Glicine e carta

di Eryah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Radici, sassi e memorie. ***
Capitolo 2: *** Scopo primordiale. ***



Capitolo 1
*** Radici, sassi e memorie. ***


Glicine e carta
Radici, sassi e memorie.


 



Un guizzo blu, forse violaceo o forse rosso, ondeggia sinuoso fra le scintillanti increspature scure.
Sale, sale, fino a sfiorare il velo tortuoso che circonda ogni cosa, per poi ripiombare giù, infondo dove nulla più brilla, o almeno nulla che io possa vedere.
Perché tutto è uno scrosciare di luci e riflessi, che scorrono avanti veloci nello specchio, rallentando ancor più la piccola scialuppa lignea – d’abete o magari pino, non né conosco la differenza - su cui siedo.
Non fanno che sfuggirmi i piccoli puntini che scattano casualmente da un lato all’altro della mia visuale.
Così, quasi per dispetto, porgo il mio sguardo altrove, dove di puntine luminose ce ne sono a volontà, ma immobili – o così pare – e che si lasciano senza troppa vergogna o timore, ammirare.
E di cosa dovrebbero aver paura? Che qualcuno possa catturarle?
Sarà per questo che son così lente nel loro vagare, una stella è ben più difficile da pescare-
«Circa mezz’ora signorina, circa mezz’ora le dico, ed attraccheremo» la voce stanca mascherata dal tono deciso della gola, mi distrae dalle mie annoiate constatazioni.
Ammirare un così bel paesaggio sarebbe tipico di me, se non fosse che l’acqua mi scorre incessantemente attorno da almeno mezza giornata.
«Ebbene, cosa sarà un minuto in più, o trenta?» Rispondo seccata, con la stessa ironia d’un porcospino che punge una volpe, non perché voglia farlo, ma perché costretta.
Sento il bofonchiare della figura che m’è di fronte, in piedi, ma non ne decifro il significato. Le parole si mescolano al suon del mare, che tira su e rimescola, con i soli remi.
Ben vestito, nonostante tutto, in camicia viola, e stirati pantaloni larghi, d’un grigio tipico delle Tortore, che a quest’ora pare cenere. Il volto fin troppo comune, aveva l’unico difetto d’esser rettangolare. Accentuato dalla forte luce della lanterna al mio fianco, che lo colpiva lateralmente dalla mascella sbarbata all’estremo angolo del sopracciglio scuro. Non pareva un marinaio, non lo pareva affatto, figuriamoci un pescatore di- Come li aveva chiamati? …
Non importa.
Un rivolo d’aria mi si para davanti, come fosse il fumo d’un sigaro che si consuma, disperdendosi dopo pochi attimi nella brezza salata.
Due monete d’oro aveva chiesto, ed io ancora sono qui, seduta fra reti e strani aggeggi appuntiti di dubbia origine, a navigare verso le cascate gelide di Akrial, il cui suono – fortunatamente – inizia a farsi più intenso alle mie spalle.
Mezz’ora aveva detto, ma dal gran rumore che sento saranno poco meno di quindici minuti. Sebbene in quei quindici minuti avrei già dovuto essere fra le coperte calde, in attesa di spegnere una candela sul comò al mio fianco.
Ah, il tempo, quale misteriosa creatura, che non avrebbe dovuto essere per un uomo d’acqua salata.
Ma non sono affari miei. I miei affari invece son proprio dietro di me. Fra le punte di mattoni e le arcate illuminate, lì in alto. A sovrastare il variopinto porto d’un pittore, e le rocce muschiose del suo collega paesaggista.
Generata dai figli del signore dell’oceano, che s’erano stancati d’esser perennemente bagnati, o magari dai più grandi architetti elfici, non importava chi avesse posto il primo mattone, Akrial è oramai un punto fisso per ogni viaggiatore ed avventuriero che si volesse ritener tale. Un’intera città sulle alte coste, una giuntura fra terra e mare, alcuni direbbero anche il cielo, ma non credo di potermi trovar d’accordo. Ho visto torri più alte, e sentito il peso di molte più scale.
Nonostante ciò, vi sono molti altri titoli di cui potersi vantare, uno di questi è il mercato più grande dell’intero impero centrale. L’altro, è il ponte che collega Akrial con la Capitale.
Uno degli unici due passaggi ancora esistenti per la città più importante e prestigiosa mai esistita. O così direbbe qualcheduna delle mie conoscenze, causando una serie di opinioni contrastanti in altre delle tante facce che conosco e ricordo.
«La capitale» rantolo appena, spostando il peso del mio corpo verso i bordi della barca. Osservando in lontananza quel prato, dai colori spenti dalla notte, che prende a mischiarsi con radici, sassi e memorie.

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Capitolo 2
*** Scopo primordiale. ***


Glicine e carta
Scopo primordiale.


 


Un fischio nelle orecchie, il mormorio del vento che diventa un freddo e grottesco grido che punge le dita.
L’oscurità si trasforma in luce, una luce intensa che colpisce ogni cosa, distruggendo ogni figura, per poi ricomporla poco dopo, in lievi fasci plumbei. Sfocando ogni curvilineo tratto dell’immenso cielo e delle sue sorelle cariche di malinconia e rimprovero.
Posso sentirne il pianto, posso sentirlo sulla mia pelle. Scivola lungo la fronte, segnandola con un tocco ben più delicato dell’insistente fiato che soffia sul collo, e sprona anche le radici del signore non più verde quassù.
Congiungo il mio affanno a quello dell’incombente tempesta, e si tinge di magia tutto ciò che ci sovrasta,  maestro.
Lo senti?
Lo senti. Come lo sente la formica.
Come lo sente la roccia sulla quale prosegue, cercando rifugio dalle lacrime rumorose delle vergini violate.
Piangono per te, o forse per me, inesperta sciocca, guardiana del tuo tempio che però non mi desidera affatto. Dell’albero oramai quasi nudo, e della sua corteccia graffiata. Delle sue radici che sorreggono ancora il peso di questo vecchio strapiombo, per quanto ancora solo nostra madre lo sa.
Qualcosa di lontano, qualcosa che oramai non temo più, non più del tuo giudizio, maestro.
E porgo le lanose orecchie bianche verso il grido mattiniero; Le voci, che salutano da giorni addietro questo luogo, sostituendosi a te, senza riuscire ad imitarne il calore, ma solo la fermezza.
Dimmi, la senti ancora la corsa dell’acqua? La sorella che cerca di battere il vento, nella loro continua gara. E dimmi, parli ancora con i rapaci della loro ultima danza?
Se si, dimmi…
«Maestro, cosa voler dire infe, inferi, inferiore?» Il profumo di fiori freschi è forte, e mi pizzica un po’ il naso a star così vicino ai suoi ciuffi aggrovigliati.
Così, sposto il volto verso un incavo liscio, dove le Primule si sentono un po’ meno, mischiandosi all’odore della carne.
Percepisco un movimento brusco, ma non cado, trattenuta dalle sicure braccia, come gli alberi che trattengono il vecchio terreno. Nonostante ciò mi stringo verso la mia roccia, mentre la coda mi dondola ad ogni passo un po’ inquieta.
Mi piace farmi trasportare come un piccolo sacco di legna, ma a volte mi è difficile concentrarmi sulle giuste parole quando passeggiamo. Tutto diventa confuso, ci sono così tanti colori da ricordare, tanti nomi e tante domande che vorrei fare, senza sapere come.
«Per noi non significa nulla» sento la sua figura ingobbirsi, come le scimmie vivaci che ho visto scivolare fra le fronde folte e spesse. Adesso vuote prive di ogni movimento, che non sia il ciondolare dovuto al venticello.
Avvicino la mia smorfia alla sua spalla, celandola dietro la moltitudine di simboli scuri e circolari che si fondono con la sua pelle ambrata. E che nascondono a loro volta chissà quale significato, in una lingua mai anche solo immaginata.
Si accorge della mia delusione, lo nota sempre quando qualcosa non va. Sente me, così come le scimmie, così come le foglie. Ed ogni volta che lo sente, lui parla. Parla così tanto, in così tante forme diverse, che le sue parole diventano il suono che preferisco, qualsiasi esso sia. Il suono che riconosco, anche se raramente capisco.
«Ricorda ‘Rai, tutti hanno uno scopo, bisogna solo capire quale.»
Scopo, lo dice così solenne, ma vorrei capire cosa significa avere uno scopo.
Ed invece capisco solo che un Bucaneve è un bucaneve, mentre una Lepre è una lepre. Capisco solo che quando non piove, ciò che mi circonda s’indebolisce, e che quando qualcosa s’indebolisce, muore.
Ma la causa non sempre è l’assenza della pioggia, o così ricordo.
«‘Rai… ha- quale scopo?»
Strofino due delle bianche ed affusolate dita sul suo braccio, dove linee color fuoco s’incrostano ogni giorno di più come la cenere appena bruciata, tranciando ed interrompendo le sconosciute parole marchiate, che narrano chissà quale racconto.
Non lo vedo sorridere, ma credo lo stia facendo, e divento gelosa del tronco appena passato che deve sicuramente averlo visto, con i suoi circolari e scuri occhi fatti di legno. Scuri come quelli che non vedo. Ma sento. Sento che mi stanno prestando attenzione, pur non guardando me, ma il lontano albero sul verdeggiante dirupo.
«Lo troverai prima o poi, ne sono sicuro.»


Perché non mi ascolti, né parli con me?


Non ricordo come, ma credo di averlo perso per quello in cui credeva.
Poggio la piccola e dura nocciola intagliata ad occhio, sotto la pila di sassi, piantati come boccioli nel terreno oramai umido.
Le cordicelle, figlie dello stesso albero che mi dà le spalle, scivolano dalle mie grinfie, mescolandosi con il loro ciondolo nel fango.
Quando mi alzo, il vento fratello tumultua per l’ira del padre, e rimbomba nella mia testa. Dissolvendosi nel vuoto ancestrale.  E lo stesso fango, scorre dalle ginocchia come fosse argento.
Non il tuo, ma il mio sangue.

Un giorno ricorderò, e quel giorno parleremo ancora una volta.
Perché è questo il mio scopo, maestro.

 

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