Watson alle prese con un caso da portare alla luce. Quindi, collaborarono e prestarono orecchio alle imminenti parole riguardanti gli ultimi accadimenti.

«Non ho mai pensato di poter collaborare con lei, Mr. Holmes. Sono un grande fan del suo blog» dichiarò l'agente per poi stringere la mano di Sherlock con un'euforia.

«Piantala Hawking, non siamo qui per le smancerie» constatò l'ispettore Price, muovendo freneticamente il baffo. «È giovane e si lascia trascinare dall'entusiasmo, Mr. Holmes. Lo perdoni.»

«Basta sciocchezze!» comandò Cruz, serio. «Cosa sta succedendo? Ho rinunciato a una cena di famiglia per raggiungere questo posto sperduto. Mi auguro ci sia almeno un buon motivo dietro la nostra convocazione.»

«C'è e so che non ne rimarrà deluso, sergente» confermò il detective, senza mascherare la propria superbia.

Terence, ammanettato al calorifero, cercò di liberarsi per via della disperazione, ma senza alcun successo. Continuò anche a parlare, ma nessuno lo ascoltava, dal momento che tutti erano calamitati da Sherlock e dalle sue spiegazioni.

Tra i bramosi di conoscenza, c'era proprio Fiona, consumata dagli anni di sottomissione. Non molti distante da lei, presso la tenda del salotto principale, si era posizionata Catherine, appollaiata sulla poltrona a causa dell'emicrania. Persino Desmond si era presentato, pur preferendo altre compagnie e altre situazioni.

«Bene, sono qui solo per ascoltarla» ammise l'ispettore Price.

«Lei conosce bene il caso Bates?» chiese Sherlock, coinciso.

«Suicidio, almeno secondo i nostri schedari» confermò Cruz, rude.

«Ma non secondo le mie ricerche.» Il bruno, con fare austero indicò l'incriminato, quasi ponendo luce sui fallimenti da parte dell'inefficiente polizia di Cinderford. «Come può notare, c'è un uomo ammanettato nella stanza. Si tratta Terence Carlton Sullivan, il responsabile della morte di Connor Bate–»

«Sta solo mentendo. Lui non sa niente» ringhiò Terence, furioso.

Cruz, sentendosi preso in giro dai modi di Mr. Holmes, incrociò le lunghe braccia mulatte e, storcendo il naso storto, disse: «Noi abbiamo già lavorato duramente al caso e non esistono prove contro nessun cittadino dell'intera contea. Bates si è suicidato. Non c'è altra spiegazione secondo i nostri attenti resoconti.»

«Suicidio, ma senza alcuna causa?» chiese retoricamente Sherlock. «Persino un bambino avrebbe potuto sentire il puzzo di un crimine così mal architettato. Sa, gli errori del principiante.»

Il sergente rispose con calma.

«Una moglie con diagnosi di depressione e una situazione familiare complessa sono una giustificazione più che sufficiente. Non c'è mai una spiegazione per comprendere alla perfezione un gesto come il suicidio. La mente umana sa essere imprevedibile.»

«È solo la migliore spiegazione per concludere male un caso. Ci addentriamo nel mondo della psichiatria, sergente. Il suicidio ha sempre un fondamento e non mi pare che Bates abbia mostrato segni prima di quella notte. Nessun momento di crollo, nessuna psicopatologia. Ha per caso rintracciato dei sali di litio dentro al suo comodino? Se lo ha fatto, ritirerò ogni cosa.» Il detective non si trattenne dall'accalappiarsi la giusta fetta di ragione.

Catherine abbandonò lo stato di donna sofferente e cominciò a partecipare alla conversazione. Il mal di testa, per quanto forte, non le impedì di dare voce ai suoi pensieri, soprattutto in una situazione così carica di tensione; la famiglia, in fondo, era un tema troppo importante.

«Io appoggio Mr. Holmes, ispettore. Connor Bates è stato ucciso, ma non da Terence» disse, cercando di apparire assolutamente convincente dinnanzi ai presenti. «Mi è ancora oscuro il motivo, ma Bates era un traditore e un imbroglione. Era solo questione di tempo, prima che qualcuno mettesse fine alle sue scelleratezze.»

Price, serioso, focalizzò la concentrazione sulla bionda Catherine.

«Miss, lo ripeterò. Nessuno ha ucciso Bates. Ogni possibile colpevole è stato scagionato. Non c'erano segni di violenza, niente. Sappiamo solo che aveva bevuto molto quella sera ma, mi creda, chiunque sceglie quella strada ne ha bisogno. È difficile compiere certi gesti da sobri. L'alcol può rendere disinibito qualsiasi uomo di questo paese. Non importa la resistenza.»

Fiona si stancò delle menzogne della polizia e, tremendamente sola nella sua disperata ricerca della realtà dei fatti, obiettò tutto, senza alcun timore di andar contro i familiari.

«Sono sicura che è una sciocchezza, ispettore. Le persone non hanno idee come quelle da un giorno all'altro. Non scappano per lasciare ogni conto in sospeso–»

«La gente lo fa solo per lasciare i conti in sospeso, Fiona» dichiarò Desmond, provocando la cugina, senza alcun tatto.

Una scossa penetrò entrambi i loro corpi, quasi aizzandoli a un litigio imminente.

«Smettetela!» Catherine rimproverò i due giovani.

Cruz, passeggiando con le mani dietro la schiena in direzione della porta, notò l'andazzo della situazione, satura, ferma e infruttuosa. Per questo, prima di togliere la propria presenza, si limitò biascicare: 

«Be', credo che nostra visita sia stata inutile.»

«Tra qualche minuto cambierà idea» dichiarò Sherlock, esponendo la piccola fede trovata qualche giorno prima,. Il metallo scintillò sotto la luce artificiale dei lampadari, attirando lo sguardo le tante figure. «È molto peculiare imbattersi in un uomo nella foresta, di notte. Il cielo è calmo, la luna è affascinante, ma nessuno lascerebbe l'abitazione per una passeggiata in mezzo ai cinghiali. Sullivan stava cercando questa.»

Catherine lasciò perdere il dolore alla testa. «Dove l'ha trovata?»

«Ho solo seguito la mappa. Così come ha fatto Terence stasera.» Il detective si fece prossimo al colpevole, mise la mano nella tasca dei suoi pantaloni e tirò fuori la foto con sopra tutte le indicazioni sul tesoro. Era stato lui stesso a fargli reperire quella strana mappa, ingannandolo astutamente. «Lui stava cercando questa piccola fede, ignorando di esser troppo in ritardo. L'ho seppellita ancora e ho architettato ogni cosa. Non l'ha fatto per un interesse personale, o almeno non del tutto. Lui è il burattino. Il burattinaio non può essere presente, purtroppo.»

«Dwayne O'Ghallager» esordì John, accanto a Gwen.

Entrambi si erano stipati contro un esiguo angolino della stanza, per meglio dare al loro collaboratore tutta l'attenzione necessaria.

«Esattamente, John.»

«Che osa insinua–» farfugliò Catherine, senza mai riuscire a finire.

«Niente d'importante. Solo che suo fratello Dwayne è il mandante dell'omicidio di Connor Bates. Ha assunto Terence e George Bill Carpenter come sicari. Erano i meno idioti del suo circolo. Loro hanno ubriacato Bates e dopo, minacciandolo con una pistola carica, lo hanno costretto a spezzarsi il collo con una fune.»

«Menzogne!» tuonò Terence, allo stremo delle forze.

Catherine, con il dente avvelenato e il terrore nel petto, abbandonò la poltrona con il fine di raggiungere il bruno e sputargli in faccia parole acide. «Lei è un impostore, Holmes. Mio cugino è una persona onesta. L'ha accolta sin dal primo giorno ed è sempre stato disponibile. Ha cercato di farla sentire a casa, di aiutarla con le indagini–»

«Ha solo cercato di sviarmi. Così come ha fatto lei gettando il movente sui tradimenti di Bates. Sul serio pensava che potessi essere così cieco, Mrs. Catherine?» domandò il bruno, premendo le pupille contro quella donna quasi come per cercare una confessione.

«Non esiste un motivo per un cosa così disgustosa. Dwayne non aveva nulla contro Bates. Lo ha sempre rispettato.»

E Sherlock espose ancora la fede scintillante.

«Questa dice il contrario.»

L'ispettore Price, incuriosito dalla dibattito tra Holmes e la nobildonna, ritornò sull'attenti, così da meglio comprendere l'intreccio. Fece per parlare, ma fu interrotto. «Io continuo a non capir–»

«Desmond, è ora che tu sia in camera tua. Sbaglio o domani hai una videoconferenza con il tuo professore di latino. Sarebbe un peccato lasciarlo attendere per qualche ora di sonno mancata.» Catherine si fece gelida. «Obbedisci!»

Sherlock sorrise senza alcun premura e, accertate le proprie supposizioni, non si fece alcuno scrupolo nel dilettarsi con la nemica. «Così non fa che rinforzare la mia tesi, Miss Catherine.»

L'altra lo ignorò e, nonostante fosse alle strette, imprigionata dall'acume di un uomo straordinario, continuò a dare ordini al figlio.

«Porta Fiona con te!»

«Ho trentaquattro anni» disse la cliente con le fiamme accese negli occhi. Nessuno, nemmeno un santo o un demone, le avrebbe impedito di conoscere i meccanismi dietro la morte del padre. «Io resto qui. Qualsiasi cosa Mr. Holmes ci dirà.»

Ignorando tutto e tutti, Desmond uscì dalla stanza, lasciando alle spalle ogni cosa, ma solo per un fugace momento. Prima o poi i conti sarebbero tornati anche da lui e la realtà, come un onda anomala, si sarebbe alzata per poi infrangersi dappertutto.

«Non può continuare così. Dopo anni, raccontare le bugie è molto facile, così come ostacolare i fatti nudi e crudi. Non pensa che sia il momento di lasciarsi alle spalle questo peso. Lo faccia per lei, non solo per suo figlio» disse Sherlock.

«E cosa c'è da sapere?» chiese Catherine, serrando la dentatura.

«La verità su suo padre.»

John, spettatore del caso, osò parlare.

«Sherlock, cosa diavolo stai dicendo?»

«Lei è completamente impazzito» dichiarò la nobildonna, furiosa.

Sherlock non demorse, nonostante l'atteggiamento della colpevole, una madre pronta a far di tutto pur di proteggere il figlio dalle altre bestie.

«Ha sempre avuto un rapporto speciale con suo cugino, non è così? Lei non ha mai conosciuto i suoi genitore ed è stata come una sorella per lui. Giocavate insieme da piccoli sotto quella quercia. Purtroppo, sua zia era sempre assente. E quando era presente, non era poi così affabile. Fingevate di essere tutt'altro e, per gioco, avete fatto scomparire la sua fede nuziale, proprio come nei vostri libri preferiti. Era l'unico modo per dimenticare. Farsi coraggio l'un con l'altro. Ma poi il gioco si è tramutato in altro. E così è nato Desmond. Lei aveva solo sedici anni...»

Catherine riversò tutto il nervosismo in una risata leggera, spontanea ma subito dopo isterica. I pensieri all'interno della sua mente si fermarono, per un solo istante, e ripresero a scorrere in un secondo tempo.

«Ha letto troppi romanzi. Forse più di quanti ne abbia letti io. È una trama molto dettagliata e piena di colpi di scena. Mi offre un così bel racconto, cercando di intrappolarmi, ma dopo cosa fa? Si affida a un foto. Basta così poco per diffamare una persona?»

La donna prese la mappa dalle mani e la stracciò senza nemmeno pensarci. Intanto Cruz, attonito quanto il resto dei presenti, rimbeccò il bruno.

«Mr. Holmes, questa accusa è davvero grave e una foto non è credibile come prova. Si rende conto di quello che ci sta raccontando?»

E il fastidioso trillo di un cellulare spezzò il silenzio prodotto dallo sgomento generale.

«Risponda, ispettore!» comandò Sherlock, speranzoso.

Mr. Price, ancora stordito dalle troppe informazioni, prese il telefono e rispose, sperando di comprendere qualcosa dalla inaspettata chiamata, giunta come un intervento divino nel caos. Parlottò per pochi minuti prima di concedere definitamente la chiamata.

Sherlock, allora, ricominciò la sua arringa con trepidazione. «Era la centrale, non è vero? Helen O'Ghallager è già lì. Di certo, saprà darvi tutti gli indizi necessari a una corretta riapertura delle indagini. Ho parlato con lei, ieri, e vi assicuro che aveva intuito tutto. Non ha mai parlato per paura di suo marito. Ma molti erano i suoi interrogativi irrisolti. Il padre fantasma di Desmond, i problemi legati alla sfera intima con Dwayne...»

«Lei è un pazzo» squittì Catherine, lacrimando.

Le sue forze mancarono, nonostante il desiderio di continuare a combattere contro i nemici della sua felicità, proteggere il figlio da uno scandalo taciuto per così tanti anni. Nel corso di pochi minuti era riuscita a perdere ogni cosa:, soldi, famiglia e anche la dignità.

«E allora abbia il coraggio di ripeterlo dopo un test del DNA. O forse basta solo la cicatrice sulla faccia di suo figlio? È nato con il labbro leporino, un difetto congenito dovuto al rapporto tra consanguinei. Ha altre giustificazioni?»

«Io non so più cosa pensare» soffiò Fiona, con le guance arrossate contro i palmi dispiegati.

Tutte le peggiori supposizioni si erano concretizzate, martoriandole l'anima e prosciugandole ogni speranza. Fu complesso restare attaccata ai sensi, alla resilienza distrutta.

«Connor Bates voleva liberarsi di voi, in modo da poter ottenere tutta la magione per sé e per sua figlia. Ha scoperto la verità. Per questo Dwayne lo ha fatto uccidere. Miss Catherine non ha mai collaborato attivamente, ma sapeva ogni cosa e ha tenuto la bocca chiusa. Ciò, purtroppo, non la salverà dal carcere.»

Cruz, quasi del tutto convinto, parlò alla signora.

«Rapporti tra membri della famiglia sono punibili con due anni di prigione in questa nazione, lo sa questo?»

Catherine restò zitta per non far altro danno.

«Non può continuare a nascondersi dietro un dito, accusando una sorella scomoda e depressa. Prima o poi sarebbe emerso. Non importa cosa lei ha escogitato per far stagnare tutto» concluse Sherlock, finalmente libero dai propri impegni professionali.

Giunto l'epilogo, le ferite presto si sarebbero cicatrizzate.

7. 

Londra, Baker Street.

«Siete arrivati, finalmente!» esclamò Mrs. Hudson, afflitta. «Mangia poco da giorni e passano ore prima che riesca a farla dormire. È una piccola peste. Testarda come suo padre!»

L'ingresso del 221 B accolse il suo affittuario, accompagnato dal migliore amico e da una neofita collaboratrice. Tutti e tre ascoltarono le parole disperate di Mrs. Hudson, ma solo Gwen si precipitò al secondo piano, nella camera di John.

La notte, come un manto, si era distesa su tutta la stanza, inghiottendo le pareti. Dal piccolo lucernario si era dispiegato un cono di luce lunare, perfetto nello sfiorare le coperte del letto, sul qualche Rosamund si era rannicchiata. La bimba, mugolando e lacrimando, era in attesa del sonno e di un po' di calore umano.

Gwen reiterò un noto esperimento, noto come Lavoro di Harlow. Dei ricercatori avevano isolato dei cuccioli di scimmia Rheus all'interno di gabbie munite con un peluche. Le piccole creature, nonostante non ottenessero alcun sostentamento – tranne che per un biberon – restavano avvinghiate al madre surrogato, in cerca di un attacco morbido e di un conforto associabile a quello dato da una abbraccio materno. Rosie, proprio come un cucciolo, in quell'istante cercava un appiglio, il calore. John, forse, era stato poco attento ai bisogni primari della figlia, rimasta senza una madre utile per le basi per un attaccamento funzionale.

La donna non seppe come agire; percepì solo il riflesso di quel malessere e sentì la necessità di agire per porre rimedio alla situazione. Senza un'idea precisa, prese dalla borsa l'ultimo dolce acquistato e lo posizionò sul comodino. In seguito, si accomodò sulle coperte.

«Non riesci proprio a dormire?» soffiò, sorridendo.

Rosamund guidò i grandi occhi chiari sulla figura che si era presentata. Odorò il suo profumo femminile e, tranquillizzata, focalizzò tutta la sua attenzione sulle carezze percepite e sulle note galleggianti nell'oscurità.

«This empty stage is the most precious place...» [3]

Gwen sentì la gola scaldarsi. Le parole scivolarono via dalla sua lingua e si espansero nell'atmosfera, collezionando tutte le memorie del passato. La ninna nanna, seppur un po' stonata, guidò l'immaginazione verso altri orizzonti, verso un lontano mondo fatto di ghiaccio, notte e tundra.

«Here the moonlight moves through the alley.»

Quasi ogni sera suo padre, con una tono profondo, aveva canticchiato la medesima melodia con l'intento di trasmettere il suo amore per le terre nordiche, in cui era stato con la cara moglie.

«A bended warm needle in the summer's care.»

Con le mani Gwen tirò le coperte, comprendo la bimba con molta gentilezza e nel mentre continuò a pronunciare le poche parole con molta fragilità, contenendo il tono mellifluo e rilassante. Rosie, cominciò a chiudere le palpebre a causa del sonno incombente.

«The white ocean's so wide. The ghost moon's wings arrives to take me to my real home.»

La ragazza alzò di poco il volume, lasciandosi guidare dalle memorie. Sentì, anche se solo in maniera blanda, un contatto con le proprie radici. Con poco, aveva reso omaggio alla sua tenera infanzia, alle case colorate, allo speziato odore della cannella e al sapore stucchevole della glassa all'albume.

«In a wintery land, a moment's eternity. It sneaks up to me like a tiny cat's paws. I get to live by the pretty and sweet spring.»

Si eresse, allontanandosi dalla piccola dormiente con molta calma, in modo da non mandare in fumo il traguardo raggiunto. Con il passo felpato, indietreggiò con ancora in bocca le parole di quella sinfonia.

«A violin paints its timeless melody of great languor.»

Soffiò le parole, sussurrando le ultime rime.

«With its song it wakes up the land.»

Infine retrocedette e sentì contro le spalle la pressione di due mani che s'aggrapparono al suo busto. Non ci fu alcun riflesso istintivo, poiché lei ben riconobbe a chi la presa apparteneva. E la cosa, in effetti, non le dispiacque per niente. John intanto, non potendo emettere suono, con il palmo batté sulla scapola della donna, come in segno di gratitudine. Il mesto ricordo di Mary, in quel momento, svanì quasi del tutto. 

Ma solo per un paio di secondi.

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Capitolo 20
*** Il pacco rosso ***


I pacco rosso

Londra, Baker Street.

Il 221 B di Baker Street non era mai stato così pieno, dal momento che le mura del soggiorno continuarono a ospitare non solo confusione, ma anche parecchie figure. Mentre il parlottare scaldava l'aria, Mrs. Hudson girovagò da punto all'altro con in mano la scatola piena di foglie di tè. Una volta acceso il bollitore, aspettò fin quando l'acqua non raggiunse la temperatura ottimale, dopodiché versò il liquido nella teiera e lasciò le foglie in infusione per un paio di minuti. Quando la porcellana divenne ben tiepida, filtro il tè nelle singole tazze e passò alle aggiunte. Il tè nero fu chiarificato con del latte e poi dolcificato con zollette di zucchero.

«Il tè è quasi pronto!» L'esclamazione lasciò la cucina.

La situazione nell'intero alloggio sembrò aver ripreso la sua familiare ordinarietà. John batteva al computer con concentrazione per aggiornare il proprio blog, Sherlock rimaneva fermo sulla sua poltrona con le mani congiunte sotto il mento, mentre la piccola Rosie, incapace di restare immobile sul divano, cominciò a tuffarsi sui cuscini per gioco.

Solo un'eccezione contrastò quel clima così assimilabile al passato, un unico punto bianco al centro di un quadro confuso e inasprito da colorazioni cupe. Gwendolyn Blomst, con in mano il Daily Mail, marciò avanti e indietro, leggendo gli articoli più freschi. Particolarmente interessante fu la notizia riportata a pagina sei, riguardante uno strano caso di finto suicidio accaduto nella contea del Gloucestershire.

«È un cold case in piena regola quello risolto dal sergente Price e i suoi collaboratori, che hanno notificato un'ordinanza di custodia cautelare al trentottenne Dwayne Edward O'Ghallager, prossimo al carcere per omicidio premeditato» declamò con tono acceso. «L'accusa è di aver architettato l'assassinio del quarantaduenne Connor Samwell Bates, impiccato in un agguato avvenuto il tredici marzo di due anni fa, presso la foresta di Dean, Coleford, Gloucestershire. Inizialmente si pensò a un suicidio ma le indagini hanno dimostrato che l'obiettivo era proprio uccidere il banchiere Bates. La colpa: un litigio con le persone sbagliate, una volta scoperto un rapporto incestuoso tra i componenti della famiglia O'Ghallager.

Si è arrivati alla soluzione del caso grazie ad alcune notizie emerse nel corso dell'indagine coinvolgenti Helen O'Ghallager, moglie del colpevole. Un collaboratore di giustizia fece riferimento all'assassinio Bates, ma solo dopo numerosi accertamenti è stato possibile ricostruire la vicenda. A gestire l'omicidio quel giorno sarebbero stati Terence Sullivan e George Bill Carpenter, in passato accusati di bracconaggio.

Al centro dell'omicidio, la controversia legata alla misteriosa presenza di una banshee, una donna in nero, interpretata da Tatiana Golubev – allora era lei la finta Mourning Wright! – è stata notificata come prova, in quanto utile a una maggiore credibilità nei confronti del finto-suicidio. Di grande consistenza è stato l'aiuto offerto da William Sherlock Scott Holmes, consulente e investigatore.»

«È consulente investigativo» corresse Sherlock, scontento.

Gwen piegò il giornale mettendolo sotto al braccio e dopo lanciò al bruno uno sguardo costernato.

«Non dovresti lamentarti di questa sciocchezza, ma di altro. La polizia di Cinderford ha preso tutto il merito, quando tu hai risolto il caso da solo. E che come se non bastasse, ti hanno nominato solo alla fine dell'articolo. È davvero deplorevole!»

Il detective si rilassò, mettendo in luce la scarsa importanza data alla questione. Finalmente era a casa e si sarebbe concentrato sul caso lasciato in disparte: Miss Blomst era muta nell'unica priorità.

«È solo la becera notizia offerta da un giornalista con l'alitosi. Un arrivista che vive ancora nello scantinato di sua madre assieme a due gatti. Ha un Q.I. nella media, ma lo sfrutta male e solo per la propria posizione professionale. Per una promozione molto probabilmente. Si occupa di cronaca nera, ma preferirebbe scrivere di politica, perché è alle prima pagine che mira. Peccato che non abbia le conoscenze idonee.»

«Come hai fatto a dedurre tutto questo solo da un articolo?» chiese John.

«Non l'ho dedotto, infatti. Ho solo tirato a indovinare» rivelò l'altro, ricomponendosi. «È giusto che anche altra gente prenda gli allori al mio posto. Se sono sempre io a risolvere ogni singolo caso, gli articoli diventano noiosi e dannatamente prevedibili. Non è vero, Lestrade?»

Greg Lestrade all'interno dell'abitazione non aveva portato solo la presenza, ma bensì anche altre preoccupazioni legate al delitto che si era consumato nel quartiere di Dalton poche ore addietro.

Naturalmente, per la squadra mobile la situazione si era già mostrata troppo intricata, poiché il morto era scomparso e al suo posto n'era stato reperito un altro completamente differente. Scartate tutte le idee più complesse, a Lestrade non era rimasto che intrufolarsi ancora a Baker Street, per un semplice aiuto. Non gli importava ricevere il merito al posto di Sherlock Holmes, ma solo porre termine all'enigma.

«Non sono qui a perdere altro tempo, Sherlock. Hai deciso? Accetti il caso o no?»

Il detective scoprì un sorriso. Il suo intelletto già era stato rapito dalle complesse dinamiche del fatto e incontenibile fu il desiderio di poter raggiungere la scena del crimine per potere dare inizio all'indagine.

«Un omicidio nel quale il morto è diventato l'assassino. Non me lo perderei per nulla al mondo» confessò, prima di guidare l'occhio ceruleo su Gwen, la sua insolita cliente ancora in attesa. «Ma sono già impegnato con altro, al momento. E non lavoro mai a due casi contemporaneamente.»

Greg recepì di non poter convincere il bruno e, sebbene un po' frustrato, si risistemò per andare via. Non pensò a tutte le ore di lavoro da sbrigare, ma si limitò piuttosto a muovere qualche sconsolato passo all'indietro, parlottando in modo afono.

«Come vuoi, Sherlock. Io però adesso dovrei andare. Quindi ti lascio ciò che mi hai chiesto. Ho controllato tutti gli schedari, ogni singola riga. Tutto è in ordine.» Lasciò qualche documento sul tavolo attaccato alla parete e cominciò a rilasciare qualche saluto ai presenti con il solito garbo. «Arrivederci John, Mrs. Hudson! Miss Blomst!»

«Arrivederci, Greg!» rispose l'ex soldato, con disinteresse.

L'ispettore s'incamminò verso l'uscita ma, poco dopo aver fatto scattare il pomello, fu destato da un ricordo balenante. Con rapidità si girò ancora e strappò Gwen dalle sue letture con un'unica frase spicciola.

«Oh dimenticavo! Tanti auguri di buon compleanno, Miss Blomst.»

La ragazza sgranò gli occhi a causa di ciò che le sue orecchie avevano colto. Quell'augurio così improvviso sembrò catturare l'attenzione di ogni anima all'interno del soggiorno, fattosi silenzioso.

«Grazie, ispettore!»

La porta sbatté, coprendo la figura di Greg, e all'interno dell'ampia stanza ancora persistette una totale assenza di suoni. La donna comprese di dover dare delle spiegazioni sul perché di tanti segreti, ma nessuna parola venne filata. Inoltre, insorse lo scombussolamento creato dal come l'ispettore fosse riuscito a conoscere quella data di nascita.

«Come ha fatto a saperlo? Ci siamo a malapena incontrati settimane fa. È una cosa che imparate a Scotland Yard?»

Sherlock abbandonò la poltrona e raggiunse il fascicolo recuperato dal buon ispettore. «Si tratta di Lestrade, Blomst. Ha solo letto il tuo schedario in un momento di noia.»

John, completamente preso alla sprovvista, lasciò perdere per un po' il computer e osservò la ragazza, così da poter discutere di quell'inaspettata sorpresa.

«Aspetta un attimo, è il tuo compleanno?» chiese, smarrito.

«La sua nazionalità, il suo compleanno. A quanto pare, le piace tenere le sue informazioni nascoste» evidenziò Sherlock, sfogliando le pagine con su stampate tutte le informazioni raccattate sul caso Blomst.

«Primo, la mia cittadinanza è inglese, sono nata a Sheffield. Secondo, essere riservati non è un male» dichiarò la bionda, per poi rivolgere uno sguardo più mansueto al caro medico, in attesa di spiegazioni. «E sì, John! Oggi è il mio compleanno.»

L'ex soldato la fissò, esaminando ogni tratto fisico di Gwen, ritta e ferma contro la finestra trafitta da una forte luce argentina. Il bagliore del sole, seppur filtrato da nembi scuri e compatti, si era sedimentato sulla ragazza, disegnando ogni gentile forma del suo corpo.

«Quindi sono venticinque?» chiese lui, retorico.

«Ventiquattro» specificò Gwen, schietta.

«Non venticinque?»

«Sono venticinque anni, John» confermò Sherlock, meccanicamente.

Il disappunto piegò le labbra del medico, dubbioso.

«Lo saranno alle sei e quarantotto» spiegò la ragazza, cercando di mostrarsi precisa. «Mio padre me lo ha sempre raccontato. Le ultime compere, il negozio di caramelle al centro commerciale.»

Una presenza fece capolino nel soggiorno, quella di Mrs. Hudson. L'anziana proprietaria di Baker Street, ascoltato quello scorcio di conversazione, dispensò le tazze ai presenti. Infine, puntò Gwen e chiese:

«Non sarai nata accanto a uno scaffale di caramelle mou, cara?»

Il ricordo di quella storiella ritornò nella mente della ragazza e distese un sorriso ingenuo. «Certo che no, Mrs. Hudson. Ma ci è mancato molto poco.»

«Oh, Sarebbe stato un posto molto curioso per venire al mondo.» La proprietaria del 221 B posizionò sul tavolino un vassoio ricolmo di sconse [1], marmellata e burro morbido. «In mezzo allo zucchero e ai biscotti. Buon Dio, se solo sapeste in mezzo a che cosa sono nata io. Erano tempi duri!»

Gwen lasciò perdere il tè poiché non sentì il bisogno di scaldare la lingua, né di intiepidire le dita. Preferì, al contrario ricominciare a trotterellare per la stanza, nonostante lo sguardo di ogni inquilino intento a squadrarla con molta assiduità. Pur sentendosi come la lepre con il campanello al collo, non accontentò ogni faccia perplessa con un resoconto della storia completa.

John, intanto, idratò le labbra con il liquido bollente, poi introdusse un piccolo sorso nella bocca, scatenando sulla lingua ogni singola papilla. Lo stucchevole sapore lo portò a separare subito le labbra dalla porcellana bollente.

«Troppo dolce» comunicò, esibendo una smorfia.

Mrs. Hudson si girò verso di lui, sfidandolo con giocosità.

«E allora la prossima volta se lo faccia lei» disse, incrociando le braccia al petto. «O perlomeno assuma qualcuno. Sono stanca di preparare il tè ogni giorno e ripulire tutto il disordine di questa casa. Lo ripeterò un'altra volta, io non sono la governante!»

2.

Gwen non era mai stata un'amante del caffè, troppo eccitante e amico della sua insonnia. Era capace, tuttavia, di farlo per bene e renderlo fragrante.

Suo padre era un chirurgo e ogni giorno era solito pretendere una bella tazza di caffè, l'unico nettare disposto ad aiutarlo con la concentrazione durante le settimane intense. Ogni mattina, da brava figlia, lei soleva abbandonare il sonno poco dopo l'alba per mettere il bollitore sul fornello. Era necessario solo acqua, un il filtro e una buona miscela. La regola era due parti d'acqua per una di espresso.

Gwen, ricordando bene ogni semplice passaggio, non incontrò alcun problema nel ripeterlo a Baker Street. Come da programma, versò l'acqua bollente nella tazza, mise il filtro e infine lasciò il caffè in infusione per alcuni minuti. Dopo, percorse il soggiorno, finalmente sgombro da personalità di troppo, raggiunse John – ancora intento a concludere lo scritto per il suo blog – e infine lasciò la bevanda sul tavolo accanto al computer.

«Non ci ho messo lo zucchero» dichiarò, dolcemente.

L'uomo, sorpreso, distolse lo sguardo dal computer per cercare l'artefice di una così delicata sorpresa. Sorrise appena, quando notò Gwen, e dopo cominciò a parlare piano.

«È per me?»

«Noti altra gente in questa stanza?»

Toltosi lo sciocco dubbio, l'ex soldato cominciò a bere con dei piccoli sorsi. Il gusto amaro e intenso solleticò il suo umore, rendendolo più contento. Un buon caffè era una delle poche cose capace di migliorare le sue lunghe giornate.

«Ho notato che preferisci il caffè al tè» mormorò Gwen.

«È buono. Sicuramente migliore di quello che Sherlock mi ha propinato per anni a causa dei suoi esperimenti» confermò lui, dopo aver trangugiato un terzo del liquido.

«Se il tuo era un apprezzamento, ti ringrazio.»

La ragazza accolse il complimento, eseguì un sorriso gentile e fece per licenziarsi, in modo da lasciare il medico libero di aggiornare il proprio sito. Tuttavia, questi non sembrò molto predisposto a lasciarla andare con così tanta facilità.

«No, aspetta. Resta» comandò, attirando l'attenzione. «Potremmo parlare di quello che è successo oggi. È il tuo compleanno e sarebbe un peccato non festeggiare.»

Gwen si bloccò a causa del disagio. Non gli erano mai piaciuti i compleanni, nemmeno i festeggiamenti o le solite tradizioni legate a torte e candeline. Si era accontenta di qualche serata con i colleghi di Sheffield, ma solo perché costretta.

«Non festeggio. Non l'ho mai fatto» confessò lei, moggia. «Non è nelle mie corde.»

«Be', puoi fare un tentativo» controbatté il medico, serio. «Domani riprenderemo le indagini e questo potrebbe essere il tuo ultimo giorno a Londra. Usciamo e mangiamo un boccone fuori.»

La ragazza con la bocca forzò un'espressione alquanto particolare, esteriorizzando uno strano sentimento confuso, oscillante tra la malinconia e la gratitudine. Finse e lo fece solo per non apparire infelice.

«È un bel piano, ma i compleanni non fanno per me. Troppe attenzione e tradizione scomode.»

John sorrise ancora e tentò di risollevare tutta la situazione. «Nessuno ha mai rifiutato una fetta di torta, a costo di fare quello che non gli va a genio. Mettila così, soffri per una sera ma dopo avrai il dolce.»

«Dovrà essere molto buono quel dolce.» Gwen si morse il labbro con i denti per impedire alla bocca di dilatarsi. «E tu? Come passi i tuoi compleanni?»

A John non servì inventare qualcosa, poiché lui di compleanni ne aveva passati anche troppi. Bastò, in effetti, solo riuscire a ricordare tutte le sue passate esperienze per poter dare a una risposta tanto soddisfacente, quanto terribilmente scontata.

«Niente di eccitante. Ti svegli la mattina e tutto sembra normale, proprio come il giorno prima. Ti metti addosso qualcosa ed esci per andare a lavoro. Torni a casa a pezzi e speri di riposare, ma le cose prendono un'altra piega. Ricompare qualche parente e poi anche gli amici che credi scomparsi da anni. Senza rendertene conto, sei in un ristorante di Soho, a sopportare le domande scomode e le battute riguardanti il numero di candeline sulla torta. Tua sorella si ubriaca e infine scatta anche una scenata. Quella non manca quasi mai.»

La ragazza sentì le sue risa morire.

«Sul serio?»

John continuò la sua storia.

«Sì. E alla fine, quando tutto è finito, non ti resta che rimanere da solo per il resto della notte. Rifletti un po' su quello che è successo e capisci di star invecchiando.»

Gwen concentrò tutto la sua attenzione sugli occhi dell'uomo seduto accanto a lei, sul blu ancora profondo e intenso quanto il mare. «Quello che hai detto è molto triste, te ne rendi conto?»

«Può darsi» dichiarò John, languidamente. «Be', la torta era buona.»

Gwen scosse la testa. «Ne terrò conto.»

«E quindi? Hai deciso come passare la serata?»

Le labbra di lei furono marchiate da un ghigno zeppo di furbizia. Solo un attimo e il medico le sentì strusciare sulla propria bocca con delicatezza. Il desiderio lo catturò, uccidendo prima ogni senso di colpa e dopo il ricordo di Mary. L'istinto prese il comando, guidando le mani e il resto.

La donna percepì il torpore disgelare il proprio corpo, fino a liberarlo da qualsiasi rigidità. Di conseguenza, cinse con le braccia il collo dell'uomo e continuò a baciarlo fino a quando le sue labbra, per lo sforzo, non si colorirono di una sfumatura rosata. Il silenzio li accompagnò per un po', fino ad annullarsi nell'attimo in cui qualcuno sbatté la maniglia del portone principale con forza, così producendo un impensabile frastuono. John si staccò dalla ragazza e riprese fiato.

«Cosa è stato?»

«Qualcuno ha bussato al portone» rispose Gwen, smarrita.

«Non riceviamo clienti, oggi.»

Placarono i bollori in fretta e scesero giù per dare una controllata. Mrs. Hudson, chiuso il portone, si avvicinò alle scale e raggiunse il punto in cui il medico e la ragazza si erano fermati. I due non notarono molto se non un piccola scatola, stretta tra le mani dell'anziana.

«Mrs. Hudson?»

«Oh, John caro!» esclamò l'anziana. «Qualcuno ha bussato alla porta, ma è scappato lasciando questo. Sembrerebbe un regalo. Peccato che non abbia né destinatario, né mittente.»

«Posso vedere?» chiese John, esponendo la mano dispiegata.

Mrs. Hudson diede il pacco al medico, che gli diede una rapida occhiata. La scatola era stata decorata con carta spessa, rossa, opaca. In superficie era stato posto un fiocco, talmente ben ingarbugliato da sembrare una rosa bianca ben adagiata in un mare cremisi.

«Sì, è un regalo.»

Tutta la situazione acquisì pesantezza e la preoccupazione sopraggiunse. Quel misterioso pacco giunto a Baker Street era per un'unica persona, la stessa che, piena di sgomento, era rimasta a fissare quel dono con addosso solo pessime sensazioni.

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Capitolo 21
*** Tempo ***


Tempo

L'amnesia di un'amnesia.

Il paradosso era reale, folle nel suo esistere. La perdita di alcuni ricordi aveva mandato Gwen a Londra, costringendola a percorrere sotto la tempesta una comune strada del centro. I piedi si erano mossi in direzione del 221 B e gli ultimi strascichi coscienza erano entrati in collisione con la figura di Holmes, con in mano il suo otoscopio e un'espressione soddisfatta.

Le settimane si erano addossate parecchie esperienze interessanti, due casi risolti brillantemente, romantiche notti insonni e i teneri episodi della routine quotidiana. In poco, persino l'amnesia fu lasciata indietro, lontano dagli ultimi attimi felici. 

Ricordare si era fatto scomodo, ma non impossibile. Quel pacco giunto tramite mani sconosciute era riuscito ad attirare l'attenzione generale di ogni inquilino, quasi imponendo l'esplosione delle memorie. La giovane ne era più che certa: tutto presto sarebbe emerso dagli oscuri abissi dell'inconscio e Sherlock si sarebbe dedicato a sbrogliare il nodo di quel mistero. Era solo il momento di cominciare a calibrare gli ingranaggi nella testa e pensare.

Il bruno, difatti, si era seduto in cucina e, accanto a provette e costoso materiale da laboratorio, continuò ad analizzare l'ambiguo regalo, girandolo dal lato a lato per meglio cogliere le tracce. Non erano state lasciate impronte, né un qualche segno decifrabile. La scatola era nuova, così come lo era la carta piegata con precisione e saldata al cartoncino con del nastro; l'origami del fiore era stato eseguito con cura.

«Hai trovato qualcosa?» chiese un tono impaziente.

John, accanto a una Gwen sempre più allarmata, spezzò la frenetica circolazione di pensieri dentro alle testa del collega.

«È stata molto precisa» asserì Sherlock.

Gwen incollò le spalle alle gelide piastrelle del muro, per non dover poggiare tutto il peso sulle gambe. Il suo fisico cominciò a sciogliersi sotto al peso della tesa situazione.

«Lei?» chiese John, mentre i dubbi gli picchiettarono addosso.

«Una lei, ma non l'aggressore.»

«Ne sei proprio sicuro?» chiese il medico. «Chi altri poteva sapere?»

Il bruno sbuffò e nel mentre stracciò la carta, producendo un fruscio dilatato. La scatola rimase spoglia, rossa, indecifrabile, e non a lui non restò che scoperchiarla in modo da riuscire a esibire ogni contenuto. Sempre più intrigato dal fatto, chiarificò il proprio pensiero al collega. «Qualcun altro diverso dal nostro colpevole che, ti ricordo, è un uomo.»

John, proprio come Gwen, si avvicinò al tavolo per meglio scorgere il contenuto di quello strano regalo. Rimase deluso nel notare solo un cellulare nero, molto in voga nel decennio precedente.

«È un cellulare» osservò.

«Ottimo spirito d'osservazione» constatò il detective con sarcasmo. «Ora puoi farti prendere da Scotland Yard.»

Gwen abbassò lo sguardo e cominciò a grattarsi il capo per il nervosismo. Sorpresa da tutte quelle novità, non poté mantenere la mente fredda e ragionare.

«Non potrebbe essere più complesso.»

«Tutt'altro. Più il quadro sembra complesso, più il suo contenuto è intellegibile. È un errore comune.» Sherlock, cominciò a premere la tastiera del telefono e, solo dopo qualche secondo, comparve del curioso materiale. «Queste pareti sono di pessimo gusto.»

La ragazza si sentì confusa a causa dei quell'affermazione. «Pareti di pessimo gusto?» Nemmeno riuscì a continuare, che il suo occhio, purtroppo, cadde sulle fotografie del cellulare. «Qualcuno ha fotografato casa mia.»

«Non è evidente?» chiese Sherlock.

«Nessuno aveva le chiavi a parte me. Saranno andate perse durante la mia fuga, cadute da qualche parte nel bosco. O forse rimaste a casa» ribatté Gwen.

«Non pensarci. Esistono molti modi per aprire una porta» concluse il detective. «Si tratta di una casa, non di una fortezza. Basta solo avere qualche accorgimento e diventa perfettamente penetrabile a chiunque. Fossi in te non mi scorderei che qualcuno ci è già entrato per farti del male.»

John, poiché sapeva di non poter stare al passo con la mente del proprio coinquilino, dovette chiedere una spiegazione che potesse rattoppare ogni suo ragionamento.

«È tutto molto... affascinante. Ma non c'è tempo per questioni del genere. Qualcuno ha lasciato questo e dopo è scappato. Non sarebbe il momento di pensarci?»

Sherlock si costrinse a una pausa, come per ripensare meglio alle sue conclusioni. Niente, però, sembrò acquisire un senso migliore di quello già colto.

«È un favore! Un misterioso individuo vuole risparmiarci il viaggio fino a Sheffield, mostrandoci la scena del crimine. È stato rimesso tutto in ordine. Qualcuno è entrato per dare una sistemata, cancellare le tracce, insabbiare la pista. Abbiamo fatto troppo tardi, John.»

«Quale criminale pulisce la scena del crimine e dopo fa delle foto da mandare a chi potrebbe acciuffarlo? Potrebbe essere spocchioso quanto te, ma rimane qualcosa di stupido.»

Il medico non riuscì a comprendere nulla.

«Non posso darti torto. È senza senso e parecchio inutile. Si tratta di due persone differenti. Mi sembra chiaro come concetto.»

«Due persone. E chi sarebbe quello che ha lasciato il pacco, allora?» chiese John, con impeto.

Sherlock sorrise, anche se solo per un frammento di secondo. I suoi occhi furono trafitti da un luccichio balenante, ben accompagnato all'ennesima risposta disorientante.

«Qualcuno che non può essere lontano. Potremmo sempre andare a trovarlo. Se l'idea ti piace, prendi la giacca.»

La ragazza, rintracciata la forza di parlare, comprese che era il tempo di riprendere le redini in mano. La ghigliottina era sulla sua testa e impedire che qualcuno tagliasse la fune non era una scelta. «Sai come rintracciarlo, Holmes?»

«So come rintracciarlo, come intraprendere un dialogo e anche come riportarlo sui suoi passi. Ho un bel discorsetto da fargli» rispose il bruno, incollando i suoi occhi cerulei e gelidi a quelli scuri e impenetrabili appartenenti alla donna.

Un inspiegabile bisogno di confronto li congiunse, portandoli a leggersi l'un l'altra, ad analizzarsi con metodi incompatibili.

«Bene» disse lei, dura. «Sono pronta a scoprire chi–»

«Frena un attimo! Ci stiamo dirigendo in un club molto particolare e la compagnia di donne non è mai stata apprezzata dai suoi soci. Resterai qui a occupare il tempo» comandò Sherlock.

Gwen sentì quelle parole generare solo un sentimento di frustrazione e una sensazione di completa inutilità.

«Perché? Riguarda me. Ho il diritto di sapere.»

Lui si alzò dalla seggiola.

«Non questa volta.»

John, pur rimasto in silenzio per quel po', chiese:

«Sherlock, puoi dirmi cosa sta succedendo?»

Il detective entrò nel soggiorno e prese il proprio cappotto. Si sistemò in fretta e furia, annodò la sciarpa blu al collo e nel mentre diede le sue spiegazioni ai presenti. «Niente di che non sia già accaduto. Sotto il sole tutto è rimasto tale a quale al passato» affermò, per poi tornare indietro e afferrare il cellulare e porlo alla ragazza. 

«Tieni, Blomst! È pur sempre un regalo di compleanno. E il nostro benefattore sa che hai perso il tuo da tempo.»

2.

Il Diogenes Club non era soltanto un bel monumento in una comune strada di Londra, bensì una setta polito-economica dalle origini non molto conosciute. Pochi erano coloro che potevano aver accesso alla struttura, a quello scrigno prezioso, e si trattava di gente appartenente a buon rango, politici, membri della famiglia reale, un personale altamente istruito e Sherlock Holmes.

Il bruno, pur godendo di qualche privilegio in quanto fratello del fondatore Mycroft Holmes, non era mai stato intrigato da un luogo così austero come il Diogenes Club. Quel silenzio portato allo stremo, l'ordine e la schiera di poltroncine contenenti anziani corpi e flaccidi, lo rendevano alquanto irrequieto. Eppure, quando era necessario interloquire a quattrocchi con il caro fratello, non c'era miglior posto.

Quel giorno, nonostante le assillanti lamentele ostentate dai membri, il detective continuò a camminare per la sala e, aiutato dal medico, spalancò la porta di uno studio senza troppi decori per poi pararsi dinnanzi al familiare. Mycroft era seduto su una delle sue eleganti poltrone purpuree e composto, ostentò un'espressione severa.

«Ecce homo! Dopo ben quindici minuti... che peccato! Confidavo nei classici dieci» disse, una volta data una rapida occhiata al proprio orologio da taschino.

Il piccolo cerchio oscillò come un pendolo, raccogliendo la luce filtrata dalle singole aperture. In quel frangete, Sherlock ghignò.

«O sono io il lento, o la tua assistente ha cominciato a stancarsi dei tuoi ordini, Mycroft. Dalle la serata libera!»

L'uomo di ghiaccio sciolse l'espressione sul proprio viso, che ospitò una risata contenuta. Sherlock era sempre stato così dannatamente prevedibile, come un bambino piccolo e ancora rinchiuso in una mentalità rudimentale.

«Non cedere come sempre al vizio dell'orgoglio, fratellino. Riversare la colpa su gli altri, non ti fa apparire più intelligente» disse, alzandosi e rivelando un elegante completo. «E ricorda che la modestia rimane sempre un valido ornamento.»

Stavolta fu il detective a sorridere.

«Ornamento o meno, la modestia è sottovalutare se stessi, e ciò significa allontanarsi dalla realtà. Può servire a chi possiede delle capacità limitate, ma non a me. Altrimenti sarei solo un ipocrita, non credi?» [1]

«Ragionamento valido» evidenziò Mycroft. «Suvvia, Sherlock! Siamo entrambi qui, proprio come avevo previsto, e non mi sembra il caso di tergiversare con dello sciocco filosofeggiare. Il tempo scorre» recitò, ricacciando nella giacca l'orologio aureo e ticchettante.

Il detective non ebbe timore nell'appropinquarsi al suo interlocutore. Invero, quella lenta camminata lo mostrò molto più sicuro e impavido: torreggiare sulla peggiore delle sue amicizie diede al bruno una sensazione di pieno controllo.

«Ebbene, sarò coinciso. Non ho intenzione di rimanere nel tuo covo di bacucchi in cravatta un minuto di più.»

«Prego...»

Sherlock tirò fuori dalla tasca del proprio cappotto scuro l'origami, prima incollato sul dorso della misterioso regalo giunto a Baker Street. Espose la piccola rosa cartacea, avvicinandola al fratello.

«Hai scoperto qualcosa d'interessante, spiandomi?»

Mycroft spezzò quella pausa di quiete attraverso un tono paterno, molto più adatto alle giustificazioni di un qualsiasi genitore interessato all'educazione di un figlio cocciuto. «Fratellino» pronunciò con delicatezza. «Non mutiliamo concetti con parole fuorvianti. Ti ho solo controllato di tanto in tanto, per la tua incolumità. Niente che non abbia già fatto.»

Sherlock sostenne lo sguardo del proprio fratello.

«Non era necessario!»

«La prudenza è sempre necessaria, altrimenti non sarei stato scelto per questo incarico.»

«Non ti distrae abbastanza, a quanto vedo.»

«Non spetta a te giudicare il come io pa–»

«Scusate!» John si stancò e, sempre più desideroso di conoscere il perché di quella inaspettata visita, si posizionò al centro del piccolo spazio che tra i due Holmes. «Non vorrei intromettermi nel vostro dibattito familiare, vorrei solo sapere perché adesso siamo qui. Cosa diavolo sta succedendo?» chiese, altalenando lo sguardo da viso a viso. «Allora, chi vuole darmi una spiegazione?»

Sherlock annunciò: «Mycroft ha bisogno di me, John.»

Il maggiore degli Holmes stirò la propria postura e contrasse un broncio. «Sciocchezze, fratellino! Qualcun altro ha bisogno di te. Io sono solo il tramite.»

L'ex soldato cercò di comprendere cosa stesse accadendo, ma l'unica parola che scese giù dalla sua mente fino alla bocca fu solo un poco dignitoso «Cosa?»

«Sono riconoscere i tuoi trucchi. È nei guai, non è così?» chiese il bruno, ignorando il collega.

«Non più di quanto lo sia mai stata» rispose il fratello.

Il medico sentì quel sentimento di frustrazione premere contro la pazienza; avere a che fare con un componente della famiglia Holmes era arduo e, purtroppo, richiedeva un fonte inesauribile di tolleranza. Tuttavia, avere a che fare con ben due componenti della famiglia Holmes era un compito ingrato e fastidioso: era come essere il mediatore tra due extraterrestri con una propria lingua.

«Cristo, di chi state parlando?» sbraitò l'uomo, infine.

Mycroft tacque, ma solo per poco.

«Sono passati parecchi anni, ma noto che il dottor Watson ancora non ha imparato a riflettere. Strano, considerando la mole di stimoli a cui è stato abituato prima e dopo il suo matrimonio.»

«Sa essere eccitante, a suo modo» disse Sherlock in modo affabile.

E, in quel momento, se la sopportazione di John fosse stato il contenuto di una clessidra, in quel preciso istante l'ultimo granello sarebbe sceso giù per riunirsi a tutta al resto della sabbia. «Devo ripetere la domanda, ancora? Prima che passi alle minacce, di chi diavolo state parlando?»

Il bruno prese un respiro, gonfiando il torace. Squadrò il fratello come in cerca di un consenso celato, e solo dopo, quando sentì che il momento era arrivato, pronunciò un nome.

«Irene Adler.»

John strabuzzò gli occhi per la sorpresa. Non sentiva quel nome da molto tempo, né ricordava come fosse il viso della cosiddetta dominatrice. Riusciva solo a ricordare un corpo nudo nelle luminose stanze di un appartamento a Belgravia, il rosso sangue di un rossetto e il martirio patito nella ardua risoluzione di un caso riguardante fotografie compromettenti.

«Irene Adler? La Donna?»

Sherlock chiarificò ancora ogni deduzione abbrancata.

«Il telefono all'interno della scatola rossa, solo una copia del suo.»

In seguito, Mycroft lo affiancò. «Difficile scordarselo. Soprattutto dopo intere giornate passate a decifrarne il codice.»

Il detective, data una spiegazione al proprio collega, ritornò al suo fratello maggiore. Punzecchiarlo era il suo unico desiderio e niente gli avrebbe impedito di continuare a contrastarlo.

«Comprendo la scatola rossa e la confezione elegante, ma le foto al suo interno... È stato molto teatrale!»

«Non so resistere alla mia vena drammatica, lo ammetto.»

«Peccato il tuo tentativo che sia stato inutile, Mycroft.»

«Tentativo?» chiese John, increspando tutta la faccia.

Sherlock, percepita l'incertezza del collega, tirò fuori dalla gola la verità. Non scollò, però, l'occhio dal proprio fratello, nemmeno per un singolo istante: ogni parola era diretta unicamente a lui, l'artefice del regalo recapitato al 221 B.

«Rimani lontano, nel tuo ufficio o dentro questo edificio. Fingi di non essere interessato a niente, ma dopo cedi al tuo bisogno di mettere in mezzo te e i tuoi affari. Stai solo cercando di farmi abbandonare il caso Blomst.»

John sentì addosso il peso di quell'affermazione. Preferì non crederci, ma purtroppo Sherlock non era quasi mai in torto: l'altro Holmes era in procinto di mettere in mezzo un suo affare a discapito di Gwen, che sarebbe stata costretta ad aspettare.

«Cosa?» farfugliò. «Sherlock, non puoi farlo!»

«E non lo farò, John!» esclamò il detective.

«Sì, che lo farai» ribatté Mycroft, muovendo le sopracciglia verso la fronte ampia e scoperta. «E non sarò nemmeno io a importelo, Sherlock, ma... il tempo.»

«Il tempo?» ripeté il detective, curioso.

L'uomo di ghiaccio tentò di far ragionare il fratello, cercando di guidarlo in direzione di una corretta revisione delle sue supposizioni. Sherlock era lento, bisognoso di una spinta.

«Proprio così. Tu stesso hai osservato le foto sul cellulare. La scena del crimine è stata ripulita. Tutto è tornato così come era. E sai perché il colpevole ha fatto tutto questo?»

«Perché gli ho dato tempo» rispose Sherlock, mormorando. Non sopportò il sapore del fallimento: aver ignorato Gwen non era stata una scelta assentata.

«Il caso è già gelido e non esiste un modo per far tornare indietro le lancette, Sherlock. Ma questo lavoro è ancora caldo, è rovente. Quindi ti consiglio vivamente di non lasciarlo raffreddare. Tornerai a occuparti della tua aggressione a Sheffield non appena avrai concluso tutto con Miss Irene Adler» chiarì il maggiore dei fratelli con secchezza.

John, compresa la circostanza, dovette controbattere.

«Sherlock, non puoi accettare. Sarebbe la terza volta che la scarichi per dare la precedenza ad altro. Hai davvero intenzione di rischiare?»

Il bruno, tuttavia, non accolse la domanda e preferì ritornare al famigliare. «Chi altri è coinvolto?»

«Come?» chiese Mycroft, sorridendo appena.

«Chiedi il mio aiuto, ma so che Irene Adler non è una tua personale preoccupazione. La sua morte non è mai stata un tuo problema, anche se forse la sua presenza lo è ancora. Ma non è lei il tuo interesse. C'è dell'altro, molto altro.»

Mycroft inspirò e fece una pausa.

«Scoprirai tutto al più presto.»

Sherlock focalizzò gli occhi un po' su tutto lo studio: sulle pregiate pareti in legno, sulla tappezzeria impreziosita dalla lucente seta chiara, su ogni mobile austero. Quel luogo, raffinato e lontano da qualsiasi barocchismo, rappresentava a pieno il proprio proprietario, in quanto solido ed elegante.

Mr. Holmes, seppur solo, sapeva fare il suo lavoro. Era divenuto un pilastro dell'Inghilterra e come un sostegno era stato il migliore nel mantenere l'equilibrio dell'intera nazione. Il come, dopotutto, non era così importante.

«Riguarda il paese, no?» chiese il bruno.

«Riguarda me. E si dà il caso che io sono questo paese, Sherlock. Non lo lascerai mai cadere per stare dietro a una tentata aggressione.»

John dovette riconoscere la responsabilità dietro quella visita: Gli affari del governo avrebbero coinvolto la vita di molte altre persone, ma l'unica vita a cui stava dando interesse era quella della bianca figura in Baker Street. Combattuto tra i due fuochi, lasciò solo a Sherlock il fastidioso compito di scegliere: seguire Gwen o Irene?

«Hai intenzione di accettare?» chiese, serio.

«Lui ha già accettato, dottor Watson» rivelò Mycroft.

«Non l'ha fatto, invece» evidenziò John, per ripicca.

Il bruno guardò il collega, ma senza esprimere superiorità o cinismo. La sua, al contrario, fu un'occhiata da sottomesso.

«Dov'è Irene?» chiese, allora.

«È sotto protezione, lontano dal Regno Unito... in un ridente quartiere dell'Europa settentrionale, Nørrebro.»

Sherlock rimase di stucco. L'uomo di ghiaccio non dava niente per scontato, nemmeno il più esiguo dettaglio del piano: il nascondiglio di Irene Adler. Era stato proprio lui mandarla in quel preciso luogo e per una causa ben precisa.

«Danimarca. Conosco una donna danese e, che assurda coincidenza, dovrò prendere un aereo per Copenaghen entro qualche ora. Molto furbo, Mycroft!»

«Ho pensato a tutto, lo so.»

«John verrà con me. Nessun altro» decretò il detective.

John, come il corridore inesperto dietro ai due maratoneti, ritornò a non seguire quel discorso così ingarbugliato. Era di recente tornato da una breve gita a Coleford e si chiese in quale buco di mondo sarebbe dovuto andare.

«Io cosa?»

Mycroft si rivolse Sherlock, ma il suo sguardo glaciale si posò sul medico, stordito dalle troppe informazioni ottenute in modo disordinato. «Il dottor Watson non può prestare il suo supporto. Ha una figlia, in caso te lo fossi dimenticato. Sono a conoscenza della sua situazione delicata. È rimasta per troppo tempo senza le cure adeguata di un genitore. Non vorrai separarla dal padre solo per un capriccio.»

L'ex soldato restò spiazzato nell'udire quell'ultima osservazione. «Come sa che mia figlia ha–»

«E per questo vuoi usare la Blomst come ripiego» constatò il bruno, stroncando le parole dell'amico.

«Sostituzione, più che ripiego» obiettò l'altro Holmes, con severità. «Non posso permetterti di scomparire completamente, non di nuovo. Sono a io a dover risponde a questa situazione.»

«E perché lei? È solo una cliente» chiese l'altro.

«Una cliente che è riuscita ad adattarsi ai tuoi ritmi e che ha le competenze minime per chiamare un'ambulanza durante uno dei tuoi possibili attacchi. È intrepida, molto per una donna reduce da un'amnesia. Sarà interessante scoprire cosa l'ha scatenata.»

«Intrepida? Intendi dire manipolabile. Non ami fare complimenti e questo non fa che darmi sospetti.»

Mycroft espirò per smorzare la tensione. Erano passati solo pochi minuti, ma il confronto con il fratello minore lo aveva già sfiancato. Sherlock, invece, metteva in mostra delle sue energie.

«Te lo ripeto. Tu non hai bisogno di un aiutante e sai bene come gestire la situazione. Falla restare lontana dalle indagini, ma tienila aggiornata sulle tue condizioni. Ora che abbiamo messo in chiaro anche questo, accetti il caso o no?»

«Non l'avevo già fatto?» domandò retoricamente il bruno.

John irruppe nella conversazione.

«Io continuo a non capire.»

Sherlock girò i tacchi, raggiunse il medico, incrociando il suo sguardo. Nonostante il senso di colpa, trovò il coraggio di non mentire a un amico. «Cambio di programma, John. Domani mattina dovrò partire per Copenaghen.»

«Non vorrai scherzare?» chiese l'ex soldato, esasperato.

«E Gwendolyn Blomst verrà con me» continuò, inacidito. «Se hai delle lamentele riguardo a ciò, chiedi pure al diretto responsabile del misfatto» concluse, scuotendo l'indice contro l'uomo già seduto sulla sua possente poltrona.

«Ti aiuterà con la lingua, e so che desidera ritornare nel suo paese» confermò l'uomo di ghiaccio, impedendo a John di poter controbattere contro quell'assurda idea.

«È il tuo modo per controllarmi. Questo è ciò a cui miri» dichiarò il riccioluto, acido.

«La libertà è per te una debolezza. Non m'importa chi ti sia accanto, m'importa solo che ti sia accanto, in qualsiasi momento. Non voglio che si ripetano gli errori del passato. Cedere alla bieca tentazione delle abitudini, ahimè, è possibile. Volpes pilum mutat, non mores [2], e lo sai molto bene. La ragazza ti serve, anche se non vuoi ammetterlo.»

Il detective ignorò quell'implicito riferimento alle droghe e ad altri pericoli. Si limitò a dirigersi verso la porta, lasciando il cappotto libero di svolazzare come un mantello.

«Direi che abbiamo finito, John» disse, ghermendo la maniglia con forza.

«Io non sono d'accord–»

«Andiamo!»

Il medico seguì il cappotto nero, trattenendo nella bocca tutte le parole che non erano uscite in quel colloquio così rapido. Nonostante la confusione regnasse nella sua testa, posticipò qualsiasi arrabbiatura a un momento migliore e, nel frattempo, pregò il cielo affinché arrivasse un momento migliore. Sfortunatamente, non riuscì a nemmeno a conclude la sua preghiera, che una Mycroft lo attirò.

«Ah, dottor Watson, dimenticavo. Non si crucci tanto per Miss Blomst. Quando ragazze così giovani cercano l'affetto di un uomo adulto è solo per compensare la figura paterna. Sono molto bravo a comprendere le persone. Ci pensi!»

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Capitolo 22
*** Un aquilone sul cimitero blu ***


Un aquilone sul cimitero blu

Londra, aeroporto di Heathrow.

«La solitudine è per te una debolezza, Sherlock!»

Il tono freddo di Mycroft indugiò a lungo nella testa del detective, riportando continuamente la medesima frase.

Sherlock, purtroppo, non riuscì a distrarre la testa con banali informazioni sul caso e, di conseguenza, sorbì le parole del fratello maggiore che, oltraggiandolo, risuonarono nella sua coscienza proprio come la formula di una maledizione. Quasi finse di non conoscere le proprie debolezze, senza successo. 

La solitudine era stata un valido involucro di protezione, ma dopo la conoscenza di John Watson, la compagnia si è dimostrata come un unguento sulla ferita. Subito rivennero stimati il valore di un dialogo, uno scherzo e la possibilità di non dover più ragionare con la sola compagnia di un teschio.

D'altra parte, l'assenza dell'ex soldato si era mostrata un qualcosa di molto peggio. Sherlock, dinnanzi all'appartamento spoglio, si era ancora accontentato dell'isolamento.

Miss Morstan era stata la causa. La donna che si era approfittata di una semplice assenza per prendere John e tenerlo per sé. Ma Sherlock, pur risentendo della mancanza del più fidato amico, non era mai riuscito ad odiarla.

Dopo il caso Reichenbach, non era stato John a scegliere Mary, ma Mary a scegliere John. Il medico si era ritrovato intrappolato in una ragnatela, ma senza saperlo. Si era, perciò, limitato ad accettare Miss Morstan per non dover cedere alla solitudine imposta dalla finta morte di Sherlock Holmes. Il matrimonio era giunto in fretta, così come la nascita di Rosamund, ma l'amore era pian piano era venuto meno. Invero l'ex soldato, dopo tante bugie, si era accorto di non provare più nulla per sua moglie. Erano stato il senso dell'onore a rendere saldo quel legame, ma per un breve periodo.

Sherlock, dal canto suo, non era mai riuscito a identificare Miss Morstan come un demone: era solo un'anima affranta che si era innamorata della persona sbagliata e poi, in nome di quel matrimonio, si era fatta uccidere. Non era mai riuscita a immaginare il suo medico tornare un po' quello di tempo: sempre alla ricerca di azione e di altre donne piacenti.

Proprio nell'aeroporto di Heathrow, una struttura gigante e allestita come un centro commerciale, John era in piedi accanto a una figura per niente simile a quella della defunta moglie. Gwen, nei suoi abiti scuri, lo guardava con un sorriso. Entrambi stavano interloquendo da circa dieci minuti, in modo pacato e all'apparenza ordinario. Si scrutavano e si sfioravano, ignorando la folla all'interno della costruzione.

Sherlock, nonostante fosse distante, mangiò con gli occhi tutta la scena: l'amico era intento a mostrare alla giovane qualcosa di luccicante se trafitto dalla luce lasciata trapelare da mastodontiche pareti trasparenti. Molto probabilmente era un gioiello spuntato fuori dalla sua tasca. Forse un comune regalo.

Dinnanzi quell'immagine, il detective comprese di non poter fare niente per debellare quella storia nascente. La gelosia nei confronti del collega doveva essere arrestata. Per troppe volte era stato scorbutico nei confronti delle sue donne; tante altre volte le aveva ferite con discreto successo.

Lei non ha alcuna colpa.

La ragazza era complicata, sola, atipica. Sapeva come leggere gli altri, ma senza rinfacciare le proprie abilità, in quanto troppo docile. Era uno specchio deformante nel quale il detective poteva scorgere, a malincuore, il proprio riflesso. Lui era Gwen, in parte. E vedere una propria sostituzione accostarsi a John Watson con così tanta semplicità era come lasciare indifesa la superficie del proprio cuore solitario.

2.

«È un ciondolo» osservò Gwen, identificando una piccola catena d'argento aggrovigliata sul palmo di John. Una pietra scura, ben incastonata su una base spessa, splendeva grazie alla luce circostante. «È molto carino.»

«È assurdo» spiegò il medico. «Ma ho appena incrociato una giovane fan del mio blog. Se l'è levato dal collo per regalarmelo. Non so nemmeno il perché lo abbia fatto. Onestamente non indosserei mai qualcosa del genere. Non saprei nemmeno cosa farmene.»

«In effetti non è il tuo genere» scherzò lei, per poi premere con delicatezza gli incisivi sul morbido labbro inferiore. «Peccato, s'intonava ai tuoi occhi.»

L'ex soldato dilatò le labbra, nonostante la pressione del momento. Non era mai stato un granché con il miele, ma non era troppo tardi per imparare. «Be', forse voleva solo darmi qualcosa e basta. È un ricordo» raccontò l'uomo.

«Può darsi» sussurrò lei, languidamente.

John aprì la bocca, ma ogni suono emesso non sembrò appartenere a nessun vocabolario. Era arrivato a metà del suo discorsetto, ma l'imbarazzo ancora premette contro le sue intenzioni. Ciancicò anche per un po', prima di riprendere e fiato e concludere. «È per lo stesso motivo che io...»

La bionda concentrò lo sguardo sullo scintillio adagiato sopra la mano tesa del medico. Senza troppi preamboli accettò il dono e, nel frattempo, pregò affinché quel sorriso sulla propria faccia evaporasse via. Non era sua intenzione sembrare così felice, ma forse era troppo tardi.

«Bene!» biascicò John, con le mani libere. «Buon viaggio, Gwen!»

«Abbi cura di te, John!» esclamò la giovane con dolcezza.

Restarono fermi per qualche istante, senza cedere a effusioni e altre sciocche tenerezze. Il medico era troppo adulto per quel genere di arrivederci e preferì, di conseguenza, dare una pacca sulla spalla della ragazza per poi lanciare uno sguardo preoccupato in direzione Sherlock. Conclusosi l'incontro, lasciò l'aeroporto, abbandonando la sua Gwen in balia del viaggio.

«Conversazione piacevole?»

Gwen si voltò e notò quanto Sherlock si fosse avvicinato.

«Mi ha solo messo in guardia» dichiarò, ritornando a osservare il punto in cui John si era dileguato.

«Qualcosa in particolare da rammentare?»

«Sì, qualcosa sì.»

3.

Il decollo non era mai facile, poiché troppo irruento. Gwen chiuse gli occhi, lasciando la testa schiacciata contro lo schienale, per meglio sopportare quella pressione atta a spingerla prepotentemente indietro. L'angosciante sensazione dell'essere come risucchiata in buco nero ammosciò tutto il suo corpo, già flebile per il terrore.

Purtroppo la paura del volo era sempre stata parte di lei e, in quel momento, non c'era più il suo farmand [1] a farle compagnia. Purtroppo, al suo posto era riscontrabile un'altra figura tutt'altro che paterna. Sherlock rimase fermo come se niente fosse e pensò tra sé e sé a qualche congettura riguardante ciò che a breve avrebbe incontrato nel territorio danese. Statico quanto una pietra, mai si curò della piccola donna tremolante nel sedile accanto. La ragazza, nel mentre, sentì il cuore in gola. Tenne la mano distesa, in attesa della stretta di suo padre, una stretta che mai più avrebbe accolto. E ciò, purtroppo, bastò a renderla ancora più malinconica.

Passarono solo quaranta minuti dalla partenza e il cielo, al di fuori del piccolo finestrino, non era terso. Il grigio dominava l'infinito, dove si erano agglomerato un soffice manto scuro e minaccioso. Le nuvole oscuravano qualsiasi visuale al di sotto delle possenti ali metalliche, così contribuendo a un'atmosfera anomala. Turbolenze continue, inoltre, scossero l'aereo, rendendo Gwen un continuo squittio. Molti passeggeri, scossone dopo scossone, allora, sbuffarono per il fastidio.

«È solo aria!» [2] disse Sherlock, stanco. «Non ci sarà alcun incidente.»

«Ti ringrazio per l'informazione» rispose la ragazza con sarcasmo.

L'ennesimo scossone strattonò il velivolo, provocando nella giovane un persistente singhiozzo. Era come se un cane morente stesse salutando la morte con un serie di latrati. Persino tredicenne poco distante contrasse la faccia in una smorfia. «Faccia-da-latte!»

La bionda sentì tutto, ma non ebbe la forza di rispondere. Perciò, ingoiò il rospo e rivolse gli occhi a Sherlock, che inaspettatamente aveva cominciato a reprimere la risata.

«Lo trovi molto divertente, no? Hai ancora quindici anni?» piagnucolò lei. «Tu dovresti aiutarmi.»

«Hai studiato le scienze psicologiche» affermò Sherlock. «Hai le conoscenze idonee a superare situazione traumatiche. Non sarà il mio personale appoggio a farti superare queste ore senza far venire un'emicrania anche al pilota.»

Gwen, accettate le dure parole del proprio accompagnatore, ripensò a qualche dritta studiata sul suo vecchio manuale universitario. Le fobie, anche se non curate del tutto, potevano essere controllate con qualche piccolo accorgimento. Fondamentale era riuscire a distrarre la mente dal pensiero intrusivo attraverso qualche gradevole riflessione.

La giovane, allora, ripensò a qualche ricordo della sua infanzia, alle corse nel prato, alla prima giornata universitaria, ma niente riuscì a impedire le scosse e la perdita dei battiti. I sospiri proseguirono attirando l'attenzione persino dello stewart.

«Sherlock» mormorò la ragazza, disperata. «Tienimi la mano, ti prego. Mi farà stare meglio.»

Sherlock sbuffò.

«Smetterai di piagnucolare?»

L'anziano seduto nella fila parallela intervenne. «Per l'amor del cielo, tenga la mano a sua moglie!»

Il bruno lo fissò per un poco, senza controbattere: l'unico matrimonio instaurato era stato quello consolidato con la propria professione. Ma poco era importante in quel momento.

La fronte fu aggrottata per il disagio e la mano cercò quella della ragazza, ancora in attesa di quel semplice gesto.

«Bene» borbottò Gwen, più calma.

La stretta di Sherlock era salda, tenace tanto quanto quella del suo caro padre. Entrambi avevano sviluppato delle mani grandi e munite di dita affusolate. Guardando di sottecchi, era possibile addirittura notare come il palmo femminile sparisse poiché completamente avvolto da quello dell'uomo.

«Meglio?» chiese Sherlock.

«Sì, in un certo senso.» Gwen annuì.

La presa del detective non era la migliore garanzia di sicurezza, ma era un conforto sufficiente per non ricominciare a sospirare. Era solo necessario cercare di distratte i pensieri catastrofici con argomenti migliori.

«Perché?»

«Perché sei qui?» specificò Sherlock.

«Io non sono John, e tu lo sai.»

«Avevo bisogno di un assistente.»

La ragazza aveva intuito la complessità della vicenda e seguire Sherlock era sembrato qualcosa di simile a un debito da pagare nei confronti dell'ex soldato. Non era più il tempo delle domande, ma solo di accettare ancora il corso dei fatti. Dopo l'inizio di quella relazione, tutto era cambiato.

«So che già ti manca, te lo leggo negli occhi» sussurrò Gwen al detective.

Sherlock, durante le lunghe assenze del collega, era solito tenere nelle iridi un non son che di malinconico, un stato d'animo facilmente riconoscibile da parte di chiunque.

4.

Gwen aveva visitato Copenaghen solo due volte nell'arco della sua infanzia. Quei ricordi, però, nella mente erano rimasti vividi quanto le pennellate su un squadro. La capitale della Danimarca era un piccolo gioiello contornato dal rigoglioso verde delle campagne e la gelide acque del Mar Baltico che, riflettendo ogni colore delle pittoresche abitazioni tradizionali, s'increspava in una moltitudine di colori caldi e freddi.

Sherlock continuò imperterrito a camminare, incurante di tutta la acclarata bellezza della capitale. Meravigliosi palazzi a schiera, rossi e bianchi, contornavano le strade prive del traffico che, invece, infettava tutta Londra. Lì, nella ridente Copenaghen regnava un'atmosfera completamente differente: il cielo era limpido e chiaro quanto il mare nordico, l'aria più pulita e il freddo sembrava rigenerare l'animo di ogni singolo cittadino intento a pedalare sulle piste ciclabili.

«Bentornata a casa» farfugliò Gwen, trascinando con le braccia due piccoli bagagli.

Senza alcun aiuto, continuò imperterrita a guardarsi intorno, come per scrutare qualche figura familiare. Comprese, però, di non poter più rivedere il padre passeggiare per i canali, tanto meno sua sorella intenta a pregare per un altro æbleskiver [3].

«Da questa parte!» confermò il detective, leggendo la mappa.

Gwen si scrollò di dosso ogni ricordo doloroso e si fermò d'impeto, lasciando cadere le valigie contro la mattonatura della strada. Era già stanca e, soprattutto, aveva fame, moltissima fame. Dopo il volo, il suo stomaco, prima otturato a causa del terrore, si era riaperto.

«Ora fermati per un istante.»

«I minuti fanno la differenza» precisò il detective. «Raggiungiamo l'appartamento e dopo sarai libera di gironzolare per le strade come una turista. Sei venuta per questo, non nasconderlo.»

«Oh, lo farò. Ma ora dimmi dove dobbiamo andare. Non ho nemmeno idea del perché ci troviamo qua... È tutto confuso e tu non ti stai nemmeno prendendo il disturbo di spiegarmi cosa sta succedendo.» La donna espresse la sua frustrazione.

«Non sei qui per partecipare al caso e queste informazioni non sono affar tuo. Ti spiegherò tutto a tempo debito.»

Sherlock si voltò verso la donna, notando con leggero ritardo il luccichio che, di tanto in tanto, fuoriusciva dalla sciarpa attorno al collo bianco. Un pendete alquanto grosso face capolino, riflettendo luce.

Gwen non aveva mai avuto collane, se non quella che John le aveva regalato prima del viaggio, raccogliendo nel detective troppa sorpresa. Il medico, in effetti, non era la persona più adatta al romanticume e ai teneri regali.

«Interessante pendente» ammise Sherlock, avvicinandosi alla donna.

La ragazza portò istintivamente la mano presso la collana, come per proteggerla da uno sguardo di troppo. Non riuscì a comprendere il perché Sherlock si fosse tanto interessato a uno sciocco regalo senza alcun significato.

«È importante?» chiese.

«Dammelo!»

«No che non te la darò» ammise Gwen con testardaggine.

Il bruno non riuscì più a trattenersi dinnanzi a quel ciondolo dal sentore anomalo. Era il momento di fronteggiare la donna per riuscire a ottenere il pendente

«Non te lo sto chiedendo» fece notare, porgendo la mano.

La donna portò le mani dietro al collo e sganciò la catenina con rapidità. Senza pensare, porse quel prezioso regalo sul palmo dell'uomo che, con una pressione esagerata, sganciò il ciondolo dal suo aggancio, liberando una minuscola ricetrasmittente incastrata nella pietra. Pure la giovane rimase allibita a causa della scoperta. 

«Che cos'è?»

«Bella mossa, Mycroft!» sussurrò Sherlock.

L'altro Holmes non lasciava niente al caso, tanto era puntiglioso. E Gwen si era fatta la portatrice di un invisibile apparecchio pronto a captare ogni singola parola pronunciata nelle vicinanze. Era una mossa audace, ingegnosa senza alcun dubbio, ma non abbastanza per l'intelletto del bruno.

«Sherlock. Chi è Mycroft?»

«Solo una mia spiacevole conoscenza.»

La donna passò una mano tra i capelli, cercando di far ordine nella mente, già turbata da paura e confusione.

«Sherlock» pronunciò senza tenere conto dell'ansia e della tensione. «Io avevo addosso un microfono?»

Un solo secondo e dall'angolo di un edificio sbucò una bicicletta che puntò proprio contro di lei, che si era posta al centro della pista ciclabile. Fortunatamente, Sherlock era dotato di riflessi pronti e non tardò nello sfruttarli per spingere la ragazza lontano dalla traiettoria del ciclista. Di scatto, usò il braccio per cingerle il busto e spingerla contro ringhiera posta accanto alle placide acque salmastre.

«Oh mio Dio!» soffiò la donna, con le ciocche sugli occhi. L'attimo fuggì via, lasciandola con il batticuore e con il ricordo di tutte le parole non aveva pronunciato.

«Ottimo modo di cominciare» osservò Sherlock.

«Mi dispiace.» 

La ragazza deglutì e la mano del bruno, salda sul suo ventre, le diede una sensazione di puro disagio: quell'uomo, anche nel gesto più cordiale, era sempre capace di farla sentire come la persona sbagliata al momento sbagliato.

Stringendola ancora, Sherlock premette lo sguardo sugli altrui occhi e nel frattempo corrucciò la fronte come se si trovasse dinnanzi a un qualunque interrogativo. Gwen fece una smorfia dal momento che non era capace di decifrare il piglio del suo accompagnatore, di dare una spiegazione al perché lui si comportasse in un modo così indecifrabile.

«Cosa c'è adesso?» domandò, stranita.

«Ti brontola lo stomaco» rispose il detective, brusco.

5.

Il tramonto giunse troppo in fretta, lasciando posto a una notte che tinse tutta la città con mille sfumature bluastre. Proprio a Nørrebrogade, sul cimitero di Assistent Kirkegård, un aquilone svolazzava da un punto all'altro, percorrendo parte del perimetro di tutto lo spazio. Gwen, con in mano un cartoccio di patatine fritte, fissò per qualche secondo quel pezzo di stoffa così leggiadro. Un'insana curiosità la portò a chiedersi chi mai potesse scorrazzare per il cimitero a quell'ora.

Quando Sherlock aprì il portone di un piccolo appartamento, la ragazza dovette tuttavia smettere di prestare attenzione a quella strana circostanza. Gli occhi neri premettero sull'uomo, già pronto a entrare nel corridoio. Purtroppo, il loro tempo era consacrato a ben altri misteri.

6.

John rimase fermo sulla sua poltrona a rimirare il soggiorno con aria tediata. Difficile era riuscire a immaginare il 221 B di Baker Street senza Sherlock Holmes, la cui immaginaria proiezione si estendeva in ogni angolo dell'alloggio: presso alla finestra, nella cucina, sulla poltrona nera accanto al caminetto.

L'ex soldato emise un lungo sospiro sofferente. In nessun modo si sarebbe abituato a quelle condizioni, al silenzio assordante e a quello stato di staticità. L'appartamento senza Sherlock era un guscio senza alcun contenuto: leggero, freddo, inconsistente.

Oltre che al collega, un pensiero premuroso andò anche Gwen. Il medico, purtroppo, non riuscì a stare cheto, conoscendo il genere di situazioni a cui lui era abituato e, nonostante il detective avesse sparpagliato promesse sull'incolumità della giovane, fu arduo allontanare ogni preoccupazione.

È solo una bambina...

Gwen era lì solo a causa dello strano volere di Mycroft e ciò non era di ottimo auspicio. Non usciva mai niente di buono dai progetti dell'altro Holmes e molte esperienze avevano dato testimonianza di tale concetto.

Non si crucci tanto per Miss Blomst!

John fece mente locale, ricordando l'odiosa frase dell'uomo di ghiaccio.

Quando ragazze così giovani cercano l'affetto di un uomo adulto è solo per compensare la figura paterna.

Quelle parole aleggiarono nella sua cognizione, destabilizzandolo e facendolo sentire solo uno sciocco in preda a una strana crisi di mezza età.

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Capitolo 23
*** Sirene ***


Sirene

1.

Irene Adler aveva convissuto per così tanto tempo con il mietitore alle spalle, da non riuscire più nemmeno a percepire la sua losca presenza. Sfruttando a pieno tutto il cinismo, aveva imparato non sentire addosso l'ombra di un'incombente morte efferata. Si limitava, piuttosto, a tenere saldamente il controllo su ogni singolo minuto che le rimaneva da trascorrere.

Da anni sentiva la fine avvicinarsi silenziosamente con la stessa agilità di un felino pronto a squarciarle la gola. Sapeva, sfortunatamente, di non poter aspirare a un età riguardevole, dal momento che era in grado soltanto di arrancare giorno per giorno, allungando quel poco d'esistenza rimasta con qualche sciocco escamotage di routine. Minacciare il parlamentare Reginald Leblanc, le aveva assicurato una buona protezione dalle sue iene tampinanti, ma questa situazione privilegiata non avrebbe continuato a persistere.

Leblanc, affiancato da Mycroft Holmes e collaboratori, aveva concesso alla scaltra Irene solo un mese di protezione e nient'altro. Presto, un sicario la avrebbe raggiunta e avrebbe spedito la sua anima in chissà quale girone dell'inferno. Anche la speranza, purtroppo, aveva cominciato scivolare via e arpionare la salvezza a un ricatto era sempre più complesso; gli scandali sessuali, forse, non erano più così esclusivi.

Per questo, Irene rimase seduta sulla seggiola di un café a rimirare la lunga serie di edifici squadrati e costellati dalla numerosa presenza di piccole finestre perfettamente uguali. Il suo volto, seppur ottenebrato dalle scure lenti degli occhiali e dalla seta di un foulard sopra il capo bruno, emerse con delicatezza dall'appannato riflesso del lastra di vetro.

Un po' di aria fresca era stata l'unica necessità da soddisfare per non dovere impazzire a causa della latitanza dentro le quattro mura del suo appartamento a Thorsgade. E per tale esigenza, la dominatrice si era avvalsa di ogni singolo secondo di libertà concessole per ritornare a vivere.

Una vibrazione tamburellò freneticamente sul vetro del tavolino, annunciando l'arrivo di un messaggio. Irene, con le rosse unghie laccate, tirò il piccolo giocattolo verso di sé, per poi premere i polpastrelli sullo schermo. Nel giro di un solo secondo, dei caratteri neri portarono nuovo ottimismo.

Lui è qui...

Le pupille della Donna scattarono verso l'orizzonte, toccarono l'angolo della via, l'albero sull'incrocio e le biciclette sfreccianti. Sperarono solo di cogliere un bel cappotto scuro in mezzo al multicolore dell'intera area, ma non riuscirono a carpire niente; le orecchie, invece, captarono un penetrante suono baritonale molto familiare.

Quella voce, così unica e seducente, aveva sempre avuto il potere di scuotere le ossa e dare linfa a un qualche recondito desiderio mai del tutto espresso. Fu così che Irene finalmente sentì una presenza proprio dietro le sue spalle, quella di un corpo reale, di fresca carne palpitante.

Sorridendo a stento, sprecò qualche minuto per colorire le labbra con l'ennesimo strato color sangue, e si alzò per rivolgere il volto all'unico uomo della sua intera scombussolata esistenza. Infine, eresse la postura, enfatizzando ogni singola curva del corpo e prese un respiro per ricaricare il proprio coraggio. Dopotutto, era ora di andare in contro al destino infausto. Tanto valeva farlo con stile.

2.

«Il calore è conforto» diceva Gwen e John aveva subito compreso il concetto con una buona facilità.

Per fronteggiare la solitudine e il freddo dell'Inghilterra, il medico aveva optato per un bagno caldo, consolante. Proprio perciò, si era immerso nella bianca schiuma così da lasciare ogni muscolo in balia di un meraviglioso torpore.

Lentamente l'odore penetrante del bagnoschiuma addolcì tutta l'aria e all'ex soldato questo non dispiacque proprio per niente. Si sentì amareggiato, però, a causa del troppo silenzio in casa. Eccezion fatta per qualche gridolino lanciato dalla piccola Rosie, nessuna onda sonora era riuscita a spegnere il silenzio di quell'abitazione soffocata dalle cianfrusaglie.

John, lì dentro, si sentì come sepolto da una valanga di pensieri sempre più inopportuni. E persino in quel momento, in mezzo all'aria fragrante, non riuscì a esiliare ogni piccola considerazione della quotidianità. Il dubbio scaturito dal gelido Mycroft Holmes lo aveva portato a costruire dei veri e propri castelli mentali, paranoie a tanto altro. E anche il ricordo di May ritornò a tormentarlo spingendolo a minuziosi giudizi.

John, ancora, si chiese se fosse stato un buon marito, ma soprattutto se fosse stato un buon vedovo. Per poco tempo aveva compianto la dipartita della donna sposata e ancora forte era il rimorso del tradimento in cui era inciampato. Per intere settimane si era limitato a piangere e a gridare a vuoto ma, nel corso di un solo giorno, tutto il cruccio si era dissolto con la stessa semplicità delle onde spumose intente a correre sino al bagnasciuga per poi spegnersi pian piano.

Mary meritava un uomo come me? E io meritavo una donna come lei? Tutte le sue bugie... Tutte le mie bugie...

La solitudine lo spinse verso questi pensieri, mettendo a tacere la gola e spronando la mente parlare ininterrottamente. Era soprattuto durante ogni bagno che il cervello dava origini a più screzi. Eppure John sapeva che, nel ragionare quanto il filosofo, sarebbe impazzito e perciò decise di raddoppiare ogni singolo turno giornaliero al pronto soccorso. Lavorare lo avrebbe aiutato a non lambiccare il cervello con inutili quesiti riguardanti la sua folle situazione sentimentale e, per di più, lo avrebbe portato lontano da una Baker Street troppo spenta.

3.

La caffetteria, seppur posizionata al centro della maggiore città danese, era spoglia di gente e anche molto inanimata e spenta. Lì, Gwen si era già accomodata con il felice intento di prendere un dolce o un tè caldo con cui riscaldarsi. Purtroppo, ben presto comprese di non essere lì per un dessert al cioccolato, ma sol per dare una mano a Sherlock.

Non era a conoscenza, purtroppo, di cosa sarebbe successo, poiché non era stata avvertita, tanto meno informata sulle dinamiche del loro breve soggiorno nella bellissima Danimarca orientale. Molto probabilmente, il detective non aveva alcuna intenzione di illuminarla su tutto per delle semplici questioni lavorative e – cosa molto più logica – anche per un qualche tornaconto personale.

Gwen, allora, si limitò a restare seduta accanto al proprio collega, finché una misteriosa figura le apparve davanti come un'allucinazione. Una femme fatale,la cui bellezza era contaminata dal delle lenti da sole, si fece prossima con qualche passo marchiato dalla sicurezza. La Donna si fermò come per rimirare il bruno con la stessa attenzione di un visitatore davanti al miglior pezzo del museo. Dopodiché piego le due labbra sanguigne in un sorriso malinconico.

Sherlock, glaciale, restò fermo al proprio tavolo e, da lì, contraccambiò lo sguardo. La presenza della dominatrice, da sempre, gli arrecava uno strano effetto. Quasi impossibile era riuscire a definire una linea di sicurezza con lei, che tanto era amica seppur nei lussuosi panni di una terribile criminale.

«Il miglior nascondiglio è sempre quello più evidente» spiegò Sherlock, rivolgendo un'espressione dura all'inconsueta cliente. «Ma tu non ti stai nascondendo...»

Così affermò, alzandosi dalla seggiola e ristabilendo una qualche bizzarra forma di equilibrio, il loro tête-à-tête.

«Sherlock Holmes» lo chiamò lei con fare seducente.

«Irene Adler.»

Il detective sapeva di non poter giocare a carte scoperte con Miss Adler, in quanto troppo rischioso. Procedere con i piedi di piombo significava cercare di stanarla attraverso ogni mezzo.

«È un luogo singolare per ripartire da zero.»

Sentito ciò, Irene continuò a muovere passi e lasciare dietro i ticchettii di due décolleté nere coordinate a un abito in tweed.

«Ripartire da zero? Ma noi non abbiamo mai raggiunto un traguardo» svelò, con un tono mellifluo. «C'è ancora tempo, dopotutto. Io non ho alcuna fretta.»

Entrambi restarono ritti, faccia contro faccia, in cerca di un confronto o forse di normale sintonia. Nessuno batté ciglio, poiché preferirono captare la reciproca essenza tramite indizi. In fondo, quello era sempre stato il loro gioco.

«Il tempo non ti appartiene più, altrimenti non sarei qui» decantò Sherlock, ricordando che il felino implorava solo quando aveva d'aiuto. 

Irene, sentendo le lancette del proprio orologio sul punto d'incepparsi, tolse gli occhiali, lasciando il suo viso libero di essere contemplato e Gwen, per la prima volta, riuscì a scandagliare ogni tratto della rinomata Donna.

La nuova cliente di Sherlock era bella, seppur contraddistinta da forme spigolose in molti punti, come le labbra, l'arco di cupido, le mandibole e gli zigomi. Il suo aspetto era affilato quanto la sua particolare personalità e la cosa non fu in alcun modo una fonte di rassicurazione.

La bionda in quel frangente si sentì come un ombra, dal momento che Irene non sembrava volerle dare la soddisfazione di averla notata. Forse, la dominatrice era solo desiderosa di concentrare tutte le attenzioni sul suo uomo preferito.

«È un piacere conoscerla» disse Gwen con sarcasmo. «Spero sia altrettanto per lei.»

La bruna per una frazione di secondo premette le pupille su quella sconosciuta, rimanendo delusa dal cogliere una mediocre ragazza. Non riuscì, però, a inquadrare il perché di quella presenza così anomala.

«Nuova assistente?» chiese, scherzosamente.

«È solo in prova» confessò il detective.

Irene fiutò strani sospetti nel notare Holmes senza il suo dottore. Il loro legame era superiore alla semplice amicizia; era fraterno, profondo e poco etichettabile sotto i boriosi paradigmi imposti dalla gente.

«E il tuo soldatino n'è entusiasta?»

«Oh, lo è anche troppo, a dire il vero.»

«Che cosa curiosa!

5.

«Dov'è Sherlock?»

Greg Lestrade, piombato recentemente al 221 B, era solito riporre tutte le proprie speranze in Sherlock Holmes. Per troppe volte, assieme ai suoi collaborati, si era ritrovato a brancolare nel buio in cerca di una soluzione che andasse a distruggere mistero, ma senza ottenere un risultato.

Il detective di Baker Street era l'unico di capace giungere all'impensabile, ma non trovarlo nell'appartamento fu un erronee smacco. L'ultimo caso dell'MPS era troppo importante per essere gettato alle ortiche.

«Sherlock è impegnato altrove, Greg.»

«Maledizione!»

John, batté al computer per completare gli ultimi aggiornamento del blog. Incontrare Lestrade non lo sorprese molto, ma quel giorno era sul punto di mutare in uno strano susseguirsi di stranezze. Inoltre, non sentire le familiari imprecazioni del coinquilino era ancora un tasto dolente.

«Caso difficile?»

«Donna, quarantatré anni. Galleggiava nel Tamigi, con addosso una divisa di Scotland Yard» spiegò l'ispettore. La confusione aveva deformato il suo sguardo scuro, rendendolo ancora più vacuo.

«Una vostra collaboratrice?» chiese l'altro, dubbioso.

Lestrade corrugò la fronte e nel mentre mosse qualche passo stanco verso John, indolentemente. Tutti gli interrogativi che aveva in testa ronzavano, annullando la percezione di ogni altro stimolo. Quel dannato caso era collegato alla polizia in modo indiretto e allo stesso tempo enigmatico.

«No, invece. È davvero molto strano, infatti.»

Il medico lasciò perdere il computer per un poco, incrociò le braccia al petto e si mise a riflettere: una sconosciuta con addosso l'uniforme della Metropolitan Police, ma non appartenente alla rete di sicurezza, era annegata nel fiume.

«Be', Sherlock sarebbe già sul posto» convenne.

Lestrade abbassò lo sguardo, poiché una strana idea aveva cominciato a tener testa alla bieca disperazione. John aveva esperienza con i casi, poiché sempre alla calcagna di Sherlock.

«John, mi chiedevo se... se...»

L'ex soldato non impiegò molto a capire le intenzioni dell'altro.

«Io non sono Sherlock Holmes, mi spiace.»

Lestrade batté sul ferro caldo. «Ma lo conosci molto meglio degli altri. Forse sai come–»

«Sono un medico che scrive un blog, Greg.»

L'ispettore era a conoscenze delle potenzialità del medico e non era sua intenzione perdere un ottimo aiutante.

«Rimani la migliore delle nostre scelte, onestamente.»

John, sempre con le braccia incollate al buffo maglione, inspirò e infine si mise a meditare. Restare a casa dopo il turno di lavoro era allettante, ma la paura dei pensieri lo avrebbe presto minacciato, ricacciando fuori il pessimismo e le solite ansie. Proprio per non dover più restare con gli occhi consumati dal monitor chiese:

«E Philip Anderson? La scientifica?»

«Un opinione in più è sempre ben accetta, John» affermò Lestrade, sorridendo con fare molto incoraggiante.

Il medico fece schioccare la lingua all'interno della bocca.

«Prendo la giacca!»

6.

Il nuovo appartamento di Irene Adler non poteva vantare la sobria eleganza di quello posizionato a Belgravia, in quanto molto meno spazioso e arredato con mobilio meno raffinato. Ciononostante, era pur sempre comodo come rifugio di un individuo costretto a una lunga latitanza nell'Europa del nord.

Gwen si accomodò sul sofà di un soggiorno pieno di luce ma allo stesso tempo spoglio di qualsiasi altra cosa. Nel mentre osservò la dominatrice, cercando di scrutare oltre la sua fredda corazza un qualcosa di umano. Irene di certo era una perfetta millantatrice, ma non era in grado di tenere nella testa sentimenti ed emozioni. Debolezze...

La giovane aveva più volte convissuto con le ansie generate dagli altri, proiettandole dentro la propria cognizione senza il minimo sforzo. Più conosceva la Donna, più sentiva il riflesso di tutte le sue paure, le sue incoercibili preoccupazioni: Miss Adler non era forte, ma era un'ottima attrice nel dimostrare il contrario e difendersi.

«Si chiama Goldschimdt, Robin Goldschimdt e l'altro è Adam Moore» espose la dominatrice, marciando da un punto all'altro della stanza.

La sua silhouette giocava con la luce esplosa dalle tante finestre posizionate lungo le quattro mura dell'appartamento a Nørrebro, rigoglioso centro della capitale nordica.

Sherlock si sporse in direzione del tavolino, dove erano state posizionate delle fotografie ritraenti due uomini singolari. Il primo era molto più anziano, con un'espressione dura e una piccola bandiera americana fatta a spilla sul petto. Sulle facce, ambedue esibivano qualche cicatrice e uno sguardo neutro. Il bruno non impiegò molto a comprendere chi fossero quelle persone e cosa desiderassero dalla Donna.

«Americani» sputò. «Che peccato! Troppo arroganti e, soprattutto, prevedibili.»

Irene raggiunse il massiccio bracciolo nero del sofà e si sedette su di esso scoprendo appena le proprie cosce. Sperò, anche se per poco, di riuscire a esprimere tutta la sua sicurezza, gettando dell'imbarazzo sul suo detective favorito.

«Americani ed entrambi ex agenti della CIA. Sono qui ma non so dove. Tu sei l'unico che può scoprirlo» affermò avvicinando la bocca scarlatta all'orecchio dell'uomo. «E so che lo farai.»

Sherlock, di scatto, si girò verso la dominatrice per analizzare ogni singolo indizio sulla sua pelle, sulle sue pupille dilatate e sul sorriso leggermente tremolante.

«E se invece non volessi contribuire?»

«Oh, stai ancora cercando di manipolarmi. Sappi che non mi dispiace» dichiarò Irene, con tono roco e seducente. «Ma se mi abbandoni, io metterò la nazione in ginocchio.»

Sherlock trattene il sorriso sulle sue labbra. Miss Adler aveva già provato a gettare scandalo sull'Inghilterra, ma a causa dei sentimenti aveva miseramente fallito.

«Ti ricordo che hai già tentato questa impresa, ma non è andata come avevi previsto. Cosa ti fa credere che le cose questa volta funzioneranno?»

«I primi tentativi sono solo primi tentativi. Ho aggiustato la mira e mi sono concentrata su un mattone più piccolo. Colpire il vertice della piramide non è mai facile, ma mirare alla base fa danni molto simili... Crolla tutto, Sherlock!»

«Continui a barattare protezione con le minacce?» chiese il bruno, retorico.

Miss Adler era abile nell'architettare un buon ricatto contro chiunque, usando il proprio fascino. Non era a conoscenza, purtroppo, di altri modi con cui dominare la gente e sopravvivere alle calamità della professione.

«Solo se serve» farfugliò la Donna, sorridendo. «Adesso sono io a dirigere il gioco.» 

Così concluse, premendo la mano sulla spalla del suo uomo, con poca innocenza. Le sue dita bianche corsero lungo la camicia purpurea, disegnando onde e tanto altro.

«È una bugia» esordì una voce limpida.

Gwen si era fatta fantasma, ma non era giusto mantenersi in tale condizione per troppo tempo. Nonostante sentisse il disagio scompigliarle lo stomaco, preferì non stare a guardare senza dir nulla. La Donna era felice di mostrandosi pericolosa e micidiale, ma la realtà era propensa al contrario. C'era della tensione in quel clima apparentemente tranquillo.

Irene si voltò verso quella nuova ospite, pugnalandola con lo sguardo. Non riuscì a comprendere il perché di quella intrusione, ma non diede filo da torcere alla ragazzetta. Sherlock, invece, fece un cenno molto flebile alla propria collega, come per dimostrare una certa sintonia di pensiero. Entrambi erano riusciti a comprendere la situazione.

«Non ha tutti i torti» confermò il detective.

La dominatrice si ammutolì e, ritornata a un canone di fredda serietà, scollegò la mano dal petto del bruno. Non era completamente sicura di poter ingannare un Holmes, ma era necessario tentare dal momento che il suo piede era nella fossa e sarebbe stato inevitabile rischiare tutto.

«Porti la tua data di scadenza sulla fronte» continuò il bruno. «Non sei tu a dirigere il gioco, non più, almeno. Hai minacciato qualcuno di molto vicino a Mycroft, uno scandalo sessuale a giudicare dalle tue abilità. Hai bisogno di protezione contro due ex agenti della CIA. Per questo sei qui. Ma la pazienza di Mycroft, per quanto molto lunga, non durerà in eterno. Ti lascerà affogare, prima o poi. E con te affonderà anche l'uomo che ricatti.»

Irene sorrise in modo falso. «Siamo alla resa dei conti, allora.»

Sherlock continuò a parlare, esponendo solo un tono provocatorio.

«Potrei aiutarti» disse. «Così come potrei anche scoprire dove stavolta tieni il tuo materiale, ridarlo a Mycroft e lasciarti in balia dei piranha. Porrei fine al caso una volta per tutte.»

La voce di Irene divenne gracile.

«Lo faresti davvero, Sherlock?»

Gwen rimase con il fiato mozzato.

Non riuscì a comprendere il rapporto tra il Sherlock e la Donna. E nemmeno ebbe più il tempo per analizzarlo, poiché nella stanza irruppe un figura tutta nuova. Era solo un'altra donna bionda e con gli occhi sbarranti per via dello sgomento.

«MISS ADLER!» urlò la sconosciuta con un forte accento danese. La sua mano graffiò il collo latteo come per mimare le proprie affermazioni. «Loro l'hanno trovata. Loro... hanno... Halshugget, Miss Adler! Halshugget!»

Irene sentì un fremito percorre la propria schiena poiché non aveva ben compreso quella parola, nonostante lo stato di allarme. Alzatasi dal bracciolo, cercò di controllare ogni singolo respiro e si diresse verso quella che era solo un'aiutante senza arte né parte.

«Loro l'hanno, cosa?» chiese in preda alla rabbia.

«Decapitata» rispose Gwen, traducendo.

7.

John aveva conosciuto la morte in tante forme, senza però mai abituarsi all'orrore scaturito da essa. Che fosse violento o meno, il decesso era sempre un qualcosa di truce e sinistro, in qualsiasi contesto, in qualsiasi giorno dell'anno e in qualsiasi luogo.

La scientifica aveva raggiunto il quartiere di Saint Katherine's & Wapping, imbucandosi a Wapping High Street, un piccola strada delimitata dal corso del fiume e da edifici di mattoni cosparsi da rampicanti. Lì, un piccola sentiero di terra segava il prato, portando a una tenda appositamente costruita sul corpo appena ritrovato. Il medico si accovacciò lì dentro, per dare un'occhiata il cadavere di una donna di mezz'età.

«È morta la notte scorsa, probabilmente tra le tre e trenta e le cinque del mattino» dichiarò, esaminando lo stato della carne. La signora, seppur pregna d'acqua, non presentava segni avanzati di deterioramento.

«Okay, altro?» chiese Lestrade, curioso.

«L'uniforme... Be', non è della giusta taglia. Non è la sua.»

Sally Donovan sbuffò e pronunciò con acidità: «Come se non lo avessimo capito...»

John si trattenne dal rispondere con astio alla sergente e, sempre più coinvolto dalla ricerca, si concentrò per meglio trovare altri indizi. Con sveltezza notò due tagli profondi e scarlatti impressi nel fianco sinistro. Erano due coltellate inferte con molta pressione.

Sherlock aveva imparato come riconoscere l'arma bianca dal tipo di taglio. E anche John, da tempo, era in grado di distinguere la ferita inferta da un cacciavite da quella di un comune tagliacarte. Era, letteralmente, una questione di sottigliezze.

«È stata ferita prima di essere gettata nel fiume, due coltellate. Nessun ferita abrasiva. Ogni taglio è acuto da un lato, ma squadrato dall'altro. Penso si tratti di un coltello da cucina. È morta annegata, comunque. Nessun colpo è stato fatale» pronunciò il medico, sicuro.

«Bene, che altro?» chiese Lestrade.

«È stata sicuramente gettata da un ponte. Il Vauxhall Bridge, probabilmente. È quello meno conosciuto al turismo. E il corpo ha avuto il tempo di percorrere un bel po' di strada. Prima di essere trovato da queste parti. Non ne sono sicuro, ma penso sia andata così.»

«Ottimo lavoro, John!» L'ispettore si complimentò.

«Be', non so dedurre altro.»

Finiti i controlli, Lestrade e il medico restarono per un po' fuori dalla tenda per non sopportare ancora il putrido odore del corpo. Rimasero con il tè caldo in mano, in mezzo al continuo zigzagare della squadra mobile. 

John non era Sherlock Holmes e mai lo sarebbe stato. Ma negli anni erano riuscito ad assorbire parte delle nozioni principali appartenenti a strani metodi di deduzione. Molti, in effetti, erano i trucchi appresi per semplice osservazione e facile era anche sfruttarli inconsciamente nella banale quotidianità.

Persino guardare Greg in quel momento fu sufficiente per notare delle curiose particolarità: l'ispettore di Scotland era molto più curato rispetto agli altri giorni. Niente camice stropicciate, ma un completo pulito e stirato da poco. L'ispida barbetta grigiastra era stata abilmente rasata e sostituita dal pungente sentore di colonia maschile.

«Hai un appuntamento, Greg?»

L'uomo sorrise come una bambino e rispose. «Be' sì. Si chiama Carol. È il nostro quarto appuntamento.»

«Oh, splendido!» disse John, senza alcun entusiasmo.

Aveva posto quella domanda solo per toccare con mano la correttezza della propria intuizione e non per conoscere qualcosa in più su sciocche questioni sentimentali. Purtroppo, Lestrade ricominciò presto a parlare, trattando John come un amico intimo con cui dialogare. Sogghignò e con gli occhi ridenti e scherzosi si dilettò nello sproloquiare sulle proprie esperienze da uomo libero e in cerca di buona compagnia.

«È la serata decisiva» disse, dando una gomitata al proprio inaspettato collaboratore. «Sai, avevo un amico nell'Interpol. Era americano. Bryan Redford. Lui lo chiamava andare in terza base. Non so se hai ca–»

«Ho capito, sì» tagliò corto John, imbarazzato.

L'ispettore bevve un sorso di tè. Dopodiché inumidì le labbra con la lingua.

«E tu? St–» bofonchiò prima di comprendere la gaffe.

Non ricordava nemmeno la figura di Mrs. Watson e non si pose limite nel chiedere a John qualcosa di troppo personale, qualcosa riguardante dei possibili appuntamenti o donne con cui trascorrere le notti.

«Ehm, scusa avevo scordato che...»

«Oh, non fa niente. E no, non sono impegnato con nessuna» dichiarò, annuendo.

Un dannatissimo processo inconscio lo tradì

«Oh. E perché stai facendo sì con la testa?» chiese Greg, giocosamente. Quel piccolo inghippo fu subito riconoscibile poiché molte volte, durante gli interrogatori, i criminali erano soliti mentire annuendo o dissentendo contrariamente alle parole pronunciate.

«Cosa? Ho... Davvero?»

L'ex soldato spostò lo sguardo a terra per limitare i danni, ma l'ispettore sorrise .

«E allora, qualcuno c'è!» dedusse. «Come si chiama?»

John ingurgitò un sorso solo per riuscire a prendere tempo. Non era in grado di rispondere e il suo unico desiderio era di scomparire assieme al vapore del suo bicchiere di plastica.

«Non è importante» biascicò, infine.

Lestrade ci pensò e subito comprese.

«Se non vuoi rivelarmi il nome, vuol dire che la conosco.»

Il medico, allora, sentì uno strano disagio prendere il possesso della propria mente. Quell'uomo non era mai riuscito a brillare durante le indagini ma era stato ottimo nel tracciare una strada in direzione di affari non suoi. Non era un problema sapere cosa era accaduto con Gwen. Lei era ancora una conoscenza, o meglio, un ottimo modo per allontanare i brutti pensieri.

«Lasciamo perdere!»

Tuttavia, l'ispettore non volle lasciar perdere. Pensò a tutte le possibili conoscenze femminili in comune con l'amico e stilò mentalmente una lista. Per sua fortuna le possibili candidate erano solo poche: Molly Hooper, la sergente Donovan e forse qualche segreteria della sede centrale. Fu dopo che una figura sfrecciò nell'elenco, la stessa che si era infiltrata a Baker Street.

«Non sarà la smemorata?»

Lestrade non nascose le sue intenzioni scherzose, poiché mai si sarebbe aspettato una coppia del genere, ma lo sguardo spaesato di John, sempre più silenzioso, lo fece completamente ricredere.

«Oh... È uno scherzo. Tu... e... Non ci posso credere. Tu? Lei... Lei non è troppo...»

«Giovane» rispose il medico, facendo saltellare la sguardo da un punto all'altro in cerca di un possibile nascondiglio. Il suo timore si era realizzato.

«Be', non pensavo che... Io... Non è un probl–» L'ispettore incespicò nelle sue parole. «Davvero. Non so se prenderti a pugni per quello che hai fatto o congratularmi e darti una pacca sulle spalle. È splendida ragazza. Forse un po' pallida... ma una splendida ragazza...»

Infine, bevve. John in risposta gettò sull'amico uno sguardo tutt'altro che cordiale. Il sentirsi così esposto non rallegrò il suo umore, ma lo rese maggiormente preda della tensione.

«Ehi, stavo scherzando. Tranquillo!» esclamò Lestrade, cogliendo nella faccia del medico un che di poco incoraggiante. Tappò la bocca con il bicchiere e inghiottì delle grandi sorsate. Molto Probabilmente, non avrebbe più toccato quell'argomento così spinoso.

8.

La folla presto sopraggiunse al porto di Copenaghen, porto testimone di un qualcosa di molto singolare. Un continuo baccagliare occupò tutta Langelinie, dove frasi di ogni tipo appesantirono la cupa atmosfera.

«Non è possibile?» tuonò una voce maschile.

«È la terza volta che le tagliano la testa. Incredibile!» gridò subito dopo un'altra più acerba. [1]

Gwen e Sherlock corsero in direzione del marasma, fendendo i corpi come lame. Raggiunsero la baia, accostata da un lunga fila di barche dondolanti sulle fredde acque, e lì notarono una situazione d'inaspettato. In mezzo al mare argenteo, una statua bronzea – accasciata sullo scoglio – era ferma senza più il capo. Il simbolo più bello di Copenaghen era stato ancora mutilato.

«La Sirenetta» sussurrò Gwen con indignazione.

Suo padre le aveva letto le fiabe di Andersen quasi ogni notte e lei aveva sempre ben accolto quel dolce rituale.

«Era lì che lei teneva il suo materiale» intuì il detective, all'istante.

«Cosa?» chiese la bionda, curiosa.

«In una USB collegata dentro la testa della statua.»

«Tu pensi che...»

«Hanno trovato la chiave di Irene Adler; adesso non ha più niente con cui minacciare il governo. E questo vuol dire che Mycroft le toglierà la custodia. Presto quei due agenti verrano a ucciderla. È solo questione di poco. Giorni... o forse ore.»

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Capitolo 24
*** Santa Lucia ***


[Sirene/Le aringhe affumicate]

La neve fioccava nell'atmosfera, danzando assieme al vento sino a trovare riposo al di sopra degli spinosi rami della foresta, sulle rocce frastagliate e sull'umido terreno freddo. In quel candido deserto – d'ottimo auspicio nei confronti di una primavera ricca di fiori e bacche – due donne trascinavo le suole degli stivaloni al di sopra del manto niveo, lasciandosi guidare dai sussurri delle brezze invernali. Lente, approfittando della protezione degli odorosi archi di conifere, si addentrarono nella fitta vegetazione inglese, lasciandosi alle spalle la camminata di uomo possente, intento a sorvegliarle.

Cristoff Blomst non soleva dare vanto alle proprie prestazioni fisiche, dal momento che gli anni aveva risucchiato quella meravigliosa energia che tanto lo contraddistingueva. Si limitava a seguire le figlie lentamente, aiutandole nella piacevole impresa di reperire, nel sottobosco, tutto l'occorrente necessario alla creazione di una corona natalizia. Il cesto che teneva tra le mani conteneva qualche ghianda, legno, fogliame, edera e strobili.

«La faceva così bene. Non ricordi?» domandò un volto lentigginoso e lisciato da lucenti ciocche ramate. Scarlett, da brava figlia, aveva atteso il caro padre, così da dare inizio a una chiacchierata. «Raccoglieva l'agrifoglio più bello e lo decorava con tanti nastri rossi. E Infine incastrava nelle fessure dei rami le quattro candele dell'avvento.»

«Oh, era la sua priorità. Ogni Santissimo Natale.» L'uomo, ciondolando a causa delle enormi radici, raggiunse la primogenita, così da reggere qualsiasi conversazione sulla defunta moglie.

Scarlett si accovacciò al suolo e rubò all'ambiente qualche pezzo di legno argentato. In seguito, costrinse la bocca a sorridere e aggiunse: «Finita la corona, stirava il mio vestito bianco.»

Padre e figlia continuarono a camminare.

«Per il giorno di Santa Lucia [1]» specificò il vecchio Cristoff, inalando con il naso l'aria fredda e buona. Le brezze gli tonificarono la poca pelle scoperta, ravvivando quello sguardo afflitto da ore e ore di duro lavoro. «Lei ci teneva così tanto. Non vedeva l'ora di vederti sfilare con tutti gli altri alla processione.»

La rossa rallentò il passo. I ricordi si rivelarono molto più freschi di quanto pensasse. Intanto, i colori della Danimarca furono pennellati dalla sua giovane mente. D'improvviso, la selva britannica fu usurpata dalle strade ciottolose di Ribe. Lì, le belle danesi, come degli angeli caduti dal paradiso, marciavano nella notte con in mano e in testa le candele con cui fronteggiare la lunga e tetra oscurità del tredici dicembre.

«E quando tornavamo a casa, la cucina odorava di biscotti» continuò Scarlett, restaurando ogni ricordo: mamma Gerda, così come le tante altre, si dedicava ai giorni di cottura e, durante il sacro Natale, sfornava dolci dall'aromatico profumo di cannella, noce moscata, chiodi di garofano e zenzero. «Erano davvero buoni quei biscotti!»

Il dottor Blomst non riuscì a non captare quella nota straziante nella voce della figlia, così come non riuscì a ignorare le strane condizioni della secondogenita, intenta a camminare come un fantasma addolorato.

Gwen, ammutolita dal rancore, continuò per la sua strada, rivelando un naso punto dal gelo. Le sua ciglia aveva raccolto, oltre che a qualche cristallo di neve, delle lacrime. La bocca invece, seppur tremolante, era rimasta serrata.

«Gwen!» L'uomo cercò di essere comprensivo e, sorridendo spontaneamente, disse: «Bocciolo, non essere così silenziosa!»

La bionda, sfruttando a pieno l''mpertinenza della quattordicenne che era, si voltò bruscamente verso il padre, lasciando che i lunghi capelli biondi venissero percossi dalle raffiche più poderose. Le sue labbra finalmente si disgiunsero, lasciando fuoriuscire poche chiare parole.

«Non ho molto da dire al riguardo.»

Cristoff ispirò e, incassato il colpo, sentì addosso tutto il dolore della sua bambina. Tutte le problematiche psicologiche di Gwen sembravano – a detta dei tanti professionisti – i rigurgiti di una tristezza nata dall'assenza di una madre. Niente riusciva a colmare quel buco nero capace di risucchiare ogni bella sensazione.

«Io lo capisco.»

Il danese cercò di entrare in sintonia con la figlia, ma nulla sembrò porre un limite a Gwen, che accelerò il passo così da guadagnare distanza dalla famiglia che tanto la mal sopportava. Scarlett, nei suoi abiti neri, si materializzò da un arbusto e andò dal padre, senza nascondere un volto rabbuiato.

«L'allegria fatta persona! Come sempre.» Le cicatrici dello spirito, ancora fresche, non le permisero di adottare frasi mansuete. «Lo psichiatra dovrebbe prescriverle altri farmaci.»

L'uomo contrasse il viso duro e massiccio in una smorfia.

«Non dire così, Scarlett. La sua sofferenza non è come la tua.»

La rossa, di tutta risposta, come fece cadere gli occhi verso il suolo custodito dalla neve. La vergogna la immobilizzò, ma non riuscì a toglierli dalla gola una considerazione che da sempre teneva in testa.

«Non l'ha nemmeno conosciuta.»

Cristoff represse il sospiro e, ben comprendendo quanto anche Scarlett avesse il cuore martoriato da una perdita così atroce, cercò d'essere l'ago della bilancia.

«E questo è il motivo. Tu hai collezionato dei bei ricordi, me tua sorella no» disse, prima di cogliere l'altra figlia sempre più lontana, in prossimità di una quercia. «Senti, vado a parlarle. Rimani qui!»

Si diede una corsa intrepida. Il suolo era scivoloso e il terreno era disomogeneo e ricco di arbusti, radici e massi lucidati da un lucente strato di ghiaccio. Era molto semplice ruzzolare a terra e incorrere in qualche ferita, ma lui continuò senza mai fermarsi.

Sentendo il proprio nome, Gwen si fermò e finse di cercare a terra altre ghiande.

«Cosa c'è ancora?» chiese, trovandone una al di sotto della neve tanto bianca, quanto gelida.

«Niente. Cosa hai tu, piuttosto?» Cristoff recuperò fiato.

«Niente.»

L'adolescente pulì il duro frutto con la mano. La pelle assorbì il gelo, ma in fondo lei da tanto non sentiva niente. Ogni cattiva emozione aveva anestetizzato il suo corpo, rendendola più ansia che carne.

«Niente? Non mi è sembrato niente, Gwen.»

La giovane si asciugò una lacrima e fece su con il naso.

«Niente. Ora tornatene pure a raccontare le tue storielle su mamma» ordinò, con l'autostima frantumata e il desiderio di svanire dal mondo.

Cristoff si diede una pausa e schiacciò gli occhi con le dita.

«E questo che ti dà fastidio?» chiese, stanco.

L'adolescente assorbì quella domanda e la tramutò in un senso di colpa indistruttibile. Pensò per qualche secondo a cosa rispondere, ma solo quando la paura venne meno, scandì la più orribile delle frasi.

«Solo nella misura in cui la cosa mi ricorda che l'ho uccisa.»

L'uomo sentì una pugnalata nell'anima, una lama affilata immaginaria, più che capace di penetrare molto di più che pelle e ossa. Sperava di non voler sentir ancora quel miscuglio insensato di vocaboli, quella sentenza che una bimba si era auto-inflitta ingiustamente, senza mai dare il giusto peso agli eventi consumatasi.

«Oh» farfugliò, disperato. «Non dirlo nemmeno!»

Gwen conosceva bene le verdi iridi indagatrici della sorella. Non le vedeva, ma sempre le avvertiva premerle addosso, investirla come le tante nuvole di fiocchi di quel dicembre terribilmente smorto.

«Ho visto come mi guarda.»

Il medico si mosse in direzione della figlia.

«Il dolore rende tua sorella una stupida. Ma sai che ti vuole bene... Solo che ancora non riesce ad accettare quello che è successo. Non sei stata tu ad averlo deciso. Il destino è crudele a volte. E noi non possiamo fare niente» dichiarò, ripercorrendo mentalmente quel corridoio maledetto del Royal Hallamshire Hospital.

Gerda non era sopravvissuta nemmeno alle quarantotto ore successive al parto. Si era spenta lentamente, nonostante un'estenuante lotta contro la morte.

«E perché continuare a parlare di lei, allora?» chiese lei, irritata.

Cristoff guardò la figlia mettere in tasca la ghianda e si regalò qualche secondo, così da poter costruire una risposta che fosse lenitiva nei confronti di ogni umano dolore. Il suo viso affilato, a primo impatto marmoreo e disagevole, mutò in un piglio di pura compassione. 

«Perché lei ti ha amata molto e non vedeva l'ora di conoscerti. Le distruggerebbe il cuore sapere che tu non vuoi conoscere lei» disse, cercando di far ragionare la piccola di casa. La moglie aveva amato entrambe le figlie incondizionatamente, nonostante la sua breve esistenza terrena. «Sono solo storie, ma se servono a farla rivivere, continuerò a raccontarle. E sarei molto felice se tu le ascoltassi.»

Gwen si mise ritta e tentò la fuga.

«Possiamo evitare di parlare di questa cosa?» domandò, prima di venire presa per un braccio dal padre, il quale cercò di trattenerla.

«Gwendolyn.»

«Sul serio» pregò la ragazza, muovendo freneticamente il corpo verso un albero poco distante. «Ho visto del pungitopo da quella parte.»

L'uomo, tuttavia, non volle dargliela vinta. «Gwen, per favore...»

La bionda si trovò dinnanzi all'immane statura del padre. Tutta la sofferenza che aveva dentro al petto fu vomitata fuori, attraverso la lenta nascita di singhiozzi. Gli occhi rossi furono salati da un pianto nascente.

«Cosa c'è?» chiese l'altro, affettuosamente.

E la bimba si sciolse in un mare di risentimento, di sale e sconforto. Rievocando qualche movimento, si aggrappò alla sua ancora, al suo unico farmand e come un infante si fece avvolgere da due braccia lunghe e sicure. Cristoff sorrise appena e farfugliò.

«Fa' la brava...»

Lei di tutta risposta pronunciò il perdono tra un singhiozzò e l'altro.

«Far... Scusa...»

«Oh non fa niente. Passerà, piccola mia» la rassicurò il medico, prendendole le guance tra le mani e stroncando con le dita il percorso di lacrime così amare e cariche di dispiacere. Gwen cercò di sorridere, ma senza alcun successo. Le sue labbra vacillarono come a volere domandare qualcosa. «Vuoi chiedermi qualcosa, bocciolo?»

La figlia prese qualche respiro e divenne languida.

«Cosa altro faceva la mamma?» domandò, annegando nell'imbarazzo. Dopotutto, era desiderosa di conoscere la persona che l'aveva messa al mondo, nonostante l'esito catastrofico.

L'uomo, con ancora gli arti attorno alla sua creatura, cominciò a masticare le parole e poi a tesserle pacatamente, come un bardo nell'atto di raccontare l'ennesima filastrocca all'attento pubblico.

«Uhm... Be'... La mattina di Natale per colazione serviva il porridge di riso dolce e dentro a uno dei piatti nascondeva una mandorla. Il fortunato che la trovava riceveva un maialino di marzapane» disse, abbandonando le parole al vento ululante. «Non ho mai visto tua sorella mangiare scodelle di porridge così velocemente. Doveva assolutamente trovare quella mandorla.»

Gwendolyn sentì i fonemi vibrare nel petto di suo padre e ciò bastò a sedarla quasi del tutto. Dei polpastrelli le accarezzarono la testa e giunsero anche le ultime frasi di quel melenso racconto.

«Ci si è strozzata una volta, ma non dire che te l'ho detto...»

2.

Copenaghen aveva nuovamente accolto il bianco e Gwen era contenta di ciò. Mentre la città veniva pulita da quei coriandoli di ghiaccio – fiocchi luccicanti e soffici – i ricordi inseguirono scene remote. Non esistette alcuno Sherlock Holmes, né alcun caso. Divenne un sogno sfocato il lontano ricordo di quel pomeriggio di dicembre quando, oltre l'abbraccio delle prime nevi, la quattordicenne Blomst ricevette quello di un padre affabile.

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Capitolo 25
*** Le aringhe affumicate ***


Le aringhe affumicate

1.

L'inverno mai era indulgente con Copenaghen, e, soprattutto nel mese più corto, continuava a tormentare ogni cittadino, sputacchiando addosso alle case fresca neve e gelide raffiche taglienti. Le piccole e bitorzolute strade a misura d'uomo si erano ghiacciate, impedendo l'uso di qualsiasi macchina o bicicletta. E inoltre, nel momento in cui l'ultimo raggio di sole era andato a baciare le pianure rigogliose, la notte era giunta, abbassando ancor di più tutte le misere temperature.

Gwen aveva dimenticato quanto secco fosse il freddo dell'Europa settentrionale e, perciò, accese ogni calorifero del piccolo appartamento e raggiunse la propria valigia con per poi tirare fuori qualcosa di più pesante. Mise addosso un bel maglione e, infine, sentendo gridare le dita dei piedi, infilò un secondo paio di calzettoni. Dopodiché pregò affinché tutto ciò bastasse, ma inutili sembrarono le precauzioni. Nonostante il tentativo, il gelo ricominciò a morderle il naso.

Le guance subirono i pizzichi della temperatura e la mente proiettò possibili soluzioni a quell'enorme inghippo. Da secoli le popolazioni soggiogate dal gelo erano riuscite a escogitare metodi curiosi per rendere sopportabile i mesi bui, come scaldare il corpo e lo spirito con qualche bicchierino. Quindi, indossati gli scarponi, la ragazza si precisò all'ingresso con l'umore rigenerato da bei ricordi balenanti, ma solo dopo aver controllato le condizioni dell'uomo dentro l'abitazione.

Nella piccola cucina, Sherlock aveva monopolizzato un un'intera parete, attaccandoci sopra file di foglietti colorati, le fotografie appartenenti alla Adler e scritte di ogni tipo. Gwen analizzò il suo detective, ma non si stupì nel coglierlo concentrato sul caso. Di conseguenza, senza indugiare, fece scattare la maniglia e uscì con addosso il cappotto.

Fuori fu arduo deambulare serenamente a causa del ghiaccio in strada. Tutti si tenevano lontani dai canali per non andare incontro a un tuffo nelle gelide acque del mare nordico. Considerando ciò, Gwen arrancò fino alla meta prestabilita per soddisfare uno desiderio sopito. Infine, contenta, tornò a casa con un bottino tra le mani. Per quanto fossero passati parecchi minuti, al rientro, la situazione rimase proprio come prima. 

La donna, allora, decise di ignorare il tutto e scosse fisico traumatizzato da quel bagno di gelo. Tolto il soprabito, guardò il proprio acquisto. Due bicchieri fumeggianti di glögg [1] erano stati posizionati al di sopra di una superficie in legno.

Le memorie galopparono ancora grazie all'odore della cannella, del cardamomo, dello zenzero, della noce moscata e dell'anice. Quella miscela speziata era la preferita di suo padre, amante del bere moderato in compagnia di un camino.

Con la testa immersa nel passato, Gwen prese un solo un bicchiere, per poi aprirne il coperchio, unico ostacolo al completo sprigionamento di ricchi aromi. La lingua pregò per un sorso, ma la mente impose un obbligo: quel liquido dal sapore natalizio era speciale sono se gustato con qualcuno.

Due gambe, allora, corsero da Sherlock, concentrato sui fogli appesi alla parete. L'uomo era così impegnato da non accorgersi della figura pallida che, sgattaiolando, si era intrufolata nella stanza. La donna, intanto, notò come il gelo si era trastullato con il bruno, il cui naso affilato si era arrossato.

«Stai congelando. Lo sai questo?» disse con in mano i bicchieri. «Ti ho portato qualcosa da bere. Questa roba fa miracoli contro il freddo. È caldo e aiuta lo spirito. L'ho anche fatto correggere con due dita brandy, ma non dirlo a John.»

Sherlock, senza mai girarsi, ascoltò quelle parole per poi irrigidirsi. La sua mascella scattò di qualche millimetro, confermando una freddezza molto più sinistra di quella da sempre ostentata.

«Forse non te ne sei resa, ma sto cercando di fare del mio meglio per concludere un caso d'importanza nazionale. Ho bisogno della mia testa. Farò a meno di inibire i miei processi mentali con quell'intruglio maleodorante» annunciò l'uomo, digrignando leggermente i denti. «È tutto!»

La biondina sorrise amaramente. Non seppe se persuaderlo ulteriormente o insistere per idratare un corpo parecchio consumato da pensieri e abitudini insopprimibili.

«Ho premesso a John che avrei badato a te. Non è salutare passare tutto il giorno a–»

«Promesso a John?» fece eco il bruno con irruenza. «Eri silenziosa prima. Ritorna pure in camera o fa una passeggiata fuori, se lo desideri. Tieni la tua presenza lontana da me e forse risparmierò altro tempo.»

Gwen rimase parecchio amareggiata nel sentire quelle parole esplodere come dinamite. C'era qualcosa di storto nell'uomo, una molla dietro la manifestazione di tanto rancore.

«Sherlock...»

«Come posso fartelo capire? Io non ho tempo» ruggì lui. Il braccio si allungò verso uno dei tanti foglietti appesi al muro e lo stracciò con aggressività.

«Ho capito tutto. So che lo fai per lei. Per Irene» spiegò la donna con una dolcezza fuori dal comune.

Impossibile negare la presenza di uno strano legame tra la dominatrice e il minore dei fratelli Holmes. Quel rapporto, pregno di mistero, era un qualcosa di non discutibile secondi i termini convenzionali ma, d'altro canto, Sherlock non lontano anni luce da qualsiasi cosa potesse apparire comune.

«Ci sono due ex agenti della CIA che stanno progettando il suo omicidio. Sono nascosti. Ma io non riesco a stanare il loro nascondiglio» disse il bruno, duro. Il desiderio di confessione ebbe la meglio e lo portò a rivelare il perché del suo malumore. «Non ci riesco! Io...»

La giovane fu trafitta dall'ennesima occhiata scoccata dal suo strano accompagnatore. Questi era capace di rigettare tutta l'insoddisfazione sulla propria persona, addossandosi ogni falla. Purtroppo, quel giorno, le sue pecche si sarebbero concretizzate contro una sola persona, Miss Adler.

«Bene» farfugliò Gwen, deglutendo. «Capisco...»

Sherlock era orgoglioso e non era mai stato un amante del fallimento ma, come qualsiasi essere umano, soleva non affrontare con leggerezza i rischi dei suoi amici.

Tu fingi, Sherlock. Sai come si amano le persone...

La donna perse il proprio sguardo sul bruno, riflettendo sulle sue emozioni ma egli, propendendo per l'autodifesa, si girò, così interrompendo il contatto tra occhi. Sherlock non era mai disposto a essere letto e, perciò, concentrò le preziose attenzioni sulla mappa sopra la parete, sui cerchi rossi impressi da un pennarello. Tante idee, ma nessuna traccia di quell'odioso nascondiglio.

«Sai, continuo a pensare che tu abbia bisogno di bere qualcosa. O di mangiare. Non sei una macchina, Sherlock» continuò la ragazza con fare materno. «Non puoi continuare a lavorare senza mettere niente sotto i denti. O senza scaldarti. Non vivrai un altro giorno, così.»

Alla fine il detective cedette. Placato il pessimo umore, entrambi si posizionarono nella medesima sala da pranzo, in modo da cenare nella notte silenziosa. Lui rimase muto e composto e scrutò il pasto. Le aringhe affumicate non erano riuscite a conquistare il suo interesse e fu di gran lunga meglio limitarsi a fissare il piatto senza mai toccare nulla.

«Non è male» confermò Gwen, spizzicando il cibo dai rebbi.

Sherlock ascoltò le parole della giovane, inframmezzandole con pensieri sempre rivolti alle proprie attività investigative. Il quartiere Valby, la centrale elettrica di Hofor, il Parco Søndermarker... Sono tutti dei validi nascondigli, ma nessuno hai mai visto nemmeno l'ombra di Robin Goldschimdt e Adam Moore.

Le riflessioni si susseguirono. Hanno delle cicatrici recenti e un passato molto lungo nel settore di indagine americano. Sono abituati alle missioni più pericolose e in questo momento niente è più pericoloso della Corea del Nord. 

E le deduzioni aprirono altre strade. Goldschimdt e Moore hanno prestato servizio lì, ma mai in Europa. Qui il territorio è diverso. Non sono abituati alla città, alla folla. Per questo devono essersi rintanati in campagna. Ma non lontano...

«Sherlock!» Il richiamo si estese.

La ragazza, come al solito, immaginò tutti i luoghi raggiunti dall'acume dell'uomo, continuamente impelagato in un labirinto di congetture; assente e presente allo stesso tempo.

«Niente. Mi sono solo chiesta una cosa in questi giorni. Sai... la ricetrasmittente e quel... Mycroft? Be', non so chi sia... Credo che tu lo sappia bene e quindi...»

L'uomo restò spiazzato da quel quesito e fermò il flusso di ragionamenti. Guardò la collega, notando quanto fosse calma.

«È solo mio fratello.»

«Sul serio? Tu fratello?» domandò lei, nonostante la piena sorpresa. «Non ho mai pensato di dirlo. Ma mi rincuora sapere che è sia stato un tuo familiare a mettermi una ricetrasmittente addosso. Meglio di lui di tanto altri.»

Sherlock aspettò prima di rispondere. Non era mai stato disposto a parlare dell'altro Holmes con qualche sconosciuto.

«Sa essere iperprotettivo, certe volte.»

Gwen sorrise. Passare del tempo a Baker Street era come firmare un patto con il pericolo imposto da criminali e spie. Fortunatamente quel piccolo imbroglio era stata sostenuto da un fratello abituato ai suoi metodi parecchio discutibili.

«È tuo fratello maggiore, no? Lo capisco. Sono stata anche io una sorella minore. E riconosco certi comportamenti. O almeno cerco di farlo...»

Quella parole furono modellate dalla labbra delle bionda, scossa da confessioni personali. Non era, però, il momento di cedere alla tristezza e ai ricordi stinti dal tempo.

«I fratelli più grandi sanno essere insopportabili.»

«Lo so» rivelò lei con un malinconico sorriso sotto al imporporato dal gelo. «Scommetto che tuo fratello ha un ruolo professionale molto interessante se può permettersi di usare delle ricetrasmittenti spacciandole per collane.»

Il detective rispose in modo disorientante. «Ama mantenere l'ordine, più che altro.»

«È un dirigente?»

«Qualcosa del genere.»

Gwen si mise a riflettere, finché il suo intelletto non abbrancò una buona supposizione. Le coincidenze erano improbabili e lei era stata mandata in missione per cause mai chiarificate.

«Hai un fratello che si sente molto responsabile di te. John non è riuscito a partire e ti sei sentito obbligato a scegliermi. È stato tuo fratello a decidere.» La ragazza emise la sua soluzione, sempre rispettando i suoi modi gentili.

«E cosa te lo fa pensare?»

Tutto si era fatto chiaro, quasi esilarante.

«Mi tieni lontana dalle indagini e, ammettilo, sei perfettamente in grado di fare tutto da solo. Hai solo bisogno di qualcuno che ti sproni a mangiare o a coprirti dal freddo. Che ti mandi a dormire. In poche parole... ho appena scoperto di essere la tua babysitter.»

Sherlock alzò le sopracciglia, mostrando di non aver del tutto digerito quell'idea così maledettamente reale. Proprio a causa dei progetti dell'uomo di ghiaccio, Gwen si era fatta la sua tata.

Il consumo di droga era sempre in agguato ed era necessario qualcuno abbastanza capace da cambiare un'ambulanza in presenza di possibili complicazioni.

«Hai intenzione di sfruttare la tua posizione, Blomst?» scherzò Sherlock.

«Solo se sarà necessario» affermò Gwen, inforcando un pezzo di pesce per poi porgerlo all'altro. «Finisci il piatto o giuro che ti imbocco. E credimi, non lo ricorderesti come la migliore delle tue esperienze.»

Il bruno prese la forchetta e guidò quel poco di cibo verso la bocca. Sbocconcellò le carne morbida, sfilacciandola un poco e, infine, ingoiò il tutto senza alcun piacere. Il forte sapore della salamoia esplose sulla sua lingua, generando un reticolato di rughe attorno agli occhi. La tosse giunse subito dopo.

«Sì, lo so. Non piacciono a nessuno» dichiarò lei.

Il bruno fece cadere la posate e, sputato il suo pesce dentro a un fazzoletto, si mise a rispondere. «Potrei limitarmi a cercare una spiegazione a tutto questo...»

«Una spiegazione? Sappi che i bambini capricciosi come te hanno sempre nel piatto qualcosa che non desiderano mangiare. E comunque le aringhe piacciono a me.»

«Sei un ottimo esempio di altruismo, Blomst!»

«Da che pulpito...»

Sherlock lanciò un'altra occhiata al piatto e dopo prese il bicchiere solo per annusarlo. Le ampie narici presto furono soffocate dall'odore pungente delle tante spezie annegate nel nel bicchiere colmo di vin cotto. «Siamo qui da pochi giorni e il tuo fine è solo intossicarmi con il cibo e ubriacarmi.»

«L'alcol aiuta con il freddo» rispose lei, seria.

«Non sei un granché come tata.»

«Forse è colpa del bambinone e non della bambinaia.»

«Oh, mio fratello risponderà di tutto questo!»

Gwen rise con gioviale spontaneità. La sua mente, intanto, raggiunse altri interrogativi riguardanti il misterioso Mycroft Holmes, un personaggio che, seppur ancora concetto, era riuscito a influenzare quella piccola gita in Danimarca.

«Lui è come te? È intelligente?»

Una pausa anticipò la risposta.

«Lui adora definirsi come il migliore» confessò Sherlock con pacatezza. «Il pescecane in mezzo a un oceano di insulsi pesci rossi. Tutti sono dannatamente lenti. Non riescono a vedere oltre ciò che la mente gli propone. Si soffermano solo sulla superficie.»

Le iridi glaciali si mossero verso sinistra, in direzione di ogni appunto rimasto sul muro in attesa di altri controlli capillari. La ragazza rimase affascinata solo dall'idea di una persona con doti superiori a quelle Sherlock. Era impensabile incontrare della gente capace di sfiorare l'onniscienza.

«È davvero improbabile che esista qualcun altro come te, Sherlock» comunicò lei. «Hai delle doti straordinarie. E so che non te l'ho mai detto... L'ho solo pensato, onestamente. Ma è in fondo la verità. Forse te l'hanno già riferito, ma quello che fai è sorprendente.»

Il detetive tornò alla propria accompagnatrice e, quella volta, non poté evitare un accenno di sorriso. In poche occasioni aveva ottenuto un complimento. E John era stato l'unico a essere gentile e offrirgli una miriade di belle parole.

«Non sono in molti a dirlo.»

«Non te lo dicono perché ti comporti come un idiota. Ciò che conta è che lo pensano» spiegò Gwen, per poi osservare la mappa appesa al muro. «So che riuscirai a trovarli. Sei l'unico in grado di farlo e so quanto tu tenga a quella donna. Lei si fida di te.»

Il detective carpì quel messaggio come fonte d'incoraggiamento e per questo decise di rimettersi a lavoro. Prima però, rivolse uno sguardo mansueto all'accompagnatrice. Dopotutto quella donna era la sua metà speculare; l'unica in possesso di un dono rinnegato e tenuto sopito all'interno della mente, come fosse uno scarto.

«Sarai una pessima tata, ma come strizzacervelli riservi delle sorprese. Lo farò presente a chi di dovere.»

La giovane sorrise per ringraziarlo del complimento e, in seguito, si alzò per staccare la mappa della città dalla parete.

«Non ti dispiace, no? So che l'hai già memorizzata» disse per poi raggiungere la porta. «E adesso serve a me.» 

Le mani aggraffarono ancora il cappotto.

«Non starai andando a cercare qualche spia americana?» chiese l'uomo, sorpreso dal gesto.

«Oh no. Sto solo andando prendere delle patatine fritte. Qui le fanno bene. E poi te le sei meritate!»

Sherlock colse la matassa argentea scomparire dietro il legno ed espresse gentilmente un solo pensiero melenso. Gwen, se sconnessa da John, alla fine non una cattiva compagnia.

2.

La Københavns Hovedbibliotek non era inquadrabile secondi i canoni classici di una comune biblioteca. Non era composta da possenti scaffali in legno ricolmi di tomi polverosi, né il suo ambiente era austero quanto un antico archivio londinese. L'interno era rischiarato da un clima molto peculiare, quasi ospedaliero. Il pavimento era candido, così come le mura imponenti e i tanti scaffali disseminati nello spazio.

In mezzo a quelle sfumature lattee, Gwen si mimetizzò come un camaleonte e percorse qualche metro prima di incappare in qualche computer da utilizzare con comodo.

Sherlock si era spostato nella zona ovest della città a causa delle indagini. Seguirlo sarebbe stato un rischio inutile e raggiungere Miss Adler non era sembrata la migliore scelta. Non era rimasto altro che impegnare il tempo in qualcosa di utile e mettersi in cerca di qualche informazione in più sulla statua decapitata sotto la tenebre della notte.

«La personificazione della tragica favola di Hans Christian Andersen, la statua della Sirenetta dal cuore spezzato siede sul suo scoglio presso il porto di Copenaghen attendendo il principe dei suoi sogni. Una piccola statua in bronzo, solo 125 cm di altezza per 175 kg di peso, la Sirenetta ha ispirato i visitatori con la sua storia d'amore duraturo per un secolo. Ma ha anche sollevato delle controversie. Decapitata due volte dagli artisti radicali (nel 1964 e nel 1998), la Sirenetta è stata anche privata di un braccio (1984). E fu addirittura fatto un tentativo di farla esplodere (2003)». 

Le parole scivolarono giù e Gwen si rese conto di quanto fosse facile manipolare il metallo della Sirenetta, protagonista indiscussa della più nota fiaba danese. Si chiese come mai Irene avesse scelto quel simbolo come nascondiglio. Perché proprio una sirena costretta a soffrire per il suo irraggiungibile principe. Fu allora che la testa della giovane capì.

Il principe impossibile. Quello inconquistabile... Sherlock Holmes. Forse c'è stato qualcosa di romantico tra i due. Ma a Sherlock non importa niente delle persone. Non gli importa dei sentimenti...

Gwen smise di porsi domande e chiuse il computer, per poi tornare a casa. Tuttavia, giunta alla parte finale del percorso, notò qualcosa di davvero insolito. L'aquilone scorto qualche giorno addietro era stava ancora a fluttuare sull'antico cimitero di Assistens Kirkegård.

La ragazza, allora, sentì l'impellente desiderio di soddisfare quella curiosità e s'introdusse nel campo santo, raccogliendo con gli occhi stradine di terra, biciclette parcheggiate e tante siepi rigogliose. Solo pochi fiori erano riusciti a non sopperire al gelo, colorando la morte e rendendo l'ambiente meno tetro e lontano dall'idea della sepoltura. I petali si erano adagiati sulle croci e sulle imponenti statue.

La giovane dovette percorre un po' prima di scovare il proprietario di quel bell'aquilone, ovvero un bimbo ancora acerbo, dalla capigliatura rossa e dal bianco muso bianco lentigginoso. Era solo un ometto intento a sgambettare per trascinare stoffa sulle fredde tombe fredde e sul muschio.

Gwen si avvicinò a quella faccia paffuta, la chiamò a sé con un «Hej!» e attese una timida risposta. «Okay?»

Il bimbo, senza alcun timore per l'estranea, annuì.

«Hvor er mor?» domandò la bionda, sperando che il piccolo avesse una madre da qualche parte.

Tuttavia, le sue speranze crollarono nel momento in cui il dito del rosso indicò una lapide poco distante, coperta di ghiaccio e senza alcun bocciolo. Il tuffo al cuore, dopo la dolorosa constatazione, fu inevitabile.

«Og far?» domandò lei, confidando in un ipotetico padre.

Il bimbo, però, abbassò la sguardo per meglio mascherare emozioni la propria faccia e infine farfugliò, insicuro:

«Han er ikke vendt hjem.»

«Oh, non è più tornato a casa» fece eco la donna, attonita.

Il puzzo di quella impensabile situazione si erse, sussurrando un leggero allarme. Intanto, la malinconia e il senso del dovere si scontrarono in un lotta mentale, una lotta che Gwen non riuscì a gestire nel migliore dei modi.

Il turno all'ospedale si era rivelato molto duro e John non sentiva più nemmeno la testa sul collo. Dopo un esofagite, due ernie ietali, un caso di cistite emorragica e tanto altro, l'uomo sentì solo il bisogno di sentire il materasso sotto la schiena.

I pazienti, purtroppo, lo stavano fiaccando, ma erano anche riusciti ad alleggerire quel senso di solitudine già in procinto di scomparire. Difatti, dopo ogni singolo turno, persino pensare era faticoso. Era di gran lunga meglio passare il tempo libero leggendo il giornale o addormentarsi comodamente sulla poltrona situata accanto al camino.

In quel giorno di febbraio, però, la poltrona non fu subito conquistabile a causa di Mrs. Hudson, prima rintanata nella cucina a gestire il bollitore fumante.

«John caro, la vuole una tazza di tè? L'ho appena preparato ed è ancora caldo.»

In poco, John si ritrovò con le labbra bagnate dalla calda bevanda e con la compagnia della sua proprietaria che, sottomessa dal peso della solitudine, cominciò a farfugliare frasi come «Si sente la sua mancanza, non è vero?» o «Il silenzio non mi hai disturbata tanto. È come se qualcuno avesse fermato il cuore di questa casa...»

L'ex soldato, stravolto, si ritrovò a dover consolare la donna.

«Non sia melodrammatica, Mrs. Hudson. Tornerà presto!»

«Lo spero. E spero anche riporti indietro quella creatura che si è portato appresso. Sento la sua mancanza, sa? Ogni sera scendeva a trovarmi. Be', lo faceva solo per la cena, ma era sempre una compagnia.»

«Gwen.» John si ritrovò a sussurrare quel nome.

«Proprio lei.» Mrs. Hudson sorrise. «Un bel fiorellino delicato. Così giovane e anche così bionda. Peccato solo per quegli occhi neri. Forse Dio finito ha smarrito uno dei suoi acquerelli quel giorno.» [2]

«Già, un vero peccato» ironizzò il medico che, prendendo il giornale, diede un chiaro segnale all'anziana. Qualche attimo dopo e John restò nuovamente solo, con le spalle sullo schienale e le palpebre pesanti. In poco, si addormentò lasciando la mente solo a qualche sogno.

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Capitolo 26
*** L'islandese ***


L'islandese

1.

Il sole si addormentò dietro il verde, tingendo di rosso le malinconiche acque calme. Proprio al di sopra del giallo e dall'arancio, le sfumature della notte si andarono ad allungare verso la città, perennemente immersa nella gelida atmosfera frizzante dalla bassa stagione. Le coste rifletterono l'ultimo bagliore, giocherellando con lo scintillio del giorno intento a morire per cedere posto a una tela di stelle nascenti.

Gwen era sempre riuscita ad apprezzare il tramonto e le sue mille sfumature color magenta, i suoi cumuli di nembi caldi e simili a dello zucchero filato dal dolce gusto fruttato. Qualsiasi bimba si sarebbe chiesta come poter assaggiare il cielo, scoprire il sapore di quel bel tappeto nebuloso.

Le nuvole non sanno di zucchero filato...

Persino in quel momento ricco di tensione, la ragazza non si era negata quello spettacolo naturale, l'ultimo sprazzo di sole prima della tranquilla notte silenziosa. Fortunatamente, a Copenaghen il cielo era molto più bello, limpido. E i colori della città erano tanto accesi da risultare ardenti sotto l'ultimo saluto di sole morente.

«Surreale.»

Gli occhi di Gwen s'impregnarono di quel panorama grazie alla finestra del piccolo appartamento. Nello Yorkshire il cielo raramente era così magnifico e il sole, purtroppo, era sempre sepolto dal maltempo di un'Inghilterra moggia.

Godine finché puoi...

La ragazza si concentrò sul proprio attimo di meditazione, finché qualcosa di morbido le colpì la testa. Il bambino, persa la timidezza, si era sollazzato nel provocarla per gioco a causa dell'insopportabile noia.

Gwen squittì, prima di massaggiarsi con le dita la nuca appena offesa. Il monello, intanto, rimase nascosto dietro la parete della cucina, proteggendosi.

«È questo il tuo modo di ringraziarmi?»

Tante erano state le cure date a quel bambino, cure utili al raccoglimento di qualche informazione sul suo conto. Si chiamava Lars, aveva quasi cinque anni e viveva proprio a Copenaghen, a Hovedstaden, in una catapecchia posta accanto alle acque bluastre del mare. Suo padre era un umile pescatore, capace di guadagnare solo con il bottino della giornata e senza mai chiedere a nessuno, senza conoscere nessuno.

L'islandese...

Da anni l'islandese era solito uscire alla mattina per raggiungere il mare raffreddato dalla ore notturne, e poi tornare la sera con sulle spalle la pesca. Il suo piccolo Lars, nonostante l'età, era ben capace di badare a se stesso, di cucinare qualcosa e di nutrirsi. Nessuna educazione era riscontrabile in quel bambino, completamente ingannabile da qualsiasi adulto a causa della troppa fiducia.

Consapevole di tutto ciò, la donna raggiunse l'attentatore, intento a sghignazzare. Dopodiché, incrociò la braccia e lo sgridò con una certa gentilezza. «Non è corretto colpire alle spalle. Du slår ikke baud!»

Lars, accovacciato contro la parete, sorrise contraendo la pelle e dando movimento a ogni singola lentiggine. Con aria vispa, aprì la bocca e disse un beffardo «Piraterne er ikke forkerte!»

«Oh, i pirati non sono corretti?» ripeté Gwen, retoricamente. Nel frattempo si inginocchiò per meglio stabilire un contatto visivo. «Più che un pirata, tu sembri uno dei bimbi sperduti.»

«Du er sjov!» esclamò il bambino.

«Ti sembro buffa?» tradusse la ragazza, alzando un sopracciglio.

Con naturale scioltezza, diede un buffetto al rosso che, per quanto irrequieto, sapeva come giocare le sue carte nel miglior modo. Sorrideva sempre, quasi come se non conoscesse il destino del padre da giorni scomparso.

«Prima o poi tornerà, lo fa sempre» aveva ripetuto in continuazione, come per meglio crederci.

Sicuramente c'era qualcosa di molto strano in quella situazione e sarebbe stato impensabile lasciare un bambino al timone in un oceano di solitudine. Era stato necessario rifocillarlo per bene, metterlo al caldo e, soprattutto, offrirgli una compagnia.

«Oh, hai anche la Jolly Roger [1]» recitò la donna, entusiasta. Sull'aquilone – attaccato alla mano di Lars come una protesi – era stato disegnato un teschio bianco e ringhiante. «Peccato! Manca solo la nave. E per essere un pirata serve sempre una nave. Et skib, Lars.»

«Jeg har et skib» pronunciò il bimbo con impertinenza.

«Chiedo scusa!» esclamò Gwen, teatralmente. «Spero tu non mi faccia percorrere l'asse.»

Così continuò, ripensando al peschereccio dell'islandese. Evidentemente, per un infante niente era meglio di quel ammasso di legno privo di ciurma e nostromi.

«Du kan ikke komme på skibet, du er en pige!» la sgridò il bimbo.

E la ragazza restò allibita da quel commento. «Quindi non posso salire sulla tua nave perché sono una donna. Questo è un molto sessista, Lars. La tua merenda è a rischio dopo l'ultima affermazione. Le donne sono capaci di tutto. Persino di comandare una flotta e–»

Il suono metallico del chiavistello tolse le parole dalla bocca dei Gwen. Sherlock era in procinto di entrare nell'abitazione, così preannunciando lo scompiglio dettato dall'intrusione di un bambino durante delle indagini delicate.

«Hvem er det?» chiese il rosso, alterato.

«Tranquillo. È solo capitan Uncino!»

2.

«Siamo tutti condannati!»

L'esclamazione dell'ennesimo paziente torturò le orecchie di John, intento a concludere la giornata all'ambulatorio. In teoria, avrebbe dovuto solo leggere un elettrocardiogramma, ma il destino lo aveva costretto a seguire quell'assurdo monologo senza senso, come un noioso terapeuta inchiodato dalle altrui prediche deliranti.

«Non esiste più la privacy al giorno d'oggi. Tutti sanno tutto di te. O forse anche di più. È davvero stressante! Una volta se vedevi un donna bastava parlarle. E invece adesso non puoi nemmeno avvicinarti a lei senza lasciarle esaminare tutta la tua cartella personale. Non si tratta più di un profili social. Quelli sono dei fottutissimi curricola... E se le tue credenziali non le soddisfano, ti scartano. Ma io ho chiesto un appuntamento, non un di colloquio per fare lo stagista. È davvero stressante... Forse, ho già detto È davvero stressante, no?»

«Sì, l'ha già detto. Tre volte, Mr. Barlow» rispose il medico apaticamente. Con un solo gesto nascose lo sguardo esausto dietro la cartella per alienarsi da tutta quella situazione scomoda.

«Ah bene! Per non parlare del profilo degli altri, basta googlarli e si trova qualsiasi genere d'informazione. Non puoi più nemmeno nasconderti. È come se una dannatissima spia av–»

«Sì, ho capito il concetto!» Lo interruppe John, sospirando. «Il suo cuore sta bene, comunque. Non c'è più traccia dell'extrasistole. Le chiedo comunque di fare affidamento a un cardiologo. Rifaccia gli esami, se può.»

«Be', almeno posso tirare un sospiro di sollievo. Grazie dottor Watson. Non sa quanto mi faccia piacere sentirlo.»

Il medico chiuse la cartella e, con lo sguardo stanco, la diede al suo paziente. 

«Se fossi in lei perderei qualche chilo ed eviterei lo stress» disse infine, con tono severo. «Niente Facebook, Mr. Barlow!»

Il paziente sospirò a causa dell'ammonizione. «Va bene...»

Quando John tornò a casa, quelle fastidiose parole uscite dalla bocca del paziente gli ronzarono in testa, sopprimendo qualsiasi altra riflessione.

Basta googlarli e si trovano informazione di ogni genere...

Mangiato dai dubbi, immerse tutta la faccia nell'intento alone emanato dal monitor e con le dita digitò qualche lettera per poi notare il nome Gwendolyn Blomst nella pagina principale di un comune motore di ricerca.

Gwendolyn Gerda Blomst, Sheffield (YOURSHIRE - UK)

John esaminò tutte le pagine e bazzicò persino sui profili social della ragazza, dove tante fotografie erano state postate negli anni addietro. Molte di essere raffiguravano una Gwen ancora adolescente e con una chioma lunga e dorata. Proprio al suo fianco era ritratta un'altra donna con capelli rossicci e occhi chiari; Scarlett Blomst, nonostante un'età marcata da un maggior numero di anni, era l'esatta copia di sua sorella: stesso aspetto, colori decisamente differenti.

John fece scorrere le immagini, fino a scorgere un profilo alquanto particolare, quello di un uomo molto appariscente: alto quasi due metri e con un aspetto tanto massiccio quanto inquietante. Cristoffer Blomst non era esteticamente il miglior esempio di un padre affettuoso: gli occhi piccoli, gli zigomi affilati e la bocca lunga erano facilmente collegabili a all'aspetto di un uomo freddo, a tratti un po' inquietante.

Le foto si susseguirono, ricalcando la dissomiglianza tra le sorelle Blomst e il loro unico enorme genitore. John, intanto, deglutì e ringraziò il cielo di non essere stato costretto a incontrare un simile elemento. L'idea delle ipotetiche minacce di quell'uomo sembrarono quasi plausibili in quel momento e fu meglio ritornare alle pagine precedenti.

«Incidente nella A6178» lesse l'ex soldato, sussurrando. «Auto va fuori strada e si ribalta. L'impatto uccide una giovane donna. Scarlett Lene Blomst, 31 anni, muore sul colpo. Il corpo viene ritrovato... Oh... Carbonizzato a causa di un circuito elettrico. Si sospetta una qualche distrazione da parte della... Non si registrano altri feriti. 23/01/2013.»

La parole sopraggiunsero e il medico le inghiottì con la mente, una dopo l'altra. Nonostante avesse sofferto, Gwen non si era mai permessa di trasmettere alcun dolore. Si era dedicata solo al futuro e senza implorare la pietà di nessuno.

Ha perso il padre, la madre e la sorella...

«John, caro...»

Mrs. Hudson irruppe nel silenzio e John, per semplice riflesso, chiuse il portatile con un unico celere scatto, perfetto nel destare l'attenzione dell'anziana.

«Mrs. Hudson!»

«Spero di non averla disturbata in un momento inopportuno.»

«Assolutamente no. No!»

L'uomo sentì il bisogno di nascondersi.

«È scappata!»

Sherlock, con falcate ampie, calpestò la moquette del soggiorno, esponendo tutta la sua altezza. L'iperattività l'obbligò ad adottare un comportamento frenetico, quasi inarrestabile.

«Chi è scappato?» chiese Gwen, spuntando fuori dalla parete.

L'aria da finta tonta non le donò molto, ma ancora troppa era la preoccupazione per la presenza del piccolo Lars.

«Hanno attaccato La Donna. Hanno tentato di farla fuori, questo pomeriggio» spiegò il detective, strepitando e uccidendo tutta la propria pazienza. «E non sono riuscito a prevederlo. È riuscita scappare, ma non può continuare così. Se solo avessi un indizio... ma niente!»

«Cosa?» La bionda cercò di connettere ogni singolo concetto, ma la sua mente smise di funzionare nel momento in cui l'occhio cadde sul metallo scintillante stretto nella mano dell'uomo. «Oddio, Sherlock cosa tieni in mano?»

Colto l'allarme, Sherlock aggrottò la fronte e schiuse le labbra. Dopodiché diresse il ghiaccio degli occhi sulla la mano destra, saldamente stretta attorno a una pistola scintillante.

«Oh sì, ecco perché la gente urlava!»

Gwen rimase sbalordita nello squadrare il bruno dimenarsi con un'arma letale senza alcun timore. Quell'uomo era immune alla percezione del pericolo e si era abbandonato al rischio con spensieratezza inumana. Proprio come John.

«Dove l'hai presa?» chiese lei.

«Solo un regalo da parte della nostra cliente.»

Era stata Irene Adler a lasciare quel piccolo presente nero a Sherlock, posizionandolo sul pavimento del piccolo appartamento-bunker di Thorsgade. Quell'arnese, però, non mostrava alcun segno sospetto, nessun indizio.

Il detective, abituato ai tranelli e a possibili interpretazioni, smontò il caricatore e solo allora riuscì a sfilare della comune carta piegata con precisione maniacale.

«Oh, un regalo dentro al regalo» cantilenò, soddisfatto.

Gwen si fece prossima al collega ma, nel mentre, sperò che Lars fosse rimasto nascosto e non avesse assistito a nulla di allarmante; all'inglese sconosciuto dalla pistola scura.

«È solo un foglio vecchio» convenne lei, notando la carta ingiallita dal tempo.

Le lettere stampate, assottigliate dagli anni, componevano una semplice frase dallo stile poetico, forse anche filosofico.

Alla nostra morte, fine e inizio del vivere, un confine solo rimane.

(Ludwig Johansen) [2].

Gwen non si espresse per non essere costretta a dare una spiegazione senza senso, e anche per non finire umiliata a causa di scarse capacità deduttive. Sherlock invece, stirato il foglio, si divertì ad analizzarlo con la solita sollecitudine. Espose la carta alla luce, in cerca di altri indizi, lo posizionò in orizzontale per osservarne lo spessore e, infine, lo annusò.

«Molto interessante» farfugliò, assorto.

La ragazza lo puntò, cercando di riuscire a comprendere tutte quelle bizzarre tecniche e, solo quando il bruno sembrò riacquistare contatto con il mondo reale, trovò il coraggio di chiedere altre informazioni riguardanti eventuali prove.

«Cosa è interessante?»

«Non lo capiresti» confessò l'uomo, sbrigativo. «Il foglio è stato strappato da un vecchio libro, ma Irene attualmente non possiede una biblioteca. Qualcuno ha cercato di avvertirla del pericolo imminente, aiutandola con questo semplice pezzo di carta. Lei, prima di fuggire via dai suoi aguzzini, ha ritenuto adeguato lasciarlo a me.»

La donna cominciò a massaggiarsi il mento e le labbra con il pollice. «Non mi pare di aver letto qualcosa di importante.»

«È perché tieni il cervello a riposo, Blomst!» asserì lui con un po' entusiasmo per poi accettare una legittima occhiataccia. «No, non guardami così. Lo fate tutti. Preferite non affaticare troppo la testa. La tenete spenta e ignorate i continui stimoli di ciò che vi circonda. Sembrate quasi in letargo... Immagino siate sempre rilassati.»

La giovane alzò lo sguardo al cielo per insopprimibile esasperazione. «Bene. Ora che ti sei preso un momento per insultare me e la specie umana... desideri illuminarmi o no?»

Sherlock le porse il foglio.

«Una parola ogni due» comandò, testando l'accompagnatrice come un insegnante impassibile.

Gwen inspirò e prese la carta timidamente, per poi raccogliere tutta la concentrazione. La logica presto sopraggiunse e, seguita la semplice istruzione, permise la lettura di in concetto insito nelle semplici parole.

Alla nostra morte, fine e inizio del vivere, un confine solo rimane.

Alla fine del confine.

«Sono al confine» spiegò la donna.

Una scarica titillò i suoi lobi cerebrali e tutto si fece elementare: finalmente erano giunti a un'informazione concreta e utile alla caccia contro il nemico silenzioso.

«Il problema è quale confine» evidenziò Sherlock, impaziente.

«Probabilmente è solo il confine della città» ipotizzò Gwen, cercando di sfruttare la spiegazione meno laboriosa.

«O forse altro» convenne lui, per poi far tamburellare le dita sul muscolo della gamba sinistra. «Lo scoprirò presto! Occorre un aiutante... Quindi mi auguro tu riesca a liberarti della piccola peste prima che sia troppo tardi.»

La ragazza, a quelle parole, sentì il sangue gelare all'istante. La mani cominciarono a sudare, le palpebre si aprirono completamente, il cuore aumentò il battito e la lingua mutò in una serie di tremolii simili a quelli di una foglia in ottobre.

«Come... Come sei riuscito... Tu...»

«Niente di troppo impegnativo. Le fette di pane lasciate sul ripiano del soggiorno. Morsi troppo piccoli per appartenere una donna adulta. La tua espressione da ebete al mio rientro e l'odore di zucchero proveniente dalla cucina sono solo state le conferme definitive.»

Il detective, allora, percorse qualche metro fino a giungere in uno degli sportelli inferiori posti al di sotto del lavello. Con un gesto secco, lo aprì e li trovò il piccolo intruso con la scapole incastrate contro il legno, le braccia attorno alla Jolly Roger e le sottili gambe intrecciate. Ciuffi rossi riscaldavano la sua pelle bianca e costellata da lentiggini chiare e scure.

«Sherlock, dannazione!» lo rimproverò Gwen, timorosa per il bambino che, purtroppo, si era spaventato a tal punto da rintanarsi come un topo all'interno di un buco.

La pistola. Lo ha terrorizzato...

«Non provare a spaventarlo!»

Il bruno invece di sproloquiare con l'aria da solito saccente restò fermo e muto per qualche secondo, ibernandosi nei minuti. La donna, intanto, senza comprendere il freno ai modi del collega, si limitò a un tono docile.

«Sherlock...»

Il bruno assottigliò il taglio degli occhi e pronunciò una sola parola. «Barbarossa...»

3.

Frammenti del passato ritornarono a occupare la memoria di Sherlock. Non esistette più alcuna Copenaghen, ma solo un infinita collina di grano abbracciato dalle miti corrente dell'estate al di sotto dei tiepidi baci del sole di luglio. Proprio in mezzo a tutto quell'oro, una testa rossa sfrecciava accanto a lui e, libera come un uccello, sprizzava energia con ogni gesto ingenuo e ogni singolo urletto consacrato al gioco.

Nella mente del detective non c'era più posto per le parole di Gwen, che quasi sembrarono soffocate da un lastra trasparente. Tutto si era disintegrato e lui si era sentito come separato dal resto del mondo, isolato in un bolla contenente solo le nostalgiche ombre di ciò che era stato: due bambini intenti a starnazzare tra l'eterno mareggiare di rigogliose spighe gialle.

«Sherlock» lo chiamò la ragazza, pensierosa. «Spero tu mi stia ascoltandolo. Si chiama Lars Jepsen. Suo padre è scomparso da cinque giorni. Lui ha solo cinque anni. È perfettamente autosufficiente. Ma non può continuare a restare da solo. Io ho cercato di fare del mio meglio.»

Il bruno, con la testa adagiata sullo schienale della poltrona, strizzò gli occhi un paio di volte, come per mettere a fuoco il viso del bambino stretto alla gamba della giovane.

«Ho notato» sibilò il bruno.

«Il padre si chiama Jørgen. È un pescatore ed è scomparso assieme al suo peschereccio. Non è più tornato a casa. Il che è molto strano secondo Lars. "Lui torna sempre!"»

Così specificò la ragazza, provando a esternare il concetto e infine la mente di Sherlock riuscì a liberarsi da quelle tristi reminiscenze, per meglio concentrarsi su un pensiero prossimo alla soluzione del caso. Quella bolla era appena scoppiata.

«Finalmente una bella notizia!» esclamò, senza però esaltarsi in maniera troppo scomposta.

«Da quanto la scomparsa di una persona è una bella notizia?» La ragazza si morse il labbro per non passare a qualche schiaffo comandato dall'indignazione. «Potresti sforzarti a essere più umano. È solo un bambino.»

«Bambino o no. Non ha importanza» confessò, scollando il capo scuro dal morbido schienale di una poltrona. «Come ho fatto non pensarci prima. Era evidente, troppo evidente!»

La bionda poggiò una mano sulla testa fulva del piccolo Lars, l'altra andò verso il setto nasale. La presenza prolungata di Sherlock era ottima nel generare uno stato di emicrania.

«Sto solo cercando di non impazzire nel seguire le tue dannate deduzioni.»

Il detective, sempre più euforico, con un balzò si mise in piedi e cominciò a gironzolare per tutta la stanza, piroettando come una ballerina. Si fermò solo dopo un po', per attaccarsi alla finestra esposta sul mare, nero quanto il petrolio ma cosparso di dinamici luccichii.

«Ho sprecato il tempo cercando a terra, quando avevo la risposta davanti ai miei occhi. Il mare... È lì che si nascondono. Goldschimdt e Moore sono abituati all'acqua. E sanno gestire un peschereccio perché hanno operato in Asia. Ci tengono d'occhio, senza nemmeno fare un passo nelle strade. Ecco perché non c'è traccia di loro in tutta la città.»

Gwen non poté fare a meno di ignorare una parola.

«Hai detto un peschereccio?» chiese, deformando le sopracciglia. Il ragionamento del bruno era impeccabile e sin troppo lontano dai inutili abbagli. «Tu pensi sia quello del padre di Lars. Non è vero?»

«Oh sì. È sicuramente quello.»

«Questo vuol dire che loro lo hanno rubato. Lo hanno ferito! Ecco perché non è più tornato a casa... Oh mio... Loro hanno ferito un uomo solo per sfruttare un posizione strategica in pieno mare.»

«Loro lo hanno ferito, nella migliore delle ipotesi» specificò il detective. «Sono due ex agenti della CIA in cerca di vendetta, e non nessuno dei due gradirebbe un testimone troppo scomodo. Parliamo di gente senza molti scrupoli, Blomst. Gente capace di tante cose.»

Gwen sentì la tristezza colpirla con violenza. Istintivamente, si piegò a terra e strinse le spalle di Lars, come per proteggerlo dalle brusche parole di Sherlock Holmes.

«È davvero necessario pensare al peggio?»

4.

Sherlock pensò a diverse ipotesi inerenti alla scomparsa di Jørgen, ma nessun era uscita a surclassare quella effettuata su di un possibile omicidio. Goldschimdt e Moore, essendo stati cacciati dalla CIA, non avevano più disposizione nessuno mezzo e, per forza di cose, dovevano aver rubato il peschereccio per poi rifugiarsi in mezzo alle acque, dove non avrebbero destato alcun sospetto.

Avrebbero potuto semplicemente sottrarre una delle tante navi, ma una denuncia seguita da costanti ricerche sarebbe stata inevitabile. Tutto sarebbe andato a monte. Per di più, poche erano le zone di pesca autorizzate e, se Jørgen fosse stato colto da malore, qualche pescatore si sarebbe accorto del peschereccio e si sarebbe fatto sentire.

I dubbi crollarono, uno dopo l'altro: era molto più semplice uccidere un uomo senza contatti con la società, nascondere il corpo e sottrarre il mezzo, così da impedire il sopraggiungere di ritorsioni e querele.

«L'islandese solitario...»

«Kaptajn Krogh!» [3]

Il detective non riuscì più a pensare nel momento in cui una le innocenti parole lo destarono con uno strano appellativo. Lars, dimenticata la paura, aveva trovato il coraggio di avvicinarsi allo strano uomo aveva infestato l'appartamento.

«Kaptajn Krogh!» ripeté il bambino.

Sherlock sconnesse le iridi dall'orizzonte per condurle sulle gote scarne del suo rifugiato. Lars non aveva mai mostrato tristezza, né di preoccupazione, poiché probabilmente gli era impossibile supporre la fine del padre.

«Non è così che si impugna una spada» lo rimbrottò il bruno, cercando di limitare i suoi ignobili istinti.

Il piccolo, in effetti, aveva da poco un preso in prestito un mestolo della cucina, per poi usarlo come spada contro il nemico e proporre giochi innocenti. «Brug sværdet!»

«Tanto per cominciare dovresti infilzarli con la punta» rivelò l'uomo.

Lars, completamente immune all'inglese, fece uno slancio in avanti per colpire Krogh con la parte tonda, ma Sherlock fece in tempo a prendere un cuscino e usarlo come scudo. Dopodiché usò ogni singolo riflesso per stroncare ogni fendente. Continuarono per un intero minuto, fino a quando il rosso non poggiò il legno sullo stomaco dell'avversario, senza troppa pressione. Il detective, allora, lanciò il proprio sguardo sopra la pancia sfiorata dal mestolo.

«Sei riuscito a colpirmi» convenne, sorpreso. «E proprio in mezzo al pancreas! Un colpo molto subdolo e che mi causerebbe un fine rapida e dolorosa. Be'... Sai essere crudele per essere solo un bambino.»

«Krogh døde.»

Døde... Dead... Morto...

«Oh sì, dovrei essere morto adesso.»

Il bruno non era solito accettare le sciocchezze, ma il fanciullo dentro al suo inconscio si era messo a strillare da parecchi minuti per un'altra possibilità. Perciò, abbracciata lo spirito goliardico del gioco, Sherlock Holmes lasciò da parte il suo essere per accasciarsi al suolo simulando un lamento. Lars rise come il più felice dei bimbi e, porgendo all'altro una piccola mano, chiese ancora un duello.

Intanto Gwen, rintanata nella cucina, girò il cucchiaio nel latte caldo cercando di non pensare alla deduzione di Sherlock, di ignorare le riflessioni rimestate nella mente. Era molto meglio sperare in un errore e nutrire l'anima con del sano ottimismo piuttosto che con teorie dannatamente logiche.

L'acciaio continuò a mescolare il latte, sino a quanto degli schiamazzi echeggiarono e attirarono la donna verso il soggiorno sconquassato dai giochi. Tutto il mobilio era stato spostato e Gwen, con il bicchiere ancora in mano, non riuscì a credere ai suoi occhi. L'algido Mr. Holmes si era impossessato dell'intera casa, rendendola una qualche Isola-che-non-c'è a causa dell'ingenuo desiderio di interpretare un pirata.

«Ecco il Kraken [4], Spugna!» recitò Sherlock, con l'indice puntato contro la donna. «Provvedi tu? Ti consiglio vivamente di sfruttare il cannone. È sempre efficiente contro l'attacco di un orrido mostro com quello.»

«Orrido che?» sibilò lei prima di essere colpita da un cuscino. Il latte traboccò dal dal bicchiere, schizzandole il petto e la maglia. Gli occhi neri presto si ridussero a due fessure e la bocca si spalancò per l'oltraggio incassato.

«DRÆBT!» urlò il bimbo, con gioia.

«Ottimo colpo, Spugna!» pronunciò Sherlock, sorpreso.

Gwen prese il cuscino da terra, si avvicinò alla folle coppia con aria minacciose e quasi finse uno sguardo sprezzante in direzione dell'adulto, così celandosi nelle dolci millanterie del gioco di ruolo. «E quindi tu saresti Uncino? E io che pensavo fossi Peter Pan... Pieno d'arroganza, presuntuoso e, soprattutto...» continuò, pronta a colpirlo. «Mai cresciuto!»

Sherlock fece in tempo a parare i colpi con gli avambracci e persino Lars, impugnato un secondo cuscino difese il capitano, colpendo più volte la ragazza sul fianco con fare spensierato. L'uomo d'un pezzo e la candida compagna si svillaneggiarono con sciocchi insulti per un po', fino a quando non dovettero riprendere fiato a causa del continuo combattimento.

«Pronto a soccombere, Peter?» chiese lei, con aria di sfida.

«Giammai, Wendy!» esalò Sherlock, stanco. «Arrenditi, o ti venderò alla ciurma e sarai costretta a leggere favole per il resto dei tuoi giorni.»

Gwen rise a quella minaccia così buffa e idiota. Era chiaro che Sherlock avesse letto Peter Pan, altrimenti non avrebbe mai avuto una conoscenza così approfondita delle idee di Barrie. Forse era a informato su tutta la cultura piratesca concepita nei tanti scorci di mondo durante i secoli.

«Allora risparmiami, Peter» recitò lei, lanciando occhiate al bimbo e al malfattore. «E ti darò il mio bacio.[5]»

Sherlock restò interdetto. Stando alle sue memorie, il bacio di Wendy era qualcosa di molto differente rispetto al contatto di un paio di labbra, era un simbolo concreto, materiale. Di certo, Gwen non si sarebbe arresa alle labbra e per questo si era già messa a frugare nella tasche dei jeans in cerca di un oggetto minuscolo da regalare.

«Sono a corto di ditali, credo» rispose, colpevole.

«Be', se questo è il problema» Sherlock cercò di rientrare nel personaggio in tempi rapidi. «Sconterai la tua pena raccontando storie. Spugna dovrebbe adorarle.»

Il rosso quasi sghignazzò a causa di quelle esilaranti figure.

«Come vuole, Pan!» rispose la ragazza, sorridendo.

Ignorando il fatto di essere stata troppo maliziosa, passò oltre quel piccolo screzio e, sedendosi sul sofà, dedicò ogni sguardo al piccolo Lars, già bell'e pronto per una storia da gustare.

«Conosci Den Lille Havfrue, Lars?»

Lei cominciò a raccontare, ma la sua mente vagò agli attimi che si erano appena consumati al di sotto di quel tetto. Mai e poi mai si sarebbe aspettata di scoprire uno Sherlock così sciolto, così deliziosamente umano. Era come se qualcuno fosse riuscito a sciogliere quella muraglia di ghiaccio, farla crollare per meglio svelare un bambino che mai era riuscito a crescere.

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Capitolo 27
*** Marea ***


Marea

1. 

Le nubi, quel giorno di febbraio, avevano risucchiato il sole, costringendo Copenaghen a lasciar perire ogni proprio squillante colore. Hovedstaden, una piccola porzione settentrionale della città sporta sul mare, era per lo più composta da labirinti di baie composte da legno scricchiolante e piccole imbarcazioni consumate e stinte. 

Presso questa zona poco conosciuta, era esposta una boscaglia misera e tetra, i cui gracili arbusti spogli – come tanti aghi – bucavano la neve, arginando la costa di gelida roccia nera. Il mare invece, inanellando scaglie di lucido metallo, si era messo a frastagliare le pietre con le proprie onde, menando anche contro i pali di una minuscola casetta scarlatta.

L'abitazione di Lars Jepsen sicuramente non era comune come le tante disseminate per la periferia, ma somigliava tanto a una palafitta. In un certo senso era proprio una palafitta ben costruita, isolata e sospesa sui giochi di gelide acque irrequieto. Perfettamente amalgamata all'ambiente naturale, la semplice struttura era lo specchio del suo proprietario, il quale non doveva essere né molto avvezzo ai rapporti sociale, né abituato alla moderata confusione urbana della capitale.

Sherlock ne era convinto: la piccola abitazione era il contenitore delle risposte, risposte tacite e ancora protette da quattro mura di legno corrotto dal sale. Quindi, nel primo mattino, era giunto assieme alla collaboratrice e il piccolo pirata presso un ponticello di assi cigolanti. Tutti e tre percorsero il legno e giunsero presso la porta, all'apparenza sbarrata con un catenaccio arrugginito.

«Forventer!» comandò il piccolo, deciso.

«Aspetteremo!» pronunciò Gwen lanciando un'occhiata gentile al bruno e poi a Lars che, come un forsennato corse per tutto il ponte, traendo da esso una lunga sequenza di battiti stridenti e lunghi cricchi acuti.

La bionda e Sherlock scrutarono per un po' il confine, patendo sulla pelle il soffiare indisposto del clima. Smisero solo quando il bimbo tornò trotterellando, con in mano una chiave. Lars, giunto presso la porta, strizzò un occhio, inserì il ferro dentro l'apertura e poi srotolò le catene, così spalancando l'ingresso. Infine, si girò verso i suoi ospiti e li invitò a entrare con un semplice cenno della testolina rossa.

«Ottimo lavoro, Lars!» Il detective arruffò la chioma al suo piccolo aiutante ed entrò in casa, così inaugurando la caccia di indizi utili al percorso delle indagini.

Gwen, titubante, lo seguì e lì poté notare le reali condizioni dell'abitazione. L'interno della struttura era stata inghiottito dal disordine, così come dalla sporcizia. Cucina, camera da letto e soggiorno erano state concentrate nello stesso spazio, considerando l'organizzazione dei tanti mobili. Il giaciglio, pieno di spesse coperte sdrucite, era stato spinto contro la parte più lontana, accanto a un baule, un armadio e un arcolaio. La parete più vicina, invece, era stata adibita alla consumazione dei pasti, dacché erano presenti un obsoleto cucinino a legna, un dondolo logoro e un tavolo occupato da ciarpame.

«È un caos qui dentro. Questo non ti complica le cose?» chiese la ragazza, sorpresa.

«Certo che no, Blomst. Le semplifica.»

L'uomo acciuffò uno strano bagliore con gli occhi, proprio nel momento in cui notò il muro orizzontale, che era stato adornato con reti, remi e altri oggetti appesi al chiodo. Degli ami decoravano il legno, consumato e scosso dalle tempeste dell'ultimo inverno. Per quanto l'ambiente apparisse repellente, a lui sarebbe piaciuto passare i giorni in un luogo tanto autentico, così a contatto con il ruggire del mare burrascoso e il sorgere di mille storie da intraprendere. Era ancora forte il desiderio di abbandonare la terra per raggiungere un confine dimenticato, senza stagioni né certezze. Sarebbero stati solo lui e Victor. Esiliati dal mondo e con tutto l'infinito davanti.

«Tutto bene?» La bionda raggiunse collega e, adagio, posizionò la mano sulla sua schiena, con l'intento di esprimere un semplice gesto d'affetto.

Ciononostante Sherlock, sapendo quanto Gwen fosse abile nell'individuare qualsiasi emozione altrui, si sottrasse a quel tocco minaccioso per meglio mascherare il sentimento della nostalgia. Dopodiché diede comandi insignificanti.

«Bada a Lars, non a me!»

«Va bene» mormorò la ragazza, retrocedendo.

L'uomo, allora, cercò di liberare la mente dalle memorie passate e si concentrò su di un unico fine: rintracciare qualche elemento che confermasse qualche pessimo intreccio tra Goldschmidt, Moore e Jøren Jepsen. Tuttavia, durante la perlustrazione Gwen sentì addosso la morsa del gelo. Fu proprio il piccolo Lars a notare il come la donna stringesse le braccia intorno alla corpo in cerca di una fonte di calore.

«Cerca di fare in fretta o congeleremo qui dentro.»

Il bambino non era uno sprovveduto e perciò, da ottimo tuttofare, si catapultò fuori e tornò con dei legni secchi. In pochi secondi, li ammucchiò ordinatamente nella stufa del cucinino e si cimentò nel dare vita al fuoco con un fiammifero. La ragazza, seppur sconcertata da quelle tante abilità, raggiunse il piccolo rosso e lo aiutò.

«Ehi, aspetta!» disse, prendendo un altro fiammifero dalla scatolina. «Lo faccio io. Può essere molto pericoloso accendere un fuoco. Soprattutto in un casetta di legno come questa. Det er ikke sådan? Et kan være meget farligt, Lars.»

Gwen sfruttò la carta abrasiva, ma nemmeno dopo l'ennesimo struscìo riuscì a generare una fiammella. Il gelo era penetrato nel legno, bagnandolo, e fu necessario graffiare le testa del fiammifero in continuazione, ancora e ancora. Fu solo un impaziente tono baritonale a mettere fine a quel sibilo.

«Blomst!» tuonò il detective, scocciato.

«Scusami» rispose lei.

Non era sua intenzione essere d'impiccio.

«Giv mig!» comandò Lars, protendendo la mano.

La giovane, seppur reticente, decise di dare il fiammifero al bimbo che, riscaldata l'estremità con soffi caldi, riuscì a far nascere la prima fiamma. In poco, il fuoco divampò dentro le pareti della stufa e tutta la casa riconobbe calore e luce. L'alba non era ancora giunta del tutto, ma Lars era riuscito a trasformare quella catapecchia in un faro luminoso in mezzo a una cupa notte morente.

«Sei molto bravo, Lars! Du er god!» sussurrò la ragazza.

E il bimbo sorrise.

Passarono i minuti e Sherlock non si era risparmiato in nessuna deduzione. Era riuscito a raccogliere molto riguardo al misterioso Jørgen, il suo pescatore solitario. L'intera abitazione, invero, non era solo pregna d'acqua salmastra ma dell'intera essenza del suo ingombrante proprietario.

«Quarantatré anni, costituzione robusta e atletica. Solitario, affetto da una forte dolore lombare divenuto cronico. Molto legato al figlio.» Il detective cominciò a sproloquiare e, intanto, il suo viso ricadde su Lars che, ancora inconsapevole della situazione, si godeva il fuoco. «Non lo avrebbe mai abbandonato.»

«Sembra una spiegazione davvero coerente» dichiarò la bionda, strofinandosi le mani. In fondo, era anche riuscita a esaminare qualche dettaglio all'interno del soqquadro, ma senza scoprire radici così profonde. «Come hai fatto?»

Sherlock espose il petto, accogliendo il complimento insito nelle domanda. In seguito, squadrò la sua collega notando un sorriso perlaceo, un sorriso che mai nessuno si era preso il disturbo di dargli. Nessuno tranne John Watson. Il ghiaccio erano tornato a gocciolare sotto al calore di un bel gesto e l'uomo, per non deludere le labbra della donna, tese il braccio contro una delle pareti.

«Cosa vedi?» le chiese, spronandola a un esame delle fredde ferraglie consunte.

Gwen cercò analizzò tutto ciò che doveva essere analizzato.

«Vedo degli ami e... in alto degli scompartimenti con delle bottiglie di birra. Sono piene... Be', alcune sono piene. È strano, sembrano messe lì solo per prendere la polvere.»

«E questo cosa ti porta a pensare?»

Sherlock sembrò in tutto e per tutto un insegnante pronto a istruire la propria seguace.

«Che ama bere ma non sempre.»

«Sbagliato!» pronunciò il detective intransigentemente, per poi puntare la mano sul pavimento. «Adesso guarda giù, proprio ai piedi delle credenza. Ci sono delle scatole con dentro molte altre bottiglie di birra. Sono uguali. Stessa marca e stessa quantità.»

Gwen focalizzò la propria concentrazione sul vetro vuoto che occupava un parte abbondante del pavimento. Quel puzzle di bottiglie era stato occultato da un sacco di iuta. Jørgen aveva cercato di nascondere la birra per via del piccolo Lars.

«Queste sembrano vuote» confermò la ragazza, ispezionata la scatola incriminata. Spostò la copertura, in modo da poter esaminare meglio la presenza di liquido all'interno di ogni singolo recipiente. Tirò su per il collo ogni bottiglia, ci sbatté le unghie e confermò quella che era stata la prima supposizione. «Non è che sembrano vuote. Queste sono vuote. Tutte quante!»

Sherlock spiegò il perché di quella sottigliezza.

«È per via del dolore lombare cronico. È un pescatore, è abituato a lavorare con la schiena. Non riesce a distendere bene la colonna vertebrale e, proprio per questo, preferisce tenere le bottiglie a terra. È abituato a piegarsi, ma non sopporterebbe il dolore inflitto da un'impennata. Ha un figlio di soli cinque anni e ama faticare in solitudine. Nato negli anni settanta, a giudicare dalle vecchia foto all'interno del suo baule. Il soggetto ha quarantatré anni.»

La ragazza, ancora inginocchiata, farfugliò. «Fantastico!»

«E non è tutto. La parete è colma di effetti personali. Non c'è un singolo spazio libero, eccezion fatta per l'angolo destro.» Il bruno indicò con il dito il punto appena citato. «C'è una rete lì, abbandonata e senza alcun valore. Tuttavia accanto a essa c'è uno spazio vuoto. Probabilmente era lì che si trovavano quelle nuove. Il nostro uomo le ha prese il giorno della sparizione e le ha caricate sul peschereccio. La sua era solo una giornata di lavoro, ma qualcuno deve averla tramutata in qualcosa di molto diverso.»

Gwen ingoiò quello sproloquio nel comprendere che quella teoria era sempre più attendibile: qualcuno aveva fatto del male al padre di Lars senza troppo pensare.

«Questo vuol dire che...»

«Che possiamo escludere l'ipotesi di fuga intenzionale.»

Gwen tirò su col naso e diede un'occhiata allo strano arredamento della struttura. La polvere e le chincaglierie erano prove inconfutabili dell'emotività dell'islandese. C'era tanto altro. Non solo un sciocco dolore cronico.

«Soffriva di una lieve forma di distimia» confermò la donna, allarmata.

Sherlock per un po' la fissò, poiché sorpreso dall'aggiunta.

«Si nota dall'ambiente» continuò lei. «Tendeva a raccogliere tutto, ma senza buttare niente. Aveva un forte tendenza all'accumulo. Le persone emotive lo fanno. Non si liberano mai dei ricordi. E lui aveva bisogno di ricordare. Ha tenuto tutto il suo passato dentro la casa. Guarda che confusione!» La bionda s'alzò. «Questo posto è marcio!»

«È un indizio troppo sentimentale. Ma è corretto» disse il bruno, sorpreso.

Esaurite le parole, gli adulti restarono a fissarsi per qualche secondo, senza mai dare inizio ai soliti battibecchi. Sherlock ben presto si era abituato a osservare una nuova versione di Gwen. E Gwen era riuscita a non sentire più il bisogno di mascherare le proprie vulnerabilità dinnanzi al cinico Sherlock. Intanto il piccolo Lars, rifugiatosi sul suo lettone, cominciò a mangiare del pane di segale stantio e del danablu [1], prima contenuto in una scatola di latta.

«È così ingiusto» biascicò la giovane, riferendosi al bambino. Lars era solo al mondo, senza una madre e, in quel momento, senza nemmeno un padre. «Cosa dobbiamo fare con lui?»

Sherlock non emise suono, ma nel suo silenzio si fece chiara la risposta. Entrambi, per un solo giorno, avevano voluto bene al bambino. Non era dignitoso tenerlo con loro durante le indagini, tanto meno costringerlo a passare il tempo in mezzo al nulla.

«Dobbiamo avvertire la polizia»

Il detective rispose e Gwen riconobbe quell'unica soluzione; accolse il silenzio senza nemmeno eseguire un cenno. La tristezza, tuttavia, la avvolse come un velo, costringendola a trattenere poche lacrime.

«Penso di aver bisogno del bagno» confessò, per poi uscire dalla casa verso la cabina esterna, dove avrebbe potuto trovare un po' di solitudine e abbastanza acqua sufficiente da togliere il sale sgorgato sulle ciglia scure.

2.

«Non abbiamo trovato molto. Aveva iniziato a frequentare un istituto poco distante, il Saint Joseph, ma nessun insegnante poteva notare la mancanza degli alunni. Siamo a febbraio, ci sono le vacanze invernali [2], e Lars non poteva risultare assente. Nessuno ha sospettato niente, ma vedremo di avvalerci di un aiuto da parte della Politiet [3]. Per adesso, il bambino starà da una famiglia disposta ad accoglierlo. Naturalmente cercheremo di non sconvolgere del tutto le sue abitudini. Ogni passo sarà graduale, può starne certo!»

Sherlock fissò con freddezza la donna che avrebbe portato via Lars, fingendo un certa inconsapevolezza nei confronti di tutta la circostanza. Nascose tutte le sue congetture e, con l'animo a terra, limitò il cuore a una sola e semplice domanda.

«Starà bene?»

L'assistente sociale sorrise.

«Faremo tutto il possibile affinché sia felice, Mr. Holmes. Non si preoccupi!»

Gwen, intanto, prese un piccolo giubbotto e con fare materno lo infilò lungo le braccia del piccolo che, addirittura, si ribellò con qualche scossone.

«Så jeg bliver alene!»

«So che sai farlo da solo» osservò la ragazza. «Ma volevo farlo io.»

Il detective registrò con la mente l'attimo in cui la collega si prese cura del suo bambino. Quella donna proprio come Wendy, si era immedesimata nella mamma di un solo bambino sperduto, accudendolo fino all'ultimo momento nonostante la malinconia crescente. Pochi minuti e Lars Jepsen sparì per sempre dalle loro vite.

Sherlock amava il suo palazzo mentale, poiché era come una realtà parallela in cui rifugiarsi in ogni momento di difficoltà. Da anni aveva imparato questa tecnica mnemonica, così da riuscire a ricordare meglio, ma molte anche per dimenticare un passato troppo crudele. La prematura scomparsa di Barbarossa aveva squassato la sua infanzia con l'impetuosità di un terremoto. E cogliere Lars gridare per non essere separato da Gwen era stato come assistere una scossa d'assestamento; molto meno brutale, ma ancora difficile.

Per cancellare il brutto ricordo della giornata, il bruno tornò alla sua legnosità e si concentrò ancora su tutti i dati accalappiati per la soluzione del caso. Moore e Goldschimdt, rubata l'imbarcazione, si erano gettati in alto mare, ma era difficile comprendere quale fosse il punto esatto del loro nascondiglio. Ovviamente, non era impossibile passare intere giornate in acqua, poiché erano necessari i viveri e un punto d'appoggio su cui poter contare.

Sherlock strizzò gli occhi finché la sua mente non riprodusse la mappa dell'intera città. Proprio presso la casa del bambino, era rintracciabile una minuscola isola artificiale conosciuta come Middelgrunden, un ammasso di erba secca schiacciata da qualche modesta abitazione.

«Niente rende attraente un uomo quanto il pensare.»

Il detective sentì strade disgregarsi e gli oceani scivolar via dalla testa. Perciò, riaprì gli occhi e li puntò contro il muro del soggiorno, ospitante l'ombra di una donna, della Donna.

Irene Adler aveva sfruttato la notte per evadere dalla completa latitanza, nascondersi tra i turbinii di coriandoli bianchi e ritornare dal suo unico uomo.

«Molti non sono dello stesso parere. Tutt'altro» confessò Sherlock.

Irene, come una pantera, sfilò in direzione del detective, palesando il suo aspetto. Quella notte, il corpo non era fasciato da un abito elagente, né abbellito con gioielli. I tessuti erano scialbi, ma anche estremamente comodi. Solo i settori capelli scuri resero giustizia a una così raffinata bellezza.

«La conoscenza è potere. E il potere è sexy.»

«Il potere?» chiese l'uomo, freddo. «È una visione interessante. Poter decidere la morte o la vita al posto di qualcun altro, farlo soffrire o meno. C'è sempre una forte componente attrattiva nel manipolare le persone, ma questo è ciò che tu sai meglio. Ti è piaciuto essere il burattinaio, ma adesso non lo sei più. Sono io a reggere i fili, stavolta.»

La Donna sorrise.

«Non è importante se sei tu a portare avanti il gioco. E sai perché?» Mosse le braccia attorno al bruno ma con delicatezza. «Sai, c'è gente che obbedisce solo a se stessa. Si tratta di persone che hanno piena consapevolezza del potere, persone come Jim, o Smith. Poi ci sono quelli come te e il dottor Watson. Voi preferite non sfruttare le potenzialità perché siete troppo legati a un codice morale dalla dubbia esistenza. Non mi lascerai mai affondare.»

L'uomo sentì del profumo fare breccia nelle narici. Irene era intelligente, troppo intelligente per non saper come ottimizzare il significato della parole. Era capace di usare tecniche degne di un sofista e solo per ammaliare persone dalla mente acuta.

«Cosa te lo fa pensare?» chiese lui, interessato.

«Perché è il tuo codice morale a imporlo. Salvi sempre le persone che ami e tu sai di provare amore per me, anche se in un modo tutto tuo. Come puoi notare, non si tratta di manipolazione. Non più almeno.»

Sherlock notò il viso della dominatrice farsi sempre più prossimo. Le sue pupille era dilatate, ma non a causa dell'ansia e della preoccupazione; la sua bocca, priva del rosso, sembrò desiderosa di un contatto poco casto. Lei lo bramava. Proprio come un tempo.

«Non pretendo che tu ce la faccia. Solo che ci provi. Tu non puoi sempre prevedere il futuro, come io non posso sempre sopravvivere. Ma adesso siamo qui, vivi e soli. Il destino mi ha concesso una seconda possibilità. Ma non so se questo durerà. Quindi ceni con me, Sherlock?»

Il detective sentì la punta del proprio naso sfiorare quello della Adler, già in attesa di una risposta ovvia, tangibile. Però, non sentì alcun desiderio nel soddisfare ancora quell'offerta. Il suo affetto per Irene era indecifrabile, ma non era il momento di cedere a comportamenti poco pudici.

«No!» 

E il sorriso della dominatrice scomparve.

Gwen non riuscì a dormire a causa dei ricordi e di quel pomeriggio conclusosi con tanta amarezza. Si sentì come una carogna, una volta abbandonato il cucciolo. E Inutile fu il rigirarsi nel letto, mentre il sonno era ancora intento a combattere contro il senso di colpa.

Disperata, la ragazza restò con gli occhi impigliati nella finestra, nella luna opalina dentro al nero della notte. Infine, chiuse gli occhi in attesa di uno sbadiglio, ma solo fino a quando un forte cigolio la destò. Sherlock si era affacciato alla porta, con addosso un'espressione cerea.

«Sei ancora sveglio?» domandò lei.

«Vestiti e prepara la valigia!» ordinò l'uomo.

«È successo qualcosa?» La testa di lei stilò un ampia gamma di ipotesi riguardanti il caso.

«Irene Adler è in casa. È fuggita questa notte e ha bisogno di un posto in cui dormire. Tu–»

Irene.

Gwen non era mai riuscita a digerire il suono di quel nome appartenente a una donna così superba. Sicuramente non si sarebbe sacrificata per lei. In nessuno modo.

«Oh, sei completamente impazzito?» chiese. «Non mi caccerai per lasciare un posto caldo alla tua amante. Siamo a Copenaghen, nel mese di febbraio, e non ho intenzione di morire per assideramento. Fuori, in mez–»

Sherlock ascoltò quelle parole. «Non lo faccio per lei. Lo faccio per John.»

La ragazza, con ancora il broncio, sollevò il sopracciglio e divenne più attenta, per meglio capire se l'uomo stesse solo bluffando attraverso della falsa premura. La Donna era importante. Lei, al contrario, non era mai stata una priorità.

«Non mi farò abbindolare dalla retorica.»

«Irene Adler è un bersaglio, Blomst» rispose l'uomo, con apatia. «Così come lo sono tutte le persone che la circondano. Ho premesso a John che ti avrei tenuta fuori da questa storie. Ma lei è qui, adesso. Solo io posso proteggerla. Non ti chiederò di passare tutta la notte al gelo. Ti sto solo chiedendo di non essere in pericolo.»

La bionda restò sorpresa da quell'ultima affermazione, poiché non aveva letto in essa né malizia né falsità. Sherlock, forse, aveva finalmente parlato con il cuore e non con la mente. Con il petto leggero, Gwen, diede la sua risposta all'uomo con un unica mossa: si buttò sul materasso e soffocò la faccia nel cuscino in cerca del sonno tanto desiderato.

«Presumo che non hai intenzione di ascoltarmi.»

E lei non stette a sentire. Dopo aver manifestato un ampio dissenso nei riguardi della fuga, invitò Sherlock ad andare a coricarsi per meglio riassorbire le energie. Questi, tuttavia, comprese di non poter occupare un letto già preso dall'ospite che si era infiltrato nella mura. Così fu costretto a raggomitolarsi sulla poltrona del soggiorno. Il tonfo a terra, però, fu imprevedibili.

«Non avrai intenzione di dormire per terra, spero» disse Gwen, raggiunto il collega. Il botto era stato forte, troppo per essere ignorato. «E comunque mi hai spaventata. Avevi intenzione di uccidere il pavimento, schiacciandolo?»

«Oh, il pavimento se lo meritava» [4], dichiarò l'altro, sarcastico.

Qualche secondo ed entrambi si ritrovarono ai margini dello stesso letto, con sopra la pelle delle coperte lanose e la luce delle stelle. L'imbarazzo appesantì tutta l'atmosfera, costringendoli a essere due pesci fuor d'acqua, nel posto sbagliato e probabilmente anche al momento sbagliato.

Solo Gwen si diede alla lingua. «Buonanotte!»

Sherlock non rispose e si limitò a lasciar posto al silenzio utile a ogni riposo. Rimase immobile, fino a quando le palpebre si fecero pesanti. Fino a quanto sentì le coperte venir meno.

La bionda, come una bimba, tirò la lana verso di sé, lasciando il collega al freddo e all'umidità. Sherlock, a causa di ciò, grugnì leggermente e dopo, con altrettanta infantilità, tirò le coperte dal proprio lato, dando inizio alla guerra.

«Vuoi smetterla?» chiese lei, sul punto di perdere equilibrio e cadere dal materasso.

Non riuscì a comprendere come un essere così intelligente, in alcune occasioni, potesse sembrare così stupido. Mr. Holmes, in certe occasioni, era solo un bambino troppo cresciuto.

«Se, magari, non avessi iniziato.»

La donna inspirò, spazientita.

«Bambinone.»

«Pessima babysitter» rispose l'altro, cocciutamente.

La ragazza sorrise e per poco riuscì a dimenticare il dispiacere della giornata. Forse la tristezza non si sarebbe allontanata in poco tempo, ma quella buffa scena era stata benefica. Il ricordo di Lars intento a giocare fu l'unico presente e accese solo tutta la spensieratezza dei momenti passati.

«Buonanotte, Uncino!»

E il silenzio ripiombò.

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Capitolo 28
*** Solitario ***


Solitario

1.

Londra, Baker Street.

Era febbraio e il giorno non era cominciato con aurora argentata. Sui monumenti più conosciuti della capitale inglese, il blu della notte era regredito, così convertendosi in un giallo accecante. Sfumature rosse contornarono il sole, che da poco si era svegliato, inaugurando il mattino. Gradualmente le finestre di ogni edificio iniziarono a ospitare le soffuse luci degli appartamenti. La gente cominciò a riempire le strade, proprio sotto quell'insolito telo color arancia.

Persino John, frastornato dalla stanchezza, sbadigliò. Il brutto richiamo della sveglia lo aveva costretto a mettersi seduto sul letto, come per riprendere il controllo sulle proprie funzioni. Scemata la sonnolenza, ripassò il programma quotidiani: portare Rosie l'asilo nido e andare all'ambulatorio.

Si preparò in fretta e furia, prese la figlia e poi raggiunse il portone principale. L'aria al di fuori dell'abitazione era frizzante e per nulla collegabile una mattina così limpida e colorata; tuttavia, l'uomo non demorse e s'inabissò tra gli spifferi che si erano incanalati per le strade. Infine, raggiunse la costosa Bentley da settimane parcheggiata davanti al palazzo.

John la squadrò e, trattenendo il ghigno, e con la mano prese la chiave dentro la tasca dei jeans. Seppur senza permesso, sistemò Rosie nel seggiolone agganciato ai sedili posteriori, e poi si mise al volante.

«Rimanga tra me e te, intesi?» farfugliò, lanciando un'occhiata alla figlia.

La bimba si limitò a uno sguardo innocuo e un risolino. L'ex soldato, allora, fece rombare il motore. 

Raggiunto l'ambulatorio, i primi tarli cominciarono ad apparire. Sherlock da un settimane era scomparso nelle terre danesi, ma non aveva ancora lasciato un messaggio al proprio collega. Questi, perciò, dovette chiedere informazioni.

«Dannazione, Sherlock, perché non rispondi mai alle chiamate?» domandò, quando finalmente una cacofonica sequenza di bip lasciò posto alla note baritonali del collega.

In una piccola stanzetta – arredata con un lettino e altri marchingegni medici – continuò a parlare con il bruno. Nemmeno si accorse della paziente appena giunta.

«...È passata una settimana, una settimana. Non so mai se pensare al peggio. Potresti anche mandarlo un messaggio.»

John tirò un sospiro di sollievo quando il collega gli fece ben intendere di essere in salute e con la mente lucida.

«Ricordi gli accordi. Non saltare i pasti e non fare qualcosa per cui potrei prenderti a pugni.»

La donna dentro allo studio, pur sentendo quella chiamata, diede poca importanza all'uomo che era di spalle. Piuttosto si sistemò e posò la borsa.

«Niente sparatorie, Sherlock. Se è possibile...»

Il tempo trascorse e la pazienza riconobbe subito John Watson, un suo ex fidanzato lasciato tempo addietro poiché troppo rapito dall'ambiguo rapporto instaurato con il coinquilino e collega Sherlock Holmes. La loro relazione era naufragata nel peggiore modo e solo a causa di una gelosia indefettibile.

«Spero tu le abbia dato il tempo di mangiare. Il cibo rallenta i tuoi processi mentali, non di certo i suoi. E se anche fosse non ha bisogno di spremersi le meningi.»

Le parole scivolarono rapide e la conversazione ebbe presto fine. L'ex soldato, rassicuratosi, disattivò la chiamata, mise il cellulare in tasca e sistemò il camice bianco. Pur avendo appena notato quell'ombra, si girò con noncuranza e, solo quando riconobbe la donna nella della stanza, restò sbalordito.

«Janette?» chiese, fingendo di non ricordare.

«John» fece lei, alzando un sopracciglio scuro.

L'imbarazzo si impadronì di tutta la spazio, ma l'uomo accettò lo scherzo imposto dalle coincidenze.

«Ora ricordo. Be', n'è passato di tempo» disse l'uomo.

«Oh sì, tranne che per un piccolo incidente» rispose l'altra, mostrando una cartella da esaminare. «Ho un piccolo problema alla mano...»

La donna, ancora inviperita dal ricordo di quella relazione, non lasciò sfuggire quella punta di acidume in ogni parola. John si accorse dell'astio, ma non si scompose.

«Sono delle lastre? Fammi dare un occhiata!» Tese il braccio, evitando il contatto visivo con la donna. Si limitò a prendere la cartella e a esaminarne il contenuto.

«Congratulazioni, Janette!» esclamò con disinteresse.

«Per cosa?» chiese la corvina, dubbiosa.

Quasi inconsciamente gettò gli occhi sulla mano, spoglia di accessori se non di un piccolo solitario agganciato a un filo argenteo e brillante. Il diamante raccoglieva la luce e, nel suo piccolo, la rifletteva in tante pagliuzze sparse intorno al dito. «Oh, ho capito, sì. Strano che proprio tu l'abbia notato. Forse, quando sei da solo ti concentri meglio.»

John girò le pupille e solo in seguito riuscì a convogliare tutti i proprio sforzi mentali nella comprensione delle lastre. Solo dopo qualche minuto, notò una micro-frattura sul metacarpo.

«È solo una piccola frattura. Non ha bisogno di ingessature. Basterà qualche giorno di riposo e degli antidolorifici. Nient'altro» spiegò, scollando la lastra dallo schermo luminoso.

Janette sorrise, ma solo per falso compiacimento. Osservò ancora la mano fratturata, ma l'attenzione fu tutta rapita dal gioiello al proprio anulare. Era contenta di essere riuscita a conquistare la persona giusta e, se non fosse finita con John, le cose forse sarebbero state meno liete.

«Bene. Peggio di una contusione, ma niente per cui lamentarmi. Non sopporto le ingessature» dichiarò. «E tu, tutto bene?»

«E io cosa?» Il medico mostrò una smorfia.

«Era solo un modo per sapere come stai. Sai, ho saputo per sbaglio che hai una figlia. È grandioso.»

«Ah, sì certo.» John fece rimbalzare il viso da parte a parte e mosse le braccia con fare impacciato. Non amava quel genere di chiacchierate. «Be', è recente come cosa, a essere onesto. Non so come tu lo sappia.»

«Ho origliato la chiamata. Non di proposito...»

«Come, scusa?» 

Janette prese la cartella. «Te l'ho detto. Ho sentito la chiamata, tu e il tuo coinquilino. Insomma, era abbastanza chiaro che prima o poi... Sono felice che tu abbia finalmente accanto la persona giusta. E poi con una bambina.» 

L'ex soldato, a primo acchito, non riuscì a dar senso alle parole della paziente. Nessun filo logico riuscì a collegare tutte la frasi appena ricevute e, solo dopo la reiterazione di qualche ricordo, riuscì a a capire.

«Oh, tu pensi che...» Rise spasmodicamente e, preso dalla tensione, cominciò a mettere insieme le parole per rispondere. «Oh no, io e Sherlock. No, io non sono gay. Non sono gay!»

Alzò il tono, come per confermare con decisione la propria posizione. Era stanco dei tanti fraintendimenti, di tutte quelle sciocche supposizioni. Lui e Sherlock non erano una coppia, né lo sarebbero mai stati.

«Oh, certo» farfugliò Janette, sarcasticamente. «Non hai bisogno di nasconderti. Il passato è il passato. Non ce l'ho con te.»

Tuttavia, il medico non resse più.

«Si chiama Gwen e non è mia figlia. È complicato.»

Il bisogno di confessare delle notti passate con una donna premette sulla sua lingua. Pure lui si era abbandonato migliori compagnie e di certo non con il suo migliore amico. La donna sorrise forzatamente, in segno di poca accettazione nei confronti di quella affermazione così impacciata. Fece finta di ingoiare il rospo, per poi dire: 

«Va bene, John!»

John e Gwen. John, Gwen e Sherlock.

Lei ci era già passata, dopotutto.

2.

Era giunta la notte e Copenaghen si era fatta tutta blu e dorata. Le luci aranciate sulle stradine avevano gettato chiazze luminose nelle acque del canale. Proprio lì, macule auree continuavano a dilatarsi, disgregandosi e amalgamandosi nel freddo mare del nord. Lungo quegli edifici immacolati, una donna percorse parte del proprio cammino.

Gwen sentì addosso gli effetti collaterali dell'alcol, perfetto nel riscaldare le membra, alleggerire il peso della testa e far tremolare ogni passi. In mezzo ai turisti, arrancò fino a raggiungere il Hans Tvsens Park, cercando di trattenere un buona fluidità di pensiero. Purtroppo, ogni senso cominciò pian piano a perdere di consistenza; l'esofago le bruciò e le immagini sembrarono farsi sempre più farraginose.

«Oh!» esclamò, quando il cranio cominciò a dolere.

Non era stata una buona idea ingerire quel distillato solo per un po' di gelo da sopperire, ma il richiamo del dolce nettare, era stato capace di corrompere ogni disciplina. Inoltre, inconsciamente, bere era un modo per impedire ai ricordi di riaffiorare e sconquassare le giornate.

Gwen scosse la testa e ottenne solo una fitta peggiore e un più accentuato senso di nausea. Si maledisse per la pessima scelta messa in atto e, in seguito, si appoggiò al muro più prossima per non oscillare come un pendolo impazzito.

«John» pronunciò, senza nemmeno rendersene conto.

Lo stato d'euforia non era riuscito a smorzare completamente la sua lucidità e le gambe si trascinarono all'interno del parco per infine raggiungere una panchina spolverata di neve.

Solo pochi minuti, erano sufficienti solo pochi minuti, prima di riacquistare le forze e continuare fino alla meta. Bastava lasciare che il senso di nausea si affievolisse.

«Sei così stupida...» 

Cantilenando frasi, Gwen si raggomitolò in quel parco colonizzato solo da leggiadri cristalli ghiacciati. Il dolore allo stomaco era mutato in un fastidio sopportabile e lei, infreddolita e stanca, rimase ferma fino a quando uno scricchiolio di passi batté sulla quiete.

Il rumore anticipò la venuta di scure ombre. Si trattava di due adulti, prestanti e dal massiccio fisico prestante.

«Ehi, guarda un po' lì» farfugliò uno dei due.

La bionda staccò il viso dalle rotule e, lottando contro la sonnolenza e cercò di identificare quei due sconosciuti. Una testa color grano e un'altra più scura emersero dalla pioggia di fiocchi. Incredibilmente, erano proprio due turisti inglesi.

«Ehi, stai bene?» chiese il più alto. La sua chiara chioma fu spenta dalla notte, ma i suoi occhi risultarono accesi dall'alone luminoso attorno. «Ti serve aiuto?»

La mascella squadrata si mosse, enunciando parole zuppe di premura e Gwen costrinse la palpebre a rimanere spalancate.

«No, grazie. Mi sento meglio.»

Nonostante la sbronza, riconobbe l'accento Cockney. Non si trattava solo di connazionali, ma di abitanti dall'East End.

«Sei inglese, quindi.» Il secondo sconosciuto cominciò a parlare, ma senza riuscire a finire l'affermazione. «È incoraggiante, lo sai. Quando un danese parla si comprendono metà delle sue parole. Lingua strana...»

«Sta' zitto, Jimmy!» Il biondo allora ricominciò a dare fiato alle parole e, nel frattempo, si mise ad analizzare giovane con la stessa attenzione di un medico intento a fare diagnosi. «Sicura? Non hai una bella cera.»

«Molto sicura» barbugliò la donna.

L'alito dell'uomo – appesantito dall'alcol – stuzzicò le sue narici e così incrementò la nascita di altri conati.

«Possiamo darti qualcosa per la sbronza. Medicine o qualcos'altro.» Il bruno si mostrò gentile.

Gwen era debilitata a casa del distillato assorbito dal sangue, ma era riuscita a captare un sensazione sinistra in quella circostanza: i panni del samaritano addosso a quei due erano troppo stretti.

«Non ho intenzione di accattare niente da nessuno, men che meno da voi» rispose lei con il mal di testa e la prima fiammella di rabbia nel petto.

«Paul, è più testarda di quello che immaginavamo.»

«Oh sì, Jimmy. Molto testarda, ma noi non abbiamo scelta.»

La ragazza, sempre più schiacciata dai sintomi, si chiuse in un guscio di silenzio. Niente grida e niente azioni per porre fine alle sfortune che erano piombate giù come le tessere di un domino.

«Siamo persone educate» continuò Paul, serio. «Abbiamo affittato un appartamento per qualche settimana e si trova lì, alla fine del parco. È caldo e spazioso. Qui fa troppo freddo, ti consiglierei di seguirci senza lamentarti. Non abbiamo delle brutte intenzioni. Siamo qui per farti stare meglio.»

«E se rifiutassi?» Gwen lo fulminò con gli occhi.

«Forse, non hai capito. Qui fa freddo, e tu non sei nelle condizioni di muoverti. Sei sola, in un paese straniero. Fossi in te accetterei l'ospitalità.»

Non sono straniera. Non qui...

«Ha detto che rifiuta.»

Corde profonde e familiari squarciarono l'atmosfera, risollevando le sorti della situazione. Sherlock, riemerso dall'oscurità degli alberi e, ricoprendo il ruolo di giustiziere, avanzò sul morbido manto. I fiocchi danzarono con il vento, sbattendo sul suo cappotto scuro, sul suo viso spigoloso e la folta capigliatura scura.

«Ehi... chiunque tu sia, non ti intromettere!» fece il biondo, minaccioso.

«Ma l'ho già fatto!» specificò il bruno.

Gwen, ancora presa dalle emozioni, riuscì solo a respirare con più tranquillità. Fino a poco prima, si era sentita spinta in una gabbia ma, in quel momento, tutta la rabbia si era sciolta per lasciare posto a quel dannatissimo stato di sonnolenza. La presenza di Sherlock, invero, le aveva tolto ogni tensione.

«Sta bene, Miss?» chiese il detective. 

La ragazza non poté fare a meno di notare, da parte del collega, un linguaggio insolitamente formale.

«Oh sì, sì» ripeté, reggendo il gioco.

«Bene» sentenziò Sherlock dinnanzi ai malcapitati. «Cosa abbiamo qui? L'accento dell'East End ereditato dal padre, a giudicare dalla parlata non-rocatica e dalla glottalizzazione. È un dialetto molto conosciuto nel ceto medio-basso e appartiene alla zona limitrofa alla foce del Tamigi, un area portuale. Non dal Bermondsey, troppo abbiente, ma dal Millwall o–»

«Chi sei?» chiese Paul.

Il bruno piegò il labbro in un sorriso ricco di soddisfazione e, in seguito, mise la mano dentro il cappotto per tirare fuori un documento preso appositamente per chissà quale evenienza.

«Ispettore Lestrade, di Scotland Yard» recitò, con fare fermo. «Stavo dicendo, proveniente dal Millwall. Figlio di un addetto al porto, uno non molto importante. Forse un gruista o un carrellista. Suo padre guadagna abbastanza da concederle una vacanza qui, tuttavia non può permettersi un albergo. Quanto a lei, lavora al porto saltuariamente e nemmeno con piacere. Be', ho informazioni sufficienti, adesso. Cercherò di aprire un'inchiesta, il prima possibile. Sia paziente!»

«Ehi Ehi Ehi» ripeté il biondo, incalzante. La mano destra si infilò nella tasca interna del giubbotto e prese un mazzo di banconote. «Non siamo criminali o cosa, ma turisti. Ci hanno pagato. Ci hanno pagato per riportarla a Londra, non per farle del male. Mi creda.»

Gwen restò interdetta.

«Sia più preciso» comandò Sherlock.

«Una donna, ci ha pagato per tenerla d'occhio. E poi ci ha detto di portarla a Londra. Ma senza farle niente. Ci ha detto che era per questioni di sicurezza.»

«Be', è un tono molto convincente il suo» evidenziò Sherlock, corrucciando la fronte. «Chi l'ha pagata non sarà molto contento, ma nemmeno i miei colleghi scherzano. Spero cominci a capirlo.»

Parola dopo parola, i due escogitarono una scusa per scappare e impedire che tutto degenerasse. Il detective rimase fermo, in mezzo al bianco e imperterrito fioccare. Infine, inspirò, come per trattenere l'impulso di tallonare che quei due.

La ragazza, ancora contratta nel dolore, abbandonò la rabbia e la paura. Si limitò a ricambiare l'occhiata del bruno e a farfugliare un ingenuo «Grazie!»

«E di cosa? La loro intenzione era quella di portarti al sicuro. Quello che ti trattiene in questo inferno, sono io.»

Rimasero immobili, come le statue di bronzo, mimetizzandosi con l'ambiente attorno. Lei candida era come la neve raggrumatasi nelle strade e lui nero come le ombre della lunga notte danese.

«Non avresti dovuto seguirmi» la sgridò Sherlock, nervoso. «Non quando cerco di stanare un criminale. È troppo pericoloso e, se ti succedesse qualcosa di male, John non me lo perdonerebbe.»

Gwen abbassò lo sguardo, come un criminale dopo la sentenza. «Mi dispiace molto. Non pensavo a quello che stavo facendo. È che preferivo avere accanto te e non quella donna. Non mi piace per niente. È così...»

«È Irene Adler. Il suo nome non porta mai nulla di buono. E tu non sei nei suoi piani, in base a quello che è appena successo.»

«Per questo ti ho seguito, ma dopo...»

«Ho fatto in modo che perdessi le mie tracce.»

La ragazza alzò il viso, catturando con il naso i fiocchi.

«Ma, adesso, tu sei qui» constatò, sforzando la ragione. «Sei stato tu, dopo, a seguire me. Perché lo hai fatto?»

Sherlock non rispose, ma accolse la quiete. Raggiunse la giovane e subito dopo s'inginocchiò per meglio prenderle il braccio destro. In un attimo, Gwen si ritrovò appiccicata alla busto del suo inaspettato amico, un busto molto utile come appoggio per il cammino rimanente.

Decollarono le reminiscenza su John, pronto a farle da bastone, e un sorriso apparve. Sherlock non era delicato come il suo collega, era irruento nei suoi gesti. Inoltre, la spiccata altezza lo rendeva incredibilmente scomodo.

«Sei troppo alto» annunciò la giovane.

«Stiamo ancora continuando a bere?» ironizzò il bruno. «Sto tenendo il conto su di una mano, ma se continui così userò anche le altre cinque dita. Mi auguro sia un problema passeggero, John ha già sua sorella a cui pensare. Lo faresti esasperare.»

La bionda sorrise, ma molto amaramente.

«Che predica senza senso. Hai mai girato per le strade di Londra nel fine-settimana. Sono piene di gente sbronza dalle sei.»

Sherlock, sentendo la pressione della testa della donna sulla parte inferiore del torace, gettò l'occhio in quella direzione e notò fili argentati impigliati nel tessuto del cappotto. Lei, in quell'istante, era molto più rilassata e teneva la pelle a contatto con il soprabito, come una bambina in cerca di conforto.

«Tu non sei come gli altri.»

L'uomo parlò e la ragazza restò sbalordita da tale dichiarazione. Tutti erano disposti a scoprire in lei fragilità e limpidezza, anche a costo di fraintendere qualsiasi cosa.

«Tu non sei come gli altri? Ti sembro davvero così... pura?» chiese lei. «Tu sei Uncino, il perfido, freddo e insensibile Uncino. Mentre io sono solo Wendy, la mamma. Quella che grida di prendere la medicina e racconta le storie.» Una pausa occupò il tempo e i suoi occhi cominciarono a luccicare per la lacrime. «Ma che ne sai tu delle mie storie?»

Sherlock passeggiò per la strada deserta, fingendo poco interesse per le parole della donna. In realtà, qualcosa all'interno del proprio petto sembrò muoversi più velocemente, amplificando uno strano senso di disagio.

«Sono orribili le mie storie, Sherlock» confessò Gwen.

Sentì un peso sulle spalle e, più teneva quella storia dentro la sua testa, più il dolore le mangiava il cuore. Quella confessione trattenuta era come bile, pronta a corrodere tutta ciò che di buono aveva nell'anima. Forse, era tempo di espellerla.

«C'era una donna di nome Gerda Høeg, che è stata costretta a raggiungere l'ospedale dopo un incidente nel centro commerciale di Sheffield. Era solo un piccolo incidente, ma lei era al nono mese. È stata costretta a partorire qualche ora dopo ma le cose non sono andate per il meglio. Non ha resistito molto.»

Le parole s'introdussero nell'orecchio di Sherlock, raggiungendo subito mente e cuore. Gwen, aiutata dall'alcol, aveva dato fiato a parole sempre taciute.

«È stato molto difficile per i familiari accettare una morte del genere, ma c'era un bambina a cui badare. Il padre è stato straordinario. Non gli ha mai fatto pesare nulla, ma le cose sono peggiorate con il tempo. Era una bambina troppo sensibile per tutti, per sua sorella. Scarlett non mi ha mai perdonata per quello che ho fatto. Ha cercato di fingere fino a quando ha potuto.»

La donna tirò su col naso. Le lacrime cominciarono a rigarle le guance candide e lei stessa fu costretta ad asciugarle premendo le gote contro il bel cappotto del suo accompagnatore.

«L'adolescenza è stata la parte peggiore. Troppi attacchi di panico, troppo di tutto. Era come essere costantemente congelati» confessò, afflitta. «Sono iniziate le ricerche per un buon psichiatra e l'assunzione dei farmaci. Gli effetti collaterali erano odiosi. Sono anche stata selezionata per partecipare a una diagnosi sperimentale. Ero una ragazzina ma ero già capace di distinguere una tomografia assiale computerizzata da una tomogrofia a emissone positronica. Il neuropsicologo scoprì che ero capace di amplificare le emozioni. Ero una specie di specchio deformante...»

Le sue labbra tremarono, ma non per il freddo.

«Sempre la stessa storia fino al mese di dicembre. Mio padre è morto per un ischemia cerebrale. Era diabetico. Mia sorella non ha sopportato tutto questo. È scomparsa per mesi. Era depressa, troppo depressa per occuparsi del suo monolocale, mangiare... o guidare. Il suo incidente è stata un'altra tragedia.»

I due si trascinarono per qualche metro.

«Quanto alla bambina difettosa... Be', lei ha pianto per mesi, fino a consumarsi gli occhi. Ma dopo le lacrime sono finite... e non solo quelle. Niente panico, niente di niente. Le mie ansie si erano alleggerite. È stata la mia cura, Sherlock. La cosa sbagliata ma efficace. Erano loro la mia malattia.»

Sherlock perse un battito nell'ascoltare tutto quel racconto. Non si chiese quante anomalie erano presenti in quei due decessi consumatasi in un lasso di tempo così stretto. Tutt'altro, smise di essere un Holmes e continuò a guardare negli occhi di Gwen, in cerca dell'anima.

«Cosa c'è di sbagliato in me?» soffiò la bocca di lei.

«Niente. È l'uomo a essere sempre sbagliato.»

La donna, ferma quanto il proprio sostegno, ricambiò lo sguardo. Cercò nell'accompagnatore qualcosa oltre il cinismo.

«Se ci pensi, anche Wendy è un'egoista. E Uncino è una brutta persona solo perché ha perso la sua mano. Era parte di lui e d'un tratto ha smesso di esistere. Chi era la tua mano, Sherlock?»

Il detective si sentì paralizzato da quell'affermazione, dal momento che Gwen aveva già capito tutto e senza nemmeno il bisogno di un resoconto dettagliato. Si era limitata ad attirare verso di sé il pagamento per la confessione appena fatta. Il bruno, allora, non riuscì a negare, ma rimase in silenzio con addosso la tensione e l'incombere dei ricordi.

«Era Barbarossa!» esclamò lei, traducendo il silenzio.

«Sì. È così»

Fu questione di un solo attimo e l'uomo sentì le braccia della ragazza cingerlo con determinazione. Non riuscì a capire il perché, ma dopo comprese il tutto. Preso da un raro momento d'umanità, ricambiò con un solo braccio la stretta. Con gentilezza, trascinò la mano attorno alla schiena dell'altra ed eseguì una giusta pressione. Il suo naso fiutò il odore, il suo petto invece ospitò del sale fresco.

Non seppe in che direzione guardare e, di conseguenza, distrasse gli occhi puntandoli in alto, sulle stelle splendenti come tante lucciole. In seguito, puntò gli occhi in basso, sulla vetrina di un negozio già chiuso da ore. Il riflesso di questa dipinse due figure, una bianca e l'altra nera, strette in un abbraccio affettuoso, un segno di pura complicità. Lui e Gwen, sotto l'alone di un lampione, erano come due pezzi degli scacchi, l'alfiere nero e la regina bianca. Pallidi e sfaccettati quanto un diamante e duri quanto un minerale. Due solitari sporchi e abbagliati dalle finta luce di tutti gli altri.

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Capitolo 29
*** Delirium ***


Delirium

Copenaghen, Nørrebro.

Gerda Høeg se ne era andata soffiando l'ultimo respiro sotto l'alone malinconico dell'etero biancheggiare etereo di astri morenti. Di lei era rimasto niente: il suo aspetto materiale si era dissolto in pochi giorni e le sue parole si erano per sempre spente assieme al baluginare dell'aurora. Tutto si era fatto nullo, inconsistente quanto un pensiero e lontano quanto un ricordo. E lei, difatti, era mutata in pensieri e ricordi nella mente delle persone amate; soprattuto in quella delle due figlie ancora troppo immature per affrontare l'assenza del genitore.

Sia Scarlett che Gwen erano tali e quali alla madre; con il correre degli anni erano sbocciate con gli stessi angelici tratti nordici. Le guance tonde e la lunga chioma robusta si erano amalgamate in un connubio particolarmente grazioso, tanto delicato quanto esotico. Il sangue, sicuramente, non era riuscito a mentire e non si era posto freni nel far sbocciare due rose carnose, ma dalle sfumature differenti.

Tutto dalla madre...

Ricordando le parole del suo farmand, Gwen si rimirò nello specchio del bagno. La ricrescita, leggermente più scura, era iniziata a comparire pian piano, esacerbando le condizioni della pelle che, da ore, era stata depauperata da quel dolce tono rosato e trasformata in un pallore quasi mortale.

Le ciocche lanose si mostrarono bruciate dalle continue decolorazioni attuate da circa due anni. I capelli erano stati cambiati a causa di una strana forma di protesta; per cancellare un po' della somiglianza con la sorella maggiore. Non era mai facile lasciar riaffiorare la figura dell'arcigna Scarlett allo specchio, ogni mattina e ogni sera. 

Le sorelle Blomst erano quasi del tutto identiche e la minore si era presto stancata di fare i conti con quell'immagine intrappolata nelle lastre lucide di qualsiasi luogo. Deturpare la propria testa con una pettinatura si era mostrata la migliore scelta, ma solo per certi aspetti. Cambiare era stato il miglior modo per cancellare Scarlett. Ma anche il peggiore per cancellare quella madre mai conosciuta.

«Solo un cadavere. Sembro un cadavere» sussurrò la ragazza a se stessa, quasi colpevolizzandosi per quella carnagione così chiara e funerea. Il sole sfortunatamente non le aveva mai regalato abbronzature, ma dolorosi arrossamenti. [1]

Due dita magre e ceree si sollevarono fino a palpare le scure occhiaie al di sotto delle iridi color carbone. Il distillato aveva prosciugato tutta la buona fase del sonno, lasciandole un riposo poco rigenerante e privo di sogni. Tuttavia, non era riuscito a cancellare nemmeno un singolo ricordo della giornata precedente.

Gwen sapeva di non aver dato il peggio di sé: non aveva urlato, ma aveva sciolto la lingua, permettendo alla bocca di sciorinare dettagli poco piacevoli su un passato ancora troppo amaro; aveva sfruttato il detective di Baker Street come un amico conosciuto in tempi lontani.

Riportare le lancette indietro era impossibile, ma ancora persisteva quella piacevole sensazione di intimità cresciuta con così poco preavviso. Parlare con il bruno senza mezzi termini e disseppellire il pezzo oscuro di una scialba esistenza era stato un atto meravigliosamente catartico.

Poteva andare peggio.

Con timidezza, Gwen cercò con i polpastrelli il punto in cui Sherlock aveva impresso il suo tocco. L'abbraccio, che ambedue si erano scambiati, si era marchiato sulla pelle, lasciando come un tocco fantasma. Quell'uomo non era di certo adatto alle manifestazioni fisiche d'affetto e, perciò, quel gesto era stato singolare.

Ti ha abbracciata.

Un sorriso tirò le labbra della ragazza, contenta di aver diroccato la muraglia di Holmes, un uomo e allo stesso tempo un bambino pieno di insicurezze. I sentimenti in lui non erano stati ripudiati a causa dell'arroganza, ma di ben altro.

La ragazza tenne per sé quelle considerazioni e uscì dal bagno con ancora la testa dolorante, ma quando il soggiorno rivelò la figura inconfondibile di Irene Adler, percepì il proprio volto corrugarsi. La Donna, seduta sul sofà con la stessa grazia di una sofisticata madame, fissò la preda con l'occhio affilato.

«L'intelligenza emotiva è sopravvalutata, non credi?» disse, con la malizia nel cuore e nella bocca color rosso sangue.

Lentamente accavallò le gambe con fare provocante e, nonostante gli abiti fossero tutt'altro che seducenti e, continuò a sfruttare i propri modi da donna ammaliatrice nei confronti di chiunque volesse mettere in soggezione.

«Ne esistono di molte, ho sentito. Conoscevo un medico, una volta. Uno psichiatria. Diceva che esistono molti tipi di intelligenza. C'è chi sa ingannare con le parole, chi sa muovere un corpo meglio degli altri. Esistono le menti analitiche e quelle introspettive. Ma qual è il senso dell'intelligenza emotiva? Essere volubili, soffrire. Esporsi senza nemmeno volerlo. Cosa c'è di brillante in questo?»

Gwen ascoltò quella bocca e il suo animo ne uscì rabbuiato.

«Anche lei sa come leggere le persone» disse «Come?»

Irene sorrise, schernendola.

«Non è importante il come. È importante scopo! Comprendo molto di più, adesso. Sherlock in passato si è divertito a sfruttare ciò che ho provato e solo per punirmi. Per un solo momento ho creduto di non riuscire ad analizzare un uomo come lui. Non del tutto almeno. E poi ecco che compare dal nulla una come te. Mi sono posta le giuste domande e sono riuscita a trovare il Santo Graal. È stato commovente conoscere Sherlock nei suoi momenti di vulnerabilità. Mi è sembrato così comune. Fragile...»

La bionda deglutì, leggendo nella Donna una forte felicità. Irene li aveva spiati per tutto quel tempo, fugacemente. Fu ancora oscuro il come tutto fosse successo. L'immagine dei due inglesi in cerca di compagnia, allora, tornò, spiattellando la risposta.

«Erano le tue spie. Lavoravano per te. I due ragazzi dell'East End. Non è così?»

«Beccata!» soffiò Irene, alzando le mani. [2]

Gwen collegò gli eventi a delle motivazione improvvisate.

«Volevi liberarti di me.»

«Liberarmi di te. No, casa. Solo riportarti a casa» spiegò la Donna, in vena di chiarificazioni. «Sherlock non ha bisogno di te, adesso. Ha bisogno di tempo. E tu glielo stai togliendo.»

Il profondo tono della Adler divenne molto più aggressivo, intimidatorio e la ragazza, sentendo addosso la bellicosità delle parole, stette zitta. Impassibile. Irene non puntava a un discorso sarcastico, ma aveva ceduto a toni minacciosi.

La giovane ripensò alla cara Sirenetta e al come tutto era iniziato. Forse Irene, come la sfortunata creatura dei mari, non era stata ricambiata dal suo amore e aveva gettato le sue frustrazioni su di una capro espiatorio.

«Tu sei gelosa.»

Lo sguardo dell'altra si fece più acido.

«E di cosa, esattamente?» ironizzò la Donna.

Si appoggiò allo schienale, rilassando la schiena e ignorando la verità emessa da Miss Blomst. Impossibile fu rettificare quella frase, poiché troppo amaro era l'amore percepito per Sherlock Holmes, l'irraggiungibile. Tanti erano stati i tentativi, ma lui si era fatto il tassello mancante, l'unico pezzo della collezione.

«Dimmi di cosa?» ripeté Miss Adler, dispiaciuta. «Lui non è interessato alle persone come me. E probabilmente nemmeno a quelle come te. Giusto?»

La ragazza tenne strette le braccia al petto, cercando di proteggersi.

«Non ama molto chi assomiglia a noi» continuò la Donna, pungente. «Ha sempre preferito un altro genere di compagnia. È come me, del resto. Lui e il suo soldatino sono una coppia molto affiatata. Sherlock è molto bravo a nascondere le sue emozioni. Le soffoca. Lo fa anche quando è costretto a proteggere il nuovo giocattolino dell'uomo che adora.»

Irene ritornò a seminare zizzania, poiché non aveva altro modo per allontanare l'altra. Gwen, con i proprio modi, era diventata fonte d'attrazione. Per questo, era utile fare qualcosa prima che il cuore di Sherlock si facesse troppo affollato.

«È molto deprimente, ma tu devi averlo già capito, non è così?» domandò la dominatrice. «Tu devi per forza averlo capito. A cosa diavolo serve il tuo super-potere, altrimenti?»

Blackout.

Il cervello della giovane si congelò istantaneamente e non riuscì più ad assorbire alcuna sensazione. Le parole di Irene si erano catapultate nella sua cognizione, contaminando ogni funzione, ogni sinapsi, ogni singola attività cerebrale. Non c'era niente che la potesse destare da quello stato di stasi.

Le spalle si scontrarono contro il muro e la mente funzionò correttamente solo dopo qualche minuto. Nessun parola fu emessa; era meglio impedire a quelle sensazioni di emergere dal buio e lambire la luce.

Finalmente, fu chiaro il perché dei comportamenti di Sherlock, il quale era geloso e si era fatto prendere dalla paura nata a causa della relazione con John. Fin dal proprio arrivo, lei non aveva fatto altro che intralciare le indagini, minacciare il suo stato psicologico e allontanarlo dal suo migliore amico.

Lui ha fatto bene a odiarmi...

La giovane trattenne le lacrime e si morse il labbro. La sua testa minacciò di esplodere per le troppe informazioni ottenute e codificate in poco tempo. Il cuore invece ospitò un piccolo squarcio inferto dalla tanta umiliazione.

Sono stata così cieca. Come ho potuto lasciare tanti cocci per strada? Come ho fatto a non intuirlo?

«Hai perso la lingua?» chiese Miss Adler a quella bambina con gli occhi grandi e il vizio dell'ingenuità.

Spezzare giovani anime era davvero semplice per chi, come lei, si era dilettata nel dominare ogni genere di persona.

Gwen scosse la testa, fingendo dissenso, ma senza essere sicura. La vergogna la vestì come un mantello, spingendola a mutare in una creatura refrattaria. Sgusciò fuori il desiderio di fuggire, raggiungere Sherlock per gridargli «Scusa! Scusami, tanto!», ma mancò la forza. Di conseguenza, la ragazza ritrasse le lacrime e fissò la faccia compiaciuta della Donna che, nel corso di un secondo cambiò, facendosi attornia.

Gwen non diede alcuna spiegazione a ciò e restò ferma alle proprie considerazioni, fino a quando un dolore lancinante le percosse tutta la testa. In breve, si ritrovò a terra e con le gote schiacciate contro la moquette. Non ebbe nemmeno il tempo di urlare, poiché i sensi l'avevano già abbandonata, lasciandola come un corpo senz'anima.

2.

Gwen era abituata a percepire le emozioni altrui, ma ogni esperienza era sempre differente, inedita. Nei momenti di tristezza era più semplice elaborare qualsiasi sentimento negativo; invece nei momenti di gioia la tristezza era assimilata come leggermente attutita. L'angoscia, l'ansia e la paura erano le emozioni più facili da amplificare. La gioia era solita passare quasi di sottecchi, tanto era fugace. L'amore era ancora peggio dacché non era quasi mai distinguibile dal resto.

«L'amore non è un sentimento, ma un interesse e un intenzione» era sempre stato detto nell'ambiente accademico e, in fondo, come concetto era terribilmente reale. L'amore era confondibile con la felicità, con il dolore o il risentimento. Non era assolutamente classificabile come una singola emozione.

L'amore è molto di più...

Se solo Gwen avesse saputo come riflettere amore da parte degli altri – e non solo inutili infatuazioni – avrebbe avuto una vita molto più dolce. Sfortunatamente, la sua mente aveva una buona predisposizione nei riguardi di tutto ciò che era negativo e quasi mai si dilettava nello sfiorare belle sensazioni.

Questi pensieri si rimestarono nella testa della giovane, che cominciò pian piano a riacquistare coscienza; espulse i rimasugli dei precedenti ragionamenti, per poi concentrarsi sull'ambiente umido in cui si era stata rinchiusa.

Del legno oscillante costituiva interamente quel luogo buio, lercio e dall'odore acre. Si trattava, molto probabilmente, della stiva di un'imbarcazione media, perfetta nel rinchiudere due donne. Irene, con un vistosa ferita alla testa, scosse il corpo con la stessa aggressività di una pantera e, a ogni singolo movimento, le catene cantarono con voce stridente. Entrambe, legate come bestie, si ritrovarono sole e indifese.

«Oh no, no» piagnucolò la bionda, realizzando ciò che effettivamente era successo. Le avevano prese e poi portate lontano, sfruttando una lurida imbarcazione, o meglio il peschereccio di Jørgen Jepsen.

L'immagine del piccolo Lars fu seguita da quella di un detective pirata sempre più docile ed entusiasta. La paura intanto crebbe a causa dalla situazione incresciosa.

«No, no...»

«Io direi di sì» disse la Donna.

Dopo qualche minuto anche Gwen cominciò a sbattere le catene contro il legno, ma senza successo. Era stata legata a un anello arrugginito delle manette dalla misura alquanto larga.

«Non ti aiuterà a scappare. Ti lusserai solo un muscolo, così.» La bionda rimproverò Miss Adler, illuminandola sul come fosse inutile tentare una fuga con un metodi sciocchi.

«Il legno è marcio. Prima o poi si spezzerà.»

«Ma potrebbero sentirci» evidenziò la giovane, spaventata dall'idea dei rapitori.

Stanca del pericolo, sospirò e poi analizzò le proprie condizioni. Le energie si erano esaurite ed era scemata anche la tensione. Quando anche la dominatrici si calmò, la situazione sembrò mutare e farsi meno angosciante.

«Non doveva andare così» ammise Gwen, lasciandosi cullare dalle onde.

«Con lui va sempre così. Rapimenti, omicidi, fughe. Sono questo genere di cose che lo fanno sentire vivo. Non puoi separarlo dai suoi passatempo preferiti.» Irene la corresse.

Convivere con Sherlock era un po' come stare sulle montagne russe, su di una una continua altalena di eventi. Nessun altro era capace di narcotizzare la noia con missioni sempre più complesse e respiri mozzati. Eppure Miss Blomst non si era ancora abituata a quel modo di campare.

«Dov'è adesso? Avrebbe dovuto proteggerti?»

«Molto più vicino di quanto pensi» confessò Irene.

«Come puoi dirlo?»

«Perché è sempre stato così.» 

Restarono per molto a contatto con il legno umido, fino a quando il battito dei passi misurò il tempo con un precisione prossima a quella di un metronomo. Presto, Adam Moore spiattellò la porta da un lato, permettendo l'ingresso di una luce dorata, ma poco tiepida.

«Irene Adler» pronunciò l'uomo.

Gwen, ammutolita e con il cuore impazzito, analizzò il loro rapitore, un uomo caucasico, tozzo, basso e senza capelli; quei duri tratti facciali ben erano lo specchio di tutta l'impertinenza di una certa mentalità americana.

«Adam» sussurrò Irene con voce melliflua quanto lo sciroppo d'acero.

«Ci rivediamo, finalmente» disse l'altro.

«Per l'ultima volta.»

Gwen, presa da un attacco di adrenalina, spinse le mani fuori dalle manette. Fortunatamente, riuscì a far scivolare le dita dal metallo. Lo sbattere delle catene sorprese il nemico che, d'istinto si girò contro la seconda preda. La bionda sospese il respiro e tenne le mani libere dietro la schiena con l'intento di non creare alcun allarme.

«Oh, spero le catene non ti diano così fastidio, cara» recitò Adam. «Be', potrei allentarle se ti fanno male. Non sono inglese, ma conosco la buona educazione. Purtroppo ho come il presentimento che ne approfitteresti e non ho intenzione di uccidere tutte e due lo stesso giorno.»

Moore si voltò nuovamente verso Irene, spiegando il perché avrebbe preferito risparmiare l'altro ostaggio.

«Un inglese vivo può diventare un ottimo guadagno. Un inglese morto, invece, rimane un inglese morto. Il governo britannico è molto legato ai suoi cittadini.» Fece un cenno in direzione della ragazza. «Soprattutto a quelle come lei. Fresche e piene di speranza. Certe facce stanno sempre bene sulle prime pagine di un giornale. Non è così, Irene?»

La dominatrice accartocciò il volto in un'espressione di rabbia, ma subito dopo lo distese per paura, proprio nel momento in cui la canna di una pistola spinse contro la sua fronte.

«Non avresti dovuto farci licenziare!» Moore la condannò.

la Donna strizzò gli occhi e non spiaccicò parola. Restò ferma, come in attesa del proiettile, fino a quando un brusco rumore la costrinse a spalancare le palpebre. L'ex agente era disteso a terra, con l'arma lontana dalla mano e gli occhi chiusi per il colpo in testa. Proprio accanto a lui Gwen, con in mano un asse di legno macchiata di rosso, respirò affannosamente per il brusco gesto appena compiuto.

Irene non si congratulò per il colpo, tanto meno pose ringraziamenti. Ripreso l'autocontrollo e si catapultò verso Moore in cerca dell'arma, ma non fu svelta abbastanza, poiché l'altra la precedette e riuscì subito a ghermire la pistola.

«Dammela!» comandò la bruna, a denti stretti.

Gwen diede fiato alla correttezza.

«So qual è la tua intenzione e non te lo lascerò fare.»

Un rumore sconvolse le due donne, che gettarono gli occhi in direzione dell'ingresso, dove una seconda ombra contrastò la luce proveniente dall'esterno. Sherlock Holmes, come una divinità, fece la sua comparsa nel momento del bisogno.

«Sherlock!» La giovane lo chiamò a gran voce.

Il peso sul suo petto si sciolse nel momento in cui lo sguardo incrociò quello del suo collega. E persino la bruna parve rilassarsi, ma lo sgomento la colpì quando comparve anche un terzo individuo. Robin Goldschmidt si pose accanto al detective con fare quasi rilassato e puntò alle due prigioniere.

La situazione prese una piega improvvisa e tutti, tranne Moore ancora senza sensi, si erano ritrovati sul ponte a conversare animatamente in cerca di una tregua o qualcosa di molto simile. Sherlock, davanti alle sue protette, ascoltò le parole del risoluto Goldschmidt.

«Dove sono i file, Holmes?»

«Nascosti, in un luogo di mia sola conoscenza.»

«Perché?»

Robin, al contrario del suo collega, era contraddistinto da una chioma bionda, pelle abbronzata e una buona altezza. Era prestante, attraente, massiccio e prepotente; un autentico figlio della bandiere a stelle e strisce.

«Miss Adler non può essere un vostro bersaglio, almeno finché sono io a possedere i file» comunicò il detective. «È sotto protezione del governo inglese e non può essere ferita. Per di più, secondo ogni mio ragionamento, la vostra posizione è drasticamente peggiorata. Avete tenuto in ostaggio una corretta cittadina inglese e, molto probabilmente, siete colpevoli di omicidio nei confronti di un onesto pescatore danese. Lo stesso che possedeva questa imbarcazione. Sono a conoscenza di molti dei vostri crimini e, se fossi in voi, non peggiorerei ulteriormente la situazione.»

«Che cosa vorresti?» chiese l'altro, con arroganza.

«Un accordo. La vita di Miss Adler in cambio della mia assenza.»

Il nemico restò interdetto.

«La tua assenza?»

Sherlock, allora, chiarì le sue intenzioni.

«Non parteciperò ad alcuna indagine contraria al vostro operato. Lascerò che siano le limitate capacità dell'Interpol a occuparsi di voi. Quanto a noi, spariremo dalle vostre vita, per sempre.»

Goldschmidt sorrise. Non volle assolutamente abbassarsi al semplice ricatto, ma si fece desideroso di vendetta e non interessato a una buona fuga dalle forze straniere.

«E se ti uccidessi?» chiese, allora.

Sherlock lo puntò, apatico.

«Perderesti la possibilità di recuperare i file che ho nascosto. Se ci uccidessi lo stesso, sappi che tutte le forze investigative di ben due paesi ti starebbero col fiato sul collo. La latitanza può essere una valida alternativa, ma giocare a nascondino con il mondo non è semplice.»

Gwen e Irene rimasero in silenzio.

«Bene!» Lo sguardo di Goldschmidt si fece assente, poiché puntò con la coda dell'occhio alla figura di Adam Moore, di nuovo vigile e determinato.

Il collega, con la pistola mirò alle donne sul ponte. Tuttavia, Sherlock immediatamente si accorse della circostanza e, senza nemmeno ragionare, seguì l'istinto innato. Incurante di tutto, ghermì l'esile figura di Gwen, coprendola come un manto dal proiettile che esplose pochi secondi dopo. Il colpo, purtroppo, perforò il suo fianco destro. Le mani, ciononostante, continuarono a proteggere la ragazza senza cedere alla debolezza. 

Irene Adler, intanto, approfittò degli arti liberi e dei pochi secondi di vantaggio per piantare il chiodo arrugginito – precedentemente scovato – nel collo di Goldschmidt, proprio sulla carotide gonfia di sangue. Moore, puntò la pistola contro la Donna, ma non sparò poiché la nemica aveva già afferrato l'arma del suo ex collega.

«Come la metti, adesso?» chiese Irene, acida.

Moore sudò freddo.

«Addio!» Irene premette il grilletto, ma nessun colpo partì.

L'ex agente, allora, rise come un folle nel cogliere quel tentato omicidio naufragare così miseramente. Riprese il controllo del braccio e puntò la seconda arma contro la bruna che, presa alla sprovvista, scappò via, rovesciando barili vuoti e reti.

Moore, anche se ostacolato, la seguì. Gwen nel frattempo, stordita dall'adrenalina e dal terrore, dedicò tutto il poco tempo che le era rimasto a Sherlock, steso al suolo e incosciente. Spremute le meningi, trascinò il suo scudo umano su una piccola scialuppa penzolante al lato del peschereccio. Lì posizionò il detective e infine, sedutasi, sciolse il nodo e calò con molta difficoltà il legno sull'acqua salmastra.

Le correnti furono cordiali quel giorno e li trascinarono lontano da quel luogo di morte, dove un'ultimo sparo echeggiò squarciando il dolce rumore delle brezze marine.

3.

Il rumore del legno che sbatteva contro le onde selvagge si perpetrava senza sosta. Le infinite acque salate profumavano il vento, sempre più violento e indisponente. Nel mentre, il cielo si era disteso, ostentando le ultime fulve sfumature della giornata. Non c'era un appiglio di terra e ogni confine era lambito dalle spaventose estremità di mare immenso e gelido.

Quel pezzo di mondo nient'altro era se non una linea dimenticata da Dio, un guazzabuglio di acqua e sale al di sotto di nuvole tintesi di sgargianti colori arcobaleno. Proprio da quest'ultime nacque una pioggia leggera che, irradiata dal tramonto, precipitò sotto la curiosa forma di tanti aghi incandescenti.

Gwen osservò quel drammatico panorama e nel frattempo accolse la pioggia dorata. Non si sorprese nel non sentirla calda quanto il suo aspetto, ma così gelida da bruciare tutta la pelle scoperta. Dovette, addirittura, soffocare i rantolo che cominciarono a grattarle la gola, irritandola ulteriormente.

La tosse non tardò a giungere e il freddo ebbe la meglio. La pioggia continuò a scendere indisturbata e la donna, dopo un po', la sentì insinuasi all'interno delle labbra screpolate e poi bagnare la lingua. Si stupì nel non percepire le gocce dolci e si chiese se il sale appartenesse al proprio pianto o a quello dell'orizzonte.

Presa dall'impotenza e terrorizzata a causa delle risorse nulle, tentò di remare con i palmi per qualche minuto, ma presto si accorse di non potere andare da nessuna parte. Fu quando le mani le si fecero grinzose e rosse a causa del gelo che desistette dall'infliggere altro male a se stessa. Era utile una soluzione. Una soluzione per lui.

Sherlock si era come fossilizzato, all'interno della scialuppa, in uno stato completamento incosciente. Il sangue, fermato attraverso l'aggregazione di più corde pulite in malo modo con l'acqua salata, aveva deturpato tutto il suo abbigliamento.

La giovane, invero, non comprese le migliori procedure mediche e temette che le corde fossero ancora troppo sporche e potessero causare una brutta infezione. Non era mai stata un medico ed era a conoscenza solo di due cose: il sale era un ottimo disinfettante e di sale, in quel luogo, ce ne era troppo.

Non posso fare altro...

Un boato scosse un punto lontano, annunciando il peggioramento della situazione climatica. In breve, saette squarciarono il cielo, fendendo con la luce il grigio incombente. Loro, però, rimasero inermi e soli come due fantasmi in mezzo alle prime raffiche.

Gwen sentì il cuore martellarle forte, mentre la disperazione soffocò ogni azione, ogni respiro, persino ogni pensiero. Mai avrebbe pensato di trovarsi nel bel mezzo del nulla, con nessuna alternativa e, sul braccio spoglio, il dolce solletico offerto degli scuri riccioli di Sherlock. Quest'ultimo, seppur esangue, mosse leggermente la testa.

«Sherlock!» Lo invocò la ragazza, lacrimante.

La pioggia continuò a battere sui loro corpi stanchi.

«Tu... Tu st–» Gwen non riuscì a parlare. La gola, infiammata da poco, trucidò tutte le sue parole.

Il detective spalancò le iridi, come per sfruttarle al meglio. Dopodiché, confuso, allungò flebilmente il braccio verso la ragazza e con le dita lunghe sfiorò la sua candida guancia. L'altra, stranita dal gesto, pensò a una qualche carezza imposta dalla circostanza, ma presto comprese che non era assolutamente niente di così sentimentale.

«Non sono un'allucinazione» farfugliò, mesta.

Dinnanzi a quella affermazione, Sherlock tirò indietro la testa mugolando dal dolore a causa della ferita che era ancora lì, sul suo fianco. In solo pochi secondi, riuscì a comprendere tutto ciò che era successo prima e dopo lo sparo. Si rese persino conto di ciò la giovane aveva fatto per risparmiargli l'emorragia.

«Toglile!» La voce dell'uomo, per quanto profonda, sembrò meno che un sussulto.

«Cosa?»

«O mi verrà una sepsi.»

Gwen comprese tutto e spostò le corde con delicatezza per poi gettarle gettò da tutt'altra parte. Rimase, però, sorpresa dall'enorme quantità di sangue che esse erano riuscite ad assorbire per tutto quel tempo. Ritornò a osservare il buco, ancora aperto, largo e fresco. La carne non sembrò infetta, ma forse era troppo presto per poter parlare. Le dita, sfiorarono quel buco, ma la pioggia, per quanto leggera, le precedette, causando nell'uomo gemiti di sofferenza.

«Ah!» Sherlock, seppur invalidato da quella continua tortura, continuò ad aiutare la sua collega, biascicando consigli. «Serve qualcosa di più pulito. Cerca qualcosa, Gwen. P-Presto!»

La ragazza sezionò la chioma bagnata con le dita e chinò la testa a causa del troppo scoraggiamento. Non aveva niente con sé. Solo sale, legno e sconforto. Da pochi minuti se ne era andata anche il barlume della speranza.

Cosa posso fare per non lasciarlo morire?

La ragazza indirizzò gli occhi sugli indumenti logori del bruno. Incurante della pioggia e del freddo, sfilò dal proprio corpo il maglione zuppo, approfittò della sua recente compattezza e lo attorcigliò. Infine, lo fece aderire a corpo del bruno con un pressione sempre maggiore. Non seppe nemmeno se pulire la ferita o semplicemente tamponarla.

«Non è abbastanza stretto» confermò, tremante.

La piccola canotta che le era rimasta addosso non fece molto contro le scaglie d'acqua che si infrangevano dappertutto. Si era ridotta a niente, lasciando esposta la sua pelle scoperta.

Sherlock richiuse gli occhi, alienandosi da tutta quella disgrazia. Il suo respiro si fece irregolare, ma non si costrinse a non ostentare, nemmeno per un secondo, un segno di cedimento nei confronti della morte. Perciò, rimase fermo, con la stessa tempra di uno stoico.

«Mi dispiace!» piagnucolò Gwen, accarezzandogli i riccioli. Le parole di Irene ritornarono nella sua mente.

Non era sua intenzione fare del male a nessuno e mai si sarebbe fatta trascinare da quell'approccio con John Watson se solo avesse saputo tutto in un primo momento.

Il detective sentì quel tocco venire meno sotto il predominio della acqua che, scrosciando, annullò qualsiasi altro suono e falsificò ogni senso. Ben presto, la lucida cognizione sembrò lasciarlo ancora, riportandolo in uno stato embrionale dove dove non esisteva il caldo, il freddo o il dolore. Rimasero concrete solo le parole della ragazza, che cominciò a tenerlo stretto com un bambino malato.

La morte era allettante, ma l'uomo si sentì protetto dalle precarie cure della bionda e non sentì il bisogno di altro. Gli ultimi giorni si ripresentarono nella sua testa come i fotogrammi di una pellicola malridotta, testimoniando un minuscolo cambiamento. Gli ultimi ricordi collezionati si erano rivelati davvero preziosi e ricchi di sentimento.

Lui e Gwen avevano condiviso un po' di gioia, l'intimità e anche il dolore. Si erano scambiati il passato, intrecciando le loro storie nel presente e formando una strana coppia. Lei la madre amorevole, lui solo uno scorbutico con qualche tendenza teatrale. Due persone così differenti e allo stesso tempo simili. Semplicemente, due anime affini.

L'uomo cominciò a lasciare la presa sulla propria mente, che investì le ultime forze solo per recepire la presenza accanto. La pioggia batté, il vento si dimenò e il mare continuò a scuotere la piccola imbarcazione. I fremiti giunsero ma non furono causati dal dolore, né dal freddo.

Il cuore del bruno palpitò perché felice di qualche carezza; la testa scacciò ogni attimo collegato al passato. Nella scialuppa non c'era più posto per il dolore inferto da John, né per quello imposto dalla morte di Victor, né quello inflitto dalle cure asfissianti di un fratello maggiore.

Contava solo il sentimento. E ciò bastava.

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Capitolo 30
*** Ginevra, Artù e Lancillotto ***


Gineverò, Artù e Lancillotto

1.

Bip... Bip... Bip...

Sherlock non era solito tenere la testa a riposo, per molte motivazioni. Il sonno, come qualsiasi altro stato di incoscienza, accorciava i tempi, rallentando il naturale periodo d'indagine. Tuttavia, era semplice perdere il controllo su certe situazione e, spesso, incorrere i ristori forzati.

Quel giorno, dopo un lungo sonno farmacologico, le sue palpebre si dischiusero dopo qualche tremolio appena accennato, lasciando le iridi libere di bere tutta la luce mai catturata nelle ore precedenti. In breve, il bruno si ritrovo con la vista abbagliata da folgoranti fasci macchiati da fluttuanti ombre. Fu lento mettere a fuoco ogni singolo dettaglio della bianca stanza, una comune e asettica camera da ospedale.

Non sopportava gli imprevisti e ciò che era avvenuto tra le mistiche acque nordiche era molto più di un comune contrattempo. Aveva rischiato molto, senza ottenere un grande risultato, se non quello più indesiderato: finire in ospedale con un il corpo impotente e la mente a rilento.

Ho fallito...

L'aleatorietà divenne, in quell'istante, la sua peggiore condanna. Il collo venne allungato da un parte all'altra, fino a quando le iridi non scorsero un corpo scuro in mezzo alla parete candida, proprio il corpo di Irene Adler, la Donna.

«Non è mai piacevole il risveglio, se dopo un'anestesia» rivelò Irene, raggiungendo l'uomo non più sedato dallo stato comatoso.

«Tu...» Sherlock parlò, incurante dalla fastidiosa sequenza di segnali acustici emessi dall'elettrocardiografo, che continuò imperterrito a misurare la frequenza cardiaca con costanza.

«Ben trovato, Sherlock» lo salutò lei.

Il detective, quel giorno, si sentì ostacolato dal malumore. Le forze erano diminuite e il pensiero tornò a Gwen.

«Dov'è lei?»

«Sta bene, a parte l'influenza.»

Persino Irene era stata debilitata dall'insorgere dei sentimenti e comprendere che Sherlock non era più lo stesso poiché, in quel frangete, la sua testa era guizzata verso una persona specifica e non le solite deduzioni monotematiche; nemmeno il dolore fisico gli aveva impedito di pensare alla sua collega.

La Donna, all'ennesimo grugnito, sistemò il cuscino sul letto.

«Le pallottole sono indolore solo per chi le riceve in testa, ma non è il tuo caso. Ti consiglio di non muoverti, a meno che tu non voglia infliggerti dell'inutile sofferenza.»

«La morfina...» farfugliò Sherlock, supplichevole.

Osservò alla sua sinistra, dove un ago era stato posizionato nella carne, proprio all'interno della vena bluastra. La sostanza, centellinata, scendeva difficilmente e raggiungeva il flusso sanguigno con una lentezza insopportabile.

«Oh, Mycroft ha insistito. La quantità deve essere minima» spiegò Irene. «Teme l'uso prolungato di morfina e non dovresti biasimarlo. Il pericolo di una ricaduta negli oppioidi è sempre in agguato.»

Il bruno serrò la mascella e aggrottò la fronte.

«Non cambia mai...»

«Non remargli contro» lo ammonì la Donna, accennando a un sorriso. «È stato Mycroft a mandare i soccorsi. Ti ha portato in salvo con degli elicotteri e personale altamente specializzato. Si sono presi cura di te e della ragazzina.»

«Dovevano. Se Mycroft mi avesse lasciato morire, avrebbe dovuto fronteggiare mia madre e le sue prediche. Non sopporta i rimproveri, lui. Non lo ha mai fatto. Nemmeno quando era un ragazzo. In nessuna occasione.»

Irene, allora, capì che era il momento di sfoggiare un piccolo e curioso segreto. Cacciò dalla felpa – la stessa portata nelle giornate precedenti assieme agli altri scialbi indumenti – un telefono dalla sembianze familiari.

Il detective non impiegò molto a comprendere di quale, tra i molti, si trattava. Quella scatolina, nera e piatta, era stata regalata a Gwen attraverso un misterioso pacco rosso, giunto a Baker Street qualche settimana addietro.

«Avrei dovuto immaginarlo» si giustificò Sherlock, stanco.

«È stato meglio non averlo immaginato, allora» rivelò la dominatrice, scuotendo il piccolo oggetto scuro. «Aveva una ricetrasmittente attaccata all'interno, dove nessuno avrebbe potuto vederla.»

Sherlock espirò con energia e, solo dopo, comprese quanto persino inalare ossigeno fosse doloroso in quel momento. Più tardi, la sua mente rievocò tutte le volte in cui Mycroft aveva cercato di controllarlo con biechi sotterfugi e inganni ben orchestrati. La collana era solo la cima dell'iceberg.

«Avevo un buon piano.»

«Nasconderti sotto un telo e aspettare il rapimento. Naturalmente subito dopo aver trovato i miei file all'interno della barca? Sì, sarebbe stato tutto perfetto, se solo la tua graziosa collaboratrice mi avesse permesso di immobilizzare il corpo di Adam Moore a un asse.»

Sherlock la rimbeccò, nonostante il dolore.

«Ha solo cercato di non costringerti a far del male a un essere umano.»

Irene sorrise, dando al suo volto spigoloso un aria poco incoraggiante. Un pensiero frullò nella sua testa, in cerca della bocca. «Perché è come te.»

Sherlock la puntò.

«Lei è come te e allo stesso tempo non lo è affatto. Sa capire cosa c'è dentro la testa degli altri e mai a quello che è nascosto dentro la sua. Concentrarsi sugli altri è un modo per non farlo su se stessi. Come se dentro ci fosse qualcosa di marcio.»

Il detective, con il petto nudo e ricoperto di elettrodi, condusse gli occhi sul punto più pallido del soffitto, per poi toccare un lettino poco distane e, infine, anche la finestra, al di là della quale gli alberi, con le loro spesse ciglia, isolavano tutta la struttura ospedaliera.

«Lei è migliore di me.»

«Non direi» obiettò la Donna, con un sussurro roco. «So l'effetto che fa, Sherlock. Quando hai visto quella pistola, avevi due scelte, ma l'istinto ti ha portato a proteggere solo una persona. Tu tieni molto a lei e non sei nella posizione di poterlo negare.»

L'uomo, immobile nel suo dolore sia fisico e psicologico, accolse in malo modo quelle parole, nonostante ognuna di esse trasudasse qualcosa di più esplicito. Non era mai riuscito a gestire i sentimenti, o almeno non con la stessa facilità di qualsiasi altro umano. Con John, nonostante le tante gelosie dell'amicizia, era riuscito a fare progressi, ma con Gwen le cose erano state molto più astruse.

Dopo diverse settimane, il bruno era riuscito a conoscerla e a estrarre dal suo essere così simile una specie di consolazione. Gwen aveva imparato a leggere il suo animo e, con discrezione, a dargli un po' di comprensione.

«Ho promesso a John di proteggerla. Sa essere insopportabile ma a lui piace. Non posso dire lo stesso di me» confessò, sarcastico.

«Forse è il tuo riflesso in lei ciò che non ti piace.»

Il bruno irrigidì la mascella.

«Sono irascibile, egocentrico e insopportabile. In poche parole, un disastro di persona. E lei è così... Lei...»

«Non è John» continuò Irene, tagliente. «Predisposta al dominio e alla perversione. Non sono mai stata la migliore candidata ai sentimenti. Ma incontrarti ha mischiato le carte in gioco. Il destino sa essere molto scorbutico, quando vuole. Si diverte a schernirci con giochi di dubbio gusto.»

Bip-Bip-Bip...

Il battito cardiaco dell'uomo accelerò, tradendo l'apparente sicurezza. Negare era pressoché impossibile, poiché niente era in grado di confutare il concreto canto di un cuore.

«È l'ora dell'addio» dichiarò la Donna.

Il detective ritornò alla realtà e Irene, chiarito il concetto, sentì di non poter esercitare il predominio sull'unico uomo amato. Non le restavano che altri giorni da trascorrere in compagnia dai pochi ricordi assimilati nella settimana passata.

«Guarda nella tua tasca!» comandò Sherlock.

Irene controllò il fodero dei jeans e pesco da esso una microscopica USB che si era incartata tra le cucitore. La esaminò con attenzione e lì notò che quel piccolo oggetto le era appartenuto. I suoi file erano al sicuro, in quel momento.

«Un regalo molto gentile.»

Irene fu interrotta.

«Un modo per sdebitarmi per quella rosa che hai lasciato dopo l'estrazione del mio primo proiettile. La storia si è ripetuto.» Il bruno sorrise.«Spero la custodirai per le emergenze.»

La Donna accolse quel gesto.

«Rimettiti presto, Sherlock Holmes!»

2.

Gwen osservò il telefono tra le mani come in cerca di qualche segreto. Si era promessa di fare un contratto e renderlo utilizzabile per le emergenze, ma il tempo era stato troppo rapido. Ciononostante, l'averlo messo in tasca era stato un piccolo miracolo, dal momento che c'era una seconda ricetrasmittente all'interno del guscio solido e nero.

L'altro Holmes era riuscito a spiare con così tanta accuratezza ogni situazione e, soprattutto, a soccorrere i suoi due collaboratori grazie a uno stormo di elicotteri e personale altamente specializzato: piloti, medici e tanti altri professionisti.

I due naufraghi ce l'avevano fatta, nonostante la sensazione di morte imminente ed erano stati immediatamente portati al Rigs Hospitalet, dove un équipe medica li aveva accolti con grande trepidazione. 

Gwen era in buone condizioni, nonostante il raffreddore e qualche colpo di tosse; Sherlock, invece, riversava in una condizione di gran lunga peggiore, considerando il proiettile e tutto il freddo assorbito sul temibile deserto marino.

Il ricordo di quella giornata, andò a tramutarsi in un emozione costante e forte e la ragazza, dopo la scomparsa di Irene dall'edificio, desiderò soltanto sgattaiolare nella stanza del detective e riuscire a indagare sulle sue condizioni di salute; magari toccargli la mano e ringraziarlo per l'atto eroico. Raccattato il coraggio, andò dal suo soccorritore e, nonostante i tempi precoci, si avvicinò a lui per sorvegliarlo.

Il bruno percepì il tocco della donna e, dopo le parole così illuminanti di Irene, sentì come un gorgoglio nello stomaco. Il calore generato dal tocco delle persone amate era sempre responsabile di soddisfazione, paura e anche confusione.

«Se fossi morto, non me lo sarei mai perdonato. Sarei impazzita» sussurrò Gwen, trascinando la mano lungo il braccio dell'uomo, sempre più affaticato dal dolore.

«Sei già pazza, Blomst. Non accettare sfide che non potresti superare» disse il detective con sarcasmo.

«Tra pazzi ci si intende, no?» scherzò lei con un tono ancora rotto dalla paura passata e dalle peggiori conclusioni.

Sherlock latrò all'ennesimo pizzicore scaturito dalle mani altrui.

«Mi dispiace.» La ragazza sussurrò le parole per l'imbarazzo.

Quella semplice frase racchiuse un significato molto più torbido rispetto, poiché insito era anche il dispiacere per quello che era successo prima della partenza.

«Lo so, ma è passato» dichiarò il bruno, interpretando un ruolo completamente differente da quello sempre adottato. 

Le sua parole furono così garbate, da non sembrare appartenere a lui. E Gwen annuì con fare incoraggiante per poi sciogliere il contatto residuo. Seppur desiderosa di continuare a dialogare, fece per salutare, ma qualcosa di molto aggressivo la fermò. La tosse s'impossessò della sua bocca, impedendole la parola.

3.

I giorni passarono in fretta e Sherlock continuò a migliorare sia in salute che in lucidità. Le forze ricominciarono ad animarlo e a renderlo più arzillo e scorbutico del solito. Presto, il burbero consulente sarebbe ritornato per infestare la sua amata Londra.

Durante la convalescenza, anche Gwen sentì di fare la sua parte e, perciò, fece spesso visita all'uomo, portando di tanto in tanto qualche giornale per fargli passare il tempo a farlo ammattire a causa dell'inerzia. Nonostante il bisogno, l'uomo accettò di mal grado tutte quelle attenzioni troppo intime.

La settimana sfumò rapidamente e Gwen capì che presto sarebbe stato il momento di ritornare in Inghilterra. Sherlock era completamente eccitato dal desiderio di riempire il suo quartier generale e di ricongiunsi al migliore amico. Poco era importante il suo stato di salute che, in una settimana, era migliorato parecchio nonostante le ultime cure.

Mycroft Holmes, preoccupato come al solito, fornì al fratello un aereo privato, dove flebo, un infermiere e altri medicinali sarebbero stati a disposizione. Dopo poche ore, sistemate le faccende danesi, la ragazza e il suo collega, si sedettero in una black cab per addentrarsi nel traffico londinese. Le strade, intasate da file di auto, furono quasi inaccessibili.

«È stata una gita difficile da dimenticare. Peccato per quel quel proiettile» commentò Gwen per scacciare con parole scherzose l'ansia nel petto. Rincontrare John, dopo le confessioni di Irene, si sarebbe stata un'impresa titanica.

«Un caso senza rischi difficilmente è interessante. E uno interessante è quasi sempre indimenticabile» spiegò Sherlock, sistemandosi la manica del cappotto, proprio nel punto in cui era stato nascosto l'ago della flebo. Sopraggiunto a casa, sarebbe stata obbligatoria una buona reidratazione.

4.

John, ritornato dall'ambulatorio, non sospettò di alcuna sorpresa. Pensò, al contrario, di passare una serata come le tante precedenti: con la compagnia del camino, la cena da riscaldare e il letto disfatto. Difficile sarebbe stato persino immaginare il quadretto che si era formato dentro le mura.

Spalancata la porta d'ingresso del primo piano, infatti, il medico poté notare che il soggiorno pieno di facce familiari e tanti suoni. Mrs. Hudson, sul divano era intenta ad ascoltare una Bacarolle abilmente suonata da Sherlock. Gwen, seduta sulla poltrona, coccolava la sonnolenta Rosie.

L'ex soldato, colto dall'inaspettata sorpresa, fu premuto da una moltitudine di sguardi e, incapace di gestire tutta quell'attenzione, entrò nella stanza per aprire bocca.

«Oh, è stato facile, no? Tornare senza nemmeno mandare un messaggio» lamentò, ma s'interruppe nel momento in cui i suoi occhi incrociarono un'asta accanto al coinquilino: un sacchetto ricco di denso liquame era stato appeso a un gancio. «Ti prego, dimmi che quella non è soluzione salina?»

«Oh sì. Ho pensato a un modo per nasconderla, ma sarebbe stato troppo anche per me. Hai l'occhio del medico e sai quando non sono al massimo delle mie forze» rispose il bruno. «Sono anche io molto felice di vederti.»

La bacchetta ricominciò a sfregare le corde del violino.

«Sei ferito? Hai preso qualcosa? Parlami, Sherlock!»

La melodia continuò a infestare il soggiorno.

«Un proiettile nel fianco» fu la secca risposta.

John, senza alcuna esitazione, ritornò a Gwen, che gli diede medico uno sguardo indecifrabile; forse un po' mesto. 

«Quindi ti hanno sparato? Perché non ne hai fatto parola?»

«È stato solo un colpo mal assestato. Colpa di un ex agente americano» spiegò Sherlock. «Un piccolo errore di percorso. È perfettamente plausibile quando si ha che fare con Miss Adler. Quella donna dovrebbe smetterla di minacciare parlamentari in cambio di protezione e mettere la testa la posto. Le ho fatto guadagnare qualche mese, ma non sarà sempre così. Giocare con il fuoco comporta le scottature.»

John aprì la mano, ma subito dopo la modificò in un pugno.

«Ti hanno sparato, Sherlock. E da come parli, nemmeno te ne preoccupi.»

«Oh, ci sono altre cose per cui preoccuparsi.»

Gwen tossì, mettendo a tacere persino lo strumento.

«Questo, per esempio» evidenziò il bruno.

John, scosso, guardò la donna con piglio costernato.

5.

Gwen non tollerava le malattie, nemmeno le più banali. Sin da piccola, nonostante il raffreddore e altre bazzecole, era solita pestare i piedi a causa del stato di sonnolenza, le ore sul letto e le mancate cene in compagnia del padre. Rimanere chiusa in camera, era sempre stato un cruccio mal accompagnato da pasti scialbi e insapore. Il peggiore era, forse, il brodo di pollo.

Malgrado ciò, era proprio brodo di pollo quello che si increspava nel bel piatto di porcellana appena servito. Lei sorrise, ma la sua lingua si contorse per il disgusto. Mrs. Hudson, intanto, incrociò le braccia al petto.

«Per fortuna avevo quello già pronto del supermercato. Non è il migliore, ma per stasera può andar bene. Tu resta a letto, mangia e riposati. Entro qualche giorno ti rimetterai.»

L'anziana, qualche secondo dopo, tolse la presenza spostando le scarpe color prugna sui gradini. La bionda rimase sola, con il petto tutto formicolante e la gola arsa dalla deglutizione. Il brodo di pollo, caldo e fluido, sarebbe stato un ottimo pasto considerando quel preciso stato di salute, ma l'odore non riuscì a conquistare alcun interesse; allorché Gwen preferì distendere la schiena e riposare. Prese il libro sul comodino – accanto alla brodaglia – e sfogliò qualche pagina. Le righe nere e sottili raccontarono delle leggende di re e regine.

Le pagine vennero sfogliate fino a quando un rumore di passi rimbombò, intensificandosi. John, presto, apparve alla porta, rubando alla bionda tutte l'attenzione. Questa, allora, si mise seduta e nascose il libro dietro la schiena.

L'ex soldato si mosse con fare impacciato e allo stesso tempo serioso. Probabilmente era in cerca di risposte riguardanti gli ultimi nefasti accadimenti.

«John» invocò lei, abbassando lo sguardo.

«Ha preso una pallottola in una barca, almeno così ha detto. Che stesse mentendo o meno, non ha importanza. Sta bene adesso, ma tu no.» L'uomo assunse toni molto più affabili. «Gwen, cosa è successo? Voglio saperlo.»

«Non lo so. Ho solo preso freddo. Ha nevicato in continuazione e io ho sottovalutato la temperatura. Ho pensato di essere abituata a un freddo del genere, ma è stato un errore. Mi dispiace tanto» si scusò, sopportando la gola dolorante.

John notò un certo distacco. «Solo questo?»

Gwen annuì, rivolgendo al suo interlocutore un primo sguardo, pronto a essere ricambiato. Mentì, senza alcun pudore.

«Ci sono cascato ancora. Lui avrebbe dovuto proteggerti.»

Il medico pronunciò le parole come se già sapesse tutto il racconto nei minimi dettagli. Probabilmente fiutava l'odore di scempiaggini, ma era stanco di sorbirsi bugie.

«E lo ha fatto, in ogni singolo istante. Ha rispettato i patti, sono stata io a mettermi in mezzo» confermò la ragazza, animata dalla bisogno di difendere il detective.

Sherlock non meritava alcun giudizio da parte di John. Le aveva salvato la vita, rischiando tutto senza esitazione.

John, allora, sospirò. Osservare Gwen con il guance rosse per la febbricola lo fece sentire un alquanto inutile. La tosse, inoltre, ricominciò echeggiare, sovraccaricando il suo onnipresente senso di colpa.

«Sarei dovuto esserci. Sherlock non conosce il senso del pericolo. Per non parlare di suo fratello. Lui non conosce nemmeno quello dell'umanità. Non gli importa delle persone.»

«L'ho notato» disse Gwen. «Sono stata portatrice di ben due delle sue ricetrasmittenti. Mi ha scelto perché sarei stata troppo stupida per accorgermene. Quanto al resto, è solo raffreddore.»

«Tu non sei stupida. E quella non è tosse da raffreddore» constatò l'uomo, sicuro delle proprie conoscenze mediche.

La donna, seppur sfibrata, si abbandonò a un'espressione marchiata da dubbi molto più scomodi. Passarono pochi minuti e John si ritirò, per poi tornare con gli utensili del mestiere. Gwen, preoccupata, lo osservò scegliere lo stetoscopio e raggiungerla rapidamente con in bocca un comando.

«Dovresti... Sai....»

La giovane alzò il sopracciglio, comprendendo l'imbarazzante richiesta dell'uomo. Restaurata quella pudica timidezza, sbottonò la camicia da notte con lentezza inimmaginabile. Dopodiché abbassò le braccia nude, infossando le mani tremolanti sul materasso.

John guardò altrove e, nel frattempo, si chiese quanto tempo fosse passato nel loro periodo di separazione dal momento che erano ritornati dei perfetti sconosciuti. Senza esitare, si mise acconto a lei e la costrinse al gelido morso dello stetoscopio. Concentrandosi solo sulle zone di pelle interessate, si distrasse con gli anomali suoni dall'albero tracheobronchiale.

La ragazza, intanto, alternò i respiri semplici a quelli più dilatati. Finse che tutto andasse bene, ma dopo l'amara scoperta di Copenaghen, ogni cosa era stata messo in discussione.

«Infiammazione delle mucose di bronchi. Sta diventando acuta, ma è ancora risolvibile con degli antinfiammatori» commentò il medico, togliendo le cuffie dalla proprie orecchie.

Gwen, ancora più rubiconda di prima, mugolò a causa dell'assenza di parole. Non riuscì a comprendere se tale condizione fosse stata scaturita dal febbre o dalle intime cure del suo ex soldato.

«Devi riposare.» John smise di fiatare quando, alle spalle della ragazza, era stato posizionato un libro comprato come semplice dono. «Vedo che hai già trovato un passatempo.»

La giovane, sul punto di recuperare il suo indumento, si immobilizzò. «Oh, scusami per il libro. Non volevo curiosare tra i tuoi effetti personali. L'ho visto lì e mi sono–»

«Non hai nemmeno bisogno di scusarti, perché non è mio. A dire il vero, è tuo» rivelò l'uomo.

«È mio?»

«Ho fatto un giro da queste parti, e poi mi sono ricordato di quella collana. Sono entrato in una libreria, a restituire dei libri che Sherlock ha preso in prestito. La commessa mi ha dato dei consigli. Sanno essere molto persuasivi quando ci si mettono.»

«È perfetto!» esclamò lei. In cuor suo, sentì il bisogno di ringraziarlo per essere stato talmente delicato nei suoi modi.

«Be', ne sono... contento, credo.»

John era ritornato John.

La bionda sentì le brutte sensazioni allentare la presa sul suo petto, lasciandola libera di essere la stessa persona del mese passato, quella ancora troppo presa dal bisogno di affetto e pronta a ricambiare senza alcun indugio.

«Grazie» farfugliò. «Sia per il libro che per la visita. Mi serviva proprio che qualcuno usasse... be'...»

«Lo stetoscopio?»

La ragazza annuì ancora.

«Sì, esatto» ammise, sempre più immersa nel dialogo. «Ne ho uno simile a casa. Non era mio, comunque. Non saprei nemmeno come usarlo. Ma non sembra complicato.»

John arricciò la bocca con fare ilare e sfilò dal collo lo strano utensile porgendolo alla donna, che lo prese con molta cura.

«Infatti non è complesso. Per ascoltare il cuore si usa il diaframma. La parte opposta invece è la campana. È molto più piccola» spiegò repentinamente. La donna prese gli auricolari per dare un ascolto al proprio battito.

«Oh sì, è molto forte» notò, trascinando la testina in lungo e largo; cercò il punto più giusto, ma senza successo.

Il medico, inginocchiato dinnanzi a lei, diede una mano. «Il cuore non è così a sinistra. Tutti pensano che sia lì, ma la sua posizione è molto più centrale» mise la sua mano su quella della giovane e la trascinò, con tutta la testina, sull'incavo del seno. «Qui...»

I loro occhi s'incrociarono.

Lei sentì i battiti farsi sempre più celeri e una scossa percorrerle tutto il suo corpo e poi elettrizzare l'aria. Il freddo della febbricola cominciò a scendere, per lasciare posto a torpore familiare. Bastarono solo pochi secondi e ogni pensiero inibitorio si dissolse.

I loro sguardi, intrecciati, si attirarono. Il primo bacio fu all'eschimese dal momento che i loro nasi si sfiorarono. Subito dopo, però, le labbra fecero il resto, dando inizio a un contatto concreto, per nulla refrattario.

Entrambi sentirono la mente sgombra da qualsiasi preoccupazione e continuarono il loro gioco, cedendo solo all'istinto. Non esistette altro che un giaciglio scomodo, il silenzio incombente e le prime effusioni. John la strinse e la trascinò con lui dentro le lenzuola bianche. Approfittò di ogni possibilità di tocco e, nel frattempo, sfruttò la bocca e le umettò il guance e bocca con timbri.

«Gwen» sussurrò, strofinando il proprio naso presso l'orecchio della ragazza, dove grosse ciocche si erano arricciate, scendendo verso il collo pallido e sottile. «Non mentirmi più.»

La giovane ascoltò quelle parole, comprendendo quanto inutile fosse stato il suo tentativo di omettere ogni cosa. In poco, si ritrovò di nuovo nelle preoccupazioni, poiché stava continuando a tenere per sé ben altre cose di maggiore rilevanza.

La sua mente si distrasse per qualche secondo ma, nel momento in cui i baci e carezze ricomparirono, ritornò al presente. Per le spiegazioni ci sarebbe stato il domani. L'oggi, invece, era troppo dolce e gradevole per non essere vissuto fino in fondo.

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Capitolo 31
*** Il frutto della conoscenza ***


Il frutto della conoscenza

1.

«Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.» Così recitava la Genesi, il primo libro della Bibbia.

Gwen era luterana ed era a conoscenza della storia di Adamo ed Eva, i quali, dopo aver peccato, furono costretti a lasciare la gloria del paradiso terrestre. Era elementare pensare a quel preciso argomento, immaginando con attenzione l'aspetto dell'Eden, luogo di beatitudine e appagamento. Tuttavia, dopo si era fatto semplice escogitare altri modi con i quali plasmare complessi concetti di paradiso. In quel momento, esso non era più un giardino pieno di frutta, ma solo calore e palpitazioni. La ragazza aveva sfiorato il più puro stato d'estasi nell'esatto momento in cui era rubare l'amore di una persona. Quello si era dimostrato il miglior modo modo per raggiungere la completezza. 

Era l'alba e il cielo, non più solo pece, era stato densificato dalla presenza di una coltre grigia. Non c'era posto per la luce, quel giorno, ma solo per lampi e saette pronte a far tremare l'aria. Gwen non era superstiziosa, ma quel tempo minaccioso portava con sé cattivi presagi. Quindi, dopo aver sbirciato dal di là del lucernario, per semplice protezione si accucciò maggiormente contro il petto dell'uomo con cui aveva passato la notte. Il desiderio di tornare nell'Eden la incoraggiò a una maggiore aderenza tra la propria quella e quella accanto.

La tosse, nel frattempo, rifece la sua comparsa e la ragazza sentì il proprio petto scuotersi a ogni colpo. John, nel memento in cui sentì qualcosa tremare al di sotto delle sue braccia, si risvegliò. Confuso, si ritrovò attaccato a un corpo scosso dal malessere. Con il tempo, i ricordi cominciano a farsi lucidi e, a lui restò solo una sensazione ambigua, una sensazione che presto si tramutò in preoccupazione.

«Mettiti seduta!»

L'ex soldato, sollevatosi, aiutò la giovane ad acquisire una posizione adatta a farle smaltire tutta la tosse concentrata tra il petto e la gola. La ragazza si sentì subito meglio e, con il braccio piegato, allontanò l'uomo, incentivandolo a non preoccuparsi più del dovuto.

«Sto bene» assicurò, esausta.

John sospirò.

«Gli antinfiammatori, dov–»

«Li prenderò più tardi. Tu non preoccuparti.»

2.

«Isoetarinaamoxicillina e azitromicina.» Parole flebili quanto i sussurri delle brezze autunnale echeggiarono nel salotto del 221 B. «Sono tutti quelli che sono riuscita a prendere. Non mi è concesso arraffare farmaci così, ma si trattava di un emergenza.»

Molly Hooper, al centro del salottino, teneva in mano un sacchetto con dentro scatole di prodotti farmaceutici ancora confezionati. Aveva affrontato il freddo e il fantasma della tempesta incombente pur di rendere contento il suo amico. Sherlock, seduto sulla poltrona, le rispose con gratitudine. 

«Ottimo, Molly! Lasciali pure sul tavolino.»

Molly, con un sorriso incerto, eseguì l'ordine. In seguito, accarezzò con lo sguardo l'uomo, i suoi zigomi e anche le sue labbra piene. Il cuore batté e lei si chiese cosa fosse a renderla così obbediente.

«Se ti serve dell'altro, dimmi pure.»

Sherlock, guardingo, controllò lo spazio circostante.

«Hai portato anche ciò che ti ho chiesto?»

Molly perse il sorriso e, inconsciamente, mise la mano presso la tasca del cappotto, deformato da una protuberanza. Seppur succube del bruno, fronteggiò una costante incertezza. L'ultima richiesta ricevuta si era spinta ben oltre i limiti imposti dall'altro Holmes e da John Watson.

«Oh sì. Io, be', ho anche... quello.»

Il detective rilassò il volto.

«Perfetto, lascialo pure a me» rispose incrociando le dita presso il petto, riscaldato dalla comoda stoffa di un soprabito bluastro.

Molly, con fare innocente, osservò il fianco del detective e immaginò un buco rosso e vivido proprio al di sotto della camicia purpurea. Alla fine, con il solito modo impacciato, continuò a parlare, come per espiare la colpa che stava già gravando sulle spalle.

«È solo per il dolore, non è così?» La donna cacciò la mano in tasca.

«Solo per il dolore» affermò l'altro, convinto.

Non seppe dire, purtroppo, se il dolore fosse fisico o mentale. Da quando era ritornato a Baker Street, era stato comandato dal bisogno di non incappare nella spiacevole visione di John e Gwen intenti a scambiare parole, emozioni e contatto fisico. La patologa, allora, nonostante il dubbio ancora persistente, raggiunse l'amico e fece per porgergli la piccolina scatolina, prima custodita nel fodero del cappotto. Ma un rumore irruppe, spezzando il silenzio. La porta cigolò, accompagnando l'ingresso di John che, incuriosito dalla presenza di quella conoscenza, si pose le giuste domande. 

«Ciao, Molly...»

Erano solo le dieci del mattino e la patologa si era presentata come se niente fosse all'interno dell'abitazione con un farmaco dietro la schiena.

«John» barbugliò lei, tenendo la mano dietro il cappotto.

«Tutto bene? Cosa sta succedendo?» chiese l'ex soldato.

Sherlock riacciuffò le redini della situazione.

«Ho chiesto a Molly di portare degli antinfiammatori. Serviranno a Blomst nei prossimi giorni. Quanto a me, preferisco l'uso di un antidolorifico. Questa dannatissima ferita continua a starmi sui nervi e il mio cervello ha un assoluto bisogno di rilassarsi» spiegò, contendo l'irritazione.

John aggrottò la fronte, poiché non del tutto abbindolato dalle innocenti spiegazioni del collega. Fece i suoi ragionamenti e costrinse Molly ad aiutarlo a comprendere meglio le circostanze. Le chiese di fargli controllare quella strana scatolina tenuta dietro la schiena. 

«Posso vedere il farmaco, Molly? Sono il suo medico, è giusto che sia io ad approvarlo.»

Sherlock roteò leggermente gli occhi. La patologa invece, dovendo obbedire ai comandi del medico, espose il farmaco. Si trattava, sfortunatamente, di metadone, un vicino parente dell'eroina.

Il medico, a quella constatazione, si rabbuiò. «Metadone. È questo il tuo modo per... rilassare la mente. Non posso crederci.» 

La rabbia si congiunse alla delusione. Il bruno si era astenuto da certe sostanze per mesi, ma la ricaduta stava sopraggiungendo come se niente fosse. Misteriosi tormenti si erano impossessati di lui, portandolo a giocare con la chimica più oscura.

«È solo per il dolore» ripeté una voce gracile.

Sherlock confessò le amare parole. Dopotutto, quella era la verità.

3.

Oltre che al paradiso, c'era anche l'inferno e negarlo sarebbe stato impossibile per qualsiasi essere umano. Gwen si rese conto che accettare le omissioni e prolungare quello stato di quiete era solo un opzione temporanea, non la sola scelta disponibile. Per quanto amasse John, fingere sarebbe stato inutile e deleterio nei confronti dell'altro inquilino dentro l'appartamento.

La giovane si ritrovò nella cucina, dove Mrs. Hudson aveva posizionato un bel cesto di mele rosse e succose. Ne prese una e ne esaminò la buccia ancora lucida e profumata.

Il frutto della conoscenza.

Eva aveva fatto assaggiare la mela ad Adamo e lei, presto, avrebbe fatto conoscere a John la realtà, ponendo fine all'Eden, il loro personale paradiso terrestre. Era solo questione di tempo e tutto si sarebbe dissolto con la stessa facilità di un sogno giunto al termine, lasciando solo un il residuo della mestizia.

Era giovedì. John aveva solo il turno pomeridiano e, perciò, aveva optato per una colazione meno rapida. Raggiunse la cucina ma non trovò niente di delizioso, solo la presenza della ragazza, che da qualche minuto si era messa a ispezionare il frigo, in cerca di cibo; conoscendo delle proprie condizioni, stava cercando qualcosa per idratarsi e, di conseguenza, magari una bottiglia piena di liquido bianco.

«Oh, no!» Gwen, annusato il latte rancido, ritrasse un conato.

«Oh, sì è scaduto» disse un uomo, sincero. «Avrei dovuto buttarlo settimane fa.»

John, entrato silenziosamente in cucina, confessò le sue colpe. Quel luogo, purtroppo, era terreno di battaglia dal momento che non c'era posto nemmeno per mangiare comodamente o preparare un semplice pasto. Molto più comodo era cedere al cibo surgelato o ai pub.

«Ci sono più batteri nel vostro frigo che nelle stazioni della metro» notò Gwen. «Dov'è andata Mrs. Hudson?»

«Appuntamento con il fruttivendolo, a Blandford Street» rispose Sherlock che, passando di lì, gettò una rapida occhiata al cesto ricolmo di frutta. 

Teso, raggiunse il soggiorno con andamento nervoso e si mise a suonare il violino con irruenza, ma solo per qualche secondo. Difatti, dopo poche mosse mal assestate, si limitò a sbraitare come un bambino capriccioso.

«DOV'È IL MIO TÈ?»

La giovane sussultò.

«Cosa diavolo gli è preso?»

«Be', penso sia stato quel proiettile. Restare fermo per dei giorni non lo aiuta. Lo distrugge» espose John.

Sherlock, dopo un periodo di completa inattività, era divenuto parecchio irrequieto. Per di più, l'assenza del metadone era stata la goccia di troppo. Si erano annullati tutti i modi per scaricare la tensione e dimenticare i brutti pensieri.

Gwen sospirò. «Sembra davvero una pessima giornata per lui.»

S'accinse a prendere il bollitore per soddisfare la richiesta dell'inquilino e preparare un tè che potesse distendere i muscoli. John, invece, si ritrovò seduto e con un piatto vuoto davanti agli occhi. Per un istante desiderò una buona Full Breakfast con pancetta ben cotta, uova strapazzate, pomodori grigliati e fagioli per contorno. Sfortunatamente nessuno era disposto ad accondiscendere alle richieste della sua gola.

«Gwen. Potresti c–»

«Non ti farò la colazione» lo interruppe lei.

«Come non detto.»

L'ex soldato si alzò, agguantò una mela per disperazione e raggiunse la giovane con uno sguardo dispiaciuto. 

«Forse ho parlato troppo in fretta.»

Gwen gli sorrise. «Sai cucinare anche da solo e, in secondo luogo, sono una cuoca terribile. Nessuno assaggerebbe i miei piatti.»

John recepì il concetto.

«Ma sono in grado di fare le uova strapazzate» continuò l'altra, in balia di un ripensamento improvviso. «Purché le rompa tu.»

Cucinare per qualcuno era un gesto d'affetto, in fondo. La ragazza, allora, spese il fuoco nel momento in cui il bollitore raggiunse le temperatura ideale e, poi, versò l'acqua all'interno della teiera, già piena di foglie secche. Mise il coperchio sul candido utensile e, nel mentre, ricevette un melenso sguardo da parte dell'uomo.

«È un buon accordo» ironizzò lui, allungandosi in avanti.

Gwen sentì sulle labbra quel bacio ancora prima della sua concreta realizzazione e, presa da uno strano riflesso, si scansò, muovendo indietro qualche passo. L'ex soldato si sorprese a causa del gesto e, quasi senza accorgersene, aggrottò la fronte.

«Scusami, mi hai colto di sorpresa» improvvisò lei, con voce tentennante. Non voleva cedere a dello sciocco romanticume, non a pochi passi da uno Sherlock sempre più impertinente.

«Oh, va bene» biascicò l'altro, confuso.

La giovane, tra l'incudine e il martello, escogitò una piccola compensazione. Spinse l'uomo nel nascondiglio più prossimo e gli stampò un bacio casto proprio all'angolo della bocca.

«Lascia perdere i gusci. Ci penso io» dichiarò, sussurrando.

4.

Sherlock era sull'orlo della crisi. Era sempre fermo, intento ad alienarsi dalla realtà per rifugiarsi all'interno del proprio palazzo mentale e fuggire dalle tante problematiche. Purtroppo, nonostante il tempo passato in mondi lontani dal presente e le distrazioni, niente sarebbe giunto a sottrarlo dai tarli. Era giunto il momento di tornare a casa, non solo fisicamente, e affrontare ogni singolo dilemma.

John e Gwen erano sempre all'interno della casa, come due fantasmi perennemente relegati al proprio luogo di morte. Il detective ogni giorno li osservava, li ascoltava e, nel mentre, si chiedeva cosa gli mancasse per sentire dentro la sensazione di pace. Quei pochi metri si erano riempiti, ma lui si era sempre sentito solo.

La compagnia dell'ex soldato era sempre stata una grande gioia e tanti furono i rospi ingoiati durante le sue frequentazioni. Mary e Rosie erano apparse dal nulla, complessificando l'equilibrio precario del 221 B e consumando il tempo da impiegare in casi e altre peripezie. Le cose, però, erano state ancora confuse dalla tempesta del quindici gennaio. Gwen era piombata a Baker Street assieme ai fulmini e non si era risparmiata nel portare con sé intense avventure. 

La testa di Sherlock non era ancora riuscito a definire una linea di demarcazione tra i propri sentimenti: lei era stata il fulcro di emozioni discordanti, di pensieri irrisolti. Conoscerla era stato come guardarsi allo specchio e scorgere tutto l'odio da sempre serbato per se stesso; approfondire quella conoscenza, al contrario, era stato come scoprire uno spiraglio di luce all'interno di un pozzo profondo, freddo e oscuro.

Erano come statue dalle forme differenti, ma generati dalla stessa creata, e ciò era bastato a generare gelosia e affetto. Sia lei che John erano come le tessere di un puzzle, perfette nel rendere completo un uomo burbero e poco affabile. Eppure, era proprio lui a non incastrarsi con entrambi; era lui l'elemento di troppo e niente sarebbe giunto a cambiare quella tragica e assurda situazione.

5.

I giorni passarono, ma il tempo non accennò ad alcun miglioramento. Londra, come sotto una maledizione, continuò a inghiottire pioggia senza fine. Marzo, seppur prossimo, non sembrava assolutamente regalare né raggi di sole, né candidi fiori di ciliegio. Difatti, ogni cittadino fu costretto ad accendere il camino e sfruttare le ciminiere che, buttando fuori il fumo, oscurarono ancora di più l'atmosfera urbana.

Al 221 B di Baker Street, il clima non fu meno freddo. Gwen dovette giostrarsi tra le cure di John e la presenza di Sherlock, alternando con maestria gli approcci più distaccati a quelli più intimi. Bilanciarsi tra quei due fuochi non era facile per lei che, sempre più demoralizzata e in continua lotta con la proprio felicità, continuava a percorrere la strada della persona buona.

John, invece, aveva cominciato ad avvertire la tensione: certi comportamenti della donna lo rendevano insicuro e incerto sul da farsi. Non sapeva più a cosa credere e, soprattutto, non riusciva più a dare un nome a quello strano rapporto instaurato. Soffrì per timore di perdere quello che aveva raggiunto: il corteggiamento disinteressato, i primi casi, la spensieratezza. Gwen era mutata nel simbolo delle belle esperienze passate, degli anni precedenti al matrimonio, alla lutto, all'ammuffire dell'età. Peccato che si trattasse solo di un'illusione.

Per non immalinconire la mente con troppe riflessioni, si propose di utilizzare la telecamera del computer per permettere al collega di porre rimedio ad alcuni casi semplici. Durante la settimana continuò a esaminare il suo stato di salute, sperando in lunghi periodi di procrastinazione. Dopo la conclusione del caso Blomst, forse tutto sarebbe crollato e il ricordo della giovane si sarebbe dissipato come la fiamma di una candela, lasciando solo cera sporca.

Peccato che lui non desiderasse quel finale.

6.

Era mattina e il grigio continuò a tormentare la città a ogni singola ora. John era appena ritornato al 221 B con in mano il giornale e in testa le faccende da sbrigare. Erano solo le dieci del mattino, ma la gente aveva cominciato a chiedere gli aiuti di Sherlock, migliorato nell'ultimo periodo grazie alle continue cure dei suoi amici.

«Questo non è lo stesso pollice» constatò il detective, esaminando un pezzo di carne all'interno della formalina.

Un uomo alto e panciuto, seduto su di una sedia, attese precise risposte.

«Ne è sicuro? Lo smalto è lo stesso.»

«Non è lo stesso. Qualcuno ha staccato un altro pollice e ha dipinto l'unghia con una tonalità di smalto molto simile. È solo un inganno, Mr. Wilkinson. Le consiglierei di stare più attento. Temo che suo cognato abbia fatto un errore madornale, insabbiando la pista.»

«Dice sul serio?» chiese l'altro, sorpreso.

I clienti andarono e sopraggiunsero come tanti turisti all'interno di un museo. John, aiutò il coinquilino e nel mentre sbirciò di tanto in tanto al di fuori della finestra, alla ricerca di una testa argentata.

Gwen, quel giorno era uscita per fare un giro, ma non era ancora rientrata. John, allora, si lasciò guidare da inutili allarmismi e ispezionò continuamente la strada, riuscendo però a scorgere solo la chioma scura dell'ennesimo cliente. Si trattava di un giovane uomo di altezza media e dalla costituzione solida.

«Ne sta arrivando un altro, ma dovresti riposarti adesso.»

«Ho tutta la morte per riposarmi, John» rispose il collega.

La porta riportò altri battiti e l'ex soldato andò ad aprire. Quando il cigolio si allungò, non si sorprese nel codificare la stessa testa prima scorta dalla finestra. Lo sconosciuto era apparentemente aitante, con le mandibole marcate e due grandi occhi azzurri.

«Cerco Sherlock Holmes.»

«Come tutti, del resto.» John lasciò entrate lo conosciuto dentro al soggiorno. «C'è qualcosa che possiamo fare per lei? Può cominciare a raccontare tutto. Saremo contenti di ascoltare quello che ha da dire.»

«Holmes!» Il cliente fu risoluto.

Sherlock cercò di calibrare la mente e riuscì a individuare qualche indizio in più sul protagonista delle sua giornata. Aveva preso il treno. Le occhiaie dicevano che non aveva dormito. O meglio, che si è alzato presto; veniva nord dell'Inghilterra per una questione urgente.

«La prego di essere coinciso. Non sono qui per ascoltare insulse storie romanzate. Può cominciare.» Il comando partì.

Lo sconosciuto deglutì e, senza più parlare, mise la mano nella tasca della giacca e tornò fuori un oggetto poco sospetto. La scatolina di blu, ingabbiata da bianche dita, fu posizionata al di sopra del tavolino, posto accanto alla poltrona di John, che invece preferì rimanere ritto e concentrato. Solo un secondo e il cliente aprì la scatola lasciando intravedere un anello. Il diamante centrale, incastonato nel lucente oro bianco, era stato accompagnato a due zaffiri blu quanto la notte.

«Sono stato abbastanza coinciso?»

John cercò di comprendere il cosa si celasse dietro quel gioiello, ma riuscì solo ad arraffare teorie piuttosto basiche. Sherlock, al contrario, roteò gli occhi in segno di noia.

«Oh, mi lasci indovinare? Ha chiesto la mano alla sua fidanzata e ha ottenuto un sì come risposta. Peccato che, dopo, sia scappata non lasciando più alcuna traccia. Sono casi piuttosto frequenti. La sua sposa tornerà e anche se non lo facesse, il mondo se ne farà una ragione. Esca di sera, si ubriachi in un pub. Il tempo e l'alcol le faranno passare il momento.»

«Sherlock!» lo riproverò John, innervosito.

Il cliente mal tollerò il sarcasmo del detective. «L'ho cercata per mesi. Ho chiamato la polizia, ho smosso ogni agente di tutta Sheffield. Ero esausto e rassegnato ma, qualche giorno fa, alcuni funzionari civili mi hanno indirizzato al 221 B di Baker Street, a Londra. Mi hanno fatto il suo nome e adesso sono qui. Non me andrò facilmente.»

«Sono a conoscenza delle mie abilità ma, come ho già detto, non mi occupo di questioni sentimentali. Se ha fiutato qualcosa d'illegale, le raccomando una mia conoscenza. L'ispettore Lestrade sarà più che lieto di darle una mano. Lo troverà tra la Broadway e Victoria Street, a Westminster. Conosce Scotland Yard?»

Il cliente serrò la mascella per contenere la rabbia.

«La questione non è trovare qualcuno» rivelò, accigliato. «Lei è già qui. Io sono solo venuto a riprenderla.»

Il silenzio calò come nebbia all'interno della stanza, ibernando l'attimo. John, con la mente spenta, cercò di dare un senso alle parole appena sentite, ma senza successo. Il bruno, intanto, si pietrificò nella sua stessa posizione. Fu solo lo sconosciuto, squadrato il duo, a parlare ancora.

«Voglio sapere dov'è Gwendolyn!»

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Capitolo 32
*** Memorie fantasma ***


Memorie fantama

1.

Scotland Yard, Londra

Scotland Yard, quel quindici marzo, sembrava impigrita dall'assenza di personale e dinamismo. La gente, sempre intenta a disperdersi all'interno della struttura come una colonia di formiche, non era presente. L'orario tardo e il maltempo, sicuramente, avevano allontanato quasi tutti i professionisti, lasciando all'interno dell'edificio sale sgombre, corridoi silenziosi e tanta inerzia.

Lastre trasparenti erano poste attorno a un esiguo spazio, adibito a continui interrogatori di ogni genere. Dentro di quei pochi metri quadrati, luci bianche e soffuse gettarono un tenue alone su un tavolo. Proprio presso di esso, si erano posizionate quattro persone intente a condurre un interrogatorio. Greg Lestrade, accompagnato da una psichiatra, Anne Rowley, condusse la sua indagine con domande per il testimone. Il ragazzo, lo stesso che si era introdotto al 221 B presentandosi come il fidanzato di Gwen, era seduto in attesa di istruzioni.

«Vorrei che raccontasse tutto di nuovo, dall'inizio.»

Lestrade si aggiustò la camicia. Dopodiché, incrociò le dita con fare rilassato e si mise in attesa della testimonianza.

«Mi chiamo Russell, Russell Newman. Lavoro come infermiere al Royal Hallamshire Hospital, nel reparto di chirurgia. Però vivo a Low Bradfield, in campagna. Ho conosciuto Gwendolyn a giugno, durante il mio solito turno giornaliero. Sapevo chi fosse. Lavoravo con suo padre, una volta. È stata la dottoressa Jessica Ferguson a presentarci. Può contattarla se ha bisogno di una conferma... Comunque, ricordo quel giorno come se fosse ieri. Gwen era entusiasta per il suo tirocinio, ma si sentiva fuoriluogo. Io mi sono limitato ad aiutarla.»

Russell sospirò, alleggerendo i pensieri turbinanti dentro la testa. La lingua parlò, reggendo il filo conduttore del discorso.

«Abbiamo cominciato la nostra frequentazione qualche settimana dopo. Siamo usciti per una birra. E le solite cose. Non abbiamo mai ufficializzato la nostra relazione, perché non ne sentivamo il bisogno. Stavamo bene insieme, ci tenevamo compagnia. Io non ho mai avuto una famiglia, i miei sono divorziati da tempo, ma con Gwen tutto è cambiato. Abbiamo deciso di vivere insieme, in estate. Ad agosto mi sono trasferito a casa sua, e ho scoperto tutte le sue peculiarità. Sapevo di quanto lei fosse emotiva, ma non pensavo a...»

Russell perse del tempo per scegliere le giuste parole. Non era sua intenzione sembrare indelicato nei confronti di argomenti intimi.

«Prendeva molte benzodiazepine, stabilizzatori di umore, SSRI e persino triciclici. Era una quasi dipendenza in certi periodi, ma non mi importava. Io la amavo e non potevo lasciarla sola. L'ho aiutata ogni singolo giorno, fino a quando non sono comparsi i primi miglioramenti.»

Il ragazzo non riuscì a continuare, tanta era la responsabilità di quel discorso pronunciato con garbo.

«Sta andando bene, Mr. Newman. Continui» lo incentivò Lestrade, sempre più interessato al racconto di quel ragazzo.

«Era gennaio e le cose andavano bene, più del dovuto. Non so perché l'ho fatto, ma credo fosse quello desideravo. Ero entrato in possesso dell'anello di fidanzamento di mia nonna. Non so cosa mi è passato per la testa, quando l'ho regalato a Gwen come pegno. Non riesco a capire il significato di quel gesto. Volevo che diventasse mia moglie. Ma è stato solo un errore, perché Gwen, sì... ha accettato la mia proposta, ma solo per un giorno. Il pomeriggio dopo è cambiato tutto.»

Le spiegazioni continuarono.

«Le avevo lasciato dei fiori sul tavolino dell'ingresso, come regalo. Gwen non ha apprezzato il pensiero. Ha distrutto tutto il vaso scaraventandolo per terra. Io, allora, mi sono allarmato e mi sono precipitato da lei. Era completamente fuori di sé, quel giorno. "Mi lascerai sola, come hanno fatto gli altri". Lo ripeteva in continuazione. Penso abbia ingerito degli psicoanalettici, quel giorno. Noi abbiamo litigato, ma...»

Russell cedette all'ennesima pausa.

«Ma...» fece eco Lestrade, concentrato.

«Lei se n'è andata.» 

L'ispettore controllò il registratore ancora acceso. La spia rossa, luminosa, inghiottì testimonianze e parole di quel uggioso pomeriggio londinese.

«E così tutto ha avuto inizio.»

Il ragazzo fece una pausa.

«Non ho chiamato la polizia. Speravo si calmasse e poi tornasse da me. Ho cominciato le ricerche solo dopo. Non ho ottenuto molte informazioni, all'inizio. È stato Thomas Hill, un funzionario di Sheffield, a comunicarmi dove si trovava. Ho scoperto che era stata ricoverata per un episodio psichico e che Scotland Yard aveva aperto un inchiesta riguardante una presunta aggressione. Io sono partito per Londra, e–»

«Può bastare così!» esclamò Lestrade.

Anne Rowley continuò a scribacchiare sul taccuino, premendo le penna sulla carta con forza e tracciando le sue anamnesi. Poco concentrata, purtroppo, era la figura bianca e minuta, rannicchiata presso un muro spoglio quanto quello di una cella. Gwen da ore non era capace di sentire più nulla; aveva confinato ogni senso, isolandolo. Debilitata, cercò di estrarre dalla propria mente un ricordo, l'altra sé. Purtroppo, riuscì a incontrare solo una minacciosa sensazione di smarrimento.

Il dolore, come una macchia, contaminò tutto il suo cuore e lei non poté far molto quando anche il panico la rese un suo ostaggio. Solo qualche secondo e i suoi occhi, dopo la ripetizione di quel racconto maledetto, si spensero. Le sue orecchie, cominciarono a sentire un sibilo sempre più acuto e straziante. Il corpo cadde e l'impatto contro il suolo aprì una ferita sulla fronte bianca.

«Gwen» gridò Russell, percepito il tonfo.

«Cristo!»

Lestrade, del tutto assorbito dalle parole del suo prezioso testimone, agì a scoppio ritardato. Scollò il sedere dalla sedia e raggiunse il corpo esanime della donna. Con la mano, picchiettò sulla sua guancia, sperando in un accenno del capo.

«Greg, con calma» comandò la Rowley, sicura.

Gwen ricominciò a sentire un formicolio alla testa, sempre più dolorante. Fissò le luci del soffitto, che la inghiottirono estraniandola dalla realtà circostante. Mai come in quel momento, sentì le speranze evaporare, il cuore esangue e la mente agonizzante. Funi fantasma, galleggiando nell'aria, la cingevano come un preda per renderla un'ombra di una persona intrappolata in una storia non sua.

I sensi si raffinarono gradualmente, lasciando a Gwen la possibilità di squadrare l'uomo che, come un segno ostile, si era infiltrato nella sua esistenza, mangiandole tutto quello che di bello era riuscita a ottenere in pochi mesi. Il destino si era fatto un lupo famelico, pronto a nutrirsi con i suoi desideri.

«Tu menti» gracchiò la bocca, esausta.

Russell sulla faccia contrasse una smorfia.

2.

«Era molto simile a sua sorella, soprattutto da piccola. L'unica cosa che davvero la distingueva da Scarlett era una voglia. Scarlett aveva una voglia dietro la schiena, sul marrone e con una forma molto strana. Gwen, invece, no. Certo, c'è anche la questione degli occhi...»

Le bocca di Russell, seppur trasformata dalla tecnologia, filò le parole tessendo con cura la storia personale. Gwen, desiderò contrastarlo e, perciò, irruppe con un tono basso.

«Come fai a saperlo? Nessuno sa niente di quella voglia?»

«Gwen, sei stata tu a dirmelo. Non lo ricordi?»

Il registratore assolse al proprio compito e riportò, con una precisione disarmante, tutte conversazioni che si erano consumate durante l'interrogatorio. Russell aveva plasmato un racconto sconosciuto ai molti. Tuttavia quella storia, per quanto intricata, era sensata e condannava Gwen su tutti i fronti, demonizzandola come un essere che tutto era tranne che sincero. Dopotutto quel trambusto, non era mai esistita alcuna aggressione, ma solo un malinteso causato da uno scorretto uso di potenti psicofarmaci.

«È stato molto preciso» confermò Lestrade, premendo sul pulsante dello stop. Dopo si sistemò la giacca, ancora non del tutto stropicciata dalle faticose ore all'interno della struttura.

Sherlock Holmes rimase inerme, con la testa ricolma di interrogativi; la tristezza scatenata dall'amara scoperta, lo aveva portato a non riuscire a riflettere e, dal momento che riflettere era la migliore opzione, non seppe più come sentirsi lo stesso di prima.

Il blocco della cognizione fu difficile da gestire, soprattutto dopo certe confessioni, e l'uomo cercò di ricordare la Gwen di pochi mesi fa, quella sanguinante, in cerca di aiuto e con addosso le ferita di una fuga. Lui l'aveva analizzata così bene, ma la psichiatra, forse, era riuscita a fare molto di meglio.

«Non ho mai incontrato una ragazza con una situazione psichica così complessa. Qualcuno dovrebbe analizzarla al più presto, ma facendo attenzione alla terribile presenza di comorbilità: c'è un certo legame tra il forte stato emotivo, il continuo uso di psicofarmaci e l'evento dissociativo. Quella ragazza è un bel nodo da sbrogliare. Non ricorda niente ancora. Il suo cervello sembra aver cancellato e riscritto tutti i ricordi dei mesi prima della dissociazione. Mi ha confermato di non aver mai fatto abuso di farmaci, né di aver mai conosciuto quel ragazzo.»

Lestrade si grattò la testa, in segno di confusione.

«È tutto molto insolito.»

Anna Rowley sfogliò il taccuino, in cerca di dettagli e altro.

«Lo è, ma non troppo. Secondo Mr. Newman, la ragazza prendeva degli psicoanalettici, neurostimolanti molto potenti. Di solito li usiamo con chi soffre di una depressione maggiore, ma in piccole quantità, perché causano una forte dipendenza. Comunque, quella roba aumenta lo stato di vigilanza. Forse è stato il farmaco a destabilizzarla e a causare la dissociazione.»

Lestrade sprofondò nel proprio mondo interiore, in cerca di uno schema che potesse integrare tutto ciò che aveva raccolto con la stessa cura di una ape in cerca del polline. Purtroppo, niente riuscì a dargli una spiegazione che potesse salvare la ragazza.

«Greg?» lo chiamò la psichiatra.

L'ispettore riattaccò la mentre alla realtà.

«Oh, sto cercando di fare mente locale. Miss Blomst usufruiva di vasta gamma di sostanze. Spaziava dagli ansiolitici, fino agli antidepressivi. Secondo Mr. Newman, li assumeva come se si trattasse mentine e senza alcuna prescrizione medica. Era una psicologa, ma sapeva cosa assumere.»

«Sì, ho sentito» confermò Anne, prima di voltare i tacchi verso l'uscita dell'ufficio. «Ah, Greg, c'è un'altra cosa. Abbiamo contattato una certa dottoressa Jessica Ferguson, sotto consiglio di Mr. Newman. La donna ha confermato tutto: Miss Blomst e Mr. Newman si sono conosciuti il tredici giugno dell'anno scorso.»

«Quindi il ragazzo non mente» disse l'ispettore, incuriosito.

«E non lo fa nemmeno la ragazza. È davvero convinta delle sue spiegazioni e temo che Gwendolyn debba essere visitata d'urgenza. Si ostina a negare la verità, ma è normale, considerando tutto quello che ha vissuto. Spero solo non continui a farlo, o potrebbe mettersi in un bel guaio. Gli psichiatri le staranno addosso come sciacalli, etichettandola come delirante, e la cosa non mi sorprenderebbe, a dire il vero. Ha una mente davvero turbata e ha bisogno di cure mediche al più presto. Ha avuto una vita molto difficile, ricca di traumi. Il suo cervello non ha più retto e adesso sta cercando di proteggersi con finti ricordi e realtà mai esistite. Non voglio esprimere giudizi affrettati, ma è necessario che la ragazza venga subito rimandata a casa e aiutata.»

Lestrade annuì.

«Chiuderò l'inchiesta. La versione del ragazzo è reale. Inoltre non voglio trattenere quella donna a Londra. Se ha bisogno di cure, è giusto che torni a casa. La sua amnesia è più grave di quella diagnosticata precedentemente e non voglio che le cose peggiorino. Miss Blomst verrà rilasciata oggi stesso, Anne. Grazie mille per il tuo servizio. Ci è stato davvero utile.»

La Rowley eseguì un semplice cenno, in segno di riconoscimento per la gratitudine, e dopo mosse le gambe snelle su altri spazi, lasciando la stanza alla presenza di ben tre persone costrette a respirare il silenzio. Sherlock e John rimasero immobili e lasciarono la lingua a riposo per un tempo a dir poco infinito. Quel giorno, le brutte spiegazioni presero d'assalto il loro animo, condannandoli a una fastidiosa infermità.

Lestrade irrigidì tutto il busto, ancora ritto dinnanzi alla scrivania. Solo dopo una manciata di secondi riuscì a incontrare con gli occhi degli uomini accanto. Sherlock, dopo una anni di successi, si era messo a fare i conti con il fallimento. Era talmente devastato, da non sembrar più nemmeno capace di respirare. John, invece, seduto su una sedia, continuò a guardare in basso come un disgraziato intento a pregare affinché il suolo si dischiudesse, inghiottendolo con tutte le afflizioni.

«Io ho delle scartoffie da sistemare» comunicò Lestrade che, raggiungendo la porta, sfiorò l'ampio corridoio interno. I documenti lo attendevano e una giovane donna doveva assolutamente essere rimandata a casa. «Mi dispiace molto per quello che è successo.»

Greg lasciò l'angusto spazio e con esso anche il duo di amici, ridotti a essere due ombre trafitte dalla argentea luce di una finestra poco distante. Il medico, in particolare, non riuscì più a frenare né pensieri, né parole. Si alzò con fare indolente e bersagliò il collega, sfruttando a pieno le iridi, quel giorno tintesi di un cupo color fumo.

«Tu sapevi» farfugliò.

Sherlock sentì un fremito transitare per tutta la spina dorsale, costringendolo a un leggero sussulto, ma per poco riuscì a controllare la postura, dura e massiccia. John, preso dalla disperazione, aveva cominciato a ciarlare insensatamente.

«John, io–»

«Tu dovevi saperlo, per forza» ribatté l'ex soldato, aggressico. «Sei Sherlock Holmes, la macchina. Non hai mai sbagliato nel corso della tua dannatissima carriera. Tu sapevi tutto, ma hai preferito fare finta di niente. Forse hai solo preso tempo. Volevi esaminarla, cercare la tua soluzione e tenermi allo scuro di tutto, come hai sempre fatto. Tu...»

«John» lo chiamò ancora il bruno, ferito.

Sentì sulle spalle il peso degli errori compiuti e sul petto quello dei sentimenti. Lui stesso si era legato molto a quella donna e tale legame, così prezioso, lo aveva stordito. Purtroppo, ogni sentimento era sfumato, lasciandogli nella mente solo pensieri sordi e gli strascichi dell'ultima disgrazia. La principale colpa era stata aver dedotto un'aggressione che mai era esistita.

«Mi sono sempre chiesto come potesse essere così intrepida dopo una dissociazione. Ha partecipato alle nostre indagini e ha sempre superato le situazioni difficili. Ora mi rendo conto che non è mai esistita un'aggressione. Si è imbottita di farmaci e ha riscritto i suoi ricordi. Come posso biasimarla? È successo anche me» chiarì Sherlock, algido. «È stato tutto un malinteso.»

Fingere compostezza, con il battito spezzato da una donna e la compagnia di un amico sofferente, non era un atto da cuor leggero. Il medico, intanto, comprendendo di aver blaterato per la disperazione, rese il proprio sguardo più mansueto.

«Come può essere stato tutto un malinteso?» chiese, atterrito.

«Non sono stato un buon osservatore, John.»

Il medico, assorbite quelle parole, si fece addolcire dal bisogno di perdono e non riuscì più a tormentare il collega con la rabbia. Si limitò, piuttosto, a irrigidire la mascella e a serrare un pugno.

«Lei aveva cominciato a bere» continuò Sherlock, nonostante il brutto groppo in gola. «Ho pensato solo non volesse ricordare. Ma ora capisco. L'amnesia ha favorito un allontanamento dalla dipendenza di farmaci, ma solo per un periodo ridotto. L'alcol era solo un sostitutivo inconscio e–».

«Avevi dedotto una semplice insonnia» obiettò John, sentendo il rancore infiammargli il torace. C'era qualcosa di fugace in quella storia, qualcosa di marcio e corrotto sino al midollo.

«Lo so. C'erano delle benzodiazepine nella borsa, ma era solo una borsa. Esistono molti altri luoghi in cui tenere farmaci: la casa, il luogo di lavoro. Si è ferita cadendo, perché era infastidita da una lite. L'aggressione esisteva solo nella sua testa» sottolineò Sherlock, ancora incapace di metabolizzare ogni cosa. «E io non sono stato in grado di capirlo. È stata tutta colpa mia. Non sua, non di Gwen.»

Per John, sentire quel nome fu un po' come incorre in una doccia ghiacciata. Represse il desiderio di gridare per la frustrazione.

«È sempre colpa di qualcuno» confessò, arresosi.

L'eco dei passi si fece più consistente con il passare dei secondi, accalappiando la poca attenzione del bruno e del suo collega. Dietro alla finestrella dell'ufficio di Lestrade, camminarono due figure. Russell, a passo celere, avanzò lungo il corridoio, tenendo per il braccio una Gwen smorta e lacrimante. 

Nel petto dell'ex soldato mancò un battito, proprio nel momento in cui incrociò lo sguardo della donna che, sconsolata, si sentì come un computer affetto da un virus, un inutile aggeggio bisognoso di un ripristino. L'essere così fragile, così in balia degli eventi, l'avevano resa un fuscello pronto ad essere spezzato dalla tempesta. John, di certo, non l'avrebbe più nemmeno sfiorata, dopo lo sfaldamento di quel rapporto sentimentale.

Il tempo, nel mentre, cominciò a rallentare, assumendo lo stesso ritmo di una scena drammatica e, nonostante le morbide ciocche sugli occhi, la ragazza notò bene il suo medico corrotto dallo sconforto. Dischiuse la bocca, ma non riuscì però a nemmeno a gridare «John, mi dispiace», che Russell la strattonò, trascinandola per altre direzioni. Camminò come un automa, ma in realtà desiderò solo poter fermare il quei momenti, rannicchiarsi al di sotto della pioggia e dare sfogo al pianto, fino a quando il dolore non si sarebbe ridotto. Purtroppo, non riuscì nemmeno a respirare bene, tanto era lesto il passo di quello sconosciuto intento a riportarla a casa.

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Capitolo 33
*** E.V.O.L. ***


E.V.O.L.

1.

M1, Inghilterra

La Bentley corse lungo le strade accarezzando, con una buona guida lineare, immense colline dissetate da rugiada fresca. L'Inghilterra, trafitta da timidi raggi dorati, si espandeva lungo il cammino in prati incontaminati e contraddistinti da dispettose brezze pungenti e un alacre odore di terra bagnata.

Gwen si ritrovò come prigioniera della sua stessa auto, in un limbo di dubbi e paure. Il giorno precedente aveva smantellato tutte le certezze, lasciandola in balia del destino che, come un mare istigato dalla tempesta, la minacciava con onde sempre più mastodontiche. Gli strascichi di un passato ignoto si erano mostrati come clamorosamente lunghi e misteriosi. Soprattutto, gli ultimi due mesi si erano spacciati una bugia che lei stessa si era raccontata, solo una felice isola di sicurezza in cui rifugiarsi in attesa di un futuro migliore. John e Sherlock erano scomparsi, lasciandola sola.

La ragazza non lacrimò, tanto consumati erano i suoi occhi. In quel momento, non riuscì nemmeno a disegnare una linea immaginaria che potesse porre un confine tra il presente e il passato, dacché i ricordi si assomigliavano tutti e aleggiavano nella mente senza un ordine preciso. Lei si era affidata al sesto senso, ma nemmeno questo era riuscito a chiarire chi fosse Russell Newman, l'unico appiglio a cui appoggiarsi.

«È uno splendido panorama!» esclamò l'uomo.

La bionda lo fissò per qualche secondo, cercando di riconoscere qualcosa in quei tratti così due e marcati. Niente, tuttavia, sembrò stuzzicare la sua infeconda memoria.

«Troppo verde» fu l'apatica risposta.

Russell sorrise. «Chissà perché?»

«Perché piove sempre» rispose l'altra, sussurrando.

Non aveva alcuna voglia di cedere alle conversazioni dopo aver passato l'inferno in terra a causa di una mente traditrice. Mesi le erano stati tolti, sostituiti con sciocche menzogne.

«Senti, mi dispiace molto» irruppe il ragazzo, con fare pacato. «Per tutto ciò che è accaduto. Non volevi strattonarti prima, non avrei dovuto. Solo che per me è stato difficile e tu non puoi capire cosa ho passato durante le ultime settimane. So che sei confusa e non hai nemmeno idea di chi sia, ma non preoccuparti, sono qui solo per proteggerti e farti stare bene. Forse, sarà difficile all'inizio, ma noi ne abbiamo già passate tante e ce la faremo. Non so come, ma so quello che tu senti per me e mi basta per andare accettare tutto, Gwendolyn».

Il silenzio portò la giovane a una pungente dichiarazione.

«Se non ricordo nemmeno il tuo nome.»

Russell fece scattare la mascella, ma continuò la guida egregiamente, senza mai cedere nemmeno all'errore più insignificante.

«Ti rimarrà impresso, prima o poi.»

2.

Baker Street, Londra.

Il cielo notturno, oscuro e occulto, con la sua infinita e inconsistente forma, imprigionava una Londra ancora palpitante. Era bastata solo una piccola dose, l'ennesima peccaminosa zolletta di zucchero, e le chiare luci della metropoli si erano congiunte agli eterni astri celesti, amalgamandosi come un miscela fatta di tenebre e fulgidi picchiettature, ardenti e condannate a lenti movimenti.

Il mondo si capovolse e fu il cielo a occupare tutto il pavimento. Sherlock si sentì come elevato a un eterea dimensione, dove l'infinito si distendeva, attraverso riflessi indefiniti. Ritiratosi in se stesso, non riuscì a scorgere niente altro che un cielo in cui proteggersi. La sua mente del vagò per intere ore, liberandosi del passato. Niente, almeno per poco, era di peso e ogni ricordo si sgretolava, mettendo fine alla battaglia mentale intrapresa. Nel momento in cui l'eroina marciò nel flusso sanguigno, Sherlock riuscì a recuperare un paio di occhi con cui osservare una via diversa, lontana dalle paure e dalle insicurezze.

La droga si era impossessata di una mente, gingillandosi con i sentimenti e conducendo una battaglia infinita. Del detective non rimase molto, se non un espressione appagata e un ago inserito all'interno della vena sul braccio, bianco, lungo e ben disteso sul bracciolo scuro. [1]

Il mondo, per John Watson, il quale non era a conoscenza del dolce abbraccio delle sostanza sedanti, rimase crudele e asfissiante. Il letto matrimoniale rimase un groviglio di lenzuola fredde. Il lucernario, esiguo e lontano, sembrò solo un pezzo di firmamento incastrato nel soffitto. Persino il buio fece la sua parte, annullando lo scorrere delle lancette e congelando una notte non portatrice di consiglio.

La testa del medico, allora, si riempì di risentimento e tanto dubbio. Non riuscì a pensare al come fossero bastati solo pochi mesi per rimettere in discussione i suoi progetti e, nemmeno, al come nell'arco di poche ore quella fiducia, così naturale e semplice, si fosse sfaldata come un castello di sabbia accanto alle onde. Era stato solo uno sciocco a pensare di poter intrattenere quel genere di rapporto con una cliente sconosciuta senza prendersi le conseguenza e, dopo, sperare in qualcosa di buono. Forse era troppo orgoglioso per riconoscere l'umiliazione. Con la sua età, si era solo coperto di ridicolo nel lasciare un'altra donna prenderlo in giro e scappare come l'acqua di un ruscello.

Con Mary le cose si erano aggravate a causa della gravidanza, con Gwen, invece, tutto era sembrato un gioco, un adorabile gioco sostenuto da due sciocchi presi di mira dalla chimica. John, sentì ancora quel tono dentro della testa, così come percepì la tenera pressione di un corpo sul lato opposto del materasso. Forse, se avesse cercato meglio, avrebbe persino trovato un filo argenteo impigliato da qualche parte.

Il suo cuore, purtroppo, si squarciò in due parti: una di esse reclamò ancora la presenza di qualcuno pronto a farlo stare bene, dissipando gli anni bui della sua esistenza; l'altra invece continuò a bruciare per via della vergogna. Il dolore che si era aggrappato al suo corpo non gli permise nemmeno di parlare, ma solo di reprimere tutto la bile racchiusa nell'esofago. Non era colpa della rabbia, ma di un profondo senso di impotenza nei confronti di un sogno che si era trasformato di un incubo di pessimo gusto.

John soffocò la faccia contro il cuscino e ne subodorò il sentore. Le sue ali di cera, però, si erano sciolte per il calore del sole e, in un istante, non era rimasto altro se non la drastica caduta e l'impatto con la spietata realtà. Chicchi di sale sembrarono essere caduti sulle sue vecchie ferite, facendole ardere come fuoco.

Gli occhi neri di Gwen si spalancarono e accolsero un qualche strana forma di stupore nell'attimo in cui codificarono una grande struttura a due piani, mattonata con pietre rosse e costernata da una foresta scura e brulicante di fauna. La casa dei Blomst non era differente dalle tante altre nascoste dentro la fitta flora, ma per una essere come lei era uno scoglio in mezzo all'oceano. Il suo cuore perse un battito nel momento in cui i cancelli si spalancarono, accogliendo la Bentley. 

La donna scese dall'auto e, quando il piede poggiò delicatamente sul terreno solido, sentì come un brivido cingerle la gamba e salire su, fino al collo. I cancelli guarirono, ricongiungendosi e lei non poté fare a meno di girarsi e pensare a ciò si era lasciata alle spalle: Sherlock e John non erano nient'altro che un ponte bruciato.

In breve, si ritrovò nell'atrio, immacolato come non lo era mai stato e identico a quello ritratto nelle foto sul cellulare esaminato da Sherlock, a Baker Street. Molto probabilmente era stato proprio Russell ad aver ripulito il tutto, dopo la fatidica lite del racconto espresso nelle sale di Scotland Yard.

«È esattamente come lo ricordavo» sussurrò la giovane, commossa.

Russell posò a terra le buste contenenti i residui della fuga della donna e, ritto, cominciò a chiedere teneramente qualcosa.

«Perché non dovrebbe esserlo?»

La ragazza passeggiò, toccando ogni dettaglio della casa.

«C'è odore di candeggina.»

«È un male?» chiese lui. «La casa era in pessime condizioni. È servito un intero giorno di pulizie per ripulire tutto quanto.»

Gwen percorse il corridoio parallelo alla cucina e alla sala da pranzo, per poi viaggiare tra i ricordi sgorganti dalle decine di foto sulla carta da parati. Il doloroso passato la accompagnò fino alla scalinata che portava alle camere da letto. Tra queste, la prima a comparire fu quella del dottor Blomst, il quale era solito passare il tempo libero lì, a meditare accanto alla finestra; la seconda era proprio quella di Scarlett, che aveva abbandonato il nido prima dei suoi ultimi anni; l'ultima aveva contenuto la crescita di seconda sorella, la più piccola della famiglia.

La giovane continuò il proprio percorso, fino a entrare nel luogo più intimo. Spalancata la porta, notò il come le cose fossero rimaste tali a quali al passato: le pareti lilla intorno al letto, la cianfrusaglie e una cabina armadio. Entrò e si sentì come risucchiata in un sogno contenente una dimora ancora piena di gente e di parole, e non un mausoleo in cui le memorie si erano fossilizzate, generando un'atmosfera malinconica.

Il tempo, in effetti, sembrò essersi impigliato in un giorno già trascorso e lei, che non poté fare a meno di trattenere il risentimento, mosse ancora qualche passo, fino a giungere presso uno specchio sulla parete. Lì, scorse il proprio riflesso e notò tanti piccoli dettagli che quei mesi le avevano regalato: magrezza, pallore, una ferita alla testa e un sorriso al contrario.

Il riflesso imitò ogni suo gesto, costringendola a meglio scorgere un segno lasciato da l'altra Gwen, la stessa folle che, in preda alle dissociazioni, aveva cancellato un passato legato al consumo da farmaci.

La donna si massaggiò la testa, ripensando al manuale di psichiatria, il quale riportava diversi casi in cui alcuni individui si erano ritrovati a convivere con più personalità, senza nemmeno esserne consapevoli. Allora, tremò al pensiero di aver vissuto un'esperienza così considerevole e, terrorizzata da strane idee, mise in cerca di un indizio dei mesi precedenti. La sua mente voleva proteggerla da un brusco e misterioso passato, ma non poteva davvero essere arrivata a tanto.

«Sei solo una stupida.»

La donna sussurrò un insulta a se stessa ma, del resto, non le erano state concesse molte possibilità a Scotland Yard: o continuare a negare il racconto di Russell ed essere presa come donna delirante o ammettere il proprio episodio e tornare a casa per delle cure più leggere e delle sedute da frequentare. Il tempo era stato crudele e lei si era accontenta di rimanere inerme. Eppure, nonostante tutto il mondo le remasse contro, non era disposta ad accettare quella folle testimonianza, in nessun attimo d'incertezza. Quello che era sconosciuto penetrato nella sua casa, niente altro sarebbe stato.

«Gwendolyn.» Russell riaffiorò nello specchio lucido.

La giovane si spaventò, ma solo per il riflesso.

«Scusa. Non ti avevo sentito.»

Lui accennò a un sorriso carico di tenerezza e, come un tenero compagno, le cinse le spalle delicatamente, girandola.

«Oh, sta' tranquilla, sono qui solo per controllare che stessi bene. È stata una lunga giornata e capisco quanto questa situazione possa essere difficile. Ma ora sei a casa.»

Gwen si rese conto di essere con uomo mai incontrato.

«Sto come devo stare, ma grazie» rispose, allontanandosi con discrezione. «Ho tutto quello che mi serve e non voglio costringerti a restare ancora qui. Ti ho tolto davvero troppo tempo. Scusami, scusami tanto, sul serio. Starei meglio, se tornassi casa a riposare. Non meriti altri problemi.»

«Tu non hai di che preoccuparti. E rimango con te.»

La donna mal recepì quella dichiarazione. Russell si comportava come se tutto tra loro fosse stato risolto nell'attimo in cui si era consumato il loro primo incontro. Ciononostante, lui era ancora solo un grande e misteriosa incognita con in bocca solo racconti sconosciuti.

«Cosa?»

«Sei qui e non commetterò lo stesso errore» concluse il ragazzo, approfittando dello stupore della compagna; si avvicinò in cerca di un abbraccio caloroso. La bionda, dal canto suo, sentì solo il disagio crescere e fagocitarla.

«Ti prego. Non ricordo nulla di te. È tutto strano, molto strano. T-Tu n-non» cianciò lei, intrappolata tra due braccia estranee. «Torna a casa. Ho bisogno di stare da sola.»

«Sta' calma, tutto si sta aggiustando» mormorò Russell, sorridendo. «Tuo padre non è qui a prendersi cura di te, tocca a me farlo. Dopo una crisi del genere, sarebbe da forsennati lasciarti da sola. Domani ha inizio la tua prima seduta e sarò io ad accompagnartici. Ti abituerai a me, forse ricorderai anche.»

Gwen, scappata da quella stretta, si allontanò.

«Sono stanca, ho bisogno di riposare.»

La camera ritornò a ospitare la sua sola presenza e, qualche minuto dopo l'incursione, lei sentì l'ansia trasformarsi in panico a causa di quella presenza indesiderata nella suo dolce e personale rifugio. Il senso di soffocamento crebbe assieme al pensiero di essere stata intrappolata e un gorgoglio nacque nel suo stomaco. Fu solo quando il senso di nausea si fece insopprimibile, che divenne obbligatorio barricarsi in bagno per dare sfogo a ogni malessere.

«È colpa dello stress» dichiarò la ragazza a se stessa, rigettato il cibo. L'attimo dopo, si ritrovò raggomitolata a terra, con le lacrime sulle guance e, in testa, il peso di tutte le domande irrisolte.

3.

Richmond Park, Londra

Sotto al cielo terso, Richmond Park sbocciava per mezzo di tutte le sue pregiate piante che, nel mese di marzo, nonostante il meteo precario, si erano schiuse in timidi fiori incoronati da rigogliose foglie sane. Nella parte più nascosta del territorio, in un prato soffice, era stata scavata una ampia fossa, contente il freddo corpo di donna sulla quarantina, coperta da abiti neri e circondata da colorati decori floreali.

«Bethany Peterson, quarantatré anni. Vedova, scomparsa due giorni fa, secondo la testimonianza delle figlie. Il pomeriggio era andata in palestra, verso le quattordici, ma non è più tornata casa.»

Lestrade, seguito come sempre dalla sua solita équipe, controllò il corpo, cereo e immobile. Non colse alcun segno di violenza; si rese conto che la sciagurata era stata appositamente posta nella buca.

«È stata uccisa e preparata per il funerale. Non indossa una tuta, ma un abito nero. L'assassino deve averla cambiata, dopo aver fatto questa una fossa. Infine, ha coperto il corpo con dei fiori. È tutto molto chiaro, simbolico. Ha cercato di lasciare un messaggio. Dobbiamo solo capirne il significato.»

Sherlock, nel suo completo, s'inginocchiò per meglio guidare l'occhio sulle tante particolarità impresse sulla morta. Dopodiché si alzò con una certa fatica a causa della debolezza e della salute consumata dalle tante dosi di eroina. Da giorni era consumato da ritmi poco salubri: continui casi, sonno infrequente, pasti modesti e consumo di stupefacenti.

«Sherlock, apprezzo molto la tua collaborazione, ma penso di potercela fare anche da solo. Torna a casa e cerca di riposare» consigliò un Greg allarmato da quella faccia scarnita, dagli zigomi più affilati e le guance inesistenti.

«Oh, no. Sento di essere vicino alla soluzione» dichiarò l'altro, arzillo. «John, il libro che ti ho chiesto di portare. Sfoglialo e quando elencherò un fiore, leggi il significato riportato.»

«Solo se dopo torniamo a casa.»

John, truce, eseguì i comandi ma con fare indolente. Cercò di dare un senso al proprio male e anche a quello del collega con i casi, ma i risultati non erano mai quelli sperati. Il dolore mai diminuiva e Sherlock era sul punto di crollare e incorrere in lunghe settimane sotto il tetto del Bart's.

«Garofano, rosso?» chiese, nonostante la stanchezza.

«Rabbia» rispose John, sfiorando le pagine.

«L'anemone?»

«Significa abbandono.»

«Rosmarino?»

«Ricordo.»

Il detective ebbe come un tentennamento nel codificare l'ultimo fiore, una candida e rigogliosa rosa posta al centro del petto morto e pallido quando la cera di una candela. Deglutì e, dopo un solo attimo, soffiò la sua domanda. «La rosa bianca?»

John sentì la memoria percorrere gli attimi assaporati nelle tante settimane precedenti. Un nodo gli immobilizzò la gola, reticente nel dichiarare l'ultimo significato, quello più crudele.

«Innocenza.»

Tutte le deduzioni furono presto riunite in un unico schema compatto e senza falle. Lestrade fu molto contento dell'ottimo lavoro svolto dal bruno, ma non riuscì a non farsi scappare una certa quantità d'apprensione. Quindi, raggiunto il medico, si decise a dire: 

«John, tienilo d'occhio.»

L'uomo, con lo sguardo afflitto, rispose.

«Lo sto già facendo.»

4.

John era stato sempre costretto a battagliare contro le problematiche di Sherlock, ma era giunto in un punto troppo caustico. Il senso dell'impotenza non gli permise di stare dietro a un collega sempre più propenso ai peggioramenti. La situazione presto sarebbe finita e il medico era ceduto alla carta più estrema, chiamare Mycroft Holmes. L'uomo di ghiaccio, per quanto incatenato al proprio ruolo algido e insensibile, non riuscì a non ostentare un reale turbamento nei confronti del fratello minore, risucchiato in un male senza fine. Perciò, annullato ogni impegno, giunse al 221 B, con il fine di chiedere un'unica cosa.

«Il foglio, Sherlock.»

Come d'abitudine il bruno, seppur remissivo, concedette al proprio familiare un pezzo di carta con sopra riportate tutte le dosi consumate nell'arco dell'ultimo periodo. Il rituale, in quegli attimi, aveva ritrovato luogo, buttando sul l'altro Holmes un alone oscuro.

John, rinchiuso nella sua camera, sentì solo dopo le parole trapanare il muro e, compreso tutto, si indirizzò al soggiorno, dove Mrs. Hudson, con le braccia conserte, già ascoltava e di tanto in tanto spezzava il dialogo tra i due fratelli con qualche frase.

«Non dorme, né vuole riposarsi. Sta sveglio tutto il tempo, senza chiedere niente. Sa, non vuole nemmeno assaggiare il mio sformato di carne. E pensare che è la ricetta di sua madre.»

«Oh Mrs. Hudson, ne sono più che consapevole» aggiunse l'uomo di ghiaccio tenendo l'equilibrio sull'ombrello nero, unico compagno di anni consacrati al dovere patriottico e alla solitudine.

John entrò di soppiatto, attirando ogni sguardo.

«Dottor Watson, finalmente» lo salutò Mycroft.

Sherlock, accomodato sulla poltrona nera, lanciò al collega un'espressione non molto cordiale, contorta a causa dal sentimento scaturito dal tradimento. Il medico, abbindolato dai troppi assilli, si era giocato tutto per tutto.

«John. Non avresti dovuto.»

Il medico si sentì un Giuda.

«Mi hai costretto a farlo, Sherlock.»

«Doveva, eccome» tagliò corto l'altro Holmes, rivolgendosi all'altro membro della sua famiglia. «Ti stai consumando lentamente. C'è qualcosa che ti tormenta e cresce dentro la tua testa, senza darti un attimo di respiro. Ti tengo d'occhio e so a cosa stai pensando. Continui a spremere le tue meningi sul caso di Sheffield e, se ti conosco quanto credo, le tue ricerche non devono essere andate a buon fine. Spiacevoli scoperte, fratellino?»

Il detective orientò lo sguardo contro un punto neutro. John, intanto, assimilò nella mente il significato della parole di Mycroft e, completamente impreparato a tale dichiarazione, strabuzzò gli occhi.

«Tu stai ancora lavorando al caso, non è vero?»

L'uomo di ghiaccio emise un risolino beffardo.

«O forse lo ha già risolto, dottor Watson.»

L'ex soldato, completamente impotente dinnanzi quelle scoperte, si limitò a poggiare la fronte sul palmo dispiegato, in segno di sconforto. Negli ultimi giorni il dolore, seppur ancora forte, si era cicatrizzato, lasciando solo un cuore sterile. Tutto, però, era in procinto di essere ancora analizzato e interpretato con altre teorie.

«È una storia finita, per entrambi.»

«Non c'è mai stata una fine» confermò il bruno, confutando l'amico. «La versione di Scotland Yard è coerente, ma solo se presa nella sua globalità. Io mi sono solo concentrato sui dettagli, quelli irrilevanti. È da lì che ho tracciato tutto il percorso, fino a giungere al cuore della vicenda. È stata una semplice foto a mettermi il dubbio. Ho scavato fino a dove ho potuto, ma ho ottenuto solo delle ipotesi poco sensate. Nient'altro.»

«Di cosa stai parlando?» chiese John, stanco.

«Lestrade ha solo fatto un altro buco nella acqua, John.»

«Non ha più importanza adesso.»

«Ce l'ha, a giudicare dall'aspetto di mio fratello. Succede, quando ci si lascia guidare dai sentimenti» chiarì Mycroft, passeggiando per il soggiorno. «Come ho già detto, volpes pilum mutat, non mores. Onestamente non capisco questa sua grande passione per donne così controverse e misteriose, dottor Watson».

«Sherlock, di che cosa stiamo parlando?»

«È complicato, John!» rivelò Sherlock, dissuadendolo.

«E tu SEMPLIFICALO!» sbraitò il medico.

Il bruno arraffò un po' di tempo e lo impiegò solo per scegliere tra alcune alternative: continuare a mentire a John, raccontando il falso; sfruttare il potere delle mezze verità; confessare tutto ciò che aveva scoperto, uccidendo i sentimenti di un amico.

«Come ho già detto, è tutto partito da una foto. La foto di un uomo alto, corporatura possente e ottimo aspetto. Cristoff Blomst era un uomo aitante e anche un ottimo medico, uno dei migliori a giudicare dalle ricchezze di Gwen. Non gli mancava denaro conoscenza, ma è riuscito a farsi uccidere dal diabete. Nessun medico, così apparentemente in forma e preparato, può morire di diabete nel corso di poco tempo. Ho pensato al peggio e, subito dopo, mi sono ricordato di un altro individuo, Scarlett Blomst, morta solo il mese dopo, in un incidente ridicolo. La macchina, pur trovandosi in una delle strade meno trafficate del paese, è finita fuori carreggiata, finendo in un campo di querce. Tutti avranno pensato a un animale, eppure nelle foto degli articoli online che riportano il fatto, non ci sono nemmeno i segni della sgommata. Nessuna traccia di sangue, solo l'auto incenerita e un corpo carbonizzato. La scena del crimine ha sempre qualcosa da dire.»

«È ora che tu la smetta!» John non riuscì nemmeno a pensare.

«Durante il soggiorno a Copenaghen, Gwen mi ha parlato del suo passato, della sua nascita. La madre è morta pochi giorni dopo il parto, per delle complicanze e lì, tutto ha avuto inizio. L'emotività di Gwen è sempre stata un peso per la famiglia. Scarlett ha badato a lei, ma l'ha bistratta allo stesso tempo. Il padre la trattava come un persona malata e la sottoponeva a diverse cure psichiatriche, anche quelle più sgradevoli.»

Mycroft ascoltò con attenzione.

«Tutto sembra tornare. Due omicidi perfettamente incastrati a un movente ragionevole, ma non penso che una ragazzina possa riuscire a fare così tanto. È davvero un lavoro troppo complesso.»

«Non ho mai detto che era sola» obiettò Sherlock. «Ho come l'impressione che qualcuno l'abbia aiutata. Qualcuno che conosceva il padre, qualcuno come Russell Newman. Lavoravano insieme e Newman ha delle buone conoscenze mediche. Ha ucciso il Mr. Blomst con somministrazioni di glucosio o insulina, ma non so ancora come il tutto sia stato eseguito. Scarlett è stata una preda più difficile e solo un uomo sarebbe capace di simulare un incidente stradale. Ci vuole una certa tempra e tanta forza fisica per costruire quel genere di teatrino.»

«Ragionevole come riflessione» constatò l'uomo di ghiaccio.

«Si erano uniti nel crimine. Forse, Gwen l'ha corrotto con i soldi, ma qualcosa è andato storto e non ha più accettato i propri crimini. Distrutta dal senso di colpa, ha cominciato a sviluppare una dipendenza dai farmaci. Due anni dopo, rincontra Newman, con il quale riallaccia i rapporti. Fingono di non conoscersi. Tutti credono che il loro primo incontro sia stato una mattina dello scorso giugno. Forse Russell l'ha ricattata e ha usato il loro piccolo segreto per costringerla a una relazione. Lei ha accettato, ma dopo non ce l'ha più fatta. Hanno litigato e gli psicoanalettici hanno dato luogo all'episodio dissociativo. Il cervello non ha più retto e ha cancellato tutta la violenza dal suo passato, sostituendola con un'esperienze diverse.»

La spiegazione continuò.

«L'evento ha creato due Gwendolyn, la prima ha fatto del male alla famiglia e si è fatta divorare dal risentimento, la seconda non ha mai compiuto nessun omicidio, ma ha accettato la morte dei suoi cari, ricavandone una benedizione. "Quella tragedia si rivelò una cura, una cura bizzarra ma efficace". È stata lei a pronunciare questa parole, a Copenaghen.»

Sherlock si fece assorto, parola dopo parola.

«È un quadro molto complesso e pieno di buchi neri» rivelò Mycroft, severo. «Ci sono tanti punti irrisolti nel tuo racconto, ma da quando ho saputo dell'arrivo di quell'uomo a Baker Street, nemmeno io sono riuscito a trovare una spiegazione che fosse davvero esaustiva.»

«Scoprirò la verità.» Sherlock digrignò i denti.

Mycroft lo osservò con piglio serioso.

«Se questo porterà pace alla tua anima, ben venga. Quella donna ti sta logorando e tu vuoi scoprire ogni cosa solo perché non riesci ad accettare l'idea di vederla come carne dietro alle sbarre di un carcere.»

Il silenzio confermò le teorie dell'uomo di ghiaccio, il quale si era fermato accanto a un'altra figura sconsolata dalle tante parole confinate da quelle parole. John, completamente inerme nel sentire una storia così dannatamente plausibile, percepì il proprio sangue raggelare a ogni ricordo che si era consumato nella mente. Non riuscì più a serrare le mani, né tanto meno a digrignare i denti. Tuttavia, una voglia di distruzione lo accalappiò, avvelenandogli tutta la coscienza. Qualche secondo e un pugno colpì la libreria posta accanto al camino. Qualche libro cadde a terra, aprendosi sul tappeto sporco.

«Suvvia dottor Watson, è solo un ipotesi» lo rincuorò Mycroft, con una punta di fiele in bocca e John, a quella dichiarazione, si diede alla fuga, l'unica soluzione accettabile.

«John», lo richiamò Sherlock, disperato.

L'ex soldato raggiunse la porta, quando una mano lo agguantò.

«John caro» sussurrò Mrs. Hudson, con tono melenso. «Non si lasci troppo abbindolare dalle chiacchiere di quei due. Ho conosciuto quella ragazza e sono sicura che si trattasse di una persona sincera.»

John si diede a un sola frase, traboccante d'odio.

«I matti sono sempre sinceri.»

5.

Yorkshire, Inghilterra.

Il tempo cominciò a rallentare il suo corso e, così, a trascorrere quieto e indisturbato, senza destare nessun anima all'interno della casa in mezzo al bosco. Gwen non si accorse del ticchettare delle lancette e, come un essere lobotomizzato, si limitò a scorgere la luna lasciar posto al sole, solleticato dalle tante fronde. Tutto il mondo sembrò divenire di pietra, conferendo alla sua esistenza la percezione di essere rinchiusa in un sogno eterno e senza risveglio. Le terapie si susseguivano, così come il pranzo e la cena. L'asfissiante presenza di Russell, per di più, contornava quel tedioso scenario, degno di un film di Forman. [2]

Gwen si sentì come intrappolata in una prigione mentale, inattaccabile da terapia e farmaci blandi. In realtà, da quando la scatola di Pandora si era dischiusa, ogni cosa aveva uno strano effetto su di lei, la debilitava sottraendole ogni giorno le forze. L'aprire buche dentro la propria psiche, non le giovò, dacché la confusione era aumentata. Inoltre, ancora ignara era l'identità di Russell Newman. 

Quel ragazzo si era dedicato a più approcci con fare molto sottile. In alcuni momenti ostentava troppa premura e in altri cui si divertita a fare il ruolo padrone di casa, il marito perfetto. Gwen non era mai stata costretta ad accettare relazioni intime, eppure era riuscita a cadere in tunnel sempre più scosceso. Le cose si erano fatte intricate, soprattutto nel momento in cui erano comparsi gli strani tic di Russell, non molto contento di stare lontano dalla casa di cui si era fatto proprietario.

La donna rifletté sul come avrebbe dovuto comportarsi con suo aspirante sposo e si fece trapassare la testa da strani pensieri. Russell, per un proprio tornaconto personale, era il primo ad approfittare delle sue debolezze, senza mai concederle un minuto di solitudine, né la possibilità di soffrire in silenzio. Lei si sentì soffocata da quelle attenzioni morbose e cercò di parlarne apertamente, ma senza successo. 

Fu un episodio a trattenerla dal compiere un gesto troppo avventato, un momento passato al Bradfield Village Hall, in cui era solita fare acquisti. Russell, come la solita ombra, l'aveva seguita e, dopo averla osservata scambiare distrattamente qualche parola con un addetto, reagì. Qualsiasi uomo era capace di frantumare quel loro fragile rapporto immaginario e, conclusosi l'attimo, l'afferrò per le spalle, conducendola nel reparto surgelati.

«Perché mi fa questo?» la sgridò, furibondo. «Non ti ho dato abbastanza? Non ti ho dato abbastanza, Gwen?»

In quel momento i campanelli d'allarme suonarono contemporaneamente, quasi annunciando ciò che prima si era presentato solo come l'accenno di uno squilibrio mentale.

«Stavo solo parlando, stavo...» La ragazza sospirò, sconcertata. Lui non si era mai permesso di fare il barbaro, né le di arrecarle del dolore fisico.

«Perché manchi di rispetto alla nostra famiglia, Gwen? Non puoi farti guardare con altri o la gente penserà male di noi. Non prendermi in giro. Non tradire la mia fiducia. Non me lo merito dopo quello che ho sto facendo per te.»

Lui la ammonì, tramutandosi nell'opposto di ciò che era sempre stato. Quella fu, purtroppo, l'ultima goccia.

6.

Isolarla, quello era il fine.

Gwen comprese di essere prigioniera, prigioniera delle proprie anamnesi, prigioniera del proprio status di donna malata e prigioniera di un uomo che non era mai stato una sua conoscenza. Le menzogne si erano indebolite con il tempo, disegnando crepe su quel nitido quadro di inganni creati per la Metropolitan Service.

Russell, nell'arco delle settimane, era cambiato in un bambino capriccioso e iracondo. La bionda, seppur debilitata dalle pillole, riuscì ancora a riflettere e notò che il nemico si era fatto mangiare dal rancore. Si era resa mansueta per non essere un oggetto di furia, ma le liti erano sempre in agguato.

«Tu non sai niente, Russell» confessò lei durante l'ennesimo pomeriggio passato al suono di grida.

«Smettila! Stai solo delirando» sbraitò lui, elettrizzato.

Gwen sentì la luce forarle la cognizione, aprire un buco con cui fuggire dalle tenebre. Il suo unico scopo fu rintracciare un indizio che le permettesse di comprende le realtà. Lei, forse, non era mai impazzita, era solo stata presa in giro come una sciocca.

«Ho accettato di sposarti, ma senza nemmeno dirti niente di me. Te ne rendi conto? Tutto questo non esiste, Russell, non esiste niente. Mi stai solo ingannando.»

Non riuscì più nemmeno a gridare, che una mano la strattonò contro il muro del corridoio, sbattendola come un oggetto insignificante. Incombette Russell, con la faccia grinzosa e disabbellita da una bocca ringhiante.

«STA' ZITTA, SCARLETT!»

Gwen sentì solo la pelle contro il muro e il dolore dominare tutta la sua testa. La ferita sulla fronte, nonostante il lungo periodo di guarigione, si dischiuse lasciando scorrere del sangue fresco.

«Scarlett?» Un sibilò uscì fuori dalla bocca.

Russell, scatenata l'esplosione, si calmò e sentì nella coscienza uno strano senso di rimorso. Quindi, prese il corpo della ragazza e lo accarezzò con gentilezza, come aveva fatto nei giorni prima.

«Scusami» piagnucolò, come un bimbo. «Non volevo farlo.»

Gwen restò inerme e dolorante. Gemette leggermente e, rantolando di tanto in tanto, accolse di malavoglia le viscide carezze del suo carnefice. «Ho preso una botta in testa, Russ. Può essere pericoloso. Ho bisogno di un medico, portami in ospedale.»

Il dolore non scemò con il tempo, ma rimase costante e lancinante quanto il marchio di un ferro infuocato sulla fronte. Purtroppo nemmeno la paura intrappolata nel corpo della donna riuscì a contagiare l'uomo, troppo impaurito persino da se stesso.

«Mi occuperò io di te.»

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Capitolo 34
*** Clérambault ***


Clérembault

1.

Il sangue, denso e scuro, percorse la pelle liscia. La goccia, gonfia e di un profondo colore cremisi, sfiorò la tempia e, come un macabra carezza, corse giù per lambire la guancia lattea. Gwen sentì il dolore recidere la sua testa e, nonostante le gambe tremolati e, approfittò dell'assenza di Russell e si diresse verso lo specchio inchiodato al muro dell'ingresso. Lì, poté tastare la pelle sana, attorno al taglio di nuovo fresco e rosso.

«Ah» gemette toccando il puntò più doloroso.

Spremette i lembi di carne martoria, fino a quando il sangue si fece copioso e grondò sulla sua faccia, macchiando il parquet, il tappeto e la consolle. La bocca si tinse di tante striature scarlatte e persino le mani sembrarono rosse come quelle di un macellaio.

La mente formicolò dinnanzi quel triste scenario così cruento e i pensieri cominciarono a svegliarsi, come a voler reclamare una posizione. Il sangue, elemento così atroce, se sparso per casa in tante dilatate chiazze sulle superfici era sul punto di parlare, gridare una realtà nascosta. La giovane, allora, odorò il fastidioso sentore dell'ammoniaca e tutto sembrò acquisire un senso.

Quel pezzo di casa, nel giorno in cui tutto aveva avuto inizio, aveva ospitato un flusso di sangue a dir poco abbondante. Le macchie si erano stampate sui muri, sul pavimento e persino lungo il sofà poco distante dal portico esterno. I ricordi, forse, erano sul punto di ritornare.

2.

«Malattia?»

La profonda voce della Gomez, psichiatria dalle origini catalane, facilmente si accostò a una faccia minuto e scura. La dottoressa con grande maestria tenne le redini dell'ennesimo test mentale riguardante associazioni tra parole e pensieri. Gwen continuava a elencare risposte da parecchi minuti, lasciando la mente sgombero dai ricordi sul punto di uscire fuori dall'inconscio, da quel calderone di mistero e reminiscenze dormienti.

«Prigione.» 

Comunicata la risposta, la paziente rimase ferma sulla sua poltroncina nera. Lo schienale dietro la spalle, le luci soffuse e la parete bianca avevano creato un'atmosfera serafica e molto simile a quella del grembo materno, un limbo dove lo scorrere del tempo era ancora inesistente.

«Medicina?» continuò la dottoressa.

«Miracolo.»

«Dottore?»

Gwen fu solleticata da quella parola e con la mente si catapultò direttamente verso John Watson, il quale l'aveva pugnalata con gli occhi durante il loro ultimo increscioso incontro. Il gioco mentale prevedeva una risposta casuale, la prima a giungere attraverso collegamenti cerebrali per mezzo di una semplice intuizione. La gola, scaldata dalle corde vocali, tirò fuori poche sillabe intense. 

«Assenza.»

3.

La piena luna argentata, come una bella sfera luminosa, si era agganciata saldamente su un telo di tenebre notturne. Gelidi aloni e pallide sfumature leccavano la foresta, nera quanto e sfregata dal vento che, impetuoso, costrinse le fronde a cantare malinconicamente. Le rocce, incapaci di alcun movimento, affrontarono le raffiche. Delle betulle e dei faggi spogli, invece, scricchiolavano per mezzo degli arti ramosi, sotto ai quali si allungava il latrato di volpi in cerca di prede da snidare.

Gwen sentì il freddo di marzo forzarla a un isolamento ancora più duro, durante il quale la selva rimaneva la migliore compagnia. Il vento, insormontabile ed eterno, si assottigliò e penetrò le fessure della finestra, fino a scontrarsi con il suo corpo e trapassarlo da parte a parte. Lei stessa credette che quel gelido morso avesse avuto un qualche pessimo effetto, dal momento che pure l'anima sembrava in portico di ghiacciarsi con il passare delle settimane, giorno dopo giorno, battito dopo battito.

Le memorie, ciononostante, sembrarono riscaldarsi e acquisire più consistenza, premendo contro la barriera tra la censura e la conoscenza. Era solo questione di poco e, finalmente, la donna avrebbe riacquistato il proprio passato e, forse, modificato il futuro. Era necessaria solo un po' di accortezza e un taccuino da riempire con nozioni fresche d'inchiostro.

Gwen, per quanto impotente, continuò a immedesimarsi nella propria scomoda posizione, ma lottò per affrontare il pericolo quotidianamente. I ricordi si sarebbero preso congiunti alla agli altri indizi raccolti in segretezza durante il ritorno nel luogo dell'aggressione, sui particolari riguardanti il folle Russell.

La psichiatria era una scienza dinamica, secondo l'opinione generale degli esperti. Il tempo era necessario per raggiungere un il fulcro, per tracciare il profilo di una persona malata e, purtroppo, era conquistare una fuga. Era necessario quel il taccuino da riempire con informazioni su strani comportamenti.

«Sono io la matta o lui?» sussurrò la ragazza, mentre delineava inchiostro su fogli.

Tutto sembrava aver preso una piega davvero insolita dal momento che, più la carta si impregnava di scritte, più lei comprendeva di essere stata ingannata, come una agnellino destinato alle fauci del lupo.

«Gwen, cosa stai facendo?» Russell si palesò come uno spettro ed emerse dal buio, cogliendo la preda nel momento di distrazione.

La bionda, allora, ritta dinnanzi la finestra della propria stanza, tenne stretti suoi appunti schiacciandoli contro lo stomaco, ancora in subbuglio e, come una creatura mistica, accolse la luce lunare, conquistando un aspetto quasi etereo.

«Osservavo il cielo» mentì, lesta, con la speranza di sembrare quantomeno convincente. «La luna è splendida, stasera.»

L'uomo si convinse di ciò, ma non si scomodò ad andarle incontro. La gelosia era tanta e persino il guardare distrattamente gli astri fu per lui un segno dato dalla bisogno di fuga. Lei non si era innamorata di lui ed era disposta a scappare ancora.

«Puoi fissarla quanto vuoi, ci è concesso solo questo. È alla terra che si rimani attaccati, Gwen. Sia da vivi che da morti.»

4.

«Sto per andare lavoro. Tornerò domani mattina. Ho il turno di notte e c'è carenza di personale. Sarebbero persi senza di me.»

Russell sorseggiò la sua tazza di tè in modo terribilmente disinvolto. Le arrabbiature erano scemate in quel periodo e ciò era accaduto grazie alla abilità di Gwen, adattatasi a un approccio perfettamente accondiscende.

«Certo, ma non ti affaticare.»

La ragazza cedette con elasticità a toni flebili, ma anche melensi. Vezzeggiare il nemico con caldi tazze di tè e attenzioni gentili, sembravano la miglior strada da intraprendere durante quella curiosa prigionia fatta di pulizie e finte effusioni. Perciò, era necessario svegliarsi alla prima luce del mattino, cucinare qualcosa di caldo e lasciare tutto sul tavolo della cucina, dove l'uomo giungeva per la colazione.

«È una notte intera, ce la fai a stare da sola?»

«Forse sì» rispose Gwen, prendendo i piatti sporchi.

«Sicura?»

«Certo» concluse lei, sorridendo.

La perfetta mogliettina non era il suolo ruolo prediletto e interpretare certi comportamenti con così tanta costanza si era fatto fastidioso, soprattutto durante gli attacchi di nausea. Newman si era abituato a lasciare casa sempre alla stessa ora, liberando Gwen dalla minacciosa ombra della follia. La ragazza, allora, approfittava di ogni minuto di libertà per studiare tutto ciò che si presentava come un possibile spiegazione dell'inarrestabile corso degli eventi.

Il manuale di psichiatria, custodito nella stanza del padre, era stato letto con molto interesse. Bastava concentrarsi sulla sintomatologia, dell'irascibile parassita dentro quelle quattro mura. Le ricerche, di conseguenza, continuarono anche online, mangiucchiando il tempo libero e aiutando la donna ad analizzare le giuste conclusioni. Il due aprile, durante un tiepido mattino di sole e pace, fu il giorno in cui finalmente la soluzione si fece concreta e cambiò ogni cosa.

5. 

Londra, Baker Street.

Nel 221 B, nonostante i controlli e le tante ammonizioni, Sherlock dovette ricorrere a metodi sempre più innovativi per assumere stupefacenti; e dosi, tuttavia, erano diminuite drasticamente, al contrario dell'appetito, che era aumentato regolarmente. Il suo aspetto era migliroato, ma solo leggermente, poiché ancora troppo dolorose erano le speranze crollate, le tante teorie naufragate nel mare dei pensieri.

In quel periodo ancora intaccato dal malumore, il detective si occupò di più casi contemporaneamente e dedicò la silenziosa notte solo a quello principale. L'amnesia di Gwen era rimasta un arcano senza soluzione, ma facilmente collegabile a tante assurde spiegazioni. Molte erano le idee nate dalla concentrazione, ma nessuna era riuscita a raccogliere i pezzi mancanti, né aveva dato alcuna conclusione.

Le attenzioni della ragazza si erano marchiate nello spirito del bruno, rendendolo incapace di sottomettere la paura in favore della fredda lungimiranza. Il raziocino, sfortunatamente, si era crepato sotto il peso dei battiti, delle voglie e dei desideri irrealizzati.

John invece, migliorando di giorno in giorno, aveva imparato a convivere con l'acre sapore della delusione. Evitava l'argomento spinoso e si dedicava alle sue distrazione, alla professione, alle indagini, alla salute del coinquilino e alla crescita della di Rosie. Delle volte, effettuati i controlli medici, si sedeva al tavolo del soggiorno, accendeva il portatile a si metteva a scrivere, distogliendo la mente dalla negatività e dando inizio a un teatrino di finta quotidianità.

I numeri del blog, di giorno in giorno, continuarono a moltiplicarsi, così come i commenti e, all'improvviso, sempre più gente scrisse sulla pagina, aggiungendo teorie o addirittura remando contro determinate risoluzioni. Il popolo di internet era molto strano e, senza alcun timore, si era imposto di sbandierare opinioni su qualsiasi argomento. Fu ordinario, allora, far scorrere i commenti e abbrancare con le pupille particolare nickname e commenti enigmatici.


WHITEROSE2

Clérembault
 

Il medico strabuzzò gli occhi e si chiese il perché di una parola così sconosciuta. La sua mente ritornò alle rose bianche, alla pelle di Gwen, morbida quanto un petalo e anche ad altro ancora. Subito si rese conto di essere finito ancora nelle rete di reminiscenze e, come per spegnere tutto, fece scattare lo schermo in il basso con il braccio.

Sherlock, nonostante stesse suonando, non si fece scappare quella piccolo gesto. Fermò l'ultima strusciata e cercò di consolare il collega, più mogio rispetto agli istanti precedenti.

«Internet non è mai il miglior modo per distrarre la mente.»

Detto ciò, ricominciò a sfiorare le corde con l'archetto.

«Forse no. Hai ragione» ammise l'altro, esausto.

L'ex soldato si alzò dalla seggiola e fece per andare in cucina a prendere un bel caffè amaro, ma delle parole lo destarono immobilizzandolo al secondo passo, incerto quanto il primo.

«Le persone sanno dare il meglio della proprie incapacità dietro a una tastiera. Si comportano come se già non fosse complesso comunicarci di presenza. Lo schermo rende disinibiti» continuò il detective, concentrato e sempre attento alla melodia.

Il medico si girò, esibendo le occhiaie e una barba più pronunciata.

«Sì, ho notato. Si divertono a risolvere casi senza nemmeno le prove, alcuni contestano il tuo modo di lavorare. Hanno anche detto che dovresti provare a tagliarti i capelli. Per quanto riguardo gli altri commenti, non saprei nemmeno decifrarli. Clarambalt...»

Il violino produsse melodie più rilassate. Le note si distesero abbassandosi leggermente, come in segno di remissione. Qualcosa aveva sottomesso la loro importanza.

«Clérambault» lo corresse il bruno, assorto.

«Sì, penso sia quello.» 

E il collega lasciò il soggiorno.

John si rese prese conto di non sapere preparare un buon caffè, poiché tante erano state le occasioni in cui se l'era comprato in una comune caffetteria londinese. Il problema fondamentale era riuscire a scoprire la giusta dose tra la parte d'acqua e il macinato: troppa acqua consisteva in un brutto caffè, poca acqua e il risultato sarebbe stato una notte all'insegna dei sonniferi.

«Che diamine!» Il medico imprecò, poiché non era stato molto attento e aveva rotto il filtro cartaceo. I singoli granuli, umidi e compatti, erano caduti nella tazza, rovinando tutto il lavoro svolto.

Nel frattempo, Sherlock ricominciò a suonare con una maggiore impetuosità, sforzando il braccio a movimenti sempre più celeri e determinati. L'arco graffiò le corde, tessendo, nota dopo nota, una melodia turbinosa, senza pace.

Il detective, distaccatosi dalla realtà, si era confinato all'interno della propria cognizione e, come un forsennato, si era lasciato guidare soltanto dal triste guaire dello strumento e dai tanti pensieri galoppanti.

Il suo collega, allora, non poté fare a meno di notarlo strano, con le vene del collo gonfie e gli occhi fissi in un punto cieco. Il computer, prima chiuso, mostrava il monitor luminoso e ritraente l'orda di commenti riguardanti l'aggiornamento. Tra questi c'era ancora lo strano messaggio recapitato in quello stesso pomeriggio.

Le tensione intasò l'aria e il viso di Sherlock si fece grinzoso. Le sinapsi erano intente a susseguirsi, comunicando realtà non ancora conosciute. Le mani plasmarono l'ultimo suono acuto e poi posarono lo strumento con poca cura. Nel frattempo, un urlo a rimbombò tra le sottili mura, squarciando la quiete.

«Sherlock!»

L'ex soldato si fece prendere dalla paura e, raggiunto il soggiorno, notò il coinquilino rovistare tra scartoffie e lanciare oggetti contro il camino spento. Un rumore di passi svelti risuonò, annunciando la presenza di Mrs. Hudson, più che sconvolta dall'impetuosità degli ultimi rumori.

«Per l'amor del cielo!» L'anziana parlò, attonita.

John continuò a guardare il proprio collega ringhiare come un cane rabbioso e senza un apparente motivo. Determinare cosa fosse scattato dentro la sua testa era un fine irraggiungibile e, di conseguenza, andò a immobilizzarlo con le braccia per torcergli delle spiegazioni.

«Sherlock, Cristo. Cosa ti è preso?»

Il bruno, sotto la presa del collega, controllò gli spasmi.

«Come ho fatto, John?»

«Come hai fatto cosa?»

«Come ho fatto a non capire...»

6.

«Questo ti farà sentire meglio, caro.»

Mrs. Hudson versò nella tazza, bianca e lucida, una brodaglia rilassante all'aroma di fiori di lime e valeriana. La teiera, con dentro quel toccasana per i nervi, sembrò come sempre essere la sua migliore arma.

«Non adesso!»

Sherlock rifiutò di bere e, seduto sulla poltrona, lasciò scaricare gli ultimi residui del precedente stato di eccitazione. Il malanimo, tuttavia, persistette e ciò fu palese sia all'anziana che a John, ancora smarrito.

«Puoi dirmi cosa ti è successo?» chiese questi, seduto al proprio solito posto, con le braccia conserte e la faccia stremata.

Il bruno fissò il collega e dischiuse la bocca tremolante.

«Gaëan Gatian de Clérambault.»

John ascoltò la parole del coinquilino, ma senza carpire un senso soddisfacente e, di conseguenza, aggrottò la fronte in segno di dispersione. Sherlock, che invece era a conoscenza del punto focale del proprio imminente discorso e non si trattenne oltre.

«Poco noto psichiatra francese, conosciuto in quanto insegnante del più conosciuto Lacan, ma anche per i suoi studi riguardanti sindromi psicotiche molte rare. Il suo più grande successo si è basato sulla scoperta dell'erotomania, un tipo di disturbo delirante in cui il paziente ha la convinzione infondata e ossessiva che un'altra persona provi sentimenti amorosi nei suoi confronti. Nella forma più comune della patologia, il presunto amante è di una classe sociale superiore.»

John tentennò.

«Sherlock, di cosa diamine stai parlando?»

L'altro si alzò, muovendosi spasmodicamente.

«La convinzione di essere amati da qualcuno è spesso accompagnata da un sistema di false credenze secondarie, che portano il paziente a crearsi un piccolo mondo immaginario del quale cerca di auto-convincersi. Esistono tre fasi della malattia, una lunga discesa verso il baratro. L'oggetto del delirio erotomane non ha alcuna particolare relazione con la persona affetta da questa sindrome.»

L'ex soldato cercò di dare un'ottica a quel discorso ma senza successo. Sicuramente, approfittò del silenzio per dare al collega tutto il tempo necessario a un'accurata delucidazione.

«Abbiamo una vittima, John. E anche un carnefice.» Sherlock attaccò i piedi a terra e fissò il medico, con sguardo eloquente ma inquieto. «Prima fase dell'erotomania, Mr. Russell Newman incontra la sua prima vittima, Scarlett Blomst, la figlia di un suo superiore. Si tratta di un periodo di lunga durata. Il malato aspetta che il partner desiderato si dichiari, ma rimane incastrato nell'attesa.»

John sbarrò gli occhi, incredulo.

«Sherlock...»

«Fase numero due... il rifiuto. Il malato, dopo un reale riscontro negativo, cade spesso in depressione, diventa aggressivo o ha tendenze suicide. È sempre così, prima della...»

«Sherlock», lo richiamò ancora John, confuso.

«Fase tre, l'erotomane rivolge tutta la sua aggressività contro l'oggetto del desiderio. Nel peggiore dei casi ricorre al crimine per raggiungere la vittima. Newman ha agito secondo un piano specifico: ha rimosso il principale ostacolo alla realizzazione del suo volere, uccidendo il padre della donna. Lo ha ingannato, sostituendo l'insulina con il glucosio. Fa tutto in fretta, in modo che nessuno possa capirlo. Il mese dopo, a strada sgombera, ha rapito Scarlett, fingendo un comune incidente stradale. In fondo, era un infermiere e l'accesso ai morti dell'obitorio era facile. Il corpo dentro l'auto era carbonizzato, irriconoscibile. Non c'è mai un corto circuito, John.»

Mrs. Hudson ascoltò il fiume di frasi ma non comprese molto, a causa dello scarso materiale immagazzinato. John, in realtà, non comprese nemmeno, ma una forte tensione paralizzò tutta la sua postura.

«Passano due anni, ma la malattia non può retrocedere. Ogni caso di erotomania, se portato allo stremo, sfocia nell'omicidio. Dopo giorni, forse anche mesi di prigionia, Scarlett Blomst muore, uccisa dal suo rapitore. A Newman non rimane niente altro che un cadavere di cui disfarsi e una malattia. È solo e ha bisogno di indirizzare la sua follia contro qualcuno.»

Il medico lasciò che quella spiegazione gli riempisse la testa, rivoluzionando tutto ciò che era stato detto in precedenza. Il dolore, nato dalle idee sbagliate su Gwen, si sciolse nell'arco di poco, lasciando posto a sentimenti indefiniti.

«Lui... Lui... ha...»

Sherlock assottigliò il taglio dei propri occhi.

«Ha solo compensato la morte di Scarlett con Gwen.»

John deglutì e poggiò la faccia sui palmi dispiegati. Il suo magazzino mentale, pieno di sofferenza e supposizioni, non riuscì a codificare con prontezza l'ultima teoria. I sentimenti, inoltre, non permisero una buona metabolizzazione della figura della donna, angelo e demone a seconda delle intuizioni del collega.

«È solo un'altra sciocca ipotesi, non è così? Be', è ora che tu la smetta con queste storie. Sono stanco di te e delle tue deduzioni.»

Il bruno gli rinfrescò il passato.

«Lo so, ma non questo non è un abbaglio. Il giorno dell'interrogatorio, Russell ha parlato di una voglia sulla pelle di Scarlett. Conosceva troppi dettagli intimi su Gwen, dettagli estrapolati durante la prigionia della sorella, secondo le mie deduzioni. Ha ingannato tutti, Scotland Yard. Ha ingannato me.»

John non resse più la collera e cominciò a sbraitare.

«Ha mentito continuamente e tu non te ne sei accorto?»

Una battito mancò a Sherlock. Smascherare un pazzo non era come farla in barba a un bigotto dell'MPS.

«Ha costruito castelli mentali con cui convincersi. Il delirio e le convinzione errate prendono possesso della lucidità e l'erotomane è sincero nel raccontare storie assurde. I segni di riconoscimento più chiari non sono mai le bugie, ma gli scatti d'ira e l'aria costantemente turbata.»

Il medico strizzò le palpebre, cercando di ricordare quel fatidico giorno, il disgusto per Gwen, pugnalata con un'occhiata storta, ma eloquente. Il senso di colpa lo attanagliò, spronandolo a imprecare e a spalancare le palpebre dinnanzi al monitor luminoso.

«È stata Gwen, non è vero?»

E Sherlock rispose.

«È in pericolo, John.»

7.

La pioggia scese giù timidamente, rinfrescando l'erba e lasciando, sopra al tetto, l'eco fantasma di un leggero picchiettio. Dentro al salotto, Gwen se ne stette ferma sul sofà, con le rotule al di sotto del mento e gli occhi fissi sulle grigie scene di Vertigo [2]. Il thriller continuò, colmando il silenzio con intrighi e segreti.

«Quanti anni avranno?»

La voce di Madeleine sgusciò fuori dal televisore, animando la casa con il suo tono dolce. Il protagonista maschile, Scottie, rispose alla sua protetta, dando inizio al celebre dialogo.

«Diciamo duemila, forse di più»

«La più vecchia cosa vivente.»

La giovane ascoltò, senza distogliere mai lo sguardo.

«Sì. Non era mai venuta qui prima?»

«No.»

Scottie continuò a porre domande.

«A cosa pensa?

«A tutte le persone che sono nate e...»

Gwen si massaggiò la fronte ferita.

«...Morte mentre questi alberi hanno continuato a vivere.»

«Infatti si chiamano sequoia sempervirens: sempre verdi e vivi.»

«Non mi piacciono!»

«Perché?»

E Madeleine rispose.

«Perché so che devo morire.»

D'un tratto, le onde sonore di un rimbombo si espansero nell'atmosfera, recidendo quel clima di serenità in favore di un maggiore stato di suspense. La ragazza si ritrovò sola e con una sensazione di sgomento, poiché nessuno era in casa, o almeno questa era la sua supposizione. Si alzò con fare molto cauto e, con il passo felpato, si spostò verso l'ingresso, le cui pareti furono macchiate da un'ombra intenta.

Gwen, non sapendo riconoscere il nemico, si armò di un ombrello chiuso e si mimetizzò con le tenebre, in attesa di un attacco a sorpresa. Tuttavia, qualcosa di familiare la tranquillizzò.

«Blomst!»

La giovane, ascoltato quel tono baritonale, dovette ricredersi e scambiare la paura con una migliore emozione. La gioia la investì e la portò a premere l'interruttore della luce con un gesto tremolante, ma rapido. Il bagliore irradiò la casa, mostrando l'inaspettato ospite.

«Sherlock!» Il cuore si fece ricolmo di speranza.

Il detective, completamente fradicio ed emaciato, guardò la donna, fattasi magra e stanca. Nutrì, in quel momento, il desiderio di aggiustare quella orribile situazione. Gwen, in risposta a quel miracolo, lasciò gli occhi impregnarsi con lacrime di speranza.

«Hai forzato la mia porta» farfugliò. «E saresti potuto incappare nel mostro che mi tiene in ostaggio. Come puoi essere così sciocco?»

«Ho fatto i miei calcoli. So che fidarti di me è difficile dopo quello che è successo, ma potresti ricrederti» rispose lui.

Il cielo si ribellò alla primavera con una saetta e il boato accompagnò l'ingresso di una seconda figura, altrettanto riconoscibile. John Watson entrò di sottecchi, come un cane dopo la punizione, e si avvicinò alla donna con fare atterrito. Rivederla così gracile e ferita lo fece sprofondare nel baratro dell'imbarazzo. Compiere un atto di fede era stato impossibile e, naturalmente, lo era stato proteggerla.

Gwen, tramortita dalla presenza del suo medico, dischiuse la bocca e mandò la mente in altre direzione, la portò dentro quel bieco ricordo codificato poco dopo l'interrogatorio

«Io... Be', mi dispiace» biascicò l'ex soldato, demoralizzato.

Restò fermo e, con in bocca il silenzio, aspettò un qualche cenno da parte di lei che, altrettanto muta, diede finalmente la sua chiara risposta. Inutile aggiungere che John quella replica la sentì, eccome. Sulla guancia, semplice e dolorosa.

La bionda non era mai stata capace di picchiare nessuno, nemmeno gente del peggior rango ma, in quel momento, uno schiaffo poderoso e lesto era stata la miglior forbice per mozzare il filo annodato al passato. Non esistette più quello sguardo a Scotland Yard, né alcuna sensazione di rabbia dopo quell'istante.

Il medico, d'altra parte, accettata la sberla, strinse i pugni per poi scioglierli pian piano nel momento in cui lei gli si gettò addosso, liberandosi in un pianto isterico. L'uomo la strinse forte, trattenendola al petto e, nella foga del momento, le stampò un bacio sulla ferita cocente. La ragazza singhiozzò, senza smettere, e mai si lamentò dei baci ispidi del proprio uomo che, con la leggera barba, le punse la carne rossa. Sherlock, intanto, li stette a guadare con un certo distacco.

Nel frattempo, in salotto, Vertigo continuò a scorrere, trasmettendo scene cariche di pathos. Madeleine, dentro lo schermo, ricominciò a interrogare il proprio adorato Scottie.

«Perché mi segue?»

E il poliziotto rispose.

«Perché sono responsabile di lei, ormai. I cinesi dicono che dopo aver salvato la vita di una persona, uno si impegna a proteggere quella persona per sempre.»

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Capitolo 35
*** Il paradiso brucia ***


Il paradiso brucia

1.

Il maltempo continuò, bombardando la terra con una pioggia sempre meno copiosa. L'acquazzone si fece umile e ogni goccia nell'arco di poco fu parte di una acqua buona. Non era la stessa pioggia, era leggiadra e purificatrice mentre scendeva giù, dissetando il suolo.

L'acqua s'infranse contro il tetto, fondendosi con l'aria e diramandosi sulle finestre. Dietro quest'ultime, lacrime di cielo, fresche, strisciarono sulla pelle chiara e compatta di Sherlock, ridefinendo ogni tratto, gli zigomi, il solco al di sotto della guancia, il naso affilato e lungo; persino i suoi occhi si erano fatti più limpidi e tersi.

Gwen, con pazienza, tamponò il detective con un asciugamano morbida e ancora fresco di pulito. Con cura, lo premette contro l'acqua, asciugando per mezzo di soffici massaggi circolari. Disegnò con le mani i tratti dell'uomo, seduto sul letto come un bambino.

«Grazie» disse infine, sussurrando.

Le dita bianche e sottili pettinarono i riccioli scuri che, innaffiati dalla pioggia, si erano tinti di un nero più intenso e brillante.

«Sono stato lento, invece.» 

Sherlock rimproverò se stesso prima di sentire lungo il collo, spesso e diafano, riceve le carezze della donna. Il panno premette contro le clavicole e poi scese giù, sul petto, completamente glabro e bianco.

«Be', adesso sei qui. È questo che conta.»

La giovane s'inginocchiò, allineando il contatto tra gli occhi. Sherlock, infervorato dalle cure materne della donna, non sentì più la fredda umidità, ma solo un calore. Non riuscì a tollerare quella pressione, così intima, e si sforzò di allontanare i sintomi di quella bizzarra ubriacatura sentimentale. Gwen, nel frattempo, inconsapevole degli effetti di un tocco così dolce, continuò a muovere il braccio lungo tutto ciò che la purpurea camicia sbottonata aveva lasciato scoperto. Senza alcun timore, asciugò il resto del torace e dello stomaco.

«Ti aiuto a togliere la camicia» gli disse cingendo le spalle.

E Sherlock si scostò.

«Ho delle buone facoltà mentali, so come disinnescare una bomba, far reagire un acido e, sicuramente, anche come usare un asciugamano» rivelò, con amarezza.

Le braccia restarono coperte, lontane dai mani che avrebbero potuto smascherare i lividi antiestetici lasciati dall'ago. Gwen, conoscendo le bizzarrie dell'uomo, acconsentì al desiderio con un sorriso e lo lasciò liberò dalle altre cure invasive.

«Be', pensa al resto», gli comandò amorevolmente, indicando anche gli altri indumenti. «Ti vado a prendere una vestaglia, intanto. Non muoverti da qui.»

Sherlock, sfiorato il pericolo, continuò ad asciugarsi con attenzione e, nonostante il fisico debilitato e la stanchezza del viaggio, trovò la forza per concludere il lavoro. La bionda, nello stesso identico momento, si allontanò di qualche metro, in un luogo sommerso dal dolce picchiettò della precipitazione. Rimase lì, come in attesa, e godette della presenza di quella pioggia che, inondando il resto del mondo, ridusse la casa in un involucro sicuro, dove ogni male finalmente si era estinto.

2.

Rimasero tutti e tre seduti sul sofà, accanto al camino contente lingue vermiglie e incandescenti. La legna, seppur umida, bruciava, riscaldando le pareti e tutto il resto. John e Sherlock, presi alla sprovvista dal temporale, dovettero spogliarsi, mettere i panni nell'asciugatrice e nascondere ogni nudità al di sotto di calde vestaglie maschili appartenenti al defunto proprietario della casa, il dottor Blomst.

Gwen, in mezzo a loro, sorseggiò la tiepida tisana, spiaccicando parole di tanto in tanto.

«Pensavo non lo avresti capito?» confessò, titubante.

Sherlock, allora, fece una smorfia. «È molto scortese sottovalutarmi in questo modo. Ho letto il tuo messaggio questa mattina, ed eccomi qui.»

La bionda posò la tazza a terra per terra e riscaldò le mani al di sotto della coperta che, come un manto, avvolgeva tutte le sue membra, riparandole dal gelido tocco delle basse temperature. Il fuoco, nel frattempo, fece il resto.

«Ho cercato un metodo per contattarvi, ma dovevo passare inosservata. Lui è molto attento a quello che faccio. Mi sorveglia continuamente, tranne durante il lavoro. Ho capito la fase di patologia raggiunta, ma non sono ancora riuscita a capire quanto è pericoloso. Sono casi davvero molto rari.»

«Be', su questo ci sono arrivato io» confessò il bruno.

La giovane si fece sorpresa. «Gli erotomani, di solito, rimangono bloccati alla prima fase.»

«Non lui, non dopo quello che ha fatto.»

«Cosa? Che intendi?» chiese lei, confusa.

John si immise nella conversazione, in modo da riuscire a salvaguardare l'incolumità mentale della donna, ancora non a conoscenza dei fatti. L'omicidio di due famigliari era un tasto troppo dolente per essere spiattellato con così poca sensibilità.

«Sherlock, non mi sembra il momento adatto. Rimanderemo questo discorso, a questione risolta. Gwen ha bisogno di riposo.»

La ragazza, tuttavia, si fece solo più stordita dai toni poco chiari e dalla desiderio di riuscire a colmare tutte le lacune lasciate dal passato. Sherlock, com un genio, era attento a precedere chiunque di molti passi, lasciando solo delle impronte da seguire.

«Non capisco, spiegatemi!»

John sospirò, dando inizio a un secondo di quiete. Il collega preferì le confessioni.

«È stato lui a uccidere tuo padre. E a rapire tua sorella, naturalmente» confermò Sherlock, incerto. Il silenzio era sin troppo assordante.

La parole restarono sospese nell'aria, fermando lo scorrere dei minuti e cancellando ogni riflessione. Gwen le sentì, ma inizialmente non ne carpì il significato, poiché percepì la mente rifiutare il senso di quello frase. L'attimo dopo, però, tutto cambiò e fu assorbito ogni concetto.

«Sherlock, che cosa stai blaterando?»

Il bruno si convertì ancora in impenetrabile ghiaccio.

«Tuo padre faceva continue iniezioni di insulina, non è così?»

«Era diabetico» confermò la ragazza, tentennando.

«Lavoravano insieme, Gwen, e tuo padre si fidava di lui. Gli infermieri sono molto attenti alle punture, le fanno in continuazione ai loro pazienti. È bastato sostituire l'insulina con qualche miscela al glucosio, per farlo morire. È successo in un solo mese e tuo padre non si è mai accorto dell'inganno.»

«Sherlock!» lo rimproverò John, suscettibile.

L'altro contraccambiò lo sguardo del collega, ma non volle fermarsi. Gwen doveva sapere tutto, altrimenti, non avrebbe mai preso provvedimenti mirati alla propria reale salvaguardia.

«Ha simulato un incidente d'auto, dopo aver rapito Scarlett. Il cadavere carbonizzato veniva dall'obitorio. Le cose si sono aggravate e ha... be'... ha ucciso anche lei. La sua patologia non è migliorata con il tempo. E adesso sei tu il suo interesse. Assomigli molto a tua sorella...»

La donna si fece assente a causa dell'esplicazione. Il cuore le si appesantì nel petto, dopodiché salì fino alla gola, mozzando ogni bisogno di parlare. Metabolizzare il lutto era complesso, ma metabolizzarlo ancora sotto un ottica molto più cruenta, era pressoché impossibile per chiunque.

«Non era necessaria la spiegazione, non oggi.» John, al di sotto delle coperte, prese la mano della donna, stringendola con cura. Le dita si attorcigliarono attorno polso, ospitante le pulsazioni accelerate, unico indizio di un malumore fomentato.

«Invece sì, John.» Sherlock si rivolse alla donna, che già gli teneva stretto il palmo, a causa del troppo bisogno di conforto. «Non sono qui per mentirti, ma solo per avvertirti del pericolo. Non sei al sicuro, e adesso che sai la verità, devi assolutamente andare via, subito. Restare qui può esserti fatale.»

«Io... Io...» Gwen cominciò a gemere, a lacrimare.

Essere ingannata era un conto, passare i giorni con un assassino era una maledizione molto più grande. Dopo anni di illusioni, di odio, finalmente era riuscita a ottenere una spiegazione reale, seppur atroce. Era stato stato un uomo a trastullarsi con la morte, estirpandole tutte le radici, le sue di radici.

«Io...»

Le sue due mani, occultate da uno strato di lana spessa e soffice, si erano legate a quelle dei due uomini, non a conoscenza dello strano intreccio creatosi tanto simultaneamente. John preferì di una stretta solida, quanto quella di un familiare.

«Sta' tranquilla!» esclamò, dolcemente.

Sherlock, al contrario, sembrò quasi solleticarle le dita.

«Anch'io ho qualche cosa da confessare.» Gwen ritrovò la parola e la usò solo per migliorare l'intricato quadro della situazione. «Sto ricominciando a ricordare. Stare qui mi ha come aiutato a risvegliare i miei ricordi, ma ancora non sono a conoscenza di quello che è successo. Mi dispiace.»

«È un ottimo passo in avanti» disse medico, schietto.

Gwen sciolse le mani dal fugace tocco dei due.

«Non posso venire via con voi.»

Lo scoppiettio delle fiamme rallegrò il silenzio, sceso assieme al disappunto. John non ebbe nemmeno la forza di controbattere e il bruno, disposto a dare fiato alla bocca, si fece prendere dal desiderio di stroncare l'affermazione precedente.

«Spero tu sia consapevole della grande sciocchezza di cui la tua bocca è partecipe. Ti ho ben esplicato che sei la prigioniera di un assassino. Non è ancora abbastanza farti ragionare?»

«Lo so, ma non sarà questo a mettere tutto a posto. Ovunque vada, lui mi raggiungerà» replicò Gwen, rancorosa. «E io non ho niente per farlo arrestare. Ha ingannato Scotland Yard, me e persino voi. Sono solo una matta per gli altri e non posso limitarmi a fuggire. Devo trovare un modo per fermarlo e fargliela pagare.»

Odio, solo odio.

John non riuscì a non lasciarsi sfuggire tutto quel rancore atto a cementificarsi nel corpo della donna. Lo sfogo era esploso, ma lui non era disposto a correre degli inutili rischi.

«Non c'è tempo per un piano» disse, innervosito. «Dobbiamo scappare, e quando saremo al sicuro potremo pensare a come rintracciare le prove. È la cosa più giusta da fare.»

«Sarebbe la migliore opzione, ma non ce ne sono di prove» confermò Sherlock, frustrato.

«Ci saranno, invece» sussurrò Gwen. «Sono da qualche parte nella mia testa. Devo solo ricordarle.»

Sherlock indirizzò le iridi glaciali sulla donna, catturandone l'innocenza e quel senso di fragilità appena trapelato. L'idea partorita da quella testa argentata era ottima, ma allo stesso tempo troppo pericolosa, considerando tutto il passato che era emerso. Russell avrebbe potuto farle del male o, addirittura, ucciderla in un momento di crisi.

«Ci vorrà del tempo, la mente sa essere molto resistente.» Il detective non si fece contrario, ma nemmeno concorde.

«Bene. Starò qui fino a quando non accadrà» disse la donna.

John, preso dal senso di protezione, non desiderò ascoltare altro. Aveva già abbandonato la giovane e ripetere quell'errore era sarebbe stato un passo falso. Doveva starle accanto, limitare il danno e allontanare quella faccia da qualsiasi male.

«Gwen, ti rendi conto d–»

«Separarmi dalla casa rallenterà solo il processo.»

«Non sei al sicuro, qui» la rimbeccò il medico, esasperato.

«So come gestirlo, ho studiato per imparare a farlo» confermò Gwen, con un tono baldanzoso. «Tende alle arrabbiature, ma solo se cerco di difendermi. Basta dargli delle attenzioni e diventa molto più mansueto. È manipolabile e so come raggirarlo, John.»

L'ex soldato, però, non accettò scuse.

«Gwen, non voglio saperne di questa storia.»

«Ne saresti capace?» chiese Sherlock, schietto.

E la ragazza rispose. «Certo.»

3.

High Bradfield, Yorkshire

Il sole finalmente abbandonò il suo nascondiglio, per lo più composto da boschi rigogliosi. Le ombre furono diradate dai primi timidi raggi e il cielo assunse un colore indaco. Stormi di uccelli spiccarono il volo, diffondendo il cinguettio. Il mattino, nascita di un giorno, si era insinuato con un'alba tetra, ma bella dinnanzi ai cuori più nostalgici.

John non aveva dormito molto quella sera, e quel poco di sonno raccolto era stato insolitamente leggero. Infagottato per bene, si ritrovò al caldo, con una mano al di sopra del bacino di Gwen. Questa, sentendo quella pressione, dilatò un sorriso macchiato da una punta di tristezza. In seguito, mosse le dita sulla chioma del suo uomo.

«È ora di andare» disse, in modo amaro.

Russell sarebbe ritornato entro poche ore ma John, d'altra parte, era contento solo quando era accanto alla sua donna. L'idea di lasciarla con un folle psicopatico lo preoccupò non poco.

«Non resterai qui. Torni a casa con noi» ordinò il medico, contrastando la brutta aurea della giornata.

Qualcosa di molto nefasto era sul punto di giungere e Gwen, purtroppo, non sembrava nemmeno accorgersene. Tutto scorreva impotentemente, come una trama da tempo scritta.

«Non ti fidi di me?»

John s'irrigidì.

«Mi fido di te, mi fiderò sempre di te. È delle mie sensazioni che non fido. Restare qui non è la scelta migliore.»

La ragazza si mise seduta, scostando le coperte. Si posizionò sopra l'uomo, lo tranquillizzò facendogli poggiare la guancia sul seno e, senza mai smettere, gli massaggiò la schiena.

«Brutto presentimento?»

«Pessimo» confessò lui, dopo una pausa.

La bionda, allora, per rabbonirlo, gli prese il volto con le mani e, con lentezza, si avvicinò. Si fermò poco prima di incontrare le sue labbra, per meglio rimirare le iridi blu e consumate dal bisogno di sonno. Premette le pupille sulle borse al di sotto degli occhi, sui i solchi del tempo, la fronte attempata, il biondo stinto e gli altri piccoli difetti del medico. Infine, presa dal senso di tenerezza, stampò sulle sue labbra sottili un bacio dolce e lucido.

«Ti prometto che andrà tutto bene.»

John ascoltò quelle parole, ma rimase incerto.

Sherlock rimase in piedi, sul portico della casa, in attesa del collega. Il maltempo sporcò il terreno con le foglie secche anche qualcos'altro. Una ghianda rotolò lungo il prato fino a toccare la scarpa scura del bruno, che la sentì picchiare. Un attimo e questi la afferrò con le dita, studiandone ogni piccolo millimetro. La sua mente tornò a Copenaghen, dove Gwen si era messa nei panni della tata, giocando come una bambina troppo cresciuta. Gli aveva garantito un bacio ma, essendo a corto di ditali, non era riuscita ad adempire alla sue sacre promesse.

Lui però era riuscito a reperire una ghianda, il simbolo dell'affetto nato dentro Peter Pan, incapace di confessare le sue emozioni e troppo infantile per gestire le persona amate. Non era stato migliore di quel personaggio immaginario, mai. Gwen non si era posta alcun problema nel lasciarlo solo e conquistare un altro uomo. Era troppo tardi per tornare in piedi e godere di quei momenti tanto assaporati.

Per triste gioco del destino, lui era sempre stato legato a John e, nel frattempo, si era lasciato sfuggire dalle mani il bene della donna.

«Siamo in ritardo» farfugliò, mesto.

Il cigolio del portone si distese nella quiete, concedendo a Gwen gli ultimi saluti. Il bruno raggiunse la donna, solo per comunicarle l'essenziale e assicurarle un soccorso in caso di necessità.

«Sosteremo a Jane Street, in un cottage accanto al cimitero. Se lui dovesse reagire in modo più violento del solito, sai come contattarci. Non fare sciocchezze, Gwen.»

La giovane sorrise e annuì decisa.

«Non farò niente di pericoloso.»

Sherlock continuò. «Non provocarlo, mai!»

Lei accolse l'ultimo consiglio e, d'impeto, si buttò tra le sue braccia, lisciandogli la schiena. Il detective, sorpreso da quel saluto così fisico, restò interdetto. Si limitò, quindi, a rimanere fermo per pochi secondi e, in seguito, cedere a quell'abbraccio.

Il sentimento crebbe, tramutandosi in un ghiribizzo destabilizzante. Sherlock, difatti, pensò a un'idea e, con un gesto fugace, ghermì i fianchi della donna, così da lasciar cadere la ghianda nella tasca della vestaglia.

Il bruno si scollò. «Non farci attendere a lungo.»

Il duo si ritirò qualche minuto dopo e alla giovane non restò che l'isolamento. La sua mano bianca scivolò nella tasca, in cui il piccolo pensiero era finito e, di colpo, lei non si sentì più sola.

4.

«Dove sono finiti gli asciugamani?»

Russell convertì quella domanda in un urlo che corse lungo tutta la casa. Era in bagno, in cerca di qualcosa con cui asciugarsi dopo una doccia rapida. Tuttavia, non trovò niente e dovette immediatamente invocare Gwen, chiusa in cucina da ore.

«Erano sporchi e li ho messi a lavare?»

Persino la donna fu obbligata ad alzare la voce. Russell, però, stanco della situazione, raggiunse sua donna.

«Tutti quanti?»

Gwen, intenta a tagliare fragole in cucina, tenne lo sguardo basso per non cogliere con gli occhi quell'essere così mostruoso. Il racconto fornito da Sherlock, la sera prima, era stato più che sufficiente a crivellarle il cuore, ma anche a darle il coraggio di trattenere tutta la rabbia.

«Mi dispiace, Russ.»

Il giovane notò la farina sparsa in giro, il tagliere in posizione e la donna molto concentrata nei semplici gesti di preparare un dolce.

«Cosa fai?»

«Una crostata di fragole.»

Russell fece una smorfia poco educata. «Non mi piacciono le fragole.»

La bionda trattenne l'istinto di piantargli il coltello nel petto e, sempre tenendo lo sguardo basso, si distrasse tagliando altri pezzi di frutta. In seguito, continuò a parlare con molta compostezza, simulando affetto, ma senza davvero intenderlo con il cuore.

«Va' in camera mia, troverai degli asciugami puliti.»

Russell abbandonò la cucina e si accinse a raggiungere la camera della donna, dove il letto era ancora disfatto. Sul comodino, oltre che la lampada, era stato poggiato un altro oggetto molto atipico, se in quel preciso contesto: un orologio maschile, senza proprietario. Il ragazzo lo colse e, senza troppi intoppi mentali, trasse tutte le corrette conclusioni.

Gwen, intanto, cercando di contenere il furore, affettò le fragole rimanenti, facendo ticchettare la lama sul legno, fino a ferirsi l'indice. Il dolore, leggero ma istantaneo, la portò a lasciar cadere il coltello a terra, assieme a delle macchie rosse.

La ragazza emise un gridolino, ma subito dopo riuscì a contenersi e riprese la lama, sporca e ferma. Uno strano formicolio, tuttavia, la travolse, riportandola in un passato non del tutto cancellato. I ricordi furono proiettarono, ritingendo di losche sfumature il fatidico giorno dell'aggressione. Le mani raggiunsero la testa, in cerca di placare il flusso mentale, ma subito dopo il malessere ebbe la meglio. Pochi secondi e il corpo della donna abbandonò i sensi e cadde a terra.

«La figlia perfetta non esiste.» O almeno così diceva la gente, ma non era la verità. Il dottor Blomst era un uomo fortunato, poiché era riuscito a crescere un figlia a dir poco impeccabile. Scarlett si differenziava dalle coetanee, sia per intelligenza che per un accentuata bellezza naturale. Gli occhi, di un luminoso verde cangiante, ben erano esaltati da una folta criniera scura, striata da sfumature ramate che si disperdevano di ciocca in ciocca, creando un piacevole gioco cromatico.

La maggiore delle sorelle danesi, al di là del semplice aspetto, poteva vantare tante attenzioni, amicizie e una vita già costellata da tanti piccoli successi, sia a in ambito professionale che in ambito personale. Scarlett aveva un bel carattere, era solare con tutti tranne che con la sorella minore. Con questa il rapporto era stato solo in parte funzionale, a causa di vecchi risentimenti. E Scarlett, fattasi la madre mancata, si era immedesimata nel ruolo del genitore implacabile.

I ricordi sbocciarono con spontaneità, sia quelli pessimi, legati al rancore e al dolore, sia quello belli, pieni di gioia e conforto. Una lunga maratona di momenti saziò la memoria di Gwen, che ripercorse tutta la sua esistenza fino a giungere all'ultimo ricordo sottratto dall'amnesia, quello fatidico: sua sorella stesa al suolo della cucina, sanguinante e propensa allo spegnersi lentamente come un esile fiammifero.

5.

«Gwen!»

La giovane sentì la testa abbandonare ogni ricordo e lasciare la presa sul passato, quando una qualcuno la chiamò con molta insistenza, costringendola a tornare in un luogo lontano da qualsiasi contenuto surreale. La realtà, costernata da altre incognite, si palesò.

«Gwen!»

La donna, allora, riaprì gli occhi e la prima cosa che vide fu un volto inaspettato. La Gomez, con il proprio viso smilzo, si mostrò.

«Dottoressa Gomez» borbottò questa, stanca.

«Gwen, sei stata appena portata in ospedale. Sei svenuta circa due ore fa, almeno secondo il resoconto riportatomi. Sei leggermente deperita e, secondo i medici, avevi assolutamente bisogno di essere idratata. Non è una situazione grave, ma sai...»

Idrata, nutrita, forse anche resettata.

La ragazza non era capace di dimenticare quei ricordi. Il sangue e la morte aveva popolato il suo mondo onirico, facendola crollare nello sgomento.

«Mi spiace. Mi spiace, dottoressa Gomez» Gwen pianse, ancora.

«È tutto okay, i tuoi valori sono stabili» la interruppe la psichiatra, tranquillizzandola. «Se hai bisogno di parlare riguardo a qualsiasi cosa, sono qui. Sai bene quanto tenga alla nostre sedute, ma mi vedo costretta a fare un eccezione. Ti sarò accanto, Gwen. In qualsiasi momento.»

La paziente appoggiò la schiena al cuscino e diede un'occhiata alla camera, alle scialbe pareti neutre e alle tende bianche. Il dolore, come un cerchietto di fuoco, le circondò tutta la testa.

«Grazie, dottoressa.» 

E l'altra replicò. «Sai, ho rimuginato molto sulla tua situazione e ho pensato a un nuovo metodo di analisi. C'è qualcosa che ti tormenta e ti porta a stare così male. Forse, posso avere accesso alla tua memoria attraverso l'ipnosi. È complesso, ma perché no?

La donna concentrò lo sguardo mesto su una scatolina nera.

«Cos'è quello?»

La Gomez puntò al piccolo aggeggio posto sul comodino, accanto al misero lettino, e subito dopo lo ridiede alla paziente curiosa.

«È il mio registratore» spiegò. «D'ora in avanti registrerò le nostre sedute. Il registratore è spento, adesso. Lo accenderò solo quando riceverò la tua autorizzazione.»

Gwen sentì un'idea illuminarle la logica e, in un attimo, tutta quella forte depressione si incendiò, mutando in ira.

«Capisco...»

6.

«Direi che è tutto okay.»

Russell, senza i panni da infermiere, cominciò a sfogliare la cartella di Gwen, proprio in quella camera spoglia di mobili e buona compagnia. La donna, sapendo finalmente tutto ciò che era successo, non riuscì più nemmeno a fingere un sorriso. Si limitò a guardare il su mostro con gli occhi stremati dal poco sonno.

«Stacca la flebo, torniamo a casa» disse, con distacco.

«Non se ne parla. Tu resti qui fino a quando sarà necessario.» continuò lui, serrando la mascella.

«È stato solo un calo di pressione. Mi sembra inutile prolungare tutto questo. Posso idratarmi anche a casa.»

Russell fece scattare la testa a causa di un tic.

«Hai qualcuno che ti aspetta, a casa? Perché da come stai parlando a me sembrerebbe che le cose stiano così.»

Gwen, riflettendo quella serie di impercettibili stranezze, sentì dentro all'anima una strana sensazione premonitrice. Un che di storto era successo, lasciando un Russell peggiore di quello che del giorno precedente. L'uomo, in effetti, oltre che pallido sembrava irritato.

«Non capisco, Russ» sussurrò la donna, sorpresa.

Lui, lasciò cadere la cartella e poggiò saldamente le braccia sul materasso, ingabbiando la ragazza, come un creatura inerme e senza modo di fuggire. I suoi occhi si spalancarono, a causa della tensione.

«Sono sempre stato buono con te. Ti accompagno dal terapeuta, ti porto in ospedale quando stai male. Faccio i turni di notte per racimolare qualcosa, per te. Sono stato troppo cieco, Gwen. E adesso non riesco più a sopportare i tuoi segreti.»

La giovane nutrì un dubbio.

«Ma di cosa stai parlando?»

«Mi sono fidato di te» esplicò Russell, in balia della cieca gelosia. «E tu fai entrare nel nostro letto altre persone.»

Le sicurezze di Gwen si spaccarono come se fossero fatte di fragile cristallo. Niente diede una spiegazione a tale scoperta, sino a quando un orologio fece capolino dalla tasca del matto, chiarificando il perché di quell'arrabbiatura. John se lo era scordato per sbaglio sul comodino della stanza.

«Russ, n-non è–»

La ragazza non riuscì più parlare.

«Non sei abbastanza attenta» la sgridò l'uomo, furioso. «Sei fortunata, io so essere clemente. Ti perdono per esserti permessa di frequentare uomini inferiori a me. Fare la poco di buono non ti si addice, per niente. Cosa direbbe la nostra famiglia, Gwen? Cosa racconteremo a tutti quanto, semmai lo scoprissero.»

Lunghe dita maschili cinsero il collo della ragazza, premendo leggermente sulla pelle sottile. Gwen lasciò il respiro da parte, ascoltando solo pulsazioni sempre più accelerate. Fu lo strano sguardo del personale sanitario a distogliere l'attenzione di Russell, che cacciò la mano dalla gola della sua prigioniera.

«Parliamone più tardi, in un luogo appartato» annunciò lei, disposta a tutto per porre fine a quella terribile situazione. Tutta la storia era in procinto di naufragare pericolosamente.

7.

Le strutture della città erano protratte i direzione del cielo, come lunghe montagne segnate da luccichii giallognoli e biancastri. Sopra il traffico, le raffiche sfidarono il cemento con spintoni sempre più possenti. Gwen, forse, aveva scelto il luogo più sbagliato ma solo il tetto del Royal Hallamshire Hospital era capace di dare lo spazio adatto al suo pericoloso piano.

«Dimmi chi è, Gwen. Dimmi il suo nome.»

Russell, ancora furioso, puntò alla donna con occhi famelici.

«Non ha importanza, Russ. Non cambierebbe nulla.»

«È perché vuoi proteggerlo? Non me lo dici per questo.»

La donna non riuscì più trattenere le parole dentro la gola. Era giusto osare, punzecchiare il nemico, e non assecondarlo. Era l'unico modo per farlo confessare e, perciò, diede sfogo alla rabbia.

«Si chiama John» confessò, con espressione arcigna. «È un medico, proprio come mio padre. È buono, gentile. È perfetto. Praticamente il tuo opposto. Non mi ha mai mentito, non mi ha mai ingannata, o minacciata.»

L'uomo si fece in preda dalla collera. «Tu stai delirando...»

Gwen non riuscì più a trattenere le lacrime negli occhi. Le immagini di quei remoti ricordi le diedero la forza di ribellarsi alla prigionia, di fare qualcosa per mettere il carnefice in gabbia. Non era il momento di fuggire, ma di lottare con furbizia.

«Non direi. Sai, non sono pazza. So che tu lo sai. Non sono pazza. La gente pazza uccide, Russ. Fa male agli altri. La tiene la gente prigioniera, la rinchiude da qualche parte. Lei non era la migliore persona del mondo, ma quello che le hai fatto, non lo meriteresti nemmeno tu. È riuscita a scappare, mesi fa, e a raggiungermi. È sempre stata accanto a me...»

La mente aveva cancellato il cuore della sofferenza con il fine di proteggere se stessa; proteggerla dall'assassino o addirittura dal brusco ritorno della sorella.

«Non meritava di essere uccisa in quel modo. Non so cosa ti ha spinto a farlo. Sei stato così crudele. E io non ho retto. La mia mente non ha retto. Ti ha cancellato. Nonostante ci fossimo già incontrati, ti ha cancellato.»

Russell, al limite del baratro della pazzia, cominciò a coprirsi le orecchie con le mani e, infine, a camminare spasmodicamente da un punto all'altro con l'intento di non sentire più niente. Balbettò tra sé e sé, come un bambino incapace di ragionare secondo giudizio. «Tu come osi dire certe menzogne?» sbraitò, infine, stirando il collo e la bocca.

«Che senso ha negare?» chiese la ragazza, sempre più ostinata. «Non puoi continuare a dare importanza alle fantasie. Non puoi cancellare il passato, non puoi farmi questo, non puoi.»

«NON È VERO!» urlò lui, inginocchiandosi a terra.

«Sì che lo è. Lo è sempre stato» farfugliò lei, distrutta.

Il fiume era sul punto di straripare.

«Continua a parlare e ammazzo anche te, Scarlett. Io ti ammazzo ancora. Lo capisci? Ti ammazzo ancora.»

Goccia dopo goccia.

«Lo faresti sul serio?» sussurrò lei, supplicante.

E infine, l'acqua uscì fuori dal bordo.

Russell, con balzò felino, scattò sulla ragazza, che fu subito afferrata. Gwen continuò a dimenarsi, come la preda sotto il, il morso del proprio nemico. Non esistette l'attimo di riposo, dal momento che le braccia del suo carnefice si erano attorcigliate al suo petto come le spire di un pitone famelico. Nell'arco di poco, la donna sentì il terrore scorrerle nel sangue. Il corpo, seppur esanime a causa dei continui e inutili sforzi, non accennò a nessuna forma di resa e continuò a lottare con impertinenza.

Le braccia furibonde di Russell, però, s'incollarono con saldezza al rigido collo di Gwen, aumentando la pressione e schiacciando la carne come due catene indistruttibili. Lei, sul punto di collassare per la stanchezza, cercò di ribellarsi a quel soffocamento e, gemendo, cercò di spingere lontano l'uomo che, ancora accecato dalla propria follia, guidò una mano sul suo mento e l'altra sulla nuca.

Gwen percepì il dolore circondarle il collo. La lenta agonia prese il posto del panico, dilatando gli attimi e respiri, sempre più rarefatti. I secondi passarono e lei sentì come una tenaglia strozzarle la gola, che non emise più nemmeno un fioco rantolo.

Il suo cuore impazzì di battiti straziati e il dolore lacerante cominciò a scemare nel momento in cui i sensi sfumarono: i colori si spensero e ogni confine si sfocò, come se fosse soggiogato da un leggera nebbiolina, una di quelle delle mattinate autunnali. La mente, tuttavia, restò incredibilmente lucida.

La donna percepì solo il proprio corpo cedere e abbandonarsi al suolo, morire lentamente sotto la forza del mostro che, senza un attimo di riposo, continuò a spingere fino sentire il pulsare della carotide arrendersi. Poi, sentì solo l'apice della sofferenza e la sensazione di essere risucchiata in una spirale turbinosa. Il ricordo finale si impregnò di sensazioni, quella delle proprie membra sciogliersi lentamente, e poi essere essere fasciate da una luce. I polmoni si infiammarono.

Gwen, ciononostante, non sentì il bisogno di respirare e, accolta l'ultima flebile scarica di energia, percepì la pelle inondata da un torpore cocente. Tutto il fisico sembrò distaccarsi pian piano dal mondo e sprigionare l'ultimo zampillo d'anima.

È finita...

Ne era sicura, i granelli della sua clessidra erano caduti senza alcun indugio, senza nemmeno il tempo di un addio. Era rimasto solo il bruciore.

8.

- Tetto del Royal Hallmshire Hospital. ADESSO!!!

Il messaggio era chiaro e senza alcun fronzolo. Cercare uno strappo a Sheffield fu difficile per Sherlock che, si era infiltrato in un macchina piena di universitari, lasciando a John il compito di mettersi alla ricerca di un altro passaggio. La città non era lontana, ma l'ospedale era posto in un punto difficilmente raggiungibile con i piedi, nonostante la lunghezza di un paio di gambe. Quando raggiunse i gradini dell'edificio, il detective incorse in un percorso senza fine, inframmezzato dall'angoscia e dai brutti presentimenti.

La polizia presto sarebbe accorsa, ma lui fu molto più rapido, L'ultima porta, la barriera finale, fu aperta e anticipò uno scenario poco interpretabile. Russell a terra, lacrimante e con gli occhi arrossati da un reticolato cremisi, era si era stretto a Gwen, non più cosciente. Le braccia non la lasciarono nemmeno un istante.

«Tu» grugnì il ragazzo, tremulo.

Sherlock si sentì sospeso nell'attimo. Il folle era scioccamente guidato da pensieri irreali e al limite del delirio.

«Lasciala, subito!»

Il detective parlò con calma e, nel mentre, eseguì qualche falcata.

«Avvicinati e mi butto con lei», lo minaciò Russell, tenendola stretta. L'orlo del precipizio non era così distante.

Sherlock, allora, fermò il passo. «Non vuoi davvero farle del male. Non è così?»

Forse era necessario usare la psicologia per far ragionare chi era senza senno. Era necessario confonderlo, in modo da staccarlo dalla donna, ancora inanimata, e prendere tempo.

«No» rispose, piagnucolando.

Newman, completamente in balia di folli pensieri, lanciò al bruno un espressione spenta, morta; l'espressione di chi era giunto al capolinea e non era capace di pensare a una strategia.

«E allora lasciala» ordinò Sherlock, sicuro.

Russell, dopo una manciata di secondi, obbedì. Le sirene della polizia cantarono lungo le strade, innalzando note tanto acute da raggiungere persino i tetti della città. Il detective notò tutto ciò e, nel giro di poco, sentì solo l'ansia. Il nemico, tuttavia, non sfiorò più Gwen. Piuttosto si limitò sorridere e a indietreggiare fino a raggiungere l'estremità della superficie. Senza un attimo di ripensamento, si gettò nel vuoto, ponendo fine alle proprie malefatte e al proprio delirio.

Era finita. Era tutto finito.

Sherlock corse, come un forsennato, in direzione della ragazza a terra e le si inginocchiò accanto, rimirando la faccia immobile, cristallizzata in un'espressione serena quanto quella di una bimba dormiente. Esaminò il suo aspetto, apparentemente privo di ferite, e dopo la cinse la testa.

«Gwen» sussurrò l'uomo, spostandole le ciocche dal fronte pallida e ancora calda. «Sono qui, è tutto finito, Gwen. Sei al sicuro, adesso. Torniamo a casa.»

Continuò il suo compito e, facendola aderire al proprio torace ampio, le accarezzò con delicatezza la schiena e le spalle. Con le dita lunghe e affusolate le lisciò le guance, spronandola ad aprire gli occhi.

«Gwen» sussurrò, sfiorandole l'orecchio con il naso lungo.

Ma lei non rispose al richiamo e, nonostante gli scossoni sempre più decisi, esibì solo una testa ciondolante. Il collo molle, intanto, mostrò i primi segni nefasti. Sherlock, sempre più coinvolto in cattive riflessioni. Con la mano le tastò torace, tremendamente fermo. Dopo, guidò l'indice sotto alle narice, ma senza sentire nemmeno un debole solletico.

Finalmente si rese conto di quanto la situazione fosse degenerata e, preso dal terrore più totale, si lasciò guidare dalla sola disperazione. «No, no, no» cantilenò con la lingua tremante, per poi guidare la mano sul polso della donna. Era già morta, seppur ancora tiepida e morbida.

Sherlock cominciò a non sentire più il flusso dei pensieri, tanta era lo sconcerto che si era impadronito della sua mente. Lo sconforto non ebbe fine e lui preferì adagiare quel corpo a terra e assaporare l'amaro sapore della sconfitta, dell'ingiusta perdita. La mano, tremante, raggiunse una spia che fece capolino dalla tasca della donna. Il registratore, che era riuscito ad arraffare la confessione tanto agognata era in compagnia di una ghianda.

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Capitolo 36
*** Hier Kommt die Sonne ***


Hier Kommt die Sonne

Sherlock Holmes e la morte erano parte di un legame solido: i corpi falciati erano stati molti in decenni di casi e malefatte. Nessuno scena del crimine era riuscita a sgomentarlo, tanto meno a destarlo dalle sue pratiche di ricerca: più il crimine era efferato, più era capace di risvegliare un qualche macabro interesse.

Il detective, risolti i suoi misteri, era pure stato capace di definire il problema finale, la scomparsa del suo caro Barbarossa. Il bambino dentro al pozzo era solo un conto in sospeso; tutte quelle indagini erano solo a una compensazione dettata da una insolita legge del contrappasso. E Gwen era divenuta un ripasso della truce lezione.

«Le ha quasi spezzato il collo» disse una donna.

La patologa, camice bianco e sguardo impersonale, fece capolino dall'ampia porta dell'obitorio e, con una lentezza disarmante, passeggiò lungo fino a giungere presso il tavolo operatorio.

«Lei è Mr. Holmes, quello del blog. Mi hanno parlato molto di lei» continuò, rivestendo le falangi con lo spesso lattice dei guanti. «Comunque, stavo dicendo: collo molto sottile e mani molto forti. È stato molto semplice per un uomo adulto.»

Sherlock ascoltò, ma ogni parola pesò sulla coscienza, lacerando ogni brandello di dignità residua. Gwen era chiusa una cella da obitorio. Ferma, congelata dalle basse temperatura e senza più rossore. Solo materia sezionata da un bisturi e destinata a un deperimento crudele.

«Mr. Holmes?» lo chiamò la patologa, confusa.

L'altro non ascoltò. L'ombra di una terribile apatia lo sedò, asportando qualsiasi emozione e sostituendola con un cuore marcio, completamente stracciato. Le sue braccia restarono attaccate al busto.

«Mr. Holmes?» fece la donna.

L'uomo ignorò quella presenza. Piuttosto, ripensò ai dolci momenti, alla compagnia della sua adorata cliente e poi al fallimento. Gwen si era fidata di lui, si era sacrificata per incastrare il suo carnefice e lui non era stato in grado di proteggerla, di farla tornare a casa. Inutile era stato rincorrere il tempo, il gioco era stato perso: non era rimasto altro che un cumulo di adorabili memorie destinate ad alleggerissi con il passare degli anni, fino a scomparire, a stingersi lentamente.

Il mondo continuò a esistere e il mattino era giunto, tetro come nelle settimane già trascorse. Il mese di aprile si impegnato nel partorire giornate lunghe e lente, costantemente soffocate da un maltempo che, infelice, alternava la rabbia di un fulmine a continue lacrime di dolore.

L'anima di John Watson, altrettanto mesta, si era dissanguata nel corso delle ore, riducendosi a un soffio di rancore indirizzato a Sherlock, incapace di proteggere le persone a cui realmente teneva. Il medico si sorprese nel vedersi piangere. Non era abituato a farlo e poche erano state le occasioni bagnate dalle sua lacrime. La morte di Mary era stata un nodo legato al suo dito e la scomparsa di Gwen era stato come risentire addosso le stesse sensazioni.

Le sue colpe ritornarono, lo tormentarono senza un attimo di riposo. Gwen, qualche giorno addietro, era palpitante e piena di speranza. Poi si era spenta, lasciandolo senza qualcuno da stringere la notte, baciare nei momenti silenziosi. 

L'ex soldato smise di porsi domande, poiché non aveva più la tempra nemmeno di riflettere. La sua voce, per di più, dopo tutte le strazianti grida lanciate contro il cielo, si era ridotta a un suono consumato e fioco, quasi impercettibile. Le orbite, invece, gli si erano come infossate, riducendosi a due fessure senza luce.

John si era rintanato nella camera della donna, ancora dominata dal disordine. S'ibernò in una posizione di semplice stasi mentale, la stessa di uno scrittore incapace di concepire le parole per una lettera. Restò immobile, per lasciar fluire tutta la rabbia.

Le gialle strisce segnaletiche risaltarono in mezzo all'erba stopposa, delimitando un piccola parte della foresta umida e lussureggiante. Lo scalpiccio compresse la terra bagnata e compatta, deturpata dalle ultime azione di un losco crimine. Greg Lestrade, dopo qualche ora in macchina, era riuscito a giungere nello Yorkshire e così anche ad infiltrarsi nei meandri della fitta foresta, tra alberi secolari dall'espressione rugosa. Lì, l'ispettore riuscì a incontrare il personale e tanti altri collaborati, già intenti a esaminare la scena del crimine.

Nel terriccio, a solo qualche giorno dalla morte di Gwen, un corpo era stato rinvenuto sotto dure pietre e un soffice tappeto d'erba dissetato dalle ultime piogge. I resti di una donna, uccisa nel mese di gennaio, erano stati dissotterrati, poiché una mano si era sporta sulla superficie, come un macabro arbusto.

«Oh Cristo!» fece Greg Lestrade, guardando la scientifica già all'opera. Il cadavere dissotterrato aveva assorbito quei pochi mesi nel sottosuolo, corrompendosi in modo disgustoso.

«Donna, caucasica, sulla trentina» elencò l'antropologa forense, avvicinandosi al nuovo arrivato. «Sì, finalmente l'abbiamo trovata. E dopo ben due lunghi anni.»

Lestrade emise un sospiro e deglutì.

«Blomst, Scarlett Lene» sussurrò, strusciando gli occhi contro i palmi dispiegati. La spiegazione del caso si fece un fardello, un nodo da dipanare con sangue freddo.

«Sì, è lei.» La donna riordinò la massa di capelli bruna e, impettita, porse la mano all'ispettore con un modo confidenziale, ma anche molto rigoroso nei riguardi del comune decoro professionale.

Greg diede un'occhiata alla recente conoscenza e, mettendo a tacere qualsiasi cosa riguardasse le indagini da poco intraprese, si accinse a rispondere con altrettanta educazione e rispetto.

«Ispettore Gregory Lestrade, di Scotland Yard.»

La donna accennò a un sorriso.

«Scotland Yard? A Sheffield?»

Lestrade si mostrò intimorito da quell'affermazione e cominciò a cianciare come al solito, in cerca di una spiegazione che non risaltasse l'incapacità dei propri collaboratori riguardo al caso delle sorelle Blomst, morte a poca distanza l'una dall'altra.

«Sì, be'... io...»

«Non pensavo che Scotland si intromettesse nei casi d'omicidio dello Yorkshire» dichiarò la donna, molto sorpresa dalla situazione presentatasi.

L'ispettore, d'altra parte, sudò freddo. «Esistono delle eccezioni!»

Il turbinio di gente continuò a proseguire le operazioni, in cerca di indizi, tutto ciò che era utile al raccoglimento di elementi importanti. Il corpo fu ricoperto da un telo, in attesa dello spostamento, e la sconosciuta non poté fare a meno di esprimere il proprio disappunto su tutti gli accadimenti.

«Be', si tratta di una brutta tragedia, in fondo.»

«Orribile» ammise Lestrade, sincero.

«Fortunatamente abbiamo una registrazione come testimonianza e tanto altro materiale. Sherlock Holmes non ha deluso le nostre aspettative.» La donna diede un sguardo molto eloquente all'ispettore, mostrando profondo rispetto.

«Be', non l'ha mai fatto.» Lestrade non riuscì a scacciare l'immagine di Sherlock e John, feriti dalla perdita.

«Dico sul serio» sottolineò l'antropologa. «È riuscito a individuare il nascondiglio in cui quella poveretta. La maggiore era stata rinchiusa in un seminterrato chiuso da un sistema di sicurezza a codice. Era come un piccolo appartamento, pieno di confort. Non l'è mai mancato niente, ma era pur sempre un gabbia dorata. Ci è stata dentro per mesi, almeno fino a quando non ha scoperto il codice.»

«Mio Dio!» esalò l'ispettore.

Non è mai possibile abituarsi a tutto questo.

«Hanno fatto scalpore, le due sorelle. Questo purtroppo è uno di quel casi che si fa vendere molto bene ai giornali. Non sa quanto ne ho visti in questa settimana. Le due rose dello Yorkshire.» La donna deglutì, dispiaciuta. «Non c'è mai una spiegazione alla crudeltà degli uomini. Povere ragazze.»

2.

La comunità, saputa la notizia del funerale, non si era tirata indietro nel compiangere una donna spentasi in gioventù e partecipò in gran flusso. Poche persone occuparono le prime file, colleghi e quale amico dimenticato; tante altre occuparono il retro della struttura, gotica e costernata da un ampio cimitero smeraldino e con pietre erse in direzione del paradiso. John si mimetizzò nella popolazione, come un fantasma condannato a uno spettacolo funereo. Stroncò i gemiti nello squadrare il feretro di Gwen. 

«La morte è una certezza, è l'unica certezza» recitò il prete, senza alcun fronzolo. «E lasciare andare è ciò che ci spetta. Può sembrare molto doloroso, fa paura. Ma nel momento in cui lo facciamo, ecco che viene il coraggio, e ritorna anche la speranza.»

Non puoi cambiare il destino, semplicemente non puoi.

Il medico cercò di sganciarsi dalla sofferenza, ma niente riuscì a sprigionarlo realmente. Eppure, si erano perpetrati di sermoni in quella chiesa, di fantasie sul come lei fosse da qualche parte, lontano, libera nel silenzio o assieme alla sua famiglia. Era stato il destino, secondo alcuni, a collocarla accanto alla sorella.

Notare la terra sulla bara scosse l'ex soldato che, con i piedi ancorati a terra, si rese finalmente conto di dover proseguire una strada differente. Non era contemplabile altra scelta, se non pregare affinché il cielo la proteggesse meglio. La funzione, al di là ciò, fu una tortura lenta, psicologica, ma c'era chi l'aveva affrontata peggio. Sherlock, completamente allergico alla gente addolorata, consumò il proprio struggimento partecipando alla cerimonia da lontano. Fu i collega a scorgerlo abilmente ma, quando i loro occhi s'incrociarono, la rabbia infiammò tutto il campo santo.

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Capitolo 37
*** Epilogo ***


Epilogo

Copenaghen non era mai stata così bella e tersa. Il cielo era blu sereno, dolce e così intenso da liquefarsi in un mare aperto e tranquillo. Il freddo si sciolse grazie al sole, regnante al di sopra di guglie e tetti spioventi, ben allineati e colorati con colori brillanti. Proprio presso la sponde, in una piccola baia abbandonata dalla città, la ghiaia si andava stendendo come tanti cumuli di pietre lisce e salmastre.

Una donna se ne stava in piedi e, con in tasca qualche ciottolo, si dilettava nel lanciare sassi contro la superficie dell'acqua, creando lente circonferenze. Sherlock, baciato dai raggi, raggiunse quella figura.

«Gwen.»

La dona si girò, lasciando che le brezze le scompigliassero i capelli.

«Ciao Sherlock. Come va?» chiese lei, felice. Parlava con lo stesso buon cuore di una amica intenta a interloquire con la sua persona preferita. «È una bellissima giornata, non credi?»

La donna ritornò a lanciare sassi e Sherlock, confuso, si ritrovò a osservare il panorama con addosso lo stesso iconico cappotto, che mal si accostava al clima buono e clemente. Niente sembrava essere sensato, in quel momento, e nemmeno il raziocino seppe discernere le giuste domande da quelle completamente errate.

«Perché sei qui?»

Lei si fermò un attimo e mise la mano in tasca.

«Dovresti chiedertelo da solo, sei stato tu a volermi qui.»

E tutto divenne chiaro.

«Il mio palazzo mentale.»

La ragazza sorrise e si ritrovò accovacciata a terra, in cerca dei sassi più piatti e idonei al gioco. Rialzatasi, puntò il bruno in un modo raggiante e confermò la semplice ipotesi con un frase elementare. «Oh sì, ci trovi di tutto qua dentro.»

I venti cullarono le fronde e così anche le acque marine profumarono il cielo e diedero conforto a quella situazione.

«Gwen!»

«Sì» mugolò lei, placidamente. «Non riesci ancora a comprenderlo, Sherlock. Sono solo qui per farti compagnia, conversare un po', cercare di chiarire.»

«Non c'è niente da chiarire» ribatté l'uomo, sicuro.

«O sì, invece.» La ragazza cacciò la mano in tasca e tirò fuori una minuscola ghianda. «Mi hai lasciato questa, ricordi?»

Il detective, allora, fu completamente immobilizzato dalla piccola rivelazione. Non era mai riuscito a comunicare decentemente i pensieri riguardanti quel sentimento, soprattutto all'interno di un contesto reale. Ciononostante, anche dentro il proprio mondo interiore tutto acquisiva un senso di pesantezza.

«È molto carina! Avevo pensato di inciderla e farci passare uno spago, così da portarla al collo» continuò lei, rigirando il frutto tra le dita con attenzione. «Wendy fu salvata dalla ghianda, lo sai? Forse questa avrebbe potuto salvare anche me» osservò Gwen, corrucciando la fronte a causa dello sciocco dubbio.

Sherlock ingoiò il rospo.

«Ma non lo ha fatto.»

«Non importa» dichiarò lei. «Sei riuscito a salvare la mia dignità. La mia innocenza. Ti ringrazio per quello che hai fatto.»

Quel minuto di riflessione non fu abbastanza.

«È stata solo colpa mia!» esclamò il detective, contraendo guance e bocca in una smorfia di orribile rancore.

«Sei riuscito a risolvere il caso, Sherlock» lo giustificò la donna. «Dovresti essere orgoglioso di quello che sei riuscito a fare. Non ce l'avresti mai fatta senza riuscire a provare amore nei miei confronti, non mi avresti mai creduta, ti saresti affidato piuttosto alle tue deduzioni, al tuo metodo da macchina insensibile.»

E la rivelazione si fece spazio nella quiete.

«Pensi che non me ne sia resa conto. Ti sei ostinato a credere nella mia innocenza, anche quando tutto il mondo sembrava contrario. Chiunque si sarebbe arreso, ma non tu. Hai continuato a lavorare, a consumarti, solo per uscire a liberarmi. Mi volevi molto bene, sai?»

«No, non è come credi.» Sherlock fu inespugnabile.

«Invece sì. Non ti sono piaciuta al nostro primo incontro, dopo ti sei sentito vulnerabile. Ma poi tutto è cambiato. Le persone come te tendono a negare le emozioni, le tramutano in astio. È un meccanismo di difesa molto comune.»

Sherlock accettò quella realtà, ma un qualche residuo di testardaggine lo bezzicò, riportandolo dentro la zona di sicurezza. Non era ancora pronto per affrontare certe constatazioni dopo tutto quello che si era realizzato, tramutandosi in una tragedia.

«Come puoi esserne così sicura?»

Il detective non riuscì a crederci.

«Perché io sono te, adesso» rispose Gwen arrancando sulle delle pietre dure sotto le suole.

«Non può essere, non con me» contrattaccò lui, severo.

«Se elimini l'impossibile, ovvero tutto quello che va fuori da un contesto logico nel particolare del caso, tutto quello che resta anche se improbabile per il tuo modo di essere e per la tua logica personale, è quasi sicuramente la verità.» La giovane rese minima la distanza che la separava dall'uomo e, in seguito, si fece languida. «Non ti ho mai ringraziato abbastanza per quelle settimane.»

Così concluse, pettinando con attenzione il cappotto altrui.

«Non dovresti nemmeno farlo» obiettò il detective.

E Gwen sorrise, come aveva sempre fatto sia nel dolore che nella gioia. Tirò verso il basso il lembo del soprabito, in modo da costringere Sherlock ad abbassarsi lentamente, come un bambino intento ad ascoltare con l'orecchio un segreto. I secondi divennero minuti, le onde composero una colonna loro sonora e lei ascoltò erigendosi sulla punta di piedi, in modo da compensare lo spazio rimanente.

Il bruno capì e accolse un timido bacio sulla guancia, il ringraziamento tanto desiderato. Era stato solo una questione di tocco, infine. Solo la castità di un segno di cortesia che si protrasse nel tempo, senza cedere a passione o al desiderio. Gwen, difatti, fu premurosa.

Era finalmente giunto il momento dell'addio.

2.

«SHERLOCK!»

Il suo nome risuonò lontano.

«Sherlock!»

Come nell'eco di un sogno.

«Sherlock!»

L'eroina si era incanalata nella carne, fino a nutrirsi di ogni forza. Il detective rimase con in testa i rimasugli di bei sogni alimentati da una coscienza più linda. Gwen si era dissolta assieme al paesaggio, lasciando il buio e delle note familiari intente a chiamarlo con energia crescente.

«John» sussurrò Sherlock, rincuorato.

Gli occhi riuscirono a codificare la stanza dell'ospedale e lì, in mezzo al bianco, John Watson era in piedi, come nell'eterna attesa di un segnale. Il bruno rimase fermo con la testa affondata nel cuscino. Erano state settimane molto difficili.

«Ora ascoltami. Siamo ancora Sheffield. Sei andato in overdose, questa mattina» dichiarò il medico, spento.

Sherlock, sciupato, si limitò a biasciare scuse. «Oh, era tutto sotto controllo.»

«Sì, certo» ironizzò John, furioso. «Cosa ti è saltato in mente?»

«Ho solo cercato di allentare la tensione.»

«Sai, è una sfortuna che tu sia sopravvissuto.» Il medico sentì il furore ribollire all'interno del petto. «Perché adesso sarà io farti fuori».

«Nessun dubbio, so che lo faresti davvero» disse Sherlock.

John, altrettanto emaciato, barba ispida e trascurata, si avvicinò al muro e indirizzò gli occhi consunti sul pavimento. Una mano gli corse lungo la tempia, schiacciando la pelle stanca.

«Ho già perso delle persone a cui tenevo. Non perderò anche te. Intesi?»

Il cuore del detective sembrò riconoscere il calore. Tutto si era lentamente risolto, come la marea che finalmente si ritira senza più aggredire la costa. John era riuscito ad accettare il proprio buonsenso e anche a superare i momenti peggiori.

«È molto confortevole come osservazione.»

L'ex soldato, allora, non resse più e cominciò a tribolare, lasciando sulle proprie guance lacrime silenziose. «Sono stato solo uno sciocco, solo un sciocco. Ma è passato.»

Combattere il male insieme, non c'era altro modo. Sherlock cercò di raggruppare le forze rimaste, ma senza riuscire a ottenere un buono risultato, solo un gemito di sofferenza. Desiderò raggiungere l'amico, abbracciarlo e dire «Andrà tutto bene, John.» Tuttavia, lo chiamò soltanto e poi aggiunse: «Io sono qui.»

Essere empatico era sempre stata un impresa, ma Sherlock quel giorno non era capace di contenere i demoni del passato. I due si sentirono costretti a mantenere il rapporto e tutelarsi ogni giorno, fino ad annullare ogni dolore. In fondo, ne avevano passate tante e altri momenti bui si sarebbero affacciati. L'importante era continuare a stare insieme e combattere quotidianamente contro tutto male, sia fuori che dentro le loro anime.

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Capitolo 38
*** Edgar Allan Poe e le esequie premature (finale alternativo) ***


Finale alternativo

«Direi che va tutto bene, buona ricezione.»

Il dottor Simon Miller aveva svolto un lavoro egregio e, senza nemmeno concedersi un attimo di riposo, si era dedicato alle cure del suo paziente preferito, Mr. Sherlock Holmes.

Era solito leggere i libri della Cristie, a pranzo quelli riguardanti i casi di Dupin e, infine la sera, poco prima di soffocare l'ultima luce, concedersi a qualche pagina di Simenon. Era semplice dedurre la sua grande passione per ciò che solo sfiorava la branca criminale, così come era semplice trarre conclusioni riguardanti la sua grande ammirazione per uomo che si era dedicato a sbrogliare misteri di tutta la nazione.

Il detective era stato benedetto dalle tante attenzioni di un buon medico e, aiutato da John Watson, sempre al suo fianco. In poco era riuscito a superare le prime fasi della guarigione con molta rapidità,.

Ill lato psicologico, purtroppo, era ancora un tasto dolente. Tuttavia, molto presto, anche le ferite dell'anima si sarebbero rimarginate assieme al resto. Era necessario solo saper aspettare.

«E adesso controlliamo il resto» disse Miller, prendendo la cartella.

Sherlock, condannato all'immobilità, rimase supino sotto le lenzuola. La sua mente soffrì a causa della lunga serie di notti insonni, passate al lume della sofferenza e dei ricordi.

«Tutto bene» dichiarò l'anziano, sorridendo.

«Quando potrò ritornare a Londra?» tagliò corto il bruno.

John, giunto lì con il fine di tenere compagnia al proprio collega, ascoltò con attenzione i risultati di ogni singolo esame e, da dottore diligente, tenne a mente ogni piccolo dettaglio che era stato estrapolato.

«Sherlock, non affrettare le cose come al solito.»

«Il dottor Watson ha ragione.» Miller arcuò un sopracciglio e, con un sorriso stampato sulla faccia paffuta e rubiconda, continuò. «Meglio non dare per scontato niente. Rimarrà qui per qualche altra sera, in osservazione. E non mi lamenterei, affatto, Mr. Holmes. Stasera c'è un ottimo stufato. Mi creda, è davvero da leccarsi i baffi.»

Sherlock si rilassò, fino a quando un ghigno deformò quella pelle diafana e così sottile. L'eroina, forse, era l'unica cosa capace di tenerlo lontano dall'urlare come un psicopatico per il risentimento.

«Solo un'altra notte!»

«Solo una» fece eco Miller.

Gli occhi chiusi e la mente aperta erano parte della routine notturna. Sherlock così si disperse al centro di un oceano di pensieri che, come onde, s'infransero sulla cognizione, trasportandola lontano, al passato che era giunto come un terrore notturno, e poi al presente già stantio. Tratti bianchi lo perseguitarono lungo tutto il sonno, costringendolo ad abbondare quell'amaro paradiso per altro. La sala si era tinta del blu della notte e del tiepido pesca di una lampada ubicata al di fuori del corridoio, dove John, colto dalla stanchezza, si era appisolato.

Sherlock, allora, si mise seduto e catturò con il lungo naso un respiro e poi sfiorò con l'iride attenta un oggetto, prima non presente. Sopra del comodino, liscio e così impersonale, un regalo era stato offerto con cura. Un libro nero adornato con tanti ghirigori dorati che, ben disegnati, erano attorcigliati in maschere.

Edgar Allan Poe, Racconti del terrore.

Riuscire a studiare un libro era semplice, l'importante era soffermarsi sulle condizioni, l'edizione, l'ingiallimento delle pagine, il colore delle scritte e, infine, anche sui segni posti all'interno della carta odorosa. Bastò solo girare quel tomo da lato al lato, subodorare il sentore, dischiuderlo delicatamente e sfogliarlo con sollecitazione per riuscire a cogliere le giuste risposte. Però, nessun indizio si mostrò, sino a quando non fu raggiunta la pagina sessantotto. Lì, una penna stilografica aveva tracciato il numero tredici.

Le cifre grandeggiarono al di sopra del titolo, leggermente stinto, ma ancora chiaro. Le esequie premature fu la traccia che precedette le righe ordinate e perfette nel raccontare macabre storie di tanta gente che aveva avuto la sventura di essere sepolta viva a causa di una stato di morte apparente. Molti erano stati ritrovati morti, nonostante i disperati graffi sulla bara; altri invece, erano stati molto più fortunati e avevano riconquistato la loro esistenza.

Era, certamente, una lettura non per deboli di cuore, ma molto interessante per chi era affascinato dal terrore. Sherlock cominciò a pungolare la mente, finalmente libera dalla prigione del rimpianto, e a manipolarla in favore di nuovi concetti e dubbi. Bastò solo qualche attimo e altre deduzioni galleggiarono nella sua mente. I circuiti si riattivarono, furono percorsi da un'incandescente scintilla.

2.

«Sala tredici.»

Sherlock specificò ancora il suo concetto a John, non ancora a conoscenza di tutto ciò che era accaduto.

«Sala tredici?»

Il medico seguì il collega a passo lesto, facendosi una seconda ombra intenta a falciare muri dell'ospedale oscurato dalla ore notturne. Entrambi si mimetizzarono lungo il cammino e si tennero lontani il personale presente, in cerca di una misteriosa sala ubicata nella zona est della struttura.

«È stato il dottor Miller a lasciarlo» confessò il bruno, camminando.

«Il dottor Miller ha fatto cosa?»

«Un libro di Edgar Allan Poe, buona edizione, ottime condizioni. Apparteneva a lui da molto tempo e non se ne sarebbe mai separato. Sul capitolo delle sepolture premature è stato scritto un numero. Vuole che raggiunga la sala tredici. È molto importante; non me lo avrebbe mai lasciato altrimenti.»

John zampettò accelerando l'andatura, fino raggiungere il collega e fermarlo con il tocco delle dita sulla spalla possente. Era contrario al condurre indagini durante il periodo di guarigione.

«Sherlock? Non è il momento di sprecare le tue forza.»

«Oh, mi sento vivo, John.» Sherlock strattonò la mano del coinquilino dalla spalla, mandando all'aria ogni tentativo di blocco.

Infine, con un cenno spronò il medico a seguirlo, sia nel buona che nella cattiva sorte, come si erano preposti di fare in ogni occasione.

John, quasi senza accorgersene, scosse la testa in senso di dissenso ma, subito dopo, stampò orme proprio accanto a quelle della sua onnipresente guida. Dovunque lui sarebbe andato, lui lo avrebbe seguito, a discapito del dolore e del resto. Intanto, il corridoio si allungò fino la sala tredici, assottigliandosi e riducendosi a un'unica apertura sorvegliata due figure in borghese, lunghe e larghe. La sicurezza, completamente immune a chiacchiere, osservava lo spazio intorno.

Sherlock, di conseguenza, si posizionò presso l'ultimo angolo e, celandosi, fermò l'ex soldato, confinandolo con il braccio contro la parete. Dopodiché, ritornò indietro.

«Cosa hai intenzione di fare?» chiese l'altro, stranito.

«Superare la sicurezza.»

Ritornarono dentro a panni sanitari, cuffiette e mascherine, e si accinsero a ritornare dalle guardie. Il più massiccio si inchiodò dinnanzi a Sherlock, in attesa. Lì, il detective rispose con un piccolo cartellino plastificato con sopra il tutolo dottor Simon J. Miller. Qualche minuto e l'ingresso si aprì, lasciando ai due infiltrati un piccolo successo.

«Dove lo hai preso?» chiese John all'amico, una volta oltrepassate le guardie.

«Tra la pagina ottantanove e novanta.»

Il percorso non fu molto complesso: il corridoio era privo di biforcazioni e qualsiasi altro tipo di strettoie parallele. Nessuna porta, a parte qualche toilette completamente inutilizzata. Fu dopo qualche metro che una sola apertura fece capolino.

«Ci siamo» fece il bruno, tirando giù la mascherina.

Con al seguito il medico, mosse il passo i direzione della maniglia che, prima di essere anche solo sfiorata, tremò. Il cigolio, stridulo e così nefasto, diede compagnia alla comparsa di un'infermiera.

«Holmes» farfugliò questa, dopo lo spauracchio.

«Chi altri?» la schernì il detective, impaziente.

«Cosa ci fa lei qui? Non è autorizzato a stare in questo reparto. Potrebbe essere pericoloso.»

«Oh, l'autorizzazione è solo una banale formalità da aggirare. Non mi ha mai impedito nulla. Ha solo stimolato il mio interesse» rispose Sherlock, superando al donna.

«Le comando di tornare indietro.»

Sherlock cinse la maniglia. «Prego?»

L'infermiera, allora, cominciò a macchiare scuse. «C'è un paziente con la tubercolosi. Non è consigliabile stare in quell'ambiente. Il contagio è sempre in agguato, Mr. Holmes.»

Lui inumidì le labbra e poi si voltò verso l'unico ostacolo del suo cammino. Con lo sguardo pugnalò la donna e, dopo averne osservato l'abbigliamento, si permise di ribattere con tono arcigno. «Oh be', al suo contrario, io ho la mascherina.»

John si accostò al collega e contribuì con un «In effetti...»

L'infermiera, completamente confutata e anche intimorita, tese la faccia in un piglio turbato. Strofinò le mani contro il camice immacolato in segno d'ansia e cercò di chiamare la sicurezza.

«Non lo faccia, è pericoloso!» esclamò.

Il detective abbassò la maniglia. «Così non fa che incuriosirmi.»

E la donna lo minacciò: «Dovrò chiamare la sicurezza, se fa un altro passo...»

Il chiavistello scattò, dischiudendo il legno e lasciando che un spiraglio di luce corresse lungo lo spigolo e segasse il pavimento. Finalmente Sherlock si fece prossimo al suo traguardo, a pochi passi da un'insolita sorpresa dal sapore lugubre.

«Faccia pure» continuò, entrando a passo felpato nell'oscurità. «Non m'impediranno di...»

E la sorpresa mozzò metà della sua risposta.

3.

John Watson, negli ultimi mesi si era sorbito parecchie docce fredde, ma il tempo era passato e nel Royal Hallamshire Hospital un segreto era stato nascosto con la stessa cura e dedizione di un operazione militare in incognito. La sale tredici si fece l'incredibile nucleo di qualcosa di straordinario, e lio non appena varcò la sua soglia assieme a Sherlock, fu obbligato ad affrontare molto più di una doccia gelida, ma un'immersione nel Mar Glaciale Artico.

Era stato un po' come essere gettati sotto a una lastra di ghiaccio, nell'acqua salata e così fredda da ferire come i denti di uno squalo. Gwen, la sua Gwen, dormiva serena su di un comodo letto ospedaliero. Costosi marchingegni la monitoravano, quantificando battiti e respiro.

«Sherlock, che sta succedendo?» John sentì le gambe morire.

Il detective completamente allibito, ripensò al bizzarro racconto di Poe, al come le persone pur apparendo decedute in realtà continuassero a esistere, ingannando ogni persona. I fili, allora, si ricollegarono, legandosi in nodi solidi: morte, Lazarus, scena e, infine, Mycroft. [1]

4.

«Come hai potuto?»

L'obitorio della struttura non era un luogo serafico, ma i morti erano senza udito, né parola. Sherlock Holmes si preparò al confronto e, intestardito e furioso, acuì lo sguardo, assottigliandolo a dismisura. D'altro canto Mycroft, imbalsamato nella sua rigida e scomoda posizione di persona potente, rimase fermo, completamente inchiodato al suolo, e rimirò il fratello senza nemmeno una leggera ostilità. Eppure, nell'intreccio dato dai loro occhi, un filo si andò incendiando.

«Come hai potuto?« ripeté Sherlock.

«Semmai perché, Sherlock» lo rimproverò l'uomo di ghiaccio. «Quella donna stava diventando un pericolo per te. Me ne sono accorto con un disonorevole ritardo, ma alla fine sono riuscito nel mio intento: toglierla di mezzo, prima che lei togliesse di mezzo te. Eri deperito, senza forze.»

«E così ha inscenato la sua morte» confermò l'altro, furioso.

«Non le avrei permesso di darti altre insoddisfazioni. Non avresti retto alle tue dosi di eroina. I sentimenti ti destabilizzano e lei era un pericolo troppo grande. Ti saresti dimenticato dell'accaduto e si sarebbe risolto tutto. I morti non sono mai stati un problema per te. Non posso dire lo stesso dei vivi.»

Sherlock deglutii.

«Tanto teatro per un fine subdolo. Eppure, lei era morta.» 

«È stato un piano molto complesso» dichiarò Mycroft, leggermente compiaciuto. «Ebbe tutto inizio nel 2012, quando inventai il progetto Lazarus. Dubito tu lo abbia dimenticato. Far risorgere un morto è complesso per chi non è Dio, ma non impossibile. Tu sei sopravvissuto alla caduta, Sherlock. E io, da allora, non ho fatto altro che migliore il piano, renderlo perfetto.»

Il bruno prestò ascolto, con fare tramortito.

«Ho sviluppato un farmaco, chiamato per l'appunto Lazarus, iniettabile in vena. La sua componente principale è il metaprololo, sostanza molto in uso nella cura delle tachicardie. È stato somministrato a Miss Blomst durante il ricovero, subito dopo il prelievo, quando era ancora incosciente. Il farmaco si attiva durante un episodio tachicardico, riducendo il battito a una capacità contrattile minima simile a una bradicardia sinusale e inibendo la respirazione. Il corpo appare completamente morto e può persistere in tale stato per diverse giornate o, se si vuole, fino quando non viene esercita un leggera scarica contro il cuore. Solo una piccola scossa sul petto ed ecco che il deceduto ritorna miracolosamente a vivere.»

La spiegazione fu ineccepibile, comprensibile, e Sherlock divenne ancora più frustrato.

«Non può essere...»

Il suo busto si fece di marmo. La domande aleggiarono per un po' nella sua testa. Non seppe se percuotere Mycroft a suon di pugni, né se stesso a causa dell'errore commesso. Non era riuscito nemmeno a riconoscere quel piano o a fermarlo prima che degenerasse.

«Era una farmaco sperimentale. Ho annusato la situazione propizia e ho concluso le mie ricerche. Ho salvato quella donna, Sherlock. Non sono il mostro che credi.»

5.

Gwen era ancora in salute, nonostante il coma artificiale. Fu anche chiara la spiegazione del perché il dottor Miller fosse stato così folle da tradire la segretezza promessa a militari. La sua amicizia nei confronti di Cristoff Blomst era stata una grande molla.

Nonostante l'insensatezza delle circostanze, John, superato lo shock, non riuscì ancora comprendere cosa si celasse dietro le azioni di Mycroft, né il fine dietro il progetto intrapreso. Fu, comunque, molta la voglia di braccarlo. Giunsero, però, altri impegni a impedire la lotta. 

La presenza della donna fece da calamita per l'ex soldato, che si perse nelle carezze e nell'accudimento. Gli esami era stati fatti e l'ormone Beta-HCG era costantemente alto, testimoniando la crescita di qualcosa d'inaspettato.

John si sentì accecato dalle tante responsabilità, dalla scoperta di quella gravidanza, ma nel momento in cui avvertì la pelle di Gwen al di sotto dei suoi polpastrelli, tutto si fece piccolo. Non c'era nessuna bara, ma pulsazioni e tanto altro. Un bacio fu stampato testa bionda, un tocco umido, ma pieno di significato. Il contatto fu subito recepito e due ciglia scure cominciarono a tremare, anticipando l'apertura delle palpebre.

«John» sussurrò la ragazza appena.

Il medico osservò i lucidi occhi neri e le strinse la mano in segno di risposta. Lei tenne salda la presa. Fronte contro fronte, respirò bene, senza troppi ansimi, e si lasciò cullare dal solo conforto offerto dal tatto.

...and all I loved, I loved alone.

E.A.P.

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