A strange, new world di Marco1989 (/viewuser.php?uid=18039)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 8: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 9: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 10: *** Capitolo Nove ***
Capitolo 11: *** Capitolo Dieci ***
Capitolo 12: *** Capitolo Undici ***
Capitolo 13: *** Capitolo Dodici ***
Capitolo 14: *** Capitolo Tredici - Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Salve a
tutti!
Torno a
scrivere su
questo sito dopo molti anni: in questo periodo così
complicato, ho pensato di
prendere in mano un'idea piuttosto insolita che mi saltava in testa da
parecchio tempo, e di provare a scrivere una fanfiction sulla mia saga
preferita in assoluto: quella di Harry Potter. Premetto che al momento
ho in
mente l'idea di base, ma che, come faccio spesso quando scrivo, ho solo
dei
flash su quello che sarà l'intreccio, quindi io stesso
dovrò vedere dove mi
porterà la storia.
Un ultimo
appunto: il
protagonista della storia è in gran parte autobiografico. Ho
cambiato nome ed
età, ed avrà qualche esperienza diversa, ma
diciamo che all'80 % è me.
Buona
lettura!
PROLOGO
Si sente dire spesso che, quando si
è in punto di morte, la
vita passa letteralmente davanti agli occhi, come un film a
velocità ridotta o
una partita alla moviola. Sinceramente ho sempre avuto dei dubbi su
questi
racconti, anche perché mi sono chiesto molte volte chi abbia
potuto riferirli, se si tratta di visioni che si hanno subito prima di
morire.
Nel mio caso, nessuna visione. Solo
un momento che sembrava
dilatarsi all’infinito, mentre il mondo si rovesciava intorno
a me con una
lentezza esasperante, in un terrificante stridore di lamiere. I fari
della
macchina che si stava disintegrando tagliavano il buio come una lama
impazzita.
Che cosa era successo? Non avrei saputo dirlo sinceramente. Solo pochi
istanti prima
stavo tornando a casa. Era tardi, e stavo rientrando da una festa in
campagna,
ma non ero particolarmente stanco, non avevo sonno e non avevo bevuto
quasi
niente. Ricordavo solo un lampo scuro che attraversava la strada di
corsa, un
capriolo, o forse un cinghiale, come se fosse cambiato qualcosa;
l’istinto
aveva mosso le mie mani senza che il cervello avesse il tempo di dire
la sua.
L’improvvisa combinazione tra strappo sul volante e
inchiodata disperata erano
state più che sufficienti per spingere il pesante SUV a
rovesciarsi fuori
strada, senza che io avessi neanche la minima possibilità di
trattenerlo.
Mentre fissavo l’airbag esploso dallo sterzo davanti a me,
con la cintura che
mi scavava nel petto, pensavo all’ironia della sorte: in
venticinque anni di
vita ne avevo combinate parecchie, a volte rischiando anche di brutto,
senza
farmi mai un graffio, e andavo ad ammazzarmi per colpa di uno
stramaledetto
animale. Cazzo!
Con la coda dell’occhio,
vidi dal finestrino sfondato
avvicinarsi un albero piuttosto grosso, forse una quercia, mentre la
macchina
si rovesciava per la terza o quarta volta. Ancora troppo violentemente,
il
botto sarebbe stato devastante. Chiusi disperatamente gli occhi, come
se non
vedere avesse potuto proteggermi in qualche modo. Venticinque anni
erano
veramente troppo pochi perché tutto finisse in un modo
così assurdo, senza
poter fare nulla per evitarlo, senza poter dire addio a nessuno.
Lo schianto fu perfino peggiore del
previsto, il rumore
indescrivibile, il dolore intollerabile. Attraverso le palpebre serrate
vidi un
lampo rosso, che rapidamente venne divorato
dall’oscurità. La sofferenza
scompariva, sostituita da un senso di intorpidimento. Era
così morire? Tutto
sommato poteva andare peggio. Davanti a me si era aperto una sorta di
tunnel
bianco. Senza riflettere troppo, mi lanciai dentro.
Dall’oscurità emerse una
luce accecante, poi non capii più niente.
“Come sta? E’
ancora vivo?”.
“Ma certamente, signorina
Bell! Non era messo poi così male.
Il signor Potter era conciato decisamente peggio. Dovrebbe rinvenire a
minuti”.
“Ha incassato un colpo
molto violento, è caduto da quasi
quindici metri. Per fortuna madama Bumb ha rallentato il volo,
altrimenti
avremmo dovuto raccoglierlo con un cucchiaino”.
“Due cadute dalla scopa in
una sola partita. Una delle
peggiori giornate negli ultimi anni. Maledetti
Dissennatori…”.
“Nel suo caso non
è stata colpa dei Dissennatori, ha preso
un Bolide in testa sparato da poco più di un
metro”.
“Mi dispiace
tanto… l’ho visto andare verso gli
anelli… è
spuntato all’ultimo secondo, in mezzo alla
pioggia… ho agito d’istinto… non
volevo fargli male!”.
“Lo sappiamo che non volevi
fargli male, Rickett. Per questo
sei ancora sano e la tua stessa mazza non è ancora finita
sulla tua testa”.
“Signor Weasley!”.
“Scherzavo, madama Chips,
scherzavo naturalmente…”.
La coscienza di me stesso stava
tornando un po’ alla volta,
come onde che si abbattevano pigramente sulla riva. Dal modo nel quale tutto mi faceva
male, compresi di
essere ancora nel mondo dei vivi. La testa sembrava pesare il doppio
del
normale. Provai ad aprire gli occhi, ma anche le palpebre
sembravano
diventate di piombo. Nel cervello mi sembrava di avere
l’ovatta: avevo sentito dei
discorsi che non avevano alcun senso, anche se suonavano stranamente
familiari.
Madama Bumb…madama
Chips…Dissennatori…Bolidi…Weasley…Potter.
Potter?Un momento,
doveva essere la botta. Probabilmente ero stato in coma, ed il mio
cervello,
mentre provava a riavviarsi, aveva attinto ai miei ricordi di
ragazzino,
creando quell’assurdo dialogo, giustificando quello che mi
era successo grazie
alla fantasia. Ecco, doveva essere quella la soluzione.
Facendomi quasi violenza, aprii gli
occhi, aspettandomi di
trovarmi in un’asettica stanza di ospedale, collegato alle
macchine, con gran
parte del corpo avvolto da bende e ingessature, circondato da dottori e
infermieri, con accanto la mia ragazza e la mia famiglia. Feci
viaggiare gli
occhi da una parte all’altra, e quello che vidi mi fece
pensare di aver subito
un danno grave al cervello: ero in una lunga stanza dai muri in pietra,
occupata da due file di letti dalla foggia antiquata, senza macchine
per la
respirazione artificiale o monitor per il battito cardiaco, divisi
l’uno
dall’altro da dei separé di stoffa verde.Buttai un
occhio al mio corpo, e con
estrema sorpresa mi resi conto di non avere bende o ingessature:
indossavo quello
che sembrava un normale pigiama; per assurdo, sembravo sano come un
pesce. Aspettandomi
di non riuscirci, provai a sollevare il braccio e a portarmelo al viso.
Inaspettatamente, sia pure con qualche dolore e una certa esitazione,
la mia
mano si sollevò dalla coperta e andò a toccare la
mia guancia. Alla lista di
sorprese, se ne aggiunse un’altra: erano almeno cinque anni
che portavo poco
meno di un centimetro di barba, mantenuta ad un lieve livello di
trasandatezza.
Quello che sentii sotto i polpastrelli fu invece un viso
pressoché liscio, con
appena un lieve accenno di peluria. Con una punta di qualcosa che solo
dopo
avrei riconosciuto come il primo accenno di una crisi di panico, mi
resi conto
che non mi avevano rasato, neanche il miglior rasoio del mondo avrebbe
potuto
fare un lavoro così perfetto. Quello che stavo toccando era
il volto di un adolescente,
al quale la barba stava ancora pensando se iniziare a crescere.
‘Non mi sono
svegliato’ pensai ‘Sono ancora in coma, e sto
facendo una specie di sogno
estremamente vivido. Non c’è altra spiegazione: un
incidente stradale quasi
mortale non può certo farti ringiovanire di una decina
d’anni!’.
I miei movimenti attirarono
l’attenzione del capannello di
persone che circondavano il mio letto, le quali si voltarono
all’unisono verso
di me. Solo a quel punto la mia attenzione si concentrò su
di loro, e a quel
punto conclusi che la mia mente doveva essere veramente partita per la
tangente:
c’erano diverse persone vicino a me, la maggior parte delle
quali indossavano
quelle che sembravano delle insolite divise sportive, simili a lunghe
tuniche
corredate da imbottiture, tutte zuppe di acqua e fango. La maggior
parte erano
di colore rosso e oro, mentre una era gialla e nera. Ad indossarle era
un
eterogeneo gruppo di ragazzi e ragazze, a prima vista trai tredici e i
diciassette anni. Tra di loro, spiccavano due ragazzi sulla quindicina,
entrambi con i capelli rossi e identici fino all’ultima delle
numerose lentiggini
che occupavano i loro volti. Credetti di essere sul punto di svenire di
nuovo:
sapevo per certo di non averli mai visti, e sapevo con altrettanta
sicurezza di
conoscere i loro nomi. Questo mi fece sperare di essere veramente
ancora in coma,
perché altrimenti avrei avuto la certezza di essere caduto
nella più totale
follia. L’alternativa era talmente assurda da non potere
neanche essere presa
in considerazione.
L’unica adulta del gruppo,
una donna di una certa età
vestita con una divisa che la faceva assomigliare ad una crocerossina
della
prima guerra mondiale, si avvicinò a me e mi chiese:
“Vedo che è sveglio,
signor Carter. Come si sente? Ha fatto un brutto volo dalla
scopa”.
Incredibilmente, non fu il fatto che
una donna vestita con
un costume centenario mi avesse appena detto che ero caduto da una
scopa a
colpirmi nel profondo, bensì il nome che aveva detto:
Carter? E chi diavolo
era? Io mi chiamavo Matteo Simoncini! E oltretutto mi ero reso conto
che quella
strana tipa mi aveva parlato in inglese, non in italiano! Non ero
proprio
pessimo in quella lingua, ero in grado di capirla e di farmi capire, ma
non
certo di assimilarla come se fosse stata la mia lingua madre, come
invece avevo
fatto pochi istanti prima.
“C…come mi ha
chiamato?” furono le sole cose che riuscii a
dire, e furono più che sufficienti perché il mio
cuore saltasse un battito:
secondo me, avevo parlato in italiano. Avevo pensato le parole in
italiano.
Credevo di averle pronunciate in italiano. Invece erano uscite in
inglese, ed
io le avevo capite perfettamente. Impossibile!
La crocerossina mi si
avvicinò con aria preoccupata,
passandomi una mano sulla fronte per sentire se avevo la febbre:
“Non si
ricorda il suo nome?”.
“N…non ricordo
nulla” dissi, cercando di pendere tempo. Ero
nel caos più totale: ancora una volta le parole erano uscite
in inglese, ma il
mio cervello le aveva tradotte all’istante, come se fosse la
cosa più normale
del mondo. E la mano di quella donna…nei sogni di solito le
sensazioni legate a
tatto e udito erano ovattate, semplificate, ridotte al minimo. Io
invece
l’avevo sentita perfettamente. Al mio naso arrivavano gli
odori tipici di
un’infermeria, ma anche altri che non avrei saputo
identificare in alcun modo,
ma che mi sembravano misteriosamente familiari. E, naturalmente, il
pesante mix
tra sudore e stoffa bagnata che emanava dai ragazzi intorno al mio
letto. Tutto
chiaro. Tutto…vero. E non poteva, non DOVEVA esserlo.
“Ha preso una bella botta
in testa, signor Carter – disse la
crocerossina (un nome saltellava nella mia testa, cercando di trovare
la strada
per la parte razionale della mia mente, ma stavo facendo del mio meglio
per
respingerlo: se l’avessi chiamata in quel modo, anche solo
nel mio cervello,
avrei dovuto ammettere di aver imboccato la strada che conduceva ad una
casa di
cura) –Un’amnesia non è del tutto
insolita”.
“Si riprenderà,
Poppy?” chiese una voce proveniente dalla
mia destra. Mi voltai, temendo quello che avrei visto: accanto al
capannello di
ragazzi era comparsa una donna alta, dall’età
indefinibile, con i capelli neri
severamente stretti in una crocchia, che indossava un paio di occhiali
squadrati. Il mio stomaco fece una doppia capriola: non era
possibile…
assolutamente non lo era! Non poteva essere lei!
“Ma certo, Minerva
– disse impietosamente la crocerossina –
Oltre a diverse ossa rotte o comunque malandate, aveva una piccola
incrinatura nella
parte posteriore del cranio. L’ho sistemata, naturalmente, ma
il colpo deve
avere intaccato la sua memoria. Gli tornerà, ne sono certa.
Per il momento, è
meglio che si faccia un’altra dormita. Una bella pozione per
il sonno, e sono
certa che al suo risveglio sarà come nuovo”.
“Sono perfettamente
d’accordo” – concordò con
autorità la McGr…
la donna con i capelli a crocchia (dovetti farmi violenza per non
completare il
nome, non dovevo chiamarla in quel modo, dovevo ricordare di stare
sognando, altrimenti
il mio cervello non avrebbe avuto la minima possibilità di
riprendersi). Un
istante dopo, la prof… la donna si rivolse a me con quello
che somigliava ad un
sorriso comprensivo: “Un brutto debutto per lei, signor
Carter, ma non deve perdere
fiducia in se stesso: visto il tempo atmosferico disastroso e
considerato che
era il suo debutto in una vera partita di Quidditch, ha giocato molto
bene. Ha
messo anche a segno trenta punti. Come ho già detto al
signor Potter, non deve
assolutamente colpevolizzarsi per la sconfitta, in questo gioco si
può vincere
o perdere, l’importante è dare sempre il massimo e
giocare con impegno e
lealtà”.
“G…grazie”
riuscii a balbettare. A parte lo shock, a
impedirmi di elaborare una risposta leggermente più
articolata fu il fatto che nel
mio cervello era ormai in corso una rivoluzione. In teoria, il fatto
che fossi
convinto di essere in un sogno avrebbe dovuto spingermi a stare al
gioco, a
divertirmi fino al risveglio. In altri casi, se mi fossi trovato a
sognare una
situazione del genere, lo avrei fatto. Ma in quel momento non mi stavo
divertendo per niente: a parte la preoccupazione per le mie condizioni
fisiche
(se stavo davvero immaginando tutto, dovevo essere in coma, ed era per
assurdo
la spiegazione meno negativa), nel mio cervello avevano iniziato ad
accavallarsi due ricordi differenti, e questo mi sembrava del tutto
impossibile.
In uno, rivivevo l’incidente in macchina.
Nell’altro, mi vedevo volare in aria
a cavallo di una scopa, attraverso un fortunale, con la pioggia che mi
sbatteva
violentemente in faccia, diretto verso un anello che a stento si
intravedeva attraverso
le cascate d‘acqua. In mano stringevo una palla rossa.
Nell’esatto istante nel
quale portavo in alto il braccio per lanciarla, sentivo un colpo
violentissimo
dietro la testa, e la vista mi si oscurava di colpo. Uno splendido
film…che non
poteva che essere un delirio di una mente che cercava di riprendersi
dopo i
danni subiti nell’incidente immortalato nell’altro
ricordo, perché quello che
vedevo NON POTEVA ESSERE SUCCESSO!
Fortunatamente la prof…la
donna scambiò la mia scarsa
loquacità per le conseguenze dei colpi subiti, e dopo avermi
concesso un ultimo
sorriso di incoraggiamento si avviò verso una grande porta
di legno per uscire
dall’infermeria. Madama Ch…- LA CROCEROSSINA,
maledizione! –si avvicinò al mio
letto tenendo in mano un bicchiere pieno di un liquido incolore. Doveva
essere
la ‘pozione soporifera’ che aveva citato prima. La
presi e la vuotai senza
pensarci: qualsiasi cosa fosse, non poteva farmi male, visto che stavo
sognando
tutto, e se il mio cervello era veramente convinto che si trattasse di
un
preparato capace di farmi addormentare, forse avrebbe funzionato
veramente, e
la volta successiva mi sarei svegliato sul serio. Mi stavo attaccando a
qualsiasi cosa, perché smettere avrebbe significato
ammettere un’opzione che
semplicemente, in quel momento, volevo lasciare fuori.
Potenza della mente umana!
Nell’arco di pochi secondi
iniziai a sentire le palpebre pesanti, e sentii la sonnolenza piombarmi
addosso. Appoggiai la testa sul cuscino e detti un’ultima
occhiata alle persone
che mi circondavano, certo che non le avrei più riviste. Una
ragazza nera con i
capelli a treccine mi sorrise: “Riprenditi presto”
mi disse. Ricambiai il
sorriso. Uno dei ragazzi rossi fece una smorfia: “Non ci ha
portato molta
fortuna il fatto che tu abbia sostituito Alicia, ma vedi di riprenderti
lo
stesso”.
“E lascialo in pace,
George! Se la colpa deve essere di qualcuno,
è sicuramente mia. Josh ha fatto più di quello
che chiunque potesse aspettarsi,
considerando che era al debutto”.
L’ultima voce non sembrava
provenire dai ragazzi di fronte a
me, bensì dal letto alla mia sinistra. Mentre gli occhi
iniziavano a chiudersi,
girai la testa per guardare oltre il capannello, favorito dal
separé aperto.
Vicino all’altro letto c’erano due giovani,
apparentemente entrambi sui tredici
anni, vestiti con lunghe tuniche nere che sul petto mostravano un
simbolo rosso
e oro. Il ragazzo era alto e allampanato, con capelli rossi e
lentiggini che ne
attestavano la parentela con i due gemelli. La ragazza era
più bassa, con i
capelli castani ed estremamente ricci, ed era piuttosto carina, se si
escludevano i denti davanti, che erano piuttosto grandi. A colpirmi fu
però il
ragazzo sdraiato sul letto, che indossava un pigiama molto simile al
mio: era
alto e magro, con capelli neri e ribelli e due lucenti occhi color
verde
chiaro, sopra i quali portava un paio di occhiali rotondi. A dare il
colpo di
grazia a quel poco che restava della mia salute mentale fu
però la cicatrice a forma
di saetta che campeggiava al centro della sua fronte, subito sotto
l’attaccatura dei capelli. A quel punto mi arresi, era
perfettamente inutile
fare finta di niente: avevo riconosciuto quel posto da quando avevo
aperto gli
occhi la prima volta, e avevo riconosciuto la maggior parte delle
persone che
avevo intorno in quel momento. In qualsiasi altra occasione, sarei
stato felice
di sognare una cosa del genere, ma in quella situazione sembrava
veramente
troppo reale per godermi la situazione. Ancora non ero arrivato a
pensare
quella che era la verità, non potevo minimamente immaginare
quanto profondi
fossero i guai nei quali mi trovavo. La mia mente non era pronta, e la
speranza
di potermi semplicemente svegliare nella realtà non era
tramontata.
In ogni caso, vedere quella
particolare persona mi spinse a
cedere le armi, a porre fine alla mia tattica del rifiuto a tutti i
costi.
Mentre mi addormentavo, lanciando nel tempo e nello spazio la speranza
che la
successiva volta che avrei aperto gli occhi tutto sarebbe stato
normale,
sorrisi al ragazzo sul letto e mormorai: “Grazie,
Harry”.
Eccoci alla
fine di
questo prologo. Spero veramente di avervi interessato. Vi chiedo, se
possibile
di dedicare un minuto alla scrittura di un commento, mi interessa molto
conoscere la vostra opinione. Prometto che risponderò a
tutti!
Salvo
complicazioni,
credo che pubblicherò un capitolo a settimana, quindi ci
rivedremo il prossimo
mercoledì!
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Capitolo 2 *** Capitolo Uno ***
Salve
a tutti i lettori della mia storia.
Ho
deciso di anticipare di qualche giorno la pubblicazione del secondo
capitolo. Ho voluto dare un po’ più di materiale
ai lettori, sperando che decidano di lasciarmi qualche commento in
più!
Scherzi
a parte, mi farebbe molto piacere leggere le vostre opinioni:
è molto tempo che non scrivo una fanfiction, e vorrei
veramente scoprire cosa ne pensate, anche se dovessero essere commenti
negativi.
Grazie
mille, e buona lettura!
CAPITOLO
UNO
La
prima cosa che vidi, quando aprii nuovamente gli occhi, fu la luce
entrare dalle grandi finestre a sesto acuto dell’infermeria.
Anche mentre cercavo di scrollarmi di dosso il sonno, non feci fatica a
capire che il mio tentativo era fallito: non ero tornato a casa, non
ero in un ospedale o nella mia camera. Ero ancora nello stesso luogo.
Un luogo straniero, e che allo stesso tempo mi era fin troppo
familiare. Girando lentamente la testa a sinistra, vidi Harry russare
placidamente nel letto accanto a me, gli occhiali appoggiati sul
comodino. Accanto al suo letto era posata una borsa. Sapevo che cosa
conteneva: i resti della sua scopa, distrutta dal Platano Picchiatore
dopo la partita contro Tassorosso, nel novembre del suo terzo anno di
scuola.
Ricordarmi
quel dettaglio fu più che sufficiente a farmi rischiare un
crollo nervoso, e dovetti trattenermi dall’urlare. Non era un
sogno! Era folle, assurdo, delirante, completamene
impossibile… eppure era vero! Non ero più nel mio
mondo. Non ero in alcun modo in grado di trovare una spiegazione
razionale a quello che stava succedendo, eppure in quel momento io
stavo guardando l’infermeria di Hogwarts!
Hogwarts…
era impensabile. Mi voltai di nuovo a guardare Harry, che continuava a
dormire senza avere idea della situazione nella quale versava quello
che, per lui, era un semplice compagno di scuola. Io, dal canto mio,
dovetti ammettere con me stesso di stare osservando quello che era
stato con ogni probabilità il più grande eroe
letterario della mia infanzia e della mia adolescenza, che in quel
momento era vivo e vero a pochi metri da me.
Le
mie viscere si rovesciarono letteralmente, ed avvertii un conato di
vomito. Cercando di fare meno rumore possibile, mi catapultai verso una
porta laterale, sperando che fosse il bagno. Per mia fortuna, avevo
indovinato, perché feci appena in tempo a chinarmi sul water
prima di vomitare tutto quello che avevo nello stomaco. Ci misi quasi
un minuto prima di riprendermi a sufficienza da trascinarmi fino al
lavandino e sciacquarmi la bocca. Con una certa dose di timore, alzai
lo sguardo verso lo specchio. Quello che vidi mi costò quasi
un infarto: il volto che mi osservava non era il mio… e allo
stesso tempo lo era. Conoscevo bene quella faccia, anche se non la
vedevo da molto tempo: quello che avevo davanti ero
io…dodici anni prima. Nello specchio c’era un me tredicenne
che mi fissava stupefatto: quello che stavo guardando era il volto
paffuto di un ragazzino appena entrato nell’adolescenza,
senza ancora neppure un accenno di barba. Riconobbi tutto: i capelli
lisci, castani chiarissimi, lunghi sulle tempie come li portavo alle
scuole medie; gli occhi marroni con un chiaro riflesso verde, in quel
momento sgranati dal terrore; il naso leggermente schiacciato; perfino
uno degli incisivi inferiori leggermente storto. Tutto perfetto, tutto
identico. Abbassai lo sguardo: anche fisicamente ero perfettamente
identico a come ero stato dodici anni prima. Ero relativamente alto per
la mia età, e abbastanza robusto, anche se con un accenno di
pancia, memoria di un bambino grassottello cresciuto di colpo in
altezza due anni prima.
Aprii
nuovamente la cannella e mi passai più volte
l’acqua gelata sulla faccia, nel tentativo di schiarirmi le
idee, poi mi trascinai al mio letto e vi crollai sopra, stanco come
dopo una maratona. La notte di sonno aveva fatto sparire quasi tutti i
dolori, ma mi sentivo ugualmente a pezzi. Respirai lentamente, cercando
di fare ordine nella mia mente. Ormai era chiaro che ero finito,
chissà in quale modo, in un mondo che sarebbe dovuto
esistere solo nei libri. Ero entrato nella storia di Harry Potter, e in
quel momento ero nel corpo di uno studente di Hogwarts.
‘Calmo,
devo stare calmo. Farmi prendere dal panico non migliorerà
in alcun modo la mia situazione. Devo cercare di riflettere’.
Il problema era che nella mia memoria c’era un vero e proprio
ciclone, con ricordi che si sovrapponevano apparentemente senza alcun
controllo: da una parte c’era la vita di Matteo Simoncini,
venticinque anni, studente italiano prossimo alla laurea in storia
contemporanea; dall’altra, però, oltre quello che
avrei potuto descrivere solo come un denso banco di scurissima nebbia,
avvertivo la presenza di altri ricordi, dei quali riuscivo ad afferrare
solo dei frammenti, dei flash, ma che sembravano premere per uscire.
‘Devono
essere i ricordi dell’altro me, di questo ragazzo, di quello
che sto impersonando’ mi dissi, cercando di trovare un filo
conduttore nel caos. Già il mio
‘personaggio’, però, poneva un problema
non da poco: avevo letto tutti i libri di Harry Potter almeno una mezza
dozzina di volte, e la partita nella quale Harry cadeva dalla colpa
faceva parte del terzo tomo. Purtroppo, a meno che non mi stessi
perdendo qualcosa di fondamentale, solo Harry era caduto in quella
partita. In maniera confusa, ricordavo di aver giocato da cacciatore in
sostituzione di…di… di Alicia Spinnet, che si era
presa una bronchite allenandosi sotto il diluvio, e di essere caduto a
causa di un bolide che mi aveva colpito alla nuca. Nel libro che
ricordavo io, però, nulla di tutto ciò era
successo: Alicia aveva giocato regolarmente, e solo Harry si era fatto
male. Un momento: mi stavo preoccupando delle modifiche improvvise alla
trama di un libro quando mi trovavo intrappolato in un mondo di
fantasia?
‘Ok,
un problema alla volta. Cerchiamo di andare con ordine’. Mi
resi subito conto che chiedermi in che modo ero finito lì mi
avrebbe comprato solo un biglietto per l’ospedale
psichiatrico più vicino. Non avevo neanche mezza
possibilità di capirlo, andava decisamente oltre le
capacità del mio cervello. La sola ipotesi che ero in grado
di fare era che l’incidente mi avesse, in qualche modo,
catapultato in quel mondo. Come fosse possibile che esistesse
fisicamente un universo partorito dalla mente di una scrittrice, e come
avessi fatto io a finirci dentro, mi era impossibile capirlo, e per
assurdo, non era neanche particolarmente importante. La cosa
fondamentale era che qualcosa mi ci aveva trasportato, e che non avevo
idea di come poter tornare alla mia vita di prima. Sempre che
– e qui un brivido mi attraversò la schiena
– avessi ancora una vita alla quale tornare.
L’immagine dell’albero mi invase la testa:
l’ultimo evento che mi aveva riguardato nel mio mondo era
stato un terrificante incidente stradale. Forse – secondo
brivido – ero morto, e quello nel quale mi ero ritrovato era
l’Aldilà. Cercai di scartare questa ipotesi come
semplicemente troppo assurda: sembrava la trama di un pessimo fantasy.
La misi da parte, anche se una minima parte della mia mente non
riuscì a lasciarla completamente perdere.
‘Bene,
per prima cosa mettiamo i punti fermi: mi trovo nel modo di Harry
Potter, per la precisione poco prima della metà del suo
terzo anno, e non so come uscirne. Cosa devo fare?’.
Incredibilmente, la soluzione era molto semplice: se non potevo
andarmene, dovevo restare. Dovevo vivere quella vita, nella speranza
che mi si presentasse l’occasione per tornare alla mia
normale esistenza. Nel frattempo, sarei stato uno studente tredicenne
di Hogwarts. Un momento, ecco il secondo problema: chi diavolo ero io?
Avevo già appurato che la partita da me giocata contro
Tassorosso sotto il fortunale stonava con la storia ufficiale, ma in
generale non avevo alcun ricordo del mio personaggio nei libri. Tanto
per cominciare, come accidenti mi chiamavo? Non Matteo Simoncini, di
questo ero sicuro. Vediamo… Madama Chips e la professoressa
Mc Grannitt (sì, ormai potevo chiamarle così) mi
avevano chiamato ‘signor Carter’, e Harry mi aveva
apostrofato come ‘Josh’. Provai a scavare nella mia
memoria, andando a cozzare contro il muro di nebbia… ecco,
vedevo qualcosa… Joshua Carter! Ecco il mio nome! Joshua
Carter... un momento: chi diavolo era Joshua Carter? Non ricordavo
nessuno, nella saga di Harry Potter, con un nome simile. Cercai di
scartabellare i miei ricordi dei sette libri, e già in quel
momento vidi le prime avvisaglie di qualcosa di strano: nonostante in
teoria dovessi conoscere a menadito tutta la storia dei sette anni, per
quante volte avevo letto la storia, i miei ricordi erano chiari e
nitidi solo fino ad un punto ben preciso: la partita contro Tassorosso
del giorno prima. Avrei potuto ripetere quasi giorno per giorno quello
che Harry, Ron, Hermione e tutti gli altri avevano fatto nei primi due
anni della loro carriera scolastica, dalla difesa della Pietra
Filosofale alla battaglia contro il basilisco, fino
all’incidente di Harry con sua zia Marge
dell’estate precedente, tutto fino al giorno prima.
Più avanti, però, le cose cambiavano nettamente:
dal giorno dopo i miei ricordi erano oscurati, annebbiati, confusi.
Riuscivo a strappare solo qualche barlume. In quel momento non ci feci
granché caso, attribuendo il fatto allo stato confusionale
nel quale versavo.
In
ogni caso, una cosa era sicura: nei primi due anni e mezzo della storia
non c’era alcun Joshua Carter. Non era un personaggio creato
dalla Rowling. Qualsiasi forza mi avesse scaraventato in quel mondo,
sembrava aver pensato a tutto: non solo aveva inventato un personaggio
specifico nel corpo del quale inserirmi, ma sembrava avergli costruito
anche un background che lo amalgamasse agli altri personaggi,
modificando la storia quel tanto che bastava perché
‘Joshua Carter’ ne entrasse a far parte.
C’era
solo un piccolo problema: della storia di questo nuovo
‘me’ io per il momento ricordavo poco e niente. A
giudicare dalla matassa di nebulosi ricordi che occupavano la mia
mente, ero certo che prima o poi avrei recuperato i ricordi della vita
di Carter, ma per il momento come avrei fatto a presentarmi agli altri?
Ah, ma la ‘forza misteriosa’ aveva pensato anche a
questo! L’illuminazione mi giunse come un fulmine: la
partita! Mi era stata fornita la scusa perfetta per una memoria
ballerina: un bel colpo in testa, ed i ricordi confusi o mancanti
diventavano perfettamente spiegabili. Chiunque, o qualsiasi cosa mi
avesse voluto lì, si era impegnato di brutto
perché la mia presenza fosse più che
giustificata. Una conclusione leggermente inquietante, in effetti, ma
in quel momento non me ne preoccupai più di tanto, avevo
già sufficienti pensieri.
“Vedo
che si è svegliato, signor Carter. Voglio sperare che questo
significhi che si sente meglio”.
Alzai
gli occhi: Madama Chips stava uscendo dal suo ufficio, un sorriso
rassicurante sul volto.
Mi
passai la mano sulla faccia, simulando una sofferenza molto superiore
rispetto a quella che realmente provavo: “Ancora un
po’ dolorante, Madama Chips, ma decisamente meglio di ieri.
Ho ancora un po’ di mal di testa e di dolori alle ossa, ma
migliorano velocemente”.
“Ne
ero sicura. In fondo, ho visto infortuni molto peggiori del suo. E per
quanto riguarda la memoria?”.
Scossi
la testa: “Non bene. Ricordo bene l’incidente, ma
il resto è una serie di flash, di frammenti. So di
chiamarmi Joshua Carter, di essere un Grifondoro del terzo anno, e di
aver fatto un bel volo dalla scopa ieri, ma poco altro”.
L’infermiera
della scuola sembrava molto sorpresa: “Una reazione molto
forte, anche per un colpo in testa violento come quello che ha
incassato lei. Non ha proprio altri ricordi chiari? Non si ricorda, per
esempio, della sua famiglia?”.
Prima
che potessi inventarmi qualcosa per rispondere, visto che della
famiglia di Joshua Carter non ricordavo in quel momento niente di
niente, Harry, forse disturbato dalla nostra conversazione,
iniziò a muoversi, e pochi secondi dopo sollevò
la testa dal cuscino, afferrò gli occhiali dal comodino e li
indossò: “Buongiorno, Madama Chips”
disse, mentre il suo sguardo si abbassava sulla sacca contenente i
miseri resti della sua scopa. Vidi i suoi occhi adombrarsi.
“Buongiorno,
Potter. Vedo che anche tu ti stai riprendendo – disse
l’infermiera, mentre i suoi occhi correvano ai rimasugli di
legno e saggina – Ho aspettato che ti svegliassi prima di
buttarla, immagino fossi affezionato alla tua
scopa…”.
“No
– rispose seccamente Harry, lo sguardo ancora cupo
– La prego, non la getti”.
“Potter…-
riprese Madama Chips, con voce quasi compassionevole – mi
dispiace molto, ma credo tu ti renda conto che non è
riparabile, è ridotta in pezzi…”.
Harry
scosse nuovamente la testa, poi, quasi a troncare la discussione, si
girò verso di me: “Tu come ti senti, Josh? Hai
fatto un volo quasi peggiore del mio”.
“Fisicamente
abbastanza bene – risposi, con una sincerità
insolita per uno nella mia situazione – E’ la testa
che non va”.
“Ancora
problemi di memoria?” chiese Harry, con una nota di
preoccupazione.
“Già.
Tutto quello che è successo prima di ieri sera sembra
avvolto nella nebbia” dissi mestamente. Un attimo dopo, mi
venne un’idea. Era assurda, ma forse poteva avere qualche
speranza di riuscita. Probabilmente sarebbe stato come prendere a calci
una macchina ingolfata, ma tanto valeva provare:
“Perché non mi racconti quello che sai di me? -
chiesi ad Harry – Può darsi che, con un
po’ di stimolo, la mia memoria si decida a tornare a
funzionare”.
In
realtà non ci contavo molto, ma ero sinceramente curioso di
sapere qualcosa di più riguardo alla vita di Joshua Carter,
il ruolo che io, per così dire, mi stavo trovando ad
interpretare.
Harry
mi osservò sorpreso per qualche secondo, poi rispose:
“Posso provarci, ma devo ammettere che ancora non so
moltissimo di te, sei arrivato solo da tre mesi. Ci hai raccontato di
essere di padre americano e di madre gallese. Sei nato a Filadelfia, e
hai frequentato i primi due anni a Ilvermorny. Poi i tuoi genitori
hanno divorziato, e tu sei tornato in Gran Bretagna con tua madre e tua
sorella…”.
“Sheila!”
lo interruppi. Incredibile a dirsi, aveva funzionato. Le parole di
Harry avevano aperto una breccia nella nebbia della mia memoria, e
alcune informazioni erano riuscite a farsi strada: “Mia
sorella si chiama Sheila, ha dieci anni, e inizierà a
frequentare Hogwarts il prossimo settembre. Mia madre si chiama
Katherine Jones, lavora come erbologista. Mio padre è
Benjamin Carter, lavora per il MACUSA, il Ministero della Magia
americano, e non lo vedo da giugno, da quando c’è
stato il divorzio. Ho conosciuto te e gli altri il primo di settembre,
sul treno per Hogwarts, e la stessa sera il Cappello Parlante mi ha
smistato a Grifondoro”.
Avevo
ripetuto quelle informazioni come una sorta di apparecchio elettronico,
e ad Harry non poté che sfuggire una risata:
“Niente male, considerando che hai detto tutto praticamente
senza riprendere fiato! Altro?”.
Iniziai
a ridere anche io: “No, per adesso no. Immagino che il resto
tornerà con il tempo”.
Era
esattamente quello che pensavo: nell’assurdità
della mia situazione, la sola cosa che potevo fare era aspettare e
stare a vedere. Non avevo la minima idea di quello che mi aspettava in
quel mondo, che mi era allo stesso tempo nuovo e conosciuto. Ancora non
riuscivo a ricordare gran che di quello che, secondo la storia
‘ufficiale’, sarebbe accaduto negli anni
successivi, ma sapevo che presto le cose si sarebbero fatte difficili,
addirittura drammatiche. C’era qualcosa
nell’aria… una tragedia che incombeva, ancora
distante, ma in avvicinamento. In quel momento ero certo che mi sarebbe
venuto in mente tutto, e che forse sarei addirittura riuscito ad
evitarla, qualsiasi cosa fosse. Casa mia non mi era mai sembrata
più distante, non sapevo se sarei mai riuscito a tornarci,
ma ero consapevole di una cosa: se volevo sperare di trovare un sistema
per tornare ad essere Matteo Simoncini, il solo modo era vivere come
Joshua Carter.
La
porta dell’infermeria si aprì, e la squadra di
Quidditch al completo, questa volta accompagnata anche dal capitano
Baston e da una convalescente Alicia Spinnet (accidenti, le avevo
sempre immaginate carine le tre cacciatrici di Grifondoro, ma erano
addirittura meglio di quanto credessi!). Erano venuti tutti a visitare
i loro compagni infortunati. Con un sorriso, tornai nel ruolo di Joshua
Carter e mi preparai ad accoglierli.
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Capitolo 3 *** Capitolo Due ***
Salve a tutti
Ecco a voi
il terzo
capitolo della mia storia
Anche se i
due
precedenti non hanno riscosso il successo che avrei sperato, ho deciso,
almeno per
il momento, di andare avanti con la storia.
Ancora una
volta,
vorrei invitarvi a lasciarmi un commento, anche se negativo.
CAPITOLO
DUE
Mi sono sempre considerato una
persona piuttosto adattabile:
mettetemi in un qualsiasi luogo, ed entro poco tempo io
riuscirò ad
abituarmici. Detto questo, adattarsi alla vita di Hogwarts non fu
semplice
neanche per me: le settimane successive al mio rocambolesco arrivo in
quel
mondo furono estremamente complicate e spossanti. A mia difesa, chi non
si
sarebbe trovato in difficoltà? Non soltanto dovevo
affrontare lo shock di
essere ridiventato di colpo un adolescente, come se superare una volta
quell’età meravigliosa quanto assurda non fosse
stato sufficiente, ma dovevo
anche barcamenarmi con quello che voleva dire studiare in una scuola di
magia.
Una scuola di magia! Roba da matti. Mi trovavo a vivere cose che avevo
solo
letto nei libri. Allo stesso tempo un sogno e un incubo.
Hogwarts era perfino più
incredibile di quanto avessi mai
anche solo immaginato. C’era tutto: dalle scale che
all’improvviso decidevano
di cambiare direzione ai personaggi dei quadri che si muovevano e
parlavano.
Era superiore addirittura a quello che avevo visto nei film! E la Sala
Grande…
la prima volta che vidi il soffitto stregato per essere una copia
esatta del
cielo, il lunedì a colazione dopo essere uscito
dall’infermeria, rischiai
l’infarto! E ne rischiai un secondo pochi minuti dopo, quando
il fantasma di
Nick-Quasi-Senza-Testa spuntò dal tavolo passando con la
testa proprio
attraverso il mio piatto! Sicuramente qualcuno dei miei compagni di
scuola notò
il mio comportamento insolito, ma suppongo abbiano attribuito la cosa
al mio
status di convalescente. Dovetti però ammettere che la
cucina di Hogwarts era
addirittura migliore di quanto Harry e gli altri dichiaravano nei libri.
Mentre cercavo di abituarmi al
castello e alla mia nuova esistenza,
dovetti mettermi al lavoro sulla mia vita sociale. Purtroppo la mia
memoria
continuava a funzionare a scartamento ridotto, almeno per quanto
riguardava il
passato recente di Joshua Carter, quindi dovetti continuare a fingermi
rintronato
dal colpo in testa mentre cercavo di fare chiarezza sui miei rapporti
con i miei
compagni di casa. Non fu un’impresa facile, soprattutto
considerando che mi
stavo approcciando al compito come un venticinquenne che vestiva i
panni di un tredicenne.
Una situazione che presentava qualche lato leggermente oscuro, lo
ammetto, ma
in quel momento io, a tutti gli effetti, ero un adolescente in mezzo ad
altri
adolescenti, e in effetti non ci misi molto a ricordare che cosa voleva
dire
avere quell’età, quando tutto ti sembra possibile
e a portata di mano. Se sul
momento non fu semplice, nell’arco di pochi mesi sarei
tornato quasi
letteralmente indietro nel tempo, ed avrei affrontato le situazioni
più come un
ragazzo che come un adulto. Nei primi giorni dopo il mio traumatico
risveglio,
però, la cosa che più mi premeva era capire il
posto che Joshua Carter occupava
all’interno della storia che mi stavo trovando a vivere. Per
mia fortuna, non fu
affatto difficile: gli altri ragazzi si rivelarono particolarmente
aperti e
gentili. A quanto pareva, il Cappello Parlante mi aveva smistato a
Grifondoro,
ed in qualche modo era stato fatto entrare un sesto letto nel
già abbastanza
affollato dormitorio del terzo anno. Condividevo la stanza, oltre che
con Harry
e Ron, con Neville Paciock, Seamus Finnigan e Dean Thomas. Come gli
altri che
avevo visto fino a quel momento, anche i tre ragazzi erano praticamente
identici a come li immaginavo: il grassottello e timido Neville,
Seamus, che
era lo stereotipo del più puro irlandese, e Dean, scuro e
riccioluto. A quanto
scoprii quasi subito, proprio con gli ultimi due avevo sviluppato un
ottimo
rapporto, sia pure in appena tre mesi: passavamo insieme praticamente
ogni
minuto libero, che si trattasse di studiare, giocare a Spara Schiocco
(quel
gioco impiegò circa cinque minuti ad appassionarmi) o a fare
qualsiasi altra
cosa. Passare tutto quel tempo insieme a loro era fantastico: certo,
sentivo la
mancanza degli amici che avevo lasciato “dall’altra
parte”, come ero arrivato a
definire il mio mondo, ma Dean e Seamus, pur essendo tecnicamente
appena
entrati nella mia vita, mi facevano sentire come un fratello, e
nell’arco di
una settimana ero arrivato a considerarli tali. Con una certa sorpresa,
sviluppai rapidamente un ottimo rapporto anche con Ginny Weasley, la
sorella
più piccola di Ron: dai libri, almeno nei suoi primi anni ad
Hogwarts,
risultava una ragazzina timida e insicura, devota in maniera quasi
patologica
ad Harry, ma in realtà si rivelò presto una
persona simpatica e volitiva, che
non si sarebbe mai fatta mettere i piedi in testa da nessuno.
Già il secondo
giorno dopo il mio risveglio ci ritrovammo a discuteresu un problema
relativo
al regolamento del Quidditch, e andammo avanti qualcosa come
un’ora e mezza,
senza che nessuno dei due fosse disposto a recedere dalle sue
posizioni, per
poi finire in una grassa risata. Ginny passava spesso i pomeriggi con
noi,
insieme alla sua amica e compagna d’anno Mary Sutton. Mary
rappresentò una
sorpresa per me, perché non compariva in nessuno dei libri.
A quanto pareva,
quel mondo si stava impegnando per completare anche le parti della
storia che
la Rowling aveva trascurato, inserendo i ragazzi che nel corso della
vicenda
raccontata dall’autrice erano rimasti semplicemente sullo
sfondo. Mary,
arrivata a Hogwarts l’anno prima, era una dodicenne piccola e
sottile come un
giunco, ma il suo viso delicato,
i
lunghi capelli biondi e mossi e gli occhi color del mare raccontavano
chiaramente quale bella donna sarebbe diventata nell’arco di
pochi anni.
L’aspetto dolce non doveva però ingannare: aveva
addosso abbastanza pepe e
peperoncino da mettere a posto chiunque si fosse fatto venire
l’idea di
comportarsi da prepotente con lei o con chi le stava vicino.
Per quanto riguardava gli altri tre
compagni di stanza, i
rapporti erano cordiali ma più superficiali: Neville era
bloccato dalla sua
timidezza, mentre Harry e Ron tendevano a fare squadra da soli, al
massimo con
la collaborazione di Hermione Granger. Mi promisi comunque di cercare
di
avvicinarmi di più ad Harry: non ricordavo ancora bene il
motivo, ma sapevo che
lui sarebbe stato al centro di tutto negli anni successivi. In
generale, mi
resi conto che Joshua Carter era riuscito a mantenere buoni rapporti
con tutta
la casa di Grifondoro molto meglio di quanto Matteo Simoncini fosse mai
riuscito a fare con le sue vecchie classi delle medie e del liceo. Mi
promisi
di continuare, per quanto possibile, su quella strada, anche
perché non avevo
mai avuto dei compagni di scuola così interessanti. I
gemelli Weasley, poi, lo
erano anche troppo: mi bastarono un paio di giorni ed una improvvisa
trasformazione in una sorta di canarino gigante a causa di una
crostatina che
avevo incautamente assaggiato per comprendere che, per quanto potessero
essere
spassosi, con loro era meglio mantenere sempre alta
l’attenzione.
Se i rapporti umani procedettero da
subito nel migliore dei
modi, i miei primi approcci con la magia mi provocarono una serie di
esperienze
ai limiti del panico, che iniziarono già domenica
pomeriggio, quando finalmente
Madama Chips si decise a dimettermi dall’infermeria. Mentre,
dopo essermi
infilato con qualche difficoltà la divisa di Hogwarts, mi
apprestavo a lasciare
la stanza, infatti, l’infermiera mi ricordò di
prendere la mia bacchetta dal
cassetto del comodino. Il mio cuore ebbe un tuffo: la mia bacchetta
magica! Non
ci avevo neanche pensato fino a quel momento! Certo era normale che
Joshua
Carter ne avesse una, ma impegnato com’ero a cercare di
mettere ordine nella
mia memoria non mi ero neanche chiesto dove fosse.
Con mano tremante aprii il cassetto.
Mi si rivelò un
bastoncino di legno rossastro, lungo poco meno di trenta centimetri e
finemente
lavorato. Dovetti ingoiare un groppo che stava minacciando di bloccarmi
la gola,
perché un pensiero orribile mi aveva attraversato la mente:
e se non fossi
stato in grado di usarla? Joshua Carter sarà pure stato un
mago, ma Matteo
Simoncini era un Babbano in tutto e per tutto. Quale dei due avrebbe
‘sentito’
la bacchetta? Che diavolo avrei potuto fare in quella scuola se non
fossi stato
in grado di fare incantesimi?
Il terrore scomparve
nell’istante esatto nel quale le mie
dita si strinsero intorno alla bacchetta: avvertii una sorta di
formicolio, a
metà tra un’ondata di calore e una lieve scossa
elettrica. Fu come se un rivolo
di acqua calda mi risalisse lungo il polso e il braccio. Avrei avuto
voglia di
lanciare subito un incantesimo, uno qualsiasi, ma mi trattennidal fare
esperimenti, Madama Chips difficilmente avrebbe apprezzato. Anche senza
fare
prove però, ero certo di possedere la magia. Prima di uscire
dall’infermeria
guardai più attentamente la bacchetta, ed una sorta di flash
mi attraversò la
mente: ‘Undici pollici e mezzo, abete rosso e piuma della
coda di un
Thunderbird, un Uccello del Tuono’. L’insolita
combinazione mi sorprese per un
istante, poi però ricordai: Joshua Carter aveva passato i
suoi primi due anni
di scuola a Ilvermorny, quindi quella bacchetta era stata acquistata
negli
Stati Uniti. Non era certamente un prodotto di Ollivander,
laggiù utilizzavano
nuclei molto diversi, ricordavo di averlo letto da qualche parte.
Il mio sollievo, comunque, non fu di
lunga durata, perché
già il lunedì mattina, mentre mi avviavo alla
prima lezione della mia vita
(Trasfigurazione con la Mc Grannitt) il terrore era già
tornato a piena forza.
Possedere la magia era, infatti, una cosa, saperla usare era
un’altra! In
teoria io ero quasi a metà del mio terzo anno, ero
tutt’altro che un
principiante, eppure mi sembrava di non ricordarmi assolutamente
niente: non un
incantesimo, non una formula per la trasfigurazione, non una pozione.
Tabula
rasa. Quando entrai in classe le gambe mi tremavano: la scusa della
memoria mi
avrebbe forse potuto salvare per un paio di giorni, poi però
l’infermiera
avrebbe confermato che in me non c’era nulla che non andava.
A quel punto che
avrei fatto? Avrei tentato di dire la verità? Chi mi avrebbe
mai creduto?
Rischiavo di essere semplicemente preso per pazzo.
Ancora una volta, però, il
problema si risolse da solo non
appena mi trovai a prendere la bacchetta per eseguire la
trasfigurazione
richiesta dalla professoressa, che a quanto pare era una sorta di
ripasso delle
lezioni precedenti. Nell’istante nel quale la mia mano
tremante si strinse sul
legno, mi sembrò che il mio corpo agisse in automatico nel
muovere la bacchetta
e nel pronunciare la formula. Un attimo dopo, il topo che avevo davanti
era
diventato una perfetta tabacchiera d’argento, un exploit che
mi valse i
complimenti della Mc Grannitt e cinque punti per Grifondoro. Nelle
lezioni
seguenti sperimentai situazioni simili praticamente in tutte l materie:
a
quanto pareva, almeno per quanto riguardava la vita e le esperienze di
Joshua
Carter, la mia memoria funzionava, per così dire,
‘a spinta’; aveva bisogno di
essere stimolata, ma poi iniziava ad andare. Con il passare dei giorni
riuscii
a ricostruire la maggior parte del mio bagaglio magico.
Dalle reazioni dei professori, in
particolare, compresi che,
chiunque fosse stato per loro Joshua, in certi ambiti era molto diverso
da me,
e lo studio era uno di questi: non che il ragazzo americano fosse
scarso, ma io
e lui sembravamo avere interessi e capacità differenti in
alcuni campi. Trasfigurazione
e Incantesimi non furono un problema: Carter era piuttosto bravo, ed
io,
novizio nel mondo della magia, le affrontai da subito con un entusiasmo
tale da
sorprendere sia la Mc Grannitt che Vitious. Lo stesso si può
dire per Difesa
contro le Arti Oscure: fin dalla prima lezione mi trovai ad adorare
Lupin, sa
come persona che come insegnante, anche se, da qualche parte nella mia
mente,
avvertivo che c’era in lui qualcosa che non tornava. La vera
sorpresa, però, fu
Storia della Magia: scoprii fin da subito che Ruf era perfino
più noioso di
quanto si dicesse nei libri, ma in questo caso mi aiutò non
tanto Joshua,
quanto Matteo. Da laureando in Storia, ci misi circa cinque minuti ad
appassionarmi
a quelle vicende incredibili. Non avevo bisogno neanche degli appunti:
divoravo
letteralmente il gigantesco libro di testo come se fosse stato un
romanzo
avvincente, lasciando stupefatti Dean e Seamus, che fino a quel momento
mi
avevano visto utilizzare quel tomo unicamente come cuscino durante le
lezioni,
ma soprattutto Hermione, che rischiò di cadere dalla sedia
quando, al primo
test, io fui il solo oltre a lei a prendere il massimo dei voti.
Scoprii di
essere stato fortunato anche per quanto riguardava le materie a scelta
del
terzo anno: Joshua frequentava Babbanologia, e per uno che fino a pochi
giorni
prima era vissuto da Babbano era una pura e semplice passeggiata, Cura delle Creature Magiche, che era piuttosto interessante, e
Antiche
Rune, per le quali otto anni di esperienza con il latino tra liceo e
università
mi permisero addirittura di alzare un po’ i voti.
Fin qui le note positive, ma fin da
subito mi resi conto che
in alcuni settori le cose non sarebbero state per niente facili. Se
infatti in
Astronomia mantenni il livello
“senza-infamia-e-senza-lode” del Carter
‘pre-incidente’, lo stesso non si poteva dire per
quanto riguardava Pozioni. Mi
trovai a scoprire che la Rowling aveva descritto Piton alla perfezione:
viscido,
untuoso, parziale in maniera spudorata, carogna fino
all’ultima fibra del suo
essere, un vero e proprio Bastardo. Per di più, riuscii da
subito a scontrarmi
con lui a causa della mia assoluta incapacità di tenere la
bocca chiusa e per
la fin troppo ampia capacità di rispondere in maniera
tagliente. Una pessima
idea, con chi può punirti liberamente: nell’arco
di due settimane riuscii a far
perdere quaranta punti a Grifondoro e a beccarmi tre giorni di
punizione in tre
occasioni diverse. Davanti al calderone, le cose non andarono meglio:
ero
sempre stato scarso in chimica, e Pozioni era fin troppo simile per i
miei
gusti. Miracolosamente, riuscii a non far esplodere niente, ma i
risultati
furono pessimi, cosa che, davanti ai suoi occhi, mi pose appena un
gradino
sopra Harry: un idiota del quale si sarebbe volentieri liberato alla
prima
occasione.
Gli scontri con Piton furono solo la
prima dimostrazione di
un fatto innegabile: Matteo Simoncini aveva lasciato in
eredità a Joshua Carter
il suo caratteraccio. Per quanto riuscii a capire, Joshua era
considerato un
ragazzo tranquillo, quasi timido, quindi fu per gli altri una grossa
sorpresa
vederlo trasformarsi in un elemento ostinato e abbastanza permaloso,
perfino
attaccabrighe se la situazione lo richiedeva, impossibilitato per
natura a
restare fuori dai guai e, soprattutto, incapace di sopportare
l’altrui
prepotenza, anche se non rivolta direttamente a lui. Inevitabilmente,
questo mi
portò allo scontro con certi personaggi di una certa Casa
dai colori verde e
argento. Impiegai appena due giorni prima di mettermi nei guai: mentre
mi
spostavo da una classe all’altra, vidi un gruppetto di
Serpeverde, trai quali
riconobbi due bestioni dall’aria stupida che non avevano
bisogno di
presentazioni ed una testa bionda che ne necessitava anche meno,
sghignazzare
spudoratamente mentre uno di loro tormentava una ragazzina minuscola
con la
divisa di Tassorosso. Quando lo vidi cercare di strapparle la borsa dei
libri
non riuscii a trattenermi: misi la mia cartella in mano ad uno
stupefatto
Neville senza tante cerimonie, mi fiondai su di lui, lo afferrai per il
bavero
e lo spinsi via, apostrofandolo con alcune espressioni non esattamente
educate,
che fecero restare più di uno dei presenti a bocca aperta.
Solo a quel punto lo
osservai meglio: era magro come un chiodo, con una faccia allungata ed
un naso
arricciato che gli davano l’aspetto di un coniglio troppo
cresciuto. Solo in
seguito scoprii che si trattava di Theodore Nott, ma in quel momento,
per
quanto mi poteva interessare, si sarebbe potuto trattare anche di
Merlino in
persona, ero troppo impegnato a scambiarmi
‘piacevolezze’ con lui per
preoccuparmi della sua identità. Non saprei dire esattamente
come si sviluppò
il nostro confronto, fatto sta che dopo neanche un minuto entrambi
avevamo
sfoderato le bacchette e ce le stavamo puntando addosso. Altri dieci
secondi, e
almeno un’altra decina di persone ci avevano imitati.
Difficile dire cosa
esattamente avessi intenzione di fare con la bacchetta: in quel
periodo, visto
il poco che riuscivo a ricordare, nelle mie mani era poco
più di un bastoncino.
La tentazione maggiore, in effetti, era quella di metterla via e
sferrare a
Nott un bel pugno. Una vera e propria battaglia nel corridoio fu
evitata solo
dal tempestivo intervento di Vitious, che si mise in mezzo obbligandoci
a
riporre le bacchette. Una volta che i presenti gli ebbero spiegato come
si
erano svolte le cose, il piccolo professore si produsse in una pesante
ramanzina collettiva, riservando una particolare attenzione a Nott, per
poi
togliere venti punti a Grifondoro e trenta a Serpeverde. Io e Nott ci
guardammo
ancora in cagnesco, un’occhiata che prometteva un futuro
regolamento di conti,
ma sul momento non successe niente, e ci allontanammo. Vedendo le facce
di Dean
e Seamus, che comunque avevano estratto le loro bacchette in mio
appoggio, compresi
che una reazione così decisa non era tipica di Joshua. Mi
giustificai dicendo
di essere stato preso dalla rabbia vedendo Nott attaccare una del primo
anno, e
questo sembrò convincerli. Nelle settimane successive,
però, mi fecero notare
in diverse occasioni che il bolide in testa mi aveva regalato una nuova
personalità, decisamente più volitiva.
Tornando alle lezioni, fu
sicuramentein Erbologia che il
crollo si rivelò disastroso, e probabilmente abbastanza
vergognoso, almeno a
giudicare dalla faccia della professoressa Sprite. Purtroppo non potevo
farci
nulla: il mio alter ego sarà stato probabilmente aiutato
dall’avere una madre
erbologista che gli aveva trasmesso la passione per piante e funghi
magici, ma io
non ero mai riuscito a far sopravvivere neanche un cactus.
Nell’arco di poche
settimane distrussi letteralmente un Puffagiolo nel tentativo di
staccare i
baccelli, venni aggredito e brutalmente sgraffiato da un Pugnacio e
soffocai un
Grinzafico con talmente tanto fertilizzante da farlo collassare in due
ore. Un
disastro completo. Difficilmente mia… la madre di Carter
sarebbe stata
soddisfatta dei risultati del figlio in quel particolare campo.
Katherine Jones era senza dubbio uno
dei punti più critici
per abituarmi alla mia nuova vita: inutile dirlo, provavo una nostalgia
profonda e viscerale per la mia famiglia, che mi aveva portato
addirittura a
versare qualche lacrima nel cuscino. Non avevo la minima idea del modo
nel
quale mi sarei rapportato con lei e con quella che doveva essere mia
sorella,
anche perché per il momento i ricordi che avevo di loro
erano molto scarsi. Guardavo
con terrore all’idea di tornare a casa per le vacanze di
Natale. Non avevo la
minima speranza: se Katherine somigliava anche minimamente a mia madre,
ci
avrebbe messo circa quindici secondi a capire che in suo
‘figlio’ c’era
qualcosa che non tornava per niente, e questo avrebbe portato ad una
conversazione estremamente sgradevole. Ancora una volta,
però, la fortuna mi
venne in aiuto: il giovedì successivo al mio rientro in
classe, durante la
colazione, un grosso gufo scuro lasciò cadere una lettera
davanti al mio
piatto. Con un piccolo tuffo al cuore, sulla busta vidi scritto
‘da mamma’.
La aprii, e quasi tirai un sospiro di
sollievo: dopo avermi
informato della perfetta salute sua e di mia
‘sorella’, avermi raccontato
qualche aneddoto della città dove vivevamo (a quanto pareva,
Bangor nella
contea di Gwynedd, Galles del Nord) e avermi chiesto le classiche
informazioni
su scuola e amici, la signora Jones mi confermava il fatto che lei e
Sheila,
nelle vacanze di natale, si sarebbero recate a trovare mia
‘zia’ in Nuova
Zelanda, dichiarandosi molto dispiaciute per essere costrette a partire
prima che
la scuola finisse, e che quindi non sarei potuto andare con loro.
Sentii un
peso sollevarsi dalle mie spalle: avrei avuto tempo fino
all’estate, e
sperabilmente per allora la mia memoria sarebbe stata in condizioni
sufficientemente dignitose da permettermi di parlare con loro senza
essere
immediatamente scoperto. Già nel pomeriggio le inviai una
risposta con un gufo
della scuola, rispondendo alle domande che mi aveva fatto e dichiarando
che non
ero assolutamente offeso, e che anzi ero molto curioso di passare il
Natale
nella nuova scuola. La parte più difficile, lo devo
ammettere, fu scrivere
‘Cara mamma’ in cima alla pergamena, e mi
provocò una fitta di nostalgia così
violenta da costringermi a soffocare un singhiozzo: anche se era solo
una
lettera, mi sembrava un tradimento, e mi chiesi come avrei mai fatto a
dirle
quella parola in faccia.
In breve, nell’arco di un
paio di settimane ero arrivato a
sentirmi a tutti gli effetti uno studente di Hogwarts: certo, mi
addormentavo
ancora con la timida speranza di svegliarmi nel mio mondo, ma ogni
mattina
nella quale questo non si realizzava diminuiva un po’.
Cominciavo a considerare
la possibilità che quella sarebbe stata, da quel momento in
poi, la mia vita.
Avevo anche brevemente considerato la possibilità di recarmi
da Silente e
raccontargli tutto: fin dal primo secondo nel quale avevo visto il
Preside
seduto al tavolo degli insegnanti in Sala Grande, avevo sentito
un’ondata di fiducia
invadermi, e mi ero scoperto ad apprezzare quell’uomo anche
se non ci avevo mai
parlato. Alla fine, però, avevo deciso di non confessare:
sapevo che Silente
era tipo da ascoltare fino in fondo uno studente, anche se la sua
storia era
folle, ma la mia era talmente strana da essere, a mio parere,
impossibile da
credere anche per una mente aperta come quella del Preside. Oltretutto,
sembrava trattarsi di un caso unico: avevo provato a fare qualche
ricerca in
biblioteca, ma non c’era neanche un accenno alla
possibilità che un mago si
trovasse di colpo in un mondo totalmente diverso dal suo. Certo, non
avevo
spulciato tutto lo scibile magico, ma la sensazione che provavo mi
diceva che
il mio caso era realmente un’eccezione assoluta, e che solo
il tempo avrebbe
potuto dirmi come sarebbero andate le cose. Nel frattempo, dovevo
cercare di
vivere meglio che potevo.
In una situazione tutto sommato
soddisfacente, la più grossa
delusione, nelle prime settimane da mago, venne dalla mia memoria:
subito dopo
essermi svegliato avevo attribuito la quasi totale mancanza di ricordi
relativi
a ciò che era scritto nei libri della saga, e quindi, in
quel mondo, agli
eventi futuri, allo shock del mio viaggio. Ero però convinto
che, presto o
tardi, mi sarebbe tornato tutto in mente, e avrei guadagnato
un’assoluta
conoscenza sugli eventi che si sarebbero verificati. La parte
più egocentrica
della mia personalità già mi vedeva come una
sorta di ‘deus ex machina’, capace
grazie alle sue conoscenze di cambiare il corso della storia. In questo
ambito,
però, dovetti ricredermi: nei giorni successivi le cose non
migliorarono, e
cercare di chiarire le cose assomigliava sempre di più al
tentativo di
acchiappare la nebbia. Qualunque forza avesse deciso di spedirmi in
quel mondo,
aveva prestato attenzione a tutti i particolari, e aveva deciso di non
donarmi
l’onniscienza: non solo non ero in grado di vedere il futuro,
ma perfino gli
eventi che avvenivano nel presente e dei quali non avevo
un’esperienza diretta
mi restavano oscuri. Una condizione frustrante. Questo non vuol dire,
però, che
la mia conoscenza del mondo di Harry Potter fosse completamente
scomparsa.
Qualcosa era sopravvissuto. Difficile dare una definizione esatta di
quello che
provavo…per quanto sciocco possa sembrare, avevo sviluppato
qualcosa di molto
simile ad un ‘Senso di Ragno’: quando accadeva un
evento nel quale era
contenuto qualcosa che andava al di là di quello che Joshua
Carter poteva
comprendere con i normali cinque sensi, la mia mente mi mandava
qualcosa di
molto simile ad una piccola scossa elettrica, una sorta di avviso sul
fatto che
davanti a me c’era più di quello che sembrava.
Qualche volta la scossa era accompagnata
anche da qualcosa che somigliava a flash di memoria, che, con una buona
dose di
impegno e fortuna, potevano permettermi di ricostruire
l’accaduto, come una
sorta di puzzle.Lo stesso, avrei scoperto in seguito, avveniva quando
stava
succedendo qualcosa di particolarmente importante o particolarmente
pericoloso:
il ‘Senso di Ragno’ provava ad avvisarmi, anche se,
non dandomi indicazione sul
tipo di pericolo e la sua provenienza, l’utilità
era tutto sommato limitata.
In un certo senso, mi sentivo deluso:
avevo creduto di poter
diventare una sorta di divinità, invece mi ero trasformato
in Spider Man! In realtà,
comunque, non potevo lamentarmi: era vero che non avevo le ragnatele,
ma la
bacchetta magica mi sembrava una valida sostituzione!
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Capitolo 4 *** Capitolo Tre ***
CAPITOLO
TRE
La prima volta che mi resi conto
dello strano comportamento
della mia memoria, nonché l’esordio sul campo del
mio misterioso sesto senso
avvenne poche settimane dopo il mio inspiegabile viaggio,
l’ultimo fine
settimana prima della fine del trimestre, durante la seconda uscita
annuale ad
Hogsmeade. Per mia fortuna, Katherine Jones aveva regolarmente firmato
il
permesso per il proprio figlio, quindi quella mattina, ben imbacuccato
per
proteggermi dall’inverno scozzese (in quel momento sentivo
veramente forte la
nostalgia dell’Italia), potetti scendere anch’io
verso il villaggio insieme a
Dean, Seamus e Neville.La neve cadeva con delicatezza, rendendo il
paesaggio
intorno ad Hogwarts estremamente suggestivo. Hogsmeade, poi, sembrava
una
cartolina natalizia, con i piccoli cottage dal tetto spiovente coperti
di neve,
le ghirlande sulle porte e candele incantate appese agli alberi. A
rovinare un
po’ l’atmosfera contribuivano però gli
avvisi appesi alla porta dei negozi, che
ricordavano che i Dissennatori avrebbero pattugliato le strade dopo il
tramonto
fino a nuovo ordine, mentre da parecchi muri, stampato su avvisi di
taglia
simili a quelli che si vedono nei film western, occhieggiava un volto
scavato incorniciato
da un cespuglio di capelli neri arruffati al limite del possibile:
Sirius
Black.
Lo ammetto, in quelle prime settimane
di scuola, entusiasta
per quello che stavo vedendo e vivendo e allo stesso tempo preoccupato
per
quello che poteva essere accaduto al mio corpo dall'altra parte, non
avevo
praticamente pensato a Black, anche se dai miei ricordi sapevo che era
fuggito
da Azkaban nel corso dell’estate e che tutta la Gran
Bretagna, sia magica che
Babbana, lo stava cercando. Certo, uscendo da Hogwarts avevo visto i
Dissennatori all’ingresso, e Harry era caduto dalla scopa
durante la partita
per causa loro, ma, preso da ciò che stava succedendo, non
avevo praticamente
registrato quello che poteva essere un potenziale lato negativo della
situazione.
Pensando a Black, avvertii una sorta di ronzio nella testa, che sul
momento
ignorai. Solo più avanti avrei capito che era il modo di
quello che avrei
definito banalmente ‘Senso di ragno’ di avvisarmi
quando c’era qualcosa che non
andava, quando in una questione c’era più di
quanto l’apparenza lasciava
intendere.
In quel momento, ero troppo preso
dall’esplorazione dei
negozi di Hogsmeade per pensarci. Fortunatamente, nel baule di Joshua
Carter
avevo trovato una discreta quantità di galeoni,
perciò, sia pure con un po’ di
attenzione (chissà a quanto ammontava la mia paghetta,
ammesso che ne avessi
una…), potevo permettermi qualche spesa. Con i miei amici ci
recammo, per prima
cosa, da Mielandia, che si rivelò un vero e proprio paradiso
per golosi.
C’erano interi scaffali di dolci, di ogni tipo possibile e
immaginabile e anche
oltre: dal torrone alle Gelatine Tuttigusti + 1, dalle Api Frizzole ai
Fildimenta Interdentali, fino a intere pile di cioccolato di ogni
genere. Gli
occhi stavano letteralmente per schizzarmi fuori dalle orbite, e
dovetti
lottare con me stesso per non acquistare l’intero negozio.
Gli altri esercizi commerciali non
erano da meno, e mi tolsi
qualche piccola soddisfazione, senza dimenticarmi che mancava poco a
Natale, e
che quello era il luogo migliore per acquistare i regali. Non ero mai
stato
particolarmente abile nello scegliere i doni, ma in quel luogo la
scelta era
talmente ampia da rendere impossibile non trovare qualcosa di buono.
Così,
cercando di non farmi vedere dai diretti interessati, acquistai un
nuovo
cappello per Ginny, una nuova piuma, fatta con una remigante di
gheppio, per
Mary, un grosso pacco di dolci per Neville e una simpatica bussola da
scopa per
Seamus. Per Dean Thomas mi ero già organizzato in maniera
diversa: ricordando
che il ragazzo era un grande tifoso del West Ham, avevo inviato una
lettera a
mia ‘madre’ pregandola di acquistare ed inviarmi
una bandiera della squadra,
spergiurando che l’avrei rimborsata non appena
l’avrei vista.
Anche nella mia mente, continuavo a
mettere le virgolette
intorno al termine ‘madre’ quando pensavo a
Katherine Jones, però dovevo sempre
più ammettere che stavo iniziando ad apprezzare quella donna
e sua figlia, che
nelle lettere che inviavano una volta a settimana si dimostravano
delicatamente
premurose nei miei riguardi, e allo stesso tempo spiritose. I regali
per loro furono
il problema principale della mattinata ad Hogsmeade: non ricordavo
ancora
abbastanza per essere certo di seguire i loro gusti, quindi, dopo lunga
riflessione, cercai di mantenermi sul generico, prendendo una bella
cornice
d’argento a Katherine e una grossa e ben assortita scatola di
cioccolatini a
Sheila (nella speranza che, tra i ricordi che ancora non avevo
recuperato, non
ci fosse una catastrofica allergia al cioccolato).Ebbi una certa
riluttanza,
invece, per quanto riguardava mio ‘padre’: se
c’era una cosa che mi era tornata
in mente, era il fatto che era stato lui a provocare il divorzio,
tradendo
ripetutamente mia ‘madre’. Alla fine, comunque, mi
convinsi a comprare da
Mondomago una pipa in radica autopulente. Spedii tutto con dei gufi
dall’ufficio postale (il gufo reale per la spedizione in
America mi costò un
occhio della testa).
Non avevo mancato di prendere
qualcosa per me, facendo una
nutrita scorta di dolciumi. Fu però al negozio di scherzi di
Zonko che mi
sbizzarrii, dando fondo alla mia fantasia da più che
discreto conoscitore di
scherzi, sia effettuati che subiti: dai Dolci Singhiozzini al Sapone di
Uova di
Rana, feci una buona scorta, evitando solo le Caccabombe (avevo sempre
avuto
una certa repulsione per quelle, anche solo leggendole nei libri). Un
oggetto
in particolare mi colpì: sembrava una sorta di orecchio di
gomma scavato
all’interno. Lessi il cartellino attaccato sotto:
Orecchio dello Spione, 4
galeoni l’uno
Sospettate che i vostri
amici parlino male di voi alle
vostre spalle?
I giudizi del vostro capo
non vi convincono?
Con l’Orecchio
dello Spione sentirete senza essere visti!
Applicatelo sul vostro
orecchio e ascoltate
l’inascoltabile!
Efficace fino a dieci metri.
Effetti collaterali:
orecchio gonfio, ronzio uditivo,
cefalea, temporanea sordità (raro).
Difficile dire perché
quello strano oggetto mi colpì tanto.
Forse perché dall’altra parte stavo cercando di
diventare un giornalista, e una
simile apparecchiatura sarebbe stata la proverbiale manna dal cielo.
Non mi sembrava,
però, una spiegazione valida. Era tornato il ronzio in
testa: da una parte
quell’oggetto mi ricordava qualcosa, anche se pur con tutto
l’impegno non
riuscii ad identificare cosa. Dall’altra, una voce insisteva
nel dirmi che mi
sarebbe potuto servire. Alla fine cedetti e ne presi uno,
benché il numero dei
galeoni a mia disposizione avesse iniziato a ridursi in maniera
leggermente
preoccupante e non avessi la minima idea di come avrei potuto
utilizzarlo.
Alla fine, dopo aver lungamente
girovagato per il villaggio,
decidemmo di andare a scaldarci un po’ ai Tre Manici di
Scopa, il principale
locale di Hogsmeade, che trovammo molto affollato, chiassoso e fumoso,
ma allo
stesso tempo accogliente. La barista, la formosa Rosmerta, ci
portò quattro
burrobirre, e devo dire che la trovai squisita, scaldava in pochi
secondi
nonostante il gelo all’esterno. Il posto era pieno di
studenti: ad un tavolo
vicino riconobbi Hermione, Ron e…Harry? Che diavolo ci
faceva Harry a
Hogsmeade? Mi sembrava che avesse detto di non avere il permesso, che i
suoi
tutori Babbani non lo avevano firmato…come aveva fatto a
superare Gazza
all’ingresso?
Alla fine decisi di non farmi troppe
domande, anche se una
vocina in fondo alla mente cercava di dirmi qualcosa, riguardo a
una…mappa
forse? In quel momento non riuscivo proprio a raccapezzarmi, e decisi
di non
preoccuparmene, tornando a prendere parte alla conversazione in corso
al
tavolo.
Mi trovavo bene con tutti e tre
ragazzi presenti, ma
certamente il mio preferito era Dean Thomas: il ragazzo era cresciuto
con
genitori Babbani, e per uno che aveva passato venticinque anni come
Babbano era
molto facile intavolare una conversazione con lui. La mia
capacità di
rispondere a tono sorprese gli altri, che sapevano che Joshua Carter
proveniva
da una famiglia di maghi, quindi dovetti rapidamente citare un
carissimo zio
Babbano, marito di una delle due sorelle di mia
‘madre’. Per assurdo, dalla mia
memoria risultava veramente che una delle due sorelle di Katherine
avesse
sposato un Babbano, anche se i rapporti non erano così
stretti. Dopo pochi minuti,
io e Dean finimmo per avviare una serrata discussione sul calcio. Per
mia
fortuna, ero tutt’altro che ignorante per quanto riguardava
il calcio degli
anni ’90: solo pochi anni prima, per dare una piccola lezione
ad un poco
simpatico insegnante di storia, avevo portato
all’università una folle tesina
sull’evoluzione della Premier League inglese dalle origini
agli anni 2000,
quindi sapevo di che cosa parlava il ragazzo quando paragonava Teddy
Sheringham,
Les Ferdinand e Alan Shearer.
“Sheringham e Ferdinand
hanno avuto una stagione notevole,
hanno un gran senso del gol e una buona tecnica, ma credo di non aver
mai visto
un attaccante con la classe di Shearer, con il pallone è
capace di fare
letteralmente qualsiasi cosa – stava dicendo Dean, che da
qualche minuto andava
avanti a paragonare i migliori goleador del campionato inglese, con
somma noia
degli altri due studenti seduti al tavolo, che di calcio sapevano meno
di
niente – Secondo te chi è il miglior attaccante in
circolazione?” mi chiese
alla fine.
“Ronaldo, senza
dubbio” risposi senza riflettere. Un attimo
dopo avrei avuto voglia di prendermi a calci da solo: inevitabilmente,
avevo
parlato pensando a Cristiano Ronaldo, e ovviamente, alla fine del 1993,
lui
giocava ancora nei Pulcini a Madeira. Per un istante, sperai di potermi
salvare
parlando del Fenomeno, ma la faccia interrogativa di Dean mi fece
subito capire
che era troppo presto perfino per lui: all’epoca era ancora
un giocatore
promettente, ma praticamente sconosciuto, che si stava facendo le ossa
in
Brasile. Sarebbe arrivato in Europa solo l’anno successivo.
Come avevo fatto a
non pensarci?
“Ro…chi? Non
l’ho mai sentito nominare” chiese Dean.
Per mia fortuna, sono sempre stato
bravino come cantastorie,
e riuscii ad inventarmi una balla a tempo di record: raccontai che il
famoso
zio Babbano lavorava come talent scout per una squadra olandese, il PSV
Eindhoven, e che l’estate precedente non aveva fatto altro
che parlare di
questo ragazzo diciassettenne appena arrivato al Cruzeiro, che a suo
dire aveva
un talento pressoché infinito.
“Mi ha fatto vedere alcune
cassette: quel ragazzo ha una
classe incredibile, non mi stupirei se fosse anche lui un mago visto
quello che
fa con il pallone! – sghignazzai, cercando di stemperare il
momento di
imbarazzo - Ha detto che il prossimo anno vuole portarlo in Europa a
tutti i
costi, e che c’è da aspettarsi meraviglie da
lui!”.
Dean non sembrava completamente
convinto della mia risposta,
ma prima che potesse chiedermi altro la porta del locale si
spalancò, e tutta
l’attenzione venne catalizzata dai nuovi arrivati: nella
stanza erano entrati
la professoressa Mc Grannitt, il professor Vitious e l’enorme
Hagrid, il quale
era impegnato in una fitta conversazione con un tipo robusto che
indossava un
mantello gessato e una bombetta color verde acido.
“Accidenti! –
esclamò Seamus stupito – Quello è
Cornelius
Caramell, il Ministro della Magia!”.
“Che ci fa qui?”
chiese sorpresoNeville, mentre i quattro si
avvicinavano ad un tavolo accanto a quello di Harry, Ron ed Hermione.
Con la
coda dell’occhio, vidi Harry rovesciarsi addosso buona parte
della sua Burrobirra,
per poi tuffarsi al riparo sotto il tavolo. Un attimo dopo Hermione
sollevò la
bacchetta ed obbligò uno degli alberi di Natale a spostarsi,
fino a nasconderli
alla vista degli insegnanti. Con ogni probabilità, Harry era
davvero uscito da
scuola con un trucco.
“Sirius Black ci fa, cosa
altrimenti? – intervenne Dean –
Dopo che è entrato ad Hogwarts ad Halloween, questa zona
deve essere diventata
il cuore delle ricerche”.
I quattro si sedettero, e madama
Rosmerta li raggiunse poco
dopo con un vassoio di bevande; pochi secondi, e li raggiunse con un
bicchiere,
sedendosi con loro e intervenendo nella conversazione che era iniziata.
“Pagherei dieci galeoni per
sentire quello che si dicono,
deve essere roba interessante” mormorò Seamus, che
aveva già più volte
dimostrato di essere un tipo piuttosto curioso.
Fu un lampo, quasi una frustata: un
pensiero folgorante
attraversò la mia mente, fino ad invaderla completamente.
Non avevo la minima
idea da dove arrivasse, ma avevo la certezza assoluta che
ciò che quelle cinque
persone stavano dicendo non fosse semplicemente interessante, ma
fondamentale.
Quasi meccanicamente, infilai una mano nella busta che avevo appoggiato
accanto
al mio piede, ed estrassi l’Orecchio dello Spione. In
quell’istante, per la
prima volta, compresi la portata delle intuizioni che fino a quel
momento avevo
liquidato con sufficienza: forse non avrei mai ricordato tutta la
storia, le
forze che dominavano il mio nuovo Mondo sembravano ben decise ad
impedirmelo,
ma la mia memoria non era completamente sparita, e in certi momenti
sembrava
darmi dei suggerimenti. E prendere lo strano prodotto di Zonko era
stato uno di
questi.
“Dieci galeoni? –
mormorai, mentre, cercando di non farmi
notare, mettevo l’orecchio finto sopra il mio – Ne
bastano quattro”.
“Vuoi origliare quello che
dicono il Ministro e gli
insegnanti?” chiese Neville con gli occhi sgranati dalla
paura.
“Sei impazzito? -
proseguì Dean – Questa è roba seria,
non
una marachella di scuola!”.
“Sssssth! –
sibilai, mentre le prime parole arrivavano al
mio orecchio. Non era facilissimo distinguere la conversazione del
tavolo che
mi interessava dal brusio del resto del pub, ma dopo pochi secondi di
adattamento iniziai a comprendere la maggior parte delle parole. Quello
che
sentii nei successivi minuti mi fece gelare il sangue, come se
l’inverno fosse
improvvisamente entrato all’interno del locale.
“Assurdo, è
perfino peggio di quanto mi hanno raccontato i
miei!”.
“Non è solo un
assassino, ma un sudicio traditore!”.
“Ha venduto uno dei suoi
migliori amici e ne ha massacrato
un altro!”.
“Non credevo che potessero
esistere persone simili”.
“Chi ha servito Tu-Sai-Chi
è capace di fare qualsiasi cosa”.
Era da quando eravamo tornati da
Hogmeade che la
conversazione andava avanti. Avevo raccontato agli altri quello che
avevo
sentito dalla bocca del ministro Caramell e dei professori, la storia
di Sirius
Black e le atrocità da lui commesse, e da quel momento era
stato il solo
argomento del quale avevano parlato, sotto shock per le rivelazioni
ricevute.
Dalla faccia che Harry aveva quella sera a cena, era chiaro che anche
lui aveva
sentito tutto. Aveva gli occhi di una persona alla quale è
franato addosso il
mondo, ma in fondo si vedeva una strana fiamma…erano gli
occhi di chi è pronto
ad uccidere. Lo potevo capire: da quello che avevano raccontato, se
c’era una
persona che meritava di morire quella era Sirius Black. Se fossi stato
al posto
suo, avrei voluto strangolarlo di persona.
Ma…
Nella mia testa continuava a
rimbalzare qualcosa di strano,
una sorta di segnale d’allarme. Mi ero ripetuto non so
neanche quante volte la
storia che avevo sentito: Black, a scuola, era stato il migliore amico
di James
Potter, il padre di Harry, al punto da essere testimone al suo
matrimonio e
padrino di suo figlio. Quando i Potter, braccati da Voldemort
(personalmente
non avevo alcuna difficoltà a pensare o pronunciare il suo
nome, ma preferivo
evitare per non mettere in difficoltà chi mi stava vicino),
erano stati
costretti a nascondersi, avevano utilizzato una complicata magia,
l’Incanto
Fidelius, che permetteva di nascondere un segreto in una persona
vivente. Black
era stato scelto come Custode Segreto dai Potter, ma li aveva traditi,
vendendoli a Voldemort, che si era presentato a casa loro ed aveva
ucciso James
e sua moglie Lily. Quando però aveva tentato di uccidere
Harry, il suo
incantesimo gli si era ritorto contro, costringendolo a fuggire,
ridotto più a
uno spettro che ad un uomo. Black, che si era rivelato un traditore nel
momento
più sbagliato, aveva cercato di fuggire, ma era stato
intercettato in una città
Babbana da un altro amico, Peter Minus, che aveva tentato di vendicare
i
Potter. Black lo aveva trucidato, facendo saltare in aria
l’intera strada
insieme ad una dozzina di Babbani, prima di essere catturato e portato
ad
Azkaban. L’estate precedente era fuggito dalla prigione, con
l’obiettivo di
vendicarsi di Harry per poi riunirsi al suo Signore.
Tutto chiaro. Oppure no? Da quando
avevo sentito la storia
nella mia testa era scattato qualcosa di molto simile ad un segnale
d’allarme.
Quello che avrei definito, nei mesi successivi, ‘Senso di
ragno’, mi lanciava
dei chiari avvertimenti: in quella versione c’era qualcosa
che non andava.
Quella notte passai ore nel mio
letto, sveglio come non mai,
a fissare il baldacchino, nel disperato quanto inutile tentativo di
obbligare
la mia mente a ricordare. Perché ero convinto che ci fosse
qualcosa di storto
nella versione che tutti sembravano dare per certa? Sirius Black era
colpevole,
su questo nessuno sembrava avere dubbi. Era un criminale della peggiore
specie.
Cosa poteva esserci che non tornava? Mi sarei volentieri colpito in
testa da
solo: a che diavolo serviva un segnale di pericolo che non ti
specificava da
quale pericolo dovevi guardarti? Sentivo nelle ossa che quel dubbio che
avevo
era fondamentale, ma non riuscivo assolutamente a capire in che modo.
Pur non ricordando quasi nulla della
vicenda che stavo
vivendo, sentivo che ad un certo punto sarebbe divenuta molto, molto
oscura. All’inizio,
avevo sperato di poter intervenire per modificarla. Dopo poche
settimane, però,
avevo capito che le cose sarebbero state molto più difficili
del previsto. Il
mio timore era che, quando la situazione si sarebbe chiarita, sarebbe
stato
troppo tardi per fare qualcosa.
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Capitolo 5 *** Capitolo Quattro ***
Salve ancora
a tutti i
miei lettori.
Come vedete,
per ora,
nonostante non siate in molti, ho deciso di continuare per quelli che
mi
seguono.
Vorrei
chiedervi
ancora, se possibile, di perdere qualche secondo per commentarmi, mi
farebbe
molto piacere avere qualche opinione.
CAPITOLO QUATTRO
Inevitabilmente, la mattina dopo mi
svegliai più stanco di
quando ero andato a dormire, e per di più con un principio
di mal di testa
dovuto ai troppi pensieri della notte precedente. Impiegai qualche
secondo per
rendermi conto che il dormitorio era deserto. Ovvio: era il primo
giorno delle
vacanze natalizie, Neville, Dean e Seamus mi avevano salutato la sera
precedente, dicendomi che sarebbero partiti la mattina presto per
tornare a
casa, ma io avevo a stento registrato la cosa. Faticosamente, mi tirai
in piedi
e mi vestii per scendere nella Sala Comune. Harry, Ron ed Hermione
erano seduti
davanti al fuoco, e sembravano immersi in una conversazione molto
accesa, ma
non appena mi videro si zittirono e mi salutarono quasi con imbarazzo.
Non
dovetti faticare molto per capire di cosa stessero parlando.
Ancora una volta il mio
‘Senso di ragno’ mi dette una
piccola scossa: io sapevo le stesse cose che sapevano loro, la cosa
più sensata
da fare era informarli. Perché fosse la cosa più
sensata, solo il Cielo lo
sapeva, ma ne ero certo.
Scesi le scale e mi avvicinai ai tre:
“Non serve che
cambiate discorso per me, ragazzi. So già tutto di quello
che ha fatto Sirius
Black, e lo sanno anche gli altri del dormitorio”.
Mi fissarono con occhi stupefatti:
“Merlino…come…?”
balbettò
Ron.
Estrassi dalla tasca
l’Orecchio dello Spione: “L’ho preso da
Zonko, serve per ascoltare da lontano le conversazioni altrui. Non so
se lo
avrei indossato sapendo di che cosa avrebbe parlato il Ministro, ma ero
curioso… mi dispiace, Harry” dissi rivolto al
ragazzo corvino, temendo che
reagisse male per l’involontaria intrusione in faccende che
lo riguardavano
direttamente.
Harry per un istante
sembrò tentato dal mettersi ad urlare,
poi scosse la testa e sorrise mestamente: “Non importa, Josh.
Non potevi
saperlo. E comunque, più gente conosce la verità
su quello sporco traditore,
meglio è”.
“Stavamo cercando di
convincere Harry a non fare niente di
stupido – disse Hermione, che sembrava quasi felice di avere
un altro che
potesse sostenere le sue posizioni – Non deve mettersi in
pericolo, e
soprattutto non deve cercare Black, rischierebbe soltanto la sua
vita”.
Purtroppo, difficilmente le mie idee
sarebbero potute essere
di grande aiuto per impedire ad Harry di fare idiozie: non sapevo
esattamente
come mi sentivo riguardo a Black, e gli strani e non identificati dubbi
che
continuavano a saltellarmi in testa non erano particolarmente utili per
chiarire la questione, ma sapevo per certo che, se fossi stato al posto
di
Harry, avrei avuto una gran voglia di togliere dal mondo personalmente
l’uomo
che aveva causato la morte dei miei genitori. In quel caso, avere
l’esperienza
di un venticinquenne non era particolarmente utile. Cercai comunque di
non dire
niente di compromettente.
Dopo alcuni minuti, gli altri
decisero di andare a trovare
Hagrid, e io mi aggregai al gruppo. Da quando ero
‘arrivato’ ad Hogwarts non
avevo sviluppato un grande rapporto con l’insegnate di Cura
delle Creature
Magiche, anche considerando che, dopo l’incidente
dell’ippogrifo che aveva
ferito Malfoy (ne avevo un ricordo molto sfumato, visto che era
avvenuto prima
del mio ‘arrivo’), le lezioni erano diventate una
vera noia. Curare per un’ora
dei Vermicoli mi aveva fatto rimpiangere le ore di matematica al liceo,
e
trattandosi di me, era qualcosa di preoccupante. L’uomo,
comunque, mi era parso
simpatico, quindi l’idea di conoscerlo meglio non mi
dispiaceva affatto.
Purtroppo, la visita si
rivelò un mezzo disastro: trovammo
Hagrid a pezzi, con l’aria di chi non aveva fatto altro che
piangere nelle
ultime ore. La motivazione era contenuta in una missiva ufficiale
arrivata dal
Comitato Soppressione delle Creature Magiche Pericolose: Fierobecco,
l’Ippogrifo che aveva ferito Malfoy, sarebbe stato
processato, grazie alle
pressioni fatte dal padre del biondino.
I miei ricordi dei primi due anni e
mezzo della scuola mi
avevano già fornito parecchie ragioni per non prendere in
simpatia il viscido
ragazzino Serpeverde, ma in quel momento arrivai letteralmente ad
odiarlo.
Faceva parte di una categoria che avevo disprezzato con tutto me stesso
per
tutta la mia carriera scolastica: un arrogante, pomposo bastardo figlio
di
papà, invidioso di chi riusciva meglio di lui e capace di
qualsiasi meschinità
nei confronti di chi riteneva inferiore. Perciò, quando gli
altri si offrirono
di aiutare Hagrid a preparare la difesa di Fierobecco, non esitai
minimamente
ad offrirmi volontario per dare il mio apporto. Non conoscevo ancora
molto del
mondo magico, ma le mie esperienze da giornalista dall’altra
parte mi avevano
fornito un discreto quadro di quello che era la politica, e speravo che
fosse
abbastanza per dare alla piccola carogna Purosangue un più
che meritato calcio
nei denti.
Certo, forse ci avrei riflettuto un
po’ di più se avessi
immaginato cosa significasse trovarsi a discutere con Hermione. Il
giorno dopo
passammo ore in Sala Comune a sfogliare vecchi libri pieni di casi
celebri di
bestie pericolose finite sotto inchiesta, e, inevitabilmente, io e la
giovane
strega finimmo per trovarci ripetutamente su posizioni opposte.
All’ennesima
annotazione di un Ippogrifo processato e condannato, sbattei con una
certa
violenza la copertina del libro, borbottando: “Questa roba
non serve a nulla”.
Gli altri tre alzarono la testa dai
loro tomi con aria
sorpresa.
“Non sarà
così che troveremo un modo per salvare Fierobecco
– continuai – Possiamo continuare quanto vogliamo,
possiamo cercare casi
particolari ed eccezioni, ma la realtà è che, per
come quell’escremento di
Malfoy avrà sicuramente presentato la cosa – Harry
e Ron non trattennero un
piccolo sorriso, mentre Hermione mi fissò scandalizzata
– la legge sarà dalla
loro parte. L’unico modo per vincere è ribattere
sul solo punto che può
cambiare le carte in tavola: l’errore di Malfoy, che lo ha
offeso quando Hagrid
aveva detto chiaramente di non farlo in nessun modo. Dobbiamo preparare
una
testimonianza dettagliata, e firmata da tutti i nostri compagni di
classe,
nella quale sosterremo la posizione di Hagrid e getteremo la
responsabilità di
quello che è accaduto su Malfoy stesso!”.
I due maschi mi fissarono con gioia,
quasi avessi
improvvisamente scoperto l’America, ma Hermione scosse la
testa: “Questo
servirà a meno di niente, Josh. Nessun adulto ha assistito
al ferimento di
Malfoy, tranne Hagrid, che però è parte in causa.
La nostra testimonianza non
verrà neanche ascoltata”.
“Per lo meno,
intorbidirà le acque – insistetti – Non
posso
credere che tutto il Comitato sia sul libro paga di Malfoy Senior. La
nostra
testimonianza farà sorgere qualche dubbio, e potrebbe
risultare determinante al
momento di decidere la pena. Se anche non dovesse essere ritenuto
innocente,
forse Fierobecco potrebbe evitare la condanna a morte”.
Come se non mi avesse sentito,
Hermione continuò: “Comunque,
non riusciremo mai a presentare un fronte unito. C’erano
anche i Serpeverde a
quella lezione, e testimonieranno l’esatto contrario non
appena arriverà loro
la voce di quello che stiamo facendo. Questa strada non porterebbe a
nulla”.
“Certo, salveremo
sicuramente Fierobecco andando a vedere in
che modo un altro Ippogrifo è stato condannato nel 1720 o
giù di lì” esplosi.
Il battibecco tra me ed Hermione
andò avanti per parecchi
minuti, spingendo Harry e Ron ad allontanarsi in silenzio. Avevano gli
occhi
sgranati: probabilmente non avevano mai visto nessuno prenderla di
petto come
stavo facendo io.
Onestamente, ero molto combattuto nel
mio giudizio su
Hermione: da una parte apprezzavo molto la sua indole battagliera e la
sua
forza di volontà, mi ricordavano molto una delle mie
migliori amiche dall’altra
parte. Sul versante opposto, la sua ostinazione, che arrivava al limite
della
petulanza, e la sua assoluta certezza di essere nel giusto avrebbero
fatto
saltare i nervi anche ad un monaco tibetano sul punto di raggiungere il
Nirvana.
Alla fine, nessuno dei due
riuscì a convincere l’altro, e
decidemmo tacitamente di mettere da parte la discussione per riprendere
lo
studio. Anche Harry e Ron tornarono al tavolo, pur continuando a
fissarci con
stupore. In ogni caso, pur preferendo non continuare una lotta inutile,
ero più
che deciso a seguire la mia idea non appena gli altri ragazzi di
Grifondoro
fossero tornati dalle vacanze.
La mattina di Natale mi colse di
assoluta sorpresa. Fu Ron a
farmi saltare in piedi con un urlo da Banshee: “I
regali!”.
Saltai su come colpito da una mazza,
e vidi il rosso che
sembrava deciso a rompere un cuscino in testa ad Harry, il quale, di
malavoglia, cercava di infilarsi gli occhiali. In fondo ai loro letti
c’era una
pila di regali ancora da scartare. Quasi facendomi male al collo, mi
voltai di
scatto, e vidi che anche il mio non faceva eccezione. Il sorriso mi
arrivò
quasi alle orecchie: che Diavolo, a volte era veramente bello sentirsi
di nuovo
un ragazzino! Avevo quasi dimenticato l’emozione di aprire i
regali di Natale!
Il bottino si rivelò
piuttosto consistente: Seamus gli aveva
regalato una splendida scacchiera magica; Dean, un interessante libro
sulla
storia del calcio negli Stati Uniti dalle sue origini
all’inizio degli anni
’90; Ginny, un kit di Gobbiglie; Mary, un bellissimo
Lunascopio. Mia madre e
mia sorella (ormai, anche mentalmente, avevo iniziato a togliere le
virgolette
e ad accettare che per il momento, e forse per sempre a meno di un
cambiamento
improvviso, quella era la mia famiglia) mi avevano inviato uno
splendido
mantello foderato di pelliccia, che mi sarebbe stato sicuramente utile
alla
successiva lezione di Erbologia. Sorprendentemente, però, fu
mio padre a
mandarmi il regalo più spettacolare. L’aspetto era
tutt’altro che
incoraggiante: una semplice busta di carta bianca. Il contenuto,
però, mi fece
quasi saltare sul letto: un biglietto per la finale della Coppa del
Mondo di
Quidditch che si sarebbe tenuta in Inghilterra l’estate
successiva! Era un
argomento che nel dormitorio era venuto fuori più volte, e
tutti sembravano
aspettarla con grande trepidazione, soprattutto Seamus, che sembrava
contare
moltissimo sulla forza della Nazionale Irlandese. Probabilmente gli
occhi mi si
riempirono di stelline. Come dipendente del MACUSA, aveva ricevuto un
omaggio
con largo anticipo, ed aveva deciso di mandarlo a me! Probabilmente era
una
piccola offerta di pace dopo il divorzio, ma non stetti a farmi
domande, l’idea
era troppo allettante, anche se avrei dovuto trovare il modo per
andarci: in
fondo, Joshua Carter avrebbe compiuto quattordici anni solo a luglio,
ed aveva
soltanto un biglietto. Per un evento del genere, però, ero
pronto anche a
scappare di casa!
Avrei voluto mettermi ad urlare dalla
gioia, ma il mio
teoricamente fantastico regalo venne eclissato in partenza da uno di
quelli di
Harry: una Firebolt, la migliore scopa da corsa esistente in commercio!
Perfino
con la mia ancora limitata esperienza del mondo magico sapevo che era
il sogno
erotico di chiunque avesse mai anche solo pensato di giocare a
Quidditch! Io e
Ron ce la stavamo letteralmente mangiando con gli occhi, mentre lui ed
Harry
provavano ad ipotizzare chi gli avesse fatto un simile regalo, visto
che il
pacchetto non era accompagnato da un biglietto.
Hermione, sfortunatamente,
sembrò decisamente meno
entusiasta di noi: appena entrata nel nostro dormitorio, insieme al suo
gatto
Grattastinchi, iniziò a guardare con sospetto la meraviglia
che Harry teneva in
mano, dichiarandosi convinta del fatto che nessuno avrebbe dovuto
cavalcarla.
Prima che potesse spiegare le ragioni del suo pensiero,
però, venne sfiorata
una tragedia: Grattastinchi, lasciato su un letto, assalì
letteralmente Ron, e
dal taschino del ragazzo Weasley schizzò fuori come un
fulmine Crosta, il suo
topo, nel disperato tentativo di sfuggire al cacciatore. Mentre
Hermione
acchiappava il suo gatto e lo portava via arrabbiata e Ron saltellava
per il
dolore dopo che un calcio diretto a Grattastinchi aveva colpito il
baule di
Harry, ebbi l’occasione di osservare per la prima volta il
topo Crosta: era
molto magro e spelacchiato, e sembrava tutt’altro che in
salute. Improvviso
come sempre, il mio ‘Senso di ragno’ mi
lanciò un avviso: il topo… aveva
qualcosa di strano, forse addirittura di malvagio. Un po’
ingenuamente,
scacciai il pensiero come una mosca fastidiosa: quelle strane
sensazioni
avevano dimostrato di essere utili in alcuni casi, ma
insomma… che ci poteva
essere di pericoloso in un vecchio topo? Assurdo. Spider
Man… si, certo.
Probabilmente era il Dottor Octopus travestito! Come Veggente non
valevo
decisamente una cicca.
Gli strani dubbi sul topo di Ron
furono completamente fugati
dallo spettacolare pranzo di Natale nella Sala Grande: con i pochi
studenti
rimasti e gli insegnanti, insieme al Preside, mangiammo ad un solo
tavolo
imbandito al centro della sala. Fu probabilmente uno dei migliori
pranzi della
mia vita, sia a livello di compagnia che di cibo. L’allegria
regnava sovrana quando
rientrammo nel dormitorio. Hermione era rimasta indietro per parlare
con la Mc
Grannitt, quindi io, Harry e Ron ci riunimmo nella Sala Comune per
studiare
meglio la spettacolare scopa regalata a Potter.
‘Meravigliosa’ era una
definizione a dir poco riduttiva: faceva sembrare quelle del resto
della
squadra dei semplici spazzoloni! Stavamo già assillando
Harry perché ci
lasciasse fare un giro, quando la Mc Grannitt entrò nella
stanza. A giudicare
dalla faccia degli altri due, non era una cosa normale. Con lei
c’era Hermione,
che senza degnarci di uno sguardo ci superò, si sedette,
afferrò un libro e ci
si nascose dietro. Una situazione davvero insolita, che divenne
terrificante
nell’arco di pochi istanti: la professoressa, dopo aver
studiato la scopa per qualche
istante, annunciò che avrebbe dovuto portarla via e farla
analizzare, forse
addirittura smontare, per essere certa che non fosse stata maledetta.
Anche
dall’alto della mia ignoranza, manomettere quel capolavoro mi
sembrava poco
meno di un crimine, ma le mie suppliche, così come quelle di
Ron e Harry,
furono perfettamente inutili: fummo costretti a vedere la Mc Grannitt
che
portava la scopa oltre il ritratto della Signora Grassa, che si chiuse
alle sue
spalle.
Harry rimase come paralizzato, mentre
io e Ron reagimmo in
maniera molto meno composta: quasi all’unisono, aggredimmo
verbalmente
Hermione: “Perché sei andata a dirlo alla Mc
Grannitt?” urlò il rosso. Io
rincarai la dose: “Sei impazzita? Ti diverte tanto pugnalare
i tuoi amici alle
spalle? Perché lo hai fatto?”.
Hermione, rossa in viso, si
alzò e cercò di rispondere a
tono: “Perché pensavo, e la professoressa
è stata d’accordo con me, che
probabilmente è stato Sirius Black a mandare quella scopa ad
Harry!”.
La risposta di Hermione
servì solo a far infuriare di più
Ron, che le rispose per le rime, cercando di farle capire quanto
assurda fosse
quell’idea, e che un ricercato come Black non avrebbe mai
potuto recarsi ad
acquistare una scopa, ma io mi ero già estraniato dalla
discussione: “Senso di Ragno”
back in action… la frase di Hermione aveva fatto scattare
nuovamente l’ormai
ben nota scossa elettrica, alla quale non ero ancora certo di poter
dare
credito, ma che non riuscivo ad ignorare. Razionalmente concordavo con
Ron,
nessun uomo ricercato quanto Black avrebbe potuto recarsi in un negozio
alla
moda e fare un acquisto, sarebbe stato come se, dall’altra
parte, il comandante
di Al Quaeda si fosse recato a cena in un ristorante. In una parte
remota della
mia mente, però, una vocina non voleva saperne di smettere
di sussurrarmi che,
in qualche folle modo, ciò che diceva Hermione poteva avere
un fondo di verità.
Nonostante tutto, benché
la mia mente continuasse a
lanciarmi segnali d'allarme, alla fine liquidai l’idea come
un semplice parto
della mente sospettosa di un aspirante giornalista, e mi accodai agli
altri due
nel mantenere alta l’ostilità nei confronti della
ragazza, che per noi era
colpevole di un vero e proprio tradimento. Hermione prese ad evitarci,
e la
situazione non migliorò neanche dopo il ritorno a scuola
degli altri studenti,
dopo la fine delle vacanze natalizie.
La ripartenza delle lezioni non
portò novità particolarmente
positive: Baston, il capitano della squadra di Quidditch, non appena
venuto a
conoscenza della scopa regalata ad Harry e sequestrata dalla Mc
Grannitt, cercò
disperatamente di convincerla a restituirla, senza però
ottenere altri
risultati se non una pesante reprimenda; Hermione continuava a
mantenersi a
distanza da noi tre, anche se, dopo il ritorno di Dean e Seamus, ci
feci poco
caso, considerando che non ero un elemento regolare del loro gruppo.
Oltre che
a lezione, il solo tempo che passavo con Harry era quello dedicato agli
allenamenti: come membro della squadra riserve di Grifondoro, vi
partecipavo,
insieme a Dean, Seamus ed altri quattro per aiutare i titolari ad
allenarsi in
vista della partita contro Corvonero, decisiva per permetterci di
rimanere in
corsa per la Coppa. Harry mi raccontò delle sue lezioni
private con Lupin,
nelle quali cercava, per adesso con poco successo, di imparare
l’Incanto
Patronus, una magia capace di tenere lontani i Dissennatori, nel caso
questi
avessero deciso di presentarsi alla partita successiva.
Più per
curiosità che per altro, mi feci spiegare come si
eseguiva l’incantesimo e cercai di replicarlo, ma anche nel
mio caso,
nonostante mancasse lo stress dovuto all’opprimente presenza
di un vero
Dissennatore, il risultato fu scarso: al mio ‘Expecto
Patronum’ fece seguito
solo l’emissione dalla punta della bacchetta di una nebbia
perlacea, lo stesso
risultato ottenuto da Harry, nel suo caso però di fronte ad
un Molliccio che
replicava fin troppo bene il gelo e la perdita di felicità
originati da un
Dissennatore. Tutto considerato, i miei risultati erano addirittura
inferiori
ai suoi. Dentro di me, imputai gli scarsi effetti
dell’incantesimo alla mia
insolita situazione: i ricordi felici accumulati dall’altra
parte erano
offuscati dalla tristezza per la perdita di tutta la mia vita
precedente,
quelli accumulati ad Hogwarts, per il momento, erano decisamente troppo
poco
potenti. Decisamente, avrei dovuto evitare di attaccare briga con i
demoni neri
di Azkaban nell’immediato futuro.
Intanto, le settimane passavano, e la
mia personale
situazione non sembrava destinata a cambiare: ormai mi comportavo come
un mago
adolescente, e iniziavo decisamente a convincermi che quella sarebbe
stata la
mia esistenza per sempre. Una consapevolezza che mi faceva male al
cuore: tutto
andava bene finché ero impegnato, ma non appena mi fermavo,
la tristezza mi
piombava addosso come un uccello rapace. Avevo insistito a fare qualche
ricerca
in biblioteca, concentrandomi su viaggi magici, strane esperienze,
racconti
misteriosi e insoliti, ma non avevo trovato niente di neppure
lontanamente
simile a quello che era accaduto a me. Non c’era nulla che
potessi fare per
risolvere la cosa. La sola idea che mi era venuta era che potesse
servire
un’esperienza pre-morte, come quella che avevo vissuto
durante l’incidente
stradale, ma oltre ad essere un’idea stiracchiata, non potevo
prendere neanche
in considerazione l’ipotesi di metterla alla prova. Non avevo
istinti suicidi,
e passare da un’esperienza pre-morte alla vera morte era fin
troppo semplice.
Mi dava un certo senso di impotenza sapere che, pur essendo un mago,
non c’era
nessuna stregoneria in grado di farmi tornare nel mio mondo. Potevo
solo andare
avanti, e vivere la vita che mi era toccata in sorte.
Gennaio si trasformò
lentamente in febbraio, tra lezioni e
allenamenti. Il mio stranissimo sesto senso non mi fece altre sorprese
impreviste. Intanto, la mia guerriglia con i Serpeverde, e in
particolare con
Theodore Nott, rimasta strisciante da novembre, continuò a
salire di
temperatura, raggiungendo ben presto il punto di ebollizione. La
piccola
carogna, ben coadiuvata dai suoi compari, aveva preso a chiamarmi
‘Lo Yankee’
ogni volta che gli passavo davanti, mettendo in quella parola tutto il
disprezzo del quale era capace. Non potevo fare a meno di chiedermi chi
avesse
suggerito allo spocchioso rampollo purosangue quel termine Babbano. Ci
aggiungeva ogni volta un po’ di pepe e sale, prendendomi in
giro per qualsiasi
cosa: dai capelli a caschetto al naso schiacciato, dalle mie origini al
mio
incidente sulla scopa, a ogni altra cosa gli passasse per la mente.
Avevo
sempre resistito alla tentazione di reagire, con i pugni o con la
bacchetta: in
tanti anni di scuola mi ero fatto un’esperienza
nell’ignorare gli idioti,
quindi riuscivo ad escludere dal mio udito le parole cattive e le
risate.
Questo fino ad una fredda giornata dell’inizio di febbraio:
stavo andando verso
la Sala Grande per il pranzo chiacchierando amabilmente con Mary,
quando la
sgradevole voce di Nott mi giunse alle orecchie: “Ma guarda!
Lo Yankee si è
fatto la ragazza! Non avrei mai creduto che qualcuno avrebbe potuto
sopportare
la sua puzza di imbranato!”.
Mi voltai di scatto: Nott era
appoggiato ad una parete,
sghignazzante, insieme ad un alto ragazzo nero che mi sembrava si
chiamasse
Blaise Zabini e ad un paio di ragazze Serpeverde del terzo anno delle
quali non
ricordavo proprio il nome. Tutti e quattro avevano un ghigno malvagio
dipinto
sul volto. Mary arrossì furiosamente, ma cercò di darsi un contegno, e mi sussurrò:
“Lasciali perdere, andiamo…”.
“Mi chiedo –
continuò imperterrito Nott – come qualcuno
possa essere così idiota da stare vicino ad un simile
personaggio. Un perdente
che trasuda stupidità da ogni poro. Questa scuola
è caduta veramente in basso
per accettare una simile spazzatura. Mi sorprendi veramente, Sutton,
non credevo
fossi così stupida”.
Sentii una rabbia sorda salirmi
dentro. Avevo sopportato
Nott per tre mesi, finché aveva insultato soltanto me non
era stato neanche
particolarmente difficile, ma il fatto che per ferire me avesse deciso
di
mettere in mezzo Mary rendeva decisamente più complicato
mantenere sotto
controllo il mio tutt’altro che accomodante carattere. Feci
la mossa di
dirigermi verso di loro, ma Mary, ancora rossa in volto, mi afferrò per un braccio:
“Josh, lascia
stare, per favore…non ne vale la pena…”.
Stavo quasi per convincermi a lasciar
perdere, quando Nott
mise sul tavolo il proverbiale carico da undici: “Certo che,
effettivamente,
una sciacquetta come lei va bene per un rifiuto come te”.
Non mi resi neanche conto di aver
strappato il braccio dalla
presa di Mary e di aver lasciato cadere la borsa dei libri. Mi diressi
verso il
gruppetto di Serpeverde con il passo di un toro che si prepara alla
carica.
Vidi il volto di Nott passare dalla derisione alla sorpresa, mentre
Zabini e le
due ragazze si allargavano lasciando spazio. Non avevo neanche preso la
bacchetta, non sapevo esattamente che cosa volessi fare, solo fargli
molto,
molto male. Quando capì che facevo sul serio, Nott
infilò la mano sotto la
veste, ma ebbe a stento il tempo di estrarre prima che gli piombassi
addosso.
Dall’altra parte non ero mai stato un grandissimo atleta, ma
mi ero rivelato un
decente pilone di rugby, e in quel momento mi produssi in uno dei
migliori
placcaggi della mia carriera: gli piombai addosso come un treno,
colpendolo con
la spalla sotto lo sterno prima che potesse puntarmi addosso la
bacchetta. Nott
buttò fuori l’area di colpo con un sonoro sbuffo.
Pesavo almeno dieci chili più
di lui, e avevo dalla mia l’effetto sorpresa, quindi lo
sbattei a terra con
sorprendente facilità. Rotolammo dolorosamente sul pavimento
di pietra. Notai a
stento l’urlo di Mary, ero troppo impegnato a controllare di
non essermi rotto
nulla nella caduta. Con la coda dell’occhio vidi Nott tirarsi
su faticosamente:
aveva ancora la bacchetta in mano, ed uno sguardo omicida sul volto.
Anche
questa volta, non pensai a rispondere nello stesso modo, non avevo
ancora
grande fiducia nelle mie capacità di mago: mi lanciai di
nuovo su di lui,
afferrandogli il polso e costringendolo a deviare la mira proprio
mentre si preparava
a colpirmi. Nel momento di confusione, non riuscii a sentire che cosa
mi avesse
scagliato, ma il colpo lasciò una grossa macchia scura sul
pavimento.
Approfittando della mia maggiore forza fisica, gli torsi il braccio,
bloccandoglielo dietro la schiena e stando ben attento che la punta
della
bacchetta puntasse verso l’alto, lontano dalla mia faccia.
Nott urlò per il
dolore, e mi lanciò contro una serie di insulti, ordinandomi
di lasciarlo
andare. Per tutta risposta, io aumentai la pressione: “Lascia
la bacchetta, o
giuro che ti spezzo il braccio!”.
“CARTER!”.
Alzai gli occhi oltre la spalla del
sofferente Nott:
dall’angolo del corridoio era spuntato il professor Piton,
che stava accorrendo
verso di noi con sguardo furibondo. Superò Mary, che ci
fissava intontita, e
ringhiò: “Cosa credi di fare? Lascialo andare,
IMMEDIATAMENTE”.
“Professore…”
provai a replicare.
“Quale parte di
'immediatamente' non ti è chiara?”.
“PROFESSORE!”
alzai la voce.
Piton mi fissò con occhi
rabbiosi, ma mi lasciò il tempo di
continuare: “Vorrei farle notare che io non ho una bacchetta,
lui si, e anche
in questo momento sta tentando di puntarmela contro, quindi le assicuro
che non
lo lascerò andare finché non la
mollerà!”.
Sapevo di avere osato troppo, e che
con ogni probabilità me
ne avrebbe fatto pentire, ma era la pura e semplice verità:
anche con il
braccio bloccato dietro la schiena, Nott cercava in tutti i modi di
scagliarmi
un incantesimo. Piton sembrò sul punto di esplodere, poi
sibilò: “Nott, lascia
andare la bacchetta”.
Nott, dolorante, lo fissò
stupefatto.
“Adesso!” la sua
vece sembrava una lama di ghiaccio.
Di malavoglia, Nott aprì
la mano, e la sua bacchetta cadde
al suolo. Un paio di secondi, e lo lasciai andare con
un’ultima spinta. Il
Serpeverde mi fissò in cagnesco, massaggiandosi la spalla.
Se gli sguardi
avessero potuto uccidere, sarei morto sul posto. Forse sarebbe stato
meglio,
vista la furia in mantello nero che mi piombò addosso subito
dopo.
“Bene –
ringhiò Piton – Adesso a noi, signor
Carter”.
Provai in tutti i modi a spiegargli
come erano andate le
cose, ma il fatto che fossi stato provocato non sembrava di minimo
interesse
per lui, così come non ebbero alcun effetto le parole di
Mary, che cercò di
raccontargli come fosse stata pesantemente insultata. Grifondoro si
ritrovò di
colpo con cinquanta punti in meno, e io con una settimana di punizione.
Qualunque idea di protestare per l’ingiustizia di quella
decisione avrebbe solo
peggiorato le cose, quindi raccolsi la borsa e mi allontanai con Mary,
dopo
aver lanciato un’ultima occhiata durissima a Nott. Era chiaro
che il nostro
confronto era solo rinviato, e che la volta successiva difficilmente ci
saremmo
fermati prima di aver concluso la questione.
Mentre andavamo verso la Sala Grande,
Mary non fece altro
che rimproverarmi per essermi fatto trascinare nella lite, ma subito
prima di
entrare, con un sorriso dolcissimo, mi ringraziò per averla
difesa. Quel
sorriso compensò, almeno in parte, cinque serate passate a
mettere milze di
pipistrello nei barattoli.
Adoravo quella ragazzina. Non che mi
fossi preso una cotta,
sia chiaro: per quanto iniziassi a sentirmi nuovamente un adolescente,
in quel
periodo, a livello mentale, ero fondamentalmente ancora un
venticinquenne
intrappolato nel corpo di un tredicenne. Anche un cieco si sarebbe
accorto che
Mary era una ragazzina molto carina, ma io la vedevo, appunto, come una
ragazzina carina, non come una donna. Era però chiaro che le
cose stavano
cambiando, anche a livello ormonale: nei rapporti con lei, con Ginny e
con le altre
studentesse della mia età stavo chiaramente iniziando non
soltanto a
comportarmi come un ‘me’ tredicenne, ma addirittura
a pensare come un
tredicenne: se prima dovevo riflettere per rispondere a tono, ormai
diventava
sempre più naturale e, oltretutto, le notavo sempre di
più e con sempre
maggiore attenzione. Difficile dire se era l’abitudine o se
nel corso del
‘viaggio’ anche la mia mente fosse ringiovanita
come il mio corpo, ma stavo
iniziando a relegare le sensazioni da uomo di venticinque anni in un
angolo del
mio subconscio.
Ci sarebbe voluto del tempo
perché arrivassi a comprendere
che ero in grado di richiamare quella personalità, meno
infantile, più dura,
più fredda, nei momenti critici, che quello che aveva deciso
di aggredire Nott
era stato Joshua Carter, ma quello che sarebbe stato realmente disposto
a
spezzargli il braccio era Matteo Simoncini. In quel momento avevo in
testa
soltanto una gran confusione.
Tutto considerato, il mio mese di
febbraio non fu
decisamente il migliore dal mio arrivo ad Hogwarts. Le cose sembrarono
migliorare solo verso la fine del mese: Harry piombò in Sala
Comune stringendo
in mano la Firebolt come un trofeo. Evidentemente la Mc Grannitt e
Vitious non
avevano trovato niente di sbagliato nella scopa, ed avevano deciso di
restituirla. Un’ondata di ottimismo e di felicità
si sparse in tutto il
dormitorio: con quella scopa eccezionale in squadra, improvvisamente le
nostre
speranze di vincere la Coppa erano risorte. Tutta la Casa si
rovesciò intorno
ad Harry, festeggiandolo quasi avesse già vinto, anche se la
maggior parte
erano probabilmente solo desiderosi di vedere la Firebolt.
La festa, purtroppo, non
durò a lungo: fu interrotta da un
furibondo Ron, che piombò fuori dal nostro dormitorio
trascinandosi dietro un
lenzuolo insanguinato. A quanto pareva, il suo topo era scomparso, e
questa
volta non sembrava un falso allarme: pareva proprio che fosse stato
ucciso, ed
il colpevole sembrava, senza troppi dubbi, il gatto di Hermione, che
già fin
troppe volte aveva provato ad attentare alla sua vita, e del quale Ron
aveva
trovato i peli sul letto. Hermione sembrava sconvolta.
Questa volta non fu una semplice,
leggera scossa elettrica,
quella che mi attraversò la testa, ma una vera e propria
fitta. Sul momento la
respinsi, con ogni probabilità era dovuta allo stress del
momento, ma i
pensieri non scomparvero: per me, la morte di Crosta suonava male
quanto una
moneta falsa, e il dubbio che qualcosa di molto importante mi stesse
sfuggendo
tornò più volte a tormentarmi nei giorni
successivi.
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Capitolo 6 *** Capitolo Cinque ***
CAPITOLO
CINQUE
Se
la morte di Crosta rimase per me una sorta di
richiamo in fondo alla mente, una remoto segnale d'allarme al quale non
riuscivo a trovare una spiegazione, per Ron fu un colpo durissimo, e
sembrò
certificare la fine dell'amicizia tra lui ed Hermione: Ron la accusava
di aver
sottovalutato i tentativi del suo gatto di divorare il topo, lei era
infuriata
per la sua scelta di accusarlo a suo dire senza prove. Harry, dal canto
suo, si
trovava in mezzo al fuoco incrociato: un pomeriggio, dopo un
allenamento, mi
disse chiaramente di essere convinto che Crosta fosse ormai stato
digerito da
tempo, ma Hermione, nella sua testardaggine, non sembrava affatto
intenzionata
ad ammetterlo, a costo di allontanarsi da tutto e tutti.
Io,
però, ero più testardo di lei, ed avevo tutte le
intenzioni di provare a farla ragionare. La intercettai un pomeriggio
di fine
febbraio, dopo le lezioni, mentre usciva dalla biblioteca, con sulla
schiena la
sua solita cartella strapiena di libri. Aveva l'aria stremata: sapevo
che
quell'anno stava seguendo più lezioni di chiunque altro, e
sembravano starle
costando care, almeno a giudicare dalle occhiaie. La lite con i suoi
migliori
amici, poi, non sembrava aver migliorato di molto la situazione.
"Hermione!"
la chiamai mentre svoltava
l'angolo in un corridoio.
Lei
alzò gli occhi mentre mi avvicinavo:
"Josh...".
Non
so esattamente come accadde: due secondi dopo,
la ragazza riccia mi aveva abbracciato e stava piangendo a dirotto con
la testa
sprofondata nel mio petto. Una situazione tra le più
imbarazzanti della mia
vita. In ogni caso non potevo non provare pena per lei: nonostante
cercasse di
dimostrarsi molto più matura della sua età,
rimaneva una ragazzina con seri
problemi a relazionarsi con gli altri, che aveva appena troncato i
rapporti con
le sole due persone che considerava veramente degli amici. Ricambiai
con un
certo sforzo il suo abbraccio: "Ssssth...Hermione, tranquilla...- le
sussurrai - Forse è meglio toglierci di qui, andiamo a
parlare in un posto più
tranquillo".
Alla
fine scegliemmo la Torre di Astronomia: lassù
nessuno sarebbe venuto a disturbarci. Non appena arrivammo, Hermione
lasciò
cadere la borsa, si sedette con la schiena appoggiata al muro e
ricominciò a
piangere. Istintivamente, decisi di lasciarla sfogare: era
probabilmente la
cosa migliore da fare, avrebbe parlato solo quando se la sarebbe
sentita.
Rimasi in piedi al suo fianco, in attesa.
Ci
vollero quasi dieci minuti prima che smettesse di
singhiozzare. Solo a quel punto mi sedetti accanto a lei: "Ne avevi
bisogno, vero?".
"Non
immagini quanto - mi
rispose, asciugandosi gli occhi con il
dorso della mano - Ho provato ad essere forte, a ignorare le frecciate
di Ron
sul suo topo, ma non ne potevo veramente più".
Avevo
un certo timore di quello che sarebbe
successo, ma dovevo provare: "Hermione... - le dissi - Tu sei
probabilmente la persona più intelligente che conosco...sai
quello che è
successo, vero?".
Per
un momento, quando la vidi mettersi le mani
sulla faccia, temetti che sarebbe scoppiata di nuovo in lacrime, poi
sospirò,
con voce comunque rotta: "Sì, lo so. Grattastinchi ha
mangiato Crosta -
solita piccola scossa elettrica nella mia testa, ma cercai di passarci
sopra,
non era proprio il momento - Lo so bene che è andata
così, Josh...ma non so
cosa fare! Hai visto Ron come si comporta con me... ora non
accetterebbe una
sola parola da parte mia. Crede di aver ragione, sente di aver ragione,
non
accetterebbe neanche se andassi a presentargli le mie scuse". Le
lacrime
ricominciarono a scendere lungo le sue guance.
Mentalmente
sospirai: adolescenti! Banda di lunatici
convinti di avere tutte le risposte! E mi ritrovavo per la seconda
volta ad
essere uno di loro! Che Merlino avesse pietà di
ciò che restava della mia
sanità mentale! Quasi sobbalzai: Merlino?! Porca... avevo
addirittura iniziato
a pensare come loro! Probabilmente era già tardi per la
sanità mentale...
Dovevo
comunque rispondere, avevo davanti una
ragazza che sembrava molto vicina al collasso nervoso, ed aveva un
disperato
bisogno di consigli. Devo dire che in quel momento mi faceva tenerezza,
non era
la studentessa geniale e puntigliosa di tutti i giorni, era
semplicemente una
tredicenne in grave crisi. Purtroppo la saggezza non era mai stata la
migliore
delle mie caratteristiche, ma riuscii a venirmene fuori con qualcosa di
decente: "Il tempo è un grande medico, Hermione - le dissi,
stringendole
delicatamente la spalla con comprensione - Ron lo supererà,
lo sai. Forse non
lo ammetterà mai, ma presto sentirà la mancanza
della tua amicizia, e tornerà a
parlarti. Dovrai solo tenere duro, e aspettare quel momento".
Hermione
sorrise mestamente, si asciugò le lacrime con
il dorso della mano e si alzò, seguita da me. Un attimo dopo mi stringeva
in un abbraccio
spezzacostole. Accidenti, ne aveva di forza nelle braccia quella
ragazza!
Immagino che portarsi sempre in giro una borsa piena di libri aiutasse
i
muscoli.
"Grazie,
Josh - mi disse dopo essersi staccata
da me - Sei veramente gentile, e anche molto maturo. Sono contenta di
essermi
potuta sfogare con te, fino a questo momento il solo ad ascoltarmi
è stato
Hagrid".
Mentre
raccoglievamo le nostre borse e iniziavamo a
scendere dalla torre, decisi di cambiare discorso: "A proposito, hai
continuato a fare ricerche per il processo di Fierobecco?". Subito dopo
il
ritorno dalle vacanze natalizie avevo realmente fatto firmare ai miei
compagni
del terzo anno una testimonianza nella quale erano riportati gli errori
di
Malfoy che avevano provocato la sua aggressione, e l'avevo consegnata
ad Hagrid
affinché la portasse il giorno del processo, ma
sfortunatamente, come previsto
da Hermione, la voce era arrivata ai Serpeverde, che a loro volta
avevano
preparato un documento da inviare al Comitato
Soppressione delle Creature
Magiche Pericolose, nel quale, naturalmente, sostenevano che le cose
fossero
andate in maniera completamente opposta. Ammesso che si degnassero di
leggere le
testimonianze di un mucchio di tredicenni, le cose sarebbero finite in
pareggio. Per il resto, ero stato talmente impegnato con gli
allenamenti e le
lezioni che avevo lasciato da parte lo studio dei vecchi casi di
aggressioni di
animali. A quanto pareva, dopo il litigio con Ron e con Harry preso
più di me,
essendo nella squadra titolare, Hermione si era interamente accollata
il
problema: "Abbastanza bene, credo - mi spiegò scendendo le
scale - Ho
raccolto un sacco di precedenti favorevoli a Fierobecco, se pensano di
attenersi alle loro stesse leggi devono per forza assolverlo".
Avrei
tanto voluto avere la sua stessa sicurezza, ma purtroppo, anche se
dall'altra parte ero poco più di un aspirante giornalista,
sapevo abbastanza di
politica corrotta da avere dei seri dubbi sulle possibilità
di salvezza
dell'Ippogrifo.
"Volevo
chiederti...- aggiunse voltandosi verso di me - ti andrebbe di
ricontrollare insieme la relazione prima di portarla ad Hagrid?".
La
fissai stupefatto: "Hermione Granger che chiede aiuto a qualcuno
per terminare una relazione? Ti senti molto peggio di quanto credessi!".
La
battuta mi costò un pugno sulla spalla: "Scemo! Non mi costa
niente
ammettere che hai una certa abilità con le parole. Sai
essere tagliente senza
offendere, arrivi al cuore del problema in poche battute, e oltretutto,
da
quello che ho visto nei tuoi temi, parli e scrivi in maniera semplice,
e visto
che sarà Hagrid a presentare il tutto, di certo non
guasterà. Ti va di darmi
una mano o no?".
Non
avevo bisogno di una spinta all'ego, ma me la presi più che
volentieri.
Hermione iniziava decisamente ad essermi più simpatica,
c'era molto dietro
l'aria da ragazzina un po' secchiona.
"Mi
pare ovvio che mi va!" le risposi con un sorriso.
Avevo
sempre amato assistere agli eventi sportivi dagli spalti: adoravo
vedere le partite di calcio in mezzo ai tifosi, ma niente poteva essere
paragonabile allo spettacolo di assistere ad una partita di Quidditch:
guardare
dalle tribune sopra lo stadio lo scontro tra Grifondoro e Corvonero fu
senza
dubbio una delle esperienze più esaltanti della mia vita, e
vedere Harry
strappare il Boccino d'Oro da sotto il naso di Cho Chang, la bella
Cercatrice
di Corvonero, fu anche meglio. Improvvisamente, Grifondoro era secondo
in
classifica, e nuovamente in gara per la vittoria finale della Coppa.
Certo,
avremmo dovuto battere Serpeverde nell'ultima partita, e con un forte
scarto
per riuscire a superarli ai punti, ma per lo meno avevamo una
possibilità, e
tutti, me compreso, sembravamo ben decisi a giocarcela fino all'ultimo. La ciliegina sulla torta fu vedere quella piccola carogna di Malfoy, che con i suoi tirapiedi aveva tentato di impersonare due Dissennatori per danneggiare Harry, venire abbattuto dal suo Patronus e pubblicamente umiliato dalla Mc Grannitt. Mi dispiacque soltanto che con loro non ci fosse Nott!
Anche
la successiva festa nella Sala Comune di Grifondoro fu notevole: i
Gemelli, non saprei esattamente in quale modo, erano riusciti a
procurarsi
Burrobirre e sacchi di dolci di Zonko, e qualcuno aveva procurato una
radio
magica, quindi la baldoria andò avanti per tutta la
giornata, fino a tarda
sera. Ero euforico: non potevo allontanare completamente la sensazione
di
essere nel posto sbagliato, ma erano anni che non mi sentivo
così libero...così
felice...così giovane! Passai gran parte del pomeriggio a
bere Burrobirra e a
ridere e scherzare con Ginny, Sean e Seamus, e ad un certo punto finii
addirittura a ballare al centro della stanza con una raggiante Mary.
Pensare
che dall'altra parte non avevo mai amato ballare! Neanche Ron, che ad
un certo
punto decise di rivangare la questione della morte di Crosta, facendo
fuggire
Hermione in lacrime, riuscì a farmi passare il buonumore.
Alla fine, quando era
ormai l'una di notte passata, fu la Mc Grannitt a porre fine alla
festa,
entrando nella Sala Comune in vestaglia scozzese e spedendoci a letto.
Mary,
dopo avermi salutato, mi schioccò un bacio sulla guancia
prima di andare nel suo dormitorio.
Devo
ammettere che la cosa mi lasciò basito: Mary era sempre
molto dolce,
ma non aveva mai fatto nulla di simile. In effetti, negli ultimi tempi,
la
ragazzina era diventata sempre più carina e affettuosa nei
miei confronti, e
cercava la mia compagnia con maggiore insistenza. Iniziavo seriamente a
pensare
che si stesse prendendo una cotta, e temevo le conseguenze di una
simile
situazione: il mio corpo avrà pure avuto tredici anni, ma la
mia mente ne aveva
ancora venticinque, la cosa continuava a sembrarmi sbagliata sotto
diversi
punti di vista.
Questi
pensieri non mi aiutarono certamente a rilassare la mente. Per di
più, pur non essendo quasi per niente alcolica, la
Burrobirra mi aveva fatto
venire un leggero giramento di testa, e infine avevo
scoperto che sulla
vescica aveva lo stesso effetto della birra normale, quindi dovetti
fare un
paio di viaggi in bagno. Probabilmente fu per questo insieme di ragioni
che
alla fine mi addormentai di un sonno estremamente leggero, al contrario
di
quello di piombo che mi contraddistingueva di solito, senza neanche chiudere il baldacchino.
Proprio
per questa ragione, fu sufficiente un piccolo rumore di passi sul
pavimento di pietra per svegliarmi. Non avrei saputo dire che ore
fossero, ma
dalla pesantezza delle mie palpebre non doveva essere passato molto
tempo da
quando le avevo abbassate. Aprii faticosamente gli occhi: attraverso il
baldacchino aperto, vidi che l'ambiente era ancora scuro, ma la luce
della luna
entrava dalle tende aperte, tagliando la stanza come una lama. E
andando a
disegnare una sagoma china sul letto di Ron.
Per
un istante rimasi sorpreso, pensando di essere nel bel mezzo di un
sogno. Poi compresi che le mie sensazioni erano troppo ben delineate
per
trattarsi solo di immaginazione: c'era veramente un uomo accanto al
letto di
Ron, intento, apparentemente, a studiare il ragazzo attraverso le tende scostate del baldacchino. Nella pallida luce
argentata, mi era possibile distinguere i suoi tratti con sorprendente
facilità, e quello che vidi mi fece gelare il sangue: il
volto scavato di un
uomo che sembrava aver attraversato l'Inferno, un corpo alto ed
estremamente
magro, un cespuglio di capelli neri, lunghi e sporchi, un vestito
consunto, sudicio
e strappato, una mano che stringeva un pugnale. Mi sembrava
impossibile, eppure
Sirius Black era in piedi nel bel mezzo del nostro dormitorio, armato,
e stava
scrutando Ron a meno di un metro di distanza.
Sospettai
che non fosse un buon momento per farmi prendere dal panico: se
avessi urlato, Ron si sarebbe ritrovato con una seconda apertura pochi
centimetri sotto la bocca, e io con ogni probabilità lo
avrei seguito pochi
secondi dopo. Rimasi praticamente immobile, studiando con attenzione i
movimenti
di Black, mentre allo stesso tempo iniziavo a muovere con estrema
lentezza la
mano. L'obiettivo era il comodino, sopra il quale era poggiata la mia
bacchetta.
L'atteggiamento
di Black mi sorprese: per quanto ne sapevo, lui dava la
caccia ad Harry. Perché indugiava così tanto
vicino al letto di Ron? Non poteva
averlo scambiato per lui. Maledizione, non era quello il problema!
Dovevo darmi
una mossa, Ron stava rischiando la vita!
Impiegando
un tempo che a me sembrò infinito, anche se in
realtà non occorse
più di mezzo minuto, riuscii ad afferrare la bacchetta. Non
sapevo esattamente
cosa fare: a lezione gli incantesimi mi riuscivano piuttosto bene,
anzi, avevo
la sensazione di essere piuttosto potente, ma non avevo mai provato a
colpire
un altro essere umano. In linea teorica, conoscevo qualche magia
offensiva, in
grado di rendere inoffensivo Black, ma non avevo la minima certezza che
avrebbero funzionato. E se avessi sbagliato mira? Black non aveva una
bacchetta, e sembrava decisamente male in arnese, ma era comunque un
uomo
adulto, ed aveva in mano una lama di una ventina di centimetri. Dal mio
arrivo,
non avevo mai desiderato così tanto di riavere il mio corpo
da venticinquenne.
Comunque, non potevo perdere troppo tempo a riflettere sulle
conseguenze, altrimenti
non mi sarei più mosso. Cosa dovevo provare a lanciare,
comunque? Dovevo
provare a pietrificarlo o solo dargli una bella legnata con un
incantesimo
d'urto? E se si fosse rialzato? Non mi sembrava di avere qualcosa di
più
pesante nel mio repertorio...
"AAAAAAAAAAAAARRRRRRRRGGGHHH!
NOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!".
Poco
mancò che cadessi dal letto, tanto l'urlo di Ron mi
sorprese: doveva
essersi svegliato di colpo e la vista di Black lo aveva terrorizzato.
Black
saltò indietro come un animale ferito, uscendo dalla zona
illuminata, ma
riuscii comunque a vedere la sua sagoma schizzare verso la porta del
dormitorio.
Smisi
di pensare. Saltai giù dal letto, piombando pesantemente sul
pavimento con la bacchetta puntata. Black mi sentì, si
voltò per un istante,
poi ripartì a capofitto verso la porta.
"Impedimenta!" urlai.
L'Incantesimo d'Inciampo mancò il bersaglio di poco, andando
a schiantarsi
contro lo stipite della porta. Black si catapultò
giù dalle scale come una
palla di cannone. In quel momento, il mio cervello doveva essere
completamente
andato, visto che mi lanciai dietro di lui. Anche gli altri ragazzi si
erano
svegliati: Harry aveva spalancato le tende del letto, e un istante dopo
Dean
accese la lanterna: "Che diavolo...?" cercò di chiedere.
"Black!
- urlò Ron - Sirius Black! Con un pugnale!".
"Sta
scappando!" ribattei io, buttandomi a mia volta giù per le
scale. Non stavo ragionando molto bene: mi ero gettato all'inseguimento
di uno
dei maghi più pericolosi del mondo. Il fatto che non avesse
una bacchetta era
secondario, difficilmente sarei stato una grande sfida per lui. Eppure,
come
improvvisamente invasato, correvo a capofitto giù per la
scala.
Intanto
le porte degli altri dormitori si stavano spalancando, e diversi
studenti assonnati stavano uscendo a causa della confusione: "Che
succede?" sbadigliò Katie Bell.
"Magnifico,
ricomincia la festa?" sghignazzò uno dei fratelli
Weasley.
"Tornate
a letto, immediatamente! - ordinò il loro rigido fratello
Percy, agganciandosi il distintivo da Caposcuola sul pigiama - La Mc
Grannitt
ci ha detto di andare a letto! Cosa pensate di...".
"BLACK!
- urlai, spostandolo con una spallata tutt'altro che delicata
e saltando sul successivo pianerottolo - E' nel dormitorio! Sta
scappando!".
Con
la coda dell'occhio vidi diversi ragazzi fissarmi con gli occhi
sgranati, come se fossi pazzo, ma qualcuno doveva aver recepito,
perché vidi
alcune bacchette spuntare e sentii i passi di persone che mi seguivano.
Piombai
in Sala Comune come una valanga, facendo saettare lo sguardo da una
parte all'altra. Ed eccolo: era dietro al ritratto, lo aveva
già spostato,
stava per imboccare l'uscita! I nostri occhi si incatenarono per un
secondo, e
in quei pozzi grigi lessi qualcosa che non mi sarei aspettato:
apprensione,
quasi paura. Di che cosa? Non ebbi però tempo di farmi
domande, perché Black si
lanciò fuori dalla stanza, mentre il ritratto iniziava a
chiudersi dietro di
lui.
"Everte Statim!".
"Petrificus Totalus!".
"Immobilus!".
"Impedimenta!"
"Incarceramus"
Avevo
colpito, e come me avevano fatto alcuni altri, ma arrivammo tutti
troppo tardi: gli incantesimi centrarono il retro della porta
mascherata dal
ritratto, lasciandovi delle macchie scure, mentre Black spariva nel
corridoio.
Mi mossi come per inseguirlo, senza riflettere sulle possibili
conseguenze, ma
una mano forte mi afferrò il braccio: "No, non farlo".
Mi
voltai: Oliver Baston mi aveva fermato. Nell'altra mano aveva la
bacchetta magica. Insieme a lui, in Sala Grande, tutti armati, c'erano
i
Gemelli e il loro amico Lee Jordan. Erano stati loro a lanciare gli
incantesimi
insieme a me.
"Potrebbe
essere dietro il ritratto, pronto a pugnalare il primo che
esce per inseguirlo - disse il capitano con saggezza - Meglio lasciar
perdere,
ci è sfuggito".
Rimasi
immobile per alcuni secondi, poi annuii stancamente. Intanto altri
ragazzi erano scesi dai dormitori, la maggior parte con facce assonnate
o
sorprese. Ron, d'altro canto, era stravolto. Percy Weasley, invece, era
furibondo: "Si può sapere che diavolo vi è preso?
Tornate di sopra,
immediatamente!".
"Perce,
Sirius Black era qui! - squittì Ron - Nel nostro dormitorio,
con un pugnale!".
Sulla
sala calò il silenzio.
"Non
dire sciocchezze, Ron! - esclamò Percy - Hai mangiato troppo
e
hai avuto un incubo!".
"Piantala,
Percy! - sbottò Fred - Lo abbiamo visto anche noi, abbiamo
anche provato a fermarlo. Pensi che abbiamo avuto un incubo
collettivo?".
Prima
che il Caposcuola potesse rispondere, il ritratto tornò ad
aprirsi.
D'istinto, sollevai la bacchetta, imitato da molti degli altri. Per
fortuna non
attaccammo immediatamente, perché dal buco,
anziché i capelli neri e
cespugliosi di Black entrò la severa crocchia della Mc
Grannitt.
"Insomma,
quando è troppo è troppo! - sbottò la
professoressa - Sono
anch'io felice che Grifondoro abbia vinto, ma questa cosa sta
diventando rid...
- si bloccò quando si rese conto di avere una ventina di
bacchette puntate
contro: "Avete tutti perso il lume della ragione nello stesso
istante?" ringhiò.
Abbassammo
le bacchette in contemporanea, come se fossimo stati colti a
commettere una marachella particolarmente grave.
"Spiegatevi!".
"Professoressa,
mi dispiace molto..." balbettò Percy, con l'aria
di chi sta vedendo crollare il proprio mondo; nonostante tutto, anche
lui aveva
sollevato la sua bacchetta contro la Mc Grannitt, e sembrava
vergognarsene da
morire: "Ho provato a farli tornare a letto... mio fratello Ron... lui
ha
avuto un incubo...".
"NON
HO AVUTO UN INCUBO! - urlò Ron con voce isterica -
PROFESSORESSA,
QUANDO MI SONO SVEGLIATO SIRIUS BLACK ERA ACCANTO AL MIO LETTO, CON UN
PUGNALE
IN MANO!".
La
Mc Grannitt lo fissò con gli occhi sgranati: "Non dire
sciocchezze,
Weasley. Questo è assurdo...".
"Dice
la verità, professoressa! - intervenni io - L'ho visto anche
io,
ho perfino cercato di fermarlo. Era Black, ne sono certo".
I
Gemelli, Baston e Jordan iniziarono a parlare in contemporanea, nel
tentativo di sostenere la mia posizione.
"Andiamo,
ragazzi... - disse la professoressa, quasi con tono di
compatimento - Dovete
aver avuto una
sorta di allucinazione collettiva... come avrebbe fatto Black a
superare il
ritratto?".
"Glielo
chieda - disse Ron, indicando il retro del quadro, in quel
momento occupato dal cavaliere Sir Cadogan, che sostituiva
temporaneamente la
Signora Grassa, danneggiata durante la precedente incursione di Black -
Gli
chieda se lo ha visto".
Pur
sospettosa, la professoressa uscì dalla Sala Comune ed
interrogò il
pomposo cavaliere. La faccia della professoressa divenne prima terrea,
poi
stupefatta, infine furibonda, quando Sir Cadogan le ebbe spiegato che
aveva
fatto entrare un uomo nella Sala Comune perché aveva tutte
le parole d'ordine
della settimana scritte su un foglietto. Quando tornò nella
stanza era livida:
"Chi di voi è stato di una stupidità tanto
abissale da scrivere le parole
d'ordine su un foglio e da lasciarlo in giro?" ringhiò.
Calò
un silenzio fragoroso. Sapevo fin troppo bene chi era stato, pochi
giorni prima Harry e Ron avevano dovuto far entrare un certo studente
smemorato
nella Sala Comune perché aveva perso le parole d'ordine...
Tremando
come una foglia, Neville Paciock alzò lentamente la mano.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo Sei ***
Salve
a tutti!
Come
vedete, nonostante
il mostruoso ritardo, non sono scomparso. Sfortunatamente, il mio
computer ha
deciso di tirare le cuoia proprio in questi giorni, e non ho avuto modo
di
pubblicare più nulla. In ogni caso, non ho smesso di
scrivere, e spero da ora
di riuscire a recuperare un po' di costanza, se la tecnologia
smetterà di
essermi ostile.
Vorrei
ringraziare chi
mi ha fino ad ora commentato, chiedendo se possibile anche agli altri
di
dedicare un paio di minuti a farmi sapere la vostra opinione su
ciò che ho
scritto.
Detto
questo, vi auguro
una buona lettura del sesto capitolo!
AVVISO:
in questo capitolo ci sarà un po' di turpiloquio; se questo
vi da fastidio, non continuate a leggere.
CAPITOLO
SEI
Inevitabilmente,
nessuno di noi dormì un minuto in quella nottata: tutti
restammo in Sala
Comune, mentre il castello veniva perquisito. Un'azione inutile, visto
che alle
prime luci dell'alba la McGrannitt tornò da noi a dirci che
Black era nuovamente
riuscito a scappare. Intanto, le ipotesi sul modo nel quale fosse
entrato nel
castello si erano sprecate, mentre Ron era improvvisamente diventato
una
celebrità, con tutta la Casa impegnata a chiedergli cosa
fosse accaduto durante
la notte. Nel trambusto, molti si scordarono, almeno inizialmente, di
me, anche
se Mary e Ginny vennero a chiedermi come stavo, ed entrambe mi dissero
che ero
stato molto coraggioso ad affrontare Black. Avevo qualche dubbio sulla
quantità
di coraggio richiesta per affrontare un uomo armato di coltello avendo
una
bacchetta magica, continuava a risuonarmi in testa la vecchia frase del
film
"Per un pugno di dollari" su pistole e fucili, però mi tenni
il
complimento con un sorriso.
"Chissà
perché è scappato..." chiese ad un certo punto
Dean attirando la mia
attenzione e quella della dozzina di persone che ci circondavano.
"Voglio
dire... - continuò - Dopo che Ron ha urlato,
perché se l'è data a gambe?
Avrebbe potuto metterlo a tacere e continuare a cercare Harry, se
è davvero lui
che vuole...".
Ormai
non era più un segreto che il nostro compagno di stanza era
in cima alla lista
nera del killer. Il diretto interessato scosse la testa: "Forse sapeva
che
sarebbe stato difficile uscire dal castello una volta che l'allarme era
stato
dato. Avrebbe dovuto uccidere tutta la Casa per riuscire a raggiungere
il buco
nel ritratto, per poi trovarsi davanti gli insegnanti. Oltretutto, Josh
era
sveglio, ed aveva la bacchetta in mano, mentre lui aveva solo un
coltello. A
quel punto, fuggire era la sola opzione, avrebbe rischiato di farsi
catturare".
Erano
discorsi che avevano senso, in realtà, ma non quanto
sembrava al primo ascolto.
Mentre la discussione continuava, io rimasi seduto su una poltrona
vicino al
fuoco, sorseggiando una Burrobirra avanzata dalla festa del giorno
prima. Era
un po' svampita, ma me ne accorsi a stento, avevo la mente impegnata da
una
tale quantità di pensieri che avrei potuto bere del sapone
senza rendermene
conto.
La
risposta di Harry non era stupida, tutt'altro. Il problema, secondo me,
era
nella domanda. Era quella sbagliata. Il problema non era
perché Black era
scappato, ma perché si era messo nella condizione di dover
scappare. Perché si
era messo a studiare con attenzione i vari letti? Black era un
assassino plurimo,
e in quella stanza c'erano sei ragazzini disarmati ed addormentati.
Perché si
era messo a cercare Harry con tanta attenzione? Dodici anni prima non
si era
preoccupato del concetto di 'danni collaterali' quando aveva fatto
saltare in
aria un'intera strada per eliminare Peter Minus. Avrebbe potuto
tagliare la
gola a tutto il dormitorio, avendo così la certezza di aver
ucciso anche Harry.
Perché si era fatto tanti problemi? E poi: in quella stanza
c'erano sei
bacchette magiche, probabilmente tutte lasciate senza troppa attenzione
sopra i
comodini. Perché non ne aveva semplicemente presa una e
fatto saltare in aria
l'intero dormitorio? Avrebbe risolto tutto in pochi secondi, creando
anche un
ottimo diversivo per la fuga. Non aveva molto senso, anzi, non ne aveva
quasi
per niente.
Per
me che avevo visto in diretta l'atteggiamento di Black,
però, c'era qualcosa di
ancora meno sensato. Presumibilmente, il suo bersaglio era Harry, e
nessuno con
una vista appena superiore a quella di una talpa avrebbe mai potuto
scambiare
un Weasley per un Potter. Appena data un'occhiata al letto di Ron,
perciò,
anche se per qualche misteriosa ragione Black avesse deciso di
lasciarlo in
vita, sarebbe dovuto passare oltre e controllare gli altri letti.
Invece,
quando mi ero svegliato, era intento ad analizzarlo con estrema
attenzione, e
ci era rimasto per quasi un minuto prima che lui si svegliasse.
Più che
qualcuno, mi aveva dato la sensazione di stare cercando qualcosa. Ma
cosa
Merlino poteva volere uno come Black da Ron?
Questa
volta, più che una semplice scossa, quello che
attraversò la mia testa fu una
vera e propria folgorazione, impossibile da ignorare o mettere da
parte: il
topo! Era quello che stava cercando!
Era
un'assurdità, lo sapevo fin troppo bene: perché
un assassino evaso dal carcere
avrebbe dovuto intrufolarsi ad Hogwarts per cercare un vecchio animale
da
compagnia spelacchiato? Eppure ne ero assurdamente sicuro, o per meglio
dire,
lo era il mio "Senso di Ragno": Black non voleva Harry, stava
cercando Crosta. Era la sola spiegazione per tutto quel tempo perso ad
analizzare il mio compagno di stanza: stava cercando di capire se
stesse
dormendo nel suo letto. Non dissi nulla a nessuno, naturalmente, mi
avrebbero
preso per pazzo, perché come al solito il mio strano potere
mi permetteva di
vedere il 'cosa', ma non il 'perché'; mi dava un elemento,
non l'intero schema.
Eppure questa volta non avevo il minimo dubbio che fosse la
verità: Black
voleva il topo di Ron.
Nei
giorni successivi la sorveglianza venne incrementata a livelli mai
visti prima
ad Hogwarts, in particolare perché nessuno era riuscito a
comprendere in che
modo Black fosse riuscito ad entrare nella scuola, ma nessuno
riuscì a venire a
capo della questione. Il povero Neville, intanto, era letteralmente
caduto in
disgrazia: la McGrannitt gli aveva proibito qualsiasi futura gita ad
Hogsmeade,
ed aveva proibito a tutti di rivelargli la parola d'ordine per entrare
nella
Sala Comune, al punto che doveva aspettare che qualcuno lo facesse
passare. Mi
faceva una gran pena, al punto che in quei giorni cercai, per quanto
possibile,
di stargli vicino, non lasciandolo ad aspettare davanti all'appena
restaurata
Signora Grassa.
Il
giorno dopo l'incursione di Black, Silente mi convocò nel
suo ufficio per
chiedermi la mia versione dell'accaduto. Come molte altre cose,
l'ufficio del
Preside, situato in cima ad una lunga scala a chiocciola, si
rivelò molto
simile a come me lo ero sempre immaginato: una grande stanza di pietra,
con le
pareti occupate da librerie e da scaffali stracarichi di oggetti, molti
dei
quali sembravano di cristallo, con un immenso camino su uno dei lati.
Sopra ai
mobili, svettavano decine di ritratti di maghi e streghe: i vecchi
presidi
della scuola. Silente mi attendeva seduto dietro la sua scrivania,
osservandomi
con i penetranti occhi azzurri da sopra gli occhiali a mezzaluna. Non
riuscii a
reprimere un piccolo brivido: per quanto apparisse incredibilmente
anziano, non
avevo mai avvertito una simile forza provenire da una persona. Accanto
alla
scrivania, appollaiata sul suo trespolo, la splendida fenice Fanny mi
osservava, vagamente incuriosita.
"Benvenuto,
Joshua - mi disse il Preside con un sorriso, indicandomi una poltrona
di chintz
dall'aria comoda di fronte a lui - Prego, accomodati. Vuoi una
caramella? - mi
chiese, aprendo un barattolo pieno di fritzlemon.
"Grazie,
Signore, molto volentieri" risposi, sedendomi e prendendo un dolcetto.
Dovetti faticare per reprimere un ghigno: la fissazione di Silente per
i
dolcetti, e in particolare per quel tipo di caramelle al limone, era
sempre
stata una delle cose che mi avevano divertito di più nei
libri. Personalmente,
non avevo mai assaggiato le fritzlemon, ma le trovai molto gustose.
La
mia faccia doveva essere particolarmente eloquente, perché
Silente si mise a
ridere: "Sono felice che ti piacciano. In tanti anni di carriera sono
state pochissime le persone che hanno accettato quando ho offerto loro
queste
caramelle, e non sono mai riuscito a spiegarmi la ragione!".
Non
riuscii a trattenere una piccola risata: un indefinibile punto
oscillante tra
'matto' e 'geniale' era la descrizione perfetta per Silente!
Improvvisamente
la serietà tornò sul suo volto, con una
velocità che mi colse di sorpresa:
"Sarebbe bello se potessimo spendere un po' di tempo a parlare di
dolciumi, ma, ahimè, temo che questioni più
urgenti richiedano la mia
attenzione, e in questo ho bisogno della tua assistenza, Joshua: ti
chiedo, per
favore, di raccontarmi tutto quello che è successo ieri
notte, senza omettere
alcun particolare".
Fu
esattamente quello che feci: gli riferii ogni cosa, da quando avevo
aperto gli
occhi a quando la McGrannitt era piombata nel Dormitorio trovandosi
puntate
contro le bacchette di mezza Casa. L'ultimo fatto portò
nuovamente un sorriso
sul volto del Preside: "Per fortuna avete deciso di dare una seconda
occhiata prima di lanciare incantesimi, altrimenti in questo momento
starei
vegliando la Professoressa in infermeria - poi aggiunse con maggiore
serietà:
"Invero, devo farti i miei complimenti, Joshua: hai alzato la tua
bacchetta contro un mago adulto, per di più estremamente
pericoloso, per difendere
i tuoi amici - mi fissò con i suoi occhi penetranti - Non
sono molti i
tredicenni che avrebbero scelto di sfidare Sirius Black, anche se
armato solo
di un pugnale".
Non
riuscii ad evitare di sentirmi a disagio: Silente era una delle persone
più piacevoli
che avessi mai conosciuto, ma il suo sguardo sembrava scavarmi
nell'anima. Mi
dava la sensazione di sapere più di quanto desse a vedere.
Probabilmente in
quel momento era solo paranoia: Silente non poteva aver capito in quale
assurdo
pasticcio mi trovavo, non poteva sapere che dietro il giovane Joshua
Carter
c’era ben più di quello che lui o chiunque altro
potesse pensare. Certamente,
però, si era mentalmente annotato il mio comportamento nel
confronto con Black,
certo non tipico di un tredicenne.
“C’è
altro che vorresti dirmi, Joshua?” aggiunse il Preside,
intrecciando le dita
davanti al volto.
Ebbi
un piccolo sussulto: era praticamente la stessa frase che aveva detto a
Harry
nel secondo libro… merda, al secondo anno! Era assurdo che
continuassi a pensare
in termini di libri quando stavo vivendo di persona quella folle
avventura! Per
un istante fui veramente tentato di rivelargli quello che pensavo
davvero, che Sirius
Black stesse dando la caccia al topo Crosta, ma mi bloccai
all’ultimo istante:
dire che non avevo prove era riduttivo, non avevo nemmeno uno straccio
di
indizio per sostenere la mia teoria. Per dire al Preside del topo avrei
dovuto
parlare del mio ‘Senso di Ragno’, e per rivelare
quello avrei dovuto raccontare
le mie folli origini. ‘Davvero molto interessante la tua
teoria, Joshua. Come
sei giunto a questa conclusione?’. ‘Beh, vede,
Preside, la verità è che io
arrivo da un altro mondo dove lei, Harry Potter e tutti gli altri non
siete
altro che personaggi di una saga letteraria che io ho letto una mezza
dozzina
di volte, ma poiché nel viaggio ho perso quasi completamente
la memoria, mi
devo accontentare di piccoli flash del futuro, che ho battezzato Senso
di Ragno
prendendo il nome da un fumetto!’. Un’ottima
premessa per essere preso sul
serio! No, non potevo dire tutto. Ma potevo provare a mettere Silente
sulla
strada giusta.
“Non
esattamente qualcosa da dire, Preside, però… ho
notato qualcosa di strano nel
comportamento di Black. Voglio dire… quando è
stato arrestato ha dimostrato di
non farsi nessun problema ad uccidere persone che non
c’entravano nulla. Per
quello che ne sapeva lui, aveva davanti sei studenti addormentati e
disarmati.Nel
dormitorio ormai sappiamo tutti che sta dando la caccia a Harry, ma
avrebbe
potuto facilmente tagliare la gola a tutti, e sarebbe stato certo di
avere
ucciso anche lui. Perché invece ha perso tanto tempo per
cercarlo? Perché si è
fatto tanti scrupoli ad ammazzarci?”.
“Già,
perché?” chiese Silente, apparentemente
più a se stesso che a me, continuando a
fissare davanti a se. Sembrava completamente perso nei suoi pensieri,
mi
sembrava improbabile addirittura che in quel momento mi stesse vedendo.
“Non
è tutto, Signore – continuai – Ho notato
qualcosa mentre cercavo di afferrare
la mia bacchetta. Black stava controllando Ron Weasley, ma nessuno
potrebbe mai
scambiarlo per Harry. Eppure, tra il mio risveglio e l’urlo
di Ron, è passato
almeno un minuto. Non è possibile che gli sia servito tanto
tempo per capire
che non era il suo bersaglio. Io… è solo una
sensazione ma… credo che più che
qualcuno stesse cercando qualcosa”.
Silente
non rispose subito: rimase in silenzio, osservando il vuoto davanti a
se, poi
mi disse: “Ragioni in modo analitico, Joshua, e in maniera
sorprendentemente matura
per la tua età. Ti prometto che dedicherò tutta
la mia attenzione a ciò che mi
hai appena detto. Non voglio però rubarti tutta la domenica.
Buona giornata,
Joshua”.
Compresi
che il colloquio era finito e mi alzai: “Buona giornata,
Professore”.
Il
pensiero di Crosta non volle saperne di uscire dalla mia testa nei
giorni
successivi all’attacco di Black. Ci pensavo a lezione, ci
pensavo nei corridoi,
ci riflettevo ai pasti e perfino in bagno. Il topo era
l’ultima immagine che
vedevo prima di andare a letto e la prima cosa che mi saltava in mente
non
appena mi svegliavo. Era un’idea che non aveva alcun senso
logico, lo sapevo
bene: che diavolo poteva volere uno come Black da un vecchio animale
domestico?
Cosa aveva di particolare Crosta? E poi: era veramente morto? Era
sparito sul
serio trai succhi gastrici di Grattastinchi?
‘Quand’è
che un topo non è un topo?’ continuavo a chiedermi
ad ogni ora. Sapevo che mi
stava sfuggendo qualcosa di fondamentale. Mi sarei spremuto il
cervello, se
fosse stato possibile, ma per quanto pensassi non c’era verso
di farmi tornare
in mente qualcosa in più su quella situazione. Era molto
deprimente: sapevo che
l’informazione che stavo cercando con tanta disperazione era
lì, dietro la
barriera costruita nella mia mente, ma non c’era modo di
raggiungerla.
Ero
talmente pensieroso che finii per allontanarmi dagli altri: passavo
gran parte
del tempo isolato, mangiavo da solo e sedevo in Sala Comune nella
poltrona più
lontana dal centro, sempre riflettendo a vuoto sul problema. Dean si
era
convinto che soffrissi di una sorta di stress post traumatico, mentre
Ginny era
arrivata a minacciarmi di affatturarmi se non avessi ricominciato a
comportarmi
come prima. Mary, dal canto suo, sembrava molto dispiaciuta del fatto
che mi
stessi chiudendo sempre più in me stesso. Trovavo veramente
brutto ferirla, avevo
iniziato a volere molto bene alla dolce ragazzina, ma non riuscivo a
fare
altrimenti.
Perfino
mentre camminavo procedevo praticamente in automatico, e per questo
motivo, la
domenica successiva, mentre percorrevo un corridoio del secondo piano,
non mi
resi conto di chi avevo davanti finché non sentii una voce
sgradevole
apostrofarmi: “Ma guarda! Sei ancora in questa scuola,
Yankee?”.
Oh,
fantastico! Ci mancava solo lui! Era come avere un prurito impossibile
da
grattare!
Mi
voltai: appoggiato al muro, Nott mi fissava con un ghigno da iena
ridens.
Insieme a lui c’erano due ragazzi di Serpeverde che conoscevo
a stento e che mi
sembrava si chiamassero Vaisey e Harper, due bulletti con il cervello
di una
bustina di the, che sembravano pronti a dargli manforte.
Dopo
il nostro scontro di novembre, Nott non aveva perso nessuna occasione
per
insultarmi e deridermi, cercando di suscitare una mia reazione. Da
parte mia,
per essere un italiano bloccato nel corpo di un americano, mi ero
dimostrato un
ottimo esempio di stoicismo inglese: a parte qualche risposta
tagliente, ero
riuscito a trattenermi dall’utilizzare la violenza, nella
speranza che si
stufasse e decidesse di lasciarmi in pace. Fino a quel momento,
però, non aveva
funzionato molto bene.
“Ragazzi,
ammirate il grande eroe di Hogwarts, il mitico guerriero che ha messo
in fuga
il terribile Sirius Black! – continuò Nott con
voce magniloquente – Ci faresti
un autografo, Carter?”.
“Perché
ti sia utile un autografo dovresti essere almeno capace di leggere,
Nott –
risposi con una per niente mascherata nota di disprezzo –
Ora, se non ti
dispiace, ho molto di meglio da fare che stare ad ascoltarti”.
“Ma
prego, non sia mai che ti faccia perdere troppo del tuo prezioso
tempo– disse
Nott con voce perfida mentre mi voltavo per andarmene –
Prima, però, c'è una
cosa che volevo chiederti da un po': esattamente, quanto è
orrenda tua madre?”
Mi
bloccai, sentendomi come se mi fosse appena stato tirato uno schiaffo:
"Come?".
Nello
sguardo di Nott apparve un lampo di trionfo, facendomi capire che avevo
abboccato all'amo che lui mi aveva lanciato: "Sai, un uccellino mi ha
raccontato che i tuoi genitori hanno divorziato perché tuo
padre saltava da un
letto all'altro come uno Snaso impazzito. Non posso fare a meno di
pensare che
tua madre sia un vero e proprio mostro, per spingerlo a scoparsi ogni
donna che
incrociava la sua strada!".
Rimasi
come pietrificato, sentendo la rabbia montare come un'onda di marea.
Una vocina
in fondo alla mia mente provò inutilmente a ricordarmi che
quella che Nott
aveva offeso non era veramente mia madre, ma la scacciai come un
insetto
fastidioso. Anche se non l'avevo mai vista, per Joshua Carter quella
donna era il
centro del mondo, un porto sicuro nella tempesta, me lo dicevano
chiaramente i
suoi ricordi. Non era però tutto: il problema era che anche
gli ‘altri’ ricordi
concordavano con la giusta reazione ad una simile offesa. 'Madre
è l'altro nome
di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli', diceva il
protagonista di un film che avevo amato dall'altra parte, ed avevo
sempre
ritenuto quella frase vera come se fosse stata scolpita nella pietra.
Da
ragazzino avevo rotto il naso ad un compagno che aveva insultato mia
madre in
maniera meno grave di quanto avesse appena fatto Nott. Non potevo
semplicemente
lasciargliela passare liscia. Un sogghigno incurvò la mia
bocca mentre Josh
lasciava, senza che me ne rendessi realmente conto, il posto a Matteo:
avevo
tutte le armi per rispondere a tono, e poi andasse come doveva andare.
Nott
aveva messo di mezzo mio padre, ma visto chi era il suo, non era stata
una
mossa particolarmente intelligente. Il fatto che Joshua Carter non
avesse modo
di sapere nulla del passato di Nott Senior passò
completamente inosservato al
mio io razionale.
"Sai,
in fondo hai ragione - dissi, quasi sorprendendomi nel sentire la nota
di gelo
che aveva invaso la mia voce - Mio padre è un infedele
patologico - li vidi
pronti a farsi una risata, ma li freddai immediatamente -
Però c'è una cosa
importante che vorrei farti presente: preferisco mille volte essere
figlio di
un puttaniere impenitente piuttosto che di un assassino con le mani
lorde di
sangue!".
La
temperatura nel corridoio sembrò improvvisamente essere
calata di una ventina
di gradi.
"Che
cosa hai detto?" mi chiese Nott con un sibilo degno di un cobra.
Avrei
dovuto capire che la situazione stava precipitando (o forse era
già
precipitata?), ma nella vita non ero mai riuscito a individuare il
momento
giusto per zittirmi, e ormai ero lanciato a bomba verso il precipizio:
"Credevo di essere stato chiaro, ma se ne hai proprio bisogno mi
ripeterò:
preferisco avere come padre un uomo-troia che cambia amante come cambia
le
mutande piuttosto che uno sporco Mangiamorte che ha evitato la galera a
forza
di menzogne!".
Mi
voltai per andarmene, ma la mia mente aveva già registrato
lo sguardo omicida
di Nott. Non lo vidi realmente estrarre la bacchetta e puntarmela alla
schiena,
fu più che altro un'intuizione. La mia reazione fu quasi
automatica: infilai la
mano sotto la veste e, come una pistola in una vecchia pellicola
western, la
tirai fuori mentre mi gettavo a terra.
"
Furnunculus!".
Sentii
l'incantesimo passarmi ad un millimetro dal braccio sinistro. Toccai
pesantemente sul pavimento di marmo e rotolai sul fianco. Nott aveva
ancora la
bacchetta puntata, la furia dipinta sul volto. Vaisey e Harper
sembravano
immobilizzati, quasi sorpresi dalla svolta improvvisa che gli eventi
avevano
preso, Quasi senza accorgemene, presi la mira contro Nott prima che
potesse
lanciare un secondo incantesimo e risposi al fuoco: "Depulso!”.
Vidi
la scena quasi come al rallentatore: il raggio dorato lasciò
la mia bacchetta e
centrò in pieno petto il mio avversario. Sembrò
che un bufalo lo avesse
incornato: il mio Incantesimo di Esilio scagliò Nott
indietro di almeno tre
metri, mandandolo a sbattere violentemente contro il muro. Il giovane
Serpeverde scivolò a terra con un gemito, lasciando cadere
la bacchetta e
arpionandosi la parte destra del petto con la mano sinistra.
Seguirono
alcuni secondi di silenzio quasi irreale: sia io che gli altri due
Serpeverde
rimanemmo a fissare Nott con stupore, increduli per l'effetto avuto dal
mio
incantesimo. Nonostante stesse evidentemente soffrendo, con gli occhi
semichiusi per il dolore, lui cercò di allungare la mano
verso la bacchetta,
nel tentativo di controbattere. Fu abbastanza per risvegliarmi dal
torpore nel
quale sembravo caduto: mi tirai in ginocchio e presi nuovamente la mira.
"Expelliarmus!".
Il
raggio rosso lo colpì al polso quando aveva appena afferrato
la bacchetta: il
bastoncino di legno saltò via con violenza, andando a
rotolare a un paio di
metri di distanza. Stavolta Nott lasciò partire un urlo,
afferrandosi il polso
con l'altra mano.
Fu
abbastanza per risvegliare anche gli altri due, che estrassero a loro
volta le
bacchette mentre io mi rimettevo in piedi: "Questa volta l'hai fatta
grossa, Carter - grugnì Harper, che però non
sembrava essere più del tutto
convinto di quello che stava facendo - Quando avremo finito con te...".
"BASTA
COSI'!".
Mi
voltai tanto velocemente da farmi male al collo: la McGrannitt stava
arrivando
a passo veloce dall'altro lato del corridoio. Credetti di vedere dei
fulmini
partire dai suoi occhi, tanto appariva furiosa.
“In
corridoio… - stava quasi balbettando per la rabbia
– Mai nella mia vita… mai
visto… - si piazzò tra me e i due Serpeverde
ancora in piedi, mentre Nott, pur
sembrando estremamente dolorante e reggendosi il polso danneggiato, mi
guardava
in cagnesco – Spiegatevi!” ringhiò.
“Carter
ci ha aggredito, Professoressa!” urlò
immediatamente Harper con voce velenosa –
Eravamo qui tranquilli, e lui ha iniziato ad insultarci, poi ha
estratto la
bacchetta e ha colpito Nott!”.
Spudorato
bugiardo! La cosa peggiore era che sapevo che l’avrebbero
avuta vinta senza uno
stramaledetto testimone. Il peggio era che non avevo neanche
l’energia per controbattere.
Il mio sguardo continuava a correre verso Nott: lo detestavo con tutto
me
stesso, ma non avevo avuto l’intenzione di colpirlo con tanta
violenza. La
potenza dell’Incantesimo d’Esilio che gli avevo
sparato contro mi aveva
sorpreso non poco: in classe mi ero dimostrato uno studente nella
media, non
avevo mai dimostrato di essere in grado di emettere una simile potenza.
La
McGrannitt si voltò verso di me: “Lei cosa ha da
dire, signor Carter?”.
Scossi
la testa: “Qualsiasi cosa io dica non cambierà le
cose, Professoressa. A che
servirebbe se dicessi che prima mi hanno insultato e poi aggredito alle
spalle,
e che io mi sono limitato a difendermi? E’ la mia parola
contro la loro, e io
sono da solo. Non ci sono testimoni, quindi mi punisca pure”.
Lo
sguardo della McGrannitt era duro, ma in fondo ai suoi occhi vidi una
scintilla
di qualcosa di simile ad un sorriso: “Non esattamente
‘nessun testimone’,
signor Carter – si avvicinò ad un quadro appeso al
muro – Hai visto tutto, Jocelyn?”
chiese la professoressa.
“Assolutamente
sì, Minerva” rispose un’anziana strega
seduta su una poltrona all’interno della
tela.
La
mascella di Harper crollò di qualche centimetro.
“Jocelyn
Williamson –disse la McGrannitt – era
l’insegnante di Trasfigurazione prima del
Professor Silente. Era già in pensione quando sono arrivata
ad Hogwarts, ma ha
tenuto comunque alcune lezioni. Era una grande insegnante, ed una donna
di una
correttezza assoluta. Mi fido ciecamente di lei – si rivolse
nuovamente al
dipinto – Come sono andate le cose?”.
“Il
ragazzo Serpeverde ha insultato pesantemente il Grifondoro e la sua
famiglia –
disse la donna –Lui ha risposto, e l’altro lo ha
aggredito mentre era girato di
spalle. Il Grifondoro si è solo difeso, sia pure con
notevole veemenza”.
“Grazie
mille, Jocelyn – disse la McGrannitt, per poi voltarsi verso
i Serpeverde, che
apparivano stupefatti e orripilati allo stesso tempo – Una
versione decisamente
differente dalla vostra. Dunque… venti punti in meno a lei,
Harper, per la sua
menzogna; dieci a lei, Vaisey, per non averlo contraddetto; e quaranta
al
signor Nott per aver scatenato una rissa in corridoio! – si
avvicinò al mio
avversario, che si stava faticosamente tirando in piedi con
l’aiuto di Harper e
lo controllò brevemente–Vada in infermeria,
potrebbe avere un paio di costole
incrinate e forse un polso slogato. Quando starà meglio
venga nel mio ufficio,
parleremo della sua punizione”.
Nott
sembrava furibondo, ma si trattenne dall’aprire bocca.
Aiutato da Harper e da
Vaisey, stava già avviandosi lungo il corridoio quando venne
bloccato dalla
voce della professoressa: “Ancora un momento, per
favore”.
Lo
sguardo della McGrannitt saettò rapidamente da me alla mia
nemesi: “So
perfettamente che questo non è il vostro primo diverbio, i
professori Vitious e
Piton mi hanno detto che vi siete già scontrati in diverse
occasioni, sia pure
presentandomi versioni molto diverse. Posso assicurarvi però
che questo sarà
l’ultimo dei vostri conflitti, perché se dovesse
di nuovo venirvi l’idea di
battervi nei corridoi vi assicuro che una punizione sarà
l’ultimo dei vostri
problemi”. Le ultime parole della McGrannitt mi ricordarono
un po’ Piton, ma su
Nott ebbero un effetto limitato, almeno a giudicare dallo sguardo di
fuoco che
mi lanciò mentre si dirigeva verso l’infermeria.
Mi accinsi ad andarmene
anch’io.
“Aspetti
un istante, signor Carter”.
Mi
bloccai prima di aver mosso un solo passo.
“Sebbene
comprenda che lei si è difeso, è vero che ha
comunque preso parte alla rissa –
disse la professoressa – Devo forzatamente infliggere anche a
lei dieci punti
di penalità”. Mi fissò per alcuni
secondi, poi il suo sguardo rigido si
addolcì: “Posso comunque comprendere il suo stato
d’animo, e pur non potendo
approvare ciò che ha fatto, devo ammettere che lei ha
coraggio: ha affrontato
da solo tre avversari. Avventato, ma degno di un vero
Grifondoro” e si
allontanò, lasciandomi sul posto.
Impiegai
qualche minuto prima di riuscire a raccogliere l’energia
necessaria a muovermi.
Un turbine di pensieri mi attraversava la testa. Non era stato lo
scontro a
sorprendermi, anche dall’altra parte mi era capitato di
prendere parte a
qualche rissa. No, a colpirmi era stato il mio primo incantesimo.
Mi
guardai le mani, come se avessi potuto trovarvi delle risposte. Non
avevo mai
lanciato un Incantesimo di Esilio fino a quel momento, Vitious in
classe ne
aveva parlato soltanto in teoria. In realtà, lo conoscevo
grazie ad un
videogioco che dall’altra parte avevo letteralmente
consumato. Lì veniva
utilizzato come incantesimo da duello, quindi quando mi ero ritrovato
in una
situazione d’emergenza era stato il primo a venirmi in mente,
e lo avevo
lanciato senza riflettere troppo. Non era però quello il
problema, a colpirmi
era stata la potenza con la quale era uscito: avevo fatto volare Nott
per
diversi metri, e si era fermato solo perché aveva sbattuto
contro il muro! Come
era possibile? Joshua Carter era solo un mago di tredici anni! Non
poteva avere
il potenziale magico necessario a lanciare un incantesimo con una
simile
violenza! Mi appoggiai al muro, pensando alle implicazioni di quello
che era
successo: di che altro potevo essere capace? E che cosa sarebbe
successo se
avessi scelto un incantesimo potenzialmente più pericoloso?
Che
cazzo mi stava succedendo?
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Capitolo 8 *** Capitolo Sette ***
Buongiorno
scusandomi nuovamente per il
ritardo, inserisco il settimo capitolo della mia storia. Prometto che
cercherò di essere più puntuale per i prossimi.
CAPITOLO
SETTE
La
notizia dello scontro con Nott si sparse rapidamente in tutta la
scuola; io lo
raccontai ai miei compagni di Grifondoro, ma entro il lunedì
anche le altre tre
Case sapevano del duello nel corridoio del secondo piano, pur con
sfumature
decisamente colorite: un Corvonero del secondo anno venne addirittura a
chiedermi se era vero che Nott era stato trasportato
all’ospedale San Mungo
coperto da una folta pelliccia da orango. Inevitabilmente, avendo
inseguito
Sirius Black e mandato un Serpeverde in infermeria dopo averne
insultato il
padre Mangiamorte, il tutto nell’arco
di
una settimana, ero diventato una sorta di piccolo eroe per i miei
compagni in
rosso e oro. Anche i Corvonero e i Tassorosso sembravano apprezzare che
avessi
inflitto una lezione ad un bulletto come Nott. Per quanto riguardava la
Casa
verde e argento, gli sguardi omicidi dei suoi componenti erano
prevedibili
quanto inevitabili. Il mio diretto avversario, in particolare, mi
lanciava
continue occhiate fiammeggianti, che promettevano una ulteriore
rivincita in
futuro, ma per il momento non sembrava essere intenzionato ad
ingaggiare nuovamente
battaglia: il colpo incassato pareva avergli insegnato la prudenza, il
che
significava che avrei dovuto guardarmi le spalle.
Quanto
a me, non sapevo veramente come sentirmi. La potenza
dell’incantesimo che avevo
lanciato mi aveva veramente sorpreso, insieme alla consapevolezza che
avrei
potuto fare male di brutto al mio avversario: se dietro di se Nott,
anziché un
muro relativamente vicino, avesse avuto una finestra o una scala, non
se la
sarebbe certamente cavata con un paio di costole ammaccate. Quello che
veramente non riuscivo a capire era come avesse fatto una magia mai
sperimenta
ad uscire con tanta forza dalla mia bacchetta. Avevo già
capito che Joshua
Carter non era esattamente scarso come mago, ma quello era decisamente
troppo.
Non appena ebbi un pomeriggio libero, cercai una classe vuota, il
più lontano
possibile dalle aree utilizzate del castello (sfortunatamente non
conoscevo
nessun Incantesimo Silenziante), per fare qualche esperimento. Dovevo
capire
quanto effettivamente ero potente. Per prima cosa mi accertai di essere
capace
di eseguire un valido Incantesimo di Riparazione, perché
quello che avevo in
mente di fare avrebbe lasciato dietro di se una scia di rottami.
Appena
mi resi conto di saperlo fare, mi scatenai: Incantesimo di Esilio, di
Disarmo, Tagliente,
Incantesimi d’Urto assortiti, perfino un Incantesimo
Incendiario. Tutti vennero
fuori con potenza notevole, pur essendo incanti comuni e non vere e
proprie
magie da combattimento come quelle che avevo intravisto in alcuni libri
della
biblioteca, sia pure con spiegazioni generiche. Per di più,
avevo la sensazione
che, se accompagnati dalla giusta dose di adrenalina, quegli
incantesimi
sarebbero stati ancora più forti. Dovetti trattenermi quasi
fisicamente dal
provare la coppia di Incantesimi Esplosivi che conoscevo, per la paura
di
demolire la classe. Intorno a me c’erano banchi e sedie a
diversi livelli di devastazione,
un paio addirittura parzialmente ridotti in cenere. Era stato esaltante
distruggere tutto, ma mentre riparavo i danni che avevo provocato non
potetti
fare a meno di chiedermi nuovamente da dove venisse quel potere.
Probabilmente
non sarebbe stato nulla di eccezionale per un adulto, ma in un
tredicenne era
decisamente sopra la media.Non si parlava di abilità: con
ogni probabilità
Hermione era decisamente più preparata di me. La questione
era il potere grezzo,
e di quello sentivo di averne veramente tanto. Ma perché ce
l’avevo? Era questa
la domanda che saltellava nella mia testa mentre percorrevo i corridoi
verso la
Sala Comune: da dove veniva quella strana forza? Scavando nei ricordi
di
Joshua, vedevo che lui, negli anni a Ilvernmorny e nei primi mesi ad
Hogwarts,
era stato uno studente abile, ma non eccezionale. Non era un enfant
profige. Allora
cosa era accaduto?
Avevo
riflettuto a lungo, e alla fine avevo concluso che la sola cosa che era
cambiata ero, per assurdo, io. Era la migliore teoria che ero riuscito
ad
elaborare: il corpo di Joshua aveva sicuramente tredici anni, ma a
quanto
sembrava il suo nucleo magico non possedeva la medesima età.
Nelle ore libere dei
giorni successivi feci delle ricerche in biblioteca, dedicandomi alla
lettura
di trattati più o meno recenti, ma sembrava che i maghi non
avessero mai compreso
veramente le origini dei poteri magici nel corpo umano, il modo nel
quale si
creassero, come fossero legati all’energia fisica del
soggetto, in che modo ne
consumassero la resistenza quando venivano utilizzati. Esistevano e
basta,
lasciando più domande che risposte. In questo senso, io
potevo rappresentare una
parziale spiegazione a uno dei quesiti: in qualche modo, il potere
magico sembrava
legato all’anima del soggetto. Nel mio caso, per quanto
strano potesse
sembrare, il nucleo magico di Joshua si era potenziato da quando nel
suo corpo
c’era Matteo Simoncini, un venticinquenne. Avevo il
potenziale magico di un
adulto, anche se non potevo sfruttarlo al massimo per le mie conoscenze
ancora
limitate.
Mi
convinsi che fosse la conclusione più valida,
benché nella mia mente non mancassero
ipotesi differenti e decisamente più inquietanti, che non mi
permisi, in quel
momento, neanche di analizzare, perché avrebbero
rappresentato un carico
decisamente eccessivo. Non riuscii comunque a fare a meno di notare che
la
misteriosa Forza (avevo iniziato ad usare quella definizione, anche se
faceva
molto Guerre Stellari) che mi aveva condotto in quel mondo aveva
ripetuto con i
miei poteri magici quanto già sembrava aver fatto con la mia
memoria: così come
non mi aveva consesso l’onniscienza, aveva deciso di non
fornirmi neanche
l’onnipotenza. Allo stesso tempo, come era già
accaduto con il mio “Senso di
Ragno”, aveva scelto di darmi un piccolo vantaggio senza per
questo
trasformarmi in un fuori quota, in quello che alcuni miei amici gamer
dall’altra parte avrebbero chiamato OverPowered. Lo scontro
con Nott aveva dimostrato
che ero più forte per lo meno della maggior parte dei pari
età di Joshua, se
non di tutti - oh, all’Inferno, dei MIEI pari età!
Tanto valeva che iniziassi
ad accettare di avere di nuovo tredici anni!–senza
però essere diventato un
gigante in mezzo ai nani. D’altra parte, le mie doti, almeno
per il momento,
non sembravano essere eccezionali rispetto a quelle degli adulti, o
almeno così
pensavo: non avevo visto nessun mago non adolescente lasciarsi andare
ed
esprimere realmente il proprio potenziale, ma ero sicuro che, almeno
per il
momento, con le conoscenze che possedevo, non sarei stato una grande
sfida
neanche per un mago nella media. Nonostante non mi fossi trasformato in
una
sorta di schiacciasassi umano, non potevo fare a meno di chiedermi
perché mi
fosse stato fornita una facilitazione, per quanto limitata.
Perché non ero
diventato un comune studente? Perché mi era stato dato un
vantaggio? Avrei
tanto voluto una spiegazione, ma allo stesso tempo la temevo: se
collegavo la
mia inspiegabile potenza alla strisciante sensazione di una incipiente
oscurità
che mi attanagliava da quando ero arrivato in quel mondo, si aprivano
scenari
che non volevo neppure esplorare con il pensiero.
Le
settimane scorrevano lentamente. Black non era più stato
avvistato, ma la
sorveglianza non era diminuita. Pur non riuscendo ancora a scrollarmi
di dosso
i molti dubbi che mi attanagliavano, avevo cercato di superare il
momento di
crisi e di tornare a frequentare gli altri, che si dimostrarono molto
felici di
vedermi nuovamente simile a quello di prima.Purtroppo, le settimane che
precedettero l’arrivo della primavera furono funestate dalla
notizia della
condanna di Fierobecco: Hagrid scrisse una lettera ad Hermione,
annunciando il
fallimento della strategia difensiva alla quale lei aveva tanto
lavorato e che
io avevo rivisto. Purtroppo, per me non fu una sorpresa: non avevo
un’idea
precisa sulla quantità di potere che il padre di Malfoy
possedeva, ma avevo
capito che era elevato, e purtroppo immaginavo che i nostri tentativi
di
contrastarlo non sarebbero stati sufficienti. La sola nota positiva di
quel
momento triste fu la riappacificazione tra Hermione e Ron, che la
riportò a
fianco degli altri. C’era ancora l’appello,
ovviamente, e tutti e quattro
eravamo più che decisi a batterci, ma sfortunatamente le
speranze non
sembravano affatto rosee.
A
preoccuparmi, in quei giorni, era proprio lo stato fisico e mentale di
Hermione.
Fin dall’inizio dell’anno seguiva più
lezioni di chiunque altro, e sembrava
sempre più stanca da tempo, ma nei giorni che seguirono la
condanna dell’ippogrifo
di Hagrid sembrò decisamente sul punto di crollare
psicologicamente: dopo una
lezione di Cura delle Creature Magiche schiaffeggiò e
arrivò quasi ad
affatturare Malfoy perché prendeva in giro il nostro amico
insegnante, poi
scomparve di colpo mentre ci dirigevamo a lezione di Incantesimi. La
trovammo a
fine lezione in Sala Comune, addormentata su un libro. La potevo
comprendere,
avevo schiacciato numerosi pisolini sui tomi di matematica, ma non era
certamente buon segno. Infine, la sera, sentii una stupefatta Lavanda
Brown
raccontare a Ginny che, dopo un duro alterco con la professoressa
Cooman,
Hermione aveva deciso di mollare Divinazione.
La
cosa mi colpì: tutto quello che stava succedendo era
decisamente poco da
Hermione. Era parecchio che mi chiedevo come facesse a reggere ad un
ritmo così
forsennato. Provai a farmi dire che cosa le stava succedendo, ma
Hermione si
chiuse a riccio, limitandosi ad ammettere di essere molto stanca, ma
che
sarebbe stata bene. La mia preoccupazione non si ridusse di un solo
grado, ma
non riuscii proprio a trovare una spiegazione, e compresi fin troppo
bene che lei
non si sarebbe sbottonata.
Frattanto,
la mia guerriglia con Nott era rimasta sotto traccia, ma era
tutt’altro che
scomparsa: il ragazzo di Serpeverde era chiaramente desideroso di
vendetta dopo
la sconfitta e la punizione subite, lo dimostravano chiaramente i
coltelli che
sembrava lanciarmi con lo sguardo ogni volta che ci incrociavamo.
Sinceramente,
io avevo scelto la via della non violenza: non che mi spaventasse,
avevo
dimostrato di essere più forte di lui, ma avevo
già abbastanza problemi veri
senza lasciarmi trascinare in quella faida.
Le
vacanze di Pasqua passarono con velocità sorprendente, e
presto l’avvicinarsi
della finale della Coppa di Quidditch rese ancora più
incandescente il rapporto
tra le due Case che si sarebbero affrontate Case: la sola
possibilità che
Grifondoro aveva di vincere era battere Serpeverde con più
di duecento punti di
scarto. Un’impresa difficile, ma la presenza della Firebolt
di Harry in squadra
aveva galvanizzato il gruppo, come dimostrava l’impegno
incredibile che tutti
mettevamo in allenamento. Noi della squadra riserve, oltre ad aiutare i
titolari a prepararsi, eravamo i primi a fungere loro da scorta, in
modo da
evitare che gli avversari tentassero di metterne qualcuno fuori gioco.
Harry,
in particolare, era sorvegliato a vista. Inevitabilmente, questo rese
anche noi
dei bersagli.
Tre
giorni prima della grande sfida, dopo essere riuscito ad evitare
confronti
violenti per settimane, mi trovai davanti Nott in un corridoio del
terzo piano
del castello. Non era solo: con lui c’erano Tiger, Goyle,
Peter Yaxley e almeno
un altro ragazzo di Serpeverde. Dal ghigno che esplose sulle labbra di
Nott,
sembrava che il suo compleanno fosse arrivato con tre mesi di anticipo:
io ero
solo, loro in cinque. Si avvicinò a grandi passi,
fiancheggiato dagli altri, la
mano infilata sotto la veste a stringere la bacchetta.
Sapevo
di essere pienamente fottuto. Per quanto avessi concluso di essere
più forte di
Nott, in cinque mi avrebbero ridotto ad una polpetta. La logica mi
diceva di
scappare, ma la ignorai senza troppi ripensamenti: anche
dall’altra parte, ho
sempre avuto più orgoglio che istinto di conservazione. Non
avrei mostrato le
chiappe a quel branco di piccole carogne. A piè fermo, li
aspettai, iniziando a
mia volta ad estrarre la bacchetta. Me le avrebbero senza dubbio
suonate, ma
ero più che intenzionato a fare loro quanto più
male possibile.
A
salvarmi fu l’improvvisa apertura di una porta nel corridoio,
a due metri da me
e a quattro o cinque da loro. Non mi ero reso conto di dove mi
trovassi, ma
l’improvvisa apparizione dei capelli castani strinati di
grigio e i vestiti
sdruciti del professor Lupin me lo fece capire immediatamente: ero
praticamente
davanti all’aula di Difesa contro le Arti Oscure.
Avevo
detto che c’era qualcosa, nel professore di Difesa, che non
mi convinceva
appieno, ma in generale ero concorde con gli altri nel ritenerlo
fantastico, sia
come insegnante che come persona. In quel momento lo
dimostrò: gli fu
sufficiente un’occhiata a destra, dove io ero ancora in posa
difensiva, la mano
stretta intorno alla bacchetta sotto la veste, e una a sinistra, dove
Nott e
gli altri si erano bloccati di colpo e stavano cercando di assumere
un’aspetto
quanto più possibile innocente, per afferrare la situazione
e decidere cosa
fare.
Lupin
si voltò verso di me con un sorriso: “Ah, Joshua!
E’ un piacere vederti qui.
Stavo proprio uscendo per cercarti, volevo dirti due parole sul tuo
ultimo
tema, credo tu abbia bisogno di un piccolo chiarimento sul modo
migliore per
affrontare un Marciotto”.Mi indicò
l’interno della sua aula, e io, ringraziando
mentalmente qualsiasi Forza controllasse quel mondo per
l’esistenza di
professori intelligenti come Lupin, vi entrai come se tutte le armate
dell’Inferno mi stessero inseguendo. Il professore si
voltò verso il gruppetto
di Serpeverde, ancora sorridendo: “E’ un piacere
vedervi, ragazzi. Vi auguro
una buona giornata!” e chiuse la porta davanti alle loro
facce che cercavano di
nascondere la rabbia.
Mi
avvicinai alla scrivania e mi lasciai cadere su una sedia.
All’improvviso mi
sentivo stremato, come dopo una lunga corsa: l’adrenalina era
salita al livello
di guardia e scesa sotto il minimo nell’arco di trenta
secondi, e questo mi
aveva spossato. Lasciai uscire uno sbuffo d’aria:
“Grazie mille, Professore”.
“Di
niente,Joshua – mi rispose, ancora sorridente, mentre
prendeva due bottiglie da
un armadietto e le stappava – Come insegnante, è
mio dovere evitare gli scontri
trai ragazzi, e comunque non volevo avere sulla coscienza uno di voi
–mi porse
una Burrobirra – Ecco, bevi. Nulla di meglio per riprendersi
da una forte
emozione”e si sedette dall’altra parte della
scrivania.
Per
circa un minuto i soli rumori furono il gorgoglio della Burrobirra e i
piccoli
tonfi delle bottiglie poggiate sul tavolo. Intanto continuavo ad
osservare quello
che era rapidamente diventato il mio professore preferito: Lupin era
gentile,
attento a noi ragazzi, anche divertente, e decisamente sapeva insegnare
la sua
materia, sapeva renderla interessante. Non che
Difesa contro le Arti
Oscure avesse bisogno di grandi spinte per diventare interessante, ma
il modo
nel quale la insegnava lui la trasformava in una vera avventura. Mi
ricordava,
in qualche modo, il mio vecchio professore di storia e filosofia del
liceo.
Nonostante l’istintiva simpatia che provavo, però,
la mia mente continuava a
mandarmi un blando segnale di allarme quando ero davanti a lui: non
sembrava
nulla di grave, almeno non urgente quanto capire che diavolo
c’entrasse Crosta
con Black, per lo meno, ma sapevo che c’era qualcosa di
stonato nel tranquillo
insegnante dagli abiti lisi, un qualche segreto che non riuscivo ancora
ad identificare.
C’era da farsi venire il mal di testa: la lista di cose che
sentivo di dover
capire ma che non c’era verso di rendere chiare continuava ad
allungarsi.
Chissà se i maghi avevano l’equivalente di uno
psicoanalista… entro breve tempo
avrei potuto averne bisogno.
Fu
Lupin a rompere il silenzio: “Vedo con piacere che
l’avvicinamento alla partita
decisiva della Coppa non è cambiato di molto con il passare
degli anni” disse
con più di una punta di ironia nella voce.
Alzai
gli occhi, sorpreso, e lo fissai in attesa di un chiarimento.
“Anche
ai miei tempi prima della partita decisiva dell’anno
l’atmosfera nei corridoi
era elettrica – raccontò Lupin
–Soprattutto quando si sfidavano per la vittoria
Grifondoro e Serpeverde: scontri, attentati ai giocatori, tentativi di
sabotaggio… ce n’era per tutti i gusti!”.
Non
riuscii a trattenere una risatina: “Vero, ma nel mio caso la
partita c’entra
relativamente. La questione tra me e Nott è
più… personale”.
Il
professore alzò una mano: “Lo so bene –
soggiunse – La McGrannitt mi ha
raccontato del vostro scontro dell’altro giorno e degli
screzi precedenti.
Volevo sapere di preciso che cosa era accaduto, e sono andato a parlare
con il
quadro della vecchia insegnante davanti al quale vi siete battuti. Mi
ha riferito
tutto – mise i gomiti sulla scrivania, incrociò le
mani e vi poggiò sopra il
mento sorridendo – Come insegnante, non posso che concordare
con la McGrannitt,
e disapprovare le liti tra studenti. Detto questo, posso comprenderti.
Ti
assicuro che se quando io e i miei amici eravamo a scuola uno di noi
fosse
stato insultato come Nott ha fatto con te o anche meno avremmo fatto
molto di
peggio, sia con le parole che con le bacchette, ma soprattutto con gli
scherzi.
La vita di Nott sarebbe diventata estremamente miserabile”.
Lasciò
passare qualche istante, poi, vedendo la mia faccia stralunata,
ridacchiò e
aggiunse: “Il mio non vuole assolutamente essere un invito,
era soltanto una
constatazione. Spero anzi che tu e Nott possiate evitare altri
confronti e
accettare reciprocamente l’esistenza dell’altro,
anche se da quanto ho visto
oggi in qualche modo ne dubito”.
Aveva
scambiato il mio stupore per una reazione al fatto di aver rivelato che
lui, un
professore, in gioventù avrebbe usato le cattive su un altro
studente, ma aveva
capito male: alla parola “amici” il mio misterioso
sesto senso aveva
sussultato. Non era stato un vero e proprio fulmine come era accaduto
altre
volte, più che altro qualcosa di simile a un invito: in
quella parola… ‘amici’…
c’era qualcosa che meritava di essere approfondito.
“Lei
e i suoi amici…” provai a dire, cercando il modo
migliore per chiedere
informazioni senza che la mia curiosità sembrasse sospetta;
non sapevo come
continuare, poi mi ricordai di un accenno che mi aveva fatto Harry
settimane
prima: “Harry mi ha raccontato che conosceva suo padre. Era
lui uno di quelli
che avrebbero rimesso un tipo come Nott al suo posto?”
chiesi, con una
sperabilmente credibile dose di ironia.
Il
sorriso un po’ triste del professor Lupin mi disse che avevo
fatto centro:
“Imputato colpevole, Josh. James Potter… una delle
migliori persone che abbia
mai conosciuto. Una delle anime del nostro gruppetto. Non farti strane
idee,
eravamo delle vere pesti! Prendi i gemelli Weasley, raddoppiali in
numero e
moltiplica il caos creato per almeno sei ed avrai un’idea
abbastanza chiara di
che tipi eravamo! Non ho mai avuto amici migliori nella mia
vita”.
Lo
avevo spinto nella direzione giusta, lo sentivo. Stavo andando quasi
con il
pilota automatico, come se nel profondo del mio inconscio qualcosa
sapesse
quali informazioni mi servissero e come ottenerle.
“Chi
altri ne faceva parte?”.
Il
volto di Lupin si rabbuiò: “Sirius Black, che ci
guidava insieme a James. E’
stata probabilmente la più grande delusione della mia vita
scoprire che era
passato dalla parte del Signore Oscuro – sospirò
– Non credere mai di conoscere
una persona fino in fondo, Josh. Potrebbero aspettarti delle sorprese,
non
sempre piacevoli. Il quarto, infine, era il povero Peter Minus, pace
alla sua
anima coraggiosa…ti senti bene?” mi chiese,
improvvisamente allarmato.
Immaginai
di essere sbiancato di colpo, o di aver fatto una smorfia rivelatrice.
Stavolta
il fulmine era arrivato davvero, con una forza totalmente imprevista:
l’ultimo
nome era esploso nella mia testa come una bomba.
“P…Peter
Minus? – balbettai, cercando di recuperare un contegno e di
trovare qualcosa di
simile ad una motivazione valida per la mia reazione – Ho
già sentito questo
nome… non è il mago che Black ha assassinato anni
fa?”.
Lupin
mi fissò sorpreso, ma continuò: “Sei
molto informato...comunque sì, hai
ragione. Black ha trucidato Peter insieme a numerosi Babbani, il giorno
nel
quale ha rivelato il mostro che nascondeva dentro di se”.
Rimase in silenzio
per qualche secondo, poi, cambiando improvvisamente discorso, quasi a
voler
allontanare i ricordi tristi, mi chiese come stavano andando gli
allenamenti
della squadra di Grifondoro.
Continuammo
a parlare per qualche altro minuto, soprattutto della finale che
avremmo
giocato tre giorni dopo. Gli raccontai anche dei miei blandi tentativi
di
evocare un Patronus, e lui confermò la mia teoria sul fatto
che uno
scombussolamento emotivo potesse rendere meno efficaci i ricordi felici
(ovviamente, detti la colpa dei miei problemi al recente divorzio dei
miei
genitori). Non si accorse che stavo rispondendo meccanicamente, quasi
per forza
d’inerzia. Durante il resto della conversazione, e anche dopo
averlo salutato,
mentre tornavo alla Sala Comune, e più tardi a cena, solo
una parte del mio
cervello aveva continuato a dedicarsi a mandare avanti la mia normale
esistenza. La sera subii tre sconfitte consecutive e piuttosto
clamorose giocando
a scacchi contro Mary che mi prese affettuosamente in giro,
sottolineando che
di solito ero un avversario decisamente più valido.
Attribuii
la colpa della mia distrazione alla stanchezza per gli allenamenti e al
nervosismo per l’imminente finale, una spiegazione che la mia
amica (ormai
potevo decisamente definirla tale) trovò soddisfacente.
Era
una menzogna. Lo dimostrarono chiaramente le ore che passai quella
notte
sdraiato a occhi aperti sul mio letto, incapace di addormentarmi. La
realtà era
che da quando avevo parlato con Lupin la maggior parte della mia mente
era
letteralmente partita per la tangente.Le stesse parole continuavano a
ripetersi
all’interno del mio cranio, come un mantra:
“Minus…Minus…Peter
Minus…”.
Ne
fosse andato della mia vita, non sarei stato in grado di spiegare la
ragione,
ma da quando avevo sentito quel nome era stato come se dentro di me
fosse
scattata una sirena d’allarme. Sentivo…no, di
più: sapevo che c’era
qualcosa di fondamentale nascosto dietro Peter Minus. Qualcosa di
determinante…
qualcosa che poteva rivelarsi decisivo. Non potevo fare a meno,
però, di notare
un piccolo problema: come poteva rivelarsi tanto importante un mago
morto
dodici anni prima? E come, in nome di Merlino, poteva collegarsi alla
fuga di
Black, alle sue strane e misteriose incursioni dentro Hogwarts, al topo
Crosta
al quale ero convinto stesse dando la caccia? Non aveva il minimo
senso,
sembravano i deliri di un ubriaco.
Avevo
la tentazione di scendere dal letto, prendere la rincorsa e dare una
testata
contro il più vicino muro. Mi stava sfuggendo qualcosa, un
tassello che avrebbe
mandato a postol’assurdo puzzle che avevo davanti. Era
frustrante, e anche
spaventoso: sentivo dentro di me che sciogliere l’arcano
avrebbe avuto
conseguenze enormi, eppure non ci riuscivo, non ci riuscivo proprio.
Sentivo di
avere dentro di me la possibilità di determinare il Fato, ma
quello mi si
opponeva fieramente, impedendomi di avere le informazioni vitali per
ingannarlo
o distoglierlo dalla sua strada. La sola cosa che potevo fare, per
quanto
deprimente fosse dal mio punto di vista, era aspettare e pregare di
fare la
cosa giusta al momento giusto, di prendere le decisioni appropriate.
Tutto,
insomma, tornava nella mani del Fato. E il Fato, lo avevo imparato fin
troppo
bene dall’altra parte, sa essere un vero bastardo.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo Otto ***
Buongiorno a tutti.
Scuusate per il lungo periodo trascorso dal mio ultimo capitolo, ho
dovuto affrontare un catastrofico caso di blocco dello scrittore,
abbinato ad una lunga serie di impegni che mi hanno tenuto lontano da
questa storia. Poiché fortunatamente sono un tipo ostinato,
però, ho tutte le intenzioni di finirla. Mentre pubblico
questo capitolo, vi comunico che il successivo è
già oltre la metà, quindi spero di non impiegare
un'altra vita prima di pubblicarlo.
Buona lettura.
CAPITOLO OTTO
Sarebbe
stato impossibile definire la finale della Coppa tra Grifondoro e
Serpeverde con un termine differente da “epica”:
avevo vissuto diversi derby dall’altra parte, ma nulla che
potesse paragonarsi alla tensione tra le due Case prima e durante la
sfida. Gli ultimi giorni furono letteralmente elettrici: lo scontro
mancato tra me e il gruppo di Nott fu solo uno dei tanti, e alcuni
ragazzi finirono addirittura in infermeria.
Il
nervosismo, la sera prima dell’incontro, era palpabile: anche
se alcuni, come i Gemelli, esorcizzavano la cosa dimostrandosi perfino
più rumorosi del solito, era chiaro che i pensieri di tutti
erano rivolti ad un unico argomento. Io, Seamus, Dean, Mary e Ginny
eravamo seduti in un angolo, e, inevitabilmente, il solo argomento
all’ordine del giorno era la partita. Benché
conoscessimo la situazione ormai da mesi, nelle ultime ore avevamo
fatto e rifatto i conti cento volte, calcolando attentamente i punteggi
di tutte le partite, e ogni volta eravamo arrivati alla stessa
conclusione: a Grifondoro serviva vincere con duecento punti o
più di vantaggio, altrimenti si sarebbe messo in pari con
Serpeverde per numero di vittorie, ma avrebbe perso a causa della
peggiore differenza punti (“differenza reti”,
continuava a definirla imperterrito Dean, scatenando
l’esasperazione di Ginny e Seamus e le risate mie e di Mary,
che avendo una madre Babbana sapeva qualcosa degli sport non magici con
la palla). Era una montagna molto impervia da scalare, considerando che
la squadra di Serpeverde era tutt’altro che scarsa, ma
eravamo tutti concordi nel ritenerla fattibile, visto il talento delle
cacciatrici titolari di Grifondoro. Nelle ultime due settimane avevo
giocato almeno una dozzina di partite di allenamento contro di loro,
simulando di essere un cacciatore di Serpeverde (Baston era addirittura
arrivato a dipingere magicamente di verde smeraldo i nostri abiti, in
modo da abituare Angelina, Katie e Alicia ad affrontare giocatori che
indossavano quelle divise), e non le avevo mai viste tanto agguerrite.
Era stato molto divertente: più continuavo a giocare,
più i movimenti sembravano venirmi naturali. Stavo scoprendo
(o ri-scoprendo?) di amare visceralmente il Quidditch, in una maniera
che né il calcio né il rugby potevano eguagliare,
e non poteva che farmi piacere.
Inevitabilmente,
ad avere la maggiore responsabilità ed il compito
più improbo sarebbe stato Harry: non doveva soltanto
conquistare il boccino, doveva farlo anche al momento giusto, quando la
squadra fosse stata in vantaggio di almeno cinquanta punti, e nel
frattempo tenere Malfoy lontano dalla piccola sfera dorata. Nonostante
la sua nuova Firebolt, non si prospettava una sfida facile per il
nostro Cercatore, ed infatti non mi sorpresi nel vedere il pallore
della sua faccia quando il capitano ordinò alla squadra di
andare a letto.
La
sfida del giorno dopo fu qualcosa di semplicemente incredibile: mentre
le due Case si lasciavano andare ad un tifo degno di una partita di
calcio particolarmente sentita, le squadre si affrontarono senza
esclusione di colpi. Io ero in tribuna con il resto della squadra
riserve, proprio nel mezzo della bolgia; ero addirittura arrivato a
farmi convincere da Mary a dipingermi sulle guance due strisce (una
color oro, una rosso vivo). Ricordando le domeniche trascorse sui
gradoni dello stadio dall’altra parte, non ci misi molto a
provare a guidare i “tifosi”, inventando sul
momento alcuni cori contro Serpeverde che solo grazie alla particolare
eccitazione del momento mi fecero guadagnare soltanto qualche
occhiataccia da parte di una McGrannitt che era coinvolta nel match
quasi quanto noi. Erano rime quasi caste rispetto ad alcune che avevo
sentito in alcune partite di calcio particolarmente sentite, ma sono
certo che se in qualsiasi altra situazione avessi suggerito ai
Serpeverde gli stessi consigli su dove potevano infilarsi i serpenti,
mi sarebbero certamente costati almeno due settimane di punizione.
Sorprendentemente,
tutto andò secondo i piani, come meglio non sarebbe stato
possibile: in mezzo ad un mare di bandiere rosse ed oro, vidi i miei
compagni riuscire a portarsi in vantaggio, nonostante il gioco pesante
e spesso falloso dei Serpeverde, ed Harry riuscì a strappare
il boccino sotto il naso di Malfoy. Lo stadio esplose come una bomba:
dalle tribune di Grifondoro si alzò un urlo simile al
ruggito di un vero leone, che si disintegrò in una cacofonia
di grida, pianti, risate. Alcuni facevano tutte e tre le cose insieme.
Tra questi c’era Mary, che scavalcò almeno tre
persone per saltarmi tra le braccia, la bocca allargata al massimo in
una risata, le guance rigate di pianto. Pesava come un fuscello. Io le
feci fare due giri completi tenendola sollevata, poi mi abbassai e me
la misi a cavalcioni sulle spalle prima di correre verso il campo,
seguendo la marea di tifosi di Grifondoro che si rovesciavano a
festeggiare i giocatori, che erano scesi in campo stetti in un
abbraccio collettivo. L’emozione fece dei brutti scherzi
anche a persone insospettabili: il solitamente austero e inibito Percy
saltellava come un pazzo, mentre la McGrannitt piangeva senza ritegno,
asciugandosi gli occhi con una enorme bandiera di Grifondoro. Io, pur
stando attento a non far cadere l’esultante Mary, non
resistetti alla tentazione di dissezionare con lo sguardo la tribuna di
Serpeverde, dove i tifosi erano rimasti pressoché raggelati,
finché i miei occhi non si incatenarono con quelli
lampeggianti di collera di Nott. Gli regalai un ghigno degno di uno
squalo davanti ad un banco di aringhe particolarmente succulente.
L’intera
squadra venne sollevata sulle spalle dalla folla e portata verso le
tribune, dove Silente reggeva la gigantesca Coppa del Quidditch. Da
ragazzo avevo vissuto la vittoria della nazionale Italiana nei mondiali
di calcio, e vedere Fabio Cannavaro alzare la Coppa del Mondo era stata
un’emozione incredibile. Quella sensazione, però,
scomparve nettamente nel vedere Baston alzare al cielo il trofeo
d’oro. In quel momento, con le risate di Mary nelle orecchie
e le sue mani a scompigliarmi i capelli, per la prima volta da quando
ero arrivato in quel mondo mi sentii veramente felice di essere
lì. Per la prima volta da quel giorno di novembre, mi sentii
a casa.
L’esaltazione
per la vittoria durò per diversi giorni, mentre anche il
tempo, con l’avvicinarsi di giugno, diventava più
allegro, ed il sole illuminava i prati ed il lago. Faceva piuttosto
caldo, per essere in Scozia. Stare fuori era sempre più
piacevole, ma non potevamo permettercelo più di tanto:
l’arrivo di giugno, infatti, voleva dire che gli esami erano
vicini. Per me non era una novità prepararmi ad un test, ma
nonostante ciò che diceva la storia scolastica di Joshua
Carter, quelli erano i primi, veri esami di magia che mi trovavo ad
affrontare. Per una volta nella vita decisi di non affidarmi solo a
quella memoria che tanto avevo osannato e sfruttato per tutta la mia
carriera scolastica, quella capacità di immagazzinare
nozioni rapidamente che mi aveva evitato di passare tante ore sui libri
fin dalle elementari. Mi misi anzi a studiare con una
serietà che solitamente non mi apparteneva, spulciando per
ore i libri di testo e sfruttando le pause per esercitarmi nella
pratica.
Cercai
di mantenere alta l’attenzione, e di non farmi scuotere
neanche dalla notizia che Edvige portò in quei giorni ad
Harry: Hagrid ci avvertiva che l’appello di Fierobecco si
sarebbe tenuto il sei, ad Hogwarts. Sarebbe venuto un funzionario del
ministero…insieme ad un boia. Fu un colpo duro, per me come
per Harry, Ron ed Hermione: avevamo contribuito tutti a preparare
l’appello in favore dell’Ippogrifo, ma purtroppo
avevamo la sensazione che il nostro impegno non sarebbe servito a
nulla. A darcene la triste conferma contribuiva non poco la faccia
tronfia di Malfoy, tornato di colpo allegro dopo giorni nei quali si
era mantenuto insolitamente tranquillo. Era certo che Fierobecco
sarebbe stato giustiziato, e purtroppo temevo che avesse ragione.
Era
solo uno dei pensieri che mi attraversavano la testa: da un
po’ il mio “Senso di ragno” non mi dava
tregua, lanciandomi puntate apparentemente casuali diverse volte al
giorno, senza che riuscissi a collegarle a qualcosa di preciso. In
realtà, forse non c’era una vera ragione, era
più che altro un avvertimento generico: il periodo buio che
fin dal mio arrivo in quel mondo sentivo prossimo era ormai sempre
più vicino. Sapevo che stava per succedere qualcosa, ma non
avevo la minima idea di cosa si trattasse, e questa attesa contribuiva
certamente a peggiorare il mio umore.
Non
era proprio il migliore spirito con il quale affrontare gli esami. Una
quiete innaturale scese sul castello quando, la mattina di
lunedì 3 giugno, ci avviammo verso la prima prova.
L’esame di Trasfigurazione fu complesso, molto complesso: la
McGrannitt si confermò un’insegnante estremamente
esigente, e tutti ci trovammo in difficoltà con le domande
di teoria e con le esercitazioni pratiche. Se la maggior parte della
classe ebbe seri problemi con la trasformazione di una teiera in una
tartaruga (la mia, a parte la conservazione delle caratteristiche
dentellature che decoravano la teiera sul carapace, era venuta
abbastanza bene), io quasi mi schiantai nel tentativo di eseguire un
Incantesimo di Indurimento su un cuscino. O, per meglio dire, fu il
cuscino a schiantarsi a terra, improvvisamente pesante una tonnellata:
un istante dopo il mio “ Duro”,
infatti, il soffice oggetto sfondò il banco sul quale era
posato e incrinò il pavimento. Un esame successivo della
McGrannitt rivelò che avevo leggermente esagerato,
probabilmente per lo stress di stare affrontando il mio primo esame in
quella scuola, ed avevo pompato troppa magia nel mio incantesimo:
anziché in pietra, il cuscino si era trasformato in piombo,
e pur essendo di solida quercia, il banco non aveva retto il peso
eccessivo. Non mancai di udire alcune risate nervose da parte dei
presenti, e perfino la professoressa sorrise quando le feci notare che,
in effetti, l’oggetto si era indurito, e che quindi il mio
non era stato un completo errore. Incantesimi, nel pomeriggio, fu un
successo decisamente maggiore: gli Incantesimi Rallegranti non mi
avevano mai messo realmente in difficoltà, e per mia buona
sorte in quel caso evitai di esagerare, come accadde ad Harry, che ne
lanciò uno talmente forte a Ron da metterlo fuori uso per
un’ora, scosso da risatine isteriche. Terminato l'esame di
Incantesimi, a stento ebbi il tempo di tirare il fiato prima di
affrontare il test di Antiche Rune: per mia fortuna, confermando le
parole della mia professoressa di latino al Liceo, mi rivelai piuttosto
portato per le lingue antiche, e la traduzione scorse senza troppi
problemi.
A
sera ero già molto stanco, ma passai ugualmente gran parte
della notte chino sui libri. Gli esami che mi attendevano il
martedì non erano certamente i miei preferiti: se Astronomia
mi lasciava qualche speranza, e il depresso Hagrid avrebbe ben
difficilmente messo in piedi un esame difficile per Cura delle Creature
Magiche, Pozioni sarebbe stato uno scoglio molto difficile da superare.
Rimasi per ore a ripassare le varie misture che avevamo sperimentato
durante l’anno, ma sapevo fin troppo bene che a mettermi in
gravi difficoltà non sarebbe stata la teoria,
bensì la pratica.
Non
avevo previsto grandi difficoltà per Cura delle Creature
Magiche, ma Hagrid esagerò in senso contrario: dovevamo
semplicemente prenderci cura per un’ora di un Vermicolo,
facendolo rimanere in vita. La prova più semplice che fosse
possibile immaginare, considerando che i Vermicoli normalmente
sopravvivono bene se lasciati a se stessi. Per lo meno, questo dette a
me e agli altri la possibilità di scambiare qualche parola
con Hagrid, che appariva però quasi rassegnato. Doveva aver
capito anche lui che le possibilità di salvare
l’Ippogrifo erano ormai ridotte al lumicino. Cercai di
confortarlo per quanto possibile, ma dentro di me ribollivo
d’ira: mondo Babbano o mondo magico, sembrava impossibile
liberarsi da quel viscido mostro che era la politica corrotta.
Pozioni
si rivelò catastrofica come mi ero aspettato. Piton si
confermò una vera carogna: aveva predisposto il
più difficile test scritto che mente umana avesse mai
immaginato, andando a pescare i più piccoli dettagli delle
pozioni più complesse affrontate durante l'anno. Se per la
teoria ero convinto di aver raggiunto almeno la sufficienza, la pratica
fu a dir poco disastrosa: non solo il mio Intruglio Confondente,
anziché addensarsi, si trasformò quasi in
melassa, ma dimenticai clamorosamente il levistico. Le mie speranze di
non essere bocciato in quella materia erano veramente scarse.
Dopo
una cena leggera ed un veloce ripasso, io e gli altri ci trascinammo
letteralmente nella torre di Astronomia, dove la sinuosa professoressa
Sinistra ci attendeva per il suo test. Quando finimmo di disegnare la
mappa del settore di cielo che ci aveva assegnato, erano ormai le due,
e ci reggevamo in piedi per un miracolo di equilibrio. Nonostante il
giorno dopo fossi atteso da altri due esami, non riuscii a fare altro
che crollare come un sacco di patate sul mio letto. D'altronde, Storia
della Magia non mi preoccupava, mi sentivo prontissimo, mentre in
Erbologia ero sostanzialmente rassegnato.
In
realtà, le cose andarono meglio delle mie fosche previsioni:
Storia della Magia fu come bere un bicchier d'acqua, mentre la
sensazione che ebbi quando uscii dalle serre con la testa che mi girava
per il gran caldo fu che forse, ma solo forse, avevo una remota
speranza di strappare la sufficienza.
Fu
dunque con un sorriso che, il giovedì mattina, mi accostai
all’ultima giornata di esami. Era quella che aspettavo con la
maggiore curiosità: Babbanologia, che mi attendeva nel
pomeriggio, sarebbe probabilmente stata una formalità, ma
era il test mattutino ad affascinarmi in maniera particolare. Difesa
contro le Arti Oscure era una materia intrigante di per se, ed il modo
con il quale il professor Lupin la insegnava la rendeva ancor
più appassionante. Era stato lui stesso, il giorno prima, a
far salire di diversi gradi il mio interesse: lo avevo incontrato dopo
l’esame di Storia della Magia, e mi aveva detto con un
sorriso complice di prepararmi bene, perché la sua prova non
sarebbe stata una passeggiata.
Compresi
che aveva detto la verità appena arrivai vicino al margine
della Foresta Proibita, dove l’insegnante aveva preparato una
specie di percorso di guerra: avremmo dovuto attraversare, per prima
cosa, una vasca d’acqua contenente un Avvincino, poi superare
una serie di buche piene di Berretti Rossi, quindi farci strada
attraverso un sentiero paludoso senza farci tentare dai consigli di un
Marciotto, infine arrampicarci dentro un vecchio tronco e affrontare un
Molliccio. Un ghigno mi si dipinse sul volto: adoravo quel genere di
cose già nel mio mondo, e mi sentivo sinceramente entusiasta
all’idea di mettermi alla prova. Per di più, avevo
già affrontato quasi tutte quelle creature in classe, e me
l’ero cavata piuttosto bene.
‘Quasi,
non tutte’. Il pensiero non poté fare a meno di
attraversarmi la mente durante la prima parte del percorso, mentre mi
liberavo senza eccessivi problemi dell’Avvincino, dei
Berretti Rossi e del Marciotto, e si presentò a piena forza
non appena giunsi davanti al tronco cavo: era una immensa quercia, una
ventina di metri oltre il limite della foresta. Doveva essere morta
ormai da anni, e nel suo tronco, dal diametro di cinque o sei metri, si
apriva uno squarcio alto quanto un uomo adulto e largo circa cinquanta
centimetri. Mi fermai ai piedi di una rudimentale scaletta che
conduceva verso l’apertura. Il professore ci aveva detto che
dalla parte opposta del tronco ce n’era una gemella dalla
quale avremmo potuto uscire, mentre lui ci avrebbe aspettato a una
decina di metri di distanza con gli altri che avevano già
superato la prova. All’interno del tronco, però,
un’oscurità magica regnava sovrana, al punto che
l’uscita era appena distinguibile.
Mentre
salivo la scala ero molto più curioso che intimorito: delle
creature che il professor Lupin aveva scelto di inserire nel percorso,
il Molliccio era il solo che non avessi mai affrontato. Lo aveva
portato in classe all’inizio dell’anno, prima del
mio viaggio. Ero veramente interessato: dai miei ricordi, o meglio, da
quelli di Joshua, sapevo che lui, durante la lezione, aveva dovuto
sfidare un gigantesco scorpione, grande quanto un rinoceronte, una
creatura che sembrava uscita da un vecchio film dell’orrore.
Era la sua paura più grande fin da bambino, quando, durante
una passeggiata con suo padre, era stato punto da uno di quegli
animali, e aveva quasi rischiato la vita prima che una Pozione
Anti-Veleno lo salvasse. Quella, però, era la paura di
Joshua, non la mia. Difficilmente io avrei visto uno scorpione, non
avevo nessun problema con loro.
Quale
era, però, la mia più grande paura? Era una
domanda che non mi ero mai posto in venticinque anni: cosa temeva
veramente Matteo Simoncini? Un pizzico di timore mi colpì la
mente nell’attimo nel quale varcai la soglia ed entrai
nell’oscurità.
Dopo
un solo passo mi bloccai come una statua di sale. Il respiro mi si
bloccò in gola, il cuore saltò due battiti, ed
ebbi la sensazione che mi fosse stata iniettata acqua ghiacciata nelle
vene.
Non
era uno scorpione. Non era un serpente o un ragno o un altro animale.
Non era neanche un licantropo, un vampiro, un alieno o un qualsiasi
altro mostro magico o Babbano.
Davanti
a me c’era una tomba. Una lapide rettangolare, di marmo
bianco, piantata in un terreno scuro, che si stagliava innaturalmente
nel buio. Con orrore crescente, lessi la scritta in lettere dorate
realizzata su di essa:
Matteo
Simoncini
Nato
l’11 settembre 1994
Morto
il 20 novembre 2019
Era
la data del mio incidente.
Presi
a tremare in maniera incontrollata, incapace di muovermi di un solo
millimetro. La bacchetta mi tremava nella mano, e non riuscivo a
staccare gli occhi dalla lapide.
Un
attimo dopo, una figura apparve accanto alla pietra. Ebbi la sensazione
che si fosse sollevata dalla terra, ma in realtà si
condensò nell’aria, come fumo deciso a prendere
una forma solida.
Urlai,
o almeno ci provai, perché il suono che uscì
dalla mia gola, che sembrava essersi ridotta alle dimensioni di una
cannuccia, fu molto più simile ad uno squittio. Temetti
veramente di svenire sul posto.
Distinsi
una figura umana muoversi con passi strascicati nella mia direzione,
fermandosi a circa un metro e mezzo di distanza. Riconobbi il suo
viso…riconobbi il MIO viso…solo perché
lo conoscevo molto bene. Avevo davanti a me Matteo Simoncini, ritornato
ai suoi venticinque anni. O per meglio dire, quello che era stato
Matteo Simoncini. La sua pelle era giallastra, ed aveva
l’aspetto di cuoio malamente invecchiato. Sotto di essa, la
carne sembrava essersi consumata, lasciando poco più che
ossa. Il volto era piagato, quasi divorato, ed in diversi punti si
intravedeva il teschio. I capelli erano ridotti a vecchia paglia, gli
occhi infossati nelle orbite mi fissavano con un lampo inquietante. Gli
abiti, che un tempo erano stati un bel completo Babbano da uomo, gli
pendevano addosso laceri e sporchi di terra, come quelli, pensai, di un
essere appena uscito dalla propria bara. E doveva essere esattamente
quello che era accaduto: avevo davanti il mio cadavere.
Non
riuscii a muovere un solo muscolo: le braccia mi erano crollate lungo i
fianchi, inerti, e solo la paura che mi aveva folgorato mi aveva
impedito di aprire le dita e lasciar cadere la bacchetta. Non poteva
essere vero…una parte della mia mente sapeva che era solo lo
squallido trucco di un imitatore, eppure…
Il
cadavere rimase a fissarmi per qualche secondo, poi parlò,
con una voce che ricordava lo stridore di vecchie ossa:
“Quanto credi di andare avanti con questa pagliacciata? Fino
a quando vuoi continuare a fingere? Quanto a lungo racconterai a te
stesso e agli altri la stessa bugia? Tu…fingi.
Tu…cammini, parli, ridi, combatti, vivi… ma
è soltanto una menzogna…perché
tu…sei morto! Tu non sei Joshua Carter, lo sai
bene…ma non sei più neanche Matteo Simoncini. Non
lo sei più da sette mesi, da quando la tua vita è
finita! Non c’è un altro mondo per te! Fingi di
continuare questa vita con la speranza di tornare dall’altra
parte, ma non c’è più
un’altra parte! Tu sei morto, e lo sai! Ti hanno seppellito
sette mesi fa! I tuoi genitori…tuo fratello…la
tua fidanzata…i tuoi amici…hanno pianto sulla tua
bara. Qualcuno ti porta ancora dei fiori. Tutti, però, sono
andati avanti…hanno continuato con le loro vite…e
tu non ne fai più parte!”.
Il
morto vivente sembrava diventare sempre più nitido. Il
Molliccio si stava nutrendo a volontà della mia paura,
pascendosene come di un vino particolarmente gustoso. Sapevo che avrei
dovuto reagire, che avrei dovuto fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non
riuscivo neanche a muovermi: la paralisi era stata sostituita da un
tremore incontrollabile, un terrore viscido e oscuro, un orrore
impossibile anche solo da descrivere. Quello che stava
dicendo…era l’incubo che aveva piagato tante delle
mie notti in quei mesi.
“Dove
sei adesso? – continuò senza pietà
l’apparizione, avvicinandosi di un altro passo –
Che cos’è questo luogo? Il Paradiso?
L’Inferno? Qualcos’altro? Non importa! –
scosse la testa ghignando – E’ comunque tutto
quello che ti rimane. Non ci sarà un ritorno per te.
Tu…sei…morto!”.
“NO!”.
L’urlo
mi eruppe improvviso dalla gola, come un’esplosione. Una
vampata come di fuoco liquido mi attraversò il corpo,
scuotendomi di colpo. Non era coraggio, ma rabbia. Pura e semplice
furia bruciante. Sentii di nuovo la bacchetta stretta nella mia mano, e
l’alzai gridando: “Io non sono morto, e tu non sei
me! Tu sei il solo bugiardo in questo posto, la sola pagliacciata, e
sparisci ADESSO! Riddikulus!”.
Non
mi resi neanche conto di aver pensato ad una nuova forma per
l’essere che avevo davanti. Probabilmente non lo avevo fatto,
almeno non in maniera conscia, ma per mia fortuna funzionò
lo stesso: spinto dalla rabbia, l’incantesimo uscì
dalla mia bacchetta come un’ondata di piena e
centrò la cosa.
Crack! Un
istante, e al posto del cadavere c’era uno scheletro
chiaramente fasullo, come quelli che i bambini utilizzano ad Halloween
per decorare le case, che ghignava verso di me con un sorriso
più divertente che inquietante.
Avrei
dovuto ridere per far scomparire il Molliccio, ma niente al mondo
sarebbe riuscito a trarre da me una risata in quel momento. Invece, lo
spostai con una spallata (buffo, non mi ero mai chiesto se fossero o no
solidi) e quasi rotolai fuori dall’albero.
Percorsi
barcollando gli ultimi passi che mi separavano dal professor Lupin e
dai miei compagni. L’insegnante impiegò alcuni
secondi per rendersi conto del mio stato: “Bravo, Joshua
– disse inizialmente con un sorriso – Ci hai messo
un po’, ma sei riuscito a completare il percor… -
si bloccò quando comprese in quali condizioni versavo
– Va tutto bene?” mi chiese, improvvisamente
preoccupato.
In
effetti, dovevo avere una faccia spaventosa: tremavo ancora come una
foglia al vento, sentivo una patina di sudore gelido imperlarmi la
fronte, e immaginai di essere pallido come… beh…
come un morto.
“N…non
è st…stato semplice – balbettai, con
una voce che non sembrava neanche la mia – No, non
è stato per niente facile”.
“Hai
bisogno di sederti per qualche minuto?” mi chiese ancora
l’insegnante, mentre gli altri mi fissavano con un misto di
stupore e apprensione.
“No!”
risposi in fretta. Non potevo restare lì, non vicino a
quell’albero. Avevo un bisogno disperato di rimanere da solo.
Cercai di darmi un tono, di non apparire completamente in preda al
terrore: “Ho solo bisogno di un bicchiere
d’acqua…posso andare a prenderlo,
Professore?”.
“Certo,
Joshua - rispose Lupin sorridendo – Se ne senti la
necessità, passa pure in infermeria da Madama Chips a farti
dare qualcosa per calmarti, e poi vai a riposare. Hai parecchie ore
prima del tuo ultimo esame”.
Non
attesi altro tempo: ancora malfermo sulle gambe, mi allontanai dal
percorso ed uscii dalla foresta, dirigendomi apparentemente verso il
castello.
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Capitolo 10 *** Capitolo Nove ***
Salve
a tutti!
Lo
so, ormai mi avrete dato per disperso. Vi chiedo scusa per il mostruoso
ritardo. Purtroppo sto attraversando un periodo molto complicato dal
punto di
vista degli impegni, e il tempo per scrivere si è ridotto al
minimo. Voglio
però rassicurarvi: questa storia vedrà la sua
conclusione, anche se non sono in
grado di dirvi quanto ci vorrà. Detto questo, godetevi il
capitolo!
CAPITOLO
NOVE
Lungo
la sponda del Lago Nero, a un decina di metri dalla linea
dell’acqua, c’era uno
splendido faggio solitario, che cresceva lontano dalle altre piante:
alto più
di venti metri, con un tronco enorme e un fogliame ampio e folto,
sembrava un
monumento alla forza della natura. Da quando lo avevo scoperto,
all’inizio
della primavera, avevo stabilito che era il luogo perfetto dove sedersi
a
riflettere, a studiare oppure semplicemente a riposare, cullato dal
vento.
Mai
come in quel momento avevo avuto bisogno di un luogo dove poter pensare
da
solo, senza dover rispondere alle inevitabili domande degli altri. Dopo
aver
percorso qualche centinaio di metri verso il castello, quindi, deviai
verso il
lago, certo di non essere stato visto da nessuno, e raggiunsi
l’albero.
Crollai
letteralmente con la schiena contro il tronco, trassi un profondo
respiro, poi
lasciai cadere l’argine che fino a quel momento aveva
trattenuto le mie lacrime
e piansi per alcuni minuti.
Il
confronto con il Molliccio mi aveva letteralmente distrutto. Non era
stato
tanto l’orrore della scena a fiaccare la mia resistenza,
bensì il timore che,
nel suo tentativo di terrorizzarmi, l’orrido animale avesse
centrato più verità
di quanto lui stesso avesse potuto immaginare. Quante
volte…in mezzo alla
notte, mentre i ragazzi intorno a me dormivano
tranquilli…quante ore avevo
passato a fissare il baldacchino del letto senza vederlo realmente,
ponendomi
le stesse domande che la rappresentazione del mio cadavere mi aveva
vomitato
addosso come affermazioni. Poteva essere vero? In realtà io
non sapevo nulla di
quanto era accaduto dopo l’incidente. Ricordavo
però fin troppo bene lo
schianto, e sapevo che era stato più che sufficiente per
uccidermi. Mi ero
convinto da solo, senza alcuna prova e addirittura senza alcun indizio,
che
dall’altra parte il corpo di Matteo Simoncini fosse ancora
vivo, magari caduto
in un profondo coma, ma… e se le cose fossero state
differenti? Era possibile
che non ci fosse più alcun Matteo Simoncini? Che il mio
cadavere si stesse
davvero decomponendo all’interno di una bara, in un piccolo
cimitero
dell’Italia centrale? Era possibile che quella vita, che
tanto stavo
apprezzando ma che nel profondo della mia mente continuavo a
considerare una
sorta di lunga vacanza, fosse davvero tutto ciò che mi
rimaneva?
A
questi pensieri se ne aggiungevano altri, forse meno cupi, ma parimenti
disturbanti:
posto che le mie previsioni più nere fossero sbagliate, che
Matteo Simoncini
fosse ancora vivo dall’altra parte, e che miracolosamente mi
si presentasse, in
futuro, la possibilità di tornare, volevo veramente farlo?
Cosa avrei trovato nel
mio vecchio mondo? Anche partendo dal presupposto che
l’incidente non mi avesse
ucciso, era stato comunque devastante, abbastanza da creare danni
terribili al
mio corpo. Sarei tornato indietro solo per trovare un guscio spezzato e
paralizzato, sarei andato incontro ad una vita di sofferenza, bloccato
in un
letto fino al mio ultimo giorno? Davvero avrei voluto correre un
rischio
simile? Erano pure e semplici ipotesi, non avevo, per il momento, la
minima
prospettiva che mi facesse pensare di poter compiere un viaggio a
ritroso, ma
se anche fosse accaduto, ne avrei avuto il coraggio? Per di
più, una parte
minoritaria ma sempre più insistente della mia mente mi
esortava a riflettere
bene su quello che avrei lasciato tornando indietro, anche avendo la
certezza
di ritrovare tutto come prima del mio viaggio: non soltanto un mondo
magico che
superava le mie più fervide fantasie, ma un luogo dove avevo
trovato una
seconda casa. C’era affetto per me, ad Hogwarts,
c’erano amici, persone che
tenevano a me e alle quali avevo imparato a tenere: Semus, Ginny, Dean,
Neville, Harry, Ron, Hermione… Mary. C’erano una
madre e una sorella che,
nonostante qualche timore, ero ormai molto curioso di conoscere.
C’era la
prospettiva di vivere una grande avventura, che per quanto pericolosa,
era
superiore a qualsiasi cosa avrei mai potuto vedere come Matteo.
C’era la vita
di Joshua Carter, che ogni giorno sentivo più mia. Iniziavo
veramente a
chiedermi se avrei avuto la forza di abbandonare tutto.
Ero
talmente assorto nelle mie riflessioni che non avvertii la presenza di
un’altra
persona finché la voce gentile di Mary non
risuonò alle mie spalle: “Tutto
bene, Josh?”.
Mi
voltai, sorpreso: la ragazzina era in piedi con una mano appoggiata al
tronco,
e mi sorrideva con gentilezza.
“Come
mi hai trovato?” le chiesi.
Il
suo sorriso si allargò: “Sei stato proprio tu a
raccontarmi di questo albero!
Mi hai detto che quando hai bisogno di pensare è il tuo
posto preferito. Dean e
Seamus mi hanno raccontato quello che è successo durante
l’esame, e mi sono
immaginata che ti saresti rifugiato qui”.
Si
sedette accanto a me, le gambe raccolte sotto il corpo. Per un paio di
minuti
rimase in silenzio, in attesa che io avviassi il discorso. Rimase
però delusa:
non mi dispiaceva affatto la sua compagnia, ma ero semplicemente
incapace di
parlare dell’accaduto. Alla fine fu lei a rompere il
silenzio: “Ti va di
raccontarmi quello che è successo?” mi chiese.
Impiegai
parecchio prima di decidermi a rispondere: “Non posso, Mary.
Veramente non posso”.
Vedendo la sua faccia delusa, mi affrettai a tranquillizzarla:
“Non dipende da
te, credimi. Anzi, ti sono grato per la tua preoccupazione. Non
è con te che
non voglio parlarne. Non mi sento di raccontare quello che ho visto a
nessuno”.
Guardai la mia mano, e mi accorsi che stava tremando. Stavo dicendo la
pura e
semplice verità: anche lasciando perdere il fatto che avrei
rischiato di
rivelare il mio segreto raccontando ciò che avevo trovato
all’interno
dell’albero, rivelare la messa in scena del Molliccio
l’avrebbe resa
ulteriormente reale, e perciò ancora più tremenda.
“E’
stata così brutta?” mi chiese. Annuii senza dire
una parola.
“E’
stata una visione legata ai tuoi incubi, vero?”.
Mi
voltai, sorpreso: non riuscivo a capire come facesse a saperlo.
Sorrise
nuovamente: “Visti i ghiri con i quali dividi il dormitorio,
posso capire la
tua sorpresa: Dean, Neville e Ron non si sveglierebbero neanche se ti
mettessi
a demolire il letto con una mazza. Seamus, però, ha il sonno
abbastanza
leggero: mi ha raccontato di averti sentito diverse volte borbottare
mentre
dormivi, se non proprio parlare, di averti sentito rovesciarti sotto le
coperte
in preda ad un sogno. Mi ha detto che spesso ti svegli di soprassalto,
o che
addirittura piangi nel cuscino”. Si fermò a
guardarmi, preoccupata: dovevo
essere impallidito in maniera evidente. Continuò a parlarmi
con dolcezza: “Mi
dispiace, non volevo impicciarmi di cose che riguardano solo te, ma
sono
preoccupata. Riguarda per caso il divorzio dei tuoi
genitori?”.
Scossi
la testa: “Mi dispiace, Mary. Credimi, non voglio tenerti
all’oscuro di
qualcosa, ma non riesco veramente a parlare di questo. Ci sono cose che
non
posso raccontare, almeno non ancora. Ti assicuro, però, che
quando sarà il
momento sarai la prima a sapere tutto – per la prima volta da
diverse ore
sorrisi – Grazie, comunque. E’ bello che tu sia
venuta qui per me”.
Mary
non disse altro: semplicemente, mi abbracciò con grande
calore. La sua stretta
trasmetteva un enorme affetto, e quasi senza volerlo mi trovai a
ricambiare.
Una parte della mia mente continuava a ricordarmi che c’era
qualcosa di
sbagliato in ciò che stavo facendo, che nonostante tutto
rimanevo un
venticinquenne abbracciato ad una ragazzina, ma tutto il resto urlava a
pieni
polmoni che non ci sarebbe potuto essere nulla di più
giusto: non ero più un
uomo, ero un tredicenne disperatamente bisognoso di comprensione, e la
stavo
trovando tra le sue braccia. Cara, dolcissima Mary! Sembrava aver
capito tutto
quello che avevo detto, e anche quello che avevo tenuto per me: senza
chiedermi
spiegazioni o chiarimenti, come la maggior parte degli amici avrebbero
fatto,
con la sua semplice vicinanza mi stava dando quello di cui avevo
maggiormente
bisogno: la certezza di non essere solo. Neanche se mi avesse
sussurrato le due
fatidiche parole avrebbe potuto trasmettermi più chiaramente
i suoi sentimenti,
e in quel momento mi stava benissimo. Affondai la guancia nei suoi
capelli, e
una lacrima solitaria, remota erede delle tante che avevo versato solo
pochi
minuti prima, mi solcò il viso.
“Aww,
non sono carini?”.
Bastò
quella voce gracchiante per ridurre in briciole il momento magico.
Già
consapevole della spina nelle chiappe sulla quale mi stavo sedendo,
lasciai
andare Mary ed alzai gli occhi sopra la sua spalla: Nott era in piedi
ad una
decina di metri da noi, un ghigno da carogna dipinto sul volto, e ci
fissava
ridacchiando. Ai suoi lati c’erano Vasey e Harper, i suoi
scherani preferiti,
con l’aria di non sapere esattamente su quale pianeta si
trovassero, ma
stolidamente impegnati ad imitare il loro capo. Mi alzai, tenendo Mary
leggermente dietro di me.
“Complimenti,
Yankee, sei riuscito davvero a trovarti la ragazza! – con la
coda dell’occhio
vidi Mary arrossire furiosamente – Le mie congratulazioni,
sinceramente non lo
avrei mai creduto possibile, anche se effettivamente riuscire a pescare
questa
gattina morta non deve essere stato troppo difficile”.
Lo
devo ammettere: in quel momento una valvola di sfogo era ben accetta
quanto un
abbraccio consolatorio. Ridurre Nott in sottili striscioline di carne
mi
sembrava la migliore delle idee. Feci per farmi avanti, ma Mary mi
afferrò la
mano: “Lascia perdere, Josh. Non vale la pena di sporcarsi le
mani con tipi
come lui”.
“Sì,
Carter, dai retta alla tua cagnetta – sibilò con
malevolenza Nott – Buffo, di
solito è il padrone a tenere il cane al guinzaglio, ma in
questo caso sembra
sia il contrario! Devo dire che comunque vi siete trovati
perfettamente: il
coglione e la cagna! Credo che i Babbani dicano qualcosa di simile a
‘Conservate per me un cucciolo’, ma dovrei fare
anche la fatica di annegarlo!
In ogni caso, la feccia non può che accoppiarsi con altra
feccia”.
Stavo
letteralmente per esplodere. Ero furibondo per quello che Nott aveva
appena
detto, era andato oltre qualsiasi insulto che avesse utilizzato fino a
quel
momento. Feci per avanzare, deciso ad aggredirlo nonostante
l’inferiorità
numerica, ma Mary mi fermò di nuovo, e si portò
davanti a me. Era molto
pallida, ma quando parlò lo fece con voce ferma e dura come
il ghiaccio: “Sai,
Nott, all’inizio ho pensato che ti comportassi in questo modo
per invidia,
perché Josh è tutto quello che non sei:
è più bello di te, più abile di te, e
tutti gli vogliono bene. Poi però ho capito che per provare
invidia serve un
cervello, cosa che tu non hai. Perciò, sono giunta ad una
conclusione: quello
che fai, lo fai soltanto per cattiveria. Sei un perfido bastardo
arrabbiato con
il mondo, e vuoi semplicemente fare del male a chiunque ritieni che non
meriti
il tuo rispetto. Non so se mi fai maggiormente pietà o
ribrezzo!”.
“Piccola,
sudicia puttanella!” ringhiò Nott in risposta,
mentre infilava la mano sotto la
veste ed estraeva la bacchetta “Ti insegno io come ti devi
comportare con chi
ti è superiore! Exulcero!”.
“Protego!”.
La
Fattura Ustionante di Nott sembrò schiantarsi contro un muro
invisibile pochi
secondi prima di colpire Mary. Se ne avessi avuto il tempo, mi sarei
sorpreso
della velocità con la quale avevo estratto la bacchetta,
oltre che di essere
riuscito a lanciare un perfetto Incantesimo Scudo senza averlo mai
provato, ma
in quel momento il mio cervello si era ormai spento, ed una seconda
mente,
molto diversa da quella che solo due minuti prima si stava con ogni
probabilità
preparando a piangere sulla spalla di Mary, aveva assunto il controllo.
Questa
volta non si trattava di una semplice rissa tra ragazzi:
l’incantesimo di Nott
era pericoloso, era fatto per fare del male. Aveva cercato veramente di
ferire
Mary! Senza il mio scudo, la mia amica si sarebbe ritrovata a
combattere contro
ustioni di secondo o terzo grado!
Anche
lei sembrava averlo compreso: dopo l’istante di puro shock
che aveva seguito il
cozzo tra la magia di Nott e il mio scudo, un velo di puro furore si
era
dipinto sul suo volto: “Fottuto maniaco psicopatico! -
urlò a pieni polmoni, e
la bacchetta dardeggiò nella sua mano – Questa me
la paghi cara!”.
“Ferma!”.
Si
voltò, quasi scandalizzata dal mio tono, e vidi
chiaramente la sorpresa, mista quasi a timore, sostituire la rabbia sui
suoi
lineamenti: doveva
aver notato la mia
espressione, e ne era rimasta spaventata.
“Metti
via la bacchetta, e fai qualche passo indietro – dissi, in un
tono che non
ammetteva repliche – Questo sacco di spazzatura è
mio”.
Senza
neanche attendere la sua risposta, mi feci avanti, la bacchetta al
fianco.
Ormai non c’era niente, dentro di me, tranne determinazione e
cieco furore.
Joshua Carter si era immediatamente ritirato in buon ordine, ma non era
Matteo
Simoncini ad aver preso il suo posto: neanche nei momenti di massima
rabbia
Matteo aveva raggiunto uno stato simile. In qualche modo, mi rendevo
conto di
stare controllando a mala pena il mio corpo: a guidarmi era un odio mai
provato
prima. Sembravo essermi trasformato nel lato oscuro di me stesso. La
sola cosa
che vedevo era Nott, il mio solo desiderio era demolirlo pezzo per
pezzo. Se
qualcuno mi avesse chiesto le mie intenzioni, con ogni
probabilità avrei citato
Clubber Lang in Rocky III: ‘Gli farò
male’.
“Bene,
Nott – dissi, con voce di ferro – Oggi sistemiamo
questa faccenda. Sei andato
veramente troppo oltre stavolta. Hai il coraggio di affrontarmi quando
ti
guardo in faccia o sai colpire solo a tradimento? – ghignai
– In fondo, hai già
pronti i rinforzi per pareggiare la situazione quando ti
starò prendendo a
calci in culo!”.
Nott
rimase interdetto per alcuni secondi, poi, forse ricordandosi di
possedere una
spina dorsale o, al contrario, dimenticando quanto facilmente avessi
pulito il
pavimento con lui l’ultima volta che ci eravamo scontrati, si
rivolse a Vasey e
Harper: “Fatevi indietro. Per questo idiota basto
io”.
I
due Serpeverde rimasero a fissarci per qualche istante, sorpresi dal
modo nel
quale si era evoluta la situazione, poi si allontanarono lentamente,
lasciandoci alcuni metri di spazio. Mary tentò di dire
qualcosa, ma fu
sufficiente una mia occhiata per farle morire le parole sulle labbra, e
si
ritirò a sua volta, chiaramente spaventata.
Sulla
riva del lago calò un silenzio irreale: io e Nott, distanti
circa cinque metri
l’uno dall’altro, restammo per parecchi secondi
immobili a fissarci, gli occhi
incatenati, le bacchette al fianco. Avevo quasi la sensazione di
sentire nelle
orecchie una musica da duello tratta da un film western. Nott sembrava
in preda
al nervosismo: il suo braccio tremava, quasi fosse ansioso di attaccare
ma non
riuscisse a decidersi. Io, dal canto mio, ero immobile come una statua,
la
mente sgombra, la mano stretta come una morsa intorno alla bacchetta.
Ero
deciso a lasciar fare a lui la prima mossa, per poi demolirlo.
Non
dovetti attendere molto. Sperando forse di sorprendermi, Nott
alzò il braccio
di scatto e puntò la bacchetta contro di me, lanciando lo
stesso incantesimo
che aveva provato ad usare contro Mary: “Exulcero!”.
Stavolta non cercai
di parare: ero abbastanza concentrato sulla situazione per riuscire a
schivare
il colpo, e risposi immediatamente con pari velocità:
“Flipendo!”.
Nott
dimostrò a sua volta una buona concentrazione, ed
evitò l’Incantesimo d’Urto
per pochi centimetri. Lo scontro divenne rapidamente furioso: il mio
avversario
stava provando a scagliarmi contro tutto quello che conosceva, incluse
alcune
fatture che decisamente non facevano parte del lato chiaro della magia,
senza
però riuscire, tra parate e schivate, a colpirmi. Io
rispondevo a tono,
utilizzando però, almeno per il momento, incantesimi comuni:
volevo dargli un
certo senso di sicurezza prima di far scendere in campo
l’artiglieria pesante.
Fu solo quando un Incantesimo Tagliuzzante di Nott riuscì a
superare in parte
il mio scudo, aprendomi un taglio superficiale sulla spalla, che
compresi che
il momento dei giochi era finito: il mio nemico poteva essere
pericoloso, era
meglio metterlo subito al posto che gli spettava. In ginocchio.
Accadde
in pochi secondi: mi abbassai, appoggiando a terra la mano sinistra e
facendomi
passare sopra l’ultima fattura di Nott, poi sparai il colpo
decisivo: “Impactus!”.
Non
era certo un incantesimo tipico per un ragazzo del terzo anno: lo avevo
letto in
biblioteca, su un libro che trattava di Magia da Combattimento. Era un
Incantesimo d’Urto molto più potente di quelli che
avrei dovuto conoscere, una
vera magia da battaglia. Ce n’erano diverse altre, capaci di
ferire molto più
profondamente, ma avevo scelto con oculatezza: almeno in quel momento,
non
volevo mandare Nott in infermeria o al cimitero, solo umiliarlo come
mai gli
era accaduto nella sua vita. Non avevo mai provato ad eseguirlo,
eppure, benché
senza alcun motivo, ero certo che sarebbe riuscito. Mi sentivo
invincibile.
L’incantesimo
lo centrò in pieno stomaco, spedendolo indietro di almeno un
metro e facendolo
crollare a terra. Avrei potuto immobilizzarlo, legarlo o disarmarlo, ma
non
feci nulla di tutto questo: rimasi solo a fissarlo con sguardo
predatorio. La
mia vittima era a terra, ed ero sempre più intenzionato a
farla strisciare come
il lombrico che era.
A
suo onore, Nott non si arrese, nonostante il dolore che sembrava
provocargli la
brusca riorganizzazione subita dalle sue viscere: respirando
affannosamente e
tenendosi il ventre con la mano sinistra, si tirò in piedi,
sia pure a fatica,
e cercò di puntare di nuovo la bacchetta contro di me.
Avevo
atteso proprio quel momento per frustrare le sue speranze: prima che
potesse
aprire bocca, lo anticipai con un “Impedimenta!”
che lo mandò nuovamente
a terra, come se fosse inciampato su un filo invisibile.
Sentivo
che un ghigno feroce aveva iniziato a deformare la mia faccia, ma mi
importava
sempre di meno: avevo intenzione di far pagare a Nott ogni
meschinità che
avesse fatto nella sua vita, ed il conto era molto lungo.
Riuscì a tirarsi
nuovamente in piedi, benché chiaramente sofferente, ma prima
che potesse anche
solo pensare a come contrattaccare io presi la mira contro le sue
gambe: “Tarantallegra!”.
Nott
iniziò a tremare come una foglia, riuscì a
restare in piedi per qualche
secondo, poi collassò come un mucchio di stracci, le gambe
in preda a movimenti
incontrollabili. Anche da terra, provò a puntare la
bacchetta contro di me, ma
ero più che pronto. Avrei potuto semplicemente disarmarlo,
ma scelsi una via più
complicata e più dolorosa. Mirai alla sua bacchetta e urlai:
“Flagrante!”.
Fino
a quel momento Nott aveva incassato quasi in silenzio, ma
lasciò partire un
urlo quando fu costretto a lasciar andare la bacchetta, divenuta
all’improvviso
incandescente. Non aveva fatto neanche in tempo a casere a terra che
già avevo
ripreso la mia opera di umiliazione: “Slugulus
Eructo!”.
Per
un istante il mio avversario si immobilizzò come un palo,
portandosi la mano
alla bocca, poi, nonostante le gambe continuassero a muoversi senza
controllo,
con uno sforzo supremo riuscì a tirarsi sulle ginocchia, per
poi vomitare a
terra una grossa lumaca.
Rimasi
per alcuni secondi a fissarlo, mentre altri viscidi animali seguivano
il primo.
Era inerme, completamente sconfitto, abbattuto senza speranza di
ripresa,
eppure ancora non mi bastava. Qualcosa di inquietante sembrava essersi
impadronito di me: mai nella vita mi ero comportato in un modo simile
con un
avversario sconfitto, non avevo mai infierito così su
nessuno, neanche con
persone che detestavo con tutto me stesso. A stento mi rendevo conto di
quello
che stavo facendo: Nott continuava a vomitare lumache e a tremare come
in preda
alle convulsioni, e la sola cosa alla quale pensavo era come ferirlo
ulteriormente. Un pensiero orribile quanto allettante mi
attraversò la mente,
pensando all’incantesimo che aveva tentato di utilizzare sia
contro Mary che contro
di me, e un sorriso malvagio mi attraversò il volto mentre
il giovane
Serpeverde, tra un conato e l’altro, mi fissava con sguardo a
metà tra la
rabbia e la supplica. A quanto pareva, Nott aveva un debole per le
ustioni:
forse avrebbe apprezzato un po’ di vero fuoco! Chiaramente,
non stavo più
ragionando: non mi interessava quanto male avrei fatto al ragazzo
distrutto che
giaceva davanti a me, volevo solo che soffrisse.
La
parola “Incendio!” era
già sulla mie labbra, quando dalle mie spalle
arrivò un urlo disperato: “Basta!”.
Mi
voltai sorpreso, come se mi fossi appena svegliato da un sogno: Mary
era in
piedi accanto all’albero, il terrore dipinto sul volto, le
guance rigate dalle
lacrime.
“Ti
prego, Josh…- singhiozzò, con la voce di una
persona spaventata a morte – Per
favore, fermati!”.
Rimasi
immobile a guardarla per qualche istante, mentre la mia mente iniziava
a
snebbiarsi. Era come uscire da una trance, come svegliarsi da un
incubo.
Improvvisamente mi resi conto dell’enormità di
quello che stavo per fare: ero
stato sul punto di dare fuoco ad un ragazzo! Nott era un essere infame,
ma
quello che avevo pensato di fargli…era malvagio, a dire
poco.
Scossi
la testa, quasi per scacciare gli ultimi resti della follia che aveva
invaso il
mio cuore, poi tornai a voltarmi: Nott era ancora a terra, le gambe
fuori
controllo, in preda ai conati per le lumache che continuava a sputare.
Continuavo
a detestarlo, ma la furia bruciante che mi aveva avvolto fino a quel
momento
sembrava essere scomparsa. Puntai un’ultima volta la
bacchetta contro di lui: “Finite
Incantatem!”.
Il
tremito si fermò di colpo, e il giovane Serpeverde, lasciata
cadere a terra
un’ultima lumaca, si accasciò stremato.
Sollevai
lo sguardo verso Vasey e Harper: durante tutto lo scontro erano rimasti
fermi a
qualche metro di distanza, come paralizzati. Avevano le bacchette
estratte per
metà, ma non sembravano essere in grado di raccogliere il
coraggio necessario
per assalirmi. Mi osservavano con più timore che rabbia
Li
fissai per qualche istante, poi parlai, con una voce secca come un
colpo di
pistola: “Filate. Ora!”.
I
due lanciarono un’ultima occhiata allo stremato compagno,
poi, riposte le
bacchette, si allontanarono verso il castello senza voltarsi indietro.
Certo
che non sarebbero tornati, rivolsi nuovamente la mia attenzione a Nott.
Mi
avvicinai e lo afferrai per il bavero dell’uniforme.
“E
adesso a noi” ringhiai, per poi trascinarlo in piedi.
Sembrava più un sacco di
patate che un essere umano. Lo trascinai per qualche metro e lo
scaraventai
contro il tronco dell’albero. Nel suo sguardo c’era
il terrore: nonostante non
avesse riportato nessun vero danno, in qualche modo sembrava aver
capito il
rischio corso.
Mi
faceva
quasi pena, ma respinsi quel pensiero, ricordando i mesi di insulti e
agguati,
le parole infami che aveva detto a Mary, il suo tentativo di ferirla.
Doveva
finire lì.
Quando
parlai, la mia voce aveva recuperato la necessaria durezza:
“Con questo concludiamo
il nostro scontro, Nott. Ne ho le palle piene di guardarmi le spalle
ogni volta
che percorro i corridoi, di sentire le tue idiozie, di sopportare
insulti e
prese in giro. Oggi hai visto quello che sono capace di fare se mi
arrabbio, e
spero proprio ti sia bastato. Non avrai una seconda occasione: se ti
azzarderai
di nuovo a offendere o aggredire me, Mary o un altro dei miei amici, ti
assicuro che quello che ti ho fatto fino a questo momento ti
sembrerà una
gentile carezza rispetto a ciò che ti farò. Hai
capito?”.
La
voce di Nott somigliò al pigolio di un pulcino spaventato.
Lo scossi rudemente:
“Quando hai dato a Mary della puttana non sembrava mancarti
il fiato, vedi di
trovarlo anche ora! Ho chiesto: hai capito?”.
“S…si!
Ho capito!” squittì.
Lo
fissai ancora per un istante, poi lo spinsi via: “Raccogli la
tua bacchetta e
levati dai piedi!”.
Non
se lo fece ripetere due volte: presa la bacchetta, scappò
incespicando verso il
castello.
Fu
come
se io fossi stato un materassino gonfiabile e uno spillo mi avesse
improvvisamente bucato: letteralmente, mi sgonfiai. Tutta
l’adrenalina che mi
aveva sostenuto fino a quel momento sembrò scomparire di
colpo: crollai a
sedere con un sospiro, lasciando cadere la bacchetta e portandomi una
mano alla
fronte come se fossi stato colto da un improvviso dolore lancinante
alla testa.
Dopo quello che era accaduto, niente sarebbe riuscito a far tornare
Nott
indietro, ma se lo avesse fatto in quel momento sarebbe riuscito a
ridurmi ad
una polpetta senza neanche sforzarsi, tanto ero abbattuto,
più mentalmente che
fisicamente, ma ugualmente fuori combattimento.
Non
saprei dire quanto passò, forse trenta secondi, forse dieci
volte tanto, forse
un paio di vite umane. Davanti ai miei occhi era calata una sorta di
nebbia,
mentre la consapevolezza dell’accaduto mi investiva con la
forza di un ciclone:
ero stato sul punto di uccidere una persona. Peggio: avevo provato il
desiderio
di uccidere una persona! Un ragazzo di tredici anni! Era qualcosa di
talmente assurdo
che facevo fatica perfino a prenderne coscienza. Cosa mi era successo?
La
rabbia per l’aggressione a Mary e per gli insulti ricevuti
non era neanche lontanamente
sufficiente per giustificare una simile reazione. Possibile che
ciò che avevo
visto dentro l’albero mi avesse scosso al punto
da… da cosa? Da tirare fuori
dalla mia anima una personalità completamente diversa?
Perché era questo che
era accaduto: l’essere che aveva infierito su Nott non era
Joshua Carter, non
era Matteo Simoncini. Chi diavolo era? Avevo sentito già
altre volte premere ai
limiti del mio inconscio quella sorta di velo nero, lo spirito di un
combattente,
di un guerriero pronto a tutto, incurante delle conseguenze. Ero
io… e allo
stesso tempo non lo ero. Sembrava quasi che, dopo il mio viaggio, alle
due
persone che componevano il mio essere se ne fosse aggiunta una terza,
che era
entrambe e nessuna delle due, che era una sorta di doppio oscuro, che
restava
in panchina, silente, pronta però ad entrare in campo quando
lo riteneva
opportuno. C’era di che impazzire: perché
esisteva? Avevo la sensazione che
questa personalità fosse sorta con il mio arrivo in quel
mondo, o forse proprio
a causa di esso, ma quale era il suo scopo?
Una
sorta di sussurro, lieve come il volo di una farfalla e allo stesso
tempo
potente come un tuono, arrivò a distogliermi dalle mie
riflessioni: “Josh…”.
Mi
voltai di scatto: Mary era in piedi accanto a me, il volto spaventato e
preoccupato
allo stesso tempo, le lacrime che ancora le rigavano le guance.
All’improvviso
realizzai il terribile spettacolo al quale l’avevo costretta
ad assistere:
poteva essere anche partita come una vendetta per quello che Nott le
aveva fatto,
ma ciò che aveva visto era stato l’equivalente
magico di uno spietato pestaggio.
Mary, la dolce ragazzina che tanto teneva a me, che con ogni
probabilità
provava un adolescenziale amore per me, aveva visto un mostro. Aveva
paura per
me… e allo stesso tempo aveva paura di me!
Senza
riflettere ulteriormente, mi tirai in piedi e mi avvicinai. Per
fortuna,
nonostante nei suoi occhi ci fosse ancora l’orrore per
ciò che era successo,
non si scostò. Non credo che lo avrei sopportato.
Ci
sarebbero state mille cose che avrei potuto dire per spiegarmi, per
giustificarmi, per scusarmi. La sola che riuscì a lasciare
le mie labbra fu un rantolante
‘Perdonami’, prima che le crollassi letteralmente
tra le braccia. Un attimo
dopo, piangevo sulla sua esile spalla.
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Capitolo 11 *** Capitolo Dieci ***
Salve
a tutti! Come vi avevo anticipato, ho impiegato un po’ di
tempo a completare
questo decimo capitolo. Purtroppo, tra lavoro, vacanze,
difficoltà tecnologiche
(la mia disponibilità si è ridotta ad un
malridotto tablet), non sono riuscito
a mantenere una grande velocità, ma prometto che
cercherò di scrivere il
prossimo più velocemente.
Vorrei
spiegare una cosa che ho dimenticato di specificare nei capitoli
precedenti in
relazione agli incantesimi che i miei personaggi utilizzano. Immagino
che ne
avrete riconosciuta una gran parte come tratti dai libri (ho ignorato
quasi
interamente i film), ma alcuni, come avrete notato sono chiaramente
inventati. Si
tratta, in massima parte, degli incantesimi da combattimento: la
Rowling non ha
mai specificato molto per quanto riguarda gli incantesimi utilizzati in
duelli
e battaglie, lasciando molto all’immaginazione, cosa che
tutto sommato ci può
stare, trattandosi di un libro per ragazzi.
Io
sono voluto entrare maggiormente nel dettaglio, non mi accontento di un
semplice “iniziarono a scambiarsi incantesimi”. Ho
dovuto quindi trovare una serie
di magie da combattimento che non esistono nel mondo
dell’autrice. Incantesimi
come ‘Impactus’ e altri che
utilizzerò in futuro sono inventati. Non da
me però, non voglio prendermi meriti che non ho. Come si
suol dire, “Se devi
copiare, copia dal migliore”, e poiché
c’è un fantastico autore che nelle sue
storie ha impiegato una lunga serie di incantesimi da combattimento, ho
deciso
di seguire la strada da lui tracciata. Ringrazio quindi il grande jbern
per il
suo lavoro, lo impiegherò con grande rispetto.
Detto
questo, godetevi il capitolo!
CAPITOLO
DIECI
Era
pomeriggio inoltrato quando tornai nel dormitorio di Grifondoro. Ero
emotivamente svuotato e fisicamente stremato, e la sola cosa che avevo
voglia
di fare era crollare sul letto e dormire per un po’, diciamo
circa una
settimana. Avevo ricordi molto confusi di quello che era accaduto dopo
lo
scontro con Nott: Mary era stata comprensiva, aveva lasciato che mi
sfogassi e
mi aveva rassicurato, dicendomi che mi ero fatto prendere la mano e che
sapeva
bene che io non ero fatto in quella maniera. Ciononostante, non avevo
potuto
fare a meno di notare una piccola ombra di paura nei suoi occhi quando
mi aveva
salutato nell’ingresso del castello: era passata sopra
all’accaduto solo in
nome del bene che mi voleva, ma non aveva certo dimenticato la scena
vista.
Svolsi
l’esame di Babbanologia con il pilota automatico attivato:
non sarei stato in
grado di ricordarmi una delle domande scritte sul foglio neanche sotto
tortura,
tantomeno le mie risposte. I venticinque anni che avevo vissuto da
Babbano
erano la mia sola speranza di aver evitato una vergognosa bocciatura.
L’accaduto
pesava sul mio cuore come un macigno: non potevo dimenticare di aver
evitato di
un soffio di compiere un omicidio. La terrificante sensazione che mi
aveva
lasciato l’incursione della mia nuova, oscura
personalità mi schiacciava: ero
tornato quello di sempre, certo, un insolito mix di Joshua Carter e
Matteo
Simoncini, ma in qualche modo avvertivo che non era scomparsa. Era
ancora lì,
appena oltre la mia coscienza, di nuovo addormentata. Per quanto? Chi
poteva
dirlo. Sarei stato in grado di dominarla, o per meglio dire, di
fermarla, anche
qualora fosse tornata a presentarsi? Stessa risposta. Perché
esisteva? Idem
come sopra.
Preso
da questi pensieri tutt’altro che felici, attraversai gran
parte della Sala
Comune come uno zombie prima di notare tre persone estremamente agitate
che
parlavano tra loro: erano Harry, Ron ed Hermione, e sui loro volti
campeggiava
una espressione di orrore.
Improvvisamente
ricordai che quel giorno c’era qualcuno, ad Hogwarts, che
aspettava una
sentenza ben più definitiva del risultato di un esame, ed il
peso sul mio cuore
raddoppiò in un istante. Mi avvicinai al trio e chiesi, con
voce tremante: “Lo
hanno condannato, vero?”.
Hermione,
che sembrava prossima al pianto, assentì con la testa.
Fu
un duro colpo da digerire, soprattutto sommato alla serie di batoste
che avevo
incassato nel corso di quell’apparentemente infinita
giornata: nelle settimane
precedenti, nonostante gli impegni legati allo studio, avevo lavorato
con
grande attenzione alla revisione del documento per l’appello
di Fierobecco
preparato da Hermione. Mi sembrava ineccepibile, ero convinto che
davvero
avessimo una possibilità di ottenere la sua assoluzione.
Invece, a quanto
pareva, era stata ancora una volta la politica corrotta a strappare il
successo. L’animale di Hagrid, colpevole solo di essere se
stesso e di aver
incrociato un verme stupido e meschino come Draco Malfoy, sarebbe morto.
“Quando…?”
riuscii a domandare.
“Al
tramonto” rispose Harry.
Guardai
fuori dalla finestra: il sole aveva già iniziato ad
abbassarsi verso
l’orizzonte.
“Che
cosa pensate di fare? – chiesi ancora – Non ci
lasceranno mai uscire a
quell’ora, ma non possiamo lasciare solo Hagrid!”.
Hermione
estrasse dalla borsa qualcosa che somigliava ad un lucido mantello
nero.
Resistetti a stento alla tentazione di sussultare: sapevo perfettamente
cosa
fosse, e compresi immediatamente le loro intenzioni, ma ricordai appena
in
tempo che, per quanto ne sapevano i tre ragazzi che avevo davanti, io
non avevo
mai visto quel particolare artefatto. Finsi perciò una certa
sorpresa: “Che
cos’è?”.
“Un
Mantello dell’Invisibilità –
spiegò ancora Harry – Era di mio padre. Con questo
potremo passare oltre la sorveglianza. Il solo problema è
che non ci staremo
mai in quattro”.
Per
alcuni istanti regnò un silenzio assoluto, mentre tutti
riflettevamo sulle
implicazioni di quello che il ragazzo con gli occhiali aveva detto:
tutti
avremmo voluto recarci a confortare il nostro amico professore, ma
inevitabilmente qualcuno sarebbe dovuto rimanere al castello. Avvertii
una
sorta di lieve pizzicore all’interno della testa, ma lo
ignorai. Alla fine Ron
borbottò, poco convinto, che avremmo potuto tirare a sorte.
Per
me era evidente, per quanto doloroso, quale fosse la sola scelta
sensata,
quindi ribattei subito: “No, non serve. Resto io –
Hermione cercò di interrompermi,
decisa evidentemente a farmi cambiare idea, ma la fermai con un gesto
della
mano – E’ tutto a posto, ragazzi. Voi conoscete
Hagrid da anni, io solo da
qualche mese – sorrisi stentatamene – Se dobbiamo
scegliere chi deve avere
intorno in un momento così terribile, è giusto
che siate voi”.
Tutti,
soprattutto Hermione, cercarono di farmi cambiare idea, ma io rimasi
sulla mia
posizione, e non ci volle molto, in realtà, prima che si
arrendessero.
Il
trio aveva deciso di muoversi dopo la cena. Io non li vidi sparire
sotto il
mantello prima di varcare l’ingresso della scuola: dopo la
nostra
conversazione, mi ero gettato sul letto, e non ero sceso neanche per
mangiare,
nonostante fossi sostanzialmente a digiuno dalla colazione. Non era
solo la
stanchezza a trattenermi: la piccola pressione nella mia testa si era
rapidamente trasformata in una scossa quasi costante, che sembrava
aumentare di
intensità con il passare dei minuti. Non ci misi molto a
riconoscere gli
effetti del mio strano ‘Senso di ragno’:
più si avvicinava l’ora
dell’esecuzione dell’Ippogrifo, più
quella stranissima parte della mia mente alzava
la voce per dirmi che sarei dovuto essere presente. Impossibile dire
quale
fosse la ragione: come sempre, le mie sensazioni si limitavano a
suggerirmi il
‘cosa’, mai il
‘perché’. Con l’approssimarsi
del tramonto, il sussurro si era
trasformato ormai in un urlo a pieni polmoni: qualcosa, più
che suggerendo, mi
stava ordinando di uscire dal castello. Ero ormai certo che la
questione non
riguardasse soltanto l’esecuzione del povero Fierobecco:
c’era qualcos’altro
nell’aria, qualcosa di molto più oscuro. Non sarei
stato in alcun modo capace
di spiegare la ragione, ma sentivo di dover essere lì fuori.
Forse proprio
quella sera si sarebbe rivelato il motivo per il quale ero finito in
quel
mondo. Era solo una sensazione, ma talmente potente da essere
impossibile da
ignorare.
Mi
alzai in piedi ed iniziai a camminare avanti e indietro nella stanza.
Ormai
avevo deciso cosa era necessario che facessi, ma la situazione non era
migliorata di molto: oltre al ‘perché’,
infatti, il mio ‘Senso di ragno’ si era
dimenticato anche di dirmi il ‘come’: Harry e gli
altri avevano preso il solo Mantello
dell’Invisibilità esistente ad Hogwarts, ed uscire
dal castello senza qualcosa
di simile era virtualmente impossibile.
Il
tempo passava, e la mia ansia cresceva: il tramonto era vicino, ed io
ero
ancora privo di qualsiasi idea che mi permettesse di eludere la
sorveglianza
all’ingresso. All’improvviso raggiunsi una sorta di
illuminazione: un Mantello
non era il solo modo per rendersi invisibili! Mi precipitai come una
valanga
verso il mio comodino, ed afferrai il libro che vi era posato sopra,
iniziando
a sfogliarlo alla massima velocità. Era un tomo di
Incantesimi che avevo preso
in biblioteca, e conteneva parecchie magie avanzate, la maggior parte
delle
quali venivano insegnate negli ultimi anni di scuola. Non si trattava
di magie
da combattimento, ma conteneva molta roba interessante. Tra queste,
ricordavo
di aver visto un incantesimo in particolare che faceva esattamente al
caso mio.
Ci misi quasi dieci minuti, ma alla fine lo trovai:
l’Incantesimo di
Disillusione, in grado di trasformare il soggetto colpito in una sorta
di
camaleonte, capace di assumere gli stessi colori dello sfondo sul quale
si
muoveva. Non si diventava realmente invisibili, ma essere individuati,
soprattutto nell’oscurità, era quasi impossibile.
Studiai rapidamente i
movimenti necessari, poi posai il libro, presi la mia bacchetta e corsi
nel
bagno davanti allo specchio.
Cercando
di replicare i movimenti che avevo visto sulla pagina, feci compiere
alla
bacchetta una sorta di mulinello, poi mi toccai la cima della testa
mormorando
“Desilludo!” e osservai il
risultato.
Niente.
Il mio corpo spiccava come sempre sulla superficie riflettente.
Sospirai con
stizza: essere riuscito a compiere, durante il duello con Nott, una
serie di
incantesimi avanzati senza averli mai provati mi aveva lasciato
l’impressione
di essere capace di fare qualsiasi cosa, ma in quel momento mi trovai a
contrarmi con i miei limiti. Ero pur sempre un mago tredicenne, e
l’Incantesimo
di Disillusione era magia piuttosto avanzata. Eppure dovevo riuscirci!
La
sensazione nella mia testa era sempre più forte: dovevo
sbrigarmi, dovevo
uscire dalla scuola, dovevo vedere...cosa?
Impossibile dirlo, ma sapevo
che si trattava di un imperativo categorico.
Trassi
un profondo respiro, e ricominciai: un mulinello, una giravolta, un
tocco… “Desilludo!”.
Niente.
Imprecai
rabbiosamente, cercando con poco successo di tenere la voce bassa.
Tipico: nel
momento nel quale ne avrei avuto maggior bisogno, la mia insolita
abilità aveva
deciso di abbandonarmi! Per un istante fui sul punto di arrendermi: non
c’era
modo di uscire dalla scuola senza rendermi invisibile, provarci avrebbe
significato soltanto farmi scoprire e punire. Il pensiero di
rinunciare, però,
durò un solo secondo: semplicemente, non potevo. Arrivare al
parco non era solo
una possibilità, era una necessità. Era come se
un invisibile burattinaio mi
stesse manovrando, e rifiutare non era un’opzione valida. Era
come se tutto il
mio tempo ad Hogwarts mi avesse guidato fino a quel momento, facendomi
scoprire
le mie capacità e addestrandomi a… cosa? Cosa
doveva accadere quella sera? Non
ne avevo la minima idea, ma sapevo di doverci essere. E per poterlo
fare…
Respirai,
cercando di rilassare la mente, poi ricominciai: eseguii il movimento
con la
massima attenzione, mi toccai la testa e per la terza volta pronunciai
la
formula: “Desilludo!”.
Seppi
che aveva funzionato prima ancora di vedere il risultato allo specchio:
avvertii una sensazione di freddo che dalla punta della testa si
espandeva
verso il basso, come se qualcuno avesse rotto un uovo sui miei capelli
e quello
mi stesse colando addosso. Il mio riflesso scomparve, mentre il mio
corpo
assumeva la stessa colorazione e lo stesso aspetto del muro alle mie
spalle.
Pochi secondi, ed ero letteralmente sparito: con molta attenzione,
avrei potuto
vedere il contorno della mia fisionomia, ma senza una luce a breve
distanza ed
uno sguardo particolarmente attento, sarei stato impossibile da
individuare.
Non
persi altro tempo: velocemente, ma allo stesso tempo cercando di non
fare
rumore, uscii dal bagno, scesi dal dormitorio, attraversai la Sala
Comune senza
che nessuno dei miei compagni notasse nulla, superai il ritratto
cercando di
aprirlo meno possibile perché nessuno dei presenti se ne
accorgesse ed uscii
nel castello avvolto dalla semi-oscurità.
La
discesa fino all’ingresso si rivelò molto
più semplice di quanto avrei potuto
anche solo sperare: i troll di guardia non si accorsero di nulla, e lo
stesso
accadde al paio di insegnanti di pattuglia che incrociai. Avevo temuto
Mrs
Purr, la malefica gatta del custode Gazza, che avrebbe forse potuto
individuarmi
con l’olfatto, ma per mia fortuna non era in circolazione,
pochi minuti, e le
mie narici si riempirono dell’aria fresca della sera.
L’oscurità
stava calando velocemente sui prati all’esterno del castello:
il sole era ormai
scomparso, la luna velata dalle nuvole, e le ombre si allungavano
sull’erba.
Con decisione, mi diressi verso la capanna di Hagrid: la voce nella mia
mente
continuava a non darmi informazioni in più, ma sembrava non
avere niente in
contrario, quindi supposi di stare facendo la cosa giusta. Dalle
finestre della
casa, a pochi metri dagli alberi della Foresta Proibita, si intravedeva
una
luce. Vedendo il buio che ormai avvolgeva il parco, avvertii un tuffo
al cuore:
avevo perso troppo tempo. L’esecuzione era prevista per il
tramonto. Fierobecco
ormai doveva essere…
Non
ebbi tempo di continuare con le mie riflessioni, perché
qualcosa di
assolutamente imprevisto accadde una cinquantina di metri
più in basso rispetto
a me: un attimo prima il parco era completamente vuoto, un attimo dopo
una
figura nera era apparsa come dal nulla, ed aveva iniziato a correre
sull’erba.
Strizzai gli occhi per alcuni secondi nel tentativo di riconoscere,
nella poca
luce rimasta, di chi si trattasse, poi riconobbi la figura allampanata
impegnata in uno scatto attraverso il parco: era Ron. Doveva essere
appena
uscito da sotto il mantello dell’invisibilità. Ma
che diavolo stava facendo?
Poi
li vidi. In tutta sincerità, non sarei in grado di dire se
furono i miei occhi
o la mia mente a rendersene conto per primi, sembra incredibile che sia
riuscito a notare due animaletti in mezzo ad un parco, di notte, con la
luna
oscurata.
Eppure,
fu ciò che accadde: qualche metro davanti a Ron, lanciato in
quello che
sembrava un inseguimento, vidi un peloso gatto arancione. Appena il
tempo di
riconoscere Grattastinchi, e ancora più avanti individuai la
sua preda. Il mio
cuore saltò almeno un paio di battiti quando compresi che
l’animale di Hermione
stava rincorrendo un topo. No… non un topo: ‘Crosta!’.
Il nome esplose
nella mia mente come una folgore. Ero lontano, al buio, eppure non
avevo il
minimo dubbio: quello lanciato in una fuga disperata per la propria
vita lungo
i prati era l’animaletto di Ron, in qualche modo ancora vivo
quando avrebbe
dovuto essere morto da mesi! Improvvisamente una piccola parte dei
pezzi dell’intricato
puzzle che avevo nella testa andò a posto: tutti i dubbi che
avevo avuto… le
ore passate a chiedermi cosa ci fosse che non mi tornava nella morte di
Crosta…
ed eccolo lì! Non che questo risolvesse il vero dilemma: il
topo era vivo… e
quindi? Quale importanza poteva avere quel maledetto roditore? Sentii
che forse
stavo per scoprirlo.
Passarono
ancora alcuni secondi, poi altre due figure apparvero nel parco e si
gettarono
dietro a Ron. Non dovetti neanche aguzzare lo sguardo per capire di chi
si
trattasse: anche Harry ed Hermione dovevano aver gettato alle ortiche
il
mascheramento.
Mi
mossi per raggiungerli: volevo essere presente quando avessero
recuperato il
topo. Sentivo che, in qualche modo, questo avrebbe portato le risposte
che
volevo. Dopo pochi passi, però, compresi verso cosa si stava
dirigendo Ron
nella sua corsa cieca, e avvertii un brivido lungo la schiena. I miei
ricordi dall’altra
parte arrivavano abbastanza avanti da riconoscere il grande albero che
si
stagliava contro il cielo sempre più nero: il Platano
Picchiatore, un albero
capace di muoversi, particolarmente aggressivo, pronto a colpire con i
suoi
rami chiunque si avvicinasse.
Ero
sul punto di lanciare un avvertimento a Ron, a costo di rovinare la mia
copertura, quando il ragazzo, superato Grattastinchi, con un tuffo
disperato
riuscì a bloccare la fuga di Crosta, allontanando poi il
gatto ancora deciso a
catturarlo. Fortunatamente, il placcaggio di Ron era avvenuto quando
era ancora
fuori dalla portata del Platano Picchiatore. Trassi un sospiro di
sollievo, pur
non sapendo esattamente perché il recupero da parte del
rosso del suo
animaletto avrebbe potuto aiutarmi a dare un senso alle mie sensazioni,
apparentemente impossibili da collegare e ordinare. Perfino in quel
momento,
mentre mi avvicinavo senza più la stessa fretta, vedendo Ron
infilare a fatica
Crosta nella tasca della sua veste e gli altri due arrestarsi a fatica
accanto
a lui, piegati in due per la corsa, continuavo a farmi le stesse
domande:
perché il topo era importante? In quale modo il fatto che
non fosse stato
mangiato era determinante? E Black? Perché avvertivo una
sensazione così strana
nei suoi riguardi? Tante domande, nessuna risposta. Sentivo
però che il momento
dei chiarimenti si stava in qualche modo avvicinando, anche se non
sarei stato
in grado di dire come sarebbe giunto.
La
tranquillità si ruppe all’improvviso, come un
vetro che si schianta al suolo: si
udì il rumore di passi pesanti sul terreno, e nel buio vidi
qualcosa di enorme,
nero contro il nero della notte, con due occhi chiari che rilucevano
nel buio,
dirigersi a balzi verso i miei tre amici. Riconobbi un gigantesco cane
color
della pece, delle dimensioni di un piccolo orso, con il pelo irsuto e
la bocca spalancata a mostrare enormi zanne.
La
mia mascella cedette di diversi centimetri: da dove era uscito quella
specie di
mostro? Un istante dopo infilai disperatamente la mano nella veste, in
cerca
della bacchetta, ma era troppo tardi: il cane gigante travolse Harry,
scaraventandolo a terra, poi rotolò a qualche metro di
distanza spinto dal suo
stesso slancio, si rialzò e si preparò ad un
nuovo assalto. Harry si tirò
faticosamente in piedi, ma era chiaramente dolorante, non sarebbe
riuscito a
difendersi. Provai a prendere la mira, ma compresi subito che, tra
distanza e
oscurità, non sarei mai riuscito a centrare
l’animale. Disperatamente iniziai a
correre, pur sapendo che non c’era alcuna speranza di
arrivare in tempo: in due
secondi la bestia avrebbe sbranato Harry!
Per
fortuna, fu Ron ad intervenire: con una spinta spostò
l’amico mettendosi tra
lui e il cane. Questo saltò addosso a lui, lo
afferrò per un braccio ed iniziò
a trascinarlo via, nonostante un disperato tentativo di Harry di
fermarlo. Un
attimo dopo, sia il ragazzo con gli occhiali che Hermione vennero
sbattuti
violentemente a terra dai rami del Platano Picchiatore, mentre il
mostro portava
un recalcitrante Ron fino alla base del tronco. Harry accese la punta
della
bacchetta, e nella pallida luce lo vidi entrare in una grossa fessura
tra le
radici, tirandosi dietro Ron, che opponeva una disperata resistenza. Ero ancora ad una
ventina di
metri di distanza quando mi fermai, cercando nuovamente di prendere la
mira con
la bacchetta, ma il cane era ormai sparito sotto l’albero.
Ron si era
agganciato ad una radice con la gamba, ma pochi secondi dopo si
udì un
terribile scricchiolio: l’osso della caviglia doveva essersi
rotto sotto la
violenta trazione. Un istante, ed il corpo del ragazzo scomparve
interamente
sotto la pianta.
Tutto
era accaduto tanto rapidamente da lasciarmi stralunato, come se stessi
vivendo
un incubo: una creatura infernale aveva appena rapito uno dei miei
amici! Rimasi
bloccato, chiedendomi se potesse essere quella la ragione per la quale
il mio
‘Senso di Ragno’ mi aveva spinto ad uscire dal
castello. Neanche il tempo di
decidere che linea seguire, e la situazione cambiò ancora:
Harry ed Hermione
fecero un paio di inutili tentativi di sperare i rami
dell’albero, poi
Grattastinchi si avvicinò al tronco e premette una specie di
nodo. Il Platano
Picchiatore si bloccò, come paralizzato. Il gatto si
infiò di corsa nella
fessura, e subito dopo i due ragazzi lo seguirono. Rimasi da solo nei
prati avvolti
dall’oscurità.
Ero
letteralmente sotto shock: tutto mi sarei aspettato, tranne
l’assurda serie di
eventi alla quale avevo assistito. Poteva davvero essere questo che la
strana
forza che sembrava guidarmi aveva voluto farmi vedere? Forse era questo
che
voleva da me? Dovevo aiutare Harry ed Hermione a salvare Ron? E se
Crosta fosse
stato una coincidenza? E se lui e Black non avessero avuto un ruolo da
protagonisti, ma solo da comprimari, nella storia che si stava
dipanando davanti
a me?
‘E
se ti dessi una mossa, pezzo di cretino?’.
Non
era stato il ‘Senso di Ragno’ a insultarmi: la voce
che mi aveva urlato nel
cervello era la mia. Mi riscossi: non era decisamente il momento di
farsi
troppe domande. Quel cane era grande abbastanza da fare a pezzi Ron.
Non potevo
perdere tempo a chiedermi che cosa stesse realmente succedendo, e in
che modo
ciò che avevo visto andasse ad incastrarsi con il resto.
Harry e gli altri
avevano bisogno di tutto l’aiuto possibile. Per un istante
accarezzai l’idea di
correre al castello per chiamare un insegnante, ma la scartai
altrettanto
velocemente: tempo di trovare qualcuno e di spiegare tutta la storia,
ammesso e
non concesso di essere creduto, e sarebbero potuti essere morti tutti e
tre.
Senza neanche togliermi di dosso l’Incantesimo di
Disillusione, corsi a mia
volta verso l’albero e mi infilai nella fessura. Appena in
tempo: ero a stento
entrato quando i rami si ripresero dalla paralisi e tornarono a
sferzare
l’aria.
Scivolai
lungo una china di terra, fino al fondo di un tunnel molto basso. Senza
attendere oltre, iniziai a percorrerlo, la schiena piegata quasi a
novanta
gradi per non battere la testa. Procedevo a tentoni, perché
avevo
immediatamente deciso di non accendere la bacchetta. Un incantesimo
avrebbe
fatto saltare l’Incantesimo di Disillusione, ed avevo la
strana sensazione che
arrivare inatteso, senza essere visto, sulla scena di qualsiasi cosa
stesse
accadendo, potesse essere una buona idea.
Una
ridda di pensieri mi attraversavano la testa mentre arrancavo lungo il
cunicolo: nonostante lo stupore per quello che avevo visto, avvertivo
una
strana sensazione di ‘giustezza’, come se stessi
seguendo una linea tracciata. Capire
chi l’avesse fatto andava al di là della mia
comprensione. Non per la prima
volta, mi sentii una sorta di marionetta, come se non fossi
completamente
padrone delle mie scelte. Misi da parte questo pensiero,
ripromettendomi di
analizzarlo con maggiore attenzione più tardi:
c’erano cose più urgenti da
fare.
Finalmente,
dopo un tempo che mi sembrò infinito, sbucai in una stanza
fiocamente
illuminata. Era piena di polvere e ragnatele, e appariva abbandonata da
tempo. La
poca luce che entrava passava tra le assi inchiodate alle finestre. Per
un
istante, mi chiesi dove fossi: sicuramente non ero ad Hogwarts. Poi
compresi:
anche se non l’avevo mai vista, neanche
dall’esterno, seppi di trovarmi
all’interno della Stamberga Strillante, la casa infestata dai
fantasmi alla
periferia di Hogsmeade. Mi guardai ancora intorno, e notai che tutti i
mobili
presenti erano sfasciati, letteralmente distrutti. Osservando meglio un
tavolo,
vidi degli evidenti segni di artigli, e rabbrividii: decisamente, non
era stato
un fantasma a provocare quella devastazione. Che fosse stato il
mostruoso cane?
Per qualche ragione, questa spiegazione non mi suonava bene.
Notai
poi che sul pavimento polveroso c’erano due serie di tracce:
una larga striscia
lucida, come se qualcosa fosse stato trascinato, e due serie di
impronte di
piedi proprio accanto. Entrambe si dirigevano verso una porta, oltre la
quale
si intravedeva un’anticamera buia. Mi mossi con la massima
circospezione,
cercando di limitare al minimo il rumore: dovevo essere non
più di un minuto
dietro Harry ed Hermione, quindi dovevano essere vicini. Quasi come
conferma,
avvertii uno scricchiolio sommesso. Molto lentamente, oltrepassai la
porta.
Alla mia destra c’era una scala molto malridotta, che
conduceva al piano di
sopra. Le tracce continuavano da quella parte. Harry ed Hermione non si
vedevano, ma in cima alla scala notai una sola porta aperta. Nessun
rumore di
lotta, anzi, nessun rumore di qualsiasi genere. Che fine aveva fatto
Ron? Non
poteva essere morto…o sì? E il cane? Era in
agguato? Era fuggito?
Quasi
in risposta alle mie domande inespresse, udii la voce di Harry:
“Ron stai bene?”
e subito dopo quella di Hermione: “Dov’è
il cane?”.
La
risposta di Ron fu un gemito di sofferenza: “Non è
un cane… Harry, è una
trappola… è lui il cane… è
un Animagus!”.
Prima
ancora che il mio cervello potesse registrare le implicazioni di quelle
parole,
la porta in cima alle scale si chiuse di colpo, ed una quarta voce,
cavernosa,
simile al ringhio di un cane, gracchiò: “Expelliarmus!”.
Sentii
come una coltre di gelo scendermi lungo la schiena. Non avevo mai
sentito
quella voce, ma non avevo il minimo dubbio: sapevo a chi apparteneva.
Era certamente
una trappola, ed Harry ci era caduto in pieno. Era chiuso dentro la
stanza in
cima alle scale insieme a Ron ed Hermione, con ogni
probabilità erano tutti
disarmati, e con loro c’era Sirius Black!
Stavo
per precipitarmi a valanga su per le scale, ma mi trattenni quasi a
forza: gli
strani dubbi che mi erano venuti su Black potevano andare a farsi
fottere, lui
rimaneva un pluriomicida evaso dal carcere, e adesso armato. Piombare
nella stanza
senza riflettere era tutt’altro che una buona idea.
Cercando
di fare meno rumore possibile, salii al piano di sopra, accostandomi
alla porta
con la massima delicatezza e le orecchie tese. Il ‘Senso di
Ragno stava letteralmente
urlando, ma non riuscivo minimamente a distinguere le diverse
sensazioni. Non
che ne avessi bisogno: sapevo che ai miei tre amici restavano, con ogni
probabilità, solo pochi minuti di vita, e che forse ero la
loro unica
possibilità.
Bene,
potete fulminarmi ora! Vi lascio in pieno climax! Come
andranno le cose? Josh si getterà avanti lancia in resta
oppure la storia
seguirà il suo corso? Prometto che già domani
inizierò a lavorare al prossimo
capitolo!
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Capitolo 12 *** Capitolo Undici ***
CAPITOLO
UNDICI
Con
la bacchetta stretta nella mano sudata, avvicinai un orecchio alla
porta.
Sapevo che la situazione era a dir poco complicata: tutta la mia
baldanza, la
mia convinzione di essere piuttosto abile, si stavano letteralmente
sciogliendo
nella consapevolezza di essere ad una sottile barriera di legno di
distanza da
un mago adulto, che aveva chiaramente dimostrato di essere
più che capace di
uccidere. Non mi ero mai sentito così tanto un tredicenne,
né avevo desiderato
tanto di riavere il corpo di un uomo di venticinque anni. Avevo
l’orrenda
tentazione di fuggire: non mi ero mai ritenuto un eroe
dall’altra parte, ero
sempre stato una persona che aveva tentato di tenersi, per quanto
possibile,
fuori dai guai. Se qualcosa nella mia mente continuava a rammentarmi
che dovevo
essere esattamente lì, che la mia presenza era richiesta
lì (ed ormai iniziavo
a capire il perché), altre porzioni del mio cervello, quelle
maggiormente
legate all’istinto di conservazione, inneggiavano ad una
rapida e decisiva
ritirata. Mentre guardavo la mia mano e la vedevo tremare leggermente,
sentii
la voce di Ron attraverso la porta: “Se vuoi uccidere Harry,
dovrai uccidere
anche noi!” seguita da una gutturale risposta:
“Stenditi, hai la gamba rotta”.
Mi immaginai Ron, probabilmente con Hermione a fianco, che faceva da
scudo a
Harry con il suo corpo, reggendosi a stento sull’unica gamba
sana. Valoroso,
pazzo Ron Weasley! Fu questo, più di ogni altra cosa, a
trattenermi dallo
scendere la scala a gambe levate e defilarmi nel tunnel: avevo ancora
paura, ma
non potevo abbandonare quei ragazzi al loro destino. Dovevo scegliere
il
momento giusto per la mia entrata in scena, cercando di cogliere
completamente
di sorpresa Black.
“Mi
hai sentito? – riprese la voce di Ron, resa ovattata dal
legno – Dovrai
ucciderci tutti e tre!”.
“Qui
morirà una sola persona questa notte”
ribatté la voce di Black.
“Perché?
– chiese una terza persona, dal cui tono si intendeva una
rabbia esplosiva –
L’ultima volta non ti sei fatto molti problemi ad uccidere
tutta quella gente!
Ti sei rammollito con gli anni?”.
Compresi
che era Harry, e dalle sue parole era facile intuire che era molto,
molto
vicino a fare qualcosa di stupido. Se volevo intervenire, dovevo farlo
in
fretta. Ma come? Probabilmente la cosa migliore era piombare dentro
facendo
tutto il rumore possibile, in modo da far rimanere Black stupefatto per
quei
pochi secondi che mi avrebbero forse concesso la possibilità
di colpirlo. Un
bell’Incantesimo Esplosivo contro la porta…no,
meglio ancora, un Incantesimo di
Esilio alla massima potenza! Era la cosa migliore che potevo fare! Con
un po’
di fortuna la grossa tavola di legno avrebbe travolto Black, se aveva
chiuso la
porta probabilmente era davanti ad essa. Altrimenti, vederla volare
attraverso
la stanza lo avrebbe distratto abbastanza a lungo da farmi prendere la
mira. Avrei
avuto soltanto un’opportunità, lanciare un
incantesimo mi avrebbe reso
nuovamente visibile. Dovevo disarmare Black, provare a
stenderlo…o fare di
peggio? Era un assassino, un traditore, uno spergiuro,
eppure…
“Harry,
stai zitto!”. Questa volta era una voce di ragazza, rotta dal
terrore.
Hermione. Trassi un profondo respiro, e sollevai la bacchetta. Non
c’era più
tempo, ogni momento poteva essere quello scelto da Black per uccidere
l’ultimo
dei Potter…
La
casa sembrò essere scossa da un ruggito: “HA
UCCISO I MIEI GENITORI!”. Subito
dopo, il caos: colpi violenti, uno schianto contro il muro accanto alla
porta,
urla, strepiti, e in mezzo il miagolio rabbioso di Grattastinchi.
Sembrava che
nella stanza fosse esplosa una violenta rissa. Imprecai silenziosamente
contro il
coraggio insensato di Harry: non serviva eccessiva fantasia per capire
che
doveva aver aggredito rabbiosamente Black. Un gesto valoroso quanto
folle e
che, senza che il mio amico potesse saperlo, aveva reso virtualmente
impossibile l’intervento che avevo programmato: non potevo
scaraventare la
porta dentro la stanza mentre lì dentro quattro persone ed
un gatto si stavano
picchiando, avrei corso seriamente il rischio di colpire uno dei miei
compagni.
A quel punto, avrei fatto meglio ad aprire l’uscio
più silenziosamente
possibile, sperando nel caos perché Black non lo notasse, e
prendermi un paio
di secondi per valutare la situazione prima di lanciare un incantesimo.
Stavo
per abbassare la maniglia, quando un ruggito di Harry
sovrastò la confusione
all’interno della stanza: “TOGLIETEVI DI
MEZZO!”. Seguì un breve silenzio che
mi trattenne dal muovermi, il cervello svuotato, mentre cercavo di
capire cosa
stesse succedendo, poi un sussurro appena percepibile arrivò
alle mie orecchie:
“Vuoi uccidermi, Harry?”.
Fu
come se il muro fosse improvvisamente divenuto trasparente. Nella mia
mente
esplose una scena, nitida come se la stessi vedendo da un metro di
distanza:
Black a terra, semiappoggiato alla parete, ed Harry torreggiante sopra
di lui,
la bacchetta puntata contro il suo petto, rabbia e vendetta a
lampeggiargli
negli occhi. Contro ogni possibile previsione, ora era il mio amico ad
avere il
controllo degli eventi…ad avere il potere di vita e di morte
su Black.
Una
tempesta si scatenò dentro di me, mentre a stento udivo
Harry rinfacciare
all’uomo i suoi crimini, e quello chiedere di essere
ascoltato, ed affermare che
se il ragazzo lo avesse ucciso senza sentire la sua versione dei fatti
lo
avrebbe rimpianto. Che cosa dovevo fare? Non lo sapevo più.
Se al mondo
esisteva un uomo che meritava veramente di morire, quello era Sirius
Black. E
se c’era una persona che possedeva il diritto di togliergli
la vita, quello era
Harry Potter. Infatti, una grossa porzione del mio cervello mi diceva
di
restare esattamente dov’ero, che io non ero nessuno per
togliere al mio
compagno il diritto di vendicare i suoi genitori, che se fossi stato al
suo
posto non avrei assolutamente voluto che qualcuno si intromettessi.
Dall’altra,
però, una seconda voce mi intimava di entrare nella stanza
ed impedire che
l’incantesimo di Harry partisse: non solo mi ricordava che il
mio amico aveva
solo tredici anni, e che un omicidio a sangue freddo, per quanto
giustificato e
momentaneamente soddisfacente, lo avrebbe con ogni
probabilità perseguitato per
il resto della sua vita, ma mi rammentava anche tutti i dubbi che avevo
avvertito nei confronti di Sirius Black. Quella parte del mio
subconscio
praticamente stava urlando che Harry stava per commettere un terribile
errore,
benché senza spiegarmi la ragione, e cercava di spingermi ad
entrare e ad
impedire che venisse scagliato il colpo mortale.
E
poi c’era una terza voce. Non avrei saputo dire da dove
provenisse, ma la
riconobbi subito: era la stessa, misteriosa forza che mi aveva guidato
per
tutta la sera, quasi controllandomi, che mi aveva spinto fino
lì. Quella strana
guida sembrava concordare sul fatto che la morte di Black sarebbe stata
un
errore, ma allo stesso tempo mi invitava a non muovermi. In qualche
modo,
dentro di me si diffuse la certezza che tutto sarebbe andato nel modo
giusto
anche senza il mio intervento. E, in effetti, sembrava che Harry non
riuscisse
a decidersi: erano passati parecchi secondi, e non aveva ancora
colpito.
Nonostante la rabbia e il dolore che doveva provare, togliere la vita
ad uomo
disarmato e atterrato doveva essere difficile per lui quanto scalare
un’alta
montagna.
Nel
silenzio della casa, i passi ovattati al piano di sotto risuonarono
come una
valanga, e furono immediatamente seguiti dalla voce squillante di
Hermione:
“Siamo quassù! C’è Sirius
Black! Presto!”. Una figura apparve sulle scale,
iniziando a salirle a rotta di collo. Istintivamente, mi allontanai
dalla
porta. Era il professor Lupin, il volto precocemente invecchiato
deformato da
una maschera di tensione, la bacchetta pronta in mano.
La
porta si spalancò in una esplosione di scintille, e per la
prima volta vidi
l’interno della stanza con gli occhi del corpo: Black, pesto
e sanguinante, era
riverso al suolo, con Grattastinchi protettivamente in piedi sul suo
petto,
mentre Harry era in piedi a meno di un metro da lui, la bacchetta
ancora
sollevata. Hermione era in piedi al suo fianco con due bacchette
strette in
mano. Ron, livido per il dolore causato dalla gamba fratturata, era
accasciato
su un vecchio letto a baldacchino. Lupin piombò nella camera
e gridò: “Expelliarmus!”.
Le
bacchette di Harry, Ron ed Hermione schizzarono in aria, ed il
professore le
afferrò al volo. Ricominciai a respirare con maggiore
regolarità: era finita.
Black sarebbe stato nuovamente arrestato. Per l’ennesima
volta, mi chiesi
perché questa prospettiva non mi suonasse affatto bene.
Compresi
che qualcosa non tornava non appena Lupin pronunciò le prime
tre parole:
“Dov’è, Sirius?”. Che razza di
domanda era da fare? Dov’era chi?
La
porta, spinta dalla stessa violenza della sua apertura, si era
parzialmente
richiusa, lasciando solo uno spiraglio, sufficiente però da
lasciarmi libera la
visuale di Sirius Black. Lentamente, l’uomo
sollevò un braccio e indicò
qualcosa che io non potevo vedere. Dalla direzione del suo dito, intuii
che
potesse trattarsi del letto sul quale giaceva Ron. Ero sempre
più confuso, e le
successive parole di Lupin non mi aiutarono certamente a chiarirmi:
“Ma allora…
perché non si è rivelato finora? A meno
che… non fosse lui… a meno che non vi
siate scambiati… senza dirmelo?”. Vidi Black
annuire.
Quello
che stava accadendo non aveva alcun senso per me: di cosa Merlino stava
parlando il professore? Perché non si limitava a
neutralizzare Black? Passarono
alcuni istanti, poi vidi qualcosa che mi fece pensare di essere
impazzito:
attraverso la porta semichiusa, vidi Lupin avvicinarsi
all’evaso, aiutarlo a
rialzarsi e abbracciarlo.
Descrivere
la sensazione che provai in quel momento sarebbe impossibile,
perché in realtà
provai due impressioni diverse e contrastanti, entrambe della durata di
un solo
istante, entrambe chiare e nette. Da una parte mi sembrò che
una grossa
porzione del mondo mi fosse appena crollata addosso: avevo provato una
stima
enorme per Lupin, come uomo e come insegnante, e vederlo
improvvisamente
complice di un assassino fu un colpo durissimo, così come lo
fu la
consapevolezza di ciò che significava: improvvisamente nella
stanza c’erano due
maghi adulti, ostili ed armati, e tre ragazzi inermi. Io ero il solo ad
avere
una bacchetta, ma se attaccare Black mi era già sembrata
un’impresa difficile,
vedermela con lui e Lupin allo stesso tempo tendeva decisamente verso
l’impossibile. Sentivo di aver commesso un errore: qualsiasi
forza mi avesse
portato fin lì, dovevo averla interpretata nel modo
sbagliato. Ero rimasto ad
aspettare quando sarei dovuto intervenire, e improvvisamente il mio
intervento
aveva ottime probabilità di servire soltanto ad aggiungere
un quarto cadavere
ai tre che, lo temevo, presto avrebbero occupato la camera. Sarei
probabilmente
saltato dentro lo stesso, se non ci fosse stata la seconda sensazione:
era come
se qualcuno – o qualcosa – mi
stesse sussurrando parole rassicuranti in
un’orecchio, spiegandomi che tutto sarebbe andato esattamente
come doveva
andare.
L’urlo
indignato di Hermione esplose nella stanza: “NON CI
CREDO!”.
La
ragazza sembrava letteralmente sconvolta, e le sue urla sovrastarono
ampiamente
i tentativi di Lupin di offrire spiegazioni: “Io
l’ho coperta! Non l’ho detto a
nessuno!”. Ai suoi strilli si aggiunsero quelli di Harry:
“Io le credevo, e lei
è sempre stato suo amico!”.
“Ti
sbagli – rispose Lupin – Non sono stato amico di
Sirius per dodici anni, ma ora
lo sono. Lascia che ti spieghi…”.
Hermione
sbottò di nuovo: “Harry, non credergli! Ha aiutato
Black ad entrare nel
castello, ti vuole morto anche lui! E’ un Lupo
Mannaro!”.
Fu
come se una rupe fosse crollata nel mio cervello: il professor
Lupin… un Lupo
Mannaro? Era una follia… oppure no? Improvvisamente ricordai
la strana
sensazione che avevo sempre provato vicino a lui,
l’impressione che dietro quel
volto gentile quanto segnato ci fosse qualcosa di
più… possibile che…
Fu
la voce dello stesso Lupin a confermare il tutto: “Questa
volta non sei
all’altezza di te stessa, Hermione. Ne hai azzeccata una su
tre. Non ho aiutato
Sirius ad entrare ad Hogwarts e di sicuro non voglio vedere Harry
morto, ma non
negherò di essere un Lupo Mannaro”.
Non
riuscii a seguire lo scambio di battute successivo. Ero esterrefatto.
Avevo
imparato ad ascoltare il mio “Senso di Ragno”, e
fino a quel momento non aveva
mai sbagliato, ma su Lupin sembrava aver preso una clamorosa cantonata:
pur
avvisandomi che nel professore c’era qualcosa di strano, non
mi aveva suggerito
alcun segnale di allarme. Eppure eccolo lì: una Creatura
Oscura, fianco a
fianco ad un pluriomicida. E se aveva sbagliato una volta, forse anche
l’invito
che sembrava sussurrarmi riguardo il non intervenire poteva essere
sbagliato,
forse i miei amici erano a pochi istanti da una morte orribile, forse
avrei
dovuto ignorare le conseguenze e piombare nella stanza…
Ancora
una volta, fu l’urlo di Harry a bloccare le mie riflessioni:
“LEI LO HA SEMPRE
AIUTATO!”.
Nonostante
la tensione, la risposta di Lupin fu calma e pacata: “Non ho
aiutato Sirius. Se
me ne date la possibilità, ve lo spiegherò.
Guardate – e, con mia somma
sorpresa, attraverso lo spiraglio lo vidi lanciare tre delle quattro
bacchette
che aveva in mano in altrettante direzioni diverse, probabilmente verso
i loro
legittimi proprietari, per poi infilare la sua nella cintura
– Voi siete
armati, noi no. Ora volete ascoltare?”.
Ebbi
la fugace tentazione di approfittare dell’occasione per
piombare nella camera e
porre fine a quell’assurda situazione: Lupin non avrebbe mai
avuto il tempo di
estrarre nuovamente la sua arma, avrei potuto legare sia lui che Black
prima di
subire qualsiasi contrattacco. Una forza imperiosa, però, mi
trattenne:
sentivo, sapevo, di dover ascoltare qualsiasi cosa
l’uomo avesse da
dire. Dovevo sentire. Dovevo capire. Era come se
tutta la mia vita fosse
stata finalizzata a questo unico scopo.
“Se
non l’ha aiutato – chiese Harry – Come
faceva a sapere che era qui?”.
“La
Mappa del Malandrino – rispose Lupin – La stavo
guardando nel mio studio…”.
Il
mio cervello registrò a malapena l’informazione
che Lupin, con il nome di
Lunastorta, era stato uno dei disegnatori della Mappa,
perché un brivido
freddo, come un secondo Incantesimo di Disillusione, mi aveva appena
attraversato la schiena. Harry mi aveva mostrato la Mappa del
Malandrino
settimane prima, mi aveva fatto vedere come funzionava, e mi aveva
detto che il
Professor Lupin l’aveva sequestrata. Se il Lupo Mannaro aveva
controllato la
mappa, doveva sapere che anche io ero lì! Se aveva visto
Black, doveva aver
visto anche me! La mia invisibilità era perfettamente
inutile.
No,
un momento. Lupin mi era passato accanto di corsa senza considerarmi
minimamente. Aveva disarmato i miei tre amici non mostrando in alcun
modo di
temere un attacco alle spalle. Aveva aiutato Black, aveva riconsegnato
le
bacchette e messo via la propria, e non aveva dato alcun segno di
essere a
conoscenza della presenza di un’altra persona. Era
impossibile che non avesse
notato un piccolo cartiglio con la scritta ‘Joshua
Carter’ vicino agli altri.
Questo
lasciava una sola, per quanto assurda, spiegazione: non mi
aveva visto
perché io non c’ero! La Mappa non aveva
mostrato la mia presenza! Forse
l’Incantesimo di Disillusione mi aveva nascosto? No, proprio
in quel momento
Lupin stava dicendo di aver visto Harry e gli altri sotto il Mantello
dell’Invisibilità. Forse la mia strana condizione
di ‘pendolare’ tra due mondi
interferiva con il potere dell’artefatto? Neanche, quando
Harry mi aveva
mostrato la Mappa mi ero visto, e per fortuna, altrimenti avrei avuto
il mio
bel da fare per spiegare al ragazzo il motivo della mia assenza, quando
ogni
essere vivente presente ad Hogwarts, incluso Pix il Poltergeist, vi
apparivano.
No, la Mappa normalmente registrava la mia presenza, ma non quella
sera. Quella
sera qualcosa doveva aver interferito. Un secondo brivido mi
colpì: per qualche
ragione, la Forza che mi aveva condotto fin lì voleva che
nessuno sapesse della
mia presenza. Pazzesco, ma in qualche modo logico. Avvertii una punta
di mal di
testa cercare di farsi strada tra le mie cellule grigie, ma venne
scacciato da
una frase di Lupin, che all’improvviso sovrastò
ogni altro pensiero: Lupin
aveva detto che, al ritorno dalla capanna di Hagrid, con i tre ragazzi
c’era
qualcun altro, e che subito dopo Black aveva trascinato
all’interno del Platano
Picchiatore due di loro. Ma non era così, ero perfettamente
d’accordo con la
furiosa puntualizzazione di Ron: io avevo visto tutto, i ragazzi erano
in tre,
non c’era nessuno con loro, e Black aveva afferrato soltanto
il rosso.
‘No’.
Non
fui in grado di dire se fu la mia mente a formulare questo pensiero,
oppure se
qualcos’altro si prese la briga di suggerirmela. Non sono mai
stato uno
sciocco, sapevo di avere una mente abbastanza analitica, quindi
è possibile che
il collegamento fosse farina del mio sacco, ma considerando che buona
parte dei
dati necessari mi erano piombati in testa per mezzo del mio
‘Senso di Ragno’,
era molto difficile distinguere una cosa dall’altra. In ogni
caso, il risultato
non cambiava, perché il collegamento era arrivato a
prescindere dalla sua
origine: non avrei saputo dire niente riguardo alla strada percorsa dai
ragazzi
sotto il Mantello dell’Invisibilità, ma quando Ron
era stato trascinato dentro
il tronco da Black trasformato in cane non era esattamene solo. Ma non
era
possibile, non poteva trattarsi di lui… eppure…
tutti i miei dubbi, tutte le
mie sensazioni, tutte le ore passate a farmi domande mentre non
riuscivo a
prendere sonno… ma insomma, non poteva essere! La Mappa non
mostrava gli
animali! Se davvero fosse apparso, avrebbe significato…
Le
parole di Lupin confermarono i miei sospetti: “Credi che
potrei dare
un’occhiata al tuo topo?” chiese a Ron.
“Cosa
c’entra Crosta?”.
“Tutto.
Posso vederlo, per favore?”.
Mentre
Ron tirava fuori da sotto gli abiti il topo, che sembrava
sull’orlo di una
crisi isterica e cercava in tutti i modi di fuggire, un vero e proprio
fulmine
sembrò attraversarmi il cranio: mai il mio ‘Senso
di Ragno’ mi aveva lanciato
un segnale così violento. Vedendo l’animale, fui
certo, senza nessuna ragione
riconoscibile o immaginabile, che Lupin avesse ragione: Crosta era
veramente il
centro di tutto. Come? Era una domanda per il momento senza risposta,
ma furono
Lupin e Black a fornirmela nei secondi successivi.
“Quello
non è un topo” disse l’evaso, e dopo le
proteste di Ron l’insegnante confermò
con la frase più assurda che potessi immaginare, e che
nonostante questo mi
sembrò follemente plausibile: “No, non
è un topo, è un mago”.
“Un
Animagus – ringhiò Black con una furia a stento
repressa – di nome Peter
Minus”.
Boom!
Fu come se nella mia testa fosse esploso un ordigno nucleare, ed i
pensieri
schizzarono in ogni direzione come detriti. A stento registrai il
rabbioso
tentativo di Black di lanciarsi sul topo, faticosamente bloccato da
Lupin, e le
successive spiegazioni del professore, che raccontava come fosse stato
morso da
piccolo da un Lupo Mannaro, come fosse riuscito a frequentare la scuola
grazie
all’intercessione di Silente, come il Platano Picchiatore
fosse stato piantato
appositamente per coprire l’ingresso del tunnel verso la
Stamberga Strillante
dove veniva portato durante le trasformazioni, in un tempo nel quale
non
esisteva ancora la Pozione Antilupo, e di come i suoi migliori amici,
cioè
James Potter, Sirius Black e Peter Minus, avessero scoperto il suo
segreto ed
avessero deciso di imparare a trasformarsi in Animagi per poter essere
al suo fianco
mentre era pericoloso per qualsiasi essere umano. Nonostante fossero le
spiegazioni per molti dei dubbi che avevo accumulato nel corso degli
ultimi
mesi, quel solo nome li aveva improvvisamente resi secondari, aveva
mandato a
posto tutti i pezzi fondamentali del puzzle, creando
un’immagine fin troppo
comprensibile e spiegando le notti insonni che avevo passato
chiedendomi quale
segreto si nascondesse dietro Crosta e Minus e le ragioni per le quali
quei due
nomi, apparentemente privi di qualsiasi plausibile legame,
continuassero a
occupare insieme i miei pensieri. Un topo morto ed un mago altrettanto
morto
non avrebbero dovuto avere alcun rapporto con il presente, eppure
eccolo,
chiaro come il giorno. Tutte le spiegazioni di Lupin erano per me
completamente
inutili, sapevo che aveva ragione. La voce che per tutta la sera mi
aveva
sussurrato quello che avrei dovuto fare, la strada che avrei dovuto
seguire, in
quel momento stava letteralmente urlando: non mi servivano prove,
sapevo che
Peter Minus non era morto, sapevo che avevo avuto ragione nel dubitare
della
storia sui crimini di Black, sapevo che il mago ufficialmente saltato
in aria
tredici anni prima era in quella stanza, nelle mani di Ron, nascosto
sotto le
sembianze di uno spelacchiato roditore. Il perché di tutto
questo mi era ancora
completamente ignoto, ma sapevo che lo avrei scoperto presto.
Fu
probabilmente questa vera e propria tempesta di pensieri a impedirmi di
notare
che qualcosa di strano stava accadendo nelle mie immediate vicinanze:
qualche
parte del mio cervello probabilmente sentì lo scricchiolio
della scala e del
pianerottolo, avvertì una presenza passare a pochi
centimetri da me, vide la
porta aprirsi leggermente, ma il mio intero io conscio
ignorò questi fatti.
Quando
la mia concentrazione tornò, Lupin stava raccontando di come
un altro ragazzo,
oltre ai suoi tre amici, avesse scoperto il suo segreto: Piton, che era
il
rivale dichiarato di James Potter e Sirius Black, e al quale
quest’ultimo aveva
fatto un terribile scherzo, facendolo arrivare alla Stamberga
Strillante
proprio quando Lupin era trasformato, venendo a stento salvato proprio
da
James.
“Allora
è per questo che lei non piace a Piton, perché
credeva che fosse complice dello
scherzo?” chiese Harry.
“Esattamente”.
Sobbalzai:
quella voce non apparteneva né a Lupin né a
Black! Girai la testa così
velocemente da farmi male al collo: in piedi, accanto alla porta, il
mantello
dell’invisibilità di Harry buttato sul braccio,
c’era Piton, con la bacchetta
puntata contro Lupin. Come diavolo aveva fatto ad entrare senza essere
notato?
Solo in quel momento mi resi conto degli strani rumori che avevo
sentito meno
di un minuto prima, e mi detti mentalmente dell’idiota per
non averci fatto
caso. La situazione si era improvvisamente complicata a livelli
inimmaginabili.
“L’ho
trovato alle radici del Platano Picchiatore – disse Piton
gettando di lato il
Mantello – Molto utile, Potter, grazie”.
Mentre
Piton spiegava di essere entrato nello studio di Lupin per portargli la
Pozione
Antilupo e di aver visto la scena sulla Mappa del Malandrino rimasta
aperta, io
cercavo di riflettere: Piton odiava quei due uomini, ma non era un
idiota
completo, avrebbe ascoltato, avrebbe compreso… no, speranza
vana, stava
bloccando sul nascere ogni tentativo dell’altro insegnante e
di Black di
chiarire le cose. Con un bang, vidi delle corde uscire dalla sua
bacchetta e
legare strettamente Lupin. Black provò a farsi avanti, ma la
bacchetta puntata
di Piton lo bloccò: “Dammi solo una scusa, e ti
giuro che lo farò” sussurrò
maleficamente.
Le
cose stavano sfuggendo di mano, lo rendevano chiaro le urla con le
quali Piton
azzittì un tentativo di Hermione di farlo ragionare:
quell’uomo era ubriaco di
vendetta, il suo solo desiderio era distruggere le due persone che gli
avevano
fatto del male da ragazzo. Per un attimo pensai che da quella
situazione
potesse venir fuori qualcosa di buono: se Piton avesse condotto i due
prigionieri e i ragazzi al castello… Ron avrebbe portato
Crosta con se… Silente
avrebbe ascoltato con equità, avrebbe verificato, e se la
follia della quale
ero tanto convinto si fosse rivelata vera… no, di nuovo
tutto andò a farsi
benedire in un lampo. Piton non aveva intenzione di portare Black al
castello,
bensì direttamente dai Dissennatori che stazionavano agli
ingressi. Quando citò
il ‘bacetto’ che probabilmente gli avrebbero dato,
rabbrividii: avevo letto sul
libro di Difesa contro le Arti Oscure del Bacio del Dissennatore,
sapevo che
avrebbero letteralmente strappato l’anima a Black, gliela
avrebbero risucchiata
dalla bocca. Un destino peggiore della morte. Avrei rabbrividito ad una
simile
pena anche se fossi stato certo della colpevolezza di Black, ed in quel
momento, pur non avendo ancora uno straccio di prova, ero sempre
più convinto,
piuttosto della sua innocenza.
Per
la terza volta dall’inizio di quella assurda avventura, mi
chiesi se fosse il caso
di intervenire. Come non mi aveva visto Lupin, anche Piton non poteva
aver
individuato il mio nome sulla Mappa del Malandrino, quindi non sapeva
che io mi
trovavo lì, invisibile, a pochi metri dal suo fianco. Potevo
colpirlo prima che
se ne rendesse conto, disarmarlo, legarlo… e poi? Un groppo
mi si formò in
gola: potevo anche essere una sorta di viaggiatore interdimensionale
con una
missione fondamentale a me stesso ancora sconosciuta, ma in quel luogo
e in
quel momento ero un semplice studente di tredici anni che stava
considerando la
possibilità di aggredire un professore. Se avessi davvero
attaccato Piton, con
ogni probabilità avrei passato dei guai immensi. Scartai
questo pensiero: considerando
le conclusioni alle quali ero giunto, o meglio, alle quali era giunto
il mio ‘Senso
di Ragno’, i problemi che poteva crearmi Piton erano a dir
tanto secondari. Istintivamente
alzai la bacchetta, ed avevo già l’Incantesimo di
Disarmo sulle labbra quando
qualcosa sembrò decidere di fermarmi: difficile dire cosa
fosse, ma una sensazione
si impadronì di me, e ancora una volta la voce misteriosa
sembrò sussurrarmi
senza parole di aspettare, che non era il momento, che tutto sarebbe
andato nel
modo giusto anche senza il mio intervento. Reagii quasi con
irritazione: come
poteva andare bene se Piton stava già ordinando a tutti di
muoversi, quando lui
era l’unico armato e non sembrava assolutamente disposto a
ragionare? Forse
questa volta la strana ‘Forza’ che mi aveva guidato
fino a quel momento stava prendendo
una cantonata.
Stavo
nuovamente sollevando la bacchetta, quando Harry mi
anticipò: attraversò la
stanza e si mise davanti alla porta, a poco più di mezzo
metro da me. Trattenni
quasi il respiro: era talmente vicino da poter sentire il mio fiato
sulla
schiena.
“Levati
di torno, Potter – sibilò Piton – Sei
già abbastanza nei guai. Se non fossi
intervenuto io a salvarti…
“Il
professor Lupin avrebbe potuto uccidermi cento volte
quest’anno, sono stato
solo con lui per ore. Se davvero stava aiutando Black,
perché non lo ha fatto?”.
“Non
chiedermi di immaginare come funziona la mente di un Lupo Mannaro.
Togliti!”.
A
quel punto Harry letteralmente esplose: “LEI E’
PATETICO! SOLO PERCHE’ LA PRENDEVANO
IN GIRO A SCUOLA NON INTENDE NEANCHE ASCOLTARE!”.
Anche
la voce di Piton raggiunse un livello altissimo: “NON
PERMETTERTI DI PARLARMI
COSI’! Sei come tuo padre, troppo arrogante per pensare che
potresti esserti
sbagliato su Black! Dovresti ringraziarmi in ginocchio per averti
salvato! E
ora togliti dai piedi, o ti ci spedirò io!”.
Vidi
la follia nel volto di Piton, e seppi che avrebbe dato corso alla sua
minaccia.
Silenziosamente mi spostai di lato, pronto ad attaccare, ma Harry mi
anticipò
di nuovo: veloce come un fulmine, alzò la bacchetta ed
urlò: “Expelliarmus!”.
La
sua non fu la sola voce ad urlare, e ben tre lampi di luce rossa
centrarono in
pieno Piton, che fu scagliato violentemente contro il muro e
collassò a terra,
un rivolo di sangue che gli scorreva trai capelli. La sua bacchetta
schizzò in aria
e atterrò sgraziatamente sul letto Guardai in giro per la
stanza: Hermione e
Ron avevano colpito nello stesso istante, e la forza combinata degli
incantesimi era stata sufficiente a far fare all’insegnante
un volo di diversi
metri. Ero esterrefatto: ancora una volta la voce aveva detto che il
mio
momento non era giunto, ed anora una volta aveva avuto ragione!
“Non
dovevate farlo – mormorò Black –
Dovevate lasciarlo a me…” e si diresse verso
Lupin, iniziando a slegare le corde. Non vedevo la faccia di Harry,
visto che
mi dava la schiena, ma notai che non aveva abbassato la bacchetta.
Nonostante
la sua scelta, non doveva essere del tutto convinto di aver fatto la
cosa
giusta. Ron, dopo aver lanciato l’incantesimo, era crollato
di nuovo sul
cuscino, dolorante per la gamba rotta, con Crosta ancora stretto al
petto.
Hermione, dal canto suo, sembrava prossima ad una crisi isterica:
doveva aver
improvvisamente realizzato l’enormità di quello
che avevano fatto, e ne era
terrorizzata.
Lupin
si rialzò dolorante: “Grazie, Harry”.
“Non
ho ancora detto che le credo” ribatté il ragazzo,
spostandosi in un punto della
stanza dal quale poteva tenere sotto tiro sia il professore che Black e
lasciandomi,
inconsapevolmente, il campo visivo interamente libero.
“Allora
è giunto il momento di darti qualche prova – disse
Black, per poi rivolgersi a
Ron – Ragazzo, adesso dammi Crosta”.
Sentii
improvvisamente la tensione arrivare a livelli che mai avrei
immaginato: in
qualche modo, avevo la certezza che ogni dubbio, ogni mistero, ogni
incertezza,
stessero per risolversi. Avevo la sensazione che il momento nel quale
la
ragione della mia presenza in quel mondo mi sarebbe stata rivelata si
stesse
avvicinando, e ne avevo paura.
Ci
volle qualche minuto prima che Black e Lupin finissero di spiegare
tutta la
storia, e alla fine del loro racconto sentivo la mia testa sul punto di
esplodere per l’eccesso di informazioni e per
l’enormità di esse. Quello che avevano
raccontato era assurdo e incredibile, al punto… da poter
essere vero. Ogni
punto della storia che avevo sentito raccontare da Cornelius Caramell,
dalla McGrannitt
e da Hagrid veniva rovesciato: Black aveva convinto i Potter a
scegliere Minus
come Custode Segreto, nel tentativo di ingannare Voldemort, ma lui li
aveva
traditi e venduti. Quando Black aveva capito l’accaduto,
aveva dato la caccia a
Minus, ma quando lo aveva trovato, in mezzo ad una città
Babbana, lui gli aveva
urlato che aveva tradito James e Lily, poi si era tagliato un dito per
lasciare
indietro qualcosa che facesse pensare che fosse morto, aveva fatto
saltare in
aria la strada tenendo la bacchetta dietro la schiena ed era scappato
nelle
fogne in forma di topo. Quel particolare mi colpì: di Minus
era rimasto
soltanto un dito, e una delle zampe davanti di Crosta ne aveva
quattro!
Coincidenza? Mi sembrava sempre meno probabile.
E
non era finita, anche gli eventi di quell’anno assumevano un
senso molto
diverso alla luce del loro racconto. Black non era fuggito da Azkaban
per
cercare Harry, non era penetrato nel castello per uccidere Harry: aveva
visto
su un giornale lasciato nella prigione dal Ministro della Magia una
foto della
famiglia Weasley, aveva notato Crosta, aveva riconosciuto la forma
Animagus del
suo vecchio amico, ed era scappato per cercarlo, perché
temeva per la vita di
Harry, il suo figlioccio. Improvvisamene ricordai la notte nella quale
si era
introdotto nel nostro dormitorio, di come aveva passato tanto tempo ad
analizzare Ron, senza cercare realmente di ucciderci. Al tempo mi ero
convinto
senza alcuna ragione che stesse cercando Crosta… avevo avuto
ragione, dal primo
istante.
Tutto
tornava, tutto corrispondeva, nella storia dei due come nelle mie
sensazioni.
Mi voltai verso Harry: sul suo volto c’era il dubbio. Ancora
non credeva del
tutto, ma iniziava a chiedersi quanta verità ci fosse
nell’apparente follia del
racconto.
Alla
fine fu Lupin a dare un taglio alle esitazioni: “Basta
così. Possiamo dare una
prova sicura di quanto è accaduto. Ron, dammi quel
topo”.
“Che
cosa intende fargli?”.
“Costringerlo
a mostrarsi. Se è soltanto un topo, non gli
accadrà nulla”.
Ron
sembrava ancora esitante, ma alla fine si decise, e consegnò
al professore un
agitatissimo Crosta.
“Sei
pronto, Sirius?” chiese Lupin. Black, che aveva raccolto la
bacchetta di Piton,
si avvicinò al vecchio amico: “Insieme?”
chiese.
“Direi
di si”.
Avvertii
un cambiamento nell’atmosfera della stanza. Non era qualcosa
di fisico, più che
altro una differente atmosfera, più densa, più
pesante. Qualcosa stava per
succedere, ne ero più che sicuro.
I
due uomini contarono fino a tre, poi due lampi di luce azzurra e bianca
colpirono il topo. Crosta rimase per un attimo paralizzato a mezzaria,
poi
cadde a terra. Ci fu un secondo lampo di luce e…
Per
la seconda volta quella sera, la mia mascella cadde di diversi
centimetri,
rimanendo spalancata per la sorpresa: avevo seguito i loro discorsi,
sapevo
quello che si aspettavano accadesse, ma tra immaginare e vedere
c’era una
differenza enorme.
Un
attimo prima sul pavimento polveroso della camera c’era un
roditore terrorizzato, e subito dopo era stato sostituito da un ometto basso
dall’aria
malaticcia, come se un tempo fosse stato grasso ed avesse perso molto
peso in
poco tempo. Doveva avere poco più di trent’anni,
ma ne dimostrava come minimo
dieci in più. I suoi capelli, di un colore indefinibile,
erano arruffati e malridotti,
e gli davano lo stesso aspetto spelacchiato del topo. Gli occhi acquosi
emanavano vero e proprio terrore, e si giravano per la stanza a scatti,
apparentemente in cerca di una via di fuga.
Mi
voltai verso gli altri presenti. I tre ragazzi erano stupefatti, e
questo era
normale, dopo aver visto un topo trasformarsi all’improvviso
in un essere umano,
ma erano le espressioni di Black e Lupin ad essere esplicative: il
primo
lanciava lampi di collera a stento repressa, il secondo sorrideva, ma
in fondo
ai suoi occhi c’era rabbia, una furia perfino più
terribile di quella del
vecchio amico. Era più che abbastanza per capire che le loro
aspettative si
erano realizzate, e le successive parole dell’insegnante,
pronunciate con un
tono sorprendentemente affabile, furono soltanto una conferma:
“Ciao, Peter. E’
da molto che non ci vediamo”.
Vi
chiedo scusa, so che questo capitolo è poco più
di un riassunto
di cose che conoscete benissimo, solo viste da una prospettiva diversa,
ma ho
preferito fare così anziché saltare tutta la
scena e ridurla ad una breve
sintesi, sia perché rende meglio l’idea dei
sentimenti di Joshua, sia nel caso
qualcuno che magari ha visto solo i film stesse leggendo questa storia,
e
quindi non conoscesse bene le vicende dei Malandrini. Dal prossimo
capitolo
torneremo alla vera azione, promesso.
|
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Capitolo 13 *** Capitolo Dodici ***
CAPITOLO
DODICI
Pochi minuti dopo
l’improvvisa
apparizione di Peter Minus, uno dei più insoliti gruppi di
persone che avessi
mai visto attraversò la porta della camera, passandomi a
qualche centimetro ed
iniziando a scendere le scale: Grattastinchi apriva la strada; lo
seguivano
Ron, con la gamba magicamente steccata, e Lupin, sui due lati di Minus,
al
quale erano legati con delle pesanti manette. Dietro di loro veniva il
professor Piton, ancora svenuto, che Black faceva flutturare con la sua
stessa
bacchetta. Harry ed Hermione chiudevano il corteo. Li seguii in
silenzio,
ancora esterrefatto dagli eventi ai quali avevo assistito da quando il
topo
Crosta si era rivelato un essere umano ufficialmente morto da quasi
tredici
anni: le accuse mosse a Minus da Lupin e Black, i suoi disperati
tentativi di
difendersi, la confessione finale, la decisione dei due vecchi amici di
ucciderlo. E, soprattutto, Harry, che si era imposto
affinché lo risparmiassero
e lo facessero arrestare. ‘Mio padre non avrebbe voluto che
diventaste degli
assassini’, aveva detto. Una decisione molto matura da parte
di un ragazzo
neanche quattordicenne che si era appena trovato di fronte la ragione
per la quale
era orfano.
Mentre
camminavo verso il tunnel,
mi sentivo allo stesso tempo soddisfatto e, in un certo senso,
defraudato: le
cose erano andate nel migliore dei modi senza il mio intervento. Ancora
una
volta, tornai a chiedermi che senso avesse avuto la mia presenza in
quel luogo
e in quel momento se tutto era andato al proprio posto prima che io
avessi
ragione di muovere un dito.
In
un angolo della mia mente, però,
una voce sussurrava ancora: sapevo che la storia non era finita, anche
se non
comprendevo in che modo le cose potessero andare storte.
“Sai
cosa significa consegnare
Minus?” fu la domanda che udii sollevarsi da Black in
direzione di Harry mentre
camminavano nel cunicolo.
“Che
tu sei libero” rispose il
ragazzo.
“Sì,
ma… non so se nessuno te lo ha
mai detto, ma io sono il tuo padrino”.
“Sì,
lo sapevo” disse ancora Harry.
“Beh,
i tuoi genitori mi avevano
nominato tuo tutore, nel caso… beh, ovviamente posso capire
se vuoi rimanere
con i tuoi zii… ma… beh… se quando
avranno riconosciuto la mia innocenza
dovessi desiderare una casa diversa…”.
Harry
sbatté la testa contro il
soffitto per la sorpresa: “Vuoi dire…venire a
vivere con te? Lasciare i
Dursley?” esclamò.
“Certo,
lo sapevo che non avresti
voluto – si schermì Black – Capisco,
credevo solo che…”.
“Ma
sei matto? – disse Harry, la
voce arrochita dalla gioia – Ma certo che voglio lasciare i
Dursley! Tu hai una
casa? Quando posso venire?”.
Dovetti
trattenermi fisicamente
dallo scoppiare a ridere alla genuina gioia del mio compagno di scuola:
sapevo
quanto detestasse i suoi zii, e quanto desiderasse una vera famiglia.
Ora
vedevo Black sotto una luce molto diversa: era un brav’uomo,
Harry sarebbe
stato felice vivendo la sua adolescenza insieme a qualcuno che potesse
somigliare ad un vero padre.
Uscimmo
dal foro sotto le radici
del Platano Picchiatore non appena Grattastinchi ebbe premuto il nodo
sul
tronco, io appena tre o quattro metri dietro Harry ed Hermione. Le nubi
coprivano ancora buona parte del cielo.
“Una
sola mossa falsa, Peter”
rammentò minacciosamente Lupin, puntando la bacchetta contro
il petto dell’ex
amico.
Avevano
appena iniziato a risalire
i prati verso il castello, quando le cose presero ad accadere molto in
fretta:
una nuvola si spostò rivelando la luna piena, il gruppo si
bloccò ed il corpo
di Lupin iniziò a tremare. Hermione lasciò
partire un urlo strozzato: “Non ha
preso la pozione stasera! Non è innocuo!”.
Con
orrore, incapace anche solo di
pensare di intervenire, vidi il professore trasformarsi velocemente,
assumendo
tratti animaleschi. Pochi secondi dopo, un Lupo Mannaro ringhiava
contro Harry.
Black si trasformò nell’enorme cane nero e lo
impegnò in una dura lotta. Un
attimo dopo Hermione urlò, e voltando la testa dalla scena
del combattimento
vidi Minus lanciarsi sulla bacchetta di Lupin, trascinandosi dietro
Ron,
incapace di reggersi sulla gamba malandata. Due lampi di luce dopo, il
ragazzo
e Grattastinchi giacevano a terra privi di sensi.
“Expelliarmus!”
urlò Harry,
e Minus si ritrovò disarmato, ma non sembrò
preoccuparsene troppo: un attimo
dopo, si era già trasformato in topo, e stava fuggendo
attraverso l’erba dei
prati.
Fu
un lampo: nell’istante esatto
nel quale Minus schizzò via diretto verso la foresta
qualcosa sembrò
risvegliarsi dentro di me. Per la prima volta, non si trattò
di una semplice
sensazione o di un sussurro, non fu un pensiero apparentemente guidato
da una
Forza esterna, quella che udii fu una voce, chiara e distinta come se
qualcuno
mi stesse parlando a pochi centimetri dall’orecchio. Era una
voce femminile, ma
differente da qualsiasi altra avessi mai sentito nella mia vita. Era
calda,
gentile, e trasmetteva un grande senso di pace e serenità.
Ciononostante, era
anche straordinariamente decisa: “Ora! – mi disse
– Adesso è il tuo momento,
Joshua Carter! Vai!”.
Non
ebbi minimamente bisogno di
chiedermi che cosa intendesse: partii di corsa verso la foresta, dritto
sulla
scia di Peter Minus. Mi infilai tra gli alberi come un cavallo in
corsa, ma
dopo alcune centinaia di metri mi fermai. Sbuffando come una
locomotiva, mi
tolsi di dosso l’Incantesimo di Disillusione e mi appoggiai
ad un albero,
cercando di riprendere fiato e di mettere in ordine le idee. La voce mi
aveva
fatto capire perfettamente cosa dovevo fare, ma ancora una volta si era
dimenticata di spiegarmi come: stavo cercando di inseguire un ratto
all’interno
di un intrico di alberi in piena oscurità. Era
un’impresa impossibile, non ero
un cane o una volpe, non potevo certo seguire una pista.
Un
ricordo mi attraversò la testa,
tanto improvviso da spingermi a domandarmi se fossi stato io a
formularlo o se
mi fosse stato suggerito: non potevo farlo? Le cose non stavano
esattamente
così. Rammentai una lezione di Incantesimi di alcuni mesi
prima, poco dopo la
fine delle vacanze natalizie: il professor Vitious ci aveva spiegato un
piccolo, strano incantesimo, capace per breve tempo di incrementare le
capacità
olfattive di una persona al livello di quelle del miglior segugio. Al
tempo
avevamo riso tutti, chiedendoci quale utilità potesse mai
avere una simile magia,
a parte cercare tartufi senza l’ausilio di un cane. Avevamo
addirittura fatto
una battuta a Seamus, dicendogli che se avessimo provato ad utilizzare
l’incantesimo nel nostro dormitorio, visto l’odore
dei suoi calzini saremmo
probabilmente morti tutti. Ci era sembrato uno scherzo. Sorrisi
involontariamente: se non era destino quello, non avrei saputo come
chiamarlo.
Puntai la bacchetta direttamente contro il mio naso e mormorai: "Nidorum!".
La
mia mente fu improvvisamente
invasa da un cumulo incredibile di sensazioni: fu come entrare in una
stanza
nella quale erano in corso cento conversazioni differenti. Impiegai
qualche
secondo per capire che stavo registrando un cumulo di stimoli olfattivi
mai
sperimentato prima, simili ma allo stesso tempo diversissimi da quelli
uditivi:
sentivo il profumo dell’erba umida per la rugiada della
notte, la resina dei
tronchi, la terra morbida, l’odore di
un’infinità di creature viventi diverse.
Era inebriante, ma sapevo di dovermi sbrigare: l’incantesimo
aveva una durata di
pochi minuti, e io dovevo ancora individuare il mio obiettivo
all’interno di
quella cacofonia di stimoli. La memoria era la mia sola
possibilità: era più
che probabile che Minus non avesse ancora ripreso forma umana, una fuga
come
topo era molto più agevole, e io avevo passato dei mesi
nello stesso dormitorio
nel quale dormiva Crosta. Mi sforzai per ricordare il debole odore del
roditore, e quando finalmente credetti di averlo ben chiaro in mente,
trassi un
profondo respiro. Per qualche istante credetti di essere sopraffatto
dalla
miriade di sensazioni che il mio cervello inesperto tentava di
elaborare, poi
la distinsi: davanti a me, leggermente spostato sulla destra, a non
più di
trecento metri di distanza… era odore di pelo di
topo… e di paura.
Ripresi
a correre, facendomi
guidare dal mio naso, benché il mio superolfatto stesse
già scemando. Minus era
in vantaggio, ma io avevo gambe molto più lunghe e forti
delle sue. Il problema
sarebbe stato distinguere la minuscola figura del topo nel buio della
foresta…
Invece
no. Ancora una volta, pensai
che qualcuno o qualcosa si stesse impegnando per aiutarmi, per piegare
il
destino quel tanto sufficiente a darmi una possibilità:
all’improvviso arrivai
al limite di una radura quasi circolare tra gli alberi, e a non
più di quindici
metri di distanza, perfettamente visibile nella luce della luna piena,
c’era
Minus, lanciato in una corsa disperata verso l’altro lato
dello spiazzo.
Estrassi
la bacchetta e appoggiai
il braccio destro contro un tronco per prendere meglio la mira. Non era
semplice centrare un topo nell’oscurità, ma ero
certo di poterci riuscire.
Fu
come se il tempo avesse
rallentato fin quasi a fermarsi: vedevo le zampette di Minus muoversi
freneticamente sull’erba bassa, mentre la punta della mia
bacchetta lo seguiva.
Sentivo che tutto ciò che avevo vissuto fino ad allora mi
aveva portato a quel
momento, e improvvisamente ebbi chiaro cosa la strana Forza voleva da
me, a
cosa mi aveva guidato: io dovevo fermare Minus. Definitivamente.
Se
non fosse stato abbastanza
chiaro, la voce che avevo sentito pochi minuti prima mi
parlò di nuovo: “Devi
farlo, Joshua – mi disse con gentilezza ma con grande
decisione – Devi
ucciderlo, adesso”.
Avvertii
la mia mano tremare come
una foglia nel vento, rendendomi difficile addirittura mantenere la
mira.
Sarebbe bastato un colpo solo… magari un Incantesimo
Esplosivo, nel caso avessi
sbagliato di poco sarebbe stato più che sufficiente per
eliminare un topo… ma
tra pensarlo e farlo passava parecchia strada: Minus era un traditore,
Minus
era uno spergiuro, Minus era un assassino… Minus era, di
fronte alla mia
bacchetta, un essere completamente indifeso. Quanto migliore di lui
sarei
diventato se davvero lo avessi ucciso a tradimento? Possibile che
davvero fosse
quella la ragione del mio incredibile viaggio, della mia vita ad
Hogwarts,
delle amicizie e degli affetti che avevo creato, di tutte le cose che
avevo
imparato? Prepararmi per compiere un omicidio al momento giusto?
“Lo
so che è difficile – mormorò
ancora la voce in tono rassicurante – Eppure lo devi fare,
Joshua. Se Minus
stanotte vivrà, molte persone soffriranno.
L’oscurità calerà su tutto
ciò che
hai imparato ad amare. Solo tu hai il potere di evitarlo: la vita di
Minus… per
quelle di tanti altri. Fallo, Joshua… fallo,
Matteo!”.
Scorretto,
molto scorretto, Signora
Voce. Quella presenza ultraterrena mi aveva appena caricato sulle
spalle
l’equivalente metaforico di un vero e proprio macigno. La
cosa peggiore era che
sentivo che stava dicendo la verità. Chiunque, o qualunque
cosa fosse, doveva
aver realmente visto gli eventi futuri, e mi stava trasmettendo
un’immagine
chiara e limpida come un lago di montagna: se a Minus fosse stato
consentito di
fuggire, qualcosa di terribile oltre ogni misura sarebbe avvenuto.
Strinsi più
saldamente la bacchetta: se doveva essere così, che fosse!
Cercai di
pronunciare l’incantesimo, ma la mia bocca si
rifiutò di obbedire. Non potevo
farlo, non in quel modo! Se lo avessi avuto davanti, anche lui con la
bacchetta
in mano, allora forse… ma in quelle condizioni era tutto
inutile: non avevo
l’istinto del killer, c’era poco da fare, e le
più potenti e nobili motivazioni
non sarebbero mai state sufficienti per spingermi a compiere un
assassinio a sangue
freddo. Non potevo uccidere Minus, ma poteva esserci un altro
modo… potevo
tentare di forzare un po’ la mano al destino. Non avevo mai
creduto che tutto
fosse scritto, le cose potevano essere cambiate! Potevo fermare Minus
senza
trasformarmi in un assassino, potevo mettere le cose a posto, forse
potevo
addirittura far scagionare Sirius dalle sue accuse, farlo tornare un
uomo
libero, restituire a Harry un pezzo di quella famiglia che non aveva
mai avuto!
“Ti
prego, Matteo! – supplicò la
Voce, che doveva aver ‘sentito’ i miei pensieri e
la mia decisione – Non farlo!
Le tue intenzioni sono nobili, ma stai correndo un rischio terribile!
La vita
di un traditore omicida vale quelle che metterai in pericolo per
seguire la
linea che vuoi scegliere?”.
Un
groppo mi si formò in gola, ma
scacciai quelle parole: forse aveva ragione, ma se era così,
la Voce aveva
scelto la persona sbagliata. Matteo Simoncini non poteva agire in quel
modo, e
neanche Joshua Carter. ‘Il destino non è
scritto’, mi ripetei ancora, e mi convinsi
definitivamente: avrei fatto le cose a modo mio, ed avrei ottenuto lo
stesso
risultato senza che le mie mani si sporcassero di sangue inerme, se non
certamente innocente.
Spostai
la punta della bacchetta di
qualche centimetro e urlai: “Tonare!”.
Il
potente Incantesimo Esplosivo
sprizzò dalla punta come un fiotto di luce arancione ed
andò a schiantarsi due
metri davanti al topo, provocando uno scoppio fragoroso ed aprendo un
piccolo
cratere nel terreno. Minus venne scaraventato indietro, ma si
risollevò
immediatamente, alzandosi sulle zampe posteriori ed iniziando a voltare
freneticamente la testa nel tentativo di capire da dove fosse arrivato
l’attacco prima di riprendere la fuga.
“Non
muoverti, Minus! – urlai con
la voce più dura che fui capace di emettere – Se
ti azzardi a fare soltanto un
altro passo, ti giuro su Merlino in persona che ti faccio saltare in
aria! Tu
sei piccolo, ma io ho un’ottima mira, quindi non fare
stupidaggini!”.
Il
topo si paralizzò sul posto,
tremante. Lentamente voltò la testa nella mia direzione, e
perfino da quella
distanza vidi il terrore nei suoi occhi, ma non osò tentare
di scappare.
“Bene,
vedo che hai capito –
continuai, uscendo dalla linea degli alberi, sempre tenendo la
bacchetta
puntata contro di lui – Se fai esattamente quello che ti
dico, è possibile che
tu riesca a vedere il sole di domani. Per prima cosa, torna
immediatamente
umano!”.
Vidi
il topo rimanere interdetto
per qualche secondo, come se stesse soppesando le
possibilità che avrebbe avuto
di fuggire prima di essere ridotto in polvere, poi ci fu un piccolo
scoppio di
luce, e Peter Minus, a quattro zampe, giacque sul terreno della radura.
Faticosamente, quasi come se le gambe si rifiutassero di reggerlo, si
trascinò
in piedi: “C…Chi sei?
P…perché ce l’hai con me?”
chiese con voce tremante.
Il
mio volto si deformò in una
smorfia cattiva: “Se proprio ti interessa, mi chiamo Joshua
Carter, ma in
questo momento puoi considerarmi il tuo peggiore incubo. Le mie
motivazioni
sono unicamente mie, ma credo che non serva molto per trovare dei buoni
motivi
per avercela con te, sporco assassino!”.
Credetti
che a Minus sarebbe venuto
un infarto: non riusciva a smettere di tremare, né a
staccare gli occhi dalla
bacchetta puntata contro il suo petto. Ormai ero a meno di cinque metri
da lui.
Mi fermai.
“C…che
cosa vuoi?” chiese ancora a
fatica.
“Una
domanda interessante. Quello
che vorrei veramente, con ogni probabilità, è
vederti morire urlando, ma non
sono un macellaio come te. Quindi ti dico quello che
succederà adesso: tu ti
avvierai verso il castello, camminando davanti a me. Se solo ti azzardi
a
tentare di fuggire, oppure a trasformarti nella tua forma Animagus, se
vedo
spuntare anche solo un baffo, ti ritroverai nella schiena un buco
grosso come
una Pluffa. Una volta arrivati ad Hogwarts, andremo dritti dritti da
Silente.
Ci penserà lui a farti arrivare nel posto al quale veramente
appartieni:
Azkaban! Ci sono Lily e James Potter che attendono di avere giustizia,
così
come tutti i poveri Babbani che hai assassinato per salvare la tua
sporca
pellaccia, e Sirius Black, che ha passato dodici anni in galera per
colpa tua!”.
La
mia esposizione, che conteneva
informazioni note solo allo stesso Minus e a pochissimi altri,
colpì il
traditore come una mazza, ed il lampo nei miei occhi dovette rincarare
ulteriormente la dose. Smise perfino di tremare, tanto era lo stupore,
e rimase
a fissarmi con occhi vacui. Alla fine riuscì ad articolare
la domanda che si
era formata nella sua testa: “Chi sei tu veramente? Sembri
uno studente, ma non
è tutto qui, vero? Come fai a sapere queste cose? Non sei un
normale ragazzo,
ho ragione?”.
Risi,
con una risata senza
allegria: “Bravo, hai fatto centro. Suppongo che serva un
bugiardo per
scoprirne un altro. Chi io sia, però, non è cosa
che ti riguardi: quello che ti
serve sapere è che io sono colui che in questo momento ha su
di te diritto di
vita o morte. Puoi scegliere: andare verso il castello, essere
arrestato e
vivere, oppure restare dove sei o tentare di scappare e morire. A te la
decisione”.
Minus
rimase fermo sul posto,
mentre i suoi occhi guizzavano da una parte all’altra della
radura alla
disperata ricerca di un modo per scappare, ma alla fine
sembrò rendersi conto
di non poter in alcun modo sfuggirmi senza essere colpito, quindi, la
testa china
sul petto, lo sguardo rassegnato, si avviò nella direzione
dalla quale era
arrivato.
“Cammina
lentamente, e fermati se
te lo ordino, o ti assicuro che ti ritroverai un buco dalla schiena
fino al
petto – ringhiai, cercando di sembrare più
convinto di quanto realmente fossi
di essere capace di ucciderlo se avesse tentato la fuga – Non
credere solo
perché sono un ragazzo di potermi prendere
in…”.
Mi
bloccai all’improvviso: avevo
avvertito qualcosa, uno strano cambiamento nell’aria della
notte: i colori già scuri
della foresta iniziarono come a sbiadirsi, a ingrigirsi, mentre un
freddo
sempre più intenso parve penetrarmi nelle ossa. Udii un
rumore nelle orecchie,
per il momento lontano e indistinguibile, ma apparentemente sempre
più vicino.
Le gambe iniziarono a tremarmi.
Minus
si bloccò come una statua,
senza che gli avessi dato ordini, ma in quel momento non pensai neppure
di
colpirlo: il freddo stava diventando sempre più intenso,
l’aria si stava
oscurando, come se una fitta nebbia stesse calando sulla foresta, le
stelle
praticamente non si distinguevano più tra le chiome degli
alberi. Per qualche
secondo mi domandai che cosa stesse succedendo, anche se avevo un
terribile
sospetto, poi il mio prigioniero emise un acuto squittio, degno del
topo che
era stato fino a poco prima, e lo vidi irrigidirsi come un palo per il
terrore.
Guardai davanti a lui, e una coltre di paura appiccicosa
calò sul mio cuore:
attraverso gli alberi vidi due alte figure avvolte in mantelli grigi
avvicinarsi a noi, fluttuando a qualche centimetro dal terreno come i
più
orribili trai fantasmi. Il freddo sembrò aumentare man mano
che si
avvicinavano, quasi lo stessero portando con se. Feci una terribile
fatica ad
ingoiare il groppo che si era formato nella mia gola: avevo
già visto quelle creature
mentre oltrepassavo i cancelli della scuola diretto verso Hogsmeade, e
non
avrei mai potuto confondere i Dissennatori con qualsiasi altra cosa.
Dalla
gola di Minus fuoriuscì un
gorgoglio strozzato, che andò a trasformarsi in una sorta di
acutissimo grido,
dal quale traspariva un orrore inesprimibile. Un istante dopo, senza
nessun
preavviso, scattò di lato e si lanciò in una
pazza corsa, completamente
dimentico della bacchetta puntata contro la sua schiena. Un attimo
dopo, si
stava già trasformando in topo.
“Ah,
no! Non ci provare, carogna! Tonare!”.
In
quel momento non stavo
minimamente riflettendo, tutti i miei dubbi
sull’opportunità di uccidere Minus
erano stati letteralmente obliterati dalla situazione: la paura che mi
aveva
colto mi impediva di ragionare, e la velocità con la quale
le cose stavano
precipitando mi aveva spinto ad una reazione estrema. Non aveva
però
contribuito a migliorare la mia mira: l’Incantesimo Esplosivo
centrò il terreno
ad un paio di metri dal topo, che squittì di dolore e venne
scagliato di lato,
rotolò alcune volte, poi si rimise sulle zampe e
schizzò via, infilandosi nei
cespugli.
Avrei
voluto inseguirlo, ma
compresi subito di non esserne in grado: il gelo mi opprimeva ormai
come una
coperta, faticavo addirittura a respirare l’aria fredda, e
dovetti faticare per
mantenere l’equilibrio. Nella mia mente i suoni indistinti
avevano assunto
caratteristiche fin troppo riconoscibili: una disperata frenata,
lamiere che si
deformavano con violenza, vetri infranti, poi uno schianto che sembrava
invadere tutto il mondo. Deglutii: i Dissennatori, mentre banchettavano
con le
tue emozioni positive e la tua felicità, erano capaci di
farti rivivere i
momenti peggiori della tua vita, i terrori che infestavano i tuoi
incubi, ed
era fin troppo facile capire quali fossero i miei.
Una
scarica di rabbia mista ad
adrenalina mi attraversò il corpo: se quelle due schifose
creature pensavano di
fare uno spuntino di mezzanotte a mie spese, si sbagliavano di grosso!
Alzai la
bacchetta e la puntai contro quello più vicino:
“Lontano da me, essere immondo!
– urlai – Depulso!”.
Il
raggio di energia dorata eruppe
con violenza dalla punta della bacchetta, si scagliò contro
il mostro a gran
velocità, lo centrò in pieno petto… e
scomparve, senza nessuna apparente
conseguenza. La creatura non ebbe la minima reazione,
continuò soltanto a
fluttuare verso di me.
Per
un istante rimasi a fissare,
come inebetito, l’essere che si avvicinava. Ormai era solo a
sette o otto
metri. Una coltre di sudore gelido e appiccicoso copriva la mia pelle,
le mie
gambe tremavano. Involontariamente, feci un passo indietro, poi mi
riscossi:
l’Incantesimo di Esilio non aveva funzionato, quindi era il
caso di togliersi i
guanti bianchi! Raccogliendo disperatamente le forze che minacciavano
di
abbandonarmi, presi nuovamente la mira: “Percutio!”.
La sola volta che
avevo sperimentato l’Incantesimo Perforante, avevo fatto in
un banco un buco
molto simile a quello che avrebbe potuto provocare una pallottola
calibro 50, e
non ci avevo messo neanche tutta la mia forza. Era un incantesimo
cattivo,
fatto per ferire se non per uccidere. Il suo uso ingiustificato contro
un altro
essere umano poteva costarti diversi anni di galera, ammesso che il tuo
bersaglio sopravvivesse. Sul Dissennatore, però, ebbe meno
effetto di una
pallina da tennis: quello semplicemente lo ignorò,
continuando ad avanzare.
“Cazzo,
NO! – urlai, una punta di
panico nella voce – Lacero! Impactus!
TONARE!”.
Era
quanto di meglio avessi nel mio
repertorio: tre potenti incantesimi da combattimento lanciati in
catena, in
modo che i movimenti dell’uno si incastrassero in quelli del
successivo per una
esecuzione più rapida. Perfino un mago adulto di discreta
abilità avrebbe avuto
dei grossi problemi a respingerli tutti e tre. Non volevo, non potevo
credere
che non avrebbero funzionato, se lo avessi fatto avrei dovuto ammettere
di
essere nei guai fino al collo.
Il
mostruoso essere non sembrò
neanche accorgersi di essere stato centrato.
Ormai
terrorizzato, indietreggiai
ancora, e dopo due passi avvertii dietro la schiena una superficie
ruvida. Ero
appoggiato contro un albero. Ero in trappola, incapace di scappare e
incapace
di difendermi. Una parte di me aveva saputo dall’inizio che
nessuna delle mie
magie avrebbe potuto salvarmi, che c’era un solo incantesimo
in grado di
mettere in fuga un Dissennatore… l’unico tra
quelli che avessi provato che mi
ero dimostrato incapace di eseguire!
Il
mostro era ormai a cinque metri,
e la pressione sulla mia testa era divenuta insostenibile. Avevo tanto
freddo,
come se improvvisamente fossi stato teletrasportato
nell’Artico, e le mie
ginocchia minacciavano di cedere da un momento all’altro. La
scena
dell’incidente era chiara nella mia mente, come se fossi
stato di nuovo
all’interno della macchina che si stava disintegrando: i
rumori, le sensazioni,
perfino il dolore si ripetevano in un loop apparentemente infinito.
Cercai
disperatamente di
riscuotermi, sapendo che altrimenti sarei stato condannato: con ogni
probabilità era tutto inutile, ma dovevo almeno provarci.
‘Un
pensiero felice…mi serve un
pensiero felice!’ urlava la mia mente, ma era difficilissimo
trovare qualcosa
nel mare di disperazione che mi aveva invaso. Non mi aiutava il ricordo
di
quanto male avesse funzionato in una situazione tranquilla: quante
speranze
avevo di riuscire a produrre un Incanto Patronus in quelle condizioni?
Eppure
non potevo arrendermi. Alla fine, scelsi la festa sul campo da
Quidditch dopo
la vittoria della Coppa: era stato il primo momento nel quale mi ero
sentito
veramente di casa in quello strano, nuovo mondo, poteva essere
abbastanza
potente. Puntai la bacchetta e urlai: “Expecto
Patronum!”.
Una
nebbia perlacea si materializzò
tra me e il Dissennatore, che per la prima volta si arrestò.
Benché il
cappuccio impedisse di vedere la sua espressione, ammesso che ne avesse
una,
ebbi l’impressione che fosse leggermente sorpreso.
Immediatamente sentii le mie
forze calare ulteriormente, tanto che dovetti abbandonarmi contro il
tronco per
non cadere, mentre il Patronus malformato drenava una vera e propria
ondata di
energia dal mio corpo. Il Dissennatore sollevò le braccia,
armeggiò qualche
secondo con la forma biancastra, poi parve strapparla letteralmente a
metà. La
nebbia perlacea si dissolse. L’essere riprese ad avanzare.
Era a meno di
quattro metri. Il suo compagno era poco più indietro, ma non
sembrava avere
fretta: dovevano aver deciso silenziosamente che toccava al primo
nutrirsi con
le mie emozioni.
Maledizione,
non era abbastanza
potente! Mi serviva un ricordo migliore, qualcosa di più
efficace! Scavai a
fondo nella mia mente sempre più obnubilata dalla
sofferenza, ma stava
diventando un’impresa quasi impossibile. Qualsiasi esperienza
piacevole,
qualsiasi bel momento avessi vissuto dall’altra parte era
inutile: facevano
parte di un passato perduto, e proprio la sua scomparsa li rendeva
inefficaci,
non mi avrebbero aiutato in quel mondo. Restavano solo i mesi ad
Hogwarts, ma
c’era qualcosa di abbastanza felice in quel periodo da
potermi salvare?
Una
illuminazione mi colpì: il mio
primo incantesimo nella classe della McGrannitt! Quanto mi ero sentito
entusiasta e soddisfatto di me stesso quando il porcospino si era
regolarmente
trasformato in un puntaspilli e mi ero reso conto di possedere davvero
la
magia? Poteva essere sufficiente?
Concentrandomi
con tutte le mie
residue forze sulle sensazioni che avevo provato, urlai di nuovo: “Expecto
Patronum”!
La
nebbia uscì dalla punta della
bacchetta, ma seppi subito di aver fallito ancora: sembrava addirittura
più
vacua e indistinta della precedente, e mi stava letteralmente
risucchiando. Il
Dissennatore più vicino si arrestò di nuovo, ma
dopo neanche due secondi spostò
con una mano coperta di croste il mio patetico tentativo di Patronus e
tornò a
dirigersi verso di me.
Ero
spossato, distrutto, quasi
annientato. Solo il tronco dell’albero mi consentiva di
rimanere in piedi.
Seppi di essere condannato: dubitavo di avere le forze per ritentare, e
comunque a cosa sarebbe servito? Avevo fallito. Nella mia mente la
scena
dell’incidente fu sostituita da una lapide bianca, mentre una
voce priva di
corpo mi sussurrava: ‘Tu sei morto, Joshua Carter’.
A
due metri di distanza l’essere
sollevò le braccia, afferrò falde del cappuccio e
lo tirò indietro. Un terrore
impossibile da descrivere mi avvolse: era cieco, una pelle
dall’aria putrefatta
si tendeva su due orbite vuote. Sotto, una bocca simile ad un buco
informe,
spalancata a risucchiare l’aria in un rantolo. Presi a
tremare in maniera
incontrollata: non voleva solo nutrirsi delle mie emozioni, voleva
letteralmente distruggermi, divorare la mia anima. E io non potevo
farci
niente.
L’essere
orribile si tese verso di
me, l’antro cavernoso della bocca che sembrava spalancarsi
come un abisso. La
mia vista si stava rapidamente offuscando, stavo rischiando di svenire,
ma
compresi che avrei visto abbastanza da assistere all’orribile
spettacolo del
mio destino. Era finita: non solo non avrei mai più rivisto
il mio mondo
natale, ma avrei perduto anche tutto quello che avevo trovato ad
Hogwarts. I
miei amici…non avrei potuto neanche dire loro
addio… Seamus… Dean… Ginny…
Mary…
All’improvviso
l’oscurità che
avvolgeva la mia mente parve squarciarsi, e mi apparve, chiara come se
fosse
stata proiettata su uno schermo, l’immagine di Mary che mi
abbracciava sotto il
faggio davanti alla riva del lago. Sentii un’ondata di calore
salirmi lungo la
schiena: il freddo si attenuò, e una grande
serenità mi avvolse. Poche ore
prima non me ne ero reso veramente conto, ma l’importanza di
quel momento aveva
letteralmente spazzato via ogni altra cosa accaduta da quando avevo
ripreso i
sensi all’interno dell’infermeria. Forse mi ero
sentito per la prima volta a
casa sul campo di Quidditch, ma era stato l’affetto di Mary a
farmi capire la
cosa più importante: che se anche non fossi mai riuscito a
tornare nel mio
mondo, non sarebbe stata la fine di tutto, perché
c’era una vita vera per me in
quel magico universo. Non era una vacanza, non era neanche una
missione: era
una svolta. Forse non avrei mai dimenticato ciò che avevo
lasciato, ma i
sentimenti sinceri di Mary mi avevano fatto comprendere cosa avevo
trovato. E
non avevo nessuna intenzione di lasciarmelo strappare via dal demone
che avevo
di fronte!
Con
una determinazione che non
credevo più di possedere, alzai per la terza volta la
bacchetta, la sensazione
di calore che mi correva lungo il braccio. Il Dissennatore era talmente
vicino
che la punta quasi lo toccava.
“EXPECTO PATRONUM!”.
La
creatura venne letteralmente
sbalzata indietro, volò per alcuni metri e cadde
violentemente di schiena,
mentre un’ondata di energia perlacea lo colpiva con la forza
di un treno merci.
Questa volta non era solo una nebbia informe: a toccare terra fu un
animale,
straordinariamente ben definito. Stupefatto, mi resi conto di avere
davanti un
grande lupo d’argento, le zampe eteree ben piantate sul
terreno, il pelo ritto
sulla schiena, le zanne snudate contro i due mostri in un silenzioso
ringhio di
minaccia.
Il
Dissennatore appena atterrato
cercò di rialzarsi, ma il lupo lo assalì
immediatamente, scagliandolo al suolo
per la seconda volta. La creatura sembrò decidere di averne
abbastanza: non
appena riuscì a sfuggire ai denti dell’animale, si
allontanò fluttuando. Il
lupo si voltò verso il secondo Dissennatore, ma quello non
sembrava avere
alcuna voglia di affrontare le sue zanne: dopo una breve esitazione,
seguì il
compagno in direzione del lago. Il Patronus rimase immobile per qualche
istante, poi trotterellò verso di me con fare rassicurante e
lentamente si
dissolse.
Scivolai
in ginocchio,
improvvisamente svuotato da ogni energia. Il mio corpo
iniziò a sussultare:
sarebbe stato difficile dire se stessi piangendo o ridendo. Il sollievo
mi
invase: ero vivo! Senza neanche saperlo, Mary mi aveva salvato: io
ormai mi ero
arreso, era stato il suo sincero amore di ragazzina a restituirmi la
volontà di
combattere, e allo stesso tempo a darmi i mezzi per farlo. Avvertii una
potente
sensazione di orgoglio: ero riuscito a produrre un vero Patronus,
un’impresa
che perfino molti maghi adulti non riuscivano a compiere! Ero a dir
poco fiero
di me stesso.
Ero
talmente felice che impiegai qualche
istante per rendermi conto che il freddo non era completamente sparito:
lo
avvertivo ancora, anche se lontano e debole. Alzai gli occhi, e
ciò che vidi mi
apparve come un incubo: Dissennatori, a decine, forse centinaia.
Strisciavano
attraverso gli alberi, silenziosi come fantasmi, tutti diretti verso la
sponda
del lago. Non sembravano avermi notato, o se lo avevano fatto si erano
disinteressati a me. Per un attimo pensai che potessero addirittura
essere
spaventati, che i loro due compagni avessero riferito ciò
che avevo fatto, poi
ogni riflessione scomparve di fronte ad una fondamentale domanda: dove
diavolo
stavano andando i mostri neri? Poi, quasi in risposta al dubbio
inespresso, un
uggiolio si levò sopra il silenzio della foresta: un cane
che soffriva, più
avanti, nella direzione verso la quale si stavano muovendo i
Dissennatori.
Un
pensiero folgorante mi
attraversò: Sirius Black! Non ebbi bisogno di farmi altre
domande, non mi
chiesi se era veramente il caso di fare una cosa del genere, quante
forze mi
rimanessero, se avessi degli istinti suicidi malamente repressi. Non
attesi
neanche di sentire l’opinione della
‘voce’, ammesso che ne avesse una:
semplicemente, cercando di non farmi notare e allo stesso tempo di
muovermi
alla massima velocità possibile, mi mossi verso il lago,
pregando di arrivare
in tempo.
Ecco
qui, miei
cari lettori. Come promesso, siamo tornati all'azione. Spero veramente
che
questo capitolo vi sia piaciuto, personalmente aspettavo di scriverlo
da quando
ho iniziato questa fiction! Vi chiedo per favore di farmi sapere cosa
ne
pensate! Alla prossima!
|
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Capitolo 14 *** Capitolo Tredici - Epilogo ***
Capitolo
tredici
- Epilogo
Raggiunsi
la sponda del lago,
nascondendomi dietro ad un albero nella speranza che i Dissennatori non
si
accorgessero di me prima che fossi pronto, e mi sporsi di lato.
Compresi
immediatamente quanto la situazione fosse grave: le linee dei mostri
erano
chiuse a cerchio intorno ad un piccolo spazio a breve distanza
dall’acqua, a
non più di una ventina di metri da me. Nella luce della
luna, resa
innaturalmente fioca dai poteri dei Dissennatori, riconobbi
immediatamente le
tre persone che lo occupavano: Black ed Hermione erano a terra,
apparentemente
privi di sensi. Harry, invece, era in ginocchio, ma continuava
disperatamente a
lottare. Lo sentii mormorare “No…è
innocente…” prima di lanciare un Patronus
nebuloso,
che fermò brevemente il Dissennatore più vicino.
Quello provò brevemente a
spostarlo, prima di alzare le braccia e togliersi il cappuccio,
mostrando
l’orrendo volto. Il Patronus scomparve. Harry
crollò, cercando di afferrare il
braccio di Black. L’orrore lo girò sulla schiena,
afferrandolo al collo, pronto
a baciarlo.
Non
attesi più. Saltai fuori dalla
protezione dell’albero. Sentivo ancora il gelo causato dalle
creature, e la
scena dell’incidente ancora si ripeteva nella mia testa, ma
tutto era lontano,
indefinito, sopportabile. Forse perché non erano concentrati
su di me, forse
perché in quella seconda occasione sapevo di essere in grado
di affrontarli, il
loro effetto sembrava essersi ridotto di molto. Richiamando alla mia
mente il
volto di Mary e il calore del suo abbraccio, mentre alcuni
Dissennatori, accortisi
della mia presenza, si voltavano nella mia direzione, alzai la
bacchetta ed
urlai con tutto il fiato che avevo in corpo: “Expecto
Patronum”.
La
mia voce risuonò stranamente
potente, rimbombando sull’acqua del lago come se fosse giunta
da più direzioni
diverse. Il lupo eruppe dalla punta della mia bacchetta e subito si
avventò
sulle creature, scompaginandole, gettandone diverse a terra,
obbligandone altre
alla fuga. Ne vidi uno fluttuare rapidamente verso la sponda, nel
tentativo di
allontanarsi dalle sue zanne… solo per essere colpito alla
schiena da un paio
di corna d’argento ed essere violentemente scagliato in aria.
Strabiliato,
spalancai gli occhi: il
mio lupo non era il solo Patronus in azione, c’era un altro
animale perlaceo
che stava combattendo contro i Dissennatori. Impiegai qualche istante
per
distinguerne chiaramente le fattezze, poi compresi di avere di fronte
un
gigantesco cervo argenteo. I due sembrarono non considerarsi neanche:
continuarono semplicemente ad aggredire i demoni di Azkaban, che ben
presto
ruppero definitivamente i ranghi, ritirandosi velocemente
nell’oscurità.
Galleggianti sulle acque del lago, rimasero solo i due Patroni, uno di
fronte
all’altro. Con la coda dell’occhio, vidi Harry
collassare, definitivamente KO,
ma in quel momento tutta la mia attenzione era concentrata sulla
stranissima
scena. Con un pensiero assurdo, ricordai che, se i due animali fossero
stati veri,
sarebbero stati due nemici naturali. In quella strana condizione, che
sembrava
quasi a metà tra la realtà e il sogno, invece, si
limitavano a studiarsi con
apparente interesse. Poi accadde qualcosa che mai mi sarei aspettato:
il mio
lupo chinò la testa verso l’acqua, in quello che
era un evidente gesto di
rispetto. Il cervo rimase a fissarlo per qualche istante, poi, con mia
ulteriore sorpresa, piegò le zampe in una palese inchino di
risposta. Un
istante dopo, entrambi scomparvero.
Mentre
cercavo di riscuotermi dallo
shock, chiedendomi se fosse normale che due Patroni si comportassero in
quel
modo, una domanda molto più importante ed urgente esplose
nella mia testa: chi
diavolo aveva lanciato il cervo? Di scatto mi girai, ispezionando la
sponda in cerca
di una figura umana. Ed eccola, praticamente sulla riva opposta
rispetto alla
mia posizione: un essere umano, appena oltre gli alberi, la bacchetta
ancora in
mano. Spariti i Dissennatori, la notte era tornata chiarissima, e non
faticai a
distinguerne le fattezze.
Non
per la prima volta nelle ultime
ore, la mia bocca cedette di diversi centimetri per lo stupore: ne
avevo viste
tante in pochissimo tempo, ma quella era veramente troppo grossa!
Lanciai uno
sguardo verso le tre persone svenute vicino a me, poi di nuovo
all’uomo oltre
il lago: non era possibile, eppure…
L’altro
sembrò essersi accorto di
essere stato notato, e si voltò, sparendo tra le piante.
Immediatamente mi
lanciai in una corsa disperata, attingendo ad energie che non pensavo
più di
possedere, costeggiando il lago e scavalcando quasi in automatico
pietre e
radici: dovevo raggiungerlo, dovevo vedere, perché se avevo
ragione, stava
accadendo qualcosa di ancora più assurdo di tutto
ciò che mi ero trovato
davanti fino a quel momento. La voce nella mia testa sembrava essersi
spenta
dopo quello che era accaduto con Minus, ma era rimasta una sensazione:
anche se
davvero avevo visto quello che credevo, avvertivo l’esistenza
di una
spiegazione valida che non implicasse la Magia Oscura.
Rallentai
solo quando fui giunto quasi
al luogo dal quale era stato lanciato il Patronus. Il silenzio era
totale,
eppure qualcosa mi diceva che l’autore
dell’incantesimo non era lontano. Sollevai
la bacchetta mormorando “Lumos!”, ed
iniziai ad aggirarmi tra gli alberi
seguendo la sua fioca luce. All’improvviso qualcosa
spuntò da dietro uno dei
più grandi, e distinsi un’altra bacchetta, puntata
nella mia direzione. Alzai
anche la mia, puntandola direttamente in faccia all’essere.
Quando la luce lo
illuminò, credetti di essere sul punto di svenire: Harry
Potter, che giaceva
svenuto a qualche centinaio di metri di distanza, era anche di fronte a
me, il
volto deformato da una smorfia di assoluto stupore. A completare il
quadro,
distinsi dietro di lui Hermione, che avevo lasciato al suo fianco
dall’altra
parte del lago, altrettanto priva di sensi, che mi fissava spaventata e
che
reggeva una corda legata al collo di un grosso animale. Quando
riconobbi
Fierobecco, l’Ippogrifo che avrebbe dovuto essere morto ormai
da diverse ore,
credetti che la mia mente avesse sul serio ceduto, e di essere
completamente
impazzito.
“Josh!
Che ci fai qui?” mi chiese Harry.
“Non
osare muovere un solo muscolo!”
ringhiai. Era una reazione abbastanza inevitabile: vero era che avevo
di fronte
un amico, ma era altrettanto vero che avevo appena visto lo stesso
amico da
tutt’altra parte, quindi una certa vigilanza era
comprensibile.
Il
ragazzo ripose la bacchetta sotto
la veste e mi mostrò i palmi delle mani aperte. Io non
abbassai la mia.
“Josh,
stai calmo per favore… non mi
riconosci? Sono Harry…” mormorò con
voce conciliante.
“Io
ho appena visto Harry Potter
svenuto dall’altra parte del lago – dissi con
decisione – quindi ti conviene
avere una spiegazione convincente per giustificare il fatto che sei
qui!”.
L’altro
sembrò riflettere per qualche
secondo, poi si voltò verso la ragazza che sembrava
Hermione, la quale annuì
stancamente, poi, muovendosi con estrema lentezza, probabilmente per
non farmi
sembrare che volesse compiere un gesto aggressivo, estrasse dalla veste
una
lunga catenella d’argento che portava appesa al collo, in
fondo alla quale era
appesa una piccola clessidra dello stesso materiale.
Hermione
sospirò, poi disse: “Questa è
una Giratempo. Permette di tornare indietro nel tempo di qualche ora.
La
McGrannitt me l’ha data all’inizio
dell’anno per permettermi di seguire tutte
le lezioni, e Silente ci ha autorizzato ad utilizzarla per rimettere a
posto la
situazione. In questo momento – e indicò in
direzione dell’altra sponda del
lago – Piton sta portando ‘noi’ e Sirius
al castello. Tra qualche minuto noi
saremo in infermeria, e lui rinchiuso nell’ufficio del
professor Vitious, in
attesa che il ministro Caramell vada a chiamare un Dissennatore per
eseguire il
Bacio sul posto! Silente ha creduto alla nostra versione, ma non
potendo fare
nulla per convincere gli altri dell’innocenza di Sirius, ci
ha permesso di
utilizzare la Giratempo per salvarlo. Siamo tornati a prima
dell’esecuzione di Fierobecco,
lo abbiamo fatto scappare e intendiamo utilizzarlo per far fuggire
Sirius dalla
finestra, per poi volare via con lui”.
“Prima…o
meglio, adesso… oh, al
diavolo, è lo stesso! – si inserì Harry
- Insomma, mentre stavo per svenire ho
visto qualcuno lanciare un Patronus… cioè, solo
ora mi rendo conto che erano
due, ma io ho visto solo il cervo. Ho creduto che fosse stato mio
padre... sono
venuto a vedere, e ho capito di aver visto me stesso, quindi
l’ho lanciato.
Solo dopo ho visto che c’eri anche tu”.
Impiegai
qualche secondo per rendermi
conto che aveva finito la rapida spiegazione: era la storia
più assurda che
avessi mai sentito, tanto folle da poter essere vera. Mi resi conto che
non
importava che sembrasse il delirio di un pazzo: il ‘Senso di
Ragno’ si stava di
nuovo facendo sentire, confermandomi che era la verità.
Abbassai
la bacchetta: “Va bene, vi
credo”.
“E
adesso, se non ti dispiace,
potresti rispondere alla mia domanda? – mi incalzò
Harry, ancora sorpreso – Che
diavolo ci fai qui fuori? Sei stato tu a lanciare il Patronus lupo?
Come facevi
a sapere che eravamo nei guai?”.
Rimasi
in silenzio per
qualche secondo, chiedendomi quanto dovessi rivelare. Rammentai a me
stesso che
Harry non era uno sciocco, e che Hermione lo era ancora meno. Non
avrebbero
creduto a nulla che non avesse contenuto un’ampia porzione di
verità.
Alla
fine, mi decisi: “Vi
ho seguito. Per quasi tutta la sera”.
I
due ragazzi
strabuzzarono gli occhi: “Cosa?” chiesero
praticamente in coro.
Verità
mischiata a qualche
piccola omissione, era quella la migliore opportunità:
“Sono sgattaiolato fuori
dalla scuola per raggiungere la capanna di Hagrid, ma troppo tardi, voi
stavate
già tornando. Ho visto Sirius aggredirvi nel parco e
trascinare Ron nel Platano
Picchiatore. Vi ho seguito lungo il passaggio segreto, fin dentro la
Stamberga
Strillante, e sono rimasto per tutto il tempo nascosto fuori dalla
camera. Ho
sentito tutto: so di Black, di Lupin… e di Minus. Quando
è fuggito nel parco ho
anche provato ad inseguirlo. Ero perfino riuscito a catturarlo, ma due
Dissennatori ci hanno aggredito, e lui ne ha approfittato per darsela a
gambe. Sono
riuscito a respingerli, poi ho sentito Sirius uggiolare sulla riva del
lago, e
sono corso da quella parte. Ho lanciato il mio Patronus esattamente
quando hai
lanciato il tuo dall’altra parte. Bel cervo, tra parentesi!
– ridacchiai –
Suppongo che tu sia rimasto sorpreso quanto me quando si sono fatti
quell’inchino a vicenda! Comunque, dopo che i Dissennatori se
ne sono andati ti
ho visto, ti ho riconosciuto e… beh, ovviamente sono corso a
vedere cosa stesse
succedendo!”.
Harry
rimase immobile
anche dopo la fine della mia esposizione, il volto completamente
esterrefatto.
Voltando la testa, vidi il volto di Hermione, e una lieve punta di
preoccupazione
mi attraversò la mente: lei sembrava più che
altro incredula, come se qualcosa
non le tornasse per niente. Scartai la sensazione di allarme,
promettendomi
casomai di analizzarla in seguito. Mi rivolsi nuovamente verso Harry:
“Mi
dispiace di essermi fatto scappare quel maledetto assassino”
dissi, cercando di
riportare la conversazione su un binario più sicuro.
Lui
scosse la testa: “Non
è colpa tua. Avrei dovuto lasciare che Sirius e Lupin lo
uccidessero, ho
commesso un errore. Da morto sicuramente non sarebbe riuscito a
scappare”
borbottò con rabbia.
“Non
pensarlo neanche,
amico – ribattei, ricordandomi che neanche io ero riuscito ad
ammazzare Minus
quando ne avevo avuta l’occasione – Tu non sei come
lui, hai fatto la scelta
giusta”.
Harry
scosse la testa:
“No, tu non capisci… - disse, improvvisamente
quasi spaventato – Questo
pomeriggio ero a fare l’esame di Divinazione. La Cooman
è caduta all’improvviso
in una sorta di trance… non come al solito, sembrava una
cosa seria stavolta… e
ha recitato una profezia. Ha detto che stanotte il servo più
fedele di
Voldemort sarebbe fuggito dalla sua prigionia, che avrebbe raggiunto il
suo
padrone, e che questo avrebbe permesso al Signore Oscuro di tornare,
più grande
e terribile che mai! E stanotte Minus, il servo di Voldemort,
è riuscito a
fuggire! Io gli ho permesso di fuggire! E adesso…”.
Dovetti
lottare per non
crollare al suolo, tanto le ginocchia avevano iniziato a tremarmi:
l’orrenda coincidenza
tra la profezia della Cooman e le parole della Voce mi aveva lasciato
completamente senza fiato. Il mio stato alterato doveva essere
evidente, perché
Harry se ne accorse immediatamente: “Josh, stai
bene?” mi chiese con preoccupazione.
Scossi
la testa nel
tentativo di snebbiarla: “Sì, scusa, ho avuto un
piccolo capogiro. E’ tutta la
sera che corro da una parte all’altra… - poi, non
credendo minimamente alle mie
stesse parole, aggiunsi: “Non preoccuparti, amico. Lo sanno
tutti che la Cooman
è solo una ciarlatana! Tu hai fatto la cosa giusta a non
permettere agli amici di
tuo padre di macchiarsi di un omicidio”.
Harry
annuì, anche se non
sembrava molto convinto. Aprì la bocca come per farmi
qualche altra domanda, ma
venne interrotto da Hermione: la ragazza mi fissò per un
istante con
espressione ancora scettica, poi disse: “Dobbiamo andare,
Harry. Abbiamo solo
pochi minuti per raggiungere la finestra dell’ufficio di
Vitious, far uscire
Sirius e tornare in infermeria prima che Silente
‘ci’ chiuda dentro”. Mentre il
ragazzo annuiva, lei mi lanciò un ultimo sguardo, che
sembrava promettere una
futura conversazione non particolarmente gradevole, ma sul momento a
malapena lo
notai.
“Tu
non ci hai visto, va
bene? – mi disse Harry – Parleremo meglio
domani”.
Costrinsi
le mie labbra a posizionarsi
per formare un piccolo ghigno: “E voi non avete visto
me!” risposi.
Il
ragazzo sorrise, e si
allontanò dietro ad Hermione e Fierobecco, in direzione del
castello.
Rimasi
bloccato per qualche istante, nel disperato tentativo di rimettere
ordine nei
miei pensieri. Non riuscivo a togliermi dalla testa le parole che avevo
sentito,
parole che sembravano un accusa diretta contro di me: ‘Il
Signore Oscuro
tornerà, più grande e terribile che
mai’… ‘L’oscurità
calerà su tutto quello
che hai imparato ad amare’… e quella sera Minus
era riuscito a fuggire, grazie
ad Harry… e a me.
Chiedendomi
se avessi commesso, come ero sempre più convinto di aver
fatto, il più grande
errore della mia vita, gettai nuovamente su me stesso
l’Incantesimo di
Disillusione e mi avviai verso il castello, per sgattaiolare nuovamente
all’interno.
“Posso
parlarti un secondo, Josh?”.
La
voce di Hermione mi colse completamente di sorpresa: erano passati
quattro
giorni dalla fatidica notte, le lezioni e gli esami erano ormai finiti,
ed io
stavo passeggiando senza una meta vicino al lago, la testa
miracolosamente
sgombra da pensieri. Con i Dissennatori che finalmente erano stati
allontanati
dal castello, avevamo riconquistato un po’ di
libertà.
Vidi
la ragazza che si avvicinava. Era la prima volta che mi rivolgeva
realmente la
parola dopo il nostro incontro notturno: non aveva aperto bocca neanche
la
mattina dopo, quando Harry era venuto a dirmi che erano riusciti a far
fuggire
regolarmente Sirius, e si era fatto raccontare la versione integrale
delle mie
vicissitudini, cosa che io avevo fatto, sia pure con qualche
trascurabile
correzione ed aggiustamento, come eliminare completamente il contributo
della
Voce. Hermione aveva ascoltato tutto in silenzio, uno sguardo
pensieroso dipinto
in volto. Uno sguardo molto diverso da quello che mi stava presentando
in quel
momento.
Dal
canto mio, a mala pena lo notai. Gli ultimi quattro erano stati giorni
molto
difficili: la profezia della Cooman e le parole della Voce continuavano
a
rimbalzarmi in testa, accompagnate da un diffuso malessere e da un
acuto senso
di colpa. Una distrazione era più che gradita:
“Certo, Hermione. Dimmi pure” le
risposi, quasi distrattamente.
“Ho
una domanda da farti, e ti chiedo di rispondermi con
sincerità: chi sei tu?”.
“Come?”
le chiesi con sorpresa, le antenne improvvisamente sollevate. Un
campanello
d’allarme iniziò a suonare nella mia testa: se
chiunque altro mi avesse fatto
una domanda simile, probabilmente mi sarei semplicemente messo a
ridere,
pensando ad uno scherzo, ma davanti a me c’era Hermione
Granger, e questo
significava che con ogni probabilità ero in grossi guai.
“Ti
sto chiedendo, Joshua Carter, chi sei tu?” insistette
Hermione, senza
scomporsi.
“Ehm…Joshua
Carter, forse?” risposi con un sorriso, nel disperato
tentativo di fare
dell’ironia. Sfortunatamente, sapevo fin troppo bene che non
sarebbe servito a
nulla.
“E
chi altro sei? – ribatté lei, con sguardo deciso
– O forse dovrei chiedere che
cos’altro sei?”.
“Perdonami,
Hermione, ma non riesco a capire cosa stai dicendo” tentai di
svicolare,
consapevole di essere finito in un angolo e di non avere la minima idea
di come
uscirne.
“Oh,
io credo che tu abbia capito perfettamente –
continuò Hermione, penetrante – Sono
mesi ormai che mi faccio delle domande su di te, sai? Ho iniziato ad
avvertire
che qualcosa non tornava quando mi hai consolata dopo la mia lite con
Ron: ci
sono ragazzi più maturi di altri, più saggi di
altri, ma il modo nel quale mi
hai parlato, come ti sei comportato… mi ha lasciato una
strana sensazione, come
se ci fosse qualcosa di fuori posto. Poi c’è stata
la tua piccola avventura notturna
con Sirius: chi di noi si sarebbe messo ad inseguire un uomo che
conoscevamo
come un pluriomicida psicopatico? Harry è coraggioso, a
volte ai limiti
dell’incoscienza, ma credo che perfino lui non ne avrebbe
avuto il coraggio.
Nessun normale ragazzo di tredici anni lo avrebbe fatto”.
Deglutii,
cercando di non farlo notare: senza forse rendersene conto, Hermione
stava
pericolosamente girando intorno alla verità. Quando avevo
inseguito Sirius
Black, non mi ero posto il problema di ciò che gli altri
avrebbero potuto
pensare. Nelle settimane successive, mi ero convinto che tutti lo
avessero
registrato solo come il gesto avventato di un ragazzo, ma a quanto
pareva,
qualcuno ci aveva riflettuto in maniera più approfondita.
Spietatamente,
Hermione proseguì nella demolizione del mio castello di
carte: “Poi c’è stato
il tuo scontro con Nott di quattro giorni fa. Mary mi ha raccontato
tutto non
appena è tornata al castello, mi ha praticamente impedito di
finire il mio
ripasso di Babbanologia – la sua espressione decisa si
trasformò brevemente in
un sorriso – Quella ragazza tiene moltissimo a te, credo te
ne sia accorto.
Vederti combattere in quel modo con Nott l’ha spaventata a
morte: mi ha detto
che in quel momento non era in grado di riconoscerti, che sembravi
un’altra
persona. Ha detto di averti visto usare degli incantesimi che non
conosceva.
Sono andata a controllare: un Incantesimo Scudo, un Incantesimo
d’Urto da
combattimento… non si insegnano fino al quinto anno, e tu li
hai usati come se
li conoscessi da sempre! Non è questo però che mi
ha colpito: ti ho visto in
classe, sei abile, e tuo padre, se non sbaglio, in America è
un Auror. Potresti
aver letto qualcosa nei suoi libri ed essere stato in grado di ripetere
gli
incantesimi che hai scoperto. Mary, però, mi ha detto che
hai infierito su
Nott, con una durezza che faceva fatica a descrivere, e di essere
sicura che,
se non ti avesse fermato, gli avresti fatto veramente del
male”.
Mi
tremavano le mani. Sapevo di dover trovare una risposta, Hermione era
troppo
sveglia per accettare delle semplici scuse, ma ero completamente
inebetito.
“Mi
è sembrato veramente strano: ti conosco ormai, Joshua, so
che sei profondamente
buono, e faticavo perfino ad immaginarti impegnato ad umiliare
qualcuno, anche
un verme come Nott. Avevo deciso di chiederti spiegazioni, ma le
circostanze me
lo hanno impedito”.
La
ragazza prese fiato: fino a quel momento aveva parlato di getto, senza
interruzioni. Sarebbe stato il momento giusto per interromperla, per
giustificarmi, ma non avevo nulla che potesse essere minimamente
sufficiente a
fugare i suoi dubbi.
Neanche
il tempo di riflettere, ed Hermione riprese: “E veniamo
all’altra sera: ci sono
fin troppe cose che non tornano nel tuo comportamento. Intanto, il
fatto che tu
sia uscito dopo averci detto di andare senza di te, e come tu sia
riuscito a
lasciare la scuola. Hogwarts era praticamente in stato
d’assedio, e noi avevamo
il solo Mantello dell’Invisibilità esistente da
queste parti. Nessuno sarebbe
riuscito ad eludere la sorveglianza senza usare la magia. Che cosa hai
usato,
un Incantesimo di Disillusione? Che sia quello o un’altra
cosa, si tratta
comunque di magie al di là del nostro livello attuale,
neanche io sarei capace
di lanciarne uno, li conosco solo in teoria. Ma ancora una volta, hai
dimostrato di essere molto abile, quindi ipotizziamo per un attimo che
tu sia
stato capace di eseguire un Incantesimo di Disillusione al tuo primo
tentativo
e di uscire indisturbato. Perché avresti dovuto farlo? Ti
sei mosso troppo
tardi per venire da Hagrid, quindi non è per consolare lui
che hai deciso di scendere
nel parco. Come facevi a sapere che sarebbe accaduto qualcosa di
più di una
orrenda esecuzione?”.
Dovevo
essere impallidito. Sentivo di essere pallido. Avevo la gola riarsa.
Hermione
sembrava essersi trasformata in una giovane copia di Miss Marple: aveva
visto
tutto, e a quanto pareva, aveva anche collegato tutto. Ovviamente non
poteva in
alcun modo immaginare l’assurda verità, ma aveva
compreso che le cose non
stavano come in apparenza, e, fondamentalmente, mi stava incastrando.
“Anche
il tuo comportamento durante la serata è stato molto strano:
ci hai seguito e
ascoltato per tutto il tempo, senza però farti vedere
né intervenire finché il
professor Lupin si è trasformato e Minus è
fuggito. A quel punto, nonostante ci
fosse un Lupo Mannaro in giro per la foresta, ti sei lanciato
all’inseguimento.
Una decisione decisamente insolita: da solo sei andato dietro ad un
criminale tra
gli alberi, senza preoccuparti della presenza di una creatura
potenzialmente
letale! Non solo: dopo aver respinto due Dissennatori, cosa che
già di per se non
è da poco, sei venuto verso il lago e ne hai affrontati
altri cento! Noi siamo
finiti direttamente in mezzo al caos, ma tu sei andato a cercarlo! E il
tuo
Patronus… l’ho visto mentre mi avvicinavo ad
Harry, è stato incredibile! Quello
lanciato da lui è stato impressionante, ma il tuo non era da
meno! Soprattutto,
sembravi sapere quello che stavi facendo in ogni momento, mentre noi
eravamo
terrorizzati! E ancora: tu…”.
Alzai
stancamente una mano: “Va bene, Hermione. Può
bastare così – borbottai – Non
serve che continui, sono capace di capire quando sono
fregato”.
Mi
lasciai cadere a sedere con la schiena contro il tronco di un albero,
improvvisamente stremato. Hermione aveva letteralmente vivisezionato la
mia
storia, aveva trovato ogni punto disfunzionale e me lo aveva sbattuto
in faccia.
Ero in trappola: negare non sarebbe servito a nulla, era fin troppo
chiaro.
Allo stesso tempo, però, non potevo raccontarle la
verità, sarebbe stato
veramente troppo per lei. Che cosa potevo fare?
Hermione
si avvicinò e si abbassò davanti a me, piegando
le ginocchia: “Mi dirai la
verità, Joshua? Sono tua amica, e so che bella persona sei.
Ma so anche che ti
porti dietro un segreto che ti pesa sulla schiena, che ti ha fatto
uscire
distrutto dall’albero con il Molliccio, che ogni tanto sembra
trasformarti in
qualcuno completamente diverso. Chi sei veramente, Joshua
Carter?”.
Sospirai,
e un sorriso mi si dipinse sulla bocca: “Sei veramente la
strega più brillante
della nostra età, Hermione – le dissi –
Va bene, non negherò. Hai ragione, c’è
veramente qualcosa di strano in me, qualcosa di diverso da voi. Ma per
adesso,
ti chiedo di accettarmi per quello che sono, senza cercare di farmi
confessare
di cosa si tratta”.
“Josh,
puoi fidarti di me!”.
“Lo
so benissimo, Hermione. Sarei pronto ad affidarti la mia vita
– le presi una
mano e la strinsi – Non posso però affidarti
questo, non ancora almeno. E’
qualcosa di… beh, di troppo. Non dico che non capiresti,
vorrebbe dire
sminuirti, ma cambierebbe troppe cose, e non è ancora il
momento. Una cosa però
voglio dirtela: da oggi voi potete contare su di me – la
fissai intensamente –
So perfettamente quello che avete fatto al primo e al secondo anno, so
quali
cose avete affrontato per trovare la Pietra Filosofale e nella Camera
dei
Segreti, so quale nemico vi siete trovati davanti”.
Stavolta
fu lei a sorprendersi: “Come fai a saperlo? Tu non eri
neanche ad Hogwarts
allora, nessuno sa esattamente quello che è
successo!”.
“Questo
fa parte del mio segreto, quindi ti prego, non chiedermelo - continuai,
sempre
più serio – Si sta avvicinando una tempesta,
Hermione. Quello che è accaduto
avrà conseguenze enormi. Non mi domandare come faccio a
saperlo, non sarei
capace di spiegartelo neanche volendo, ma qualcosa di oscuro
è nell’aria, lo
sento avvicinarsi. Non so se sarà tra un mese o tra un anno,
ma arriverà. E
quando succederà, sappiate che sarò al vostro
fianco. Potrebbe essere il
momento nel quale saprai tutto di me. Puoi accettarlo?”.
Hermione
rimase pensierosa per qualche secondo, poi, senza lasciare la mia mano,
si
alzò, mi tirò in piedi e mi regalò uno
dei suoi abbracci spaccaossa: “Sì, lo
posso accettare”.
Risposi
con calore all’abbraccio. Più volte, nei pochi
giorni che ci separavano dalla
fine della scuola, e poi mentre preparavamo i bagagli, e ancora sul
treno,
ripensai a quel momento: era stato intenso, fondamentale. Avevo difeso
il mio
segreto, e forse il fatto che Hermione sapesse che dietro Joshua Carter
c’era qualcosa
in più di quello che diceva la vista poteva risultare
positivo. Non avevo
mentito quando le avevo detto che sentivo l’avvicinarsi di
una tempesta. Il mio
‘Senso di Ragno’ vibrava in maniera quasi costante:
il futuro era confuso,
avvolto da una fitta nebbia, ma in qualche modo sentivo che la fuga di
Minus
sarebbe stata come la caduta di un sasso che scatena una valanga in
montagna, e
questo mi lasciava delle pesanti fitte di rimorso al pensiero che forse
avrei
potuto impedire qualsiasi cosa si stesse preparando se solo avessi
avuto il
coraggio di uccidere il ratto. Ormai, però, era fatta: il
mio intervento era
andato a vuoto, ciò che il Fato aveva programmato sarebbe
accaduto. E,
inevitabilmente, al centro del caos ci sarebbero stati Harry e i suoi
amici:
per me, che sapevo in quale mondo ero finito, questo risultava
evidente. Non
ero ancora riuscito a capire quale Forza mi avesse spedito
lì, o quale ruolo sarei
stato chiamato ad interpretare da quel momento in poi, se pure ve ne
era ancora
uno, ma mentre scendevo dal treno e salutavo gli amici (Hermione mi
abbracciò
forte, mentre sul volto di Mary che si allontanava dopo avermi dato un
bacio
sulla guancia pericolosamente spostato verso la bocca credetti di
vedere una
piccola lacrima), e mentre spingevo il mio baule, sia pure con una
piccola dose
di timore, verso una donna e una bambina che si sbracciavano per
salutarmi,
avevo una certezza: qualsiasi cosa il destino avesse deciso di mettere
sulla
mia strada, non mi sarei tirato indietro. Se dovevo continuare a vivere
in
quello strano, nuovo mondo, avrei fatto tutto quello che era in mio
potere per
cambiare le cose in meglio. Difficile dire se ci sarei riuscito, se ne
avrei
avuto la forza o la fortuna sufficienti per fare la differenza, ma per
Merlino,
ero più che deciso a provarci!
Ed
eccoci arrivati, finalmente, alla conclusione di questa prima
parte della storia. Prima parte perché, ovviamente, sono
già previsti dei
seguiti, non voglio lasciarvi con il dubbio di ciò che
accadrà a Joshua e agli
altri, e di quanto cambierà la storia a causa della sua
presenza. Ho però
intenzione di cambiare un po’ la mia procedura, quindi ai
miei fedeli lettori,
che ringrazio moltissimo per la loro attenzione e la loro pazienza,
dico di
avere pazienza, perché ho intenzione di iniziare ad inserire
i capitoli del
secondo ‘libro’ solo quando lo avrò
completato. Immagino che ci vorrà qualche
mese, quindi vi dico: arrivederci, e tenete un occhio puntato qui!
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