A strange, new world

di Marco1989
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 9: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 10: *** Capitolo Nove ***
Capitolo 11: *** Capitolo Dieci ***
Capitolo 12: *** Capitolo Undici ***
Capitolo 13: *** Capitolo Dodici ***
Capitolo 14: *** Capitolo Tredici - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Salve a tutti!

Torno a scrivere su questo sito dopo molti anni: in questo periodo così complicato, ho pensato di prendere in mano un'idea piuttosto insolita che mi saltava in testa da parecchio tempo, e di provare a scrivere una fanfiction sulla mia saga preferita in assoluto: quella di Harry Potter. Premetto che al momento ho in mente l'idea di base, ma che, come faccio spesso quando scrivo, ho solo dei flash su quello che sarà l'intreccio, quindi io stesso dovrò vedere dove mi porterà la storia.

Un ultimo appunto: il protagonista della storia è in gran parte autobiografico. Ho cambiato nome ed età, ed avrà qualche esperienza diversa, ma diciamo che all'80 % è me.

Buona lettura!

 

PROLOGO

Si sente dire spesso che, quando si è in punto di morte, la vita passa letteralmente davanti agli occhi, come un film a velocità ridotta o una partita alla moviola. Sinceramente ho sempre avuto dei dubbi su questi racconti, anche perché mi sono chiesto molte volte chi abbia potuto riferirli, se si tratta di visioni che si hanno subito prima di morire.

Nel mio caso, nessuna visione. Solo un momento che sembrava dilatarsi all’infinito, mentre il mondo si rovesciava intorno a me con una lentezza esasperante, in un terrificante stridore di lamiere. I fari della macchina che si stava disintegrando tagliavano il buio come una lama impazzita. Che cosa era successo? Non avrei saputo dirlo sinceramente. Solo pochi istanti prima stavo tornando a casa. Era tardi, e stavo rientrando da una festa in campagna, ma non ero particolarmente stanco, non avevo sonno e non avevo bevuto quasi niente. Ricordavo solo un lampo scuro che attraversava la strada di corsa, un capriolo, o forse un cinghiale, come se fosse cambiato qualcosa; l’istinto aveva mosso le mie mani senza che il cervello avesse il tempo di dire la sua. L’improvvisa combinazione tra strappo sul volante e inchiodata disperata erano state più che sufficienti per spingere il pesante SUV a rovesciarsi fuori strada, senza che io avessi neanche la minima possibilità di trattenerlo. Mentre fissavo l’airbag esploso dallo sterzo davanti a me, con la cintura che mi scavava nel petto, pensavo all’ironia della sorte: in venticinque anni di vita ne avevo combinate parecchie, a volte rischiando anche di brutto, senza farmi mai un graffio, e andavo ad ammazzarmi per colpa di uno stramaledetto animale. Cazzo!

Con la coda dell’occhio, vidi dal finestrino sfondato avvicinarsi un albero piuttosto grosso, forse una quercia, mentre la macchina si rovesciava per la terza o quarta volta. Ancora troppo violentemente, il botto sarebbe stato devastante. Chiusi disperatamente gli occhi, come se non vedere avesse potuto proteggermi in qualche modo. Venticinque anni erano veramente troppo pochi perché tutto finisse in un modo così assurdo, senza poter fare nulla per evitarlo, senza poter dire addio a nessuno.

Lo schianto fu perfino peggiore del previsto, il rumore indescrivibile, il dolore intollerabile. Attraverso le palpebre serrate vidi un lampo rosso, che rapidamente venne divorato dall’oscurità. La sofferenza scompariva, sostituita da un senso di intorpidimento. Era così morire? Tutto sommato poteva andare peggio. Davanti a me si era aperto una sorta di tunnel bianco. Senza riflettere troppo, mi lanciai dentro. Dall’oscurità emerse una luce accecante, poi non capii più niente.

 

 

 

“Come sta? E’ ancora vivo?”.

“Ma certamente, signorina Bell! Non era messo poi così male. Il signor Potter era conciato decisamente peggio. Dovrebbe rinvenire a minuti”.

“Ha incassato un colpo molto violento, è caduto da quasi quindici metri. Per fortuna madama Bumb ha rallentato il volo, altrimenti avremmo dovuto raccoglierlo con un cucchiaino”.

“Due cadute dalla scopa in una sola partita. Una delle peggiori giornate negli ultimi anni. Maledetti Dissennatori…”.

“Nel suo caso non è stata colpa dei Dissennatori, ha preso un Bolide in testa sparato da poco più di un metro”.

“Mi dispiace tanto… l’ho visto andare verso gli anelli… è spuntato all’ultimo secondo, in mezzo alla pioggia… ho agito d’istinto… non volevo fargli male!”.

“Lo sappiamo che non volevi fargli male, Rickett. Per questo sei ancora sano e la tua stessa mazza non è ancora finita sulla tua testa”.

“Signor Weasley!”.

“Scherzavo, madama Chips, scherzavo naturalmente…”.

La coscienza di me stesso stava tornando un po’ alla volta, come onde che si abbattevano pigramente sulla riva. Dal modo nel quale tutto mi faceva male, compresi di essere ancora nel mondo dei vivi. La testa sembrava pesare il doppio del normale. Provai ad aprire gli occhi, ma anche le palpebre sembravano diventate di piombo. Nel cervello mi sembrava di avere l’ovatta: avevo sentito dei discorsi che non avevano alcun senso, anche se suonavano stranamente familiari. Madama Bumb…madama Chips…Dissennatori…Bolidi…Weasley…Potter. Potter?Un momento, doveva essere la botta. Probabilmente ero stato in coma, ed il mio cervello, mentre provava a riavviarsi, aveva attinto ai miei ricordi di ragazzino, creando quell’assurdo dialogo, giustificando quello che mi era successo grazie alla fantasia. Ecco, doveva essere quella la soluzione.

Facendomi quasi violenza, aprii gli occhi, aspettandomi di trovarmi in un’asettica stanza di ospedale, collegato alle macchine, con gran parte del corpo avvolto da bende e ingessature, circondato da dottori e infermieri, con accanto la mia ragazza e la mia famiglia. Feci viaggiare gli occhi da una parte all’altra, e quello che vidi mi fece pensare di aver subito un danno grave al cervello: ero in una lunga stanza dai muri in pietra, occupata da due file di letti dalla foggia antiquata, senza macchine per la respirazione artificiale o monitor per il battito cardiaco, divisi l’uno dall’altro da dei separé di stoffa verde.Buttai un occhio al mio corpo, e con estrema sorpresa mi resi conto di non avere bende o ingessature: indossavo quello che sembrava un normale pigiama; per assurdo, sembravo sano come un pesce. Aspettandomi di non riuscirci, provai a sollevare il braccio e a portarmelo al viso. Inaspettatamente, sia pure con qualche dolore e una certa esitazione, la mia mano si sollevò dalla coperta e andò a toccare la mia guancia. Alla lista di sorprese, se ne aggiunse un’altra: erano almeno cinque anni che portavo poco meno di un centimetro di barba, mantenuta ad un lieve livello di trasandatezza. Quello che sentii sotto i polpastrelli fu invece un viso pressoché liscio, con appena un lieve accenno di peluria. Con una punta di qualcosa che solo dopo avrei riconosciuto come il primo accenno di una crisi di panico, mi resi conto che non mi avevano rasato, neanche il miglior rasoio del mondo avrebbe potuto fare un lavoro così perfetto. Quello che stavo toccando era il volto di un adolescente, al quale la barba stava ancora pensando se iniziare a crescere. ‘Non mi sono svegliato’ pensai ‘Sono ancora in coma, e sto facendo una specie di sogno estremamente vivido. Non c’è altra spiegazione: un incidente stradale quasi mortale non può certo farti ringiovanire di una decina d’anni!’.

I miei movimenti attirarono l’attenzione del capannello di persone che circondavano il mio letto, le quali si voltarono all’unisono verso di me. Solo a quel punto la mia attenzione si concentrò su di loro, e a quel punto conclusi che la mia mente doveva essere veramente partita per la tangente: c’erano diverse persone vicino a me, la maggior parte delle quali indossavano quelle che sembravano delle insolite divise sportive, simili a lunghe tuniche corredate da imbottiture, tutte zuppe di acqua e fango. La maggior parte erano di colore rosso e oro, mentre una era gialla e nera. Ad indossarle era un eterogeneo gruppo di ragazzi e ragazze, a prima vista trai tredici e i diciassette anni. Tra di loro, spiccavano due ragazzi sulla quindicina, entrambi con i capelli rossi e identici fino all’ultima delle numerose lentiggini che occupavano i loro volti. Credetti di essere sul punto di svenire di nuovo: sapevo per certo di non averli mai visti, e sapevo con altrettanta sicurezza di conoscere i loro nomi. Questo mi fece sperare di essere veramente ancora in coma, perché altrimenti avrei avuto la certezza di essere caduto nella più totale follia. L’alternativa era talmente assurda da non potere neanche essere presa in considerazione.

L’unica adulta del gruppo, una donna di una certa età vestita con una divisa che la faceva assomigliare ad una crocerossina della prima guerra mondiale, si avvicinò a me e mi chiese: “Vedo che è sveglio, signor Carter. Come si sente? Ha fatto un brutto volo dalla scopa”.

Incredibilmente, non fu il fatto che una donna vestita con un costume centenario mi avesse appena detto che ero caduto da una scopa a colpirmi nel profondo, bensì il nome che aveva detto: Carter? E chi diavolo era? Io mi chiamavo Matteo Simoncini! E oltretutto mi ero reso conto che quella strana tipa mi aveva parlato in inglese, non in italiano! Non ero proprio pessimo in quella lingua, ero in grado di capirla e di farmi capire, ma non certo di assimilarla come se fosse stata la mia lingua madre, come invece avevo fatto pochi istanti prima.

“C…come mi ha chiamato?” furono le sole cose che riuscii a dire, e furono più che sufficienti perché il mio cuore saltasse un battito: secondo me, avevo parlato in italiano. Avevo pensato le parole in italiano. Credevo di averle pronunciate in italiano. Invece erano uscite in inglese, ed io le avevo capite perfettamente. Impossibile!

La crocerossina mi si avvicinò con aria preoccupata, passandomi una mano sulla fronte per sentire se avevo la febbre: “Non si ricorda il suo nome?”.

“N…non ricordo nulla” dissi, cercando di pendere tempo. Ero nel caos più totale: ancora una volta le parole erano uscite in inglese, ma il mio cervello le aveva tradotte all’istante, come se fosse la cosa più normale del mondo. E la mano di quella donna…nei sogni di solito le sensazioni legate a tatto e udito erano ovattate, semplificate, ridotte al minimo. Io invece l’avevo sentita perfettamente. Al mio naso arrivavano gli odori tipici di un’infermeria, ma anche altri che non avrei saputo identificare in alcun modo, ma che mi sembravano misteriosamente familiari. E, naturalmente, il pesante mix tra sudore e stoffa bagnata che emanava dai ragazzi intorno al mio letto. Tutto chiaro. Tutto…vero. E non poteva, non DOVEVA esserlo.

“Ha preso una bella botta in testa, signor Carter – disse la crocerossina (un nome saltellava nella mia testa, cercando di trovare la strada per la parte razionale della mia mente, ma stavo facendo del mio meglio per respingerlo: se l’avessi chiamata in quel modo, anche solo nel mio cervello, avrei dovuto ammettere di aver imboccato la strada che conduceva ad una casa di cura) –Un’amnesia non è del tutto insolita”.

“Si riprenderà, Poppy?” chiese una voce proveniente dalla mia destra. Mi voltai, temendo quello che avrei visto: accanto al capannello di ragazzi era comparsa una donna alta, dall’età indefinibile, con i capelli neri severamente stretti in una crocchia, che indossava un paio di occhiali squadrati. Il mio stomaco fece una doppia capriola: non era possibile… assolutamente non lo era! Non poteva essere lei!

“Ma certo, Minerva – disse impietosamente la crocerossina – Oltre a diverse ossa rotte o comunque malandate, aveva una piccola incrinatura nella parte posteriore del cranio. L’ho sistemata, naturalmente, ma il colpo deve avere intaccato la sua memoria. Gli tornerà, ne sono certa. Per il momento, è meglio che si faccia un’altra dormita. Una bella pozione per il sonno, e sono certa che al suo risveglio sarà come nuovo”.

“Sono perfettamente d’accordo” – concordò con autorità la McGr… la donna con i capelli a crocchia (dovetti farmi violenza per non completare il nome, non dovevo chiamarla in quel modo, dovevo ricordare di stare sognando, altrimenti il mio cervello non avrebbe avuto la minima possibilità di riprendersi). Un istante dopo, la prof… la donna si rivolse a me con quello che somigliava ad un sorriso comprensivo: “Un brutto debutto per lei, signor Carter, ma non deve perdere fiducia in se stesso: visto il tempo atmosferico disastroso e considerato che era il suo debutto in una vera partita di Quidditch, ha giocato molto bene. Ha messo anche a segno trenta punti. Come ho già detto al signor Potter, non deve assolutamente colpevolizzarsi per la sconfitta, in questo gioco si può vincere o perdere, l’importante è dare sempre il massimo e giocare con impegno e lealtà”.

“G…grazie” riuscii a balbettare. A parte lo shock, a impedirmi di elaborare una risposta leggermente più articolata fu il fatto che nel mio cervello era ormai in corso una rivoluzione. In teoria, il fatto che fossi convinto di essere in un sogno avrebbe dovuto spingermi a stare al gioco, a divertirmi fino al risveglio. In altri casi, se mi fossi trovato a sognare una situazione del genere, lo avrei fatto. Ma in quel momento non mi stavo divertendo per niente: a parte la preoccupazione per le mie condizioni fisiche (se stavo davvero immaginando tutto, dovevo essere in coma, ed era per assurdo la spiegazione meno negativa), nel mio cervello avevano iniziato ad accavallarsi due ricordi differenti, e questo mi sembrava del tutto impossibile. In uno, rivivevo l’incidente in macchina. Nell’altro, mi vedevo volare in aria a cavallo di una scopa, attraverso un fortunale, con la pioggia che mi sbatteva violentemente in faccia, diretto verso un anello che a stento si intravedeva attraverso le cascate d‘acqua. In mano stringevo una palla rossa. Nell’esatto istante nel quale portavo in alto il braccio per lanciarla, sentivo un colpo violentissimo dietro la testa, e la vista mi si oscurava di colpo. Uno splendido film…che non poteva che essere un delirio di una mente che cercava di riprendersi dopo i danni subiti nell’incidente immortalato nell’altro ricordo, perché quello che vedevo NON POTEVA ESSERE SUCCESSO!

Fortunatamente la prof…la donna scambiò la mia scarsa loquacità per le conseguenze dei colpi subiti, e dopo avermi concesso un ultimo sorriso di incoraggiamento si avviò verso una grande porta di legno per uscire dall’infermeria. Madama Ch…- LA CROCEROSSINA, maledizione! –si avvicinò al mio letto tenendo in mano un bicchiere pieno di un liquido incolore. Doveva essere la ‘pozione soporifera’ che aveva citato prima. La presi e la vuotai senza pensarci: qualsiasi cosa fosse, non poteva farmi male, visto che stavo sognando tutto, e se il mio cervello era veramente convinto che si trattasse di un preparato capace di farmi addormentare, forse avrebbe funzionato veramente, e la volta successiva mi sarei svegliato sul serio. Mi stavo attaccando a qualsiasi cosa, perché smettere avrebbe significato ammettere un’opzione che semplicemente, in quel momento, volevo lasciare fuori.

Potenza della mente umana! Nell’arco di pochi secondi iniziai a sentire le palpebre pesanti, e sentii la sonnolenza piombarmi addosso. Appoggiai la testa sul cuscino e detti un’ultima occhiata alle persone che mi circondavano, certo che non le avrei più riviste. Una ragazza nera con i capelli a treccine mi sorrise: “Riprenditi presto” mi disse. Ricambiai il sorriso. Uno dei ragazzi rossi fece una smorfia: “Non ci ha portato molta fortuna il fatto che tu abbia sostituito Alicia, ma vedi di riprenderti lo stesso”.

“E lascialo in pace, George! Se la colpa deve essere di qualcuno, è sicuramente mia. Josh ha fatto più di quello che chiunque potesse aspettarsi, considerando che era al debutto”.

L’ultima voce non sembrava provenire dai ragazzi di fronte a me, bensì dal letto alla mia sinistra. Mentre gli occhi iniziavano a chiudersi, girai la testa per guardare oltre il capannello, favorito dal separé aperto. Vicino all’altro letto c’erano due giovani, apparentemente entrambi sui tredici anni, vestiti con lunghe tuniche nere che sul petto mostravano un simbolo rosso e oro. Il ragazzo era alto e allampanato, con capelli rossi e lentiggini che ne attestavano la parentela con i due gemelli. La ragazza era più bassa, con i capelli castani ed estremamente ricci, ed era piuttosto carina, se si escludevano i denti davanti, che erano piuttosto grandi. A colpirmi fu però il ragazzo sdraiato sul letto, che indossava un pigiama molto simile al mio: era alto e magro, con capelli neri e ribelli e due lucenti occhi color verde chiaro, sopra i quali portava un paio di occhiali rotondi. A dare il colpo di grazia a quel poco che restava della mia salute mentale fu però la cicatrice a forma di saetta che campeggiava al centro della sua fronte, subito sotto l’attaccatura dei capelli. A quel punto mi arresi, era perfettamente inutile fare finta di niente: avevo riconosciuto quel posto da quando avevo aperto gli occhi la prima volta, e avevo riconosciuto la maggior parte delle persone che avevo intorno in quel momento. In qualsiasi altra occasione, sarei stato felice di sognare una cosa del genere, ma in quella situazione sembrava veramente troppo reale per godermi la situazione. Ancora non ero arrivato a pensare quella che era la verità, non potevo minimamente immaginare quanto profondi fossero i guai nei quali mi trovavo. La mia mente non era pronta, e la speranza di potermi semplicemente svegliare nella realtà non era tramontata.

In ogni caso, vedere quella particolare persona mi spinse a cedere le armi, a porre fine alla mia tattica del rifiuto a tutti i costi. Mentre mi addormentavo, lanciando nel tempo e nello spazio la speranza che la successiva volta che avrei aperto gli occhi tutto sarebbe stato normale, sorrisi al ragazzo sul letto e mormorai: “Grazie, Harry”.

 

 

Eccoci alla fine di questo prologo. Spero veramente di avervi interessato. Vi chiedo, se possibile di dedicare un minuto alla scrittura di un commento, mi interessa molto conoscere la vostra opinione. Prometto che risponderò a tutti!

Salvo complicazioni, credo che pubblicherò un capitolo a settimana, quindi ci rivedremo il prossimo mercoledì!

 

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


Salve a tutti i lettori della mia storia.

Ho deciso di anticipare di qualche giorno la pubblicazione del secondo capitolo. Ho voluto dare un po’ più di materiale ai lettori, sperando che decidano di lasciarmi qualche commento in più!

Scherzi a parte, mi farebbe molto piacere leggere le vostre opinioni: è molto tempo che non scrivo una fanfiction, e vorrei veramente scoprire cosa ne pensate, anche se dovessero essere commenti negativi.

Grazie mille, e buona lettura!

 

CAPITOLO UNO

La prima cosa che vidi, quando aprii nuovamente gli occhi, fu la luce entrare dalle grandi finestre a sesto acuto dell’infermeria. Anche mentre cercavo di scrollarmi di dosso il sonno, non feci fatica a capire che il mio tentativo era fallito: non ero tornato a casa, non ero in un ospedale o nella mia camera. Ero ancora nello stesso luogo. Un luogo straniero, e che allo stesso tempo mi era fin troppo familiare. Girando lentamente la testa a sinistra, vidi Harry russare placidamente nel letto accanto a me, gli occhiali appoggiati sul comodino. Accanto al suo letto era posata una borsa. Sapevo che cosa conteneva: i resti della sua scopa, distrutta dal Platano Picchiatore dopo la partita contro Tassorosso, nel novembre del suo terzo anno di scuola.

Ricordarmi quel dettaglio fu più che sufficiente a farmi rischiare un crollo nervoso, e dovetti trattenermi dall’urlare. Non era un sogno! Era folle, assurdo, delirante, completamene impossibile… eppure era vero! Non ero più nel mio mondo. Non ero in alcun modo in grado di trovare una spiegazione razionale a quello che stava succedendo, eppure in quel momento io stavo guardando l’infermeria di Hogwarts!

Hogwarts… era impensabile. Mi voltai di nuovo a guardare Harry, che continuava a dormire senza avere idea della situazione nella quale versava quello che, per lui, era un semplice compagno di scuola. Io, dal canto mio, dovetti ammettere con me stesso di stare osservando quello che era stato con ogni probabilità il più grande eroe letterario della mia infanzia e della mia adolescenza, che in quel momento era vivo e vero a pochi metri da me.

Le mie viscere si rovesciarono letteralmente, ed avvertii un conato di vomito. Cercando di fare meno rumore possibile, mi catapultai verso una porta laterale, sperando che fosse il bagno. Per mia fortuna, avevo indovinato, perché feci appena in tempo a chinarmi sul water prima di vomitare tutto quello che avevo nello stomaco. Ci misi quasi un minuto prima di riprendermi a sufficienza da trascinarmi fino al lavandino e sciacquarmi la bocca. Con una certa dose di timore, alzai lo sguardo verso lo specchio. Quello che vidi mi costò quasi un infarto: il volto che mi osservava non era il mio… e allo stesso tempo lo era. Conoscevo bene quella faccia, anche se non la vedevo da molto tempo: quello che avevo davanti ero io…dodici anni prima. Nello specchio c’era un me tredicenne che mi fissava stupefatto: quello che stavo guardando era il volto paffuto di un ragazzino appena entrato nell’adolescenza, senza ancora neppure un accenno di barba. Riconobbi tutto: i capelli lisci, castani chiarissimi, lunghi sulle tempie come li portavo alle scuole medie; gli occhi marroni con un chiaro riflesso verde, in quel momento sgranati dal terrore; il naso leggermente schiacciato; perfino uno degli incisivi inferiori leggermente storto. Tutto perfetto, tutto identico. Abbassai lo sguardo: anche fisicamente ero perfettamente identico a come ero stato dodici anni prima. Ero relativamente alto per la mia età, e abbastanza robusto, anche se con un accenno di pancia, memoria di un bambino grassottello cresciuto di colpo in altezza due anni prima.

Aprii nuovamente la cannella e mi passai più volte l’acqua gelata sulla faccia, nel tentativo di schiarirmi le idee, poi mi trascinai al mio letto e vi crollai sopra, stanco come dopo una maratona. La notte di sonno aveva fatto sparire quasi tutti i dolori, ma mi sentivo ugualmente a pezzi. Respirai lentamente, cercando di fare ordine nella mia mente. Ormai era chiaro che ero finito, chissà in quale modo, in un mondo che sarebbe dovuto esistere solo nei libri. Ero entrato nella storia di Harry Potter, e in quel momento ero nel corpo di uno studente di Hogwarts.

‘Calmo, devo stare calmo. Farmi prendere dal panico non migliorerà in alcun modo la mia situazione. Devo cercare di riflettere’. Il problema era che nella mia memoria c’era un vero e proprio ciclone, con ricordi che si sovrapponevano apparentemente senza alcun controllo: da una parte c’era la vita di Matteo Simoncini, venticinque anni, studente italiano prossimo alla laurea in storia contemporanea; dall’altra, però, oltre quello che avrei potuto descrivere solo come un denso banco di scurissima nebbia, avvertivo la presenza di altri ricordi, dei quali riuscivo ad afferrare solo dei frammenti, dei flash, ma che sembravano premere per uscire.

‘Devono essere i ricordi dell’altro me, di questo ragazzo, di quello che sto impersonando’ mi dissi, cercando di trovare un filo conduttore nel caos. Già il mio ‘personaggio’, però, poneva un problema non da poco: avevo letto tutti i libri di Harry Potter almeno una mezza dozzina di volte, e la partita nella quale Harry cadeva dalla colpa faceva parte del terzo tomo. Purtroppo, a meno che non mi stessi perdendo qualcosa di fondamentale, solo Harry era caduto in quella partita. In maniera confusa, ricordavo di aver giocato da cacciatore in sostituzione di…di… di Alicia Spinnet, che si era presa una bronchite allenandosi sotto il diluvio, e di essere caduto a causa di un bolide che mi aveva colpito alla nuca. Nel libro che ricordavo io, però, nulla di tutto ciò era successo: Alicia aveva giocato regolarmente, e solo Harry si era fatto male. Un momento: mi stavo preoccupando delle modifiche improvvise alla trama di un libro quando mi trovavo intrappolato in un mondo di fantasia?

‘Ok, un problema alla volta. Cerchiamo di andare con ordine’. Mi resi subito conto che chiedermi in che modo ero finito lì mi avrebbe comprato solo un biglietto per l’ospedale psichiatrico più vicino. Non avevo neanche mezza possibilità di capirlo, andava decisamente oltre le capacità del mio cervello. La sola ipotesi che ero in grado di fare era che l’incidente mi avesse, in qualche modo, catapultato in quel mondo. Come fosse possibile che esistesse fisicamente un universo partorito dalla mente di una scrittrice, e come avessi fatto io a finirci dentro, mi era impossibile capirlo, e per assurdo, non era neanche particolarmente importante. La cosa fondamentale era che qualcosa mi ci aveva trasportato, e che non avevo idea di come poter tornare alla mia vita di prima. Sempre che – e qui un brivido mi attraversò la schiena – avessi ancora una vita alla quale tornare. L’immagine dell’albero mi invase la testa: l’ultimo evento che mi aveva riguardato nel mio mondo era stato un terrificante incidente stradale. Forse – secondo brivido – ero morto, e quello nel quale mi ero ritrovato era l’Aldilà. Cercai di scartare questa ipotesi come semplicemente troppo assurda: sembrava la trama di un pessimo fantasy. La misi da parte, anche se una minima parte della mia mente non riuscì a lasciarla completamente perdere.

‘Bene, per prima cosa mettiamo i punti fermi: mi trovo nel modo di Harry Potter, per la precisione poco prima della metà del suo terzo anno, e non so come uscirne. Cosa devo fare?’. Incredibilmente, la soluzione era molto semplice: se non potevo andarmene, dovevo restare. Dovevo vivere quella vita, nella speranza che mi si presentasse l’occasione per tornare alla mia normale esistenza. Nel frattempo, sarei stato uno studente tredicenne di Hogwarts. Un momento, ecco il secondo problema: chi diavolo ero io? Avevo già appurato che la partita da me giocata contro Tassorosso sotto il fortunale stonava con la storia ufficiale, ma in generale non avevo alcun ricordo del mio personaggio nei libri. Tanto per cominciare, come accidenti mi chiamavo? Non Matteo Simoncini, di questo ero sicuro. Vediamo… Madama Chips e la professoressa Mc Grannitt (sì, ormai potevo chiamarle così) mi avevano chiamato ‘signor Carter’, e Harry mi aveva apostrofato come ‘Josh’. Provai a scavare nella mia memoria, andando a cozzare contro il muro di nebbia… ecco, vedevo qualcosa… Joshua Carter! Ecco il mio nome! Joshua Carter... un momento: chi diavolo era Joshua Carter? Non ricordavo nessuno, nella saga di Harry Potter, con un nome simile. Cercai di scartabellare i miei ricordi dei sette libri, e già in quel momento vidi le prime avvisaglie di qualcosa di strano: nonostante in teoria dovessi conoscere a menadito tutta la storia dei sette anni, per quante volte avevo letto la storia, i miei ricordi erano chiari e nitidi solo fino ad un punto ben preciso: la partita contro Tassorosso del giorno prima. Avrei potuto ripetere quasi giorno per giorno quello che Harry, Ron, Hermione e tutti gli altri avevano fatto nei primi due anni della loro carriera scolastica, dalla difesa della Pietra Filosofale alla battaglia contro il basilisco, fino all’incidente di Harry con sua zia Marge dell’estate precedente, tutto fino al giorno prima. Più avanti, però, le cose cambiavano nettamente: dal giorno dopo i miei ricordi erano oscurati, annebbiati, confusi. Riuscivo a strappare solo qualche barlume. In quel momento non ci feci granché caso, attribuendo il fatto allo stato confusionale nel quale versavo.

In ogni caso, una cosa era sicura: nei primi due anni e mezzo della storia non c’era alcun Joshua Carter. Non era un personaggio creato dalla Rowling. Qualsiasi forza mi avesse scaraventato in quel mondo, sembrava aver pensato a tutto: non solo aveva inventato un personaggio specifico nel corpo del quale inserirmi, ma sembrava avergli costruito anche un background che lo amalgamasse agli altri personaggi, modificando la storia quel tanto che bastava perché ‘Joshua Carter’ ne entrasse a far parte.

C’era solo un piccolo problema: della storia di questo nuovo ‘me’ io per il momento ricordavo poco e niente. A giudicare dalla matassa di nebulosi ricordi che occupavano la mia mente, ero certo che prima o poi avrei recuperato i ricordi della vita di Carter, ma per il momento come avrei fatto a presentarmi agli altri? Ah, ma la ‘forza misteriosa’ aveva pensato anche a questo! L’illuminazione mi giunse come un fulmine: la partita! Mi era stata fornita la scusa perfetta per una memoria ballerina: un bel colpo in testa, ed i ricordi confusi o mancanti diventavano perfettamente spiegabili. Chiunque, o qualsiasi cosa mi avesse voluto lì, si era impegnato di brutto perché la mia presenza fosse più che giustificata. Una conclusione leggermente inquietante, in effetti, ma in quel momento non me ne preoccupai più di tanto, avevo già sufficienti pensieri.

“Vedo che si è svegliato, signor Carter. Voglio sperare che questo significhi che si sente meglio”.

Alzai gli occhi: Madama Chips stava uscendo dal suo ufficio, un sorriso rassicurante sul volto.

Mi passai la mano sulla faccia, simulando una sofferenza molto superiore rispetto a quella che realmente provavo: “Ancora un po’ dolorante, Madama Chips, ma decisamente meglio di ieri. Ho ancora un po’ di mal di testa e di dolori alle ossa, ma migliorano velocemente”.

“Ne ero sicura. In fondo, ho visto infortuni molto peggiori del suo. E per quanto riguarda la memoria?”.

Scossi la testa: “Non bene. Ricordo bene l’incidente, ma il resto è una serie di flash, di frammenti. So di chiamarmi Joshua Carter, di essere un Grifondoro del terzo anno, e di aver fatto un bel volo dalla scopa ieri, ma poco altro”.

L’infermiera della scuola sembrava molto sorpresa: “Una reazione molto forte, anche per un colpo in testa violento come quello che ha incassato lei. Non ha proprio altri ricordi chiari? Non si ricorda, per esempio, della sua famiglia?”.

Prima che potessi inventarmi qualcosa per rispondere, visto che della famiglia di Joshua Carter non ricordavo in quel momento niente di niente, Harry, forse disturbato dalla nostra conversazione, iniziò a muoversi, e pochi secondi dopo sollevò la testa dal cuscino, afferrò gli occhiali dal comodino e li indossò: “Buongiorno, Madama Chips” disse, mentre il suo sguardo si abbassava sulla sacca contenente i miseri resti della sua scopa. Vidi i suoi occhi adombrarsi.

“Buongiorno, Potter. Vedo che anche tu ti stai riprendendo – disse l’infermiera, mentre i suoi occhi correvano ai rimasugli di legno e saggina – Ho aspettato che ti svegliassi prima di buttarla, immagino fossi affezionato alla tua scopa…”.

“No – rispose seccamente Harry, lo sguardo ancora cupo – La prego, non la getti”.

“Potter…- riprese Madama Chips, con voce quasi compassionevole – mi dispiace molto, ma credo tu ti renda conto che non è riparabile, è ridotta in pezzi…”.

Harry scosse nuovamente la testa, poi, quasi a troncare la discussione, si girò verso di me: “Tu come ti senti, Josh? Hai fatto un volo quasi peggiore del mio”.

“Fisicamente abbastanza bene – risposi, con una sincerità insolita per uno nella mia situazione – E’ la testa che non va”.

“Ancora problemi di memoria?” chiese Harry, con una nota di preoccupazione.

“Già. Tutto quello che è successo prima di ieri sera sembra avvolto nella nebbia” dissi mestamente. Un attimo dopo, mi venne un’idea. Era assurda, ma forse poteva avere qualche speranza di riuscita. Probabilmente sarebbe stato come prendere a calci una macchina ingolfata, ma tanto valeva provare: “Perché non mi racconti quello che sai di me? - chiesi ad Harry – Può darsi che, con un po’ di stimolo, la mia memoria si decida a tornare a funzionare”.

In realtà non ci contavo molto, ma ero sinceramente curioso di sapere qualcosa di più riguardo alla vita di Joshua Carter, il ruolo che io, per così dire, mi stavo trovando ad interpretare.

Harry mi osservò sorpreso per qualche secondo, poi rispose: “Posso provarci, ma devo ammettere che ancora non so moltissimo di te, sei arrivato solo da tre mesi. Ci hai raccontato di essere di padre americano e di madre gallese. Sei nato a Filadelfia, e hai frequentato i primi due anni a Ilvermorny. Poi i tuoi genitori hanno divorziato, e tu sei tornato in Gran Bretagna con tua madre e tua sorella…”.

“Sheila!” lo interruppi. Incredibile a dirsi, aveva funzionato. Le parole di Harry avevano aperto una breccia nella nebbia della mia memoria, e alcune informazioni erano riuscite a farsi strada: “Mia sorella si chiama Sheila, ha dieci anni, e inizierà a frequentare Hogwarts il prossimo settembre. Mia madre si chiama Katherine Jones, lavora come erbologista. Mio padre è Benjamin Carter, lavora per il MACUSA, il Ministero della Magia americano, e non lo vedo da giugno, da quando c’è stato il divorzio. Ho conosciuto te e gli altri il primo di settembre, sul treno per Hogwarts, e la stessa sera il Cappello Parlante mi ha smistato a Grifondoro”.

Avevo ripetuto quelle informazioni come una sorta di apparecchio elettronico, e ad Harry non poté che sfuggire una risata: “Niente male, considerando che hai detto tutto praticamente senza riprendere fiato! Altro?”.

Iniziai a ridere anche io: “No, per adesso no. Immagino che il resto tornerà con il tempo”.

Era esattamente quello che pensavo: nell’assurdità della mia situazione, la sola cosa che potevo fare era aspettare e stare a vedere. Non avevo la minima idea di quello che mi aspettava in quel mondo, che mi era allo stesso tempo nuovo e conosciuto. Ancora non riuscivo a ricordare gran che di quello che, secondo la storia ‘ufficiale’, sarebbe accaduto negli anni successivi, ma sapevo che presto le cose si sarebbero fatte difficili, addirittura drammatiche. C’era qualcosa nell’aria… una tragedia che incombeva, ancora distante, ma in avvicinamento. In quel momento ero certo che mi sarebbe venuto in mente tutto, e che forse sarei addirittura riuscito ad evitarla, qualsiasi cosa fosse. Casa mia non mi era mai sembrata più distante, non sapevo se sarei mai riuscito a tornarci, ma ero consapevole di una cosa: se volevo sperare di trovare un sistema per tornare ad essere Matteo Simoncini, il solo modo era vivere come Joshua Carter.

La porta dell’infermeria si aprì, e la squadra di Quidditch al completo, questa volta accompagnata anche dal capitano Baston e da una convalescente Alicia Spinnet (accidenti, le avevo sempre immaginate carine le tre cacciatrici di Grifondoro, ma erano addirittura meglio di quanto credessi!). Erano venuti tutti a visitare i loro compagni infortunati. Con un sorriso, tornai nel ruolo di Joshua Carter e mi preparai ad accoglierli.

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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


Salve a tutti

Ecco a voi il terzo capitolo della mia storia

Anche se i due precedenti non hanno riscosso il successo che avrei sperato, ho deciso, almeno per il momento, di andare avanti con la storia.

Ancora una volta, vorrei invitarvi a lasciarmi un commento, anche se negativo.

 

CAPITOLO DUE

Mi sono sempre considerato una persona piuttosto adattabile: mettetemi in un qualsiasi luogo, ed entro poco tempo io riuscirò ad abituarmici. Detto questo, adattarsi alla vita di Hogwarts non fu semplice neanche per me: le settimane successive al mio rocambolesco arrivo in quel mondo furono estremamente complicate e spossanti. A mia difesa, chi non si sarebbe trovato in difficoltà? Non soltanto dovevo affrontare lo shock di essere ridiventato di colpo un adolescente, come se superare una volta quell’età meravigliosa quanto assurda non fosse stato sufficiente, ma dovevo anche barcamenarmi con quello che voleva dire studiare in una scuola di magia. Una scuola di magia! Roba da matti. Mi trovavo a vivere cose che avevo solo letto nei libri. Allo stesso tempo un sogno e un incubo.

Hogwarts era perfino più incredibile di quanto avessi mai anche solo immaginato. C’era tutto: dalle scale che all’improvviso decidevano di cambiare direzione ai personaggi dei quadri che si muovevano e parlavano. Era superiore addirittura a quello che avevo visto nei film! E la Sala Grande… la prima volta che vidi il soffitto stregato per essere una copia esatta del cielo, il lunedì a colazione dopo essere uscito dall’infermeria, rischiai l’infarto! E ne rischiai un secondo pochi minuti dopo, quando il fantasma di Nick-Quasi-Senza-Testa spuntò dal tavolo passando con la testa proprio attraverso il mio piatto! Sicuramente qualcuno dei miei compagni di scuola notò il mio comportamento insolito, ma suppongo abbiano attribuito la cosa al mio status di convalescente. Dovetti però ammettere che la cucina di Hogwarts era addirittura migliore di quanto Harry e gli altri dichiaravano nei libri.

Mentre cercavo di abituarmi al castello e alla mia nuova esistenza, dovetti mettermi al lavoro sulla mia vita sociale. Purtroppo la mia memoria continuava a funzionare a scartamento ridotto, almeno per quanto riguardava il passato recente di Joshua Carter, quindi dovetti continuare a fingermi rintronato dal colpo in testa mentre cercavo di fare chiarezza sui miei rapporti con i miei compagni di casa. Non fu un’impresa facile, soprattutto considerando che mi stavo approcciando al compito come un venticinquenne che vestiva i panni di un tredicenne. Una situazione che presentava qualche lato leggermente oscuro, lo ammetto, ma in quel momento io, a tutti gli effetti, ero un adolescente in mezzo ad altri adolescenti, e in effetti non ci misi molto a ricordare che cosa voleva dire avere quell’età, quando tutto ti sembra possibile e a portata di mano. Se sul momento non fu semplice, nell’arco di pochi mesi sarei tornato quasi letteralmente indietro nel tempo, ed avrei affrontato le situazioni più come un ragazzo che come un adulto. Nei primi giorni dopo il mio traumatico risveglio, però, la cosa che più mi premeva era capire il posto che Joshua Carter occupava all’interno della storia che mi stavo trovando a vivere. Per mia fortuna, non fu affatto difficile: gli altri ragazzi si rivelarono particolarmente aperti e gentili. A quanto pareva, il Cappello Parlante mi aveva smistato a Grifondoro, ed in qualche modo era stato fatto entrare un sesto letto nel già abbastanza affollato dormitorio del terzo anno. Condividevo la stanza, oltre che con Harry e Ron, con Neville Paciock, Seamus Finnigan e Dean Thomas. Come gli altri che avevo visto fino a quel momento, anche i tre ragazzi erano praticamente identici a come li immaginavo: il grassottello e timido Neville, Seamus, che era lo stereotipo del più puro irlandese, e Dean, scuro e riccioluto. A quanto scoprii quasi subito, proprio con gli ultimi due avevo sviluppato un ottimo rapporto, sia pure in appena tre mesi: passavamo insieme praticamente ogni minuto libero, che si trattasse di studiare, giocare a Spara Schiocco (quel gioco impiegò circa cinque minuti ad appassionarmi) o a fare qualsiasi altra cosa. Passare tutto quel tempo insieme a loro era fantastico: certo, sentivo la mancanza degli amici che avevo lasciato “dall’altra parte”, come ero arrivato a definire il mio mondo, ma Dean e Seamus, pur essendo tecnicamente appena entrati nella mia vita, mi facevano sentire come un fratello, e nell’arco di una settimana ero arrivato a considerarli tali. Con una certa sorpresa, sviluppai rapidamente un ottimo rapporto anche con Ginny Weasley, la sorella più piccola di Ron: dai libri, almeno nei suoi primi anni ad Hogwarts, risultava una ragazzina timida e insicura, devota in maniera quasi patologica ad Harry, ma in realtà si rivelò presto una persona simpatica e volitiva, che non si sarebbe mai fatta mettere i piedi in testa da nessuno. Già il secondo giorno dopo il mio risveglio ci ritrovammo a discuteresu un problema relativo al regolamento del Quidditch, e andammo avanti qualcosa come un’ora e mezza, senza che nessuno dei due fosse disposto a recedere dalle sue posizioni, per poi finire in una grassa risata. Ginny passava spesso i pomeriggi con noi, insieme alla sua amica e compagna d’anno Mary Sutton. Mary rappresentò una sorpresa per me, perché non compariva in nessuno dei libri. A quanto pareva, quel mondo si stava impegnando per completare anche le parti della storia che la Rowling aveva trascurato, inserendo i ragazzi che nel corso della vicenda raccontata dall’autrice erano rimasti semplicemente sullo sfondo. Mary, arrivata a Hogwarts l’anno prima, era una dodicenne piccola e sottile come un giunco, ma il suo viso  delicato, i lunghi capelli biondi e mossi e gli occhi color del mare raccontavano chiaramente quale bella donna sarebbe diventata nell’arco di pochi anni. L’aspetto dolce non doveva però ingannare: aveva addosso abbastanza pepe e peperoncino da mettere a posto chiunque si fosse fatto venire l’idea di comportarsi da prepotente con lei o con chi le stava vicino.

Per quanto riguardava gli altri tre compagni di stanza, i rapporti erano cordiali ma più superficiali: Neville era bloccato dalla sua timidezza, mentre Harry e Ron tendevano a fare squadra da soli, al massimo con la collaborazione di Hermione Granger. Mi promisi comunque di cercare di avvicinarmi di più ad Harry: non ricordavo ancora bene il motivo, ma sapevo che lui sarebbe stato al centro di tutto negli anni successivi. In generale, mi resi conto che Joshua Carter era riuscito a mantenere buoni rapporti con tutta la casa di Grifondoro molto meglio di quanto Matteo Simoncini fosse mai riuscito a fare con le sue vecchie classi delle medie e del liceo. Mi promisi di continuare, per quanto possibile, su quella strada, anche perché non avevo mai avuto dei compagni di scuola così interessanti. I gemelli Weasley, poi, lo erano anche troppo: mi bastarono un paio di giorni ed una improvvisa trasformazione in una sorta di canarino gigante a causa di una crostatina che avevo incautamente assaggiato per comprendere che, per quanto potessero essere spassosi, con loro era meglio mantenere sempre alta l’attenzione.

Se i rapporti umani procedettero da subito nel migliore dei modi, i miei primi approcci con la magia mi provocarono una serie di esperienze ai limiti del panico, che iniziarono già domenica pomeriggio, quando finalmente Madama Chips si decise a dimettermi dall’infermeria. Mentre, dopo essermi infilato con qualche difficoltà la divisa di Hogwarts, mi apprestavo a lasciare la stanza, infatti, l’infermiera mi ricordò di prendere la mia bacchetta dal cassetto del comodino. Il mio cuore ebbe un tuffo: la mia bacchetta magica! Non ci avevo neanche pensato fino a quel momento! Certo era normale che Joshua Carter ne avesse una, ma impegnato com’ero a cercare di mettere ordine nella mia memoria non mi ero neanche chiesto dove fosse.

Con mano tremante aprii il cassetto. Mi si rivelò un bastoncino di legno rossastro, lungo poco meno di trenta centimetri e finemente lavorato. Dovetti ingoiare un groppo che stava minacciando di bloccarmi la gola, perché un pensiero orribile mi aveva attraversato la mente: e se non fossi stato in grado di usarla? Joshua Carter sarà pure stato un mago, ma Matteo Simoncini era un Babbano in tutto e per tutto. Quale dei due avrebbe ‘sentito’ la bacchetta? Che diavolo avrei potuto fare in quella scuola se non fossi stato in grado di fare incantesimi?

Il terrore scomparve nell’istante esatto nel quale le mie dita si strinsero intorno alla bacchetta: avvertii una sorta di formicolio, a metà tra un’ondata di calore e una lieve scossa elettrica. Fu come se un rivolo di acqua calda mi risalisse lungo il polso e il braccio. Avrei avuto voglia di lanciare subito un incantesimo, uno qualsiasi, ma mi trattennidal fare esperimenti, Madama Chips difficilmente avrebbe apprezzato. Anche senza fare prove però, ero certo di possedere la magia. Prima di uscire dall’infermeria guardai più attentamente la bacchetta, ed una sorta di flash mi attraversò la mente: ‘Undici pollici e mezzo, abete rosso e piuma della coda di un Thunderbird, un Uccello del Tuono’. L’insolita combinazione mi sorprese per un istante, poi però ricordai: Joshua Carter aveva passato i suoi primi due anni di scuola a Ilvermorny, quindi quella bacchetta era stata acquistata negli Stati Uniti. Non era certamente un prodotto di Ollivander, laggiù utilizzavano nuclei molto diversi, ricordavo di averlo letto da qualche parte.

Il mio sollievo, comunque, non fu di lunga durata, perché già il lunedì mattina, mentre mi avviavo alla prima lezione della mia vita (Trasfigurazione con la Mc Grannitt) il terrore era già tornato a piena forza. Possedere la magia era, infatti, una cosa, saperla usare era un’altra! In teoria io ero quasi a metà del mio terzo anno, ero tutt’altro che un principiante, eppure mi sembrava di non ricordarmi assolutamente niente: non un incantesimo, non una formula per la trasfigurazione, non una pozione. Tabula rasa. Quando entrai in classe le gambe mi tremavano: la scusa della memoria mi avrebbe forse potuto salvare per un paio di giorni, poi però l’infermiera avrebbe confermato che in me non c’era nulla che non andava. A quel punto che avrei fatto? Avrei tentato di dire la verità? Chi mi avrebbe mai creduto? Rischiavo di essere semplicemente preso per pazzo.

Ancora una volta, però, il problema si risolse da solo non appena mi trovai a prendere la bacchetta per eseguire la trasfigurazione richiesta dalla professoressa, che a quanto pare era una sorta di ripasso delle lezioni precedenti. Nell’istante nel quale la mia mano tremante si strinse sul legno, mi sembrò che il mio corpo agisse in automatico nel muovere la bacchetta e nel pronunciare la formula. Un attimo dopo, il topo che avevo davanti era diventato una perfetta tabacchiera d’argento, un exploit che mi valse i complimenti della Mc Grannitt e cinque punti per Grifondoro. Nelle lezioni seguenti sperimentai situazioni simili praticamente in tutte l materie: a quanto pareva, almeno per quanto riguardava la vita e le esperienze di Joshua Carter, la mia memoria funzionava, per così dire, ‘a spinta’; aveva bisogno di essere stimolata, ma poi iniziava ad andare. Con il passare dei giorni riuscii a ricostruire la maggior parte del mio bagaglio magico.

Dalle reazioni dei professori, in particolare, compresi che, chiunque fosse stato per loro Joshua, in certi ambiti era molto diverso da me, e lo studio era uno di questi: non che il ragazzo americano fosse scarso, ma io e lui sembravamo avere interessi e capacità differenti in alcuni campi. Trasfigurazione e Incantesimi non furono un problema: Carter era piuttosto bravo, ed io, novizio nel mondo della magia, le affrontai da subito con un entusiasmo tale da sorprendere sia la Mc Grannitt che Vitious. Lo stesso si può dire per Difesa contro le Arti Oscure: fin dalla prima lezione mi trovai ad adorare Lupin, sa come persona che come insegnante, anche se, da qualche parte nella mia mente, avvertivo che c’era in lui qualcosa che non tornava. La vera sorpresa, però, fu Storia della Magia: scoprii fin da subito che Ruf era perfino più noioso di quanto si dicesse nei libri, ma in questo caso mi aiutò non tanto Joshua, quanto Matteo. Da laureando in Storia, ci misi circa cinque minuti ad appassionarmi a quelle vicende incredibili. Non avevo bisogno neanche degli appunti: divoravo letteralmente il gigantesco libro di testo come se fosse stato un romanzo avvincente, lasciando stupefatti Dean e Seamus, che fino a quel momento mi avevano visto utilizzare quel tomo unicamente come cuscino durante le lezioni, ma soprattutto Hermione, che rischiò di cadere dalla sedia quando, al primo test, io fui il solo oltre a lei a prendere il massimo dei voti. Scoprii di essere stato fortunato anche per quanto riguardava le materie a scelta del terzo anno: Joshua frequentava Babbanologia, e per uno che fino a pochi giorni prima era vissuto da Babbano era una pura e semplice passeggiata, Cura delle Creature Magiche, che era piuttosto interessante, e Antiche Rune, per le quali otto anni di esperienza con il latino tra liceo e università mi permisero addirittura di alzare un po’ i voti.

Fin qui le note positive, ma fin da subito mi resi conto che in alcuni settori le cose non sarebbero state per niente facili. Se infatti in Astronomia mantenni il livello “senza-infamia-e-senza-lode” del Carter ‘pre-incidente’, lo stesso non si poteva dire per quanto riguardava Pozioni. Mi trovai a scoprire che la Rowling aveva descritto Piton alla perfezione: viscido, untuoso, parziale in maniera spudorata, carogna fino all’ultima fibra del suo essere, un vero e proprio Bastardo. Per di più, riuscii da subito a scontrarmi con lui a causa della mia assoluta incapacità di tenere la bocca chiusa e per la fin troppo ampia capacità di rispondere in maniera tagliente. Una pessima idea, con chi può punirti liberamente: nell’arco di due settimane riuscii a far perdere quaranta punti a Grifondoro e a beccarmi tre giorni di punizione in tre occasioni diverse. Davanti al calderone, le cose non andarono meglio: ero sempre stato scarso in chimica, e Pozioni era fin troppo simile per i miei gusti. Miracolosamente, riuscii a non far esplodere niente, ma i risultati furono pessimi, cosa che, davanti ai suoi occhi, mi pose appena un gradino sopra Harry: un idiota del quale si sarebbe volentieri liberato alla prima occasione.

Gli scontri con Piton furono solo la prima dimostrazione di un fatto innegabile: Matteo Simoncini aveva lasciato in eredità a Joshua Carter il suo caratteraccio. Per quanto riuscii a capire, Joshua era considerato un ragazzo tranquillo, quasi timido, quindi fu per gli altri una grossa sorpresa vederlo trasformarsi in un elemento ostinato e abbastanza permaloso, perfino attaccabrighe se la situazione lo richiedeva, impossibilitato per natura a restare fuori dai guai e, soprattutto, incapace di sopportare l’altrui prepotenza, anche se non rivolta direttamente a lui. Inevitabilmente, questo mi portò allo scontro con certi personaggi di una certa Casa dai colori verde e argento. Impiegai appena due giorni prima di mettermi nei guai: mentre mi spostavo da una classe all’altra, vidi un gruppetto di Serpeverde, trai quali riconobbi due bestioni dall’aria stupida che non avevano bisogno di presentazioni ed una testa bionda che ne necessitava anche meno, sghignazzare spudoratamente mentre uno di loro tormentava una ragazzina minuscola con la divisa di Tassorosso. Quando lo vidi cercare di strapparle la borsa dei libri non riuscii a trattenermi: misi la mia cartella in mano ad uno stupefatto Neville senza tante cerimonie, mi fiondai su di lui, lo afferrai per il bavero e lo spinsi via, apostrofandolo con alcune espressioni non esattamente educate, che fecero restare più di uno dei presenti a bocca aperta. Solo a quel punto lo osservai meglio: era magro come un chiodo, con una faccia allungata ed un naso arricciato che gli davano l’aspetto di un coniglio troppo cresciuto. Solo in seguito scoprii che si trattava di Theodore Nott, ma in quel momento, per quanto mi poteva interessare, si sarebbe potuto trattare anche di Merlino in persona, ero troppo impegnato a scambiarmi ‘piacevolezze’ con lui per preoccuparmi della sua identità. Non saprei dire esattamente come si sviluppò il nostro confronto, fatto sta che dopo neanche un minuto entrambi avevamo sfoderato le bacchette e ce le stavamo puntando addosso. Altri dieci secondi, e almeno un’altra decina di persone ci avevano imitati. Difficile dire cosa esattamente avessi intenzione di fare con la bacchetta: in quel periodo, visto il poco che riuscivo a ricordare, nelle mie mani era poco più di un bastoncino. La tentazione maggiore, in effetti, era quella di metterla via e sferrare a Nott un bel pugno. Una vera e propria battaglia nel corridoio fu evitata solo dal tempestivo intervento di Vitious, che si mise in mezzo obbligandoci a riporre le bacchette. Una volta che i presenti gli ebbero spiegato come si erano svolte le cose, il piccolo professore si produsse in una pesante ramanzina collettiva, riservando una particolare attenzione a Nott, per poi togliere venti punti a Grifondoro e trenta a Serpeverde. Io e Nott ci guardammo ancora in cagnesco, un’occhiata che prometteva un futuro regolamento di conti, ma sul momento non successe niente, e ci allontanammo. Vedendo le facce di Dean e Seamus, che comunque avevano estratto le loro bacchette in mio appoggio, compresi che una reazione così decisa non era tipica di Joshua. Mi giustificai dicendo di essere stato preso dalla rabbia vedendo Nott attaccare una del primo anno, e questo sembrò convincerli. Nelle settimane successive, però, mi fecero notare in diverse occasioni che il bolide in testa mi aveva regalato una nuova personalità, decisamente più volitiva.

Tornando alle lezioni, fu sicuramentein Erbologia che il crollo si rivelò disastroso, e probabilmente abbastanza vergognoso, almeno a giudicare dalla faccia della professoressa Sprite. Purtroppo non potevo farci nulla: il mio alter ego sarà stato probabilmente aiutato dall’avere una madre erbologista che gli aveva trasmesso la passione per piante e funghi magici, ma io non ero mai riuscito a far sopravvivere neanche un cactus. Nell’arco di poche settimane distrussi letteralmente un Puffagiolo nel tentativo di staccare i baccelli, venni aggredito e brutalmente sgraffiato da un Pugnacio e soffocai un Grinzafico con talmente tanto fertilizzante da farlo collassare in due ore. Un disastro completo. Difficilmente mia… la madre di Carter sarebbe stata soddisfatta dei risultati del figlio in quel particolare campo.

Katherine Jones era senza dubbio uno dei punti più critici per abituarmi alla mia nuova vita: inutile dirlo, provavo una nostalgia profonda e viscerale per la mia famiglia, che mi aveva portato addirittura a versare qualche lacrima nel cuscino. Non avevo la minima idea del modo nel quale mi sarei rapportato con lei e con quella che doveva essere mia sorella, anche perché per il momento i ricordi che avevo di loro erano molto scarsi. Guardavo con terrore all’idea di tornare a casa per le vacanze di Natale. Non avevo la minima speranza: se Katherine somigliava anche minimamente a mia madre, ci avrebbe messo circa quindici secondi a capire che in suo ‘figlio’ c’era qualcosa che non tornava per niente, e questo avrebbe portato ad una conversazione estremamente sgradevole. Ancora una volta, però, la fortuna mi venne in aiuto: il giovedì successivo al mio rientro in classe, durante la colazione, un grosso gufo scuro lasciò cadere una lettera davanti al mio piatto. Con un piccolo tuffo al cuore, sulla busta vidi scritto ‘da mamma’.

La aprii, e quasi tirai un sospiro di sollievo: dopo avermi informato della perfetta salute sua e di mia ‘sorella’, avermi raccontato qualche aneddoto della città dove vivevamo (a quanto pareva, Bangor nella contea di Gwynedd, Galles del Nord) e avermi chiesto le classiche informazioni su scuola e amici, la signora Jones mi confermava il fatto che lei e Sheila, nelle vacanze di natale, si sarebbero recate a trovare mia ‘zia’ in Nuova Zelanda, dichiarandosi molto dispiaciute per essere costrette a partire prima che la scuola finisse, e che quindi non sarei potuto andare con loro. Sentii un peso sollevarsi dalle mie spalle: avrei avuto tempo fino all’estate, e sperabilmente per allora la mia memoria sarebbe stata in condizioni sufficientemente dignitose da permettermi di parlare con loro senza essere immediatamente scoperto. Già nel pomeriggio le inviai una risposta con un gufo della scuola, rispondendo alle domande che mi aveva fatto e dichiarando che non ero assolutamente offeso, e che anzi ero molto curioso di passare il Natale nella nuova scuola. La parte più difficile, lo devo ammettere, fu scrivere ‘Cara mamma’ in cima alla pergamena, e mi provocò una fitta di nostalgia così violenta da costringermi a soffocare un singhiozzo: anche se era solo una lettera, mi sembrava un tradimento, e mi chiesi come avrei mai fatto a dirle quella parola in faccia.

In breve, nell’arco di un paio di settimane ero arrivato a sentirmi a tutti gli effetti uno studente di Hogwarts: certo, mi addormentavo ancora con la timida speranza di svegliarmi nel mio mondo, ma ogni mattina nella quale questo non si realizzava diminuiva un po’. Cominciavo a considerare la possibilità che quella sarebbe stata, da quel momento in poi, la mia vita. Avevo anche brevemente considerato la possibilità di recarmi da Silente e raccontargli tutto: fin dal primo secondo nel quale avevo visto il Preside seduto al tavolo degli insegnanti in Sala Grande, avevo sentito un’ondata di fiducia invadermi, e mi ero scoperto ad apprezzare quell’uomo anche se non ci avevo mai parlato. Alla fine, però, avevo deciso di non confessare: sapevo che Silente era tipo da ascoltare fino in fondo uno studente, anche se la sua storia era folle, ma la mia era talmente strana da essere, a mio parere, impossibile da credere anche per una mente aperta come quella del Preside. Oltretutto, sembrava trattarsi di un caso unico: avevo provato a fare qualche ricerca in biblioteca, ma non c’era neanche un accenno alla possibilità che un mago si trovasse di colpo in un mondo totalmente diverso dal suo. Certo, non avevo spulciato tutto lo scibile magico, ma la sensazione che provavo mi diceva che il mio caso era realmente un’eccezione assoluta, e che solo il tempo avrebbe potuto dirmi come sarebbero andate le cose. Nel frattempo, dovevo cercare di vivere meglio che potevo.

In una situazione tutto sommato soddisfacente, la più grossa delusione, nelle prime settimane da mago, venne dalla mia memoria: subito dopo essermi svegliato avevo attribuito la quasi totale mancanza di ricordi relativi a ciò che era scritto nei libri della saga, e quindi, in quel mondo, agli eventi futuri, allo shock del mio viaggio. Ero però convinto che, presto o tardi, mi sarebbe tornato tutto in mente, e avrei guadagnato un’assoluta conoscenza sugli eventi che si sarebbero verificati. La parte più egocentrica della mia personalità già mi vedeva come una sorta di ‘deus ex machina’, capace grazie alle sue conoscenze di cambiare il corso della storia. In questo ambito, però, dovetti ricredermi: nei giorni successivi le cose non migliorarono, e cercare di chiarire le cose assomigliava sempre di più al tentativo di acchiappare la nebbia. Qualunque forza avesse deciso di spedirmi in quel mondo, aveva prestato attenzione a tutti i particolari, e aveva deciso di non donarmi l’onniscienza: non solo non ero in grado di vedere il futuro, ma perfino gli eventi che avvenivano nel presente e dei quali non avevo un’esperienza diretta mi restavano oscuri. Una condizione frustrante. Questo non vuol dire, però, che la mia conoscenza del mondo di Harry Potter fosse completamente scomparsa. Qualcosa era sopravvissuto. Difficile dare una definizione esatta di quello che provavo…per quanto sciocco possa sembrare, avevo sviluppato qualcosa di molto simile ad un ‘Senso di Ragno’: quando accadeva un evento nel quale era contenuto qualcosa che andava al di là di quello che Joshua Carter poteva comprendere con i normali cinque sensi, la mia mente mi mandava qualcosa di molto simile ad una piccola scossa elettrica, una sorta di avviso sul fatto che davanti a me c’era più di quello che sembrava. Qualche volta la scossa era accompagnata anche da qualcosa che somigliava a flash di memoria, che, con una buona dose di impegno e fortuna, potevano permettermi di ricostruire l’accaduto, come una sorta di puzzle.Lo stesso, avrei scoperto in seguito, avveniva quando stava succedendo qualcosa di particolarmente importante o particolarmente pericoloso: il ‘Senso di Ragno’ provava ad avvisarmi, anche se, non dandomi indicazione sul tipo di pericolo e la sua provenienza, l’utilità era tutto sommato limitata.

In un certo senso, mi sentivo deluso: avevo creduto di poter diventare una sorta di divinità, invece mi ero trasformato in Spider Man! In realtà, comunque, non potevo lamentarmi: era vero che non avevo le ragnatele, ma la bacchetta magica mi sembrava una valida sostituzione!

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre ***


CAPITOLO TRE

La prima volta che mi resi conto dello strano comportamento della mia memoria, nonché l’esordio sul campo del mio misterioso sesto senso avvenne poche settimane dopo il mio inspiegabile viaggio, l’ultimo fine settimana prima della fine del trimestre, durante la seconda uscita annuale ad Hogsmeade. Per mia fortuna, Katherine Jones aveva regolarmente firmato il permesso per il proprio figlio, quindi quella mattina, ben imbacuccato per proteggermi dall’inverno scozzese (in quel momento sentivo veramente forte la nostalgia dell’Italia), potetti scendere anch’io verso il villaggio insieme a Dean, Seamus e Neville.La neve cadeva con delicatezza, rendendo il paesaggio intorno ad Hogwarts estremamente suggestivo. Hogsmeade, poi, sembrava una cartolina natalizia, con i piccoli cottage dal tetto spiovente coperti di neve, le ghirlande sulle porte e candele incantate appese agli alberi. A rovinare un po’ l’atmosfera contribuivano però gli avvisi appesi alla porta dei negozi, che ricordavano che i Dissennatori avrebbero pattugliato le strade dopo il tramonto fino a nuovo ordine, mentre da parecchi muri, stampato su avvisi di taglia simili a quelli che si vedono nei film western, occhieggiava un volto scavato incorniciato da un cespuglio di capelli neri arruffati al limite del possibile: Sirius Black.

Lo ammetto, in quelle prime settimane di scuola, entusiasta per quello che stavo vedendo e vivendo e allo stesso tempo preoccupato per quello che poteva essere accaduto al mio corpo dall'altra parte, non avevo praticamente pensato a Black, anche se dai miei ricordi sapevo che era fuggito da Azkaban nel corso dell’estate e che tutta la Gran Bretagna, sia magica che Babbana, lo stava cercando. Certo, uscendo da Hogwarts avevo visto i Dissennatori all’ingresso, e Harry era caduto dalla scopa durante la partita per causa loro, ma, preso da ciò che stava succedendo, non avevo praticamente registrato quello che poteva essere un potenziale lato negativo della situazione. Pensando a Black, avvertii una sorta di ronzio nella testa, che sul momento ignorai. Solo più avanti avrei capito che era il modo di quello che avrei definito banalmente ‘Senso di ragno’ di avvisarmi quando c’era qualcosa che non andava, quando in una questione c’era più di quanto l’apparenza lasciava intendere.

In quel momento, ero troppo preso dall’esplorazione dei negozi di Hogsmeade per pensarci. Fortunatamente, nel baule di Joshua Carter avevo trovato una discreta quantità di galeoni, perciò, sia pure con un po’ di attenzione (chissà a quanto ammontava la mia paghetta, ammesso che ne avessi una…), potevo permettermi qualche spesa. Con i miei amici ci recammo, per prima cosa, da Mielandia, che si rivelò un vero e proprio paradiso per golosi. C’erano interi scaffali di dolci, di ogni tipo possibile e immaginabile e anche oltre: dal torrone alle Gelatine Tuttigusti + 1, dalle Api Frizzole ai Fildimenta Interdentali, fino a intere pile di cioccolato di ogni genere. Gli occhi stavano letteralmente per schizzarmi fuori dalle orbite, e dovetti lottare con me stesso per non acquistare l’intero negozio.

Gli altri esercizi commerciali non erano da meno, e mi tolsi qualche piccola soddisfazione, senza dimenticarmi che mancava poco a Natale, e che quello era il luogo migliore per acquistare i regali. Non ero mai stato particolarmente abile nello scegliere i doni, ma in quel luogo la scelta era talmente ampia da rendere impossibile non trovare qualcosa di buono. Così, cercando di non farmi vedere dai diretti interessati, acquistai un nuovo cappello per Ginny, una nuova piuma, fatta con una remigante di gheppio, per Mary, un grosso pacco di dolci per Neville e una simpatica bussola da scopa per Seamus. Per Dean Thomas mi ero già organizzato in maniera diversa: ricordando che il ragazzo era un grande tifoso del West Ham, avevo inviato una lettera a mia ‘madre’ pregandola di acquistare ed inviarmi una bandiera della squadra, spergiurando che l’avrei rimborsata non appena l’avrei vista.

Anche nella mia mente, continuavo a mettere le virgolette intorno al termine ‘madre’ quando pensavo a Katherine Jones, però dovevo sempre più ammettere che stavo iniziando ad apprezzare quella donna e sua figlia, che nelle lettere che inviavano una volta a settimana si dimostravano delicatamente premurose nei miei riguardi, e allo stesso tempo spiritose. I regali per loro furono il problema principale della mattinata ad Hogsmeade: non ricordavo ancora abbastanza per essere certo di seguire i loro gusti, quindi, dopo lunga riflessione, cercai di mantenermi sul generico, prendendo una bella cornice d’argento a Katherine e una grossa e ben assortita scatola di cioccolatini a Sheila (nella speranza che, tra i ricordi che ancora non avevo recuperato, non ci fosse una catastrofica allergia al cioccolato).Ebbi una certa riluttanza, invece, per quanto riguardava mio ‘padre’: se c’era una cosa che mi era tornata in mente, era il fatto che era stato lui a provocare il divorzio, tradendo ripetutamente mia ‘madre’. Alla fine, comunque, mi convinsi a comprare da Mondomago una pipa in radica autopulente. Spedii tutto con dei gufi dall’ufficio postale (il gufo reale per la spedizione in America mi costò un occhio della testa).

Non avevo mancato di prendere qualcosa per me, facendo una nutrita scorta di dolciumi. Fu però al negozio di scherzi di Zonko che mi sbizzarrii, dando fondo alla mia fantasia da più che discreto conoscitore di scherzi, sia effettuati che subiti: dai Dolci Singhiozzini al Sapone di Uova di Rana, feci una buona scorta, evitando solo le Caccabombe (avevo sempre avuto una certa repulsione per quelle, anche solo leggendole nei libri). Un oggetto in particolare mi colpì: sembrava una sorta di orecchio di gomma scavato all’interno. Lessi il cartellino attaccato sotto:

 

Orecchio dello Spione, 4 galeoni l’uno

Sospettate che i vostri amici parlino male di voi alle vostre spalle?

I giudizi del vostro capo non vi convincono?

Con l’Orecchio dello Spione sentirete senza essere visti!

Applicatelo sul vostro orecchio e ascoltate l’inascoltabile!

Efficace fino a dieci metri.

Effetti collaterali: orecchio gonfio, ronzio uditivo, cefalea, temporanea sordità (raro).

 

Difficile dire perché quello strano oggetto mi colpì tanto. Forse perché dall’altra parte stavo cercando di diventare un giornalista, e una simile apparecchiatura sarebbe stata la proverbiale manna dal cielo. Non mi sembrava, però, una spiegazione valida. Era tornato il ronzio in testa: da una parte quell’oggetto mi ricordava qualcosa, anche se pur con tutto l’impegno non riuscii ad identificare cosa. Dall’altra, una voce insisteva nel dirmi che mi sarebbe potuto servire. Alla fine cedetti e ne presi uno, benché il numero dei galeoni a mia disposizione avesse iniziato a ridursi in maniera leggermente preoccupante e non avessi la minima idea di come avrei potuto utilizzarlo.

Alla fine, dopo aver lungamente girovagato per il villaggio, decidemmo di andare a scaldarci un po’ ai Tre Manici di Scopa, il principale locale di Hogsmeade, che trovammo molto affollato, chiassoso e fumoso, ma allo stesso tempo accogliente. La barista, la formosa Rosmerta, ci portò quattro burrobirre, e devo dire che la trovai squisita, scaldava in pochi secondi nonostante il gelo all’esterno. Il posto era pieno di studenti: ad un tavolo vicino riconobbi Hermione, Ron e…Harry? Che diavolo ci faceva Harry a Hogsmeade? Mi sembrava che avesse detto di non avere il permesso, che i suoi tutori Babbani non lo avevano firmato…come aveva fatto a superare Gazza all’ingresso?

Alla fine decisi di non farmi troppe domande, anche se una vocina in fondo alla mente cercava di dirmi qualcosa, riguardo a una…mappa forse? In quel momento non riuscivo proprio a raccapezzarmi, e decisi di non preoccuparmene, tornando a prendere parte alla conversazione in corso al tavolo.

Mi trovavo bene con tutti e tre ragazzi presenti, ma certamente il mio preferito era Dean Thomas: il ragazzo era cresciuto con genitori Babbani, e per uno che aveva passato venticinque anni come Babbano era molto facile intavolare una conversazione con lui. La mia capacità di rispondere a tono sorprese gli altri, che sapevano che Joshua Carter proveniva da una famiglia di maghi, quindi dovetti rapidamente citare un carissimo zio Babbano, marito di una delle due sorelle di mia ‘madre’. Per assurdo, dalla mia memoria risultava veramente che una delle due sorelle di Katherine avesse sposato un Babbano, anche se i rapporti non erano così stretti. Dopo pochi minuti, io e Dean finimmo per avviare una serrata discussione sul calcio. Per mia fortuna, ero tutt’altro che ignorante per quanto riguardava il calcio degli anni ’90: solo pochi anni prima, per dare una piccola lezione ad un poco simpatico insegnante di storia, avevo portato all’università una folle tesina sull’evoluzione della Premier League inglese dalle origini agli anni 2000, quindi sapevo di che cosa parlava il ragazzo quando paragonava Teddy Sheringham, Les Ferdinand e Alan Shearer.

“Sheringham e Ferdinand hanno avuto una stagione notevole, hanno un gran senso del gol e una buona tecnica, ma credo di non aver mai visto un attaccante con la classe di Shearer, con il pallone è capace di fare letteralmente qualsiasi cosa – stava dicendo Dean, che da qualche minuto andava avanti a paragonare i migliori goleador del campionato inglese, con somma noia degli altri due studenti seduti al tavolo, che di calcio sapevano meno di niente – Secondo te chi è il miglior attaccante in circolazione?” mi chiese alla fine.

“Ronaldo, senza dubbio” risposi senza riflettere. Un attimo dopo avrei avuto voglia di prendermi a calci da solo: inevitabilmente, avevo parlato pensando a Cristiano Ronaldo, e ovviamente, alla fine del 1993, lui giocava ancora nei Pulcini a Madeira. Per un istante, sperai di potermi salvare parlando del Fenomeno, ma la faccia interrogativa di Dean mi fece subito capire che era troppo presto perfino per lui: all’epoca era ancora un giocatore promettente, ma praticamente sconosciuto, che si stava facendo le ossa in Brasile. Sarebbe arrivato in Europa solo l’anno successivo. Come avevo fatto a non pensarci?

“Ro…chi? Non l’ho mai sentito nominare” chiese Dean.

Per mia fortuna, sono sempre stato bravino come cantastorie, e riuscii ad inventarmi una balla a tempo di record: raccontai che il famoso zio Babbano lavorava come talent scout per una squadra olandese, il PSV Eindhoven, e che l’estate precedente non aveva fatto altro che parlare di questo ragazzo diciassettenne appena arrivato al Cruzeiro, che a suo dire aveva un talento pressoché infinito.

“Mi ha fatto vedere alcune cassette: quel ragazzo ha una classe incredibile, non mi stupirei se fosse anche lui un mago visto quello che fa con il pallone! – sghignazzai, cercando di stemperare il momento di imbarazzo - Ha detto che il prossimo anno vuole portarlo in Europa a tutti i costi, e che c’è da aspettarsi meraviglie da lui!”.

Dean non sembrava completamente convinto della mia risposta, ma prima che potesse chiedermi altro la porta del locale si spalancò, e tutta l’attenzione venne catalizzata dai nuovi arrivati: nella stanza erano entrati la professoressa Mc Grannitt, il professor Vitious e l’enorme Hagrid, il quale era impegnato in una fitta conversazione con un tipo robusto che indossava un mantello gessato e una bombetta color verde acido.

“Accidenti! – esclamò Seamus stupito – Quello è Cornelius Caramell, il Ministro della Magia!”.

“Che ci fa qui?” chiese sorpresoNeville, mentre i quattro si avvicinavano ad un tavolo accanto a quello di Harry, Ron ed Hermione. Con la coda dell’occhio, vidi Harry rovesciarsi addosso buona parte della sua Burrobirra, per poi tuffarsi al riparo sotto il tavolo. Un attimo dopo Hermione sollevò la bacchetta ed obbligò uno degli alberi di Natale a spostarsi, fino a nasconderli alla vista degli insegnanti. Con ogni probabilità, Harry era davvero uscito da scuola con un trucco.

“Sirius Black ci fa, cosa altrimenti? – intervenne Dean – Dopo che è entrato ad Hogwarts ad Halloween, questa zona deve essere diventata il cuore delle ricerche”.

I quattro si sedettero, e madama Rosmerta li raggiunse poco dopo con un vassoio di bevande; pochi secondi, e li raggiunse con un bicchiere, sedendosi con loro e intervenendo nella conversazione che era iniziata.

“Pagherei dieci galeoni per sentire quello che si dicono, deve essere roba interessante” mormorò Seamus, che aveva già più volte dimostrato di essere un tipo piuttosto curioso.

Fu un lampo, quasi una frustata: un pensiero folgorante attraversò la mia mente, fino ad invaderla completamente. Non avevo la minima idea da dove arrivasse, ma avevo la certezza assoluta che ciò che quelle cinque persone stavano dicendo non fosse semplicemente interessante, ma fondamentale. Quasi meccanicamente, infilai una mano nella busta che avevo appoggiato accanto al mio piede, ed estrassi l’Orecchio dello Spione. In quell’istante, per la prima volta, compresi la portata delle intuizioni che fino a quel momento avevo liquidato con sufficienza: forse non avrei mai ricordato tutta la storia, le forze che dominavano il mio nuovo Mondo sembravano ben decise ad impedirmelo, ma la mia memoria non era completamente sparita, e in certi momenti sembrava darmi dei suggerimenti. E prendere lo strano prodotto di Zonko era stato uno di questi.

“Dieci galeoni? – mormorai, mentre, cercando di non farmi notare, mettevo l’orecchio finto sopra il mio – Ne bastano quattro”.

“Vuoi origliare quello che dicono il Ministro e gli insegnanti?” chiese Neville con gli occhi sgranati dalla paura.

“Sei impazzito? - proseguì Dean – Questa è roba seria, non una marachella di scuola!”.

“Sssssth! – sibilai, mentre le prime parole arrivavano al mio orecchio. Non era facilissimo distinguere la conversazione del tavolo che mi interessava dal brusio del resto del pub, ma dopo pochi secondi di adattamento iniziai a comprendere la maggior parte delle parole. Quello che sentii nei successivi minuti mi fece gelare il sangue, come se l’inverno fosse improvvisamente entrato all’interno del locale.

 

 

“Assurdo, è perfino peggio di quanto mi hanno raccontato i miei!”.

“Non è solo un assassino, ma un sudicio traditore!”.

“Ha venduto uno dei suoi migliori amici e ne ha massacrato un altro!”.

“Non credevo che potessero esistere persone simili”.

“Chi ha servito Tu-Sai-Chi è capace di fare qualsiasi cosa”.

Era da quando eravamo tornati da Hogmeade che la conversazione andava avanti. Avevo raccontato agli altri quello che avevo sentito dalla bocca del ministro Caramell e dei professori, la storia di Sirius Black e le atrocità da lui commesse, e da quel momento era stato il solo argomento del quale avevano parlato, sotto shock per le rivelazioni ricevute. Dalla faccia che Harry aveva quella sera a cena, era chiaro che anche lui aveva sentito tutto. Aveva gli occhi di una persona alla quale è franato addosso il mondo, ma in fondo si vedeva una strana fiamma…erano gli occhi di chi è pronto ad uccidere. Lo potevo capire: da quello che avevano raccontato, se c’era una persona che meritava di morire quella era Sirius Black. Se fossi stato al posto suo, avrei voluto strangolarlo di persona.

Ma…

Nella mia testa continuava a rimbalzare qualcosa di strano, una sorta di segnale d’allarme. Mi ero ripetuto non so neanche quante volte la storia che avevo sentito: Black, a scuola, era stato il migliore amico di James Potter, il padre di Harry, al punto da essere testimone al suo matrimonio e padrino di suo figlio. Quando i Potter, braccati da Voldemort (personalmente non avevo alcuna difficoltà a pensare o pronunciare il suo nome, ma preferivo evitare per non mettere in difficoltà chi mi stava vicino), erano stati costretti a nascondersi, avevano utilizzato una complicata magia, l’Incanto Fidelius, che permetteva di nascondere un segreto in una persona vivente. Black era stato scelto come Custode Segreto dai Potter, ma li aveva traditi, vendendoli a Voldemort, che si era presentato a casa loro ed aveva ucciso James e sua moglie Lily. Quando però aveva tentato di uccidere Harry, il suo incantesimo gli si era ritorto contro, costringendolo a fuggire, ridotto più a uno spettro che ad un uomo. Black, che si era rivelato un traditore nel momento più sbagliato, aveva cercato di fuggire, ma era stato intercettato in una città Babbana da un altro amico, Peter Minus, che aveva tentato di vendicare i Potter. Black lo aveva trucidato, facendo saltare in aria l’intera strada insieme ad una dozzina di Babbani, prima di essere catturato e portato ad Azkaban. L’estate precedente era fuggito dalla prigione, con l’obiettivo di vendicarsi di Harry per poi riunirsi al suo Signore.

Tutto chiaro. Oppure no? Da quando avevo sentito la storia nella mia testa era scattato qualcosa di molto simile ad un segnale d’allarme. Quello che avrei definito, nei mesi successivi, ‘Senso di ragno’, mi lanciava dei chiari avvertimenti: in quella versione c’era qualcosa che non andava.

Quella notte passai ore nel mio letto, sveglio come non mai, a fissare il baldacchino, nel disperato quanto inutile tentativo di obbligare la mia mente a ricordare. Perché ero convinto che ci fosse qualcosa di storto nella versione che tutti sembravano dare per certa? Sirius Black era colpevole, su questo nessuno sembrava avere dubbi. Era un criminale della peggiore specie. Cosa poteva esserci che non tornava? Mi sarei volentieri colpito in testa da solo: a che diavolo serviva un segnale di pericolo che non ti specificava da quale pericolo dovevi guardarti? Sentivo nelle ossa che quel dubbio che avevo era fondamentale, ma non riuscivo assolutamente a capire in che modo.

Pur non ricordando quasi nulla della vicenda che stavo vivendo, sentivo che ad un certo punto sarebbe divenuta molto, molto oscura. All’inizio, avevo sperato di poter intervenire per modificarla. Dopo poche settimane, però, avevo capito che le cose sarebbero state molto più difficili del previsto. Il mio timore era che, quando la situazione si sarebbe chiarita, sarebbe stato troppo tardi per fare qualcosa.

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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***


Salve ancora a tutti i miei lettori.

Come vedete, per ora, nonostante non siate in molti, ho deciso di continuare per quelli che mi seguono.

Vorrei chiedervi ancora, se possibile, di perdere qualche secondo per commentarmi, mi farebbe molto piacere avere qualche opinione.

 

CAPITOLO QUATTRO

 

Inevitabilmente, la mattina dopo mi svegliai più stanco di quando ero andato a dormire, e per di più con un principio di mal di testa dovuto ai troppi pensieri della notte precedente. Impiegai qualche secondo per rendermi conto che il dormitorio era deserto. Ovvio: era il primo giorno delle vacanze natalizie, Neville, Dean e Seamus mi avevano salutato la sera precedente, dicendomi che sarebbero partiti la mattina presto per tornare a casa, ma io avevo a stento registrato la cosa. Faticosamente, mi tirai in piedi e mi vestii per scendere nella Sala Comune. Harry, Ron ed Hermione erano seduti davanti al fuoco, e sembravano immersi in una conversazione molto accesa, ma non appena mi videro si zittirono e mi salutarono quasi con imbarazzo. Non dovetti faticare molto per capire di cosa stessero parlando.

Ancora una volta il mio ‘Senso di ragno’ mi dette una piccola scossa: io sapevo le stesse cose che sapevano loro, la cosa più sensata da fare era informarli. Perché fosse la cosa più sensata, solo il Cielo lo sapeva, ma ne ero certo.

Scesi le scale e mi avvicinai ai tre: “Non serve che cambiate discorso per me, ragazzi. So già tutto di quello che ha fatto Sirius Black, e lo sanno anche gli altri del dormitorio”.

Mi fissarono con occhi stupefatti: “Merlino…come…?” balbettò Ron.

Estrassi dalla tasca l’Orecchio dello Spione: “L’ho preso da Zonko, serve per ascoltare da lontano le conversazioni altrui. Non so se lo avrei indossato sapendo di che cosa avrebbe parlato il Ministro, ma ero curioso… mi dispiace, Harry” dissi rivolto al ragazzo corvino, temendo che reagisse male per l’involontaria intrusione in faccende che lo riguardavano direttamente.

Harry per un istante sembrò tentato dal mettersi ad urlare, poi scosse la testa e sorrise mestamente: “Non importa, Josh. Non potevi saperlo. E comunque, più gente conosce la verità su quello sporco traditore, meglio è”.

“Stavamo cercando di convincere Harry a non fare niente di stupido – disse Hermione, che sembrava quasi felice di avere un altro che potesse sostenere le sue posizioni – Non deve mettersi in pericolo, e soprattutto non deve cercare Black, rischierebbe soltanto la sua vita”.

Purtroppo, difficilmente le mie idee sarebbero potute essere di grande aiuto per impedire ad Harry di fare idiozie: non sapevo esattamente come mi sentivo riguardo a Black, e gli strani e non identificati dubbi che continuavano a saltellarmi in testa non erano particolarmente utili per chiarire la questione, ma sapevo per certo che, se fossi stato al posto di Harry, avrei avuto una gran voglia di togliere dal mondo personalmente l’uomo che aveva causato la morte dei miei genitori. In quel caso, avere l’esperienza di un venticinquenne non era particolarmente utile. Cercai comunque di non dire niente di compromettente.

Dopo alcuni minuti, gli altri decisero di andare a trovare Hagrid, e io mi aggregai al gruppo. Da quando ero ‘arrivato’ ad Hogwarts non avevo sviluppato un grande rapporto con l’insegnate di Cura delle Creature Magiche, anche considerando che, dopo l’incidente dell’ippogrifo che aveva ferito Malfoy (ne avevo un ricordo molto sfumato, visto che era avvenuto prima del mio ‘arrivo’), le lezioni erano diventate una vera noia. Curare per un’ora dei Vermicoli mi aveva fatto rimpiangere le ore di matematica al liceo, e trattandosi di me, era qualcosa di preoccupante. L’uomo, comunque, mi era parso simpatico, quindi l’idea di conoscerlo meglio non mi dispiaceva affatto.

Purtroppo, la visita si rivelò un mezzo disastro: trovammo Hagrid a pezzi, con l’aria di chi non aveva fatto altro che piangere nelle ultime ore. La motivazione era contenuta in una missiva ufficiale arrivata dal Comitato Soppressione delle Creature Magiche Pericolose: Fierobecco, l’Ippogrifo che aveva ferito Malfoy, sarebbe stato processato, grazie alle pressioni fatte dal padre del biondino.

I miei ricordi dei primi due anni e mezzo della scuola mi avevano già fornito parecchie ragioni per non prendere in simpatia il viscido ragazzino Serpeverde, ma in quel momento arrivai letteralmente ad odiarlo. Faceva parte di una categoria che avevo disprezzato con tutto me stesso per tutta la mia carriera scolastica: un arrogante, pomposo bastardo figlio di papà, invidioso di chi riusciva meglio di lui e capace di qualsiasi meschinità nei confronti di chi riteneva inferiore. Perciò, quando gli altri si offrirono di aiutare Hagrid a preparare la difesa di Fierobecco, non esitai minimamente ad offrirmi volontario per dare il mio apporto. Non conoscevo ancora molto del mondo magico, ma le mie esperienze da giornalista dall’altra parte mi avevano fornito un discreto quadro di quello che era la politica, e speravo che fosse abbastanza per dare alla piccola carogna Purosangue un più che meritato calcio nei denti.

 

Certo, forse ci avrei riflettuto un po’ di più se avessi immaginato cosa significasse trovarsi a discutere con Hermione. Il giorno dopo passammo ore in Sala Comune a sfogliare vecchi libri pieni di casi celebri di bestie pericolose finite sotto inchiesta, e, inevitabilmente, io e la giovane strega finimmo per trovarci ripetutamente su posizioni opposte. All’ennesima annotazione di un Ippogrifo processato e condannato, sbattei con una certa violenza la copertina del libro, borbottando: “Questa roba non serve a nulla”.

Gli altri tre alzarono la testa dai loro tomi con aria sorpresa.

“Non sarà così che troveremo un modo per salvare Fierobecco – continuai – Possiamo continuare quanto vogliamo, possiamo cercare casi particolari ed eccezioni, ma la realtà è che, per come quell’escremento di Malfoy avrà sicuramente presentato la cosa – Harry e Ron non trattennero un piccolo sorriso, mentre Hermione mi fissò scandalizzata – la legge sarà dalla loro parte. L’unico modo per vincere è ribattere sul solo punto che può cambiare le carte in tavola: l’errore di Malfoy, che lo ha offeso quando Hagrid aveva detto chiaramente di non farlo in nessun modo. Dobbiamo preparare una testimonianza dettagliata, e firmata da tutti i nostri compagni di classe, nella quale sosterremo la posizione di Hagrid e getteremo la responsabilità di quello che è accaduto su Malfoy stesso!”.

I due maschi mi fissarono con gioia, quasi avessi improvvisamente scoperto l’America, ma Hermione scosse la testa: “Questo servirà a meno di niente, Josh. Nessun adulto ha assistito al ferimento di Malfoy, tranne Hagrid, che però è parte in causa. La nostra testimonianza non verrà neanche ascoltata”.

“Per lo meno, intorbidirà le acque – insistetti – Non posso credere che tutto il Comitato sia sul libro paga di Malfoy Senior. La nostra testimonianza farà sorgere qualche dubbio, e potrebbe risultare determinante al momento di decidere la pena. Se anche non dovesse essere ritenuto innocente, forse Fierobecco potrebbe evitare la condanna a morte”.

Come se non mi avesse sentito, Hermione continuò: “Comunque, non riusciremo mai a presentare un fronte unito. C’erano anche i Serpeverde a quella lezione, e testimonieranno l’esatto contrario non appena arriverà loro la voce di quello che stiamo facendo. Questa strada non porterebbe a nulla”.

“Certo, salveremo sicuramente Fierobecco andando a vedere in che modo un altro Ippogrifo è stato condannato nel 1720 o giù di lì” esplosi.

Il battibecco tra me ed Hermione andò avanti per parecchi minuti, spingendo Harry e Ron ad allontanarsi in silenzio. Avevano gli occhi sgranati: probabilmente non avevano mai visto nessuno prenderla di petto come stavo facendo io.

Onestamente, ero molto combattuto nel mio giudizio su Hermione: da una parte apprezzavo molto la sua indole battagliera e la sua forza di volontà, mi ricordavano molto una delle mie migliori amiche dall’altra parte. Sul versante opposto, la sua ostinazione, che arrivava al limite della petulanza, e la sua assoluta certezza di essere nel giusto avrebbero fatto saltare i nervi anche ad un monaco tibetano sul punto di raggiungere il Nirvana.

Alla fine, nessuno dei due riuscì a convincere l’altro, e decidemmo tacitamente di mettere da parte la discussione per riprendere lo studio. Anche Harry e Ron tornarono al tavolo, pur continuando a fissarci con stupore. In ogni caso, pur preferendo non continuare una lotta inutile, ero più che deciso a seguire la mia idea non appena gli altri ragazzi di Grifondoro fossero tornati dalle vacanze.

 

La mattina di Natale mi colse di assoluta sorpresa. Fu Ron a farmi saltare in piedi con un urlo da Banshee: “I regali!”.

 

Saltai su come colpito da una mazza, e vidi il rosso che sembrava deciso a rompere un cuscino in testa ad Harry, il quale, di malavoglia, cercava di infilarsi gli occhiali. In fondo ai loro letti c’era una pila di regali ancora da scartare. Quasi facendomi male al collo, mi voltai di scatto, e vidi che anche il mio non faceva eccezione. Il sorriso mi arrivò quasi alle orecchie: che Diavolo, a volte era veramente bello sentirsi di nuovo un ragazzino! Avevo quasi dimenticato l’emozione di aprire i regali di Natale!

Il bottino si rivelò piuttosto consistente: Seamus gli aveva regalato una splendida scacchiera magica; Dean, un interessante libro sulla storia del calcio negli Stati Uniti dalle sue origini all’inizio degli anni ’90; Ginny, un kit di Gobbiglie; Mary, un bellissimo Lunascopio. Mia madre e mia sorella (ormai, anche mentalmente, avevo iniziato a togliere le virgolette e ad accettare che per il momento, e forse per sempre a meno di un cambiamento improvviso, quella era la mia famiglia) mi avevano inviato uno splendido mantello foderato di pelliccia, che mi sarebbe stato sicuramente utile alla successiva lezione di Erbologia. Sorprendentemente, però, fu mio padre a mandarmi il regalo più spettacolare. L’aspetto era tutt’altro che incoraggiante: una semplice busta di carta bianca. Il contenuto, però, mi fece quasi saltare sul letto: un biglietto per la finale della Coppa del Mondo di Quidditch che si sarebbe tenuta in Inghilterra l’estate successiva! Era un argomento che nel dormitorio era venuto fuori più volte, e tutti sembravano aspettarla con grande trepidazione, soprattutto Seamus, che sembrava contare moltissimo sulla forza della Nazionale Irlandese. Probabilmente gli occhi mi si riempirono di stelline. Come dipendente del MACUSA, aveva ricevuto un omaggio con largo anticipo, ed aveva deciso di mandarlo a me! Probabilmente era una piccola offerta di pace dopo il divorzio, ma non stetti a farmi domande, l’idea era troppo allettante, anche se avrei dovuto trovare il modo per andarci: in fondo, Joshua Carter avrebbe compiuto quattordici anni solo a luglio, ed aveva soltanto un biglietto. Per un evento del genere, però, ero pronto anche a scappare di casa!

Avrei voluto mettermi ad urlare dalla gioia, ma il mio teoricamente fantastico regalo venne eclissato in partenza da uno di quelli di Harry: una Firebolt, la migliore scopa da corsa esistente in commercio! Perfino con la mia ancora limitata esperienza del mondo magico sapevo che era il sogno erotico di chiunque avesse mai anche solo pensato di giocare a Quidditch! Io e Ron ce la stavamo letteralmente mangiando con gli occhi, mentre lui ed Harry provavano ad ipotizzare chi gli avesse fatto un simile regalo, visto che il pacchetto non era accompagnato da un biglietto.

Hermione, sfortunatamente, sembrò decisamente meno entusiasta di noi: appena entrata nel nostro dormitorio, insieme al suo gatto Grattastinchi, iniziò a guardare con sospetto la meraviglia che Harry teneva in mano, dichiarandosi convinta del fatto che nessuno avrebbe dovuto cavalcarla. Prima che potesse spiegare le ragioni del suo pensiero, però, venne sfiorata una tragedia: Grattastinchi, lasciato su un letto, assalì letteralmente Ron, e dal taschino del ragazzo Weasley schizzò fuori come un fulmine Crosta, il suo topo, nel disperato tentativo di sfuggire al cacciatore. Mentre Hermione acchiappava il suo gatto e lo portava via arrabbiata e Ron saltellava per il dolore dopo che un calcio diretto a Grattastinchi aveva colpito il baule di Harry, ebbi l’occasione di osservare per la prima volta il topo Crosta: era molto magro e spelacchiato, e sembrava tutt’altro che in salute. Improvviso come sempre, il mio ‘Senso di ragno’ mi lanciò un avviso: il topo… aveva qualcosa di strano, forse addirittura di malvagio. Un po’ ingenuamente, scacciai il pensiero come una mosca fastidiosa: quelle strane sensazioni avevano dimostrato di essere utili in alcuni casi, ma insomma… che ci poteva essere di pericoloso in un vecchio topo? Assurdo. Spider Man… si, certo. Probabilmente era il Dottor Octopus travestito! Come Veggente non valevo decisamente una cicca.

 

Gli strani dubbi sul topo di Ron furono completamente fugati dallo spettacolare pranzo di Natale nella Sala Grande: con i pochi studenti rimasti e gli insegnanti, insieme al Preside, mangiammo ad un solo tavolo imbandito al centro della sala. Fu probabilmente uno dei migliori pranzi della mia vita, sia a livello di compagnia che di cibo. L’allegria regnava sovrana quando rientrammo nel dormitorio. Hermione era rimasta indietro per parlare con la Mc Grannitt, quindi io, Harry e Ron ci riunimmo nella Sala Comune per studiare meglio la spettacolare scopa regalata a Potter. ‘Meravigliosa’ era una definizione a dir poco riduttiva: faceva sembrare quelle del resto della squadra dei semplici spazzoloni! Stavamo già assillando Harry perché ci lasciasse fare un giro, quando la Mc Grannitt entrò nella stanza. A giudicare dalla faccia degli altri due, non era una cosa normale. Con lei c’era Hermione, che senza degnarci di uno sguardo ci superò, si sedette, afferrò un libro e ci si nascose dietro. Una situazione davvero insolita, che divenne terrificante nell’arco di pochi istanti: la professoressa, dopo aver studiato la scopa per qualche istante, annunciò che avrebbe dovuto portarla via e farla analizzare, forse addirittura smontare, per essere certa che non fosse stata maledetta. Anche dall’alto della mia ignoranza, manomettere quel capolavoro mi sembrava poco meno di un crimine, ma le mie suppliche, così come quelle di Ron e Harry, furono perfettamente inutili: fummo costretti a vedere la Mc Grannitt che portava la scopa oltre il ritratto della Signora Grassa, che si chiuse alle sue spalle.

Harry rimase come paralizzato, mentre io e Ron reagimmo in maniera molto meno composta: quasi all’unisono, aggredimmo verbalmente Hermione: “Perché sei andata a dirlo alla Mc Grannitt?” urlò il rosso. Io rincarai la dose: “Sei impazzita? Ti diverte tanto pugnalare i tuoi amici alle spalle? Perché lo hai fatto?”.

Hermione, rossa in viso, si alzò e cercò di rispondere a tono: “Perché pensavo, e la professoressa è stata d’accordo con me, che probabilmente è stato Sirius Black a mandare quella scopa ad Harry!”.

La risposta di Hermione servì solo a far infuriare di più Ron, che le rispose per le rime, cercando di farle capire quanto assurda fosse quell’idea, e che un ricercato come Black non avrebbe mai potuto recarsi ad acquistare una scopa, ma io mi ero già estraniato dalla discussione: “Senso di Ragno” back in action… la frase di Hermione aveva fatto scattare nuovamente l’ormai ben nota scossa elettrica, alla quale non ero ancora certo di poter dare credito, ma che non riuscivo ad ignorare. Razionalmente concordavo con Ron, nessun uomo ricercato quanto Black avrebbe potuto recarsi in un negozio alla moda e fare un acquisto, sarebbe stato come se, dall’altra parte, il comandante di Al Quaeda si fosse recato a cena in un ristorante. In una parte remota della mia mente, però, una vocina non voleva saperne di smettere di sussurrarmi che, in qualche folle modo, ciò che diceva Hermione poteva avere un fondo di verità.

Nonostante tutto, benché la mia mente continuasse a lanciarmi segnali d'allarme, alla fine liquidai l’idea come un semplice parto della mente sospettosa di un aspirante giornalista, e mi accodai agli altri due nel mantenere alta l’ostilità nei confronti della ragazza, che per noi era colpevole di un vero e proprio tradimento. Hermione prese ad evitarci, e la situazione non migliorò neanche dopo il ritorno a scuola degli altri studenti, dopo la fine delle vacanze natalizie.

La ripartenza delle lezioni non portò novità particolarmente positive: Baston, il capitano della squadra di Quidditch, non appena venuto a conoscenza della scopa regalata ad Harry e sequestrata dalla Mc Grannitt, cercò disperatamente di convincerla a restituirla, senza però ottenere altri risultati se non una pesante reprimenda; Hermione continuava a mantenersi a distanza da noi tre, anche se, dopo il ritorno di Dean e Seamus, ci feci poco caso, considerando che non ero un elemento regolare del loro gruppo. Oltre che a lezione, il solo tempo che passavo con Harry era quello dedicato agli allenamenti: come membro della squadra riserve di Grifondoro, vi partecipavo, insieme a Dean, Seamus ed altri quattro per aiutare i titolari ad allenarsi in vista della partita contro Corvonero, decisiva per permetterci di rimanere in corsa per la Coppa. Harry mi raccontò delle sue lezioni private con Lupin, nelle quali cercava, per adesso con poco successo, di imparare l’Incanto Patronus, una magia capace di tenere lontani i Dissennatori, nel caso questi avessero deciso di presentarsi alla partita successiva.

Più per curiosità che per altro, mi feci spiegare come si eseguiva l’incantesimo e cercai di replicarlo, ma anche nel mio caso, nonostante mancasse lo stress dovuto all’opprimente presenza di un vero Dissennatore, il risultato fu scarso: al mio ‘Expecto Patronum’ fece seguito solo l’emissione dalla punta della bacchetta di una nebbia perlacea, lo stesso risultato ottenuto da Harry, nel suo caso però di fronte ad un Molliccio che replicava fin troppo bene il gelo e la perdita di felicità originati da un Dissennatore. Tutto considerato, i miei risultati erano addirittura inferiori ai suoi. Dentro di me, imputai gli scarsi effetti dell’incantesimo alla mia insolita situazione: i ricordi felici accumulati dall’altra parte erano offuscati dalla tristezza per la perdita di tutta la mia vita precedente, quelli accumulati ad Hogwarts, per il momento, erano decisamente troppo poco potenti. Decisamente, avrei dovuto evitare di attaccare briga con i demoni neri di Azkaban nell’immediato futuro.

Intanto, le settimane passavano, e la mia personale situazione non sembrava destinata a cambiare: ormai mi comportavo come un mago adolescente, e iniziavo decisamente a convincermi che quella sarebbe stata la mia esistenza per sempre. Una consapevolezza che mi faceva male al cuore: tutto andava bene finché ero impegnato, ma non appena mi fermavo, la tristezza mi piombava addosso come un uccello rapace. Avevo insistito a fare qualche ricerca in biblioteca, concentrandomi su viaggi magici, strane esperienze, racconti misteriosi e insoliti, ma non avevo trovato niente di neppure lontanamente simile a quello che era accaduto a me. Non c’era nulla che potessi fare per risolvere la cosa. La sola idea che mi era venuta era che potesse servire un’esperienza pre-morte, come quella che avevo vissuto durante l’incidente stradale, ma oltre ad essere un’idea stiracchiata, non potevo prendere neanche in considerazione l’ipotesi di metterla alla prova. Non avevo istinti suicidi, e passare da un’esperienza pre-morte alla vera morte era fin troppo semplice. Mi dava un certo senso di impotenza sapere che, pur essendo un mago, non c’era nessuna stregoneria in grado di farmi tornare nel mio mondo. Potevo solo andare avanti, e vivere la vita che mi era toccata in sorte.

Gennaio si trasformò lentamente in febbraio, tra lezioni e allenamenti. Il mio stranissimo sesto senso non mi fece altre sorprese impreviste. Intanto, la mia guerriglia con i Serpeverde, e in particolare con Theodore Nott, rimasta strisciante da novembre, continuò a salire di temperatura, raggiungendo ben presto il punto di ebollizione. La piccola carogna, ben coadiuvata dai suoi compari, aveva preso a chiamarmi ‘Lo Yankee’ ogni volta che gli passavo davanti, mettendo in quella parola tutto il disprezzo del quale era capace. Non potevo fare a meno di chiedermi chi avesse suggerito allo spocchioso rampollo purosangue quel termine Babbano. Ci aggiungeva ogni volta un po’ di pepe e sale, prendendomi in giro per qualsiasi cosa: dai capelli a caschetto al naso schiacciato, dalle mie origini al mio incidente sulla scopa, a ogni altra cosa gli passasse per la mente. Avevo sempre resistito alla tentazione di reagire, con i pugni o con la bacchetta: in tanti anni di scuola mi ero fatto un’esperienza nell’ignorare gli idioti, quindi riuscivo ad escludere dal mio udito le parole cattive e le risate. Questo fino ad una fredda giornata dell’inizio di febbraio: stavo andando verso la Sala Grande per il pranzo chiacchierando amabilmente con Mary, quando la sgradevole voce di Nott mi giunse alle orecchie: “Ma guarda! Lo Yankee si è fatto la ragazza! Non avrei mai creduto che qualcuno avrebbe potuto sopportare la sua puzza di imbranato!”.

Mi voltai di scatto: Nott era appoggiato ad una parete, sghignazzante, insieme ad un alto ragazzo nero che mi sembrava si chiamasse Blaise Zabini e ad un paio di ragazze Serpeverde del terzo anno delle quali non ricordavo proprio il nome. Tutti e quattro avevano un ghigno malvagio dipinto sul volto. Mary arrossì furiosamente, ma cercò di darsi un contegno, e mi sussurrò: “Lasciali perdere, andiamo…”.

“Mi chiedo – continuò imperterrito Nott – come qualcuno possa essere così idiota da stare vicino ad un simile personaggio. Un perdente che trasuda stupidità da ogni poro. Questa scuola è caduta veramente in basso per accettare una simile spazzatura. Mi sorprendi veramente, Sutton, non credevo fossi così stupida”.

Sentii una rabbia sorda salirmi dentro. Avevo sopportato Nott per tre mesi, finché aveva insultato soltanto me non era stato neanche particolarmente difficile, ma il fatto che per ferire me avesse deciso di mettere in mezzo Mary rendeva decisamente più complicato mantenere sotto controllo il mio tutt’altro che accomodante carattere. Feci la mossa di dirigermi verso di loro, ma Mary, ancora rossa in volto, mi afferrò per un braccio: “Josh, lascia stare, per favore…non ne vale la pena…”.

Stavo quasi per convincermi a lasciar perdere, quando Nott mise sul tavolo il proverbiale carico da undici: “Certo che, effettivamente, una sciacquetta come lei va bene per un rifiuto come te”.

Non mi resi neanche conto di aver strappato il braccio dalla presa di Mary e di aver lasciato cadere la borsa dei libri. Mi diressi verso il gruppetto di Serpeverde con il passo di un toro che si prepara alla carica. Vidi il volto di Nott passare dalla derisione alla sorpresa, mentre Zabini e le due ragazze si allargavano lasciando spazio. Non avevo neanche preso la bacchetta, non sapevo esattamente che cosa volessi fare, solo fargli molto, molto male. Quando capì che facevo sul serio, Nott infilò la mano sotto la veste, ma ebbe a stento il tempo di estrarre prima che gli piombassi addosso. Dall’altra parte non ero mai stato un grandissimo atleta, ma mi ero rivelato un decente pilone di rugby, e in quel momento mi produssi in uno dei migliori placcaggi della mia carriera: gli piombai addosso come un treno, colpendolo con la spalla sotto lo sterno prima che potesse puntarmi addosso la bacchetta. Nott buttò fuori l’area di colpo con un sonoro sbuffo. Pesavo almeno dieci chili più di lui, e avevo dalla mia l’effetto sorpresa, quindi lo sbattei a terra con sorprendente facilità. Rotolammo dolorosamente sul pavimento di pietra. Notai a stento l’urlo di Mary, ero troppo impegnato a controllare di non essermi rotto nulla nella caduta. Con la coda dell’occhio vidi Nott tirarsi su faticosamente: aveva ancora la bacchetta in mano, ed uno sguardo omicida sul volto. Anche questa volta, non pensai a rispondere nello stesso modo, non avevo ancora grande fiducia nelle mie capacità di mago: mi lanciai di nuovo su di lui, afferrandogli il polso e costringendolo a deviare la mira proprio mentre si preparava a colpirmi. Nel momento di confusione, non riuscii a sentire che cosa mi avesse scagliato, ma il colpo lasciò una grossa macchia scura sul pavimento. Approfittando della mia maggiore forza fisica, gli torsi il braccio, bloccandoglielo dietro la schiena e stando ben attento che la punta della bacchetta puntasse verso l’alto, lontano dalla mia faccia. Nott urlò per il dolore, e mi lanciò contro una serie di insulti, ordinandomi di lasciarlo andare. Per tutta risposta, io aumentai la pressione: “Lascia la bacchetta, o giuro che ti spezzo il braccio!”.

“CARTER!”.

Alzai gli occhi oltre la spalla del sofferente Nott: dall’angolo del corridoio era spuntato il professor Piton, che stava accorrendo verso di noi con sguardo furibondo. Superò Mary, che ci fissava intontita, e ringhiò: “Cosa credi di fare? Lascialo andare, IMMEDIATAMENTE”.

“Professore…” provai a replicare.

“Quale parte di 'immediatamente' non ti è chiara?”.

“PROFESSORE!” alzai la voce.

Piton mi fissò con occhi rabbiosi, ma mi lasciò il tempo di continuare: “Vorrei farle notare che io non ho una bacchetta, lui si, e anche in questo momento sta tentando di puntarmela contro, quindi le assicuro che non lo lascerò andare finché non la mollerà!”.

Sapevo di avere osato troppo, e che con ogni probabilità me ne avrebbe fatto pentire, ma era la pura e semplice verità: anche con il braccio bloccato dietro la schiena, Nott cercava in tutti i modi di scagliarmi un incantesimo. Piton sembrò sul punto di esplodere, poi sibilò: “Nott, lascia andare la bacchetta”.

Nott, dolorante, lo fissò stupefatto.

“Adesso!” la sua vece sembrava una lama di ghiaccio.

Di malavoglia, Nott aprì la mano, e la sua bacchetta cadde al suolo. Un paio di secondi, e lo lasciai andare con un’ultima spinta. Il Serpeverde mi fissò in cagnesco, massaggiandosi la spalla. Se gli sguardi avessero potuto uccidere, sarei morto sul posto. Forse sarebbe stato meglio, vista la furia in mantello nero che mi piombò addosso subito dopo.

“Bene – ringhiò Piton – Adesso a noi, signor Carter”.

Provai in tutti i modi a spiegargli come erano andate le cose, ma il fatto che fossi stato provocato non sembrava di minimo interesse per lui, così come non ebbero alcun effetto le parole di Mary, che cercò di raccontargli come fosse stata pesantemente insultata. Grifondoro si ritrovò di colpo con cinquanta punti in meno, e io con una settimana di punizione. Qualunque idea di protestare per l’ingiustizia di quella decisione avrebbe solo peggiorato le cose, quindi raccolsi la borsa e mi allontanai con Mary, dopo aver lanciato un’ultima occhiata durissima a Nott. Era chiaro che il nostro confronto era solo rinviato, e che la volta successiva difficilmente ci saremmo fermati prima di aver concluso la questione.

Mentre andavamo verso la Sala Grande, Mary non fece altro che rimproverarmi per essermi fatto trascinare nella lite, ma subito prima di entrare, con un sorriso dolcissimo, mi ringraziò per averla difesa. Quel sorriso compensò, almeno in parte, cinque serate passate a mettere milze di pipistrello nei barattoli.

Adoravo quella ragazzina. Non che mi fossi preso una cotta, sia chiaro: per quanto iniziassi a sentirmi nuovamente un adolescente, in quel periodo, a livello mentale, ero fondamentalmente ancora un venticinquenne intrappolato nel corpo di un tredicenne. Anche un cieco si sarebbe accorto che Mary era una ragazzina molto carina, ma io la vedevo, appunto, come una ragazzina carina, non come una donna. Era però chiaro che le cose stavano cambiando, anche a livello ormonale: nei rapporti con lei, con Ginny e con le altre studentesse della mia età stavo chiaramente iniziando non soltanto a comportarmi come un ‘me’ tredicenne, ma addirittura a pensare come un tredicenne: se prima dovevo riflettere per rispondere a tono, ormai diventava sempre più naturale e, oltretutto, le notavo sempre di più e con sempre maggiore attenzione. Difficile dire se era l’abitudine o se nel corso del ‘viaggio’ anche la mia mente fosse ringiovanita come il mio corpo, ma stavo iniziando a relegare le sensazioni da uomo di venticinque anni in un angolo del mio subconscio.

Ci sarebbe voluto del tempo perché arrivassi a comprendere che ero in grado di richiamare quella personalità, meno infantile, più dura, più fredda, nei momenti critici, che quello che aveva deciso di aggredire Nott era stato Joshua Carter, ma quello che sarebbe stato realmente disposto a spezzargli il braccio era Matteo Simoncini. In quel momento avevo in testa soltanto una gran confusione.

Tutto considerato, il mio mese di febbraio non fu decisamente il migliore dal mio arrivo ad Hogwarts. Le cose sembrarono migliorare solo verso la fine del mese: Harry piombò in Sala Comune stringendo in mano la Firebolt come un trofeo. Evidentemente la Mc Grannitt e Vitious non avevano trovato niente di sbagliato nella scopa, ed avevano deciso di restituirla. Un’ondata di ottimismo e di felicità si sparse in tutto il dormitorio: con quella scopa eccezionale in squadra, improvvisamente le nostre speranze di vincere la Coppa erano risorte. Tutta la Casa si rovesciò intorno ad Harry, festeggiandolo quasi avesse già vinto, anche se la maggior parte erano probabilmente solo desiderosi di vedere la Firebolt.

La festa, purtroppo, non durò a lungo: fu interrotta da un furibondo Ron, che piombò fuori dal nostro dormitorio trascinandosi dietro un lenzuolo insanguinato. A quanto pareva, il suo topo era scomparso, e questa volta non sembrava un falso allarme: pareva proprio che fosse stato ucciso, ed il colpevole sembrava, senza troppi dubbi, il gatto di Hermione, che già fin troppe volte aveva provato ad attentare alla sua vita, e del quale Ron aveva trovato i peli sul letto. Hermione sembrava sconvolta.

Questa volta non fu una semplice, leggera scossa elettrica, quella che mi attraversò la testa, ma una vera e propria fitta. Sul momento la respinsi, con ogni probabilità era dovuta allo stress del momento, ma i pensieri non scomparvero: per me, la morte di Crosta suonava male quanto una moneta falsa, e il dubbio che qualcosa di molto importante mi stesse sfuggendo tornò più volte a tormentarmi nei giorni successivi.

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Capitolo 6
*** Capitolo Cinque ***


CAPITOLO CINQUE

 

Se la morte di Crosta rimase per me una sorta di richiamo in fondo alla mente, una remoto segnale d'allarme al quale non riuscivo a trovare una spiegazione, per Ron fu un colpo durissimo, e sembrò certificare la fine dell'amicizia tra lui ed Hermione: Ron la accusava di aver sottovalutato i tentativi del suo gatto di divorare il topo, lei era infuriata per la sua scelta di accusarlo a suo dire senza prove. Harry, dal canto suo, si trovava in mezzo al fuoco incrociato: un pomeriggio, dopo un allenamento, mi disse chiaramente di essere convinto che Crosta fosse ormai stato digerito da tempo, ma Hermione, nella sua testardaggine, non sembrava affatto intenzionata ad ammetterlo, a costo di allontanarsi da tutto e tutti.

Io, però, ero più testardo di lei, ed avevo tutte le intenzioni di provare a farla ragionare. La intercettai un pomeriggio di fine febbraio, dopo le lezioni, mentre usciva dalla biblioteca, con sulla schiena la sua solita cartella strapiena di libri. Aveva l'aria stremata: sapevo che quell'anno stava seguendo più lezioni di chiunque altro, e sembravano starle costando care, almeno a giudicare dalle occhiaie. La lite con i suoi migliori amici, poi, non sembrava aver migliorato di molto la situazione.

"Hermione!" la chiamai mentre svoltava l'angolo in un corridoio.

Lei alzò gli occhi mentre mi avvicinavo: "Josh...".

Non so esattamente come accadde: due secondi dopo, la ragazza riccia mi aveva abbracciato e stava piangendo a dirotto con la testa sprofondata nel mio petto. Una situazione tra le più imbarazzanti della mia vita. In ogni caso non potevo non provare pena per lei: nonostante cercasse di dimostrarsi molto più matura della sua età, rimaneva una ragazzina con seri problemi a relazionarsi con gli altri, che aveva appena troncato i rapporti con le sole due persone che considerava veramente degli amici. Ricambiai con un certo sforzo il suo abbraccio: "Ssssth...Hermione, tranquilla...- le sussurrai - Forse è meglio toglierci di qui, andiamo a parlare in un posto più tranquillo".

Alla fine scegliemmo la Torre di Astronomia: lassù nessuno sarebbe venuto a disturbarci. Non appena arrivammo, Hermione lasciò cadere la borsa, si sedette con la schiena appoggiata al muro e ricominciò a piangere. Istintivamente, decisi di lasciarla sfogare: era probabilmente la cosa migliore da fare, avrebbe parlato solo quando se la sarebbe sentita. Rimasi in piedi al suo fianco, in attesa.

Ci vollero quasi dieci minuti prima che smettesse di singhiozzare. Solo a quel punto mi sedetti accanto a lei: "Ne avevi bisogno, vero?".

"Non immagini quanto -  mi rispose, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano - Ho provato ad essere forte, a ignorare le frecciate di Ron sul suo topo, ma non ne potevo veramente più".

Avevo un certo timore di quello che sarebbe successo, ma dovevo provare: "Hermione... - le dissi - Tu sei probabilmente la persona più intelligente che conosco...sai quello che è successo, vero?".

Per un momento, quando la vidi mettersi le mani sulla faccia, temetti che sarebbe scoppiata di nuovo in lacrime, poi sospirò, con voce comunque rotta: "Sì, lo so. Grattastinchi ha mangiato Crosta - solita piccola scossa elettrica nella mia testa, ma cercai di passarci sopra, non era proprio il momento - Lo so bene che è andata così, Josh...ma non so cosa fare! Hai visto Ron come si comporta con me... ora non accetterebbe una sola parola da parte mia. Crede di aver ragione, sente di aver ragione, non accetterebbe neanche se andassi a presentargli le mie scuse". Le lacrime ricominciarono a scendere lungo le sue guance.

Mentalmente sospirai: adolescenti! Banda di lunatici convinti di avere tutte le risposte! E mi ritrovavo per la seconda volta ad essere uno di loro! Che Merlino avesse pietà di ciò che restava della mia sanità mentale! Quasi sobbalzai: Merlino?! Porca... avevo addirittura iniziato a pensare come loro! Probabilmente era già tardi per la sanità mentale...

Dovevo comunque rispondere, avevo davanti una ragazza che sembrava molto vicina al collasso nervoso, ed aveva un disperato bisogno di consigli. Devo dire che in quel momento mi faceva tenerezza, non era la studentessa geniale e puntigliosa di tutti i giorni, era semplicemente una tredicenne in grave crisi. Purtroppo la saggezza non era mai stata la migliore delle mie caratteristiche, ma riuscii a venirmene fuori con qualcosa di decente: "Il tempo è un grande medico, Hermione - le dissi, stringendole delicatamente la spalla con comprensione - Ron lo supererà, lo sai. Forse non lo ammetterà mai, ma presto sentirà la mancanza della tua amicizia, e tornerà a parlarti. Dovrai solo tenere duro, e aspettare quel momento".

Hermione sorrise mestamente, si asciugò le lacrime con il dorso della mano e si alzò, seguita da me. Un attimo dopo mi stringeva in un abbraccio spezzacostole. Accidenti, ne aveva di forza nelle braccia quella ragazza! Immagino che portarsi sempre in giro una borsa piena di libri aiutasse i muscoli.

"Grazie, Josh - mi disse dopo essersi staccata da me - Sei veramente gentile, e anche molto maturo. Sono contenta di essermi potuta sfogare con te, fino a questo momento il solo ad ascoltarmi è stato Hagrid".

Mentre raccoglievamo le nostre borse e iniziavamo a scendere dalla torre, decisi di cambiare discorso: "A proposito, hai continuato a fare ricerche per il processo di Fierobecco?". Subito dopo il ritorno dalle vacanze natalizie avevo realmente fatto firmare ai miei compagni del terzo anno una testimonianza nella quale erano riportati gli errori di Malfoy che avevano provocato la sua aggressione, e l'avevo consegnata ad Hagrid affinché la portasse il giorno del processo, ma sfortunatamente, come previsto da Hermione, la voce era arrivata ai Serpeverde, che a loro volta avevano preparato un documento da inviare al Comitato Soppressione delle Creature Magiche Pericolose, nel quale, naturalmente, sostenevano che le cose fossero andate in maniera completamente opposta. Ammesso che si degnassero di leggere le testimonianze di un mucchio di tredicenni, le cose sarebbero finite in pareggio. Per il resto, ero stato talmente impegnato con gli allenamenti e le lezioni che avevo lasciato da parte lo studio dei vecchi casi di aggressioni di animali. A quanto pareva, dopo il litigio con Ron e con Harry preso più di me, essendo nella squadra titolare, Hermione si era interamente accollata il problema: "Abbastanza bene, credo - mi spiegò scendendo le scale - Ho raccolto un sacco di precedenti favorevoli a Fierobecco, se pensano di attenersi alle loro stesse leggi devono per forza assolverlo".

Avrei tanto voluto avere la sua stessa sicurezza, ma purtroppo, anche se dall'altra parte ero poco più di un aspirante giornalista, sapevo abbastanza di politica corrotta da avere dei seri dubbi sulle possibilità di salvezza dell'Ippogrifo.

"Volevo chiederti...- aggiunse voltandosi verso di me - ti andrebbe di ricontrollare insieme la relazione prima di portarla ad Hagrid?".

La fissai stupefatto: "Hermione Granger che chiede aiuto a qualcuno per terminare una relazione? Ti senti molto peggio di quanto credessi!".

La battuta mi costò un pugno sulla spalla: "Scemo! Non mi costa niente ammettere che hai una certa abilità con le parole. Sai essere tagliente senza offendere, arrivi al cuore del problema in poche battute, e oltretutto, da quello che ho visto nei tuoi temi, parli e scrivi in maniera semplice, e visto che sarà Hagrid a presentare il tutto, di certo non guasterà. Ti va di darmi una mano o no?".

Non avevo bisogno di una spinta all'ego, ma me la presi più che volentieri. Hermione iniziava decisamente ad essermi più simpatica, c'era molto dietro l'aria da ragazzina un po' secchiona.

"Mi pare ovvio che mi va!" le risposi con un sorriso.

 

Avevo sempre amato assistere agli eventi sportivi dagli spalti: adoravo vedere le partite di calcio in mezzo ai tifosi, ma niente poteva essere paragonabile allo spettacolo di assistere ad una partita di Quidditch: guardare dalle tribune sopra lo stadio lo scontro tra Grifondoro e Corvonero fu senza dubbio una delle esperienze più esaltanti della mia vita, e vedere Harry strappare il Boccino d'Oro da sotto il naso di Cho Chang, la bella Cercatrice di Corvonero, fu anche meglio. Improvvisamente, Grifondoro era secondo in classifica, e nuovamente in gara per la vittoria finale della Coppa. Certo, avremmo dovuto battere Serpeverde nell'ultima partita, e con un forte scarto per riuscire a superarli ai punti, ma per lo meno avevamo una possibilità, e tutti, me compreso, sembravamo ben decisi a giocarcela fino all'ultimo. La ciliegina sulla torta fu vedere quella piccola carogna di Malfoy, che con i suoi tirapiedi aveva tentato di impersonare due Dissennatori per danneggiare Harry, venire abbattuto dal suo Patronus e pubblicamente umiliato dalla Mc Grannitt. Mi dispiacque soltanto che con loro non ci fosse Nott!

Anche la successiva festa nella Sala Comune di Grifondoro fu notevole: i Gemelli, non saprei esattamente in quale modo, erano riusciti a procurarsi Burrobirre e sacchi di dolci di Zonko, e qualcuno aveva procurato una radio magica, quindi la baldoria andò avanti per tutta la giornata, fino a tarda sera. Ero euforico: non potevo allontanare completamente la sensazione di essere nel posto sbagliato, ma erano anni che non mi sentivo così libero...così felice...così giovane! Passai gran parte del pomeriggio a bere Burrobirra e a ridere e scherzare con Ginny, Sean e Seamus, e ad un certo punto finii addirittura a ballare al centro della stanza con una raggiante Mary. Pensare che dall'altra parte non avevo mai amato ballare! Neanche Ron, che ad un certo punto decise di rivangare la questione della morte di Crosta, facendo fuggire Hermione in lacrime, riuscì a farmi passare il buonumore. Alla fine, quando era ormai l'una di notte passata, fu la Mc Grannitt a porre fine alla festa, entrando nella Sala Comune in vestaglia scozzese e spedendoci a letto. Mary, dopo avermi salutato, mi schioccò un bacio sulla guancia prima di andare nel suo dormitorio.

Devo ammettere che la cosa mi lasciò basito: Mary era sempre molto dolce, ma non aveva mai fatto nulla di simile. In effetti, negli ultimi tempi, la ragazzina era diventata sempre più carina e affettuosa nei miei confronti, e cercava la mia compagnia con maggiore insistenza. Iniziavo seriamente a pensare che si stesse prendendo una cotta, e temevo le conseguenze di una simile situazione: il mio corpo avrà pure avuto tredici anni, ma la mia mente ne aveva ancora venticinque, la cosa continuava a sembrarmi sbagliata sotto diversi punti di vista.

Questi pensieri non mi aiutarono certamente a rilassare la mente. Per di più, pur non essendo quasi per niente alcolica, la Burrobirra mi aveva fatto venire un leggero giramento di testa, e infine avevo scoperto che sulla vescica aveva lo stesso effetto della birra normale, quindi dovetti fare un paio di viaggi in bagno. Probabilmente fu per questo insieme di ragioni che alla fine mi addormentai di un sonno estremamente leggero, al contrario di quello di piombo che mi contraddistingueva di solito, senza neanche chiudere il baldacchino.

Proprio per questa ragione, fu sufficiente un piccolo rumore di passi sul pavimento di pietra per svegliarmi. Non avrei saputo dire che ore fossero, ma dalla pesantezza delle mie palpebre non doveva essere passato molto tempo da quando le avevo abbassate. Aprii faticosamente gli occhi: attraverso il baldacchino aperto, vidi che l'ambiente era ancora scuro, ma la luce della luna entrava dalle tende aperte, tagliando la stanza come una lama. E andando a disegnare una sagoma china sul letto di Ron.

Per un istante rimasi sorpreso, pensando di essere nel bel mezzo di un sogno. Poi compresi che le mie sensazioni erano troppo ben delineate per trattarsi solo di immaginazione: c'era veramente un uomo accanto al letto di Ron, intento, apparentemente, a studiare il ragazzo attraverso le tende scostate del baldacchino. Nella pallida luce argentata, mi era possibile distinguere i suoi tratti con sorprendente facilità, e quello che vidi mi fece gelare il sangue: il volto scavato di un uomo che sembrava aver attraversato l'Inferno, un corpo alto ed estremamente magro, un cespuglio di capelli neri, lunghi e sporchi, un vestito consunto, sudicio e strappato, una mano che stringeva un pugnale. Mi sembrava impossibile, eppure Sirius Black era in piedi nel bel mezzo del nostro dormitorio, armato, e stava scrutando Ron a meno di un metro di distanza.

Sospettai che non fosse un buon momento per farmi prendere dal panico: se avessi urlato, Ron si sarebbe ritrovato con una seconda apertura pochi centimetri sotto la bocca, e io con ogni probabilità lo avrei seguito pochi secondi dopo. Rimasi praticamente immobile, studiando con attenzione i movimenti di Black, mentre allo stesso tempo iniziavo a muovere con estrema lentezza la mano. L'obiettivo era il comodino, sopra il quale era poggiata la mia bacchetta.

L'atteggiamento di Black mi sorprese: per quanto ne sapevo, lui dava la caccia ad Harry. Perché indugiava così tanto vicino al letto di Ron? Non poteva averlo scambiato per lui. Maledizione, non era quello il problema! Dovevo darmi una mossa, Ron stava rischiando la vita!

Impiegando un tempo che a me sembrò infinito, anche se in realtà non occorse più di mezzo minuto, riuscii ad afferrare la bacchetta. Non sapevo esattamente cosa fare: a lezione gli incantesimi mi riuscivano piuttosto bene, anzi, avevo la sensazione di essere piuttosto potente, ma non avevo mai provato a colpire un altro essere umano. In linea teorica, conoscevo qualche magia offensiva, in grado di rendere inoffensivo Black, ma non avevo la minima certezza che avrebbero funzionato. E se avessi sbagliato mira? Black non aveva una bacchetta, e sembrava decisamente male in arnese, ma era comunque un uomo adulto, ed aveva in mano una lama di una ventina di centimetri. Dal mio arrivo, non avevo mai desiderato così tanto di riavere il mio corpo da venticinquenne. Comunque, non potevo perdere troppo tempo a riflettere sulle conseguenze, altrimenti non mi sarei più mosso. Cosa dovevo provare a lanciare, comunque? Dovevo provare a pietrificarlo o solo dargli una bella legnata con un incantesimo d'urto? E se si fosse rialzato? Non mi sembrava di avere qualcosa di più pesante nel mio repertorio...

"AAAAAAAAAAAAARRRRRRRRGGGHHH! NOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!".

Poco mancò che cadessi dal letto, tanto l'urlo di Ron mi sorprese: doveva essersi svegliato di colpo e la vista di Black lo aveva terrorizzato. Black saltò indietro come un animale ferito, uscendo dalla zona illuminata, ma riuscii comunque a vedere la sua sagoma schizzare verso la porta del dormitorio.

Smisi di pensare. Saltai giù dal letto, piombando pesantemente sul pavimento con la bacchetta puntata. Black mi sentì, si voltò per un istante, poi ripartì a capofitto verso la porta.

"Impedimenta!" urlai. L'Incantesimo d'Inciampo mancò il bersaglio di poco, andando a schiantarsi contro lo stipite della porta. Black si catapultò giù dalle scale come una palla di cannone. In quel momento, il mio cervello doveva essere completamente andato, visto che mi lanciai dietro di lui. Anche gli altri ragazzi si erano svegliati: Harry aveva spalancato le tende del letto, e un istante dopo Dean accese la lanterna: "Che diavolo...?" cercò di chiedere.

"Black! - urlò Ron - Sirius Black! Con un pugnale!".

"Sta scappando!" ribattei io, buttandomi a mia volta giù per le scale. Non stavo ragionando molto bene: mi ero gettato all'inseguimento di uno dei maghi più pericolosi del mondo. Il fatto che non avesse una bacchetta era secondario, difficilmente sarei stato una grande sfida per lui. Eppure, come improvvisamente invasato, correvo a capofitto giù per la scala.

Intanto le porte degli altri dormitori si stavano spalancando, e diversi studenti assonnati stavano uscendo a causa della confusione: "Che succede?" sbadigliò Katie Bell.

"Magnifico, ricomincia la festa?" sghignazzò uno dei fratelli Weasley.

"Tornate a letto, immediatamente! - ordinò il loro rigido fratello Percy, agganciandosi il distintivo da Caposcuola sul pigiama - La Mc Grannitt ci ha detto di andare a letto! Cosa pensate di...".

"BLACK! - urlai, spostandolo con una spallata tutt'altro che delicata e saltando sul successivo pianerottolo - E' nel dormitorio! Sta scappando!".

Con la coda dell'occhio vidi diversi ragazzi fissarmi con gli occhi sgranati, come se fossi pazzo, ma qualcuno doveva aver recepito, perché vidi alcune bacchette spuntare e sentii i passi di persone che mi seguivano.

Piombai in Sala Comune come una valanga, facendo saettare lo sguardo da una parte all'altra. Ed eccolo: era dietro al ritratto, lo aveva già spostato, stava per imboccare l'uscita! I nostri occhi si incatenarono per un secondo, e in quei pozzi grigi lessi qualcosa che non mi sarei aspettato: apprensione, quasi paura. Di che cosa? Non ebbi però tempo di farmi domande, perché Black si lanciò fuori dalla stanza, mentre il ritratto iniziava a chiudersi dietro di lui.

"Everte Statim!".

"Petrificus Totalus!".

"Immobilus!".

"Impedimenta!"       

"Incarceramus"

Avevo colpito, e come me avevano fatto alcuni altri, ma arrivammo tutti troppo tardi: gli incantesimi centrarono il retro della porta mascherata dal ritratto, lasciandovi delle macchie scure, mentre Black spariva nel corridoio. Mi mossi come per inseguirlo, senza riflettere sulle possibili conseguenze, ma una mano forte mi afferrò il braccio: "No, non farlo".

Mi voltai: Oliver Baston mi aveva fermato. Nell'altra mano aveva la bacchetta magica. Insieme a lui, in Sala Grande, tutti armati, c'erano i Gemelli e il loro amico Lee Jordan. Erano stati loro a lanciare gli incantesimi insieme a me.

"Potrebbe essere dietro il ritratto, pronto a pugnalare il primo che esce per inseguirlo - disse il capitano con saggezza - Meglio lasciar perdere, ci è sfuggito".

Rimasi immobile per alcuni secondi, poi annuii stancamente. Intanto altri ragazzi erano scesi dai dormitori, la maggior parte con facce assonnate o sorprese. Ron, d'altro canto, era stravolto. Percy Weasley, invece, era furibondo: "Si può sapere che diavolo vi è preso? Tornate di sopra, immediatamente!".

"Perce, Sirius Black era qui! - squittì Ron - Nel nostro dormitorio, con un pugnale!".

Sulla sala calò il silenzio.

"Non dire sciocchezze, Ron! - esclamò Percy - Hai mangiato troppo e hai avuto un incubo!".

"Piantala, Percy! - sbottò Fred - Lo abbiamo visto anche noi, abbiamo anche provato a fermarlo. Pensi che abbiamo avuto un incubo collettivo?".

Prima che il Caposcuola potesse rispondere, il ritratto tornò ad aprirsi. D'istinto, sollevai la bacchetta, imitato da molti degli altri. Per fortuna non attaccammo immediatamente, perché dal buco, anziché i capelli neri e cespugliosi di Black entrò la severa crocchia della Mc Grannitt.

"Insomma, quando è troppo è troppo! - sbottò la professoressa - Sono anch'io felice che Grifondoro abbia vinto, ma questa cosa sta diventando rid... - si bloccò quando si rese conto di avere una ventina di bacchette puntate contro: "Avete tutti perso il lume della ragione nello stesso istante?" ringhiò.

Abbassammo le bacchette in contemporanea, come se fossimo stati colti a commettere una marachella particolarmente grave.

"Spiegatevi!".

"Professoressa, mi dispiace molto..." balbettò Percy, con l'aria di chi sta vedendo crollare il proprio mondo; nonostante tutto, anche lui aveva sollevato la sua bacchetta contro la Mc Grannitt, e sembrava vergognarsene da morire: "Ho provato a farli tornare a letto... mio fratello Ron... lui ha avuto un incubo...".

"NON HO AVUTO UN INCUBO! - urlò Ron con voce isterica - PROFESSORESSA, QUANDO MI SONO SVEGLIATO SIRIUS BLACK ERA ACCANTO AL MIO LETTO, CON UN PUGNALE IN MANO!".

La Mc Grannitt lo fissò con gli occhi sgranati: "Non dire sciocchezze, Weasley. Questo è assurdo...".

"Dice la verità, professoressa! - intervenni io - L'ho visto anche io, ho perfino cercato di fermarlo. Era Black, ne sono certo".

I Gemelli, Baston e Jordan iniziarono a parlare in contemporanea, nel tentativo di sostenere la mia posizione.

"Andiamo, ragazzi... - disse la professoressa, quasi con tono di compatimento -  Dovete aver avuto una sorta di allucinazione collettiva... come avrebbe fatto Black a superare il ritratto?".

"Glielo chieda - disse Ron, indicando il retro del quadro, in quel momento occupato dal cavaliere Sir Cadogan, che sostituiva temporaneamente la Signora Grassa, danneggiata durante la precedente incursione di Black - Gli chieda se lo ha visto".

Pur sospettosa, la professoressa uscì dalla Sala Comune ed interrogò il pomposo cavaliere. La faccia della professoressa divenne prima terrea, poi stupefatta, infine furibonda, quando Sir Cadogan le ebbe spiegato che aveva fatto entrare un uomo nella Sala Comune perché aveva tutte le parole d'ordine della settimana scritte su un foglietto. Quando tornò nella stanza era livida: "Chi di voi è stato di una stupidità tanto abissale da scrivere le parole d'ordine su un foglio e da lasciarlo in giro?" ringhiò.

Calò un silenzio fragoroso. Sapevo fin troppo bene chi era stato, pochi giorni prima Harry e Ron avevano dovuto far entrare un certo studente smemorato nella Sala Comune perché aveva perso le parole d'ordine...

Tremando come una foglia, Neville Paciock alzò lentamente la mano.

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Capitolo 7
*** Capitolo Sei ***


Salve a tutti!

Come vedete, nonostante il mostruoso ritardo, non sono scomparso. Sfortunatamente, il mio computer ha deciso di tirare le cuoia proprio in questi giorni, e non ho avuto modo di pubblicare più nulla. In ogni caso, non ho smesso di scrivere, e spero da ora di riuscire a recuperare un po' di costanza, se la tecnologia smetterà di essermi ostile.

Vorrei ringraziare chi mi ha fino ad ora commentato, chiedendo se possibile anche agli altri di dedicare un paio di minuti a farmi sapere la vostra opinione su ciò che ho scritto.

Detto questo, vi auguro una buona lettura del sesto capitolo!

AVVISO: in questo capitolo ci sarà un po' di turpiloquio; se questo vi da fastidio, non continuate a leggere.

  

CAPITOLO SEI

 

Inevitabilmente, nessuno di noi dormì un minuto in quella nottata: tutti restammo in Sala Comune, mentre il castello veniva perquisito. Un'azione inutile, visto che alle prime luci dell'alba la McGrannitt tornò da noi a dirci che Black era nuovamente riuscito a scappare. Intanto, le ipotesi sul modo nel quale fosse entrato nel castello si erano sprecate, mentre Ron era improvvisamente diventato una celebrità, con tutta la Casa impegnata a chiedergli cosa fosse accaduto durante la notte. Nel trambusto, molti si scordarono, almeno inizialmente, di me, anche se Mary e Ginny vennero a chiedermi come stavo, ed entrambe mi dissero che ero stato molto coraggioso ad affrontare Black. Avevo qualche dubbio sulla quantità di coraggio richiesta per affrontare un uomo armato di coltello avendo una bacchetta magica, continuava a risuonarmi in testa la vecchia frase del film "Per un pugno di dollari" su pistole e fucili, però mi tenni il complimento con un sorriso.

"Chissà perché è scappato..." chiese ad un certo punto Dean attirando la mia attenzione e quella della dozzina di persone che ci circondavano.

"Voglio dire... - continuò - Dopo che Ron ha urlato, perché se l'è data a gambe? Avrebbe potuto metterlo a tacere e continuare a cercare Harry, se è davvero lui che vuole...".

Ormai non era più un segreto che il nostro compagno di stanza era in cima alla lista nera del killer. Il diretto interessato scosse la testa: "Forse sapeva che sarebbe stato difficile uscire dal castello una volta che l'allarme era stato dato. Avrebbe dovuto uccidere tutta la Casa per riuscire a raggiungere il buco nel ritratto, per poi trovarsi davanti gli insegnanti. Oltretutto, Josh era sveglio, ed aveva la bacchetta in mano, mentre lui aveva solo un coltello. A quel punto, fuggire era la sola opzione, avrebbe rischiato di farsi catturare".

Erano discorsi che avevano senso, in realtà, ma non quanto sembrava al primo ascolto. Mentre la discussione continuava, io rimasi seduto su una poltrona vicino al fuoco, sorseggiando una Burrobirra avanzata dalla festa del giorno prima. Era un po' svampita, ma me ne accorsi a stento, avevo la mente impegnata da una tale quantità di pensieri che avrei potuto bere del sapone senza rendermene conto.

La risposta di Harry non era stupida, tutt'altro. Il problema, secondo me, era nella domanda. Era quella sbagliata. Il problema non era perché Black era scappato, ma perché si era messo nella condizione di dover scappare. Perché si era messo a studiare con attenzione i vari letti? Black era un assassino plurimo, e in quella stanza c'erano sei ragazzini disarmati ed addormentati. Perché si era messo a cercare Harry con tanta attenzione? Dodici anni prima non si era preoccupato del concetto di 'danni collaterali' quando aveva fatto saltare in aria un'intera strada per eliminare Peter Minus. Avrebbe potuto tagliare la gola a tutto il dormitorio, avendo così la certezza di aver ucciso anche Harry. Perché si era fatto tanti problemi? E poi: in quella stanza c'erano sei bacchette magiche, probabilmente tutte lasciate senza troppa attenzione sopra i comodini. Perché non ne aveva semplicemente presa una e fatto saltare in aria l'intero dormitorio? Avrebbe risolto tutto in pochi secondi, creando anche un ottimo diversivo per la fuga. Non aveva molto senso, anzi, non ne aveva quasi per niente.

Per me che avevo visto in diretta l'atteggiamento di Black, però, c'era qualcosa di ancora meno sensato. Presumibilmente, il suo bersaglio era Harry, e nessuno con una vista appena superiore a quella di una talpa avrebbe mai potuto scambiare un Weasley per un Potter. Appena data un'occhiata al letto di Ron, perciò, anche se per qualche misteriosa ragione Black avesse deciso di lasciarlo in vita, sarebbe dovuto passare oltre e controllare gli altri letti. Invece, quando mi ero svegliato, era intento ad analizzarlo con estrema attenzione, e ci era rimasto per quasi un minuto prima che lui si svegliasse. Più che qualcuno, mi aveva dato la sensazione di stare cercando qualcosa. Ma cosa Merlino poteva volere uno come Black da Ron?

Questa volta, più che una semplice scossa, quello che attraversò la mia testa fu una vera e propria folgorazione, impossibile da ignorare o mettere da parte: il topo! Era quello che stava cercando!

Era un'assurdità, lo sapevo fin troppo bene: perché un assassino evaso dal carcere avrebbe dovuto intrufolarsi ad Hogwarts per cercare un vecchio animale da compagnia spelacchiato? Eppure ne ero assurdamente sicuro, o per meglio dire, lo era il mio "Senso di Ragno": Black non voleva Harry, stava cercando Crosta. Era la sola spiegazione per tutto quel tempo perso ad analizzare il mio compagno di stanza: stava cercando di capire se stesse dormendo nel suo letto. Non dissi nulla a nessuno, naturalmente, mi avrebbero preso per pazzo, perché come al solito il mio strano potere mi permetteva di vedere il 'cosa', ma non il 'perché'; mi dava un elemento, non l'intero schema. Eppure questa volta non avevo il minimo dubbio che fosse la verità: Black voleva il topo di Ron.

 

 

Nei giorni successivi la sorveglianza venne incrementata a livelli mai visti prima ad Hogwarts, in particolare perché nessuno era riuscito a comprendere in che modo Black fosse riuscito ad entrare nella scuola, ma nessuno riuscì a venire a capo della questione. Il povero Neville, intanto, era letteralmente caduto in disgrazia: la McGrannitt gli aveva proibito qualsiasi futura gita ad Hogsmeade, ed aveva proibito a tutti di rivelargli la parola d'ordine per entrare nella Sala Comune, al punto che doveva aspettare che qualcuno lo facesse passare. Mi faceva una gran pena, al punto che in quei giorni cercai, per quanto possibile, di stargli vicino, non lasciandolo ad aspettare davanti all'appena restaurata Signora Grassa.

Il giorno dopo l'incursione di Black, Silente mi convocò nel suo ufficio per chiedermi la mia versione dell'accaduto. Come molte altre cose, l'ufficio del Preside, situato in cima ad una lunga scala a chiocciola, si rivelò molto simile a come me lo ero sempre immaginato: una grande stanza di pietra, con le pareti occupate da librerie e da scaffali stracarichi di oggetti, molti dei quali sembravano di cristallo, con un immenso camino su uno dei lati. Sopra ai mobili, svettavano decine di ritratti di maghi e streghe: i vecchi presidi della scuola. Silente mi attendeva seduto dietro la sua scrivania, osservandomi con i penetranti occhi azzurri da sopra gli occhiali a mezzaluna. Non riuscii a reprimere un piccolo brivido: per quanto apparisse incredibilmente anziano, non avevo mai avvertito una simile forza provenire da una persona. Accanto alla scrivania, appollaiata sul suo trespolo, la splendida fenice Fanny mi osservava, vagamente incuriosita.

"Benvenuto, Joshua - mi disse il Preside con un sorriso, indicandomi una poltrona di chintz dall'aria comoda di fronte a lui - Prego, accomodati. Vuoi una caramella? - mi chiese, aprendo un barattolo pieno di fritzlemon.

"Grazie, Signore, molto volentieri" risposi, sedendomi e prendendo un dolcetto. Dovetti faticare per reprimere un ghigno: la fissazione di Silente per i dolcetti, e in particolare per quel tipo di caramelle al limone, era sempre stata una delle cose che mi avevano divertito di più nei libri. Personalmente, non avevo mai assaggiato le fritzlemon, ma le trovai molto gustose.

La mia faccia doveva essere particolarmente eloquente, perché Silente si mise a ridere: "Sono felice che ti piacciano. In tanti anni di carriera sono state pochissime le persone che hanno accettato quando ho offerto loro queste caramelle, e non sono mai riuscito a spiegarmi la ragione!".

Non riuscii a trattenere una piccola risata: un indefinibile punto oscillante tra 'matto' e 'geniale' era la descrizione perfetta per Silente!

Improvvisamente la serietà tornò sul suo volto, con una velocità che mi colse di sorpresa: "Sarebbe bello se potessimo spendere un po' di tempo a parlare di dolciumi, ma, ahimè, temo che questioni più urgenti richiedano la mia attenzione, e in questo ho bisogno della tua assistenza, Joshua: ti chiedo, per favore, di raccontarmi tutto quello che è successo ieri notte, senza omettere alcun particolare".

Fu esattamente quello che feci: gli riferii ogni cosa, da quando avevo aperto gli occhi a quando la McGrannitt era piombata nel Dormitorio trovandosi puntate contro le bacchette di mezza Casa. L'ultimo fatto portò nuovamente un sorriso sul volto del Preside: "Per fortuna avete deciso di dare una seconda occhiata prima di lanciare incantesimi, altrimenti in questo momento starei vegliando la Professoressa in infermeria - poi aggiunse con maggiore serietà: "Invero, devo farti i miei complimenti, Joshua: hai alzato la tua bacchetta contro un mago adulto, per di più estremamente pericoloso, per difendere i tuoi amici - mi fissò con i suoi occhi penetranti - Non sono molti i tredicenni che avrebbero scelto di sfidare Sirius Black, anche se armato solo di un pugnale".

Non riuscii ad evitare di sentirmi a disagio: Silente era una delle persone più piacevoli che avessi mai conosciuto, ma il suo sguardo sembrava scavarmi nell'anima. Mi dava la sensazione di sapere più di quanto desse a vedere. Probabilmente in quel momento era solo paranoia: Silente non poteva aver capito in quale assurdo pasticcio mi trovavo, non poteva sapere che dietro il giovane Joshua Carter c’era ben più di quello che lui o chiunque altro potesse pensare. Certamente, però, si era mentalmente annotato il mio comportamento nel confronto con Black, certo non tipico di un tredicenne.

“C’è altro che vorresti dirmi, Joshua?” aggiunse il Preside, intrecciando le dita davanti al volto.

Ebbi un piccolo sussulto: era praticamente la stessa frase che aveva detto a Harry nel secondo libro… merda, al secondo anno! Era assurdo che continuassi a pensare in termini di libri quando stavo vivendo di persona quella folle avventura! Per un istante fui veramente tentato di rivelargli quello che pensavo davvero, che Sirius Black stesse dando la caccia al topo Crosta, ma mi bloccai all’ultimo istante: dire che non avevo prove era riduttivo, non avevo nemmeno uno straccio di indizio per sostenere la mia teoria. Per dire al Preside del topo avrei dovuto parlare del mio ‘Senso di Ragno’, e per rivelare quello avrei dovuto raccontare le mie folli origini. ‘Davvero molto interessante la tua teoria, Joshua. Come sei giunto a questa conclusione?’. ‘Beh, vede, Preside, la verità è che io arrivo da un altro mondo dove lei, Harry Potter e tutti gli altri non siete altro che personaggi di una saga letteraria che io ho letto una mezza dozzina di volte, ma poiché nel viaggio ho perso quasi completamente la memoria, mi devo accontentare di piccoli flash del futuro, che ho battezzato Senso di Ragno prendendo il nome da un fumetto!’. Un’ottima premessa per essere preso sul serio! No, non potevo dire tutto. Ma potevo provare a mettere Silente sulla strada giusta.

“Non esattamente qualcosa da dire, Preside, però… ho notato qualcosa di strano nel comportamento di Black. Voglio dire… quando è stato arrestato ha dimostrato di non farsi nessun problema ad uccidere persone che non c’entravano nulla. Per quello che ne sapeva lui, aveva davanti sei studenti addormentati e disarmati.Nel dormitorio ormai sappiamo tutti che sta dando la caccia a Harry, ma avrebbe potuto facilmente tagliare la gola a tutti, e sarebbe stato certo di avere ucciso anche lui. Perché invece ha perso tanto tempo per cercarlo? Perché si è fatto tanti scrupoli ad ammazzarci?”.

“Già, perché?” chiese Silente, apparentemente più a se stesso che a me, continuando a fissare davanti a se. Sembrava completamente perso nei suoi pensieri, mi sembrava improbabile addirittura che in quel momento mi stesse vedendo.

“Non è tutto, Signore – continuai – Ho notato qualcosa mentre cercavo di afferrare la mia bacchetta. Black stava controllando Ron Weasley, ma nessuno potrebbe mai scambiarlo per Harry. Eppure, tra il mio risveglio e l’urlo di Ron, è passato almeno un minuto. Non è possibile che gli sia servito tanto tempo per capire che non era il suo bersaglio. Io… è solo una sensazione ma… credo che più che qualcuno stesse cercando qualcosa”.

Silente non rispose subito: rimase in silenzio, osservando il vuoto davanti a se, poi mi disse: “Ragioni in modo analitico, Joshua, e in maniera sorprendentemente matura per la tua età. Ti prometto che dedicherò tutta la mia attenzione a ciò che mi hai appena detto. Non voglio però rubarti tutta la domenica. Buona giornata, Joshua”.

Compresi che il colloquio era finito e mi alzai: “Buona giornata, Professore”.

 

 

Il pensiero di Crosta non volle saperne di uscire dalla mia testa nei giorni successivi all’attacco di Black. Ci pensavo a lezione, ci pensavo nei corridoi, ci riflettevo ai pasti e perfino in bagno. Il topo era l’ultima immagine che vedevo prima di andare a letto e la prima cosa che mi saltava in mente non appena mi svegliavo. Era un’idea che non aveva alcun senso logico, lo sapevo bene: che diavolo poteva volere uno come Black da un vecchio animale domestico? Cosa aveva di particolare Crosta? E poi: era veramente morto? Era sparito sul serio trai succhi gastrici di Grattastinchi?

‘Quand’è che un topo non è un topo?’ continuavo a chiedermi ad ogni ora. Sapevo che mi stava sfuggendo qualcosa di fondamentale. Mi sarei spremuto il cervello, se fosse stato possibile, ma per quanto pensassi non c’era verso di farmi tornare in mente qualcosa in più su quella situazione. Era molto deprimente: sapevo che l’informazione che stavo cercando con tanta disperazione era lì, dietro la barriera costruita nella mia mente, ma non c’era modo di raggiungerla.

Ero talmente pensieroso che finii per allontanarmi dagli altri: passavo gran parte del tempo isolato, mangiavo da solo e sedevo in Sala Comune nella poltrona più lontana dal centro, sempre riflettendo a vuoto sul problema. Dean si era convinto che soffrissi di una sorta di stress post traumatico, mentre Ginny era arrivata a minacciarmi di affatturarmi se non avessi ricominciato a comportarmi come prima. Mary, dal canto suo, sembrava molto dispiaciuta del fatto che mi stessi chiudendo sempre più in me stesso. Trovavo veramente brutto ferirla, avevo iniziato a volere molto bene alla dolce ragazzina, ma non riuscivo a fare altrimenti.

Perfino mentre camminavo procedevo praticamente in automatico, e per questo motivo, la domenica successiva, mentre percorrevo un corridoio del secondo piano, non mi resi conto di chi avevo davanti finché non sentii una voce sgradevole apostrofarmi: “Ma guarda! Sei ancora in questa scuola, Yankee?”.

Oh, fantastico! Ci mancava solo lui! Era come avere un prurito impossibile da grattare!

Mi voltai: appoggiato al muro, Nott mi fissava con un ghigno da iena ridens. Insieme a lui c’erano due ragazzi di Serpeverde che conoscevo a stento e che mi sembrava si chiamassero Vaisey e Harper, due bulletti con il cervello di una bustina di the, che sembravano pronti a dargli manforte.

Dopo il nostro scontro di novembre, Nott non aveva perso nessuna occasione per insultarmi e deridermi, cercando di suscitare una mia reazione. Da parte mia, per essere un italiano bloccato nel corpo di un americano, mi ero dimostrato un ottimo esempio di stoicismo inglese: a parte qualche risposta tagliente, ero riuscito a trattenermi dall’utilizzare la violenza, nella speranza che si stufasse e decidesse di lasciarmi in pace. Fino a quel momento, però, non aveva funzionato molto bene.

“Ragazzi, ammirate il grande eroe di Hogwarts, il mitico guerriero che ha messo in fuga il terribile Sirius Black! – continuò Nott con voce magniloquente – Ci faresti un autografo, Carter?”.

“Perché ti sia utile un autografo dovresti essere almeno capace di leggere, Nott – risposi con una per niente mascherata nota di disprezzo – Ora, se non ti dispiace, ho molto di meglio da fare che stare ad ascoltarti”.

“Ma prego, non sia mai che ti faccia perdere troppo del tuo prezioso tempo– disse Nott con voce perfida mentre mi voltavo per andarmene – Prima, però, c'è una cosa che volevo chiederti da un po': esattamente, quanto è orrenda tua madre?”

Mi bloccai, sentendomi come se mi fosse appena stato tirato uno schiaffo: "Come?".

Nello sguardo di Nott apparve un lampo di trionfo, facendomi capire che avevo abboccato all'amo che lui mi aveva lanciato: "Sai, un uccellino mi ha raccontato che i tuoi genitori hanno divorziato perché tuo padre saltava da un letto all'altro come uno Snaso impazzito. Non posso fare a meno di pensare che tua madre sia un vero e proprio mostro, per spingerlo a scoparsi ogni donna che incrociava la sua strada!".

Rimasi come pietrificato, sentendo la rabbia montare come un'onda di marea. Una vocina in fondo alla mia mente provò inutilmente a ricordarmi che quella che Nott aveva offeso non era veramente mia madre, ma la scacciai come un insetto fastidioso. Anche se non l'avevo mai vista, per Joshua Carter quella donna era il centro del mondo, un porto sicuro nella tempesta, me lo dicevano chiaramente i suoi ricordi. Non era però tutto: il problema era che anche gli ‘altri’ ricordi concordavano con la giusta reazione ad una simile offesa. 'Madre è l'altro nome di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli', diceva il protagonista di un film che avevo amato dall'altra parte, ed avevo sempre ritenuto quella frase vera come se fosse stata scolpita nella pietra. Da ragazzino avevo rotto il naso ad un compagno che aveva insultato mia madre in maniera meno grave di quanto avesse appena fatto Nott. Non potevo semplicemente lasciargliela passare liscia. Un sogghigno incurvò la mia bocca mentre Josh lasciava, senza che me ne rendessi realmente conto, il posto a Matteo: avevo tutte le armi per rispondere a tono, e poi andasse come doveva andare. Nott aveva messo di mezzo mio padre, ma visto chi era il suo, non era stata una mossa particolarmente intelligente. Il fatto che Joshua Carter non avesse modo di sapere nulla del passato di Nott Senior passò completamente inosservato al mio io razionale.

"Sai, in fondo hai ragione - dissi, quasi sorprendendomi nel sentire la nota di gelo che aveva invaso la mia voce - Mio padre è un infedele patologico - li vidi pronti a farsi una risata, ma li freddai immediatamente - Però c'è una cosa importante che vorrei farti presente: preferisco mille volte essere figlio di un puttaniere impenitente piuttosto che di un assassino con le mani lorde di sangue!".

La temperatura nel corridoio sembrò improvvisamente essere calata di una ventina di gradi.

"Che cosa hai detto?" mi chiese Nott con un sibilo degno di un cobra.

Avrei dovuto capire che la situazione stava precipitando (o forse era già precipitata?), ma nella vita non ero mai riuscito a individuare il momento giusto per zittirmi, e ormai ero lanciato a bomba verso il precipizio: "Credevo di essere stato chiaro, ma se ne hai proprio bisogno mi ripeterò: preferisco avere come padre un uomo-troia che cambia amante come cambia le mutande piuttosto che uno sporco Mangiamorte che ha evitato la galera a forza di menzogne!".

Mi voltai per andarmene, ma la mia mente aveva già registrato lo sguardo omicida di Nott. Non lo vidi realmente estrarre la bacchetta e puntarmela alla schiena, fu più che altro un'intuizione. La mia reazione fu quasi automatica: infilai la mano sotto la veste e, come una pistola in una vecchia pellicola western, la tirai fuori mentre mi gettavo a terra. 

" Furnunculus!".

Sentii l'incantesimo passarmi ad un millimetro dal braccio sinistro. Toccai pesantemente sul pavimento di marmo e rotolai sul fianco. Nott aveva ancora la bacchetta puntata, la furia dipinta sul volto. Vaisey e Harper sembravano immobilizzati, quasi sorpresi dalla svolta improvvisa che gli eventi avevano preso, Quasi senza accorgemene, presi la mira contro Nott prima che potesse lanciare un secondo incantesimo e risposi al fuoco: "Depulso!.

Vidi la scena quasi come al rallentatore: il raggio dorato lasciò la mia bacchetta e centrò in pieno petto il mio avversario. Sembrò che un bufalo lo avesse incornato: il mio Incantesimo di Esilio scagliò Nott indietro di almeno tre metri, mandandolo a sbattere violentemente contro il muro. Il giovane Serpeverde scivolò a terra con un gemito, lasciando cadere la bacchetta e arpionandosi la parte destra del petto con la mano sinistra. 

Seguirono alcuni secondi di silenzio quasi irreale: sia io che gli altri due Serpeverde rimanemmo a fissare Nott con stupore, increduli per l'effetto avuto dal mio incantesimo. Nonostante stesse evidentemente soffrendo, con gli occhi semichiusi per il dolore, lui cercò di allungare la mano verso la bacchetta, nel tentativo di controbattere. Fu abbastanza per risvegliarmi dal torpore nel quale sembravo caduto: mi tirai in ginocchio e presi nuovamente la mira.

"Expelliarmus!".

Il raggio rosso lo colpì al polso quando aveva appena afferrato la bacchetta: il bastoncino di legno saltò via con violenza, andando a rotolare a un paio di metri di distanza. Stavolta Nott lasciò partire un urlo, afferrandosi il polso con l'altra mano.

Fu abbastanza per risvegliare anche gli altri due, che estrassero a loro volta le bacchette mentre io mi rimettevo in piedi: "Questa volta l'hai fatta grossa, Carter - grugnì Harper, che però non sembrava essere più del tutto convinto di quello che stava facendo - Quando avremo finito con te...".

"BASTA COSI'!".

Mi voltai tanto velocemente da farmi male al collo: la McGrannitt stava arrivando a passo veloce dall'altro lato del corridoio. Credetti di vedere dei fulmini partire dai suoi occhi, tanto appariva furiosa.

“In corridoio… - stava quasi balbettando per la rabbia – Mai nella mia vita… mai visto… - si piazzò tra me e i due Serpeverde ancora in piedi, mentre Nott, pur sembrando estremamente dolorante e reggendosi il polso danneggiato, mi guardava in cagnesco – Spiegatevi!” ringhiò.

“Carter ci ha aggredito, Professoressa!” urlò immediatamente Harper con voce velenosa – Eravamo qui tranquilli, e lui ha iniziato ad insultarci, poi ha estratto la bacchetta e ha colpito Nott!”.

Spudorato bugiardo! La cosa peggiore era che sapevo che l’avrebbero avuta vinta senza uno stramaledetto testimone. Il peggio era che non avevo neanche l’energia per controbattere. Il mio sguardo continuava a correre verso Nott: lo detestavo con tutto me stesso, ma non avevo avuto l’intenzione di colpirlo con tanta violenza. La potenza dell’Incantesimo d’Esilio che gli avevo sparato contro mi aveva sorpreso non poco: in classe mi ero dimostrato uno studente nella media, non avevo mai dimostrato di essere in grado di emettere una simile potenza.

La McGrannitt si voltò verso di me: “Lei cosa ha da dire, signor Carter?”.

Scossi la testa: “Qualsiasi cosa io dica non cambierà le cose, Professoressa. A che servirebbe se dicessi che prima mi hanno insultato e poi aggredito alle spalle, e che io mi sono limitato a difendermi? E’ la mia parola contro la loro, e io sono da solo. Non ci sono testimoni, quindi mi punisca pure”.

Lo sguardo della McGrannitt era duro, ma in fondo ai suoi occhi vidi una scintilla di qualcosa di simile ad un sorriso: “Non esattamente ‘nessun testimone’, signor Carter – si avvicinò ad un quadro appeso al muro – Hai visto tutto, Jocelyn?” chiese la professoressa.

“Assolutamente sì, Minerva” rispose un’anziana strega seduta su una poltrona all’interno della tela.

La mascella di Harper crollò di qualche centimetro.

“Jocelyn Williamson –disse la McGrannitt – era l’insegnante di Trasfigurazione prima del Professor Silente. Era già in pensione quando sono arrivata ad Hogwarts, ma ha tenuto comunque alcune lezioni. Era una grande insegnante, ed una donna di una correttezza assoluta. Mi fido ciecamente di lei – si rivolse nuovamente al dipinto – Come sono andate le cose?”.

“Il ragazzo Serpeverde ha insultato pesantemente il Grifondoro e la sua famiglia – disse la donna –Lui ha risposto, e l’altro lo ha aggredito mentre era girato di spalle. Il Grifondoro si è solo difeso, sia pure con notevole veemenza”.

“Grazie mille, Jocelyn – disse la McGrannitt, per poi voltarsi verso i Serpeverde, che apparivano stupefatti e orripilati allo stesso tempo – Una versione decisamente differente dalla vostra. Dunque… venti punti in meno a lei, Harper, per la sua menzogna; dieci a lei, Vaisey, per non averlo contraddetto; e quaranta al signor Nott per aver scatenato una rissa in corridoio! – si avvicinò al mio avversario, che si stava faticosamente tirando in piedi con l’aiuto di Harper e lo controllò brevemente–Vada in infermeria, potrebbe avere un paio di costole incrinate e forse un polso slogato. Quando starà meglio venga nel mio ufficio, parleremo della sua punizione”.

Nott sembrava furibondo, ma si trattenne dall’aprire bocca. Aiutato da Harper e da Vaisey, stava già avviandosi lungo il corridoio quando venne bloccato dalla voce della professoressa: “Ancora un momento, per favore”.

Lo sguardo della McGrannitt saettò rapidamente da me alla mia nemesi: “So perfettamente che questo non è il vostro primo diverbio, i professori Vitious e Piton mi hanno detto che vi siete già scontrati in diverse occasioni, sia pure presentandomi versioni molto diverse. Posso assicurarvi però che questo sarà l’ultimo dei vostri conflitti, perché se dovesse di nuovo venirvi l’idea di battervi nei corridoi vi assicuro che una punizione sarà l’ultimo dei vostri problemi”. Le ultime parole della McGrannitt mi ricordarono un po’ Piton, ma su Nott ebbero un effetto limitato, almeno a giudicare dallo sguardo di fuoco che mi lanciò mentre si dirigeva verso l’infermeria. Mi accinsi ad andarmene anch’io.

“Aspetti un istante, signor Carter”.

Mi bloccai prima di aver mosso un solo passo.

“Sebbene comprenda che lei si è difeso, è vero che ha comunque preso parte alla rissa – disse la professoressa – Devo forzatamente infliggere anche a lei dieci punti di penalità”. Mi fissò per alcuni secondi, poi il suo sguardo rigido si addolcì: “Posso comunque comprendere il suo stato d’animo, e pur non potendo approvare ciò che ha fatto, devo ammettere che lei ha coraggio: ha affrontato da solo tre avversari. Avventato, ma degno di un vero Grifondoro” e si allontanò, lasciandomi sul posto.

Impiegai qualche minuto prima di riuscire a raccogliere l’energia necessaria a muovermi. Un turbine di pensieri mi attraversava la testa. Non era stato lo scontro a sorprendermi, anche dall’altra parte mi era capitato di prendere parte a qualche rissa. No, a colpirmi era stato il mio primo incantesimo.

Mi guardai le mani, come se avessi potuto trovarvi delle risposte. Non avevo mai lanciato un Incantesimo di Esilio fino a quel momento, Vitious in classe ne aveva parlato soltanto in teoria. In realtà, lo conoscevo grazie ad un videogioco che dall’altra parte avevo letteralmente consumato. Lì veniva utilizzato come incantesimo da duello, quindi quando mi ero ritrovato in una situazione d’emergenza era stato il primo a venirmi in mente, e lo avevo lanciato senza riflettere troppo. Non era però quello il problema, a colpirmi era stata la potenza con la quale era uscito: avevo fatto volare Nott per diversi metri, e si era fermato solo perché aveva sbattuto contro il muro! Come era possibile? Joshua Carter era solo un mago di tredici anni! Non poteva avere il potenziale magico necessario a lanciare un incantesimo con una simile violenza! Mi appoggiai al muro, pensando alle implicazioni di quello che era successo: di che altro potevo essere capace? E che cosa sarebbe successo se avessi scelto un incantesimo potenzialmente più pericoloso?

Che cazzo mi stava succedendo?

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Capitolo 8
*** Capitolo Sette ***


Buongiorno

scusandomi nuovamente per il ritardo, inserisco il settimo capitolo della mia storia. Prometto che cercherò di essere più puntuale per i prossimi.

CAPITOLO SETTE

 

La notizia dello scontro con Nott si sparse rapidamente in tutta la scuola; io lo raccontai ai miei compagni di Grifondoro, ma entro il lunedì anche le altre tre Case sapevano del duello nel corridoio del secondo piano, pur con sfumature decisamente colorite: un Corvonero del secondo anno venne addirittura a chiedermi se era vero che Nott era stato trasportato all’ospedale San Mungo coperto da una folta pelliccia da orango. Inevitabilmente, avendo inseguito Sirius Black e mandato un Serpeverde in infermeria dopo averne insultato il padre Mangiamorte, il tutto  nell’arco di una settimana, ero diventato una sorta di piccolo eroe per i miei compagni in rosso e oro. Anche i Corvonero e i Tassorosso sembravano apprezzare che avessi inflitto una lezione ad un bulletto come Nott. Per quanto riguardava la Casa verde e argento, gli sguardi omicidi dei suoi componenti erano prevedibili quanto inevitabili. Il mio diretto avversario, in particolare, mi lanciava continue occhiate fiammeggianti, che promettevano una ulteriore rivincita in futuro, ma per il momento non sembrava essere intenzionato ad ingaggiare nuovamente battaglia: il colpo incassato pareva avergli insegnato la prudenza, il che significava che avrei dovuto guardarmi le spalle.

Quanto a me, non sapevo veramente come sentirmi. La potenza dell’incantesimo che avevo lanciato mi aveva veramente sorpreso, insieme alla consapevolezza che avrei potuto fare male di brutto al mio avversario: se dietro di se Nott, anziché un muro relativamente vicino, avesse avuto una finestra o una scala, non se la sarebbe certamente cavata con un paio di costole ammaccate. Quello che veramente non riuscivo a capire era come avesse fatto una magia mai sperimenta ad uscire con tanta forza dalla mia bacchetta. Avevo già capito che Joshua Carter non era esattamente scarso come mago, ma quello era decisamente troppo. Non appena ebbi un pomeriggio libero, cercai una classe vuota, il più lontano possibile dalle aree utilizzate del castello (sfortunatamente non conoscevo nessun Incantesimo Silenziante), per fare qualche esperimento. Dovevo capire quanto effettivamente ero potente. Per prima cosa mi accertai di essere capace di eseguire un valido Incantesimo di Riparazione, perché quello che avevo in mente di fare avrebbe lasciato dietro di se una scia di rottami.

Appena mi resi conto di saperlo fare, mi scatenai: Incantesimo di Esilio, di Disarmo, Tagliente, Incantesimi d’Urto assortiti, perfino un Incantesimo Incendiario. Tutti vennero fuori con potenza notevole, pur essendo incanti comuni e non vere e proprie magie da combattimento come quelle che avevo intravisto in alcuni libri della biblioteca, sia pure con spiegazioni generiche. Per di più, avevo la sensazione che, se accompagnati dalla giusta dose di adrenalina, quegli incantesimi sarebbero stati ancora più forti. Dovetti trattenermi quasi fisicamente dal provare la coppia di Incantesimi Esplosivi che conoscevo, per la paura di demolire la classe. Intorno a me c’erano banchi e sedie a diversi livelli di devastazione, un paio addirittura parzialmente ridotti in cenere. Era stato esaltante distruggere tutto, ma mentre riparavo i danni che avevo provocato non potetti fare a meno di chiedermi nuovamente da dove venisse quel potere. Probabilmente non sarebbe stato nulla di eccezionale per un adulto, ma in un tredicenne era decisamente sopra la media.Non si parlava di abilità: con ogni probabilità Hermione era decisamente più preparata di me. La questione era il potere grezzo, e di quello sentivo di averne veramente tanto. Ma perché ce l’avevo? Era questa la domanda che saltellava nella mia testa mentre percorrevo i corridoi verso la Sala Comune: da dove veniva quella strana forza? Scavando nei ricordi di Joshua, vedevo che lui, negli anni a Ilvernmorny e nei primi mesi ad Hogwarts, era stato uno studente abile, ma non eccezionale. Non era un enfant profige. Allora cosa era accaduto?

Avevo riflettuto a lungo, e alla fine avevo concluso che la sola cosa che era cambiata ero, per assurdo, io. Era la migliore teoria che ero riuscito ad elaborare: il corpo di Joshua aveva sicuramente tredici anni, ma a quanto sembrava il suo nucleo magico non possedeva la medesima età. Nelle ore libere dei giorni successivi feci delle ricerche in biblioteca, dedicandomi alla lettura di trattati più o meno recenti, ma sembrava che i maghi non avessero mai compreso veramente le origini dei poteri magici nel corpo umano, il modo nel quale si creassero, come fossero legati all’energia fisica del soggetto, in che modo ne consumassero la resistenza quando venivano utilizzati. Esistevano e basta, lasciando più domande che risposte. In questo senso, io potevo rappresentare una parziale spiegazione a uno dei quesiti: in qualche modo, il potere magico sembrava legato all’anima del soggetto. Nel mio caso, per quanto strano potesse sembrare, il nucleo magico di Joshua si era potenziato da quando nel suo corpo c’era Matteo Simoncini, un venticinquenne. Avevo il potenziale magico di un adulto, anche se non potevo sfruttarlo al massimo per le mie conoscenze ancora limitate.

Mi convinsi che fosse la conclusione più valida, benché nella mia mente non mancassero ipotesi differenti e decisamente più inquietanti, che non mi permisi, in quel momento, neanche di analizzare, perché avrebbero rappresentato un carico decisamente eccessivo. Non riuscii comunque a fare a meno di notare che la misteriosa Forza (avevo iniziato ad usare quella definizione, anche se faceva molto Guerre Stellari) che mi aveva condotto in quel mondo aveva ripetuto con i miei poteri magici quanto già sembrava aver fatto con la mia memoria: così come non mi aveva consesso l’onniscienza, aveva deciso di non fornirmi neanche l’onnipotenza. Allo stesso tempo, come era già accaduto con il mio “Senso di Ragno”, aveva scelto di darmi un piccolo vantaggio senza per questo trasformarmi in un fuori quota, in quello che alcuni miei amici gamer dall’altra parte avrebbero chiamato OverPowered. Lo scontro con Nott aveva dimostrato che ero più forte per lo meno della maggior parte dei pari età di Joshua, se non di tutti - oh, all’Inferno, dei MIEI pari età! Tanto valeva che iniziassi ad accettare di avere di nuovo tredici anni!–senza però essere diventato un gigante in mezzo ai nani. D’altra parte, le mie doti, almeno per il momento, non sembravano essere eccezionali rispetto a quelle degli adulti, o almeno così pensavo: non avevo visto nessun mago non adolescente lasciarsi andare ed esprimere realmente il proprio potenziale, ma ero sicuro che, almeno per il momento, con le conoscenze che possedevo, non sarei stato una grande sfida neanche per un mago nella media. Nonostante non mi fossi trasformato in una sorta di schiacciasassi umano, non potevo fare a meno di chiedermi perché mi fosse stato fornita una facilitazione, per quanto limitata. Perché non ero diventato un comune studente? Perché mi era stato dato un vantaggio? Avrei tanto voluto una spiegazione, ma allo stesso tempo la temevo: se collegavo la mia inspiegabile potenza alla strisciante sensazione di una incipiente oscurità che mi attanagliava da quando ero arrivato in quel mondo, si aprivano scenari che non volevo neppure esplorare con il pensiero.

 

Le settimane scorrevano lentamente. Black non era più stato avvistato, ma la sorveglianza non era diminuita. Pur non riuscendo ancora a scrollarmi di dosso i molti dubbi che mi attanagliavano, avevo cercato di superare il momento di crisi e di tornare a frequentare gli altri, che si dimostrarono molto felici di vedermi nuovamente simile a quello di prima.Purtroppo, le settimane che precedettero l’arrivo della primavera furono funestate dalla notizia della condanna di Fierobecco: Hagrid scrisse una lettera ad Hermione, annunciando il fallimento della strategia difensiva alla quale lei aveva tanto lavorato e che io avevo rivisto. Purtroppo, per me non fu una sorpresa: non avevo un’idea precisa sulla quantità di potere che il padre di Malfoy possedeva, ma avevo capito che era elevato, e purtroppo immaginavo che i nostri tentativi di contrastarlo non sarebbero stati sufficienti. La sola nota positiva di quel momento triste fu la riappacificazione tra Hermione e Ron, che la riportò a fianco degli altri. C’era ancora l’appello, ovviamente, e tutti e quattro eravamo più che decisi a batterci, ma sfortunatamente le speranze non sembravano affatto rosee.

A preoccuparmi, in quei giorni, era proprio lo stato fisico e mentale di Hermione. Fin dall’inizio dell’anno seguiva più lezioni di chiunque altro, e sembrava sempre più stanca da tempo, ma nei giorni che seguirono la condanna dell’ippogrifo di Hagrid sembrò decisamente sul punto di crollare psicologicamente: dopo una lezione di Cura delle Creature Magiche schiaffeggiò e arrivò quasi ad affatturare Malfoy perché prendeva in giro il nostro amico insegnante, poi scomparve di colpo mentre ci dirigevamo a lezione di Incantesimi. La trovammo a fine lezione in Sala Comune, addormentata su un libro. La potevo comprendere, avevo schiacciato numerosi pisolini sui tomi di matematica, ma non era certamente buon segno. Infine, la sera, sentii una stupefatta Lavanda Brown raccontare a Ginny che, dopo un duro alterco con la professoressa Cooman, Hermione aveva deciso di mollare Divinazione.

La cosa mi colpì: tutto quello che stava succedendo era decisamente poco da Hermione. Era parecchio che mi chiedevo come facesse a reggere ad un ritmo così forsennato. Provai a farmi dire che cosa le stava succedendo, ma Hermione si chiuse a riccio, limitandosi ad ammettere di essere molto stanca, ma che sarebbe stata bene. La mia preoccupazione non si ridusse di un solo grado, ma non riuscii proprio a trovare una spiegazione, e compresi fin troppo bene che lei non si sarebbe sbottonata.

Frattanto, la mia guerriglia con Nott era rimasta sotto traccia, ma era tutt’altro che scomparsa: il ragazzo di Serpeverde era chiaramente desideroso di vendetta dopo la sconfitta e la punizione subite, lo dimostravano chiaramente i coltelli che sembrava lanciarmi con lo sguardo ogni volta che ci incrociavamo. Sinceramente, io avevo scelto la via della non violenza: non che mi spaventasse, avevo dimostrato di essere più forte di lui, ma avevo già abbastanza problemi veri senza lasciarmi trascinare in quella faida.

Le vacanze di Pasqua passarono con velocità sorprendente, e presto l’avvicinarsi della finale della Coppa di Quidditch rese ancora più incandescente il rapporto tra le due Case che si sarebbero affrontate Case: la sola possibilità che Grifondoro aveva di vincere era battere Serpeverde con più di duecento punti di scarto. Un’impresa difficile, ma la presenza della Firebolt di Harry in squadra aveva galvanizzato il gruppo, come dimostrava l’impegno incredibile che tutti mettevamo in allenamento. Noi della squadra riserve, oltre ad aiutare i titolari a prepararsi, eravamo i primi a fungere loro da scorta, in modo da evitare che gli avversari tentassero di metterne qualcuno fuori gioco. Harry, in particolare, era sorvegliato a vista. Inevitabilmente, questo rese anche noi dei bersagli.

Tre giorni prima della grande sfida, dopo essere riuscito ad evitare confronti violenti per settimane, mi trovai davanti Nott in un corridoio del terzo piano del castello. Non era solo: con lui c’erano Tiger, Goyle, Peter Yaxley e almeno un altro ragazzo di Serpeverde. Dal ghigno che esplose sulle labbra di Nott, sembrava che il suo compleanno fosse arrivato con tre mesi di anticipo: io ero solo, loro in cinque. Si avvicinò a grandi passi, fiancheggiato dagli altri, la mano infilata sotto la veste a stringere la bacchetta.

Sapevo di essere pienamente fottuto. Per quanto avessi concluso di essere più forte di Nott, in cinque mi avrebbero ridotto ad una polpetta. La logica mi diceva di scappare, ma la ignorai senza troppi ripensamenti: anche dall’altra parte, ho sempre avuto più orgoglio che istinto di conservazione. Non avrei mostrato le chiappe a quel branco di piccole carogne. A piè fermo, li aspettai, iniziando a mia volta ad estrarre la bacchetta. Me le avrebbero senza dubbio suonate, ma ero più che intenzionato a fare loro quanto più male possibile.

A salvarmi fu l’improvvisa apertura di una porta nel corridoio, a due metri da me e a quattro o cinque da loro. Non mi ero reso conto di dove mi trovassi, ma l’improvvisa apparizione dei capelli castani strinati di grigio e i vestiti sdruciti del professor Lupin me lo fece capire immediatamente: ero praticamente davanti all’aula di Difesa contro le Arti Oscure.

Avevo detto che c’era qualcosa, nel professore di Difesa, che non mi convinceva appieno, ma in generale ero concorde con gli altri nel ritenerlo fantastico, sia come insegnante che come persona. In quel momento lo dimostrò: gli fu sufficiente un’occhiata a destra, dove io ero ancora in posa difensiva, la mano stretta intorno alla bacchetta sotto la veste, e una a sinistra, dove Nott e gli altri si erano bloccati di colpo e stavano cercando di assumere un’aspetto quanto più possibile innocente, per afferrare la situazione e decidere cosa fare.

Lupin si voltò verso di me con un sorriso: “Ah, Joshua! E’ un piacere vederti qui. Stavo proprio uscendo per cercarti, volevo dirti due parole sul tuo ultimo tema, credo tu abbia bisogno di un piccolo chiarimento sul modo migliore per affrontare un Marciotto”.Mi indicò l’interno della sua aula, e io, ringraziando mentalmente qualsiasi Forza controllasse quel mondo per l’esistenza di professori intelligenti come Lupin, vi entrai come se tutte le armate dell’Inferno mi stessero inseguendo. Il professore si voltò verso il gruppetto di Serpeverde, ancora sorridendo: “E’ un piacere vedervi, ragazzi. Vi auguro una buona giornata!” e chiuse la porta davanti alle loro facce che cercavano di nascondere la rabbia.

Mi avvicinai alla scrivania e mi lasciai cadere su una sedia. All’improvviso mi sentivo stremato, come dopo una lunga corsa: l’adrenalina era salita al livello di guardia e scesa sotto il minimo nell’arco di trenta secondi, e questo mi aveva spossato. Lasciai uscire uno sbuffo d’aria: “Grazie mille, Professore”.

“Di niente,Joshua – mi rispose, ancora sorridente, mentre prendeva due bottiglie da un armadietto e le stappava – Come insegnante, è mio dovere evitare gli scontri trai ragazzi, e comunque non volevo avere sulla coscienza uno di voi –mi porse una Burrobirra – Ecco, bevi. Nulla di meglio per riprendersi da una forte emozione”e si sedette dall’altra parte della scrivania.

Per circa un minuto i soli rumori furono il gorgoglio della Burrobirra e i piccoli tonfi delle bottiglie poggiate sul tavolo. Intanto continuavo ad osservare quello che era rapidamente diventato il mio professore preferito: Lupin era gentile, attento a noi ragazzi, anche divertente, e decisamente sapeva insegnare la sua materia, sapeva renderla interessante. Non che Difesa contro le Arti Oscure avesse bisogno di grandi spinte per diventare interessante, ma il modo nel quale la insegnava lui la trasformava in una vera avventura. Mi ricordava, in qualche modo, il mio vecchio professore di storia e filosofia del liceo. Nonostante l’istintiva simpatia che provavo, però, la mia mente continuava a mandarmi un blando segnale di allarme quando ero davanti a lui: non sembrava nulla di grave, almeno non urgente quanto capire che diavolo c’entrasse Crosta con Black, per lo meno, ma sapevo che c’era qualcosa di stonato nel tranquillo insegnante dagli abiti lisi, un qualche segreto che non riuscivo ancora ad identificare. C’era da farsi venire il mal di testa: la lista di cose che sentivo di dover capire ma che non c’era verso di rendere chiare continuava ad allungarsi. Chissà se i maghi avevano l’equivalente di uno psicoanalista… entro breve tempo avrei potuto averne bisogno.

Fu Lupin a rompere il silenzio: “Vedo con piacere che l’avvicinamento alla partita decisiva della Coppa non è cambiato di molto con il passare degli anni” disse con più di una punta di ironia nella voce.

Alzai gli occhi, sorpreso, e lo fissai in attesa di un chiarimento.

“Anche ai miei tempi prima della partita decisiva dell’anno l’atmosfera nei corridoi era elettrica – raccontò Lupin –Soprattutto quando si sfidavano per la vittoria Grifondoro e Serpeverde: scontri, attentati ai giocatori, tentativi di sabotaggio… ce n’era per tutti i gusti!”.

Non riuscii a trattenere una risatina: “Vero, ma nel mio caso la partita c’entra relativamente. La questione tra me e Nott è più… personale”.

Il professore alzò una mano: “Lo so bene – soggiunse – La McGrannitt mi ha raccontato del vostro scontro dell’altro giorno e degli screzi precedenti. Volevo sapere di preciso che cosa era accaduto, e sono andato a parlare con il quadro della vecchia insegnante davanti al quale vi siete battuti. Mi ha riferito tutto – mise i gomiti sulla scrivania, incrociò le mani e vi poggiò sopra il mento sorridendo – Come insegnante, non posso che concordare con la McGrannitt, e disapprovare le liti tra studenti. Detto questo, posso comprenderti. Ti assicuro che se quando io e i miei amici eravamo a scuola uno di noi fosse stato insultato come Nott ha fatto con te o anche meno avremmo fatto molto di peggio, sia con le parole che con le bacchette, ma soprattutto con gli scherzi. La vita di Nott sarebbe diventata estremamente miserabile”.

Lasciò passare qualche istante, poi, vedendo la mia faccia stralunata, ridacchiò e aggiunse: “Il mio non vuole assolutamente essere un invito, era soltanto una constatazione. Spero anzi che tu e Nott possiate evitare altri confronti e accettare reciprocamente l’esistenza dell’altro, anche se da quanto ho visto oggi in qualche modo ne dubito”.

Aveva scambiato il mio stupore per una reazione al fatto di aver rivelato che lui, un professore, in gioventù avrebbe usato le cattive su un altro studente, ma aveva capito male: alla parola “amici” il mio misterioso sesto senso aveva sussultato. Non era stato un vero e proprio fulmine come era accaduto altre volte, più che altro qualcosa di simile a un invito: in quella parola… ‘amici’… c’era qualcosa che meritava di essere approfondito.

“Lei e i suoi amici…” provai a dire, cercando il modo migliore per chiedere informazioni senza che la mia curiosità sembrasse sospetta; non sapevo come continuare, poi mi ricordai di un accenno che mi aveva fatto Harry settimane prima: “Harry mi ha raccontato che conosceva suo padre. Era lui uno di quelli che avrebbero rimesso un tipo come Nott al suo posto?” chiesi, con una sperabilmente credibile dose di ironia.

Il sorriso un po’ triste del professor Lupin mi disse che avevo fatto centro: “Imputato colpevole, Josh. James Potter… una delle migliori persone che abbia mai conosciuto. Una delle anime del nostro gruppetto. Non farti strane idee, eravamo delle vere pesti! Prendi i gemelli Weasley, raddoppiali in numero e moltiplica il caos creato per almeno sei ed avrai un’idea abbastanza chiara di che tipi eravamo! Non ho mai avuto amici migliori nella mia vita”.

Lo avevo spinto nella direzione giusta, lo sentivo. Stavo andando quasi con il pilota automatico, come se nel profondo del mio inconscio qualcosa sapesse quali informazioni mi servissero e come ottenerle.

“Chi altri ne faceva parte?”.

Il volto di Lupin si rabbuiò: “Sirius Black, che ci guidava insieme a James. E’ stata probabilmente la più grande delusione della mia vita scoprire che era passato dalla parte del Signore Oscuro – sospirò – Non credere mai di conoscere una persona fino in fondo, Josh. Potrebbero aspettarti delle sorprese, non sempre piacevoli. Il quarto, infine, era il povero Peter Minus, pace alla sua anima coraggiosa…ti senti bene?” mi chiese, improvvisamente allarmato.

Immaginai di essere sbiancato di colpo, o di aver fatto una smorfia rivelatrice. Stavolta il fulmine era arrivato davvero, con una forza totalmente imprevista: l’ultimo nome era esploso nella mia testa come una bomba.

“P…Peter Minus? – balbettai, cercando di recuperare un contegno e di trovare qualcosa di simile ad una motivazione valida per la mia reazione – Ho già sentito questo nome… non è il mago che Black ha assassinato anni fa?”.

Lupin mi fissò sorpreso, ma continuò: “Sei molto informato...comunque sì, hai ragione. Black ha trucidato Peter insieme a numerosi Babbani, il giorno nel quale ha rivelato il mostro che nascondeva dentro di se”. Rimase in silenzio per qualche secondo, poi, cambiando improvvisamente discorso, quasi a voler allontanare i ricordi tristi, mi chiese come stavano andando gli allenamenti della squadra di Grifondoro.

Continuammo a parlare per qualche altro minuto, soprattutto della finale che avremmo giocato tre giorni dopo. Gli raccontai anche dei miei blandi tentativi di evocare un Patronus, e lui confermò la mia teoria sul fatto che uno scombussolamento emotivo potesse rendere meno efficaci i ricordi felici (ovviamente, detti la colpa dei miei problemi al recente divorzio dei miei genitori). Non si accorse che stavo rispondendo meccanicamente, quasi per forza d’inerzia. Durante il resto della conversazione, e anche dopo averlo salutato, mentre tornavo alla Sala Comune, e più tardi a cena, solo una parte del mio cervello aveva continuato a dedicarsi a mandare avanti la mia normale esistenza. La sera subii tre sconfitte consecutive e piuttosto clamorose giocando a scacchi contro Mary che mi prese affettuosamente in giro, sottolineando che di solito ero un avversario decisamente più valido.

Attribuii la colpa della mia distrazione alla stanchezza per gli allenamenti e al nervosismo per l’imminente finale, una spiegazione che la mia amica (ormai potevo decisamente definirla tale) trovò soddisfacente.

Era una menzogna. Lo dimostrarono chiaramente le ore che passai quella notte sdraiato a occhi aperti sul mio letto, incapace di addormentarmi. La realtà era che da quando avevo parlato con Lupin la maggior parte della mia mente era letteralmente partita per la tangente.Le stesse parole continuavano a ripetersi all’interno del mio cranio, come un mantra: “Minus…Minus…Peter Minus…”.

Ne fosse andato della mia vita, non sarei stato in grado di spiegare la ragione, ma da quando avevo sentito quel nome era stato come se dentro di me fosse scattata una sirena d’allarme. Sentivo…no, di più: sapevo che c’era qualcosa di fondamentale nascosto dietro Peter Minus. Qualcosa di determinante… qualcosa che poteva rivelarsi decisivo. Non potevo fare a meno, però, di notare un piccolo problema: come poteva rivelarsi tanto importante un mago morto dodici anni prima? E come, in nome di Merlino, poteva collegarsi alla fuga di Black, alle sue strane e misteriose incursioni dentro Hogwarts, al topo Crosta al quale ero convinto stesse dando la caccia? Non aveva il minimo senso, sembravano i deliri di un ubriaco.

Avevo la tentazione di scendere dal letto, prendere la rincorsa e dare una testata contro il più vicino muro. Mi stava sfuggendo qualcosa, un tassello che avrebbe mandato a postol’assurdo puzzle che avevo davanti. Era frustrante, e anche spaventoso: sentivo dentro di me che sciogliere l’arcano avrebbe avuto conseguenze enormi, eppure non ci riuscivo, non ci riuscivo proprio. Sentivo di avere dentro di me la possibilità di determinare il Fato, ma quello mi si opponeva fieramente, impedendomi di avere le informazioni vitali per ingannarlo o distoglierlo dalla sua strada. La sola cosa che potevo fare, per quanto deprimente fosse dal mio punto di vista, era aspettare e pregare di fare la cosa giusta al momento giusto, di prendere le decisioni appropriate. Tutto, insomma, tornava nella mani del Fato. E il Fato, lo avevo imparato fin troppo bene dall’altra parte, sa essere un vero bastardo.

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Capitolo 9
*** Capitolo Otto ***


Buongiorno a tutti.
Scuusate per il lungo periodo trascorso dal mio ultimo capitolo, ho dovuto affrontare un catastrofico caso di blocco dello scrittore, abbinato ad una lunga serie di impegni che mi hanno tenuto lontano da questa storia. Poiché fortunatamente sono un tipo ostinato, però, ho tutte le intenzioni di finirla. Mentre pubblico questo capitolo, vi comunico che il successivo è già oltre la metà, quindi spero di non impiegare un'altra vita prima di pubblicarlo.
Buona lettura.


CAPITOLO OTTO



Sarebbe stato impossibile definire la finale della Coppa tra Grifondoro e Serpeverde con un termine differente da “epica”: avevo vissuto diversi derby dall’altra parte, ma nulla che potesse paragonarsi alla tensione tra le due Case prima e durante la sfida. Gli ultimi giorni furono letteralmente elettrici: lo scontro mancato tra me e il gruppo di Nott fu solo uno dei tanti, e alcuni ragazzi finirono addirittura in infermeria.

Il nervosismo, la sera prima dell’incontro, era palpabile: anche se alcuni, come i Gemelli, esorcizzavano la cosa dimostrandosi perfino più rumorosi del solito, era chiaro che i pensieri di tutti erano rivolti ad un unico argomento. Io, Seamus, Dean, Mary e Ginny eravamo seduti in un angolo, e, inevitabilmente, il solo argomento all’ordine del giorno era la partita. Benché conoscessimo la situazione ormai da mesi, nelle ultime ore avevamo fatto e rifatto i conti cento volte, calcolando attentamente i punteggi di tutte le partite, e ogni volta eravamo arrivati alla stessa conclusione: a Grifondoro serviva vincere con duecento punti o più di vantaggio, altrimenti si sarebbe messo in pari con Serpeverde per numero di vittorie, ma avrebbe perso a causa della peggiore differenza punti (“differenza reti”, continuava a definirla imperterrito Dean, scatenando l’esasperazione di Ginny e Seamus e le risate mie e di Mary, che avendo una madre Babbana sapeva qualcosa degli sport non magici con la palla). Era una montagna molto impervia da scalare, considerando che la squadra di Serpeverde era tutt’altro che scarsa, ma eravamo tutti concordi nel ritenerla fattibile, visto il talento delle cacciatrici titolari di Grifondoro. Nelle ultime due settimane avevo giocato almeno una dozzina di partite di allenamento contro di loro, simulando di essere un cacciatore di Serpeverde (Baston era addirittura arrivato a dipingere magicamente di verde smeraldo i nostri abiti, in modo da abituare Angelina, Katie e Alicia ad affrontare giocatori che indossavano quelle divise), e non le avevo mai viste tanto agguerrite. Era stato molto divertente: più continuavo a giocare, più i movimenti sembravano venirmi naturali. Stavo scoprendo (o ri-scoprendo?) di amare visceralmente il Quidditch, in una maniera che né il calcio né il rugby potevano eguagliare, e non poteva che farmi piacere.

Inevitabilmente, ad avere la maggiore responsabilità ed il compito più improbo sarebbe stato Harry: non doveva soltanto conquistare il boccino, doveva farlo anche al momento giusto, quando la squadra fosse stata in vantaggio di almeno cinquanta punti, e nel frattempo tenere Malfoy lontano dalla piccola sfera dorata. Nonostante la sua nuova Firebolt, non si prospettava una sfida facile per il nostro Cercatore, ed infatti non mi sorpresi nel vedere il pallore della sua faccia quando il capitano ordinò alla squadra di andare a letto.

La sfida del giorno dopo fu qualcosa di semplicemente incredibile: mentre le due Case si lasciavano andare ad un tifo degno di una partita di calcio particolarmente sentita, le squadre si affrontarono senza esclusione di colpi. Io ero in tribuna con il resto della squadra riserve, proprio nel mezzo della bolgia; ero addirittura arrivato a farmi convincere da Mary a dipingermi sulle guance due strisce (una color oro, una rosso vivo). Ricordando le domeniche trascorse sui gradoni dello stadio dall’altra parte, non ci misi molto a provare a guidare i “tifosi”, inventando sul momento alcuni cori contro Serpeverde che solo grazie alla particolare eccitazione del momento mi fecero guadagnare soltanto qualche occhiataccia da parte di una McGrannitt che era coinvolta nel match quasi quanto noi. Erano rime quasi caste rispetto ad alcune che avevo sentito in alcune partite di calcio particolarmente sentite, ma sono certo che se in qualsiasi altra situazione avessi suggerito ai Serpeverde gli stessi consigli su dove potevano infilarsi i serpenti, mi sarebbero certamente costati almeno due settimane di punizione.

Sorprendentemente, tutto andò secondo i piani, come meglio non sarebbe stato possibile: in mezzo ad un mare di bandiere rosse ed oro, vidi i miei compagni riuscire a portarsi in vantaggio, nonostante il gioco pesante e spesso falloso dei Serpeverde, ed Harry riuscì a strappare il boccino sotto il naso di Malfoy. Lo stadio esplose come una bomba: dalle tribune di Grifondoro si alzò un urlo simile al ruggito di un vero leone, che si disintegrò in una cacofonia di grida, pianti, risate. Alcuni facevano tutte e tre le cose insieme. Tra questi c’era Mary, che scavalcò almeno tre persone per saltarmi tra le braccia, la bocca allargata al massimo in una risata, le guance rigate di pianto. Pesava come un fuscello. Io le feci fare due giri completi tenendola sollevata, poi mi abbassai e me la misi a cavalcioni sulle spalle prima di correre verso il campo, seguendo la marea di tifosi di Grifondoro che si rovesciavano a festeggiare i giocatori, che erano scesi in campo stetti in un abbraccio collettivo. L’emozione fece dei brutti scherzi anche a persone insospettabili: il solitamente austero e inibito Percy saltellava come un pazzo, mentre la McGrannitt piangeva senza ritegno, asciugandosi gli occhi con una enorme bandiera di Grifondoro. Io, pur stando attento a non far cadere l’esultante Mary, non resistetti alla tentazione di dissezionare con lo sguardo la tribuna di Serpeverde, dove i tifosi erano rimasti pressoché raggelati, finché i miei occhi non si incatenarono con quelli lampeggianti di collera di Nott. Gli regalai un ghigno degno di uno squalo davanti ad un banco di aringhe particolarmente succulente.

L’intera squadra venne sollevata sulle spalle dalla folla e portata verso le tribune, dove Silente reggeva la gigantesca Coppa del Quidditch. Da ragazzo avevo vissuto la vittoria della nazionale Italiana nei mondiali di calcio, e vedere Fabio Cannavaro alzare la Coppa del Mondo era stata un’emozione incredibile. Quella sensazione, però, scomparve nettamente nel vedere Baston alzare al cielo il trofeo d’oro. In quel momento, con le risate di Mary nelle orecchie e le sue mani a scompigliarmi i capelli, per la prima volta da quando ero arrivato in quel mondo mi sentii veramente felice di essere lì. Per la prima volta da quel giorno di novembre, mi sentii a casa.




L’esaltazione per la vittoria durò per diversi giorni, mentre anche il tempo, con l’avvicinarsi di giugno, diventava più allegro, ed il sole illuminava i prati ed il lago. Faceva piuttosto caldo, per essere in Scozia. Stare fuori era sempre più piacevole, ma non potevamo permettercelo più di tanto: l’arrivo di giugno, infatti, voleva dire che gli esami erano vicini. Per me non era una novità prepararmi ad un test, ma nonostante ciò che diceva la storia scolastica di Joshua Carter, quelli erano i primi, veri esami di magia che mi trovavo ad affrontare. Per una volta nella vita decisi di non affidarmi solo a quella memoria che tanto avevo osannato e sfruttato per tutta la mia carriera scolastica, quella capacità di immagazzinare nozioni rapidamente che mi aveva evitato di passare tante ore sui libri fin dalle elementari. Mi misi anzi a studiare con una serietà che solitamente non mi apparteneva, spulciando per ore i libri di testo e sfruttando le pause per esercitarmi nella pratica.

Cercai di mantenere alta l’attenzione, e di non farmi scuotere neanche dalla notizia che Edvige portò in quei giorni ad Harry: Hagrid ci avvertiva che l’appello di Fierobecco si sarebbe tenuto il sei, ad Hogwarts. Sarebbe venuto un funzionario del ministero…insieme ad un boia. Fu un colpo duro, per me come per Harry, Ron ed Hermione: avevamo contribuito tutti a preparare l’appello in favore dell’Ippogrifo, ma purtroppo avevamo la sensazione che il nostro impegno non sarebbe servito a nulla. A darcene la triste conferma contribuiva non poco la faccia tronfia di Malfoy, tornato di colpo allegro dopo giorni nei quali si era mantenuto insolitamente tranquillo. Era certo che Fierobecco sarebbe stato giustiziato, e purtroppo temevo che avesse ragione.

Era solo uno dei pensieri che mi attraversavano la testa: da un po’ il mio “Senso di ragno” non mi dava tregua, lanciandomi puntate apparentemente casuali diverse volte al giorno, senza che riuscissi a collegarle a qualcosa di preciso. In realtà, forse non c’era una vera ragione, era più che altro un avvertimento generico: il periodo buio che fin dal mio arrivo in quel mondo sentivo prossimo era ormai sempre più vicino. Sapevo che stava per succedere qualcosa, ma non avevo la minima idea di cosa si trattasse, e questa attesa contribuiva certamente a peggiorare il mio umore.

Non era proprio il migliore spirito con il quale affrontare gli esami. Una quiete innaturale scese sul castello quando, la mattina di lunedì 3 giugno, ci avviammo verso la prima prova. L’esame di Trasfigurazione fu complesso, molto complesso: la McGrannitt si confermò un’insegnante estremamente esigente, e tutti ci trovammo in difficoltà con le domande di teoria e con le esercitazioni pratiche. Se la maggior parte della classe ebbe seri problemi con la trasformazione di una teiera in una tartaruga (la mia, a parte la conservazione delle caratteristiche dentellature che decoravano la teiera sul carapace, era venuta abbastanza bene), io quasi mi schiantai nel tentativo di eseguire un Incantesimo di Indurimento su un cuscino. O, per meglio dire, fu il cuscino a schiantarsi a terra, improvvisamente pesante una tonnellata: un istante dopo il mio “ Duro”, infatti, il soffice oggetto sfondò il banco sul quale era posato e incrinò il pavimento. Un esame successivo della McGrannitt rivelò che avevo leggermente esagerato, probabilmente per lo stress di stare affrontando il mio primo esame in quella scuola, ed avevo pompato troppa magia nel mio incantesimo: anziché in pietra, il cuscino si era trasformato in piombo, e pur essendo di solida quercia, il banco non aveva retto il peso eccessivo. Non mancai di udire alcune risate nervose da parte dei presenti, e perfino la professoressa sorrise quando le feci notare che, in effetti, l’oggetto si era indurito, e che quindi il mio non era stato un completo errore. Incantesimi, nel pomeriggio, fu un successo decisamente maggiore: gli Incantesimi Rallegranti non mi avevano mai messo realmente in difficoltà, e per mia buona sorte in quel caso evitai di esagerare, come accadde ad Harry, che ne lanciò uno talmente forte a Ron da metterlo fuori uso per un’ora, scosso da risatine isteriche. Terminato l'esame di Incantesimi, a stento ebbi il tempo di tirare il fiato prima di affrontare il test di Antiche Rune: per mia fortuna, confermando le parole della mia professoressa di latino al Liceo, mi rivelai piuttosto portato per le lingue antiche, e la traduzione scorse senza troppi problemi.

A sera ero già molto stanco, ma passai ugualmente gran parte della notte chino sui libri. Gli esami che mi attendevano il martedì non erano certamente i miei preferiti: se Astronomia mi lasciava qualche speranza, e il depresso Hagrid avrebbe ben difficilmente messo in piedi un esame difficile per Cura delle Creature Magiche, Pozioni sarebbe stato uno scoglio molto difficile da superare. Rimasi per ore a ripassare le varie misture che avevamo sperimentato durante l’anno, ma sapevo fin troppo bene che a mettermi in gravi difficoltà non sarebbe stata la teoria, bensì la pratica.

Non avevo previsto grandi difficoltà per Cura delle Creature Magiche, ma Hagrid esagerò in senso contrario: dovevamo semplicemente prenderci cura per un’ora di un Vermicolo, facendolo rimanere in vita. La prova più semplice che fosse possibile immaginare, considerando che i Vermicoli normalmente sopravvivono bene se lasciati a se stessi. Per lo meno, questo dette a me e agli altri la possibilità di scambiare qualche parola con Hagrid, che appariva però quasi rassegnato. Doveva aver capito anche lui che le possibilità di salvare l’Ippogrifo erano ormai ridotte al lumicino. Cercai di confortarlo per quanto possibile, ma dentro di me ribollivo d’ira: mondo Babbano o mondo magico, sembrava impossibile liberarsi da quel viscido mostro che era la politica corrotta.

Pozioni si rivelò catastrofica come mi ero aspettato. Piton si confermò una vera carogna: aveva predisposto il più difficile test scritto che mente umana avesse mai immaginato, andando a pescare i più piccoli dettagli delle pozioni più complesse affrontate durante l'anno. Se per la teoria ero convinto di aver raggiunto almeno la sufficienza, la pratica fu a dir poco disastrosa: non solo il mio Intruglio Confondente, anziché addensarsi, si trasformò quasi in melassa, ma dimenticai clamorosamente il levistico. Le mie speranze di non essere bocciato in quella materia erano veramente scarse.

Dopo una cena leggera ed un veloce ripasso, io e gli altri ci trascinammo letteralmente nella torre di Astronomia, dove la sinuosa professoressa Sinistra ci attendeva per il suo test. Quando finimmo di disegnare la mappa del settore di cielo che ci aveva assegnato, erano ormai le due, e ci reggevamo in piedi per un miracolo di equilibrio. Nonostante il giorno dopo fossi atteso da altri due esami, non riuscii a fare altro che crollare come un sacco di patate sul mio letto. D'altronde, Storia della Magia non mi preoccupava, mi sentivo prontissimo, mentre in Erbologia ero sostanzialmente rassegnato.

In realtà, le cose andarono meglio delle mie fosche previsioni: Storia della Magia fu come bere un bicchier d'acqua, mentre la sensazione che ebbi quando uscii dalle serre con la testa che mi girava per il gran caldo fu che forse, ma solo forse, avevo una remota speranza di strappare la sufficienza.

Fu dunque con un sorriso che, il giovedì mattina, mi accostai all’ultima giornata di esami. Era quella che aspettavo con la maggiore curiosità: Babbanologia, che mi attendeva nel pomeriggio, sarebbe probabilmente stata una formalità, ma era il test mattutino ad affascinarmi in maniera particolare. Difesa contro le Arti Oscure era una materia intrigante di per se, ed il modo con il quale il professor Lupin la insegnava la rendeva ancor più appassionante. Era stato lui stesso, il giorno prima, a far salire di diversi gradi il mio interesse: lo avevo incontrato dopo l’esame di Storia della Magia, e mi aveva detto con un sorriso complice di prepararmi bene, perché la sua prova non sarebbe stata una passeggiata.

Compresi che aveva detto la verità appena arrivai vicino al margine della Foresta Proibita, dove l’insegnante aveva preparato una specie di percorso di guerra: avremmo dovuto attraversare, per prima cosa, una vasca d’acqua contenente un Avvincino, poi superare una serie di buche piene di Berretti Rossi, quindi farci strada attraverso un sentiero paludoso senza farci tentare dai consigli di un Marciotto, infine arrampicarci dentro un vecchio tronco e affrontare un Molliccio. Un ghigno mi si dipinse sul volto: adoravo quel genere di cose già nel mio mondo, e mi sentivo sinceramente entusiasta all’idea di mettermi alla prova. Per di più, avevo già affrontato quasi tutte quelle creature in classe, e me l’ero cavata piuttosto bene.

‘Quasi, non tutte’. Il pensiero non poté fare a meno di attraversarmi la mente durante la prima parte del percorso, mentre mi liberavo senza eccessivi problemi dell’Avvincino, dei Berretti Rossi e del Marciotto, e si presentò a piena forza non appena giunsi davanti al tronco cavo: era una immensa quercia, una ventina di metri oltre il limite della foresta. Doveva essere morta ormai da anni, e nel suo tronco, dal diametro di cinque o sei metri, si apriva uno squarcio alto quanto un uomo adulto e largo circa cinquanta centimetri. Mi fermai ai piedi di una rudimentale scaletta che conduceva verso l’apertura. Il professore ci aveva detto che dalla parte opposta del tronco ce n’era una gemella dalla quale avremmo potuto uscire, mentre lui ci avrebbe aspettato a una decina di metri di distanza con gli altri che avevano già superato la prova. All’interno del tronco, però, un’oscurità magica regnava sovrana, al punto che l’uscita era appena distinguibile.

Mentre salivo la scala ero molto più curioso che intimorito: delle creature che il professor Lupin aveva scelto di inserire nel percorso, il Molliccio era il solo che non avessi mai affrontato. Lo aveva portato in classe all’inizio dell’anno, prima del mio viaggio. Ero veramente interessato: dai miei ricordi, o meglio, da quelli di Joshua, sapevo che lui, durante la lezione, aveva dovuto sfidare un gigantesco scorpione, grande quanto un rinoceronte, una creatura che sembrava uscita da un vecchio film dell’orrore. Era la sua paura più grande fin da bambino, quando, durante una passeggiata con suo padre, era stato punto da uno di quegli animali, e aveva quasi rischiato la vita prima che una Pozione Anti-Veleno lo salvasse. Quella, però, era la paura di Joshua, non la mia. Difficilmente io avrei visto uno scorpione, non avevo nessun problema con loro.

Quale era, però, la mia più grande paura? Era una domanda che non mi ero mai posto in venticinque anni: cosa temeva veramente Matteo Simoncini? Un pizzico di timore mi colpì la mente nell’attimo nel quale varcai la soglia ed entrai nell’oscurità.

Dopo un solo passo mi bloccai come una statua di sale. Il respiro mi si bloccò in gola, il cuore saltò due battiti, ed ebbi la sensazione che mi fosse stata iniettata acqua ghiacciata nelle vene.

Non era uno scorpione. Non era un serpente o un ragno o un altro animale. Non era neanche un licantropo, un vampiro, un alieno o un qualsiasi altro mostro magico o Babbano.

Davanti a me c’era una tomba. Una lapide rettangolare, di marmo bianco, piantata in un terreno scuro, che si stagliava innaturalmente nel buio. Con orrore crescente, lessi la scritta in lettere dorate realizzata su di essa:

Matteo Simoncini

Nato l’11 settembre 1994

Morto il 20 novembre 2019

Era la data del mio incidente.

Presi a tremare in maniera incontrollata, incapace di muovermi di un solo millimetro. La bacchetta mi tremava nella mano, e non riuscivo a staccare gli occhi dalla lapide.

Un attimo dopo, una figura apparve accanto alla pietra. Ebbi la sensazione che si fosse sollevata dalla terra, ma in realtà si condensò nell’aria, come fumo deciso a prendere una forma solida.

Urlai, o almeno ci provai, perché il suono che uscì dalla mia gola, che sembrava essersi ridotta alle dimensioni di una cannuccia, fu molto più simile ad uno squittio. Temetti veramente di svenire sul posto.

Distinsi una figura umana muoversi con passi strascicati nella mia direzione, fermandosi a circa un metro e mezzo di distanza. Riconobbi il suo viso…riconobbi il MIO viso…solo perché lo conoscevo molto bene. Avevo davanti a me Matteo Simoncini, ritornato ai suoi venticinque anni. O per meglio dire, quello che era stato Matteo Simoncini. La sua pelle era giallastra, ed aveva l’aspetto di cuoio malamente invecchiato. Sotto di essa, la carne sembrava essersi consumata, lasciando poco più che ossa. Il volto era piagato, quasi divorato, ed in diversi punti si intravedeva il teschio. I capelli erano ridotti a vecchia paglia, gli occhi infossati nelle orbite mi fissavano con un lampo inquietante. Gli abiti, che un tempo erano stati un bel completo Babbano da uomo, gli pendevano addosso laceri e sporchi di terra, come quelli, pensai, di un essere appena uscito dalla propria bara. E doveva essere esattamente quello che era accaduto: avevo davanti il mio cadavere.

Non riuscii a muovere un solo muscolo: le braccia mi erano crollate lungo i fianchi, inerti, e solo la paura che mi aveva folgorato mi aveva impedito di aprire le dita e lasciar cadere la bacchetta. Non poteva essere vero…una parte della mia mente sapeva che era solo lo squallido trucco di un imitatore, eppure…

Il cadavere rimase a fissarmi per qualche secondo, poi parlò, con una voce che ricordava lo stridore di vecchie ossa: “Quanto credi di andare avanti con questa pagliacciata? Fino a quando vuoi continuare a fingere? Quanto a lungo racconterai a te stesso e agli altri la stessa bugia? Tu…fingi. Tu…cammini, parli, ridi, combatti, vivi… ma è soltanto una menzogna…perché tu…sei morto! Tu non sei Joshua Carter, lo sai bene…ma non sei più neanche Matteo Simoncini. Non lo sei più da sette mesi, da quando la tua vita è finita! Non c’è un altro mondo per te! Fingi di continuare questa vita con la speranza di tornare dall’altra parte, ma non c’è più un’altra parte! Tu sei morto, e lo sai! Ti hanno seppellito sette mesi fa! I tuoi genitori…tuo fratello…la tua fidanzata…i tuoi amici…hanno pianto sulla tua bara. Qualcuno ti porta ancora dei fiori. Tutti, però, sono andati avanti…hanno continuato con le loro vite…e tu non ne fai più parte!”.

Il morto vivente sembrava diventare sempre più nitido. Il Molliccio si stava nutrendo a volontà della mia paura, pascendosene come di un vino particolarmente gustoso. Sapevo che avrei dovuto reagire, che avrei dovuto fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non riuscivo neanche a muovermi: la paralisi era stata sostituita da un tremore incontrollabile, un terrore viscido e oscuro, un orrore impossibile anche solo da descrivere. Quello che stava dicendo…era l’incubo che aveva piagato tante delle mie notti in quei mesi.

“Dove sei adesso? – continuò senza pietà l’apparizione, avvicinandosi di un altro passo – Che cos’è questo luogo? Il Paradiso? L’Inferno? Qualcos’altro? Non importa! – scosse la testa ghignando – E’ comunque tutto quello che ti rimane. Non ci sarà un ritorno per te. Tu…sei…morto!”.

“NO!”.

L’urlo mi eruppe improvviso dalla gola, come un’esplosione. Una vampata come di fuoco liquido mi attraversò il corpo, scuotendomi di colpo. Non era coraggio, ma rabbia. Pura e semplice furia bruciante. Sentii di nuovo la bacchetta stretta nella mia mano, e l’alzai gridando: “Io non sono morto, e tu non sei me! Tu sei il solo bugiardo in questo posto, la sola pagliacciata, e sparisci ADESSO! Riddikulus!”.

Non mi resi neanche conto di aver pensato ad una nuova forma per l’essere che avevo davanti. Probabilmente non lo avevo fatto, almeno non in maniera conscia, ma per mia fortuna funzionò lo stesso: spinto dalla rabbia, l’incantesimo uscì dalla mia bacchetta come un’ondata di piena e centrò la cosa.

Crack! Un istante, e al posto del cadavere c’era uno scheletro chiaramente fasullo, come quelli che i bambini utilizzano ad Halloween per decorare le case, che ghignava verso di me con un sorriso più divertente che inquietante.

Avrei dovuto ridere per far scomparire il Molliccio, ma niente al mondo sarebbe riuscito a trarre da me una risata in quel momento. Invece, lo spostai con una spallata (buffo, non mi ero mai chiesto se fossero o no solidi) e quasi rotolai fuori dall’albero.

Percorsi barcollando gli ultimi passi che mi separavano dal professor Lupin e dai miei compagni. L’insegnante impiegò alcuni secondi per rendersi conto del mio stato: “Bravo, Joshua – disse inizialmente con un sorriso – Ci hai messo un po’, ma sei riuscito a completare il percor… - si bloccò quando comprese in quali condizioni versavo – Va tutto bene?” mi chiese, improvvisamente preoccupato.

In effetti, dovevo avere una faccia spaventosa: tremavo ancora come una foglia al vento, sentivo una patina di sudore gelido imperlarmi la fronte, e immaginai di essere pallido come… beh… come un morto.

“N…non è st…stato semplice – balbettai, con una voce che non sembrava neanche la mia – No, non è stato per niente facile”.

“Hai bisogno di sederti per qualche minuto?” mi chiese ancora l’insegnante, mentre gli altri mi fissavano con un misto di stupore e apprensione.

“No!” risposi in fretta. Non potevo restare lì, non vicino a quell’albero. Avevo un bisogno disperato di rimanere da solo. Cercai di darmi un tono, di non apparire completamente in preda al terrore: “Ho solo bisogno di un bicchiere d’acqua…posso andare a prenderlo, Professore?”.

“Certo, Joshua - rispose Lupin sorridendo – Se ne senti la necessità, passa pure in infermeria da Madama Chips a farti dare qualcosa per calmarti, e poi vai a riposare. Hai parecchie ore prima del tuo ultimo esame”.

Non attesi altro tempo: ancora malfermo sulle gambe, mi allontanai dal percorso ed uscii dalla foresta, dirigendomi apparentemente verso il castello.

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Capitolo 10
*** Capitolo Nove ***


Salve a tutti!

Lo so, ormai mi avrete dato per disperso. Vi chiedo scusa per il mostruoso ritardo. Purtroppo sto attraversando un periodo molto complicato dal punto di vista degli impegni, e il tempo per scrivere si è ridotto al minimo. Voglio però rassicurarvi: questa storia vedrà la sua conclusione, anche se non sono in grado di dirvi quanto ci vorrà. Detto questo, godetevi il capitolo!

 

 

 

 

CAPITOLO NOVE

Lungo la sponda del Lago Nero, a un decina di metri dalla linea dell’acqua, c’era uno splendido faggio solitario, che cresceva lontano dalle altre piante: alto più di venti metri, con un tronco enorme e un fogliame ampio e folto, sembrava un monumento alla forza della natura. Da quando lo avevo scoperto, all’inizio della primavera, avevo stabilito che era il luogo perfetto dove sedersi a riflettere, a studiare oppure semplicemente a riposare, cullato dal vento.

Mai come in quel momento avevo avuto bisogno di un luogo dove poter pensare da solo, senza dover rispondere alle inevitabili domande degli altri. Dopo aver percorso qualche centinaio di metri verso il castello, quindi, deviai verso il lago, certo di non essere stato visto da nessuno, e raggiunsi l’albero.

Crollai letteralmente con la schiena contro il tronco, trassi un profondo respiro, poi lasciai cadere l’argine che fino a quel momento aveva trattenuto le mie lacrime e piansi per alcuni minuti.

Il confronto con il Molliccio mi aveva letteralmente distrutto. Non era stato tanto l’orrore della scena a fiaccare la mia resistenza, bensì il timore che, nel suo tentativo di terrorizzarmi, l’orrido animale avesse centrato più verità di quanto lui stesso avesse potuto immaginare. Quante volte…in mezzo alla notte, mentre i ragazzi intorno a me dormivano tranquilli…quante ore avevo passato a fissare il baldacchino del letto senza vederlo realmente, ponendomi le stesse domande che la rappresentazione del mio cadavere mi aveva vomitato addosso come affermazioni. Poteva essere vero? In realtà io non sapevo nulla di quanto era accaduto dopo l’incidente. Ricordavo però fin troppo bene lo schianto, e sapevo che era stato più che sufficiente per uccidermi. Mi ero convinto da solo, senza alcuna prova e addirittura senza alcun indizio, che dall’altra parte il corpo di Matteo Simoncini fosse ancora vivo, magari caduto in un profondo coma, ma… e se le cose fossero state differenti? Era possibile che non ci fosse più alcun Matteo Simoncini? Che il mio cadavere si stesse davvero decomponendo all’interno di una bara, in un piccolo cimitero dell’Italia centrale? Era possibile che quella vita, che tanto stavo apprezzando ma che nel profondo della mia mente continuavo a considerare una sorta di lunga vacanza, fosse davvero tutto ciò che mi rimaneva?

A questi pensieri se ne aggiungevano altri, forse meno cupi, ma parimenti disturbanti: posto che le mie previsioni più nere fossero sbagliate, che Matteo Simoncini fosse ancora vivo dall’altra parte, e che miracolosamente mi si presentasse, in futuro, la possibilità di tornare, volevo veramente farlo? Cosa avrei trovato nel mio vecchio mondo? Anche partendo dal presupposto che l’incidente non mi avesse ucciso, era stato comunque devastante, abbastanza da creare danni terribili al mio corpo. Sarei tornato indietro solo per trovare un guscio spezzato e paralizzato, sarei andato incontro ad una vita di sofferenza, bloccato in un letto fino al mio ultimo giorno? Davvero avrei voluto correre un rischio simile? Erano pure e semplici ipotesi, non avevo, per il momento, la minima prospettiva che mi facesse pensare di poter compiere un viaggio a ritroso, ma se anche fosse accaduto, ne avrei avuto il coraggio? Per di più, una parte minoritaria ma sempre più insistente della mia mente mi esortava a riflettere bene su quello che avrei lasciato tornando indietro, anche avendo la certezza di ritrovare tutto come prima del mio viaggio: non soltanto un mondo magico che superava le mie più fervide fantasie, ma un luogo dove avevo trovato una seconda casa. C’era affetto per me, ad Hogwarts, c’erano amici, persone che tenevano a me e alle quali avevo imparato a tenere: Semus, Ginny, Dean, Neville, Harry, Ron, Hermione… Mary. C’erano una madre e una sorella che, nonostante qualche timore, ero ormai molto curioso di conoscere. C’era la prospettiva di vivere una grande avventura, che per quanto pericolosa, era superiore a qualsiasi cosa avrei mai potuto vedere come Matteo. C’era la vita di Joshua Carter, che ogni giorno sentivo più mia. Iniziavo veramente a chiedermi se avrei avuto la forza di abbandonare tutto.

Ero talmente assorto nelle mie riflessioni che non avvertii la presenza di un’altra persona finché la voce gentile di Mary non risuonò alle mie spalle: “Tutto bene, Josh?”.

Mi voltai, sorpreso: la ragazzina era in piedi con una mano appoggiata al tronco, e mi sorrideva con gentilezza.

“Come mi hai trovato?” le chiesi.

Il suo sorriso si allargò: “Sei stato proprio tu a raccontarmi di questo albero! Mi hai detto che quando hai bisogno di pensare è il tuo posto preferito. Dean e Seamus mi hanno raccontato quello che è successo durante l’esame, e mi sono immaginata che ti saresti rifugiato qui”.

Si sedette accanto a me, le gambe raccolte sotto il corpo. Per un paio di minuti rimase in silenzio, in attesa che io avviassi il discorso. Rimase però delusa: non mi dispiaceva affatto la sua compagnia, ma ero semplicemente incapace di parlare dell’accaduto. Alla fine fu lei a rompere il silenzio: “Ti va di raccontarmi quello che è successo?” mi chiese.

Impiegai parecchio prima di decidermi a rispondere: “Non posso, Mary. Veramente non posso”. Vedendo la sua faccia delusa, mi affrettai a tranquillizzarla: “Non dipende da te, credimi. Anzi, ti sono grato per la tua preoccupazione. Non è con te che non voglio parlarne. Non mi sento di raccontare quello che ho visto a nessuno”. Guardai la mia mano, e mi accorsi che stava tremando. Stavo dicendo la pura e semplice verità: anche lasciando perdere il fatto che avrei rischiato di rivelare il mio segreto raccontando ciò che avevo trovato all’interno dell’albero, rivelare la messa in scena del Molliccio l’avrebbe resa ulteriormente reale, e perciò ancora più tremenda.

“E’ stata così brutta?” mi chiese. Annuii senza dire una parola.

“E’ stata una visione legata ai tuoi incubi, vero?”.

Mi voltai, sorpreso: non riuscivo a capire come facesse a saperlo.

Sorrise nuovamente: “Visti i ghiri con i quali dividi il dormitorio, posso capire la tua sorpresa: Dean, Neville e Ron non si sveglierebbero neanche se ti mettessi a demolire il letto con una mazza. Seamus, però, ha il sonno abbastanza leggero: mi ha raccontato di averti sentito diverse volte borbottare mentre dormivi, se non proprio parlare, di averti sentito rovesciarti sotto le coperte in preda ad un sogno. Mi ha detto che spesso ti svegli di soprassalto, o che addirittura piangi nel cuscino”. Si fermò a guardarmi, preoccupata: dovevo essere impallidito in maniera evidente. Continuò a parlarmi con dolcezza: “Mi dispiace, non volevo impicciarmi di cose che riguardano solo te, ma sono preoccupata. Riguarda per caso il divorzio dei tuoi genitori?”.

Scossi la testa: “Mi dispiace, Mary. Credimi, non voglio tenerti all’oscuro di qualcosa, ma non riesco veramente a parlare di questo. Ci sono cose che non posso raccontare, almeno non ancora. Ti assicuro, però, che quando sarà il momento sarai la prima a sapere tutto – per la prima volta da diverse ore sorrisi – Grazie, comunque. E’ bello che tu sia venuta qui per me”.

Mary non disse altro: semplicemente, mi abbracciò con grande calore. La sua stretta trasmetteva un enorme affetto, e quasi senza volerlo mi trovai a ricambiare. Una parte della mia mente continuava a ricordarmi che c’era qualcosa di sbagliato in ciò che stavo facendo, che nonostante tutto rimanevo un venticinquenne abbracciato ad una ragazzina, ma tutto il resto urlava a pieni polmoni che non ci sarebbe potuto essere nulla di più giusto: non ero più un uomo, ero un tredicenne disperatamente bisognoso di comprensione, e la stavo trovando tra le sue braccia. Cara, dolcissima Mary! Sembrava aver capito tutto quello che avevo detto, e anche quello che avevo tenuto per me: senza chiedermi spiegazioni o chiarimenti, come la maggior parte degli amici avrebbero fatto, con la sua semplice vicinanza mi stava dando quello di cui avevo maggiormente bisogno: la certezza di non essere solo. Neanche se mi avesse sussurrato le due fatidiche parole avrebbe potuto trasmettermi più chiaramente i suoi sentimenti, e in quel momento mi stava benissimo. Affondai la guancia nei suoi capelli, e una lacrima solitaria, remota erede delle tante che avevo versato solo pochi minuti prima, mi solcò il viso.

“Aww, non sono carini?”.

Bastò quella voce gracchiante per ridurre in briciole il momento magico. Già consapevole della spina nelle chiappe sulla quale mi stavo sedendo, lasciai andare Mary ed alzai gli occhi sopra la sua spalla: Nott era in piedi ad una decina di metri da noi, un ghigno da carogna dipinto sul volto, e ci fissava ridacchiando. Ai suoi lati c’erano Vasey e Harper, i suoi scherani preferiti, con l’aria di non sapere esattamente su quale pianeta si trovassero, ma stolidamente impegnati ad imitare il loro capo. Mi alzai, tenendo Mary leggermente dietro di me.

“Complimenti, Yankee, sei riuscito davvero a trovarti la ragazza! – con la coda dell’occhio vidi Mary arrossire furiosamente – Le mie congratulazioni, sinceramente non lo avrei mai creduto possibile, anche se effettivamente riuscire a pescare questa gattina morta non deve essere stato troppo difficile”.

Lo devo ammettere: in quel momento una valvola di sfogo era ben accetta quanto un abbraccio consolatorio. Ridurre Nott in sottili striscioline di carne mi sembrava la migliore delle idee. Feci per farmi avanti, ma Mary mi afferrò la mano: “Lascia perdere, Josh. Non vale la pena di sporcarsi le mani con tipi come lui”.

“Sì, Carter, dai retta alla tua cagnetta – sibilò con malevolenza Nott – Buffo, di solito è il padrone a tenere il cane al guinzaglio, ma in questo caso sembra sia il contrario! Devo dire che comunque vi siete trovati perfettamente: il coglione e la cagna! Credo che i Babbani dicano qualcosa di simile a ‘Conservate per me un cucciolo’, ma dovrei fare anche la fatica di annegarlo! In ogni caso, la feccia non può che accoppiarsi con altra feccia”.

Stavo letteralmente per esplodere. Ero furibondo per quello che Nott aveva appena detto, era andato oltre qualsiasi insulto che avesse utilizzato fino a quel momento. Feci per avanzare, deciso ad aggredirlo nonostante l’inferiorità numerica, ma Mary mi fermò di nuovo, e si portò davanti a me. Era molto pallida, ma quando parlò lo fece con voce ferma e dura come il ghiaccio: “Sai, Nott, all’inizio ho pensato che ti comportassi in questo modo per invidia, perché Josh è tutto quello che non sei: è più bello di te, più abile di te, e tutti gli vogliono bene. Poi però ho capito che per provare invidia serve un cervello, cosa che tu non hai. Perciò, sono giunta ad una conclusione: quello che fai, lo fai soltanto per cattiveria. Sei un perfido bastardo arrabbiato con il mondo, e vuoi semplicemente fare del male a chiunque ritieni che non meriti il tuo rispetto. Non so se mi fai maggiormente pietà o ribrezzo!”.

“Piccola, sudicia puttanella!” ringhiò Nott in risposta, mentre infilava la mano sotto la veste ed estraeva la bacchetta “Ti insegno io come ti devi comportare con chi ti è superiore! Exulcero!”.

“Protego!”.

La Fattura Ustionante di Nott sembrò schiantarsi contro un muro invisibile pochi secondi prima di colpire Mary. Se ne avessi avuto il tempo, mi sarei sorpreso della velocità con la quale avevo estratto la bacchetta, oltre che di essere riuscito a lanciare un perfetto Incantesimo Scudo senza averlo mai provato, ma in quel momento il mio cervello si era ormai spento, ed una seconda mente, molto diversa da quella che solo due minuti prima si stava con ogni probabilità preparando a piangere sulla spalla di Mary, aveva assunto il controllo. Questa volta non si trattava di una semplice rissa tra ragazzi: l’incantesimo di Nott era pericoloso, era fatto per fare del male. Aveva cercato veramente di ferire Mary! Senza il mio scudo, la mia amica si sarebbe ritrovata a combattere contro ustioni di secondo o terzo grado!

Anche lei sembrava averlo compreso: dopo l’istante di puro shock che aveva seguito il cozzo tra la magia di Nott e il mio scudo, un velo di puro furore si era dipinto sul suo volto: “Fottuto maniaco psicopatico! - urlò a pieni polmoni, e la bacchetta dardeggiò nella sua mano – Questa me la paghi cara!”.

“Ferma!”.

Si voltò, quasi scandalizzata dal mio tono, e vidi chiaramente la sorpresa, mista quasi a timore, sostituire la rabbia sui suoi lineamenti:  doveva aver notato la mia espressione, e ne era rimasta spaventata.

“Metti via la bacchetta, e fai qualche passo indietro – dissi, in un tono che non ammetteva repliche – Questo sacco di spazzatura è mio”.

Senza neanche attendere la sua risposta, mi feci avanti, la bacchetta al fianco. Ormai non c’era niente, dentro di me, tranne determinazione e cieco furore. Joshua Carter si era immediatamente ritirato in buon ordine, ma non era Matteo Simoncini ad aver preso il suo posto: neanche nei momenti di massima rabbia Matteo aveva raggiunto uno stato simile. In qualche modo, mi rendevo conto di stare controllando a mala pena il mio corpo: a guidarmi era un odio mai provato prima. Sembravo essermi trasformato nel lato oscuro di me stesso. La sola cosa che vedevo era Nott, il mio solo desiderio era demolirlo pezzo per pezzo. Se qualcuno mi avesse chiesto le mie intenzioni, con ogni probabilità avrei citato Clubber Lang in Rocky III: ‘Gli farò male’.

“Bene, Nott – dissi, con voce di ferro – Oggi sistemiamo questa faccenda. Sei andato veramente troppo oltre stavolta. Hai il coraggio di affrontarmi quando ti guardo in faccia o sai colpire solo a tradimento? – ghignai – In fondo, hai già pronti i rinforzi per pareggiare la situazione quando ti starò prendendo a calci in culo!”.

Nott rimase interdetto per alcuni secondi, poi, forse ricordandosi di possedere una spina dorsale o, al contrario, dimenticando quanto facilmente avessi pulito il pavimento con lui l’ultima volta che ci eravamo scontrati, si rivolse a Vasey e Harper: “Fatevi indietro. Per questo idiota basto io”.

I due Serpeverde rimasero a fissarci per qualche istante, sorpresi dal modo nel quale si era evoluta la situazione, poi si allontanarono lentamente, lasciandoci alcuni metri di spazio. Mary tentò di dire qualcosa, ma fu sufficiente una mia occhiata per farle morire le parole sulle labbra, e si ritirò a sua volta, chiaramente spaventata.

Sulla riva del lago calò un silenzio irreale: io e Nott, distanti circa cinque metri l’uno dall’altro, restammo per parecchi secondi immobili a fissarci, gli occhi incatenati, le bacchette al fianco. Avevo quasi la sensazione di sentire nelle orecchie una musica da duello tratta da un film western. Nott sembrava in preda al nervosismo: il suo braccio tremava, quasi fosse ansioso di attaccare ma non riuscisse a decidersi. Io, dal canto mio, ero immobile come una statua, la mente sgombra, la mano stretta come una morsa intorno alla bacchetta. Ero deciso a lasciar fare a lui la prima mossa, per poi demolirlo.

Non dovetti attendere molto. Sperando forse di sorprendermi, Nott alzò il braccio di scatto e puntò la bacchetta contro di me, lanciando lo stesso incantesimo che aveva provato ad usare contro Mary: “Exulcero!”. Stavolta non cercai di parare: ero abbastanza concentrato sulla situazione per riuscire a schivare il colpo, e risposi immediatamente con pari velocità: “Flipendo!”.

Nott dimostrò a sua volta una buona concentrazione, ed evitò l’Incantesimo d’Urto per pochi centimetri. Lo scontro divenne rapidamente furioso: il mio avversario stava provando a scagliarmi contro tutto quello che conosceva, incluse alcune fatture che decisamente non facevano parte del lato chiaro della magia, senza però riuscire, tra parate e schivate, a colpirmi. Io rispondevo a tono, utilizzando però, almeno per il momento, incantesimi comuni: volevo dargli un certo senso di sicurezza prima di far scendere in campo l’artiglieria pesante. Fu solo quando un Incantesimo Tagliuzzante di Nott riuscì a superare in parte il mio scudo, aprendomi un taglio superficiale sulla spalla, che compresi che il momento dei giochi era finito: il mio nemico poteva essere pericoloso, era meglio metterlo subito al posto che gli spettava. In ginocchio.

Accadde in pochi secondi: mi abbassai, appoggiando a terra la mano sinistra e facendomi passare sopra l’ultima fattura di Nott, poi sparai il colpo decisivo: “Impactus!”.

Non era certo un incantesimo tipico per un ragazzo del terzo anno: lo avevo letto in biblioteca, su un libro che trattava di Magia da Combattimento. Era un Incantesimo d’Urto molto più potente di quelli che avrei dovuto conoscere, una vera magia da battaglia. Ce n’erano diverse altre, capaci di ferire molto più profondamente, ma avevo scelto con oculatezza: almeno in quel momento, non volevo mandare Nott in infermeria o al cimitero, solo umiliarlo come mai gli era accaduto nella sua vita. Non avevo mai provato ad eseguirlo, eppure, benché senza alcun motivo, ero certo che sarebbe riuscito. Mi sentivo invincibile.

L’incantesimo lo centrò in pieno stomaco, spedendolo indietro di almeno un metro e facendolo crollare a terra. Avrei potuto immobilizzarlo, legarlo o disarmarlo, ma non feci nulla di tutto questo: rimasi solo a fissarlo con sguardo predatorio. La mia vittima era a terra, ed ero sempre più intenzionato a farla strisciare come il lombrico che era.

A suo onore, Nott non si arrese, nonostante il dolore che sembrava provocargli la brusca riorganizzazione subita dalle sue viscere: respirando affannosamente e tenendosi il ventre con la mano sinistra, si tirò in piedi, sia pure a fatica, e cercò di puntare di nuovo la bacchetta contro di me.

Avevo atteso proprio quel momento per frustrare le sue speranze: prima che potesse aprire bocca, lo anticipai con un “Impedimenta!” che lo mandò nuovamente a terra, come se fosse inciampato su un filo invisibile.

Sentivo che un ghigno feroce aveva iniziato a deformare la mia faccia, ma mi importava sempre di meno: avevo intenzione di far pagare a Nott ogni meschinità che avesse fatto nella sua vita, ed il conto era molto lungo. Riuscì a tirarsi nuovamente in piedi, benché chiaramente sofferente, ma prima che potesse anche solo pensare a come contrattaccare io presi la mira contro le sue gambe: “Tarantallegra!”.

Nott iniziò a tremare come una foglia, riuscì a restare in piedi per qualche secondo, poi collassò come un mucchio di stracci, le gambe in preda a movimenti incontrollabili. Anche da terra, provò a puntare la bacchetta contro di me, ma ero più che pronto. Avrei potuto semplicemente disarmarlo, ma scelsi una via più complicata e più dolorosa. Mirai alla sua bacchetta e urlai: “Flagrante!”.

Fino a quel momento Nott aveva incassato quasi in silenzio, ma lasciò partire un urlo quando fu costretto a lasciar andare la bacchetta, divenuta all’improvviso incandescente. Non aveva fatto neanche in tempo a casere a terra che già avevo ripreso la mia opera di umiliazione: “Slugulus Eructo!”.

Per un istante il mio avversario si immobilizzò come un palo, portandosi la mano alla bocca, poi, nonostante le gambe continuassero a muoversi senza controllo, con uno sforzo supremo riuscì a tirarsi sulle ginocchia, per poi vomitare a terra una grossa lumaca.

Rimasi per alcuni secondi a fissarlo, mentre altri viscidi animali seguivano il primo. Era inerme, completamente sconfitto, abbattuto senza speranza di ripresa, eppure ancora non mi bastava. Qualcosa di inquietante sembrava essersi impadronito di me: mai nella vita mi ero comportato in un modo simile con un avversario sconfitto, non avevo mai infierito così su nessuno, neanche con persone che detestavo con tutto me stesso. A stento mi rendevo conto di quello che stavo facendo: Nott continuava a vomitare lumache e a tremare come in preda alle convulsioni, e la sola cosa alla quale pensavo era come ferirlo ulteriormente. Un pensiero orribile quanto allettante mi attraversò la mente, pensando all’incantesimo che aveva tentato di utilizzare sia contro Mary che contro di me, e un sorriso malvagio mi attraversò il volto mentre il giovane Serpeverde, tra un conato e l’altro, mi fissava con sguardo a metà tra la rabbia e la supplica. A quanto pareva, Nott aveva un debole per le ustioni: forse avrebbe apprezzato un po’ di vero fuoco! Chiaramente, non stavo più ragionando: non mi interessava quanto male avrei fatto al ragazzo distrutto che giaceva davanti a me, volevo solo che soffrisse.

La parola “Incendio!” era già sulla mie labbra, quando dalle mie spalle arrivò un urlo disperato: “Basta!”.

Mi voltai sorpreso, come se mi fossi appena svegliato da un sogno: Mary era in piedi accanto all’albero, il terrore dipinto sul volto, le guance rigate dalle lacrime.

“Ti prego, Josh…- singhiozzò, con la voce di una persona spaventata a morte – Per favore, fermati!”.

Rimasi immobile a guardarla per qualche istante, mentre la mia mente iniziava a snebbiarsi. Era come uscire da una trance, come svegliarsi da un incubo. Improvvisamente mi resi conto dell’enormità di quello che stavo per fare: ero stato sul punto di dare fuoco ad un ragazzo! Nott era un essere infame, ma quello che avevo pensato di fargli…era malvagio, a dire poco.

Scossi la testa, quasi per scacciare gli ultimi resti della follia che aveva invaso il mio cuore, poi tornai a voltarmi: Nott era ancora a terra, le gambe fuori controllo, in preda ai conati per le lumache che continuava a sputare. Continuavo a detestarlo, ma la furia bruciante che mi aveva avvolto fino a quel momento sembrava essere scomparsa. Puntai un’ultima volta la bacchetta contro di lui: “Finite Incantatem!”.

Il tremito si fermò di colpo, e il giovane Serpeverde, lasciata cadere a terra un’ultima lumaca, si accasciò stremato.

Sollevai lo sguardo verso Vasey e Harper: durante tutto lo scontro erano rimasti fermi a qualche metro di distanza, come paralizzati. Avevano le bacchette estratte per metà, ma non sembravano essere in grado di raccogliere il coraggio necessario per assalirmi. Mi osservavano con più timore che rabbia

Li fissai per qualche istante, poi parlai, con una voce secca come un colpo di pistola: “Filate. Ora!”.

I due lanciarono un’ultima occhiata allo stremato compagno, poi, riposte le bacchette, si allontanarono verso il castello senza voltarsi indietro.

Certo che non sarebbero tornati, rivolsi nuovamente la mia attenzione a Nott. Mi avvicinai e lo afferrai per il bavero dell’uniforme.

“E adesso a noi” ringhiai, per poi trascinarlo in piedi. Sembrava più un sacco di patate che un essere umano. Lo trascinai per qualche metro e lo scaraventai contro il tronco dell’albero. Nel suo sguardo c’era il terrore: nonostante non avesse riportato nessun vero danno, in qualche modo sembrava aver capito il rischio corso.

Mi faceva quasi pena, ma respinsi quel pensiero, ricordando i mesi di insulti e agguati, le parole infami che aveva detto a Mary, il suo tentativo di ferirla. Doveva finire lì.

Quando parlai, la mia voce aveva recuperato la necessaria durezza: “Con questo concludiamo il nostro scontro, Nott. Ne ho le palle piene di guardarmi le spalle ogni volta che percorro i corridoi, di sentire le tue idiozie, di sopportare insulti e prese in giro. Oggi hai visto quello che sono capace di fare se mi arrabbio, e spero proprio ti sia bastato. Non avrai una seconda occasione: se ti azzarderai di nuovo a offendere o aggredire me, Mary o un altro dei miei amici, ti assicuro che quello che ti ho fatto fino a questo momento ti sembrerà una gentile carezza rispetto a ciò che ti farò. Hai capito?”.

La voce di Nott somigliò al pigolio di un pulcino spaventato. Lo scossi rudemente: “Quando hai dato a Mary della puttana non sembrava mancarti il fiato, vedi di trovarlo anche ora! Ho chiesto: hai capito?”.

“S…si! Ho capito!” squittì.

Lo fissai ancora per un istante, poi lo spinsi via: “Raccogli la tua bacchetta e levati dai piedi!”.

Non se lo fece ripetere due volte: presa la bacchetta, scappò incespicando verso il castello.

Fu come se io fossi stato un materassino gonfiabile e uno spillo mi avesse improvvisamente bucato: letteralmente, mi sgonfiai. Tutta l’adrenalina che mi aveva sostenuto fino a quel momento sembrò scomparire di colpo: crollai a sedere con un sospiro, lasciando cadere la bacchetta e portandomi una mano alla fronte come se fossi stato colto da un improvviso dolore lancinante alla testa. Dopo quello che era accaduto, niente sarebbe riuscito a far tornare Nott indietro, ma se lo avesse fatto in quel momento sarebbe riuscito a ridurmi ad una polpetta senza neanche sforzarsi, tanto ero abbattuto, più mentalmente che fisicamente, ma ugualmente fuori combattimento.

Non saprei dire quanto passò, forse trenta secondi, forse dieci volte tanto, forse un paio di vite umane. Davanti ai miei occhi era calata una sorta di nebbia, mentre la consapevolezza dell’accaduto mi investiva con la forza di un ciclone: ero stato sul punto di uccidere una persona. Peggio: avevo provato il desiderio di uccidere una persona! Un ragazzo di tredici anni! Era qualcosa di talmente assurdo che facevo fatica perfino a prenderne coscienza. Cosa mi era successo? La rabbia per l’aggressione a Mary e per gli insulti ricevuti non era neanche lontanamente sufficiente per giustificare una simile reazione. Possibile che ciò che avevo visto dentro l’albero mi avesse scosso al punto da… da cosa? Da tirare fuori dalla mia anima una personalità completamente diversa? Perché era questo che era accaduto: l’essere che aveva infierito su Nott non era Joshua Carter, non era Matteo Simoncini. Chi diavolo era? Avevo sentito già altre volte premere ai limiti del mio inconscio quella sorta di velo nero, lo spirito di un combattente, di un guerriero pronto a tutto, incurante delle conseguenze. Ero io… e allo stesso tempo non lo ero. Sembrava quasi che, dopo il mio viaggio, alle due persone che componevano il mio essere se ne fosse aggiunta una terza, che era entrambe e nessuna delle due, che era una sorta di doppio oscuro, che restava in panchina, silente, pronta però ad entrare in campo quando lo riteneva opportuno. C’era di che impazzire: perché esisteva? Avevo la sensazione che questa personalità fosse sorta con il mio arrivo in quel mondo, o forse proprio a causa di esso, ma quale era il suo scopo?

Una sorta di sussurro, lieve come il volo di una farfalla e allo stesso tempo potente come un tuono, arrivò a distogliermi dalle mie riflessioni: “Josh…”.

Mi voltai di scatto: Mary era in piedi accanto a me, il volto spaventato e preoccupato allo stesso tempo, le lacrime che ancora le rigavano le guance. All’improvviso realizzai il terribile spettacolo al quale l’avevo costretta ad assistere: poteva essere anche partita come una vendetta per quello che Nott le aveva fatto, ma ciò che aveva visto era stato l’equivalente magico di uno spietato pestaggio. Mary, la dolce ragazzina che tanto teneva a me, che con ogni probabilità provava un adolescenziale amore per me, aveva visto un mostro. Aveva paura per me… e allo stesso tempo aveva paura di me!

Senza riflettere ulteriormente, mi tirai in piedi e mi avvicinai. Per fortuna, nonostante nei suoi occhi ci fosse ancora l’orrore per ciò che era successo, non si scostò. Non credo che lo avrei sopportato.

Ci sarebbero state mille cose che avrei potuto dire per spiegarmi, per giustificarmi, per scusarmi. La sola che riuscì a lasciare le mie labbra fu un rantolante ‘Perdonami’, prima che le crollassi letteralmente tra le braccia. Un attimo dopo, piangevo sulla sua esile spalla.

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Capitolo 11
*** Capitolo Dieci ***


Salve a tutti! Come vi avevo anticipato, ho impiegato un po’ di tempo a completare questo decimo capitolo. Purtroppo, tra lavoro, vacanze, difficoltà tecnologiche (la mia disponibilità si è ridotta ad un malridotto tablet), non sono riuscito a mantenere una grande velocità, ma prometto che cercherò di scrivere il prossimo più velocemente.

Vorrei spiegare una cosa che ho dimenticato di specificare nei capitoli precedenti in relazione agli incantesimi che i miei personaggi utilizzano. Immagino che ne avrete riconosciuta una gran parte come tratti dai libri (ho ignorato quasi interamente i film), ma alcuni, come avrete notato sono chiaramente inventati. Si tratta, in massima parte, degli incantesimi da combattimento: la Rowling non ha mai specificato molto per quanto riguarda gli incantesimi utilizzati in duelli e battaglie, lasciando molto all’immaginazione, cosa che tutto sommato ci può stare, trattandosi di un libro per ragazzi.

Io sono voluto entrare maggiormente nel dettaglio, non mi accontento di un semplice “iniziarono a scambiarsi incantesimi”. Ho dovuto quindi trovare una serie di magie da combattimento che non esistono nel mondo dell’autrice. Incantesimi come ‘Impactus’ e altri che utilizzerò in futuro sono inventati. Non da me però, non voglio prendermi meriti che non ho. Come si suol dire, “Se devi copiare, copia dal migliore”, e poiché c’è un fantastico autore che nelle sue storie ha impiegato una lunga serie di incantesimi da combattimento, ho deciso di seguire la strada da lui tracciata. Ringrazio quindi il grande jbern per il suo lavoro, lo impiegherò con grande rispetto.

Detto questo, godetevi il capitolo!

 

CAPITOLO DIECI

 

Era pomeriggio inoltrato quando tornai nel dormitorio di Grifondoro. Ero emotivamente svuotato e fisicamente stremato, e la sola cosa che avevo voglia di fare era crollare sul letto e dormire per un po’, diciamo circa una settimana. Avevo ricordi molto confusi di quello che era accaduto dopo lo scontro con Nott: Mary era stata comprensiva, aveva lasciato che mi sfogassi e mi aveva rassicurato, dicendomi che mi ero fatto prendere la mano e che sapeva bene che io non ero fatto in quella maniera. Ciononostante, non avevo potuto fare a meno di notare una piccola ombra di paura nei suoi occhi quando mi aveva salutato nell’ingresso del castello: era passata sopra all’accaduto solo in nome del bene che mi voleva, ma non aveva certo dimenticato la scena vista.

Svolsi l’esame di Babbanologia con il pilota automatico attivato: non sarei stato in grado di ricordarmi una delle domande scritte sul foglio neanche sotto tortura, tantomeno le mie risposte. I venticinque anni che avevo vissuto da Babbano erano la mia sola speranza di aver evitato una vergognosa bocciatura.

L’accaduto pesava sul mio cuore come un macigno: non potevo dimenticare di aver evitato di un soffio di compiere un omicidio. La terrificante sensazione che mi aveva lasciato l’incursione della mia nuova, oscura personalità mi schiacciava: ero tornato quello di sempre, certo, un insolito mix di Joshua Carter e Matteo Simoncini, ma in qualche modo avvertivo che non era scomparsa. Era ancora lì, appena oltre la mia coscienza, di nuovo addormentata. Per quanto? Chi poteva dirlo. Sarei stato in grado di dominarla, o per meglio dire, di fermarla, anche qualora fosse tornata a presentarsi? Stessa risposta. Perché esisteva? Idem come sopra.

Preso da questi pensieri tutt’altro che felici, attraversai gran parte della Sala Comune come uno zombie prima di notare tre persone estremamente agitate che parlavano tra loro: erano Harry, Ron ed Hermione, e sui loro volti campeggiava una espressione di orrore.

Improvvisamente ricordai che quel giorno c’era qualcuno, ad Hogwarts, che aspettava una sentenza ben più definitiva del risultato di un esame, ed il peso sul mio cuore raddoppiò in un istante. Mi avvicinai al trio e chiesi, con voce tremante: “Lo hanno condannato, vero?”.

Hermione, che sembrava prossima al pianto, assentì con la testa.

Fu un duro colpo da digerire, soprattutto sommato alla serie di batoste che avevo incassato nel corso di quell’apparentemente infinita giornata: nelle settimane precedenti, nonostante gli impegni legati allo studio, avevo lavorato con grande attenzione alla revisione del documento per l’appello di Fierobecco preparato da Hermione. Mi sembrava ineccepibile, ero convinto che davvero avessimo una possibilità di ottenere la sua assoluzione. Invece, a quanto pareva, era stata ancora una volta la politica corrotta a strappare il successo. L’animale di Hagrid, colpevole solo di essere se stesso e di aver incrociato un verme stupido e meschino come Draco Malfoy, sarebbe morto.

“Quando…?” riuscii a domandare.

“Al tramonto” rispose Harry.

Guardai fuori dalla finestra: il sole aveva già iniziato ad abbassarsi verso l’orizzonte.

“Che cosa pensate di fare? – chiesi ancora – Non ci lasceranno mai uscire a quell’ora, ma non possiamo lasciare solo Hagrid!”.

Hermione estrasse dalla borsa qualcosa che somigliava ad un lucido mantello nero. Resistetti a stento alla tentazione di sussultare: sapevo perfettamente cosa fosse, e compresi immediatamente le loro intenzioni, ma ricordai appena in tempo che, per quanto ne sapevano i tre ragazzi che avevo davanti, io non avevo mai visto quel particolare artefatto. Finsi perciò una certa sorpresa: “Che cos’è?”.

“Un Mantello dell’Invisibilità – spiegò ancora Harry – Era di mio padre. Con questo potremo passare oltre la sorveglianza. Il solo problema è che non ci staremo mai in quattro”.

Per alcuni istanti regnò un silenzio assoluto, mentre tutti riflettevamo sulle implicazioni di quello che il ragazzo con gli occhiali aveva detto: tutti avremmo voluto recarci a confortare il nostro amico professore, ma inevitabilmente qualcuno sarebbe dovuto rimanere al castello. Avvertii una sorta di lieve pizzicore all’interno della testa, ma lo ignorai. Alla fine Ron borbottò, poco convinto, che avremmo potuto tirare a sorte.

Per me era evidente, per quanto doloroso, quale fosse la sola scelta sensata, quindi ribattei subito: “No, non serve. Resto io – Hermione cercò di interrompermi, decisa evidentemente a farmi cambiare idea, ma la fermai con un gesto della mano – E’ tutto a posto, ragazzi. Voi conoscete Hagrid da anni, io solo da qualche mese – sorrisi stentatamene – Se dobbiamo scegliere chi deve avere intorno in un momento così terribile, è giusto che siate voi”.

Tutti, soprattutto Hermione, cercarono di farmi cambiare idea, ma io rimasi sulla mia posizione, e non ci volle molto, in realtà, prima che si arrendessero.

Il trio aveva deciso di muoversi dopo la cena. Io non li vidi sparire sotto il mantello prima di varcare l’ingresso della scuola: dopo la nostra conversazione, mi ero gettato sul letto, e non ero sceso neanche per mangiare, nonostante fossi sostanzialmente a digiuno dalla colazione. Non era solo la stanchezza a trattenermi: la piccola pressione nella mia testa si era rapidamente trasformata in una scossa quasi costante, che sembrava aumentare di intensità con il passare dei minuti. Non ci misi molto a riconoscere gli effetti del mio strano ‘Senso di ragno’: più si avvicinava l’ora dell’esecuzione dell’Ippogrifo, più quella stranissima parte della mia mente alzava la voce per dirmi che sarei dovuto essere presente. Impossibile dire quale fosse la ragione: come sempre, le mie sensazioni si limitavano a suggerirmi il ‘cosa’, mai il ‘perché’. Con l’approssimarsi del tramonto, il sussurro si era trasformato ormai in un urlo a pieni polmoni: qualcosa, più che suggerendo, mi stava ordinando di uscire dal castello. Ero ormai certo che la questione non riguardasse soltanto l’esecuzione del povero Fierobecco: c’era qualcos’altro nell’aria, qualcosa di molto più oscuro. Non sarei stato in alcun modo capace di spiegare la ragione, ma sentivo di dover essere lì fuori. Forse proprio quella sera si sarebbe rivelato il motivo per il quale ero finito in quel mondo. Era solo una sensazione, ma talmente potente da essere impossibile da ignorare.

Mi alzai in piedi ed iniziai a camminare avanti e indietro nella stanza. Ormai avevo deciso cosa era necessario che facessi, ma la situazione non era migliorata di molto: oltre al ‘perché’, infatti, il mio ‘Senso di ragno’ si era dimenticato anche di dirmi il ‘come’: Harry e gli altri avevano preso il solo Mantello dell’Invisibilità esistente ad Hogwarts, ed uscire dal castello senza qualcosa di simile era virtualmente impossibile.

Il tempo passava, e la mia ansia cresceva: il tramonto era vicino, ed io ero ancora privo di qualsiasi idea che mi permettesse di eludere la sorveglianza all’ingresso. All’improvviso raggiunsi una sorta di illuminazione: un Mantello non era il solo modo per rendersi invisibili! Mi precipitai come una valanga verso il mio comodino, ed afferrai il libro che vi era posato sopra, iniziando a sfogliarlo alla massima velocità. Era un tomo di Incantesimi che avevo preso in biblioteca, e conteneva parecchie magie avanzate, la maggior parte delle quali venivano insegnate negli ultimi anni di scuola. Non si trattava di magie da combattimento, ma conteneva molta roba interessante. Tra queste, ricordavo di aver visto un incantesimo in particolare che faceva esattamente al caso mio. Ci misi quasi dieci minuti, ma alla fine lo trovai: l’Incantesimo di Disillusione, in grado di trasformare il soggetto colpito in una sorta di camaleonte, capace di assumere gli stessi colori dello sfondo sul quale si muoveva. Non si diventava realmente invisibili, ma essere individuati, soprattutto nell’oscurità, era quasi impossibile. Studiai rapidamente i movimenti necessari, poi posai il libro, presi la mia bacchetta e corsi nel bagno davanti allo specchio.

Cercando di replicare i movimenti che avevo visto sulla pagina, feci compiere alla bacchetta una sorta di mulinello, poi mi toccai la cima della testa mormorando “Desilludo!” e osservai il risultato.

Niente. Il mio corpo spiccava come sempre sulla superficie riflettente. Sospirai con stizza: essere riuscito a compiere, durante il duello con Nott, una serie di incantesimi avanzati senza averli mai provati mi aveva lasciato l’impressione di essere capace di fare qualsiasi cosa, ma in quel momento mi trovai a contrarmi con i miei limiti. Ero pur sempre un mago tredicenne, e l’Incantesimo di Disillusione era magia piuttosto avanzata. Eppure dovevo riuscirci! La sensazione nella mia testa era sempre più forte: dovevo sbrigarmi, dovevo uscire dalla scuola, dovevo vedere...cosa? Impossibile dirlo, ma sapevo che si trattava di un imperativo categorico.

Trassi un profondo respiro, e ricominciai: un mulinello, una giravolta, un tocco… “Desilludo!”.

Niente.

Imprecai rabbiosamente, cercando con poco successo di tenere la voce bassa. Tipico: nel momento nel quale ne avrei avuto maggior bisogno, la mia insolita abilità aveva deciso di abbandonarmi! Per un istante fui sul punto di arrendermi: non c’era modo di uscire dalla scuola senza rendermi invisibile, provarci avrebbe significato soltanto farmi scoprire e punire. Il pensiero di rinunciare, però, durò un solo secondo: semplicemente, non potevo. Arrivare al parco non era solo una possibilità, era una necessità. Era come se un invisibile burattinaio mi stesse manovrando, e rifiutare non era un’opzione valida. Era come se tutto il mio tempo ad Hogwarts mi avesse guidato fino a quel momento, facendomi scoprire le mie capacità e addestrandomi a… cosa? Cosa doveva accadere quella sera? Non ne avevo la minima idea, ma sapevo di doverci essere. E per poterlo fare…

Respirai, cercando di rilassare la mente, poi ricominciai: eseguii il movimento con la massima attenzione, mi toccai la testa e per la terza volta pronunciai la formula: “Desilludo!”.

Seppi che aveva funzionato prima ancora di vedere il risultato allo specchio: avvertii una sensazione di freddo che dalla punta della testa si espandeva verso il basso, come se qualcuno avesse rotto un uovo sui miei capelli e quello mi stesse colando addosso. Il mio riflesso scomparve, mentre il mio corpo assumeva la stessa colorazione e lo stesso aspetto del muro alle mie spalle. Pochi secondi, ed ero letteralmente sparito: con molta attenzione, avrei potuto vedere il contorno della mia fisionomia, ma senza una luce a breve distanza ed uno sguardo particolarmente attento, sarei stato impossibile da individuare.

Non persi altro tempo: velocemente, ma allo stesso tempo cercando di non fare rumore, uscii dal bagno, scesi dal dormitorio, attraversai la Sala Comune senza che nessuno dei miei compagni notasse nulla, superai il ritratto cercando di aprirlo meno possibile perché nessuno dei presenti se ne accorgesse ed uscii nel castello avvolto dalla semi-oscurità.

La discesa fino all’ingresso si rivelò molto più semplice di quanto avrei potuto anche solo sperare: i troll di guardia non si accorsero di nulla, e lo stesso accadde al paio di insegnanti di pattuglia che incrociai. Avevo temuto Mrs Purr, la malefica gatta del custode Gazza, che avrebbe forse potuto individuarmi con l’olfatto, ma per mia fortuna non era in circolazione, pochi minuti, e le mie narici si riempirono dell’aria fresca della sera.

L’oscurità stava calando velocemente sui prati all’esterno del castello: il sole era ormai scomparso, la luna velata dalle nuvole, e le ombre si allungavano sull’erba. Con decisione, mi diressi verso la capanna di Hagrid: la voce nella mia mente continuava a non darmi informazioni in più, ma sembrava non avere niente in contrario, quindi supposi di stare facendo la cosa giusta. Dalle finestre della casa, a pochi metri dagli alberi della Foresta Proibita, si intravedeva una luce. Vedendo il buio che ormai avvolgeva il parco, avvertii un tuffo al cuore: avevo perso troppo tempo. L’esecuzione era prevista per il tramonto. Fierobecco ormai doveva essere…

Non ebbi tempo di continuare con le mie riflessioni, perché qualcosa di assolutamente imprevisto accadde una cinquantina di metri più in basso rispetto a me: un attimo prima il parco era completamente vuoto, un attimo dopo una figura nera era apparsa come dal nulla, ed aveva iniziato a correre sull’erba. Strizzai gli occhi per alcuni secondi nel tentativo di riconoscere, nella poca luce rimasta, di chi si trattasse, poi riconobbi la figura allampanata impegnata in uno scatto attraverso il parco: era Ron. Doveva essere appena uscito da sotto il mantello dell’invisibilità. Ma che diavolo stava facendo?

Poi li vidi. In tutta sincerità, non sarei in grado di dire se furono i miei occhi o la mia mente a rendersene conto per primi, sembra incredibile che sia riuscito a notare due animaletti in mezzo ad un parco, di notte, con la luna oscurata.

Eppure, fu ciò che accadde: qualche metro davanti a Ron, lanciato in quello che sembrava un inseguimento, vidi un peloso gatto arancione. Appena il tempo di riconoscere Grattastinchi, e ancora più avanti individuai la sua preda. Il mio cuore saltò almeno un paio di battiti quando compresi che l’animale di Hermione stava rincorrendo un topo. No… non un topo: ‘Crosta!’. Il nome esplose nella mia mente come una folgore. Ero lontano, al buio, eppure non avevo il minimo dubbio: quello lanciato in una fuga disperata per la propria vita lungo i prati era l’animaletto di Ron, in qualche modo ancora vivo quando avrebbe dovuto essere morto da mesi! Improvvisamente una piccola parte dei pezzi dell’intricato puzzle che avevo nella testa andò a posto: tutti i dubbi che avevo avuto… le ore passate a chiedermi cosa ci fosse che non mi tornava nella morte di Crosta… ed eccolo lì! Non che questo risolvesse il vero dilemma: il topo era vivo… e quindi? Quale importanza poteva avere quel maledetto roditore? Sentii che forse stavo per scoprirlo.

Passarono ancora alcuni secondi, poi altre due figure apparvero nel parco e si gettarono dietro a Ron. Non dovetti neanche aguzzare lo sguardo per capire di chi si trattasse: anche Harry ed Hermione dovevano aver gettato alle ortiche il mascheramento.

Mi mossi per raggiungerli: volevo essere presente quando avessero recuperato il topo. Sentivo che, in qualche modo, questo avrebbe portato le risposte che volevo. Dopo pochi passi, però, compresi verso cosa si stava dirigendo Ron nella sua corsa cieca, e avvertii un brivido lungo la schiena. I miei ricordi dall’altra parte arrivavano abbastanza avanti da riconoscere il grande albero che si stagliava contro il cielo sempre più nero: il Platano Picchiatore, un albero capace di muoversi, particolarmente aggressivo, pronto a colpire con i suoi rami chiunque si avvicinasse.

Ero sul punto di lanciare un avvertimento a Ron, a costo di rovinare la mia copertura, quando il ragazzo, superato Grattastinchi, con un tuffo disperato riuscì a bloccare la fuga di Crosta, allontanando poi il gatto ancora deciso a catturarlo. Fortunatamente, il placcaggio di Ron era avvenuto quando era ancora fuori dalla portata del Platano Picchiatore. Trassi un sospiro di sollievo, pur non sapendo esattamente perché il recupero da parte del rosso del suo animaletto avrebbe potuto aiutarmi a dare un senso alle mie sensazioni, apparentemente impossibili da collegare e ordinare. Perfino in quel momento, mentre mi avvicinavo senza più la stessa fretta, vedendo Ron infilare a fatica Crosta nella tasca della sua veste e gli altri due arrestarsi a fatica accanto a lui, piegati in due per la corsa, continuavo a farmi le stesse domande: perché il topo era importante? In quale modo il fatto che non fosse stato mangiato era determinante? E Black? Perché avvertivo una sensazione così strana nei suoi riguardi? Tante domande, nessuna risposta. Sentivo però che il momento dei chiarimenti si stava in qualche modo avvicinando, anche se non sarei stato in grado di dire come sarebbe giunto.

La tranquillità si ruppe all’improvviso, come un vetro che si schianta al suolo: si udì il rumore di passi pesanti sul terreno, e nel buio vidi qualcosa di enorme, nero contro il nero della notte, con due occhi chiari che rilucevano nel buio, dirigersi a balzi verso i miei tre amici. Riconobbi un gigantesco cane color della pece, delle dimensioni di un piccolo orso, con il pelo irsuto e la bocca spalancata a mostrare enormi zanne.

La mia mascella cedette di diversi centimetri: da dove era uscito quella specie di mostro? Un istante dopo infilai disperatamente la mano nella veste, in cerca della bacchetta, ma era troppo tardi: il cane gigante travolse Harry, scaraventandolo a terra, poi rotolò a qualche metro di distanza spinto dal suo stesso slancio, si rialzò e si preparò ad un nuovo assalto. Harry si tirò faticosamente in piedi, ma era chiaramente dolorante, non sarebbe riuscito a difendersi. Provai a prendere la mira, ma compresi subito che, tra distanza e oscurità, non sarei mai riuscito a centrare l’animale. Disperatamente iniziai a correre, pur sapendo che non c’era alcuna speranza di arrivare in tempo: in due secondi la bestia avrebbe sbranato Harry!

Per fortuna, fu Ron ad intervenire: con una spinta spostò l’amico mettendosi tra lui e il cane. Questo saltò addosso a lui, lo afferrò per un braccio ed iniziò a trascinarlo via, nonostante un disperato tentativo di Harry di fermarlo. Un attimo dopo, sia il ragazzo con gli occhiali che Hermione vennero sbattuti violentemente a terra dai rami del Platano Picchiatore, mentre il mostro portava un recalcitrante Ron fino alla base del tronco. Harry accese la punta della bacchetta, e nella pallida luce lo vidi entrare in una grossa fessura tra le radici, tirandosi dietro Ron, che opponeva una disperata resistenza. Ero ancora ad una ventina di metri di distanza quando mi fermai, cercando nuovamente di prendere la mira con la bacchetta, ma il cane era ormai sparito sotto l’albero. Ron si era agganciato ad una radice con la gamba, ma pochi secondi dopo si udì un terribile scricchiolio: l’osso della caviglia doveva essersi rotto sotto la violenta trazione. Un istante, ed il corpo del ragazzo scomparve interamente sotto la pianta.

Tutto era accaduto tanto rapidamente da lasciarmi stralunato, come se stessi vivendo un incubo: una creatura infernale aveva appena rapito uno dei miei amici! Rimasi bloccato, chiedendomi se potesse essere quella la ragione per la quale il mio ‘Senso di Ragno’ mi aveva spinto ad uscire dal castello. Neanche il tempo di decidere che linea seguire, e la situazione cambiò ancora: Harry ed Hermione fecero un paio di inutili tentativi di sperare i rami dell’albero, poi Grattastinchi si avvicinò al tronco e premette una specie di nodo. Il Platano Picchiatore si bloccò, come paralizzato. Il gatto si infiò di corsa nella fessura, e subito dopo i due ragazzi lo seguirono. Rimasi da solo nei prati avvolti dall’oscurità.

Ero letteralmente sotto shock: tutto mi sarei aspettato, tranne l’assurda serie di eventi alla quale avevo assistito. Poteva davvero essere questo che la strana forza che sembrava guidarmi aveva voluto farmi vedere? Forse era questo che voleva da me? Dovevo aiutare Harry ed Hermione a salvare Ron? E se Crosta fosse stato una coincidenza? E se lui e Black non avessero avuto un ruolo da protagonisti, ma solo da comprimari, nella storia che si stava dipanando davanti a me?

‘E se ti dessi una mossa, pezzo di cretino?’.

Non era stato il ‘Senso di Ragno’ a insultarmi: la voce che mi aveva urlato nel cervello era la mia. Mi riscossi: non era decisamente il momento di farsi troppe domande. Quel cane era grande abbastanza da fare a pezzi Ron. Non potevo perdere tempo a chiedermi che cosa stesse realmente succedendo, e in che modo ciò che avevo visto andasse ad incastrarsi con il resto. Harry e gli altri avevano bisogno di tutto l’aiuto possibile. Per un istante accarezzai l’idea di correre al castello per chiamare un insegnante, ma la scartai altrettanto velocemente: tempo di trovare qualcuno e di spiegare tutta la storia, ammesso e non concesso di essere creduto, e sarebbero potuti essere morti tutti e tre. Senza neanche togliermi di dosso l’Incantesimo di Disillusione, corsi a mia volta verso l’albero e mi infilai nella fessura. Appena in tempo: ero a stento entrato quando i rami si ripresero dalla paralisi e tornarono a sferzare l’aria.

Scivolai lungo una china di terra, fino al fondo di un tunnel molto basso. Senza attendere oltre, iniziai a percorrerlo, la schiena piegata quasi a novanta gradi per non battere la testa. Procedevo a tentoni, perché avevo immediatamente deciso di non accendere la bacchetta. Un incantesimo avrebbe fatto saltare l’Incantesimo di Disillusione, ed avevo la strana sensazione che arrivare inatteso, senza essere visto, sulla scena di qualsiasi cosa stesse accadendo, potesse essere una buona idea.

Una ridda di pensieri mi attraversavano la testa mentre arrancavo lungo il cunicolo: nonostante lo stupore per quello che avevo visto, avvertivo una strana sensazione di ‘giustezza’, come se stessi seguendo una linea tracciata. Capire chi l’avesse fatto andava al di là della mia comprensione. Non per la prima volta, mi sentii una sorta di marionetta, come se non fossi completamente padrone delle mie scelte. Misi da parte questo pensiero, ripromettendomi di analizzarlo con maggiore attenzione più tardi: c’erano cose più urgenti da fare.

Finalmente, dopo un tempo che mi sembrò infinito, sbucai in una stanza fiocamente illuminata. Era piena di polvere e ragnatele, e appariva abbandonata da tempo. La poca luce che entrava passava tra le assi inchiodate alle finestre. Per un istante, mi chiesi dove fossi: sicuramente non ero ad Hogwarts. Poi compresi: anche se non l’avevo mai vista, neanche dall’esterno, seppi di trovarmi all’interno della Stamberga Strillante, la casa infestata dai fantasmi alla periferia di Hogsmeade. Mi guardai ancora intorno, e notai che tutti i mobili presenti erano sfasciati, letteralmente distrutti. Osservando meglio un tavolo, vidi degli evidenti segni di artigli, e rabbrividii: decisamente, non era stato un fantasma a provocare quella devastazione. Che fosse stato il mostruoso cane? Per qualche ragione, questa spiegazione non mi suonava bene.

Notai poi che sul pavimento polveroso c’erano due serie di tracce: una larga striscia lucida, come se qualcosa fosse stato trascinato, e due serie di impronte di piedi proprio accanto. Entrambe si dirigevano verso una porta, oltre la quale si intravedeva un’anticamera buia. Mi mossi con la massima circospezione, cercando di limitare al minimo il rumore: dovevo essere non più di un minuto dietro Harry ed Hermione, quindi dovevano essere vicini. Quasi come conferma, avvertii uno scricchiolio sommesso. Molto lentamente, oltrepassai la porta. Alla mia destra c’era una scala molto malridotta, che conduceva al piano di sopra. Le tracce continuavano da quella parte. Harry ed Hermione non si vedevano, ma in cima alla scala notai una sola porta aperta. Nessun rumore di lotta, anzi, nessun rumore di qualsiasi genere. Che fine aveva fatto Ron? Non poteva essere morto…o sì? E il cane? Era in agguato? Era fuggito?

Quasi in risposta alle mie domande inespresse, udii la voce di Harry: “Ron stai bene?” e subito dopo quella di Hermione: “Dov’è il cane?”.

La risposta di Ron fu un gemito di sofferenza: “Non è un cane… Harry, è una trappola… è lui il cane… è un Animagus!”.

Prima ancora che il mio cervello potesse registrare le implicazioni di quelle parole, la porta in cima alle scale si chiuse di colpo, ed una quarta voce, cavernosa, simile al ringhio di un cane, gracchiò: “Expelliarmus!”.

Sentii come una coltre di gelo scendermi lungo la schiena. Non avevo mai sentito quella voce, ma non avevo il minimo dubbio: sapevo a chi apparteneva. Era certamente una trappola, ed Harry ci era caduto in pieno. Era chiuso dentro la stanza in cima alle scale insieme a Ron ed Hermione, con ogni probabilità erano tutti disarmati, e con loro c’era Sirius Black!

Stavo per precipitarmi a valanga su per le scale, ma mi trattenni quasi a forza: gli strani dubbi che mi erano venuti su Black potevano andare a farsi fottere, lui rimaneva un pluriomicida evaso dal carcere, e adesso armato. Piombare nella stanza senza riflettere era tutt’altro che una buona idea.

Cercando di fare meno rumore possibile, salii al piano di sopra, accostandomi alla porta con la massima delicatezza e le orecchie tese. Il ‘Senso di Ragno stava letteralmente urlando, ma non riuscivo minimamente a distinguere le diverse sensazioni. Non che ne avessi bisogno: sapevo che ai miei tre amici restavano, con ogni probabilità, solo pochi minuti di vita, e che forse ero la loro unica possibilità.

 

Bene, potete fulminarmi ora! Vi lascio in pieno climax! Come andranno le cose? Josh si getterà avanti lancia in resta oppure la storia seguirà il suo corso? Prometto che già domani inizierò a lavorare al prossimo capitolo!

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Capitolo 12
*** Capitolo Undici ***


CAPITOLO UNDICI

Con la bacchetta stretta nella mano sudata, avvicinai un orecchio alla porta. Sapevo che la situazione era a dir poco complicata: tutta la mia baldanza, la mia convinzione di essere piuttosto abile, si stavano letteralmente sciogliendo nella consapevolezza di essere ad una sottile barriera di legno di distanza da un mago adulto, che aveva chiaramente dimostrato di essere più che capace di uccidere. Non mi ero mai sentito così tanto un tredicenne, né avevo desiderato tanto di riavere il corpo di un uomo di venticinque anni. Avevo l’orrenda tentazione di fuggire: non mi ero mai ritenuto un eroe dall’altra parte, ero sempre stato una persona che aveva tentato di tenersi, per quanto possibile, fuori dai guai. Se qualcosa nella mia mente continuava a rammentarmi che dovevo essere esattamente lì, che la mia presenza era richiesta lì (ed ormai iniziavo a capire il perché), altre porzioni del mio cervello, quelle maggiormente legate all’istinto di conservazione, inneggiavano ad una rapida e decisiva ritirata. Mentre guardavo la mia mano e la vedevo tremare leggermente, sentii la voce di Ron attraverso la porta: “Se vuoi uccidere Harry, dovrai uccidere anche noi!” seguita da una gutturale risposta: “Stenditi, hai la gamba rotta”. Mi immaginai Ron, probabilmente con Hermione a fianco, che faceva da scudo a Harry con il suo corpo, reggendosi a stento sull’unica gamba sana. Valoroso, pazzo Ron Weasley! Fu questo, più di ogni altra cosa, a trattenermi dallo scendere la scala a gambe levate e defilarmi nel tunnel: avevo ancora paura, ma non potevo abbandonare quei ragazzi al loro destino. Dovevo scegliere il momento giusto per la mia entrata in scena, cercando di cogliere completamente di sorpresa Black.

“Mi hai sentito? – riprese la voce di Ron, resa ovattata dal legno – Dovrai ucciderci tutti e tre!”.

“Qui morirà una sola persona questa notte” ribatté la voce di Black.

“Perché? – chiese una terza persona, dal cui tono si intendeva una rabbia esplosiva – L’ultima volta non ti sei fatto molti problemi ad uccidere tutta quella gente! Ti sei rammollito con gli anni?”.

Compresi che era Harry, e dalle sue parole era facile intuire che era molto, molto vicino a fare qualcosa di stupido. Se volevo intervenire, dovevo farlo in fretta. Ma come? Probabilmente la cosa migliore era piombare dentro facendo tutto il rumore possibile, in modo da far rimanere Black stupefatto per quei pochi secondi che mi avrebbero forse concesso la possibilità di colpirlo. Un bell’Incantesimo Esplosivo contro la porta…no, meglio ancora, un Incantesimo di Esilio alla massima potenza! Era la cosa migliore che potevo fare! Con un po’ di fortuna la grossa tavola di legno avrebbe travolto Black, se aveva chiuso la porta probabilmente era davanti ad essa. Altrimenti, vederla volare attraverso la stanza lo avrebbe distratto abbastanza a lungo da farmi prendere la mira. Avrei avuto soltanto un’opportunità, lanciare un incantesimo mi avrebbe reso nuovamente visibile. Dovevo disarmare Black, provare a stenderlo…o fare di peggio? Era un assassino, un traditore, uno spergiuro, eppure…

“Harry, stai zitto!”. Questa volta era una voce di ragazza, rotta dal terrore. Hermione. Trassi un profondo respiro, e sollevai la bacchetta. Non c’era più tempo, ogni momento poteva essere quello scelto da Black per uccidere l’ultimo dei Potter…

La casa sembrò essere scossa da un ruggito: “HA UCCISO I MIEI GENITORI!”. Subito dopo, il caos: colpi violenti, uno schianto contro il muro accanto alla porta, urla, strepiti, e in mezzo il miagolio rabbioso di Grattastinchi. Sembrava che nella stanza fosse esplosa una violenta rissa. Imprecai silenziosamente contro il coraggio insensato di Harry: non serviva eccessiva fantasia per capire che doveva aver aggredito rabbiosamente Black. Un gesto valoroso quanto folle e che, senza che il mio amico potesse saperlo, aveva reso virtualmente impossibile l’intervento che avevo programmato: non potevo scaraventare la porta dentro la stanza mentre lì dentro quattro persone ed un gatto si stavano picchiando, avrei corso seriamente il rischio di colpire uno dei miei compagni. A quel punto, avrei fatto meglio ad aprire l’uscio più silenziosamente possibile, sperando nel caos perché Black non lo notasse, e prendermi un paio di secondi per valutare la situazione prima di lanciare un incantesimo.

Stavo per abbassare la maniglia, quando un ruggito di Harry sovrastò la confusione all’interno della stanza: “TOGLIETEVI DI MEZZO!”. Seguì un breve silenzio che mi trattenne dal muovermi, il cervello svuotato, mentre cercavo di capire cosa stesse succedendo, poi un sussurro appena percepibile arrivò alle mie orecchie: “Vuoi uccidermi, Harry?”.

Fu come se il muro fosse improvvisamente divenuto trasparente. Nella mia mente esplose una scena, nitida come se la stessi vedendo da un metro di distanza: Black a terra, semiappoggiato alla parete, ed Harry torreggiante sopra di lui, la bacchetta puntata contro il suo petto, rabbia e vendetta a lampeggiargli negli occhi. Contro ogni possibile previsione, ora era il mio amico ad avere il controllo degli eventi…ad avere il potere di vita e di morte su Black.

Una tempesta si scatenò dentro di me, mentre a stento udivo Harry rinfacciare all’uomo i suoi crimini, e quello chiedere di essere ascoltato, ed affermare che se il ragazzo lo avesse ucciso senza sentire la sua versione dei fatti lo avrebbe rimpianto. Che cosa dovevo fare? Non lo sapevo più. Se al mondo esisteva un uomo che meritava veramente di morire, quello era Sirius Black. E se c’era una persona che possedeva il diritto di togliergli la vita, quello era Harry Potter. Infatti, una grossa porzione del mio cervello mi diceva di restare esattamente dov’ero, che io non ero nessuno per togliere al mio compagno il diritto di vendicare i suoi genitori, che se fossi stato al suo posto non avrei assolutamente voluto che qualcuno si intromettessi. Dall’altra, però, una seconda voce mi intimava di entrare nella stanza ed impedire che l’incantesimo di Harry partisse: non solo mi ricordava che il mio amico aveva solo tredici anni, e che un omicidio a sangue freddo, per quanto giustificato e momentaneamente soddisfacente, lo avrebbe con ogni probabilità perseguitato per il resto della sua vita, ma mi rammentava anche tutti i dubbi che avevo avvertito nei confronti di Sirius Black. Quella parte del mio subconscio praticamente stava urlando che Harry stava per commettere un terribile errore, benché senza spiegarmi la ragione, e cercava di spingermi ad entrare e ad impedire che venisse scagliato il colpo mortale.

E poi c’era una terza voce. Non avrei saputo dire da dove provenisse, ma la riconobbi subito: era la stessa, misteriosa forza che mi aveva guidato per tutta la sera, quasi controllandomi, che mi aveva spinto fino lì. Quella strana guida sembrava concordare sul fatto che la morte di Black sarebbe stata un errore, ma allo stesso tempo mi invitava a non muovermi. In qualche modo, dentro di me si diffuse la certezza che tutto sarebbe andato nel modo giusto anche senza il mio intervento. E, in effetti, sembrava che Harry non riuscisse a decidersi: erano passati parecchi secondi, e non aveva ancora colpito. Nonostante la rabbia e il dolore che doveva provare, togliere la vita ad uomo disarmato e atterrato doveva essere difficile per lui quanto scalare un’alta montagna.

Nel silenzio della casa, i passi ovattati al piano di sotto risuonarono come una valanga, e furono immediatamente seguiti dalla voce squillante di Hermione: “Siamo quassù! C’è Sirius Black! Presto!”. Una figura apparve sulle scale, iniziando a salirle a rotta di collo. Istintivamente, mi allontanai dalla porta. Era il professor Lupin, il volto precocemente invecchiato deformato da una maschera di tensione, la bacchetta pronta in mano.

La porta si spalancò in una esplosione di scintille, e per la prima volta vidi l’interno della stanza con gli occhi del corpo: Black, pesto e sanguinante, era riverso al suolo, con Grattastinchi protettivamente in piedi sul suo petto, mentre Harry era in piedi a meno di un metro da lui, la bacchetta ancora sollevata. Hermione era in piedi al suo fianco con due bacchette strette in mano. Ron, livido per il dolore causato dalla gamba fratturata, era accasciato su un vecchio letto a baldacchino. Lupin piombò nella camera e gridò: “Expelliarmus!”.

Le bacchette di Harry, Ron ed Hermione schizzarono in aria, ed il professore le afferrò al volo. Ricominciai a respirare con maggiore regolarità: era finita. Black sarebbe stato nuovamente arrestato. Per l’ennesima volta, mi chiesi perché questa prospettiva non mi suonasse affatto bene.

Compresi che qualcosa non tornava non appena Lupin pronunciò le prime tre parole: “Dov’è, Sirius?”. Che razza di domanda era da fare? Dov’era chi?

La porta, spinta dalla stessa violenza della sua apertura, si era parzialmente richiusa, lasciando solo uno spiraglio, sufficiente però da lasciarmi libera la visuale di Sirius Black. Lentamente, l’uomo sollevò un braccio e indicò qualcosa che io non potevo vedere. Dalla direzione del suo dito, intuii che potesse trattarsi del letto sul quale giaceva Ron. Ero sempre più confuso, e le successive parole di Lupin non mi aiutarono certamente a chiarirmi: “Ma allora… perché non si è rivelato finora? A meno che… non fosse lui… a meno che non vi siate scambiati… senza dirmelo?”. Vidi Black annuire.

Quello che stava accadendo non aveva alcun senso per me: di cosa Merlino stava parlando il professore? Perché non si limitava a neutralizzare Black? Passarono alcuni istanti, poi vidi qualcosa che mi fece pensare di essere impazzito: attraverso la porta semichiusa, vidi Lupin avvicinarsi all’evaso, aiutarlo a rialzarsi e abbracciarlo.

Descrivere la sensazione che provai in quel momento sarebbe impossibile, perché in realtà provai due impressioni diverse e contrastanti, entrambe della durata di un solo istante, entrambe chiare e nette. Da una parte mi sembrò che una grossa porzione del mondo mi fosse appena crollata addosso: avevo provato una stima enorme per Lupin, come uomo e come insegnante, e vederlo improvvisamente complice di un assassino fu un colpo durissimo, così come lo fu la consapevolezza di ciò che significava: improvvisamente nella stanza c’erano due maghi adulti, ostili ed armati, e tre ragazzi inermi. Io ero il solo ad avere una bacchetta, ma se attaccare Black mi era già sembrata un’impresa difficile, vedermela con lui e Lupin allo stesso tempo tendeva decisamente verso l’impossibile. Sentivo di aver commesso un errore: qualsiasi forza mi avesse portato fin lì, dovevo averla interpretata nel modo sbagliato. Ero rimasto ad aspettare quando sarei dovuto intervenire, e improvvisamente il mio intervento aveva ottime probabilità di servire soltanto ad aggiungere un quarto cadavere ai tre che, lo temevo, presto avrebbero occupato la camera. Sarei probabilmente saltato dentro lo stesso, se non ci fosse stata la seconda sensazione: era come se qualcuno – o qualcosa – mi stesse sussurrando parole rassicuranti in un’orecchio, spiegandomi che tutto sarebbe andato esattamente come doveva andare.

L’urlo indignato di Hermione esplose nella stanza: “NON CI CREDO!”.

La ragazza sembrava letteralmente sconvolta, e le sue urla sovrastarono ampiamente i tentativi di Lupin di offrire spiegazioni: “Io l’ho coperta! Non l’ho detto a nessuno!”. Ai suoi strilli si aggiunsero quelli di Harry: “Io le credevo, e lei è sempre stato suo amico!”.

“Ti sbagli – rispose Lupin – Non sono stato amico di Sirius per dodici anni, ma ora lo sono. Lascia che ti spieghi…”.

Hermione sbottò di nuovo: “Harry, non credergli! Ha aiutato Black ad entrare nel castello, ti vuole morto anche lui! E’ un Lupo Mannaro!”.

Fu come se una rupe fosse crollata nel mio cervello: il professor Lupin… un Lupo Mannaro? Era una follia… oppure no? Improvvisamente ricordai la strana sensazione che avevo sempre provato vicino a lui, l’impressione che dietro quel volto gentile quanto segnato ci fosse qualcosa di più… possibile che…

Fu la voce dello stesso Lupin a confermare il tutto: “Questa volta non sei all’altezza di te stessa, Hermione. Ne hai azzeccata una su tre. Non ho aiutato Sirius ad entrare ad Hogwarts e di sicuro non voglio vedere Harry morto, ma non negherò di essere un Lupo Mannaro”.

Non riuscii a seguire lo scambio di battute successivo. Ero esterrefatto. Avevo imparato ad ascoltare il mio “Senso di Ragno”, e fino a quel momento non aveva mai sbagliato, ma su Lupin sembrava aver preso una clamorosa cantonata: pur avvisandomi che nel professore c’era qualcosa di strano, non mi aveva suggerito alcun segnale di allarme. Eppure eccolo lì: una Creatura Oscura, fianco a fianco ad un pluriomicida. E se aveva sbagliato una volta, forse anche l’invito che sembrava sussurrarmi riguardo il non intervenire poteva essere sbagliato, forse i miei amici erano a pochi istanti da una morte orribile, forse avrei dovuto ignorare le conseguenze e piombare nella stanza…

Ancora una volta, fu l’urlo di Harry a bloccare le mie riflessioni: “LEI LO HA SEMPRE AIUTATO!”.

Nonostante la tensione, la risposta di Lupin fu calma e pacata: “Non ho aiutato Sirius. Se me ne date la possibilità, ve lo spiegherò. Guardate – e, con mia somma sorpresa, attraverso lo spiraglio lo vidi lanciare tre delle quattro bacchette che aveva in mano in altrettante direzioni diverse, probabilmente verso i loro legittimi proprietari, per poi infilare la sua nella cintura – Voi siete armati, noi no. Ora volete ascoltare?”.

Ebbi la fugace tentazione di approfittare dell’occasione per piombare nella camera e porre fine a quell’assurda situazione: Lupin non avrebbe mai avuto il tempo di estrarre nuovamente la sua arma, avrei potuto legare sia lui che Black prima di subire qualsiasi contrattacco. Una forza imperiosa, però, mi trattenne: sentivo, sapevo, di dover ascoltare qualsiasi cosa l’uomo avesse da dire. Dovevo sentire. Dovevo capire. Era come se tutta la mia vita fosse stata finalizzata a questo unico scopo.

“Se non l’ha aiutato – chiese Harry – Come faceva a sapere che era qui?”.

“La Mappa del Malandrino – rispose Lupin – La stavo guardando nel mio studio…”.

Il mio cervello registrò a malapena l’informazione che Lupin, con il nome di Lunastorta, era stato uno dei disegnatori della Mappa, perché un brivido freddo, come un secondo Incantesimo di Disillusione, mi aveva appena attraversato la schiena. Harry mi aveva mostrato la Mappa del Malandrino settimane prima, mi aveva fatto vedere come funzionava, e mi aveva detto che il Professor Lupin l’aveva sequestrata. Se il Lupo Mannaro aveva controllato la mappa, doveva sapere che anche io ero lì! Se aveva visto Black, doveva aver visto anche me! La mia invisibilità era perfettamente inutile.

No, un momento. Lupin mi era passato accanto di corsa senza considerarmi minimamente. Aveva disarmato i miei tre amici non mostrando in alcun modo di temere un attacco alle spalle. Aveva aiutato Black, aveva riconsegnato le bacchette e messo via la propria, e non aveva dato alcun segno di essere a conoscenza della presenza di un’altra persona. Era impossibile che non avesse notato un piccolo cartiglio con la scritta ‘Joshua Carter’ vicino agli altri.

Questo lasciava una sola, per quanto assurda, spiegazione: non mi aveva visto perché io non c’ero! La Mappa non aveva mostrato la mia presenza! Forse l’Incantesimo di Disillusione mi aveva nascosto? No, proprio in quel momento Lupin stava dicendo di aver visto Harry e gli altri sotto il Mantello dell’Invisibilità. Forse la mia strana condizione di ‘pendolare’ tra due mondi interferiva con il potere dell’artefatto? Neanche, quando Harry mi aveva mostrato la Mappa mi ero visto, e per fortuna, altrimenti avrei avuto il mio bel da fare per spiegare al ragazzo il motivo della mia assenza, quando ogni essere vivente presente ad Hogwarts, incluso Pix il Poltergeist, vi apparivano. No, la Mappa normalmente registrava la mia presenza, ma non quella sera. Quella sera qualcosa doveva aver interferito. Un secondo brivido mi colpì: per qualche ragione, la Forza che mi aveva condotto fin lì voleva che nessuno sapesse della mia presenza. Pazzesco, ma in qualche modo logico. Avvertii una punta di mal di testa cercare di farsi strada tra le mie cellule grigie, ma venne scacciato da una frase di Lupin, che all’improvviso sovrastò ogni altro pensiero: Lupin aveva detto che, al ritorno dalla capanna di Hagrid, con i tre ragazzi c’era qualcun altro, e che subito dopo Black aveva trascinato all’interno del Platano Picchiatore due di loro. Ma non era così, ero perfettamente d’accordo con la furiosa puntualizzazione di Ron: io avevo visto tutto, i ragazzi erano in tre, non c’era nessuno con loro, e Black aveva afferrato soltanto il rosso.

No’.

Non fui in grado di dire se fu la mia mente a formulare questo pensiero, oppure se qualcos’altro si prese la briga di suggerirmela. Non sono mai stato uno sciocco, sapevo di avere una mente abbastanza analitica, quindi è possibile che il collegamento fosse farina del mio sacco, ma considerando che buona parte dei dati necessari mi erano piombati in testa per mezzo del mio ‘Senso di Ragno’, era molto difficile distinguere una cosa dall’altra. In ogni caso, il risultato non cambiava, perché il collegamento era arrivato a prescindere dalla sua origine: non avrei saputo dire niente riguardo alla strada percorsa dai ragazzi sotto il Mantello dell’Invisibilità, ma quando Ron era stato trascinato dentro il tronco da Black trasformato in cane non era esattamene solo. Ma non era possibile, non poteva trattarsi di lui… eppure… tutti i miei dubbi, tutte le mie sensazioni, tutte le ore passate a farmi domande mentre non riuscivo a prendere sonno… ma insomma, non poteva essere! La Mappa non mostrava gli animali! Se davvero fosse apparso, avrebbe significato…

Le parole di Lupin confermarono i miei sospetti: “Credi che potrei dare un’occhiata al tuo topo?” chiese a Ron.

“Cosa c’entra Crosta?”.

“Tutto. Posso vederlo, per favore?”.

Mentre Ron tirava fuori da sotto gli abiti il topo, che sembrava sull’orlo di una crisi isterica e cercava in tutti i modi di fuggire, un vero e proprio fulmine sembrò attraversarmi il cranio: mai il mio ‘Senso di Ragno’ mi aveva lanciato un segnale così violento. Vedendo l’animale, fui certo, senza nessuna ragione riconoscibile o immaginabile, che Lupin avesse ragione: Crosta era veramente il centro di tutto. Come? Era una domanda per il momento senza risposta, ma furono Lupin e Black a fornirmela nei secondi successivi.

“Quello non è un topo” disse l’evaso, e dopo le proteste di Ron l’insegnante confermò con la frase più assurda che potessi immaginare, e che nonostante questo mi sembrò follemente plausibile: “No, non è un topo, è un mago”.

“Un Animagus – ringhiò Black con una furia a stento repressa – di nome Peter Minus”.

Boom! Fu come se nella mia testa fosse esploso un ordigno nucleare, ed i pensieri schizzarono in ogni direzione come detriti. A stento registrai il rabbioso tentativo di Black di lanciarsi sul topo, faticosamente bloccato da Lupin, e le successive spiegazioni del professore, che raccontava come fosse stato morso da piccolo da un Lupo Mannaro, come fosse riuscito a frequentare la scuola grazie all’intercessione di Silente, come il Platano Picchiatore fosse stato piantato appositamente per coprire l’ingresso del tunnel verso la Stamberga Strillante dove veniva portato durante le trasformazioni, in un tempo nel quale non esisteva ancora la Pozione Antilupo, e di come i suoi migliori amici, cioè James Potter, Sirius Black e Peter Minus, avessero scoperto il suo segreto ed avessero deciso di imparare a trasformarsi in Animagi per poter essere al suo fianco mentre era pericoloso per qualsiasi essere umano. Nonostante fossero le spiegazioni per molti dei dubbi che avevo accumulato nel corso degli ultimi mesi, quel solo nome li aveva improvvisamente resi secondari, aveva mandato a posto tutti i pezzi fondamentali del puzzle, creando un’immagine fin troppo comprensibile e spiegando le notti insonni che avevo passato chiedendomi quale segreto si nascondesse dietro Crosta e Minus e le ragioni per le quali quei due nomi, apparentemente privi di qualsiasi plausibile legame, continuassero a occupare insieme i miei pensieri. Un topo morto ed un mago altrettanto morto non avrebbero dovuto avere alcun rapporto con il presente, eppure eccolo, chiaro come il giorno. Tutte le spiegazioni di Lupin erano per me completamente inutili, sapevo che aveva ragione. La voce che per tutta la sera mi aveva sussurrato quello che avrei dovuto fare, la strada che avrei dovuto seguire, in quel momento stava letteralmente urlando: non mi servivano prove, sapevo che Peter Minus non era morto, sapevo che avevo avuto ragione nel dubitare della storia sui crimini di Black, sapevo che il mago ufficialmente saltato in aria tredici anni prima era in quella stanza, nelle mani di Ron, nascosto sotto le sembianze di uno spelacchiato roditore. Il perché di tutto questo mi era ancora completamente ignoto, ma sapevo che lo avrei scoperto presto.

Fu probabilmente questa vera e propria tempesta di pensieri a impedirmi di notare che qualcosa di strano stava accadendo nelle mie immediate vicinanze: qualche parte del mio cervello probabilmente sentì lo scricchiolio della scala e del pianerottolo, avvertì una presenza passare a pochi centimetri da me, vide la porta aprirsi leggermente, ma il mio intero io conscio ignorò questi fatti.

Quando la mia concentrazione tornò, Lupin stava raccontando di come un altro ragazzo, oltre ai suoi tre amici, avesse scoperto il suo segreto: Piton, che era il rivale dichiarato di James Potter e Sirius Black, e al quale quest’ultimo aveva fatto un terribile scherzo, facendolo arrivare alla Stamberga Strillante proprio quando Lupin era trasformato, venendo a stento salvato proprio da James.

“Allora è per questo che lei non piace a Piton, perché credeva che fosse complice dello scherzo?” chiese Harry.

“Esattamente”.

Sobbalzai: quella voce non apparteneva né a Lupin né a Black! Girai la testa così velocemente da farmi male al collo: in piedi, accanto alla porta, il mantello dell’invisibilità di Harry buttato sul braccio, c’era Piton, con la bacchetta puntata contro Lupin. Come diavolo aveva fatto ad entrare senza essere notato? Solo in quel momento mi resi conto degli strani rumori che avevo sentito meno di un minuto prima, e mi detti mentalmente dell’idiota per non averci fatto caso. La situazione si era improvvisamente complicata a livelli inimmaginabili.

“L’ho trovato alle radici del Platano Picchiatore – disse Piton gettando di lato il Mantello – Molto utile, Potter, grazie”.

Mentre Piton spiegava di essere entrato nello studio di Lupin per portargli la Pozione Antilupo e di aver visto la scena sulla Mappa del Malandrino rimasta aperta, io cercavo di riflettere: Piton odiava quei due uomini, ma non era un idiota completo, avrebbe ascoltato, avrebbe compreso… no, speranza vana, stava bloccando sul nascere ogni tentativo dell’altro insegnante e di Black di chiarire le cose. Con un bang, vidi delle corde uscire dalla sua bacchetta e legare strettamente Lupin. Black provò a farsi avanti, ma la bacchetta puntata di Piton lo bloccò: “Dammi solo una scusa, e ti giuro che lo farò” sussurrò maleficamente.

Le cose stavano sfuggendo di mano, lo rendevano chiaro le urla con le quali Piton azzittì un tentativo di Hermione di farlo ragionare: quell’uomo era ubriaco di vendetta, il suo solo desiderio era distruggere le due persone che gli avevano fatto del male da ragazzo. Per un attimo pensai che da quella situazione potesse venir fuori qualcosa di buono: se Piton avesse condotto i due prigionieri e i ragazzi al castello… Ron avrebbe portato Crosta con se… Silente avrebbe ascoltato con equità, avrebbe verificato, e se la follia della quale ero tanto convinto si fosse rivelata vera… no, di nuovo tutto andò a farsi benedire in un lampo. Piton non aveva intenzione di portare Black al castello, bensì direttamente dai Dissennatori che stazionavano agli ingressi. Quando citò il ‘bacetto’ che probabilmente gli avrebbero dato, rabbrividii: avevo letto sul libro di Difesa contro le Arti Oscure del Bacio del Dissennatore, sapevo che avrebbero letteralmente strappato l’anima a Black, gliela avrebbero risucchiata dalla bocca. Un destino peggiore della morte. Avrei rabbrividito ad una simile pena anche se fossi stato certo della colpevolezza di Black, ed in quel momento, pur non avendo ancora uno straccio di prova, ero sempre più convinto, piuttosto della sua innocenza.

Per la terza volta dall’inizio di quella assurda avventura, mi chiesi se fosse il caso di intervenire. Come non mi aveva visto Lupin, anche Piton non poteva aver individuato il mio nome sulla Mappa del Malandrino, quindi non sapeva che io mi trovavo lì, invisibile, a pochi metri dal suo fianco. Potevo colpirlo prima che se ne rendesse conto, disarmarlo, legarlo… e poi? Un groppo mi si formò in gola: potevo anche essere una sorta di viaggiatore interdimensionale con una missione fondamentale a me stesso ancora sconosciuta, ma in quel luogo e in quel momento ero un semplice studente di tredici anni che stava considerando la possibilità di aggredire un professore. Se avessi davvero attaccato Piton, con ogni probabilità avrei passato dei guai immensi. Scartai questo pensiero: considerando le conclusioni alle quali ero giunto, o meglio, alle quali era giunto il mio ‘Senso di Ragno’, i problemi che poteva crearmi Piton erano a dir tanto secondari. Istintivamente alzai la bacchetta, ed avevo già l’Incantesimo di Disarmo sulle labbra quando qualcosa sembrò decidere di fermarmi: difficile dire cosa fosse, ma una sensazione si impadronì di me, e ancora una volta la voce misteriosa sembrò sussurrarmi senza parole di aspettare, che non era il momento, che tutto sarebbe andato nel modo giusto anche senza il mio intervento. Reagii quasi con irritazione: come poteva andare bene se Piton stava già ordinando a tutti di muoversi, quando lui era l’unico armato e non sembrava assolutamente disposto a ragionare? Forse questa volta la strana ‘Forza’ che mi aveva guidato fino a quel momento stava prendendo una cantonata.

Stavo nuovamente sollevando la bacchetta, quando Harry mi anticipò: attraversò la stanza e si mise davanti alla porta, a poco più di mezzo metro da me. Trattenni quasi il respiro: era talmente vicino da poter sentire il mio fiato sulla schiena.

“Levati di torno, Potter – sibilò Piton – Sei già abbastanza nei guai. Se non fossi intervenuto io a salvarti…

“Il professor Lupin avrebbe potuto uccidermi cento volte quest’anno, sono stato solo con lui per ore. Se davvero stava aiutando Black, perché non lo ha fatto?”.

“Non chiedermi di immaginare come funziona la mente di un Lupo Mannaro. Togliti!”.

A quel punto Harry letteralmente esplose: “LEI E’ PATETICO! SOLO PERCHE’ LA PRENDEVANO IN GIRO A SCUOLA NON INTENDE NEANCHE ASCOLTARE!”.

Anche la voce di Piton raggiunse un livello altissimo: “NON PERMETTERTI DI PARLARMI COSI’! Sei come tuo padre, troppo arrogante per pensare che potresti esserti sbagliato su Black! Dovresti ringraziarmi in ginocchio per averti salvato! E ora togliti dai piedi, o ti ci spedirò io!”.

Vidi la follia nel volto di Piton, e seppi che avrebbe dato corso alla sua minaccia. Silenziosamente mi spostai di lato, pronto ad attaccare, ma Harry mi anticipò di nuovo: veloce come un fulmine, alzò la bacchetta ed urlò: “Expelliarmus!”.

La sua non fu la sola voce ad urlare, e ben tre lampi di luce rossa centrarono in pieno Piton, che fu scagliato violentemente contro il muro e collassò a terra, un rivolo di sangue che gli scorreva trai capelli. La sua bacchetta schizzò in aria e atterrò sgraziatamente sul letto Guardai in giro per la stanza: Hermione e Ron avevano colpito nello stesso istante, e la forza combinata degli incantesimi era stata sufficiente a far fare all’insegnante un volo di diversi metri. Ero esterrefatto: ancora una volta la voce aveva detto che il mio momento non era giunto, ed anora una volta aveva avuto ragione!

“Non dovevate farlo – mormorò Black – Dovevate lasciarlo a me…” e si diresse verso Lupin, iniziando a slegare le corde. Non vedevo la faccia di Harry, visto che mi dava la schiena, ma notai che non aveva abbassato la bacchetta. Nonostante la sua scelta, non doveva essere del tutto convinto di aver fatto la cosa giusta. Ron, dopo aver lanciato l’incantesimo, era crollato di nuovo sul cuscino, dolorante per la gamba rotta, con Crosta ancora stretto al petto. Hermione, dal canto suo, sembrava prossima ad una crisi isterica: doveva aver improvvisamente realizzato l’enormità di quello che avevano fatto, e ne era terrorizzata.

Lupin si rialzò dolorante: “Grazie, Harry”.

“Non ho ancora detto che le credo” ribatté il ragazzo, spostandosi in un punto della stanza dal quale poteva tenere sotto tiro sia il professore che Black e lasciandomi, inconsapevolmente, il campo visivo interamente libero.

“Allora è giunto il momento di darti qualche prova – disse Black, per poi rivolgersi a Ron – Ragazzo, adesso dammi Crosta”.

Sentii improvvisamente la tensione arrivare a livelli che mai avrei immaginato: in qualche modo, avevo la certezza che ogni dubbio, ogni mistero, ogni incertezza, stessero per risolversi. Avevo la sensazione che il momento nel quale la ragione della mia presenza in quel mondo mi sarebbe stata rivelata si stesse avvicinando, e ne avevo paura.

Ci volle qualche minuto prima che Black e Lupin finissero di spiegare tutta la storia, e alla fine del loro racconto sentivo la mia testa sul punto di esplodere per l’eccesso di informazioni e per l’enormità di esse. Quello che avevano raccontato era assurdo e incredibile, al punto… da poter essere vero. Ogni punto della storia che avevo sentito raccontare da Cornelius Caramell, dalla McGrannitt e da Hagrid veniva rovesciato: Black aveva convinto i Potter a scegliere Minus come Custode Segreto, nel tentativo di ingannare Voldemort, ma lui li aveva traditi e venduti. Quando Black aveva capito l’accaduto, aveva dato la caccia a Minus, ma quando lo aveva trovato, in mezzo ad una città Babbana, lui gli aveva urlato che aveva tradito James e Lily, poi si era tagliato un dito per lasciare indietro qualcosa che facesse pensare che fosse morto, aveva fatto saltare in aria la strada tenendo la bacchetta dietro la schiena ed era scappato nelle fogne in forma di topo. Quel particolare mi colpì: di Minus era rimasto soltanto un dito, e una delle zampe davanti di Crosta ne aveva quattro! Coincidenza? Mi sembrava sempre meno probabile.

E non era finita, anche gli eventi di quell’anno assumevano un senso molto diverso alla luce del loro racconto. Black non era fuggito da Azkaban per cercare Harry, non era penetrato nel castello per uccidere Harry: aveva visto su un giornale lasciato nella prigione dal Ministro della Magia una foto della famiglia Weasley, aveva notato Crosta, aveva riconosciuto la forma Animagus del suo vecchio amico, ed era scappato per cercarlo, perché temeva per la vita di Harry, il suo figlioccio. Improvvisamene ricordai la notte nella quale si era introdotto nel nostro dormitorio, di come aveva passato tanto tempo ad analizzare Ron, senza cercare realmente di ucciderci. Al tempo mi ero convinto senza alcuna ragione che stesse cercando Crosta… avevo avuto ragione, dal primo istante.

Tutto tornava, tutto corrispondeva, nella storia dei due come nelle mie sensazioni. Mi voltai verso Harry: sul suo volto c’era il dubbio. Ancora non credeva del tutto, ma iniziava a chiedersi quanta verità ci fosse nell’apparente follia del racconto.

Alla fine fu Lupin a dare un taglio alle esitazioni: “Basta così. Possiamo dare una prova sicura di quanto è accaduto. Ron, dammi quel topo”.

“Che cosa intende fargli?”.

“Costringerlo a mostrarsi. Se è soltanto un topo, non gli accadrà nulla”.

Ron sembrava ancora esitante, ma alla fine si decise, e consegnò al professore un agitatissimo Crosta.

“Sei pronto, Sirius?” chiese Lupin. Black, che aveva raccolto la bacchetta di Piton, si avvicinò al vecchio amico: “Insieme?” chiese.

“Direi di si”.

Avvertii un cambiamento nell’atmosfera della stanza. Non era qualcosa di fisico, più che altro una differente atmosfera, più densa, più pesante. Qualcosa stava per succedere, ne ero più che sicuro.

I due uomini contarono fino a tre, poi due lampi di luce azzurra e bianca colpirono il topo. Crosta rimase per un attimo paralizzato a mezzaria, poi cadde a terra. Ci fu un secondo lampo di luce e…

Per la seconda volta quella sera, la mia mascella cadde di diversi centimetri, rimanendo spalancata per la sorpresa: avevo seguito i loro discorsi, sapevo quello che si aspettavano accadesse, ma tra immaginare e vedere c’era una differenza enorme.

Un attimo prima sul pavimento polveroso della camera c’era un roditore terrorizzato, e subito dopo era stato sostituito da un ometto basso dall’aria malaticcia, come se un tempo fosse stato grasso ed avesse perso molto peso in poco tempo. Doveva avere poco più di trent’anni, ma ne dimostrava come minimo dieci in più. I suoi capelli, di un colore indefinibile, erano arruffati e malridotti, e gli davano lo stesso aspetto spelacchiato del topo. Gli occhi acquosi emanavano vero e proprio terrore, e si giravano per la stanza a scatti, apparentemente in cerca di una via di fuga.

Mi voltai verso gli altri presenti. I tre ragazzi erano stupefatti, e questo era normale, dopo aver visto un topo trasformarsi all’improvviso in un essere umano, ma erano le espressioni di Black e Lupin ad essere esplicative: il primo lanciava lampi di collera a stento repressa, il secondo sorrideva, ma in fondo ai suoi occhi c’era rabbia, una furia perfino più terribile di quella del vecchio amico. Era più che abbastanza per capire che le loro aspettative si erano realizzate, e le successive parole dell’insegnante, pronunciate con un tono sorprendentemente affabile, furono soltanto una conferma: “Ciao, Peter. E’ da molto che non ci vediamo”.

 

 

 

Vi chiedo scusa, so che questo capitolo è poco più di un riassunto di cose che conoscete benissimo, solo viste da una prospettiva diversa, ma ho preferito fare così anziché saltare tutta la scena e ridurla ad una breve sintesi, sia perché rende meglio l’idea dei sentimenti di Joshua, sia nel caso qualcuno che magari ha visto solo i film stesse leggendo questa storia, e quindi non conoscesse bene le vicende dei Malandrini. Dal prossimo capitolo torneremo alla vera azione, promesso.

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Capitolo 13
*** Capitolo Dodici ***


CAPITOLO DODICI

Pochi minuti dopo l’improvvisa apparizione di Peter Minus, uno dei più insoliti gruppi di persone che avessi mai visto attraversò la porta della camera, passandomi a qualche centimetro ed iniziando a scendere le scale: Grattastinchi apriva la strada; lo seguivano Ron, con la gamba magicamente steccata, e Lupin, sui due lati di Minus, al quale erano legati con delle pesanti manette. Dietro di loro veniva il professor Piton, ancora svenuto, che Black faceva flutturare con la sua stessa bacchetta. Harry ed Hermione chiudevano il corteo. Li seguii in silenzio, ancora esterrefatto dagli eventi ai quali avevo assistito da quando il topo Crosta si era rivelato un essere umano ufficialmente morto da quasi tredici anni: le accuse mosse a Minus da Lupin e Black, i suoi disperati tentativi di difendersi, la confessione finale, la decisione dei due vecchi amici di ucciderlo. E, soprattutto, Harry, che si era imposto affinché lo risparmiassero e lo facessero arrestare. ‘Mio padre non avrebbe voluto che diventaste degli assassini’, aveva detto. Una decisione molto matura da parte di un ragazzo neanche quattordicenne che si era appena trovato di fronte la ragione per la quale era orfano.

Mentre camminavo verso il tunnel, mi sentivo allo stesso tempo soddisfatto e, in un certo senso, defraudato: le cose erano andate nel migliore dei modi senza il mio intervento. Ancora una volta, tornai a chiedermi che senso avesse avuto la mia presenza in quel luogo e in quel momento se tutto era andato al proprio posto prima che io avessi ragione di muovere un dito.

In un angolo della mia mente, però, una voce sussurrava ancora: sapevo che la storia non era finita, anche se non comprendevo in che modo le cose potessero andare storte.

“Sai cosa significa consegnare Minus?” fu la domanda che udii sollevarsi da Black in direzione di Harry mentre camminavano nel cunicolo.

“Che tu sei libero” rispose il ragazzo.

“Sì, ma… non so se nessuno te lo ha mai detto, ma io sono il tuo padrino”.

“Sì, lo sapevo” disse ancora Harry.

“Beh, i tuoi genitori mi avevano nominato tuo tutore, nel caso… beh, ovviamente posso capire se vuoi rimanere con i tuoi zii… ma… beh… se quando avranno riconosciuto la mia innocenza dovessi desiderare una casa diversa…”.

Harry sbatté la testa contro il soffitto per la sorpresa: “Vuoi dire…venire a vivere con te? Lasciare i Dursley?” esclamò.

“Certo, lo sapevo che non avresti voluto – si schermì Black – Capisco, credevo solo che…”.

“Ma sei matto? – disse Harry, la voce arrochita dalla gioia – Ma certo che voglio lasciare i Dursley! Tu hai una casa? Quando posso venire?”.

Dovetti trattenermi fisicamente dallo scoppiare a ridere alla genuina gioia del mio compagno di scuola: sapevo quanto detestasse i suoi zii, e quanto desiderasse una vera famiglia. Ora vedevo Black sotto una luce molto diversa: era un brav’uomo, Harry sarebbe stato felice vivendo la sua adolescenza insieme a qualcuno che potesse somigliare ad un vero padre.

Uscimmo dal foro sotto le radici del Platano Picchiatore non appena Grattastinchi ebbe premuto il nodo sul tronco, io appena tre o quattro metri dietro Harry ed Hermione. Le nubi coprivano ancora buona parte del cielo.

“Una sola mossa falsa, Peter” rammentò minacciosamente Lupin, puntando la bacchetta contro il petto dell’ex amico.

Avevano appena iniziato a risalire i prati verso il castello, quando le cose presero ad accadere molto in fretta: una nuvola si spostò rivelando la luna piena, il gruppo si bloccò ed il corpo di Lupin iniziò a tremare. Hermione lasciò partire un urlo strozzato: “Non ha preso la pozione stasera! Non è innocuo!”.

Con orrore, incapace anche solo di pensare di intervenire, vidi il professore trasformarsi velocemente, assumendo tratti animaleschi. Pochi secondi dopo, un Lupo Mannaro ringhiava contro Harry. Black si trasformò nell’enorme cane nero e lo impegnò in una dura lotta. Un attimo dopo Hermione urlò, e voltando la testa dalla scena del combattimento vidi Minus lanciarsi sulla bacchetta di Lupin, trascinandosi dietro Ron, incapace di reggersi sulla gamba malandata. Due lampi di luce dopo, il ragazzo e Grattastinchi giacevano a terra privi di sensi.

Expelliarmus!” urlò Harry, e Minus si ritrovò disarmato, ma non sembrò preoccuparsene troppo: un attimo dopo, si era già trasformato in topo, e stava fuggendo attraverso l’erba dei prati.

Fu un lampo: nell’istante esatto nel quale Minus schizzò via diretto verso la foresta qualcosa sembrò risvegliarsi dentro di me. Per la prima volta, non si trattò di una semplice sensazione o di un sussurro, non fu un pensiero apparentemente guidato da una Forza esterna, quella che udii fu una voce, chiara e distinta come se qualcuno mi stesse parlando a pochi centimetri dall’orecchio. Era una voce femminile, ma differente da qualsiasi altra avessi mai sentito nella mia vita. Era calda, gentile, e trasmetteva un grande senso di pace e serenità. Ciononostante, era anche straordinariamente decisa: “Ora! – mi disse – Adesso è il tuo momento, Joshua Carter! Vai!”.

Non ebbi minimamente bisogno di chiedermi che cosa intendesse: partii di corsa verso la foresta, dritto sulla scia di Peter Minus. Mi infilai tra gli alberi come un cavallo in corsa, ma dopo alcune centinaia di metri mi fermai. Sbuffando come una locomotiva, mi tolsi di dosso l’Incantesimo di Disillusione e mi appoggiai ad un albero, cercando di riprendere fiato e di mettere in ordine le idee. La voce mi aveva fatto capire perfettamente cosa dovevo fare, ma ancora una volta si era dimenticata di spiegarmi come: stavo cercando di inseguire un ratto all’interno di un intrico di alberi in piena oscurità. Era un’impresa impossibile, non ero un cane o una volpe, non potevo certo seguire una pista.

Un ricordo mi attraversò la testa, tanto improvviso da spingermi a domandarmi se fossi stato io a formularlo o se mi fosse stato suggerito: non potevo farlo? Le cose non stavano esattamente così. Rammentai una lezione di Incantesimi di alcuni mesi prima, poco dopo la fine delle vacanze natalizie: il professor Vitious ci aveva spiegato un piccolo, strano incantesimo, capace per breve tempo di incrementare le capacità olfattive di una persona al livello di quelle del miglior segugio. Al tempo avevamo riso tutti, chiedendoci quale utilità potesse mai avere una simile magia, a parte cercare tartufi senza l’ausilio di un cane. Avevamo addirittura fatto una battuta a Seamus, dicendogli che se avessimo provato ad utilizzare l’incantesimo nel nostro dormitorio, visto l’odore dei suoi calzini saremmo probabilmente morti tutti. Ci era sembrato uno scherzo. Sorrisi involontariamente: se non era destino quello, non avrei saputo come chiamarlo. Puntai la bacchetta direttamente contro il mio naso e mormorai: "Nidorum!".

La mia mente fu improvvisamente invasa da un cumulo incredibile di sensazioni: fu come entrare in una stanza nella quale erano in corso cento conversazioni differenti. Impiegai qualche secondo per capire che stavo registrando un cumulo di stimoli olfattivi mai sperimentato prima, simili ma allo stesso tempo diversissimi da quelli uditivi: sentivo il profumo dell’erba umida per la rugiada della notte, la resina dei tronchi, la terra morbida, l’odore di un’infinità di creature viventi diverse. Era inebriante, ma sapevo di dovermi sbrigare: l’incantesimo aveva una durata di pochi minuti, e io dovevo ancora individuare il mio obiettivo all’interno di quella cacofonia di stimoli. La memoria era la mia sola possibilità: era più che probabile che Minus non avesse ancora ripreso forma umana, una fuga come topo era molto più agevole, e io avevo passato dei mesi nello stesso dormitorio nel quale dormiva Crosta. Mi sforzai per ricordare il debole odore del roditore, e quando finalmente credetti di averlo ben chiaro in mente, trassi un profondo respiro. Per qualche istante credetti di essere sopraffatto dalla miriade di sensazioni che il mio cervello inesperto tentava di elaborare, poi la distinsi: davanti a me, leggermente spostato sulla destra, a non più di trecento metri di distanza… era odore di pelo di topo… e di paura.

Ripresi a correre, facendomi guidare dal mio naso, benché il mio superolfatto stesse già scemando. Minus era in vantaggio, ma io avevo gambe molto più lunghe e forti delle sue. Il problema sarebbe stato distinguere la minuscola figura del topo nel buio della foresta…

Invece no. Ancora una volta, pensai che qualcuno o qualcosa si stesse impegnando per aiutarmi, per piegare il destino quel tanto sufficiente a darmi una possibilità: all’improvviso arrivai al limite di una radura quasi circolare tra gli alberi, e a non più di quindici metri di distanza, perfettamente visibile nella luce della luna piena, c’era Minus, lanciato in una corsa disperata verso l’altro lato dello spiazzo.

Estrassi la bacchetta e appoggiai il braccio destro contro un tronco per prendere meglio la mira. Non era semplice centrare un topo nell’oscurità, ma ero certo di poterci riuscire.

Fu come se il tempo avesse rallentato fin quasi a fermarsi: vedevo le zampette di Minus muoversi freneticamente sull’erba bassa, mentre la punta della mia bacchetta lo seguiva. Sentivo che tutto ciò che avevo vissuto fino ad allora mi aveva portato a quel momento, e improvvisamente ebbi chiaro cosa la strana Forza voleva da me, a cosa mi aveva guidato: io dovevo fermare Minus. Definitivamente.

Se non fosse stato abbastanza chiaro, la voce che avevo sentito pochi minuti prima mi parlò di nuovo: “Devi farlo, Joshua – mi disse con gentilezza ma con grande decisione – Devi ucciderlo, adesso”.

Avvertii la mia mano tremare come una foglia nel vento, rendendomi difficile addirittura mantenere la mira. Sarebbe bastato un colpo solo… magari un Incantesimo Esplosivo, nel caso avessi sbagliato di poco sarebbe stato più che sufficiente per eliminare un topo… ma tra pensarlo e farlo passava parecchia strada: Minus era un traditore, Minus era uno spergiuro, Minus era un assassino… Minus era, di fronte alla mia bacchetta, un essere completamente indifeso. Quanto migliore di lui sarei diventato se davvero lo avessi ucciso a tradimento? Possibile che davvero fosse quella la ragione del mio incredibile viaggio, della mia vita ad Hogwarts, delle amicizie e degli affetti che avevo creato, di tutte le cose che avevo imparato? Prepararmi per compiere un omicidio al momento giusto?

“Lo so che è difficile – mormorò ancora la voce in tono rassicurante – Eppure lo devi fare, Joshua. Se Minus stanotte vivrà, molte persone soffriranno. L’oscurità calerà su tutto ciò che hai imparato ad amare. Solo tu hai il potere di evitarlo: la vita di Minus… per quelle di tanti altri. Fallo, Joshua… fallo, Matteo!”.

Scorretto, molto scorretto, Signora Voce. Quella presenza ultraterrena mi aveva appena caricato sulle spalle l’equivalente metaforico di un vero e proprio macigno. La cosa peggiore era che sentivo che stava dicendo la verità. Chiunque, o qualunque cosa fosse, doveva aver realmente visto gli eventi futuri, e mi stava trasmettendo un’immagine chiara e limpida come un lago di montagna: se a Minus fosse stato consentito di fuggire, qualcosa di terribile oltre ogni misura sarebbe avvenuto. Strinsi più saldamente la bacchetta: se doveva essere così, che fosse! Cercai di pronunciare l’incantesimo, ma la mia bocca si rifiutò di obbedire. Non potevo farlo, non in quel modo! Se lo avessi avuto davanti, anche lui con la bacchetta in mano, allora forse… ma in quelle condizioni era tutto inutile: non avevo l’istinto del killer, c’era poco da fare, e le più potenti e nobili motivazioni non sarebbero mai state sufficienti per spingermi a compiere un assassinio a sangue freddo. Non potevo uccidere Minus, ma poteva esserci un altro modo… potevo tentare di forzare un po’ la mano al destino. Non avevo mai creduto che tutto fosse scritto, le cose potevano essere cambiate! Potevo fermare Minus senza trasformarmi in un assassino, potevo mettere le cose a posto, forse potevo addirittura far scagionare Sirius dalle sue accuse, farlo tornare un uomo libero, restituire a Harry un pezzo di quella famiglia che non aveva mai avuto!

“Ti prego, Matteo! – supplicò la Voce, che doveva aver ‘sentito’ i miei pensieri e la mia decisione – Non farlo! Le tue intenzioni sono nobili, ma stai correndo un rischio terribile! La vita di un traditore omicida vale quelle che metterai in pericolo per seguire la linea che vuoi scegliere?”.

Un groppo mi si formò in gola, ma scacciai quelle parole: forse aveva ragione, ma se era così, la Voce aveva scelto la persona sbagliata. Matteo Simoncini non poteva agire in quel modo, e neanche Joshua Carter. ‘Il destino non è scritto’, mi ripetei ancora, e mi convinsi definitivamente: avrei fatto le cose a modo mio, ed avrei ottenuto lo stesso risultato senza che le mie mani si sporcassero di sangue inerme, se non certamente innocente.

Spostai la punta della bacchetta di qualche centimetro e urlai: “Tonare!”.

Il potente Incantesimo Esplosivo sprizzò dalla punta come un fiotto di luce arancione ed andò a schiantarsi due metri davanti al topo, provocando uno scoppio fragoroso ed aprendo un piccolo cratere nel terreno. Minus venne scaraventato indietro, ma si risollevò immediatamente, alzandosi sulle zampe posteriori ed iniziando a voltare freneticamente la testa nel tentativo di capire da dove fosse arrivato l’attacco prima di riprendere la fuga.

“Non muoverti, Minus! – urlai con la voce più dura che fui capace di emettere – Se ti azzardi a fare soltanto un altro passo, ti giuro su Merlino in persona che ti faccio saltare in aria! Tu sei piccolo, ma io ho un’ottima mira, quindi non fare stupidaggini!”.

Il topo si paralizzò sul posto, tremante. Lentamente voltò la testa nella mia direzione, e perfino da quella distanza vidi il terrore nei suoi occhi, ma non osò tentare di scappare.

“Bene, vedo che hai capito – continuai, uscendo dalla linea degli alberi, sempre tenendo la bacchetta puntata contro di lui – Se fai esattamente quello che ti dico, è possibile che tu riesca a vedere il sole di domani. Per prima cosa, torna immediatamente umano!”.

Vidi il topo rimanere interdetto per qualche secondo, come se stesse soppesando le possibilità che avrebbe avuto di fuggire prima di essere ridotto in polvere, poi ci fu un piccolo scoppio di luce, e Peter Minus, a quattro zampe, giacque sul terreno della radura. Faticosamente, quasi come se le gambe si rifiutassero di reggerlo, si trascinò in piedi: “C…Chi sei? P…perché ce l’hai con me?” chiese con voce tremante.

Il mio volto si deformò in una smorfia cattiva: “Se proprio ti interessa, mi chiamo Joshua Carter, ma in questo momento puoi considerarmi il tuo peggiore incubo. Le mie motivazioni sono unicamente mie, ma credo che non serva molto per trovare dei buoni motivi per avercela con te, sporco assassino!”.

Credetti che a Minus sarebbe venuto un infarto: non riusciva a smettere di tremare, né a staccare gli occhi dalla bacchetta puntata contro il suo petto. Ormai ero a meno di cinque metri da lui. Mi fermai.

“C…che cosa vuoi?” chiese ancora a fatica.

“Una domanda interessante. Quello che vorrei veramente, con ogni probabilità, è vederti morire urlando, ma non sono un macellaio come te. Quindi ti dico quello che succederà adesso: tu ti avvierai verso il castello, camminando davanti a me. Se solo ti azzardi a tentare di fuggire, oppure a trasformarti nella tua forma Animagus, se vedo spuntare anche solo un baffo, ti ritroverai nella schiena un buco grosso come una Pluffa. Una volta arrivati ad Hogwarts, andremo dritti dritti da Silente. Ci penserà lui a farti arrivare nel posto al quale veramente appartieni: Azkaban! Ci sono Lily e James Potter che attendono di avere giustizia, così come tutti i poveri Babbani che hai assassinato per salvare la tua sporca pellaccia, e Sirius Black, che ha passato dodici anni in galera per colpa tua!”.

La mia esposizione, che conteneva informazioni note solo allo stesso Minus e a pochissimi altri, colpì il traditore come una mazza, ed il lampo nei miei occhi dovette rincarare ulteriormente la dose. Smise perfino di tremare, tanto era lo stupore, e rimase a fissarmi con occhi vacui. Alla fine riuscì ad articolare la domanda che si era formata nella sua testa: “Chi sei tu veramente? Sembri uno studente, ma non è tutto qui, vero? Come fai a sapere queste cose? Non sei un normale ragazzo, ho ragione?”.

Risi, con una risata senza allegria: “Bravo, hai fatto centro. Suppongo che serva un bugiardo per scoprirne un altro. Chi io sia, però, non è cosa che ti riguardi: quello che ti serve sapere è che io sono colui che in questo momento ha su di te diritto di vita o morte. Puoi scegliere: andare verso il castello, essere arrestato e vivere, oppure restare dove sei o tentare di scappare e morire. A te la decisione”.

Minus rimase fermo sul posto, mentre i suoi occhi guizzavano da una parte all’altra della radura alla disperata ricerca di un modo per scappare, ma alla fine sembrò rendersi conto di non poter in alcun modo sfuggirmi senza essere colpito, quindi, la testa china sul petto, lo sguardo rassegnato, si avviò nella direzione dalla quale era arrivato.

“Cammina lentamente, e fermati se te lo ordino, o ti assicuro che ti ritroverai un buco dalla schiena fino al petto – ringhiai, cercando di sembrare più convinto di quanto realmente fossi di essere capace di ucciderlo se avesse tentato la fuga – Non credere solo perché sono un ragazzo di potermi prendere in…”.

Mi bloccai all’improvviso: avevo avvertito qualcosa, uno strano cambiamento nell’aria della notte: i colori già scuri della foresta iniziarono come a sbiadirsi, a ingrigirsi, mentre un freddo sempre più intenso parve penetrarmi nelle ossa. Udii un rumore nelle orecchie, per il momento lontano e indistinguibile, ma apparentemente sempre più vicino. Le gambe iniziarono a tremarmi.

Minus si bloccò come una statua, senza che gli avessi dato ordini, ma in quel momento non pensai neppure di colpirlo: il freddo stava diventando sempre più intenso, l’aria si stava oscurando, come se una fitta nebbia stesse calando sulla foresta, le stelle praticamente non si distinguevano più tra le chiome degli alberi. Per qualche secondo mi domandai che cosa stesse succedendo, anche se avevo un terribile sospetto, poi il mio prigioniero emise un acuto squittio, degno del topo che era stato fino a poco prima, e lo vidi irrigidirsi come un palo per il terrore. Guardai davanti a lui, e una coltre di paura appiccicosa calò sul mio cuore: attraverso gli alberi vidi due alte figure avvolte in mantelli grigi avvicinarsi a noi, fluttuando a qualche centimetro dal terreno come i più orribili trai fantasmi. Il freddo sembrò aumentare man mano che si avvicinavano, quasi lo stessero portando con se. Feci una terribile fatica ad ingoiare il groppo che si era formato nella mia gola: avevo già visto quelle creature mentre oltrepassavo i cancelli della scuola diretto verso Hogsmeade, e non avrei mai potuto confondere i Dissennatori con qualsiasi altra cosa.

Dalla gola di Minus fuoriuscì un gorgoglio strozzato, che andò a trasformarsi in una sorta di acutissimo grido, dal quale traspariva un orrore inesprimibile. Un istante dopo, senza nessun preavviso, scattò di lato e si lanciò in una pazza corsa, completamente dimentico della bacchetta puntata contro la sua schiena. Un attimo dopo, si stava già trasformando in topo.

“Ah, no! Non ci provare, carogna! Tonare!”.

In quel momento non stavo minimamente riflettendo, tutti i miei dubbi sull’opportunità di uccidere Minus erano stati letteralmente obliterati dalla situazione: la paura che mi aveva colto mi impediva di ragionare, e la velocità con la quale le cose stavano precipitando mi aveva spinto ad una reazione estrema. Non aveva però contribuito a migliorare la mia mira: l’Incantesimo Esplosivo centrò il terreno ad un paio di metri dal topo, che squittì di dolore e venne scagliato di lato, rotolò alcune volte, poi si rimise sulle zampe e schizzò via, infilandosi nei cespugli.

Avrei voluto inseguirlo, ma compresi subito di non esserne in grado: il gelo mi opprimeva ormai come una coperta, faticavo addirittura a respirare l’aria fredda, e dovetti faticare per mantenere l’equilibrio. Nella mia mente i suoni indistinti avevano assunto caratteristiche fin troppo riconoscibili: una disperata frenata, lamiere che si deformavano con violenza, vetri infranti, poi uno schianto che sembrava invadere tutto il mondo. Deglutii: i Dissennatori, mentre banchettavano con le tue emozioni positive e la tua felicità, erano capaci di farti rivivere i momenti peggiori della tua vita, i terrori che infestavano i tuoi incubi, ed era fin troppo facile capire quali fossero i miei.

Una scarica di rabbia mista ad adrenalina mi attraversò il corpo: se quelle due schifose creature pensavano di fare uno spuntino di mezzanotte a mie spese, si sbagliavano di grosso! Alzai la bacchetta e la puntai contro quello più vicino: “Lontano da me, essere immondo! – urlai – Depulso!”.

Il raggio di energia dorata eruppe con violenza dalla punta della bacchetta, si scagliò contro il mostro a gran velocità, lo centrò in pieno petto… e scomparve, senza nessuna apparente conseguenza. La creatura non ebbe la minima reazione, continuò soltanto a fluttuare verso di me.

Per un istante rimasi a fissare, come inebetito, l’essere che si avvicinava. Ormai era solo a sette o otto metri. Una coltre di sudore gelido e appiccicoso copriva la mia pelle, le mie gambe tremavano. Involontariamente, feci un passo indietro, poi mi riscossi: l’Incantesimo di Esilio non aveva funzionato, quindi era il caso di togliersi i guanti bianchi! Raccogliendo disperatamente le forze che minacciavano di abbandonarmi, presi nuovamente la mira: “Percutio!”. La sola volta che avevo sperimentato l’Incantesimo Perforante, avevo fatto in un banco un buco molto simile a quello che avrebbe potuto provocare una pallottola calibro 50, e non ci avevo messo neanche tutta la mia forza. Era un incantesimo cattivo, fatto per ferire se non per uccidere. Il suo uso ingiustificato contro un altro essere umano poteva costarti diversi anni di galera, ammesso che il tuo bersaglio sopravvivesse. Sul Dissennatore, però, ebbe meno effetto di una pallina da tennis: quello semplicemente lo ignorò, continuando ad avanzare.

“Cazzo, NO! – urlai, una punta di panico nella voce – Lacero! Impactus! TONARE!”.

Era quanto di meglio avessi nel mio repertorio: tre potenti incantesimi da combattimento lanciati in catena, in modo che i movimenti dell’uno si incastrassero in quelli del successivo per una esecuzione più rapida. Perfino un mago adulto di discreta abilità avrebbe avuto dei grossi problemi a respingerli tutti e tre. Non volevo, non potevo credere che non avrebbero funzionato, se lo avessi fatto avrei dovuto ammettere di essere nei guai fino al collo.

Il mostruoso essere non sembrò neanche accorgersi di essere stato centrato.

Ormai terrorizzato, indietreggiai ancora, e dopo due passi avvertii dietro la schiena una superficie ruvida. Ero appoggiato contro un albero. Ero in trappola, incapace di scappare e incapace di difendermi. Una parte di me aveva saputo dall’inizio che nessuna delle mie magie avrebbe potuto salvarmi, che c’era un solo incantesimo in grado di mettere in fuga un Dissennatore… l’unico tra quelli che avessi provato che mi ero dimostrato incapace di eseguire!

Il mostro era ormai a cinque metri, e la pressione sulla mia testa era divenuta insostenibile. Avevo tanto freddo, come se improvvisamente fossi stato teletrasportato nell’Artico, e le mie ginocchia minacciavano di cedere da un momento all’altro. La scena dell’incidente era chiara nella mia mente, come se fossi stato di nuovo all’interno della macchina che si stava disintegrando: i rumori, le sensazioni, perfino il dolore si ripetevano in un loop apparentemente infinito.

Cercai disperatamente di riscuotermi, sapendo che altrimenti sarei stato condannato: con ogni probabilità era tutto inutile, ma dovevo almeno provarci.

‘Un pensiero felice…mi serve un pensiero felice!’ urlava la mia mente, ma era difficilissimo trovare qualcosa nel mare di disperazione che mi aveva invaso. Non mi aiutava il ricordo di quanto male avesse funzionato in una situazione tranquilla: quante speranze avevo di riuscire a produrre un Incanto Patronus in quelle condizioni? Eppure non potevo arrendermi. Alla fine, scelsi la festa sul campo da Quidditch dopo la vittoria della Coppa: era stato il primo momento nel quale mi ero sentito veramente di casa in quello strano, nuovo mondo, poteva essere abbastanza potente. Puntai la bacchetta e urlai: “Expecto Patronum!”.

Una nebbia perlacea si materializzò tra me e il Dissennatore, che per la prima volta si arrestò. Benché il cappuccio impedisse di vedere la sua espressione, ammesso che ne avesse una, ebbi l’impressione che fosse leggermente sorpreso. Immediatamente sentii le mie forze calare ulteriormente, tanto che dovetti abbandonarmi contro il tronco per non cadere, mentre il Patronus malformato drenava una vera e propria ondata di energia dal mio corpo. Il Dissennatore sollevò le braccia, armeggiò qualche secondo con la forma biancastra, poi parve strapparla letteralmente a metà. La nebbia perlacea si dissolse. L’essere riprese ad avanzare. Era a meno di quattro metri. Il suo compagno era poco più indietro, ma non sembrava avere fretta: dovevano aver deciso silenziosamente che toccava al primo nutrirsi con le mie emozioni.

Maledizione, non era abbastanza potente! Mi serviva un ricordo migliore, qualcosa di più efficace! Scavai a fondo nella mia mente sempre più obnubilata dalla sofferenza, ma stava diventando un’impresa quasi impossibile. Qualsiasi esperienza piacevole, qualsiasi bel momento avessi vissuto dall’altra parte era inutile: facevano parte di un passato perduto, e proprio la sua scomparsa li rendeva inefficaci, non mi avrebbero aiutato in quel mondo. Restavano solo i mesi ad Hogwarts, ma c’era qualcosa di abbastanza felice in quel periodo da potermi salvare?

Una illuminazione mi colpì: il mio primo incantesimo nella classe della McGrannitt! Quanto mi ero sentito entusiasta e soddisfatto di me stesso quando il porcospino si era regolarmente trasformato in un puntaspilli e mi ero reso conto di possedere davvero la magia? Poteva essere sufficiente?

Concentrandomi con tutte le mie residue forze sulle sensazioni che avevo provato, urlai di nuovo: “Expecto Patronum”!

La nebbia uscì dalla punta della bacchetta, ma seppi subito di aver fallito ancora: sembrava addirittura più vacua e indistinta della precedente, e mi stava letteralmente risucchiando. Il Dissennatore più vicino si arrestò di nuovo, ma dopo neanche due secondi spostò con una mano coperta di croste il mio patetico tentativo di Patronus e tornò a dirigersi verso di me.

Ero spossato, distrutto, quasi annientato. Solo il tronco dell’albero mi consentiva di rimanere in piedi. Seppi di essere condannato: dubitavo di avere le forze per ritentare, e comunque a cosa sarebbe servito? Avevo fallito. Nella mia mente la scena dell’incidente fu sostituita da una lapide bianca, mentre una voce priva di corpo mi sussurrava: ‘Tu sei morto, Joshua Carter’.

A due metri di distanza l’essere sollevò le braccia, afferrò falde del cappuccio e lo tirò indietro. Un terrore impossibile da descrivere mi avvolse: era cieco, una pelle dall’aria putrefatta si tendeva su due orbite vuote. Sotto, una bocca simile ad un buco informe, spalancata a risucchiare l’aria in un rantolo. Presi a tremare in maniera incontrollata: non voleva solo nutrirsi delle mie emozioni, voleva letteralmente distruggermi, divorare la mia anima. E io non potevo farci niente.

L’essere orribile si tese verso di me, l’antro cavernoso della bocca che sembrava spalancarsi come un abisso. La mia vista si stava rapidamente offuscando, stavo rischiando di svenire, ma compresi che avrei visto abbastanza da assistere all’orribile spettacolo del mio destino. Era finita: non solo non avrei mai più rivisto il mio mondo natale, ma avrei perduto anche tutto quello che avevo trovato ad Hogwarts. I miei amici…non avrei potuto neanche dire loro addio… Seamus… Dean… Ginny… Mary…

All’improvviso l’oscurità che avvolgeva la mia mente parve squarciarsi, e mi apparve, chiara come se fosse stata proiettata su uno schermo, l’immagine di Mary che mi abbracciava sotto il faggio davanti alla riva del lago. Sentii un’ondata di calore salirmi lungo la schiena: il freddo si attenuò, e una grande serenità mi avvolse. Poche ore prima non me ne ero reso veramente conto, ma l’importanza di quel momento aveva letteralmente spazzato via ogni altra cosa accaduta da quando avevo ripreso i sensi all’interno dell’infermeria. Forse mi ero sentito per la prima volta a casa sul campo di Quidditch, ma era stato l’affetto di Mary a farmi capire la cosa più importante: che se anche non fossi mai riuscito a tornare nel mio mondo, non sarebbe stata la fine di tutto, perché c’era una vita vera per me in quel magico universo. Non era una vacanza, non era neanche una missione: era una svolta. Forse non avrei mai dimenticato ciò che avevo lasciato, ma i sentimenti sinceri di Mary mi avevano fatto comprendere cosa avevo trovato. E non avevo nessuna intenzione di lasciarmelo strappare via dal demone che avevo di fronte!

Con una determinazione che non credevo più di possedere, alzai per la terza volta la bacchetta, la sensazione di calore che mi correva lungo il braccio. Il Dissennatore era talmente vicino che la punta quasi lo toccava.

“EXPECTO PATRONUM!”.

La creatura venne letteralmente sbalzata indietro, volò per alcuni metri e cadde violentemente di schiena, mentre un’ondata di energia perlacea lo colpiva con la forza di un treno merci. Questa volta non era solo una nebbia informe: a toccare terra fu un animale, straordinariamente ben definito. Stupefatto, mi resi conto di avere davanti un grande lupo d’argento, le zampe eteree ben piantate sul terreno, il pelo ritto sulla schiena, le zanne snudate contro i due mostri in un silenzioso ringhio di minaccia.

Il Dissennatore appena atterrato cercò di rialzarsi, ma il lupo lo assalì immediatamente, scagliandolo al suolo per la seconda volta. La creatura sembrò decidere di averne abbastanza: non appena riuscì a sfuggire ai denti dell’animale, si allontanò fluttuando. Il lupo si voltò verso il secondo Dissennatore, ma quello non sembrava avere alcuna voglia di affrontare le sue zanne: dopo una breve esitazione, seguì il compagno in direzione del lago. Il Patronus rimase immobile per qualche istante, poi trotterellò verso di me con fare rassicurante e lentamente si dissolse.

Scivolai in ginocchio, improvvisamente svuotato da ogni energia. Il mio corpo iniziò a sussultare: sarebbe stato difficile dire se stessi piangendo o ridendo. Il sollievo mi invase: ero vivo! Senza neanche saperlo, Mary mi aveva salvato: io ormai mi ero arreso, era stato il suo sincero amore di ragazzina a restituirmi la volontà di combattere, e allo stesso tempo a darmi i mezzi per farlo. Avvertii una potente sensazione di orgoglio: ero riuscito a produrre un vero Patronus, un’impresa che perfino molti maghi adulti non riuscivano a compiere! Ero a dir poco fiero di me stesso.

Ero talmente felice che impiegai qualche istante per rendermi conto che il freddo non era completamente sparito: lo avvertivo ancora, anche se lontano e debole. Alzai gli occhi, e ciò che vidi mi apparve come un incubo: Dissennatori, a decine, forse centinaia. Strisciavano attraverso gli alberi, silenziosi come fantasmi, tutti diretti verso la sponda del lago. Non sembravano avermi notato, o se lo avevano fatto si erano disinteressati a me. Per un attimo pensai che potessero addirittura essere spaventati, che i loro due compagni avessero riferito ciò che avevo fatto, poi ogni riflessione scomparve di fronte ad una fondamentale domanda: dove diavolo stavano andando i mostri neri? Poi, quasi in risposta al dubbio inespresso, un uggiolio si levò sopra il silenzio della foresta: un cane che soffriva, più avanti, nella direzione verso la quale si stavano muovendo i Dissennatori.

Un pensiero folgorante mi attraversò: Sirius Black! Non ebbi bisogno di farmi altre domande, non mi chiesi se era veramente il caso di fare una cosa del genere, quante forze mi rimanessero, se avessi degli istinti suicidi malamente repressi. Non attesi neanche di sentire l’opinione della ‘voce’, ammesso che ne avesse una: semplicemente, cercando di non farmi notare e allo stesso tempo di muovermi alla massima velocità possibile, mi mossi verso il lago, pregando di arrivare in tempo.

Ecco qui, miei cari lettori. Come promesso, siamo tornati all'azione. Spero veramente che questo capitolo vi sia piaciuto, personalmente aspettavo di scriverlo da quando ho iniziato questa fiction! Vi chiedo per favore di farmi sapere cosa ne pensate! Alla prossima!

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Capitolo 14
*** Capitolo Tredici - Epilogo ***


Capitolo tredici - Epilogo

 

Raggiunsi la sponda del lago, nascondendomi dietro ad un albero nella speranza che i Dissennatori non si accorgessero di me prima che fossi pronto, e mi sporsi di lato. Compresi immediatamente quanto la situazione fosse grave: le linee dei mostri erano chiuse a cerchio intorno ad un piccolo spazio a breve distanza dall’acqua, a non più di una ventina di metri da me. Nella luce della luna, resa innaturalmente fioca dai poteri dei Dissennatori, riconobbi immediatamente le tre persone che lo occupavano: Black ed Hermione erano a terra, apparentemente privi di sensi. Harry, invece, era in ginocchio, ma continuava disperatamente a lottare. Lo sentii mormorare “No…è innocente…” prima di lanciare un Patronus nebuloso, che fermò brevemente il Dissennatore più vicino. Quello provò brevemente a spostarlo, prima di alzare le braccia e togliersi il cappuccio, mostrando l’orrendo volto. Il Patronus scomparve. Harry crollò, cercando di afferrare il braccio di Black. L’orrore lo girò sulla schiena, afferrandolo al collo, pronto a baciarlo.

Non attesi più. Saltai fuori dalla protezione dell’albero. Sentivo ancora il gelo causato dalle creature, e la scena dell’incidente ancora si ripeteva nella mia testa, ma tutto era lontano, indefinito, sopportabile. Forse perché non erano concentrati su di me, forse perché in quella seconda occasione sapevo di essere in grado di affrontarli, il loro effetto sembrava essersi ridotto di molto. Richiamando alla mia mente il volto di Mary e il calore del suo abbraccio, mentre alcuni Dissennatori, accortisi della mia presenza, si voltavano nella mia direzione, alzai la bacchetta ed urlai con tutto il fiato che avevo in corpo: “Expecto Patronum”.

La mia voce risuonò stranamente potente, rimbombando sull’acqua del lago come se fosse giunta da più direzioni diverse. Il lupo eruppe dalla punta della mia bacchetta e subito si avventò sulle creature, scompaginandole, gettandone diverse a terra, obbligandone altre alla fuga. Ne vidi uno fluttuare rapidamente verso la sponda, nel tentativo di allontanarsi dalle sue zanne… solo per essere colpito alla schiena da un paio di corna d’argento ed essere violentemente scagliato in aria.

Strabiliato, spalancai gli occhi: il mio lupo non era il solo Patronus in azione, c’era un altro animale perlaceo che stava combattendo contro i Dissennatori. Impiegai qualche istante per distinguerne chiaramente le fattezze, poi compresi di avere di fronte un gigantesco cervo argenteo. I due sembrarono non considerarsi neanche: continuarono semplicemente ad aggredire i demoni di Azkaban, che ben presto ruppero definitivamente i ranghi, ritirandosi velocemente nell’oscurità. Galleggianti sulle acque del lago, rimasero solo i due Patroni, uno di fronte all’altro. Con la coda dell’occhio, vidi Harry collassare, definitivamente KO, ma in quel momento tutta la mia attenzione era concentrata sulla stranissima scena. Con un pensiero assurdo, ricordai che, se i due animali fossero stati veri, sarebbero stati due nemici naturali. In quella strana condizione, che sembrava quasi a metà tra la realtà e il sogno, invece, si limitavano a studiarsi con apparente interesse. Poi accadde qualcosa che mai mi sarei aspettato: il mio lupo chinò la testa verso l’acqua, in quello che era un evidente gesto di rispetto. Il cervo rimase a fissarlo per qualche istante, poi, con mia ulteriore sorpresa, piegò le zampe in una palese inchino di risposta. Un istante dopo, entrambi scomparvero.

Mentre cercavo di riscuotermi dallo shock, chiedendomi se fosse normale che due Patroni si comportassero in quel modo, una domanda molto più importante ed urgente esplose nella mia testa: chi diavolo aveva lanciato il cervo? Di scatto mi girai, ispezionando la sponda in cerca di una figura umana. Ed eccola, praticamente sulla riva opposta rispetto alla mia posizione: un essere umano, appena oltre gli alberi, la bacchetta ancora in mano. Spariti i Dissennatori, la notte era tornata chiarissima, e non faticai a distinguerne le fattezze.

Non per la prima volta nelle ultime ore, la mia bocca cedette di diversi centimetri per lo stupore: ne avevo viste tante in pochissimo tempo, ma quella era veramente troppo grossa! Lanciai uno sguardo verso le tre persone svenute vicino a me, poi di nuovo all’uomo oltre il lago: non era possibile, eppure…

L’altro sembrò essersi accorto di essere stato notato, e si voltò, sparendo tra le piante. Immediatamente mi lanciai in una corsa disperata, attingendo ad energie che non pensavo più di possedere, costeggiando il lago e scavalcando quasi in automatico pietre e radici: dovevo raggiungerlo, dovevo vedere, perché se avevo ragione, stava accadendo qualcosa di ancora più assurdo di tutto ciò che mi ero trovato davanti fino a quel momento. La voce nella mia testa sembrava essersi spenta dopo quello che era accaduto con Minus, ma era rimasta una sensazione: anche se davvero avevo visto quello che credevo, avvertivo l’esistenza di una spiegazione valida che non implicasse la Magia Oscura.

Rallentai solo quando fui giunto quasi al luogo dal quale era stato lanciato il Patronus. Il silenzio era totale, eppure qualcosa mi diceva che l’autore dell’incantesimo non era lontano. Sollevai la bacchetta mormorando “Lumos!”, ed iniziai ad aggirarmi tra gli alberi seguendo la sua fioca luce. All’improvviso qualcosa spuntò da dietro uno dei più grandi, e distinsi un’altra bacchetta, puntata nella mia direzione. Alzai anche la mia, puntandola direttamente in faccia all’essere. Quando la luce lo illuminò, credetti di essere sul punto di svenire: Harry Potter, che giaceva svenuto a qualche centinaio di metri di distanza, era anche di fronte a me, il volto deformato da una smorfia di assoluto stupore. A completare il quadro, distinsi dietro di lui Hermione, che avevo lasciato al suo fianco dall’altra parte del lago, altrettanto priva di sensi, che mi fissava spaventata e che reggeva una corda legata al collo di un grosso animale. Quando riconobbi Fierobecco, l’Ippogrifo che avrebbe dovuto essere morto ormai da diverse ore, credetti che la mia mente avesse sul serio ceduto, e di essere completamente impazzito.

“Josh! Che ci fai qui?” mi chiese Harry.

“Non osare muovere un solo muscolo!” ringhiai. Era una reazione abbastanza inevitabile: vero era che avevo di fronte un amico, ma era altrettanto vero che avevo appena visto lo stesso amico da tutt’altra parte, quindi una certa vigilanza era comprensibile.

Il ragazzo ripose la bacchetta sotto la veste e mi mostrò i palmi delle mani aperte. Io non abbassai la mia.

“Josh, stai calmo per favore… non mi riconosci? Sono Harry…” mormorò con voce conciliante.

“Io ho appena visto Harry Potter svenuto dall’altra parte del lago – dissi con decisione – quindi ti conviene avere una spiegazione convincente per giustificare il fatto che sei qui!”.

L’altro sembrò riflettere per qualche secondo, poi si voltò verso la ragazza che sembrava Hermione, la quale annuì stancamente, poi, muovendosi con estrema lentezza, probabilmente per non farmi sembrare che volesse compiere un gesto aggressivo, estrasse dalla veste una lunga catenella d’argento che portava appesa al collo, in fondo alla quale era appesa una piccola clessidra dello stesso materiale.

Hermione sospirò, poi disse: “Questa è una Giratempo. Permette di tornare indietro nel tempo di qualche ora. La McGrannitt me l’ha data all’inizio dell’anno per permettermi di seguire tutte le lezioni, e Silente ci ha autorizzato ad utilizzarla per rimettere a posto la situazione. In questo momento – e indicò in direzione dell’altra sponda del lago – Piton sta portando ‘noi’ e Sirius al castello. Tra qualche minuto noi saremo in infermeria, e lui rinchiuso nell’ufficio del professor Vitious, in attesa che il ministro Caramell vada a chiamare un Dissennatore per eseguire il Bacio sul posto! Silente ha creduto alla nostra versione, ma non potendo fare nulla per convincere gli altri dell’innocenza di Sirius, ci ha permesso di utilizzare la Giratempo per salvarlo. Siamo tornati a prima dell’esecuzione di Fierobecco, lo abbiamo fatto scappare e intendiamo utilizzarlo per far fuggire Sirius dalla finestra, per poi volare via con lui”.

“Prima…o meglio, adesso… oh, al diavolo, è lo stesso! – si inserì Harry - Insomma, mentre stavo per svenire ho visto qualcuno lanciare un Patronus… cioè, solo ora mi rendo conto che erano due, ma io ho visto solo il cervo. Ho creduto che fosse stato mio padre... sono venuto a vedere, e ho capito di aver visto me stesso, quindi l’ho lanciato. Solo dopo ho visto che c’eri anche tu”.

Impiegai qualche secondo per rendermi conto che aveva finito la rapida spiegazione: era la storia più assurda che avessi mai sentito, tanto folle da poter essere vera. Mi resi conto che non importava che sembrasse il delirio di un pazzo: il ‘Senso di Ragno’ si stava di nuovo facendo sentire, confermandomi che era la verità.

Abbassai la bacchetta: “Va bene, vi credo”.

“E adesso, se non ti dispiace, potresti rispondere alla mia domanda? – mi incalzò Harry, ancora sorpreso – Che diavolo ci fai qui fuori? Sei stato tu a lanciare il Patronus lupo? Come facevi a sapere che eravamo nei guai?”.

Rimasi in silenzio per qualche secondo, chiedendomi quanto dovessi rivelare. Rammentai a me stesso che Harry non era uno sciocco, e che Hermione lo era ancora meno. Non avrebbero creduto a nulla che non avesse contenuto un’ampia porzione di verità.

Alla fine, mi decisi: “Vi ho seguito. Per quasi tutta la sera”.

I due ragazzi strabuzzarono gli occhi: “Cosa?” chiesero praticamente in coro.

Verità mischiata a qualche piccola omissione, era quella la migliore opportunità: “Sono sgattaiolato fuori dalla scuola per raggiungere la capanna di Hagrid, ma troppo tardi, voi stavate già tornando. Ho visto Sirius aggredirvi nel parco e trascinare Ron nel Platano Picchiatore. Vi ho seguito lungo il passaggio segreto, fin dentro la Stamberga Strillante, e sono rimasto per tutto il tempo nascosto fuori dalla camera. Ho sentito tutto: so di Black, di Lupin… e di Minus. Quando è fuggito nel parco ho anche provato ad inseguirlo. Ero perfino riuscito a catturarlo, ma due Dissennatori ci hanno aggredito, e lui ne ha approfittato per darsela a gambe. Sono riuscito a respingerli, poi ho sentito Sirius uggiolare sulla riva del lago, e sono corso da quella parte. Ho lanciato il mio Patronus esattamente quando hai lanciato il tuo dall’altra parte. Bel cervo, tra parentesi! – ridacchiai – Suppongo che tu sia rimasto sorpreso quanto me quando si sono fatti quell’inchino a vicenda! Comunque, dopo che i Dissennatori se ne sono andati ti ho visto, ti ho riconosciuto e… beh, ovviamente sono corso a vedere cosa stesse succedendo!”.

Harry rimase immobile anche dopo la fine della mia esposizione, il volto completamente esterrefatto. Voltando la testa, vidi il volto di Hermione, e una lieve punta di preoccupazione mi attraversò la mente: lei sembrava più che altro incredula, come se qualcosa non le tornasse per niente. Scartai la sensazione di allarme, promettendomi casomai di analizzarla in seguito. Mi rivolsi nuovamente verso Harry: “Mi dispiace di essermi fatto scappare quel maledetto assassino” dissi, cercando di riportare la conversazione su un binario più sicuro.

Lui scosse la testa: “Non è colpa tua. Avrei dovuto lasciare che Sirius e Lupin lo uccidessero, ho commesso un errore. Da morto sicuramente non sarebbe riuscito a scappare” borbottò con rabbia.

“Non pensarlo neanche, amico – ribattei, ricordandomi che neanche io ero riuscito ad ammazzare Minus quando ne avevo avuta l’occasione – Tu non sei come lui, hai fatto la scelta giusta”.

Harry scosse la testa: “No, tu non capisci… - disse, improvvisamente quasi spaventato – Questo pomeriggio ero a fare l’esame di Divinazione. La Cooman è caduta all’improvviso in una sorta di trance… non come al solito, sembrava una cosa seria stavolta… e ha recitato una profezia. Ha detto che stanotte il servo più fedele di Voldemort sarebbe fuggito dalla sua prigionia, che avrebbe raggiunto il suo padrone, e che questo avrebbe permesso al Signore Oscuro di tornare, più grande e terribile che mai! E stanotte Minus, il servo di Voldemort, è riuscito a fuggire! Io gli ho permesso di fuggire! E adesso…”.

Dovetti lottare per non crollare al suolo, tanto le ginocchia avevano iniziato a tremarmi: l’orrenda coincidenza tra la profezia della Cooman e le parole della Voce mi aveva lasciato completamente senza fiato. Il mio stato alterato doveva essere evidente, perché Harry se ne accorse immediatamente: “Josh, stai bene?” mi chiese con preoccupazione.

Scossi la testa nel tentativo di snebbiarla: “Sì, scusa, ho avuto un piccolo capogiro. E’ tutta la sera che corro da una parte all’altra… - poi, non credendo minimamente alle mie stesse parole, aggiunsi: “Non preoccuparti, amico. Lo sanno tutti che la Cooman è solo una ciarlatana! Tu hai fatto la cosa giusta a non permettere agli amici di tuo padre di macchiarsi di un omicidio”.

Harry annuì, anche se non sembrava molto convinto. Aprì la bocca come per farmi qualche altra domanda, ma venne interrotto da Hermione: la ragazza mi fissò per un istante con espressione ancora scettica, poi disse: “Dobbiamo andare, Harry. Abbiamo solo pochi minuti per raggiungere la finestra dell’ufficio di Vitious, far uscire Sirius e tornare in infermeria prima che Silente ‘ci’ chiuda dentro”. Mentre il ragazzo annuiva, lei mi lanciò un ultimo sguardo, che sembrava promettere una futura conversazione non particolarmente gradevole, ma sul momento a malapena lo notai.

“Tu non ci hai visto, va bene? – mi disse Harry – Parleremo meglio domani”.

Costrinsi le mie labbra a posizionarsi per formare un piccolo ghigno: “E voi non avete visto me!” risposi.

Il ragazzo sorrise, e si allontanò dietro ad Hermione e Fierobecco, in direzione del castello.

Rimasi bloccato per qualche istante, nel disperato tentativo di rimettere ordine nei miei pensieri. Non riuscivo a togliermi dalla testa le parole che avevo sentito, parole che sembravano un accusa diretta contro di me: ‘Il Signore Oscuro tornerà, più grande e terribile che mai’… ‘L’oscurità calerà su tutto quello che hai imparato ad amare’… e quella sera Minus era riuscito a fuggire, grazie ad Harry… e a me.

Chiedendomi se avessi commesso, come ero sempre più convinto di aver fatto, il più grande errore della mia vita, gettai nuovamente su me stesso l’Incantesimo di Disillusione e mi avviai verso il castello, per sgattaiolare nuovamente all’interno.

 

 

 

“Posso parlarti un secondo, Josh?”.

La voce di Hermione mi colse completamente di sorpresa: erano passati quattro giorni dalla fatidica notte, le lezioni e gli esami erano ormai finiti, ed io stavo passeggiando senza una meta vicino al lago, la testa miracolosamente sgombra da pensieri. Con i Dissennatori che finalmente erano stati allontanati dal castello, avevamo riconquistato un po’ di libertà.

Vidi la ragazza che si avvicinava. Era la prima volta che mi rivolgeva realmente la parola dopo il nostro incontro notturno: non aveva aperto bocca neanche la mattina dopo, quando Harry era venuto a dirmi che erano riusciti a far fuggire regolarmente Sirius, e si era fatto raccontare la versione integrale delle mie vicissitudini, cosa che io avevo fatto, sia pure con qualche trascurabile correzione ed aggiustamento, come eliminare completamente il contributo della Voce. Hermione aveva ascoltato tutto in silenzio, uno sguardo pensieroso dipinto in volto. Uno sguardo molto diverso da quello che mi stava presentando in quel momento.

Dal canto mio, a mala pena lo notai. Gli ultimi quattro erano stati giorni molto difficili: la profezia della Cooman e le parole della Voce continuavano a rimbalzarmi in testa, accompagnate da un diffuso malessere e da un acuto senso di colpa. Una distrazione era più che gradita: “Certo, Hermione. Dimmi pure” le risposi, quasi distrattamente.

“Ho una domanda da farti, e ti chiedo di rispondermi con sincerità: chi sei tu?”.

“Come?” le chiesi con sorpresa, le antenne improvvisamente sollevate. Un campanello d’allarme iniziò a suonare nella mia testa: se chiunque altro mi avesse fatto una domanda simile, probabilmente mi sarei semplicemente messo a ridere, pensando ad uno scherzo, ma davanti a me c’era Hermione Granger, e questo significava che con ogni probabilità ero in grossi guai.

“Ti sto chiedendo, Joshua Carter, chi sei tu?” insistette Hermione, senza scomporsi.

“Ehm…Joshua Carter, forse?” risposi con un sorriso, nel disperato tentativo di fare dell’ironia. Sfortunatamente, sapevo fin troppo bene che non sarebbe servito a nulla.

“E chi altro sei? – ribatté lei, con sguardo deciso – O forse dovrei chiedere che cos’altro sei?”.

“Perdonami, Hermione, ma non riesco a capire cosa stai dicendo” tentai di svicolare, consapevole di essere finito in un angolo e di non avere la minima idea di come uscirne.

“Oh, io credo che tu abbia capito perfettamente – continuò Hermione, penetrante – Sono mesi ormai che mi faccio delle domande su di te, sai? Ho iniziato ad avvertire che qualcosa non tornava quando mi hai consolata dopo la mia lite con Ron: ci sono ragazzi più maturi di altri, più saggi di altri, ma il modo nel quale mi hai parlato, come ti sei comportato… mi ha lasciato una strana sensazione, come se ci fosse qualcosa di fuori posto. Poi c’è stata la tua piccola avventura notturna con Sirius: chi di noi si sarebbe messo ad inseguire un uomo che conoscevamo come un pluriomicida psicopatico? Harry è coraggioso, a volte ai limiti dell’incoscienza, ma credo che perfino lui non ne avrebbe avuto il coraggio. Nessun normale ragazzo di tredici anni lo avrebbe fatto”.

Deglutii, cercando di non farlo notare: senza forse rendersene conto, Hermione stava pericolosamente girando intorno alla verità. Quando avevo inseguito Sirius Black, non mi ero posto il problema di ciò che gli altri avrebbero potuto pensare. Nelle settimane successive, mi ero convinto che tutti lo avessero registrato solo come il gesto avventato di un ragazzo, ma a quanto pareva, qualcuno ci aveva riflettuto in maniera più approfondita.

Spietatamente, Hermione proseguì nella demolizione del mio castello di carte: “Poi c’è stato il tuo scontro con Nott di quattro giorni fa. Mary mi ha raccontato tutto non appena è tornata al castello, mi ha praticamente impedito di finire il mio ripasso di Babbanologia – la sua espressione decisa si trasformò brevemente in un sorriso – Quella ragazza tiene moltissimo a te, credo te ne sia accorto. Vederti combattere in quel modo con Nott l’ha spaventata a morte: mi ha detto che in quel momento non era in grado di riconoscerti, che sembravi un’altra persona. Ha detto di averti visto usare degli incantesimi che non conosceva. Sono andata a controllare: un Incantesimo Scudo, un Incantesimo d’Urto da combattimento… non si insegnano fino al quinto anno, e tu li hai usati come se li conoscessi da sempre! Non è questo però che mi ha colpito: ti ho visto in classe, sei abile, e tuo padre, se non sbaglio, in America è un Auror. Potresti aver letto qualcosa nei suoi libri ed essere stato in grado di ripetere gli incantesimi che hai scoperto. Mary, però, mi ha detto che hai infierito su Nott, con una durezza che faceva fatica a descrivere, e di essere sicura che, se non ti avesse fermato, gli avresti fatto veramente del male”.

Mi tremavano le mani. Sapevo di dover trovare una risposta, Hermione era troppo sveglia per accettare delle semplici scuse, ma ero completamente inebetito.

“Mi è sembrato veramente strano: ti conosco ormai, Joshua, so che sei profondamente buono, e faticavo perfino ad immaginarti impegnato ad umiliare qualcuno, anche un verme come Nott. Avevo deciso di chiederti spiegazioni, ma le circostanze me lo hanno impedito”.

La ragazza prese fiato: fino a quel momento aveva parlato di getto, senza interruzioni. Sarebbe stato il momento giusto per interromperla, per giustificarmi, ma non avevo nulla che potesse essere minimamente sufficiente a fugare i suoi dubbi.

Neanche il tempo di riflettere, ed Hermione riprese: “E veniamo all’altra sera: ci sono fin troppe cose che non tornano nel tuo comportamento. Intanto, il fatto che tu sia uscito dopo averci detto di andare senza di te, e come tu sia riuscito a lasciare la scuola. Hogwarts era praticamente in stato d’assedio, e noi avevamo il solo Mantello dell’Invisibilità esistente da queste parti. Nessuno sarebbe riuscito ad eludere la sorveglianza senza usare la magia. Che cosa hai usato, un Incantesimo di Disillusione? Che sia quello o un’altra cosa, si tratta comunque di magie al di là del nostro livello attuale, neanche io sarei capace di lanciarne uno, li conosco solo in teoria. Ma ancora una volta, hai dimostrato di essere molto abile, quindi ipotizziamo per un attimo che tu sia stato capace di eseguire un Incantesimo di Disillusione al tuo primo tentativo e di uscire indisturbato. Perché avresti dovuto farlo? Ti sei mosso troppo tardi per venire da Hagrid, quindi non è per consolare lui che hai deciso di scendere nel parco. Come facevi a sapere che sarebbe accaduto qualcosa di più di una orrenda esecuzione?”.

Dovevo essere impallidito. Sentivo di essere pallido. Avevo la gola riarsa. Hermione sembrava essersi trasformata in una giovane copia di Miss Marple: aveva visto tutto, e a quanto pareva, aveva anche collegato tutto. Ovviamente non poteva in alcun modo immaginare l’assurda verità, ma aveva compreso che le cose non stavano come in apparenza, e, fondamentalmente, mi stava incastrando.

“Anche il tuo comportamento durante la serata è stato molto strano: ci hai seguito e ascoltato per tutto il tempo, senza però farti vedere né intervenire finché il professor Lupin si è trasformato e Minus è fuggito. A quel punto, nonostante ci fosse un Lupo Mannaro in giro per la foresta, ti sei lanciato all’inseguimento. Una decisione decisamente insolita: da solo sei andato dietro ad un criminale tra gli alberi, senza preoccuparti della presenza di una creatura potenzialmente letale! Non solo: dopo aver respinto due Dissennatori, cosa che già di per se non è da poco, sei venuto verso il lago e ne hai affrontati altri cento! Noi siamo finiti direttamente in mezzo al caos, ma tu sei andato a cercarlo! E il tuo Patronus… l’ho visto mentre mi avvicinavo ad Harry, è stato incredibile! Quello lanciato da lui è stato impressionante, ma il tuo non era da meno! Soprattutto, sembravi sapere quello che stavi facendo in ogni momento, mentre noi eravamo terrorizzati! E ancora: tu…”.

Alzai stancamente una mano: “Va bene, Hermione. Può bastare così – borbottai – Non serve che continui, sono capace di capire quando sono fregato”.

Mi lasciai cadere a sedere con la schiena contro il tronco di un albero, improvvisamente stremato. Hermione aveva letteralmente vivisezionato la mia storia, aveva trovato ogni punto disfunzionale e me lo aveva sbattuto in faccia. Ero in trappola: negare non sarebbe servito a nulla, era fin troppo chiaro. Allo stesso tempo, però, non potevo raccontarle la verità, sarebbe stato veramente troppo per lei. Che cosa potevo fare?

Hermione si avvicinò e si abbassò davanti a me, piegando le ginocchia: “Mi dirai la verità, Joshua? Sono tua amica, e so che bella persona sei. Ma so anche che ti porti dietro un segreto che ti pesa sulla schiena, che ti ha fatto uscire distrutto dall’albero con il Molliccio, che ogni tanto sembra trasformarti in qualcuno completamente diverso. Chi sei veramente, Joshua Carter?”.

Sospirai, e un sorriso mi si dipinse sulla bocca: “Sei veramente la strega più brillante della nostra età, Hermione – le dissi – Va bene, non negherò. Hai ragione, c’è veramente qualcosa di strano in me, qualcosa di diverso da voi. Ma per adesso, ti chiedo di accettarmi per quello che sono, senza cercare di farmi confessare di cosa si tratta”.

“Josh, puoi fidarti di me!”.

“Lo so benissimo, Hermione. Sarei pronto ad affidarti la mia vita – le presi una mano e la strinsi – Non posso però affidarti questo, non ancora almeno. E’ qualcosa di… beh, di troppo. Non dico che non capiresti, vorrebbe dire sminuirti, ma cambierebbe troppe cose, e non è ancora il momento. Una cosa però voglio dirtela: da oggi voi potete contare su di me – la fissai intensamente – So perfettamente quello che avete fatto al primo e al secondo anno, so quali cose avete affrontato per trovare la Pietra Filosofale e nella Camera dei Segreti, so quale nemico vi siete trovati davanti”.

Stavolta fu lei a sorprendersi: “Come fai a saperlo? Tu non eri neanche ad Hogwarts allora, nessuno sa esattamente quello che è successo!”.

“Questo fa parte del mio segreto, quindi ti prego, non chiedermelo - continuai, sempre più serio – Si sta avvicinando una tempesta, Hermione. Quello che è accaduto avrà conseguenze enormi. Non mi domandare come faccio a saperlo, non sarei capace di spiegartelo neanche volendo, ma qualcosa di oscuro è nell’aria, lo sento avvicinarsi. Non so se sarà tra un mese o tra un anno, ma arriverà. E quando succederà, sappiate che sarò al vostro fianco. Potrebbe essere il momento nel quale saprai tutto di me. Puoi accettarlo?”.

Hermione rimase pensierosa per qualche secondo, poi, senza lasciare la mia mano, si alzò, mi tirò in piedi e mi regalò uno dei suoi abbracci spaccaossa: “Sì, lo posso accettare”.

Risposi con calore all’abbraccio. Più volte, nei pochi giorni che ci separavano dalla fine della scuola, e poi mentre preparavamo i bagagli, e ancora sul treno, ripensai a quel momento: era stato intenso, fondamentale. Avevo difeso il mio segreto, e forse il fatto che Hermione sapesse che dietro Joshua Carter c’era qualcosa in più di quello che diceva la vista poteva risultare positivo. Non avevo mentito quando le avevo detto che sentivo l’avvicinarsi di una tempesta. Il mio ‘Senso di Ragno’ vibrava in maniera quasi costante: il futuro era confuso, avvolto da una fitta nebbia, ma in qualche modo sentivo che la fuga di Minus sarebbe stata come la caduta di un sasso che scatena una valanga in montagna, e questo mi lasciava delle pesanti fitte di rimorso al pensiero che forse avrei potuto impedire qualsiasi cosa si stesse preparando se solo avessi avuto il coraggio di uccidere il ratto. Ormai, però, era fatta: il mio intervento era andato a vuoto, ciò che il Fato aveva programmato sarebbe accaduto. E, inevitabilmente, al centro del caos ci sarebbero stati Harry e i suoi amici: per me, che sapevo in quale mondo ero finito, questo risultava evidente. Non ero ancora riuscito a capire quale Forza mi avesse spedito lì, o quale ruolo sarei stato chiamato ad interpretare da quel momento in poi, se pure ve ne era ancora uno, ma mentre scendevo dal treno e salutavo gli amici (Hermione mi abbracciò forte, mentre sul volto di Mary che si allontanava dopo avermi dato un bacio sulla guancia pericolosamente spostato verso la bocca credetti di vedere una piccola lacrima), e mentre spingevo il mio baule, sia pure con una piccola dose di timore, verso una donna e una bambina che si sbracciavano per salutarmi, avevo una certezza: qualsiasi cosa il destino avesse deciso di mettere sulla mia strada, non mi sarei tirato indietro. Se dovevo continuare a vivere in quello strano, nuovo mondo, avrei fatto tutto quello che era in mio potere per cambiare le cose in meglio. Difficile dire se ci sarei riuscito, se ne avrei avuto la forza o la fortuna sufficienti per fare la differenza, ma per Merlino, ero più che deciso a provarci!

 

 

 

 

 

Ed eccoci arrivati, finalmente, alla conclusione di questa prima parte della storia. Prima parte perché, ovviamente, sono già previsti dei seguiti, non voglio lasciarvi con il dubbio di ciò che accadrà a Joshua e agli altri, e di quanto cambierà la storia a causa della sua presenza. Ho però intenzione di cambiare un po’ la mia procedura, quindi ai miei fedeli lettori, che ringrazio moltissimo per la loro attenzione e la loro pazienza, dico di avere pazienza, perché ho intenzione di iniziare ad inserire i capitoli del secondo ‘libro’ solo quando lo avrò completato. Immagino che ci vorrà qualche mese, quindi vi dico: arrivederci, e tenete un occhio puntato qui!

 

 

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