Heart Shaped Scar

di Lady Mnemosyne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cadillac Life ***
Capitolo 2: *** Fighting with Myself ***
Capitolo 3: *** Follow Me Down ***
Capitolo 4: *** Long Way to Go to Die ***
Capitolo 5: *** Cheers ***
Capitolo 6: *** Let Me Kill the Pain ***
Capitolo 7: *** When I'm over You ***
Capitolo 8: *** Dreamcatcher ***
Capitolo 9: *** Shut You Out ***



Capitolo 1
*** Cadillac Life ***


1. Cadillac Life


Si svegliò di soprassalto, strappata a forza dalle tiepide braccia di Morfeo da un fracasso di vetro che va in frantumi, di modo tale che si ritrovò seduta senza neanche accorgersene. Indirizzò intorno gli occhi innaturalmente mobili, finché non chinò la testa e distinse al suo fianco i cocci di quella che poco prima era una bottiglia.
“Oh” pensò apatica, ancora troppo assonnata per provare una qualsivoglia sfumatura di emozione “Devo essermi addormentata con la bottiglia in mano, di nuovo…”
Distolse lo sguardo e si stropicciò gli occhi, nella vana speranza di dissipare l’annebbiamento post-sbronza. Poteva sentire il rombare sordo delle auto e, in lontananza, i fischi dei treni che salutavano la stazione: la città era già sveglia.
Guardò stancamente il grande orologio appeso alla parete, proprio di fronte a lei: “Giusto il tempo di farmi una doccia e uscire” constatò. Così buttò giù di peso le gambe dal divano, evitando accuratamente i vetri, e con un possente sforzo di volontà si tirò in piedi, stiracchiandosi leggermente.
Gustò goccia a goccia il caffè prima di uscire, affacciata ad una delle grandi vetrate a guardare il cielo schiarirsi piano piano, arrancare dal nero violaceo della notte deturpata dalle luci della città al grigio-bianco del giorno. Appoggiata la tazzina sul primo piano orizzontale che le si presentò davanti, afferrò le chiavi e uscì.
Camminava con il suo passo strano, veloce ma a grandi falcate (a dispetto della statura non così elevata), le mani spinte in fondo alle tasche e la mente libera, perché quella strada l’aveva percorsa talmente tante volte che le gambe non avevano bisogno di una guida. Appoggiava pigramente lo sguardo qui e là, beata di non aver alcun pensiero che le passasse per la testa: sull’insegna spenta di un albergo, sulle placche dorate dei citofoni in una vetrina, su una foglia che rotolava a scatti sul marciapiede di fronte a lei. Si godeva quei primi beati minuti di veglia, quando ancora non hai parlato con nessuno, non hai avuto un contatto diretto con un’altra persona (escluso forse il riflesso che ha restituito lo specchio), quindi, per quanto ne sai, potrebbe tranquillamente essere ancora tutto un sogno e questo basta come pretesto per tutelare per qualche altro minuto la mente dalle mille preoccupazioni e problemi della veglia. Ascoltava ripetersi nella sua mente la canzone con cui quella mattina si era svegliata, accompagnandola ogni tanto con un leggero fischiettio, che a tratti faceva voltare con aria perplessa qualche passante estremamente di fretta avvolto nel proprio elegante cappotto. Lei neppure se ne accorgeva, racchiusa nella sua effimera bolla di spensieratezza, e procedeva imperturbabile.
Salì saltellando i gradini del grande scalone dell’Accademia e accarezzò di uno sguardo ammirato le statue che campeggiavano in cima ai corrimani, poi svicolò in uno dei corridoi e sparì in una porta. Si trattava di una di quelle aule con i banchi a spalti e i gradini troppo alti per riuscire a salirli senza sembrare un tacchino e scenderli senza far rimbombare ogni cosa. Da uno dei banchi centrali una ragazza si sbracciava per farsi notare; quando lei la riconobbe, dopo aver rallentato il passo per guardarsi intorno, si avviò nella sua direzione scalando i gradini. Una volta raggiuntala, si abbandonò stancamente nel posto al suo fianco: – Buongiorno – disse senza troppa convinzione.
– Beh, non si direbbe poi tanto – udì rispondere dalla voce squillante di Anita.
–Shh, non parlare – ribatté lei con la testa reclinata indietro e gli occhi chiusi, corrugando appena le sopracciglia.
– Ti sei ubriacata di nuovo, non è vero? – insistette.
– Se dico di sì mi picchi? – domandò con voce strascicata.
Una cannonata le colpì il braccio all’improvviso.
– Ehi! Non ho mica detto di sì! – protestò prendendosi il braccio con la sinistra.
– Perché secondo te ho bisogno che tu mi risponda per accorgermene?! –
I suoi occhi castano scuro venati di ambra la fissavano con aria ancora più arrabbiata ed eloquente del suo tono di voce. La guardò per qualche secondo poi tornò a chiudere gli occhi.
– Non ignorarmi così, per la miseria! Sono preoccupata davvero. – tornò alla carica.
Sollevò di nuovo la testa e si voltò: i suoi occhi avevano perso la furia di prima e la fissavano tremuli di apprensione, mentre i lunghi capelli color ebano le incorniciavano il viso in morbide onde. Sospirò, distogliendo lo sguardo:
– Non guardarmi con quella faccia: sto bene. – disse con il tono più convincente che aveva, ma non funzionò, perché ora Anita la fissava attraverso due fessure dardeggianti.
– Bugiarda – sputò come un serpente velenoso; Lei alzò gli occhi al cielo – e il problema – continuò – è che non lo vuoi ammettere e tanto meno ti vuoi fare aiutare. –
– Sai meglio di me che non potresti affatto aiutarmi. – ribatté Lei seccamente
– Magari invece sì. – tacque qualche secondo, in attesa.
– Senti – disse tornando a guardarla – ce la faccio, sto bene. Quando mi andrà di parlarne, ne parleremo, d’accordo? –
Anita la fissava con un’espressione a metà tra il broncio e il dispiacere, osservando preoccupata le occhiaie violette che si facevano sempre più grandi sul suo viso pallido e gli occhi spenti della loro solita fiamma. Poi si voltò con uno scatto:
– Ti stai consumando – disse seria – e prima o poi, se non stai attenta, resterà soltanto uno stoppino bruciacchiato. –
Lei ridacchiò: – Oh suvvia! Non ho intenzione di ridurmi a tanto. –
La bolla di ignara beatitudine scoppiò con un’impercettibile schiocco e dopo pochi secondi l’arrivo del professore fornì un’ulteriore conferma del fatto che la giornata era iniziata davvero. Così Lei si ricompose un minimo sulla sedia, se non altro per rispetto del docente: “Si ricomincia”, sospirò. mentre gli incubi si riaffollavano sul suo cuore.

Una volta terminate le lezioni e ricevute le ribadite minacce di Anita a proposito del suo comportamento, si lasciò confondere nella massa caotica di studenti che riempiva i corridoi, come se, mischiata lì in mezzo, ci fosse la speranza che qualcuno si portasse via i suoi problemi impigliati nella cerniera dello zaino o la possibilità di vederne di più gravi, così da riuscire a guardare i propri un po’ più serenamente. A questo pensiero un sorriso amaro le solcò il viso: sarà possibile che l’unico modo per trovare un po’ di pace è guardare chi sta peggio? Poi noi saremmo esseri umani!
Si avviò per le vie della città, tra comitive di amici in chiacchiere e coppiette abbracciate, scansando le persone né più né meno come ostacoli di uno slalom. Si guardava in giro per osservare le espressioni nei volti dei passanti, continuamente delusa nel ripetersi monotono della stessa vacua apatia.
“Chissà se anche io ho questo aspetto” le capitò di domandarsi. Poteva vantare davvero pochi reperti di valore quando giunse a destinazione, al garage dove il gruppo in cui cantava si riuniva per provare. Già si sentivano degli accenni di musica provenire da dietro la saracinesca. Venne ad aprirle Federico, rigorosamente in maniche corte: – Ciao! – La accolse sorridente.
– Ciao Fede! – ricambiò, a sua volta sorridendo dell’allegria riflessa dell’amico.
Il garage era delle dimensioni ideali per loro e, dal momento che a nessuno serviva come rimessa auto, avevano potuto sistemarlo a loro piacimento. Poster dei cantanti preferiti coprivano la orribile vernice verde pallido dei muri, rendendo quasi sopportabili gli stralci di colore che ancora si intravedevano qui e là. Lungo una delle pareti avevano sistemato un divano e una vecchia poltrona e, dall’altro lato, una scaffalatura in ferro zeppa degli oggetti più vari, da spartiti, cuffie e CD a bottiglie di birra e buste di patatine fritte.
– Ciao ragazzi! – salutò lei entrando, rivolta agli altri due membri del gruppo.
– Sempre in orario, eh? – la punzecchiò subito Davide, già con la chitarra al collo.
– Una star si fa sempre attendere. – fu la risposta.
– Eeeh! viva la modestia!– insistette ridendo.
– Ancora non hai capito che ha sempre la risposta pronta? – si aggiunse Enrico, che stava accordando il basso.
– È che spera sempre di averla vinta, illuso! – rispose lei al suo posto, mentre sistemava la giacca di pelle sull’appendiabiti di fianco alla porta. Enrico sorrise.
Verrà un giorno in cui non riuscirai a ribattere: le risposte ti finiranno prima o poi! – continuò Davide.
– Aspetta e spera mio caro. – concluse con aria di sfida.
– Bene – si intromise Federico con fare deciso – ora che avete avuto la vostra schermaglia di rito, non è che possiamo provare? –
Ristabilito un minimo di serietà, tutti presero il proprio posto velocemente.
– Da cosa partiamo? – chiese lei mentre sistemava l’asta del microfono.
– La prossima serata è quella su Graziani, quindi partirei da lì. – rispose.
– La scaletta chi ce l’ha? – chiese Davide.
Federico si alzò dalla batteria per recuperare un foglio dallo scaffale.
– Bene, allora cominciamo. – disse lei.
Fu come immergersi in un lago di acqua limpidissima e fresca: non appena iniziò a cantare, dimenticò ogni cosa su di sé e sulla propria storia, esisteva solo la sua voce. Riusciva a percepire la musica in ogni fibra del corpo, come se avesse preso il posto del sangue nelle vene e circolasse liberamente in lei, dandole forza e nutrimento. Avvolta nell’armonia melodiosa dei suoi compagni, viveva ogni nota come se tutte le canzoni la riguardassero da vicino, il che rendeva le sue esecuzioni estremamente coinvolgenti.
Andarono avanti a provare un per un paio d’ore, fermandosi dopo ogni brano per confrontarsi sulla riuscita più o meno efficace e su eventuali possibilità alternative. Quando alla musica degli strumenti cominciò ad unirsi il concertare di protesta degli stomaci, pensarono bene di sospendere il tutto.
– Beh, mi sembra siamo andati bene, no? – disse Davide sfilandosi la chitarra. Tutti confermarono convinti.
– Quindi ci vediamo direttamente là venerdì sera o proviamo anche domani? – chiese Federico.
– Per me possiamo tranquillamente trovarci direttamente venerdì – rispose lei dal divano, su cui si era lasciata cadere a prova finita.
– Anche per me, tanto è andato tutto bene – si accodò Enrico.
– Bene, allora io andrei, prima di diventare cannibale – disse Davide infilandosi il cappotto – Vai verso il centro? – chiese poi a Enrico.
– Sì, vuoi un passaggio? – rispose mentre chiudeva la custodia del basso.
– Se non ti dispiace, mi farebbe comodo. –
– Che fai, prendi in giro? La star ha bisogno di un passaggio? – chiese con evidente ironia.
– No grazie, tra poco arriva la mia limousine. – rispose lei con sguardo di superiorità.
– Te l’ho detto che ha sempre la risposta pronta! – esclamò Enrico di fronte ad un incredulo Davide dandogli una pacca sul braccio, dopo di che uscirono salutando.
Lei si rialzò stiracchiandosi e fece per avviarsi all’attaccapanni e prendere la giacca.
– Dove credi di andare? – la bloccò la voce perentoria di Federico alle sue spalle.
– A casa?– rispose lei perplessa voltandosi e incrociando uno sguardo preoccupantemente indagatore – No, vero? –
– No, infatti. – confermò deciso mentre arrotolava i cavi degli amplificatori senza smettere di fissarla.
– Come non detto – disse alzando le mani – Con quali accuse mi trattenete, vostro onore? –
Un’ombra di sorriso sfiorò appena il volto del ragazzo, ancora serissimo:
– Da quant’è che non fai un pasto decente?–
Lei esplose in una squillante risata: – Sai che non devi chiedermi queste cose! –
– Immaginavo – disse riponendo gli ultimi strumenti nello scaffale – Vieni dai, ho comprato una fiorentina che è la fine del mondo. –
– Se la metti così, volo! – lo seguì afferrando la giacca.
Federico era sempre stato un appassionato di cucina, già da prima che i cuochi invadessero la televisione con ogni sorta di programma possibile. Così, indossato il suo grembiule con tanto di scritta Le chef c'est moi, si mise subito all’opera, mentre Lei lo guardava con un misto di curiosità e ammirazione: l’agilità e la disinvoltura con cui si muoveva restavano un mistero per lei. Lo osservava così attentamente che lui chiese: – Ma davvero ti piace guardarmi cucinare? –
– È che mi fa strano che possa appassionare tanto. –
– Beh – rispose lui da dentro un armadio, mentre recuperava la piastra per la carne – il mondo è bello perché è vario, no? –
– Sì sì, sono la prima a dirlo. Comunque io e la cucina siamo due linee parallele destinate a non incontrarsi – concluse incrociando le braccia.
– Su questo non c’è dubbio! – rise.
– Grazie della sincerità! – disse dandogli una gomitata.
– Gli amici hanno l’obbligo morale di essere sinceri, se no che amici sarebbero? Apparecchia la tavola, va’, che qui ci vuole un attimo. –
Anche in quella circostanza Federico non si smentì e preparò una fiorentina strepitosa, che accompagnarono con una bella bottiglia di vino rosso e qualche sana risata, come era loro abitudine.
– Era vergognosamente magnifica, stasera ti sei superato – sentenziò Lei a fine cena.
– Sì, ma non sono ancora soddisfatto del tutto – rispose il cuoco sorseggiando il vino.
– Vabbé, non sei mica Dio! – esclamò versandosi da bere.
– Non venirmi a dire che tu con i tuoi quadri sei meno maniaca! – ribatté lui.
Touchet – si arrese. Prese a far roteare il vino nel bicchiere, fino a lambirne pericolosamente l’orlo, e il momento temuto e presagito per tutto il tempo arrivò inaspettato come un fulmine a ciel sereno.
– Cosa c’è che non va? – La sua voce suonò estremamente morbida, quasi timida, come se già chiedesse scusa per ciò che stava chiedendo di dire. Vide passare negli occhi spenti della ragazza un lampo di dolore.
– È così evidente? – si limitò a chiedere dopo un breve silenzio, continuando a roteare il bicchiere.
– Da quant’è che ci conosciamo? – la incalzò. Lei sospirò: – E io che mi illudevo di riuscire a nasconderlo! – Sollevò il bicchiere e lo svuotò d’un fiato.
– Forse sarai riuscita a imbrogliare gli altri, ma con me non puoi farcela – riprese con il tono dolce di poco prima. Lei prese a giocherellare con il bicchiere vuoto, senza alzare gli occhi, rigirandolo tra le lunghe dita.
– Ti va di parlarne? – provò a insistere, piegando un po’ la testa di lato per incrociare il suo sguardo, che lei non gli concesse.
– Perché, accetteresti un no? –
Federico rimase un attimo interdetto e risollevò la testa, poi rispose: – Veramente no, ma non posso neanche costringerti. –
Per qualche momento il silenzio fu riempito solo dal leggero ticchettio dell’orologio appeso di fianco alla finestra, finché Lei non prese un gran respiro: – E va bene – si arrese – Monica mi ha lasciata – sospirò alzando finalmente il viso.
Federico sgranò gli occhi e le sue labbra si schiusero incredule: – Come Monica ti ha lasciata?! – ripeté meccanicamente, incapace di elaborare la cosa. Lei annuì con un sorriso amaro: – E non sembra neanche le sia stato tanto difficile. –
Il ragazzo sbatteva gli occhi cercando di trovare il filo logico della cosa, completamente spiazzato: – Ma non ha senso! – esclamò indignato; lei rise.
– E perché ti ha lasciata?! –
– Se te lo dico non ci credi – rispose di nuovo a occhi bassi, mentre riempiva il bicchiere.
– Veramente mi sembra già incredibile così – considerò esasperato – cosa può esserci di peggio?! –
Bevve qualche sorso di vino, poi rispose: – Dice di aver trovato il suo vero amore e che io non la faccio sentire come la fa sentire lui. –
Federico tornò a sgranare gli occhi: – Lui?! – quasi gridò. – … Sono senza parole – esclamò scuotendo la testa. Lei sorrise: – Non sei l’unico. –
Non poté fare altro che guardarla, guardare i suoi occhi colmi di amarezza finché non li abbassò di nuovo e tornò a passarsi il bicchiere vuoto tra le mani. Cercava disperatamente qualcosa da dire, da fare, anche solo da pensare, nello stallo completo in cui si era inceppato il suo cervello, che si rifiutava di rispondere alle sue richieste. Così disse la prima cosa che riuscì a mettere insieme:
– Sono mortificato, mi dispiace. – Lei scosse la testa: – Non perdere tempo a dispiacerti, tu cosa c’entri?–
– Mi dispiace comunque – ripeté ostinato.
Continuava a guardarla, aspettando che lei risollevasse gli occhi, che dicesse qualcosa, ma sembrava persa nei propri pensieri o esserne stata completamente privata. Solo dopo parecchio tempo alzò appena la testa e, davanti al volto sinceramente addolorato e preoccupato dell’amico, piegò le labbra in uno smorto sorriso, poi riabbassò lo sguardo e disse: – Avrei dovuto capirlo, ma ho preferito non vedere e far finta di nulla. – alzò le spalle. Federico allungò il braccio sul tavolo e le strinse la mano, Lei ricambiò debolmente la stretta.
Avrebbe voluto dire qualcos’altro, come “non è colpa tua, tu hai fatto del tuo meglio”, “è lei che non ha saputo apprezzarti” o “meriti di più”, ma si rese conto che nessuna di queste frasi l’avrebbe fatta sentire meglio, anzi, conoscendola si sarebbe solo irritata.
– Vorrei solo fare qualcosa per farti sentire meglio – disse continuando a tenerle la mano e questa volta fu lei a stringergliela: – Non puoi – rispose sorridendo – ma la fiorentina è già un buon aiuto. –
Riuscì a strappare un sorriso al ragazzo, che si alzò dalla sedia e le scompigliò i già arruffatissimi capelli ricci.
Passarono il resto della serata seduti sul divano di vimini del balcone, in compagnia delle poche stelle che la città con la sua luce risparmiava e di un’altra bottiglia di vino. Alle battute si alternavano i silenzi, ricamati dal rumore delle auto e dal vocio dei passanti, cui poi seguivano lunghi e concitati discorsi e perfino qualche risata.
– Sarà meglio che me ne vada e ti lasci dormire un po’ – considerò Lei ad un certo punto in un lampo di consapevolezza, alzandosi dal divano.
– Di’ la verità: te ne vai solo perché è finito il vino – ribatté Federico sollevando a fatica le membra intorpidite. Lei rise: – Non ti si può nascondere niente! –
Rientrarono in casa ridacchiando, un po’ per il vino e un po’ per le battute, poi Federico la accompagnò alla porta.
– Grazie di tutto – disse Lei già con la mano sulla maniglia.
– Ma figurati! Ci siamo fatti compagnia a vicenda. –
Le appoggiò una mano sulla spalla: – Se hai bisogno, per qualunque cosa, anche una scemenza, io ci sono – disse guardandola dritto negli occhi. Gli strinse il braccio, ricambiando lo sguardo: – Grazie. –
Allora Federico se la tirò vicino e la abbracciò, era così piccola tra le sue braccia. Lei si lasciò stringere e per un attimo si abbandonò completamente, fece cadere tutte le difese e i muri e lasciò che qualcun altro si prendesse cura di lei.
– Grazie – sussurrò quando si separarono.
– Sono qui apposta – rispose lui con un sorriso, uno dei suoi, che illuminavano sempre tutto con una semplicità disarmante.
La guardò trotterellare in silenzio giù per le scale finché non sparì, poi richiuse piano la porta e, finalmente solo, liberò il dispiacere e lo sconforto in un triste sospiro.
La sua mente era completamente vuota mentre camminava per la città deserta con il pilota automatico inserito, cercando di tenersi stretta quel sottile velo di tepore in cui Federico l’aveva avvolta. Così procedeva rannicchiata in se stessa e a testa bassa, senza vedere nulla intorno a sé. Giunta a casa, lanciò la giacca sull’attaccapanni e, passandogli davanti, salutò il pianoforte con una leggera carezza. Notò di avervi lasciata appoggiata la tazzina del caffè, che venne subito ricongiunta al resto delle stoviglie in attesa di lavaggio che occupava il lavello. Attraversò la stanza in direzione del bagno, posando uno sguardo svogliato sui vetri della bottiglia (di cui si sarebbe occupata domani), dopo di che si lasciò cadere sul letto. Con le mani dietro la testa fissava il soffitto e pensava a Federico, al tempo appena trascorso insieme: era riuscito a farla sentire bene, a sottrarla per un attimo a tutte le sue preoccupazioni e alla tristezza, che da giorni le assediava il cuore. Un tenue ma sincero sorriso le illuminò il viso nel buio.
“Grazie” fu il suo ultimo pensiero prima di cadere nell’abbraccio accogliente di Morfeo.




 
I wanna run away from every damn thing and just run…
Gasoline get me to a place I love and I promise that I’ll never look back
I wanna trade my Chevy for a Cadillac life and drive on and on,
crank that motor to a hundred and ten and then wave goodbye, I’m gone
I’m gone












N.d.a. Grazie a tutti i coraggiosi che non si sono fermati alla terza riga ma sono giunti fino a quaggiù :* Voglio solo spiegare che ogni capitolo e il racconto stesso portano il titolo di una canzone di LP, cui appartengono le righe che troverete alla fine (caso mai sarete così folli da continuare a leggere) ogni volta; questo perché, se sono giunta alle riflessioni che mi hanno poi portata a scrivere questo racconto lungo, è solo grazie a lei e alle sue canzoni, che quindi sono parte integrante della storia (e così colgo l’occasione per farle un po’ di pubblicità…). Io sono di parte perché la adoro, ma se avete tempo ascoltate qualcuna di queste anche voi, non ve ne pentirete :)
 

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Capitolo 2
*** Fighting with Myself ***


2. Fighting with Myself

 

Il sole brillava stranamente vivace nel cielo quasi terso del pomeriggio, spingendo i suoi raggi oltre la vetrina del piccolo bar che fungeva da rifugio per tutti i giovani universitari in crisi da astinenza di caffè. Proprio in quel momento Anita si allontanava circospetta dal bancone reggendo in mano in precario equilibrio due tazzine fumanti.
‒ Ecco qui. ‒ disse porgendone una all’amica, una volta guadagnato il tavolino.
‒ Ti ho preso anche lo zucchero. ‒ aggiunse mostrandole cinque diverse bustine.
‒ Grazie, gentilissima. ‒ rispose Lei scegliendo lo zucchero classico: già le sembrava un reato non riuscire a bere il caffè amaro, figurarsi se ne avrebbe mai contaminato il sapore con qualcosa di diverso dallo zucchero!
Infine si era arresa alla preoccupazione crescente di Anita e aveva acconsentito a parlarle, ragion per cui si trovavano sedute in un bar davanti a del buon caffè. I grandi occhi castani di Anita la fissavano in attesa da sopra la tazzina, che stava già svuotando con avidità, così cominciò a parlare riluttante, perché ogni parola le costava uno sforzo non indifferente contro il proprio orgoglio. Le raccontò di come i loro rapporti da qualche tempo si fossero un po’ allentati e quasi raffreddati, di come Monica sembrasse sempre più svagata e indifferente e di come Lei aveva deciso di ignorare tutto questo nascondendosi dietro sciocche giustificazioni, imputando la cosa ad un periodo particolare o al semplice divenire della loro relazione. Finché non era giunta la secchiata d’acqua gelida che l’aveva riportata alla realtà con un bello schiaffo in piena guancia.
‒ Questo è quanto. ‒ concluse gustando l’ultima lacrima di caffè rimasta nella tazzina. Anita non le aveva tolto gli occhi di dosso per tutto il tempo e ora la guardava seria con l’espressione di chi comprende e condivide il dolore altrui, ma è perfettamente consapevole che si può dire e fare poco per aiutare.
‒ Per educazione nei tuoi confronti ‒ commentò con tono abbastanza piccato ‒ non ti dirò come la chiamerei per  come si è comportata. ‒
Lei rise buttando leggermente indietro la testa; Anita le strinse le mani:
‒ Ma tu come stai? Come ti senti? ‒
Immediatamente un nero temporale le si addensò in viso, soffocando la risata di poco prima:
‒ Come vuoi che mi senta? ‒ rispose amareggiata e con una certa stizza, sottraendosi alla presa dell’amica ‒ Sono tremendamente incazzata. Non che avessi mai pensato che ci saremmo sposate, ma il fatto che mi abbia liquidata così, come una bustina di tè usata, mi dà un fastidio che non ti immagini. ‒ concluse appoggiandosi alla sedia con le braccia incrociate sul petto. Lo sguardo scivolò fuori dal bar, sulla strada, e si fissò vacuo sulla folla brulicante dei passanti.
‒ Non c’è nulla che tu ti debba rimproverare. ‒ riprese Anita con dolcezza ‒ Tu sei stata sincera. Purtroppo chi era dall’altra parte non era altrettanto onesta. ‒
Lei si voltò indietro verso Anita e alzò le spalle:
‒ Le cose non cambiano, comunque. ‒
‒ Lo so, ma prima ti renderai conto che la responsabilità è sua, prima starai meglio. ‒
Lei abbassò gli occhi scontrosa, ma Anita continuò:
‒ Stare così male per lei non ha senso. Lo so che non si può dimenticare tutto dall’oggi al domani, me devi prendere atto di questa cosa e continuare. In realtà non devi neanche dimenticarla per forza, dopo tutto con lei hai dei bei ricordi, ma devi superarla. ‒
Lei si era di nuovo persa oltre la vetrina, tra l’andirivieni veloce dei passanti. Sospirò e tornò a guardare Anita, che le regalò un piccolo sorriso di incoraggiamento.
‒ In questo momento vorrei solo non averla mai incontrata. ‒ disse categorica con un amaro in bocca ben superiore a quello del caffè. Questa volta fu Anita a sospirare; riordinò un attimo le idee, poi disse: ‒ Vedrai che, quando sarà passata, riuscirai ad apprezzare quello che ti ha offerto di buono, anche se è stato poco. ‒
Lei guardò Anita per qualche secondo, lasciando che la dolcezza e la fiducia dei suoi occhi le accarezzassero un poco il cuore, poi rispose lapidaria:
‒ Allora speriamo che passi presto. ‒

Superarla. Quella parola continuò a ingombrarle la mente come un’enorme insegna luminosa per tutto il tragitto verso casa. Superarla. Per farlo avrebbe dovuto innanzitutto prendere atto del fatto che la loro relazione era finita, poi elaborare la cosa fino ad arrivare a considerarla con oggettività, infine mettersi l’anima in pace e voltare pagina, senza privarsi necessariamente della possibilità di voltarsi indietro ogni tanto, ma senza soffrire.
“Sì, certo” pensò mentre un ghigno sarcastico si apriva sul suo volto. A parole sono tutti bravi, ma quando ci si trova in prima persona in mezzo a queste belle situazioni, è un altro paio di maniche! Superarla. Forse il problema era che non voleva superarla, perché non riusciva a smettere di sperare che un giorno o l’altro Monica avrebbe aperto gli occhi e sarebbe tornata indietro da lei; forse non voleva superarla perché, nonostante tutto, le voleva ancora bene. Quanto sarebbe stato più facile strapparsi dal cuore e gettare via quel germoglio di speranza, così piccolo eppure così maledettamente tenace. Calciò con rabbia una malcapitata lattina, che volò per qualche metro e finì la sua corsa rotolando sotto un’auto parcheggiata. Se solo avesse avuto la facoltà di decidere razionalmente, la avrebbe superata più che volentieri, avrebbe chiuso tutto in un cassetto e buttato via la chiave, ma c’era di mezzo il cuore e quella ostinatissima, dannata speranza.
Si appoggiò contro la porta e ad occhi chiusi si sciolse in un lungo sospiro, come se potesse smaltire così un po’ di quel veleno che le pompava nel cuore. Quando riaprì gli occhi, il sole del pomeriggio illuminava impietoso la raccapricciante confusione in cui era sommerso il suo povero appartamento.
“Sarà meglio dare una sistemata.”
Dopo aver controllato nel grande orologio che l’ora consentisse suoni di un certo spessore, si diresse allo stereo e scelse uno dei suoi dischi preferiti, che venne opportunamente mandato a tutto volume; quindi cominciò a restituire una parvenza di ordine a quella fiera del caos. Mentre si dava da fare la musica la attraversava completamente, entrandole nei polmoni come l’aria che si respira e portandosi via le preoccupazioni e i dispiaceri. Cantava confondendo la propria voce con quella della cantante, fingendo di essere lei imitando i suoi stilemi: per un attimo lasciò cadere se stessa nell’oblio per diventare qualcun altro. Questo era il potere più grande che la musica esercitava su di lei e il suo più grande regalo: potersi dimenticare per un attimo di tutto e godere semplicemente e per intero della sola bellezza che la musica sapeva creare.
Come ultima cosa spolverò il pianoforte, o meglio: accarezzò il pianoforte con un panno per la polvere, ripetendo l’operazione più volte non perché ce ne fosse bisogno, ma per puro e semplice piacere. Sollevò il coperchio che custodiva la tastiera e suonò una nota, una sola, la prima che le sue dita trovarono, e il suono limpido si diffuse lentamente in ogni stanza. Quando si fu estinto e tornò il silenzio (lo stereo aveva già smesso di suonare da un po’), guardò quale tasto aveva premuto: fa, ottava centrale. Restò immobile per qualche secondo, cercando qualcosa negli scaffali della sua mente, finché non ritrovò un verso che aveva letto molto tempo prima:
‒ Fa’ ch’io non veda più il tuo bel viso .‒
Lo trovò molto calzante.
Il grande orologio le ricordò dalla parete che era il caso di darsi una mossa, se non voleva fare tardi, così pose fine al momento lirico e sparì nel bagno.

Non appena finì di abbottonare la camicia bianca, la infilò nei jeans neri cercando di non stropicciarla più del necessario e indossò il gilet grigio, dopo di che si mise a cercare i gemelli nei cassetti dell’armadio. Quando li ebbe trovati, si spostò di fronte allo specchio per controllare di essere in ordine: le rispose una sua immagine priva della testa (perché lo specchio non era così grande da contenerla tutta), di cui fu abbastanza soddisfatta. Mentre li faceva passare nelle asole, accarezzò per un attimo i gemelli d’oro, lasciandosi andare ai ricordi, poi infilò il cappotto e uscì.
Un vento dispettoso, da inverno incipiente, insinuava le sue dita fredde sotto giacche e sciarpe, così si tirò su il bavero mentre si avviava spedita verso il centro della città, già preoccupandosi della ramanzina che Federico avrebbe avuto pronta in serbo per lei. Superò velocemente un uomo, che proprio in quel momento espirò una boccata di fumo, che Lei inspirò a sua volta a pieni polmoni, rammaricandosi del suo ritardo: “Se non fossi stata così di corsa, avrei potuto fumarmi una sigaretta.” Ma si consolò pensando che avrebbe recuperato dopo l’esibizione.
Man mano che si avvicinava al locale, le strade si facevano più piccole e sempre più fitte di gente: studenti che se la spassavano tra aperitivi e cene, cercando di spendere il meno possibile, coppie in uscita romantica, feste di laurea, passanti che cercavano di farsi strada tra la folla, fattorini che si affannavano da un lato all’altro della città con in spalla i loro ingombranti zaini o sbandati in cerca di ancora un po’ di alcol riempivano le vie in una baraonda incredibile di lingue e tipi, che Lei si divertiva a osservare nonostante fosse costretta a svicolare di corsa nel garbuglio di persone. Quando finalmente arrivò in vista del locale, Federico la stava aspettando già sulla porta a braccia incrociate. Gettò un rapido sguardo all’orologio e, quando giunse a portata di voce, commentò: ‒ Beh, hai fatto di molto peggio: stasera sei quasi puntuale. ‒
Lei esibì un sorriso imbarazzato: ‒ Non mi vorresti bene se non fossi così. ‒
Federico si scostò dalla porta e disse ridacchiando: ‒ Entra, va’! ‒
Il re di coppe era un piccolo bar della zona centrale della città, immerso nel quartiere universitario. Baristi e camerieri, che erano studenti in quasi tutti i casi, cambiavano spesso sotto lo sguardo attento del proprietario, tale Riccardo, un bell’uomo sulla quarantina piuttosto piazzato e con degli assurdi baffi arricciati.
‒ Buonasera principessa! ‒ salutò ridendo quando i ragazzi entrarono.
‒ Buonasera maestà! ‒ ribatté Lei con un piccolo inchino del capo, mentre si dirigeva veloce verso il fondo del locale, superando il bancone. In un angolo della sala era già tutto pronto per iniziare a suonare ed Enrico e Davide stavano discutendo di politica per l’ennesima volta. Quando si accorsero degli altri, Davide esclamò: ‒ Ben arrivata! ‒ con tono ironico. Lei, per tutta risposta, gli fece una smorfia e chiese, mentre si toglieva il cappotto: ‒ Il suono va già bene o bisogna provare di nuovo? ‒
‒ Abbiamo fatto qualche prova e andava bene. ‒ rispose Enrico sgranocchiando delle arachidi salate, che tentava di salvaguardare dalla fame incontrollabile di Davide, che allungava continuamente le mani ‒ Al massimo puoi dare una controllata al microfono. ‒
Lei finì di regolare l’altezza dell’asta e, spostatala dove preferiva, cantò un paio di note giusto per sicurezza.
‒ Mi sembra a posto. ‒ convenne.
Il bar era formato da un’unica sala rettangolare: uno dei lati lunghi era occupato dal bancone e piccoli tavolini rotondi riempivano in ordine sparso lo spazio restante. Le pareti erano di un bel rosso acceso e fumose lampade da pub sporgevano dai muri. In fondo, nell’area riservata ai musicisti, era stata sistemata una bassa pedana adorna di tappeti un po’ consunti, ma dai colori ancora sgargianti. Il locale accoglieva già abbastanza avventori, ma la gente continuava ad arrivare, facendo sempre più pressione per entrare.
‒ La nostra fama ci precede, ragazzi! ‒ esclamò Davide guardandosi intorno soddisfatto.
‒ Tanto lo sappiamo che ti interessa diventare famoso solo per rimorchiare! ‒ ribatté Federico, accompagnando la battuta ad una gomitata.
‒ Come se tu non ne approfittassi! ‒ rispose Davide restituendo la gomitata al mittente.
‒ Dai signorine, ricomponetevi che tra poco si comincia. ‒ esclamò Lei ponendo fine allo scambio mentre appoggiava il cappotto all’appendiabiti dietro l’amplificatore. Tornando di fronte al microfono, incrociò lo sguardo sorridente di Enrico.
‒ Perché ridi? ‒ chiese Lei perplessa. Lui scosse il capo e, senza risponderle, imbracciò il basso ancora col sorriso sulle labbra; Lei allora si voltò verso il microfono.
Era una vita ormai che cantava, eppure ogni volta, prima dell’inizio di ogni concerto, l’emozione era sempre quella della prima esibizione: un ribollire travolgente e difficile da contenere, potentissimo e pericoloso a un tempo. Chiuse gli occhi per un attimo e ascoltò il proprio cuore rimbalzare veloce nel petto, strinse e distese le mani congelate dalla tensione, ascoltò il brusio della folla e lo scompose nelle singole voci. Infine riaprì gli occhi, si voltò leggermente verso i compagni per darsi l’ok e lo schioccare leggero delle bacchette di Federico diede il via allo spettacolo.
Ad ogni modo, Davide non aveva tutti i torti. Da quando avevano messo insieme il gruppo, ormai quasi un anno prima, erano riusciti piano piano a mettere su un pubblico piuttosto nutrito per essere un semplice quartetto di amici, arrivando così ad avere un certo numero di affezionati che non li lasciava mai a corto di ascoltatori (e di applausi). Qualche viso era perfino diventato noto e i rapporti si erano stretti tanto da metter su una piccola comitiva con cui passare quello che rimaneva della notte dopo le esibizioni, tra birre, sigarette e fandonie da ubriachi. Quella sera Il re di coppe era nuovamente stipato di gente, tanto che Riccardo e gli altri camerieri avevano un bel da fare tra il destreggiarsi in mezzo alle persone e il soddisfare in breve tempo tutte le ordinazioni. Oltre agli affezionati del gruppo, riempivano il bar anche altri avventori capitati lì per caso, che ora ascoltavano incuriositi la musica, o passanti che, proprio sentendo la musica, si erano affacciati e avevano deciso di fermarsi un po’; in un angolo un po’ più appartato c’era persino un gruppetto che festeggiava una neo-laureata.
Di tutto questo tuttavia la nostra cantante non percepiva assolutamente nulla: compresa nel suono totalizzante della musica, vedeva intorno a sé solo masse confuse che non si sforzava di distinguere, paga com’era della Vita che le trasmetteva l’armonia degli strumenti, cui Lei aggiungeva la propria voce. Anche gli altri non si divertivano meno, comunque, e sfoderavano tutta la loro passione e la loro grinta in assoli intricati e raffinatissimi.
Durante una delle pause tra una canzone e l’altra, una voce piuttosto potente riuscì a imporsi sulla confusione e a chiedere con una certa difficoltà se si poteva ascoltare una certa canzone. Lei si riavvicinò al microfono ancora con la bottiglietta d’acqua in mano e rispose di sì con un gran sorriso, scrutando tra la folla in cerca di chi aveva parlato. Un ragazzo della festa di laurea, mani ai lati della bocca per indirizzare il suono, le gridò il titolo, udito il quale Lei si consultò un attimo con i suoi per chiedere conferma che fosse fattibile, al che Davide rispose: ‒ Certo! Non siamo mica dei dilettanti qualunque! ‒
Lei alzò gli occhi al cielo e si voltò di nuovo al microfono, ma prima di iniziare chiese: ‒ Non è che la festeggiata vuole venire qui a cantarla con noi? ‒
Tutti si voltarono istantaneamente nella direzione in cui Lei guardava e al tavolo della laurea scoppiò il pandemonio: la festeggiata, che non ne voleva sapere per nulla la mondo, venne praticamente portata di peso fino all’angolo del piccolo palco e schiaffata suo malgrado di fianco alla cantante. Lei la guardò sorridendo per cercare di incoraggiarla, notando che il suo viso aveva assunto lo stesso rosso paonazzo delle pareti, poi staccò il microfono dall’asta per tenerlo in mezzo tra loro e fece cenno agli altri di attaccare.
‒ Facciamo un grande applauso alla nostra dottoressa! ‒ esclamò alla fine della canzone. Inutile dire che all’applauso seguì immediatamente l’inno scurrile che sempre si canta a tutti i neo-laureati. Prima che la imbarazzatissima festeggiata fuggisse a gambe levate, Lei riuscì a strapparle una veloce stretta di mano e  una fulminea presentazione: si chiamava Marta.
Scomparsa Marta tra la folla, l’esibizione proseguì nel migliore dei modi finché, dopo quasi una decina di bis e qualche altra canzone su richiesta, la serata non si chiuse con un sonoro scroscio di applausi, ai quali il quartetto rispose con inchini e “grazie” sorridenti. Piano piano, sollecitata dall’orario, la folla cominciò a diradarsi e a svuotare gradualmente il locale, mentre i musicisti smontavano l’attrezzatura e riponevano gli strumenti. In quel mentre si avvicinò al palco un giovane alto e decisamente troppo magro per la camicia che indossava, con i capelli neri un po’ lunghi in perfetto abbinamento con il pizzetto alla d’Artagnan:
‒ Ragazzi: grandiosi come sempre. ‒ disse, rivelando una voce piuttosto grave ‒ Intanto ordino il solito. ‒
I quattro, voltatisi per salutare, approvarono all’unisono e Federico aggiunse, mentre spostava uno degli amplificatori: ‒ Il tempo di sistemare qui e arriviamo. ‒
Quando si ricongiunsero al resto della comitiva, c’era un gruppo piuttosto nutrito ad aspettarli lungo il bancone, mentre alle loro spalle il locale era ormai deserto.
‒ Ecco qua: tre birre e un bicchiere di rum per i miei musicisti preferiti. ‒ esclamò Riccardo porgendo loro il tutto.
‒ Non so se meritiamo un simile appellativo. ‒ rispose Lei ridacchiando mentre prendeva il bicchiere.
‒ Ma sì, ma sì! ‒ disse Davide dandole una leggera gomitata ‒ Tu bevi e basta. ‒
Una ragazza con i capelli raccolti e una maglia nera a collo alto attillatissima sollevò il proprio cocktail:
‒ Al Poker! ‒
E immediatamente una selva di braccia si alzò sopra le teste, seguita da un trionfo di tintinnii.
‒ Allora, come siamo andati? ‒ chiese Enrico dopo aver bevuto un lungo sorso di birra.
‒ Non li hai sentiti gli applausi? ‒ esclamò il ragazzo smilzo ‒ La gente era entusiasta. ‒
‒ Ovvio che li ho sentiti, ma diciamolo: Graziani non è certo il più conosciuto di oggi. ‒ ribatté Enrico.
Un altro ragazzo con i capelli rasati e piuttosto allegro, e non per indole naturale, gli arrivò alle spalle e abbracciò lui e la cantante dicendo:
‒ La musica bella non ha età, amici, e voi suonate solo musica bellissima: la gente se ne accorge.  ‒
‒ Grazie Diego. ‒ rispose Lei voltandosi indietro per guardare l’amico, che sollevò il proprio bicchiere e lo fece suonare contro quello della ragazza.
‒ Quando sarà la prossima serata? ‒ domandò la giovane seduta oltre lo smilzo, che sfoggiava una chioma che poteva vantare tutte le gradazioni dal blu all’azzurro.
‒ Non guardare me. ‒ si schermì Lei alzando le mani e si voltò a chiamare Federico, che, sporgendosi sopra il bancone, rispose: ‒ Mi sembra martedì prossimo, ma devo controllare. ‒
La fata turchina sbuffò: ‒ E noi cosa facciamo fino a martedì sera? ‒
‒ Beh: mica dobbiamo stare chiusi in casa solo perché non suoniamo! ‒ esclamò Davide che era già a metà della seconda bottiglia di birra.
‒ Il bar è sempre aperto. ‒ confermò Riccardo, che stava loro di fronte con le braccia incrociate e appoggiato di fianco alla macchina del caffè ‒ Quando volete, siete sempre i benvenuti, lo sapete. ‒
La cantante fece scivolare il suo bicchiere fino davanti al barista: ‒ Allora riempi, che quello di prima se l’è bevuto tutto il bicchiere! ‒
Si decisero a lasciare il locale quando ormai le ore piccole cominciavano a non essere più così piccole. Non fu facile, tutti ubriachi com’erano, chi più chi meno, caricare amplificatori e batteria in auto, ma tra una risata e l’altra vennero finalmente a capo anche di questo. Più difficile ancora fu trovare qualcuno in grado di guidare ma Federico fu irremovibile: ‒ La macchina è mia e la guido io. ‒ Per fortuna, avendo bevuto solo un paio di birre, era anche uno dei più sobri. Dal momento che molti di loro abitavano in centro lì vicino, si divisero subito, ognuno sulla strada di casa, e Federico diede un passaggio solo agli altri del gruppo e a Pietro ‒ il ragazzo smilzo ‒ che abitava un po’ più lontano.
Quando la ragazza entrò in casa, trovò la luna a salutarla dalle grandi vetrate della sala. Si avvicinò e restò a guardarla per un po’, immaginando come doveva essere quando una volta costituiva la sola luce della notte, delicata e pallida come un sole di ghiaccio. Un ricordo improvviso le fece corrugare repentinamente la fronte e distogliere lo sguardo. Si avviò verso la porta del balcone e uscì fuori, estraendo dalla tasca interna del cappotto un pacchetto di sigarette. L’aria fresca le accarezzò la spina dorsale con un brivido, che la riscosse dal torpore dell’alcol. Guardò il fumo sollevarsi sinuoso e svanire e immaginò quanto sarebbe stato bello se avesse potuto far dissolvere allo stesso modo quel disagio che le stringeva il cuore in una morsa e che, per quanto lei fingesse, rimaneva sempre lì, imperterrito, a pesarle sul respiro come un pugno allo stomaco.

 

 

Lost in a state of imagination...
Fighting with myself, me and no one else
and I can’t win the war,
I can’t win the war.

 

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Capitolo 3
*** Follow Me Down ***


3. Follow me down

 

La mattina dopo arrivò fin troppo presto, tanto che l’alcol trascinava ancora i piedi su e giù per le sue vene. Quando fu sufficientemente sveglia da rendersi conto di questa cosa, realizzò che non aveva alcuna voglia di prendersi un’altra strigliata da Anita e abbandonò immediatamente l’idea di andare all’inaugurazione della mostra. Buttò giù le gambe dal letto e si sedette sul bordo, con la testa pesante chinata a fissare il pavimento senza vedere granché.
Quando si affacciò fuori dopo una bella doccia fresca, la sua situazione era nettamente migliorata e persino nel nero del suo umore, complice il leggero torpore che ancora la abbracciava dolcemente, complice il divertimento della serata precedente, sembrava si aprisse qualche zona meno nuvolosa. Le caddero gli occhi su una tela coperta, appoggiata davanti alle altre in uno spazio che rimaneva vuoto tra la libreria e il muro, di fianco alla vetrata. La fissò per qualche momento mentre nella mente si disegnava perfettamente chiaro ciò che il panno bianco nascondeva e intanto Sì e No presero a combattere tra loro con un certo accanimento nella sua testa. Riportò l’accappatoio in bagno e pescò a caso dall’armadio qualcosa con cui vestirsi, poi tornò nella sala portando con sé il cavalletto, che sistemò di fronte alla vetrata in favore di luce. Recuperò un alto sgabello che teneva dietro la porta della camera da letto e lo sistemò di fronte al cavalletto: aveva una forma strana così spoglio, sembrava uno scheletro informe. Poi venne il momento dei colori, che sistemò su un tavolino lì a fianco, insieme alla tavolozza, ai pennelli e ad una ciotolina con dell’acqua. Infine si diresse verso la tela e la sollevò tra le braccia con tutto il panno, portandola al cavalletto, dove la depose con delicatezza. Sistemò lo sgabello alla giusta distanza in modo da non proiettare la propria ombra sulla tela e tolse il panno.
Due occhi nerissimi la aggredirono, incastonati nella pelle olivastra di un viso dall’ovale perfetto, su cui trionfavano due splendide labbra appena dischiuse. All’altezza del viso una mano, ancora solo abbozzata, teneva una sigaretta, da cui si alzava un’esile scia di fumo, mentre la manica di una vestaglia ne adornava il braccio, scivolando sempre più giù dalle spalle e dal petto.
Rimase pietrificata a guardarla per qualche secondo, incatenata a quegli occhi senza fondo, stordita da quelle labbra di cui ricordava così distintamente il sapore… Poi distolse lo sguardo, si appoggiò allo sgabello e iniziò a preparare i colori.

‒ Tu non hai idea di dove cercare, vero? ‒ chiese Lei.
‒ Naturalmente no ‒ rispose Federico.
‒ Giusto, quando mai sei utile tu, eh? ‒ ribatté Lei facendogli una smorfia.
Era un fin troppo tiepido pomeriggio di giugno e i due amici si aggiravano per una enorme libreria del centro in cerca di un volume da regalare ad Enrico per il suo compleanno. I dorsi colorati dei libri si affacciavano dagli scaffali, ben ordinati per materia e ordine alfabetico, e quasi sembravano osservare i visitatori che curiosavano per il negozio, in trepida attesa di essere comprati.
‒ Ma perché non mi ci ritrovo mai in questi posti? ‒ esclamò Lei dopo aver vagato per qualche minuto. ‒ Secondo te è sotto Biografia o Musica? ‒ chiese voltandosi indietro verso Federico: si ritrovò invece a parlare con un’anziana signora che la guardava con aria perplessa da dietro gli occhiali; Lei si scusò e tornò indietro a cercare l’amico, che  ripescò a sfogliare un libro di fotografia minimal.
‒ Era questo che intendevi quando hai detto che mi avresti aiutato a cercare il regalo per Enrico? ‒ lo interpellò brusca. Federico riemerse dal primo piano della cruna di un ago e sfoggiò un sorriso imbarazzato: ‒ Scusa, non ho saputo resistere ‒ disse appoggiando il libro al suo posto.
‒ Hai un’idea di dove possa essere, se sotto Biografia o sotto Musica? ‒ chiese di nuovo, questa volta al giusto interlocutore.
‒ Non saprei… cerchiamo in tutti e due gli scaffali e prima o poi salterà fuori.
Lessero uno per uno tutti i titoli di entrambe le sezioni, ma non riuscirono a trovare il libro che stavano cercando.
‒ Non è possibile che non ci sia! ‒ sbottò Lei dopo aver scrutato tutti i volumi per la seconda volta.
‒ Anche a me sembra assurdo: è appena uscito… e non è neanche possibile che non l’abbiamo visto. ‒
Lei si guardò intorno sbuffando, poi vide qualcosa e si allontanò di corsa. Si avvicinò ad una commessa che stava sistemando negli scaffali dei libri che teneva tra le braccia e si mise alle sue spalle, aspettando che finisse. Non appena ebbe riposto l’ultimo volume, la chiamò, ma nell’istante in cui la commessa si voltò, dimenticò tutto quello che stava facendo, nonché il motivo per cui era lì. Si scontrò con un paio di occhi così scuri, che era impossibile distinguerne il fondo e da cui si sentì risucchiare senza saper opporre resistenza. Sentì una voce lontana rivolgerle la parola:
‒ Serve aiuto? ‒
Lei cercò di ricomposi alla meno peggio e distolse lo sguardo: ‒ Sì, sto cercando un libro, ma non riesco a trovarlo. ‒
“Premio Nobel per l’eloquenza...” la canzonò una voce nella sua mente. La ragazza annuì e chiese, pratica: ‒Come si chiama? ‒
‒ Oh sì, giusto: Enciclopedia del Rock. Dovrebbe essere uscito da poco. ‒
“In effetti come pensavi che potesse trovarlo senza il titolo: leggendoti nel pensiero?” insistette la voce, che Lei tentò mentalmente di zittire.
La ragazza annuì di nuovo e si incamminò sicura verso un altro corridoio: ‒ Guarda: è laggiù in fondo, vicino alla vetrina, dove ci sono le Nuove Proposte ‒ disse indicando dritto davanti a sé.
‒ Oh, grazie mille ‒ rispose Lei con un sorriso impacciato; la commessa fece un lieve cenno col capo e sparì tra gli scaffali. Lei guardò i suoi lunghi capelli castani rimbalzarle sulla schiena, poi si riscosse e tornò da Federico, che questa volta era immerso nella biografia di Abramo Lincoln. Lei gli diede un leggero colpo sulla nuca, al che Federico le rivolse una pessima occhiata: ‒ Non ho saputo resistere ‒ sorrise beffarda. ‒ Dai andiamo, l’ho trovato. ‒
Così, una volta recuperato l’agognato volume, i due amici si avviarono finalmente alla cassa. Quando la persona in coda davanti a loro si allontanò, Lei fu di nuovo agganciata da quegli splendidi e insondabili occhi e la commessa, riconoscendola, accennò ad un sorriso che Lei prontamente e senza quasi rendersene conto ricambiò. Mentre le sue mani agili, abituate dalla pratica, impacchettavano velocemente il libro, quasi dando l’impressione di agire in autonomia, Lei continuò a guardarla, spostando lo sguardo dalle mani al bel viso, incoraggiata per di più dal fatto che spesso la bella commessa rispondeva sorridendo. Federico, cui non era affatto sfuggito il piacevole aspetto della commessa, si fece avanti a sua volta:
‒ Se ti piace la musica, domani sera noi suoniamo al Re di coppe, qui vicino ‒ disse sorridendo e con una buona dose di fanfaronaggine nel tono della voce. La commessa sollevò gli occhi verso di lui e rispose: ‒ Davvero? Ci farò un pensiero. ‒
‒ Al Re di coppe alle 21, se sei curiosa. ‒ precisò Federico con un bel sorriso, mentre prendeva la busta con il regalo dal bancone.
‒ D’accordo ‒ rispose la commessa, poi tornò ad intrappolare Lei nei magnifici abissi dei propri occhi e le sue labbra composero un “ciao” solo per Lei.

Un applauso convinto si sollevò tra una canzone e l’altra dal gruppo di persone riunito nel locale, al che la cantante sorrise riconoscente e si chinò verso la bottiglia d’acqua in piedi di fianco all’asta del microfono: man mano che il caldo dell’estate si avvicinava, diventava sempre più faticoso suonare in uno spazio così ridotto e con tante persone. Dopo il tempo minimo necessario a riprendere fiato, ricominciarono a suonare con la grinta di chi fa ciò che ama. Mentre Lei, cantando, faceva scivolare il suo sguardo sulle persone davanti a sé, quasi senza vedere, un volto attirò la sua attenzione, e su quel volto ancora due lucenti occhi scuri la incatenarono. Senza più distogliere lo sguardo, completamente incurante di qualunque precauzione, ora che la musica le infondeva tutto il coraggio e la confidenza che in precedenza le erano mancati, continuò a cantare guardandola dritto in quegli occhi irresistibilmente ipnotici, cominciando poi a mettere lentamente a fuoco anche gli altri tratti: l’ovale definito e aggraziato del viso, impreziosito da due splendide labbra, il naso dritto che le conferiva un’espressione da aristocratica e il colore ambrato della pelle, che sembrava così morbida e invitante. La giovane non esitò a ricambiare l’attenzione dell’appassionata cantante e restituì ogni sguardo, stringendo sempre più i lacci che aveva da tempo lanciato.
Quando, svariate canzoni e sguardi dopo, il concerto giunse al termine, la giovane non lasciò il locale come la maggior parte degli avventori, ma si fermò al bancone, come aspettando qualcosa. Federico fu il primo a notarla e, non appena la riconobbe, si fiondò da lei tutto contento per invitarla a restare e bere qualcosa insieme. Come spesso accadeva, non erano in pochi a concludere la serata con una bevuta post-esibizione e, nella confusione delle chiacchiere, non fu difficile continuare a scambiarsi lunghe occhiate, anche se da un’estremità all’altra del bancone. Quando infine se la ritrovò di fianco, Lei stava assaporando l’ultimo goccio di rum.
‒ Hai davvero una bella voce, sai? ‒ esordì la bella commessa sedendosi sullo sgabello al suo fianco. Lei si voltò e rispose sorridendo: ‒ Grazie. Ti è piaciuta la musica? ‒
‒ Sì ‒ rispose intrecciando le dita sul bancone. ‒ Non conoscevo bene le canzoni, ma voi siete molto bravi. ‒
Lei chinò leggermente il capo in segno di ringraziamento, stringendo il bicchiere vuoto tra le mani, senza guardarla.
‒ Io mi chiamo Monica ‒ disse la commessa tendendo la mano, da cui tintinnava un nutrito gruppo di bracciali.
‒ Piacere ‒ rispose Lei presentandosi e stringendo più che volentieri quella mano ambrata.

Era ormai il terzo concerto che Monica era venuta a sentire e, una volta terminato, la stava riaccompagnando a casa attraverso la città per metà già addormentata e per metà ancora ben sveglia e impegnata a divertirsi: le voci delle due ragazze si intrecciavano a molte risate mentre camminavano affiancate, sfiorandosi a vicenda.
‒ Siamo arrivate ‒ disse infine Monica, fermandosi di fronte ad un portone dal vetro scuro.
‒ Bene ‒ rispose Lei ‒ Grazie ancora di essere venuta. ‒
‒ È stato un piacere ‒ sorrise Monica. Si guardarono ancora una volta, l’una di fronte all’altra.
‒ Buonanotte, allora ‒ disse poi Lei, prima che il silenzio si dilatasse troppo ‒ ci sentiamo. ‒
‒ Buonanotte ‒ rispose Monica, tirando fuori le chiavi dalla borsa.
Lei si voltò e si avviò indietro sui propri passi, con le mani che tremavano nelle tasche dei pantaloni, ma quando sentì il rumore del portone che si spalancava, non fu più in grado di trattenersi. Dimenticandosi di tutti i contro e dei rischi che le avevano affollato la mente fino a una manciata di secondi prima, corse indietro, riuscendo a infilarsi nel palazzo appena prima che la porta si chiudesse, e raggiunse Monica sui primi gradini delle scale. Senza pensare più a niente, con il cuore che le batteva all’impazzata (e non per i pochi metri che aveva coperto correndo), le passò un braccio intorno alla vita e la baciò. La sensazione di toccare quelle labbra soffici le causò un tuffo al cuore, che si trasformò in tachicardia pura quando le sentì dischiudersi sotto le proprie e prese ad accarezzarle, mentre la mano di Monica le risaliva la shiena.
‒ Scusa ‒ sussurrò quando ebbe la forza di staccarsi, con gli occhi chini sulla punta delle scarpe ‒ non ho saputo re‒
Ma si interruppe, perché Monica la spinse contro il muro e, prendendole il viso tra le mani, tornò famelica sulle sue labbra. Lei sentiva il suo petto morbido contro il proprio e, incapace di resistere, la strinse a sé, mentre rispondeva senza alcuna timidezza al suo bacio.
‒ Mi chiedevo quanto ci avresti messo ancora a cedere ‒ rispose Monica scostandosi, con una punta di affanno appena percepibile nella voce. Le diede un altro rapido bacio, poi la prese per mano e la portò con sé su per le scale.
Il mattino seguente, quando riaprì gli occhi, rimase sbigottita per qualche momento nel vedere intorno a sé una camera che non era la propria e che inizialmente non riconobbe, ma quando percepì il dolce peso di chi si era addormentata sul suo petto, la sequenza degli ultimi avvenimenti si ricompose immediatamente davanti ai suoi occhi. Con la testa appoggiata sul suo seno, Monica dormiva placidamente, mentre le gambe giacevano ancora intrecciate, come per assicurarsi che Lei non le sfuggisse. Un sereno sorriso si aprì inevitabilmente sulle labbra di Lei, che prese ad accarezzarle delicatamente i capelli, cercando di non svegliarla, mentre la cullava con il ritmo stesso del proprio respiro. Quando infine, dopo quelli che potevano essere pochi minuti come molte ore, Monica si svegliò, forse complici quelle dolci carezze sul suo capo, risalì lentamente lungo il viso di Lei e la guardò dall’alto, sospesa su di lei, mentre i capelli le cadevano intorno come un morbido velo. Esaminò il suo viso con quegli occhi magnetici, soffermandosi sulle labbra sorridenti, finché Monica non la calamitò a sé tuffandosi nei suoi occhi:
‒ Buongiorno ‒ disse languida, sorridendo appena, mentre gli occhi prendevano a luccicare sempre più intensamente.
‒ Buongiorno ‒ rispose Lei mentre con le mani risaliva lentamente lungo le sue braccia, puntate ai lati della sua testa in modo da permettere a Monica di starle sopra. Planò dolcemente su di Lei, accarezzandola prima con i capelli e infine assaporando le sue labbra, mentre faceva aderire con calma esasperata il proprio corpo al suo e tornava ad adagiarsi gradualmente su di Lei, che la avvolse tra le sue braccia e la ribaltò sul letto, invertendo i ruoli.
Era ormai pomeriggio tardi quando riuscirono a decidersi a lasciarsi.
‒ Devi proprio andare? ‒ chiese Monica mentre le cingeva il collo con le braccia, circondandola del suo profumo.
‒ Sì, dai: non posso occuparti militarmente la casa. ‒ rispose Lei appoggiandole le mani sui fianchi e sorridendo. Monica esibì un vezzoso broncetto.
‒ Suvvia, non è che non ci rivedremo mai più: ti porto a cena domani, va bene? ‒ continuò. Monica mitigò appena la propria disapprovazione e rispose:
‒ Va bene, farò lo sforzo di aspettare fino a domani sera ‒ guardandola con fare deluso. Lei le rispose con un’occhiata scettica e ridacchiò.
‒ Sono sicura che ce la farai ‒ aggiunse sfiorandole la guancia con il dorso delle dita, dopo di che cercò ancora una volta le sue labbra per posarvi un dolcissimo bacio.
– A domani – sussurrò scostandosi appena, mentre ancora la sfiorava con la punta del naso. Si sciolse con grazia dalla sua presa, accarezzandole le dita finché non la lasciò del tutto e scese le scale saltellando, voltandosi spesso indietro con un gran sorriso, mentre la bella figura di Monica si alzava sopra di Lei e sorrideva ammiccante.
Camminava, o meglio svolazzava per le vie della città, con un sorriso inestinguibile ad illuminarle illuminarle il viso e il cuore che le danzava nel petto. Si sentiva leggera come un palloncino, come se nulla potesse sfiorarla, e una totale spensieratezza aveva cacciato via qualunque preoccupazione dalla sua mente, in cui erano rimasti ad aleggiare solo allegri motivi di varie canzoni. Se arrivò a casa, fu solo perché la memoria delle sue gambe fece in modo che, per quanto svagata ed entusiasta, scegliesse quasi inconsapevolmente la strada giusta. Non appena si chiuse la porta alle spalle, volò al pianoforte, togliendosi le scarpe per via, e cominciò a riempire l’aria di accordi dolcissimi e delicati, allegri grappoli di note, scale appassionate che si rincorrevano a vicenda. Suonò fino a quando il buio fuori dalle grandi vetrate non le suggerì che forse era arrivato il momento opportuno ed educato di smettere.
La sera successiva impiegò fin troppo ad arrivare e, quando lo fece, trovò Monica che finiva di indossare un corsetto coloratissimo sopra un paio di corti pantaloncini neri e Lei che suonava al campanello, più sorridente che mai.
Fece a malapena in tempo a intravvederla in tutta la sua brillante bellezza che Monica le lanciò le braccia al collo e piombò sicura sulle sue labbra, che gustò in un appetitoso bacio di bentornato. Lei la strinse a sé, mentre un calore incontrollabile le si spandeva nel petto e il cuore correva impazzito.
– Anche per me è un piacere rivederti – esordì Lei sorridendo mentre sprofondava negli occhi di Monica, che ancora le cingeva il collo e sorrise a sua volta a quelle parole, facendole sobbalzare il cuore.
La città non era mai stata così bella, le stelle così nitide, l’aria così frizzante agli occhi delle due ragazze, che percorrevano le strade con le dita intrecciate, separando i propri sguardi solo per lo stretto necessario a vedee dove mettere i piedi, che sembravano conoscere da soli la strada da percorrere. Ogni cosa era perfetta ai loro occhi, l’atmosfera di una qualunque sera di giugno si era trasformata in pura magia, come se una pioggia di brillantini visibili solo a loro avesse decorato ogni cosa. Quando furono stanche di vagare in giro, si sedettero in piazza, l’una nell’abbraccio dell’altra, e lasciarono che la città divenisse lo sfondo sempre più sfocato dei loro teneri baci, di cui era impossibile saziarsi; e quando si resero conto di preferire qualcosa di più morbido su cui trascorrere il resto della notte, Lei la prese per mano ancora una volta, stringendosela al fianco, e la guidò verso la propria casa.

D’improvviso sentì l’impulso di voltarsi verso la porta, come se avesse potuto vedere se stessa e Monica entrare tra mille sorrisi come quella notte, ma non c’era nulla da guardare. Tuttavia continuò a fissare l’ingresso ancora per qualche minuto, senza provare nulla, priva di qualunque emozione: il suo cuore non era altro che un meccanico battito automatico. Infine si voltò nuovamente verso la tela e si lasciò annegare in quegli occhi d’abisso, poi allungò lentamente la mano e accarezzò la guancia dipinta, mentre le sue dita non percepivano il ruvido di tela e colore ma la soffice morbidezza della sua pelle. In quel momento il dolore sordo che era riuscita a dimenticare per qualche ora, immergendosi nella concentrazione e nei ricordi, le azzannò nuovamente il cuore senza alcuna pietà, anzi, con rinnovato accanimento, e si rese conto che sì, poteva fare quello che voleva, comportarsi come se nulla fosse o non le importasse nulla, ripetersi che andava tutto bene e che lei stessa stava bene nonostante tutto, ma in realtà non era affatto pronta a lasciarla andare e, per quanto odiasse ammetterlo, se solo fosse tornata, le avrebbe perdonato ogni cosa.
“Ma a chi vuoi darla a bere?”



 

I’m feeling so worn, I’ve seen better days.
You’re so beautiful my eyes have never seen
all the times I’ve tried to figure out my dreams.

















 

N.d.a. Grazie a chiunque sia arrivato a leggere fino a qui, innanzitutto. Se poi sono anche tanto fortunata che c’era qualcuno che stava aspettando che io pubblicassi il nuovo capitolo, mi scuso per avervi fatto aspettare tanto. Spero di essere più assidua nel tempo a venire.

 

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Capitolo 4
*** Long Way to Go to Die ***


4. Long Way to Go to Die


– Ma è stupendo – bisbigliò Lei ammirata, con gli occhi che vagavano avidi sulla tela che aveva di fronte.
– Dici davvero? – domandò Anita sulle spine, con le dita della mano sinistra sulla bocca, rivolgendo uno sguardo incerto prima al quadro e poi all’amica.
– Certo che dico sul serio: guardalo! – esclamò Lei in risposta, con gli occhi ancora incollati alla tela, che ritraeva il muso di due leoni che sembravano accarezzarsi a vicenda, circondati dalla soffice aureola delle loro maestose criniere.
– Si riesce a immaginare la morbidezza del loro pelo! Davvero non capisco perché tu sia così insicura – continuò Lei, spostando finalmente il proprio sguardo su Anita, che si tormentava le dita ondeggiando sulle punte dei piedi.
– Non lo so… Mi sembrano poco realistici, si vede che non sono veri – disse, tentando di dare voce ai propri dubbi.
– Grazie: non è mica una foto, è normale che non siano veri – ribatté Lei, piuttosto incredula a sentire una obiezione tanto assurda.
– Sì ma non vorrei che facciano l’effetto cartone animato – insistette Anita.
– Ti garantisco che non c’è la minima possibilità che questa tela possa dare una simile impressione – la rassicurò Lei e nel vedere quegli occhi così sinceri e sicuri, Anita depose anche le ultime riserve.
Rimasero a guardare in silenzio il quadro, finché Lei non riuscì più a trattenere il bisogno di condividere ciò che sentiva con Anita, bisogno che sentiva gonfiarsi nel petto quasi togliendole il respiro. Tuttavia esordì in sordina, partendo da lontano:
– Ieri ho rimesso mano al ritratto – disse ponendo fine al silenzio. Anita si voltò di scatto verso di Lei : – Quello di Monica? – chiese dopo qualche secondo di esitazione.
– Sì– rispose evitando accuratamente di guardarla; Anita tornò a guardare la tela, giusto per fissare lo sguardo su un punto qualsiasi.
– Non pensavo ce l’avessi ancora. –
– Non ho voluto buttarlo, dopo tutto sta venendo anche bene. –
Un leggero silenzio calò nella stanza, come se lo spettro di Monica mettesse a disagio entrambe.
– Come stai? – chiese infine Anita voltandosi per guardarla in facccia, dopo aver aspettato invano che Lei si aprisse spontaneamente. Lei distolse lo sguardo dalla tela, che fissava senza realmente vederla da svariati minuti, e abbassò la testa. Impiegò qualche tempo a rispondere:
– Credevo che non me ne importasse nulla e che non sarebbe stato difficile lasciarla perdere e tirare dritto, invece… Io non la voglio lasciare, ma oggettivamente non ci posso proprio fare nulla, visto che lei non ha alcuna intenzione di cambiare idea e soprattutto la cosa che più mi dà fastidio è che, nonostante come si è comportata, se le saltasse per la mente di tornare indietro, io non saprei dirle di no, la riprenderei con me, anzi: io vorrei che lei cambiasse idea e tornasse da me. –
Ormai stringeva così tanto i pugni nelle tasche della felpa, che si stava conficcando le unghie nei palmi. Anita sospirò e le appoggiò una mano sulla spalla:
– È normale che tu ti senta così, dopo tutto tu ne eri e sei innamorata davvero. –
– Invece non è normale per niente! – esclamò Lei – Non è normale provare una cosa simile per un’ipocrita approfittatrice come lei! Io mi rendo conto perfettamente di che razza di persona sia, eppure non riesco a levarmela dalla testa, non faccio che pensare a lei… Com’è possibile amare una persona così? E soprattutto per quale maledetta ragione non riesco a smettere di amarla? Non può essere normale un amore così. –
Quelle parole, sibilate con così tanta rabbia e dolore, furono come lame affilate nel cuore di Anita, che non seppe trovare altra risposta se non quella di far scivolare la propria mano dalla spalla dell’amica alla schiena e stringerla in un abbraccio silenzioso. Lei appoggiò le la fronte sulla spalla e ricambiò la stretta, stufa di fingere di avere la situazione sotto controllo.
– Perché mi innamoro sempre della persona sbagliata? –
Anita la strinse più forte, appoggiandole una mano sulla testa mentre la cullava appena; dopo qualche minuto le sfuggì un lieve sorriso e commentò: – Beh, almeno tu eviti i maniaci possessivi. –
La sentì ridere appena tra le sue braccia. Proseguì:
– Purtroppo l’amore non è una cosa che si comanda, non c’è un interruttore per controllarlo e non si può decidere per chi provarlo. Succede e basta. Non sei stupida ad amarla ancora, semmai tenace, per quanto tu vorresti non esserlo in questo momento. Quanto al non volerla lasciare andare, eh, purtroppo non puoi farci nulla, non hai voce in capitolo: se la ami davvero non puoi che rispettare le scelte che fa, anche se sono dolorose per te. –
La sentì allargarsi in un profondo respiro, poi disse piano: – Ma ne è valsa la pena? –
Non fu facile per Anita rispondere a tutto il dolore che quella domanda sussurrata conteneva. Sospirò a sua volta:
– A me lo chiedi? Devi scoprirlo da sola, tesoro, se ne è valsa la pena. Io posso solo dirti che raramente una situazione è così brutta da non essere in grado di offrire neanche un briciolo di buono, ma quel briciolo lo devi trovare tu. –
Un calmo silenzio sembrò unirsi all’abbraccio delle due amiche, interrotto qualche tempo dopo dal lieve bisbiglio di Lei:
– È difficile. –
Anita la strinse più forte: – Lo so, però non sei da sola: ci sono io, c’è Fede, ci sono Enrico e Davide. Perciò non convincerti che sei da sola e che questa è una cosa che devi affronare da sola per forza, perché non è così. D’accordo? –
Anita la sentì scuotere il capo in senso di assenso, poi sciogliersi piano dalla sua stretta per guardarla dritta negli occhi, con un’espressione stranamente insicura:
– Grazia, Anita – disse seria – grazie davvero. –
Anita la riacciuffò nel proprio abbraccio, stringendola forte:
– È un piacere, cara – disse e le schioccò un bacio sulla fronte, o meglio sui ricci da cui la fronte era coperta.
– Sarà meglio che ci avviamo ora, altrimenti faremo tardi e personalmente preferirei evitare di sfilare davanti a tutti a lezione iniziata – disse pratica Anita, stropicciandole energicamente le braccia prima di lasciarla andare.
Qualche minuto dopo sgusciavano in aula subito dietro la professoressa, riuscendo così a sedersi senza dare troppo nell’occhio. Tuttavia Lei non ascoltò nulla della lezione, perché la sua mente era impegnata a percorrere avanti e indietro ben altri pensieri. C’era poco da fare: doveva davvero lasciarla andare, ormai non c’era altro tra cui scegliere. Giusto o sbagliato che fosse, non in generale, ma stando a ciò che lei sentiva, era la cosa da fare, la decisione da prendere. In fondo ci stava male comunque, sia ostinandosi a insistere e resistere sia arrendendosi, ma la differenza sostanziale stava nella fievole possibilità che, dopo essersene slegata, magari un giorno si sarebbe potuta sentire meglio, che si sarebbe lentamente ripresa e sarebbe riuscita a ricucire quello strappo che ora continuava a sanguinare così abbondantemente.
“E va bene” si disse “se è  così che deve andare...”
Quando la professoressa lasciò liberi gli studenti a lezione conclusa, Lei si alzò propositiva dal suo posto, quasi volesse scollarsi di dosso l’ingombrante presenza di Monica per abbandonarla lì sulla sedia, come una sorta di goffo fantoccio, o forse perché voleva semplicemente farsi coraggio, e si incamminò verso la porta con Anita.
Mentre scendevano le scale, stranamente percorribili senza dare e ricevere troppe gomitate, e Anita era intenta ad elogiare la voluminosa gonna della professoressa, seriamente intenzionata a chiederle dove l’avesse comprata, qualcuno alle loro spalle cominciò a chiamare per attirare l’attenzione di un non meglio precisato qualcun altro. La cosa non avrebbe avuto nessun tipo di rilevanza, se questo qualcuno non fosse infine piombato sulle due amiche e non avesse interrotto l’entusiasta elogio di Anita battendo leggermente le dita sulla spalla di Lei, che si voltò con un misto di perplessità e curiosità negli occhi.
– Ciao! Scusami, avrei una proposta da farti – recitò una voce squillante ma non troppo acuta.
– Mi chiamo Ambra e sto preparando un progetto che mette a confronto pittura e fotografia. Per farlo al meglio ho pensato di chiedere aiuto ad un pittore, o meglio a una pittrice – sorrise appena – quindi vorrei chiederti se potrebbe interessarti. So che sei molto brava a dipingere. –
Lei aveva ascoltato in silenzio, quasi pigramente, senza comprendere di preciso cosa questa biondina (che oltre tutto si ostinava a parlarle da un gradino più in alto) le stesse realmente proponendo, perciò esitò qualche momento prima di bofonchiare un confuso: – Beh io… –
Quasi non fece in tempo a terminare di manifestare la propria perplessità, che la ragazza la interruppe: – Non mi devi rispondere adesso, pensaci pure con calma. E non sentirti obbligata: ho chiesto a te per prima perché mi piace molto il tuo stile, ma posso sempre chiedere a qualcun altro, sentiti pure libera – concluse con un che di febbrile nella voce, mentre Lei continuava a fissarla sempre più perplessa e Anita si godeva la surrealità del tutto, sospesa tra il gradino dell’amica e quello inferiore. Di fronte all’ostinato silenzio di Lei, Ambra proseguì ed estrasse dalla tasca dei jeans un leggero foglietto bianco, che le porse:
– Pensaci su con calma, prenditi pure tutto il tempo. Qui c’è il mio numero, caso mai l’idea finisse per piacerti. –
Lei lo prese e gli rivolse un’occhiata distratta.
– Allora grazie e ciao – concluse la ragazza porgendo la mano. Lei la strinse con poca convinzione, dopo di che Ambra risalì le scale, scomparendo ai piani superiori. La seguì con lo sguardo per un po’, più per inerzia che per qualunque altro motivo, poi si rivolse ad Anita, che la stava già guardando con aria divertita:
– Sembra forte! Che ne dici? –
Lei guardò il biglietto, su cui c’erano scritti solo nome e numero di telefono. Lo piegò a metà e mettendolo in tasca rispose:
– Che ha sbagliato persona. –
– Oh come sei disfattista! – esclamò indispettita Anita, mentre scendevano gli ultimi scalini – A me sembra interessante… –
– Se c’è una cosa di cui non ho bisogno né voglia adesso sono altre cose di cui preoccuparmi, specialmente se coinvolgono velleità femminili. –
– Non ti capisco quando fai così! – disse Anita con un tono di totale disapprovazione – Ti scuso solo perché in questo momento sei molto scombussolata. –
– Troppo buona! – rise Lei in risposta. Anita si voltò sorridendo a sua volta:
– Beh, almeno una cosa buona è riuscita a farla: ti ha fatto ridere! –

La città emanava il suo fiacco bagliore sotto di Lei mentre quella sera fumava con le braccia appoggiate al parapetto: i fari delle auto scivolavano via veloci e le luci intermittenti delle biciclette parevano una triste imitazione di lucciole. Spense la sigaretta sul mucchio che ormai riempiva il posacenere e rientrò in casa, dove il ritratto campeggiava al centro della sala. Fissò ancora una volta quegli occhi di oblio e i ricordi cominciarono ad affiorare piano dalla tela, man mano più nitidi, finché non scosse la testa con decisione, come per scrollarli via, e distolse lo sguardo. Quando rialzò il capo, un sorriso amaro le piegava le labbra:
– Sai che c’è? – disse rivolta al ritratto, quasi che avere un iterlocutore al di fuori di se stessa la aiutasse ad andare avanti sulla strada che aveva finalmente deciso di prendere.
– Anche se non è una delle separazioni più felici del mondo, quanto meno per me, bisogna comunque brindare al cambiamento, non ti pare? Direi di sì, quindi adesso esco e vado a farmi una bella bevuta. –
E così dicendo afferrò la giacca dallo schienale della poltrona e si chiuse la porta alle spalle.
L’aria fredda le punzecchiò piacevolmente il viso non appena uscì dal portone nella sera e quel fresco sembrò come ridarle una spinta, una scossa mentre camminava a passi lunghi verso l’insegna verde e fuxia del bar.
Di certo non si poteva dire che fosse il locale più ameno della  città, ma era vicino e si beveva bene e soprattutto senza essere disturbati. L’aria leggermente fumosa la accolse non appena varcò la porta, carica di aromi alcolici e voci che a causa di quegli alcolici già si strascicavano lungo discorsi sempre più confusi. Scivolò silenziosa e inosservata fino al bancone, dove si arrampicò su un alto sgabello mentre ordinava del rum dal solito barista, che aveva già recuperato la bottiglia non appena l’aveva vista entrare.
– Cosa faccio: la rimetto a posto o no? – chiese quando si fu avvicinato, con quel ghigno ammiccante che tutte le volte le rivolgeva, per porgerle il bicchiere, facendo ondeggiare nell’altra mano la suddetta bottiglia. Lei prese il bicchiere e rispose senza guardarlo:
– No no, lascia pure qui. –
Il suo sguardo si fece ancora più ammiccante mentre si appoggiava al bancone dopo aver posato la bottiglia di fianco a Lei:
– Vacci piano o dovrò riaccompagnarti a casa di persona più tardi. –
Lei sorrise e finalmente levò gli occhi nei suoi, dritto per dritto:
– Allora temo che ci vorrà più di una bottiglia. –
Il barista rise:
– Eh sì, è arrivata lei! – e si allontanò sbeffeggiandola con garbo. Lei fece ruotare il bicchiere tra le dita per un po’, la mente persa nuovamente nei ricordi da cui tanto faticosamente stava cercando di allontanarsi, finché non sollevò il bicchiere, che sembrava quasi appesantito da tutti quei frammenti di passato, e dopo un brindisi silenzioso lo vuotò, inghiottendo con il liquore ognuno di quei momenti.
Si riempì nuovamente il bicchiere, sotto lo sguardo attento del barista, e lo fissò per un momento prima di berne un altro lungo sorso. Mentre si perdeva in quelle onde color caramello un amaro pensiero le attraversò la mente:
“Temo che ci vorrà più di una bottiglia anche per te”




 

And I keep rolling on
missing you from dusk to dawn.
Can’t you see I’m tryna block you out?

 

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Capitolo 5
*** Cheers ***


5. Cheers

Faceva caldo, troppo caldo, e l’aria cominciava decisamente a scarseggiare di ossigeno, sempre di più ad ogni minuto che passava, ma a nessuno pareva importare, intenti com’erano a ridere: Davide faticava ormai a reggersi in piedi, stretto a braccetto con Pietro, che teneva in mano una bottiglia di birra con una presa pericolosamente incerta, mentre dall’altro lato Erica stava piegata in due con la testa appoggiata sulle braccia, spargendo la chioma azzurra sul bancone, e Diego si asciugava gli occhi, annacquati chissà se più dall’alcol o dalle risate, mentre Federico si appoggiava alla sua spalla; persino Enrico rideva a crepapelle.
‒ No raga’ ‒ balbettò infine Erica riemergendo tra i suoi capelli ormai arruffati ‒ non sono più abbastanza giovane per ‘ste cose, non si può ‒ mise insieme ancora scossa dalle risate, mentre cercava di farsi aria sventolandosi con le mani. Agli altri servì ancora qualche minuto prima di recuperare l’uso della parola e il fatto che Davide, persa la presa sul braccio di Pietro, arrivò davvero molto vicino a cadere di faccia lungo disteso per terra, salvandosi all’ultimo solo grazie a degli inaspettati quanto mai utili riflessi, non aiutò di certo a recuperare un minimo di autocontrollo.
– E poi dicono che bere fa male – commentò Federico – scommetto che da sobrio una cosa così non la sapresti fare neanche impegnandoti! –
Davide, riacquistati equilibrio e stabilità, ribatté, non appena fu in grado di smettere di ridere:
– Questo perché l’alcol tira fuori il meglio di me! –
– Allora siamo a posto! – esclamò Diego in un grido soffocato dalle risate.
– Dovremmo provare durante gli spettacoli: sai che assoli? – incalzò Federico.
– Può essere un’idea – scoppiò a ridere Enrico.
– Sempre che Riccardo non cominci a farvi pagare per esibirvi perché gli svuotate la cantina! – proseguì Pietro, dopo aver bevuto un sorso di birra.
Non erano i soli a divertirsi: quella notte la discoteca brulicava di giovani, richiamati dalla magia dell’ingresso libero, giovani che avevano riempito velocemente la sala e in parte stavano ancora aspettando di entrare. Sul soffitto basso e i mattoni a vista delle pareti scivolavano luci colorate e intermittenti mentre la musica riempiva l’intero spazio, a volume tanto alto che sembrava quasi una presenza percepibile fisicamente. I nostri amici riuscivano a comunicare tra loro solo perché il bar era parzialmente separato dal resto della sala tramite una parete in cui si aprivano un paio di archi, di modo che almeno i baristi potessero comprendere le ordinazioni.
Lei non sapeva perché si trovasse lì, dato che non moriva dalla voglia di divertirsi, ma un po’ per non passare la serata da sola, un po’ perché Federico e gli altri ce l’avevano più o meno portata di peso, ora si trovava a sua volta immersa nella baraonda della discoteca, circondata da musica e risate, e fu contenta di aver ceduto, alla fine.
Quando il dj slittò su una canzone che aveva impazzato quell’estate, il gruppetto cominciò a sgusciare lentamente verso la pista, per ballare un po’ o almeno ondeggiare a tempo in caso di totale mancanza di spazio. Lei, che non era su di giri come gli altri e ancora non aveva abbastanza alcol in corpo per compensare questa mancanza e scatenarsi nella mischia, si appoggiò al muro, godendosi la freschezza inaspettata dei mattoni, e lasciò vagare lo sguardo. Oltre alle solite ragazze seminude e già ubriache, un gruppetto di ragazzi attirò la sua attenzione, fondamentalmente perché ballavano davvero bene, con movimenti originali ed eleganti che avevano catalizzato l’attenzione di parecchie altre donzelle in effetti. Più in là una coppia scatenatissima si stava lanciando in coreografie ben oltre l’ordinario, mettendo in campo figure apprese sicuramente a lezione. Facevano da contorno tutti coloro che erano lì senza essere primi ballerini, contenti di saltare e ondeggiare a tempo (e non) o di rimorchiare o divertirsi in qualunque modo.
Infine Erica si spazientì a vederla lì impalata, perciò le fece cenno di unirsi al cerchio e ballare con loro (nel frattempo erano infatti riusciti a guadagnare un minimo di spazio) e a nulla le valse scuotere la testa, perché si trovò a sua volta ad ondeggiare nel cerchio con un mezzo sorriso; se non altro quella sera i gusti del dj combaciavano molto bene con i suoi, poco dopo infatti partì un’altra splendida canzone, tra le sue preferite, con quel che di caraibico che le infuocava il cuore. Proprio su quella canzone si sentì battere sulla spalla. Quando si voltò, piuttosto perplessa, si ritrovò di fronte una ragazza sorridente che la invitava a ballare. La sua reazione fu non reagire affatto, tanto che restò del tutto immobile, ma la ragazza non demordeva e iniziò a invitarla facendo chiari gesti con le mani a tempo di musica; tuttavia non c’era nulla di volgare nei suoi modi, solo questo enorme sorriso divertito. Federico, che a lungo andare aveva notato la scena, finì per spingerla in avanti, stufo della sua indecisione, così che Lei si trovò, suo malgrado, ad accettare l’invito.
La ragazza era davvero brava, così tanto che risvegliò a sua volta la voglia di ballare anche in Lei, man mano che la guardava ondeggiare davanti a sé. Dopo un po’ la ragazza , che evidentemente non era interessata a bruciare le tappe, le porse la mano e si avvicinarono un po’, guardandosi fuggevolmente negli occhi. Lei chiamò in aiuto quel poco che sapeva da lezioni di danza di un’infanzia fa, mentre iniziava a sorridere a sua volta, ormai coinvolta nel divertimento. Lentamente si avvicinarono ancora un poco, finché non presero a ballare vicinissime, a contatto, e la parte migliore in tutto questo è che lo facevano senza alcuna malizia: anche nei passi più appassionati non c’era volgarità né altro fine che ballare per il piacere di farlo, cosa che, paradossalmente, fece sì che entrambe continuassero a sciogliersi sempre di più in una complicità incredibile che spinse parecchie teste a voltarsi. Lei si sentiva libera come da tanto non le accadeva, rigenerata, mentre ballava in perfetto accordo con questa impressionante ballerina dal sorriso luminoso, facendo del suo meglio per essere all’altezza ma sapendo allo stesso tempo che non importava più di tanto, perché si stava divertendo a prescindere dalla sua bravura: si sentiva come lei e poteva leggerglielo negli occhi.
Quando il loro duetto finì qualche canzone dopo, complice il dj che, avendole avvistate dalla console, aveva prolungato la danza facendo seguire ritmi simili alla canzone da cui tutto era partito, Lei aveva effettivamente qualche problema di fiato ma non si ricordava quando era stata l’ultima volta che si era divertita tanto. Prese con gentilezza la mano della ballerina e la ringraziò con un baciamano, poi si inchinò con eleganza; quando rialzò gli occhi, la ragazza sorrideva ancora più di prima, se mai fosse possibile, mentre intorno qualcuno ancora le fissava curioso.
Alle sue spalle una platea di occhi spalancati la stava fissando da un pezzo:
– Ma tu sai ballare così?!? – esclamò incredulo Davide agitando le braccia. L’oscurità della discoteca nascose provvidenzialmente il diffuso rossore di cui si accesero le sue guance, mentre un sorriso impacciato le piegava le labbra.
– Non sono così brava, su, mi piace molto e basta – si schermì.
– E sti cazzi! Anche a me piace, ma mica sono capace di muovermi così! – insistette Davide.
– Magari, invece, scoprirai di essere un ballerino eccezionale stasera, visto che l’alcol tira fuori il meglio di te – lo canzonò Enrico.
– Non me la prendo per tutte queste simpatiche battutine solo perché sono ubriaco, ma me ne ricorderò! – sentenziò Davide, agitando l’indice per aria.

Il morale era alto e molto, tanto che la festa si prolungò fino alla chiusura della discoteca, a suon di cori stonatissimi sulle classiche canzoni svuota pista, e oltre, con ulteriori birre comprate per strada e bevute sui gradini della piazza principale, luogo scelto appositamente in quanto abbastanza lontano da appartamenti privati, i cui abitanti avrebbero sicuramente avuto da ridire a proposito dell’ilare schiamazzare dei nostri amici. Proprio sullo sfondo di questa piazza vuota si svolse una molto simpatica scenetta:
– Comunque sei uno sporco traditore – disse Lei assestando una bella spinta a Federico, che quasi si fece sfuggire la bottiglia di mano, – Io mi fidavo di te e tu mi giochi questi tiri mancini! –
– Ma di che ti lamenti? – saltò su Davide immediatamente, senza lasciare a Federico il tempo di ribattere, – Io avrei fatto carte false per ballare con una gnocca del genere! –
– Peccato solo che tu non sappia ballare così! – scoppiò a ridere Pietro, scimmiottando i movimenti di Davide, che si voltò offeso dicendo: – Voi non capite la mia arte. –
– … di allontana-femmine? – continuò Enrico ridacchiando.
– E da quando tu te ne intendi di rimorchiare? Sentiamo, Mr Sciupafemmine! –
– Ma se qui l’unica che rimorchia è lei! – saltò su Erica – Basta vedere stasera. –
Lei rise di cuore: – Solo perché qualcuno non si è fatto gli affari propri… – disse guardando male Federico, che osservò lucidamente, nonostante la birra:
– Guarda che io non ho fatto proprio nulla: lei ti aveva già scelto, io ti ho solo incoraggiato ad accettare l’invito. –
– Chiamalo incoraggiamento: mi ci hai praticamente spinta contro! – rise Lei, ancora con fare risentito.
– Come la fai tragica! Non dirmi che non ti è piaciuto, vecchia marpiona – ribatté Federico sgomitandola e profondendo occhiolini.
– Oh bada a te, eh, che ti faccio pentire delle tue parole – continuò Lei mostrando i pugni. Federico alzò semplicemente un sopracciglio, al che Lei gli si gettò contro e, da dietro, gli si appese al collo, mentre la birra volava ovunque.
– Oh ragazzi attenti, la birra non si spreca!! – si lamentò Davide, e intanto tutti si godevano divertiti l’arrembaggio, che si concluse con un sonoro tonfo al suolo dei due lottatori, accompagnato da grasse risate.
Solo l’alba, infine, riuscì a convincerli a tornare a casa, barcollanti e felici, mentre la città intorno a loro cominciava lentamente a riaprire gli occhi dopo aver trascorso una notte molto meno sopra le righe.
Enrico, l’unico ancora in grado di camminare dritto, riaccompagnò tutti al proprio letto, terminando con Lei, che abitava un po’ più distante rispetto al resto della comitiva. Mentre sedeva in macchina, guardando pigramente fuori dal finestrino senza realmente vedere ciò che le scivolava sotto gli occhi, si ritrovò a dover ammettere che, quella sera, l’alcol bevuto lo sentiva forte e chiaro, nonostante provenisse quasi tutto dalla birra.
– Ce la fai ad arrivare fin lassù sana e salva? – le chiese Enrico dopo essersi fermato di fronte al suo portone, visto che non gli era affatto sfuggito che fosse leggermente in difficoltà.
– Sì sì, ce la faccio, va’ tranquillo – disse Lei con tono deciso, in buona parte per farsi coraggio, ma quando si alzò dall’auto barcollò vistosamente.
– Sei sicura? – chiese allarmato Enrico, sporgendosi verso la portiera dal sedile del conducente. Lei stette in piedi per qualche secondo con le braccia un po’ aperte, poi, quando sentì di avere l’equilibrio quasi sotto controllo, alzò un pollice e rispose: – Sì, ci sono, ce la posso farcela. –
Si voltò lentamente indietro e alzò la mano in segno di saluto, gli occhi visibilmente lucidi ma allegri come non erano da tempo. Enrico rispose con un grande sorriso e fu come se un peso gli si togliesse dal cuore, un peso fatto di tutta la tristezza che in quegli ultimi tempi aveva visto negli occhi dell’amica e ora sembrava finalmente dissolta nel nulla.
– Fa’ un fischio se ti arrendi a metà delle scale – le disse prima di fare inversione e ripartire, guardandola ancora con quel gran sorriso a riempirgli il volto; Lei per tutta risposta gli fischiò dietro divertita.
In effetti non fu esattamente agevole raggiungere la vetta dell’edificio ed ebbe qualche problema anche a convincere la chiave ad entrare nella serratura, almeno finché non si accorse che stava impugnando quella della cantina. Quando finalmente riuscì a varcare la porta di casa, la luce era ormai sufficiente ad illuminare l’appartamento e rischiarava con delicatezza le pareti bianche. Agli occhi profondi che campeggiavano in mezzo al soggiorno rivolse una irriverente linguaccia, anche se inevitabilmente si soffermò qualche momento ad osservarli. Stramazzò sul letto a faccia in giù e solo dopo un’ardua operazione di autoconvincimento riuscì a raccimolare la forza per lanciare via le scarpe e sfilarsi alla meno peggio i vestiti.
Spiaggiata a stella marina sotto le coperte, rivedeva davanti a sé l’incredibile ballerina e solo allora, tra i fumi dell’alcol, riconobbe quanto fosse importare quello che aveva provato quella notte: era stata felice e lo era ancora, si era divertita sul serio, non aveva semplicemente riso a qualche battuta ben riuscita, si sentiva bene. E da quanto non le capitava? Settimane? Probabilmente anche mesi. Un misto di soddisfazione, speranza e birra le riempì i polmoni e fu grata ai suoi amici per averle fatto un così bel regalo quella notte, perché sapeva benissimo che era partito tutto da loro, da quell’abbraccio caldo che ognuno, consapevolmente o meno, le stava dando, strappandola con delicatezza all’isolamento dietro cui lei stava cercando di nascondere tutto quel male che aveva dentro. Arrivò persino a pensare di rinnegare un po’ più spesso la sua amata solitudine, ma tornò sui suoi passi quasi immediatamente, imputando quell’assurdo proposito all’alcol e rimandando simili progetti a momenti di più sobria riflessione.
Si voltò su un fianco e si addormentò serena, mentre la luce del primo sole la avvolgeva nel suo bianco abbraccio.



 
Don’t let the batards get ya down
turn it around with another round.
Cheers to the freakin’ weekend
I drink to that













 
 
N.d.a. Chiedo scusa per l'enorme ritardo nella pubblicazione di questo capitolo: è stato un periodo molto intenso e non sempre facile. Spero di essere più presente in futuro.
Grazie di cuore a tutti quei coraggiosi e fedeli che, nonostante tutto, sono arrivati a leggere fino a qui.

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Capitolo 6
*** Let Me Kill the Pain ***


Let Me Kill the Pain

– Mi stai seriamente dicendo che le hai chiesto dove ha comprato quella gonna?! –
– Tanto dovevo andare comunque a ricevimento per parlarle del progetto… – rispose Anita con una vocetta fina fina e venata di imbarazzo, quanto a Lei, la fissava con gli occhi sgranati, tanto era allibita.
– E magari ti ha pure risposto! – continuò incredula e curiosa di sapere, a quel punto, i dettagli di quell’assurdo scambio.
– Veramente abbiamo passato almeno un quarto d’ora a parlare solo di vestiti… Per fortuna le avevo già chiesto del progetto, altrimenti penso che mi sarei dimenticata il motivo serio per cui ero lì – concluse Anita ridendo, ancora di più per l’espressione, a metà tra il disgusto e lo sgomento, dell’amica.
– Non so se meravigliarmi più di te che fai ‘ste cose o di lei che ti asseconda – commentò scuotendo la testa.
– Non è che perché tu sei moda-repellente, si sentono tutti così, sai? E comunque non è affatto semplice trovare quel genere di vestiti un po’ vintage fatti bene e senza prendersi delle fregature o spenderci uno stipendio sopra – ribatté Anita con fare esperto, – Dovresti venire a far spese con me una volta… – concluse con aria ammiccante.
– Ma non ci penso neanche: preferirei morire piuttosto che passare un pomeriggio intero a fare dentro e fuori da tutti i negozi di vestiti esistenti, compresi quelli che palesemente non puoi permetterti! –
– Oh come sei noiosa – le ridacchiò dietro Anita, conscia fin da subito di toccare un punto debole.
Questa piacevole schermaglia si stava svolgendo lungo una delle vie del centro a tardo pomeriggio, poco distante dall’Accademia, dove avevano avuto lezione fino a poco prima. Il cielo già scuro lasciava intravvedere qualche pallida stella tra una gonfia nuvola e l’altra, ma nessuno pareva accorgersene, impegnati com’erano tutti a scivolare veloci tra la folla che entrava e usciva dai negozi con fare abbastanza frenetico, già in subbuglio per il Natale.
– Ma quindi cosa ti ha detto del progetto, tornando a noi? – chiese Lei, cercando di distrarre Anita dall’idea di un pomeriggio di spese insieme.
– Ma nulla di che, in realtà, che va bene così e posso andare avanti su questa linea e che le sembra che il lavoro stia venendo bene. Ha detto anche che potrebbe esserci la possibilità di mandare alcune tavole ad una mostra, ma è ancora tutto molto in forse. –
Lei si accese: – Ma è fantastico! Potrebbe essere una grande opportunità! –
– Eh sì, figurati se sceglierebbero proprio le mie tavole – minimizzò Anita.
– Ma se la Gigli ti ha detto così, perché no? Perché dirtelo altrimenti? Non mi pare una che spreca parole per niente, dai – cercò di incoraggiarla.
Anita aveva un talento indubitabile, tuttavia convincerla che l’unica a non riconoscerlo era lei stessa, si era rivelata finora un’impresa impossibile per chiunque.
– Staremo a vedere. Tu come stai piuttosto? Ti vedo molto meglio rispetto agli ultimi giorni – cambiò argomento Anita, rivolgendole uno sguardo indagatore ma accompagnato da un premuroso sorriso.
– Sto meglio in effetti, finalmente – ammise Lei con serenità, – Sono quasi stupita anch’io. Ma il merito è dei ragazzi, non mio: mi hanno portata di peso a ballare ed è stata una gran bella serata, sono stata benissimo e, a quanto pare, gli effetti durano ancora. –
– Cos’è: hai rimorchiato, per caso? – la punzecchiò Anita.
– Sì, se proprio lo vuoi sapere – ribatté Lei con fare offeso, – Ma non è questo il punto. –
– No dai, racconta: voglio sapere! – la interruppe Anita, impaziente.
– Ma guarda che non c’è proprio nulla da raccontare, ho solo ballato un po’ con una ragazza, niente di più. –
– Ah. Sono un po’ delusa in effetti. –
– Ma smettila! – esclamò Lei dandole una gomitata.
In tutto questo le due amiche erano ormai giunte al termine della loro passeggiata, al punto in cui le strade per raggiungere le rispettive case si dividevano.
– Allora vieni stasera? – chiese Lei.
– Non lo so, non so se ho voglia di uscire di nuovo, poi si fa tardi, devo tornare a casa da sola… – cantilenò Anita.
– E dai, ti prego. Non sei mai venuta a sentirci una volta ancora. Ti riaccompagno a casa subito dopo il concerto se vuoi, possiamo anche chiedere a Enrico o Fede un passaggio in macchina – implorò Lei, ma Anita non sembrava affatto convinta, così cercò di assumere un’aria ancora più implorante:
– Ti prego – e si concentrò per apparire il più adorabile possibile.
– Va bene, va bene, ci sarò – si arrese Anita, – Ma smetti di fare quella faccia che non sei credibile. –
– Però ha funzionato! – rise Lei facendole l’occhiolino.
Si salutarono con un abbraccio bello stretto, di quelli che lasciano un po’ indolenziti.

Il vento le inaridiva la pelle del viso con le sue mani gelide, mentre fissava pigramente il panorama sotto di lei dal balcone: le persone sembravano nient’altro che piccole formiche da quell’altezza e le alte palazzine tutte uguali nascondevano alla vista il centro della città, con le loro masse grigie e monotone. L’unica nota di colore era costituita dai pochi alberi buttati qui e là, che apparivano quasi disorientati in mezzo a tutto quello sterile cemento. Sbuffò, espirando una bianca nuvoletta di fumo e fiato: aveva sempre detestato quella città, ma l’Accademia lì era di ottima qualità, perciò si era trasferita, senza mai, tuttavia, abituarsi. Le mancava il parco di fronte a casa sua, le mancava spalancare la finestra la mattina e respirare il profumo di erba appena tagliata.
Spense la sigaretta e rientrò, chiudendosi alle spalle l’ennesimo clacson isterico di qualche autista spazientito. Dopo aver lanciato la giacca sul divano, si fermò ad osservare il ritratto per l’ennesima volta.
“Dovrei davvero continuarlo” pensò, “È un peccato lasciarlo così a metà, dopo che ci ho anche speso soldi, tempo e fatica. Stava anche venendo bene…” Un certo fastidio rabbioso le fece aggrottare le sopracciglia all’idea che, oltre a tutto il resto, Monica avesse rovinato anche uno dei suoi lavori.
Fece qualche passo verso il bagno per recuperare i pennelli, che aveva lavato. E se poi fosse di nuovo sprofondata nello sconforto dei ricordi? Era davvero in grado di concentrarsi su di lei, su quel viso e su quei dannatissimi occhi senza precipitare indietro nella spirale buia da cui stava finalmente risalendo?
Chinò lo sguardo sui pennelli, che stringeva in mano.
“No, non mi va di rischiare” decise. Così appoggiò i pennelli nella loro cassetta e tornò in soggiorno: la luce giallo ocra dei lampioni disegnava dei bizzarri disegni sul lucido legno nero del pianoforte.
— Che c’è? Ti senti trascurato? — chiese guardando lo strumento, mentre si avvicinava. Sollevò il coperchio e accarezzò i tasti.
— Povero piccolo. Adesso penso io a te. —
Si sedette e, tempo di scegliere un brano, le sue mani cominciarono a volare leggere sulla tastiera.

Aveva dodici anni e fremeva sulla sedia nella sua elegante gonnellina di velluto viola. Al suo fianco sedeva suo padre, calmo e sorridente come sempre, e di fronte, un po’ distante, separato da qualche fila di sedie, campeggiava un magnifico pianoforte, su cui scivolava la luce azzurra dei fari di scena.

Era nato tutto da una pubblicità, da una delicata melodia che faceva semplicemente da sfondo, ma che risvegliò qualcosa in lei fin dal primo ascolto, una parte di sé di cui ancora non conosceva l’esistenza. Così era arrivata la prima, piccola tastiera come regalo di compleanno e quel concerto, che non avrebbe dimenticato mai.
Aveva poi affrontato il conservatorio, determinata ad imparare, perché ormai quella porta, che il dolce pianista aveva aperto nella sua anima, non poteva più essere chiusa: ormai la Musica in persona la reclamava per sé. Scoprì ben presto che quel mondo, estremamente chiuso e rigido, non faceva affatto per lei, ma voleva suonare, così, a denti stretti, cominciò l’arrampicata attraverso i duri esami e gli estenuanti esercizi. Per contrasto, o forse per sopravvivenza, prese ad esternare sempre più la sua estraneità a quel mondo, in cui era entrata e restava solo per pura necessità, senza condividerne affatto la spocchiosa aura di elitarietà, ed ogni scusa si fece buona per schierarsi contro, tanto che più di una volta rischiò di essere espulsa. Passò così gli anni del conservatorio a camminare su quella fune, sullo spigolo affilatissimo tra ciò che era tollerabile e ciò che non lo era, fino all’ultimo esame – sorrise a ricordarlo: era salita sul palco indossando un magnifico frac.
Ripensandoci, ancora si stupiva che poi il diploma glielo avessero conferito sul serio. E tutto questo solo per arrivare a suonare questo pezzo, quello che, come un’antica sirena, l’aveva stregata a tal punto, che non poteva più distoglierne il pensiero.

Le sue mani si fermarono con dolcezza sull’ultimo accordo.
Che pace, che in quantificabile serenità.
A causa di tutto il veleno con cui Monica l’aveva lentamente assuefatta durante quei mesi, erano veramente secoli che non suonava più quella leggerissima corsa di note e si rese conto solo in quel momento di quanto le mancasse.
Alzò gli occhi, che per un secondo si fecero bui, quando si posarono sul ritratto.
— Ho fatto davvero bene a ignorarti — disse, poi riappoggiò lo sguardo sui tasti e un’altra melodia tornò a riempire la stanza, questa volta più lenta e ancora più dolce.

Più tardi quella sera, quando arrivò a Il re di coppe, si sentiva leggera come una piuma, quasi che la musica che aveva suonato le fosse entrata dentro e le scorresse nelle vene.
— Ma buonasera! — tuonò la voce di Riccardo al suo ingresso, — Come siamo raggianti stasera! —
— E sto conservando il meglio per dopo — rispose Lei, facendo l’occhiolino con un gran sorriso.
Come di consueto, gli altri erano già tutti arrivati e stavano sistemando gli strumenti e il resto.
— Hey fai progressi! Oggi sei quasi in orario — esclamò Davide quando la vide.
— In effetti sono stupito — rincarò Federico, che aveva appena finito di montare la batteria.
— Tutti cavalieri stasera, eh? — rispose Lei mentre si toglieva la giacca, che lanciò sopra le custodie vuote.
— Come vi aiuto? — chiese poi.
Sistemarono gli amplificatori e collegarono gli ultimi cavi, mentre Riccardo fece arrivare loro qualche bottiglia d’acqua. Il locale era abbastanza pieno e l’aria vibrava del vociare delle persone.
— Ci siamo? — chiese Lei, voltandosi verso i compagni, le mani le sudavano leggermente. Di Anita, come temeva, nessuna traccia.
La sua voce si distese sopra il brusio, che scemò velocemente e, ancora una volta, si spogliò di se stessa e lasciò che la musica la attraversasse in ogni sua fibra.
Ad un certo punto, qualche brano più avanti, mentre guardava distrattamente il pubblico davanti a sé, un volto familiare attirò la sua attenzione e dovette davvero concentrarsi per non andare fuori tempo né sbagliare il testo: era Ambra, la ragazza che l’aveva fermata sulle scale. Per fortuna la canzone terminò poco dopo, così ebbe un attimo di tempo per rifiatare e recuperare la concentrazione.
“Oh no, perché?” gridò con tono esasperato una acuta vocina nella sua testa. Aveva completamente rimosso la conversazione sulle scale e chissà che fine aveva fatto quel dannato biglietto nel frattempo. In ogni caso, non aveva assolutamente voglia di averci a che fare più di quanta già non ne avesse ed ora se la ritrovava lì di fronte, e sicuramente non per via dell’esibizione.
Prese un profondo respiro, relegando l’intera scocciatura ad un momento successivo e si rialzò dopo aver bevuto un sorso d’acqua. Tuttavia, per quanto cercasse di concentrarsi sulla musica, sentiva quel paio di occhi insistenti su di sé, anche senza voltarsi nella direzione della ragazza, e quella tacita insistenza la infastidiva terribilmente, le prudeva la faccia per l’irritazione di quello sguardo. Raggiunse davvero a malincuore la fine dello spettacolo, perché non poteva più nascondersi, ora: il momento di affrontare il problema si avvicinava inevitabilmente.
Mentre stava prendendo seriamente in considerazione l’idea di nascondersi in una delle custodie degli strumenti, sentì qualcuno appoggiarle le mani sulle spalle: era così tesa che sobbalzò.
— Hey calma, sono solo io — esclamò Anita, —Ti riduci così dopo ogni concerto? —
Lei si voltò con un grande sorriso: — Ciao! Sei venuta! — esclamò abbracciandola.
— Te lo avevo promesso, non potevo rimangiarmelo. —
— Ma non ti ho vista, dov’eri? — chiese Lei, pentendosi un po’ per aver pensato che non si sarebbe fatta viva, come le altre volte.
— In realtà sono arrivata tardi, ma non troppo, dai, ho visto più di metà concerto — rispose Anita, un po’ in imbarazzo. Lei rise: — Ecco perché non ti vedevo. — Siete bravi, comunque, mi è piaciuto molto. —
Stavolta fu Lei ad imbarazzarsi leggermente: — Grazie, sono contenta che ti sia piaciuto. —
L’occhio le cadde sulla folla, che, alle spalle di Anita, si stava gradualmente scomponendo, e si ricordò immediatamente della biondina.
— Senti, vuoi già tornare a casa? Chiedo un passaggio a Enrico? — chiese, nella speranza di svignarsela il prima possibile.
— No dai, non voglio levarvi tutto il divertimento. Tanto immagino vi fermiate a bere qualcosa, no? —
“Maledizione”
— Beh sì, ma se non vuoi fare tardi, andiamo, tanto fra qualche settimana ne facciamo un altro di concerto, quindi per me non c’è problema — rintentò.
— Hey ciao — si intromise una terza voce.
“Ma porca…”
Cercò di controllare la propria mimica facciale per non far trapelare quanto fosse seccata e si voltò.
— Ciao! Che combinazione, anche tu qui? —
“Okay, forse bastava anche meno.”
— Già, un mio amico mi ha invitata, così… — rispose Ambra con le mani in tasca a mascherare un certo imbarazzo. Anita si stava visibilmente sforzando di non ridere.
— Allora ci vediamo a lezione — disse sorridendo. Lei la fulminò con uno sguardo che tuonava “NON OSARE”, ma Anita si dileguò in un attimo, così Lei non poté fare altro che sputare un rabbioso: — Ciao. —
All’improvviso si sentì chiaramente addosso gli occhi di tutti i suoi compagni, mentre Ambra se ne stava ancora impalata al suo fianco. Raggiunse l’asta del microfono e prese a smontarla, Ambra la seguì con un passo di distanza:
— Siete molto bravi, il concerto mi è piaciuto molto — disse timidamente.
— Grazie — rispose Lei in modo meccanico. Non sapeva cosa dire, non aveva nessun argomento di cui parlare.
— Non sapevo che canti anche, sei brava — non demordeva. Ancora una volta Lei ringraziò senza sapere cos’altro aggiungere, poi caricò l’asta e si avvicinò a Enrico, per appoggiarla insieme al resto.
— Ti prego salvami — gli sussurrò. Lui sbirciò appena Ambra da sopra la spalla.
— A me non sembra male — commentò.
— Te la cedo più che volentieri — rincarò Lei.
Enrico si voltò, ma ovviamente Davide si era già fatto avanti, chissà da quanto stavano già parlando.
— Ci ha pensato Davide — disse e stavolta fu Lei a sbirciare da sopra la spalla. Tirò allora un sospiro di sollievo ed Enrico ridacchiò, poi passò oltre dandole una leggera pacca sulla schiena e si mise ad arrotolare i cavi.
Non appena tutta l’attrezzatura fu sistemata nel portabagagli dell’auto di Federico, Lei afferrò la giacca e fece per andarsene. Davide aveva parlato con Ambra per tutto il tempo e ci stava ancora parlando; in effetti sì, aveva lasciato agli altri tutto il lavoro, ma aveva anche risolto efficacemente il problema per Lei, che ora cercava di svignarsela per la seconda volta.
— Allora ci sentiamo, ragazzi — disse alzando una mano e cercando gli occhi dei suoi amici, già diretta verso la porta.
— Ma come? — saltò su Federico, che si era appena appollaiato su uno sgabello di fronte al bancone — Già te ne vai? Non ti prendi neanche una birretta? —
Enrico gli diede una gomitata, alla quale Federico rispose con un’occhiataccia, ma afferrò immediatamente il senso dell’eloquente espressione dell’amico. Così disse: — Buonanotte! — e salutò a sua volta.
Lei rivolse un gran sorriso al suo complice e proseguì verso l’uscita il più velocemente possibile.
Uscì fuori: l’aria fredda era particolarmente piacevole sulle sue guance. Imprecò mentalmente quando non udì la porta sbattere dietro di sé e accelerò il passo in un ultimo, disperato tentativo, finché il rumore di alcuni passi che le trotterellavano dietro non la raggiunse.
— Scusami —
Fu costretta a fermarsi. Si voltò e Ambra le fece quasi pena per quanto era in imbarazzo.
— Non voglio scocciarti, ma volevo chiederti se per caso hai pensato alla mia proposta. Il fatto è che, se tu rifiuti, devo cercare un’altra persona e non ho molto tempo. —
Ancora una volta aveva cominciato a parlare a macchinetta e il suo timbro si era fatto più acuto.
— Capisco. Mi dispiace, ma mi è proprio passato di mente, ho avuto molto da fare — mentì spudoratamente. Il volto di Ambra si adombrò di evidente delusione.
— Oh, quindi immagino che non ti interessi, visto che sei così impegnata — disse piano. Un leggero senso di colpa le fece prudere le mani.
— Beh, non è che non mi interessi — cercò qualcosa con cui tirarle su il morale, — L’idea è molto originale, ma non me la sento di prendere l’impegno — concluse, spingendo le mani in fondo alle tasche. Ambra mise insieme un sorriso poco convinto:
— Okay. Beh, effettivamente sarebbe un lavoro abbastanza impegnativo, quindi ci sta che non ti vada — incassò il colpo, poi alzò gli occhi in quelli di Lei:
— Grazie lo stesso — disse, tendendo la mano. Lei la strinse, ricambiando lo sguardo per un attimo.
— Ci si vede — aggiunse poi, allontanandosi. Ambra rispose con un sorriso spento e un — Ciao. —

D’accordo, si sentiva un po’ in colpa, soprattutto per essersi completamente dimenticata di ogni cosa, compreso il nome della ragazza, ma non aveva davvero nessuna voglia di impelagarsi in un lavoro simile con una completa sconosciuta. In più non aveva voglia neanche di avere a che fare con ragazze di qualsivoglia tipo, non adesso.
“No, non ce la posso fare” concluse.
Aveva bisogno di tempo per disintossicarsi, per stare da sola nei suoi spazi, senza inutili scocciature aggiuntive. In fondo dirle di sì per poi non impegnarsi sarebbe stato più scorretto, no? Quindi tanto valeva rifiutare da subito e chiudere la questione. Vuoi che non ci sia un altro pittore disposto a fare questa cosa con lei? Non è neanche brutta, troverà sicuramente qualcun altro.
Era così concentrata a zittire il proprio senso di colpa, che, una volta di fronte al cancello di casa, si stupì di essere già arrivata.

Si lanciò sul letto e fissò le luci fuori dalla finestra. Non aveva sonno: non era mai tornata a casa così presto dopo un’esibizione e l’adrenalina le correva ancora su e giù per le vene. Recuperò il telefono: era solo l’una e mezza.
Mentre pensava a quanto si stavano divertendo i suoi amici, le tornò in mente il tentativo di salvataggio di Enrico, così decise di ringraziarlo:
Grazie per prima, ti ho visto.
Il telefono squillò poco dopo:
Prego! Ho cercato di fare il cavaliere, visto che ti sei lamentata ;)



 

Love, let me kill the pain
till none of this remains
and we both say the things we’ve always known

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Capitolo 7
*** When I'm over You ***


7. When I’m over You


Il tavolo rotondo del soggiorno era completamente coperto di fogli, spartiti e appunti di varia natura, in mezzo ai quali il computer portatile stava ormai per affondare. Fuori pioveva letteralmente a secchiate, con tanto di tuoni e fulmini, che stavano facendo uscire di testa Fifì, il gatto tigrato grigio di Enrico.
– Oh, povero micio – disse Lei prendendolo in braccio – Stai un po’ qui con la zia, vedrai che questi brutti rumori non ti faranno nulla. –
Fifì miagolava irrequieto, ma, dopo qualche carezza dietro le orecchie, decise che sulle gambe della ragazza non si stava poi troppo scomodi, così si acciambellò, mantenendo tuttavia le orecchie bene aperte.
– Sei davvero micidiale, non capisco come tu faccia – esclamò Enrico con una punta di indignazione.
– È semplice: sono un gatto anch’io! – rispose Lei, facendo ripartire la canzone sul portatile. Enrico sbuffò: – Ovvio, come ho fatto a non pensarci… –
Si trovavano a casa di Enrico per preparare gli arrangiamenti per la successiva esibizione, come sempre. Erano loro infatti ad occuparsi di trascrivere accordi e basi e verificare di volta in volta le versioni che reperivano su internet, spesso piene di errori o non del tutto soddisfacenti. Siccome si trattava di un lavoro faticoso e orrendamente noioso, Lei aveva preso l’abitudine, per rendere la cosa più piacevole, di chiedere una mano ad Enrico, che inoltre, pur non avendo mai realmente studiato musica, era dotato di un orecchio sopraffino e aveva spesso delle idee brillanti per rendere più originali gli arrangiamenti. Ecco perché era seduta nell’elegante soggiorno di Villa Chiara, sì: nella famiglia di Enrico erano affermati chirurghi da generazioni e di certo di soldi ne avevano. Potete immaginare la reazione di tutti quando il povero ragazzo si rifiutò di iscriversi a medicina… poco ci mancò che lo cacciassero di casa con tanto di diseredazione ed eliminazione dall’albero genealogico. Ragion per cui Enrico metteva a disposizione la villa per questi incontri solo quando tutti, ad eccezione di Fifì, erano fuori, visto che i componenti del Poker erano malvisti in quanto ritenuti colpevoli di aver traviato il promettente rampollo di famiglia.
– Questa parte non mi convince – disse lei poco dopo, brandendo una matita – C’è qualcosa che manca. –
Rimasero entrambi in silenzio per ascoltare attentamente le battute incriminate.
– Mmh, e se provassimo così? – disse Enrico, rubandole la matita dalle dita e correggendo un accordo sullo spartito che avevano di fronte.
– Potrebbe funzionare… – rispose Lei pensierosa e stava già per alzarsi per raggiungere il piano, quando realizzò che Fifì le era ancora acciambellato in braccio, una tiepida copertina in modalità fusa.
– Va bene se proviamo tutto insieme alla fine? – chiese con un sorrisino furbetto ed Enrico rise: – Certo, tranquilla. –
Lavorarono concentrati per qualche altro minuto, poi Enrico non riuscì proprio più a trattenersi:
– Senti ma... chi è quella ragazza che volevi evitare l’altra sera? –
Lei si voltò con aria perplessa: – E perché mai ti interessa –
– Beh, ho pensato che, se cercavi in tutti i modi di scappare, ci doveva pur essere un motivo. –
Lei si voltò di nuovo verso lo schermo per riavvolgere la canzone fino al punto che le interessava.
– È solo una che mi ha fermata una volta all’Accademia per chiedermi di collaborare al suo progetto – bofonchiò svogliatamente.
– Ah sì? Di che si tratta? – insistette Enrico sorridendo. Era evidente che l’argomento la metteva in qualche modo a disagio e non poteva resistere all’impulso di stuzzicarla.
– Un confronto tra fotografia e pittura o qualcosa del genere – rispose Lei, senza voltarsi a guardarlo ma continuando ad armeggiare con il portatile.
– Sembra interessante. –
– Sì, può darsi – minimizzò Lei, poi finalmente lasciò perdere lo schermo e si voltò – Scusa ma stai raccogliendo informazioni per Dado o cosa? – ora la sua voce tradiva un evidente fastidio. Enrico rise:
– No, non penso che abbia bisogno del mio aiuto: non le ha dato tregua per tutta la sera. –
– Poverina –
– Sembrava abbastanza giù quando è rientrata, le hai detto di no? –
– Sì, non ho proprio voglia di impelagarmi in una cosa del genere. –
– Ma dai! Suonava bene come idea… –
Lei sbuffò spazientita: – Senti, se stai cercando di farmi venire i sensi di colpa, sappi che non funzionerà. Li ho già messi a tacere di persona. –
– Okay okay, come vuoi – alzò le mani Enrico – Intendevo solo dire che mi sembra un peccato perdere questa occasione, tutto qui. –
A quel punto sbottò: – Si può sapere cosa ci trovate tutti di così interessante? Anche Anita non fa che insistere da quando ci ho palato la prima volta. Non ho bisogno di distrarmi con un’altra ragazza, chiaro? –
Era decisamente irritata, così Enrico cercò di rimediare: – In realtà io pensavo di più al lato artistico in sé che non alla ragazza. Non ho mai pensato che tu fossi così superficiale. –
Lei si voltò per guardarlo negli occhi e quello sguardo sincero, che sembrava quasi chiedere scusa, fece scivolare via l’espressione corrucciata dal suo viso.
– Le ho già detto di no e non ho intenzione di rimangiarmi la parola – disse ferma, senza distogliere lo sguardo.
– D’accordo, ma io non ho dato nessuna parola… – disse Enrico e con un balzo afferrò il telefono abbandonato sul tavolo e corse via. Lei scattò in piedi, lasciando cadere Fifì, che lanciò un acido miagolio di protesta, e tuonò, più minacciosa dei tuoni del temporale:
– Non ti azzardare. –
Lo rincorse su per le scale, ma la porta della camera le sbattè sul naso.
– Apri immediatamente questa porta. –
– Mmh… no! – fece con una vocina da femminuccia.
– Tanto è inutile, non ho il suo numero, non puoi fare nulla – disse più a se stessa che a lui.
– Ma io il suo numero ce l’ho… –
Una lista interminabile di imprecazioni le attraversò la mente.
– Oh andiamo, stai bluffando. E comunque non avresti il coraggio di farlo – disse, cercando di mantenere la calma. Da dentro intanto non giungeva nessun rumore, così picchiò forte sulla porta:
– Oh che fai? Apri o no? –
Poco dopo Enrico si decise ad uscire e le porse indietro il telefono, con lo schermo ancora acceso:
Ciao! Senti ci ho riflettuto su e ho cambiato idea: voglio partecipare al progetto, se sono ancora in tempo.
Impiegò qualche secondo a rendersi conto che ciò che stava leggendo era reale, ma quando finalmente elaborò il tutto, disse, con un filo di voce appena percepibile:
– Puoi considerarti morto, Enrico. –

Quando Federico si presentò ad aprire, Lei era letteralmente nera di rabbia.
– Tu sei un figlio di puttana – ringhiò. Federico si lasciò sfuggire una risata:
– Quindi l’ha fatto veramente? Non pensavo. –
Lei lanciava ancora saette dagli occhi, perciò cercò di contenere l’entusiasmo.
– Vuoi entrare o sei troppo incazzata per sopportare di stare nella mia stessa stanza? –
Lei continuò a guardarlo con occhi infuocati e fece qualche passo avanti, varcando la soglia.
– Esigo che tu mi racconti come vi è venuta questa cazzo di idea. – sibilò.
– D’accordo. Birretta fresca per raffreddare la situazione? – fece un tentativo, ma la sua espressione non accennava a cambiare neanche di un millimetro. Agguantò comunque due birre dal frigo e si accomodarono sul divano.
– Dalla gomitata che mi aveva rifilato Erri avevo capito che c’era qualcosa sotto, allora quando Ambra è tornata indietro dopo averti rincorsa, l’abbiamo messa un po’ in mezzo e ci siamo fatti raccontare . Avresti dovuto vedere come era giù, poretta. –
I suoi occhi ridotti a fessure gli scoccarono una freccia d’odio dritta in fronte, così si schiarì la voce e continuò.
– Abbiamo sguinzagliato Dado per rimediare il suo numero di telefono, poi Erri si è proposto per mettere in atto il piano. Dado ovviamente non era d’accordo a farsi soffiare la preda, però siamo riusciti a convincerlo che sarebbe stato un peccato perdere l’occasione di uno scherzo così bello, quindi ci ha dato il numero. Però non pensavo che Erri avrebbe avuto davvero le palle per farlo! – esclamò entusiasta. Lei gli piantò un pugno nel braccio.
– Brutti stronzi infami, tutti e tre – tuonò.
– Ahia! – protestò Federico.
– E adesso secondo voi io cosa dovrei fare?! –
Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e nascose la testa tra le mani.
– Impegnarti a fondo in questo fantastico progetto – rispose Federico, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Immediatamente un secondo pugno gli piombò sul braccio, sopra il precedente.
– Oh ma piantala! – protestò.
– Io devo piantarla?! Voi tre coglioni mi avete messo in ‘sto casino e io devo piantarla?! – gli urlò contro Lei.
– Guarda che la fai molto più grande di quello che è – le fece notare Federico, – È lei che deve fare il grosso del lavoro, visto che il progetto è suo; tu devi solo dipingere come fai sempre, nulla di più. –
– Sì, con un’estranea che mi fissa, scatta foto e magari fa pure domande – rispose Lei con tono funereo.
– È possibile. – si limitò a rispondere, in tutta semplicità.
Lo scontro si assestò per qualche secondo su un piatto silenzio, alquanto teso, finché Federico non riprese a parlare:
– Senti: non puoi continuare a fare la clausura e a uscire di casa solo per le prove e le lezioni. Hai bisogno di qualcosa che ti scuota un po’, che ti impegni e ti tenga attiva. Non puoi passare tutto il tuo tempo libero a fare l’ameba sul divano. –
– Non è vero, non.. – protestò Lei, ma Federico la mise a tacere con tono deciso:
– Ascoltami un attimo, non mi interrompere. –
Lei sbuffò, ma restò in silenzio a sorseggiare la sua birra, con un’espressione visibilmente imbronciata. Anche Federico bevve un sorso, poi continuò:
– Per una volta, fidati di me e lasciati aiutare: ti sei depressa abbastanza, ora è il momento giusto per ricominciare e questo progetto è l’ideale per rimetterti in moto. È ora di cacciare via Monica definitivamente. –
Quel nome la fece trasalire, come se pronunciarlo la rendesse reale e presente insieme a loro in quella stanza. Nonostante questo, le parole di Federico, pronunciate con quella voce maledettamente calma e convincente, avevano fatto sbollire all’improvviso buona parte della sua furia, così che si ritrovava a non sapere più come ribattere, perché il ragionamento era inattaccabile e lei sapeva perfettamente che il suo amico aveva ragione.
– Penso – disse senza guardarlo – che tu non abbia la più pallida idea di quanto tu sappia essere irritante, quando hai ragione. –
Solo quando ebbe pronunciato l’intera frase, si voltò, in tempo per vedere le labbra di Federico distendersi in un largo e compiaciuto sorriso:
– Ci voleva molto ad ammettere che era buna buona idea? – esclamò.
Lei gli fece la linguaccia, allora Federico la acciuffò e la strinse forte, spettinandole e capelli con la mano al grido di: – Vieni qui, maledetta testa dura! –
– Lasciami!! – urlò Lei divincolandosi, ma non poteva nulla contro la stazza di Federico, molto più alto e palestrato di lei. Quando finalmente allentò la presa e Lei riuscì a liberarsi, gli rivolse una cupa occhiata a sopraccigli aggrottati, sibilando un astioso: – Ti odio. –
Tuttavia bastò una risata di Federico a diradare definitivamente i residui di tempesta ancora impigliati sul suo viso e a convincerla a sua volta a sorridere.

Nonostante si fosse convinta e sopratutto rassegnata all’idea di collaborare al progetto, fu solo molto più tardi che riuscì a decidersi ad affrontare il fatto in prima persona, controllando la reazione di Ambra al messaggio.
Sdraiata sul proprio divano, con un’altra bottiglia di birra al fianco per darle man forte, sperò con tutto il cuore che avesse già trovato un sostituto e quindi non ci fosse più alcun bisogno del suo aiuto. Invocò così qualunque entità le venisse in mente, dalla fata madrina all’angelo custode, passando per la buona stella ed emanazioni annesse, finché la cruda realtà non eliminò qualunque speranza:
Ciao! Certo che sei ancora in tempo, assolutamente!
“Fantastico, un’altra patita dei punti esclamativi…”
Forse è più semplice vedersi per parlare del progetto, anzi che mandarsi messaggi. Che ne dici di prenderci un caffè?
In fin dei conti aveva senso, così accettò l’invito, e la risposta non tardò ad arrivare, cosa che le fece ricordare quell’atteggiamento febbrile che le aveva visto assumere anche di persona. Finirono per accordarsi per il giorno successivo a metà mattina in un bar del centro.
Mentre si rigirava tra le lenzuola si ritrovò a concludere che magari Enrico e Anita avevano ragione, che forse questo progetto poteva davvero essere stimolante e per la prima volta si scoprì persino curiosa di saperne di più, quasi ansiosa che l’indomani arrivasse. Tuttavia era piuttosto irritante dover ammettere che avevano ragione, dopo che si era tanto ostinata a sostenere il contrario, ma sicuramente il suo orgoglio sarebbe stato in grado di superare anche questo, con i suoi tempi.
Ciò che proprio non riusciva a togliersi dalla testa erano le parole di Federico, che continuavano a ronzarle nelle orecchie con una certa insistenza. Non si era mai resa conto fino in fondo di quanto fosse ancora legata a Monica finché Federico non ne aveva pronunciato il nome, al cui suono aveva reagito quasi come allo stridio delle unghie su una lavagna. Diamine… che illusa a credere di averla già quasi debellata, di averla ormai estirpata dal suo cuore come meritava, erbaccia malefica. Invece c’era ancora così tanta strada da fare che stava per perdere la determinazione e lasciar perdere. Ma no, dai, un passo alla volta si fa tutto, in fondo non c’era bisogno di correre. Tra l’altro sembrava proprio che quei bastardi dei suoi amici fossero tenacemente intenzionati ad aiutare…






 

Do the thing in a new way
Forget the words that I heard you saying
Tell myself it’s a new day, until it’s true








N.d.A. Mi scuso per l'imperdonabile ritardo nella publicazione, abbiate pazienza... Spero almeno che vi piaccia :)

 

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Capitolo 8
*** Dreamcatcher ***


8. Dreamcatcher
 

La pioggia non aveva desistito per tutta la notte e nella poca luce che riusciva a farsi strada tra le nuvole dense, gli edifici sembravano sciogliersi in masse dai contorni smussati. Le persone camminavano veloci sotto le fragili cupole cerate degli ombrelli, costeggiate dalle auto che, di corsa come al solito, di tanto in tanto inzuppavano qualche passante nella più totale noncuranza.
Per una volta Lei si era impegnata per arrivare puntuale all’appuntamento, tanto che, quando cominciò a scorgere da lontano la vetrina del bar, si trovò ad essere persino in anticipo. Nonostante questo, non ci mise molto ad individuare la figura di Ambra, già seduta ad uno dei tavolini ad aspettarla. Imprecò mentalmente, augurandosi che non si sarebbe dimostrata così maniacale anche in futuro, altrimenti sarebbe incorsa in un esaurimento nervoso ben prima della fine del progetto. Spense il mozzicone di sigaretta nell’ultimo cestino utile e, dopo aver preso un profondo respiro, entrò.
Un piacevole teporino la accolse, immediatamente seguito da un aroma decisamente dolce, come di cannella. Tempo mezzo secondo e Ambra aveva alzato un braccio per farsi vedere, mentre Lei già si stava avviando con tutta calma nella sua direzione. Una accattivante musica anni ‘50 aleggiava a basso volume nel locale, il cui arredamento riprendeva, per quanto possibile lo stile dello stesso periodo.
– Buongiorno! – esclamò Ambra, che sguazzava in maniera piuttosto evidente in un brodo di giuggiole.
– Buongiorno – rispose, cercando di mostrare almeno un minimo di entusiasmo, giusto per non sembrare maleducata.
Il cameriere piombò immediatamente a prendere le ordinazioni, così per qualche minuto non ci fu realmente bisogno di parlare, ma quando se ne fu andato, la musica sembrò suonare improvvisamente ad alto volume in quel silenzio. Lei rimpianse i tempi in cui all’interno dei locali era permesso fumare.
– Bene – cercò di iniziare – Quindi in cosa consiste questo progetto, più di preciso? –
Ambra sembrò sollevata di avere qualcosa di cui parlare:
– Sì, allora: la mia idea sarebbe studiare come nasce un quadro e come nasce una fotografia dal soggetto simile o persino uguale, se si riesce, per mettere a confronto i due procedimenti e vedere se e cosa hanno in comune questi processi artistici. –
Sorrise appena, a spiegazione conclusa; era evidente che aveva ripetuto questa frase molte volte, probabilmente nei vari colloqui con i referenti.
– Sembra interessante – ammise.
“Non posso crederci che lo pensi davvero”
– E hai già qualche idea su come procedere? –
Nel frattempo un caffè e un cappuccino erano comparsi tra loro.
– Idee proprio – rispose Ambra, ancora ingolfata nella timidezza – Forse la cosa migliore sarebbe trovare davvero uno stesso soggetto, poi io dovrei vedere come tu lavori proprio mentre dipingi, se per te va bene. Potrei scattare qualche foto ogni tanto e dovrei farti qualche domanda. Poi devo scrivere la relazione, ma di questa parte me ne occupo a parte, alla fine. –
Alzò gli occhi solo a frase conclusa, dopo aver giocherellato con la tazzina del caffè per tutto il tempo, e le rivolse uno sguardo così insicuro, da farle quasi tenerezza. Notò che tre anelli molto sottili le luccicavano attorno alle dita.
Nonostante il pensiero che qualcuno la osservasse mentre dipingeva le facesse venire l’orticaria, ormai era in ballo e bisognava ballare, perciò si leccò la schiuma del cappuccino dalle labbra e rispose:
– Non suona affatto male, insomma: mi sembra che abbia senso. Entro quando devi consegnare? Giusto per organizzarsi. –
Un lampo velocissimo illuminò il viso di Ambra, dopo il commento positivo:
– Marzo, abbiamo tutto il tempo. Non mi piace fare le cose di corsa.–
Sorrise ancora, un po’ meno impacciata. I capelli biondi, davvero molto lunghi, le incorniciavano il viso in una nuvola vaporosa.
– Ottimo, così non ci verrà l’ansia – concordò, bevendo un altro sorso di cappuccino.
– E invece per il soggetto? Immagino dobbiamo puntare su qualcosa di statico, non su quelle foto del momento irripetibile da reporter di guerra. –
– Beh sì, altrimenti penso che ci complicheremmo la vita e basta. –
Fece una pausa per prendere tempo con il pretesto di vuotare la tazzina dell’ultima lacrima di caffè rimasta.
– Non saprei, a me piacciono sia i paesaggi che i ritratti che le nature morte o le foto di fiori… Non so, tu hai preferenze? –
– In linea di massima mi piacciono i ritratti, ma sono flessibile – rispose pacatamente e per un millesimo di secondo il ritratto di Monica le apparve davanti agli occhi.
– Allora andata per un ritratto, direi – azzardò Ambra con un accenno di sicurezza in più.
– Perfetto. Preferisci partire dalla pratica o dalle domande o non so: cos’hai in mente? –
– In realtà non sono arrivata a pensare così in là – ammise – Ma forse ha più senso cominciare dalla pratica, perché in astratto non saprei da dove partire. Per te è un problema? –
Ancora quello sguardo insicuro.
– No no, nessun problema. Quindi… Normalmente dipingo a casa, se posso, perciò potresti venire da me, se non ti dispiace. –
“Ma ti rendi conto di quanto è assurdo quello che stai dicendo?!”
Ambra sgranò appena gli occhi: – ...adesso? –
Lei per poco non le sputò in faccia l’ultimo sorso di cappuccino. Tossì leggermente per dissimulare.
– No no, intendevo in futuro, quando cominciamo – e allora fu Lei a sorridere impacciata.
– Ah ecco, mi sembrava strano – rise Ambra.
Lei rimase per un attimo in silenzio a contemplare quanto agghiacciante sarebbe stato portarla subito a casa: al suo appartamento serviva almeno un giorno per delle pulizie serie e soprattutto per renderlo il più anonimo possibile, dato che non aveva nessuna intenzione di lasciare che la propria casa facesse trapelare più dello stretto indispensabile su di sé e la propria vita. Una volta ripresasi dallo scompenso, continuò:
– Quando vorresti cominciare? –
Ambra sbuffò, riflettendo:
– Direi la settimana prossima, se per te non è troppo presto. Personalmente preferirei nel fine settimana, così almeno non ci dobbiamo preoccupare delle lezioni. –
– Mi sembra un’ottima idea! – convenne subito, davvero non le andava di mettersi ad incastrare anche questo impegno con il resto.
– Facciamo nel pomeriggio? – chiese.
– Sì, va bene. Verso le 4? – Ambra sembrava finalmente aver acquisito un minimo di disinvoltura.
– Andata! – sorrise appena.
Portata a termine la questione principale, il silenzio tornò a posarsi tra loro, anche se l’imbarazzo era di molto diminuito rispetto all’inizio, finché, inaspettatamente, Ambra non prese la parola:
– È da molto che canti? – chiese timidamente.
– Stando a mia madre, da sempre – rispose, celando dietro una risata beffarda la sorpresa di fronte ad una domanda personale.
– Seriamente parlando, da una decina d’anni – concluse.
– Cavolo! – esclamò Ambra sgranando gli occhi.
– Sì, è un po’ di tempo – si schermì appena, mentre nella mente i ricordi frullavano come coriandoli.
– E a te com’è nata la passione per la fotografia? –
Ambra rise: – Da una gita scolastica alle medie: i miei mi comprarono una di quelle macchinette usa e getta, ancora col rullino, e da lì in poi è diventata una passione. –
– Io invece non sono mai stata brava a fare le foto, mi vengono sempre immancabilmente sfocate. –
Ambra ridacchiò: – Beh, adesso va di moda fare le foto sfocate, eri all’avanguardia. –
Lei ricambiò la risata: – Hai ragione! Forse dovremmo invertirci: tu dipingi e io ti fotografo. –
– No no, assolutamente – disse subito Ambra, un po’ allarmata – Non so disegnare neanche gli omini stilizzati. –
Si ritrovarono entrambe a ridere e per un attimo Lei dovette riconoscere che non era poi così terribile parlare con Ambra.
– Come mai hai cercato proprio me per il tuo progetto? – chiese con sincera curiosità. Ambra arrossì nuovamente, nonostante fosse riuscita a guadagnare una certa naturalezza rispetto all’inizio della conversazione.
– Ho visto uno dei tuoi quadri quando hanno fatto la mostra per l’open day dell’accademia. Era da un po’ che avevo questo progetto in mente, ma non mi ero ancora convinta. Poi ho visto il tuo ritratto e ho deciso che era ora di tentare. –
Ancora una volta Ambra aveva parlato per tutto il tempo fissandosi le mani, Lei invece si era persa in un flusso parecchio amaro di ricordi, rievocato dal pensiero di quel ritratto.
– A proposito: chi è quella ragazza? – continuò Ambra, guardandola finalmente in viso.
– È mia sorella – rispose Lei con un mezzo sorriso.
– Wow, non vi assomigliate per niente! Però dovete essere veramente legate: quel ritratto sembrava quasi parlare da solo, per quanto era bello. Sembrava molto sentito. –
Questa volta fu Lei a distogliere lo sguardo dall’espressione curiosa di Ambra:
– Sì, diciamo che avevamo un bel rapporto – mormorò senza energia. Ambra si rese conto immediatamente che non era un argomento piacevole e tornò a fissarsi le mani, rammaricata. Dopo qualche secondo Lei buttò lì la prima domanda che le venne in mente, per distrarsi dai propri pensieri:
– Tu sei figlia unica? –
– No, ho un fratello più grande, ma non andiamo molto d’accordo. –
– Allora quasi figlia unica – replicò Lei, facendole l’occhiolino.
– Già – sorrise, ma si sentiva ancora a disagio per aver toccato un tasto dolente, anche se non intenzionalmente.
In quel momento le campane di una chiesa non troppo lontana cominciarono a suonare festose, facendosi timidamente largo anche nel locale.
– Caspita, devo scappare! – sobbalzò Ambra – Non pensavo fosse già mezzogiorno. –
In un baleno era in piedi e vestita in direzione della cassa e, quando Lei riuscì finalmente a raggiungerla, aveva ormai pagato per entrambe.
– Ma dai, non dovevi! – protestò.
– Ci mancherebbe, invece! – ribatté Ambra – Poi avrai modo di ricambiare in futuro, penso che ci vedremo spesso – e sorrise, avviandosi fuori. Lei la seguì, considerando che forse bastava un po’ di fretta per scrollarla dalla sua timida impacciataggine.
– Allora a sabato – disse Lei.
– D’accordo. Se succede qualcosa, ti scrivo – rispose Ambra, che scalpitava sul posto, pronta a partire.
– Sì, tanto il numero ce l’hai – e un pensiero non esattamente amorevole volò in direzione dei suoi compagni di band.
– Allora ciao! – disse Ambra sorridendo, prima di voltarsi e prendere la fuga a passo spedito verso chissà dove. Lei sollevò appena la mano, in cenno di saluto, poi la ricacciò in tasca e si avviò verso la casa di Federico, dove la aspettava un bel pranzetto, seguito da prove, il tutto verosimilmente inframezzato dal terzo grado sull’incontro che si era appena concluso. Si accese una sigaretta a farle compagnia lungo il tragitto.
Era una vita che non pensava a sua sorella, caspita… quasi se ne era dimenticata. Ma ora capiva perché Ambra avesse cercato proprio lei: quello era il quadro migliore che avesse mai dipinto, l’unico di cui fosse realmente soddisfatta e di cui andasse fiera. E la ragione l’aveva colta immediatamente anche Ambra, ovvero che in quel quadro era condensato tutto l’affetto che provava per quella piccola peste. Si immerse completamente nei ricordi della loro infanzia, tanto che intorno a sé non distingueva altro se non lo stretto indispensabile per non sbagliare strada, mentre davanti agli occhi le danzavano caldi pomeriggi d’estate, parchi pieni di giochi, distese di ombrelloni e sabbia, il tutto accompagnato da risate senza fine. Si scoprì a sorridere di fronte al ricordo di valanghe di pasticci e marachelle, come quando facevano finta di dormire e poi si scambiavano bisbigli da un letto all’altro non appena la mamma voltava l’angolo.
Il portone di casa di Federico la riportò alla realtà un attimo prima che questa dolce nostalgia si trasformasse in cupo rimpianto. Scosse la testa per ritornare del tutto in sé e, quando si sentì pronta all’assalto, suonò il campanello. Federico le spuntò davanti quasi immediatamente, sfoggiando il grembiule da cuoco e con una seccante espressione ammiccante in volto:
– Allora? Com’è andata? – chiese senza spostarsi dalla soglia, come se le stesse facendo una domanda confidenziale. Lei alzò un sopracciglio e incrociò le braccia:
– Se non ti togli quell’espressione ridicola dalla faccia e non la smetti di comportarti da dodicenne, le prove le fate da soli. –
Federico incrociò le braccia a sua volta:
– Come siamo permalosi! Entra va’, per una volta che sei in orario. –
Gli altri erano già seduti al tavolo della cucina e, non appena Lei comparve sulla porta, i loro sguardi curiosi si fissarono su di Lei, neanche fossero stati attratti da una calamita.
– Non ci provate: non voglio sentire domande di natura sentimentale o sessuale – e guardò esplicitamente Davide – a proposito di Ambra, è chiaro? –
– Beh, allora posso anche andare a casa – disse Davide e la cucina si riempì all’istante di una calda risata.




 

I feel I might get left out in the cold…
Ooh and I died today a little inside
and I can see you waitin’ for your chance to go

 

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Capitolo 9
*** Shut You Out ***


9. Shut You Out

– Ti prego smetti di saltellarmi attorno con quell’aria goduta – bofonchiò Lei rivolta ad Anita, che stava effettivamente saltando al suo fianco.
– Scusa, ma sono troppo contenta che collaborerete – ribatté Anita tutta sorridente, mentre i suoi lunghi capelli neri svolazzavano al ritmo dei suoi balzi.
– Parli come se la conoscessi e sapessi che è la persona migliore del mondo, è ridicolo! – continuò Lei, sempre più stizzita.
– Non è colpa mia se ti sei alzata con la luna storta stamattina – rispose Anita, incrociando le braccia sul petto – Poi siamo tutti d’accordo che sia una buona occasione, quindi zitta e mosca. –
Lei le lanciò un’occhiataccia rovente, finché non si decise a distogliere lo sguardo per addentare il panino che si era portata per il pranzo.
Si erano sedute su alcune sedie lungo uno dei corridoi dell’accademia, approfittando della breve pausa tra una lezione e l’altra. Normalmente avrebbero colto l’occasione per prendere una boccata d’aria (e fumare una sigaretta), ma l’inverno si era ormai accomodato sulla città con il suo freddo mantello e pranzare sedute sui gradini di marmo aveva perso improvvisamente ogni attrattiva.
– Tra l’altro i ragazzi hanno avuto davvero un’idea ingegnosa – ridacchiò Anita, che non accennava a desistere.
– La vuoi piantare?! – le urlò contro Lei con la bocca piena e Anita rise di nuovo.
– Falla finita, non è divertente – ripeté dopo aver deglutito, con un’espressione che non lasciava spazio ad ulteriori scherzi. Anita si rese conto di aver esagerato e per questo si scusò.
– Visto che sei in vena di parlare di progetti, – riprese Lei – come va con il tuo? –
Anita sbuffò: – Non so, vado a rilento: ogni volta che aggiungo qualcosa sulla tela mi sembra di far peggio… E ho già l’ansia per la consegna. –
– Ma mancano due mesi alla consegna! Ce la farai di sicuro – cercò di rassicurarla, dandole una pacca sulla spalla.
– La fai facile: a te viene sempre tutto bene al primo colpo! – borbottò Anita.
– Disse la studentessa con i voti più alti dell’intera accademia… – ribatté Lei.
– Non è vero! ­– squittì Anita.
– Oh sì che lo è, solo che se ne rendono conto tutti tranne te. – proseguì Lei, sollevando eloquentemente le sopracciglia.
Anita mise il broncio e fissò la scatola di plastica fucsia che, fino a poco prima, conteneva la sua insalata. Lei si avvicinò e disse piano, appoggiandole una mano sulla gamba:
– Ce la farai. –
– ...okay – rispose Anita, dopo aver preso un bel respiro.
– Ma… quel tipo ti scrive ancora? – cambiò argomento Lei, per distrarre Anita dalle sue preoccupazioni.
– Sì, stamattina mi ha mandato anche il buongiorno – rispose sorridente.
– Ma che carino – commentò Lei, con una certa punta di sarcasmo – E cos’hai detto che fa nella vita? –
– Il barista in una discoteca. Magari potremmo andarci una volta! – Anita sembrava euforica all’idea, Lei lo era molto meno. In qualche modo, non riusciva a mandare giù l’idea che l’amica andasse in cerca dell’anima gemella in giro per siti di incontri e il fatto che, in precedenza, le fosse già capitato di imbattersi in soggetti decisamente poco raccomandabili di certo non contribuiva a farle abbassare la guardia.
– Basta che questo tipo non sia un maniaco. Sai che non mi fido di quelli che ti abbordano su internet. – puntualizzò con decisione.
– Sì, lo so – minimizzò Anita, che aveva ormai una certa familiarità con le ramanzine dell’amica – Ma Manu sembra gentile ed è molto carino… A me sembra uno a posto. –
Lei evitò di farle notare che aveva già ripetuto questa frase in frangenti meno felici e si limitò e far proseguire la conversazione: – Speriamo… Quanti anni ha? –
– Una trentina, credo. – rispose Anita con nonchalance.
– Ah. – rispose Lei, visibilmente sorpresa – E non ti pare un po’ grande? –
– Non li dimostra affatto, in realtà, io all’inizio neanche ci ho creduto. –
Ovviamente Anita non era in grado di percepire i segnali di pericolo, pensò Lei con amarezza.
– Mah… Non mi convince per niente, ma non posso impedirti di frequentarlo. Però promettimi che almeno starai attenta. – chiese e la sua voce lasciava percepire una vena di sincera preoccupazione.
– Sì sì, non ti preoccupare. Non abbiamo neanche un appuntamento ancora. – Anita la guardò per un attimo negli occhi, come per rassicurarla, poi cambiò argomento:
– Come vanno le prove? –
– Stai cercando di distrarmi? – chiese Lei con sguardo indagatore.
– Nooo, quando mai – rispose Anita con gesti enfatici e occhi rivolti al soffitto; entrambe scoppiarono a ridere.
– Comunque, bene. Enrico ha fatto un ottimo lavoro con gli arrangiamenti, come al solito, e sono tutti dei bravi musicisti, quindi con loro viene sempre facile. Ci vediamo domani mattina per gli ultimi ritocchi e poi la sera si suona – e concluse fingendo di agitare le bacchette su una batteria invisibile.
– Continuo ad essere dell’idea che dovreste provare ad andare a X Factor. – sentenziò Anita serissima.
Lei rise di gusto: – Ma per favore, non ci penso proprio. –
– Magari agli altri piacerebbe, invece! – insistette Anita – Potreste fare come i Måneskin. Non hai detto che Federico scrive canzoni? –
– Sì, ma, con tutto il rispetto per Fede, non penso sia nulla di serio, anche perché si è sempre rifiutato di farmi sentire qualcosa. – rispose Lei facendo spallucce. Non riusciva davvero a capire come Anita potesse proporre un’idea così ridicola.
– Questo non vuol dir niente: anch’io mi vergogno a far vedere le mie tele agli altri – ribatté Anita convinta. Lei ci rifletté per un attimo, poi esclamò:
– Scusa, ma perché non ci provi con Fede? È carino, simpatico, sicuramente una brava persona e avete già un lato del carattere in comune. Così non dovresti più rimorchiare gente a caso su internet. – concluse con un largo sorriso. Anita le riservò un’occhiataccia e rispose con tono acido: – Ah ah, molto spiritosa. E poi sono loro che mi scrivono! –
– Ma tu li assecondi – proseguì Lei.
– Beh, se ne vale la pena – ribatté con aria maliziosa.
Lei alzò gli occhi al cielo, poi si alzò svogliatamente.
– Sarà meglio che andiamo, o faremo tardi un’altra volta. –
Anita si alzò a sua volta, sbuffando, e si incamminarono tra gli altri studenti per i corridoi affollati, urtando zaini e borse a intervalli.
Dopo una lezione teorica piuttosto impegnativa (o noiosa che si voglia dire), le due amiche poterono finalmente fuggire fuori a respirare un po’ d’aria fresca: era già buio e i lampioni dipingevano le strade di giallo ocra con i loro coni di luce. Lei si accese immediatamente una sigaretta: – Caspita, questa è stata davvero pesante – esclamò.
– Già… L’hai visto quel tipo che si è addormentato nella fila davanti a noi? – disse Anita ridacchiando.
– Sì! – rispose Lei unendosi alla risata – Poraccio, speriamo che Assirelli non se ne sia accorto. –
– Non penso ci veda così bene, con i fondi di bottiglia che si ritrova come occhiali. –
– In effetti… – ridacchiarono entrambe.
– Vuoi una? – chiese Lei offrendole una sigaretta.
– No grazie, un tiro mi basta – rispose Anita, così, poco dopo, una seconda nuvoletta di fumo a si disperdeva nell’aria fredda.
– Pronta per domani? – le chiese.
– Ma va là – rispose Lei con aria afflitta – Devo ancora sistemare tutto e mettere via un paio di cose – e le ripassò la sigaretta. Anita prese un tiro bello lungo, poi esclamò:
– Diamine, non ti sta per venire a trovare un agente dell’FBI! Cosa devi nascondere mai? Non avrai mica comprato degli strani aggeggi erotici? – e mentre restituiva la sigaretta, le scappò una risata. Ricevette immediatamente una energica spinta in cambio: – Ma sei scema? Mi hai preso per Davide? –
Il fatto che ridesse a sua volta tranquillizzò Anita, perché evidentemente non se l’era presa, così continuò ancora un po’: – Che ne so, magari, la solitudine… Che male ci sarebbe, scusa? –
– Ma va’ al diavolo va’ – e accompagnò il tutto con una gestualità bella ampia. Le risate non fecero che moltiplicarsi intorno a loro.
– Sei incredibile – disse Lei, quindi Anita fece una piccola reverenza, poi disse: – Ti lascio andare, va’: conoscendoti ti ci vorrà tutta la notte per rimettere un po’ in ordine, quindi sarà meglio che ti sbrighi – e le fece l’occhiolino.
– Grazie del complimento – rispose acida, concludendo con un’eloquente linguaccia.
Quando, una volta rientrata a casa, iniziò a guardarsi attorno per controllare ciò che ancora non soddisfaceva il suo gusto, si rese conto di essere più a buon punto di quanto pensasse. E in effetti era già da un paio di giorni che aveva cominciato a pulire e risistemare, al contrario di ciò che Anita pensava. Perciò, dal momento che il grosso del lavoro era già smaltito, si dedicò alle minuzie, a quei piccoli particolari che spesso rivelano molto più di quanto si vorrebbe. Prese, quindi, in braccio uno scatolone, che aveva appositamente recuperato nel supermercato sotto casa, e cominciò a passare in rassegna ogni mensola.
“Foto di famiglia? Sì dai, è carina. La foto del gatto anche. Quella della laurea decisamente no, quella al conservatorio peggio ancora!” e così via. Ad operazione completata i sopravvissuti rimasti sugli scaffali si contavano sulle dita di una mano.
Il ritratto di Monica, invece, non sapeva proprio dove infilarlo, viste le dimensioni di certo non paragonabili a quelle di un soprammobile. Così gironzolava di stanza in stanza, guardando ovunque, ma l’unico posto possibile continuava ad essere sotto il letto, di fianco allo scatolone dove aveva ammucchiato i soprammobili.
“Sì, ma lì non mi piace, è pieno di polvere…” pensava imbronciata in camera.
Infine decise di lasciarlo al solito posto, ben protetto dal panno come sempre, sperando che il nascondiglio migliore fosse davvero in bella vista, magari Ambra non avrebbe fatto domande.
Visto che, come dicevamo, non era rimasto poi tanto da fare per “disinfestare” l’appartamento, Lei si ritrovò presto senza più altro da nascondere o pulire, in piedi nel salotto svuotato.
“E adesso? “ fu la facile domanda che le si presentò sulle labbra. Poco dopo, guidata da un’idea, afferrò il telefono in cerca di Federico:
Senti: casa mia non è mai stata più in ordine. Perché non vieni a cena qui?
Federico rispose al messaggio nel giro di pochi secondi:
Basta che non cucini tu!
“Sono sempre tutti così pieni di complimenti…”
– Wow: ti sei davvero data da fare, eh? – esclamò Federico entrando, sbirciando in giro da sopra i cartoni delle pizze.
– Te l’avevo detto che avevo casa in ordine! Mica era una battuta – ribatté Lei chiudendo la porta.
Di comune accordo (e come avevano già fatto tante altre volte prima di allora) fecero scivolare il pianoforte da un lato e misero al suo poso il tavolo della cucina, che, per quanto piccolo, era comunque largo abbastanza per due persone. Lei portò a tavola due calici, mentre Federico stappava la bottiglia di rosso che aveva portato da casa: gustarono le pizze ancora calde di fronte alla vetrata.
­– Ah, mi mancavano queste cene con vista – disse Federico, dopo aver lasciato tintinnare dolcemente il proprio bicchiere contro quello dell’amica.
– In effetti era da un pezzo che non ti invitavo – concordò Lei, dopo aver bevuto un sorso di vino – Quando è stata l’ultima volta? –
– Uff, chi si ricorda – bofonchiò Federico con la bocca piena di pizza – Diciamo che per un po’ sei stata presa da altro – aggiunse con uno sguardo e un tono che non necessitavano di ulteriori chiarimenti. Lei esibì un sorriso molto tirato, sperando che la serata non si sarebbe fossilizzata di nuovo su Monica. Per fortuna, Federico non sembrava affatto intenzionato ad insistere:
– Dove hai nascosto tutte le foto e le altre cianfrusaglie che avevi in giro? –
Lei ridacchiò appena: – Sotto il letto, in uno scatolone. –
Federico alzò un sopracciglio: – Ma fai sul serio? –
– Vuoi vedere? – ribatté Lei – Non mi va che si metta a sbirciare tra le mie cose… In fin dei conti è una completa sconosciuta e già mi scoccia che venga qui. Diciamo che ho preferito rendere il campo un po’ più neutro. –
Federico sorseggiò un po’ di vino, poi ammise: – Sì, ci può stare. Ma se ti dà così fastidio, che hai dovuto smontare mezza casa, perché non vi vedete da un’altra parte? –
– Me li porti tu in giro tele, pennelli e quant’altro? – stavolta fu Lei a parlare a bocca piena. Federico si prese il tempo per deglutire: – Oh, c’è chi si porta in giro un contrabbasso, non sarà così complicato. Ti avrei potuto prestare il furgoncino. –
– Nah –minimizzò Lei – sopravviverò. E andare da lei non mi avrebbe fatta sentire più a mio agio, quindi tanto vale… –
Federico fece spallucce e agguantò la sua seconda pizza.
– Sei ancora molto arrabbiata con noi per lo scherzo? – chiese poco dopo con presunta nonchalance, anche se ad un orecchio attento non poteva sfuggire una leggerissima nota di tensione.
– Mmh… Non so… –  finse Lei, ma il sorriso che quasi subito le comparve in volto chiarì subito che stava scherzando.
– Te lo saprò dire domani sera. In fondo il progetto è interessante, quindi, a meno che Ambra non sia completamente insopportabile, potrebbe perfino essere piacevole. –
Federico esibì un’espressione visibilmente soddisfatta, infatti, giusto il tempo di deglutire il vino, e Lei gli ringhiò contro: – Togliti quell’espressione dalla faccia o ritiro tutto quello che ho detto. E non ti azzardare a dirlo ai ragazzi! – concluse puntando minacciosamente l’indice. Federico alzò le mani:
– Okay okay, rilassati, non spiffererò in giro che tu hai ammesso di avere torto, la tua reputazione è al sicuro, tranquilla. –
Lei lo guardava torva, con le braccia incrociate, finché di scatto non si sporse sopra il tavolo per rubare uno spicchio di pizza.
– Hey! – protestò Federico.
– Così impari a prendermi in giro! – bofonchiò Lei. Federico sospirò rassegnato e rivolse nuovamente la sua attenzione alla pizza.
Quando, molte ore dopo, Federico se ne andò, si costrinse a rimettere subito tutto in ordine, combattendo contro la propria impenitente svogliatezza: in fondo c’era da lavare due calici, non serviva un grande sforzo. Un impegno maggiore serviva, però, per spingere il lungo pianoforte di nuovo al suo posto, al centro della sala; una volta che ci fu riuscita, si sedette di fronte alla tastiera. Di suonare a quell’ora non se ne parlava, o si sarebbe trovata metà del condominio fuori dalla porta, perciò si limitò ad accarezzare i tasti con le dita. La mente le riandò ad una frase di Federico che l’aveva colpita e aveva continuato a ronzarle in testa per tutta la sera:
per un po’ sei stata presa da altro
Quante cose si era persa, quando era presa di Monica? A quante piccole abitudini aveva rinunciato per starle dietro e accontentare ogni suo capriccio? Solo ora se ne rendeva conto e l’aspetto ancora peggiore è che, lì per lì, non si era accorta minimamente di tutto ciò cui stava rinunciando, di come lei stessa stava cambiando, di tutto ciò che Monica le stava abilmente sfilando dalle mani, fino a rimanere lei sola al centro della sua attenzione. E, oltre tutto, non si era fatta nessuno scrupolo a darle il ben servito, non appena aveva trovato qualcun altro da abbindolare.
“Che idiota”
Questa nuova consapevolezza le diede un leggero senso di vertigine, che presto lasciò spazio al fastidio di essere stata presa in giro come un’allocca.
Inspirò profondamente, poi fissò con decisione il panno che copriva la tela, lì dove sapeva di aver dipinto i suoi occhi, e fece un giuramento a se stessa:
“Ora basta: tu sei fuori dalla mia vita e con te, tutte le altre. Non ci casco un’altra volta, io non mi innamoro più.”




 
I shut my heart, pushed you away
So now we’ll never really know
 

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