Behind The Eyes

di MackenziePhoenix94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Liberty; Parte Uno (Theodore) ***
Capitolo 2: *** Prologo: Liberty; Parte Due (Theodore) ***
Capitolo 3: *** Prologo: Liberty; Parte Tre (Theodore) ***
Capitolo 4: *** Your Lil' Princess (Theodore) ***
Capitolo 5: *** Flames (Theodore) ***
Capitolo 6: *** Matter Of Time (Gracey) ***
Capitolo 7: *** Cookies (Gracey) ***
Capitolo 8: *** Answers? (Gracey) ***
Capitolo 9: *** Karma (Theodore) ***
Capitolo 10: *** I've Learned Some Things (Theodore) ***
Capitolo 11: *** Meg (Gracey) ***
Capitolo 12: *** Angels (Theodore) ***
Capitolo 13: *** Skeleton In The Closet; Parte Uno (Gracey) ***
Capitolo 14: *** Skeleton In The Closet; Parte Due (Gracey) ***
Capitolo 15: *** Skeleton In The Closet; Parte Tre (Gracey) ***
Capitolo 16: *** I Think I Love You; Parte Uno (Theodore) ***
Capitolo 17: *** I Think I Love You; Parte Due (Gracey) ***
Capitolo 18: *** I Think I Love You; Parte Tre (Theodore) ***
Capitolo 19: *** I Think I Love You; Parte Quattro (Gracey) ***
Capitolo 20: *** Secrets; Parte Uno (Gracey) ***
Capitolo 21: *** Secrets; Parte Due (Gracey) ***
Capitolo 22: *** Masks; Parte Uno (Theodore) ***
Capitolo 23: *** Masks; Parte Due (Theodore) ***
Capitolo 24: *** Masks; Parte Tre (Theodore) ***
Capitolo 25: *** My Life; Parte Uno (Gracey) ***
Capitolo 26: *** My Life; Parte Due (Gracey) ***
Capitolo 27: *** My Life; Parte Tre (Gracey) ***
Capitolo 28: *** Soap Bubble (Gracey) ***
Capitolo 29: *** Progeny; Parte Uno (Theodore) ***
Capitolo 30: *** Progeny; Parte Due (Theodore) ***
Capitolo 31: *** Whip (Gracey) ***
Capitolo 32: *** Behind The Eyes; Parte Uno (Theodore) ***
Capitolo 33: *** Behind The Eyes; Parte Due (Theodore) ***
Capitolo 34: *** It's Over (Gracey) ***
Capitolo 35: *** Sweetheart (Gracey) ***
Capitolo 36: *** Epilogo: ***



Capitolo 1
*** Prologo: Liberty; Parte Uno (Theodore) ***


Libertà.

Che cos’è, infondo, la libertà?

Molti filosofi, poeti e scrittori del passato hanno provato a dare una definizione universale ad un concetto così astratto, ma è un’impresa pressoché impossibile per un semplice motivo: ogni essere umano ha un punto di vista diverso e personale riguardo a ciò che significa la parola ‘libertà’.

Libertà, è seguire un sogno.

Libertà, è costruire il proprio futuro.

Libertà, è opporsi ad una decisione.

Libertà, è vivere una storia d’amore pur avendo tutto il mondo contro.

Nel mio caso, a cinquantatre anni compiuti da poche settimane, il mio concetto di libertà è racchiuso nel rumore di una porta scorrevole, munita di sbarre, che si apre, seguito dalla voce di un secondino che mi annuncia che, dopo altri sette anni trascorsi a Fox River, sono finalmente un cittadino libero.

Libero dall’ingombrante peso del proprio passato e libero di costruirsi una nuova vita senza scappare e nascondersi dalle autorità.

Indosso la giacca del completo che avevo con me nel momento dell’arresto e retrocedo di qualche passo, per osservare con cura il mio riflesso nella superficie liscia di uno specchio.

“Mi calza ancora perfettamente” mormoro poi, con un sorriso compiaciuto, senza mai staccare gli occhi dalla mia figura “proprio come la pelle di un serpente”

“Deve avere degli amici molto potenti, signor Bagwell, perché nessun topo di fogna come lei esce di prigione dopo aver scontato sette anni. Soprattutto se in passato è stato condannato a due ergastoli”.

Mi volto in direzione della giovane guardia che ha appena parlato, a cui è stato assegnato il compito di restituirmi i miei effetti personali, e per la seconda volta le mie labbra si piegano in un sorriso compiaciuto: anni fa il suo commento irriverente avrebbe fatto scattare una molla nella mia testa e scendere una cortina rossa davanti ai miei occhi; ora, invece, mi scivola addosso come gocce di pioggia.

“Quell’uomo, ormai, appartiene ad un passato che non esiste più. Ho pagato il mio conto con la giustizia e, se la memoria non m’inganna, durante la mia ultima permanenza a Fox River sono stato un detenuto modello”.

Il ragazzo non risponde, scuote la testa e poi procede a disporre delle banconote ed altri oggetti sulla superficie liscia di un tavolino, elencandoli uno ad uno.

“Settantuno dollari e trenta centesimi. Un laptop. Tre gomme da masticare”

“Le gomme puoi tenerle per il disturbo, mio giovane amico”

“Mi dispiace, ma tutto quello che entra qui dentro deve uscire insieme al rispettivo proprietario, ed il suo caso non fa eccezione” mormora il secondino, con un sorriso freddo, che non arriva a contagiargli gli occhi; mi volta le spalle per qualche secondo e poi mi porge una busta rigida e gialla, dalla forma rettangolare “ahh, quasi dimenticavo, è arrivata questa per lei, signor Bagwell. Probabilmente sarà la lettera di un’ammiratrice… Non riesco davvero a capire che cosa ci trovino le donne di affascinante in voi psicopatici”.

Questa volta sono io a non rispondere: raccolgo i miei effetti personali, insieme alla lettera, e percorro il breve e buio corridoio che mi separa dal mondo esterno; quando, finalmente, i miei piedi toccano l’asfalto del marciapiede, abbasso le palpebre per qualche istante e prendo un profondo respiro per assaporare questo momento.

E per capire che non si tratta di un sogno.

Poi, la curiosità prende il sopravvento su di me e decido di aprire la misteriosa busta gialla.

Non appena estraggo il suo contenuto, che consiste in un semplice foglio, i miei occhi si spalancano e sono costretto a ricorrere a tutto il mio autocontrollo per non farmi scivolare di mano il laptop ancora nuovo.

Cazzo.

Forse il passato non ha ancora chiuso tutti i conti con me.



 
Impiego qualche giorno, ma alla fine riesco a risalire all’indirizzo che stavo cercando grazie ad una centralinista gentile e disponibile, e non resto affatto sorpreso di vedere che corrisponde ad una piccola casetta trascurata, in uno dei tanti quartieri della periferia di Chicago.

Non mi sorprendo neppure quando, qualche minuto più tardi, vedo il proprietario fermarsi a pochi passi dai scalini che conducono all’ingresso dell’abitazione e piegarsi in avanti, per riprendere fiato; osservo i suoi capelli cortissimi, le spalle larghe, le braccia piene di tatuaggi e poi socchiudo le labbra, rivelando finalmente la mia presenza.

“Lincoln Burrows, non riesci proprio a stare lontano dai guai, vero? In che cosa ti sei cacciato questa volta?” domando, con una risata; lui alza il viso di scatto, con un’espressione tutt’altro che amichevole, e così mi affretto a dare qualche veloce spiegazione “prima che tu possa dire qualunque cosa, sappi che ho pagato il mio debito con la giustizia. Sono stato rilasciato qualche giorno fa da Fox River ed adesso sono un libero cittadino che ha chiuso definitivamente con il proprio passato burrascoso”

“Vattene subito dalla veranda di casa mia” sibila lui, raggiungendomi e superandomi velocemente, senza più degnarmi di un solo sguardo.

“Burrows…”

“Che cosa non hai capito delle parole che ho appena detto? Io non voglio avere niente a che fare con un verme come te, T-Bag. E non m’importa se hai pagato il tuo debito con la giustizia, questo non cancella il tuo tradimento durante l’operazione Scylla ed il fatto che hai quasi abusato di Sara. Vattene subito dalla veranda di casa mia o ti fracasso il cranio con le mie stesse mani”

“Desolato, Linc, ma non posso farlo. A quanto pare il Fato ha deciso di legarci nuovamente” rispondo prontamente, mostrandogli la busta gialla che ho portato con me; sul suo volto appare per qualche istante un’espressione confusa, subito sostituita da quella furente di pochi attimi prima.

“Che cosa significa?”

“Me l’hanno consegnata il giorno della mia scarcerazione. Riguarda tuo fratello. Michael potrebbe essere ancora vivo”.

Ho appena il tempo di terminare la frase che mi ritrovo bloccando contro una parete dell’abitazione, con la mano destra di Lincoln saldamente ancorata alla mia gola.

“Tu non devi neppure pronunciare il suo nome. Lo sai quello che è successo a mio fratello. Sai benissimo che si è sacrificato per permettere a Sara ed al bambino che aspettava di evadere da quella prigione”

“Razza di stupido e ottuso scimmione! Se non credi alle mie parole, guarda il contenuto di quella busta. Ti posso assicurare che non è opera mia. Pensaci un momento, Burrows, sempre se ti è rimasto un briciolo di cervello in quella zucca vuota: che vantaggio personale trarrei dicendoti che, forse, Michael Scofield è ancora vivo?”.

Sento la presa sulla mia gola allentarsi fino a scomparire del tutto, tossisco e cerco di riprendere fiato mentre quell’orso di Lincoln raccoglie la busta che è caduta per terra, ed osserva in silenzio la foto in bianco e nero, sfuocata, che ritrae il suo defunto fratello minore.

“È un falso” decreta poi, con voce atona “è sicuramente un falso, non c’è altra spiegazione”

“Ed io ti ripeto che non è opera mia. Guardala meglio!”

“E per quale motivo sarebbe arrivata dopo tutti questi anni? E perché proprio a te?”

“Ho pensato ad entrambe le domande e non sono riuscito a trovare una risposta, ma forse è racchiusa in questa frase… Guarda” indico le poche parole che sono state scarabocchiate in fretta sul foglio “ ‘per mano tua potrai conoscere le glorie della tua progenie’… Hai idea di che cosa possa significare?”

“No, e non m’interessa”

“Burrows! Ti ostini ancora a non capire che il Fato ci ha legati di nuovo insieme?”

“Per quel che mi riguarda, questo foglio potrebbe essere opera tua”.

A questo punto alzo entrambe le mani e decido di arrendermi prima di ritrovarmi nuovamente con una mano attorno alla gola o con il cranio fracassato.

“Sei rimasto lo stesso bastardo di una volta, Lincoln. Sai che cosa ti dico? Sono stanco di tutta questa merda che riguarda te, il piccolo Michelangelo, Sara ed il resto della vecchia squadra. Fanculo, ognuno per la sua strada” sbotto, in tono irritato, prima di ridiscendere gli scalini della veranda e allontanarmi a passo veloce.

Che si fotta anche il passato.

Adesso è il momento di ricominciare, davvero, una nuova vita.
 

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Capitolo 2
*** Prologo: Liberty; Parte Due (Theodore) ***


Come ogni uomo che torna ad essere libero dopo un lungo periodo di detenzione, anche io ho le mie esigenze personali e così, dopo aver speso una parte dei miei settantuno dollari e trenta centesimi per affittare la camera di un motel, mi siedo davanti allo schermo del mio laptop e trascorro la maggior parte della mattinata a sgranocchiare patatine ed a navigare su siti per ‘incontri romantici’.

E questo finché, improvvisamente, nell’angolo in basso a destra non compare un piccolo promemoria che mi ricorda di un appuntamento che ho per il giorno seguente.

Un appuntamento che non ricordo di aver fissato durante la mia ennesima permanenza dietro le sbarre di una cella, soprattutto perché non avevo con me il laptop.

Socchiudo gli occhi e muovo appena le labbra, leggendo velocemente ciò che c’è scritto all’interno del piccolo quadrato grigio, su cui spicca il disegno di un orologio: Dr Whitcombe, Direttore di Ricerca Prostesi, Università Delane.

Sotto questa riga ci sono un indirizzo e l’orario dell’appuntamento, ed è proprio quest’ultimo a farmi sorgere qualche dubbio riguardo ad una possibile trappola: nove e trenta di sera.

Chi mai fisserebbe un appuntamento alle nove e trenta di sera?

Ma ancora una volta, come nel caso della misteriosa busta gialla, la curiosità ha il sopravvento su di me e la sera seguente mi ritrovo nell’ufficio di una clinica privata, seduto su un’elegante poltrona di pelle, a fissare un uomo di circa quarantacinque anni, visibilmente a disagio a causa della mia presenza.

“Voglio essere sincero con lei, signor Bagwell: so chi è e quello che ha fatto. Personalmente ritengo che mostri come lei meritano solo di…”

“Di trascorrere il resto della loro vita dietro le sbarre di una cella” dico, completando la frase al posto suo “ormai conosco questo ritornello a memoria, e scommetto che ha a che fare con l’orario bizzarra del nostro appuntamento. Immagino che l’ultima cosa che vuole un professionista come lei, dottor Whitcombe, sia di essere visto in compagnia di una persona come me, e questo non fa altro che accrescere la mia confusione: se questo è il suo pensiero nei miei confronti, per quale motivo siamo qui?”.

A questo punto Whitcombe inizia a sciorinare una serie incomprensibile di termini tecnici per spiegarmi con esattezza di che cosa si occupa e qual è lo scopo delle sue ricerche in campo di Prostesi; fortunatamente nota la mia espressione perplessa e semplifica il tutto mostrandomi un’immagine molto chiara: ritrae un uomo, con una protesi cibernetica al posto della mano sinistra, che riesce ad allacciare una scarpa senza la minima difficoltà.

“Questo è il frutto delle mie ricerche. Posso rendere questo realtà grazie ad alcuni microchip da inserire nel cervello. Sfortunatamente, interventi come questo richiedono fondi consistenti di cui l’Università è sprovvista… Ma nel mio caso c’è stato un risvolto inaspettato: ho ricevuto un milione di dollari per procedere con l’intervento, ma ad una condizione. Il primo beneficiario di questa nuova tecnologia deve essere lei, signor Bagwell. Ho prenotato una sala operatoria per lunedì sera, è libero di fare ciò che vuole, dopotutto la mano è sua…”.

La notizia mi coglie così impreparato che per qualche istante resto in silenzio, prima di alzarmi e raggiungere una finestra.

Osservo la protesi di plastica che sostituisce la mia mano sinistra da sette anni ormai, la stessa che ho rubato ad un veterano quando ero un evaso ed un ricercato: la superficie non è più liscia a causa di numerose tacche che io stesso ho inciso per contare i giorni che mi separavano dal termine della mia pena.

“Per mano tua potrai conoscere le glorie della tua progenie…” mormoro, ricordandomi improvvisamente delle parole scarabocchiate sul foglio.

“Ha detto qualcosa?”

“No, nulla… Io… Posso avere qualche giorno per pensarci?”

“La sala operatoria è prenotata per lunedì. E come le ho già detto, si tratta della sua mano, signor Bagwell” ripete una seconda volta il dottor Whitcombe, con voce fredda.



 
Nonostante la diffidenza e nonostante i diversi dubbi che nutro nei confronti di questa faccenda ben poco chiara, mi presento in perfetto orario nella sala operatoria e Whitcombe ne approfitta per lanciarmi subito una frecciatina, dicendomi che non mi aspettava affatto.

“Ci sono momenti in cui un uomo deve ribellarsi con tutte le sue forze, altri in cui deve solo arrendersi a ciò che il Fato ha scelto per lui… E questo è proprio uno di quei momenti” mormoro, osservando le altre persone, presenti nella stanza, che si stanno preparando per procedere con l’operazione; la fermezza della mia decisione, però, inizia a vacillare quando mi ritrovo sdraiato su un lettino, con addosso solo un camice ed una cuffietta, e si sgretola come argilla non appena alle mie orecchie giungono le parole ‘anestesia totale’ “è proprio necessario ricorrere all’anestesia totale? Ho qualche difficoltà a giacere incosciente, e con addosso solo un camice, davanti ad un uomo che ha a portata di mano strumenti piuttosto affilati”

“Non si può fare senza anestesia”

“L’ho già fatto una volta, dottore”

“E cosa ha ottenuto?”

“Faccia qualcosa che non deve mentre dormo ed io…”

“Lei è l’ultima persona al mondo a cui vorrei fare un torto, signor Bagwell, lasci perdere queste sciocchezze e cerchi di rilassarsi”

“Mh” mi limito a dire, appoggio di nuovo la testa al lettino e concentro lo sguardo sulle piastrelle del soffitto, sforzandomi di non pensare a ciò che l’equipe medica potrebbe fare al mio corpo inerme e, prima che mi venga somministrata l’anestesia, ne approfitto per condividere una piccola perla di saggezza “è proprio vero che il Fato è una puttana volubile”.



 
Al mio risveglio vengo investito da un’ondata improvvisa di nausea e dai primi sintomi di una sgradevole emicrania; sbatto più volte le palpebre e resto senza fiato quando vedo con i miei stessi occhi il risultato dell’operazione.

La mia vecchia protesi in plastica è stata sostituita con un arto cibernetico, che riesco a muovere con estrema semplicità, come se fosse la mia vecchia mano di carne, ossa, muscoli ed epidermide.

“Non si preoccupi se si sente spaesato o se sente il bisogno di vomitare. Tra qualche ora gli effetti dell’anestesia svaniranno completamente e si sentirà subito meglio” a parlare è il dottor Whitcombe, l’unica persona presente nella sala al di fuori di me “è una persona libera, signor Bagwell, può andare”.

Mi alzo dal lettino, ma anziché dar retta alle sue parole mi avvicino a lui e lo blocco contro una parete, con la stessa violenza che Lincoln ha usato su di me.

“Io non me ne vado finché non mi avrà dato le dovute risposte. Chi c’è dietro a tutto questo? Perché lo sta facendo? È palese che c’è uno scopo secondario, nessuno dona un milione di dollari per un’operazione senza avere uno scopo personale. Parla, dottore, perché non voglio essere costretto ad usare le cattive maniere proprio ora che sono uscito di prigione da pochissimi giorni”

“Io non so nulla!” grida l’uomo, con voce strozzata a causa della paura e della stretta salda del mio nuovo arto “la prego, le sto dicendo la verità. Tutto quello che so è che il benefattore, o i benefattori, si è identificato con un nome: Outis. Ho svolto qualche ricerca ed ho scoperto che ‘Outis’ è una parola greca e significa ‘nessuno’. Di conseguenza nessuno è il suo benefattore, signor Bagwell”

“Oh, mio… Mio Dio… Tutto questo non è possibile…” balbetto, lasciandolo subito andare, e sono costretto ad appoggiarmi al lettino a causa di un attacco di vertigini.

“E non è tutto. Mi è stato riferito di farle avere questa busta, qualora si fosse sottoposto volontariamente all’intervento”.

La mia mano destra trema visibilmente quando l’allungo per afferrare la busta gialla, del tutto identica alla precedente, che il dottore estrae dal cassetto di una scrivania, e mentre la studio in silenzio non riesco a reprimere un brivido che mi percorre la spina dorsale.

Mio Dio, mi domando mentalmente, in che razza di gioco perverso sono stato intrappolato?



 
La seconda, misteriosa, busta non contiene foto sfuocate o strane scritte indecifrabili, ma un semplice indirizzo che mi conduce ad una graziosa villetta a due piani, pitturata di bianco, con un giardino estremamente curato.

Esito prima di suonare il campanello e poi attendo una risposta in silenzio, guardandomi attorno, per assicurarmi di non essere seguito da qualcuno.

Non so a chi appartiene questa abitazione.

Potrebbe essere di uno sconosciuto o di uno dei vecchi membri della squadra, tornati a loro volta in libertà.

In ogni caso, qualunque sia l’opzione giusta, nella mia mente regna un’unica domanda a cui non riesco dare una risposta: perché?

Perché organizzare tutto questo? A che scopo?

Chi c’è dietro a questo gioco perverso e, soprattutto, che cosa spera di ottenere?

La porta d’ingresso dell’abitazione si apre e mi ritrovo faccia a faccia con una giovane donna dai capelli rossi e vaporosi; sul mio viso appare un’espressione perplessa, perché sono sicuro di non averla mai vista in tutta la mia vita, mentre i lineamenti del suo diventano improvvisamente freddi e tesi, ed ho la strana impressione che non sia affatto sorpresa di vedermi.

Impressione che viene poi confermata dalle sue stesse parole.

“Ahh, sei tu” dice, infatti, stringendo le labbra in una linea sottile “iniziavo a sperare che questo giorno non sarebbe mai arrivato. Entra. Accomodati. Posso offrirti qualcosa nell’attesa? Una tisana? Una birra?”

“Perdonami, tesoro” rispondo, chiudendo la porta alle mie spalle “noi due ci conosciamo? Non ti offendere, ti prego, ma ho conosciuto così tante donne che faccio fatica a ricordarmi tutti i loro volti ed i loro nomi”

“Immaginavo che avresti risposto in un modo simile, ma pensavo di costituire un’eccezione visto che nell’unica volta in cui abbiamo scambiato qualche parola mi hai minacciata. Ricordi? Eravamo a Fox River e mi hai detto qualcosa riguardo al fare attenzione a giocare con il fuoco perché si rischia di rimanere bruciati”.

Le parole della sconosciuta mi riportano alla mente un ricordo che avevo totalmente rimosso e, per qualche istante, rivedo davanti ai miei occhi una giovane tirocinante con addosso una divisa azzurra da infermiera.

“Karla!” esclamo, ricordandomi all’improvviso il suo nome “lavoravi nell’infermeria a Fox River insieme a Sara e…”.

Non riesco a terminare la frase, sia per evitare di evocare altri ricordi e sia perché la nostra conversazione viene interrotta dall’arrivo di un ragazzino che apre e chiude la porta d’ingresso rumorosamente, prima di togliersi le scarpe da ginnastica e lasciar cadere a terra lo zaino che ha sulle spalle.

“Zia Karla, sono tornato” dice, e si accorge della mia presenza solo quando solleva il viso dalle scarpe “e lui chi è? Un tuo amico?”.

Karla mi supera, raggiunge il ragazzino e s’inginocchia sulla moquette, in modo da poterlo guardare negli occhi.

“No, non è un mio amico” mormora poi, prima di fissarmi ancora, con i muscoli della mascella tesi “è tuo padre, Ben”.

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Capitolo 3
*** Prologo: Liberty; Parte Tre (Theodore) ***


Lancio un’occhiata in direzione del salotto, concentrandomi sulla esile figura di Ben: è seduto sulla morbida moquette, con la schiena appoggiata al divano, e ha una tazza colma di latte e cereali appoggiata in grembo; di tanto in tanto ne mangia una cucchiaiata senza mai staccare gli occhi dalla televisione, perché stanno trasmettendo il suo cartone animato preferito.

“È un ragazzino molto intelligente”.

Le parole di Karla pongono fine al lungo silenzio che è sceso tra noi due e mi riportano finalmente alla realtà, facendomi capire che tutto questo non fa parte di un bizzarro sogno; mando giù un sorso di birra per prendere tempo e per pensare a cosa rispondere.

“Non lo metto in dubbio, ma il problema è un altro: Ben non può essere mio figlio”

“È normale che tu sia confuso, chiunque lo sarebbe al tuo posto se scoprisse improvvisamente di essere padre”

“No, non si tratta di questo. Ben non può essere mio figlio perché io non posso averne: sono sterile”

“Allora ci troviamo di fronte ad un miracolo della natura” commenta la rossa, con un sorriso tirato “hai fatto qualche esame?”

“No, non mi servono esami per esserne sicuro” esito prima di dare delle spiegazioni più approfondite perché, ancora una volta, sono costretto a frugare all’interno dello scomodo ed ingombrante bagaglio che costituisce il mio passato “io sono frutto di un incesto. L’uomo… L’uomo che ha contribuito alla mia nascita e mia madre erano fratelli. E i figli nati da una relazione incestuosa non posso procreare a loro volta, l’ho letto in un libro quando ero un ragazzo”

“Evidentemente non hai letto con attenzione quel libro, Theodore: i figli nati da una relazione incestuosa possono procreare a loro volta. Ovviamente c’è il rischio di trasmettere malattie genetiche, o che i bambini possano avere delle complicazioni fisiche fin dalla nascita, ma il vero problema si presenta solo nell’eventualità in cui l’incesto si protrae nel tempo… Puoi trovare tutte queste informazioni su internet o su qualunque libro che tratta di questo argomento, e dal momento che non hai in mano i risultati di un esame che confermano la tua presunta sterilità, stiamo affrontando un discorso privo di senso” ribatte subito Karla; si ferma per bere un sorso della sua tisana ed io ne approfitto per fare lo stesso con la mia birra, e sento già il bisogno di iniziarne una seconda o di sostituirla con qualcosa di molto più forte “e ti posso assicurare che non c’è neppure bisogno del test di paternità. Ti assomiglia molto in alcune espressioni, anche se fisicamente è identico a Nicole”.

Nicole.

Sono sette anni che non sento pronunciare il suo nome, ed ancora una volta sono costretto a lottare contro i ricordi.

“Io non sapevo…”

“Che fosse incinta? Era molto combattuta se dirtelo o se tenerti all’oscuro di tutto. Quando sei stato rinchiuso nuovamente a Fox River mi ha confidato che non sapeva se chiedere una visita coniugale, dato che all’epoca eravate ancora sposati. Temeva la tua reazione, Theodore, per diversi motivi: sia per come era finita la vostra storia e sia perché tu una volta le hai detto che non volevi diventare padre perché…”

“Sì, ricordo molto bene quella conversazione” dico, interrompendola all’improvviso: la cucina ed il salotto sono divisi da un semplice arco in legno, ed anche se stiamo parlando con un tono di voce molto basso non voglio rischiare che qualche parola fraintendibile giunga alle orecchie di Ben “dov’è Nicole? Perché non è qui con nostro figlio?”

“Non lo sai?” mi domanda Karla, piegando le labbra in un sorriso amaro “Nicole non c’è”

“Si è trasferita?”

“No, Theodore, non c’è più”.

Il mio cervello impiega diversi minuti per elaborare e comprendere il significato delle parole ‘non c’è più’, e quando finalmente ci riesce vengo colpito dalla loro durezza con la stessa intensità di un pugno allo stomaco.

Sono costretto a chiudere gli occhi ed a prendere un paio di profondi respiri per ritrovare il controllo del mio corpo e per riuscire a formulare una frase di senso compiuto.

“Come… Come è successo?”

“Complicazioni durante il parto. Nell’ultimo periodo era molto provata e stressata”

“Ha sofferto?”

“Ti risparmio i particolari”

“D’accordo… D’accordo… Quindi… Tu hai adottato Ben?”

“No, non l’ho adottato, ma mi sono occupata di lui durante questi sette anni… O forse sarebbe più giusto dire che qualcuno voleva che mi occupassi di lui durante questi sette anni”

“Che cosa significa?”

“Poco dopo la nascita di Ben mi è stata recapitata una busta gialla. Dentro c’erano una lettera ed un assegno molto consistente. Nella lettera c’era scritto che se mi fossi assunta la responsabilità di occuparmi di Ben avrei ricevuto assegni simili ogni mese, con regolarità, ma in cambio avrei dovuto farmi da parte il giorno in cui suo padre sarebbe tornato ad essere un uomo libero… Ed a quanto pare, contro ogni mia previsione, quel giorno è arrivato”.

Il racconto della giovane donna non fa altro che aggiungere dubbi e domande a quelli che già occupano la mia mente dal giorno del mio rilascio; contemporaneamente, però, riesco a trovare un piccolo punto debole che potrebbe trasformarsi in un punto a mio vantaggio, in uno spiraglio di luce.

“Gli assegni” dico, infatti, sporgendomi in avanti sul tavolo “a chi erano intestati?”.

Karla si alza dalla sedia e si sposta in un’altra stanza per recuperare una serie di foglietti rettangolari a cui dà una rapida occhiata.

“Kaniel Outis”.

Lo spiraglio di luce scompare con la stessa rapidità con cui è apparso.

Kaniel Outis.

Outis.

Nessuno.

“ ‘Outis’ è una parola greca. Significa ‘nessuno’. Quegli assegni sono intestati a nessuno” mormoro, utilizzando parole simili a quelle del dottor Whitcombe, ma la rossa non sembra essere particolarmente impressionata.

“Mi sembra piuttosto reale questo ‘signor nessuno’ visto che ogni mese, per sette anni, mi ha mandato un assegno da quattromila dollari. E mi sembra piuttosto reale anche questa firma. Magari si tratta di uno pseudonimo. Forse la persona che c’è dietro a tutto questo non vuole che si sappia la sua vera identità”.

Annuisco lentamente con la testa e poi rivolgo una seconda occhiata in direzione del salotto: la tazza, ormai vuota, è abbandonata sul pavimento ma lo sguardo di Ben è ancora concentrato sulle immagini colorate che scorrono rapidamente sullo schermo della TV; di tanto in tanto sulle sue labbra compare un sorriso divertito causato da una scena comica del cartone animato, o da qualche battuta di un personaggio.

Mi schiarisco la gola e poi decido di porre a Karla una domanda che ho accuratamente evitato fino a questo momento.

“Ben è a conoscenza del mio… Passato burrascoso?”

“Mi stai chiedendo se tuo figlio sa qualcosa del ‘Mostro dell’Alabama’? Se sa che sei uno psicopatico e pedofilo che è stato condannato a due ergastoli? No, ovviamente non gli ho raccontato questa parte della tua vita, ma sa che ti trovavi in prigione”

“Ohh, gentile da parte tua”

“Dovresti ringraziarmi, invece, Bagwell. Che cosa avrei dovuto dire? Che eri a spassartela da qualche parte del mondo anziché essere affianco al tuo unico figlio? In questo modo Ben ha avuto una spiegazione comprensibile riguardo all’assenza di suo padre, non credi?”.

Non rispondo e mando giù, in un unico sorso, quello che resta della mia birra.

“Quindi… Adesso mi lascerai andare via con lui senza opporti?”

“Aspetta, prima c’è una cosa che devi sapere… Ben deve sempre prendere queste. Una pastiglia tre volte al giorno: una dopo colazione, una dopo pranzo e una dopo cena. È importante che le prenda con regolarità” la giovane padrona di casa allunga la mano destra e prende due flaconi di plastica arancione, posizionandoli davanti a me; ne prendo in mano uno e leggo l’etichetta, su cui è scritto anche il nome completo di mio figlio.

Benjamin James Bagwell.

Non riesco a non sorridere tra me e me.

“James era mio cugino. Io e lui siamo cresciuti insieme, come due fratelli. Nicole sapeva che ero molto legato a lui… Perché deve prendere queste medicine?”

“Asma. Una forma piuttosto aggressiva. Fortunatamente non ha più crisi da molto tempo grazie a questi farmaci, ecco perché è molto importante, per lui, prenderli con costanza e regolarità. I momenti più critici sono la notte e la mattina ma, come ti ho già spiegato, se prende questi non c’è alcun pericolo” Karla esita nel proseguire, poi scuote la testa e torna a fissarmi negli occhi “sai che cosa hanno detto i medici quando hanno scoperto il problema di Ben? Hanno detto che si tratta di una forma genetica… A quanto pare, ti sei preoccupato a lasciare un’eredità piuttosto consistente a tuo figlio”.

Adesso è il mio turno di scuotere la testa prima di piegare le labbra in un sorriso, ma quando parlo la mia voce è poco più forte di un sussurro minaccioso.

“Sei fortunata ad avere un uomo diverso davanti ai tuoi occhi, tesoro, perché il vecchio T-Bag avrebbe già preso quel coltello da cucina” dico, indicando l’ oggetto che si trova a poca distanza dal lavandino “e lo avrebbe usato per aprirti a metà come uno scoiattolo… Sì, il vecchio T-Bag avrebbe fatto esattamente questo… Ma quell’uomo non c’è più, è rimasto relegato a Fox River, adesso esiste solo Theodore Bagwell... Ma non approfittarne, d’accordo?”

“Perché sto giocando con il fuoco e rischierei di bruciarmi, vero? Non cambierai mai, Bagwell, puoi ingannare te stesso e gli altri ma la verità è questa: non potrai mai diventare un uomo diverso da quello che sei stato finora perché non è possibile. Una volta che hai imboccato una strada senza ritorno non puoi pretendere di tornare sui tuoi passi”.

Dopo aver pronunciato queste parole con freddezza, e con uno sguardo altrettanto glaciale, Karla si alza dalla sedia e raggiunge Ben; io mi alzo a mia volta e mi appoggio all’arco di legno che separa la cucina dal salotto, perché non voglio intromettermi tra loro due, limitandomi ad osservare la scena in silenzio, in modo passivo: lei si inginocchia sulla moquette e, utilizzando tatto e le giuste parole, spiega a mio figlio che deve venire via con me.

Lui gira il viso nella mia direzione, mi guarda e poi fissa nuovamente sua ‘zia’.

“Questo significa che non potrò mai più vederti, zia Karla?”

“Mi dispiace, tesoro, ma non è una scelta che dipende da me” risponde lei, prima di abbracciarlo per l’ultima volta, facendomi apparire per l’ennesima volta come il ‘cattivo della situazione’; e dal momento che non voglio apparire in questo modo agli occhi del mio unico figlio, non appena ci lasciamo la candida villetta alle spalle decido di parlargliene, utilizzando la stessa tecnica della rossa: m’inginocchio sul marciapiede, senza preoccuparmi dei pantaloni che potrebbero sporcarsi o strapparsi, e cerco le parole migliori per iniziare un discorso.

“Se desideri continuare a vedere Karla puoi farlo, io non voglio impedirtelo”

“Non ha importanza” si limita a rispondere lui, scrollando le spalle, sorprendendomi.

“Ohh, credevo… Credevo fossi affezionato a lei” tento una seconda volta, ma la sua risposta non cambia e scrolla di nuovo le spalle; decido di non insistere ulteriormente riguardo a questa faccenda e mi alzo, concentrandomi sulla busta gialla, l’ennesima e maledetta busta gialla, che ho ricevuto proprio dalla rossa prima di essere congedato: non resto affatto sorpreso di trovare un foglio con un indirizzo al suo interno, ma la mia espressione cambia nello stesso momento in cui una piccola chiave scivola sul palmo della mia mano destra.

Anche Benjamin la nota, e nei suoi occhi azzurri compare uno sguardo incuriosito.

“Che cos’è?”

“Una chiave, ma per scoprire che cosa apre dobbiamo cercare questo indirizzo. Probabilmente apparterrà ad una cassetta di sicurezza” mormoro, con un sorriso, per non trasmettergli l’inquietudine ed il disagio che ogni nuova busta mi provoca.



 
Contro ogni mia previsione, la chiave non appartiene alla cassetta di sicurezza di una banca o di una stazione ferroviaria, ma bensì ad una villetta a due piani, simile a quella di Karla.

“È la nostra nuova casa?”

“A quanto pare sì” commento, osservando per qualche istante le due targhette posizionate affianco al campanello, che confermano la teoria di Ben: nella prima c’è scritto ‘Bagwell, Theodore’, mentre nella seconda c’è il nome completo di mio figlio “resta qui, Ben, entro io per primo. D’accordo?”

“D’accordo”.

Infilo la chiave nella serratura, la giro verso destra e poi muovo qualche passo nell’ingresso, guardandomi attorno con circospezione, per timore di essere aggredito all’improvviso: l’abitazione, però, sembra essere completamente vuota.

Completamente vuota ma completamente arredata allo stesso tempo, perché al suo interno non manca nulla e lo verifico con i miei stessi occhi: nel salotto ci sono una TV ed un telefono cordless perfettamente funzionanti, il frigo e la dispensa sono colmi di provviste, e nelle due camere da letto gli armadi sono pieni di vestiti nuovi e piegati con cura su diverse mensole.

Nel salotto, poi, c’è una porta che conduce ad una scala a chiocciola.

Quando arrivo all’ultimo scalino mi rendo conto di trovarmi in un garage, occupato da una splendida e nuovissima Mustang; mi lascio scappare un lungo fischio ammirato prima di avvicinarmi alla vettura per studiarla con maggior attenzione, e solo allora mi accorgo del foglietto di carta che è bloccato da un tergicristalli.

Lo prendo subito in mano, rischiando quasi di strapparlo, e scorro velocemente le poche righe, leggendole mentalmente.


 
‘Goditi tutto questo, Teddy.
Capirai da solo quando arriverà il momento di ricambiare il favore.’

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Capitolo 4
*** Your Lil' Princess (Theodore) ***


Non è semplice imparare a ricoprire il ruolo di padre da un giorno all’altro, soprattutto se è una cosa che hai evitato accuratamente per la maggior parte della tua vita.

Ben, poi, è tutto fuorché un ragazzino normale.

Fisicamente assomiglia a Nicole: il corpo esile, i tratti del viso e gli occhi azzurri sono i suoi; ma i capelli castani, le labbra e la maggior parte delle espressioni che fa gli ha ereditati da me, e purtroppo lo stesso vale anche per il carattere.

Benjamin ha un carattere terribilmente chiuso: non è timido, e neppure scontroso, ma è difficile iniziare una conversazione con lui perché ha la tendenza a rispondere sempre con monosillabi, come se avesse paura ad aprirsi un po’ di più.

L’osservo in silenzio mentre entrambi facciamo colazione con una tazza di cereali; rivolgo una rapida occhiata allo zaino abbandonato sopra al divano e finalmente trovo lo spunto giusto per tentare l’ennesima conversazione con mio figlio.

“Ti piace andare a scuola, Ben?”

“Sì, sono il secondo più bravo della mia classe. Il primo è il mio migliore amico”

“Ohh, hai un migliore amico? Come si chiama?”

“Mike” risponde Ben, fermandosi per mandare giù un lungo sorso di latte “sai, lui gioca a football nel pomeriggio, ma io non posso iscrivermi alla squadra a causa dell’asma. Non posso neppure fare ginnastica insieme ai miei compagni di classe perché rischierei di avere un’altra crisi… Però quando vado da Mike a fare i compiti, sua madre prepara sempre dei biscotti al cioccolato buonissimi”

“Ohh!” esclamo di nuovo, sorpreso, perché finora non l’ho mai sentito parlare così tanto “sono contento di sapere che hai un migliore amico, Ben. Io ne ho avuti due. James e David. James era mio cugino, mentre David era un ragazzo che ho conosciuto quando… Quando…”

“Quando eri in prigione?” domanda mio figlio, senza lasciarmi il tempo di inventare una bugia convincente; piego le labbra in una smorfia e mi ritrovo costretto ad annuire.



 
“Mi raccomando, Ben” mormoro, quando ci troviamo a pochi passi dall’ingresso della scuola che frequenta “cerca di essere educato con le tue insegnanti e con i tuoi compagni di classe. E se qualche bulletto prova a prendersela con te non esitare a picchiarlo. Ricordati di prendere la pastiglia appena hai terminato il pranzo… Ti ho messo i soldi per la mensa e per i distributori dentro l’astuccio. Io sarò qui alle quattro, in perfetto orario, ad aspettarti”

“Sì, Theodore”

“Ahh, quasi dimenticavo… Se dovessi essere in ritardo, non parlare con gli sconosciuti e non accettare nulla. Soprattutto se si tratta di dolcetti o caramelle, d’accordo?”

“D’accordo, Theodore, adesso devo andare o rischio di arrivare in classe in ritardo”

“Ahh… Sì… Certo…”.

Esito prima di allungare la mano destra e scompigliargli i capelli; Ben risponde con un mezzo sorriso e poi si affretta ad entrare a scuola, con le mani strette attorno alle cinghie dello zaino, voltandosi un’ultima volta per rivolgermi un cenno di saluto con la mano destra.

Ricambio il saluto e poi mi appoggio al tronco di un albero, incrociando le braccia all’altezza del petto.

Non sono arrabbiato con Benjamin perché mi chiama ‘Theodore’ anziché ‘papà’.

Lo capisco.

Sono comparso nella sua vita senza alcun preavviso, dopo sette anni di assenza, stravolgendola completamente: è normale che ai suoi occhi appaia come un perfetto sconosciuto.

Sto ancora riflettendo su questo argomento quando alle mie orecchie giunge un urlo femminile e acuto e, prima che riesca a capire che cosa stia succedendo, vengo travolto da qualcuno e sbatto con la schiena e la nuca contro il tronco dell’albero; così facendo evito di cadere sul marciapiede, ma in compenso un gemito esce dalle mie labbra.

Sento delle braccia attorno alle mie spalle, un corpo magro premuto contro il mio e la stessa voce di qualche istante prima a poca distanza dal mio orecchio sinistro.

“Ohh, mio dio! Sei proprio tu! Sei proprio tu! Lo sapevo! Lo sapevo!” grida la sconosciuta, ancora attaccata a me, mettendo a dura prova il mio apparato uditivo; a fatica riesco a liberarmi dall’abbraccio e ad allontanarmi di qualche passo per riprendere fiato e per massaggiarmi la nuca, che continua a pulsare dolorosamente.

“Mi dispiace frenare il tuo entusiasmo, ma credo che tu mi abbia appena confuso con qualcun altro” mormoro, con una smorfia, e nel volto della ragazza si dipinge un’espressione sorpresa e costernata; in verità sembra quasi delusa dalla mia risposta, come se si aspettasse una reazione diversa da parte mia.

“Non… Non mi riconosci? Davvero? Hai completamente dimenticato la tua piccola principessa?”.

Le ultime parole che pronuncia risvegliano in me un ricordo assopito da quattordici anni e, per qualche istante, davanti ai miei occhi rivedo una graziosa bambina con addosso un abito giallo a pallini bianchi, e con i capelli raccolti e bloccati da un fiocco dello stesso colore.

“Gracey?” domando, stupefatto, e lei annuisce lentamente.

Quella che credevo essere una pazza sconosciuta è, in realtà, Gracey.

La figlia di Susan.

“No, non dire nulla, non qui!” esclama, senza lasciarmi il tempo di riprendermi “conosco un posto migliore per parlare”.

Mi prende per mano e mi trascina letteralmente all’interno di una caffetteria; lascio scegliere a lei il tavolo, e quando ci sediamo l’uno di fronte all’altra ne approfitto per osservarla con più attenzione: la bambina che ho conosciuto un tempo, ed a cui ho insegnato la tabellina del nove, ha lasciato posto ad una giovane dai lunghi capelli castani e dagli occhi scuri, esile, slanciata e terribilmente simile alla madre.

Quando sorride, poi, la somiglianza è accentuata da una piccola fossetta che ha sul mento.

Sono molte le domande che vorrei farle, ma preferisco iniziare con qualcosa di vago per tastare il terreno.

“E così… Vi siete trasferiti a Chicago?”

“Io” si affretta a correggermi Gracey, posando sopra al tavolo il cartoncino del menù “io mi sono trasferita qui. Mamma e Zack sono rimasti a Tribune”

“Sei a Chicago completamente da sola?”

“Cinque minuti fa non ti ricordavi della mia esistenza ed adesso stai tentando di farmi la predica?” mi chiede, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro “sì, mi sono trasferita a Chicago completamente da sola… Sai, quando abiti in una piccola cittadina del sud, come Tribune, non ci sono molte opportunità per intraprendere una carriera brillante”

“Studi?”

“Ohh, sì… Veterinaria”

“Veterinaria” ripeto, annuendo “avrei dovuto immaginarlo… Hai sempre adorato gli animali, Gracey, me lo ricordo molto bene”

“E purtroppo mamma non mi ha mai permesso di avere un cane o un gatto… Non abbiamo mai avuto neppure un pesciolino rosso” mormora lei, mentre una cameriera porta le nostre ordinazioni, manda giù un sorso di cioccolata calda e poi arriva il suo momento di pormi qualche domanda “e tu? Che cosa ti ha portato a Chicago? Da quanto tempo sei qui?”

“In verità, sono qui da pochissimo tempo” rispondo, bevendo a mia volta un sorso di caffè “ascolta, Gracey, sono davvero contento di averti rivisto, ma… Ecco…”

“Ohh, cazzo!” esclama, all’improvviso, la figlia di Susan, guardando l’orologio che porta al polso sinistro; si alza di scatto dalla sedia e prende la borsa con un movimento così brusco che, per poco, non rovescia la sua tazza ancora piena di cioccolata fumante “dobbiamo continuare questa conversazione in un altro momento, Teddy, perché sono terribilmente in ritardo per un appuntamento della massima importanza. Grazie, grazie di tutto! E non sparire nuovamente per anni”.

Posa alcune banconote sopra al tavolo, mi abbraccia velocemente ed esce quasi correndo dalla caffetteria.

Mi volto in direzione della vetrina e la vedo proseguire la sua corsa, ormai disperata, sul marciapiede, con la borsa nera stretta nella mano destra e con i lunghi capelli che le ondeggiano sulla schiena e sulle spalle; ritorno a fissare il posto vuoto di fronte a me e scuoto la testa, sorridendo, sentendomi come se fossi stato investito da un uragano.

E, in un certo senso, è proprio ciò che mi è appena accaduto.

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Capitolo 5
*** Flames (Theodore) ***


Anche se Burrows mi ha detto, molto chiaramente, che considera la faccenda della misteriosa busta gialla uno scherzo di pessimo gusto, decido di svolgere le mie ricerche personali, perché voglio arrivare infondo all’intera questione; e così, nonostante i dubbi e le domande a cui non ho avuto risposta, accantono momentaneamente lo strano ed inaspettato incontro con Gracey e mi concentro sull’unico indizio che ho nelle mie mani: accendo il laptop e digito ‘Kaniel Outis’ sulla barra di ricerca di internet.

Ciò che vedo, però, anziché aiutarmi non fa altro che peggiorare la confusione che ho nella mia testa: sullo schermo appare una foto segnaletica che ritrae Michael, insieme a diversi articoli di giornale che lo identificano come un terrorista di livello internazionale.

In che razza di guaio si è cacciato Scofield?

“Ben, smettila di saltare sul letto! Rischi di cadere e di farti male! Smettila subito, d’accordo?” ordino ad alta voce, voltandomi in direzione della camera da letto di mio figlio; quasi subito le molle del materasso smettono di cigolare, ma anziché sentire la sua voce, alle mie orecchie giunge una serie di respiri sibilanti “Ben? Benjamin, stai bene? Che cosa sta succedendo?”.

Lascio perdere quello che ho appena scoperto e mi precipito da Ben, continuando a ripetere il suo nome: lo trovo seduto a terra, con la schiena appoggiata al letto e la mano destra premuta contro il petto, con le dita strette attorno alla stoffa del pigiama; dalle labbra socchiuse continua ad uscire quel suono sibilante e, anche se non l’ho mai vista prima con i miei occhi, capisco subito di trovarmi davanti ad una delle crisi di cui Karla mi ha accennato.

“Non… Non…” balbetta Ben, con gli occhi spalancati e colmi di un terrore indescrivibile.

“No, non ti sforzare, tesoro. Ben, calmati! Prova a fare profondi respiri! Adesso ti porto in ospedale e starai subito meglio. Non ti preoccupare, andrà tutto bene, andrà tutto bene” mormoro, e continuo a ripetere quelle stesse parole, anche quando siamo in macchina, per due motivi: sia per riuscire a calmare mio figlio, e sia per impedire al panico di immobilizzare il mio corpo ed annebbiare la mia mente.



 
Qualche ora più tardi mi trovo seduto in una camera da letto del reparto pediatrico.

Ben sta bene, il peggio è passato, ed ora dorme tranquillamente a pochi centimetri di distanza da me, con il braccio destro nascosto sotto il cuscino ed il petto che si alza ed abbassa in modo lento e regolare; la paura che mi attanaglia la gola e lo stomaco scivola rapidamente via, ma viene subito sostituita da un’altra sgradevole sensazione: senso di colpa.

Senso di colpa perché, a causa della stupida ricerca su internet, mi sono completamente dimenticato delle pastiglie che il mio bambino deve prendere per combattere la grave forma di asma che ha fin dalla nascita.

Ho permesso ai fantasmi del passato di entrare di nuovo nella mia vita, e Ben ha rischiato di pagare il prezzo più alto.

“Non si deve preoccupare” prova a rassicurarmi un’infermiera, forse perché ha notato la mia espressione assorta “adesso è stabile. Domani mattina, quando si sveglierà, sarà solo un brutto ricordo. Andrà tutto bene”

“Andrà tutto bene? Sarà solo un brutto ricordo?” ripeto, trattenendo a stento una risata sprezzante “non andrà tutto bene e non sarà solo un brutto ricordo. E lo sai perché? Perché ho dimenticato di far prendere a mio figlio le pastiglie di cui hai bisogno. Mi sono completamente dimenticato, capisci? Ben ha avuto quella crisi per colpa mia. Ha rischiato la vita ed io sono l’unico colpevole. Non venirmi a dire che tutto questo sarà solo un brutto ricordo perché non potrà mai esserlo. Anzi. Sarà un peso che mi porterò dietro per tutto il resto della mia vita”

“Signore, la notte è ancora lunga. Le consiglio di uscire in corridoio e di prendere qualcosa di caldo dalle macchinette per riprendersi dallo spavento. E le consiglio anche di riposare”

“La ringrazio, ma non sono intenzionato ad allontanarmi da mio figlio. Neppure di un solo millimetro”

“Signore, insisto, resterò io con suo figlio finché non tornerà. La prego, ha bisogno di calmarsi”.

Dopo l’ennesima esortazione sono quasi costretto a seguire il consiglio dell’infermiera ed esco nel corridoio per prendere una bevanda calda; sfortunatamente i distributori del reparto pediatrico sono fuori uso e mi ritrovo costretto a cambiare piano.

Mentre cerco una macchinetta di bevande calde in funzione, la mia attenzione viene catturata da un uomo ed una donna che stanno parlando, a bassa voce, all’interno di una stanza: lui è sdraiato sul materasso di un lettino, ed ha la gamba destra ingessata, mentre lei è seduta sul bordo e tiene un lembo del lenzuolo stretto nella mano sinistra.

Anche se la donna ha il viso rivolto verso il suo interlocutore, riconosco subito la lunga chioma di capelli rossi, che io stesso ho paragonato più volte alle fiamme di un falò.

Un colore simile non si dimentica facilmente, anzi, lo si riconosce in un battito di ciglia.

Ricevo conferma al mio sospetto quando la donna, dopo essersi chinata per baciare l’uomo, esce dalla stanza per recarsi un momento in bagno; la seguo, lasciando perdere i distributori automatici, e chiudo la porta alle mie spalle, senza far rumore.

Non si è ancora resa conto della mia presenza perché è impegnata a cercare qualcosa all’interno della sua borsa e così ne approfitto per osservarla: ad eccezione dei capelli più lunghi, e del viso più magro, è rimasta la stessa giovane donna che occupava la maggior parte delle fantasie sessuali dei detenuti di Fox River.

Comprese le mie.

“Salve, dottoressa Tancredi” sussurro; Sara solleva il viso di scatto, la borsa scivola a terra ed i suoi occhi scuri si spalancano “puoi stare tranquilla… Vengo in pace”

“Prova ad avvicinarti e giuro che inizio ad urlare”

“È l’ultima cosa che voglio” mi affretto a dire, alzando entrambe le mani; Sara mi guarda a lungo, poi si china per raccogliere velocemente la borsa, gli oggetti che si sono sparpagliati sul pavimento, e si avvicina alla porta.

Per precauzione stringe la mano destra attorno alla maniglia e questo mi fa capire che non ha ancora dimenticato ciò che è successo sette anni fa tra noi due.

“Sei evaso nuovamente da Fox River?”

“No, tesoro” rispondo con una risata alla sua domanda “ho cinquantatre anni, ormai sono vecchio per le fughe rocambolesche. Sono stato semplicemente rilasciato dopo aver scontato la mia pena”

“Mi hai seguita?”

“Che tu ci creda o no, ci troviamo nello stesso ospedale per una curiosa coincidenza… Lincoln non ti ha raccontato nulla della nostra piccola rimpatriata e di quello che sta succedendo?”

“Non vedo mio cognato da molto tempo”

“Ohh, immagino che questo abbia a che fare con la fede che indossi e con l’uomo che hai baciato poco fa. Lasciami indovinare: tu sei andata avanti con la tua vita, hai sposato un altro uomo e Burrows non l’ha accettato. Scommetto che lui è ancora ancorato al passato ed al ricordo di suo fratello, ma allo stesso tempo è così stupido ed ottuso che non vuole aiutarmi ad indagare”

“Indagare su cosa?” mi chiede lei: allontana la mano dalla maniglia, ma resta vicina alla porta, pronta a scappare in qualunque momento.

“Il giorno in cui sono uscito da Fox River, tesoro, un certo Kaniel Outis ha generosamente sborsato un milione di dollari per questa” spiego; mi tolgo il guanto di pelle nera, che indosso quasi sempre nell’arco di ogni giornata, e mostro alla dottoressa Tancredi la protesi cibernetica e perfettamente funzionante che riflette la luce dei neon “nessuno spenderebbe un solo penny per un avanzo di galera come me, soprattutto dopo quello che ho fatto… Perché mai, dunque, uno sconosciuto dovrebbe donarmi una nuova mano da un milione di verdoni?”

“Se stai cercando delle risposte hai scelto la persona sbagliata, perché io non…”

“Ahh, ma io ho già cercato delle risposte. Ho digitato la parola ‘Outis’ su internet, e sai che cosa ho trovato? La foto del tuo defunto ex marito. Un vero Lazzaro moderno. Una foto simile a quella che mi è stata recapitata il giorno della mia scarcerazione. Anche Burrows l’ha vista con i suoi occhi, ma crede che sia opera mia, come se traessi chissà quale vantaggio personale dicendo che Michael Scofield è ancora vivo… Sara, tu meglio di chiunque altro sai quanto sono sempre stati tesi i rapporti tra me ed il tuo ex marito”

“Tutto questo non ha senso” mormora lei, scuotendo la testa, rifiutandosi di guardare in faccia la verità “Michael non può essere ancora vivo. L’ho visto sacrificarsi davanti ai miei occhi”

“Hai visto il suo corpo?”

“Ha usato il suo corpo per creare un cortocircuito in un piano elettrico, per permettermi di aprire una porta e di raggiungere Lincoln ed Alex. Prima… prima di farlo mi ha spiegato che avevo pochi secondi a mia disposizione per aprire la porta e scappare, e che non dovevo voltarmi a guardarlo per nessuna ragione al mondo. Io l’ho fatto: sono uscita, ho raggiunto gli altri della squadra e per qualche minuto siamo rimasti lì, immobili, sperando di vedere Michael, ma lui non è apparso… Non è apparso perché nessuno riuscirebbe a sopravvivere ad una scarica elettrica così potente. Sono un medico, di conseguenza so quello che dico” mormora lei, chiudendo per qualche istante gli occhi scuri, perché questo è un argomento ancora delicato che le provoca molta sofferenza.

“Ma non hai risposto alla mia domanda”

“Sei tu che non ascolti le mie parole: io, Lincoln, Alex, Nicole e Sucre abbiamo atteso il ritorno di Michael, ma quella porta non si è mai aperta. Michael non è vivo, non so che cosa tu abbia ricevuto e chi sia questo Kaniel Outis, ma lui non c’entra con questa faccenda. Sicuramente si tratta di uno scherzo di pessimo gusto, o forse ci sei davvero tu dietro a tutto questo. Forse lo stai facendo per tormentare me e Linc”

“Sara, stai commettendo lo stesso errore di Burrows, ti prego! Qui sta succedendo qualcosa ed è opera di Scofield. Vuole qualcosa da tutti noi, vero?”

“Stai lontano dalla mia famiglia, T-Bag, o giuro che ti ammazzo con le mie stesse mani”

“Sara!” esclamo nuovamente, inseguendola fuori dal bagno, riuscendo ad afferrarla per entrambe le braccia “è meglio avermi dalla tua parte come amico. Cerchiamo di mettere da parte le incomprensioni del passato ed indaghiamo insieme per arrivare infondo a questa faccenda”

“Lasciami andare immediatamente” ribatte la dottoressa Tancredi; riesce a liberarsi dalla mia presa, mi assesta uno schiaffo sulla guancia sinistra e poi si allontana velocemente lungo il corridoio, ignorando le mie parole che la esortano a ritornare sui suoi passi prima di commettere il peggior errore della sua vita.

Alla fine sono costretto ad arrendermi e lascio ricadere le braccia lungo i fianchi, scuotendo lentamente la testa; la guancia ha già iniziato a pulsare a causa del colpo che ho ricevuto, ma ignoro completamente il dolore.

Credevo che con Sara sarebbe stata una faccenda diversa e invece anche lei, come Lincoln, rifiuta categoricamente di guardare in faccia ciò che ai miei occhi appare limpido e cristallino come l’acqua di un lago.

E così facendo non si rende conto del tempo che sta sprecando.

Anzi, che stiamo sprecando.

Perché, ormai, è chiaro che in questa faccenda è coinvolta tutta l’ex squadra.

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Capitolo 6
*** Matter Of Time (Gracey) ***


“Cazzo! Cazzo! Cazzo!” continuo a ripetere, facendomi largo tra i marciapiedi affollati di Chicago, ignorando il dolore che sento al fianco sinistro ed il cuore che minaccia di esplodermi nel petto; tutti i miei sforzi, però, si rivelano inutili perché quando raggiungo il luogo dell’appuntamento è ormai troppo tardi: la porta d’ingresso dell’edificio è chiusa a chiave, e a nulla servono i miei tentativi di spingere e tirare la maniglia “no, no, no! Maledizione! No! Cazzo!”.

Sfogo la frustrazione che sento contro la mia povera borsa, scagliandola sul marciapiede, proprio nel momento in cui una donna, con addosso un elegante completo color rosa pastello, esce da una porta secondaria e s’incammina verso la direzione opposta alla mia; la raggiungo, bloccandole fisicamente il passaggio e le chiedo se sono arrivata troppo tardi per il provino.

Lei, ovviamente, conferma le mie paure ed a nulla servono le parole supplicanti che escono dalle mie labbra.

“Mi dispiace, signorina” mi dice, in tono cordiale ma freddo “le audizioni si sono concluse mezz’ora fa. Avrà più fortuna la prossima volta, le auguro una buona giornata”

“La prossima volta? E quando ci sarà una prossima volta?”

“Tra circa dodici mesi”

“Dodici mesi? Un anno? Ma io non posso aspettare tutto questo tempo!” insisto, spostandomi a sinistra, impedendole così di superarmi “la prego, mi dia una possibilità! Sono sicura che potrà fare una piccola eccezione!”

“Mi dispiace, ma non posso fare alcuna eccezione, signorina…”

“Gracey. Gracey Hollander”

“Signorina Hollander. Avrebbe dovuto presentarsi in orario per il provino, proprio come hanno fatto tutte le altre ragazze. Ora, se non le dispiace, devo andare o rischio di arrivare in ritardo ad un appuntamento. E tutti noi sappiamo quanto sia terribilmente seccante arrivare in ritardo ad un appuntamento, vero?”.

Ignoro la frecciatina della donna e, per l’ennesima volta, la supplico di fare un’eccezione.

“La prego! La prego, mi dia una possibilità! Questo provino significa molto per me! Le prometto che non se ne pentirà e non le farò perdere un solo minuto del suo prezioso tempo, ma mi dia una possibilità. Mi sono trasferita dal Kansas per riuscire a realizzare il mio sogno, non voglio gettare tutto al vento per una sciocchezza come pochi minuti di ritardo”

“È evidente che noi due abbiamo un concetto differente di tempo, signorina Hollander, se per lei ‘mezz’ora’ equivale a ‘pochi minuti’. D’accordo, le darò una possibilità, mi dia il suo book fotografico”.

Il sorriso apparso sulle mie labbra si spegne rapidamente, sostituito da un’espressione confusa.

“Book fotografico?” domando, spiazzata, e l’organizzatrice piega le labbra in un’espressione seccata.

“Sì, signorina Hollander, un book fotografico. Tutte le aspiranti modelle sanno che bisogna presentarsi ad un provino con un book fotografico come curriculum personale. Senta, gliel’ho detto, ho un appuntamento molto importante e non posso arrivare in ritardo, ma voglio venirle incontro. Ecco. Prenda questo” mi dice, porgendomi un biglietto da visita su cui c’è scritto un nome ed un numero di telefono “quando avrà tutto il necessario mi chiami. E vedremo se potrò fare ancora qualcosa per lei. Nel frattempo, buona giornata”.

Questa volta non provo a fermarla.

Osservo la donna allontanarsi a passo veloce e poi abbasso lo sguardo sul piccolo rettangolo di carta che ho in mano, ignorando la mia borsa ancora abbandonata sul marciapiede.

Non è molto, penso con una smorfia, ma è comunque un inizio.



 
Non appena rientro in appartamento, Ashley, la mia coinquilina, mi sommerge subito di domande, perché è ansiosa di sapere l’esito del provino.

“Allora?” mi chiede, infatti, distogliendo lo sguardo dalla rivista che sta sfogliando “come è andata? Ti hanno presa? Ti hanno detto qualcosa? Cosa hai dovuto fare?”

“Nulla. Non ho dovuto fare nulla perché sono arrivata con mezz’ora in ritardo al provino e non ho potuto sostenerlo”

“Ohh, Gracey!” esclama Ashley, alzando gli occhi azzurri al soffitto “ti avevo raccomandato di non arrivare in ritardo! Lo sai che quando si tratta di provini gli organizzatori pretendono la massima serietà e puntualità! È più forte di te non riuscire a rispettare gli orari che ti vengono imposti?”

“E tu sai perfettamente quanto significava per me quel provino!” ribatto, lasciandomi cadere sul divano.

Non sono stata del tutto sincera con Theodore quando mi ha chiesto spiegazioni riguardo al mio trasferimento a Chicago: è vero, sono venuta fin qui per avere più possibilità di intraprendere una brillante carriera, ma non sto studiando veterinaria all’università.

Il mio sogno è riuscire ad entrare nel mondo della moda, e nel frattempo lavoro come cameriera in un ristorante, insieme ad Ashley, per mantenermi e per pagare le spese dell’affitto.

Mamma e Zack non condividono la mia scelta, di conseguenza non perdono occasione per tentare di farmi cambiare idea, e di farmi tornare a Tribune: ancora non hanno capito che non ho alcuna intenzione di ritornare nella piccola città del sud in cui ho trascorso la maggior parte della mia vita.

“Che cosa hai intenzione di fare adesso?”

“Ho incontrato una delle organizzatrici del provino. Mi ha dato questo bigliettino da visita e mi ha detto di chiamarla non appena avrò il mio book fotografico… So che non è molto, ma è sempre meglio di niente, che ne pensi? Secondo te equivale di più ad un ‘sì’ o ad un ‘no’?”

“Non lo so. Le uniche cose che so è che tua madre ha lasciato un messaggio nella segreteria telefonica, ed il nostro turno al ristorante inizia alle tre. Riuscirai ad essere puntuale?”.

Preferisco non rispondere alla battutina di Ashley e nascondo il viso dietro ad uno dei cuscini del divano.



 
Io ed Ashley non condividiamo solo lo stesso appartamento e la passione per lo shopping: anche lei si è trasferita a Chicago per inseguire il suo sogno legato al mondo dello spettacolo; ed anche lei spera che ogni provino a cui partecipa si riveli essere quello giusto, quello che cambierà la sua vita per sempre.

E, proprio come me, cade sempre in uno stato di perenne agitazione quando mancano poche ore al fatidico momento.

Provo a rassicurarla mentre ci occupiamo di sistemare alcuni dolci sul banco della caffetteria, ma mi blocco nello stesso momento in cui vedo un uomo passare velocemente davanti alla vetrina del ristorante, e la mia coinquilina è costretta a schioccare le dita della mano destra davanti ai miei occhi per farmi tornare alla realtà.

“Hai detto qualcosa?” domando, confusa, sbattendo più volte le palpebre.

“Sì, Gracey. Stavamo parlando del provino che devo affrontare domani mattina e all’improvviso ti sei pietrificata. Che cosa hai visto?” mi domanda a sua volta Ashley, sbirciando in direzione della vetrina ed osservando con curiosità i passanti.

“Nulla… Nulla… Io… Devo uscire per qualche minuto…”

“Che cosa? Sei impazzita? Il Capo sarà qui a momenti e dobbiamo ancora terminare di allestire il bancone prima dell’apertura! Non puoi lasciarmi da sola ad occuparmi dei dolci e dei tavoli! Quella iena mi ucciderà e ti sbatterà fuori da questo posto se non ti trova qui al suo arrivo… Ed io non ci tengo a perdere il lavoro perché tu devi andare ad inseguire le farfalle per le strade di Chicago”

“Ti prometto che resterò fuori solo qualche minuto, il Capo non si accorgerà neppure della mia assenza, ma tu devi coprirmi” rispondo, togliendomi il grembiule “quando se ne presenterà l’occasione, non esiterò a ricambiare il favore. Sono in debito con te”

“No, non sei in debito con me. Sei in pesante debito con me, Gracey”.

Ignoro completamente le ultime parole che Ashley mormora ed esco dal ristorante correndo, cercando con lo sguardo l’uomo che ho visto passare davanti alla vetrina, lo stesso con cui ho parlato davanti al tavolo di una caffetteria appena poche ore prima, e lo trovo appoggiato ad un lampione, impegnato ad accendersi una sigaretta.

Anche se sono trascorsi sette anni dal giorno in cui ha fatto una sorpresa a me, Zack e mamma, pranzando insieme a noi, non è cambiamento minimamente, ad eccezione dei capelli che sono tornati del loro colore naturale e del pizzetto sul mento, striato di grigio; l’osservo in silenzio mentre ripone l’accendino in una tasca dei pantaloni per poi concentrarsi sulla sigaretta: prende una profonda boccata, l’allontana dalle labbra, soffia fuori una nuvola di fumo scuro, e ripete la stessa operazione diverse volte, finché nella sua mano destra non resta altro che un mozzicone, che finisce a terra, sotto la suola della sua scarpa destra.

Muovo qualche passo per avvicinarmi a lui, ma mi blocco all’improvviso, proprio come è accaduto al ristorante, quando vedo un ragazzino uscire da un edificio, insieme a tanti altri, e raggiungere Theodore; parlano per qualche secondo prima d’incamminarsi verso la mia direzione ed io, per non essere riconosciuta, sono costretta a nascondermi dietro il tronco di un albero.

Li vedo passare a pochi centimetri di distanza da me e, spinta da un impulso che non riesco a reprimere, decido di seguirli; ma dopo pochi minuti sono costretta a nascondermi nuovamente dietro il tronco di un albero perché Theodore si volta all’improvviso, probabilmente perché ha capito che qualcuno lo sta seguendo, e subito dopo sento il ragazzino rivolgergli una domanda, chiamandolo per nome.

“Perché ti sei fermato, Theodore?”

“Credevo di aver visto qualcuno, Ben, ma devo essermi sbagliato. Forza, torniamo a casa”.

Aspetto una decina di secondi prima di tornare sul marciapiede e sono costretta ad accelerare il passo perché rischio di perderli tra la folla; li seguo fino ad un grazioso quartiere di villette e, riparata all’ombra di un vicolo, li osservo percorrere il piccolo vialetto di una abitazione bianca, a due piani, prima di sparire dietro la porta d’ingresso.

Solo a questo punto decido di tornare al ristorante, ma per tutto il tragitto, e per tutto il lungo turno che sono costretta ad affrontare a causa della mia incursione fuori programma, continuo a pensare all’ex compagno di mia madre ed al ragazzino che è andato a prendere a scuola: potrebbe essere suo nipote, ma durante la relazione che ha avuto con mia madre non ha mai accennato ad una sorella o a un fratello; in realtà solo ora mi rendo conto che non ha mai parlato molto della sua famiglia, anzi, se i miei ricordi non m’ingannano era un argomento che preferiva evitare accuratamente.

Potrebbe essere suo figlio ma, in quel caso, perché si è rivolto a lui chiamandolo ‘Theodore’ e non ‘papà’?

E, sempre in quel caso, dov’è sua moglie? O la sua compagna?

Il giorno seguente decido di svolgere alcune ricerche personali, tenendo Ashley all’oscuro di tutto, e mi reco nel grazioso quartiere in cui Theodore abita; apro il cancelletto socchiuso, mi avvicino alla porta d’ingresso ed osservo le due targhette posizionate appena sopra il campanello, su cui sono incisi due nomi maschili: ‘Theodore Bagwell’ e ‘Benjamin James Bagwell’.

Non c’è una terza targhetta con un nome femminile e questo mi fa pensare ad una possibile terza opzione: forse l’ex compagno di mia madre si è trasferito a Chicago in seguito ad un brusco divorzio e ciò ha compromesso il rapporto che ha con suo figlio; questo, almeno, spiegherebbe perché Benjamin non lo chiama ‘papà’.

Dopo un momento di esitazione decido di suonare il campanello, con la speranza che qualcuno venga ad aprirmi, e nel frattempo cerco di trovare un’ottima scusa che non mi costringa a confessare il pedinamento del giorno precedente; i secondi passano velocemente, ma dall’altra parte della porta continua a regnare il silenzio più assoluto, faccio un secondo tentativo e poi mi allontano, delusa, perché ormai è chiaro che non c’è nessuno in casa.

Tuttavia non sono intenzionata ad arrendermi così facilmente e decido di fare un secondo tentativo qualche giorno più tardi, quando non devo recarmi a lavoro per l’ennesimo turno massacrante, e questa volta la fortuna è dalla mia parte: sotto il portico, intento a leggere un libro a gambe incrociate, c’è il ragazzino che mi rivolge un cenno di saluto.

Resto subito colpita dal colore dei suoi occhi, perché sono della stessa sfumatura di azzurro di un cielo estivo e completamente spoglio di nuvole.

“Stai cercando Theodore? Sei una sua amica?” mi domanda, inclinando il viso verso sinistra.

“Sì e… Sì”

“È laggiù” risponde lui, indicandomi un albero, e poi torna a concentrarsi sulle pagine del libro, lasciandomi confusa.

Capisco il senso delle sue parole non appena mi avvicino all’albero: alcune assi sono state inchiodate sul tronco in modo da formare una piccola scala che conduce ad una casetta di legno costruita sopra a due robusti rami; proprio dalla costruzione in miniatura proviene il rumore incessante di un martello che batte contro una superficie metallica, probabilmente quella di un chiodo.

Le mie supposizioni si rivelano esatte quando, dopo essermi arrampicata sulle assi, sbuco attraverso una botola che c’è sul pavimento della casetta e vedo Theodore impegnato a costruire il tetto: affianco a lui ci sono dei chiodi, sparpagliati, un cacciavite ed altri attrezzi.

È così concentrato che non si accorge della mia presenza.

“Disturbo?” chiedo, ad alta voce, per sovrastare il rumore.

Lui si blocca immediatamente, con il martello a mezz’aria, ma sul suo volto non appare un’espressione sorpresa, bensì un mezzo sorriso compiaciuto.

“Guarda, guarda…” dice poi, posando l’oggetto a terra “e così, alla fine, la mia inseguitrice ha deciso di palesarsi”

“Come sapevi che ero io?” domando, spalancando gli occhi, senza provare a difendermi o a fingere di non capire; ed in tutta risposta ricevo un altro mezzo sorriso, prima che riprenda ad occuparsi del tetto.

“Non lo sapevo, Gracey, quel giorno non sono riuscito a vedere in faccia la persona che mi stava seguendo. Ma dal momento che tu sei qui, ed io non ti ho mai dato il mio indirizzo, direi che il cerchio si restringe notevolmente, non credi?”

“Sì, direi che il cerchio si restringe notevolmente” mormoro, a mia volta, sedendomi a gambe incrociate sulle assi di legno “e poi, dal momento che non mi hai lasciato il tuo indirizzo, dovevo trovare un modo per proseguire la conversazione che abbiamo lasciato a metà dentro quella caffetteria”

“Sei sempre stata una ragazzina sveglia, intelligente e furba, ma è meglio se la tua carriera di stalker inizia a finisce qui, Gracey, perché potrebbe procurarti parecchi guai… Come è andato l’appuntamento?”

“Appuntamento?”

“Sì, quello che ti ha fatto correre fuori dalla caffetteria. Era un appuntamento romantico?”

“Ohh, no, no, no… Non era nulla di simile! Dovevo accompagnare la mia coinquilina ad un provino. Sai… Supporto morale” dico, guardandomi attorno, attorcigliando una ciocca di capelli con l’indice destro: non sono mai stata brava ad inventare bugie, ma preferisco evitare ancora di raccontargli il vero motivo per cui mi trovo a Chicago “io non ho un ragazzo”

“Buon per te, Gracey. E ricorda sempre quello che sto per dirti: i ragazzi sono solo degli animali con uno scopo ben preciso in testa, che non ha nulla a che fare con una cena a lume di candela o con una passeggiata al chiaro di luna. Compiono questi gesti solo per assicurarsi di arrivare il prima possibile al loro obiettivo”

“Ma in questo modo includi te stesso nella categoria”

“Io sto parlando di ragazzi. Non di uomini. E, comunque, esistono sempre delle rare eccezioni”

“E tu come eri da ragazzo? Eri come tutti gli altri o facevi parte delle rare eccezioni?”

“Ero… Un ragazzo” risponde, evasivo, senza darmi ulteriori spiegazioni.

Il silenzio ripiomba tra noi, e grazie ad esso noto un particolare che finora è sfuggito ai miei occhi.

“La tua mano sinistra” mormoro “l’ultima volta che ti ho visto avevi una protesi. Come riesci a muoverla perfettamente? E perché indossi quel guanto?”

“Gracey, è tardi. Forse faresti meglio a tornare a casa ora, non credi?”.

Theodore non mi guarda, continua a fissare le tavole di legno che compongono il tetto della casetta, ma capisco ugualmente che le mie parole, in modo del tutto involontario, lo hanno irritato; e così sono costretta ad alzarmi dal pavimento ed a scendere la scaletta, mentre lui riprende il lavoro lasciato a metà.

“Non è andata molto bene, vero?”.

Mi volto in direzione del ragazzino, ed annuisco con il capo.

“A quanto pare sono arrivata nel momento sbagliato… O forse, più semplicemente, non gradisce la mia presenza”

“La colpa non è tua, non è arrabbiato con te, è semplicemente di pessimo umore. Qualche giorno fa ho dimenticato di prendere le mie medicine e così abbiamo trascorso una notte in ospedale. E Theodore crede che la colpa sia sua. Forse dovresti riprovare a fargli una sorpresa uno dei prossimi giorni, sono sicuro che sarà più calmo… E sono sicuro che se porterai con te dei biscotti al cioccolato gli tornerà il buonumore. Sai, a lui piacciono molto i biscotti al cioccolato”

“Davvero?” domando, sorpresa.

“Sì, sono i suoi preferiti” risponde Ben, annuendo.

Rivolgo un sorriso al mio complice inaspettato e poi esco dal vialetto, chiudendo il cancelletto alle mie spalle.

Credo che seguirò il suo consiglio.
 

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Capitolo 7
*** Cookies (Gracey) ***


Non sono mai stata brava ai fornelli, ma fortunatamente, in un sito per principianti, riesco a trovare una ricetta semplice e rapida per preparare degli ottimi biscotti al cioccolato.

 O almeno questo è ciò che penso finché il bancone a penisola della cucina non si trasforma in un vero campo di battaglia su cui regnano ciotole, vassoi, cucchiai di legno ed una poltiglia informe che assomiglia a tutto tranne ad un impasto per biscotti.

“Gracey, il tuo telefono sta squillando!”

“Non ora, Ashley, non è un buon momento”

“Faresti meglio a rispondere, è tua madre”.

Sbuffo, seccata, e senza staccare gli occhi dai biscotti che stanno cuocendo in forno mi faccio passare il cellulare dalla mia coinquilina; quando guardo lo schermo sollevo automaticamente gli occhi al soffitto: non si tratta di una semplice chiamata, ma bensì di una videochiamata, e difatti non appena rispondo appare il volto di mia madre, con la sua solita espressione preoccupata che ormai conosco fin troppo bene.

Ed anche le sue prime parole esprimono solo preoccupazione.

“Gracey! Finalmente riesco a parlare con te! Sono giorni che non ho tue notizie!”

“Sto bene, mamma, non ho potuto chiamarti perché ero impegnata con il lavoro”

“E quel provino di cui mi parlavi? Come è andato?”

“Bene e male allo stesso tempo” mormoro, mordendomi il labbro inferiore, continuando a lanciare occhiate in direzione dei biscotti “non sono riuscita a partecipare perché sono arrivata in ritardo… Però ho incontrato una delle organizzatrici e sono riuscita ad ottenere un provino privato con lei. Mi ha dato un biglietto da visita con il suo numero e mi ha detto di chiamarla non appena avrei avuto il mio book fotografico. È una specie di curriculum per le aspiranti modelle, mamma, devo prendere appuntamento con un fotografo, posare per un servizio fotografico e scegliere le foto migliori da inserire nell’album”

“Gracey, lo sai benissimo che tutto questo non piace né a me né a tuo fratello. Il mondo dello spettacolo non è così patinato come lo mostrano in TV e sulle riviste. E se fossi in te non crederei ciecamente a tutto quello che ti dicono. Sono sicura che quella donna ha detto quelle stesse parole a chissà quante ragazze, e scommetto che quando chiamerai quel numero non risponderà nessuno e sarai costretta ad affrontare l’ennesima delusione”

“Dici questo solo perché vuoi farmi tornare a Tribune”

“Non dico questo solo perché voglio che torni a casa. Dico questo perché, oltre ad essere tua madre, sono una persona adulta e so come funzionano questi provini. Servono solo ad illudere e non portano a nulla di concreto. Gracey, ti prego, sei ancora in tempo per tornare a Tribune e per riprendere a studiare! Ricordi quello che mi dicevi quando eri una bambina? Il tuo sogno era di lavorare in una clinica veterinaria e…”

“Mamma, scusa ma non posso continuare a parlare con te. Rischio di bruciare i biscotti”.

Interrompo il suo monologo infinito, infilo il cellulare in una tasca dei jeans e mi concentro sulla teglia rovente, che riesco ad estrarre dal forno senza far rotolare i dolcetti sul pavimento; l’appoggio sopra al bancone a penisola ed osservo il risultato finale, soddisfatta: anche se non sono perfettamente tondi, i biscotti che ho preparato hanno un profumo invitante, e lo confermano anche le parole della mia coinquilina.

“Che profumino delizioso, dovresti prepararli più spesso per colazione!” esclama Ashley, ma quando allunga la mano destra per afferrarne uno la blocco prontamente “ehi! Perché non posso mangiarli?”

“Perché questi biscotti non sono per te” rispondo, dandole le spalle per cercare un piatto; mi pento subito di quello che ho detto perché Ashley inizia a tempestarmi di domande.

“Non sono per noi? E per chi sono? Aspetta, lasciami indovinare… Scommetto che questi biscotti hanno a che fare con la tua fuga improvvisa durante il nostro turno al ristorante e con le incursioni misteriose degli ultimi giorni. Non hai ancora raccontato che cosa hai visto e dove sei stata, e sai benissimo che tra coinquiline non ci devono essere segreti. Se avessi avuto un appuntamento con un ragazzo, te lo avrei raccontato subito”

“E cosa ti fa credere che si tratta di un appuntamento con un ragazzo?”

“Gracey, credi che io sia così stupida? Mi è bastato vedere lo sguardo che avevi quel giorno ed il modo in cui sei uscita dal ristorante per capire che c’è di mezzo un ragazzo”

“Hai frainteso tutto” rispondo, con un sorriso, mentre dispongo i biscotti con cura sopra ad un piatto di ceramica, per poi coprirli con un panno “non si tratta di un ragazzo… Ricordi il giorno del provino? Sono arrivata in ritardo perché ho incontrato una persona che non vedo da moltissimo tempo ed a cui sono legata fin da quando ero bambina. Purtroppo in quell’occasione non abbiamo avuto la possibilità di scambiarci il numero di cellulare e così, appena l’ho rivisto passare davanti alla vetrina, mi sono precipitata in strada”

“Quindi si tratta di un ragazzo, e questo significa che ho ragione io”

“No, non è un ragazzo. È un uomo. È l’ex compagno di mia mamma”.

Sfortunatamente le mie parole non riescono a soddisfare la curiosità di Ashley, anzi: sul suo volto appare un’espressione che è un misto di sorpresa ed incredulità, e vengo travolta da una nuova ondata di domande, alla quale non riesco a sottrarmi.

“L’ex compagno di tua madre? E perché lo vuoi rivedere?”

“Te l’ho già spiegato: non lo vedo da tempo e sono molto legata a lui. Ashley, i biscotti si stanno raffreddando, prometto che ti racconterò tutto al mio ritorno, d’accordo?”

“D’accordo” borbotta la mia coinquilina, per nulla entusiasta alla prospettiva di non poter proseguire con il mio interrogatorio.

Esco dal nostro appartamento tirando un sospiro di sollievo, scendo velocemente le scale, e percorro la strada che mi separa dalla casa di Theodore con il piatto stretto saldamente tra le mie mani, come se fosse una reliquia preziosa; ed è proprio l’ex compagno di mia madre ad aprire la porta d’ingresso, dopo che ho suonato più volte il campanello.

Mi basta dare un’occhiata alla sua espressione assonnata ed ai suoi capelli scompigliati per capire che stava ancora dormendo.

“Gracey… Ma… Sono le sette… Che cosa ci fai qui alle sette?” mi domanda, con voce impastata dal sonno, reprimendo a stento uno sbadiglio.

“Volevo farti una sorpresa. E ho portato questi!” esclamo, mostrandogli il piatto coperto con un panno.

Lui mi fa entrare in casa e mi dice di accomodarmi sul divano in pelle mentre sale le scale che portano al piano superiore della villetta; quando resto da sola ne approfitto per guardarmi attorno, e per curiosare nel salotto, e la prima cosa che noto sono i mobili del tutto sprovvisti di fotografie incorniciate.

Lo stesso vale anche per le pareti.

Non ci sono fotografie che ritraggono Theodore in compagnia di Benjamin o di una probabile ex moglie.

Mi trovo in un’abitazione accogliente, arredata con cura, ma del tutto spoglia dei ricordi di una vita, e questo particolare crea altre domande che vanno ad aggiungersi a quelle, nella mia mente, ancora sprovviste di una risposta.

“Faresti meglio a posarlo”.

La voce di Theodore mi sorprende alle spalle e mi volto, di scatto, in direzione delle scale: si è cambiato, ed ora indossa una camicia ed un paio di jeans chiari; i capelli, invece, sono pettinati con cura all’indietro e non c’è più alcuna traccia del pizzetto che aveva fino a qualche giorno prima.

Abbasso lo sguardo sul cacciavite che ho preso da una mensola e poi sorrido, tornando a fissare il padrone di casa.

“Ti riferisci a questo?”

“Sì, faresti meglio a posarlo prima di ferirti”

“Ma stiamo parlando di un cacciavite! Un oggetto così piccolo non può fare male ad una persona”

“Resteresti sorpresa di sapere quante persone può uccidere un oggetto così piccolo… Ovviamente se si trova nelle mani sbagliate” mormora lui, in risposta, togliendomelo dalle mani e rimettendolo al suo posto sulla mensola “allora… Che cosa si nasconde sotto quel panno?”

“Volevo farmi perdonare per averti seguito di nascosto e per averti disturbato mentre stavi costruendo la casetta sull’albero. È stato Benjamin a consigliarmi di portare questi, ha detto che sono i tuoi preferiti” rispondo, con un sorriso; mi avvicino al piatto, che ho posato sopra ad un tavolino, e tolgo il panno rivelando, così, i biscotti al cioccolato che ho faticosamente preparato dopo diversi e disastrosi tentativi.

Theodore li guarda e poi scoppia a ridere, trasformando il mio sorriso in un’espressione confusa, perché non era questa la reazione che mi aspettavo.

“Credo che tu sia stata raggirata, Gracey, perché i biscotti al cioccolato non sono i miei preferiti. Sono i preferiti di Ben, puoi chiederlo tu stessa al colpevole” dice poi, rivolgendosi al ragazzino che ci ha appena raggiunti dalla camera da letto, come testimonia il pigiama che indossa; ed è proprio quest’ultimo a fornirmi la prova della sua colpevolezza sollevando l’angolo sinistro della bocca, e prendendo in mano uno dei dolcetti per assaggiarlo.

“Non è male” commenta poi, dopo avergli dato un morso “ma quelli che prepara la mamma di Mike sono i migliori”.



 
“Ben ha ragione” dico, dopo aver assaggiato un biscotto al cioccolato “non sono male, ma non sono neppure speciali. Nel complesso sono abbastanza soddisfatta visto che si tratta del mio primo tentativo… Avresti dovuto vedere che disastro era la cucina”

“Se questo può farti sentire meglio, neppure io sono bravo ai fornelli”

“Questo non è vero! Ricordo ancora molto bene che a volte eri tu a preparare il pranzo o la cena, e tutto era sempre squisito. Lo diceva anche mamma”

“Benjamin, prendi le medicine e poi vai a giocare un po’ in camera, d’accordo?” m’interrompe Theodore, rivolgendosi al ragazzino, che obbedisce senza ribattere, ma prima di sparire nel salotto mi rivolge lo stesso sorriso furbetto di poco prima, insieme ad alcune parole, che suonano come un tentativo di scusarsi per la piccola marachella che ha commesso.

“Comunque sei stata brava come primo tentativo, ma puoi migliorare” mormora prima di dileguarsi in cima alle scale.

“Quel ragazzino mi sorprende sempre di più ad ogni giorno che passa” commenta Theodore, scuotendo la testa “ci sono momenti in cui si comporta come un normale bambino di sette anni, altri in cui sembra un adulto in miniatura”

“È molto intelligente… E ti somiglia” decido di tastare il terreno in modo cauto, per non irritarlo nuovamente “Benjamin… Benjamin è tuo figlio, giusto?”

“Si tratta di una situazione molto particolare e delicata, Gracey. Non offenderti, ma non me la sento di parlarne con te in questo momento”

“Ho capito benissimo, non serve che aggiungi altro” mormoro, e sbatto più volte le palpebre per riprendermi dal duro colpo inaspettato che ho appena ricevuto “sei stato molto chiaro: ti sei ricreato una nuova vita ed hai lasciato alle spalle quella precedente, e dal momento che io appartengo alla tua vecchia vita sono solo un intralcio. Hai perfettamente ragione. Scusami, mi sono comportata proprio come una sciocca ragazzina, credevo che saresti stato contento di vedermi, ma a quanto pare ho sbagliato i miei calcoli. Adesso tolgo il disturbo. Tu e Ben non sentirete mai più parlare di me”

“No, Gracey, aspetta! Hai frainteso le mie parole!”.

Non perdo tempo ad ascoltare le sue scuse: raccolgo il piatto, il panno, ed esco dall’abitazione a passo veloce, continuando a darmi mentalmente della stupida per non aver capito prima come stanno veramente le cose: dopotutto durante la breve conversazione che abbiamo avuto dentro la casetta sull’albero lui è stato molto chiaro, sono stata io l’ingenua incapace di cogliere i segni; ormai appartengo ad un passato scomodo per Theodore, anche se mi sfugge il perché, e come tale vuole tenermi a debita distanza.

Per sempre.

Appena apro la porta d’ingresso dell’appartamento, Ashley nota subito i miei occhi lucidi ed il mio malumore, e così mi chiede spiegazioni.

“Tesoro, che cosa è successo?”

“Nulla, ho semplicemente fatto la figura della ragazzina stupida ed ingenua” rispondo, con amarezza, lasciando cadere il piatto in ceramica dentro il lavandino; mi appoggio al mobile alle mie spalle ed incrocio le braccia all’altezza del petto prima di sfogarmi con la mia coinquilina e, ormai, migliore amica “credevo che anche lui sarebbe stato contento di vedermi… Sai, quando era il compagno di mia madre abbiamo trascorso molto tempo insieme. Era lui ad aiutarmi con i compiti ed a rimboccarmi le coperte, ed era sempre lui che, alla mattina, mi svegliava con un bicchiere di latte al cioccolato e dei biscotti, anche se mamma non voleva per timore che sporcassi le coperte. Capisci quello che sto cercando di dirti, Ashley? Io e lui eravamo molto legati, perché adesso mi tratta come una sconosciuta? Solo perché si è ricostruito una nuova vita?”

“Forse… O forse ha a che fare con la fine della relazione con tua madre… Per quale motivo si sono lasciati?”

“Non lo so, mamma non me lo ha mai raccontato. In realtà, me lo sono sempre chiesta anch’io… Non li ho mai visti litigare… Lui è semplicemente sparito da un giorno all’altro, ed è tornato per trascorrere un pranzo insieme dopo cinque anni”

“È sparito all’improvviso ed è tornato dopo cinque anni? E per tutto quel tempo non avete mai ricevuto una sua chiamata o una sua lettera? Neppure una cartolina?”

“Era andato a lavorare su una piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano” spiego “forse non aveva a disposizione un cellulare per contattarci. O i turni di lavoro erano così massacranti che non aveva neppure il tempo di fare una breve telefonata”

“Sì, ma… Gracey…” ribatte la mia coinquilina con una smorfia “scusami se te lo chiedo… Ma non ti sembra strana tutta questa faccenda?”

“Che vuoi dire?” domando, e sollevo il viso di scatto dalle mie unghie, socchiudendo gli occhi “perché questa faccenda dovrebbe sembrarmi strana?”.

Ashley si lascia cadere sul divano e poi inizia ad elencarmi i motivi per cui tutta questa storia strida alle sue orecchie.

“Hai detto che non hai mai assistito ad un litigio tra tua madre ed il suo ex compagno, giusto? Allora perché un uomo dovrebbe sparire in questo modo da giorno all’altro? D’accordo, c’è sempre la possibilità che abbiano avuto qualche discussione in privato per non turbare te e tuo fratello, ma se c’era qualcosa che non andava non sarebbe comunque sfuggito ai vostri occhi”

“Questo è impossibile: non ho mai visto mia madre così felice e sorridente come nel periodo in cui loro due sono stati insieme. Se ci fosse stato qualche litigio o qualche malumore, io e Zack ce ne saremmo accorti immediatamente. Invece lei era sempre allegra e spensierata”

“E questo ci riconduce alla prima stranezza: perché un uomo innamorato della propria compagna dovrebbe abbandonare lei ed i suoi figli all’improvviso per andare a lavorare su una piattaforma in mezzo all’oceano? Avrebbe potuto cercare un lavoro molto più vicino a voi, scommetto che le occasioni non sono mancate”

“In realtà, lui aveva già un posto fisso: lavorava nella biblioteca di Tribune. Ricordo che un giorno mi ha detto che erano arrivati dei nuovi libri con le illustrazioni in rilievo ed aveva pensato subito a me” mormoro con un sorriso, a causa del ricordo che è appena affiorato nella mia mente; sorriso che, però, si spegne rapidamente non appena ripenso alle ultime parole, ed allo sguardo, che Theodore mi ha rivolto.

“E che ricordo hai dell’ultima volta in cui vi siete visti, prima che scomparisse?”

“Era una serata come tante altre” dico, scrollando semplicemente le spalle “una serata che non aveva nulla di speciale. Mi ha aiutata a fare i compiti e poi io e Zack siamo andati a letto. Il giorno seguente non c’era più e mamma ci ha spiegato che era stato costretto a partire in fretta, a causa del nuovo lavoro che aveva trovato”

“Gracey, come fa a non sembrarti strano tutto questo? Anche un bambino capirebbe che c’è qualcosa che non quadra”

“Non lo so, Ashley, sinceramente non ho voglia di parlare di questo. E ora, se non ti dispiace, vorrei rimanere un po’ da sola”.

E con quest’ultima frase pongo fine alla discussione e mi rifugio nella mia camera da letto, chiudendo accuratamente la porta a chiave.
 

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Capitolo 8
*** Answers? (Gracey) ***


“Davvero non ti sembra strano che un uomo innamorato della propria compagna abbandoni lei, i suoi figli ed un lavoro sicuro per andare a lavorare su una piattaforma? Sei davvero sicura che abbia trascorso cinque anni in quel posto?”.

Dopo l’ennesima insistenza di Ashley mi lascio scappare un sospiro seccato e le rivolgo un’occhiata ammonitrice, mentre continuo a disporre dei cupcakes alla vaniglia su un piccolo piano rialzato, di vetro, destinato a decorare il bancone del ristorante.

“Non dovresti occuparti dei clienti?”

“Ohh, andiamo, Gracey! Davvero non vuoi andare infondo a questa faccenda e scoprire qual è la verità? Ormai è chiaro che quell’uomo ha raccontato una marea di bugie a tua madre e che è successo qualcosa tra loro due… Altrimenti perché sarebbe scomparso in quel modo? Forse lei aveva scoperto qualcosa che lo ha costretto ad allontanarsi… E… Forse… Lui è tornato dopo cinque anni per cercare di sistemare le cose, ma non ci è riuscito. Magari tua madre aveva scoperto che il suo compagno la tradiva! Questo spiegherebbe tutto, compresa l’assurda storia della piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano… E magari lui, adesso, non vuole avere nulla a che fare con te proprio per questo motivo”

“Impossibile!” esclamo, scuotendo la testa “era troppo legato a noi, ormai eravamo una vera e propria famiglia. E ti posso assicurare che la storia della piattaforma è vera, perché ha perso la mano sinistra in un incidente, e grazie ad un avvocato è riuscito a farsi dare dalla ditta ben cinque milioni di dollari. Uno per ogni dito che aveva perso, ricordo che queste parole le ha pronunciate proprio lui”.

Nello stesso istante in cui concludo la frase rivivo quel momento davanti ai miei occhi, uno dei pochi che custodisco gelosamente e che ricordo nei minimi particolari, come se fossero trascorsi appena pochi minuti e non sette anni: vedo me stessa aprire la porta d’ingresso, dopo una lunga mattinata a scuola insieme a Zack, e lanciare un urlo di gioia alla vista di Theodore, prima di corrergli incontro, saltargli in braccio e cingergli le spalle; e vedo lui ricambiare l’abbraccio con un sorriso, e salutarmi con l’appellativo di ‘principessa’.

E solo ora mi rendo realmente conto di quanto abbia nostalgia di quei giorni.

Ancora una volta è la mia coinquilina a riportarmi al mondo reale.

“Cinque milioni? Ti rendi conto che questa storia sta diventando sempre più irreale e assurda?”

“Ashley, dovresti davvero andare in sala ad occuparti dei clienti”

“D’accordo, d’accordo, ho recepito il messaggio: non vuoi più parlare di questa faccenda…” si affretta a dire lei, prima di uscire dalla cucina, lasciandomi da sola con i pasticcini e con i cuochi che si stanno occupando delle prime ordinazioni.

Anche se voglio davvero lasciarmi alle spalle tutta questa faccenda, proprio come l’ex compagno di mia madre ha fatto con me, le parole di Ashley continuano a ronzarmi nelle orecchie e danno forma a piccoli particolari su cui prima non mi ero mai soffermata troppo a lungo: perché Theodore è letteralmente scomparso da Tribune e dalla nostra vita per anni? E perché in modo così precipitoso?

Perché non ha continuato a lavorare in libreria? Perché non ci ha mai scritto una lettera o telefonato?

Perché mia madre ha ritagliato tutte le foto in cui c’era anche lui?

E, soprattutto, perché durante la visita a sorpresa mia madre era pallida e silenziosa?

“Gracey, c’è un cliente che ha chiesto di te”

“E chi è?” domando, lasciando perdere l’interminabile sfilza di domande alle quali non sono in grado di dare una risposta, rivolgendomi alla ragazza che è appena entrata in cucina; quest’ultima si limita a sollevare le spalle.

“Non lo so, ma evidentemente hai fatto colpo su di lui. Forse lo hai già servito altre volte ed è rimasto piacevolmente colpito dalla tua presenza”.

A volte capitano situazioni simili quando lavori in un ristorante: un cliente abituale si ‘affeziona’ ad una cameriera e pretende che sia lei a servirlo; ed anche se alcune volte queste attenzioni non sono del tutto gradite, si fa buon viso a cattivo gioco perché la ricompensa arriva sempre sottoforma di una lauta mancia.

E con i prezzi d’affitto che ci sono a Chicago, qualche banconota extra da cinquanta dollari può fare la differenza a fine mese.

“Qual è il tavolo?”

“Il tredici”

“Perfetto” mi limito a dire; esco in sala per sistemare i cupcakes sul bancone e poi mi avvicino al tavolo tredici, senza soffermarmi a guardare l’uomo che sta sfogliando il menù “buongiorno, che cosa desidera?”

“Non lo so. Speravo me lo consigliassi tu, Gracey”.

Sono costretta a compiere un enorme sforzo per non lasciar cadere a terra il blocchetto per appunti e la matita; sollevo gli occhi dal piccolo foglio di carta bianca e guardo Theodore, che ricambia la mia occhiata con un mezzo sorriso.

“Che cosa ci fai qui?” domando, a bassa voce, per non farmi sentire.

“Non ho sentito la sveglia suonare e così, per evitare di accompagnare Ben a scuola in ritardo, non ho fatto colazione… E visto che tu lavori in un ristorante, ho pensato di approfittarne”

“Ma io non ti ho mai detto che lavoro in un ristorante”

“Questo dovrebbe insegnarti qualcosa riguardo l’arte del pedinare” risponde lui, con un altro sorriso, tornando subito serio “Gracey, mi dispiace per il modo in cui mi sono comportato. Vorrei avere la possibilità di rimediare, ma questo dipende solo da te. C’è una piccola speranza o è troppo tardi?”

“Non lo so” mormoro, stringendo le labbra in una linea sottile “Theodore, io sto lavorando, devi dirmi se vuoi ordinare qualcosa perché ho altri tavoli di cui occuparmi, o rischio di essere ripresa per l’ennesima volta dal mio Capo e di perdere il posto. Ed è proprio ciò che voglio evitare dal momento che ho un affitto da pagare”

“A che ora finisci?”

“Alle due”

“Vorrà dire che alle due sarò fuori ad aspettarti, così possiamo parlare con calma e magari mangiare qualcosa insieme, ovviamente se non hai altri impegni”.

Questa volta è Theodore a non aspettare una mia risposta: si alza, indossa una giacca in pelle, lascia alcune banconote sopra al tavolo e poi esce dal ristorante; lo seguo con lo sguardo quando passa davanti alla vetrina, e poi abbasso gli occhi, spalancandoli non appena mi rendo conto che la ‘piccola mancia’ consiste in duecento dollari.

“Cavolo!” esclama la mia coinquilina, apparendo affianco a me, con un lungo fischio acuto “chi era quell’uomo?”

“Era lui” rispondo semplicemente, e ritorno a fissare la vetrina.



 
L’ex compagno di mia madre mantiene la parola data: alle due, quando esco dal locale, lo trovo ad aspettarmi in compagnia di una sigaretta accesa.

Stringo la mano destra attorno alla cinghia dello zainetto che ho con me, lo raggiungo e gli chiedo spiegazione riguardo alla generosa mancia, mostrandogli le banconote incriminate.

“Per il disturbo” si limita a dire Theodore, aspirando una boccata di fumo “credevo che avresti apprezzato il gesto”

“Non ho bisogno dei tuoi soldi. E dovresti smettere di fumare. Lo sanno tutti che fa male” ribatto, togliendogli il mozzicone di mano e schiacciandolo sotto la punta della scarpa destra; incrocio le braccia all’altezza del petto e gli rivolgo uno sguardo accusatore “non mi puoi trattare in quel modo. Non puoi rivolgermi quelle parole e poi presentarti nel ristorante in cui lavoro e chiedermi di mangiare qualcosa insieme per rimediare!”

“Gracey, ti posso assicurare che dopo le dovute spiegazioni capirai perché per me non è semplice parlare di tutto questo… Allora, vogliamo continuare la conversazione su questo marciapiede, in mezzo alla gente che continua a passare, oppure in un posto più consono? Dove vorresti pranzare? Ovviamente offro io”.

Anche se sono ancora arrabbiata, decido ugualmente di acconsentire alla sua richiesta perché la curiosità ed i dubbi espressi da Ashley sono più forti dell’irritazione che sento; lo conduco in un fast-food che frequento spesso insieme alla mia coinquilina e, non appena prendiamo posto davanti ad un tavolino, lo esorto a parlare.

“Ti ascolto” dico, bevendo un sorso della mia coca-cola.

“Benjamin è mio figlio. L’ho scoperto solo ora, dopo sette anni, e di conseguenza sto cercando di recuperare il tempo perduto… Ma non è semplice. Non è semplice perché io non sono abituato a fare il padre e perché Ben non è un bambino come tutti gli altri, ha bisogno di attenzioni particolari” mormora Theodore, scompigliandosi i capelli con la mano destra “soffre di una grave forma di asma fin dalla nascita e deve prendere delle medicine”

“Sì, me lo ha raccontato mentre ti stavi occupando della casetta sull’albero. Mi ha detto che eri di pessimo umore perché ti sentivi responsabile per la crisi che aveva avuto, e non per la mia visita. E che se avessi riprovato dopo qualche giorno, portando con me dei biscotti al cioccolato, tutto si sarebbe sistemato”

“Te lo avevo detto che è un bambino molto intelligente e furbo… E adesso capisci la situazione delicata in cui mi trovo”

“Tutto qui?” domando, e sollevo il sopracciglio destro “e queste sarebbero le tue esaustive spiegazioni?”

“Credevo che i tuoi dubbi riguardassero solo Ben”

“Una piccola parte, in realtà ci sono molte domande a cui non riesco dare una risposta” ribatto, prima di elencarle una ad una “perché sei sparito in quel modo per ricomparire dopo cinque anni? E perché, poi, te ne sei andato nuovamente? Che cosa hai fatto per tutto questo tempo? Perché indossi sempre quel guanto? E perché riesci a muovere perfettamente la mano? Ricordo che avevi una protesi rigida…”

“Tua madre che cosa ti ha raccontato?” mi chiede Theodore, dopo un lungo silenzio, senza mai staccare gli occhi scuri dai miei.

“Riguardo alla tua scomparsa? Nulla, a parte il fatto che eri stato costretto a partire per lavorare su una piattaforma petrolifera. Perché lo hai fatto, Theodore? Non ti piaceva il lavoro che avevi in biblioteca? Perché ti sei trasferito così lontano, sparendo dalle nostre vite? Perché non hai cercato un impiego molto più vicino a noi, a Tribune? Sarebbe stato tutto molto più semplice”

“Sembrava un’occasione da non perdere, ed invece ci ho guadagnato solo un arto amputato”

“Perché tu e mamma non avete mai detto nulla a me ed a Zack?”

“Non sapevamo come affrontare l’argomento”

“Ho capito” mormoro a questo punto “tu non sei partito perché avevi ricevuto un’offerta di lavoro vantaggiosa. Sei partito perché tra te e mia madre non andava affatto bene. Scommetto che quella sera vi siete lasciati, ho indovinato?”

“Gracey, devi sapere che la vita funziona in questo modo: a volte, quando meno te lo aspetti, ti fa un dono prezioso, ti concede un po’ di tempo per gustartelo fino infondo e poi te lo strappa dalle mani, facendotelo rimpiangere con tutto il tuo cuore. Io amavo tua madre. Credevo davvero di poter costruire una vita insieme a lei e a voi due, e per circa un anno ci ho sperato davvero… Ma poi è finita, esattamente come succede a tutte le cose belle”

“E come è finita?”

“Strade diverse” mormora, sorseggiando una birra bionda.

Ancora una volta nella sua risposta è racchiuso tutto e niente allo stesso tempo, ed ancora una volta insisto per avere delle spiegazioni più approfondite.

“Ma qualcosa dovrà essere accaduto. Un fatto concreto che ha spinto entrambi a prendere una decisione così drastica, ed è proprio questo che non riesco a capire… Ogni volta che ripenso a quel periodo mi tornano alla mente solo ricordi felici, con voi due che ridevate e scherzavate. Non ricordo un solo litigio o una sola discussione! Ho visto mamma piangere e soffrire solo dopo la vostra rottura”

“Facevamo attenzione a nasconderle con cura ai vostri occhi” commenta lui, appoggiando il bicchiere sul tavolo e rivolgendo lo sguardo in direzione delle persone che camminano sul marciapiede; ed io ho l’impressione che lo faccia per non continuare a sostenere il mio “io e tua madre abbiamo commesso l’errore di vivere la nostra storia come due ragazzini alla loro prima cotta, e quando si commette questo errore arriva sempre il momento in cui ci si scontra con la realtà, e così è stato anche per noi: sono arrivate le difficoltà, le incomprensioni, i litigi… Ti posso assicurare che tutto questo c’era, Gracey, ma come ti ho già detto cercavamo di tenerlo nascosto a voi due per non destabilizzarvi. Ci abbiamo provato in qualunque modo possibile, ma alla fine siamo stati costretti ad arrenderci alla realtà dei fatti: la nostra storia era arrivata al capolinea, ed era meglio separarci per non rovinare definitivamente l’anno che avevamo trascorso insieme. Mi dispiace essermene andato in quel modo, senza salutare te e tuo fratello, ma ho preferito risparmiarvi un dolore inutile”.

Sorrido, in modo comprensivo, annuendo con la testa e preferisco tacere, anziché confidargli che il dolore inutile che voleva risparmiarmi l’ho ugualmente vissuto sulla mia pelle; ed anche se all’epoca avevo appena cinque anni, ricordo ancora tutte le notti che ho trascorso a piangere, rannicchiata nel mio letto, cercando di non farmi sentire da Zack.

Perché eventi simili ti segnano sempre, a vita e nel profondo, e lasciano un segno indelebile.

Soprattutto se sei solo una bambina sprovvista di un punto di riferimento maschile a cui appoggiarsi.

“Quando sei tornato, dopo cinque anni, lo hai fatto per chiedere a mia madre una seconda possibilità?” chiedo, appoggiando la guancia sinistra sul palmo della mano.

“Sì, visto che in seguito all’incidente sono stato risarcito con una somma cospicua di denaro. È stato stupido, lo so, ma volevo provare a fare un tentativo, e come era prevedibile non ha funzionato”

“Ed a quel punto che cosa hai fatto?”

“Ho viaggiato”

“E dove sei stato?”

“Ohh, in molti luoghi. Messico… Panama… Miami… Chicago… Per un breve periodo sono tornato in Alabama, ma ho deciso quasi subito di cambiare aria. Troppi ricordi. È sempre così quando si torna a casa”

“Ed è stato in quel periodo che hai conosciuto la madre di Ben?”.

Dalle labbra di Theodore esce una breve risata e, finalmente, il suo sguardo torna a concentrarsi sul mio viso; nelle sue iridi scure, simili a due pozzi senza fondo, è improvvisamente calato un velo di tristezza che non riesce a nascondere, e che crea un netto contrasto con il sorriso che ancora aleggia sulle sue labbra.

“Gracey, non prendertela, ma per il momento non me la sento di affrontare questo argomento. È una faccenda molto intima, delicata e privata”.

Per una volta, proprio a causa del suo sguardo, non insisto e preferisco spostare l’attenzione su un altro argomento; ma quando sto per chiedergli delucidazioni sulla sua mano sinistra, lui mi precede dicendomi che è arrivato il momento di andarsene, perché ormai manca meno di mezz’ora all’uscita di Ben da scuola.

Camminiamo per qualche minuto insieme, l’uno affianco all’altra, in silenzio, stretti nelle giacche che indossiamo a causa del freddo pungente; ci fermiamo solo nel momento in cui dobbiamo prendere due strade diverse.

“Allora…” dico per prima, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra “questo è un altro addio o solo un arrivederci?”

“Non mi sono mai piaciuti gli addii. Troppo strappalacrime” l’ex compagno di mia madre resta in silenzio, si passa la mano destra tra i capelli castani, più corti rispetto a sette anni fa, e poi riprende a parlare “puoi venire a trovare me e Ben, quando vuoi, se ti fa piacere”

“Davvero?” domando, spalancando gli occhi, perché già mi ero arresa alla prospettiva di affrontare un nuovo addio.

“Sì, dico davvero, Gracey. Anche se tua madre non fa più parte della mia vita, non vedo perché lo stesso dovrebbe valere per te” risponde Theodore sorridendo, e questa volta si tratta di un vero sorriso.

Ed io non posso fare altro che ricambiare.



 
“Hai visto? I tuoi dubbi e le tue supposizioni erano prive di fondamenta. Non c’è stato alcun tradimento e non c’è nessun oscuro segreto dietro la fine della relazione tra mia madre ed il suo ex compagno: semplicemente le loro vite hanno preso delle strade diverse, come succede a tante altre coppie”

“Non lo so, forse è solo una mia impressione, ma continuo a pensare che c’è qualcosa di strano nel suo racconto. Tu stessa hai detto che in alcuni momenti è stato molto vago, rifiutandosi di scendere nei particolari” ribatte Ashley, ancora fermamente convinta che Theodore nasconda qualcosa.

“Stiamo parlando della fine di una storia d’amore”

“Sì, ma sono trascorsi diversi anni”

“Ha detto molto chiaramente che l’amava. Forse per lui è ancora difficile parlare di questo. Non tutti, al mondo, sono persone ciniche e insensibili come te, Ashley”

“Io non sono cinica e insensibile, Gracey, semplicemente sono una persona che segue il proprio istinto. Ed il mio istinto continua a dirmi che c’è qualcosa che non quadra. Come si chiama?”

“Theodore Bagwell… Perché?”

“Nulla, semplice curiosità personale”.

Non so che cosa passi per la testa della mia coinquilina, ma ho il sospetto che voglia svolgere qualche indagine personale su di lui e ciò non mi preoccupa minimamente, per il semplice motivo che non c’è nulla da scoprire e non esiste alcun oscuro segreto come io stessa le ho già detto; tuttavia, mentre Ashley si chiude in bagno per una doccia, decido di chiamare mia madre con la speranza di ottenere qualche particolare in più.

E dopo i saluti iniziali e le solite domande riguardo alla mia salute ed a come mi trovo a Chicago, vado subito al dunque.

“Mamma” le chiedo “perché la storia tra te e Theodore è finita?”.

Dall’altra parte del telefono, per quasi un minuto, non sento altro che un prolungato silenzio.

“Perché mi fai questa domanda?” mi chiede a sua volta, in un tono così freddo che ne resto sorpresa.

“Non c’è un motivo in particolare, mamma, ma me lo sono sempre chiesta”

“Credevo di conoscerlo, invece si è rivelato un uomo completamente diverso ed a quel punto le nostre vite hanno preso due direzioni opposte. Non c’è altro d’aggiungere”.

Le sue parole, simili a quelle di Theodore, sciolgono definitivamente ogni mio dubbio: la storia tra loro due è finita a causa di caratteri troppo differenti che hanno portato a incomprensioni e litigi, fino ad arrivare alla drastica, ma matura, scelta di separarsi.

Proprio come accade a centinaia di altre coppie.

Niente di più e niente di meno.

E, soprattutto, senza scheletri nell’armadio.
 

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Capitolo 9
*** Karma (Theodore) ***


Si dice che se una persona compie una buona azione, essa prima o poi le verrà restituita e lo stesso vale anche per il contrario.

Questo concetto è racchiuso anche nell’ultima legge del Karma: si ha indietro ciò che si è dato.

Un tempo credevo di essere immune e al di sopra di queste stronzate, non avevo capito che lo stesso Karma stava solo aspettando il momento giusto per presentarmi il conto salatissimo da pagare.

Esattamente come ho detto a Gracey, Nicole rappresenta un argomento intimo, delicato e privato.

E terribilmente doloroso.

Nel poco tempo che abbiamo trascorso insieme ho commesso molti errori, e me ne assumo la piena responsabilità: non ho solo tradito la sua fiducia durante l’operazione Scylla per puro egoismo personale, ho anche preso il suo cuore e l’ho spezzato e calpestato, sempre per il medesimo motivo; ed ora che sono intenzionato a rimediare, ora che sono disposto a supplicarla in ginocchio pur di riaverla a mio fianco, questa possibilità mi è preclusa perché Nicole non c’è più, ed io sono costretto a convivere con le conseguenze ogni singolo giorno.

Perché ogni volta che guardo in faccia nostro figlio vedo lei.

Ben mi raggiunge sul divano, distraendomi dai miei pensieri, e si lascia cadere a mio fianco, appoggiando la testa contro un cuscino; dalla sua espressione capisco che vuole chiedermi qualcosa, ma aspetta che sia io a fare il primo passo.

“Devi dirmi qualcosa?” domando, sistemandogli il ciuffo di capelli che gli ricade sulla fronte.

“Mike può venire qui domani pomeriggio?”

“Il tuo migliore amico?”

“Sì”

“Certo che può venire qui. Hai il suo numero di casa?”.

Benjamin annuisce, e dietro mia esortazione sparisce in cucina per telefonare al suo compagno di classe; lo ascolto in silenzio parlare con lui e poi, a telefonata conclusa, lo vedo tornare in salotto con un sorriso che non gli ho mai visto prima sulle labbra.

“Ha detto che va bene perché non ha l’allenamento di calcio. Lo accompagnerà sua madre”

“Ohh, bene, così finalmente conoscerò il tuo migliore amico, sei contento?”

“Sai, Theodore, la madre di Mike è molto carina”.

Sollevo il sopracciglio sinistro, e questa volta è il mio turno di sorridere.

“E con questo che cosa vorresti dire? Stai cercando di combinarmi un appuntamento con la mamma di Mike? È single?”

“No, ma a Mike non piace il suo compagno”

“E come fai ad essere così sicuro che mi piacerà?”

“Perché è molto carina e gentile… E poi fa dei biscotti al cioccolato buonissimi. È perfetta, no?”.

Il mio sorriso si trasforma in una risata divertita ed allungo la mano destra per dare un buffetto sul viso a mio figlio.

“Sei davvero un bambino adorabile, Benjamin, ma come hai detto tu stesso la mamma del tuo migliore amico ha già un compagno, ed io non posso invitarla per una cena a lume di candela… Anche se fa dei biscotti al cioccolato buonissimi”.

Una parte di me è davvero felice di accontentarlo, permettendogli di trascorrere un pomeriggio di svago in compagnia del suo migliore amico.

L’altra è di parere completamente opposto, ed il problema è sempre lo stesso: il mio passato.

Anche se adesso sono libero, anche se non devo più scappare, nascondermi e guardarmi costantemente alle spalle, la sola possibilità di essere riconosciuto da qualcuno mi terrorizza, perché il quel caso sarei costretto a dare delle spiegazioni a Benjamin che preferirei tenere nascoste, possibilmente per sempre.

E così celo il mio turbamento dietro una maschera di calma apparente quando, il pomeriggio successivo, attendo insieme a Ben l’arrivo di Mike e della madre, ma continuo a tamburellare le dita della mano destra contro la superficie del tavolo della cucina, per combattere il nervosismo, e tra me e me cerco di convincermi che non ho nulla di cui preoccuparmi: dopotutto sono trascorsi sette anni da quando si sono conclusi gli eventi che coinvolgevano gli ‘Otto di Fox River’; le autorità hanno placato le acque e, si sa, la gente vuole solo dimenticare le brutte storie.

Ed è proprio ciò che riesco a fare, almeno fino al momento in cui non raggiungo la porta d’ingresso, dopo aver sentito il campanello suonare; l’apro per accogliere i miei ospiti come un perfetto padrone di casa e mi trovo di fronte all’ennesimo scherzo che il Fato ha deciso di escogitare per me.

Perché la donna che regge un vassoio di biscotti al cioccolato, accompagnata da un ragazzino dai capelli castani, è Sara Tancredi.



 
Benjamin e Mike spariscono quasi subito al primo piano, lasciando me e Sara completamente da soli in cucina, e di conseguenza tra noi due scende un lungo silenzio a causa della situazione imbarazzante, comica e surreale allo stesso tempo; e dal momento che lei se ne sta a braccia incrociate, con lo sguardo fisso in un punto indefinito della stanza, decido di fare io il primo passo: allungo una mano verso il vassoio, prendo un biscotto e lo assaggio, rivolgendole poi un sincero complimento.

Ben ha ragione, questi biscotti sono davvero eccezionali.

“Grazie” si limita a rispondere Sara, con freddezza “il segreto è aggiungere un po’ di caramello nell’impasto”

“Non ti hanno mai insegnato che è maleducazione non guardare negli occhi la persona con cui stai parlando?”

“Non provare mai più a rivolgerti a me in questo modo. Dopo tutto quello che hai fatto. Dopo tutto quello che hai fatto passare a noi… Ancora non riesco a capire come abbiano potuto rilasciarti dopo sette anni, a meno che tu non sia evaso ancora una volta”

“Abbiamo già affrontato questo argomento in ospedale, ed io ti ho spiegato che ormai sono troppo vecchio per un’evasione… Andiamo, Sara, se lo avessi fatto davvero come potrei vivere tranquillamente in questa casa, a poca distanza da Fox River? Avresti sentito ancora una volta il mio nome in TV o lo avresti letto sulle testate dei giornali… Mi deludi, ti ho sempre ritenuto una donna molto intelligente e perspicace, ma capisco che in questo momento sei spaventata. E la paura porta a dire o a fare cose molto stupide. Ma quello che voglio cercare di farti capire è che non hai assolutamente nulla da temere”

“Ed io dovrei credere alle parole di uno degli individui più pericolosi che erano rinchiusi a Fox River?”

“Ma quelle cose fanno parte di un passato che non mi appartiene più” provo a spiegarle per l’ennesima volta “Fox River, i cinque milioni, Sona, Scylla… Stiamo parlando di una storia che si è conclusa da tempo”

“Una storia che si è conclusa da tempo…” ripete Sara, annuendo con la testa, con un sorriso che non arriva a contagiarle gli occhi “e tu hai dimenticato tutto con un semplice colpo di spugna, giusto? Hai trascorso altri sette anni a Fox River, sei rinato, e quando sei uscito hai deciso di chiudere con il tuo passato e di iniziare una nuova vita. Complimenti. Quindi, questo significa che hai cancellato con la stessa facilità anche tutte le vittime innocenti che ti hanno portato a scontare due ergastoli? O le persone che hai ucciso in seguito all’evasione degli Otto di Fox River? O il giorno in cui hai quasi abusato di me?”

“Per quel che può valere, mi dispiace…”

“No!” esclama lei, interrompendomi; è costretta a bloccarsi a sua volta perché i nostri figli fanno capolino dalle scale per uscire in giardino e vedere la casetta sull’albero, ma appena restiamo da soli riprende a sputare il suo odio nei miei confronti “le parole non bastano per rimediare. Hai avuto la tua occasione e sono stata io stessa a concedertela. Ricordi che cosa ti avevo detto? Ti avevo supplicato di togliermi le manette e di lasciarmi andare, che avrei detto a Michael quello che tu avevi fatto per me e saresti stato ricompensato di conseguenza”

“E credi che Scofield lo avrebbe fatto veramente?”

“Sì, lo avrebbe fatto, perché Michael manteneva sempre la parola data”

“Anche io mantengo sempre la parola”

“Davvero, Bagwell? E durante l’operazione Scylla? E durante la mia evasione? L’hai mantenuta o ci hai voltato le spalle?”

“Siete stati voi a partire prevenuti nei miei confronti, ed io ho agito di conseguenza: ho sopportato in silenzio, mordendomi la lingua, finché non ce l’ho più fatta e me ne sono andato, preferendo proseguire per la mia strada, come ho sempre fatto. Evidentemente in quell’occasione sia il tuo defunto marito che quel bestione di suo fratello avevano dimenticato il contributo che ho dato quando eravamo a Fox River. Scommetto che non ti hanno mai detto che in più di un’occasione l’evasione non è sfumata grazie a me”

“Anche se fosse vero quello che stai dicendo, non lo hai fatto per aiutare Michael e Linc. Lo hai fatto per un tuo tornaconto personale”

“Sì, è vero, ma questo dimostra che io, a differenza di loro due, sono in grado di lavorare in una squadra e di lasciare momentaneamente da parte le faccende personali. E per quanto riguarda la tua evasione, io ero pronto a fare la mia parte, ma Michael ha pensato di fregarmi e di non far depositare sul mio conto i soldi che avevo chiesto”
“E invece ti sbagli: i soldi c’erano, ma Sucre ha trovato la banca chiusa”

“Allora, in quel caso, si è trattato solo di un enorme equivoco”

“Ohh, sì, un enorme equivoco che ha dimostrato perfettamente la tua vera natura” insiste Sara, dipingendomi ancora una volta come un mostro privo di sentimenti “tu sei un approfittatore che non fa mai nulla senza avere qualcosa in cambio. Dici di essere in grado di collaborare all’interno di una squadra, ma le uniche volte in cui lo hai fatto è stato sempre per lo stesso motivo: tornaconto personale. E quando hai capito che non avevi più nulla da guadagnare non hai esitato un solo istante a tirarti indietro. Esattamente come hai fatto quando ero in prigione. Anziché azionare l’allarme antincendio, come prestabilito, sei andato dalla Direttrice a spifferare ogni cosa, con la speranza di ottenere qualcosa da lei, e così tutto l’intero piano è stato compromesso e Michael è stato costretto a passare a quello di riserva. A causa del tuo egoismo ha dovuto sacrificarsi. Dovresti essere contento, T-Bag, perché alla fine ci sei riuscito: anche se in modo indiretto, lo hai ucciso tu. Hai vinto”.

Si alza di scatto, prendendo la sua borsa, ed io provo a fermarla, a dirle che la nostra conversazione non è ancora conclusa, ma ogni mio tentativo fallisce miseramente contro il muro glaciale che la dottoressa Tancredi ha innalzato tra noi due; a fatica riesco a convincerla a prendere un piccolo pezzetto di carta su cui ho scritto il mio numero di cellulare, per ogni possibile evenienza, e la guardo allontanarsi, insieme al piccolo Mike, scuotendo la testa e lasciandomi scappare un sospiro.
“Non è andata molto bene, vero? Proprio come è successo alla tua amica quando ti ha fatto una sorpresa mentre costruivi la casetta sull’albero”.

La voce, le parole e la perspicacia di mio figlio mi colgono di sorpresa; lo guardo, e poi ritorno a fissare Sara che sale a bordo di un’auto sportiva, sbattendo con forza la portiera.

“No, non è andata affatto bene”.

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Capitolo 10
*** I've Learned Some Things (Theodore) ***


Anche se dal giorno della mia scarcerazione mi sembra di essere sprofondato in un baratro buio, soffocante, e senza fine, c’è un piccolo spiraglio di luce ed aria fresca che mi aiuta ad affrontare l’intera situazione e ad andare avanti: Benjamin inizia ad avvicinarsi sempre di più a me, e lo dimostra ponendomi una lunga serie di domande incuriosite.

E questa, per me, è una cosa sia positiva che negativa.

Positiva perché finalmente si stanno formando le basi di un vero rapporto tra padre e figlio.

Negativa perché temo che saranno più le volte in cui dirò una bugia, rispetto a quelle in cui racconterò la verità.

“Theodore, come hai conosciuto la tua amica?”

“Gracey? L’ho conosciuta molti anni fa, quando lei ed il fratello erano dei bambini di cinque e sette anni. Susan, la loro madre, ed io eravamo amici”

“Eravate una coppia?”

“È impossibile nasconderti qualcosa, Ben. Sì, io e lei stavamo insieme, ma stiamo parlando di molti anni fa. Quattordici, per l’esattezza. E in quattordici anni sono accadute tantissime cose”

“Quali cose sono accadute?”

“Ho viaggiato molto, ho vissuto in diverse città e mi sono ritrovato più volte in situazioni molto complicate, Ben”

“Ed è stato in quel periodo che sei finito in prigione?”.

Ecco.

Ben ha finalmente introdotto l’argomento che temevo più di qualunque altro, e nella mia mente già si forma la prossima domanda che, senza alcuna ombra di dubbio, verrà formulata dalle sue labbra: perché sei stato arrestato?

Non voglio mentire a mio figlio, non voglio costruire il nostro rapporto su una menzogna, ma non posso neppure raccontargli la lunga scia di sangue che il ‘Mostro dell’Alabama’ ha lasciato alle sue spalle.

Mi sento come se fossi incastrato in una pozza di sabbie mobili: più continuo a divincolarmi per uscire e più continuo a sprofondare.

Fortunatamente il mio cellulare inizia a squillare, sottraendomi da imbarazzanti spiegazioni; osservo lo schermo e corruccio le sopracciglia vedendo un numero che non conosco.

“Con chi ho il piacere di parlare?” domando, spostandomi in un’altra stanza della villetta.

“Con la tipa che hai approcciato nei bagni dell’ospedale”

“Tesoro!” esclamo con una risata, riconoscendo la voce di Sara; ammetto di essere sorpreso perché, anche se sono riuscito a darle il mio numero, non mi aspettavo di ricevere una sua chiamata “ti posso assicurare che quello non era un approccio. Se quella fosse stata la mia vera intenzione, avrei scelto un posto molto più romantico del bagno di un ospedale”

“Risparmiami i tuoi commenti irriverenti, Bagwell, non sono dell’umore adatto per sentirli” risponde lei, in tono secco, sento il suo respiro veloce e spezzato provenire dall’altra parte del cellulare e quasi riesco a vederla mentre cammina nervosamente avanti e indietro, con una ciocca di capelli rossi attorcigliata all’indice destro; capisco che deve essere successo qualcosa di veramente grave per averla turbata così in profondità e per averla spinta a chiamarmi.

“Sara, è successo qualcosa?”

“Non posso parlartene in questo momento… Oh, mio dio, non posso credere che te lo sto chiedendo veramente… Possiamo vederci al parco che c’è in centro città tra mezz’ora? Porta anche Benjamin con te. I bambini saranno contenti di trascorrere un altro pomeriggio insieme”

“D’accordo”

“Aspetta, non riattaccare!” esclama Sara, bloccandomi appena in tempo “ho una richiesta da farti… Ti sembrerà strana…”

“Tesoro, ti posso assicurare che ormai non esiste una sola richiesta che possa sorprendermi. Allora, che cosa devi chiedermi di così compromettente?” mormoro, incuriosito.



 
Sara mi sta già aspettando nel luogo prestabilito.

Non appena la raggiungo si liscia i capelli dietro le orecchie e mi domanda se ho portato con me l’oggetto al centro della richiesta compromettente.

“Allora?”

“Come richiesto da te” rispondo, mostrandole la pistola carica che tengo nascosta sotto la giacca “voglio essere molto chiaro con te, però. Ho accettato di venire a questo incontro e di portare con me questa pistola per dimostrarti, una volta per tutte, che ti puoi fidare di me, dottoressa Tancredi. Ma se la vita di Benjamin sarà messa in pericolo ti giuro che…”

“Credi che io mi diverta a mettere in pericolo la sua vita? O quella di Mike?” ribatte subito lei, risentita, con i muscoli della mascella tesi; riesce a rilassarli solo quando si volta a fissare i nostri figli che giocano a lanciare dei sassi contro la superficie del laghetto, per vedere chi riesce a farli rimbalzare, e si lascia cadere sulla panchina alle nostre spalle, nascondendo il viso tra le mani che continuano a tremare in modo visibile.

Prendo posto a suo fianco e, addolcendo la voce, la chiamo per nome.

“Sara?”

“Assomiglia moltissimo a suo padre” mormora, inspirando, riferendosi al piccolo Michael jr. “lo considera quasi un dio. Io, invece, ho sempre considerato Michael simile ad una tempesta: bellissimo, misterioso, e quando se ne è andato ha lasciato dietro di sé dei segni indelebili. Una volta, a Fox River, mi ha chiesto perché avevo gettato nel cestino della spazzatura il mazzo di fiori che mio padre mi aveva regalato per il compleanno, ed io gli ho risposto che lo avevo fatto perché ritenevo che fosse inutile attaccarsi alle cose se queste sono destinate a durare poco tempo. Ecco perché in un primo momento ho cercato di ignorare quello che sentivo per lui, perché già sapevo che, proprio come i fiori che mio padre mi regalava sempre per compensare le sue assenze, era una cosa destinata a non durare; e invece, poi, è accaduto proprio quello che tu mi avevi detto quando ci siamo incontrati per la prima volta, ricordi? Mi avevi detto che quando una donna lavora in un carcere è destino che si innamori di un detenuto. Ho provato a ignorare i sentimenti che provavo per lui, ma alla fine ho ceduto, accettando le conseguenze implicite e permettendogli di evadere. Abbiamo cercato di vivere appieno ogni singolo istante che ci è stato concesso e quando sono rimasta da sola con il piccolo Mike mi sono sentita crollare il mondo addosso. Ho pregato tanto perché fosse tutto solo un brutto sogno, e adesso che forse è davvero così… Io non… Non so davvero quello che voglio”

“Che intendi dire?” le chiedo, lanciando una rapida occhiata a Ben, per assicurarmi che sia ancora vicino al lago.

La dottoressa Tancredi scosta le mani dal viso pallido e mi guarda con gli occhi sgranati.

“Lincoln mi ha mostrato la foto che hai ricevuto a Fox River. Secondo me era un falso ben architettato, ma lui iniziava ad avere dei dubbi a riguardo. E così ha chiesto aiuto a C-Note, e insieme hanno scoperto che quella foto era stata scattata all’interno del carcere di Ogygia, nello Yemen. Sono partiti subito perché C-Note ha dei contatti lì, almeno questo è ciò che Linc mi ha spiegato, e poco dopo il loro arrivo ho ricevuto questo video”.

Le mani di Sara sono ormai in preda ad un attacco di convulsioni quando mi passa il suo cellulare e fa partire un video: sullo schermo appare l’interno di un edificio trascurato, polveroso, e l’unico suono che giunge alle mie orecchie è una moltitudine di urla che appartengono, sicuramente, ai detenuti che sono rinchiusi lì dentro; dopo una manciata di secondi vedo Burrows apparire nel mio campo visivo ed appoggiarsi ad una porta munita di sbarre spesse e segnate dalla ruggine.

I miei occhi si spalancano quando, dall’altra parte, compare un giovane uomo, con i capelli cortissimi, che appoggia le mani contro le sbarre, rivelando così i due occhi, tatuati, che spiccano su entrambi i palmi delle mani.

Michael.

È lui.

Eppure dalle sue labbra escono parole differenti: in tono infastidito, secco, afferma che il suo vero nome è Kaniel Outis, lo stesso del mio misterioso benefattore, e di non conoscere nessun Michael Scofield; non aspetta neppure una risposta da parte del fratello maggiore, gli volta le spalle e se ne va, ignorando le suppliche di quest’ultimo; il video finisce proprio in questo modo ed il cellulare ritorna nelle mani della legittima proprietaria, che lo ripone in una tasca dei jeans.

“Direi che questa è la prova definitiva che concretizza le mie supposizioni: il tuo ex marito è vivo e, a quanto pare, non è in grado di stare lontano dalle sbarre di una cella. Ormai è chiaro che dietro a tutto quello che sta accadendo c’è un suo piano”

“È quello che credevo anche io prima di aver sentito le sue parole. Perché ha detto a Lincoln di non conoscere né lui né Michael Scofield? Hai visto il modo in cui lo guardava, sembrava quasi che davanti ai suoi occhi ci fosse uno sconosciuto. Michael ha sempre amato profondamente suo fratello, tutto ciò che è accaduto sette anni fa lo ha fatto solo per lui”

“Sara, non scendere a conclusioni così affrettate. Da professionista ti posso assicurare che un uomo può arrivare a dire qualunque genere di bugia se di mezzo c’è la sua vita o quella delle persone che più gli stanno a cuore. Forse il nostro piccolo Michelangelo si è messo nei guai. Guai molto più seri di quelli in cui siamo stati coinvolti anche noi”

“Su questo ti sbagli, perché ho quasi la certezza assoluta che ci sia di mezzo una nostra vecchia conoscenza”

“Che vuoi dire?”

“Sei disposto ad andare fino infondo a questa faccenda?” mi domanda lei, di getto, ed io non posso fare altro che sorridere.

“Fiorellino, lo sai che a me piace andare sempre fino infondo. Io sono il fondo”

“Allora devi andare a interrogare Kellerman per me ed estorcergli ogni informazione possibile”.

Paul Kellerman era uno dei pezzi grossi della Compagnia, l’organizzazione che aveva incastrato Burrows con l’accusa di aver ucciso il fratello della vicepresidente degli Stati Uniti, almeno fino al giorno in cui ha iniziato a comprendere che non è tutto oro quello che luccica, e che lui non era un membro così essenziale, ma bensì una pedina come tante altre, sacrificabile in qualunque momento in nome di un ‘bene superiore’; e così, quando ha capito che la sua testa stava per saltare, ha optato per un voltafaccia vantaggioso, diventando alleato di Scofield e Burrows, e procurando a loro ed al resto della squadra una nuova vita ed una fedina penale pulita al termine dell’operazione Scylla.

A me, invece, ha procurato un comodissimo trasferimento in prigione.

“Balle!” esclamo, con un’espressione sconcertata “dietro a tutto questo ci sarebbe Kellerman?”

“Ricordi il giorno in cui ci siamo incontrati in ospedale? Mi trovavo là perché un uomo ed una donna, armati, sono entrati in casa mia ed hanno sparato a mio marito. Fortunatamente non lo hanno ucciso perché sono riuscita a chiamare la polizia dopo aver messo al sicuro Mike. Quando ho ricevuto quel video da Lincoln sono andata da Kellerman in cerca di risposte, dato che lui lavora per il Dipartimento di Stato. Qualche giorno più tardi il mio cellulare è stato hackerato, l’ho portato in un negozio e sono stata seguita dall’uomo e dalla donna che erano entrati in casa mia. Sono riuscita a scappare solo perché mi sono nascosta in un altro negozio”

“Perdona la mia ignoranza, ma non riesco a trovare un collegamento con il nostro amico”

“Il proprietario del negozio mi ha spiegato che sono riusciti ad hackerare il mio cellulare grazie ad una mia impronta digitale. Il giorno in cui mi sono recata nell’ufficio di Paul, lui ha insistito perché bevessi dell’acqua da un bicchiere, e non da una bottiglietta perché la plastica, col tempo, rilascia delle sostanze velenose. Questa è stata la sua unica spiegazione”

“Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una curiosa coincidenza… Ma dal momento che io non ho mai creduto alle coincidenze, direi che il cerchio si restringe notevolmente attorno a Kellerman”

“Avevi ragione tu” ammette Sara, con un’espressione preoccupata, ma decisa “dietro tutto questo c’è Michael, ma per qualche ragione a noi sconosciuta si fa chiamare Kaniel Outis. E Paul mi ha spiegato che Outis è un terrorista internazione su cui pende più di un mandato di cattura, ricercato, che lavora per un uomo chiamato Poseidone. Ho visto delle foto inequivocabili, Theodore, in cui uccideva un ufficiale della CIA. Capisci? Kellerman è Poseidone, e costringe Michael a lavorare per lui ed a compiere atti orribili. Dopotutto lui lavorava per la Compagnia, chi ci assicura che non abbia atteso il momento opportuno per rivelarci il suo vero volto?”

“Sono sicuro che dietro la giusta esortazione ci darà tutte le spiegazione che stiamo cercando” rispondo, ormai convinto che dietro questa faccenda ci sia davvero l’ex Agente della Compagnia, perché tutti gli indizi che abbiamo a nostra disposizione portano proprio a lui; inclino la testa di lato, osservando la donna che un tempo era oggetto di desiderio a Fox River, ed il turbamento che leggo nel suo viso mi spinge a porle un’altra domanda “che cosa ti preoccupa? No, non mi sto riferendo a quello che ti è successo negli ultimi giorni. So che c’è altro di cui non hai ancora parlato”

“Michael ha sempre trovato il modo per comunicarmi qualcosa. Sempre. Anche quando era un ricercato. Perché in sette anni non mi ha mai mandato nulla? Perché non mi è mai arrivato un messaggio, un video, una breve telefonata? Possibile che non abbia mai avuto occasione di avvisare me e Mike? E perché, durante la mia evasione, non mi ha spiegato che doveva sparire? Eravamo da soli in quella stanza, le occasioni non gli sono mancate”

“Sara, io non sono nella mente di Michael, non posso sapere quali ragioni lo hanno spinto ad agire in questo modo, ma visti i recenti sviluppi in cui entrambi ci siamo imbattuti, forse lo ha fatto perché di mezzo c’era davvero la tua vita e quella di vostro figlio”.

Sara inspira una seconda volta, vedo i suoi occhi scuri diventare lucidi ed una lacrima, ribelle, le scivola lungo la guancia sinistra.

“E se fosse cambiato? E se davanti ai miei occhi dovessi ritrovarmi un uomo completamente diverso da quello che ho conosciuto e di cui mi sono innamorata? Ho paura, Theodore” mi confessa con voce tremante “ho paura che Michael Scofield non esista più”.

La giovane donna di trentasei anni, forte e determinata, che ho affianco a me in un attimo si trasforma in una ragazzina terrorizzata da ciò che ha scoperto, ma ancora di più dalle risposte che il futuro potrebbe avere in serbo per lei; una ragazzina che cerca disperatamente una figura familiare, amica, a cui aggrapparsi per non dover sopportare tutto quanto ancora una volta da sola.

E così, senza esitare, le passo il braccio destro attorno alle spalle e Sara, anziché scostarsi disgustata, appoggia il viso nell’incavo del mio collo e si sfoga piangendo perché, per quanto assurdo possa sembrare, quell’unica figura familiare ed amica su cui può contare in questo momento sono proprio io.

“Scusami” mormora dopo qualche minuto, asciugandosi gli occhi arrossati “io non…”.

Non riesce a completare la frase perché il rumore di un clacson attira la nostra attenzione verso una macchina nera e sportiva, parcheggiata vicino al marciapiede; dall’altra parte del finestrino abbassato c’è un uomo con i capelli castani, ondulati, e con il naso aquilino che rivolge alcuni cenni con la mano destra proprio verso la nostra direzione.

“Chi è quell’uomo?”

“Mio marito”

“Tuo marito?” ripeto, osservandolo, perché durante la notte trascorsa in ospedale la mia attenzione era stata catalizzata totalmente dalla dottoressa Tancredi e non ho rivolto una sola occhiata all’uomo che era con lei “capisco che è impossibile trovare un uomo che eguagli Michael in fatto di bellezza ma, tesoro, credevo che i tuoi standard fossero molto più alti”.

Non risponde alla mia battuta piccata, chiama ad alta voce Michael jr. dicendogli che è arrivato il momento di tornare a casa per fare i compiti, e solo allora mi rivolge di nuovo la parola.

“Purtroppo non conosco l’indirizzo di Kellerman”

“Non sarà un problema”

“Come pensi di riuscire a trovarlo?”

“Un vero professionista non svela mai i trucchi del mestiere, tesoro”

“Chiamami non appena avrai portato a termine il compito che ti ho affidato, e fai attenzione. Quelle persone che seguono me potrebbero iniziare a seguire anche te dopo questo incontro”.

Sara si avvia verso la macchina, mano nella mano con Mike, ed io m’incammino insieme a Ben nella direzione opposta.

Non credo che qualcuno ci abbia seguiti o spiati, in tal caso il mio istinto mi avrebbe avvisato; tuttavia, mentre percorro la strada che dal parco conduce alla villetta mia e di Benjamin, controllo più volte che la pistola sia ancora al suo posto, ben nascosta dalla giacca, pronta per ogni evenienza.

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Capitolo 11
*** Meg (Gracey) ***


Quando credi di conoscere appieno una persona, e che più nulla possa sorprenderti, accade sempre qualcosa che ti fa cambiare prontamente idea.

E la mia coinquilina me ne fornisce la prova concreta posando una cesta di vimini ai piedi del divano, su cui sono sdraiata a leggere un libro; chiudo subito il volume, lo poso sopra un mobiletto e guardo, incuriosita, il contenuto della cesta: con mia enorme sorpresa, il mio sguardo viene ricambiato da due piccoli occhi azzurri, che spiccano su quella che sembra essere una palla di pelo nero.

“Un gattino?” domando, rivolgendomi ad Ashley, e come conferma alle mie parole sento un miagolio provenire proprio dal piccolo animale; lo prendo in mano, con delicatezza, e mi rendo conto che è così minuscolo che a fatica mi riempie i palmi “per quale motivo hai preso un gattino?”

“Primo: non è un gattino, ma una gattina. Secondo: non l’ho comprata. L’ho trovata in un vicolo, poco dopo la fine del mio turno, era completamente sola e continuava a miagolare. Guarda che musino adorabile, Gracey, come potevo lasciarla lì?”

“E come facciamo ad occuparci di lei? Abbiamo il lavoro, le spese per l’appartamento, i provini… Non sarà un impegno troppo gravoso prenderci cura di una nuova coinquilina?”

“Avanti, Gracey! Stiamo parlando di una piccola palla di pelo! Quanto potrà mai essere difficile prendersi cura di lei? E poi, se non sbaglio, una volta mi hai detto che un tuo desiderio è sempre stato quello di avere un animale domestico… Mi sembra che questa sia l’occasione giusta”.

Davanti alle esortazioni di Ashley, ed agli occhi azzurri della gattina che mi hanno già conquistata, sono costretta a cedere.

“Da dove iniziamo?”

“Semplice. Dobbiamo trovarle un nome”.

Ashley prende in mano il suo laptop ed inizia a leggere una lunga serie di possibili nomi per gli amici a quattro zampe ed io, mentre gioco con la gattina, li boccio uno ad uno perché sono o troppo banali o troppo particolari; trascorrono quasi venti minuti prima che entrambe riusciamo a trovare un’opzione su cui siamo d’accordo: Meg.

E in pochissimo tempo, Meg rivela di avere un carattere completamente opposto al suo aspetto dolce ed innocuo, soprattutto quando inizia ad affilare le sue piccole unghiette sul divano o sul legno dei mobili; o quando inizia a scambiare le riviste della mia migliore amica per giochi da fare a pezzi.

Ed è proprio Ashley a decidere che bisogna porre rimedio a questa situazione prima che degeneri ulteriormente e così, un pomeriggio, insieme alla nostra mascotte ci rechiamo in un negozio per animali per comprarle dei peluche, un gomitolo, ed un albero tiragraffi per salvaguardare i mobili dell’appartamento.

Mentre torniamo a casa ascolto la mia migliore amica che si lamenta dell’ultimo turno che ha dovuto affrontare, di alcuni clienti esigenti ma, soprattutto, del nostro Capo; smetto di prestare attenzione alla sua voce quando, passando affianco al parco, noto un uomo ed una donna seduti su una panchina.

Li vedo parlare a bassa voce, in modo concitato, finché la donna non gira il viso da un’altra parte, di scatto; a quel punto lui le passa il braccio destro attorno alle spalle e lei si stringe contro il suo petto, nascondendo la testa sull’incavo del suo collo, con il volto celato dai lunghi capelli rossi.

Quello dell’uomo, invece, è perfettamente visibile ai miei occhi.

Qualcuno mi scuote per il braccio sinistro, distolgo lo sguardo dalla panchina e mi soffermo sul viso di Ashley: vedo le sue labbra aprirsi e chiudersi ripetutamente, ma non riesco a capire le sue parole perché nessun suono giunge alle mie orecchie; sbatto le palpebre, scuoto la testa e finalmente il velo ovattato che mi ha avvolta scivola via.

“Hai detto qualcosa?”

“Mio dio, Gracey! È da quasi un minuto che continuo a chiamarti ed a scuoterti! Si può sapere per quale motivo ti sei bloccata all’improvviso? Che cosa hai visto?” mi chiede Ashley, preoccupata.

Non rispondo alla sua domanda, mi volto per la seconda volta in direzione della panchina e vedo Theodore allontanarsi insieme a Ben, mentre la misteriosa donna dai capelli rossi si avvia verso la direzione opposta, tenendo per mano un ragazzino; quando gli occhi della mia coinquilina si posano sul piccolo quartetto che si sta sciogliendo la prendo sottobraccio, e la esorto ad accelerare il passo.

“Nulla, sto benissimo. Andiamo a casa, forza, ho le gambe distrutte” dico, cercando di sviare l’argomento, ma ovviamente lei ha già capito tutto e lo dimostrano le prime parole che mi rivolge non appena chiudo la porta dell’appartamento alle mie spalle.

“Quell’uomo al parco… Era lui?” mi chiede, appoggiando Meg dentro la sua cesta, togliendosi poi la giacca; infilo le mani nelle tasche dei jeans e mi limito a scrollare le spalle.

“Può essere”

“E quella donna era in sua compagnia?”

“Così sembrerebbe”

“Oh, mio dio, Gracey! Non ci posso credere! Ti sei bloccata sul marciapiede perché hai visto l’ex compagno di tua mamma insieme a quella donna?”

“Ho parlato con lui qualche giorno fa, in un fast-food, mi ha raccontato alcune cose del suo passato e mi ha spiegato il motivo per cui è finita la relazione tra lui e mamma… Per quale motivo, allora, non mi ha detto nulla riguardo a quella donna? Perché non me ne ha parlato? Perché devono esserci continuamente dei segreti tra me e lui?” domando, lasciandomi cadere sul divano; prendo il gomitolo di lana rossa che abbiamo comprato per la nostra gattina ed inizio a passarlo da una mano all’altra, per combattere il nervosismo che continua a farsi strada in me “perché?”.

Ashley sospira e poi prende posto vicino a me, con un’espressione materna che contribuisce solo a farmi irritare ulteriormente.

Proprio come il tono di voce che usa subito dopo.

“Gracey, in qualità di tua migliore amica e coinquilina mi sento in dovere di farti questo discorso. So già che non condividerai il mio punto di vista, ma ti chiedo di ascoltare le mie parole e di non interrompermi fino a quando non avrò finito. Ogni volta che mi hai parlato di quest’uomo, di Theodore, hai sempre detto che lui era molto legato a te ed a Zack. Io non voglio mettere in dubbio questa cosa, perché sono convinta che lui fosse davvero legato a voi due e che abbia sofferto quando non ha più potuto vedervi… Ma la vita va avanti lo stesso e lui ha fatto proprio questo. Lui è andato avanti, mentre tu sei rimasta ancorata al passato. Non ti ha detto nulla di quella donna perché non è una faccenda che ti riguarda, ecco qual è la verità! Anche se per un breve periodo le vostre strade si sono unite, adesso hanno preso delle direzioni separate ed opposte. E anche se un tempo è stato il compagno di tua madre non ha più alcun dovere nei tuoi confronti, è libero di dirti e di tenerti nascosto tutto quello che vuole”

“Ma lui mi ha raccontato alcune cose del suo passato” insisto “perché, allora, nascondermene altre? Perché non mi ha accennato dell’esistenza di quella donna?”

“Perché l’unico dovere che aveva nei tuoi confronti era di raccontarti come era finita la relazione tra lui e tua madre, Gracey! Puoi pure dirmi che sono dura, fredda, perfino stronza, nei tuoi confronti ma questa è la realtà: quell’uomo è libero di fare ciò che vuole e tu non puoi imporgli alcun genere di vincoli!” esclama Ashley, esasperata dalla mia insistenza, perché mi rifiuto di accettare e condividere il suo punto di vista; poi, senza alcun preavviso, la sua espressione cambia completamente, come se avesse avuto un’illuminazione improvvisa “a meno che… A meno che tu non sia gelosa. Oh, mio dio, non dirmi che ti piace quell’uomo! Ti sei presa una cotta per l’ex compagno di tua madre?”

“No!” ribatto, sconvolta, con voce stridula “non dire sciocchezze, ti sei fatta un’idea completamente distorta! Lo conosco da quando ero una bambina, ha avuto una storia con mia mamma… E poi ha cinquantatre anni. Lui è un uomo adulto, io sono solo una ragazzina. Non essere ridicola, dovresti mettere un freno alla tua fantasia”

“Spero che tu mi stia dicendo la verità, perché questa storia ha tutti i presupposti per essere un vero e proprio disastro. E ti ritroveresti con il cuore spezzato”

“Te lo ripeto per la seconda volta: sei completamente fuori strada se pensi che sia quel genere di sentimento che mi lega a lui. Per me è sempre stato una persona importante, ma non è affatto come credi tu”

“D’accordo, ma rispondi ad una semplice domanda: perché ti ha dato così fastidio vederlo insieme a quella donna?”

“Ti ho già spiegato anche questo. Perché…”

“No, quella non era una spiegazione valida. Quella era una spiegazione che hai voluto dare a te stessa per evitare di esplorare le vere ragioni che si celano dietro la tua irritazione”

“Questo discorso è diventato ridicolo” dico, alzando le mani, rifiutandomi categoricamente di dare una risposta ad Ashley; abbandono il salotto e mi rifugio nella mia camera da letto per trascorrere qualche ora in tranquillità, ma i pensieri che affollano la mia testa sono di opinione completamente diversa, e ben presto le parole della mia coinquilina si mischiano all’immagine di Theodore, in quel parco, che stringe a sé la misteriosa donna dai capelli rossi di cui ignoro l’identità.

Ed ogni volta che rivedo quella scena, davanti ai miei occhi, sento un bruciore all’altezza del petto divampare con la stessa intensità delle fiamme di un incendio, ma decido di ignorarlo e reprimerlo con forza; dopotutto l’irritazione che provo è dovuta semplicemente dall’ennesimo segreto di cui l’ex compagno di mia madre non ha voluto rendermi partecipe, proprio come ho ripetuto per due volte alla mia migliore amica.

Nulla a che fare con la sua teoria priva di senso.



 
“Dove stai andando con Meg?”.

Indosso lentamente una giacca prima di voltarmi a guardare la mia coinquilina, che è in procinto di uscire a sua volta per andare al ristorante, e risponderle in tono calmo e distaccato, per non insospettirla.

“Andiamo a prendere una boccata d’aria. Direi che ne abbiamo bisogno entrambe, non credi? Ti fidi di me o hai paura che possa scappare?”

“No, ma ho il timore che le tue intenzioni siano ben differenti. Sbaglio o ieri, al parco, l’ex compagno di tua madre era insieme ad un ragazzino? Scommetto che è suo figlio, ho indovinato?” commenta lei; ed a questo punto, esattamente come è accaduto il giorno precdente, i suoi occhi azzurri si spalancano “dimmi che non sei intenzionata ad usare la nostra gattina come pretesto per andare a trovare quell’uomo e suo figlio. Ti prego, Gracey, dimmi che non stai per fare questo!”

“Theodore ha detto che posso andare a trovarlo in qualunque momento se lo desidero. E poi, sono sicura che Ben apprezzerà molto la compagnia di Meg. I bambini adorano gli animali”

“Non ci posso credere, hai completamente perso la testa! Non hai pensato, neppure per un solo istante, che quelle parole non nascondevano un vero invito, ma erano un modo carino per non dirti ‘addio’?”

“Su questo ti sbagli, perché mi ha detto molto chiaramente che odia gli addii”

“Fa ciò che vuoi, ma ricorda le mie parole: il giorno in cui ti ritroverai con il cuore spezzato non venire a piangere sulla mia spalla. Adesso devo andare, o rischio di arrivare in ritardo”.

Ashley prende il mano il suo cappotto nero, la borsa, ed esce dall’appartamento sbattendo con forza la porta: un gesto infantile per farmi capire quanto sia contraria a quello che sto per fare; ed io mi limito a scuotere la testa, sbuffando, e accarezzo la piccola palla di pelo che ho in braccio.

“Ashley ha la tendenza a drammatizzare qualunque cosa. Tu che ne dici, Meg? Ho ragione?” le sussurro, sorridendo, e lei, in tutta risposta, inizia a fare le fusa.

Spengo tutte le luci dell’appartamento prima di uscire a mia volta, e stringo Meg contro il mio petto, per ripararla dal freddo pungente di Chicago; quando arrivo alla villetta di Theodore, salgo velocemente i tre scalini che conducono al portico e suono il campanello, rimanendo poi in attesa di vederlo comparire dall’altra parte della porta d’ingresso, pregustandomi già la sua espressione sorpresa nel momento stesso in cui vedrà la mia piccola mascotte.

Invece, quando ciò accade, nel suo viso non appare la minima traccia di incredulità o di piacevole sorpresa.

In realtà, i suoi occhi scuri neppure si posano su Meg.

“Ohh, Gracey, capiti proprio nel momento giusto” commenta, facendomi cenno di entrare, prima di sparire in cucina, laddove continua il suo discorso “non sapevo come contattarti dal momento che non ho il tuo numero di cellulare. Oggi devi lavorare? Ho bisogno di un favore e non so a chi rivolgermi. Tu sei l’unica persona a cui posso chiederlo”.

Subito, nella mia mente, si forma un pensiero cinico al quale preferisco non dare una forma concreta: come posso essere l’unica persona a cui può chiedere un favore se qualche giorno prima stringeva a sé la misteriosa donna dai capelli rossi?

Ed è proprio questo stesso pensiero che apre uno spiraglio su un dubbio che mi fa sgranare gli occhi: e se, forse, mi sta per chiedere un favore perché deve incontrarsi proprio con lei? Magari per un appuntamento romantico?

“Stai per uscire?” chiedo, dopo una lunga pausa, anche se dentro di me già conosco la risposta.

“Sì, ho un impegno urgente che non posso rimandare. Non so per quanto tempo dovrò assentarmi, per questo volevo chiederti se puoi andare a prendere Ben a scuola, alle quattro, e rimanere con lui fino al mio ritorno. Mi dispiace dirtelo con così poco preavviso, Gracey, ma si tratta davvero di un impegno urgente, della massima importanza, che non posso assolutamente rimandare, e non posso lasciare Ben a casa da solo. Ha le medicine da prendere, e se dovesse accadergli qualcosa non me lo perdonerei mai”

“Non devi giustificarti, Theodore, mi occuperò io di Benjamin e se dovesse accadere qualcosa te lo comunicherò subito… Ma sono sicura che andrà tutto bene, non preoccuparti”
“Questo è il mio numero, per qualunque evenienza” ricompare dalla cucina e mi porge un piccolo pezzetto di carta che ha appena strappato da un foglio “puoi prendere quello che vuoi dal frigo in cucina, e per quanto riguarda i soldi…”

“No, non voglio nulla da te. Davvero. Che favore sarebbe se ti chiedessi qualcosa in cambio?”

“Per molti anni ho vissuto in un mondo che aveva regole ben precise, anche se non scritte, ed una di queste era che ogni favore ha un proprio prezzo da pagare. Di conseguenza faccio fatica a ricordarmi che esistono persone come te, Gracey, che non vogliono nulla in cambio. In ogni caso sono in debito con te, sentiti libera di riscuoterlo in qualunque momento, per qualunque cosa avrai bisogno” risponde lui con un sorriso.

Mi sforzo per ricambiare, ma torno seria non appena Theodore si allontana in macchina; appoggio Meg sui cuscini del divano e poi vado in cucina per prepararmi qualcosa di caldo da bere, ma quando ho la tazza di ceramica calda tra le mie mani continuo a rigirarla senza mai avvicinarla una sola volta alle labbra.

L’ex compagno di mia madre non ha voluto dirmi nulla riguardo all’appuntamento della massima urgenza, ed io ho preferito non rivolgergli alcuna domanda.

Ed anche se dalla mia parte non ho certezze, non riesco a scacciare dalla mia testa l’idea che l’appuntamento della massima urgenza altro non sia che un incontro romantico con la donna del parco.

Un pranzo intimo in un ristorante, forse, o magari all’interno di un hotel dove hanno prenotato una camera per trascorrere qualche ora nella più totale tranquillità, lontano da occhi indiscreti, soprattutto da quelli dell’uomo che era andato a prendere in macchina la rossa ed il ragazzino; una goccia di cioccolata calda mi cade sul dorso della mano destra, svegliandomi dallo strano torpore in cui sono caduta, e mi rendo conto che le mie mani stanno tremando.

Lascio la presa dalla tazza e prendo in mano il cellulare per scrivere un messaggio ad Ashley: le spiego rapidamente la situazione e le chiedo di raccontare una piccola bugia al nostro Capo, per coprire la mia assenza a lavoro.

La risposta, ovviamente, non tarda ad arrivare e la mia coinquilina ne approfitta per ricordarmi, in poche righe, che mi sto intromettendo in una situazione che non mi riguarda, e che sarebbe molto più saggio fare un passo indietro prima di commettere quello che potrebbe essere il peggior errore della mia vita; preferisco non ribattere al suo messaggio e torno in salotto per assicurarmi che Meg non combini qualche guaio, mi lascio cadere sul divano e trascorro tutto il resto della mattinata guardando alcuni programmi in TV, senza mai sentire i morsi della fame, ricadendo nello stesso torpore che mi ha fatto stringere la tazza di ceramica in modo convulso.

È la suoneria del cellulare a riportarmi nuovamente alla realtà; per un solo istante penso che sia Theodore a chiamarmi, ma poi mi ricordo che non può essere possibile perché non gli ho mai dato il mio numero, ed infatti il nome che lampeggia sullo schermo è quello di mio fratello.

Anche Zack, come mamma, non è d’accordo con il mio trasferimento a Chicago, e proprio come lei non perde occasione per cercare di farmi cambiare idea; ed anche se a volte i suoi insistenti tentativi mi irritano, una parte di me lo capisce: in qualità di unico uomo della famiglia, si sente responsabile nei nostri confronti.

Per qualche minuto parliamo di argomenti futili ma poi, inevitabilmente, la conversazione vira su ciò che sono intenzionata a fare.

“Ahh, non ci provare!” esclamo, per evitare l’ennesima discussione “puoi supplicarmi in qualunque modo possibile, ma non sono intenzionata a tornare a Tribune. Almeno non prima di essere riuscita ad ottenere qualcosa e finalmente, dopo mesi, sono vicina a raggiungere il mio obiettivo. Mamma ti ha raccontato del provino privato che sono riuscita ad ottenere? Devo solo presentarmi con un book fotografico e finalmente riuscirò ad ottenere il mio primo impiego”

“Tu riponi troppa fiducia nelle persone, Gracey. Ascolta, non voglio rovinare questo momento, ma non voglio neppure vederti tornare a casa delusa e in lacrime. Lascia perdere tutto questo, è solo una follia, sei ancora in tempo per fare ritorno a Tribune e riprendere a studiare”

“Sei un ipocrita a dire queste cose, visto che tu per primo non hai mai avuto un andamento scolastico brillante. E poi, in qualità di fratello maggiore, non dovresti essere dalla mia parte e sostenermi? Non stai facendo altro che mettermi i bastoni tra le ruote, proprio come mamma”

“Proprio perché sono il tuo fratello maggiore ho il dovere di farti questo discorso, e di impedirti di commettere il peggior errore della tua vita”

“A quanto pare negli ultimi giorni sono diventata brava a commettere i peggiori errori della mia vita”

“A che cosa ti stai riferendo?”

“Nulla d’importante, stavo pensando ad alta voce” mi affretto a dire, pentendomi delle parole che mi sono lasciata sfuggire; sto per chiudere la chiamata, rifilando una bugia a mio fratello, quando qualcosa m’impedisce di farlo, e proprio come ho fatto con mia madre, decido di rivolgergli qualche domanda su Theodore, ma senza dirgli nulla dei nostri incontri “Zack, tu… Tu hai mai saputo perché mamma e Theodore si sono lasciati? Lei mi ha raccontato che non andavano più d’accordo, ma mi domandavo se tu fossi a conoscenza di qualche particolare in più…”.

Un silenzio assoluto è l’unica risposta che ricevo per diversi secondi e, per un istante, arrivo perfino a pensare che la linea sia caduta.

“Perché mi fai questa domanda?”

“Me lo sono sempre chiesta”

“Lascia perdere. Quell’uomo era solo un bastardo che ha preso in giro nostra madre per un anno intero, ed è la prova vivente che molto spesso le apparenze ingannano”

“Che vuoi dire?” domando, corrucciando le sopracciglia, sorpresa dal tono duro e carico di rabbia che Zack ha improvvisamente assunto; ma lui evita di rispondere, diventa evasivo, si affretta a dirmi che deve andare e chiude la chiamata senza lasciarmi il tempo di ribattere e di porgli altri quesiti.

Fisso lo schermo del cellulare incredula, sbattendo più volte le palpebre, e poi mi rendo conto che è quasi ora di andare a prendere Ben a scuola.



 
Non appena vedo Benjamin uscire dall’edificio di mattoni grigi, gli rivolgo un cenno di saluto con la mano destra; l’abbasso lentamente quando mi rendo conto che il ragazzino a suo fianco è lo stesso che era con lui al parco: lo seguo con lo sguardo e, difatti, incontro per qualche secondo quello della misteriosa donna dai capelli rossi che ho visto in compagnia di Theodore.

Mi basta una semplice occhiata per capire che si tratta di una di quelle persone che hanno avuto tutto dalla vita senza il minimo sforzo: è bella, ha un sorriso luminoso, ed un corpo pressoché perfetto; qualunque uomo desidererebbe trascorrere il suo tempo con lei, compreso l’ex compagno di mia madre.

“Ehi!” esclama Ben, inclinando il viso di lato, assumendo un’espressione corrucciata che è la stessa del padre “dov’è Theodore?”

“Ha avuto un impegno urgente che non poteva posticipare, e così ha chiesto a me di venire a prenderti a scuola e di farti compagnia fino al suo ritorno. Sei contento?”

“Hai portato i tuoi biscotti?”

“No, non ho avuto tempo di prepararli”

“Allora sì, sono contento” risponde lui, mentre un sorriso furbetto si dipinge sulle sue labbra.

“Sai, a volte dovresti essere meno diretto in quello che dici. Avevo preparato una sorpresa per te, ma dopo le parole poco gentili che hai rivolto ai miei poveri biscotti potrei aver cambiato idea” commento, fingendomi risentita nei suoi confronti, in realtà non sono arrabbiata, e quando rientriamo nella villetta gli indico subito Meg, che dorme acciambellata sopra ad un cuscino; Ben si avvicina subito a lei, allunga una mano ma si blocca a pochi centimetri di distanza dal suo pelo.

“Posso accarezzarla?”.

Annuisco con la testa e l’osservo in silenzio, combattuta, perché non so se cercare da lui le risposte che dall’ex compagno di mia madre potrei non ricevere mai.

 Ed alla fine cedo.

“Ben, chi era quel ragazzino che hai salutato quando sei uscito da scuola?”

“Mike, il mio migliore amico”

“Sembra molto simpatico e scommetto che anche Theodore pensa lo stesso”

“Sì, qualche giorno fa è venuto qui a giocare, e siamo anche andati al parco insieme a lui ed a sua madre. Però è stato strano” mormora lui, senza mai staccare gli occhi dalla gattina, e così decido di approfondire la questione, sentendo di essere finalmente sulla strada giusta.

“Perché è stato strano?”

“Non me lo so spiegare, ma ci sono stati dei momenti in cui ho avuto l’impressione che Theodore e Sara si conoscessero già”.

Sara.

Finalmente conosco il nome della donna misteriosa, ma non è questo a catturare la mia attenzione, bensì le parole che ha pronunciato dopo: è davvero possibile che il suo sospetto sia reale? Che quei due si conoscessero già?

Ripenso all’abbraccio  al quale ho assistito al parco e trovo da sola la risposta: sì, deve essere proprio così, perché questo spiega perfettamente la complicità e l’intimità che c’era tra Theodore e Sara.

Benjamin riprende a parlare, e lo fa chiedendomi scusa per la mancanza di tatto che ha avuto nei confronti dei miei biscotti al cioccolato; il suo tono di voce è così buffo e tenero che fa apparire un sorriso sulle mie labbra e mi fa dimenticare ogni genere di congettura.

“Non ti preoccupare, Ben, quei biscotti erano un vero disastro. Non piacevano neppure a me. Vorresti aiutarmi a preparare una torta mentre aspettiamo che tuo padre ritorni dall’appuntamento? Sono sicura che l’apprezzerà”.

Adesso è il suo volto ad illuminarsi; accetta la mia proposta e, insieme, prepariamo con pazienza una torta al cioccolato, farcita con crema al burro.

“Ha un aspetto molto più invitante dei biscotti” osserva Benjamin, decorando il risultato finale con dei confetti colorati, spostando poi lo sguardo in direzione del bancone e delle ciotole sporche d’impasto “ma non credo che lo stesso valga anche per la cucina”

“Hai ragione, in effetti sembra che sia passato un uragano. Aiutami a sistemare, altrimenti sarà Theodore a scatenarlo se vede questa confusione. Ti va di essere il mio assistente? Io lavo e tu asciughi, mi sembra un ottimo compromesso”

“Sì, mi sembra proprio un ottimo compromesso. Ma sono sicuro che svolgerei meglio il mio compito dopo aver assaggiato una fetta di torta. Dopotutto dobbiamo essere sicuri che non sia solo bella, ma anche buona”

“Mi dispiace, ma dovrai aspettare per avere la tua fetta” rispondo con una risata, divertita dal tentativo originale di Ben per corrompermi; lui non protesta, prende in mano un asciugamano pulito da un cassetto e si occupa di pulire accuratamente le stoviglie che gli passo: per qualche minuto l’unico rumore che riempie l’aria della cucina è quello dell’acqua del rubinetto, finché non decido d’interromperlo per porre altre domande al ragazzino visto che, come tutti i suoi coetanei, non ha peli sulla lingua “ti hanno mai detto che hai degli occhi molto belli, Benjamin? Li hai ereditati da tua madre?”

“Non lo so, credo di sì”

“Credi? Non ti è mai stato raccontato nulla di lei? Hai mai visto una sua foto?”

“No, e zia Karla non me ne ha mai parlato. E preferisco non chiedere nulla a Theodore… Sai, penso che per lui sia un argomento molto delicato” risponde senza la minima esitazione, continuando a pulire un cucchiaio di legno “forse si sono separati quando ha trascorso sette anni in carcere”.

Il piatto che ho in mano scivola nell’acqua che riempie il lavandino, ma non me ne preoccupo, perché sono troppo sconvolta dalla rivelazione che ho appena ascoltato; le parole di Ben suonano così assurde e stonate alle mie orecchie che gli chiedo spiegazioni a riguardo.

“Carcere? Tuo padre… Tuo padre è stato in carcere?”

“Sì, per sette anni. Ecco perché non ha potuto occuparsi di me, è stata zia Karla a raccontarmelo qualche giorno prima della sua scarcerazione… Ma non mi ha spiegato perché è stato arrestato… Sei sconvolta?”

“Io… Io sono molto sorpresa. Conosco tuo padre da molti anni, e non mi ha mai detto nulla riguardo questa faccenda. Ha detto che ha viaggiato molto, ma non ha mai fatto cenno a questi sette anni che ha trascorso in carcere… Se devo essere sincera, faccio fatica ad immaginarlo rinchiuso in una cella”

“Tutti commettono degli errori, giusto?”.

Mi ritrovo a concordare silenziosamente con il mio piccolo aiutante: tutti commettono degli errori, nessuno deve essere giudicato per un ‘incidente di percorso’, ma la mia mente continua a rifiutare l’idea che l’ex compagno di mia madre abbia trascorso ben sette anni all’interno di un penitenziario; soprattutto perché quest’immagine stona con tutti i ricordi che ho su di lui.

Theodore è sempre stato gentile e premuroso con me e mia madre, per quasi un anno intero ha cercato di costruire un rapporto con Zack; com’è possibile che sia stato arrestato? In che modo è successo? E, soprattutto, quale reato ha commesso?

“Hai sentito?” domando, girando il viso di scatto; resto in silenzio, esorto Benjamin a fare lo stesso, e proprio quando penso di essermi sbagliata sento dei rumori provenire dal salotto “resta qui, non ti muovere, arrivo subito”

“Devo chiamare il noveunouno?”

“No, non è necessario. Sono sicura che si tratta solo di un procione troppo curioso. Sai, a volte vengono attirati dai bidoni della spazzatura, ma devo controllare per sicurezza”.

Dopo aver tranquillizzato Ben mi sposto nel salotto, cercando di ignorare il battito accelerato del mio cuore, e continuo a ripetermi le parole che ho appena pronunciato: non c’è nulla di cui preoccuparsi, deve essere sicuramente un animale che si è avvicinato alla villetta perché attirato dall’odore di alcuni avanzi nei bidoni della spazzatura; non c’è ragione di pensare che si tratti d’altro, dopotutto questo è un quartiere ordinato e tranquillo, ben lontano da quelli di periferia in cui regna la criminalità.

Ben presto, quando il rumore si ripete per la terza volta, capisco che proviene da un corridoio che conduce ad una porta secondaria, affacciata su un piccolo giardino posteriore.

E nella penombra, appoggiata ad essa, scorgo una figura che si regge in piedi a fatica.

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Capitolo 12
*** Angels (Theodore) ***


Pedinare una persona non è un compito semplice.

Spesso, poi, si è costretti a rimanere per ore ed ore appostati in silenzio, nello stesso luogo, in attesa di ottenere qualche risultato.

E, nel mio caso, il primo punto a mio favore arriva quando vedo un uomo, vestito con estrema eleganza, uscire da un edificio, inforcare un paio di occhiali da sole con le lenti scure e avvicinarsi ad una macchina sportiva, dall’aria molto costosa; mentre fruga all’interno della valigetta ventiquattrore, probabilmente per cercare le chiavi della vettura, ne approfitto per digitare velocemente il numero di cellulare di Sara e per metterla al corrente dei progressi che ho fatto.

“Bene, fiorellino” dico “il nostro amico Poseidone è appena uscito, e sarà proprio lui a condurmi al suo castello”

“Scopri tutto su questa storia”.

Ripongo il cellulare in una tasca della giacca, giro la chiave nel cruscotto, e seguo il mio obiettivo mantenendomi a debita distanza, in modo da non creare sospetti in lui; proprio come immaginavo, circa una decina di minuti più tardi, Kellerman parcheggia la sua macchina sportiva nel garage di una villa, per poi sparire all’interno dell’abitazione.

Scendo a mia volta dalla Mustang nera e mi avvicino alla villa; la porta d’ingresso non è chiusa a chiave, di conseguenza è un gioco da ragazzi abbassare la maniglia lentamente ed entrare di soppiatto, con passo felpato, guardandomi attorno, lasciandomi scappare un lungo fischio ammirato: in confronto a questa, la casa che ho ricevuto in dono dal mio misterioso benefattore è un ostello per poveri.

Paul non si è ancora reso conto della mia presenza perché è impegnato in una discussione piuttosto accesa al telefono: da quello che riesco a capire, lui e la sua ex moglie non riescono a mettersi d’accordo sull’affidamento del figlio.

Ne approfitto per muovere qualche passo, per sorprenderlo alle spalle, ma poi nella mia mente si forma un piano migliore: faccio scricchiolare le assi del pavimento e mi nascondo in un piccolo ripostiglio, in attesa che Kellerman cadi nella mia trappola; quando lo vedo arrivare in salotto, con il cellulare stretto nella mano sinistra ed una pistola impugnata in quella destra, non posso che sorridere, compiaciuto, perché tutto sta andando esattamente come avevo progettato.

E quando ritorna in cucina, posando la pistola sopra ad un ripiano di marmo, convinto di essere stato vittima di un’allucinazione uditiva, mi faccio finalmente avanti prendendo in mano l’arma e chiudendo un cassetto semi aperto, per attirare la sua attenzione; lui si volta e, ovviamente, un’espressione di totale incredulità e sorpresa gli fa sgranare gli occhi verdi.

“Sai, tra tutte le cose che mi sconcertano al mondo da quando sono uscito di prigione, è che il cavolo è diventato di moda. Il cavolo!” esclamo, riferendomi al frullato a base di cavolo e banana che l’ex agente della Compagnia si stava preparando mentre parlava al telefono; lui sospira, chiude gli occhi, e si limita a pronunciare il mio nome in tono stanco, proprio come si fa con un problema che rispunta periodicamente.

“Theodore Bagwell…”

“Non dovrei fare questo discorso dal momento che mi sono ripromesso di lasciarmi completamente il passato alle spalle… Tuttavia, adesso che siamo faccia a faccia, mi è tornata in mente un’altra cosa che mi sconcerta. O meglio, che sconcerta il vecchio T-Bag: sette anni fa hai scagionato Michael… Lincoln… Tutti quanti. Eccetto me”

“Ascolta…”.

Non gli lascio il tempo di continuare la frase perché il mio pugno destro si schianta contro il suo viso.

Una piccola vendetta personale che non potevo non riscuotere.

“Sì!” esclamo poi, compiaciuto, perché nonostante i miei cinquantatre anni ho ancora la stoffa di un tempo, la stessa che mi ha permesso di cavarmela in numerose situazioni avverse; preferisco non inferire ulteriormente su Paul, almeno per il momento, gli lascio il tempo di riprendersi ed osservo alcune fotografie incorniciate, concentrandomi su una che ritrae un bambino di circa cinque anni “questo è tuo figlio? Era di lui che parlavi prima al telefono, immagino. Non l’ho provato sulla mia pelle, ma dicono che il divorzio sia una bella rogna. Come è finita tra te e tua moglie? Ha scoperto chi eri un tempo oppure era stanca di stare insieme ad un uomo sposato col proprio lavoro?”

“Sei venuto qui per questo? Perché non ho dato una seconda possibilità a te? Un omicida e predatore sessuale con una mezza dozzina di casi alle proprie spalle?”

“ ‘Ero’ è la parola giusta. Tutto quello che hai appena detto appartiene al passato. Adesso sono un uomo nuovo, che si muove verso la luce, solo che non so chi muova i fili. Ma Sara dice che dietro a tutta questa faccenda ci sei tu, ed io le credo”

“Sara?” ripete Kellerman, incredulo, prima di roteare gli occhi “è stata lei a mandarti qui? Oh mio dio, non so chi sia il più idiota, se tu o lei. Io stavo solo cercando di aiutarla”

“Tu le hai hackerato il telefono e le hai messo quelle due persone alle costole”

“Non so davvero di che cosa stai parlando”

“Non aggravare ulteriormente la tua posizione. Ascolta, Paul, è evidente che abbiamo iniziato nel peggiore dei modi, ma proprio perché sono un uomo diverso da quello che hai conosciuto sette anni fa, voglio darti una seconda possibilità. Quella che tu non hai dato a me. Quindi, ora, perché non mi prepari uno di questi disgustosi intrugli al cavolo e mi dici che cosa c’entra tutto questo con Scofield e con me? Voglio sapere chi sei veramente tu e chi sono i tuoi amici. Voglio vedere il vero volto di chi sta tirando i miei fili una volta per tutte perché sono stanco di essere una pedina di questo gioco perverso fatto di misteriose buste gialle”.

Sotto la minaccia della pistola che continuo a puntargli contro, l’ex agente della Compagnia si avvicina al frullatore, versa una dose abbondante dell’intruglio verde dentro un bicchiere, me lo porge e poi si lascia cadere su una sedia con un sospiro, ripetendo per l’ennesima volta la sua presunta estraneità in tutta questa faccenda.

“Io non le ho hackerato il telefono, siete completamente fuori strada e non immaginate neppure quanto”

“Ahh, davvero?” bevo un sorso del frullato e sono costretto a voltarmi di scatto, per sputarlo dentro al lavandino “questo, comunque, è terribile. Ti prego, dimmi che è un atto di contrizione. È una specie di penitenza? Ti… Ti torturi con il cavolo per espiare i tuoi peccati?”

“Io non ho più peccati da espiare, a differenza di te, Bagwell”

“Vogliamo parlare del peccato di falsità? Kellerman: bevitore di cavolo durante il giorno, assassino della CIA, Poseidone, durante la notte”

“Poseidone?” domanda lui, all’improvviso, ed il suo sguardo cambia completamente.

“Ah-ah-ah! Gli occhi s’illuminano, questo significa che Sara ha ragione”

“Credete davvero che io sia Poseidone? Siete immischiati con lui?” chiede ancora, incredulo, e sulle sue labbra appare un mezzo sorriso che urta i miei nervi già a fior di pelle; mi avvicino, senza mai abbassare la pistola, e lo afferro per il polso sinistro, stringendolo con forza.

“Vuoi costringermi ad usare le cattive maniere? Vuoi davvero che il vecchio T-Bag ti spezzi le dita una ad una?”

“D’accordo, d’accordo, d’accordo. Mi hai dato qualcosa su cui lavorare. Poseidone. Ti racconterò tutto su di lui” si affretta a dire Paul, ed io lascio andare immediatamente la presa; mi allontano di qualche passo, appoggiandomi alla finestra alle mie spalle, e resto in silenzio, in attesa che lui prosegua “Poseidone è uno di quei miti di cui senti parlare. È una figura così intoccabile e invisibile che non riusciresti a trovare neppure con un sottomarino. Ecco da dove deriva il suo soprannome”

“E questo che cosa c’entra con me? Che cosa vuole da Michael?”

“Non lo sappiamo. Il Dipartimento di Stato lo sta cercando da anni. È un operatore deviato della CIA, e nessuno conosce la sua identità”

“Ci risiamo! Continui a parlare di lui in terza persona, e la mia pazienza si sta rapidamente esaurendo!” esclamo, con una risata “possiamo rimanere qui anche tutto il giorno, io non me ne andrò fino a quando non mi avrai raccontato tutta la verità”

“Ed è proprio quello che sto cercando di fare, razza di idiota. E comunque è ben oltre le tue competenze di criminale comune e predatore sessuale. Qui stiamo parlando di un unico uomo, un falco, che non gradisce come la Casa Bianca gestisce la politica estera e ha preso la situazione in mano. Non con eserciti o invasioni… Ma facendo uccidere una persona, facendo eleggere una persona a una carica… O cercando di far uscire una persona di prigione”.

Le ultime parole che pronuncia, dopo un attimo di esitazione, aprono un piccolo spiraglio di luce nella confusione che regna nella mia testa.

“Una prigione… Una prigione come quella nello Yemen in cui è rinchiuso Michael. Quindi… Poseidone vuole far evadere Michael”

“Non hai capito nulla, proprio come immaginavo. Vuoi la mia opinione a riguardo? È Abu Ramal che Poseidone vuole liberare”

“Ne ho sentito parlare mentre ero rinchiuso a Fox River, ma credevo che la CIA si occupasse di uccidere i terroristi, non di…”

“Lui non è più un membro della CIA, non lo hai ancora capito? Non risponde a nessuno, segue solo le sue ideologie” m’interrompe Kellerman, passandosi la mano destra sugli occhi “d’accordo, cercherò di semplificare l’intera faccenda in modo che tu possa capirla, o almeno ci proverò. Diciamo che ritieni che la Russia e l’Iran abbiano troppa influenza in Medio Oriente, e pensi che Washington non faccia bene il suo dovere. Liberi Ramal… D’accordo, è un estremità islamico fuori di testa, ma combatterà Russia ed Iran per te…”

“Ed il nemico del mio nemico è mio amico”

“E la furbizia di Poseidone è che agisce senza avere una rete, per questo è così difficile da trovare”.

Dalle mie labbra esce un verso seccato, muovo qualche passo e poi torno vicino alla finestra, rivolgendo a Paul uno sguardo scettico.

“Ed io dovrei credere alle tue parole? Dovrei davvero credere che un solo uomo muove i fili in questo modo?”

“Anche Michael Scofield era un solo uomo, ed hai visto con i tuoi stessi occhi che cosa è riuscito a progettare per il fratello… Abu Ramal è un mostro. All’inferno c’è un posto riservato a lui, ma quello d’onore spetta solo a Poseidone in persona, perché vuole lasciare di nuovo libero nel mondo quel terrorista. Lui ed i suoi uomini hanno il sangue di migliaia di uomini sulle proprie mani. Migliaia. In confronto a loro, tu ed io siamo angeli”

“Angeli…” ripeto, senza riuscire a trattenere una risata che, però, non contagia Kellerman.

“Scopri chi è Poseidone ed in che modo Scofield è legato a lui, e forse diventerai un vero patriota”.

Nello stesso momento in cui Paul conclude la frase sento qualcosa sfiorarmi il braccio sinistro e, con mio stupore, vedo due macchie rosse, una all’altezza dello stomaco ed una al petto, espandersi nella camicia bianca che indossa; corruccio le sopracciglia mentre lui, con un singulto, scivola di lato dalla sedia e cade sulla moquette che ricopre il pavimento.

Quando inizio a capire quello che è appena successo, un dolore allucinante, improvviso, mi colpisce alla spalla destra e mi ritrovo a mia volta a terra, a poca distanza dal corpo di Kellerman, ma nonostante il foro di proiettile che ho sulla giacca mi rialzo subito e mi nascondo all’interno dello scantinato, proprio nello stesso momento in cui sento qualcuno fare irruzione all’interno della villa; sono pienamente cosciente del fatto di essere stato visto, e che gli aggressori non si fermeranno fino a quando non avranno crivellato di colpi anche il mio corpo, e così blocco la porta con una trave di legno e mi guardo attorno, alla ricerca di una possibile via di fuga dalla trappola in cui sono caduto.

La trovo in una piccola finestra munita di sbarre.

Afferro il metallo con entrambe le mani, provo a tirarlo ma ogni mio tentativo si rivela inutile, perché le sbarre non si muovono di un solo millimetro; e così sono costretto a prendere il cellulare ed a fare una chiamata che appare grottesca, irreale, e perfino buffa alle mie orecchie.

L’ennesimo scherzo beffardo del destino.

È proprio vero quando dicono che c’è un tempo per tutto.

“Noveunouno, qual è la sua emergenza?”

“Ho bisogno di aiuto. Dovete mandare una pattuglia di polizia. Subito, vi prego”.



 
La spalla destra non mi da un attimo di tregua, ma nonostante ciò decido di incontrarmi subito con Sara, in un quartiere a luci rosse, per comunicarle tutto quello che sono riuscito a scoprire.

“Sei ferito” dice, non appena mi raggiunge, notando subito la ferita ed il sangue incrostato “ti avevo detto di fare attenzione”

“Rischi del mestiere. Ma sono lusingato di sapere che ti preoccupi per la mia salute, dottoressa Tancredi… O preferisci essere chiamata signora Scofield?”

“Che cosa sei riuscito a scoprire?”

“Kellerman ed io abbiamo fatto una lunga chiacchierata e mi ha raccontato molte cose su Poseidone… Questo, almeno, fino a quando non siamo rimasti coinvolti in un vero e proprio agguato da parte di due sicari. Un uomo e una donna. Io ho rimediato questo grazioso buco nella spalla, a lui è andata peggio visto che non ce l’ha fatta. Inutile dire che non era il nostro uomo e che eravamo completamente fuori strada. Ti stava davvero aiutando”

“Aspetta, aspetta… Un uomo e una donna? Descrivimeli nel modo più accurato possibile”

“Tesoro, quei due volevano piantarmi una pallottola in testa, imprimermi il loro aspetto nella mia mente era l’ultimo dei miei pensieri mentre cercavo di uscire da quella casa. Ma ricordo che la donna aveva i capelli corti e biondi. Sicuramente una tinta”

“Oh, mio dio!” esclama lei, impallidendo visibilmente “sono gli stessi che hanno fatto irruzione in casa mia qualche settimana fa. Gli stessi da cui sono scappata il giorno in cui ho portato il mio cellulare a riparare”

“Se sei già così sconvolta da questo, non so davvero come prenderai quello che sto per dirti” mormoro, scuotendo la testa, e tiro fuori il cellulare da una tasca della giacca “quando sono riuscito a scappare dalla villa di Kellerman ho seguito quelle due scimmiette per capire, finalmente, chi si nasconde dietro a tutto questo. Sono stato costretto a scendere dalla macchina ed a espormi notevolmente per riuscire a scattare una foto all’uomo che hanno incontrato e, lo ammetto, io per primo sono rimasto sorpreso… Non so davvero come dirtelo, fiorellino, ti spezzerà il cuore”.

Porgo il piccolo apparecchio tecnologico alla dottoressa Tancredi, lei lo prende con mani tremanti e le sue guance perdono le ultime tracce di colore.

“Oh, mio… Oh, mio… Non può essere possibile. Questo è mio marito. È Jacob”

“A quanto pare andavi a letto con il nemico, tesoro, e questo non è tutto. È marcio fino al midollo, e l’ho sentito dire delle cose piuttosto preoccupanti riguardo al tuo ragazzo”

“Aspetta… Aspetta… Che cosa hai detto? Che cosa hai sentito esattamente?”

“Non lo so, ero troppo lontano per ascoltare le loro parole, ma ho sentito molto chiaramente il tuo nome e quello di Michael, e quei tre sembravano molto… Sara! Ma dove vai?” urlo, quando si allontana da me correndo.

“Da mio figlio” grida, a sua volta, in risposta, senza neppure voltarsi.

“Sara! Fermati! Non puoi andare da quell’uomo da sola! Sara!”.

Le mie esortazioni non servono a nulla perché, in pochi secondi, la sua chioma rossa scompare dal mio campo visivo; provo a raggiungerla, ma una nuova fitta alla spalla mi toglie il respiro e sono costretto ad appoggiarmi ad un muro per non crollare sul marciapiede.
 

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Capitolo 13
*** Skeleton In The Closet; Parte Uno (Gracey) ***


“Theodore, sei tu?” domando in un sussurro; non ricevo alcuna risposta dalla figura appoggiata alla porta e così allungo la mano destra, alla ricerca dell’interruttore della luce, e quando lo trovo capisco il perché del prolungato silenzio: l’ex compagno di mia madre si regge in piedi a fatica, ha le palpebre serrate, così come le labbra, ed è in preda a quello che sembra essere un dolore atroce e insopportabile “Theodore… Che cosa ti è successo?”.

In tutta risposta lui scivola a terra e, con orrore, vedo il muro alle sue spalle macchiato di sangue fresco; mi precipito a suo fianco, m’inginocchio sul pavimento e trattengo il fiato non appena i miei occhi notano il piccolo foro che ha sulla giacca, in corrispondenza della spalla destra: tutt’attorno la stoffa è impregnata di liquido scarlatto, dall’odore ferroso, e si formano delle chiazze anche sulla maglietta e sui pantaloni che indosso.

“Spegni la luce. Aiutami ad alzarmi. Forza, non ci riesco da solo” mormora, a denti stretti, ed ogni parola sembra costargli uno sforzo sovrumano; obbedisco alla sua richiesta, lo aiuto ad alzarsi ed a fatica ci spostiamo nel salotto, ma quando siamo a pochi passi dal divano scuote la testa “no, non qui. Non voglio che Ben mi veda in queste condizioni. Portami in camera”

“Non sei in grado di salire le scale”

“Ti ho detto di portarmi in camera”.

Benjamin compare dalla cucina, attirato dalla nostra discussione, ed i suoi occhi chiari si spalancano alla vista delle condizioni in cui versa suo padre, in un’espressione che deve essere il riflesso della mia; prima che possa dire qualunque cosa lo precedo per tranquillizzarlo, e per evitare che possa rimanere vittima di un attacco d’asma.
“Ben, va tutto bene, non ti preoccupare. Resta qui, tuo padre ha bisogno di riposare adesso” dico con voce calma, riuscendo perfino a trovare la forza per sorridere; il ragazzino annuisce, ci lancia un’ultima occhiata e poi torna nell’altra stanza insieme a Meg.

A fatica riesco a condurre Theodore nella sua camera da letto, lo aiuto a sedersi sul bordo del materasso e, con estrema delicatezza, gli sfilo la giacca e faccio lo stesso anche con la camicia; dalle sue labbra non esce un solo gemito e la sua voce è ferma quando mi chiede di verificare le condizioni della ferita.

“Il proiettile è ancora dentro?”

“Io non… Non lo so…”

“Guarda, ho bisogno di saperlo”.

Deglutisco a vuoto e mi sforzo di osservare con cura la ferita.

“Sì, il proiettile c’è ancora… Non puoi rimanere qui in queste condizioni, chiamo subito un’ambulanza”

“No, tu non farai nessuna chiamata”

“Ma… Theodore… Hai un proiettile incastrato nella tua spalla e continui a perdere sangue, hai bisogno di andare in ospedale il prima possibile! Non si tratta di un taglio superficiale che puoi curare con del disinfettante ed un cerotto” tento di convincerlo per la seconda volta, ma è tutto inutile, perché quando provo ad allontanarmi per andare a prendere il mio cellulare, lui mi blocca, afferrandomi il polso destro, lasciandomi senza parole.

“Non ti ho chiesto quale fosse la cosa migliore da fare in questo momento, e non ti ho neppure chiesto di chiamare un’ambulanza. Non ho alcuna intenzione di andare in ospedale e la ferita non è così grave come può sembrare ad una prima occhiata. Credimi, Gracey, mi sono trovato in situazioni ben peggiori di questa in passato. Vai in bagno e prendi la cassetta del pronto soccorso che c’è nel mobiletto vicino al lavandino, poi scendi in cucina, prendi una pinza e sterilizzala sopra alla fiamma del fornello. Quando avrai fatto tutto questo torna subito in camera. D’accordo?”

“D’accordo”.

La presa sparisce dal mio braccio ed obbedisco di nuovo, senza protestare, ma quando mi occupo di sterilizzare la pinza, sotto lo sguardo attento di Ben, ripenso al modo brusco con cui Theodore mi ha afferrata ed al tono freddo che ha usato subito dopo.

Perché entrambi non appartengono all’uomo che conosco.

“Hai preso tutto?” mi domanda non appena chiudo la porta alle mie spalle.

“Sì”

“Bene. Ora… Devi estrarre il proiettile con la pinza”

“Che cosa?” chiedo, con un filo di voce “io non… Io non credo di esserne in grado. Non l’ho mai fatto prima. Non sono una dottoressa, non ho mai studiato medicina, non puoi chiedermi questo. E se le tue condizioni dovessero peggiorare? Theodore, ti prego, dobbiamo andare in ospedale prima che sia troppo tardi”

“Te l’ho già detto due volte: non è necessario andare in ospedale. Devi solo estrarre il proiettile, ripulire la ferita, cucirla e bendarla. Mi sono già ritrovato in situazioni simili, tutto quello che devi fare è seguire le mie indicazioni e non lasciarti prendere dal panico, Gracey. Pensi di essere in grado di farlo?”.

Annuisco in silenzio e poi procedo, seguendo accuratamente tutte le indicazioni che l’ex compagno di mia madre mi fornisce: impiego diversi minuti per estrarre il proiettile, cucio la ferita e la pulisco con un batuffolo di cotone impregnato di disinfettante; lui non parla mai, non emette il minimo gemito o verso di dolore, per tutto il tempo in cui mi occupo della sua spalla destra il suo sguardo resta fisso in un punto indefinito della stanza.

L’unico particolare che tradisce lo sforzo che sta facendo per controllarsi, è il velo di sudore che si è formato sulla sua fronte, insieme al pallore grigiastro che si è diffuso sul suo viso.

Appena finisco emette un sospiro e si sdraia sul materasso, chiudendo gli occhi; lo guardo preoccupata, mentre raccolgo le bende e il cotone sporchi di sangue, e poi decido di fare un ultimo tentativo per farlo ragionare.

“Theodore, lascia che chiami un’ambulanza, per favore, ti hanno sparato ad una spalla ed io non voglio che le tue condizioni si aggravino. Perché non vuoi andare in ospedale? Che cosa ti spaventa così tanto?” gli domando, in un sussurro, sedendomi sul bordo del letto.

“Non voglio andare in ospedale perché la situazione non è così grave come può sembrare, Gracey, ormai non so più in che modo dirti che in passato mi sono ritrovato in condizioni ben peggiori di queste. Stiamo parlando di un semplice proiettile in una spalla” risponde lui, senza mai aprire gli occhi “è una cosa che posso gestire benissimo senza chiamare un’ambulanza”

“Ti prego, cerca di ragionare, se non vuoi farlo per me fallo per Benjamin”

“Ho bisogno di riposare in questo momento” mormora lui, facendomi capire che non è intenzionato a cambiare idea ed a rispondere alle mie domande, ma quando mi alzo dal materasso mi blocca ed apre gli occhi “no, aspetta, non te ne andare. Resta qui. Ben ha bisogno di essere tranquillizzato”

“D’accordo, non ti preoccupare, ma devo avvisare la mia coinquilina. Torno subito, Theodore”.

A malincuore, dopo avergli lanciato un’ultima occhiata preoccupata, esco dalla camera e scendo al pianoterra; e proprio lì trovo Ben, in salotto, seduto sul divano e con Meg accoccolata sulle sue gambe, profondamente addormentata e del tutto ignara di quello che sta accadendo attorno a lei.

L’umore di Benjamin, invece, è completamente diverso.

Non è semplicemente spaventato per suo padre.

È terrorizzato, come se dovesse perderlo da un momento all’altro.

“Come sta Theodore?”

“Sta bene, non ti preoccupare, ha solo bisogno di riposare”

“Ne sei sicura?” insiste, sgranando gli occhi “di solito le persone dicono queste parole quando la situazione è molto grave, succede sempre così nei film. Quello che hai sulla maglietta è il suo sangue?”

“Ben, quelle cose accadono nei film. Questa è la realtà, e se ti dico che non devi preoccuparti puoi credere alle mie parole” dico con voce dolce e con un sorriso, per tranquillizzarlo “resterò qui questa notte, è stato tuo padre a chiedermelo, ma prima devo riportare a casa Meg ed avvisare la mia amica Ashley, altrimenti potrebbe preoccuparsi molto”

“No, per favore! Non te ne andare! Per favore! Per favore!” inizia a ripetere il ragazzino ed io, davanti alle sue suppliche, sono costretta a cedere per non aggravare ulteriormente la situazione e per evitare un nuovo e possibile attacco di asma; prendo in mano il cellulare e mando un messaggio ad Ashley, scrivendole l’indirizzo della villetta di Theodore e dicendole di venire subito.

Non ricevo alcuna risposta, ma pochi minuti più tardi sento qualcuno bussare con insistenza alla porta d’ingresso, e quando vado ad aprire mi ritrovo di fronte alla mia coinquilina, appoggiata allo stipite.

“Sono partita subito, non appena ho ricevuto il tuo messaggio” mi dice, con il fiato ansante “che cosa è successo? Che posto è questo? Quello è sangue?”

“Non posso rispondere a queste domande, ti spiegherò tutto a tempo debito. Prendi Meg e portala a casa, io devo restare qui, almeno per questa notte”.

La mia migliore amica spalanca gli occhi e la bocca prima di esplodere, e di rinfacciarmi il mio comportamento scostante.

“Non puoi mandarmi un messaggio in piena notte, farmi correre ad un indirizzo che non conosco, e poi dirmi che non puoi spiegarmi quello che sta succedendo. Questa è casa sua, giusto? Appartiene all’ex compagno di tua madre? Ti prego, dimmi che quel sangue non è il tuo perché giuro che entro e…”

“Ashley! Smettila!” sibilo a denti stretti, prima che le sue parole possano giungere alle orecchie di Benjamin “questo non è il mio sangue. Ho detto che ti spiegherò ogni cosa, ma adesso non è il momento giusto. Ti prego, cerca di essere dalla mia parte”

“Tu sei completamente pazza, ed io non voglio farmi coinvolgere in questa follia. E ti proibisco di fare altrettanto con Meg” si limita a dire lei, ignorando il mio sguardo supplicante, prima di voltarmi le spalle ed allontanarsi velocemente sul vialetto.

È furiosa e lo capisco, probabilmente avrei reagito nello stesso modo se fossi stata al suo posto, ma in questo momento Theodore e Benjamin hanno bisogno del mio aiuto, io non posso negarglielo, ed Ashley dovrebbe sforzarsi di capire; non voglio rovinare la nostra amicizia, ma non posso neppure voltare le spalle all’uomo più importante della mia vita, l’unica figura paterna che io abbia mai avuto.

Quando torno in salotto, Ben sembra essersi tranquillizzato e lo dimostra il tono calmo che usa nel rivolgermi una domanda.

“La tua amica era arrabbiata?”

“Un po’, ma non ti preoccupare, lei è fatta così: si calma con la stessa rapidità con cui esplode”

“Gracey” mormora subito dopo, chiamandomi per nome “che cosa è successo a Theodore? Perché perdeva sangue?”.

La sua domanda mi coglie del tutto impreparata, ma nonostante ciò preferisco raccontargli la verità anziché inventare una bugia: Benjamin è un ragazzino estremamente intelligente, ed ingannarlo non servirebbe a nulla.

“Qualcuno gli ha sparato”

“E ti ha detto chi è stato?”

“No, non mi ha raccontato nulla, e non vuole essere portato in ospedale”

“Gracey, credi che tutto questo abbia a che fare con il periodo che ha trascorso in prigione?”.

Ancora una volta la sua perspicacia mi sorprende e mi ritrovo senza parole, a scuotere la testa, perché non so davvero che cosa pensare.

Ma, allo stesso tempo, si fa strada in me il terribile sospetto che sia proprio così.

“Non lo so, Ben, purtroppo non posso rispondere a questa domanda. È meglio se adesso andiamo entrambi a dormire, è tardi ed è stata una lunga giornata. Vedrai che domani tuo padre starà meglio”

“Lo posso vedere?”

“Lascialo riposare, d’accordo? È molto provato dall’aggressione”.

A fatica, dopo diverse esortazioni, riesco a convincere il ragazzino ad indossare il pigiama e ad infilarsi sotto le coperte, che rimbocco con cura, proprio come Theodore faceva con me quando ero una bambina.

“Sai…” mormoro poi, per distrarlo “non so se lui te lo ha mai raccontato, ma tanti anni fa Theodore ha avuto una relazione con mia madre. Io avevo cinque anni, ma ricordo ancora molto bene quel periodo”

“E lui com’era?”

“Ohh, lui è stato sempre molto dolce e protettivo, sia con mia madre che con me. Mi rimboccava le coperte, mi aiutava con i compiti, mi accompagnava a scuola quando mamma doveva andare a lavoro alla mattina, e mi svegliava sempre con un bicchiere di latte e dei biscotti. Era molto disponibile anche con mio fratello, ma non sono mai riusciti a creare un vero rapporto. Zack era diffidente nei suoi confronti, in verità credo che lo abbia sempre odiato”

“Fa tutte queste cose anche con me”

“Questo perché è molto legato a te. Ti vuole bene e sta cercando di rimediare a tutti gli anni che ha dovuto trascorrere lontano da te, Ben”.

Lui annuisce, appoggiando la testa sul cuscino, e resta per qualche secondo in silenzio prima di rivolgermi l’ennesima domanda.

“Prima hai detto che è stato aggredito… Quindi, anche tu credi che la ferita abbia qualcosa a che fare con i sette anni che ha trascorso in carcere?”

“Io credo di no, e sono sicura che la spiegazione sia molto più semplice. Forse è stato aggredito da qualcuno che voleva rubargli il portafogli mentre tornava a casa. Appena Theodore si sentirà meglio ci spiegherà quello che è successo, ma non ti preoccupare. Lo sai che non devi agitarti. Sono sicura che si è trattato solo di un brutto episodio. E come tutti i brutti episodi, presto ce lo lasceremo alle spalle, d’accordo?”.

A poco a poco il ragazzino si calma definitivamente, abbassa le palpebre ed in pochi minuti il suo respiro diventa lento e regolare; mi assicuro che sia profondamente addormentato prima di uscire dalla sua camera ed entrare, con più delicatezza possibile, in quella di suo padre: anche lui sta dormendo, ma il suo sonno è tutt’altro che tranquillo.

Mi siedo a suo fianco per rassicurarlo, come ho fatto con Benjamin, sussurrandogli qualche parola dolce,ma lui continua a gemere ed a mormorare frasi sconnesse, del tutto prive di senso, finché non inizia a ripetere più volte lo stesso nome femminile, in tono quasi disperato.

Ma non si tratta né del mio, né di quello di mia madre.

Non è neppure quello della donna dai capelli rossi.

In realtà, è un nome che le sue labbra non hanno mai pronunciato in mia presenza.

Audrey.
 

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Capitolo 14
*** Skeleton In The Closet; Parte Due (Gracey) ***


Accompagnare Benjamin a scuola si rivela essere un’operazione tutt’altro che semplice perché vuole rimanere a casa, vicino a suo padre, e mi ritrovo ad avere una vera e propria discussione con lui mentre lo aiuto a togliersi il pigiama e ad indossare dei vestiti puliti.

Discussione in cui, ancora una volta, dimostra di avere lo stesso carattere forte e testardo di Theodore.

“Ben” ripeto per l’ennesima volta, ormai esasperata “tuo padre ha bisogno di riposare, e sono sicura che non vorrebbe assolutamente vederti saltare un giorno di scuola”

“Ma io non posso andare a scuola dopo quello che è successo a Theodore” ribatte lui, prontamente, mentre mi occupo di pettinargli i capelli; anche questa si rivela essere un’operazione difficile perché, proprio come suo padre, ha un ciuffo ribelle che non vuole essere domato “Gracey, prova a metterti nei miei panni: se lui fosse ancora il compagno di tua madre riusciresti ad andare a scuola dopo l’aggressione che ha ricevuto?”

“Mi occuperò io di lui durante la tua assenza, è in buone mani, e se dovesse accadere qualcosa verrò subito a prenderti. Ma tu adesso andrai a scuola, d’accordo?”.

Benjamin non ribatte, emette uno sbuffo sonoro e resta in silenzio per tutto il tempo della colazione, anche quando gli ricordo di prendere la sua medicina non mi degna di una risposta, limitandosi ad ubbidire; non è arrabbiato, è frustrato perché non è riuscito a farmi cambiare idea, e so che il suo silenzio non è un capriccio, ma bensì un segnale della contromossa che sta preparando: sta pensando ad una nuova tecnica da utilizzare e decide di sfoderarla davanti all’entrata della scuola.

“Se adesso torniamo a casa, prometto che ti aiuterò con Theodore”

“Aiutarmi con tuo padre? Che vuoi dire?” domando con un sorriso, non capendo il senso della sua proposta, e lui mi risponde con un sorriso furbetto, lo stesso che mi ha rivolto quando ho scoperto l’inganno dei biscotti al cioccolato.

“Ti piace”

“Che cosa?”

“Non ‘che cosa’. Chi. Ti piace Theodore”.

Lo guardo con gli occhi spalancati prima di scoppiare in una risata imbarazzata.

“Posso assicurarti che ti sei fatto un’idea completamente sbagliata su noi due. Io sono molto legata a lui, l’ho conosciuto come compagno di mia madre… Non c’è assolutamente altro al di fuori di un profondo affetto”

“Ho visto lo sguardo che avevi ieri notte, quando mi hai parlato di lui. Lo hai descritto come l’uomo perfetto, e una donna lo fa solo quando è innamorata. Anche se ho appena sette anni, so come funzionano queste cose. Posso aiutarti con lui, posso mettere una buona parola per te… Se vuoi, posso indagare e cercare di scoprire se Theodore prova lo stesso”

“Tu non devi fare nulla di tutto questo! Voglio bene a tuo padre, ma non ha nulla a che fare con quello che pensi. Io non sono innamorata di lui, d’accordo? E come hai detto tu stesso, hai solo sette anni. Devi ancora imparare molte cose sull’amore”

“Se quello che ho detto non è vero, perché sei arrossita?”

“Vai in classe, Ben, è appena suonata la campanella”.

Nel volto del ragazzino compare un’espressione contrita, perché non è riuscito nel suo intento, ma prima di sparire al di là dell’ingresso principale dell’edificio si gira un’ultima volta e mi fa l’occhiolino, in un’espressione complice.

Scuoto la testa, incredula, e mentre m’incammino verso la villetta mi rendo conto che Ben non è il primo a pronunciare quelle assurde parole: lo ha fatto anche Ashley quando le ho raccontato di avere visto Theodore abbracciare Sara al parco.

Le loro teorie assurde, però, non mi sfiorano assolutamente perché non sono altro che questo: teorie assurde, senza alcun fondamento.

Parole prive di alcun significato, cariche di malizia, con il solo scopo di stuzzicare.



 
Al mio rientro l’intera casa è avvolta da un silenzio totale.

Muovo qualche passo nel salotto, appoggio la giacca e la borsa a tracolla sul divano e poi entro in cucina; i miei occhi si posano in automatico sulla torta che io e Ben abbiamo preparato, e che doveva essere una sorpresa per Theodore.

Preparo due tazze di cioccolata calda, taglio due fette del dolce, e posiziono tutto sopra ad un vassoio prima di salire le scale ed aprire, a fatica, la porta della sua camera da letto; sollevo entrambe le sopracciglia, sorpresa, vedendo il letto vuoto, con le coperte appallottolate, esattamente come il resto della stanza, ma un rumore improvviso mi fa girare la testa di scatto verso destra, in direzione di una porta socchiusa, che appartiene ad un piccolo bagno: dalla fessura vedo l’ex compagno di mia madre, di spalle, intento ad osservare le condizioni della ferita.

Grazie ad uno specchio che ha di fronte a sé, riesco a vedere il riflesso del suo viso, ancora pallido e teso, ed il suo sguardo intento ad ispezionare ogni centimetro della pelle ricucita; il mio, invece, quasi subito e in modo del tutto involontario, si sposta in basso, soffermandosi sul petto e sul ventre piatto.

Sento le mie guance avvampare e le mani mi tremano così tanto che sono costretta a stringere la presa sul vassoio per non lasciarlo cadere a terra; sto per distogliere lo sguardo quando qualcosa di bizzarro, ed inaspettato, mi fa cambiare idea: Theodore prende in mano un oggetto nero, e grazie allo specchio riesco a vedere che si tratta di una pistola, e mi ritrovo a trattenere il fiato involontariamente davanti a questa nuova scoperta.

Perché mai ha bisogno di tenere un arma con sé?

Controlla la pistola, conta uno ad uno i proiettili che ci sono al suo interno, e la posa affianco al lavandino; solo allora i suoi occhi, attraverso la superficie riflettente che ha davanti a sé, incrociano i miei.

Sussulto, deglutendo, mentre lui si affretta ad indossare una maglietta ed a nascondere la pistola dentro un cassetto prima di uscire dal bagno e chiudere la porta dietro di sé; non so se sia preoccupato o perfino irritato da ciò che ho visto, non so neppure se abbia capito che non sono più all’oscuro dell’esistenza della pistola che possiede, ma nasconde il tutto abilmente con un sorriso.

“E così, alla fine sei riuscita ad accompagnare Benjamin a scuola?”

“Sì” rispondo, sforzandomi di sorridere a mia volta, come se non fosse accaduto nulla “ma non è stato semplice”

“Ohh, sì, non ho potuto non ascoltare la vostra discussione animata. Credevo che Ben fosse un ragazzino timido e di poche parole, invece, piano piano, sto scoprendo che ha un carattere piuttosto… Vivace e sorprendente. Scommetto che tra qualche anno mi darà filo da torcere, soprattutto quando entrerà nel periodo dell’adolescenza ed inizieranno le prime ribellioni”

“Dipende se ha preso da suo padre. Eri un ribelle?” domando, tentando di nuovo di scoprire qualcosa sul suo passato, ma ancora una volta sorvola l’argomento con una risposta vaga e generica.

“La maggior parte dei ragazzini sono dei ribelli durante l’adolescenza. Hai preparato la colazione?”

“Ben mi ha aiutata a preparare questa torta. Doveva essere una sorpresa per te, ma con quello che è successo ce ne siamo completamente dimenticati”

“Ma siamo ancora in tempo per rimediare, giusto?” Theodore prende in mano un piattino, si siede sul materasso e assaggia un boccone “non ti offendi se ti dico che preferisco questo dolce ai biscotti al cioccolato?”

“No, non mi offendi, ma credo che non proverò mai più a cucinare dei biscotti per il resto della mia vita” rispondo con una risata; prendo una delle due tazze, sorseggio la bevanda calda, e l’appoggio sulle mie ginocchia, percorrendo il bordo con l’indice destro: dal momento che lui non proferisce una sola parola a riguardo, decido di affrontare per prima l’argomento “che cosa è successo ieri sera? Perché sei tornato a casa in quelle condizioni?”

“Volevano rubarmi il portafoglio. Sono cose che succedono, purtroppo, ma per fortuna me la sono cavata abbastanza bene”

“Ne sei sicuro?”

“Sì, perché?”

“Theodore” mormoro, con un sospiro “puoi raccontare questa storia a Ben per non farlo preoccupare, ma non provare a rifilarla anche a me. Non sono una stupida. Non può essere stata una semplice aggressione. La persona che ti ha sparato lo ha fatto con l’intento di ferirti gravemente, o peggio, di ucciderti. Perché non vuoi dirmi la verità? Non ti fidi di me?”

“Credimi, Gracey, è meglio che tu sappia il meno possibile riguardo questa faccenda”

“Perché?”

“Perché sarei costretto a raccontarti tante altre cose che appartengono al mio passato, e potrebbe non essere affatto piacevole”.

Le sue parole vaghe, enigmatiche, mi provocano un gesto di stizza che non riesco a reprimere, e mi sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro.

“Sei tornato a casa con un proiettile conficcato nella spalla destra” ripeto, per nulla intenzionata ad arrendermi “ed io mi sono presa cura di te. Non ho chiamato un’ambulanza ed ho seguito tutte le tue indicazioni per medicarti la ferita. Credo di meritare delle risposte, o continui a pensare l’opposto? Theodore, io non so da che cosa nasce la diffidenza che nutri verso le altre persone, ma di me ti puoi fidare ciecamente. Non ti tradirei mai. Chi ti ha sparato? Sei rimasto coinvolto in qualcosa di pericoloso? È per questo che hai una pistola? Temi che possa accadere qualcosa di brutto a Benjamin?”

“Gracey… Gracey… Basta, ti prego, non posso rispondere alle tue domande” dice l’ex compagno di mia madre, scuotendo la testa; si alza dal bordo del letto, prende un pacchetto di sigarette e se ne porta una alle labbra, accendendola, aspirando una profonda boccata e gettando fuori il fumo dalle labbra “tu non hai idea… Non immagini neppure…”

“È stato Michael a spararti? O Lincoln?”.

Alla mia domanda i suoi occhi scuri si spalancano in un’espressione terrorizzata.

“Che cosa hai detto?” mi chiede poi, in un sussurro strozzato, e sento di essere finalmente sulla strada giusta.

“Ieri notte, nel sonno, continuavi a ripetere questi due nomi. Sono stati loro ad aggredirti?”.

Theodore rilassa i muscoli delle spalle e scoppia in una risata acuta, nervosa, che mi lascia perplessa.

“No, non sono stati loro due”

“E chi sono?”

“Diciamo… Due conoscenti”

“Due conoscenti? E John? E David? E Jason? Sono tutti conoscenti? Chi sono queste persone?” insisto “qualcuno di loro c’entra con ciò che ti è successo? Oppure ha a che fare con gli anni che hai trascorso in prigione? Ben mi ha detto tutto”.

Lo vedo irrigidirsi di nuovo ed il suo viso assume una sfumatura grigiastra; spegne la sigaretta dentro un posacenere e se ne accende una seconda, portandosela alla bocca con la mano destra che trema visibilmente; prende una boccata, si scompiglia i capelli ed esce dalla camera.

Lo sento scendere le scale, e quando ritorna ha con sé un bicchiere ed una bottiglia di whisky; versa il liquore ambrato nel bicchiere, lo beve in un solo sorso e aspira per la terza volta il fumo della sigaretta.

“Che cosa ti ha detto esattamente mio figlio?”

“Che hai trascorso sette anni in carcere, e che non gli hai mai spiegato perché sei stato arrestato. È vero, Theodore? Sei stato davvero in prigione per sette anni?”

“Sì, sono stato davvero in prigione”

“Perché?” chiedo, e lui resta in silenzio, avvicinandosi ad una finestra, rivolgendo lo sguardo al di là del vetro; attendo ancora per qualche secondo, invano, ed alla fine decido di arrendermi: mi alzo dal letto, mi avvicino alla porta della camera, ma quando appoggio la mano sinistra sulla maniglia, sento la sua voce strascicata.

E questa volta la risposta che mi da è tutt’altro che evasiva.

“Solitamente preferisco non parlare di questo argomento, perché è solo uno dei tanti tasselli che risvegliano in me dei ricordi intimi e dolorosi” mormora, senza mai staccare gli occhi dalla strada “una delle persone più importanti della mia vita soffriva di una grave malattia fin dalla nascita ed io, per come ho potuto, mi sono sempre preso cura di lei. Le preparavo da mangiare, le pettinavo i capelli, le rimboccavo le coperte… Per ogni singola cosa dipendeva da me, perché non era autosufficiente. Non era neppure in grado di parlare. Poi, un giorno, hanno deciso di rinchiuderla in una clinica privata, e non ho potuto fare nulla per impedirlo perché all’epoca avevo solo quattordici anni. Dicevano che era la cosa migliore, che lì si sarebbero presi cura di lei, che non le sarebbe mancato nulla, e che avrei potuto farle visita in qualunque momento. Anche se ero solo un ragazzino sapevo che quelle parole erano solo una lunga serie di bugie. Non le davano le migliore cure, si limitavano ad imbottirla di farmaci tutto il giorno per non avere problemi, esattamente come facevano con tutti gli altri pazienti. Ma solo sette anni fa ho scoperto che la situazione era ancora più grave di quello che credevo”

“Che cosa hai scoperto?” mi allontano dalla porta e mi posiziono di fronte a lui, invitandolo a continuare il racconto “che cosa hai scoperto, Theodore?”

“Ho scoperto che c’erano degli animali che si divertivano con lei, approfittando della sua innocenza e fragilità. E così, dal momento che la legge non è uguale per tutti, ho deciso di farmi giustizia privata. Ho ucciso quelle persone nel modo più brutale possibile, e poi sono stato arrestato. Ma prima mi hanno permesso di vedere lei un’ultima volta e di darle un bacio in fronte. Glielo dovevo” dice, con un sorriso che appare più simile ad una smorfia “non so se sia riuscita a sentire le mie parole. Era in coma, le sue condizioni si erano aggravate molto nell’ultimo periodo, e qualche giorno più tardi, in carcere, mi hanno comunicato che non c’era più”

“Lei, questa donna, era tua sorella?”

“No” risponde lui, laconico “era mia madre”.

Sento gli occhi pizzicarmi a causa delle lacrime e sono costretta a deglutire, per ricacciare indietro il nodo che ho in gola.

“Mi dispiace essere stata così dura nei tuoi confronti, se lo avessi saputo prima… Non era mia intenzione farti rivivere dei ricordi così dolorosi e non voglio giudicarti per quello che hai fatto. Anche se litigo spesso con mia madre, sarei pronta a fare qualunque cosa per lei, soprattutto se la sua vita fosse in pericolo” nonostante i miei sforzi non riesco ad evitare ad una lacrima di uscire, ma prima che possa cancellarla da sola, la mano destra di Theodore si posa sulla mia guancia, e con il pollice elimina ogni traccia della goccia trasparente e salata; avvicina il suo viso al mio e mi posa un bacio sulla fronte, soffermandosi per qualche secondo, ed io chiudo gli occhi, con un sospiro.

Gli butto le braccia attorno al collo e sento le sue, forti e calde, cingermi i fianchi; e mentre appoggio la testa sulla sua spalla sinistra, e respiro il profumo della sua pelle, mi ritrovo a desiderare che questo momento non finisca mai.

Ed invece questo accade, ed è proprio lui a sciogliere per primo l’abbraccio.

“Non dire nulla a Ben, per favore, gli racconterò tutto io un giorno, ma adesso è ancora troppo presto. E non preoccuparti: per anni ho provato a dimenticare e cancellare il mio passato, finché non ho capito che stavo sbagliando e che la soluzione migliore, per guarire, era riuscire a convivere con i ricordi. Ignorarli e relegarli in un angolo non serve a nulla. Puoi tornare a casa, Gracey, posso occuparmi io di andare a prendere Benjamin a scuola, tu hai già fatto abbastanza per me”

“Sei ancora troppo debole, lascia fare a me. Non è un disturbo”

“Ma hai i corsi all’università ed il lavoro al ristorante”.

Corruccio le sopracciglia, sto per chiedergli spiegazioni, ma poi mi ricordo della bugia che gli ho raccontato durante il nostro primo incontro, quando mi ha domandato perché mi fossi trasferita a Chicago da sola; ed anche se mi si è appena presentata l’occasione giusta per confessare la verità, preferisco continuare a tacere: lui per primo ha molti segreti che custodisce gelosamente, perché, dunque, non ripagarlo con la stessa moneta?

“Di questo non ti devi preoccupare. Hai bisogno del mio aiuto, questa è la mia unica priorità. I corsi li posso recuperare in qualunque momento, e per quanto riguarda il lavoro al ristorante… La proprietaria è una vera iena. Non appena avrò tra le mani un altro posto sicuro mi licenzierò” rispondo con un sorriso, sperando di contagiarlo; Theodore cede davanti alla mia insistenza, mi da il permesso di andare a prendere Benjamin, ma mi chiede di essere lasciato solo per un po’, ed io acconsento senza protestare, sicura che il suo bisogno di solitudine sia dovuto ai ricordi legati alla madre che sono tornati a galla “posso farti un’ultima domanda?”

“Che cosa devi chiedermi?”

“C’era un altro nome che continuavi a ripetere ieri notte: Audrey. È la madre di Ben?”

“No, Audrey non è la madre di Ben. È mia madre”.

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Capitolo 15
*** Skeleton In The Closet; Parte Tre (Gracey) ***


Non appena la porta d’ingresso dell’appartamento si chiude alle mie spalle, mi ritrovo a dover affrontare lo sguardo e la voce accusatori di Ashley.

“Finalmente sei tornata a casa” commenta acida “iniziavo a pensare che quell’uomo ti tenesse in ostaggio”

“Sei ridicola” ribatto, concentrandomi su Meg, e le mie parole non fanno altro che irritarla maggiormente.

“Io sarei ridicola? Prova a metterti nei miei panni, Gracey: la tua migliore amica ti manda un messaggio nel cuore della notte, dicendoti di correre immediatamente ad un indirizzo sconosciuto, ti apre la porta d’ingresso con i vestiti sporchi di sangue e si rifiuta di darti qualunque genere di spiegazione. Credo che anche tu, al posto mio, saresti parecchio incazzata”

“Quel sangue non era mio. Era di Theodore. È stato aggredito e gli hanno sparato alla spalla destra”

“In casa?”

“No, è successo mentre era all’appuntamento”

“E che spiegazione ti ha dato?”

“Un furto finito male. Sono rimasta con lui perché dovevo occuparmi della ferita”

“Perché non hai chiamato un’ambulanza?”

“Volevo farlo, ho insistito più volte, ma lui si è rifiutato e credo di sapere il perché” mormoro, continuando ad accarezzare il pelo di Meg; Ashley mi esorta a continuare con un cenno della testa, ma io le rispondo con uno sguardo scettico “non posso dirtelo. Se te lo dico, vai fuori di testa e fai una sceneggiata”

“E credi che queste parole, invece, dovrebbero tranquillizzarmi? Gracey. Sei la mia coinquilina. Sei la mia migliore amica. E tra migliori amiche non devono mai esserci segreti. Che cosa hai scoperto?”

“Non l’ho scoperto io. L’ho saputo per caso da Benjamin, suo figlio. Mi ha detto che…” esito ancora prima di svuotare il sacco “mi ha detto che Theodore è stato sette anni in carcere”.

Gli occhi di Ashley si spalancano, le sue pupille si riducono a due puntini quasi invisibili, e resta perfettamente immobile per quasi un intero minuto; la sua reazione mi fa subito pentire di essermi confidata con lei, ma ormai è tardi, e non posso tornare indietro.

Posso solo cercare di gestire la situazione nel migliore dei modi, spiegandole perché Theodore è stato arrestato e facendole capire che, anche se ciò che ha fatto è sbagliato, è stato smosso da una questione d’onore.

“Ha trascorso sette anni in carcere? Per quale motivo ha trascorso sette anni in carcere?”

“Ben non ha saputo dirmelo, perché con suo padre non ha mai affrontato questo argomento, e così gliel’ho chiesto a lui, non appena siamo rimasti da soli. Ho dovuto insistere, ma alla fine mi ha raccontato quello che è successo… Lo hanno arrestato per omicidio”.

Non ho neppure il tempo di proseguire che la mia coinquilina esplode letteralmente, ed inizia a gridare così forte che la nostra gattina fa un balzo e si allontana in direzione delle camere da letto.

“Tu devi stare lontana da quell’uomo! Sapevo che c’era qualcosa che non quadrava e adesso ne ho avuto la prova concreta! Devi troncare ogni rapporto, immediatamente”

“Sei impazzita? Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Abbassa la voce, o ti sentirà tutto il condominio”

“No, io non abbasso la voce e non sono intenzionata a calmarmi. E non sono neppure impazzita. A quanto pare sei tu quella che non riesce a vedere il quadro generale in modo lucido. Gracey, hai appena detto che quell’uomo è stato in prigione per omicidio. Omicidio. Sai che cosa significa questa parola?”

“Lo ha fatto per sua madre” rispondo, raccontandole poi la stessa storia dolorosa che Theodore mi ha confidato “tu non avresti fatto lo stesso?”

“Ciò non cambia il fatto che abbia ucciso due uomini. Una persona normale andrebbe subito a sporgere denuncia alla polizia, passerebbe alle vie legali, farebbe in modo di far chiudere la clinica in questione, o almeno di far licenziale ed arrestare i colpevoli. Una persona normale non pensa di farsi giustizia da sola. Anche se quei due uomini hanno commesso degli atti orribili, stiamo comunque parlando di un doppio omicidio. E se l’ex compagno di tua madre ha commesso un’azione simile… Chi ti assicura che non possa accadere una seconda volta? E chi ti assicura che la storia dell’aggressione non sia un’enorme cazzata?”

“Lo stai giudicando per un errore che ha commesso a fin di bene?”

“Io mi preoccupo per te, Gracey, perché da quando quell’uomo è ricomparso nella tua vita non ti riconosco più. Ti stai trasformando in una persona completamente diversa, ed ho paura delle conseguenze. Per favore, interrompi ogni rapporto con quell’uomo prima che sia troppo tardi”

“Non posso e non voglio farlo. Io mi fido ciecamente di lui e so che non mi farebbe mai del male” sussurro, ripensando alla sua mano che accarezza la mia guancia, alle sue braccia che cingono i miei fianchi e, soprattutto, alle sue labbra che si posano sulla mia fronte “quindi, ti prego, se la nostra amicizia vale qualcosa per te, non continuare ad insistere e rispetta le mie scelte. Tu non lo conosci come lo conosco io, altrimenti capiresti che la tua preoccupazione è del tutto inutile. È vero, ci sono domande alle quali non mi ha ancora dato una risposta, ma dopo ciò che mi ha raccontato oggi capisco perfettamente perché non vuole farlo. Sono sicura che, con il tempo, inizierà a confidarsi sempre di più con me, ed io non voglio tradire la sua fiducia”

“Spero che tu abbia ragione. Me lo auguro davvero, Gracey, ma continuo a credere che le parole che dici non sono dettate dal tuo cervello, ma da questo” Ashley si picchietta il petto, in corrispondenza del cuore; poi si avvicina al bancone della cucina, prende in mano un biglietto e me lo porge “ma visto che non vuoi più parlare del tuo Theodore con me, ti do altro a cui pensare”

“Che cos’è?” le chiedo, osservando il semplice foglietto di carta bianca, dove c’è scritto un orario ed un indirizzo.



 
“Come sta Theodore?”.

Queste sono le prime parole che Ben mi rivolge, dopo essere uscito da scuola, ed io non posso che sorridere di fronte alla preoccupazione ed all’affetto che dimostra per il padre, nonostante il poco tempo che hanno trascorso insieme.

“Sta bene, e mi ha detto di dirti che la nostra torta è molto buona. A quanto pare, tu ed io formiamo un’ottima squadra”

“In realtà, il termine più adatto da usare è ‘duo’. Una squadra è formata da un numero più elevato di persone”

“Adesso capisco perché sei uno dei migliori della tua classe”

“Ti ha spiegato che cosa è successo ieri notte?”

“Sì” mento “abbiamo parlato a lungo e mi ha confermato la storia del furto. Non era una bugia, e non ha nulla a che fare con gli anni che ha trascorso in carcere. Purtroppo, Ben, queste cose accadono molto più spesso di quello che crediamo. Ecco perché bisogna fare sempre attenzione quando si esce di notte, non si sa mai chi si potrebbe incontrare”

“E durante la lunga conversazione che avete avuto vi siete limitati a parlare?” mi domanda, rivolgendomi uno sguardo fin troppo malizioso per un ragazzino di sette anni; scuoto la testa e fingo di non cogliere il significato delle parole che ha appena pronunciato.

“Sì, che altro avremmo dovuto fare?”

“Abbracciarvi… Baciarvi… Non fanno questo le coppie innamorate?”

“Hai una fantasia troppo accesa, Ben, io e tuo padre non siamo una coppia e non siamo neppure innamorati”

“Credevo fosse successo qualcosa tra voi due”

“Perché?”

“Il tuo sorriso. Non ti ho mai vista così contenta, e così ho subito pensato ad un bacio tra te e Theodore”

“Non c’è stato nessun bacio tra noi due” ribatto, con una risata acuta, e poi faccio vedere a Benjamin il biglietto che Ashley mi ha dato, rendendolo complice del mio segreto “la mia coinquilina ha contattato un fotografo ed ha fissato un appuntamento per me, per un servizio. Theodore crede che mi sia trasferita a Chicago per studiare veterinaria all’università, in realtà sono venuta qui per riuscire ad entrare nel mondo della moda, e finalmente credo di essere sulla strada giusta”

“Figo!” esclama lui, restituendomi il biglietto “e perché a lui hai raccontato una bugia?”

“Non lo so” mormoro, riflettendo per la prima volta sui motivi che mi hanno spinta a tacergli una cosa così importante “forse perché temevo il suo giudizio”

“Allora ti piace veramente, altrimenti non ti preoccuperesti del suo pensiero. Vorresti averlo vicino a te durante il servizio fotografico?”

“Non accetterebbe mai” dico, agitando una mano, per liquidare l’intera faccenda, ma il ragazzino è tutt’altro che intenzionato ad arrendersi e ritorna all’attacco con parole che mi dimostrano, per l’ennesima volta, quanto sia acuta la sua mente nonostante la sua giovanissima età.

“Non c’è bisogno che tu glielo chieda apertamente. Approfitta dell’occasione per raccontargli il vero motivo che ti ha spinta a trasferirti a Chicago e poi accennagli all’appuntamento che hai. Sono sicuro che sarà lui il primo ad insistere per accompagnarti”.

Per la seconda volta nell’arco della giornata, Benjamin mi rivolge un’occhiolino complice, ma quando rientriamo nella villetta sembra dimenticarsi dell’intera faccenda e compie un gesto che non ha mai fatto prima, e che sorprende sia me che l’ex compagno di mia madre: lascia cadere a terra lo zaino, corre da lui e lo abbraccia.

L’espressione interdetta di Theodore lascia ben presto posto ad un sorriso dolce, che raramente ho visto sulle sue labbra, e ne resto contagiata.

“Ti vuole molto bene, sai?” gli dico, per rompere il ghiaccio, quando restiamo da soli in salotto; rivolgo per un momento lo sguardo verso le scale e vedo Ben, nel corridoio del primo piano, esortarmi in silenzio a seguire il suo consiglio, prima di sparire in camera “non voglio rovinare questo bel momento, ma ti devo parlare”

“È successo qualcosa di grave? Devo accomodarmi sul divano o rischio di crollare a terra?” mi chiede, con un sorriso, per sdrammatizzare.

“No, non è nulla di così grave, ma non sono stata sincera fino infondo con te” inizio, prima di confessare ogni cosa con lo sguardo rivolto al pavimento, perché non riesco a sostenere il suo, tormentandomi una ciocca di capelli “non mi sono trasferita a Chicago per continuare gli studi. In realtà ho abbandonato la scuola da circa un anno, ormai, sono qui perché voglio entrare nel mondo della moda. Voglio diventare una modella”.

Dopo aver parlato velocemente, senza neppure riprendere fiato, trovo il coraggio di alzare il viso e di guardarlo negli occhi, in attesa di una risposta, di una reazione; vedo la sua espressione rabbuiarsi e capisco di essere nei guai.

“È uno scherzo?”

“No, non si tratta di uno scherzo”

“Gracey, Gracey, Gracey…” si lascia cadere sul divano, passandosi la mano destra tra i capelli, mormora più volte il mio nome e scuote la testa “ma come ti è venuta in mente questa idea? Ti rendi conto che si tratta di una follia? Il mondo dello spettacolo e il mondo della moda non sono come appaiono in televisione e nelle riviste, e la maggior parte delle ragazze che provano ad entrarci restano deluse. Non voglio che lo stesso accada anche a te”

“Su questo ti sbagli, a me non accadrà lo stesso e ne ho la prova concreta proprio qui” mi difendo prontamente, mostrandogli il bigliettino “Ashley mi ha procurato un appuntamento per un servizio fotografico. Ricordi il giorno in cui ci siamo incontrati? Dovevo andare ad un provino, ma sono arrivata terribilmente in ritardo. Fortunatamente ho incontrato una delle organizzatrici e sono riuscita ad ottenere una seconda possibilità: mi ha dato il suo biglietto da visita e mi ha detto di chiamarla non appena avessi avuto un book fotografico”

“Un book fotografico?”

“Un curriculum per aspiranti modelle”

“Tua madre e Zack lo sanno? O hai raccontato anche a loro la bugia dell’università?”

“Si, sanno tutto”

“Ed il loro parere a riguardo qual è?”

“Loro non… Loro non condividono appieno la mia scelta. Anzi…” dico, piegando le labbra in una smorfia “non perdono occasione per convincermi a tornare a Tribune, ma io non sono intenzionata a farlo”

“Secondo me dovresti seguire il loro consiglio” risponde lui, prima di dare inizio a quella che è una vera e propria predica “Gracey, te lo ripeto: tutta questa storia non mi piace. Capisco il tuo punto di vista: sei una ragazza giovane, vivace, allegra e molto bella. Purtroppo sei nata in una città di provincia, del Sud, e le grandi occasioni scarseggiano. È comprensibile che tu voglia respirare l’aria delle grandi città, alla ricerca di qualche opportunità, ma non è questa la strada giusta. Tante giovani come te hanno percorso una strada simile, ed altrettante si sono perse. So che non vuoi credere alle mie parole, e che non le vuoi ascoltare perché le avrai già sentite mille volte pronunciate da tua madre e da tuo fratello, ma rischi di imboccare una strada senza ritorno. E te lo sta dicendo una persona che si è trovata moltissime volte in situazioni simili. Da quanto tempo abiti a Chicago?”

“Quasi un anno, ormai”

“E per tutto questo tempo non hai mai pensato ai possibili rischi?”

“Possibili rischi?”

“Qualcuno potrebbe approfittarsi di te”.

Quando capisco con esattezza a che cosa Theodore si sta riferendo, nel mio volto appare un’espressione risentita.

“Io non voglio scendere a compromessi, voglio farcela da sola, senza scorciatoie, e non posso credere che tu…”

“Gracey, non sto dicendo che ti considero una ragazza ‘facile’. Ma ci sono individui che potrebbero approfittarne per allungare le mani. Prendi questo appuntamento, per esempio” ribatte l’ex compagno di mia madre, mostrandogli il bigliettino che io stessa gli ho dato “che cosa sai riguardo al fotografo che deve occuparsi del servizio? È un uomo? O una donna? Fingiamo che si tratti di un uomo. Sarete solo voi due? O ci sarà qualcun altro? Fingiamo che in questo Studio fotografico ci siate solo voi due. E se quell’uomo, all’improvviso, ti mettesse le mani addosso? A questo non hai pensato, vero? Che cosa faresti in quel caso, Gracey? Come reagiresti? E se dovesse spingersi oltre? E poi, di che genere di servizio fotografico stiamo parlando? Mi dispiace, ma non credo che andrai a questo appuntamento”.

Dovrei essere lusingata dal modo in cui si preoccupa per me, ma le ultime parole che pronuncia oscurano tutte le altre, ed il biglietto ritorna nelle mie mani prima che possa finire sul pavimento, trasformato in tanti coriandoli di carta.

“No!” dico, tenendo il piccolo rettangolino stretto nel pugno destro, come se fosse la cosa più preziosa al mondo “ho faticato tanto per ottenere questo. E quando, finalmente, sento di essere ad un solo passo dall’ottenere qualcosa… Tu vuoi portarmi via la mia grande occasione? Quando mi capiterà ancora? Non sono una sprovveduta, Theodore, so che in qualunque ambito lavorativo, soprattutto in quello dello spettacolo, ci sono persone prive di scrupoli. Comprerò dello spray al peperoncino, ma non sono intenzionata a rinunciare al servizio fotografico, per nessuna ragione. Quando ho lasciato Tribune ho detto a mamma e Zack che ce l’avrei fatta, non posso tornare indietro a mani vuote”

“Dovresti imparare a mettere da parte l’orgoglio, perché a volte ci porta a commettere azioni molto stupide”

“Credevo che saresti stato dalla mia parte e che avresti appoggiato la mia decisione”

“Essere dalla parte di una persona non significa appoggiare in automatico ogni sua decisione, comprese quelle sbagliate” mormora Theodore, scompigliandosi di nuovo i capelli “d’accordo. Va bene. Possiamo fare così. Tu andrai a quel servizio fotografico, ma a due condizioni. Prima condizione: lascia perdere lo spray al peperoncino. Ti accompagnerò io, così potrò assicurarmi che non accadrà nulla di strano”.

La mia espressione contrariata si trasforma in sorpresa non appena lui termina la frase: incredibilmente, e contro ogni mia previsione, il piano di Benjamin ha funzionato.
“E… La seconda?” domando, sforzandomi di non sorridere, perché la rabbia di poco prima è svanita del tutto, sostituita da una felicità impossibile da descrivere.

Questo, almeno, fino a quando non mi mette davanti alla seconda condizione.

“Se questo servizio fotografico non porterà a nulla, tornerai a casa da tua mamma e tuo fratello. E riprenderai a studiare”.

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Capitolo 16
*** I Think I Love You; Parte Uno (Theodore) ***


Non sono stato del tutto sincero con Gracey riguardo agli ultimi sette anni che ho trascorso a Fox River.

È vero, ho torturato ed ucciso quegli animali perché non si sono fatti scrupoli ad approfittare della debolezza, sia fisica che mentale, di Audrey; ma ciò che lei ignora è che i fatti si sono svolti in modo leggermente differente.

Non ero un uomo libero prima di questa faccenda, mi trovavo già in carcere da qualche settimana, e mi sono preso la mia piccola vendetta personale eludendo le autorità: durante un trasferimento in ospedale, per trovare una soluzione definitiva alla protesi di plastica che utilizzavo, sono scappato, ho punito i responsabili e ho salutato mia madre per l’ultima volta, prima di essere riaccompagnato nella mia cella a Fox River, giocandomi ogni altra possibilità di avere un permesso extra.

Non ho potuto raccontarle tutta la verità, altrimenti avrei dovuto spiegarle il motivo per cui ero già un detenuto, e questo mi avrebbe portato a retrocedere sempre di più nel tempo, fino ad arrivare a quando avevo appena trent’anni.

A quando ho commesso l’omicidio che ha svegliato il Mostro dell’Alabama.

Non so come sia possibile, ma Gracey, proprio come Ben, è all’oscuro di questa ingombrante parte del mio trascorso, e tutto ciò che voglio è che per entrambi non arrivi mai il momento di scoprire la verità; ci sono già passato due volte, con Susan e con Nicole, non voglio ripetere questa esperienza una terza volta, soprattutto con mio figlio, perché non potrei sopportarlo.

Non ora che il muro tra noi due si sta lentamente sgretolando.

“Ho chiamato una baby-sitter” dico, guardando il suo riflesso nello specchio del bagno “non so per quanto tempo starò fuori, di conseguenza non posso lasciarti a casa completamente da solo”

“Ma io sono in grado di cavarmela benissimo da solo” risponde Benjamin, sdraiandosi sul mio letto.

“Sì, lo so, ma se lo faccio andrei incontro ad un reato chiamato ‘abbandono di minore’. E sai che cosa succede se vengo accusato di questo?”

“Tu torni in carcere ed io vengo affidato ad un’altra famiglia?”

“Bravissimo, hai capito subito il punto della questione” torno a concentrarmi sui miei capelli, finché Ben non richiama la mia attenzione “sì?”

“Ieri, mentre ero in camera, ho sentito tu e Gracey litigare. Che cosa è successo?”

“Non abbiamo litigato. Stavamo solo parlando in…”

“In modo animato?” mi precede lui, appoggiando il viso sul palmo della mano destra “voi adulti dite sempre così. Ogni volta che un bambino vi chiede se avete litigato, voi negate subito e tirate fuori la storia assurda del ‘parlare in modo animato’, come se fossimo degli stupidi da abbindolare. Perché stavate litigando? A causa del servizio fotografico? È per questo motivo che stai per uscire, giusto? Perché devi accompagnarla”

“E tu come fai a sapere tutti questi particolari?” domando, voltandomi, e lui si limita a scrollare le spalle, con un’espressione vaga.

“È stata lei a raccontarmi ogni cosa quando è venuta a prendermi a scuola. Mi ha detto che è a Chicago perché vuole diventare una modella e che non sapeva come dirtelo. Ma se adesso stai andando da lei, significa che ha seguito il mio consiglio”

“Il tuo… Consiglio?” domando, di nuovo, sempre più perplesso.

Ben, invece, è molto sicuro di ciò che dice, e le sue spiegazioni mi lasciano a bocca aperta.

“Sì, voleva averti a suo fianco durante il servizio fotografico, ma non sapeva come chiedertelo. Temeva di ricevere un rifiuto come risposta, e così le ho consigliato di raccontarti la verità. In questo modo tu per primo le avresti detto che non poteva presentarsi all’appuntamento da sola, e ti saresti offerto volontariamente per essere a suo fianco”

“Tu sei davvero una piccola peste” commento, esterrefatto “hai… Hai una mente diabolica, te lo ha mai detto nessuno prima d’ora? E mi ricordi terribilmente una persona che ho conosciuto sette anni fa. Anche lui ha un’intelligenza molto superiore alla media, proprio come te. Promettimi che non ricoprirai mai il tuo corpo di tatuaggi, Ben”

“Perché dovrei farlo?”

“Lascia perdere, non badare alle mie parole”

“Allora… Come ti fa sentire quello che ho appena detto?”

“Che vuoi dire? Come mi dovrei sentire?” chiedo, ed apro le ante dell’armadio alla ricerca di una giacca da indossare.

“Mi riferisco al fatto che Gracey vuole te a suo fianco in un’occasione così speciale. Dopotutto è stata la sua coinquilina a procurarle questo appuntamento, avrebbe dovuto chiederlo a lei. Invece la sua scelta è ricaduta su di te, Theodore”.

Per la seconda volta lo fisso con il sopracciglio destro sollevato, e non so come interpretare il suo sorriso.

“Benjamin, se c’è qualcosa che devo sapere dimmelo e basta”

“Ma non c’è bisogno che te lo dica, perché si tratta di una cosa ovvia e palese!” esclama lui “tu le piaci”.

L’insinuazione di mio figlio è così assurda che scoppio in una risata divertita, e sono costretto ad asciugarmi le lacrime con il dorso della mano destra.

“Benjamin” dico, quando riesco a riprendere fiato “ti posso assicurare che sei completamente fuori strada”

“Anche Gracey mi ha detto parole simili, eppure mentre le pronunciava è arrossita”

“Hai una fantasia troppo accesa”

“Mi ha detto anche questo. Non è che vi siete messi d’accordo per far coincidere le vostre versioni?”

“No, non abbiamo fatto nulla di simile” rispondo con un’altra risata “l’ho conosciuta che era una bambina, ed ho avuto una relazione con sua madre. E, cosa più importante, io ho cinquantatre anni, mentre lei ne ha diciassette. Potrebbe essere la tua sorella maggiore, te ne rendi conto?”

“Sì, ma dicono che in amore l’età è solo un numero”

“Ben” ripeto per la terza volta il suo nome, con un sospiro “questo è un argomento molto serio e complesso per un bambino di sette anni… E poi, sbaglio o fino a qualche giorno fa volevi combinarmi un appuntamento con la mamma di Mike perché a lui non piace il suo patrigno? Hai già cambiato idea?”

“Sì, ma adesso credo che Sara non sia la persona giusta per te. Ha un carattere troppo forte”

“Ha un carattere troppo forte? Mi stai… Mi stai dando del debole, Ben?” domando, ancora esterrefatto “d’accordo, d’accordo… Fine della storia. Argomento chiuso. E mi sto riferendo sia a Sara che a Gracey. Apprezzo il fatto che ti preoccupi per me e che vorresti vedere una donna a mio fianco, ma in questo momento le mie priorità sono altre. Hai sentito? Hanno suonato il campanello, questa deve essere la baby-sitter”

“Scusami, Theodore, non volevo offendere il tuo orgoglio maschile” si scusa subito lui, con uno sguardo sinceramente dispiaciuto; si alza dal letto e si avvicina alle ante spalancate dell’armadio, indicandomi una giacca in pelle nera “potresti indossare questa per l’appuntamento. E, se posso darti un consiglio, potresti portarla fuori a cena, una volta terminato il servizio fotografico. Dopotutto ha fatto molto per te negli ultimi giorni: ha curato la ferita che avevi alla spalla senza chiamare un’ambulanza. Non so in quante persone avrebbero fatto lo stesso”.



 
“Per essere stato il tuo primo servizio fotografico non è andata affatto male” commento, mentre usciamo dall’elegante edificio, per allentare la tensione; mi basta lanciare una sola occhiata a Gracey per capire che è ancora un fascio di nervi, ed infatti sono costretto a rincarare la dose perché la sua risposta arriva sottoforma di un mugugno incomprensibile “so che, forse, il mio parere non è così rilevante e che rischio di risultare banale, ma eri davvero splendida con quell’abito addosso, Gracey. E sono sicuro che lo saranno anche le foto, devi solo aspettare che vengano sviluppate e poi potrai portarle a quella donna”

“Parli come se avessi già affrontato la parte più difficile. Peccato che sia proprio quella che deve ancora iniziare” mormora lei, con il viso seminascosto dai lunghi capelli castani e le labbra piegate in un broncio.

È tutto il giorno che si comporta in modo strano, assente, e perfino quasi distaccato: un atteggiamento completamente opposto a quello che ci si aspetta da una ragazza vicina a realizzare le proprie aspettative.

Ed io non riesco a spiegarmi il perché.

“Forse quello che sto per dire ti tirerà su il morale: prima di uscire di casa ho prenotato un tavolo per due persone in un ristorante poco lontano da qua. Non ci sono mai stato, ma se la memoria non m’inganna da piccola adoravi la cucina italiana”

“Ti sbagli. Adoravo i spaghetti che tu preparavi” mormora, prima di sollevare il viso e guardarmi con un’espressione accigliata “davvero hai prenotato un tavolo per noi due? Perché lo hai fatto?”

“Per festeggiare. E per ringraziarti di tutto quello che hai fatto e stai facendo per me. In realtà, è stato Ben a darmi questo curioso suggerimento, e mi sono reso conto che aveva perfettamente ragione”

“No”

“Non devi sminuirti, Gracey, ho un grosso debito nei tuoi confronti”

“No, no… Mi stavo riferendo all’invito a cena. Non me la sento di uscire, non questa sera. Mi dispiace, ma non sono dell’umore adatto”.

Mi blocco sul marciapiede e faccio lo stesso con lei, appoggiandole la mano destra su un braccio; Gracey non protesta e non prova a liberarsi dalla mia presa, ma i suoi occhi scuri restano incollati all’asfalto.

“Va tutto bene?” domando “c’è qualcosa che non va? Se c’è qualcosa che non va puoi dirmelo. Guardami negli occhi, per favore. Perché continui ad evitarmi? Ho fatto qualcosa di sbagliato? Vuoi darmi una risposta? Gracey? Gracey!”.

Non riesco a non reprimere un tremore nella mia voce, perché un terribile sospetto si forma nella mia mente, seguito da una serie di spiacevoli ricordi: e se, in modo del tutto casuale, avesse scoperto il mio passato?

Le sue parole, fortunatamente, smontano subito la mia teoria e mi fanno tirare un silenzioso sospiro di sollievo.

“No, tu non hai fatto nulla… Non in modo diretto, almeno. Non è neppure colpa tua, la responsabilità è solo mia”

“Io non… Continuo a non capire! Credevo fossi contenta del servizio fotografico”

“E infatti sono contenta di questo” ribatte lei, allontanandosi di qualche passo; si sistema delle ciocche di capelli dietro le orecchie e si morde il labbro inferiore, dando così sfogo al proprio nervosismo “è solo che… Noi due non possiamo più vederci”

“Che cosa? Perché?” chiedo, dando voce ad un altro sospetto “c’entrano tua madre e Zack?”

“No, loro non c’entrano nulla. È una decisione che ho preso io, e ti prego di rispettarla. Non chiedermi altro”

“Perché? Perché non vuoi spiegarmi che cosa sta succedendo?”

“È troppo complicato”

“Gracey”

“Ti prego, Theodore, non insistere”

“Gracey!” esclamo, appoggiandole entrambe le mani sulle guance, e solo ora mi rendo conto che continuava a tenere lo sguardo basso perché i suoi occhi sono lucidi di lacrime “ti prego, spiegami che cosa sta succedendo. Sono sicuro che possiamo trovare una soluzione a questo problema. Non c’è nulla di impossibile”

“Se te lo dico, poi inizierai a guardarmi in modo completamente diverso”

“Lo dubito seriamente” mormoro, esortandola a parlare.

La vedo abbassare le palpebre e prendere un profondo respiro; si allontana da me, esita, ma alla fine, con un enorme sforzo, decide di seguire il mio consiglio e confessa finalmente qual è il suo turbamento.

E quando me lo sussurra, con voce tremante, reprimendo a stento un singhiozzo, il mondo intero mi crolla addosso e mi ritrovo a pensare che, forse, sarebbe stato meglio se avesse scoperto il mio passato da detenuto.

“Ho capito di essere innamorata di te” dice in un soffio, prima di allontanarsi velocemente.

Sento l’eco dei suoi passi, ma non muovo un solo muscolo.

In realtà, non sono neppure in grado di formulare il più piccolo pensiero.

Dopo un tempo infinito mi appoggio lentamente contro la parete di un edificio e scivolo a terra, ritrovandomi seduto sull’asfalto del marciapiede deserto; frugo all’interno di una tasca della giacca, prendo in mano il pacchetto di sigarette che porto sempre con me, ne tiro fuori una, l’avvicino alle labbra e l’accendo, aspirando una profonda boccata di fumo grigio e pungente.

Ora si che sono veramente fottuto.
 

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Capitolo 17
*** I Think I Love You; Parte Due (Gracey) ***


Ashley è semplicemente elettrizzata alla prospettiva di accompagnarmi al mio primo servizio fotografico, e questo non fa altro che accrescere il mio senso di colpa per quello che sto per fare.

“Vedrai” ripete per l’ennesima volta, battendo le mani, senza riuscire a contenere l’eccitazione “andrà tutto bene e quando porterai il book fotografico a quella donna, sono sicura che riuscirai ad ottenere il tuo primo ingaggio, ed a quel punto sarà una strada completamente in discesa: tra qualche anno tutti i stilisti più famosi del mondo ti vorranno nelle loro sfilate, ed io potrò dire di avere contribuito al tuo successo”

“Procediamo un passo alla volta” dico, ridendo a mia volta, per poi tornare seria “e riguardo al servizio fotografico volevo chiederti un favore, Ashley. Ti prego, non arrabbiarti per quello che sto per dire. Sono davvero contenta per quello che hai fatto per me, e non ti ringrazierò mai abbastanza, ma vorrei andare da sola all’appuntamento”.

Non posso raccontarle la verità.

Non posso confessarle che sarà Theodore il mio accompagnatore, altrimenti non riuscirò a contenere la sua reazione, così preferisco inventarmi una piccola bugia; il sorriso scompare rapidamente dalle labbra della mia coinquilina, e le sue sopracciglia si corrucciano.

“Credevo mi volessi a tuo fianco. Sono stata io a procurarti questa opportunità, mi sembra il minimo”

“Lo so, ma sento anche che questa è una prova che devo affrontare da sola. Che voglio affrontare da sola. Ti prometto che se tutto andrà nel verso giusto, non appena mi pagheranno per il mio primo impiego ti porterò fuori a festeggiare. E non sto parlando di andare a mangiare qualcosa in un fast-food, ma di trascorrere una serata in uno di quei ristorante in cui i camerieri indossano i guanti bianchi per servirti”

“Non me ne frega un cazzo dei camerieri con i guanti bianchi!” esclama, sfogando la propria rabbia nei confronti della sua povera borsa, sbattendola con forza sulla superficie del bancone a penisola “perché non me ne hai parlato prima? Perché hai aspettato l’ultimo momento per dirmelo? Ho anche chiesto che il mio turno venisse spostato per accompagnarti”

“Mi dispiace. Scusami. Io non…” balbetto, senza riuscire ad inventare altre spiegazioni convincenti; e proprio a causa di questo mio comportamento, Ashley fiuta qualcosa ed i suoi occhi azzurri sono attraversati da un lampo di rabbia così feroce che retrocedo di un passo, sobbalzando.

“Dimmi che non c’entra lui in questa faccenda” sibila, e davanti al mio silenzio prolungato esplode del tutto, molto più violentemente del giorno in cui le ho confessato che Theodore ha trascorso sette anni in carcere “non ci posso credere! Mi stai liquidando perché vuoi andare all’appuntamento con lui. Dopo quello che io ho fatto per te, dopo la fatica che ho fatto per riuscire a trovare qualcuno disposto ad aiutarti, tu mi ripaghi in questo modo? Preferendo lui a me? Perché?”

“Perché… Ecco…”

“Che cosa speri di ottenere?” domanda ancora, senza lasciarmi il tempo di rispondere, scoprendo il mio punto debole “ohh, no, no, no. Adesso non puoi più scuotere la testa e ripetere che le mie parole sono assurde, perché ormai è chiaro che qui non stiamo parlando di affetto e di nostalgia del passato. Ti sei invaghita completamente di quell’uomo, hai perso la testa per lui, e vuoi far colpo su di lui portandolo con te a quel maledetto servizio fotografico”

“Non sono una sgualdrina!” esclamo a mia volta, risentita dalle insinuazioni della mia migliore amica “non voglio portarlo con me per fare colpo su di lui mostrandomi più nuda che vestita. Voglio fargli capire che io non sono più la bambina che ha conosciuto quattordici anni fa. Voglio che si renda conto che sono cresciuta e che adesso sono una donna. Credi che sia stato semplice, per me, capire che quello che provavo per lui si è evoluto in qualcosa di più profondo? E credi che sia semplice sopportare il fatto che lui è stato il compagno di mia madre, che l’ha amata? Oppure il fatto che non so se l’abbia dimenticata del tutto? E la madre di Ben? Non vuole mai parlare di lei, non so neppure il suo nome. È lei la persona che ama ancora? E tutto questo senza considerare il fatto che abbiamo trentasei fottutissimi anni di differenza”

“Maledizione, Gracey! Adesso capisci perché dicevo che questa storia non sarebbe finita bene?” dice Ashley, esasperata, passandosi entrambe le mani nei capelli biondi; cammina attorno al divano, nella vana speranza di calmarsi, e quando finalmente ci riesce torna a rivolgermi la parola “d’accordo, d’accordo… Ascolta… Adesso ti dico che cosa faremo: tu non andrai all’appuntamento con lui. Lo chiami, gli dici che hai cambiato idea, ci vieni insieme a me e sparisci completamente dalla sua vita. Senza dire una sola parola e senza andare da lui per dirgli addio. E se questo servizio non dovesse portare a nulla di concreto, farai ritorno a Tribune dalla tua famiglia”

“Non posso fare una cosa simile” sussurro, spalancando gli occhi “non posso sparire senza dargli spiegazioni, e non posso neppure tornare nel Kansas. Non dopo tutta la fatica che ho fatto per arrivare a questo punto”

“Lo so, tesoro, ma stare vicina a quell’uomo non ti fa bene. Guarda come sei cambiata nell’arco di poche settimane. Ed anche se questo significa dividerci, preferisco saperti lontana da lui, piuttosto che averti vicina a me, ma con il cuore spezzato”.

So che il consiglio di Ashley sarebbe il più saggio da seguire in questo momento, tuttavia mi rifiuto di farlo, e scuoto la testa, afferrando una giacca e la mia borsa a tracolla.

“Non posso… Non posso tornare a casa. Non posso se prima non ho provato a fare almeno un tentativo, e sento di non poter sprecare questa occasione, capisci? Ho terribilmente paura di rovinare tutto, e di essere guardata da lui in modo diverso, ma allo stesso tempo sento che non posso sprecare questa opportunità perché non potrebbe essercene una seconda. Ti prego, Ashley, se sei davvero mia amica cerca di capire. Non giudicarmi” la supplico, congiungendo i palmi delle mani; lei mi guarda in silenzio e poi, nonostante sia profondamente ferita, acconsente alla mia richiesta.

“Sinceramente non so che cosa sia meglio per te, Gracey: se quell’uomo ti rifiuta, avrai il cuore spezzato, ma se per qualche assurdo motivo dovesse non farlo, durerebbe pochissimo tempo, e soffriresti ancora di più. Avete troppi anni di differenza, e poi lui ha un figlio ed è l’ex compagno di tua madre. Non hai pensato a quale potrebbe essere la sua reazione e quella di Zack? Non lo so, Gracey, sarei una pessima migliore amica e coinquilina se ti lasciassi andare, ma so già che ogni altro tentativo sarebbe inutile”

“Grazie”

“No, non ringraziarmi. Non voglio sentirmi complice di questo disastro preannunciato”.

Lancio un’occhiata sinceramente dispiaciuta alla mia coinquilina e poi esco, stringendomi nella giacca, per non rischiare di arrivare nuovamente in ritardo ad un appuntamento.

Sto male al solo pensiero di avere ferito i suoi sentimenti, ma se davvero è mia amica, se davvero ci tiene a me, deve sforzarsi di capire la mia scelta anziché considerarla come il capriccio di una ragazzina; lei non sa che cosa significa rendersi conto che qualcosa è cambiato.

Non sa che cosa significa rendersi conto che l’affetto, all’improvviso, si è trasformato in una forma diversa di amore e desiderio.

Non sa nulla delle notti che continuo a trascorrere insonne, strizzandomi le meningi, senza essere in grado di arrivare alla soluzione del mio problema.

E, soprattutto, non sa come mi sento ogni volta che sono in presenza di Theodore.

Mentre lo aspetto, vicino al parco, non riesco a non ripensare al momento in cui mi ha abbracciata, baciandomi la fronte, ed al momento in cui l’ho visto in compagnia di Sara, e rivivo le stesse sensazioni contrastanti che mi fanno giungere ad una sola conclusione: non posso continuare a mentire a me stessa, rifiutandomi di guardare in faccia la realtà, o rischierei solo di andare fuori di testa, impazzire, e soffrire.

Sono così concentrata ad arrovellarmi il cervello che non mi rendo neppure conto del suo arrivo, sollevo gli occhi solo quando sento la sua voce strascicata pronunciare il mio nome, sottoforma di domanda, ed anziché rispondere, l’osservo in silenzio, soffermandomi su ciò che indossa: un maglioncino rosso, una giacca in pelle ed un paio di jeans neri.

Vestiti semplici che, però, gli stanno maledettamente bene e non aiutano il mio umore.

“Va tutto bene, Gracey?”

“Sì, sì va tutto benissimo” balbetto alla fine, sforzandomi di sorridere, per non farlo preoccupare ulteriormente; e perché ancora non mi sento pronta ad affrontare l’argomento ed a rispondere a domande imbarazzanti, ed a dare spiegazioni altrettanto imbarazzanti.

“Agitata?”

“Un po’, ma credo che sia normale, giusto? Forse mi sentirei più a mio agio se avessi con me il famoso spray al peperoncino” riesco perfino a fare una battuta che gli strappa un sorriso prima che entrambi, l’uno affianco all’altra, ci avviamo verso l’indirizzo scritto nel foglietto, che corrisponde ad un edificio molto più elegante e lussuoso di quello che avevo immaginato; dopo una piccola esitazione premo il citofono e mi allontano di un passo, con il cuore in gola in attesa di una risposta.

“Sì?” domanda una voce femminile e squillante, tutto l’opposto della mia.

“Sono Gracey Hollander” dico, tornando vicina al citofono “ho appuntamento per un servizio fotografico. È stata la mia amica, Ashley, a contattarvi”

“Ahh, sì, sì. Gracey, ti stavo aspettando. Entra pure. Lo Studio è all’ultimo piano, la porta è aperta”.

Mormoro appena qualche parola di ringraziamento e Theodore, da vero gentiluomo, apre la porta per me, lasciandomi entrare per prima; e quando raggiungo lo Studio all’ultimo piano, la mia mascella scatta verso il basso, perché resto completamente meravigliata da ciò che vedo.

Lo Studio fotografico consiste in un’enorme stanza bianca con una parete interamente occupata da una vetrata e con un piccolo set allestito con cura; ci sono anche dei camerini e tanti vestiti disposti su degli appendiabiti, ma non ho il tempo di ammirarli perché una donna si avvicina ed allunga la mano destra con un sorriso cordiale, presentandosi come la fotografa che dovrà occuparsi del mio servizio.

Dice di chiamarsi Janice, e dopo che io e Theodore ci presentiamo a nostra volta mi prende sottobraccio e mi accompagna a vedere alcuni vestiti, dicendo a lui che può accomodarsi dove vuole e che dovrà avere pazienza perché sarà una giornata molto lunga; quando rimaniamo da sole mi domanda che cosa ho in mente, di preciso, per il servizio.

“Non ne ho la più pallida idea” mormoro, sfiorando la stoffa rossa di un vestito “è stata la mia migliore amica ad organizzare tutto questo perché ho bisogno di un book fotografico. Non voglio nulla di eccessivo o di troppo aggressivo. Io non sono abituata a stare davanti all’obiettivo… Questo è il mio primo servizio”

“Cercheremo di fare qualcosa di sobrio ma accattivante allo stesso tempo, allora” risponde Janice, con un sorriso benevolo, rivolgendomi poi una domanda che mi spiazza “chi è quell’uomo? Il tuo compagno?”

“No, io e lui non siamo una coppia” sussurro, arrossendo “è… Una storia molto lunga e complicata”.

Janice annuisce, mi conduce in un’altra stanza per occuparsi del mio viso e dei miei capelli e ne approfitta per indagare ulteriormente.

“Adesso che siamo da sole, e lontane da orecchie indiscrete, hai voglia di raccontarmi questa storia molto lunga e complicata?”

“Non saprei neppure da dove iniziare”

“Però lui ti piace”.

Per la prima volta non provo neppure a negare la realtà e piego le labbra in un sorriso amaro.

“È  davvero così evidente?” domando, decidendo poi di confidarmi, con la speranza di non essere giudicata “sì, mi piace e non so come affrontare l’intera situazione. Prima di venire qui ho perfino litigato con la mia migliore amica perché voleva essere lei ad accompagnarmi”

“Invece tu hai preferito lui”

“Ashley lo odia e non fa nulla per nasconderlo. Dice che non è la persona giusta per me, perché abbiamo molti anni di differenza, e che qualunque cosa faccia finirei comunque con l’avere il cuore spezzato. Forse ha ragione, forse la cosa più saggia da fare sarebbe allontanarmi da lui, ma io sento che non posso farlo se prima non ho fatto almeno un tentativo. E questo Ashley non riesce a capirlo, ed a rimetterci è il nostro rapporto di amicizia”

“Tu cosa vuoi?”

“In questo momento? Non lo so. Non lo so davvero”

“Lascia perdere la tua migliore amica e tutto il resto. Concentrati solo su di lui: quest’uomo ti fa sentire bene? Che cosa provi quando sei in sua compagnia?”.

Le parole della fotografa mi fanno ripensare, ancora una volta, al fugace momento d’intimità che c’è stato tra noi due e sento un brivido percorrermi tutto il corpo: vorrei che accadesse di nuovo? Sì; vorrei che il bacio in fronte si trasformasse in un bacio sulle labbra? Sì, terribilmente.

Preferisco non rispondere a voce, tenendo per me i miei pensieri ed accantonandoli momentaneamente quando viene posizionato uno specchio davanti al mio viso: i capelli castani, che prima tenevo raccolti in una coda di cavallo, adesso mi scendono in tante morbide onde fino a metà schiena, le mie labbra sono pitturate di rosso mentre due linee sottili di matita nera, insieme a del mascara, risaltano la sfumatura scura delle mie iridi.

O almeno questo è ciò che Janice mi spiega.

Non sono ancora pronta per il servizio, perché devo ancora scegliere quale vestito indossare, e l’impresa si rivela essere molto più ardua di quello che pensavo, e ben presto gl’indumenti scartati superano di gran lunga quelli che devo ancora provare; questo finché la proprietaria dello Studio non esce per qualche minuto, per poi tornare con un abito di seta, che prima non avevo notato, che mi lascia letteralmente senza parole: è azzurro, lungo fino al pavimento, con una profonda scollatura sulla schiena ed un piccolo fiocco posizionato sul fianco sinistro.

“Oh mio dio!” esclamo, meravigliata, sfiorandolo appena con le dita per timore di rovinarlo “è bellissimo. E questo è il mio colore preferito. Come hai fatto ad indovinare?”
“Non l’ho scelto io”

“Come?” domando, confusa.

“Ho chiesto al tuo accompagnatore di scegliere un abito. E lui ha preso questo” mi confida Janice; adagia l’indumento su una sedia e poi si avvicina a me, appoggiandomi le mani sulle spalle “Gracey, io non ti conosco, ma lascia che ti dica alcune cose: quando si tratta di amore non ascoltare mai ciò che ti diranno le altre persone, anche se si tratta degli affetti a te più cari, segui solo ciò che dice la tua testa ed il tuo istinto. Ci saranno momenti in cui farai la scelta giusta, ed altri in cui farai la scelta sbagliata, maledicendoti perfino e dandoti della stupida. Ma, fidati, è molto meglio andare incontro alle conseguenze di una scelta sbagliata piuttosto che vivere nell’incertezza. Quindi, adesso, indossa questo stupendo abito, vai da lui e vedrai che dalla sua espressione capirai tutto, senza bisogno di parole inutili, d’accordo?”.

Annuisco con il capo, sorpresa del consiglio inaspettato appena ricevuto, mi cambio dietro un separé e, dopo aver preso un profondo respiro, senza neppure guardare il risultato finale allo specchio, torno nell’altra stanza, impaziente di vedere la reazione di Theodore.

Mi fermo a qualche passo da lui, combattendo contro l’impulso di tormentarmi una ciocca di capelli.

“Allora?” chiedo, con un’espressione ansiosa “come sto?”.

L’ex compagno di mia madre si alza dal divanetto di pelle bianca e si avvicina a me con un sorriso, ed uno sguardo, che non riesco a decifrare.

“Cavolo…” mormora “quasi faticavo a riconoscerti. Sei meravigliosa, eppure manca ancora qualcosa”

“Cosa?”

“Questa”.

Allunga la mano destra per prendere una collana e si posiziona alle mie spalle per cingermi il collo con il prezioso monile; raccolgo i capelli per facilitargli l’operazione e li lascio ricadere non appena ha finito, cercando di non pensare alle sue dita che, per qualche secondo, mi hanno sfiorato la pelle della nuca, mentre Theodore fa un passo indietro.

“Adesso come sto?”

“Meravigliosa, Gracey. Sono senza parole. Ormai non sei più una bambina. Tra poco farai strage di cuori, ed il ragazzo che riuscirà ad attirare la tua attenzione sarà un essere fortunato”.

Mi volto di scatto, a fissarlo, studiando con cura la sua espressione, proprio come Janice mi ha consigliato di fare: anche se sta ancora sorridendo non c’è nulla di quello che avrei voluto vedere nei suoi occhi.

Non mi sta guardando come un uomo guarda una donna da cui è attratto.

In realtà non è cambiato nulla nelle sue iridi scure, e ciò mi basta per capire che il mio tentativo è miseramente fallito e che continua a vedermi nello stesso modo di prima; per lui non sono una ragazza da corteggiare, o che gli suscita qualche turbamento, per lui sono e sarò sempre Gracey: la bambina di cinque anni che accompagnava a scuola, a cui insegnava trucchetti per imparare le tabelline, la figlia della sua ex compagna.

Nulla di più.

E ricevo un’ulteriore prova concreta durante il servizio fotografico perché la sua attenzione, anziché essere totalmente focalizzata su di me, è riservata solo allo schermo del cellulare o alle pagine di qualche rivista.

La delusione è così cocente che mi chiudo in un ostinato silenzio mentre torniamo a casa, e le sue parole non riescono a togliermi dallo stato di trance in cui sono caduta, almeno fino a quando non pronuncia una frase che mi stupisce: a mia insaputa, ha prenotato un tavolo per due persone in un ristorante italiano.

Per un istante, per un solo piccolissimo istante, vedo uno spiraglio di luce prima di ripiombare nel buio più assoluto: a cosa servirebbe, ormai, uscire a cena in compagnia di Theodore? I suoi occhi mi hanno già dato una risposta chiara e netta, non riuscirei a sopportare l’umiliazione di sentirla sottoforma di parole costernate dalla sua bocca.

Eppure, nonostante ciò, cerco ancora di aggrapparmi ad una flebile speranza.

“Davvero hai prenotato un tavolo per noi due? Perché lo hai fatto?” chiedo, con un filo di voce, tremando.

“Per festeggiare. E per ringraziarti di tutto quello che hai fatto e stai facendo per me. In realtà, è stato Ben a darmi questo curioso suggerimento, e mi sono reso conto che aveva perfettamente ragione”

“No”

“Non devi sminuirti, Gracey, ho un grosso debito nei tuoi confronti”

“No, no… Mi stavo riferendo all’invito a cena. Non me la sento di uscire, non questa sera. Mi dispiace, ma non sono dell’umore adatto” mormoro, accelerando il passo, ma Theodore mi precede e mi blocca per il braccio destro; tra noi due si accende una breve discussione che culmina nel momento in cui gli dico che è meglio per entrambi se non ci vediamo più, rifiutandomi di dare spiegazioni più approfondite, perché solo ora mi rendo conto di non essere veramente pronta a confessargli ciò che provo “se te lo dico, poi inizierai a guardarmi in modo completamente diverso”

“Lo dubito seriamente” mormora lui, esortandomi a proseguire.

Dice questo perché non ha la più pallida idea di ciò che sto per confessargli.

Mi sottraggo dalla sua presa, allontanandomi di un passo, prendo un profondo respiro e lo guardo negli occhi, decidendomi finalmente di raccontare la verità, anche se ciò equivale a distruggere completamente il nostro rapporto.

“Ho capito di essere innamorata di te”.

Le parole escono letteralmente dalla mia bocca, senza che abbia il tempo di ripensarci o di arrivare piano piano al punto della questione, e non lascio a Theodore neppure la possibilità di rispondere o di capirne il significato perché mi allontano velocemente, correndo, senza mai voltarmi e fermandomi solo dopo aver sbattuto la porta d’ingresso del mio appartamento alle mie spalle; appoggio la schiena al legno bianco, scivolo a terra, nascondo il viso tra le mani, e solo allora scoppio in un pianto disperato, singhiozzando e gemendo.

Non so se Ashley si era già preparata un altro lungo e duro discorso da farmi, ma spegne subito la TV e mi raggiunge, sedendosi a sua volta sulla moquette, e quando parla nella sua voce è sparita ogni traccia di ostilità nei miei confronti; c’è solo tanta preoccupazione.

“Gracey, tesoro, che cosa è successo?” mi domanda, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro; scosto il viso dalle mani e le rivolgo uno sguardo disperato, con le labbra che continuano a tremare quanto la mia voce.

“Avevi ragione tu. Hai avuto ragione fin dal primo momento, ma io ero troppo stupida e cieca per capirlo e così sono rimasta scottata e con il cuore a pezzi” dico, con un altro gemito “Janice, la fotografa, ha intuito subito quali erano i miei sentimenti nei confronti di Theodore e così, con una banale scusa, gli ha chiesto di scegliere l’abito che avrei indossato per il servizio fotografico, e quando è tornata da me mi ha dato un consiglio. Mi ha detto di indossare quell’abito e di andare da lui, per avere la sua approvazione, e dal suo sguardo avrei capito tutto. E così ho fatto”

“E…?”

“Nulla. Non è accaduto nulla e non ho visto nei suoi occhi ciò che speravo di vedere. Mi ha rivolto dei complimenti, non posso negarlo, ma ho capito subito che ai suoi occhi restavo la figlia della sua ex compagna, nulla di più. E mentre Janice mi scattava le foto, lui ha continuato a fissare lo schermo del cellulare ed a leggere una rivista. Quando siamo usciti gli ho confessato ogni cosa”

“E lui che cosa ha detto?”

“Non lo so” mormoro, passandomi le mani tra i capelli “sono scappata senza aspettare una sua risposta… Aveva prenotato un tavolo per noi due in un ristorante italiano, per festeggiare, non me la sono sentita di andare. Mi sarei solo illusa”

“Gracey, mi dispiace tantissimo. Credimi. Non avrei mai voluto vederti vivere tutto questo, perché non te lo meriti, ma cerca di vedere il lato positivo: adesso possiamo mettere finalmente la parola ‘fine’ su questa spiacevole storia, dimenticare ogni cosa e concentrarci solo sul motivo per cui ci siamo trasferite a Chicago. Sono sicura che non ti sei persa nulla. Anzi. Hai evitato altra sofferenza inutile”

“In questo momento faccio fatica a vedere la famosa luce infondo al tunnel”

“Capita a tutte quando si riceve una delusione in amore, ma sono sicura che riuscirai a superare tutto questo in pochissimo tempo: dopotutto stiamo parlando di un uomo che non hai visto per sette anni e che è tornato nella tua vita da pochissime settimane. Un uomo che ti ha raccontato molte bugie, e dal passato tutt’altro che chiaro. Vale davvero la pena star male per una persona così? Rispondo io per te: no, non ne vale davvero la pena. Riflettici”

“In questo momento non ho neppure voglia di riflettere, Ashley. Tutto ciò che voglio è dimenticare questa orribile giornata” mormoro, alzandomi dal pavimento.

Supero la mia migliore amica e Meg e mi chiudo nella mia camera da letto, girando più volte la chiave nella serratura, assicurandomi di non toglierla; mi spoglio lentamente, indosso la maglietta a maniche corte ed il paio di pantaloncini che utilizzo come pigiama, e m’infilo sotto le coperte dopo aver spento la luce.

Mi rannicchio in posizione fetale, stringendo a me il cuscino, e sento di nuovo gli occhi farsi umidi di lacrime, ma questa volta faccio attenzione a non lasciarmi scappare un solo singhiozzo dalle labbra, perché non voglio che Ashley mi senta.

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Capitolo 18
*** I Think I Love You; Parte Tre (Theodore) ***


Busso più volte alla porta d’ingresso dell’appartamento ed infilo le mani nelle tasche dei jeans, in attesa di una risposta; e quando, ormai, inizio a perdere ogni speranza appare una ragazza bionda, con i capelli raccolti in un vaporoso nodo e con addosso una tuta da ginnastica: ha un viso molto grazioso, labbra carnose e occhi azzurri, ma ciò che mi colpisce maggiormente è la sua espressione.

Mi fissa come fossi uno scarafaggio repellente, con uno sguardo carico di odio allo stato puro.

“Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato prima o poi” commenta, con un sorriso sarcastico, appoggiandosi allo stipite ed incrociando le braccia sotto il seno “che cazzo vuoi? Che cazzo sei venuto a fare qui?”

“Cavolo, non mi aspettavo di ricevere un’accoglienza così calorosa. Vorrei parlare con Gracey, se la cosa non ti dispiace… Ma a giudicare dalla tua reazione, credo che tu sia di parere contrario al mio”

“Hai indovinato. Ed ora, se non ti dispiace, ho altro di molto più importante di cui occuparmi che rimanere qui a parlare con te” conferma lei, con un altro sorriso acido, ma quando prova a chiudermi la porta in faccia la blocco prontamente, allungando il braccio destro; la bionda socchiude le labbra, incredula, prima di rivolgermi altre parole cariche di disprezzo “adesso inizierò a contare, e se al mio ‘tre’ non avrai lasciato la presa su questa porta, chiamo la polizia. Uno…”

“T’interrompo subito, tesoro. Anni fa mi sono trovato in una situazione simile e… Diciamo che l’ho gestita nel modo sbagliato e non ci tengo a ripeterla una seconda volta. Ascoltami: è chiaro che non abbiamo iniziato nel migliore dei modi, ma siamo ancora in tempo per rimediare. Prometto che non ti ruberò molto tempo, voglio solo scambiare qualche parola con la tua coinquilina e poi…” aggiungo, mostrandole la busta marrone che stringo nella mano sinistra “ho portato la colazione per entrambe. Non mi sembra un gesto carino non farmi entrare”.

La sua espressione non cambia minimamente, ma si sposta dall’ingresso permettendomi, così, di entrare nella piccola ma graziosa abitazione; appoggio la busta sopra al bancone in cucina e porgo alla bionda un muffin al cioccolato, come offerta di pace, e lei, anziché ringraziarmi e mangiarlo, lo getta direttamente dentro al cestino della spazzatura prima di affrontarmi, puntandomi l’indice destro contro il petto.

“Credi davvero di potermi comprare con un muffin al cioccolato? Forse con le altre potrà funzionare, ma non con me. Stammi bene a sentire: io non sono semplicemente la coinquilina di Gracey. Sono la sua migliore amica, e lei lo è per me. Le voglio molto bene e l’ultima cosa che desidero è vederla soffrire, d’accordo? Ed è proprio quello che sta succedendo ultimamente. Lo sai che è da quattro giorni che non esce quasi mai dalla sua stanza e che non tocca cibo? Ed a causa di questo è stata licenziata”
“Mi dispiace, anche io le voglio bene. E che tu ci creda o no, sono il primo a dire che non voglio vederla soffrire”

“Peccato che è proprio ciò che hai fatto, Theodore” continua la ragazza, appoggiando le mani ai fianchi “sì, Gracey mi ha detto come ti chiami e mi ha anche raccontato altre cose su di te. Mi ha detto che sei stato il compagno di sua madre e che hai trascorso sette anni in carcere. E vuoi sapere una cosa? Tu non mi piaci per niente, c’è qualcosa in te che non mi convince fino infondo. Ed hai una pessima influenza sulla mia migliore amica”

“Questo lasciamolo decidere a lei, non credi? Immagino che sia in camera sua, posso raggiungerla?”

“Non credi di avere già fatto abbastanza? Vuoi davvero aggravare la situazione? Se le vuoi bene e non vuoi vederla soffrire, come hai detto poco fa, allora faresti meglio a tornare a casa tua ed a non importunarla mai più. E ti voglio dare un altro consiglio” dice, continuando a puntellarmi il petto “faresti meglio a  non farla piangere ancora, o giuro che ti prendo a calci in culo e ti faccio sbattere in carcere a vita, sono stata abbastanza chiara?”

“Hai proprio una lingua biforcuta, lo sai? Mi ricordi molto un ragazzo che ho conosciuto tempo fa. Voi due sareste stati una coppia perfetta… Ed ora, se non ti dispiace, vado a parlare con la tua coinquilina e ti prometto che non le farò versare una sola lacrima, Shere Khan” ribatto, con un sorriso, prima di prendere in mano la busta e dirigermi verso la camera da letto di Gracey.

Busso due volte e la sua voce mi intima di andarmene immediatamente.

“Vattene, Ashley, non ho voglia di parlare”

“E con me hai voglia di parlare?” domando, entrando nella stanza.

Il suo volto perde colore, poi le sue guance assumono la stessa tonalità di rosso di una mela matura ed inizia a balbettare, del tutto colta alla sprovvista dalla mia visita inaspettata.

“Che cosa… Che cosa ci fai qui?”

“Ho provato a chiamarti per quattro giorni, non hai mai risposto e così ho pensato di farti una sorpresa e di portarti la colazione” mormoro, con un sorriso, sedendomi sul bordo del letto e mostrandole il contenuto della busta marrone “se la memoria non m’inganna, quando eri piccola adoravi essere svegliata con un biscotto ed un bicchiere di latte al cioccolato. Non ho avuto il tempo di preparare io i biscotti, ma spero che questo possa andare bene lo stesso”

“Grazie, ma non ho fame”

“Sì, mi è stato riferito che ultimamente hai poco appetito, ma sono sicuro che per me puoi fare un’eccezione. Tu non immagini neppure quanti minuti di fila ho dovuto subire per prendere questo biscotto. Ed era anche l’ultimo”.

Non riesco a strapparle un sorriso, ma la convinco a dare un piccolo morso al dolcetto.

“È buono” commenta Gracey, con voce atona, ma anziché continuare a mangiarlo lo appoggia sopra al comodino e si chiude in un silenzio imbarazzato; osservo la camera, mi schiarisco la gola e provo ad iniziare un discorso.

“Hai una camera davvero graziosa…”

“Ti prego, non farlo”

“Fare cosa?”

“Questo” dice, con uno sguardo supplichevole “compatirmi”

“Non ti sto compatendo, Gracey. Anzi. Sono preoccupato. Ed anche se tu non vuoi, dobbiamo parlare di quello che è successo”

“Non farlo” mi prega per la seconda volta, stringendosi le ginocchia al petto “la situazione che si è creata è già abbastanza imbarazzante senza che discutiamo di quello che è successo quattro giorni fa, e poi posso già immaginare il discorso che ti sei preparato: è solo una cotta passeggera… Passerà… Io non sono la persona adatta a te… Ti farei soffrire… Le solite parole di voi uomini”

“Ti assicuro che anche per me non è semplice, soprattutto perché non pensavo di ritrovarmi in questa situazione, ma…”

“Perché? Ho sempre avuto un debole per te, ma all’epoca ero troppo piccola per capire e rendermi conto di quali erano i miei veri sentimenti. Non ti ho mai dimenticato, ancora non l’avevo capito quando ci siamo incontrati, ma Ashley e Benjamin mi hanno aiutata a guardare in faccia la realtà” confessa, con il volto girato verso la finestra “ti risparmio l’inutile fatica di recitare il tuo discorso perbenista, e passo direttamente alla parte in cui rispondo alle tue parole: non si tratta di una cotta passeggera. Un giorno ti ho visto al parco in compagnia di una donna dai capelli rossi. Ben mi ha detto che è madre del suo migliore amico. Quando ti ho visto abbracciarla ho capito di essere gelosa, e che volevo essere al suo posto.. Ed il giorno in cui mi hai raccontato di tua madre, e mi hai abbracciata e dato quel bacio in fronte, ho sentito un turbamento che non sono riuscita ad ignorare. Mi faresti soffrire? Come puoi esserne così sicuro se tra noi due non c’è stato nulla?”

“Gracey, adesso sono io a pregarti di non fare discorsi come questo…” mormoro, passandomi la mano destra sugli occhi: non avevo neppure considerato il fatto di dover affrontare una conversazione così dura, complicata ed assurda allo stesso tempo; se devo essere sincero, mai avrei potuto immaginare che proprio Gracey potesse innamorarsi di me “ascolta… Anche se in questo momento può sembrarti assurdo, sono sicuro che si tratta davvero di una cotta passeggera, destinata a consumarsi in poco tempo. Tu non hai mai avuto una figura paterna a tuo fianco e quell’affetto che ti è mancato lo hai riversato su di me, e…”

“Qui non si tratta di mio padre. Io non ti ho sostituito a lui. Io ti vedo come un uomo con cui avere una relazione, ma tu non riesci a vedermi come una donna. Ecco qual è il vero problema. I tuoi occhi non riescono a vedermi in modo oggettivo”

“Perché tu non sei ancora una donna. Sei una ragazza. E, soprattutto, sei la figlia della mia ex compagna”

“Allora il problema è mia madre”

“Non si tratta neppure di questo” mormoro, sospirando ancora, alla vana ricerca della soluzione a questo rompicapo “tua madre non c’entra nulla in questa faccenda, e neppure tuo fratello. Ti ho vista crescere per un anno, e sempre per un anno mi sono preso cura di te: ti accompagnavo a scuola, ti pettinavo i capelli, ti aiutavo con i compiti e ti portavo sempre la colazione a letto. È vero, forse continuo a vederti come la bambina che si era persa alla Fiera, ma come puoi farmene una colpa? Sei stata la figlia che non ho mai avuto, per te farei qualunque cosa, ma non puoi chiedermi di guardarti in modo diverso. Cerca di capirmi, Gracey”

“D’accordo” sussurra a sua volta, ma le sue parole sono l’esatto opposto dell’espressione che traspare dal suo viso ed infatti, poco dopo, non riesce più a trattenere le lacrime, ed io non ci penso un solo secondo ad allungare la mano destra per asciugargliele con delicatezza.

“Ti prego, non piangere. La tua coinquilina mi ha detto molto chiaramente che mi odia, e che è pronta a prendermi a calci in culo se versi altre lacrime a causa mia. So che in questo momento una parte di te mi odia profondamente, ma vuoi davvero vedere Ashley picchiarmi? Riesci a fare un piccolo sorriso per me?”.

Fortunatamente la mia battuta riesce a bloccare la crisi di pianto, ma il sorriso fugace di Gracey si trasforma subito in una pallida e sottile linea, ed ancora i suoi occhi si rifiutano di incrociare i miei.

“Mi sento così stupida e ridicola. Ho rovinato tutto”

“No, invece, non hai rovinato nulla”

“Lo credi davvero? E come possiamo continuare a vederci dopo quello che ti ho confessato, e dopo la risposta che mi hai dato? Sappiamo entrambi che sarebbe una situazione troppo imbarazzante, Theodore, proprio come adesso. Ti ringrazio per essere venuto qui e per avermi portato la colazione, ma ora ti chiedo di andartene e di non tornare mai più qui. Per favore. Se davvero ci tieni a me, allora sparisci completamente dalla mia vita”.

Mi aspettavo una reazione simile da parte sua, eppure non riesco ad ignorare il dolore sordo che sento al petto perché, in modo del tutto inconscio, dichiarando fermamente di non volermi più nella sua vita, Gracey ha risvegliato in me il ricordo nella notte in cui sua madre mi ha rivolto parole simili, cacciandomi dalla sua abitazione; ed anche se forse è meglio così per entrambi, trovo comunque difficoltoso alzarmi dal bordo del letto ed uscire dalla camera chiudendo la porta alle mie spalle.

Non appena ritorno nel salotto, sono costretto ad affrontare nuovamente Shere Khan ed i suoi artigli affilati.

“Allora? L’hai fatta piangere abbastanza?”

“Non è necessario adottare le misure drastiche che hai illustrato poco fa: la tua migliore amica mi ha detto molto chiaramente che non vuole più avere nulla a che fare con me, ed io sono intenzionato a rispettare la sua volontà” rispondo, alzando entrambe le mani in segno di resa; ma l’espressione di Ashley non accenna ad ammorbidirsi, anzi, i suoi occhi chiari si socchiudono, sospettosi “ho detto qualcosa che non va? Ero sicuro che ti avrei vista fare i salti di gioia, dal momento che hai ottenuto proprio ciò che speravi”

“Non si tratta delle tue parole, ma del tuo viso” mormora lei, avvicinandosi.

“Il mio viso?”

“Sì… Sono sicura di averlo già visto da qualche parte”

“Ed io sono sicuro che ti stai confondendo con qualcun altro. Ed ora, e sono altrettanto sicuro che non ti dispiacerà affatto, tolgo il disturbo perché ho un figlio ed una casa di cui occuparmi” rispondo, con un sorriso.



 
A Benjamin basta un solo sguardo per capire che c’è qualcosa che non va, e le sue domande non si fanno attendere.

“Sei arrabbiato?” mi chiede, mentre lo sollevo dal peso non indifferente dello zaino “o sei semplicemente triste? Sei stato da Gracey? Avete parlato o… ‘Discusso animatamente’, come piace dire a voi adulti. Ohh, aspetta!Non mi hai ancora raccontato nulla di quello che è successo qualche giorno fa. Come è andata la cena romantica?”

“Non c’è stata nessuna cena romantica. Faresti meglio a scendere da quel muretto prima di farti male, Ben, non sono dell’umore adatto per trascorrere un intero pomeriggio in ospedale per una caviglia rotta” commento, camminando a suo fianco; mio figlio, però, ignora completamente il consiglio che gli ho appena dato: allarga le braccia, in modo da restare in equilibrio, e continua a percorrere il muretto come un provetto equilibrista, posizionando un piede davanti all’altro, il tutto proseguendo con il suo interrogatorio.

“Perché non c’è stata nessuna cena romantica? E perché sei tornato così tardi?”

“Sono tornato tardi perché mi sono fermato in un fast-food per prendere la cena, ricordi? Non sei contento della sorpresa che ti ho fatto?”

“Sì, ma non capisco se lo hai fatto per farmi una sorpresa o per tentare di corrompermi”

“Non so se mi sconvolge di più la tua malizia, o il fatto che a sette anni conosci già il significato della parola ‘corrompere’. In ogni caso no, quello non era un tentativo di corruzione, Ben, quando sono passato davanti al fast-food ho semplicemente pensato di farti una piccola sorpresa. Sai, a volte i padri lo fanno. Adesso, per favore, scendi da quel muretto” lo prendo in braccio, senza attendere una sua risposta, ma lui si rifiuta di posare i piedi sul marciapiede, e mi sorprende passandomi le braccia attorno al collo ed appoggiando la testa sulla mia spalla destra “ora sei tu che stai cercando di corrompermi?”

“No, ma vorrei sapere perché non hai invitato Gracey fuori a cena”

“In realtà, l’ho invitata fuori a cena. Avevo anche prenotato un tavolo per due persone, ma lei ha rifiutato e quando le ho chiesto spiegazioni ha semplicemente scosso la testa ed è scappata via. Prima sono andato da lei, per parlarle e chiarire la faccenda, ma non ha voluto rispondere alle mie domande” mento, preferendo non fare cenno della parte in cui Gracey mi ha confidato la vera natura dei sentimenti che prova nei miei confronti.

E, soprattutto, perché sarei costretto a dare ragione ad un ragazzino di sette anni.

“Davvero si è comportata in questo modo senza dare spiegazioni?” mi chiede ancora Benjamin, una volta rientrati a casa, mentre poso sia lui che lo zaino sul divano.
“Sì, davvero, e mi ha anche detto che devo uscire dalla sua vita”

“Che strano! E non sei intenzionato ad indagare?”

“No. Gracey è stata chiara, ed io voglio rispettare il suo volere. Fine della questione. E tu, d’ora in poi, faresti meglio a concentrarsi sulla scuola e sullo studio, anziché sulle questioni di cuore che mi riguardano, d’accordo? Scommetto che se mettessi questo stesso impegno quando ti prepari per le verifiche, saresti un alunno eccellente”

“Ma, Theodore, io sono il secondo più bravo della mia classe”

“Appunto, Benjamin, ti accontenti del secondo posto quando, con le tue capacità e la tua intelligenza, potresti superare Mike ed essere il primo” ribatto, cercando di fargli capire quanto sia importante che svolga un percorso scolastico senza incidenti di percorso, senza però aggiungere che ricaverei una piccola soddisfazione personale nel vedere mio figlio superare quello di Scofield “non fare i miei stessi errori, un giorno potresti pentirtene molto amaramente”

“Non eri uno studente modello?”

“Diciamo che non mi applicavo. Vai in cucina a fare i compiti, io vado a riposarmi un po’, d’accordo?”

“D’accordo” sospira Ben, rovistando all’interno dello zaino “però mi dispiace per quello che è successo tra te e Gracey. Era simpatica, anche se non sapeva cucinare i biscotti al cioccolato!”.

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Capitolo 19
*** I Think I Love You; Parte Quattro (Gracey) ***


“Non posso continuare a vederti in queste condizioni, Gracey. Quell’uomo non merita la tua sofferenza. Devi reagire, dimenticarlo, cancellarlo completamente dalla tua testa! Sai che cosa facciamo? Questa sera, appena ho finito il turno, ci prepariamo e andiamo in discoteca. Sono sicura che una serata di totale divertimento ti aiuterà a lasciarti alle spalle questa brutta storia. E poi, chissà, se siamo abbastanza fortunate potremo fare qualche piacevole incontro”

“Non ho voglia di uscire, ne tantomeno d’incontrare un ragazzo” mormoro, osservando con aria assente la tazza davanti ai miei occhi; sospiro e l’allontano da me, perché sento un nodo all’altezza dello stomaco che m’impedisce di mangiare e bere da quasi una settimana “in realtà, non sono intenzionata a mettere un solo piede fuori dall’appartamento”

“E cosa vuoi fare? Rimanere segregata qui dentro per il resto dei tuoi giorni? Vuoi trasformarti in una zitella eremita? Vuoi gettare nel cesso gli anni più belli della tua vita? Vuoi rifiutarti di mangiare fino a quando non sarai costretta a subire un ricovero ospedaliero? Sono molto preoccupata per te, Gracey, perché stai facendo proprio ciò che una persona non dovrebbe mai fare in un caso simile: non serve a nulla chiuderti in te stessa e scappare dal mondo, devi subito buttarti a capofitto in un progetto, in modo da tenere la mente sempre e costantemente occupata, almeno durante il giorno” Ashley si batte il palmo destro sulla fronte, colta da un’illuminazione improvvisa “il book fotografico, ma certo! Adesso che hai finalmente il book fotografico puoi chiamare l’organizzatrice che ti ha lasciato il biglietto da visita ed organizzare il provino”

“Tu per prima eri titubante riguardo a questa presunta seconda opportunità, hai cambiato idea? Chi mi assicura che quella donna non mi abbia dato il biglietto per liberarsi di me?”

“Finché non farai un tentativo non potrai mai saperlo. Gracey, andiamo, stai così male per quell’uomo che vuoi rinunciare ad inseguire il tuo sogno? Questa potrebbe essere davvero l’occasione della tua vita e potrebbe non presentarsi una seconda volta” tenta di persuadermi la mia migliore amica; si dilegua dalla cucina per qualche minuto e quando torna, sedendosi di fronte a me, mi mostra il biglietto da visita, leggermente stropicciato “allora? Sei davvero sicura di non voler fare neppure un tentativo? Non eri tu quella a non essere intenzionata a tornare nel Kansas a mani vuote?”.

Le parole di Ashley hanno un potere benefico sui miei nervi e riescono a farmi uscire dal torpore in cui sono caduta.

Il rifiuto di Theodore mi ha scossa così profondamente che mi ha fatto quasi dimenticare il motivo che c’era dietro al book fotografico ed il piccolo foglietto di carta; strappo dalle mani della mia coinquilina il biglietto da visita e mi chiudo in camera per telefonare: digito più volte il numero di cellulare, arrivando perfino ad impararlo a memoria, ed attendo con il cuore in gola di ricevere una risposta, che arriva solo sottoforma di segreteria telefonica al termine dei numerosi squilli a vuoto.

Non so quanti tentativi faccio, e quando capisco che è inutile continuare decido di passare direttamente al piano B, anziché gettare la spugna ed arrendermi.

“Può essere che sia impegnata” dico ad Ashley, e contemporaneamente mi preparo ad uscire “forse non risponde al telefono per questo motivo, o forse mi ha dato il numero del suo Studio e la segretaria si sta occupando di svolgere un compito che non le permette di rispondere alle chiamate… Dopotutto non conosce il mio numero di telefono, non può sapere che sono io, ma se mi presento di persona sono sicura che mi accoglierà subito. Guarda, qui sotto c’è anche scritto l’indirizzo. Non potrà rifiutarsi di ricevermi”

“Se sarai così risoluta non potrà proprio farlo”.

Nonostante la delusione ancora cocente, riesco a sorridere alla battuta, e quando esco di casa, con il book fotografico stretto contro il petto, ho quasi la certezza assoluta di essere ad un solo passo dal realizzare concretamente il mio sogno: dopo le lunghe discussioni con mia madre e Zack, dopo i turni massacranti al ristorante e dopo il rapporto naufragato con Theodore, è arrivata finalmente l’ora della mia rivincita.

È arrivato finalmente, per me, il momento di dire ‘sì, è stata dura, ma ne è valsa la pena’.

Continuo a ripetermi mentalmente queste parole per tutto il tragitto, per infondermi coraggio e sicurezza, ma ogni buono proposito si sgretola, velocemente, come argilla nel momento stesso in cui varco la porta a vetri dello Studio che corrisponde all’indirizzo stampato su carta: prima sono costretta a fronteggiare una segretaria, in completo scuro e con i capelli raccolti, che non ha la minima intenzione di farmi incontrare la donna per cui lavora e poi, dopo un’accesa discussione, quando finalmente riesco a trovarmi faccia a faccia con l’organizzatrice che mi riceve nel suo ufficio personale con riluttanza, devo sorbirmi lo spettacolo di vederla sfogliare appena il book fotografico, con aria di sufficienza, prima di essere liquidata con poche parole.

“Tutto qui?” domando, stupefatta, rifiutandomi di uscire dall’ufficio senza aver ricevuto ulteriori spiegazioni “sono queste le sue ultime parole? ‘Le faremo sapere’?”

“Che cosa si aspettava, signorina…”

“Hollander. Gracey Hollander. Le ho detto il mio nome il giorno in cui ci siamo incontrate, lo stesso in cui mi ha dato il suo biglietto da visita e mi ha detto di contattarla non appena avessi avuto tra le mani un book fotografico! Ed è stato proprio quello che ho fatto!”

“Mi lasci spiegarle alcune cose molto importanti, signorina Hollander” inizia la donna, togliendosi gli occhiali da vista, alternando lo sguardo da me alle pagine che continua a sfogliare in modo svogliato “la maggior parte delle ragazzine sognano di diventare, un giorno, delle famose modelle e di cavalcare le migliori passerelle nelle capitali europee, ma solo una piccola cerchia ristretta riesce a raggiungere quell’obiettivo. Non basta desiderarlo e sognarlo per anni, non basta partecipare ad una quantità infinita di provini su provini. Bisogna avere i requisiti giusti, la cosiddetta ‘marcia in più’ che ti fa spiccare tra centinaia e centinaia di ragazze, ed io ho l’arduo compito di scoprire queste gemme preziose e di non farmele sfuggire. Lei non rientra in questa categoria, non è neppure da considerare un diamante grezzo da lavorare”

“Per quale motivo?” insisto, incassando il colpo, ma senza riuscire a non arrossire dalla rabbia “ha solo visto delle foto, non mi ha neppure chiesto di sfilare”

“Perché non ce n’è bisogno, signorina Hollander, le foto che mi ha portato parlano già in modo chiaro e diretto” risponde lei, con semplicità, girando il book verso di me “non c’è portamento. Non c’è espressione. Senza considerare il fatto che dovrebbe perdere diverso peso e che i tratti del suo viso non corrispondono ai canoni estetici che stiamo cercando. Senta, faccio questo lavoro da quasi trent’anni ed ogni giorno incontro tante ragazzine, come lei, che provengono da piccole ed insignificanti città del sud in cerca di fortuna; dia retta al consiglio che sto per darle: lasci perdere, perché non otterrà altro che una lunga serie di porte sbattute in faccia e di ‘le faremo sapere’. Se davvero in lei ci fossero stati i requisiti giusti, sarebbe stata ingaggiata già da tempo. E con questo le auguro una buona giornata”.

Preferisco non rispondere, anche perché l’umiliazione appena subita brucia così forte che mi ha tolto l’uso della parola; mi limito a prendere in mano il book fotografico e ad uscire dallo Studio senza rivolgere un cenno di saluto né all’organizzatrice né alla sua odiosa segretaria.

Continuo a camminare, a passo veloce, stringendo la cartellina rigida contro il mio petto, con la mente completamente svuotata, ma non ritorno a casa, bensì mi rifugio al parco pubblico e mi lascio cadere su una panchina in ferro; la prima ondata di rabbia arriva all’improvviso, cogliendomi del tutto impreparata, e vengo invasa dal desiderio di lanciare il book fotografico contro il tronco di un albero e di strappare più e più volte ogni singola, e maledetta, foto ma poi il mio lato razionale prende il sopravvento e m’impedisce di commettere una cavolata.

Che senso avrebbe prendersela con un oggetto? Non è colpa sua se ho ricevuto l’ennesimo rifiuto, non è neppure colpa della diffidenza di Ashley e non è neppure colpa di mia madre e di mio fratello che non mi hanno mai supportata: la colpa è solo ed esclusivamente mia, perché mi sono rifiutata di guardare in faccia la realtà tempo prima e mi sono ostinata a seguire il sogno, impossibile, di una ragazzina.

Ed ora ne pago le amare conseguenze.

Perdo velocemente la cognizione del tempo: quando vedo le luci dei lampioni accendersi mi rendo conto che ormai è sera, e che sono trascorse ore dal momento in cui mi sono lasciata cadere sulla panchina di ferro; come se il mio umore non fosse già abbastanza guasto, nello stesso momento in cui decido di alzarmi il rombo di un tuono annuncia l’arrivo di un forte acquazzone, e quando raggiungo il marciapiede i miei vestiti sono già completamente zuppi d’acqua.

Eppure non faccio ritorno all’appartamento: i miei piedi mi spingono a percorrere una strada diversa, che mi porta a suonare il campanello di un’elegante villetta a due piani; ed anche se sento un tuffo al cuore quando la porta d’ingresso si apre, so che in questo momento non vorrei essere da nessun’altra parte perché sento il bisogno di parlare solo con lui.

Anche se mi ha rifiutata.

“Gracey?” la voce incredula di Theodore mi provoca un altro tuffo al cuore “che cosa ti è successo?”

“Posso entrare?” chiedo, accennando un sorriso, lui si sposta prontamente per farmi riparare dalla pioggia ed io mi stringo nella giacca, tremando a causa del freddo.

“Che cosa ti è successo?” mi domanda una seconda volta, mentre vedo Benjamin affacciarsi dalla cucina, e sono proprio le sue parole a evitarmi di dare spiegazioni in sua presenza.

“Theodore, forse Gracey ha bisogno di indossare dei vestiti caldi e puliti. I suoi sono completamente bagnati”

“Tuo figlio ha ragione… In effetti avrei bisogno d’indossare qualcosa di caldo e asciutto” mormoro, continuando a tremare, e quando abbasso lo sguardo noto che nella morbida moquette si è già formata una piccola pozzanghera d’acqua “scusami, sto rovinando completamente il pavimento del salotto. Forse è meglio se torno a casa… Ho sbagliato a venire qui, scusami…”.

Cerco di defilarmi, balbettando parole a bassa voce, ma Theodore non mi permette di raggiungere la porta d’ingresso perché, a suo parere, non sarebbe affatto saggio camminare per strada nel bel mezzo di un acquazzone, e Benjamin ricompare dal primo piano con una felpa ed un paio di pantaloni da ginnastica, invitandomi a cambiarmi in un’altra stanza per essere più a mio agio; mi strizza l’occhio destro, senza essere visto dal padre, e ne capisco il perché dopo essermi chiusa in bagno: i vestiti appartengono all’ex compagno di mia madre e, ovviamente, sono intrisi del profumo della sua pelle.

Mi libero velocemente degli indumenti ancora zuppi d’acqua, indosso la felpa, i pantaloni e raccolgo i capelli in un nodo in cima alla testa, in un vano tentativo di darmi un aspetto presentabile, ma non appena poso lo sguardo sullo specchio, mi rendo subito conto che ogni mio tentativo è inutile; quando torno in salotto trovo solo Theodore impegnato ad accendere il camino.

Di Benjamin non c’è alcuna traccia.

“L’ho mandato a letto” si affretta a spiegarmi lui, spegnendo con un soffio la fiammella di un fiammifero “domani ha scuola e tu stessa hai visto che non è semplice svegliarlo, vestirlo e convincerlo a fare colazione. Ti ho preparato una coperta sopra al divano, immagino sarai ancora infreddolita. E se non è abbastanza, posso andare in cucina e prenderti qualcosa di caldo… Magari del latte al cioccolato”

“Preferirei qualcosa di forte. Molto forte” commento, lasciandomi cadere sui morbidi cuscini del sofà, prendo in mano la coperta rossa e me l’avvolgo attorno alle spalle, sentendomi subito meglio; Theodore mi guarda e sorride, a causa di ciò che ho appena detto.

“Qualcosa di molto forte? Stai parlando di alcolici? Non dirmi che bevi quelle schifezze”

“Ti prego, stai provando di nuovo a farmi la predica? Proprio tu che bevi whisky e consumi un intero pacchetto di sigarette al giorno?”

“Non lo faccio sempre, solo quando ho bisogno di schiarirmi le idee” prova a giustificarsi, allontanandosi dal camino; va in cucina e poi torna non con due tazze di cioccolata calda e fumante, ma bensì con due calici pieni di vino rosso e corposo “so che non dovrei assecondare il tuo desiderio, ma hai un’aria così sconvolta che dubito seriamente che una cioccolata calda possa aiutarti a riprenderti. Possiamo fare un piccolo accordo: io ti permetto di bere uno di questi due calici di vino, ma in cambio devi raccontarmi che cosa è successo”

“Potrei considerare questo piccolo accordo come un velato ricatto”

“Se fosse un ricatto, io sarei l’unico a trarre dei vantaggi, in questo caso invece siamo entrambi ad avere dei vantaggi personali: tu bevi un calice di vino ed io conosco il motivo che ti ha spinta ad uscire con questo temporale ed a venire qui. Vedi? Questo non è un ricatto, ma un accordo”

“Ne parli come se fossi un esperto”

“Ti posso assicurare che sono tutt’altro che un esperto in fatto di accordi e ricatti. Per me si tratta di una vera e propria materia oscura” risponde l’ex compagno di mia madre, prendendo posto a mio fianco sul divano; mi porge un bicchiere ed appoggia il viso sul palmo della mano destra “allora, Gracey? Siamo soli, Ben sta dormendo nella sua cameretta, vuoi raccontarmi che cosa è successo?”

“Nulla. A parte il fatto che sono una stupida” mormoro, mandando giù un lungo sorso della bevanda alcolica e dolce; traggo un beneficio momentaneo dal vino che scivola lungo la mia gola, ma come ogni cosa effimera il suo effetto dura qualche breve istante, appena il tempo di un battito di ciglia, ed un peso opprimente ritorna a riversarsi sulle mie spalle, insieme ad un nodo allo stomaco “è tutto così imbarazzante che non so neppure da dove iniziare”

“Prova dall’inizio, in genere funziona”

“Ricordi l’organizzatrice che dovevo contattare? Ho provato a chiamarla più volte, ma non ha mai risposto a nessuna delle mie telefonate. Nel biglietto da visita che mi aveva lasciato c’era scritto l’indirizzo del suo Studio e così mi sono recata là, e dopo aver discusso con la sua segretaria sono riuscita ad ottenere l’appuntamento che lei stessa mi aveva promesso… Ma non è andata molto bene”

“Il provino è stato un disastro?”

“Provino? Non c’è stato nessun provino. Non mi ha neppure chiesto di simulare una sfilata in passerella. Ha sfogliato qualche pagina del book fotografico e mi ha liquidata con il classico ‘le faremo sapere’. Ma la parte peggiore è arrivata quando le ho chiesto delle spiegazioni” mormoro, svuotando quello che rimane del vino prima di affrontare la parte peggiore dell’intero pomeriggio “mi ha umiliata. Letteralmente umiliata. Ha detto che sono orribile, grassa e che in me non c’è quella ‘marcia in più’ che cercano. Ha anche detto che ogni giorno vede tantissime ragazze di campagna come me e che, proprio per questo, farei meglio a rinunciare al mio sogno prima di ricevere altre porte in faccia”

“Ha detto davvero questo?”

“Parola per parola” confermo, annuendo “e se adesso vuoi prendertela con me e dirmi ‘te l’avevo detto’ non posso che darti ragione, perché è così. Tu, Ashley, mia madre, mio fratello avete provato ad avvisarmi su quello che mi aspettava, ma io non ho voluto ascoltarvi”

“Che stronza!” esclama lui, appoggiando il suo calice sopra ad un tavolino e facendo lo stesso con il mio “non devi credere neppure per un secondo alle parole che ha detto quella donna, Gracey, né tantomeno rimuginarci sopra. Sai perché? Perché è solo una grandissima stronza. Tu non né grassa né orribile. Sei una ragazza bellissima, capace di far girare la testa a qualunque ragazzo, e secondo me hai anche una ‘marcia in più’ che tante altre non hanno”

“Non è vero. Io non sono speciale, altrimenti sarei stata scelta. Scommetto che se ci fosse stata Ashley al mio posto, sarebbe stata subito ingaggiata perché è perfetta. È bionda, ha gli occhi azzurri e un corpo da urlo. È lei quella in grado di far perdere la testa a chiunque” ribadisco, con amarezza, avvolgendo le braccia attorno alle ginocchia, che stringo contro il petto, e concentro il mio sguardo corrucciato sulla moquette pelosa; sento gli occhi pizzicarmi a causa delle lacrime e compio un enorme sforzo per ricacciarle indietro, perché non voglio piangere ancora in presenza di Theodore.

Lui non sembra accorgersi della lotta interna che sta avvenendo in me e prova ancora a consolarmi.

“Ahh, credi davvero che per noi uomini esistono solo le bionde? La tua coinquilina sarà pure perfetta fisicamente, ma non è speciale come te”

“Perché? Che cos’ho di così speciale?” domando, voltandomi di scatto verso di lui, corrucciando le sopracciglia; il rumore di un tuono squarcia la quiete della notte, provocando un blackout improvviso in tutto il quartiere, e Theodore, anziché darmi una risposta, si alza di scatto e si allontana dal divano: lo sento salire le scale, molto probabilmente per controllare che il tuono non abbia spaventato Ben.

Contemporaneamente, mentre attendo il suo ritorno al buio, il mio telefono inizia a vibrare, e quando vedo il nome della mia migliore amica sullo schermo lo spengo, senza pensare neppure per un secondo di rispondere: non voglio far preoccupare Ashley, ma in questo momento non ho voglia né di sentire la sua voce né tantomeno di dirle dove mi trovo.

“Benjamin sta dormendo, credo che non abbia neppure sentito il tuono” commenta l’ex compagno di mia madre, con una bassa risata, occupando nuovamente il posto affianco al mio “fortuna che ho acceso il camino, così non siamo completamente al buio”

“Non hai ancora risposto alla mia domanda”

“Quale domanda?”

“Che cos’ho di speciale?” chiedo ancora, e resto spiazzata vedendolo ridere “perché stai ridendo? Ho detto qualcosa di divertente?”

“Rido perché anni fa ho affrontato una conversazione simile proprio con tua madre. Tu e Zack eravate da vostra zia. E sempre durante quella settimana ci siamo ritrovati a cenare sul divano a lume di candela, nel bel mezzo di un temporale: dovevamo mangiare sotto al portico, ma siamo stati costretti a cambiare completamente il nostro programma. Ricordo ancora bene quella serata, abbiamo parlato molto…”

“Di che cosa avete parlato?”

“Un po’ di me, un po’ di lei… Un po’ del nostro passato…”.

All’improvviso sia l’orribile giornata da dimenticare sia la mia domanda ancora senza risposta passano in secondo piano, oscurate dall’irritazione provocata dalle sue vaghe parole: è sempre così, penso serrando le labbra, ogni volta che viene anche solo sfiorato l’argomento ‘passato’ lui si chiude sempre a riccio ed inizia a svincolare il discorso in ogni modo possibile.

“Che cosa le hai raccontato del tuo passato?”

“Nulla d’importante, si trattava di una spiacevole esperienza che ho avuto da ragazzo e che coincideva con il mio primo appuntamento” si limita a dire lui, senza aggiungere altri particolari, agitando una mano “rischierei solo di annoiarti”

“Dubito seriamente che questo potrebbe mai accadere, Theodore, e dopo la giornata da dimenticare che ho appena avuto, ho proprio bisogno di distrarmi in qualche modo. Mi piacerebbe che raccontassi anche a me la brutta esperienza che hai avuto, sai… A volte, anche se non sembra, parlare è la migliore soluzione a molti problemi”

“Quando avevo la tua età ero innamorato della ragazza più bella della scuola. È stata lei ad invitarmi ad uscire, dopo un intero pomeriggio trascorso in biblioteca a studiare, ed io non ci potevo credere. Mi sembrava un sogno, perché le ragazze come Ava non escono mai con i ragazzi… Sfigati come lo ero io. Ed alla fine ho scoperto che si trattava di un orribile scherzo architettato da un mio compagno di classe: aveva chiesto ad Ava di essere sua complice perché sapeva di piacerle, e soprattutto sapeva benissimo che io avevo una cotta per lei. Voleva farmela pagare perché il primo giorno di scuola gli avevo dato un calcio all’inguine, ed ha pensato di farlo nel peggiore dei modi”

“Mi dispiace, deve essere stato tremendo”

“Sì, ma la parte peggiore non è stata lo scherzo in sé, ma il coinvolgimento di Ava. Io e lei non avevamo mai parlato prima che Jason organizzasse la sua vendetta. Non ci eravamo mai scambiati una sola parola ed io non le avevo mai fatto nulla… Non aveva alcun motivo per essere così crudele nei miei confronti ed accettare di essere complice dello scherzo. È questo che ancora non sono riuscito a spiegarmi”

“Non riesco a capirlo neppure io” mormoro, sconvolta e incredula “purtroppo molte volte i ragazzi sanno essere davvero crudeli, soprattutto nel caso dei classici bulli da scuola: si credono dei duri, ma in realtà sono solo dei vigliacchi che se la prendono sempre con i soggetti più deboli ed indifesi. Scommetto che è stata dura riprendersi da quello che era successo, vero?”

“Molto” mi conferma Theodore, con un mezzo sorriso “ero un ragazzino di diciassette anni con molti complessi, Gracey, ed il mio primo appuntamento è stata una vera e propria mazzata sui denti. Non volevo più andare a scuola, non volevo più uscire di casa e ho impiegato molto tempo per riprendermi da quell’esperienza. Però, Gracey, alla fine ci sono riuscito anche se all’epoca mi sembrava una cosa impossibile, e sono sicuro che lo stesso varrà anche per te: arriverà il giorno in cui ti lascerai questa brutta esperienza alle spalle”.

Mi lascio scappare un sospiro, tutt’altro che contenta di ritrovarmi al centro dell’attenzione, soprattutto ora che Theodore aveva iniziato ad aprirsi con me.

“Senza offesa per quello che hai passato, ma qui non si tratta di uno scherzo di pessimo gusto, ma del mio futuro. Quella donna ha distrutto con poche e semplici parole quello che era il sogno della mia vita, ed io non posso neppure darle della bugiarda perché aveva perfettamente ragione! È da un anno che sono a Chicago e cosa sono riuscita ad ottenere? Niente! Neppure l’ombra di un piccolo ingaggio. Forse davvero in me non c’è nulla di speciale, altrimenti sarei già stata scelta”.

Rivolgo il viso in direzione del camino, contemplando le fiamme che scoppiettano allegramente, finché non sento una mano sotto al mio mento che m’invita a voltarmi; fisso negli occhi l’ex compagno di mia madre e m’incanto a guardare le sue iridi scure, magnetiche, in cui le pupille quasi si confondono.

“Non devi dire mai più queste parole, Gracey, d’accordo? Te l’ho detto anche poco fa: quella donna è solo una grandissima stronza e non capisce nulla in fatto di ragazze. Prima mi hai chiesto che cosa c’è di speciale in te, e ti ho risposto che tempo fa ho avuto una conversazione simile con tua madre, quando eravamo all’inizio della nostra relazione. Non riusciva a capire che cosa trovassi di così affascinante ed unico in lei, in una madre single che doveva crescere due figli e che aveva pochissimo tempo da dedicare a sé stessa, e sai che cosa le ho detto? Le ho detto che era impossibile dare una risposta alla sua domanda, perché non si trattava di un singolo particolare, ma di una lunga serie di piccoli particolari. E lo stesso vale anche per te, Gracey” mi spiega a bassa voce, senza mai staccare gli occhi dai miei “sei una persona speciale, non permettere mai a nessuno di affermare il contrario. Ed il ragazzo che riuscirà a fare breccia nel tuo cuore sarà un essere molto fortunato”.

So che il suo discorso è mirato a consolarmi e non nasconde un secondo fine, lui stesso è stato molto chiaro quando abbiamo parlato nella mia camera da letto: considera ciò che provo solo una cotta passeggera, destinata a consumarsi con la stessa rapidità della fiamma di un falò.

Eppure, dentro di me, complice anche l’atmosfera creata dal blackout, sento di essere davanti ad un’occasione unica ed irripetibile; sento che se non faccio qualcosa ora, in questo preciso momento, non ci sarà più una seconda occasione.

Sento che non ci sarà più un’altra notte trascorsa sui cuscini del divano, davanti ad un camino acceso ed a due calici di vino rosso; e così, guidata da un impulso che non riesco più a reprimere, gli butto le braccia attorno alle spalle e lo bacio, senza lasciargli il tempo di reagire.

Appoggio le mie labbra sulle sue, senza approfondire il bacio con la lingua, e lo attiro a me; lo sento irrigidire tutti i muscoli del corpo eppure, nonostante ciò, sono io la prima ad allontanarmi.

E, senza dire una sola parola, utilizzo la stessa tecnica del giorno in cui gli ho confessato ciò che provo per lui.

Scappo, per non affrontare le conseguenze delle mie azioni.

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Capitolo 20
*** Secrets; Parte Uno (Gracey) ***


Le urla di Ashley sono così forti che percepisco già i primi sintomi di un terribile mal di testa, ed a nulla servono i palmi delle mie mani premuti con forza contro le orecchie.

“Fammi capire, perché credo che mi sia sfuggito qualche piccolo passaggio” grida ancora, ormai completamente fuori di sé dalla rabbia “non solo sei scomparsa tutto il giorno, non solo hai ignorato la mia chiamata ed hai spento il cellulare, ma sei andata a casa di quell’uomo, hai trascorso la serata in sua compagnia e lo hai baciato? Lo hai davvero baciato?”

“Ed io ti ripeto, per l’ennesima volta, che sono andata da lui perché era ciò che mi sentivo di fare in quel momento. Avevo bisogno di parlare con qualcuno”

“Ed hai pensato di andare da lui, anziché venire da me, che sono la tua migliore amica?”

“Non ragionavo con lucidità, cerca di capirmi”

“Ohh, questa è la prima frase sensata che ti sento dire da diverso tempo” commenta, allora, ridendo nervosamente; e la situazione generale peggiora ulteriormente quando si accorge che i vestiti che indosso, e che non ho ancora avuto occasione di cambiare, non mi appartengono “quella felpa e quei pantaloni sono suoi? Perché indossi i suoi vestiti? I tuoi dove sono? Perché ti sei spogliata?”

“Non è come pensi, non farti strane idee: pioveva, i miei erano completamente zuppi d’acqua e Theodore mi ha dato dei vestiti puliti e asciutti”

“Visto che hai la risposta sempre pronta, vuoi spiegarmi perché cazzo sei andata a casa sua?”

“Non so più in che modo dirtelo, cavolo!” esclamo, ormai esasperata dall’insistenza della mia coinquilina, soprattutto perché io per prima ancora non so dare una risposta a questa domanda; alzo gli occhi al soffitto e poi appoggio la fronte sul legno del bancone a penisola, rivivendo il bacio nella mia mente “quando sono uscita dallo Studio ho trascorso l’intero pomeriggio al parco, e quando ha iniziato a piovere mi sono alzata dalla panchina per tornare a casa, ma i miei piedi mi hanno fatto percorrere una strada completamente diversa. Io volevo tornare qui, te lo giuro, ma senza rendermene conto mi sono ritrovata davanti alla porta di casa sua. Abbiamo parlato per un po’, poi c’è stato il blackout e Theodore ha fatto quel discorso riguardo all’essere speciali… Non è stata una cosa programmata, non sono andata da lui con l’intenzione di baciarlo, te lo giuro, ho perso la testa e ho agito d’impulso… E questa volta ho combinato un vero e proprio casino”

“Riguardo a due cose hai ragione: hai perso la testa ed hai combinato un vero e proprio casino. Mi auguro che d’ora in poi inizierai ad ascoltare i miei consigli”.

Il cellulare m’impedisce di dare una risposta affermativa alla mia migliore amica; spalanco gli occhi perché si tratta proprio dell’ex compagno di mia madre: mi aspettavo una sua chiamata, ma non così presto, non adesso che devo ancora focalizzare appieno tutto quello che è successo.

Rivolgo una muta richiesta d’aiuto ad Ashley, perché sono completamente nel panico.

“Che cosa faccio? Rispondo?”

“Ignora la chiamata e butta il cellulare fuori da una finestra, così non potrà più rintracciarti”

“Stupida” borbotto, infastidita dal suo commento acido; prendo un profondo sospiro, avvicino l’apparecchio tecnologico al mio orecchio sinistro e schiaccio il tasto verde, rispondendo alla chiamata “pronto?”.

Ogni mia paura scivola rapidamente via perché Theodore non accenna minimamente al bacio che gli ho rubato, anzi, la sua voce agitata mi rivolge una richiesta che mi lascia spiazzata.

“Gracey, potresti venire subito qui? Si tratta di un emergenza” mi chiede, e dai rumori che sento in sottofondo capisco che sta cercando qualcosa, probabilmente dei vestiti, dentro all’armadio o dentro alcuni cassetti.

“D’accordo” rispondo, confusa, ignorando le occhiatacce di Ashley “ma che cosa è successo? Benjamin sta male?”

“Adesso non posso parlare, quando verrai qui ti spiegherò tutto. Per favore, Gracey, si tratta davvero di un’emergenza”

“D’accordo, d’accordo, ho capito. Arrivo subito” mi affretto a dire, per tranquillizzarlo, prima di chiudere la chiamata per non fargli perdere altro tempo prezioso; osservo per qualche istante il cellulare e, dopo averlo riposto in una tasca dei pantaloni, riassumo velocemente il contenuto della telefonata alla mia coinquilina “devo andare subito da lui, ha detto che si tratta di un’emergenza”

“Ohh, no! Non se ne parla nemmeno! Tu non vai da nessuna parte, tantomeno a casa di quell’uomo” s’impunta lei, appoggiando le mani sui fianchi: la stessa, identica, posizione che assume mia madre ogni volta che deve sgridare me o mio fratello “non gli devi niente, soprattutto adesso che si sta comportando in modo orribile nei tuoi confronti! Ma non capisci che ti sta usando perché sa che hai un debole per lui? Sta approfittando della tua gentilezza, ma tu sei troppo ingenua per accorgertene”

“Ti posso assicurare che non era una recita quella di poco fa, era davvero agitato, e non avrebbe mai fatto quella telefonata se non ci fosse una vera emergenza”

“Io continuo a non cambiare idea, ed a pensare che questa faccenda finirà molto, molto, molto male”.

La minaccia della mia migliore amica e coinquilina è l’ultima cosa che sento prima di chiudere la porta d’ingresso del nostro appartamento, e non le presto particolare attenzione: ormai ho perso il conto di tutte le volte che me l’ha ripetuta, e per me sono diventate parole vuote, quasi prime di senso; e poi, in questo momento, le mie priorità sono tutte racchiuse nella telefonata ansiosa di Theodore.

Raggiungo la sua villetta correndo, ignorando la fitta dolorosa al fianco destro, e spalanco la porta d’ingresso senza preoccuparmi di bussare o di suonare il campanello; salgo le scale che portano al piano superiore dell’abitazione e trovo l’ex compagno di mia madre in camera sua, impegnato a mettere dei vestiti dentro uno zaino.

Sposto lo sguardo dagli indumenti a lui e capisco subito che cosa sta accadendo.

“Stai partendo?”

“È successo un casino” mormora Theodore, superandomi velocemente.

Lo vedo entrare in bagno, prendere la pistola che custodisce dentro il cassetto di un mobile e nasconderla sotto la giacca in pelle che indossa, dentro un’apposita tasca, prima di tornare in camera e sistemare gli ultimi oggetti dentro lo zaino, il tutto davanti ai miei occhi sgranati.

“Perché hai appena preso la pistola? Che cosa è successo? Di quale casino stai parlando?”

“Io… Devo assentarmi da Chicago per qualche giorno, forse perfino per una settimana. Non so ancora per quanto tempo starò via, ma devo partire subito, ho il volo tra poche ore, e non posso lasciare Ben insieme ad una baby-sitter. Ecco perché ti ho chiesto di venire subito qui, Gracey, sei l’unica persona a cui posso chiedere questo favore: ho bisogno che ti occupi di mio figlio durante la mia assenza. Scusami per il poco preavviso, ma come ti ho già detto si tratta di un’emergenza”

“E dove devi andare?”

“Lontano”

“Lontano? Che cosa significa che devi andare lontano? Quanto lontano da qui?”

“Molto. Nello Yemen”

“Nello Yemen?” ripeto, con voce acuta, ritrovandomi quasi ad urlare “non puoi andare là. C’è la guerra civile… C’è l’ISIL… Per quale motivo devi andare nello Yemen?”

“Credimi, Gracey, non sono affatto ansioso di andare in uno Stato assediato dai terroristi, ma non ho altra scelta. Si tratta di una faccenda molto più grande di me e di te. Una faccenda in cui, mio malgrado, sono completamente coinvolto ed a cui non posso sottrarmi. E poi, non posso permetterle di andare là da sola”.

Nella foga di rispondere alle mie domande e di preparare il suo bagaglio, l’ex compagno di mia madre si lascia scappare dei particolari in più, e lo dimostra il modo in cui si morde la punta della lingua; ma il danno ormai è fatto, e lo incalzo nuovamente con altre domande.

“Di chi stai parlando? Chi è questa donna? La madre di Ben?”

“No, è Sara” borbotta, uscendo dalla stanza.

Esco a mia volta dalla camera da letto, sbattendo con forza la porta, e lo seguo nel salotto, senza dargli un attimo di tregua, perché le riposte che mi ha dato non mi bastano.

In realtà non hanno fatto altro che confondermi ulteriormente.

“Sara? La madre di Mike? Per quale motivo devi andare con lei nello Yemen?” mi blocco all’improvviso, quando lui è ormai vicino alla porta che conduce al garage, ripensando ad un sospetto che Benjamin ha condiviso con me non molto tempo prima “tu e lei vi conoscevate già, vero? C’è stato qualcosa tra voi due in passato, ma tu non vuoi parlarmene, ho indovinato?”.

Lo sento sospirare, rassegnato, si allontana dalla porta del garage e mi raggiunge, appoggiandomi entrambe le mani sulle guance e guardandomi negli occhi, riflettendosi nei miei lucidi di lacrime, provocate non dalla tristezza, ma bensì dalla rabbia per tutti i segreti che continua ad avere con me.

“Ti posso assicurare che l’intera faccenda è molto più complicata di così, Gracey, e ci sono tantissimi punti oscuri che io per primo non riesco ancora a capire. Ed io spero di trovare le risposte che mi mancano con questo viaggio. Si, io e Sara ci conosciamo da anni, ma tra noi due non c’è mai stato qualcosa. Ti prometto che al mio ritorno ti spiegherò ogni singola cosa, ma adesso devo andare o rischio di perdere il volo, Gracey, e la posta in gioco è davvero altissima… Va bene?”.

Annuisco con il capo e, senza dire una sola parola, lo lascio partire.

Qualche minuto più tardi, quando vedo la Mustang nera imboccare la strada e allontanarsi, scoppio in un pianto disperato, perché l’ultima volta che è uscito con la pistola è tornato con un foro di proiettile nella spalla destra.

E ora che deve recarsi in uno Stato sconvolto dalla guerra civile, ho veramente paura, e tremo al solo pensiero di non vederlo tornare indietro.



 
Non è mai semplice reprimere le proprie emozioni, soprattutto quando si tratta di casi come questo, ma sono costretta a farlo ed a ricacciare indietro anche le lacrime per non trasmettere la mia stessa preoccupazione a Benjamin; e quando lo vedo uscire da scuola e scendere i scalini, lo saluto con il miglior sorriso che riesco a fare.

Lui, però, non ricambia ed i suoi occhi azzurri si socchiudono, in un’espressione sospettosa, perché ha già fiutato qualcosa.

“Mi devo preoccupare?” mi domanda, infatti, stringendo le manine attorno alle cinghie dello zaino “ogni volta che mi vieni a prendere a scuola significa che è successo qualcosa a Theodore. È in ospedale? Ha avuto un incidente? Qualcun altro gli ha sparato?”

“No, Ben, non è successo nulla di tutto questo. Quando saremo a casa ti spiegherò tutto” mormoro con dolcezza; e mantengo la promessa dopo avergli preparato un bicchiere di succo d’arancia ed un panino al burro d’arachidi come merenda “tuo padre è dovuto partire a causa di un’emergenza e dovrà stare via per qualche giorno. Durante la sua assenza mi occuperò io di te, non ti devi preoccupare di nulla”

“Tutto qui?” mi chiede, attaccando il panino con un primo morso “non ha detto altro?”

“No, Benjamin” rispondo, preferendo omettere la parte in cui Theodore mi ha confermato di conoscere Sara da diversi anni “ma come ti ho detto non c’è nulla di cui preoccuparsi: tuo padre starà via qualche giorno, e sono sicura che al suo ritorno avrà un piccolo regalo per te”

“Non m’importa del regalo!” esclama, dando sfogo al suo lato più testardo “come posso non preoccuparmi se mi dici che è dovuto partire per un’emergenza e non ha voluto darti delle spiegazioni? L’ultima volta che è uscito per un appuntamento è tornato con una ferita sanguinante!”

“Non agitarti, lo sai che non fa bene alla tua salute. Non vorrai costringermi a chiamare tuo padre dall’ospedale per dirgli che hai avuto un attacco di asma, vero? Lo sai che si preoccuperebbe moltissimo”

“Lo so, è già successo una volta” mormora il ragazzino; soffia fuori l’aria dalle labbra socchiuse, lottando inutilmente contro un ciuffo di capelli che gli ricade sulla fronte, e solo dopo qualche secondo di lotta con le mani riesce a lisciarlo all’indietro.

La tregua, però, dura appena un battito di ciglia perché il ciuffo, inesorabilmente, ricade di nuovo sulla fronte.

L’intera scena è così buffa da farmi scoppiare a ridere e dimenticare momentaneamente la mia ansia per Theodore; ci penso io, con un gesto dolce, a sistemargli i capelli e ne approfitto per inventare una piccola bugia al fine di rassicurare Benjamin.

“Credo di sapere dove sia andato tuo padre: poco tempo fa mi ha parlato di una persona a lui molto cara che si trova in una clinica privata, perché purtroppo è molto malata. Sono sicura che ha ricevuto una telefonata proprio dalla clinica, e questo spiegherebbe la sua agitazione e la sua partenza frettolosa. E soprattutto spiegherebbe perché non ha voluto dirmi quasi nulla, visto che per lui si tratta di una questione molto delicata, Benjamin”

“E questa persona chi è?”

“Tua nonna”

“Ohh!” esclama, senza aggiungere altro, ingurgitando quello che resta della sua merenda e del succo d’arancia.

Non so se sono riuscita a convincerlo appieno, ma per tutto il resto del giorno non mi domanda più nulla riguardo a suo padre, ed il giorno seguente, dal momento che non deve andare a scuola, decido di organizzargli una piccola sorpresa per distrarre sia me che lui: lo porto prima al cinema e poi in un fast-food per pranzare.

“Allora? Sei contento della sorpresa che ti ho fatto?” domando, accomodandomi davanti a lui.

“Sì” risponde subito Benjamin, senza la minima esitazione, ma il mio sollievo dura appena il tempo del primo morso al panino perché torna subito all’attacco “Theodore ha chiamato o ha mandato qualche messaggio?”

“No, non l’ho mai sentito”

“E tu non hai provato a chiamarlo?”

“No, Ben, non ho provato a chiamarlo, e prima che tu possa chiedermelo: no, non ho provato neppure a mandargli un messaggio. Ti ho già spiegato che si trova in una situazione molto delicata, ed io non voglio importunarlo. Sono sicura che quando ne avrà la possibilità, sarà lui stesso a chiamarci”

“Dove si trova la clinica?”

“Molto lontano da qui”

“Quanto lontano?”

“In Alabama” rispondo, d’istinto, ricordandomi che Theodore è nato e cresciuto lì “sono molte ore di viaggio, probabilmente è arrivato da poco ed ora sta riposando. Vedrai che questa sera o domani mattina ci farà avere sue notizie. Ti stai preoccupando inutilmente e questo non fa bene alla tua salute, perché non pensi semplicemente a divertirti? Ti è piaciuto il film?”

“Sì, mi è piaciuto” mormora il ragazzino, giocando distrattamente con una patatina prima d’immergerla nel ketchup e mangiarla, ripetendo da capo l’intera operazione con un’altra “lo so che cosa stai facendo, anche se ho sette anni non sono uno stupido. Se non vuoi dirmi dove è andato Theodore, almeno vuoi rendermi partecipe di quello che sta accadendo tra voi due?”

“Riguardo a cosa dovrei renderti partecipe? Non sta accadendo nulla tra noi due” chiedo, bevendo un sorso di coca-cola; Benjamin solleva gli occhi dal sacchetto di patatine fritte e mi rivolge uno sguardo risentito, che accentua la sua somiglianza con il padre.

“Ti ho già detto che non sono uno stupido, non trattarmi come tale! So che è successo qualcosa il giorno del servizio fotografico, perché Theodore è tornato troppo presto per aver trascorso una cena a lume di candela insieme a te, ed aveva un’espressione assente. E poi aveva con sé una busta di cibo da fast-food e sono convinto che fosse un tentativo di corruzione… Proprio come stai facendo tu in questo momento”

“Spiegami per quale motivo dovrei corrompere un ragazzino di sette anni”

“Non vuoi parlare di questo argomento, forse perché qualcosa non sta andando come speravi tu. Ma così facendo stai dimenticando un particolare importantissimo: io sono il tuo unico alleato e la persona più vicina a lui. Sono l’unico che ti può aiutare veramente ad ottenere qualcosa, ecco perché è una mossa stupida continuare a tenermi all’oscuro di quello che sta accadendo” mi spiega, tranquillamente, continuando l’attacco alle patatine fritte “voi adulti pensate sempre che noi bambini siamo degli stupidi con i paraocchi ed i paraorecchi, e invece è tutto l’opposto. Mike, per esempio, si è subito accorto che c’è qualcosa che non va tra sua madre e Jacob. Secondo lui il loro matrimonio è in crisi”

“E, secondo te, tuo padre c’entra in questa crisi?”

“Non lo so, non credo, ma se così fosse significherebbe che davvero lui e Sara si conoscono davvero da molto tempo. Però non credo che sarebbero una bella coppia, sono troppo diversi. Lei è troppo forte per lui, capisci che cosa intendo?”

“Sì, Benjamin, capisco fin troppo perfettamente ed è proprio questo a lasciarmi spiazzata” commento, sbattendo più volte le palpebre, incredula.

Non posso credere che un bambino di sette anni, con la bocca sporca di ketchup, mi stia impartendo delle lezioni riguardo alla vita ed all’amore.

“Perché non siete usciti fuori a cena? Che cosa è successo?”

“Non è successo assolutamente nulla, Ben. Ero stanca, volevo tornare a casa per riposare e Theodore si è gentilmente offerto di accompagnarmi”

“Allora vuoi raccontarmi che cosa è successo l’altra notte, quando siete rimasti a parlare sul divano?”

“Anche in quell’occasione non è successo assolutamente nulla. Abbiamo semplicemente parlato”

“Bugiarda” mi accusa Ben, sempre più risentito, perché si aspettava una risposta diversa da parte mia; ma non posso confessargli di aver detto a Theodore di essere innamorata di lui e di averlo baciato in un impeto che non sono riuscita a reprimere: anche se ha un’intelligenza ed una perspicacia fuori dalla media, si tratta comunque di un ragazzino che non ha neppure otto anni.

“Visto che sei così interessato alle questioni di cuore che riguardano noi grandi, scommetto che c’è qualche ragazzina a scuola che ha attirato la tua attenzione” commento, cercando di spostare l’attenzione altrove, ma Benjamin si limita a scuotere la testa, rifiutandosi di rispondere alla mia domanda, chiudendosi in un mutismo autoimposto che dura fino all’ora di cena.

Sono proprio i momenti come questo a preoccuparmi di più, perché ogni volta che Ben tace significa che nella sua piccola mente sta architettando una contromossa tanto tremenda quanto efficace.

“Io vado a letto” mormora, allontanando da sé il piatto ancora mezzo pieno “sono stanco”

“D’accordo, ma prima devi prendere la tua medicina” dico con un sospiro, preferendo non insistere perché so già che non riuscirei a convincerlo a mangiare un solo boccone in più; lo guardo prendere con diligenza una pastiglia bianca, mandandola giù con un sorso di acqua, e poi gli do il permesso di ritirarsi nella sua cameretta.
Benjamin esce dalla cucina, ma prima di sparire dal mio campo visivo si appoggia allo stipite della porta e mi rivolge spontaneamente la parola.

“Sai, non sei costretta a dormire sul divano. Se vuoi puoi usare la camera di Theodore, sono sicuro che lui non avrebbe nulla in contrario”

“Ti ringrazio, Ben, ma sono sicura che il divano andrà benissimo anche per questa notte” rispondo con un sorriso, augurandogli la buonanotte.

Mi occupo di sparecchiare la tavola e di lavare i piatti prima di sdraiarmi tra i morbidi cuscini del sofà, rifugiandomi sotto la stessa coperta che l’ex compagno di mia madre mi aveva offerto galantemente la notte in cui mi sono presentata alla porta d’ingresso con i vestiti completamente zuppi di pioggia; per qualche minuto scorro in modo distratto i vari canali che ci sono in TV, senza trovare nulla d’interessante, e quando finalmente trovo qualcosa che cattura la mia attenzione (e che consiste in un documentario sulla barriera corallina) non riesco a seguire le immagini e la narrazione, perché continuo a pensare a lui.

Ormai occupa interamente i miei pensieri.

Rivolgo un’occhiata in direzione delle scale, mordendomi il labbro inferiore, indecisa se cercare da sola delle risposte alle mie domande o se concentrarmi finalmente sul documentario ed attendere che sia Theodore in persona a darmele; alla fine è la curiosità a prevalere e, dopo aver spento la TV, mi alzo dal divano, salgo al piano superiore con passo felpato e controllo che Benjamin sia profondamente addormentato prima di chiudermi nella camera da letto di suo padre.

Mi guardo attorno, strofinando i palmi delle mani contro la stoffa dei jeans, alla ricerca di qualcosa che possa aiutarmi, e decido di iniziare con il bagno, visto che è il luogo in cui tiene custodita la pistola, ma frugando tra i vari cassetti non riesco a trovare nulla che mi aiuti a fare chiarezza, e lo stesso vale dopo aver effettuato un’accurata ispezione dell’armadio: niente, non trovo assolutamente niente, neanche l’ombra di un piccolo indizio.

La fortuna inizia a girare dalla mia parte quando mi concentro sul comodino posizionato alla destra del letto matrimoniale: nell’ultimo cassetto, infatti, trovo tre buste gialle che contengono altrettanti fogli.

Nel primo c’è la foto, in bianco e nero, di un uomo sconosciuto mentre nel secondo e nel terzo dei semplici indirizzi.

Mi accorgo di un quarto foglio di carta infondo al cassetto e questa volta non ci sono impresse né strane fotografie né indirizzi; ci sono bensì due righe, scritte con inchiostro nero, rivolte direttamente a Theodore, che fanno cenno ad un fantomatico favore da restituire al momento opportuno.

Appoggio lo strano messaggio sopra al materasso e mi concentro sugli altri tre, in modo particolare sui due recapiti: mi rendo subito conto che il primo corrisponde alla villetta a due piani dove mi trovo ora, mentre l’altro è situato in una via che conosco, perché ero solita percorrerla quando mi recavo al ristorante, ed è proprio questa coincidenza a creare una nuova domanda nella mia testa.

Chi abita a quell’indirizzo? Sara, forse? O qualcun altro di cui l’ex compagno di mia madre mi  ha sempre tenuta all’oscuro?

Continuo a rimuginare su questi pensieri finché il mio sguardo, per puro caso, non cade sul laptop appoggiato sull’altro comodino, situato alla sinistra del letto; mi avvicino all’apparecchio tecnologico e, mordendomi nuovamente il labbro inferiore, ne accarezzo la superficie liscia, combattendo ancora contro il rimorso di invadere la privacy di una persona.

Ma anche questa volta la curiosità vince sulla mia ritrosia, e mi siedo sul letto, con il laptop appoggiato sulle ginocchia, con la speranza di ottenere finalmente qualcosa di concreto; e come prima mossa, infatti, vado a controllare la cronologia di internet, augurandomi che Theodore non l’abbia completamente cancellata, perché in quel caso potrei fare ben poco.

Fortunatamente davanti ai miei occhi compaiono tutte le pagine che ha visitato nelle ultime settimane, ed ignorando accuratamente quelle che appartengo a siti di ‘appuntamenti romantici’, mi concentro sulle ultime, che riguardano un certo Kaniel Outis.

E quando clicco il primo link mi ritrovo a trattenere il fiato, perché l’uomo che appare nello schermo è lo stesso ritratto nella strana foto in bianco e nero; prendo subito in mano il foglio per confrontare le due immagini, per fugare ogni possibile dubbio, e la mia incredulità aumenta quando, leggendo l’articolo di giornale, scopro che Outis è un terrorista internazionale, ricercato dall’Interpol, su cui pende più di un mandato di cattura.

Mi copro la bocca con la mano destra, continuando a spostare gli occhi dallo schermo al foglio.

Per quale motivo Theodore dovrebbe essere in contatto con un terrorista internazionale? Che cosa può mai volere quest’uomo da lui?

Subito ripenso ai sette anni che ha trascorso in carcere ed a tutte le volte in cui Ashley mi ha detto che c’è qualcosa in lui che non la convince, ma poi scuoto la testa, scacciando il pensiero che vuole insinuarsi nella mia mente: mi rifiuto categoricamente di credere che una persona come Theodore possa essere coinvolto in qualche atto terroristico, anche se ancora non riesco a trovare una spiegazione alla sua improvvisa partenza per lo Yemen.

E poi c’è un altro particolare a rendere quest’opzione impossibile e assurda: Theodore è partito in compagnia di Sara, la madre di Mike, e le donne come lei, eleganti e raffinate, non nascondo una seconda vita da criminali in contatto con terroristi internazionali.

Sento che c’è qualcosa di molto più complicato racchiuso nell’intera faccenda, ma al momento, con i pochissimi ed indecifrabili indizi che ho dalla mia parte, mi è impossibile venire a capo di questo enigma.



 
Quando apro gli occhi mi rendo subito conto che il sole è ormai alto nel cielo e che mi sono addormentata sul letto di Theodore, circondata dalle buste gialle e dai loro misteriosi contenuti; sussulto non appena guardo il quadrante dell’orologio che porto al polso sinistro e mi lascio scappare un’imprecazione ad alta voce: è terribilmente tardi e Benjamin non ha ancora né fatto colazione né preso la pastiglia per l’asma.

Scendo dal letto senza preoccuparmi dei fogli che cadono sul pavimento e spalanco letteralmente la porta della camera da letto del ragazzino, mi avvicino al letto per svegliarlo, ma quando sollevo le coperte non trovo Ben ancora profondamente addormentato, bensì due cuscini sistemati in modo da simulare un rigonfiamento convincente; impreco nuovamente, sentendo l’ansia crescere in modo esponenziale, e mi precipito al pianoterra per cercarlo, ripetendo ad alta voce il suo nome, controllando ogni centimetro di ogni stanza, perfino nei posti più improbabili come dentro le credenze o dentro al frigorifero, senza però riuscire a trovarlo o ad ottenere una risposta da parte sua.

E proprio quando ormai già mi vedo dentro la stazione di polizia per denunciare la sua scomparsa, sento la porta d’ingresso aprirsi e vedo comparire il diretto interessato con addosso ancora il pigiama, avvolto in una coperta che sfiora la moquette; lo raggiungo subito, m’inginocchio sul pavimento e gli appoggio le mani sulle braccia, scuotendo leggermente, ordinandogli di non fare mai più una cosa simile e di dirmi perché si trovava in giardino.

“Perché ho trascorso la notte nella casa sull’albero” risponde, tirando su con il naso, e solo ora mi accorgo che ha il corpo scosso da tremiti e le guance rosse e calde; gli appoggio una mano sulla fronte e piego le labbra in una smorfia contrariata, perché la pelle è bollente.

“Ben, hai la fronte che scotta, si può sapere per quale motivo hai trascorso l’intera notte nella casa sull’albero?” domando, cercando di mettere da parte la rabbia e la preoccupazione, utilizzando un tono dolce; Benjamin si stringe nelle spalle, nel classico atteggiamento di chi si trova costretto a confessare una marachella, ed un terribile dubbio inizia a serpeggiare nella mia mente “Benjamin James Bagwell, hai trascorso l’intera notte all’aperto con la speranza di ammalarti per far tornare tuo padre a Chicago?”.

La risposta alla mia domanda non arriva sottoforma di un monosillabo affermativo, ma di un mezzo sorriso furbetto, e sono costretta a chiudere gli occhi per qualche secondo e prendere un profondo respiro per non cedere all’impulso di dare uno schiaffo a Benjamin e di urlargli contro che grazie al suo brillante e diabolico piano la sua salute fisica può avere delle gravi ripercussioni: dopotutto si tratta di un bambino di sette anni che desidera solo riavere a suo fianco il padre che ora si trova all’estero, in uno Stato dove le vittime e gli attentati solo all’ordine del giorno.

Un bambino fin troppo sveglio, intelligente e furbo, ma pur sempre un bambino.

Lo accompagno nella sua camera da letto e proprio qui sorge il primo problema, perché vuole stare nella stanza di Theodore, e dopo una breve e accesa discussione sono costretta a cedere alla sua richiesta, e mi occupo di far sparire velocemente le buste, i fogli ed il laptop prima di dare il permesso a Benjamin di sdraiarsi e di rimboccargli le coperte; lui, naturalmente, osserva l’intera scena in silenzio e le domande non tardano ad arrivare.

“Che cosa hai messo dentro quel cassetto?”

“Adesso questo non ha importanza, pensa a riposare ed a riprenderti” mormoro distrattamente, spostandomi nel bagno per cercare un termometro; quando riesco finalmente a trovarlo ed a misurargli la temperatura corporea faccio nuovamente una smorfia, assumendo poi un tono di voce serio, da adulta “questa volta l’hai proprio combinata grossa, Benjamin, aspetta solo che tuo padre torni a casa dal viaggio. Nessuno ti salverà da una bella punizione”

“Che cosa dice il termometro?”

“Dice che la tua temperatura corporea è di quasi trentanove gradi”

“Ohh, questo significa che ho la febbre alta, giusto? Posso chiamare Theodore?”

“No, tu non chiamerai nessuno. Non voglio farlo preoccupare inutilmente. E poi, così facendo, diventerei complice del tuo piano”

“Ma io sono sicuro che vorrebbe essere informato subito riguardo alla mia salute. Per favore, Gracey!” esclama, supplicandomi “per favore, per favore, per favore!”.

Sospiro, sollevo gli occhi al soffitto, e mi ritrovo costretta a cedere ancora alla sua richiesta: come posso negare qualcosa ad un ragazzino con la febbre alta che, per giunta, sa essere terribilmente convincente?

Prendo il cellulare, cerco il numero dell’ex compagno di mia madre tra le ultime chiamate ricevute e schiaccio il tasto verde, appoggiando lo schermo all’orecchio sinistro.
“Solo un tentativo” mormoro, poi, mentre attendo una risposta dall’altra parte “se non risponde, aspetteremo il suo ritorno”

“Sono sicuro che risponderà” ribatte, testardo, Benjamin, sedendosi a gambe incrociate, aspettando con trepidazione di sentire la voce del padre per parlare con lui e per supplicarlo di tornare indietro subito; attendo ancora per qualche secondo e poi premo il tasto rosso, bloccando lo schermo e riponendo il cellulare in una tasca anteriore dei pantaloni.

“Non ha risposto. Hai avuto la possibilità di portare a termine il tuo piano malvagio, ma a quanto pare dobbiamo aspettare il suo ritorno!” esclamo, preparandomi ad impartirgli una lunga ramanzina, ma vengo bloccata dal cellulare che inizia a vibrare e, con mia sorpresa, vedo che si tratta proprio di Theodore: evidentemente quando ho interrotto la chiamata, lui stava per rispondere “pronto?”

“Volevi parlarmi?”.

La sua domanda, secca, diretta e senza alcun saluto fa scattare nella mia mente un campanello d’allarme, ma non ho il tempo di approfondire la questione perché Ben mi ricorda il motivo principale della telefonata prendendosela con la stoffa della mia maglietta, precisamente con la manica destra.

“Sì, e con urgenza. Si tratta di Benjamin. Ha combinato un grosso guaio”

“Cioè? Ha picchiato qualcuno a scuola?”

“No, ma credimi, forse sarebbe stato meglio che fosse accaduto questo” rispondo, riuscendo a liberarmi dalla presa molesta “a quanto pare, questo piccolo criminale ha avuto la brillante idea di sgattaiolare fuori casa nel cuore della notte e di dormire in giardino, nella casa sull’albero, con la speranza di ammalarsi e di farti ritornare a Chicago il prima possibile. Ed ora vuole parlare con te”.

Silenzio.

Un lungo sospiro.

“Passamelo”.

Consegno il mio telefono nelle mani trepidanti di Benjamin ed esco dalla stanza, lasciandogli un po’ di privacy, tuttavia non mi allontano troppo e la porta socchiusa mi permette di ascoltare l’intera conversazione, composta da una lunga serie di domande, alternate a suppliche, da parte di Ben, e che si conclude quando quest’ultimo decide di sfoderare un asso nella manica che mi lascia interdetta.

“Ti prego, torna a casa! Ho bisogno di te, papà”.

Un vero e proprio colpo basso.

“Sei crudele” lo rimprovero quando torno in possesso del mio cellulare “sai perfettamente che la parola ‘papà’ è il suo punto debole, e tu sei andato a girare il coltello nella ferita. Non avresti dovuto farlo, è stato un comportamento molto meschino. E non ti spiego neppure che cosa significa il termine ‘meschino’ perché sono sicura che lo conosci perfettamente”

“Non sono stato né crudele né meschino, era giusto che Theodore sapesse che ho la febbre. Ha detto che prenderà il primo volo per Chicago, entro ventiquattro ore sarà di nuovo qui con voi. Dovresti ringraziarmi”

“Ohh, hai una bella faccia tosta a dirmi questo. E perché dovrei ringraziarti?” gli chiedo, sedendomi sul bordo del letto.

Nelle sue labbra compare il sorriso furbetto che, ormai, conosco fin troppo bene.

“Perché anche tu desideri che torni a casa il prima possibile, intero, e senza fori di proiettile, Gracey” risponde lui, tirando su con il naso.

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Capitolo 21
*** Secrets; Parte Due (Gracey) ***


Anche se occuparmi di Benjamin richiede tutte le mie energie, i miei pensieri sono costantemente rivolti a Theodore ed ai messaggi misteriosi che ancora non sono riuscita a decifrare, ben custoditi nell’ultimo cassetto di un comodino; e contro ogni mia aspettativa, è proprio il piccolo criminale, come io stessa l’ho ribattezzato recentemente, a fornirmi un aiuto inaspettato: quando entro in camera con la sua colazione ben disposta sopra ad un vassoio di plastica colorata, infatti, trovo il cassetto aperto e lui intento ad osservare, con uno sguardo corrucciato e serio, uno dei quattro pezzi di carta.

“Ehi!” lo rimprovero, posando il vassoio sopra al letto ed incrociando le braccia “non dovresti frugare tra gli effetti personali di tuo padre. Rimetti subito al suo posto quel foglio, lo sai che questa si chiama invasione della privacy?”

“Tu per prima lo hai fatto ieri sera. Avresti dovuto nasconderli da un’altra parte” ribatte senza la minima traccia di esitazione nella voce, addossando a me tutta la colpa.

Ed in parte ha ragione, perché avrei dovuto prevedere che avrebbe frugato all’interno del comodino non appena gli si fosse presentata l’occasione perfetta.

Ovvero durante una mia assenza.

“Rimettilo al suo posto. Tuo padre è già abbastanza arrabbiato con te per la tua incursione notturna, non penso che sia saggio tirare ancora la corda” ripeto una seconda volta, provando ad impossessarmi del foglio per posarlo sopra agli altri, nell’esatta posizione in cui l’ho trovato, per non far sorgere sospetti in Theodore; ma le parole che Ben esclama, prima che possa compiere quest’azione, mi bloccato con la mano destra a mezz’aria.

“Ehi, io lo conosco questo indirizzo! Ci abita zia Karla!”

“Zia Karla?”

“Sì, proprio lei. In realtà non è mia zia. È la persona che si è occupata di me mentre Theodore era in carcere. La sua casa è poco lontano da qui”

“Ma se non è davvero tua zia, perché è stata proprio lei ad occuparsi di te per sette anni?”.

Per una volta, per la prima volta, dalle labbra sottili del ragazzino (anche queste ereditate dal padre) non esce alcuna risposta sicura e arrogante: scrolla le spalle ed arriccia il naso, in un’espressione quasi buffa.

“Non lo so, non me lo ha mai spiegato, ma ho sempre avuto l’impressione che sapesse molto più di quello che mi ha detto. Sia riguardo a Theodore che riguardo a mia madre”.

Esorto Benjamin a consumare la sua colazione, ed a prendere la pastiglia contro l’asma, e mentre lo controllo penso alla rivelazione che, inconsciamente o meno, mi ha appena fatto: la misteriosa donna di nome Karla potrebbe essere, finalmente, la soluzione a tutti i miei dubbi ed alle mie domande, eppure, allo stesso tempo c’è qualcosa che mi blocca dal chiamare una baby-sitter e precipitarmi immediatamente da lei.

E quel ‘qualcosa’ è costituito dall’ex compagno di mia madre e dalla promessa che mi ha fatto prima di partire.

Voglio sentire la verità uscire dalla sua bocca, non da quella di una sconosciuta, ma ho paura di andare incontro ad un altro muro costituito da silenzi e da frasi vaghe; dopotutto chi mi assicura che non mi abbia fatto quella promessa per tenermi buona e che non si rimangi la parola data al suo ritorno?

Sono così confusa e combattuta che, mio malgrado, mi ritrovo costretta a chiedere consiglio al piccolo criminale.

“Benjamin, posso farti una domanda?” chiedo, ed a un suo cenno affermativo con la testa continuo “se una persona a cui sei molto legato ti nascondesse molti segreti, tu da chi vorresti conoscerli? Dalla quella stessa persona, che potrebbe mentirti, o da una persona esterna, che non ha alcun motivo di raccontarti una bugia?”.

Lui si pulisce la bocca sporca di latte al cioccolato con il dorso della mano sinistra e poi mi da una risposta che testimonia quanto la sua mente sia fin troppo acuta per un bambino di soli sette anni, che si avvia verso gli otto.

“Secondo me la risposta è molto semplice. Penso che mi rivolgerei alla persona esterna ai fatti, se quella a cui sono legato potrebbe non essere sincera, ma c’è sempre la possibilità che la verità potrebbe non piacermi”.

Il piccolo criminale non solo ha perfettamente ragione, ma appena accennato ad un problema non indifferente, che mi blocca  ulteriormente dal prendere una decisione definitiva.

Che cosa è meglio in situazioni come questa?

Una dolce bugia o la cruda verità?

Con la piena consapevolezza di ciò a cui sto andando incontro, decido di optare per la cruda verità ed esco di casa dopo aver atteso l’arrivo della baby-sitter.

E dopo aver sostenuto lo sguardo accusatore di Benjamin, per nulla contento di dover rimanere a casa, avvolto in un bozzolo di calde coperte, in compagnia di una semisconosciuta.

Trovo la casa di ‘zia Karla’ senza la minima difficoltà e dopo aver suonato il campanello stringo con entrambe le mani la cinghia della borsa a tracolla, in un vano tentativo di combattere il nervosismo che continua a crescere in modo esponenziale dentro di me; prendo un profondo respiro quando sento il rumore di passi che si avvicinano e ripasso mentalmente tutte le domande che voglio farle.

Continuo a ripetermi di mantenere la calma, ma quando finalmente mi trovo a faccia a faccia con colei che potrebbe avere la risposta a tutti i miei dubbi, non riesco a nascondere un’espressione sorpresa: nella mia mente mi ero già raffigurata una donna di mezza età, non una ragazza poco più grande di me, con una vaporosa chioma rossa.

Se io sono sconvolta, lei è comprensibilmente perplessa, ed infatti mi chiede chi sono e che cosa desidero.

“Spero di non disturbarti” mormoro, tormentando ancora la cinghia, cercando le parole più adatte per formulare un discorso di senso compiuto “avrei bisogno di parlare con te. Si tratta di Theodore”.

L’espressione perplessa lascia posto ad una smorfia che non riesco ad interpretare, perché è un mix di troppe emozioni: incredulità, scetticismo, rassegnazione e, forse, perfino disgusto.

Contro ogni mia previsione non mi rivolge altre domande: indietreggia di un passo, scostandosi dalla soglia, e mi fa un cenno con la mano destra, indicandomi il salotto, invitandomi ad entrare; sussurro qualche parola di ringraziamento ed entro nella stanza arredata con cura e gusto, stringendomi nelle spalle a causa dell’ansia e dell’imbarazzo, ma Karla si preoccupa subito di farmi sentire a proprio agio, chiedendomi se desidero qualcosa da bere, e ad un mio cenno affermativo si assenta per qualche minuto in cucina, per poi tornare con due tazze.

“Fai attenzione, è bollente” mi raccomanda prima di porgermene una; si lascia cadere sul divano, soffia sulla sua tisana per raffreddarla e ne beve un sorso, il tutto senza mai staccare gli occhi da me, facendomi sentire di nuovo imbarazzata e quasi fuori luogo “per fugare ogni possibile fraintendimento: quando dici che si tratta di Theodore… Intendi Theodore Bagwell?”

“Sì”

“Come fai a conoscerlo?”

“È una storia complicata” dico, mandando giù a mia volta un sorso della bevanda calda a base di frutti di bosco e arancia rossa “era il compagno di mia madre. Ci siamo incontrati per caso un paio di settimane fa e mi ha raccontato di essersi trasferito qui insieme a suo figlio per ricominciare una nuova vita e…”.

Sono costretta a bloccarmi perché dalle labbra di Karla esce una risatina stridula, alla quale non riesco a dare una spiegazione razionale.

“Come ti chiami?”

“Gracey Hollander”

“Ahh, ora inizio a capire” commenta lei, con un mezzo sorriso “mentre era in carcere, Theodore ha scritto moltissime lettere a tua madre, affinché lo perdonasse per quello che aveva fatto, e sono state tutte rispedite al mittente. Lo so per certo perché in più di un’occasione ho sentito delle guardie divertirsi a leggerle”

“Ma è una cosa orribile, come si può essere così crudeli?”

“Ohh, tesoro, fidati… Non erano loro ad essere crudeli. La vera crudeltà è ben differente. Quanti anni hai, Gracey?”

“Diciassette”

“Avrei dovuto immaginarlo”.

Il suo commento mi lascia completamente spiazzata perché, come nel caso della risatina, non riesco a spiegarmelo.

Tutto in questa conversazione, in realtà, non riesco a spiegarmelo.

“Io non capisco” confesso, alla fine, rigirandomi la tazza di ceramica tra le mani “non capisco le tue parole”

“D’accordo, la colpa è mia perché sono andata troppo veloce. Partiamo dall’inizio: che cosa sai di lui, Gracey? Perché ho l’impressione che nel tuo quadro generale manchi qualche tassello fondamentale”.

Dietro esortazione della padrona di casa, mi sfogo riguardo agli eventi accaduti nell’ultimo periodo: racconto ciò che so riguardo alla fine della relazione tra mia madre e Theodore, racconto del mio incontro con lui e racconto di Benjamin; racconto anche dei dubbi, delle mezze spiegazioni e del giorno in cui è tornato a casa ferito.

In tutto questo, però, evito accuratamente di menzionare il servizio fotografico, ciò che ho confessato a Theodore quello stesso giorno, ed il bacio che sono riuscita a rubargli a tradimento.

Karla ascolta ogni mia parola in silenzio, senza mai interrompermi, limitandosi a scuotere la chioma rossa di tanto in tanto, con le labbra strette in una pallida e sottile linea; le nocche ormai bianche delle mani testimoniano l’eccessiva forza con cui stringe la povera tazza di ceramica.

“Mi ha promesso delle risposte al suo ritorno dal viaggio, ma dopo tutte le mezze verità che mi ha raccontato non so se arriveranno mai. Forse non avrei dovuto farlo, ma ho frugato in camera sua alla ricerca di qualcosa che mi aiutasse a capire, e dentro un cassetto ho trovato delle buste gialle che contenevano dei fogli. E in uno di questi fogli c’era il tuo indirizzo. Ben l’ha riconosciuto subito, mi ha parlato di te e ho deciso di… Di…” mi blocco per la seconda volta, perché non riesco a trovare le parole giuste, ma ci pensa Karla a concludere la frase per me.

“Hai deciso di svolgere le tue indagini personali” mormora con un sorriso che, però, non arriva a contagiarle gli occhi, e la presa sulla tazza non accenna ad allentarsi “quell’uomo non cambierà mai. L’unica cosa in cui è veramente bravo è mentire, e non smetterà mai di farlo. Tesoro, qui non stiamo parlando di mezze verità taciute. Forse non ti farà piacere sentirtelo dire, ma nelle ultime settimane lui non ha fatto altro che raccontarti cazzate su cazzate”.

Il primo colpo va a segno, ed anche se in parte già me lo aspettavo resto comunque senza fiato.

Dentro di me, piano piano, si fa già strada la convinzione che sarò costretta a fare un enorme passo indietro ed a dare ragione ad Ashley su tutto.

“Cazzate?” ripeto, deglutendo a vuoto, incoraggiando la rossa a proseguire.

“Io ho conosciuto Theodore sette anni fa, perché ho svolto un tirocinio nella prigione in cui era rinchiuso, ma non si trovava lì dentro per il motivo che ti ha raccontato, ma per uno ben diverso. Ed era a Fox River da ben cinque anni”

“Che… Che cosa?”

“Ohh, sì, lui ha trascorso molto più tempo in prigione di quello che ti ha fatto credere. Ma perché non lo chiedi a lui? Chiedigli di raccontarti qualcosa dei cinque anni che ha trascorso a Fox River dopo che è riuscito a far perdere le sue tracce per un anno intero. O degli anni che ha trascorso in un carcere in Alabama. Chiedigli di raccontarti di T-Bag. Se ha davvero le palle, lo farà” Karla appoggia la tazza sopra ad un tavolino, sostituendola con una sigaretta ed un accendino “lo sapevo. Sapevo che non avrei dovuto seguire le istruzioni che avevo ricevuto e lasciargli Benjamin. Mio dio. Quell’uomo non cambierà mai. È una serpe. Lo chiamavano proprio così in prigione, sai? ‘La Serpe di Fox River’. Nicole era l’unica che si rifiutava di vederlo per ciò che era veramente”

“Nicole?” domando, azzardandomi a fare un’ipotesi che si rivela esatta “è la madre di Ben?”

“Sì, è proprio lei”

“Theodore non ha mai voluto parlarmene. Una volta mi ha detto che si tratta di un argomento molto doloroso”

“Su questo ha perfettamente ragione perché si tratta di un argomento doloroso, ma non per lui. Bensì per lei. Non immagini neppure tutto il male che le ha fatto” mi spiega, prendendo una profonda boccata, e questa volta è il mio turno di stringere la presa attorno alla ceramica calda, per prepararmi a quello che sto per sentire “avevo iniziato il tirocinio a Fox River da pochi mesi quando Nicole è stata assunta come dottoressa, e lui le ha messo subito gli occhi addosso. Io non ho sospettato nulla fino al giorno in cui, per puro caso, non sono entrata nel suo Studio e li ho trovati in atteggiamenti… Intimi. Le ho chiesto spiegazioni, le ho consigliato di andarsene da Fox River prima che qualcun altro potesse scoprirla, prima di rimanere bruciata, ma Nicole non ha dato retta alle mie parole. E quando lui è evaso con un gruppo di detenuti, l’ha convinta ad essere sua complice, facendole perdere il lavoro e trasformandola, in automatico, in una ricercata”

“Io non… Non ho parole…”

“Ohh, ma questa non è neppure la parte peggiore” prosegue la rossa, tamburellando le dita della mano destra sul bracciolo del divano, in un tic nervoso “quell’uomo non si è limitato a rovinarle la vita, le ha spezzato il cuore e glielo ha calpestato senza alcun ritegno. Mi sono occupata io di raccogliere quei pezzi e di aiutarla a dimenticarlo, e quando lei finalmente stava iniziando a lasciarsi alle spalle quell’orribile parentesi, sai che cosa è successo? Ha ricevuto una telefonata da lui. Una vera e propria sceneggiata da attore consumato. Aveva bevuto, era completamente ubriaco, le ha detto che era nella stanza di un albergo a Panama, che aveva una pistola in mano e che si sentiva in procinto di fare qualcosa di stupido. Ho provato a fermarla ed a impedirle di rifare lo stesso errore, ma anche in quell’occasione Nicole non ha voluto ascoltare le mie parole ed è corsa dal suo ‘Teddy’. E quando l’ho rivista, aveva di nuovo il cuore spezzato ed era incinta di Benjamin”

“E adesso dove si trova?” chiedo, dopo un lungo silenzio.

“Non c’è più. Non ce l’ha fatta. A quanto pare la delusione, lo stress e la gravidanza sono stati troppo per lei. Aveva appena ventuno anni, non commettere il suo stesso errore, sei ancora in tempo per tornare sui tuoi passi e per non rovinarti la vita”

“Che cosa vuoi dire?”

“Sei infatuata di lui, non provare a nasconderlo. Ci sono già passata con Nicole, ricordo ancora molto bene i suoi sguardi e le sue parole… Mi sembra di rivedere lei” commenta, con un sospiro, scuotendo la testa “non riuscirò mai a capire che cosa faccia alle donne quell’individuo”

“Devo proprio andare” balbetto, alzandomi di scatto dalla poltrona, rischiando di rovesciare la tazza insieme al suo contenuto ormai freddo; raggiungo velocemente la porta d’ingresso, perché non voglio sentire altro, ma qualcosa mi fa cambiare improvvisamente idea e ritorno da Karla, che non si è mossa di un solo millimetro dal divano.

Frugo all’interno della borsa a tracolla e, cercando di contenere il tremolio alle mani, le porgo il foglio con la fotografia in bianco e nero, chiedendole se conosce il misterioso uomo che vi è ritratto; e non appena i suoi occhi verdi si posano sulla carta, sulle labbra compare un sorriso enigmatico ed indecifrabile.

“Se lo conosco? È Michael Scofield”

“Michael Scofield?” ripeto, perché questo nome non mi dice assolutamente nulla “no, impossibile. Ho controllato le ultime ricerche che Theodore ha svolto nel suo portatile e c’era un articolo di giornale che parlava di un terrorista internazionale. Kaniel Outis. Ed era lui, era proprio quest’uomo”

“No, si chiama Michael Scofield” mi assicura lei, seria “te lo posso garantire perché anche lui era rinchiuso a Fox River. Ed era la mente che c’era dietro l’evasione a cui ha partecipato anche Bagwell”.



 
Quando torno a casa, dopo aver congedato la baby-sitter, appoggio la nuca contro il legno della porta d’ingresso e chiudo gli occhi, lottando contro un doloroso principio di mal di testa.

Sapevo, ancor prima di uscire di casa, a che cosa stavo andando incontro, ma non pensavo di scontrarmi contro un vero e proprio muro di bugie, costruito abilmente mattone dopo mattone, e per la prima volta mi domando chi sia veramente l’uomo che ho conosciuto come il compagno di mia madre, l’uomo per cui ho letteralmente perso la testa, e quali altri scheletri nasconda nel suo armadio.

Vengo riportata alla realtà da qualcuno che continua a bussare alla porta d’ingresso; sollevo le palpebre, mi stacco dal legno e la spalanco, convinta di trovare Theodore dall’altra parte, pronta a fronteggiarlo.

Piego il viso di lato, confusa, non appena mi rendo conto che non si tratta di lui, ma della mia migliore amica, e le sue condizioni non fanno altro che accrescere la mia perplessità: ha il volto letteralmente in fiamme, gli occhi lucidi, quasi fuori dalle orbite, ed il fiato ansante le impedisce di parlare.

“Ashley?” domando, senza proseguire, aspettando una risposta da parte sua.

“No! Non dire nulla!” esclama lei, ritrovando improvvisamente la voce, mi supera ed entra in casa senza aspettare un mio invito, e mentre richiudo la porta mi accorgo che stringe una cartellina di plastica rigida contro il petto, in modo convulso, perché proprio come nel caso di Karla le sue nocche sono bianche come il latte; non ho neppure il tempo di rivolgerle altre domande che riprende a parlare “mi hai sempre dato della stupida e dell’esagerata quando ti dicevo che quell’uomo non mi convinceva, che c’era qualcosa d’inquietante in lui, giusto? Adesso non puoi più dirlo, perché ho portato delle prove con me. Ohh, non immagini neppure quante prove, che sostengono la mia tesi, sono riuscita a trovare!”

“Ashley, che cosa stai dicendo? Non ti seguo…” mormoro, allarmata, ma la mia coinquilina resta in silenzio.

Prende posto sul divano, appoggia la cartellina sopra ad un tavolino ed inizia a frugare al suo interno.

Le mani le tremano così tanto che alcuni fogli cadono sul pavimento.

“L’ho detto anche a lui il giorno in cui è venuto nel nostro appartamento perché voleva parlare con te. Avevo già visto il suo volto, ne ero sicurissima, e così ho deciso di svolgere qualche piccola ricerca…” dice, con tono febbrile, continuando con la sua ricerca; e quando riesce a trovare ciò che cercava, mi ritrovo con un foglio a pochi centimetri di distanza dal mio viso “guarda! Guarda che cosa ho trovato! Quando ho visto questo, quando ho letto questi articoli che ho stampato, mi è tornata in mente ogni cosa, compreso il perché la sua faccia mi sembrasse così familiare! Eravamo entrambe piccole quando è accaduto, ma ne parlavano tutti i notiziari”.

Strappo il foglio dalla presa convulsa della mia migliore amica e l’osservo con attenzione: è la fotocopia di un vecchio comunicato dell’F.B.I, su cui spiccano otto foto segnaletiche che ritraggono altrettanti detenuti.

Ed uno di questi è proprio Theodore.

Lo riconosco senza la minima esitazione perché è esattamente come lo ricordo nel periodo della relazione con mia madre: viso magro, guance scavate, capelli castani e pizzetto scuro a coprirgli il mento.

L’unico particolare che non riesco a riconoscere, che non appartiene all’uomo che conosco, è lo sguardo.

Inquietante, stralunato, perverso.

Lo stesso di un pazzo.

“Prima che tu possa continuare” mormoro, senza riuscire a staccare gli occhi dal foglio ed a sbattere le palpebre “ho parlato con una persona, e mi ha già detto che non ha trascorso solo sette anni dietro le sbarre. E che è riuscito ad evadere insieme ad altre persone. Mi ha anche parlato di lui. Michael Scofield. Ho trovato una sua foto nella camera da letto di Theodore”

“E questa persona ti ha anche detto per quale motivo è stato arrestato?”

“No, mi ha detto di chiederlo a lui”

“Leggi cosa c’è scritto su quel maledetto foglio che hai in mano, Gracey” dice Ashley, a denti stretti, fuori di sé come non l’ho mai vista prima d’ora.
Non credo di essere pronta a conoscere la verità fino infondo, anche se l’ho cercata disperatamente, tuttavia i miei occhi iniziano a scorrere velocemente le parole che affiancano ogni singola immagine, e che racchiudono in modo sintetico i crimini di cui ogni detenuto ricercato si è macchiato; e le mie labbra, in automatico, le leggono ad alta voce.

“David Apolskins, furto aggravato.  Lincoln Burrows, omicidio di primo grado. Benjamin Miles Frankin, possesso di beni rubati. John Abruzzi, omicidio di primo grado e associazione a delinquere. Charles Patoshik, omicidio di secondo grado. Fernando Sucre, rapina a mano armata. Michael Scofield, rapina a mano armata…” mi fermo, deglutisco a vuoto e compio un enorme sforzo per leggere le ultime parole “Theodore Bagwell, sei capi d’accusa per rapimento, stupro e omicidio di minore”.

Lascio cadere il pezzo di carta sulla morbida moquette e mi copro il viso con entrambe le mani, cercando di dare un senso logico a quella frase, che continua a rimbombarmi in testa.

E ci pensa Ashley a fare chiarezza, in modo brutale e senza girare inutilmente attorno all’argomento.

“Quell’animale” sputa inviperita, paonazza a causa della rabbia “quell’animale è uno schifoso deviato, assassino e pedofilo. Ed è entrato nel nostro appartamento, sa dove abitiamo!”

“Abbassa la voce. C’è suo figlio al piano di sopra”

“Motivo in più per chiamare immediatamente la polizia”

“Tu non chiamerai la polizia” l’ammonisco, bloccandola prima che possa prendere il suo cellulare “chiaro?”

“Mi stai davvero impedendo di farlo? Stai davvero tentando di prendere le sue difese dopo quello che tu stessa hai letto?”

“Io sono sicura che ci sia una spiegazione dietro a tutto questo” mormoro, deglutendo di nuovo a vuoto, con la mente appannata “è successo molte volte che gente innocente finisse dietro le sbarre, accusata di crimini orribili…”

“Gracey!” urla la mia migliore amica, con tutto il fiato che ha nei polmoni, facendomi temere per Benjamin “ma si può sapere che cazzo stai dicendo? Ti sembra la faccia di una persona innocente? Hai visto il suo sguardo? Guarda, guarda… Leggi tutti questi articoli! Guarda come è stato ribattezzato! Il Mostro dell’Alabama! E in questo… In questo c’è scritto che ha confessato volontariamente ed è stato proprio lui a condurre la polizia nel fienile in cui aveva nascosto i corpi, fatti a pezzi, delle sue vittime! Ma come cazzo fai a difenderlo?”

“Non lo sto difendendo!” grido a mia volta, sentendomi le guance improvvisamente in fiamme “sto solo dicendo che a tutti è dato il beneficio del dubbio. Lui è stato insieme a mia madre per quasi un anno e non ha mai sfiorato con un dito né me né mio fratello. Se veramente… Se veramente fosse colpevole di questi crimini, avrebbe fatto lo stesso anche con noi due, le occasioni non gli sono mancate. E invece non lo ha fatto. Mai. E con Benjamin è un padre esemplare”

“Forse nel caso tuo e di Zack stava solo aspettando il momento opportuno, non hai pensato a questo?”.

L’insinuazione di Ashley, anche se non del tutto fuori luogo, fa scendere una cortina rossa davanti ai miei occhi e non riesco più a trattenermi.

E adesso sono io quella ad urlare rischiando di consumarsi le corde vocali.

“Fuori! Esci subito da questa casa! Non voglio vederti mai più!”.

Lei non ribatte: sgrana gli occhi, socchiude le labbra, e quando si riprende si limita a scuotere la testa, con le labbra piegate in una smorfia che esprime disgusto e delusione, afferrando la sua borsa ed il suo cappotto.

“Tu sei completamente pazza, Gracey” dice semplicemente, prima di chiudere con forza la porta d’ingresso, ed io mi lascio cadere sul divano, esausta e svuotata da ogni energia; appoggio la mano destra sulla fronte e prendo una serie di profondi respiri, con la speranza di calmarmi e di fermare il tremore che si è diffuso in tutto il mio corpo.

Quando sollevo il viso, i miei occhi si posano in automatico sulla cartellina, ancora abbandonata sopra al tavolino.

Mi tormento il labbro inferiore, indecisa, ma un attimo più tardi i numerosi fogli sono appoggiate sulle mie ginocchia, mentre mi occupo di sfogliarli velocemente, alla ricerca di ogni singola risposta ad ogni mia singola domanda; degno appena di un’occhiata gli articoli in cui sono allegate le macabre foto della scena del crimine, preferendo concentrarmi su un altro, che risale all’ottantanove, e che parla del processo a carico del Mostro dell’Alabama.

Mi soffermo in modo particolare sull’immagine, in bianco e nero, che ritrae Theodore, in manette, scortato da due guardie all’interno di un’aula di tribunale: indossa un semplice paio di jeans e una camicia con le maniche arrotolate all’altezza dei gomiti; i capelli lunghi gli sfiorano le spalle ed il viso, completamente sbarbato, è attraversato da un sorrisetto compiaciuto e sornione, che stona con l’ambiente circostante.

È giovane, terribilmente giovane, forse appena vicino ai trent’anni.

Eppure, nonostante ciò, è un’altra la foto che cattura totalmente la mia attenzione, al punto da lasciarmi senza fiato: la scena ritratta è simile, anche se questa volta è a colori e più recente, ma non sono gli agenti o il viso di Theodore a sconvolgermi, bensì i vestiti che lui indossa.

Perché sono gli stessi che indossava l’ultima sera in cui l’ho visto, quando avevo solo cinque anni.

Quando mi ha insegnato il trucchetto per imparare le tabelline.

Raccolgo tutti i fogli in fretta e, dopo averlo acceso con un fiammifero, li lascio cadere uno ad uno dentro al camino: le fiamme avvolgo gli articoli di giornale e le foto segnaletiche, li accartocciano e ben presto li trasformano in piccoli coriandoli di cenere nera; osservo il fuoco scoppiettare allegramente senza pensare a nulla, o almeno sforzandomi di farlo, e mi volto lentamente in direzione della porta principale quando alle mie orecchie giunge un basso cigolio.

E questa volta ad apparire non è Ashley, ma Theodore di ritorno dal viaggio.

“Ehi” lo accolgo, parlando a bassa voce, riuscendo perfino a sorridere “bentornato. Come è andato il viaggio?”.

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Capitolo 22
*** Masks; Parte Uno (Theodore) ***


A volte un uomo non può fare altro che arrendersi a ciò che il destino ha in progetto per lui.

Anche se questo progetto consiste in una chiamata improvvisa che scuote la tua intera routine e che ti trascina in una vera e propria follia, esattamente come accade a me una mattina, dopo aver accompagnato Ben a scuola in perfetto orario.

“Tesoro!” esclamo, con un sorriso, rispondendo alla chiamata “sono davvero contento di sentirti. Sai, dopo il nostro ultimo incontro credevo che non avrei mai più avuto notizie su di te. Anzi. Temevo di leggere della tua scomparsa su tutte le prime pagine del giornali, già immaginavo i titoli: figlia dell’ex governatore dell’Illinois scomparsa misteriosamente, la polizia brancola nel buio. Si cercano indizi nel suo passato da tossicodipendente”

“Mi ha chiamata Lincoln” m’informa Sara, ignorando la mia battuta, parlando velocemente e senza riprendere fiato “ha detto che Michael è stato avvelenato e ha bisogno di una trasfusione di sangue il prima possibile, o potrebbe non farcela. Sto andando da lui”

“Aspetta… Aspetta… Aspetta… Cosa? Che cosa stai per fare? Dove sei ora?”

“All’aeroporto, sto aspettando il volo, non posso parlare ora. Mi sembrava giusto informarti visto che siamo entrambi coinvolti”.

Senza aggiungere altro, Sara interrompe la telefonata ed io mi ritrovo a fissare lo schermo del mio cellulare.

Il primo pensiero che riesco a formulare riguarda l’ultimo misterioso biglietto che ho ricevuto da Kaniel Outis, quello attaccato al parabrezza della Mustang nera, e vedo quelle parole imprimersi nella mia mente, come un sinistro presagio scritto con dell’inchiostro scuro, al quale io, mio malgrado, non posso sottrarmi: ‘goditi tutto questo, Teddy. Capirai da solo quando arriverà il momento di ricambiare il favore’.

E temo che quel momento sia proprio arrivato, anche se significa compiere un’azione difficile e dolorosa: allontanarmi da Benjamin senza avere la certezza di rivederlo nuovamente.

Dentro di me maledico Scofield ed il suo tempismo tutt’altro che perfetto.

L’avessi saputo prima, avrei salutato mio figlio in modo diverso prima di lasciarlo entrare a scuola.

Ma, esattamente come dice un vecchio detto, è inutile piangere sul latte versato, e così percorro velocemente l’ultimo tratto che mi separa da casa e, mentre infilo dei vestiti dentro un vecchio e logoro zaino (lo stesso che mi ha accompagnato nel mio primo viaggio a Donaldson, cazzo), chiamo l’unica persona si cui mi fido ciecamente, ed a cui posso affidare Ben durante la mia assenza: Gracey.

La prego di raggiungermi il prima possibile, senza aggiungere altro, e lei si presenta nella mia camera da letto neppure una decina di minuti più tardi, senza fiato a causa della corsa che deve aver fatto.

“Stai partendo?” mi domanda, allarmata.

“È successo un casino” dico, e senza preoccuparmi di nasconderlo mi sposto in bagno per prendere la pistola, controllare con accuratezza che sia carica, e riporre anche quella dentro lo zaino; Gracey spalanca gli occhi alla vista dell’arma e poi mi sommerge di domande, una più carica di preoccupazione dell’altra.

“Perché hai appena preso la pistola? Che cosa è successo? Di quale casino stai parlando?”

“Io… Devo assentarmi da Chicago per qualche giorno, forse perfino per una settimana” mormoro, passandomi la lingua sulle labbra secche “non so ancora per quanto tempo starò via, ma devo partire subito, ho il volo tra poche ore, e non posso lasciare Ben insieme ad una baby-sitter. Ecco perché ti ho chiesto di venire subito qui, Gracey, sei l’unica persona a cui posso chiedere questo favore: ho bisogno che ti occupi di mio figlio durante la mia assenza. Scusami per il poco preavviso, ma come ti ho già detto si tratta di un’emergenza”.

Vorrei che capisse.

Vorrei non ricevere altre domande alle quali sarei costretto a rispondere con bugie su bugie.

Ma ovviamente niente va mai secondo i piani.

“E dove devi andare?”

“Lontano”

“Lontano? Che cosa significa che devi andare lontano? Quanto lontano da qui?”

“Molto. Nello Yemen”.

Dalle labbra di Gracey esce un gemito strozzato che non riesce a reprimere.

“Nello Yemen? Non puoi andare là! C’è la guerra civile… C’è l’ISIL… Per quale motivo devi andare nello Yemen?”.

Ecco.

Un’altra domanda spinosa.

“Credimi, Gracey, non sono affatto ansioso di andare in uno Stato assediato dai terroristi, ma non ho altra scelta. Si tratta di una faccenda molto più grande di me e di te. Una faccenda in cui, mio malgrado, sono completamente coinvolto ed a cui non posso sottrarmi. E poi, non posso permetterle di andare là da sola”.

Mi mordo la punta della lingua nello stesso momento in cui termino di pronunciare le ultime parole, perché l’agitazione e l’ansia mi hanno fatto parlare troppo e dire cose che non dovevo dire che, come accade spesso in situazioni come questa, non sono passate inosservate.

“Di chi stai parlando? Chi è questa donna? La madre di Ben?”

“No, è Sara” sospiro, prima prendere lo zaino e scendere al pianoterra.

“Sara? La madre di Mike? Per quale motivo devi andare con lei nello Yemen?” mi chiede Gracey, continuando a seguirmi, ed il silenzio improvviso che cala mi fa chiudere gli occhi, perché non promette nulla di buono, e lo confermano le parole che lei stessa pronuncia subito dopo “tu e lei vi conoscevate già, vero? C’è stato qualcosa tra voi due in passato, ma tu non vuoi parlarmene, ho indovinato?”.

Sospiro di nuovo, mi allontano dalla porta del garage e la raggiungo; le appoggio le mani sulle guance e la guardo negli occhi, costringendola ad alzare il viso per ricambiare.

Nelle sue iridi scure, velate dalle lacrime, leggo un profondo risentimento che non posso condannare, ma che non posso neppure lenire con delle dovute spiegazioni perché non ho tempo a mia disposizione e perché non posso farlo.

Non ora, almeno.

“Ti posso assicurare che l’intera faccenda è molto più complicata di così, Gracey, e ci sono ancora tantissimi punti oscuri che io per primo non riesco a capire. Ed io spero di trovare le risposte che mi mancano con questo viaggio. Si, io e Sara ci conosciamo da anni, ma tra noi due non c’è mai stato qualcosa. Ti prometto che al mio ritorno ti spiegherò ogni singola cosa, ma adesso devo andare o rischio di perdere il volo, Gracey, e la posta in gioco è altissima…” sussurro, cercando di contagiarla con un mezzo sorriso, senza però riuscirci “va bene?”.



 
Non è affatto complicato trovare la signora Scofield nel Terminal dell’aeroporto di Chicago.

I suoi capelli fiammeggianti ed il suo fisico statuario non passano di certo inosservati, e se poi si aggiungono diversi tic nervosi, come mordersi il labbro inferiore fino a farlo quasi sanguinare, ed un uso quasi convulso del cellulare, allora il campo si restringe notevolmente.

“Oh, mio dio!” esclama, con un sussulto, rischiando di perdere la presa sul piccolo apparecchio tecnologico “si può sapere che cosa ci fai qui?”

“Per rispondere alla tua domanda, fiorellino, devo andare indietro con la memoria ad un mese e mezzo fa, quando sono uscito da Fox River ed ho iniziato a ricevere delle misteriose buste dal mio altrettanto misterioso benefattore. In uno dei fogli c’era scritto che dovevo godermi appieno quei doni inaspettati, e che avrei capito da solo quando sarebbe arrivato il momento di ricambiare il favore: la tua chiamata improvvisa mi ha fatto capire che quel fatidico momento è finalmente arrivato. E poi…” concludo, sistemandomi una cinghia dello zaino sulla spalla destra “non posso di certo lasciare da sola una donna bella e affascinante come te, Sara, in un territorio ostile come lo Yemen. Scofield non me lo perdonerebbe mai, ed io non voglio finire in altri casini che hanno a che fare con lui”

“Non sto andando nello Yemen, ma a Creta. A Finikas. È lì che Lincoln lo ha portato”

“Allora non posso lasciarti andare a Creta da sola. Non sappiamo quello che ci aspetta una volta arrivati. Tu hai bisogno di qualcuno che ti copra le spalle ed io ho bisogno di risposte. Direi che abbiamo entrambi da guadagnare in questo viaggio insieme”

“Io non sono intenzionata a viaggiare insieme a te”

“Ohh, così ferisci i miei sentimenti, fiorellino. Credevo che fossimo diventati amici dopo il nostro ultimo incontro al parco”

“Si è trattato solo di un attimo di debolezza, nulla di più” si affretta a spiegarmi lei, controllando per l’ennesima volta lo schermo del cellulare, in attesa di ricevere ulteriori notizie sulle condizioni del suo marito redivivo; sollevo lo sguardo al soffitto del Terminal, perché non credevo di dover affrontare ancora un muro così insormontabile di diffidenza.

Anche se, con i precedenti che ci sono stati tra noi due, non posso darle torto.

“Sara, non comportarti da ragazzina e guarda in faccia la realtà: al momento io sono l’unico vero amico che hai a tuo fianco, e l’unica persona di cui ti puoi fidare, che ti piaccia o meno. Entrambi siamo coinvolti nell’ennesimo piano del tuo uomo ed entrambi dobbiamo fare questo viaggio a Finikas. E poi, come ti ho già detto, non hai la più pallida idea di quello che ti può aspettare al tuo arrivo… Tra noi due sono io quello ad avere una certa dimestichezza con le armi”

“Hai portato con te una pistola?” mi domanda, con un filo di voce; intuisco subito la fonte della sua preoccupazione e sorrido per tranquillizzarla.
“Sì, ma non verremo fermati ai controlli”

“E come fai ad esserne così sicuro, Bagwell?”

“Ogni ex galeotto ha i suoi trucchi. E poi…” mi fermo per sfilarmi il guanto sinistro “una volta che avranno visto questa, chi mai potrebbe pensare che nasconda una pistola?”.

Nel viso di Sara appare un’espressione di disappunto, ma non controbatte, e tra noi due cala un silenzio che si protrae fino al momento dell’imbarco; sono io stesso ad interromperlo, perché ho bisogno di distrarmi e di non pensare.

Perché, lo ammetto, una parte di me è terrorizzata da ciò che potrebbe aspettarmi.

E così chiedo all’ex dottoressa di Fox River di raccontarmi che cosa è accaduto dopo la mia spedizione punitiva nei confronti di un innocente Kellerman.

“Credo che anche le foto che hai scattato siano state un enorme buco nell’acqua, proprio come nel caso di Paul. Jacob mi ha spiegato che l’incontro con i due sicari era una trappola ben organizzata per riuscire a catturarli e così è stato. Sono andata io stessa alla centrale di polizia per effettuare il riconoscimento”

“Cazzate!” esclamo, con un verso seccato “da professionista in questo settore ti posso assicurare che tuo marito ti ha raccontato un’enorme cazzata, per nulla convincente. Anche perché io stesso l’ho sentito fare il tuo nome e quello di Scofield davanti a quelle persone”

“Forse ti sei sbagliato. Dopotutto hai detto tu stesso che eri lontano e non sei riuscito a sentire l’intero discorso”

“Sì, ma questa parte l’ho sentita molto chiaramente, te lo assicuro”

“Mi rifiuto di credere che Jacob possa c’entrare qualcosa in tutta questa storia. Non è possibile, non è assolutamente possibile” ripete lei, scuotendo la chioma ramata; sto per ribattere, per farle capire che l’uomo che ha sposato non è così perfetto come crede, ma vengo preceduto da un quesito che mi spiazza totalmente “e tu?”
“Ed io cosa?”

“Stai accusando Jacob d’indossare una maschera, ma tu non hai fatto altro che indossarle in continuazione. Anche adesso lo stai facendo”

“Ohh, tesoro, ti posso assicurare che da quando sono uscito da Fox River ho gettato ogni singola maschera, compresa quella di T-Bag. Soprattutto quella”

“E questa redenzione da che cosa ha origine?” mi domanda, scettica, del tutto ignara di avere appena infilato il dito in una piaga dolorosa.

Molto dolorosa e, in un certo senso, imbarazzante.

Mi muovo a disagio sul sedile, schiarendomi la gola nel tentativo di prendere tempo e di trovare le giuste parole per spiegare che cosa mi ha spinto a rivedere completamente la persona che ero stato fino a quel giorno.

“Vorrei poterti dire che nella mia cella è apparsa una macchia di umidità molto simile al volto di Gesù Cristo, come nel caso del compianto John Abruzzi, ma in realtà non è andata così. E non è stato neppure merito della copia della Bibbia che ogni detenuto aveva nella propria cella. Diciamo che… Ecco…” faccio schioccare la lingua contro il palato “può essere che… Nel corso di una notte, mentre cercavo di distrarmi un po’, io abbia avuto… Un lieve fastidio… E può anche essere che sia stato costretto a trascorrere qualche giorno in infermeria”.

Nonostante il mio discorso intricato, tutt’altro che chiaro, Sara afferra subito il punto cruciale della questione e lo esprime, con voce atona, senza fronzoli inutili.

Forse perfino in modo brutale, ed in tono troppo alto.

“Hai avuto un infarto mentre facevi sesso?”

“No!” esclamo, serrando i denti, ammonendola con l’indice destro “io non… Non ho avuto alcun infarto. È stato solo un lieve malore, capito? Ma è bastato per… Farmi rivedere le mie priorità. A tutto il resto ci ha pensato Benjamin”.

Ricevo un’altra occhiata scettica da parte di Sara prima che la sua attenzione si sposti all’oblò: appoggia il mento sul palmo della mano sinistra e osserva, con sguardo assente, il cielo limpido, le nuvole bianche e l’oceano che si espande per chilometri e chilometri sotto di noi.

“E se arriviamo troppo tardi? E se quando mettiamo piede a Creta non ci sarà più nulla da fare per Michael?”

“Ci aspettano più di novemila chilometri da percorrere prima di arrivare a destinazione, e questo significa molte ore di viaggio. Sei davvero sicura che ti convenga tormentarti già adesso con questi dubbi?”

“E se fosse vero quello che ti ho detto al parco? Se Michael è diventato una persona completamente diversa da quella che abbiamo conosciuto? Kaniel Outis, ad esempio…”

“No, non credo” commento, chiudendo gli occhi “anche se non conosco Scofield così bene come lo conosci tu, e di questo il vecchio T-Bag è molto dispiaciuto, sono assolutamente convinto che al nostro arrivo troveremo la stessa persona che è scomparsa sette anni fa, facendo credere a tutti di essersi sacrificata. Come faccio ad esserne così sicuro? Per un semplice motivo: soltanto Michael Scofield può architettare qualcosa di simile. La vera domanda è un’altra: a che scopo organizzare tutto questo? E perché aspettare sette anni? Se posso darti un consiglio, Sara, chiudi gli occhi e cerca di riposarti un po’. Ci aspetta un lungo viaggio, non dimenticarlo, e ricorda che non porta a nulla fasciarsi la testa in anticipo”.

Io per primo cerco di seguire il mio stesso consiglio, ma ben presto mi rendo conto che si tratta di un’impresa tutt’altro che semplice, perché quando riesco ad allontanare la paura ed i dubbi riguardo a questo assurdo viaggio, i miei pensieri tornano in automatico al bacio con Gracey.

Un’altra questione di cui devo occuparmi il prima possibile.



 
Poco dopo il nostro atterraggio, la mia ‘compagna d’avventura’ riceve un messaggio da Burrows, che si affretta a leggere con mani tremanti: fortunatamente non si tratta di cattive notizie, ma dell’indirizzo in cui possiamo trovare lui ed il fratello minore.

Dal momento che né io né Sara conosciamo Creta, decidiamo di prendere un taxi e mentre lei mostra l’indirizzo all’autista, cercando di farsi capire, noto un altro messaggio sul cellulare e questa volta non è da parte di quel gorilla di Burrows, ma dal ‘maritino perfetto’ Jacob.

E senza farmi notare ne scorro velocemente il contenuto.

‘Ti amo, ricorda che sono dalla tua parte. Torna a casa presto’.

Piego le labbra in una smorfia disgustata e mi trattengo a fatica dall’esprimere il mio parere ad alta voce.

Ridicolo.

Un tentativo assolutamente ridicolo e patetico.

Sara è sempre più agitata: il tremolio alle mani si è ormai esteso in tutto il suo corpo, e così allungo la mano destra, stringendo la sua sinistra, per farle capire che andrà tutto bene; lei solleva il viso di scatto, guardandomi negli occhi, sorpresa dal mio gesto.

“Sto bene” dice, con voce improvvisamente ferma e sicura, ma non appena la vettura si ferma davanti ad una vecchia casa, scosta la mia mano, spalanca la portiera del taxi e corre incontro al cognato, abbracciandolo con trasporto, cercando in lui il supporto che non ha voluto accettare da me.

Con mio profondo rammarico.

“Burrows” mi limito a dire, strascicando le parole, ottenendo come risposta un’occhiata poco amichevole, seguita da parole altrettanto poco amichevoli nei miei confronti.
“Si può sapere che cazzo ci fai qui?”

“Prima che tu possa aggiungere altro, Burrows, credo che questa conversazione possa essere rimandata in un altro momento. Non mi sembra il caso di far aspettare una dolce fanciulla che è in trepida attesa di ricongiungersi al suo principe azzurro tatuato. Soprattutto se il principe azzurro in questione ha urgente bisogno di una trasfusione di sangue, non credi?”.

Controvoglia, e con un grugnito, Lincoln è costretto a darmi ragione e ci fa segno di seguirlo all’interno dell’abitazione, dall’aspetto tutt’altro che accogliente; al di là della porta d’ingresso io e la mia compagna di viaggio ci troviamo davanti ad una scena che ci lascia senza fiato: sdraiato su un letto, scosso da brividi continui e con la fronte imperlata di sudore, c’è un uomo dai capelli cortissimi, che mormora parole sconnesse, prive di senso.

Lo stesso uomo che sette anni fa ha stravolto completamente la mia vita e quella di altre otto persone, compresa quella della rossa a mio fianco.

Lo stesso uomo per cui, un tempo, avrei fatto follie pur di vederlo in queste condizioni.

Michael Scofield.

“Ehi…” Sara è la prima a ritrovare la voce perduta; si avvicina al suo uomo e si china su di lui, appoggiandogli una mano sulla guancia sinistra, accarezzandogliela con delicatezza, ed anche se mi trovo dall’altra parte della stanza riesco a vedere con chiarezza le lacrime che le velano gli occhi “mi sei mancato terribilmente…”

“Sara… Sara…”

“No, non parlare. Mi prenderò io cura di te, e poi parleremo. Lincoln, puoi passarmi la mia borsa? Avrei bisogno anche di quell’appendiabiti per effettuare la trasfusione” spiega, preparando il tutto con gesti esperti “il mio gruppo sanguigno è zero negativo, di conseguenza posso donare a tutti gli altri. Se non è destino questo…”

“Vieni. Lasciamoli soli. Se lo meritano dopo tutto questo tempo”.

L’esortazione di Lincoln mi riporta alla realtà, lancio un’ultima occhiata in direzione degli amanti che si sono finalmente ricongiunti, provando una punta di invidia, e poi mi sposto in un’altra stanza che si rivela essere una cucina che non versa in condizioni migliori rispetto al resto dell’abitazione; vago con lo sguardo per tutta la stanza e mi appoggio ad un vecchio mobile, con la speranza che sostenga il peso del mio corpo.

“Dunque… In quale guaio si è cacciato questa volta il tuo adorato fratellino?”

“Non parlare. Tu non dovresti neppure essere qui”

“Mi fa piacere vedere come il tempo sia riuscito a smussare gli angoli appuntiti del tuo carattere, Lincoln, e mi permetto di correggerti su ciò che hai appena detto: io dovevo venire qui, ed è stato proprio Michael a farmelo capire tramite un messaggio criptato. Ma visto che il nostro Michelangelo non è nelle condizioni migliori per fare una bella chiacchierata riguardo ai vecchi tempi, vuoi farmi il fottuto favore di spiegarmi una volta per tutte che cazzo sta succedendo e perché sono stato coinvolto anche io?”

“Forse non sono io a doverti dare tutte queste spiegazioni, ma un’altra persona”.

Corruccio le sopracciglia, perché non capisco il senso delle parole che ha appena pronunciato, ma non ho il tempo di chiedere approfondimenti perché una porta secondaria che conduce all’esterno della casa si apre ed entra un ragazzo che regge una voluminosa busta marrone; lo guardo, in silenzio, ricevendo uno sguardo altrettanto indagatore, e poi mi volto in direzione di Lincoln, per domandargli se è da questo sconosciuto che dovrei ricevere le risposte che attendo da un mese e mezzo.

Ma, per la seconda volta consecutiva, non ho il tempo materiale per farlo, perché la porta si apre ancora, e la calda brezza estiva porta con sé una voce femminile che fa perdere un battito al mio cuore.

“Linc, siamo riusciti a trovare un po’ di provviste e delle bende nuove, come sta…”.

La giovane donna dai lunghi capelli castani si blocca a metà frase nello stesso momento in cui i suoi occhi azzurri incontrano i miei; la busta per la spesa che ha in mano si schianta contro le assi del pavimento, mentre lascia ricadere le braccia lungo i fianchi, ma lei non sembra farci caso perché continua a fissarmi, senza mai sbattere le palpebre.

Questa volta sono io il primo a parlare, anche se la mia voce esce sottoforma di un sussurro strozzato.

“Nicole?”.
 

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Capitolo 23
*** Masks; Parte Due (Theodore) ***


“Scusate, qualcuno potrebbe spiegarmi che cosa sta succedendo? Perché ho l’impressione che l’aria si sia fatta così improvvisamente tesa che potrebbe essere tagliata a fette con la lama di un coltello”.

Ad interrompere bruscamente il silenzio non sono né io né la mia ex compagna e moglie, ma il ragazzo sconosciuto che continua a fissarmi con il sopracciglio destro inarcato; non gli rispondo, lo degno appena di una rapida occhiata e torno subito a concentrarmi su Nicole, perché l’unica persona che deve aprire bocca per dare delle spiegazioni è proprio lei.

“Lincoln, Whip, potete lasciarci da soli per qualche minuto, per favore?” domanda, girando il viso in direzione dei due, sfregandosi i palmi delle mani sulla stoffa dei pantaloni mimetici; Whip, il ragazzo sconosciuto, non controbatte ed esce dalla stanza insieme alla busta marrone e con una scrollata di spalle, Burrows, invece, sembra essere di parere opposto: non solo non si muove di un solo millimetro, ma chiede a Nicole se è davvero sicura della sua scelta.

“Forse dovrei rimanere qui, a vigilare sulla sua incolumità” insiste, con uno sguardo che, se potesse, mi ridurrebbe in cenere in questo stesso istante; l’ostilità di Lincoln nei miei confronti non mi è nuova, so perfettamente che mi odia dal momento in cui le nostre strade si sono incrociate a Fox River per la prima volta, eppure nel suo sguardo duro c’è qualcosa che mi lascia perplesso, che mi confonde e che non riesco a capire.

Questo, almeno, finché Nickie non si avvicina a lui e mormora alcune parole che svelano l’arcano mistero.

“Non ti preoccupare. Vai di là con lui” dice, esitando prima di continuare “va tutto bene, amore”.

Amore.

Questo appellativo inizia a echeggiare nella mia testa, paralizzandomi la mente, e sento un dolore al petto simile, ma allo stesso tempo diverso, a quello provocato dal ‘lieve malore’ che ho avuto a Fox River durante i miei ultimi sette anni di detenzione.

La mia ex compagna e moglie, la madre di mio figlio, ha appena chiamato ‘amore’ quel grosso e ottuso gorilla di Lincoln Burrows.

È evidente che mi stia sfuggendo qualcosa.

Il soggetto maschile in questione mi rivolge un’ultima occhiata poco amichevole prima di uscire dalla cucina e chiudere la porta alle proprie spalle; Nickie strofina ancora le mani sui pantaloni, s’inginocchia sul pavimento e, lentamente, raccoglie il contenuto della busta che ha lasciato cadere, occupandosi dei cocci che appartengono ad una bottiglia di vodka.

“Tu non dovresti essere qui” inizia, ripetendo le stesse parole del suo ‘amore’ “questo non faceva parte del piano”.

Aspetto che aggiunga altro, ma quando dalle sue labbra non esce più nulla decido di prendere in mano la situazione: mi schiarisco la gola e, senza neppure sapere dove riesco a trovare tutta questa freddezza, parlo in tono calmo.

“Tutto qui? Sono queste le tue spiegazioni?”

“Te l’ho appena detto, non dovresti essere qui perché stai compromettendo l’intero piano. Di quali spiegazioni stai parlando?”

“Me lo stai chiedendo veramente?” chiedo, allibito, reprimendo a stento una risata isterica “davvero non riesci a capire a quali spiegazioni mi sto riferendo? Ohh, d’accordo, allora permettimi di rinfrescarti un po’ la memoria, Nicole… Tanto per iniziare potresti spiegarmi perché continuate tutti a ripetere che non dovrei essere qui visto che ho ricevuto un biglietto che affermava il contrario, o che cosa vuole Michael da me questa volta. Potresti spiegarmi perché non sei a Chicago con Benjamin. Potresti spiegarmi per quale motivo hai appena chiamato ‘amore’ Burrows o perché non sei mai venuta a Fox River durante questi sette anni. Come puoi vedere tu stessa la lista delle spiegazioni che mi devi dare è molto lunga, da dove preferisci iniziare? Ohh, e visto che siamo in argomento, potresti anche spiegarmi come mai sei più viva di quello che dovresti essere? Karla mi ha detto…”

“Lo so benissimo quello che Karla ti ha detto, perché sono stata io stessa a fornirle delle precise istruzioni” m’interrompe lei, senza mai staccare lo sguardo dai cocci di vetro che impila sul palmo della mano sinistra, e la sua rivelazione mi fa spalancare gli occhi e la bocca “e nessun bigliettino ti diceva di venire a Creta. Ti stai riferendo a quello che hai trovato sul parabrezza della Mustang, immagino. Lo sapevo. Lo avevo detto a Mike che era un messaggio troppo vago e che stava sopravvalutando la tua perspicacia, ed infatti non hai capito nulla. Dovresti andartene subito e prendere il primo volo per Chicago prima che Lui scopra che sei venuto anche tu qua, a meno che non lo sappia già, e questo significherebbe che non sono più in pericolo solo le nostre vite, ma anche quella di Benjamin”

“Lui?”

“Poseidone”

“L’agente corrotto della CIA? Quello che voleva far evadere Abu Ramal?”.

Finalmente Nicole si degna di sollevare lo sguardo verso di me, bloccandosi con la mano destra a pochi centimetri di distanza dal pavimento per eliminare le ultime tracce del disastro; i suoi occhi azzurri mi provocano un tuffo al cuore, anche se sono completamente diversi da quelli della ragazza ingenua ed innocente che ho conosciuto sette anni fa.

La loro bellezza non è mutata col tempo, ma sembrano appartenere ad una sconosciuta.

“Come fai a sapere queste cose?”

“Ah-ah-ah! Non sei nella posizione migliore per fare domande. Qui l’unico ad avere il diritto di farle sono io e non prenderò nessun aereo per Chicago fino a quando non avrò tutte le risposte. Sara sta effettuando la trasfusione di sangue a Scofield, io non sono un esperto in questo settore, ma non ci vuole un genio per intuire che è un’operazione che richiede molto tempo, di conseguenza ne abbiamo altrettanto per poter parlare con calma”.

Nickie si alza, getta i cocci di vetro dentro il lavandino e poi mi fronteggia a braccia incrociate, appoggiandosi ad un mobile alle sue spalle.

“D’accordo” sentenzia, tormentandosi il labbro inferiore “anche se così facendo sto andando contro agli ordini che ho ricevuto da Mike, d’accordo, avrai le tue risposte. Che cosa vuoi sapere?”.

La sua freddezza, la sua compostezza, i suoi occhi che non lasciano trasparire la minima traccia di emozione, tutto nella sua persona mi getta nella confusione più totale, ed anche se da un lato voglio assolutamente sapere perché è sparita per sette anni e perché ha ordinato a Karla di raccontarmi quella serie di bugie, dall’altro sono terrorizzato dalla prospettiva di ricevere il colpo di grazia; e così, dopo avermi inumidito le labbra con la punta della lingua, preferisco concentrarmi sulla sfera meno intima e privata che riguarda entrambi.

“Voglio sapere che cosa sta succedendo”

“Molto bene” commenta, con un sorriso appena accennato e che non arriva a contagiarle gli occhi, raccontandomi, poi, quella che sembra essere la degna trama di una serie TV “sette anni fa, quando l’intera operazione Scylla si è conclusa, Michael è stato contattato da un agente sottocopertura noto con il nome di Poseidone. Era rimasto particolarmente colpito dalle sue imprese, aveva visto in lui un grande potenziale che non poteva lasciarsi scappare e così lo ha attirato a sé tramite un ricatto: Kellerman aveva promesso a tutti noi una nuova vita e delle fedine penali pulite, ma non aveva nelle proprie mani il vero potere per realizzare questo. Poseidone, invece, sì. Ha detto a Michael che non dovevamo più preoccuparti di nulla, ma in cambio lui doveva sparire dalla circolazione e diventare un suo agente, o sarebbe successo qualcosa di molto grave. Inutile dirti che l’arresto di Sara, il tentativo di avvelenamento ed il pestaggio che ha subito in carcere a Miami erano solo un assaggio di quello che poteva fare. Mike è stato costretto ad accettare ed a inscenare il suo sacrificio, e non ha mai provato a ribellarsi agli ordini che aveva ricevuto. Questo, almeno, fino a quattro anni fa. Poseidone lo aveva chiamato per parlargli del nuovo incarico che doveva svolgere, Mike non sapeva che all’incontro sarebbe stato presente anche il vicepresidente della CIA, e non sapeva assolutamente che quest’ultimo era contrario al modo in cui Poseidone operava ed a quello che stava facendo. I due uomini hanno litigato, Poseidone ha sparato al vicepresidente, uccidendolo, e Michael ha ricevuto l’ordine di spostare il corpo. E lì è stato incastrato. Perché quel bastardo ha fatto in modo di far sparire, dalle telecamere di sorveglianza, tutte le immagini che ritraevano il momento dell’omicidio, lasciando solo quelle in cui si vedeva il corpo che veniva spostato, facendo ricadere tutta la colpa sulle spalle di Michael. A quel punto ha capito che l’intero incontro non era stato altro che una trappola ben architettata ed ha iniziato a progettare un piano per sistemare ogni cosa”

“Tutto questo è molto affascinante” commento, cercando di immagazzinare l’enorme quantità di informazioni che il mio cervello ha appena ricevuto “ma ancora non riesco a capire io che cazzo c’entro”

“Questo perché il tuo momento non è ancora arrivato. Ti ho già detto troppo. E tu come fai a sapere dell’esistenza di Poseidone? Chi te ne ha parlato? Io ho risposto alla tua domanda, ma adesso devi rispondere alla mia”

“Sara ha ricevuto la visita di due sicari ed era convinta che dietro ci fosse Kellerman. Ha mandato me a fare una bella chiacchierata, e ho rimediato una piccola parte di risposte e un buco nella spalla destra. Ohh, non ti preoccupare, ormai sono guarito”

“Sei un irresponsabile! Non avresti mai dovuto farlo! Hai messo in pericolo la tua vita e quella di Benjamin e… Il tuo cellulare”

“Il mio cellulare?”

“Sta squillando”.

Solo ora percepisco la vibrazione proveniente da una tasca della giacca; non faccio in tempo a rispondere alla chiamata e quando leggo il nome ‘Gracey’ sulla schermata emetto un lungo sospiro.

Esco dall’abitazione senza dire una parola, digito velocemente il suo numero, ed attendo una risposta ad occhi chiusi, massaggiandomi le tempie con la mano destra, perché sento di essere ad un solo passo di distanza da un mal di testa indimenticabile e la voce di Gracey, incredibilmente, si rivela un vero e proprio toccasana per i miei nervi.

Peccato che l’incantesimo si spezzi nello stesso momento in cui, in tono agitato, mi spiega il motivo della sua chiamata: a quanto pare mio figlio ha avuto la brillante idea di trascorrere, a sua insaputa, un’intera notte nella casa sull’albero, con la speranza di ammalarsi e di anticipare, così, il mio ritorno a casa.

Sospiro di nuovo, per nulla sorpreso da questo suo gesto discutibile.

In fin dei conti è un Bagwell, ed in quanto tale ha ereditato una vena di profonda bastardaggine.

Da me, ovviamente.

Anche se dopo i recentissimi sviluppi inizio a pensare che pure Nicole abbia dato il suo abbondante contributo.

“Benjamin, Gracey mi ha appena raccontato tutto” lo ammonisco subito, dopo essermelo fatto passare “ma si può sapere che cosa ti è preso? Non mi sarei mai aspettato un gesto simile da un ragazzino intelligente come te. Sai benissimo quanto sia delicata la tua salute, avresti potuto stare molto male e finire in ospedale di nuovo… Che cosa hai da dire a tua discolpa?”

“Non volevo farti preoccupare, Theodore…”

“Ahh, davvero? Perché da quello che mi è stato riferito il tuo intento era proprio questo”

“Volevo farti preoccupare solo un po’. Quel tanto per farti tornare a casa. Ci sono riuscito?”

“Ben, ho ancora molto da fare qui, non so quando riuscirò a tornare a Chicago… D’accordo?”

“Ti prego, torna a casa! Ho bisogno di te, papà!”.

Cazzo.

Così piccolo e già così abile a manipolare le persone.

Inizia ad assomigliare fin troppo a me.

“D’accordo, ti prometto che prenderò il primo volo per Chicago, entro ventiquattro ore sarò di nuovo da te. Ma non credere di passarla liscia, Ben, perché non appena starai meglio noi due dobbiamo fare una lunga chiacchierata da uomo a uomo” mi arrendo alla fine, sospirando rassegnato “Benjamin?”

“Sì?”

“Ti voglio bene, non dimenticarlo mai”

“Stavi parlando con nostro figlio?”.

La voce ansiosa della mia ex compagna mi coglie del tutto impreparato: concentrato com’ero a parlare e rimproverare il piccolo criminale, non mi sono neppure accorto della sua presenza.

“Forse. Potrebbe essere”rispondo laconico; la supero in fretta per rientrare in cucina e lei non perde tempo a seguirmi, con un’espressione sconvolga stampata sul volto dai lineamenti delicati.

Finalmente ha gettato la maschera impassibile che indossava dall’inizio del nostro incontro.

“Stai davvero facendo lo stronzo?”

“Di nuovo non sei nella posizione migliore per rivolgermi questo genere di accuse. Semplicemente non capisco per quale motivo dovrei darti spiegazioni riguardo a Benjamin o a quello che ci siamo detti visto che negli ultimi sette anni hai preferito lasciarlo nelle mani di una semisconosciuta, che nutre un profondo odio nei miei confronti, anziché stare a suo fianco e crescerlo. Almeno sei stata informata che soffre di una grave forma di asma fin dalla nascita o te la sei svignata con Scofield prima? L’ho capito che tra voi due c’è un rapporto molto più profondo di quello di un tempo, hai avuto una storia con lui prima di cadere tra le braccia altrettanto tatuate del fratello maggiore?”

“Non ci posso credere, stai davvero facendo lo stronzo” ribatte lei, scuotendo la testa amareggiata “tu non sai neppure che cosa mi ha spinta a prendere questa decisione, e ti posso assicurare che non l’ho fatto a cuor leggero. Per te è stato tutto molto più semplice mentre eri rinchiuso a Fox River, perché eri all’oscuro dell’esistenza di Benjamin, per me è stato terribilmente difficile, ma sono stata costretta a farlo per non mettere in pericolo la sua vita. Ma tu sei troppo ottuso ed idiota per capirlo”

“A tal proposito, potresti approfittare di questa occasione unica ed irripetibile per spiegarmi una cosa semplicissima. Se mio figlio…”

“Nostro figlio. Quando parli di lui devi dire ‘nostro figlio’. L’ho portato io in grembo per nove mesi, tu hai dato solo un piccolo contributo iniziale”

“Se mio figlio è nato sette anni fa…” continuo, ignorando apertamente le sue proteste e la frecciatina gratuita “ciò significa che sei rimasta incinta mentre eravamo in Alabama, ed anche se entrambi sappiamo quello che è accaduto dopo, le occasioni non ti sono mancate per dirmi che sarei diventato padre: perché non lo hai fatto?”

“E quando avrei dovuto farlo? Durante quale occasione? Quando eri rinchiuso a Sona e non volevi neppure guardarmi in faccia? Quando hai tradito l’intera squadra durante l’operazione Scylla? Quando ti ho impedito di abusare di Sara? O quando sono venuta a patteggiare con te mentre eri rinchiuso a Miami e la tua unica preoccupazione era di ricevere dei soldi in cambio di un aiuto per far evadere Sara? Ohh, aspetta, oppure quando sei ritornato a Fox River a spassartela in cella? In quale di questi magici momenti avrei dovuto dirti ‘congratulazioni, Theodore, tra nove mesi diventerai padre’?”

“Ammetto di aver sbagliato in diverse occasioni” mormoro, dopo una lunga pausa “ma quello che tu hai fatto, Nicole, è molto più grave ed ancora non riesco a trovarci un senso logico”.

Nickie si avvicina, per fronteggiarmi, eliminando la distanza che c’è tra noi due; nei suoi occhi azzurri, freddi come una spessa lastra di ghiaccio, brucia una fiamma carica di un odio indescrivibile, che mi lascia ancora più confuso ed atterrito, e che è più dolorosa di una coltellata allo stomaco.

Ed io in questo campo sono ormai un esperto, visto che in cinquantatre anni di vita ne ho ricevute parecchie, sei delle quali in un unico colpo da John Abruzzi.

“Non ti permettere” mi sibila contro, a denti stretti “non ti permettere mai più di dire una cosa simile. Te l’ho già detto che non è stata una decisione a cuor leggero e tu sei l’ultima persona sulla faccia della Terra che può permettersi di puntarmi il dito contro. Dopo tutto quello che mi hai fatto… Dopo tutto il dolore che mi hai recato… Ma tu hai la minima idea di quello che sette anni fa ho sacrificato per stare a tuo fianco? Finalmente, dopo tanto tempo, stavo riuscendo a crearmi una nuova vita e poi sei arrivato tu, e tutto si è sgretolato: il duro lavoro di mesi e mesi gettato al vento per colpa di un idiota che ragiona con l’uccello”

“Anziché elogiare le mie qualità, potresti spiegarmi una volta per tutte che cosa ti ha costretta a seguire Scofield nello Yemen?”

“La gratitudine”

“La… Gratitudine?”

“Sì, la gratitudine ed un debito che avevo nei suoi confronti. Accettando il ricatto di Poseidone, Michael è stato costretto a troncare ogni rapporto con Sara e Linc, ma aveva bisogno di avere dei validi alleati dalla sua parte, qualcuno di cui poteva fidarsi ciecamente… Si è preso cura di me per tutto il tempo della gravidanza, mi ha aiutata, mi ha sostenuta…”

“E tu hai abbandonato Benjamin per un senso di gratitudine?”

“Ancora una volta non capisci proprio un cazzo e non mi lasci il tempo di spiegare. Dopo il tuo arresto mi sono ritrovata completamente sola. Michael non aveva nessun obbligo nei miei confronti, eppure è stato a mio fianco dandomi tutto il supporto di cui avevo bisogno, non potevo non ricambiare, ma allo stesso tempo non potevo rischiare di mettere in pericolo la vita di Benjamin... Dopo la sua nascita l’ho affidato alle cure di Karla perché sapevo che con lei era al sicuro e che non gli sarebbe accaduto nulla. Poseidone non sa dell’esistenza di Benjamin, ed è meglio così. Deve continuare a pensare che non ci sia altro con cui tenermi in pugno”

“Perché? Sei stata incastrata anche tu?”

“Sì, ma lo avevo già messo in conto. E così è stato” mormora lei, con un vago sorriso che le aleggia sulle labbra; si allontana di qualche passo ed interrompe il contatto visivo con me, preferendo concentrarsi su un punto indefinito della tappezzeria incrostata “ricordi quando siamo scappati con i cinque milioni di dollari dallo Utah?”

“Sì” rispondo, con un semplice monosillabo, bloccando appena in tempo una valanga di ricordi, alcuni di essi per nulla piacevoli.

“E ricordi la notte in cui ti ho raccontato il mio passato?”

“Sì. Sì, me lo ricordo”

“Non sono stata del tutto sincera con te in quell’occasione”.

Corruccio le ciglia, confuso, anche se ormai inizio a non sorprendermi più delle parole che escono dalla sua bocca.

“Stai dicendo che ti sei inventata tutto?”

“La parte riguardante quel bastardo che mi faceva da padre era vera. Ed era vera anche quella di mia madre che fingeva di non vedere i segni che avevo su tutto il corpo. Ma quella dell’incendio che non volevo provocare… Quella si è svolta in modo leggermente diverso” si blocca per qualche istante, forse per lasciarmi elaborare la rivelazione che mi ha appena fatto o forse perché sta rivivendo quel momento con gli occhi della mente “non è stato un incidente. Ho dato volontariamente in pasto alle fiamme quella maledetta casa. Avevo preparato tutto da giorni e tenevo le taniche di benzina ben nascoste in una nicchia nel muro della mia camera da letto. Ho somministrato ai miei genitori una pesante dose di sonnifero a loro insaputa, e, quando sono crollati sul divano, davanti alla TV accesa, ho preso un martello dal capanno degli attrezzi… Ed ho spaccato loro il cranio. Dovevano pagarla entrambi, anche quella puttana che ha sempre chiuso gli occhi e girato il viso dall’altra parte. Quando non è rimasto altro che una poltiglia informe al posto delle loro teste, ho dato fuoco a tutto e sono scappata lontano da quel luogo… Sai, è quasi comico il fatto che il mio primo omicidio sia stato, in realtà, un duplice omicidio”

“Primo?”

“Ohh, sì, ce ne sono stati altri. Quattro per l’esattezza, se la memoria non m’inganna”.
 

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Capitolo 24
*** Masks; Parte Tre (Theodore) ***


“Quattro?” sollevo il sopracciglio destro, sperando di aver capito male, ma Nickie annuisce con il capo fugando immediatamente ogni mio possibile dubbio, e sono costretto a deglutire a vuoto prima di chiederle altre spiegazioni “hai davvero ucciso altre quattro persone? E chi… E chi erano?”

“Riguardo a questo puoi stare tranquillo perché le mie vittime erano tutt’altro che innocenti. Non avevo soldi con me quando sono scappata da casa e neppure una macchina, e così ho dovuto chiedere diversi passaggi. A volte è andato tutto bene, altre volte ho trovato dei porci che hanno tentato di approfittare della situazione e ad allungare le mani. Così ho dato loro il benservito e li ho ripuliti per bene. Ho sempre fatto attenzione a scaricare i corpi in luoghi isolati, in un caso sono ricorsa ad una palude, lasciando agli alligatori il compito di non lasciare alcuna traccia, ma evidentemente non sono stata così brava come pensavo visto che Poseidone ha scoperto qualcosa ed è riuscito a risalire subito a me. Gli basta un semplice schiocco di dita per mandarmi in prigione” emette un breve sospiro prima di proseguire “Nicole Baker è solo l’ultima di una lunga serie di identità fittizie che sono stata costretta ad assumere per sfuggire al mio passato e per ricrearmi una nuova vita, e tutto sembrava così perfetto: una ragazza innocente, dai grandi occhi azzurri, arrivata da una cittadina di campagna. Mi ero perfino tinta i capelli di biondo per entrare meglio nel personaggio… Ma poi sei arrivato tu”

“Tesoro, non puoi pretendere che un castello di carta non venga spazzato via dal primo soffio di vento. È così che funziona quando ci si rifugia in una bolla di sapone, te lo dico per esperienza personale. Ma visto che avevi trovato il tuo equilibrio perfetto, non capisco per quale motivo hai assecondato il mio corteggiamento a Fox River: quando ti ho confidato dell’evasione, avresti potuto correre subito da Pope e raccontargli tutto, così non ci sarebbero state ripercussioni”

“Mio dio, non posso crederci! In sette anni sei diventato terribilmente ottuso! Non l’ho fatto perché mi sono innamorata di te, quella parte non era una recita”.

Adesso è il mio turno di scoppiare a ridere, guadagnandomi un’occhiataccia da parte della mia ex compagna.

“Dubito seriamente che tu sia mai stata innamorata di me, non dopo tutto quello che ho appena scoperto”

“Idiota! Non capisci proprio un cazzo!” esclama, ormai esasperata “e secondo te avrei buttato al vento l’equilibrio perfetto che ero riuscita finalmente a trovare per un sentimento che non provavo veramente? Io ero innamorata di te. Ti amavo così tanto che non ho pensato neppure per un secondo di denunciare l’evasione. Ero consapevole di quello che sarebbe accaduto dopo, ero consapevole del fatto che avrei dovuto ricominciare a scappare, a nascondermi ed a convivere con la paura di essere riconosciuta ed arrestata in qualunque momento, ma ero pronta ad affrontare ogni rischio per te. Perché credevo davvero alla nostra storia e Benjamin ne è la prova… Ma tu, tu hai rovinato ogni cosa per il tuo egoismo”

“Se ti stai riferendo ancora a Scylla…”

“Ti avevo chiesto di non badare al resto della squadra! Ti avevo chiesto di pensare solo a noi due ed a quello che ci era stato promesso, ma ovviamente non ci sei riuscito perché dovevi dimostrarti il solito bastardo doppiogiochista! Ma ti rendi conto che se avessi rispettato i patti, Kellerman non ti avrebbe sbattuto di nuovo in prigione e tutto sarebbe stato diverso?”

“Ma se la memoria non m’inganna in quell’occasione Kellerman ha riposto la decisione nelle vostre mani, e siete stati voi a votare per il mio ritorno a Fox River… Non mi hai mai detto quale è stato il tuo voto, anche se non faccio fatica ad immaginarmelo”

“Se ti stai chiedendo se sono stata l’unica ad opporsi, allora mi dispiace deluderti perché non è stato affatto così. La decisione è stata unanime”

“Esattamente come sospettavo” commento, con un ghigno, e Nicole si volta di scatto a guardarmi: la distanza tra noi due svanisce nuovamente e ricevo uno sonoro schiaffo sulla guancia sinistra, che risuona per tutta la stanza.

“Non ti permetto di fare del sarcasmo, Bagwell! Come avrei potuto essere dalla tua parte in quell’occasione? Avevi superato ogni limite, avevi tradito la mia fiducia ed avevi gettato nel cesso la prospettiva di una vita insieme dopo tutto quello che io avevo fatto per te. Ma ti rendi almeno conto di questo? Ti rendi conto di tutto quello che io ho fatto per te da quando sei evaso da Fox River?”

“Anche la tua recentissima relazione con Burrows rientra nella categoria di cose che hai fatto per me?” domando, in tono stanco, massaggiandomi la parte lesa.

E la mia lingua biforcuta mi fa guadagnare un altro schiaffo, questa volta sulla guancia destra.

“Non ti permettere di mettere Lincoln in mezzo a questa faccenda”

“Mi permetto eccome, invece, dal momento che siamo tutti coinvolti e lui non fa eccezione”

“Avevo bisogno di una persona che mi ascoltasse e che mi rispettasse, e che tu ci creda o no quella persona è proprio Linc. È successo tutto così in fretta che…”

“Va bene, va bene, basta così” mormoro, alzando la mano sinistra, sentendomi improvvisamente stanco e tutt’altro che intenzionato ad ascoltare come è nata la storia d’amore tra Nicole e quel gorilla manesco di Burrows “direi che ho sentito abbastanza e non c’è altro di cui discutere”

“Che cosa stai dicendo? Abbiamo appena iniziato a…”

“No, noi abbiamo finito, non c’è altro di cui parlare” la interrompo per la seconda volta, portandomi l’indice destro alle labbra, facendole capire che non deve più aprire bocca finché io non avrò finito di parlare “ti confesso che in questo momento sono un po’ scosso perché tutto avrei potuto immaginare, tranne di trovarmi di fronte a… Questo. Ma il mio stato d’animo non ha nulla a che fare con ciò che sto per dirti e non si tratta di una vendetta personale perché hai abbandonato me e Benjamin, buttandoti direttamente tra le braccia del tuo ‘amore’. Non m’importa se il mio momento all’interno del piano di Scofield non è ancora arrivato, io mi chiamo fuori, proprio come avrei dovuto fare sette anni fa. Aspetterò che Sara abbia finito con la trasfusione di sangue e poi tornerò a Chicago, e non voglio più sentire una sola parola riguardo a tutto questo casino. E per quanto riguarda te, Nicole, o qualunque sia il tuo vero nome…”

“Bagwell, si può sapere che cazzo stai dicendo?” mi domanda Nickie, con voce stridula, disubbidendo al mio tacito ordine “non puoi tirarti indietro!”

“E per quanto riguarda te” ripeto una seconda volta, alzando il tono di voce e faticando a mantenere il controllo “non sono intenzionato a toglierti un solo capello perché sei la madre di mio figlio e perché sono sicuro che Ben non lo vorrebbe, ma se provi ad avvicinarti a lui o ad avere il più piccolo contatto, ti ucciderò con le mie stesse mani nel modo più doloroso possibile e mi occuperò personalmente di far sparire ogni singolo pezzo del tuo corpo dalla faccia della Terra, perfino dallo sguardo onnipresente di Poseidone. Visto che per sette anni ti sei completamente dimenticata dell’esistenza di Benjamin, sono sicuro che potrai continuare ad ignorarlo per il resto della tua vita. Se desideri essere madre, puoi sempre chiedere a Lincoln di darti il ‘piccolo contributo iniziale’ di cui hai bisogno, perché da questo preciso istante Benjamin non è né tuo figlio né nostro figlio. È solo mio figlio e tu hai perso il diritto di vederlo e di far parte della sua vita. D’accordo?”.

Il volto della mia compagna assume una sfumatura pallida e grigiastra prima di avvampare improvvisamente, a causa di una furia incontrollabile.

“No!” urla “non puoi parlare sul serio e non puoi impedirmi di avere contatti con nostro figlio solo perché ho voluto tenerlo lontano da questa storia per non mettere in pericolo la sua vita!”

“Ohh, invece sì. E l’ho appena fatto”.

Ho appena il tempo di pronunciare queste ultime parole che vengo aggredito fisicamente dalla mia ex compagna, e solo l’intervento tempestivo di Lincoln, che la trascina a fatica in un’altra stanza, impedisce alla situazione generale di precipitare ulteriormente; tuttavia non è abbastanza veloce da evitare che le unghie della mano sinistra di Nicole si conficchino nella pelle del mio collo, procurandomi ben cinque graffi dai quali esce qualche goccia di sangue.

Mi porto la mano destra alla gola e quando vedo le dita macchiate di un liquido scarlatto mi lascio scappare un’imprecazione a bassa voce.

“Sai… In qualità di esperto in fatto di donne, non credo che quello sia il modo migliore per riconquistarne una”.

Sollevo gli occhi e guardo il ragazzo, Whip, che mi ha appena rivolto la parola sottoforma di una battuta che poteva risparmiarsi.

Soprattutto in un momento come questo.

Tuttavia, nonostante l’irritazione provocata dal suo intervento non desiderato, è altro ad attirare la mia attenzione.

“Da dove vieni, ragazzo? Hai un accento molto particolare”

“Sono nato e cresciuto in Alabama”

“Ahh, sì, questo spiega molte cose” commento con una bassa risata “è proprio vero che noi gente del sud siamo terribilmente irritanti. E se vuoi un consiglio, ragazzo, impara a tenere a freno la tua lingua prima di ricevere un calcio in culo che ti ricorderai per tutto il resto della tua vita, e non sto parlando per metafora: azzardati solo a socchiudere le labbra e lo riceverai da me il calcio in culo”.

Il mio tentativo di intimidirlo mi si ritorce completamente contro: il giovane, anziché spaventarsi ed uscire a sua volta dalla stanza, si avvicina e mi fronteggia.

“Che cosa hai detto, vecchio?”.



 
Da uno specchietto retrovisore del taxi vedo Sara tornare indietro da Michael, che si regge a fatica sulle proprie gambe, avvicinare il proprio viso al suo e posargli un bacio sulle labbra prima di congedarsi definitivamente e prendere posto sul sedile affianco al mio.

Mi volto per qualche secondo, per guardare il mio nemico di un tempo, e poi mi concentro sulla sua donna, che ha già iniziato a tormentarsi le mani.

Sto per parlare, ma è proprio lei a precedermi.

“Avevi ragione su tutto… Michael mi ha chiesto di vedere una foto di nostro figlio, e mentre scorrevo la galleria del cellulare ne ha vista un’altra di me e Jacob. È lui Poseidone, l’ha riconosciuto subito. Ed io, proprio come una stupida, ci sono cascata ed ho creduto a tutte le assurde bugie che mi ha rifilato. Mi ha usata per sette anni, solo per essere sicuro di avere Michael in pugno”

“Te lo avevo detto, fiorellino, era solo questione di tempo prima che il tuo perfetto maritino gettasse a terra la sua altrettanto perfetta maschera… Che cosa hai intenzione di fare adesso? Hai bisogno di qualcuno che ti copra le spalle fino al ritorno del tuo uomo?”

“No, mi ha già detto come devo muovermi: mi comporterò normalmente con Jacob, per non far sorgere nessun sospetto in lui, e non appena mi si presenterà l’occasione giusta prenderò Mike e scapperemo lontano. Michael verrà da noi quando sarà tutto finito, riuscirà a trovarci”

“Per me, fortunatamente, quel momento è già arrivato”

“Non sapevo nulla di lei” mormora Sara, dopo una lunga pausa, riferendosi a Nicole “non sapevo assolutamente che…”

“Basta così” la interrompo, prima che possa aggiungere altro, esattamente come ho fatto con la mia ex compagna.

Perché, proprio come ho detto a lei, non voglio mai più sentire una sola parola riguardo a tutta questa follia.

Fine dei giochi.

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Capitolo 25
*** My Life; Parte Uno (Gracey) ***


Ha un aspetto orribile: sono queste le prime parole che mi vengono in mente non appena mi soffermo ad osservare il suo viso.

Ha un aspetto orribile, un livido violaceo sotto lo zigomo destro e dei graffi sul collo; eppure, nonostante ciò, reprimo l’istinto di sommergerlo di domande ed attendo che sia lui a darmi delle spiegazioni a riguardo.

“Il viaggio è… Andato” si limita a rispondere in modo criptico, abbandonando lo zaino sui cuscini del divano; chiude gli occhi per qualche secondo, fa schioccare l’osso del collo e torna a fissarmi, con un sorriso forzato “scommetto che il piccolo criminale è al piano di sopra in camera sua”

“Hai indovinato a metà: è al piano di sopra, ma non si trova nella sua camera. Quando si è ammalato ha insistito per dormire nella tua, ed io non ho potuto negarglielo”

“Come sta adesso?”

“Meglio, ma ha ancora la febbre”

“Vado da lui, torno subito”.

Annuisco in silenzio, lo seguo con lo sguardo mentre sale al primo piano e poi torno a concentrarmi sulle fiamme che ancora scoppiettano allegramente nel camino: ormai non c’è più traccia delle pagine che ho dato in pasto a loro, tuttavia già so che non abbandoneranno mai la mia mente.

Almeno finché non avrò avuto delle spiegazioni approfondite da parte di Theodore.

Attendo il suo ritorno tormentandomi il labbro inferiore, pensando al modo migliore per introdurre l’intero argomento, e quando mi rendo conto che è già trascorsa mezz’ora e lui non è ancora sceso in salotto, decido di alzarmi e di raggiungerlo; e mentre salgo i scalini, uno ad uno, sono costretta a fermarmi più volte per prendere un paio di profondi respiri e rallentare il battito del mio cuore, che sembra essere intenzionato a scoppiarmi nel petto.

Quando socchiudo la porta della camera da letto trattengo involontariamente il respiro: sia padre che figlio sono profondamente addormentati, abbracciati l’uno all’altro.

Non voglio rovinare questo momento e così richiudo la porta, senza fare rumore, scendo nuovamente in salotto ed attendo il suo risveglio sempre più confusa, perché ciò che ho appena visto stona e strida completamente con i numerosi articoli che ho letto e con le immagini che ho visto;  l’ex compagno di mia madre mi raggiunge qualche ora più tardi in cucina, strofinandosi gli occhi con la mano destra, mentre sorseggio una tisana.

“Ti senti più riposato?” gli domando subito, posando la tazza sopra al tavolo, e lui in tutta risposta mi chiede per quanto tempo abbia dormito “un po’, quando sono salita in camera per controllare che fosse tutto apposto stavate già dormendo, ed ho preferito non svegliarti”

“Purtroppo l’aereo non è il mezzo di trasporto più comodo del mondo, soprattutto quando si tratta di dormire”

“Hai fame? È quasi ora di cenare, se vuoi posso preparare qualcosa per entrambi e per Benjamin”

“Lui sta ancora dormendo, e per quanto riguarda me non ho affatto appetito”

“Ne sei sicuro? Hai fatto un lungo viaggio…” insisto, e dopo un paio di tentativi riesco a convincerlo; mi alzo dalla sedia, poso la tazza vuota dentro al lavandino e mi avvicino ai fornelli per preparare dei semplici spaghetti al pomodoro: la prima ricetta che mi viene in mente e che so cucinare senza trasformare la stanza in un campo di battaglia.

Compio tutti questi movimenti in modo meccanico, come un automa, con una morsa allo stomaco provocata non dalla fame, ma bensì dall’ansia: preparare degli spaghetti al pomodoro è solo una scusa per tenere le mani occupate e per pensare al modo migliore per dirgli quello che ho scoperto da Karla e da Ashley.

Ma quando ci sediamo l’uno di fronte all’altra la mia vigliaccheria prende il sopravvento, ed anziché chiedergli del Mostro dell’Alabama, gli domando come si sia procurato i graffi sul collo ed il livido in viso.

“Non ho voglia di parlarne”.

Ecco.

L’ennesima risposta evasiva che mi fa ribollire il sangue nelle vene, e che incredibilmente mi fa trovare la forza di prendere in pugno la situazione; lascio cadere la forchetta che ho in mano e lo guardo incredula, con gli occhi spalancati.

“No! Non puoi rispondermi ancora in questo modo, non lo accetto! Quando sei partito mi hai promesso che al tuo ritorno mi avresti dato tutte le spiegazioni che meritavo, ed io ti ho lasciato andare senza oppormi. Non puoi presentarti dopo quattro giorni trascorsi nello Yemen con delle ferite e dirmi ‘non ho voglia di parlarne’”

“Non sono stato nello Yemen, ma a Creta”

“E perché mi hai raccontato una bugia?”

“Non l’ho fatto volontariamente, io per primo ero convinto che Sara dovesse recarsi là. Solo all’aeroporto ho scoperto che la sua destinazione era un’altra, ma il volo partiva a breve e non ho avuto occasione di avvisarti”

“Allora spiegami che cosa sei andato a fare a Creta e come ti sei procurato quei graffi”

“Gracey, non posso rispondere a questa domanda perché non ho voglia di parlarne e perché a Creta sono successe delle… Delle cose di cui io per primo faccio fatica a capacitarmene. Dovrei spiegarti troppo ed ora come ora non me la sento”

“Sapevo che mi avresti detto parole simili, ero pronta a scommetterci qualunque cosa” mormoro; abbasso lo sguardo verso il mio piatto di spaghetti ancora intatto prima di guardarlo negli occhi, e mi libero dal peso che non riesco più a portare sulle mie spalle “so che mi odierai per questo, ma sentivo di doverlo fare: durante la tua assenza ho frugato nella tua camera da letto. Dentro un cassetto ho trovato delle buste che contenevano dei fogli e nel tuo laptop ho visto tutte le ricerche che hai fatto riguardo ad un uomo di nome Kaniel Outis. Benjamin ha riconosciuto l’indirizzo che c’era scritto su uno dei fogli, e mi ha detto che lì ci abita ‘zia Karla’, la donna che si è occupata di lui durante questi sette anni, mentre tu eri in… Prigione”.

Mi fermo per osservare la sua reazione: non un solo muscolo del suo viso si è mosso, ad eccezione delle labbra dischiuse in un sorriso che non riesco a decifrare, e che mi fa pensare a quello dello stregatto.

“E scommetto che tu sei andata da ‘zia Karla’ e lei ti ha raccontato molte cose, vero?”

“Non esattamente, ma mi ha detto che tu non sei stato arrestato solo una volta, e che ti ha conosciuto quando eri in carcere perché lei stava facendo un tirocinio nell’infermeria. E mi ha anche parlato della madre di Ben”

“Ohh, davvero?” il sorriso sulle sue labbra si accentua “che cosa ti ha raccontato di lei? Sarei molto curioso di saperlo”

“Ha detto che anche la madre di Benjamin, Nicole, lavorava nell’infermeria del carcere e che tu l’hai convinta ad appoggiare la tua evasione. Ed una volta fuori le hai spezzato il cuore, e questo ha avuto delle pesanti ripercussioni sulla sua salute fisica…”.

Mi blocco di nuovo; questa volta, però, non dipende da me, ma dalla risata che esce dalle labbra di Theodore.

“Quello che ti ha raccontato la strega dai capelli rossi non è altro che un mucchio di cazzate prive di senso”

“E per quale motivo avrebbe dovuto raccontarmi delle bugie?”

“Semplice: mi odia con ogni fibra del suo essere”

“Eppure, finora, è stata l’unica a darmi delle spiegazioni, mentre tu non hai fatto altro che dirmi mezze verità e bugie su bugie, perché non dovrei crederle? Dici che ti odia così tanto da inventarsi falsità sul tuo conto? Quindi sono false anche tutte le notizie che riguardano il Mostro dell’Alabama?”.

Dopo la mia insinuazione, il suo viso cambia completamente: il sorriso svanisce con la stessa rapidità di un battito di ciglia e le sue guance sbiancano, facendo risaltare ancora di più il livido; anche il suo respiro muta, trasformandosi in un rantolo che mi fa temere per un possibile malore.

Ho fatto centro.

“Che cosa hai detto?”

“Hai capito, non c’è bisogno che ripeta”

“Lo so, ma speravo comunque di essermi sbagliato” mormora, posando a sua volta la forchetta sul piatto “e così, la strega ti ha parlato anche di questo pezzo del mio passato?”

“No, lei non mi ha detto nulla. Quando sono tornata a casa ho ricevuto una visita inaspettata da Ashley: aveva svolto qualche ricerca al computer ed era ansiosa di farmi vedere che cosa aveva scoperto. Mi ha portato un’intera cartellina di pagine stampate”

“Avrei dovuto prevedere questa mossa da parte sua”.

Alle parole di Theodore segue un lunghissimo silenzio carico d’imbarazzo.

Aspetto che sia lui a dire qualcosa, e lui attende lo stesso da me.

Ed alla fine, sono io a muovere il primo passo.

“Inutile dirti che su quelle pagine c’era scritta una storia completamente diversa da quella che tu mi hai raccontato. C’erano articoli su articoli di giornale e delle foto segnaletiche…”

“Sì, immagino perfettamente il contenuto di quella cartellina”

“Perché stai ridendo?”

“Rido perché mi sento sull’orlo di un esaurimento nervoso” dice semplicemente, scompigliandosi i capelli con la mano sinistra, la stessa che tiene sempre celata da un guanto di pelle nera “ se non vuoi più parlarmi lo capisco perfettamente e se vuoi andartene non sarò di certo io a bloccarti”

“Io non voglio andarmene, ma vorrei avere delle spiegazioni da parte tua”

“E quali spiegazioni vorresti avere, Gracey? Quello che hai letto parla chiaro”

“No, invece!” esclamo “io voglio sentire la tua… Versione dei fatti. Voglio sapere che cosa è successo veramente, perché quello che ho letto non può essere reale. Sei stato incastrato, non è così? Sei stato incastrato ed hai ricevuto così tanta pressione mediatica sulle tue spalle che sei arrivato ad auto convincerti…”

“Gracey” il mio nome esce sottoforma di un sospiro esausto “non arrampicarti sugli specchi alla ricerca di un qualcosa che non esiste. Te lo ripeto per l’ultima volta: quello che hai letto è tutto vero”

“Ma non può essere tutto vero, perché non corrisponde all’uomo che io conosco fin da quando ero una bambina. Tu non hai mai fatto del male a me o a mio fratello, e non l’hai neppure fatto a mia madre… Sono sicura che dietro c’è altro, ed io vorrei riuscire a capire. Non credere che non sia sconvolta in questo momento…”

“Allora siamo in due ad esserlo”

“Maledizione, vuoi darmi delle spiegazioni?” grido, esasperata, senza più riuscire a trattenermi “chiunque al mio posto se ne sarebbe già andato urlandoti contro i peggiori insulti, io invece sono ancora qua e ti sto chiedendo di raccontarmi tutto quello che è successo, perché io voglio sapere la storia della tua vita prima di giudicarla in base a degli articoli di giornale che risalgono a più di vent’anni fa… Dove stai andando?”.

Interrompo il mio monologo quando lo vedo alzarsi dalla sedia e spostarsi nel salotto, per poi tornare con le mani occupate da una bottiglia di liquore ed un pacchetto di sigarette; si accomoda di fronte a me e se ne accende subito una, prendendo una profonda boccata.

“Vuoi sapere la storia della mia vita, giusto? Allora abbiamo entrambi bisogno di bere qualcosa di forte: io per riuscire a raccontarla e tu per riuscire ad ascoltarla. E, fidati, il vino è fin troppo leggero” risponde l’ex compagno di mia madre, piegando le labbra nel sorriso di poco prima, quello dello stregatto.

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Capitolo 26
*** My Life; Parte Due (Gracey) ***


In lontananza, dall’esterno della villetta a due piani, giunge alle mie orecchie il rombo di un tuono, che contribuisce a dare una sfumatura inquietante all’atmosfera tesa che si è creata tra me e l’uomo di cui mi sono innamorata; lo vedo prendere un’altra boccata dalla sigaretta accesa, stretta tra le dita della mano destra, e buttare fuori una nuvola di fumo grigio dalle labbra socchiuse.

“Ti ascolto” sussurro, appoggiandomi allo schienale della sedia, con le mani strette in grembo per prepararmi a quello che sentirò.

E fin dalle prime parole pronunciate dalla sua voce strascicata, capisco che finalmente mi sta raccontando la verità nuda e cruda, senza ricami, intarsi e merletti di bugie.
“Sono nato in una piccola cittadina dell’Alabama, Conecuh County” inizia, rivolgendo gli occhi scuri in direzione di una finestra, su cui la pioggia ha iniziato a picchiettare contro il vetro “ti ho già raccontato che mia madre era gravemente malata, ma non ti ho mai detto nulla dell’uomo che ha contribuito alla mia nascita, e questo perché era un grandissimo bastardo, oltre ad essere un animale che non si è fatto remore ad approfittare della propria sorella. Io sono il frutto di quello stupro incestuoso. Ma ovviamente questo non era già riprovevole e disgustoso per lui… E così, quando si è stancato di sfogare la propria perversione nei confronti di mia madre, si è concentrato su di me. Ho vissuto con loro fino all’età di quattordici anni, fino al giorno in cui il bastardo non ha avuto un infarto, a quel punto sono stato affidato alle cure di mia zia Meg e di mio cugino James, mentre Audrey è stata ricoverata in una clinica privata, la stessa in cui le ho dato l’ultimo saluto. Ho trascorso tre anni sereni a casa di mia zia, forse gli unici di tutta la mia vita, poi tutto è cambiato di nuovo quando sono stato costretto ad andare a scuola, anziché continuare gli studi a casa. E lì sono iniziati i guai…”

“Oh, mio dio, Theodore…” mormoro, già profondamente sconvolta, perché non immaginavo che avesse alle proprie spalle un’infanzia così difficile; allungo la mano destra per stringere la sua, ma vengo bloccata con un gesto secco.

“Non sono mai riuscito ad integrarmi all’interno della classe, perché tutti mi vedevano come quello strano. Lo sfigato con il volto sfigurato dall’acne. Ho avuto anche parecchi problemi con il bullo della scuola, Jason, perché aveva subito visto in me un ottimo bersaglio… Naturalmente c’era mio cugino a difendermi e a sostenermi, ma non sempre ho seguito i suoi consigli e ne ho pagato le conseguenze…” fa una breve pausa per posare il mozzicone di sigaretta dentro un posacenere, schiacciandolo con più forza del necessario “nella mia classe c’era la ragazza più bella dell’intera città. Ava. Sembrava un angelo sceso in Terra tant’era perfetta e tutti, me compreso, avevano una cotta per lei ed avrebbero fatto follie pur di trascorrere del tempo in sua compagnia. Io ho avuto quell’onore, se così possiamo chiamarlo: un giorno, al termine delle lezioni, si è avvicinata a me e mi ha chiesto se potevo darle qualche ripetizione in letteratura perché non riusciva a capire l’ultimo argomento. Ovviamente io ho accettato subito, senza pensarci neppure per mezzo secondo, dopotutto quando mi sarebbe ricapitata un’occasione simile? Per un po’ di tempo ci siamo visti regolarmente in biblioteca, ma non ho mai avuto il coraggio di chiederle un appuntamento per timore di essere rifiutato e deriso. Questo, almeno, finché non è stata proprio lei a chiedermelo: un appuntamento al chiaro di luna in un vecchio fienile che sorgeva in una zona isolata di Conecuh County. Anche in questo caso ho accettato subito, ma quando l’ho comunicato a Jimmy… Lui non era altrettanto contento”

“Perché? Anche tuo cugino aveva una cotta per lei?”

“Lo credevo anche io, invece era una questione completamente diversa: conosceva Ava da molto tempo e sapeva che aveva sempre avuto un debole per Jason, il bullo della scuola. Io non ho voluto ascoltarlo, ritenevo che la sua fosse solo invidia ed ho difeso Ava dicendo che, evidentemente, aveva aperto gli occhi e si era resa conto di quanto Jason fosse solo un grande idiota senza un briciolo di cervello. E così sono andato all’appuntamento, ignorando gli avvertimenti di Jimmy, e, come ti dicevo prima, ne ho pagato le conseguenze” Theodore si ferma di nuovo per accendersi un’altra sigaretta, per rilassare i nervi e per fare una riflessione “non posso crederci. Sono trascorsi trentasei anni da quel giorno, ed ancora faccio fatica a parlarne… In ogni caso, quell’appuntamento nel fienile non è stato altro che una trappola architettata da Jason, ovviamente. Voleva vendicarsi perché una volta sono riuscito a picchiarlo e lo ha fatto nel peggiore dei modi, chiedendo la complicità della ragazza di cui ero innamorato. E lei ha accettato perché era pazza di lui. Non so che cosa le abbia promesso, forse un’uscita romantica al cinema, non ha importanza… La cosa veramente importante è che mi sono ritrovato imbrattato del sangue di qualche animale e di paglia secca, deriso da quel coglione e dal suo gruppo di amici. Per giorni ho finto di avere la febbre perché non avevo la forza di andare a scuola ed affrontare le persone che mi avevano umiliato in quel modo… Alla fine è stato James a convincermi. Lui mi ha sempre aiutato moltissimo”

“Mi dispiace terribilmente” mormoro una seconda volta, scuotendo la testa, sforzandomi di non versare una sola lacrima; l’ex compagno di mia madre si accorge dei miei occhi lucidi e prorompe in una mezza risata, che si spegne rapidamente.

“Non piangere e non guardarmi con compassione. Lo odio. E poi finora ti ho raccontato la parte meno difficile… Poco tempo dopo il mio primo appuntamento disastroso mi sono messo veramente nei casini: la mia media scolastica era crollata drasticamente, ero riuscito a recuperare la maggior parte delle materie negli ultimi mesi prima della pausa estiva, ma non a fare lo stesso con matematica. Sono stato rimandato nonostante le suppliche che avevo rivolto alla professoressa ed ho deciso di vendicarmi. Volevo farle prendere un piccolo spavento: io e Jimmy ci siamo introdotti nella sua abitazione, di notte, per dare fuoco ad un imponente orologio a pendolo che aveva nel salotto, vicino alle scale, ma abbiamo esagerato con la candeggina e le fiamme si sono propagate per tutta la stanza. Noi siamo riusciti a scappare e fortunatamente anche lei, ma sono stato visto e riconosciuto e mi sono beccato tre anni di riformatorio… Jimmy è stato la prima persona che ho visto quando sono ritornato in libertà e mentre tornavamo a casa, per puro caso, ho incontrato Ava. Ricordo ancora che era molto sorpresa, perché ero cambiato moltissimo e l’acne era ormai solo un brutto ricordo. In quell’occasione mi ha chiesto di perdonarla per la cazzata che aveva fatto, per avere assecondato il piano di Jason, e sai io che cosa ho fatto?” mi guarda, ed io scuoto la testa “le ho chiesto di uscire, per rimediare al nostro primo appuntamento”

“Ohh!” esclamo, sorpresa “e immagino che abbiate avuto una relazione”

“Non esattamente. Diciamo che l’appuntamento è andato proprio come io avevo progettato nei minimi particolari, ma non era come Ava se lo era immaginato”

“Che intendi dire?”

“Non potevo sprecare un’occasione simile, non potevo non restituire ad Ava tutto il dolore e l’umiliazione che mi aveva procurato. L’ho portata dentro quel fienile e quello che è successo mi ha procurato sei anni di reclusione al carcere di Donaldson, a Springfield, per stupro aggravato perché l’ho minacciata e ferita con un cacciavite. La mia piccola vendetta personale mi ha procurato il mio primo lasciapassare per il carcere a soli vent’anni”

“E come è stato?” gli domando, preferendo non pensare a come deve essersi svolta l’intera scena nel vecchio fienile abbandonato.

“Il carcere? Orribile” commenta, con una bassa risata, spegnendo il secondo mozzicone “il carcere è un mondo a parte, Gracey, con regole a parte. O ti fai un nome o sei costretto a chinare la testa ed obbedire se vuoi sopravvivere e non avere guai. Ed io sono stato costretto a farlo perché non ero nessuno, e soprattutto perché mi sono ritrovato a dividere la cella con un vero maniaco sessuale”

“Mio dio!”

“Ohh, no, non essere così sconvolta. Forse da un certo punto di vista devo considerarmi fortunato per i sei anni che ho trascorso insieme a Wolf, perché mi ha insegnato tutto ciò che dovevo conoscere riguardo alla vita dietro le sbarre… Questo, però, ha creato una crepa nel rapporto tra me e mio cugino: quando gli ho raccontato ciò che dovevo fare, lui non ha reagito molto bene ed ha troncato ogni rapporto con me. Ma non appena sono uscito ho scoperto che c’era altro dietro. Aveva preso una brutta strada, allontanandosi da casa, da me e da sua madre. Mi sono occupato di James per quattro anni interi, per farlo uscire dalla tossicodipendenza, e ci sono riuscito lasciando completamente da parte la mia vita. Quando, ormai, il periodo peggiore era passato, mia zia e mio cugino hanno insistito perché uscissi: secondo loro avevo bisogno di staccare la spina e prendere una serata solo per me, io non volevo ma alla fine sono stato costretto a prendere la macchina e ad andare nel primo pub che ho trovato per strada. E lì ho incontrato Annabelle”

“Annabelle?” ripeto, e lui annuisce con il capo.

“Era una ragazzina che era stata scaricata dalle amiche in seguito ad un brutto litigio. Stava cercando un passaggio per tornare a casa e l’ha chiesto a me, perché secondo lei ero il ragazzo più attraente del locale. L’ho fatta salire in macchina, abbiamo iniziato a parlare ed io, come battuta, le ho detto che desideravo qualcosa in cambio, e se non aveva soldi con sé poteva pagarmi in un altro modo. Naturalmente scherzavo, ma lei l’ha presa molto seriamente e me la sono ritrovata a cavalcioni sulle mie ginocchia, con le sue labbra premute contro le mie… Non ti ho ancora detto che Annabelle aveva gli occhi azzurri ed i capelli biondi, esattamente come Ava. Anche il sorriso era molto simile. L’ho allontanata da me ed ha sbattuto la testa contro la portiera. Ho provato a chiederle scusa, ma lei ha iniziato ad insultarmi ed è scesa dalla macchina guardandomi con disgusto. A quel punto ho perso totalmente la testa… Oh, cavolo!”.

L’esclamazione di Theodore è dovuta da un blackout improvviso, di cui è responsabile il temporale, che spegne tutte le lampadine della cucina; sussulto, colta alla sprovvista, e deglutisco prima di alzarmi e seguire l’ex compagno di mia madre in salotto, laddove si occupa di accendere il camino, per avere una fonte di luce in attesa del ritorno della corrente.

“Stavi dicendo che la sua reazione ti ha fatto perdere la testa…” dico, prendendo posto sul divano, invitandolo a proseguire con il racconto che sta assumendo sempre di più l’aspetto di un film dell’orrore.

Peccato che in questo caso non si tratta di una pellicola cinematografica, ma della realtà.

“Sì, esatto. Sono sceso a mia volta dalla macchina, l’ho raggiunta e… L’ho uccisa. Ho preso un cacciavite che avevo in tasca e l’ho colpita più volte con quello, e quando sono tornato in me e mi sono fermato era troppo tardi… So quello che stai per chiedermi. Vuoi sapere perché l’ho fatto, vero? Che cosa è scattato nella mia mente in quel momento? Il punto è che a distanza di anni io per primo non l’ho ancora ben capito, so solo che nella mia mente ho rivisto Ava e ho rivissuto tutto quello che mi aveva fatto… Quando… Quando ho iniziato a realizzare che ero nella merda fino al collo, ho caricato il corpo nel bagagliaio della macchina, sono tornato a casa ed ho chiesto aiuto a James per occultarlo. Inutile dirti che la scelta è ricaduta sul vecchio fienile: abbiamo seppellito Annabelle sotto le travi del pavimento ed abbiamo ripulito tutte le macchine di sangue nel bagagliaio. Nessuno ha mai sospettato nulla ed il caso è stato classificato come una scomparsa volontaria… Questo, almeno, finché non hanno iniziato a sparire altre ragazze e ragazzi. Ricordo che Jimmy era preoccupatissimo in quel periodo, perché la sua fidanzata, Danielle, aveva le stesse caratteristiche degli scomparsi: occhi azzurri e capelli biondi” la voce di Theodore si trasforma in un sussurro appena percepibile, inquietante, che mi provoca l’ennesimo brivido lungo la spina dorsale; qualunque ragazza al mio posto sarebbe già scappata il più lontano possibile ed avrebbe chiamato la polizia, ma io non sono intenzionata a farlo, non sono intenzionata a prendere la benché minima decisione prima di avere ascoltato l’intera storia dall’inizio alla fine “non sono riuscito a fermarmi. Nonostante la paura di tornare in carcere non sono riuscito a fermarmi. E questo perché l’omicidio mi aveva dato un brivido che non avevo mai sentito prima… Mi sentivo vivo. Ed ogni volta che avevo tra le mie mani una ragazza o un ragazzo che mi ricordava Ava, vedevo l’ennesima occasione per restituire ciò che io per primo avevo subito… Ho fatto cose orribili dentro quel fienile, Gracey. Atti disgustosi ed irripetibili. Mio dio, mi viene la nausea solo a pensarci. Ma non posso cambiare ciò che è stato… Ho continuato in quel modo per quasi sette mesi, poi ho commesso un grave errore che ha permesso ad una ragazzina di riuscire a scappare e denunciarmi alle autorità. Me ne sono andato immediatamente da Conecuh County, senza avvisare zia Meg e James, ma la mia fuga è durata appena qualche giorno: mi hanno rintracciato in un motel, sono stato arrestato ed ho confessato ogni cosa”

“Sì, c’era scritto su un articolo” commento, sforzandomi di non pensare alle foto allegate “e c’era anche una tua fotografia durante il processo. Quanti anni avevi?”

“Trenta” risponde senza la minima esitazione nella voce, sorseggiando un bicchiere di whisky “avevo trent’anni ed il giudice ha ben pensato di condannarmi a due ergastoli, da scontare a Donaldson. Prima del mio trasferimento ho ricevuto l’ultima visita di zia Meg: era profondamente delusa ed arrabbiata con me e mi ha detto, senza mezzi termini, che dovevo dimenticare sia lei che Jimmy perché da quel momento io non esistevo più per loro e loro non dovevano più esistere per me. Un colpo duro da digerire. Fortuna che al mio ingresso a Donaldson ho trovato David ad aspettarmi… David era un ragazzo che avevo conosciuto durante la mia prima reclusione. È stato il mio unico amico… Aveva corrotto un secondino affinché venissi assegnato alla sua cella e non ha sprecato un solo istante per mettermi al corrente di quale era la situazione in prigione… E per ‘situazione in prigione’ mi sto riferendo a Wolf”

“Il tuo vecchio compagno di cella?”

“Sì, il maniaco sessuale, proprio lui. In mia assenza aveva rafforzato sempre di più il suo potere, trasformandosi nel padrone incontrastato dell’intero edificio. Pensa, Gracey, che aveva più potere lui del direttore stesso. Qualche giorno dopo il mio arrivo mi sono ritrovato a faccia a faccia con lui, dentro un capannone: Wolf voleva rimembrare i bei tempi andati, era sicuro che il nostro rapporto sarebbe ripreso esattamente dal punto in cui si era interrotto, ma io gli ho fatto capire che non ero più il cucciolo indifeso di dieci anni prima. Lui non ha affatto gradito la mia ribellione e lo ha dimostrato organizzando il mio pestaggio nella stanza delle docce. In quell’occasione me la sono vista parecchio brutta, credo di essere sopravvissuto solo perché Wolf aveva un debole per me, ma non era comunque intenzionato a farmela passare liscia. E così, insieme all’aiuto di David ed a quello di un altro ragazzino, ho preso in mano la situazione ed ho fatto ciò che doveva essere fatto: ho ucciso quel bastardo e nei nove anni successivi ho raggiunto, piano piano, il suo stesso livello, finché non sono diventato io il capo indiscusso di Donaldson. Peccato che abbia potuto godermi i risultati dei miei sforzi per pochissimo tempo…”

“Perché?”

“Perché il gruppo creato da me e David era diventato troppo violento ed instabile, più pericoloso perfino di quello di Wolf, e ciò ha spinto il direttore a richiedere il nostro trasferimento in un carcere di massima sicurezza in grado di gestire detenuti difficili: Fox River. Non è molto lontano da qui, sai? Si trova a Joliet… David non era molto contento del nostro trasferimento, perché già temeva che al nostro arrivo saremmo stati costretti a ricominciare tutto da capo per arrivare in alto, io invece la vedevo come un’opportunità da non sprecare assolutamente ed ho iniziato fin da subito ad organizzare un piano che consisteva nel fingere un malore per poi scappare dal furgone, tornare ad essere degli uomini liberi e ricostruirci una nuova vita in Messico, laddove le autorità non potevano più toccarci. Ovviamente nulla è andato secondo i miei calcoli” mi spiega, piegando le labbra in una smorfia, e subito dopo capisco il perché della sua espressione sofferente “volevo che il malore fosse reale e così ho chiesto a David di procurarmi una pastiglia perfetta per le mie esigenze, ma è stata fin troppo efficace. Siamo stati costretti a rallentare e lui si è beccato una pallottola allo stomaco al posto mio. Non c’è stato nulla da fare. Sono rimasto con lui fino alla fine e poi ho cercato una cabina telefonica per chiamare mio cugino. Mi sono nascosto nel bosco fino al suo arrivo e siamo tornati entrambi a Conecuh County… Danielle non era d’accordo con la decisione di Jimmy di aiutarmi nella fuga, così sono rimasto da loro pochissimi giorni, il tempo necessario per riprendermi, e poi mi sono trasferito in un’altra città per costruirmi una nuova vita, con la speranza di non essere riconosciuto ed arrestato. Ho lasciato la scelta al caso, scegliendo la destinazione ad occhi chiusi su una cartina geografica, ed è stato così che sono finito a Tribune”.
Sento il mio cuore iniziare a battere più forte e stringo la presa attorno al bicchiere; bevo un sorso di whisky e lascio che il liquore mi scaldi la gola, incredibilmente secca, prima di parlare.

“E poi?”

“E poi, qualche giorno dopo il mio arrivo, ho salvato la vita ad una bambina di cinque anni, che si era persa alla Fiera e che rischiava di essere investita da una macchina. E quella bambina eri tu, Gracey, ma questa parte della storia la conosci già. Tu vuoi sapere perché io e tua madre abbiamo rotto e perché sono sparito per così tanto tempo”

“Credo di saperlo” mormoro, abbassando lo sguardo, tormentando l’angolo di un cuscino con la mano sinistra “nella cartellina che Ashley mi ha portato c’era un’altra foto che risaliva ad un tuo arresto e questa era molto più recente. Avevi addosso gli stessi vestiti di quella sera…”

“Sì, esatto, è andata proprio così” annuisce lui, confermando il mio sospetto “io e Susan non abbiamo mai litigato una sola volta, la nostra storia è stata perfetta fino a quella sera. Mentre era in cucina a lavare i piatti ha visto un servizio in TV che parlava del mio caso ed ha scoperto tutta la verità: ha mandato te e tuo fratello a letto e poi ha chiamato la polizia. Ho provato a calmarla, ho provato a spiegarle come stavano le cose, ma lei non ha voluto ascoltarmi… Ed io sono stato arrestato. La storia della piattaforma petrolifera era solo una grandissima balla per proteggere te e Zack, perché eravate solo due bambini e non voleva sconvolgervi. È stato un bel gesto da parte sua, dopotutto non c’era nessuno ad impedirle di dirvi la verità fin da subito”

“Ed è stato allora che sei finito a Fox River? Karla mi ha detto che ci hai trascorso cinque anni…”

“Esatto, ed adesso arriva la parte più complicata e surreale del racconto”

“Perché?” chiedo, corrucciando le sopracciglia, perché dopo quello che mi ha già raccontato dubito seriamente che ci sia altro che possa sorprendermi.

Invece sono costretta a ricredermi quasi subito.

“Durante il mio quinto anno di reclusione è arrivato a Fox River un ragazzo di nome Michael Scofield, che ha catalizzato fin da subito tutta l’attenzione su di sé per una curiosa coincidenza: suo fratello, Lincoln Burrows, era rinchiuso nel Braccio dei condannati alla sedia elettrica perché accusato di avere ucciso il fratello del vicepresidente degli Stati Uniti”

“Ho letto i loro nomi in un foglio… Tu sei evaso con loro!”

“Proprio così: Michael si era fatto rinchiudere apposta in carcere perché riteneva che il fratello fosse innocente e voleva farlo uscire prima che la sentenza venisse messa in atto, io e altri detenuti abbiamo scoperto per curo caso il suo piano e siamo entrati a far parte della squadra. Eravamo in dieci quando è arrivata quella fatidica notte, ma solo in otto sono riusciti a scavalcare le mura e solo in cinque possono tutt’ora raccontarlo. Io, per mia grande fortuna, faccio parte di quei cinque detenuti… Anche se ci ho rimesso un pezzo”.

Alla sua battuta, il mio sguardo cade in automatico sul guanto che indossa sempre.

“Stai parlando della tua mano sinistra, vero? Non hai avuto nessun incidente sulla piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano…”

“Non ero molto amato all’interno della squadra, soprattutto da un detenuto con cui mi ero scontrato spesso durante i miei primi cinque anni a Fox River. Sapevo che avrebbe approfittato della prima occasione perfetta per impiantarmi una pallottola nel cervello, così ho preso le dovute precauzioni e mentre scappavamo dall’infermeria ho rubato un paio di manette ad una guardia senza essere visto dagli altri. Ho chiuso un’estremità attorno al mio polso sinistro, l’altra attorno al polso destro di Michael e poi ho ingoiato la chiave, prima che potessero strapparmela dalle mani: Michael era il cervello del gruppo, di conseguenza non potevo essere ucciso, altrimenti sarebbe stato costretto a trascinarsi appresso il mio cadavere e ciò avrebbe costituito un disguido non indifferente, soprattutto quando alle tue spalle hai cani ed elicotteri che ti stanno inseguendo. Ed il mio piano ha funzionato fino a quando non sono stato trascinato all’interno di un capannone per risolvere la faccenda, perché le manette ci rallentavano. Hanno provato a rompere gli anelli di metallo con un tronchese, ma quando non ci sono riusciti, hanno ben pensato di tagliare la mia mano con un ascia e di abbandonarmi lì dentro”.

Il solo pensiero della sofferenza che Theodore deve aver provato in quel momento mi procura l’ennesimo brivido nella schiena.

“E tu che hai fatto?”

“Quello che avrebbe fatto chiunque al mio posto: ho raccolto la mia mano ed ho cercato aiuto dalla sola persona di cui, all’epoca, mi fidavo ciecamente. La madre di Ben”.

Eccolo.

Il momento che aspettavo.

“Non mi hai ancora raccontato nulla di lei”

“Quando arriverò alla fine della mia storia capirai perfettamente perché sono così reticente a parlarti di lei” mormora, con l’angolo sinistro della bocca leggermente incurvato all’insù “scommetto che vuoi sapere come ci siamo conosciuti”

“Sì”

“Allora sono costretto a fare un piccolo passo indietro. L’ho conosciuta poco dopo il suo arrivo, era la nuova dottoressa e tutti, a Fox River, parlavano solo di lei, ed appena l’ho vista ho capito subito il perché: mi sono ritrovato faccia a faccia con una ragazza giovanissima, con i lineamenti infantili, gli occhi azzurri ed i capelli lunghi e biondi, leggermente ondulati… Una visione paradisiaca… E poi era dolcissima, a differenza di Sara che aveva un atteggiamento molto più distaccato nei confronti di noi detenuti, soprattutto dei miei… Ohh, si, non te l’ho detto: anche Sara era una dottoressa, ecco come ci siamo conosciuti… In ogni caso, ho iniziato fin da subito a flirtare con Nicole… Un po’ per noia, un po’ perché sentivo di essere attratto da lei… Il mio interesse ha iniziato a mutare quando l’ho salvata da un’aggressione, nel corso di una rivolta che aveva coinvolto tutto il nostro Braccio… Ecco…” continua ad esitare, bloccandosi più volte, come se non riuscisse a trovare le parole giuste per proseguire “qualche giorno prima avevamo litigato: lei aveva scoperto chi ero e perché ero stato rinchiuso in carcere, e non voleva avere più nulla a che fare con me, di conseguenza quando mi ha visto credeva che volessi fargliela pagare per gli insulti che mi aveva rivolto. Ed ammetto che, in parte, forse aveva ragione. Ma quando ho visto i suoi occhi tutto è cambiato. Nel suo sguardo ho rivisto me stesso da ragazzino e lì ho capito che condividevamo un passato molto simile. In seguito a quell’episodio, Nickie si è riavvicinata a me e quando l’ho messa al corrente dell’evasione non ha detto nulla al direttore, perché sapeva che quello era l’unico modo per stare insieme. Nel Braccio A avevano iniziato a circolare troppe voci insistenti su noi due, rischiava seriamente di perdere il posto da un giorno all’altro… Sono andato da lei dopo che gli altri mi avevano abbandonato, e Nickie si è presa cura di me riattaccandomi la mano. E poi siamo scappati da Joliet…”

“Per ricominciare una nuova vita insieme…” concludo la frase al posto suo, con un soffio di voce, ma lui mi corregge subito, scuotendo la testa.

“Non così in fretta. Anche Nickie la pensava in questo modo, ma c’erano ancora alcune faccende di cui dovevo occuparmi prima di poter, finalmente, iniziare una nuova vita lontano da tutto e da tutti. Il primo problema erano i soldi, ma per mia enorme fortuna uno dei detenuti che doveva evadere, e che non è riuscito a farlo, prima di esalare l’ultimo respiro ci ha confessato che in un ranch nello Utah aveva sepolto ben cinque milioni di dollari. Un’occasione che non potevo assolutamente sprecare, peccato che quelle parole non erano giunte solo alle mie orecchie…” l’ex compagno di mia madre riempie di nuovo il suo bicchiere e agita la mano destra in un gesto che esprime noncuranza “ti risparmio dettagli inutili riguardo al viaggio o a quello che è successo nello Utah, ciò che importa davvero è che io e Nicole siamo riusciti a scappare con l’intero bottino, lasciando gli altri della squadra a bocca asciutta… Dopotutto se lo meritavano visto il trattamento riservato al mio povero arto superiore sinistro... A quel punto il problema dei soldi era risolto, ma mancava un ultimissimo passo da compiere”

“Noi!” esclamo “io, mio fratello e nostra madre eravamo l’ultima cosa che ti teneva legato al passato”

“Sì, avevo bisogno di rivedere tua madre e di parlarle… Tu non lo sai, ma una volta è venuta a farmi visita in carcere… Glielo aveva consigliato la sua terapista: secondo lei dovevo sapere quanto si fosse sentita tradita dalle mie bugie… Ma non era l’unica”.

Mi passo la lingua sulle labbra, vago con lo sguardo sulla stanza e mi concentro sul fuoco nel camino, che si sta trasformando in un’esile fiammella, e continuo a fissarlo anche quando rivolgo a Theodore una domanda di cui voglio conoscere subito la risposta, perché non sono sicura di voler vedere davvero ciò che potrei leggere nei suoi occhi.

“Volevi vendicarti?”

“Ero molto deluso ed amareggiato quando ho ricevuto la visita di tua madre, Gracey, ed ho lasciato che fosse la rabbia a parlare… Ma no, non ho mai pensato, neppure per un solo secondo, di far del male ad uno di voi tre. Non era una recita, ero davvero contento di rivedervi, volevo riuscire a rimediare in qualche modo, ma non sono riuscito a farlo capire a Susan… Credo che sia stato già tanto il fatto che non abbia chiamato la polizia per denunciarmi nuovamente… Adesso sai quello che è successo davvero. Sai perché la storia tra noi due è finita, perché sono sparito per cinque anni e perché sono riapparso all’improvviso per poi sparire di nuovo. Spero di essere riuscito a fugare ogni tuo dubbio”.

Annuisco in silenzio, senza dire nulla.

Questa volta non dubito affatto delle sue parole, perché sento che finalmente ogni tassello si sta incastrando nel posto giusto, ed episodi che prima mi sembravano strani ed inspiegabili adesso mi appaiono sotto una luce completamente diversa.

Come, ad esempio, lo strano mutismo e pallore di mia madre nel giorno della visita a sorpresa di Theodore.

O come la stravagante storia della piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano.

“Ed a quel punto hai iniziato una nuova vita insieme a… Nicole?” chiedo, dopo un lungo silenzio, per lasciargli il tempo di riprendere fiato e di dare sollievo alla gola con un sorso di liquore.

Lancio per puro caso un’occhiata alla bottiglia di whisky e mi rendo conto che il livello del liquido ambrato è vistosamente sceso da quando è stata aperta, pochi minuti prima, ma non me ne preoccupo.

“Ho voluto che la nostra nuova vita iniziasse nel migliore dei modi: l’ho portata a Las Vegas per sposarla e poi l’ho portata a Conecuh County, nella mia vecchia casa, per demolire tutto ed impiantare un po’ di nuove radici… Ed è stato lì che la situazione è precipitata nuovamente” commenta lui, con una smorfia contrariata che non capisco se associarla a ciò che mi ha appena confessato o al bicchiere vuoto per la terza, o forse quarta, volta consecutiva.
 

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Capitolo 27
*** My Life; Parte Tre (Gracey) ***


Mi basta una semplice e veloce occhiata per capire che Theodore ha appena introdotto un argomento, se possibile, molto più spinoso e difficile dei precedenti e che parlarne, per lui, equivale a riaprire una vecchia ferita mai del tutto guarita ed affondarvi un coltello senza alcuna pietà; eppure lo sprono a continuare, perché sento che ci sono altri dettagli che mi tiene nascosti e che io voglio sapere.

“Perché la situazione è precipitata nuovamente?”

“Sempre per la stessa questione di fondo, Gracey, e sempre per lo stesso errore che ho commesso quando mi sono trasferito Tribune ed ho iniziato a frequentare tua madre: non puoi pretendere di vivere per sempre in una bolla di sapone, prima o poi l’incantesimo si spezza, e così è accaduto anche per me e Nickie. Abbiamo vissuto dentro quella casa per due settimane e poi ci siamo divisi per diversi motivi. Io ho fatto male a lei e lei ne ha fatto altrettanto a me, e nel peggiore dei modi… Dopo un paio di settimane ci siamo rivisti perché sono stato proprio io a contattarla, anche se non me lo ricordo. Non ricordo quasi nulla di quel periodo perché bevevo sempre. Ho riacquistato lucidità nel momento in cui, a Panama, sono stato arrestato e sbattuto dentro un’altra prigione, se così possiamo chiamarla. In realtà era un vero inferno in Terra: al suo interno si era sviluppato un potere parallelo così forte che i secondini sono stati costretti a scappare e le guardie controllavano la situazione al sicuro dentro alle quattro torrette… Ho trascorso circa dieci giorni lì dentro  ed è stato il periodo più orribile di tutta la mia vita, soprattutto perché credevo che avessero ucciso Nickie per colpa mia” l’ex compagno di mia madre sospira, coprendosi gli occhi con la mano destra, a causa della stanchezza e dell’alcol che ha in corpo “c’è una cosa importante che non ti ho ancora detto e che gioca un ruolo centrale in tutta questa faccenda: Scofield aveva ragione a ritenere il fratello innocente, perché lo era davvero. Era stato incastrato da un’organizzazione che si faceva chiamare ‘La Compagnia’”

“E per quale motivo questa organizzazione ha voluto incastrarlo?”

“Ohh, se dovessi spiegarti questo particolare dovrei raccontarti molte altre cose e non credo che sarebbe molto saggio da parte mia, Gracey. Anche se La Compagnia non esiste più stiamo parlando di persone estremamente pericolose… Tutto quello che devi sapere è che quando sono stato rinchiuso a Sona non ero da solo. Scofield era stato rinchiuso poco tempo prima di me e si trovava sotto un vero e proprio ricatto da parte di quegli uomini: doveva fare evadere un uomo che aveva con sé delle informazioni importantissime per La Compagnia, ed aveva solo pochi giorni di tempo per pensare ad un piano che funzionasse ed a metterlo in atto, altrimenti avrebbero ucciso sia Sara che suo nipote, il figlio di Lincoln… Sì, Sara è la donna di Michael. Ecco che cosa la lega a me… Nickie si era messa in mezzo a questa faccenda, voleva aiutare Burrows a trovare suo figlio e Sara, e ci erano riusciti grazie ad una telefonata che Michael aveva ottenuto in cambio della sua totale collaborazione. Qualcosa, però, è andato storto e lei è stata presa… Qualche giorno più tardi Scofield è venuto da me per dirmi che, in seguito al loro gesto eroico e stupido, Nicole e Sara ne avevano pagato le conseguenze: Burrows aveva trovato le loro teste dentro una scatola” Theodore interrompe improvvisamente il suo racconto e si alza dal divano; lo seguo con lo sguardo mentre si avvicina al camino per alimentare le fiamme con altri pezzi di legno “tra me e Michael non è mai corso buon sangue fin dal nostro primo incontro nel cortile di Fox River, ma in quell’occasione abbiamo deciso di mettere da parte tutte le questioni irrisolte e l’odio che provavamo l’uno per l’altro, perché dovevamo farla pagare a quelle persone e così abbiamo fatto un accordo: mi avrebbe lasciato torturare la donna che aveva ucciso Nickie, ma in cambio avrei dovuto lasciare a lui il colpo di grazia e subito dopo avrei dovuto costituirmi volontariamente alle autorità. Io ho accettato, e per una volta nella vita avrei mantenuto un patto, se non avessimo scoperto che Sara e Nicole erano ancora vive ed erano riuscite a scappare. Entrambe si trovavano al sicuro, a casa di un amico del padre di Sara”

“Karla mi ha raccontato una storia completamente diversa riguardo voi due. Ha detto che tu hai spezzato per due volte il cuore alla madre di Ben”

“Ma questo è accaduto dopo il nostro ricongiungimento, quando siamo stati costretti a collaborare con Michael, Sara, Lincoln ed altri per recuperare delle maledette schede elettriche che componevano Scylla: il libro nero della Compagnia. In cambio avremmo avuto la fedina penale pulita e nuove identità per ricominciare finalmente una nuova vita. Io non ci credevo, ma Nicole sì. Mi ha convinto a fare un tentativo ed io ci ho provato. Ma gli altri della squadra non si fidavano a causa dei miei precedenti, e quando uno di noi è stato preso hanno scaricato la colpa completamente su di me. Quella è stata la goccia  che ha fatto traboccare il vaso, e nonostante le parole di Nickie sono scappato, abbandonando la squadra… Ecco come le avrei spezzato il cuore per la seconda volta. A quanto pare il mio comportamento ha deluso le sue aspettative…”

“Perché stai ridendo?”

“Quando arriverò alla fine lo capirai da sola, ormai non manca molto… L’intera operazione Scylla si è risolta nel migliore dei modi per gli altri della squadra, ma non per me. Dopo qualche settimana trascorsa in un carcere a Miami sono stato trasferito di nuovo a Fox River e ci sono rimasto per sette anni, finché non mi hanno comunicato che ero libero di andarmene, e quando mi hanno consegnato i miei effetti personali c’era anche una busta gialla che conteneva una foto. L’hai vista anche tu perché è la stessa che tengo dentro un cassetto del comodino. Ritraeva Michael Scofield… Molto più vivo di quello che doveva essere” davanti alla mia espressione corrucciata, Theodore si affretta a darmi delle spiegazioni più approfondite “devi sapere che durante il poco tempo che ho trascorso a Miami-Dade, nell’ala femminile della prigione era stata rinchiusa Sara, perché per salvare il suo principe azzurro tatuato è stata costretta ad impugnare una pistola ed a commettere il suo primo omicidio, e la sua vittima è stata Christina Scofield, la madre di Michael. Sì, Gracey, hai capito bene. La signora Scofield faceva parte della Compagnia in passato, ed anche se aveva preso da tempo le distanze da essa, non era di certo un’anima pura e casta. Ma nella sua carta d’identità non c’era neppure scritto il titolo di ‘super cattiva’, capisci? Ovviamente Michael non poteva lasciare la sua dolce metà, in attesa del loro primo figlio, dentro un carcere e così ha fatto ciò che sa fare meglio: ha organizzato un’evasione. Ed è riuscito a liberare Sara, ma a costo della sua vita… E questo lo pensavamo tutti fino a quando non ho ricevuto quella prima busta, seguita da altre due che mi hanno portato prima da Benjamin e poi in questa casa. Ahh, ed ho ricevuto anche un e-mail che mi ha condotto da questa”.

Theodore si sfila il guanto di pelle nera, e davanti ai miei occhi appare una protesi meccanica lucente, che si muove con la stessa scioltezza di una mano in carne ed ossa; così come è apparso, il miracolo di ingegneria robotica sparisce con la stessa rapidità, di nuovo nascosto dal guanto.

Se prima potevo anche non credere alla storia che mi sta raccontando, dopo ciò che i miei occhi hanno appena visto non c’è spazio per possibili dubbi.

“Credevo che cose come questa esistessero solo nei film di fantascienza”

“Lo credevo anche io, almeno fino a quando un uomo sconosciuto di nome Kaniel Outis non ha sborsato un milione di dollari per questa, e altri soldi per comprarmi una casa nuova, una macchina e per mantenere Benjamin durante i sette anni della mia assenza forzata. Ho svolto qualche ricerca ed ho subito scoperto che Outis e Scofield sono la stessa persona… Ho provato a parlarne con Lincoln e con Sara, ma loro non hanno voluto ascoltarmi, pensavano che fosse una truffa organizzata da me. Così, ho lasciato perdere questa storia, finché non mi sono ritrovato coinvolto senza rendermene conto, perché Sara ha chiesto il mio aiuto: credeva che una nostra vecchia conoscenza, che lavorava per La Compagnia prima di diventare uno dei buoni, avesse mandato dei sicari a casa sua e che fosse la stessa persona dietro a quello che stava accadendo. Ha mandato me a parlare con quest’uomo e così ho scoperto che non solo non c’entrava nulla, ma che sapeva chi era il vero responsabile… Ricordi quando sono tornato a casa con un proiettile nella spalla? Mentre parlavo con lui siamo stati aggrediti da quei sicari, ed io sono riuscito a scappare per un soffio”

“E chi c’è dietro questa storia, allora? Se non è La Compagnia…”

“Questa volta si tratta di un agente deviato della CIA che tiene in pugno Michael: lo ha costretto ad inscenare il suo sacrificio dietro la minaccia di far sbattere in cella a vita sia suo fratello che sua moglie, e lo ha costretto a lavorare per sé, incastrandolo poi in un omicidio… E non è tutto… Perché quest’uomo, il cui nome in codice è Poseidone, è il nuovo marito di Sara”.

Sbatto le palpebre più volte, confusa a causa dell’enorme quantità di informazioni che non riesco a rielaborare.

È assurdo.

È tutto terribilmente assurdo e distorto, eppure è la verità e lo dimostrano le buste gialle, i vecchi articoli di giornale, le foto segnaletiche dell’ F.B.I, le vaghe informazioni che mi ha rivelato Karla e, infine, la protesi robotica di Theodore.

Eppure, c’è ancora un particolare che continua a sfuggirmi.

Un tassello che non riesco ad inserire nel quadro generale.

“Theodore…” mormoro, chiamandolo per nome, mentre torna a mio fianco sul divano “ma tu che cosa c’entri in tutto questo? Prima mi hai detto che tra te e Michael non c’è mai stato buon sangue… Perché coinvolgerti?”

“Non lo so” sussurra a sua volta lui, scuotendo la testa “non sono ancora riuscito a capirlo. Quando sono partito insieme a Sara per andare a Creta, perché Michael era stato ferito ed aveva bisogno di una trasfusione di sangue urgente, credevo che avrei trovato tutte le risposte che cercavo, e invece non solo non è stato così, ma ho avuto una sorpresa del tutto inaspettata. Michael era a Creta in compagnia di Lincoln, di un ragazzo che non avevo  mai visto prima… E di Nicole”

“Nicole? La madre di Ben? Ma Karla…”

“Cazzate. Erano tutte cazzate quelle che Karla ha detto a te ed a me. Ordini ricevuti da Nicole. Me lo ha detto la diretta interessata prima di rifilarmi una storia priva di senso… Sai che cosa ha avuto il coraggio di dirmi? Mi ha detto che ha dovuto lasciare Ben nelle mani di Karla per seguire Michael perché lui l’aveva aiutata molto subito dopo il mio arresto. Era grata e si sentiva in debito nei suoi confronti… E così ha abbandonato mio figlio, ha seguito Scofield, ed ora ha una relazione con quel gorilla ottuso e stupido di Burrows… E mi considera il responsabile di qualunque sciagura esistente al mondo! È stata lei a regalarmi questi graffi quando le ho detto che deve dimenticarsi nuovamente dell’esistenza di mio figlio… Questo livido è stato un altro gentile regalo da parte di quel ragazzo di cui non ricordo neppure il nome…” borbotta l’ex compagno di mia madre strofinandosi le palpebre, prima di chiudersi in un lungo silenzio che mi fa capire che la storia della sua vita è giunta al termine.

Prendo un profondo respiro e mi avvicino di più, in modo che le nostre gambe si sfiorino; gli scosto con gentilezza le mani ed appoggio i miei palmi sulle sue guance.

“Theodore…”

“So già perfettamente quello stai per dire e lo capisco, non sono né amareggiato né deluso: sono un mostro, tutto quello che ho commesso è indifendibile e sono conscio del fatto che non riuscirò mai a porvi rimedio, perché non posso tornare indietro e cancellare ciò che è stato. E so che è difficile credere alle mie parole con tutte le bugie che ho raccontato, ma voglio davvero costruirmi una nuova vita insieme a Ben, su questo sono sincero, perché sento che mi è stata data una possibilità che non ricapiterà una seconda volta. Quindi, ti prego, ti chiedo solo una cosa prima che tu esca da quella porta e dalla mia vita per sempre. Non chiamare la polizia per vendetta, non rovinare ciò che sto provando a creare”

“Mi dispiace deludere le tue aspettative, ma non sono intenzionata a farlo… E non mi sto riferendo alla polizia, ma al fatto di uscire dalla tua vita” dico a bassa voce, e proprio come è successo poco tempo prima della sua partenza, passo le braccia attorno alle spalle di Theodore e poso le mie labbra sulle sue; quando mi allontano di pochi centimetri, ponendo fine al bacio, lo sento sospirare e lo vedo corrucciare le sopracciglia in un’espressione carica di una sofferenza quasi fisica.

“Gracey, così facendo non mi aiuti affatto… Anzi, non hai fatto altro che aggiungere un altro problema alla lunga lista che ho già sulle mie spalle…”

“Sei tu che vuoi vederla da questa ottica, Theodore. Per quel che mi riguarda, adesso mi sono fatta un’idea ben precisa su di te” inizio, senza allentare la presa “secondo Ashley dovrei scappare il più lontano possibile da questa casa e non tornarci mai più…”

“Non pensavo che lo avrei mai detto, ma sono costretto a dare ragione a Shere Khan”

“No!” esclamo, posando l’indice destro sulle sue labbra, resistendo a fatica all’impulso di percorrerne il contorno “adesso sei tu quello che non deve interrompere e che deve ascoltare in silenzio… Secondo Ashley la cosa più saggia da fare sarebbe questa, ed ammetto di essere rimasta sconvolta quando ho letto gli articoli di giornale, perché ogni singola riga entrava in netto contrasto con l’uomo che avevo conosciuto fino a quel momento… Ma non m’importa”

“Non t’importa?”

“Sì, hai capito benissimo”

“Allora ti è sfuggito qualche passaggio importante del mio racconto, se la tua riposta è davvero questa” commenta lui con una risata, ma io scuoto prontamente la testa.
“Teddy” dico subito dopo, chiamandolo con il suo vecchio soprannome, ed il suo sguardo si fa più attento “ho ascoltato ogni singola parola che è uscita dalla tua bocca, comprese quelle che descrivevano gli orrori commessi dal ‘Mostro dell’Alabama’… Ma ho anche sentito tantissime parole su un uomo che ha avuto da sempre una vita difficilissima, con un passato da dimenticare, e che ha conosciuto solo tanta sofferenza. Un uomo così abituato ad essere solo, che continua a fare terra bruciata attorno a sé. Theodore, io non sono intenzionata ad abbandonarti, soprattutto in questo momento, perché hai bisogno di qualcuno a tuo fianco”

“Non sono mai stato fortunato con le donne”

“Ma ciò non significa che siano tutte uguali. Forse con Ava… con Nicole… E perfino con mia madre non è andata nel migliore dei modi perché, a differenza di quello che tu pensavi, nessuna di loro era la persona giusta per te” deglutisco prima di proseguire, con un tono di voce più deciso “io sono la persona giusta per te”

“Gracey… Tutto questo è terribilmente sbagliato” mormora Theodore, scuotendo leggermente la testa, tuttavia non si allontana da me e sento le dita della sua mano destra accarezzarmi i capelli “quei due baci non avrebbero dovuto esserci e non dovremo essere qui a discutere di… Questo. Ben è al piano di sopra, potrebbe svegliarsi in qualunque momento, scendere le scale e vedere qualcosa di sconveniente”

“Ma è proprio lui il primo che sta facendo qualunque cosa per vederci insieme” dico, nella speranza di allentare la tensione “Teddy, non hai mai pensato che forse non siamo noi due il problema? Forse il vero problema è il fatto che non vuoi lasciarti andare. Dopotutto se ci sono stati quei due baci e se ora ne stiamo discutendo… Un motivo ci dovrà pur essere. Lasciati andare. Lasciati aiutare, per favore. Se vuoi fare terra bruciata attorno a te, fallo con gli altri ma non con me. Io voglio davvero aiutarti ad andare avanti. Io ti amo”.

Le ultime tre parole escono dalle mie labbra sottoforma di un sussurro quasi impercettibile, carico di insicurezza, perché non so se ed in che modo andranno a segno; l’ex compagno di mia madre non dice nulla: i suoi occhi continuano a vagare sul mio viso e la sua mano continua ad accarezzarmi una ciocca di capelli.

Poi, all’improvviso, è proprio lui a fare il primo passo: avvicina il suo viso al mio e mi bacia.

E questa volta non si tratta di un tocco serafico di labbra, ma di un bacio passionale e profondo; uno di quelli che ti lasciano con il fiato ansante, il cuore che batte in modo selvaggio e la voglia di ricominciare tutto da capo.

E quando mi allontano da Teddy, esattamente in queste condizioni, non posso che piegare le labbra in un sorriso e scoppiare in una risata allegra, felice come ormai non ero da tempo e lui, incredibilmente, mi imita: non c’è alcuna traccia di amarezza o sarcasmo nella sua voce, la sua è una vera e propria risata genuina, ed io m’incanto ad ascoltarla.

“Sai che cosa ti dico?” mi sussurra poi, appoggiando la sua fronte contro la mia “facciamolo davvero. Fanculo tutto e tutti, e questa volta parlo sul serio. Solo noi due, principessa… Ed il piccolo criminale, ovviamente”.

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Capitolo 28
*** Soap Bubble (Gracey) ***


Per un’intera settimana io e Teddy viviamo una favola d’amore pressoché perfetta, convivendo sotto lo stesso tetto come qualunque altra normale coppia; e fottendocene letteralmente di tutto e di tutti commettiamo il medesimo errore che lui per primo ha fatto non una, ma bensì due volte: creiamo la nostra fragile bolla di sapone destinata a svanire al primo alito di vento.

E ciò accade nel corso della mattina dell’ottavo giorno, poco dopo che Theodore ha accompagnato Benjamin a scuola: qualcuno bussa con insistenza alla porta d’ingresso della villetta, e nello stesso momento in cui apro la porta per accogliere l’ospite inaspettato, la nostra bolla di sapone s’infrange all’istante; di fronte a me, infatti, c’è una giovane donna dai lunghi capelli castani, avvolta in un cappotto nero e con in mano una busta gialla e rettangolare.

Anche se non l’ho mai vista prima in tutta la mia vita la riconosco all’istante, perché i suoi occhi azzurri ed i tratti del suo viso sono gli stessi di Benjamin.

Restiamo entrambe in silenzio, io con le labbra strette in una linea sottile e lei con uno strano ed indecifrabile sorrisetto, finché non decido di prendere in mano la situazione e di parlare per prima.

“So chi sei” le dico con freddezza, senza tanti preamboli inutili “che cosa vuoi? Perché sei qui?”

“Dovrei rivolgere le stesse domande a te. Theodore è in casa? Ho bisogno di parlargli con urgenza. Si tratta di una questione della massima importanza” mi domanda la giovane donna, guardando in direzione del salotto, ignorando apertamente ciò che le ho appena chiesto; ed anziché spostarmi e farla accomodare, l’affronto a muso duro.

“Ohh, sì, so tutto riguardo a questa ‘questione della massima importanza’ perché Teddy mi ha raccontato ogni cosa. Mi ha raccontato anche della vostra storia e del modo poco elegante in cui hai abbandonato lui e Benjamin. E ti posso dire che…”

“Ed io sono sicura che Theodore è abbastanza adulto da non aver bisogno dell’avvocato difensore che parli al posto suo. E, in ogni caso, ciò che riguarda me, lui o nostro figlio non sono affari che ti riguardano, visto che non so neppure il tuo nome ed il rapporto che ti lega all’uomo a cui sono stata sposata… Te lo ha detto che, tecnicamente, io e lui siamo ancora marito e moglie perché non abbiamo mai firmato le carte per il divorzio, anche se abbiamo celebrato le nozze in una chiesetta a Las Vegas?” l’ex moglie di Theodore non aspetta una mia risposta: mi scansa senza la minima traccia di gentilezza, facendomi sbattere contro lo stipite della porta, ed avanza con passo sicuro nel salotto, guardandosi attorno con il sorrisino enigmatico ancora stampato sulle labbra “puoi degnarmi della tua presenza, Teddy-Bear, o devo prendere appuntamento per parlare faccia a faccia con te?”.

Sto per protestare, restituendole la poca gentilezza che ha avuto nei miei confronti, ma vengo bloccata dal mio uomo, che ci raggiunge dal piano superiore dell’abitazione; mi basta un’occhiata per capire quanto sia furioso, ed il suo sguardo, l’ombra che è scesa nei suoi occhi scuri, mi provoca un lungo brivido che non riesco a reprimere.

Nicole, invece, lo fissa imperturbabile, continuando la stringere la busta gialla di cui ignoro il contenuto.

“Teddy, ho provato a fermarla…”

“Gracey, vai in camera mia” ordina lui, senza aggiungere altro, e quando provo a ribellarmi ripete l’ordine una seconda volta, urlando “ti ho detto di andare in camera mia, ora. E non farmelo ripetere una terza volta!”.

Chino il viso in avanti per nascondere le guance rosse dall’umiliazione e sono costretta ad obbedire, salendo velocemente le scale che portano al primo piano e ad entrare nella camera da letto del mio uomo; mi lascio cadere sul bordo del letto e stringo con entrambe le mani un lembo del lenzuolo, ancora frastornata da quello che è appena successo.

Ogni muscolo del mio corpo è teso fino allo spasmo, nell’atto di riuscire a captare qualcosa dal piano inferiore, ma tutto ciò che arriva alle mie orecchie è solo il rumore di passi e delle urla, seguiti da un silenzio così raggelante che per un istante mi ritrovo a pensare al peggio; ritrovo il respiro solo quando vedo la porta della camera aprirsi, dopo quella che ai miei occhi è sembrata un’eternità, ed apparire Theodore.

Il mio sollievo, però, dura pochissimo.

Giusto il tempo di notare il pallore anormale del suo viso e lo sguardo stravolto.

“Teddy?” domando, incerta, senza sapere se aggiungere altro o attendere una sua risposta “Teddy, stai bene? Quella donna se ne è andata?”

“No e… No, mi sta aspettando. Io… Devo assentarmi di nuovo per qualche giorno”.

Spalanco gli occhi e lascio ricadere le braccia lungo i fianchi, incredula.

Ecco, penso con un gemito, l’inizio della fine.

“Ma… Teddy…” balbetto, dopo aver incassato il colpo “non puoi farlo, non puoi andare con quella donna dopo quello che ti ha fatto… Dopo il modo in cui ti ha trattato a Creta! Avevi detto che non volevi più avere nulla a che fare con questo casino, che d’ora in poi ci saremo stati solo tu, Benjamin ed io!”

“Ricordo benissimo quello che ho detto. Ma è successo un imprevisto e… Devo andare”

“Un imprevisto? Che genere d’imprevisto?” domando, cercando un contatto visivo con lui “è qualcosa che ha a che fare con la busta gialla che Nicole aveva in mano? Che cosa ti ha detto? Cosa c’era dentro quella busta? Ti rendi conto che molto probabilmente ti ha rifilato un’altra serie infinita di bugie solo per coinvolgerti di nuovo…”

“No” m’interrompe con un ghigno, scuotendo la testa “no, Gracey, ti posso assicurare che in questo caso non si tratta di una bugia. Credo di aver finalmente capito perché sono stato coinvolto nel piano di Scofield e non posso più tirarmi indietro, non dopo quello che ho visto. E tu devi rimanere qui con Ben, voglio sapervi entrambi al sicuro. Un paio di giorni e sarà tutto finito, e questa volta sono serio, non si tratta di parole al vento”

“Ma è già tutto finito per noi…” ribatto, cercando di fargli cambiare idea “hai rischiato la vita ben due volte per un uomo che ti odia e per una donna che ti ha scaricato come se fossi un sacchetto della spazzatura. Non devi niente a quelle persone, non c’è assolutamente nulla che ti lega a loro, Theodore…”

“Lo credevo anche io fino a poco fa”

“Theodore, ti prego, non andare” lo supplico, allora, avvicinandomi a lui e prendendolo per mano “lo so che ti sembrerà stupido, ma ho una brutta sensazione riguardo a tutta questa faccenda. Ho paura di non vederti tornare”.

Non riesco a reprimere un tremolio nella voce che ben presto si trasforma in un singhiozzo, ed a nulla servono le braccia di Theodore che mi avvolgono i fianchi, perché so di non essere riuscita a fargli cambiare idea e che questo si tratta di un addio.

“Ti prometto che questo non accadrà” mormora, poi, il mio uomo, sollevandomi il mento con l’indice ed il pollice della mano destra “risolverò ogni singola cosa e tra qualche giorno farò ritorno. E quando questo accadrà, ti prometto che ce ne andremo il più lontano possibile da Chicago: noi due e Benjamin inizieremo una nuova vita in un altro Stato. Te lo prometto, ed io mantengo sempre le mie promesse… D’accordo?”.

Non gli credo.

Non riesco a credergli proprio a causa della sgradevole sensazione che non riesco a scrollarmi dalle spalle; eppure non gli dico nulla di tutto questo e mi limito ad annuire con la testa prima di chiudere gli occhi e lasciarmi baciare, un’ultima volta, dall’uomo che amo.

Lo seguo al piano inferiore, laddove Nicole ci sta aspettando con le braccia incrociate ed un’espressione irritata, come se avesse fretta di uscire il prima possibile da qui; non le rivolgo la parola, ma non riesco a trattenermi dal lanciarle un’occhiata che esprime il profondo astio che provo nei suoi confronti.

La odio.

Non solo ha spezzato il cuore a Theodore, calpestandolo senza alcun ritegno.

Adesso sta facendo qualunque cosa per rovinare la nostra relazione.

Stringo le mani attorno alla balaustra che c’è sotto il portico della villetta e con gli occhi seguo la vettura nera allontanarsi, finché non scompare dalla mia visuale: per la seconda volta, nel giro di poco tempo, mi ritrovo da sola, confusa, e senza la certezza di vedere Teddy tornare a casa.

E la parte peggiore è che mi devo occupare di spiegare ogni singola cosa a Benjamin.



 
Non posso raccontare ad un bambino di sette anni che suo padre ha un passato da criminale e psicopatico, o che sua madre è una grandissima stronza con un cuore più duro della pietra.

E non posso neppure raccontargli che entrambi sono coinvolti in un losco affare che riguarda un agente deviato della CIA.

Di conseguenza, sono costretta a ripiegare di nuovo sulla menzogna della nonna gravemente malata.

“Ha avuto una ricaduta improvvisa” spiego, dopo il rientro da scuola, senza mai staccare gli occhi da quelli di Ben, sforzandomi di non pensare a quanto siano terribilmente simili a quelli della madre “Theodore ha ricevuto una chiamata piuttosto allarmata ed è stato costretto a partire immediatamente… E questo significa che noi due dobbiamo trascorrere ancora qualche giorno insieme, senza di lui”

“Una ricaduta?”

“Sì, purtroppo tua nonna è molto malata e non le resta tanto da vivere. Tuo padre vorrebbe essere a suo fianco quando arriverà quel fatidico momento”

“Ho capito” mormora il ragazzino, e per un solo istante m’illudo di essere riuscita a convincerlo davvero “ma se è andato dalla nonna, perché la sua macchina è in garage?”.

Cazzo.

Nella bugia che ho appena rifilato a Benjamin mi sono completamente dimenticata di un particolare non del tutto indifferente: Theodore se ne è andato con la macchina della sua ex moglie; la sua Mustang nera è ancora parcheggiata nel garage, come Ben mi ha appena fatto notare.

Fortunatamente, però, riesco ad inventare rapidamente un escamotage.

“Ha deciso di prendere l’aereo. Dal momento che la situazione sembra essere molto più seria dell’ultima volta, temeva di arrivare troppo tardi se avesse affrontato il lungo viaggio in macchina”

“Ed è andato all’aeroporto a piedi?” insiste lui, piegando il viso verso destra.

“Sì, aveva bisogno di rinfrescarsi un po’ le idee, ed ha preferito lasciare a me la macchina per ogni evenienza”.

Questa volta penso di essere riuscita a convincerlo, ma sono costretta a ricredermi appena poche ore più tardi, quando sento dei rumori provenire dalla camera da letto di Theodore e scopro Ben seduto sulle piastrelle del pavimento del bagno, con in grembo un cassetto vuoto, che lui stesso ha sfilato da un mobile alle sue spalle.

“Mi hai mentito” mi accusa, prima che io possa chiedergli spiegazioni “lui non è andato a trovare mia nonna. Non credo neppure che lei esista. Lo vedi questo? Questo è il cassetto in cui Theodore tiene la sua pistola… Perché avrebbe dovuto portarla con sé se sta andando veramente a trovare sua madre in Alabama?”

“Benjamin, ti posso assicurare che tuo padre non aveva nessuna pistola con sé. Forse l’ha nascosta in un’altra stanza perché ha capito che tu sapevi della sua esistenza”

“Balle!”

“No, non sono balle! E non dovresti usare questo linguaggio. Devi credermi, Ben” mi siedo a mia volta sul pavimento, a suo fianco “tuo padre è andato davvero in Alabama. Tra qualche giorno tornerà e potrai chiederglielo tu stesso, ma devi promettermi una cosa molto importante: niente nottate dentro la casa sull’albero per far tornare Theodore prima a casa, e nient’altro di simile, d’accordo? Questi giorni, durante la sua assenza, devono trascorrere nel modo più tranquillo possibile. Allora? Abbiamo un patto?”.

Mostro al piccolo criminale il palmo della mano destra, aspettando che lui ricambi la stretta, suggellando così la nostra alleanza per una convivenza pacifica e tranquilla; Ben mi rivolge uno sguardo scettico ed una smorfia, ma alla fine cede, mi stringe la mano e ripone il cassetto nella corrispettiva fessura del mobile.

Abbiamo entrambi bisogno di svagarci in questo momento, e così decido di coinvolgere il ragazzino nella preparazione di una crostata alla frutta.

E poi, stendere l’impasto con il mattarello mi aiuta a rilassare i nervi.

Soprattutto quando fingo che sia il volto di Nicole.

“Sono contento che, alla fine, abbiate deciso entrambi di fare un passo avanti” commenta Benjamin, all’improvviso, attaccando alcune fette di mela che ho appena tagliato e sbucciato con cura “non ho mai visto Theodore così felice come negli ultimi giorni”

“Dici davvero?” domando, con un sorriso, sentendomi leggermente in colpa per i pensieri poco gentili nei confronti di sua madre.

Chissà quale sarebbe il suo giudizio se sapesse la verità.

“Sì, dico davvero… Ohh, hanno bussato alla porta! Vado io!”

“No, vado io!” lo blocco prima che possa scendere dallo sgabello  e correre in salotto “tu resta qui e non muoverti”.

Non so perché, ma vengo nuovamente travolta dalla sgradevole sensazione che mi ha aggredita nel momento della partenza di Theodore.

Perché qualcuno dovrebbe presentarsi davanti alla porta d’ingresso a quest’ora?

Perché proprio quando lui non c’è?

Ma, soprattutto, chi è quel ‘qualcuno’ che continua a bussare?

Per la prima volta, in tutta la mia vita, vorrei avere una pistola carica tra le mani, anziché uno strofinaccio da cucina.

Poso il panno sopra al tavolo, raccomando ancora una volta a Ben di non muoversi, e con passo incerto mi dirigo in salotto; mi avvicino alla porta d’ingresso, allungo la mano destra e giro il pomello, socchiudendola appena, pronta ad affrontare qualunque pericolo.

Nessuno.

Dall’altra parte non c’è nessuno.

Esco e mi guardo attorno, controllando sia il portico che il piccolo giardino avvolti dal silenzio più assoluto; attendo qualche istante e poi rientro in casa lasciandomi scappare una risata divertita, dandomi della stupida per i miei nervi a fiori di pelle.

“Perché stai ridendo?”

“Nulla, Ben… Comunque non c’era nessuno alla porta. Di sicuro si è trattato dello scherzo di qualche ragazzino” commento, agitando una mano con noncuranza, tornando a concentrarmi totalmente sulla crostata alla frutta.

Ma lo ‘scherzo di qualche ragazzino’ si trasforma in qualcosa di molto più serio quando, nel cuore della notte, vengo svegliata da un forte rumore; mi siedo sul materasso e rivolgo lo sguardo in direzione del corridoio, in attesa di sentirlo di nuovo.

 E poco dopo, infatti, il rumore si ripete.

Mi alzo ed esco dalla stanza cercando di non far scricchiolare le assi del pavimento e mi porto l’indice destro sulle labbra quando la testolina di Benjamin compare dalla sua camera da letto; gli faccio cenno di ripararsi lì dentro, prendo un profondo respiro, ed inizio a scendere le scale, facendo attenzione a non inciampare nel buio e con il battito del mio stesso cuore che mi martella nelle orecchie.

Non appena i miei piedi toccano il pavimento del salotto, la mia mente viene attraversata da un pensiero che mi raggela il sangue nelle vene: molto probabilmente sono a pochi passi da un intruso… Completamente disarmata.

Ma prima che il panico possa congelarmi il cervello, mi ricordo un particolare risalente alla prima volta che sono entrata nella villetta; un particolare che in quell’occasione mi aveva colpita per la sua bizzarria: Theodore custodisce un cacciavite proprio sopra ad una mensola in salotto.

Avanzo nell’oscurità più totale, con entrambe le mani appoggiate sulla parete alla mia sinistra, procedendo a piccoli passi, alla ricerca del cacciavite; e quando lo trovo e stringo l’impugnatura nella mano destra, mi sento in parte più sollevata.

Un altro tonfo mi coglie del tutto impreparata, seguito da delle parole borbottate a bassa voce, proveniente dalla cucina ed è proprio là che mi dirigo, fermandomi sulla soglia della porta: l’intruso è a pochi passi di distanza da me, appoggiato al lavandino; non si è ancora accorto della mia presenza perché è chinato in avanti, intento ad osservare qualcosa sul pavimento, ed io approfitto del suo attimo di distrazione per attaccarlo a sorpresa, commettendo quella che, forse, è l’azione più stupida che abbia mai fatto.

Con un urlo lo aggredisco alle spalle, saltandogli sulla schiena, spingendolo contro il pavimento con l’intento di immobilizzarlo, senza però considerare un piccolo particolare: lo sconosciuto è molto più alto e robusto di me, ed infatti, in un battito di ciglia, le nostre posizioni si ribaltano ed il cacciavite finisce nelle sue mani; provo a ribellarmi, scalciando nella speranza di colpirlo, apro la bocca per urlare a Benjamin di chiamare subito il noveunouno, ma una mano grande e calda mi copre le labbra, soffocando la mia richiesta.

“Faresti meglio a calmarti, Gracey, non ci tengo a ricevere una ginocchiata nei gioielli di famiglia”.

Mi blocco nello stesso istante in cui sento una voce maschile e strascicata pronunciare il mio nome, e contemporaneamente la mano sparisce dalla mia bocca, consentendomi di parlare.

“Come fai a conoscere il mio nome?”

“Perché io faccio parte dei buoni, dolcezza”.

Lui si alza, sento chiaramente sparire il peso che gravava sul mio corpo, ed un attimo dopo le luci della cucina si accendono, rivelando finalmente i tratti dell’intruso, che appartengono ad un ragazzo alto, slanciato, dalle spalle larghe; allunga la mano destra per aiutarmi, ma io lo allontano in modo brusco, mi alzo e retrocedo di qualche passo, andando a sbattere con la schiena contro una parete.

“E da quando i buoni entrano nelle case delle persone nel cuore della notte?” domando, rivolgendogli uno sguardo diffidente, e la risposta non si fa attendere.

“Da quando la persona che devono proteggere non apre loro la porta, dolcezza”

“Ma… Allora eri tu! Credevo fossero dei ragazzini…” mormoro, concentrandomi poi su alcune delle parole che ha pronunciato “proteggere? E chi dovresti proteggere?”

“Non è evidente dal momento che sono entrato in questa casa? Ho ricevuto l’ordine di proteggere te e Ben finché tutto non si sarà risolto nel migliore dei modi… Non dirmi che sei una di quelle ragazze belle, ma senza un briciolo di cervello… Ma che razza di domanda è ‘chi dovresti proteggere’?”

“Fermo, fermo, fermo!” esclamo, allungando entrambe le braccia, ignorando i primi sintomi di un fastidiosissimo mal di testa “io non… Io non sto capendo nulla. Si può sapere chi cazzo sei tu e per quale motivo ti sei intrufolato qui dentro?”.

Il ragazzo sconosciuto, di cui ancora non conosco il nome, solleva gli occhi e sbuffa, seccato dalle domande che gli ho appena rivolto, e ciò non fa altro che irritarmi: chiunque, al mio posto, vorrebbe ricevere delle risposte immediate se venisse svegliato in piena notte da un intruso che entra da una finestra della cucina.

“Allora non hai ascoltato una sola parola: ti ho detto che faccio parte dei buoni e che sono stato mandato qui per proteggere te e Benjamin. È stato lui a mandarmi. Ho provato ad oppormi, ma non sono riuscito a fargli cambiare idea… A quanto pare deve avermi scambiato per un baby-sitter, o forse è il suo modo per vendicarsi del pugno che gli ho dato”

“Ma di chi stai parlando?”

“Come sarebbe a dire ‘di chi stai parlando’? Sto parlando di Theodore, ovviamente”

“E si può sapere come diavolo fai a conoscere Theodore?” domando, sempre più confusa.

E la risposta secca, chiara e lineare che ricevo mi lascia sbalordita.

Letteralmente senza parole.

“Perché lui è mio padre”.

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Capitolo 29
*** Progeny; Parte Uno (Theodore) ***


“Papà…”.

Sorrido tra me e me sentendo Benjamin chiamarmi in questo modo, per la seconda volta, e lo guardo negli occhi.

“Sì, tesoro?”

“Adesso tu e Gracey siete una coppia, giusto?”

“Sì, possiamo definirci una coppia”

“Questo significa che dovrò chiamarla ‘mamma’ o ‘matrigna’?” mi domanda a bruciapelo, senza alcun preavviso, ed io mi ritrovo costretto a schiarirmi la gola più volte prima di dargli una risposta.

“Ohh, Ben!” esclamo “mi sembra un po’ presto per parlare di questo, non credi? Anche se io e Gracey ci stiamo frequentando, vogliamo fare un piccolo passo alla volta… Tu devi fare solo ciò che ti senti di fare, Benjamin. Nessuno ti vuole forzare, soprattutto in una questione delicata come questa”

“Quindi non vi sposerete e non avrete figli?”.

Il suo candore e la sua ingenuità mi lasciano senza parole, e non mi resta altro che cercare un modo per uscire dall’imbarazzante situazione in cui mi sono infilato a mia insaputa; e tutto ciò senza neppure considerare il fatto che mio figlio non sa nulla del recente incontro burrascoso che ho avuto con Nicole.

E non dovrà mai saperlo.

“Siamo arrivati” rispondo, indicando l’entrata della scuola, evitando così di dover dare delle spiegazioni; Benjamin, però, non demorde e solleva il viso verso di me, rivolgendomi uno sguardo risentito, perché ha capito ciò che ho appena fatto.

“Guarda che io ero serio poco fa, Theodore, penso che dovresti riflettere attentamente riguardo al matrimonio e al desiderio di allargare la famiglia per un semplice motivo” dice, mentre io mi chino per sistemargli il colletto del cappottino che indossa.

“Ahh, sì? Eri serio? E dimmi, tesoro, quale sarebbe questo semplice motivo che dovrebbe farmi riflettere attentamente riguardo al matrimonio e al desiderio di allargare la famiglia?” domando, divertito, usando le sue stesse parole; e me ne pento nello stesso momento in cui mio figlio socchiude le labbra per rispondermi, per poi scappare dentro l’edificio scolastico.

“Perché stai invecchiando ormai”.



 
“Non immaginerai mai che cosa mi ha detto Benjamin mentre lo accompagnavo a scuola” dico qualche minuto più tardi, lasciandomi cadere sui cuscini del divano; Gracey mi raggiunge dalla cucina con in mano due tazze colme di cioccolata calda: le posa sopra un tavolino e poi si accomoda sulle mie gambe, passandomi le braccia attorno alle spalle, procurandomi involontariamente dei brividi di piacere.

“Che cosa ti ha detto il piccolo criminale?” mi domanda incuriosita, con un sorriso dolce sulle labbra che le illumina il viso: è proprio durante momenti come questo che mi sento tornare indietro di quattordici anni, ai giorni in cui io e Susan ci frequentavamo, perché Gracey le assomiglia tantissimo.

Non sono ancora riuscito a spiegarmi questa strana sensazione, tuttavia non mi dispiace.

Anzi, è piuttosto piacevole.

“Mi ha detto…” inizio, passandole le braccia attorno ai fianchi, accarezzandole la schiena con gesti lenti “che è molto contento di vederci insieme, ma secondo lui dovrei pensare seriamente alle nozze e a dargli un fratellino o una sorellina perché non sono più un ragazzino. Mi ha detto molto chiaramente che sono da rottamare”.

La mia dolce metà scoppia in una risata divertita, cristallina come l’acqua di un fiume, in netto contrasto con le guance che rapidamente assumono la stessa tonalità di rosso di una mela matura.

“Davvero queste sono state le sue parole?” chiede, poi, faticando a trattenere un’altra risata “ma tu non sei vecchio, Theodore, hai appena cinquantatre anni…”

“Ohh, sì, sono proprio nel pieno della giovinezza”

“E tu che cosa gli hai risposto?”

“Nulla, perché è scappato in classe prima che avessi il tempo di realizzare le parole poco carine che mi aveva rivolto” mormoro, con un sospiro, facendo ridere nuovamente Gracey che, con un movimento fluido e con mio grande dispiacere, si alza e sparisce in cucina.

“Faresti meglio a indossare qualcosa di più comodo mentre preparo la colazione, ragazzo nel pieno della giovinezza… E fai attenzione agli scalini: potresti inciampare e romperti un femore”

“Molto divertente. Davvero molto divertente” commento, ironico, spostandomi al primo piano, nella mia camera da letto, per seguire il consiglio della mia nuova compagna; ma quando spalanco le ante dell’armadio, giro di scatto il viso in direzione della porta socchiusa, perché mi è sembrato di sentire dei passi ed una voce femminile che non appartengono a Gracey, che mi fanno serrare gli occhi e stringere con più forza il legno.

Prego con tutto me stesso, cercando di mantenere un controllo quasi glaciale, di essere rimasto vittima di un’allucinazione uditiva, causata dalla rapida successione di avvenimenti in cui mi sono ritrovato coinvolto nell’arco delle ultime settimane; ma purtroppo non è così.

E ricevo conferma proprio da quella stessa voce femminile, che mi auguravo di non sentire mai più in tutta la mia vita.

“Puoi degnarmi della tua presenza, Teddy-Bear, o devo prendere appuntamento per parlare faccia a faccia con te?”.

Con un solo colpo secco chiudo le ante dell’armadio, ma prima di scendere al piano inferiore prendo la mia pistola e la nascondo sotto la felpa che indosso: dopotutto l’avevo detto a Nicole, l’avevo avvisata di non avvicinarsi a me ed a Benjamin per nessuna ragione al mondo, o ne avrebbe pagato le amare conseguenze.

Ed io, lei lo sa meglio di chiunque altro, mantengo sempre le mie promesse.

“Gracey, vai in camera mia” ordino, senza degnare Nicole di una sola occhiata; la mia dolce metà mi rivolge uno sguardo confuso, prova a protestare ed è a questo punto che esplodo ed inizio ad urlare “ho detto di andare in camera mia, ora. E non farmelo ripetere una terza volta!”

“La dolcezza e la delicatezza sono sempre stati i tratti predominanti del tuo carattere, noto con piacere che in questo non sei affatto cambiato” commenta con sarcasmo la mia ex compagna, non appena restiamo da soli, con un sorriso compiaciuto sulle labbra; non le rispondo, muovo qualche passo verso di lei e, prima che possa intuire la mia prossima mossa, la blocco contro la porta d’ingresso, con la mano sinistra stretta attorno alla sua gola e la pistola puntata a pochi centimetri di distanza dal suo viso.

“Pensavo di essere stato chiaro a Creta. Te lo avevo detto che saresti andata incontro a spiacevoli conseguenze se fossi venuta qui” sussurro, sfiorandole l’orecchio sinistro con le labbra “e sai molto bene che io mantengo sempre le mie promesse”

“Tu non mi toglierai un solo capello, Bagwell” sibila lei, a denti stretti, impassibile e fredda come una lastra di ghiaccio.

“E da che cosa nasce questa sicurezza, bambina?”

“Da questo”.

Solleva la mano destra, mostrandomi una busta gialla e rettangolare, identica alle altre tre che ho ricevuto nel corso dell’ultimo mese e mezzo; sposto lo sguardo sull’oggetto, allentando la presa ed allontanando la pistola, e Nickie approfitta del mio attimo di distrazione per rifilarmi un dolorosissimo calcio al basso inguine che mi strappa un gemito di dolore e mi fa cadere a terra.

Non contenta, mi assesta anche un calcio in pieno volto che mi fa subito sentire il gusto ferroso del sangue un bocca; perdo la presa sulla revolver, che viene raccolta dalla mia ex compagna e moglie, e mi ritrovo con la canna nera puntata contro la mia fronte e con uno stivale premuto con forza sul mio petto, in modo da inchiodarmi alla moquette.

“Se non sapessi che hai trascorso questi sette anni in compagnia di Scofield, penserei di avere davanti ai miei occhi un’agente della Compagnia addestrata personalmente da Gretchen” mormoro, deglutendo il mio stesso sangue.

“Lo devo prendere come un complimento?” sulle labbra di Nicole appare un sorriso ironico “adesso possiamo parlare seriamente senza altre scenate melodrammatiche come quella di poco fa? Hai idea di quanto tempo prezioso abbiamo perso? A quest’ora dovremo già essere in viaggio, stiamo rischiando di arrivare in ritardo all’appuntamento”

“Fanculo. Io non vengo da nessuna parte. Ho chiuso con la squadra”

“Ahh, davvero? Faresti meglio a dare un’occhiata al contenuto di questa busta” commenta lei, senza smettere di sorridere, allontanando lo stivale dal mio petto, permettendomi di respirare di nuovo liberamente; lancia la busta sulla moquette, a poca distanza dalla mia testa, posa la pistola sopra ad un mobile ed incrocia le braccia sotto il seno, osservandomi in silenzio ed in attesa di una mia reazione.

Mi alzo lentamente dal pavimento, raccolgo la busta e l’apro, perplesso e diffidente, chiedendomi che cosa possa contenere di così sconvolgente da farmi cambiare idea; estraggo il piccolo fascicolo di fogli, osservo con un’espressione corrucciata la foto che è attaccata al primo e poi li sfoglio rapidamente, leggendo le numerose righe, ritrovandomi ben presto a trattenere il fiato.

Mano a mano che proseguo con la lettura le mie mani tremano sempre di più, e quando arrivo alla fine sono costretto a sedermi sul divano per paura che le gambe possano cedermi da un momento all’altro; appoggio su un cuscino i fogli e la busta e mi passo la mano destra tra i capelli, scompigliandomeli.

Vago con lo sguardo per la stanza, soffermandomi sulla vetrinetta in cui custodisco alcune bottiglie di whisky, e mi mordo la punta della lingua per resistere alla tentazione di scolarmi un goccio di liquore: adesso che ho scoperto il vero volto della donna che un tempo amavo, non mi sorprenderei di sentirmi etichettato come ‘alcolizzato’ e vedermi strappare dalle mani l’affidamento di Ben.

“Non può essere vero quello che ho letto. È una menzogna per farmi tornare indietro…”

“Lo sai che è tutto vero. Lo hai sempre saputo” mormora Nickie, porgendomi un altro pezzo di carta, piegato con cura “c’è anche questa. È meglio se la leggi ora”.

Apro la lettera e la leggo, senza riuscire a reprimere un tremore nella voce.

 
‘Teddy,
Ormai hai capito che il tuo misterioso benefattore sono io. E come ben sai, i miei regali hanno un prezzo da pagare. Ricordi che cosa c’era scritto nella lettera che hai trovato dentro la tua nuova casa? Che sarebbe arrivato il giorno in cui avresti dovuto ricambiare il favore? Quel giorno è arrivato, Teddy, e sai benissimo di non poterti tirare indietro. Non ora, non a questo punto. Ho bisogno che tu faccia qualcosa per me. Qualcosa che nessun altro può fare.
Insieme a questa lettera ho affidato a Nicole una busta che contiene delle informazioni che cambieranno la tua vita, di nuovo.
Quando ci avrai dato un’occhiata, capirai.
Ma tu sai già ogni cosa, vero? Lo hai già visto con i tuoi occhi anni fa, eppure non hai voluto crederci. Ora, però, è tutto differente.
Ma in cambio, ho bisogno che tu prenda una vita.
 
Michael S.’

 
Prendo un profondo respiro e restituisco la lettera a Nicole, che la infila in una tasca del cappotto; piego le labbra in un ghigno perché per l’ennesima volta, anche se ho fatto qualunque cosa perché ciò non accadesse, sono stato incastrato da Scofield, eppure ha ragione: non posso tirarmi indietro, non a questo punto e non dopo le informazioni che ho letto e che hanno dato conferma ad un sospetto che custodivo da tanto, troppo, tempo.

“D’accordo” dico, più a me stesso che alla mia ex compagna “lasciami qualche minuto per sistemare alcune cose e poi sono pronto a seguirti all’appuntamento ed a chiudere tutti i conti che ho in sospeso con il passato”

“Fai presto. Come ti ho già detto, il tempo non è dalla nostra parte”.

Non rispondo, perché in questo momento mi sento completamente svuotato da ogni energia, mi dirigo al primo piano come un automa, e sempre nello stesso modo fornisco qualche vaga spiegazione a Gracey, che non perde tempo a rivolgermi delle domande preoccupate: quando le comunico che devo partire subito, in compagnia di Nicole, i suoi occhi color nocciola si spalancano e si riempiono di una paura indescrivibile.

“Ma… Teddy…” balbetta, infatti “non puoi farlo, non puoi andare con quella donna dopo quello che ti ha fatto… Dopo il modo in cui ti ha trattato a Creta! Avevi detto che non volevi più avere nulla a che fare con questo casino, che d’ora in poi ci saremo stati solo tu, Benjamin ed io!”.

Chiudo gli occhi per qualche secondo, perché sento la testa scoppiare.

Gracey ha ragione, ha perfettamente ragione su tutto, ma non posso tirarmi indietro.

Non me lo perdonerei mai.

“Ricordo benissimo quello che ho detto. Ma è successo un imprevisto e… Devo andare”

“Un imprevisto? Che genere di imprevisto? È qualcosa che ha a che fare con la busta gialla che Nicole aveva in mano? Che cosa ti ha detto? Che cosa c’era dentro quella busta? Ti rendi conto che molto probabilmente ti ha rifilato un’altra serie infinita di bugie solo per coinvolgerti di nuovo…”.

Quanto vorrei che fosse così.

Scuoto la testa, senza riuscire a trattenere un ghigno.

“No… No, Gracey, ti posso assicurare che in questo caso non si tratta di una bugia. Credo di aver finalmente capito perché sono stato coinvolto nel piano di Scofield e non posso più tirarmi indietro, non dopo quello che ho visto. E tu devi rimanere qui con Ben, voglio sapervi entrambi al sicuro. Un paio di giorni e sarà tutto finito, e questa volta sono serio, non si tratta di parole al vento”

“Ma è già tutto finito per noi…” insiste lei, impedendomi fisicamente di uscire dalla stanza “hai rischiato la tua vita ben due volte per un uomo che ti odia e per una donna che ti ha scaricato come se fossi un sacchetto della spazzatura. Non devi niente a quelle persone, non c’è assolutamente nulla che ti lega a loro, Theodore…”

“Lo credevo anche io fino a poco fa”

“Theodore, ti prego, non andare” la sua voce, ormai, è ridotta ad un sussurro strozzato mentre mi prende per mano, in un estremo tentativo per farmi cambiare idea “lo so che ti sembrerà stupido, ma ho una brutta sensazione riguardo a tutta questa faccenda. Ho paura di non vederti tornare”.

Per la seconda volta, nel giro di pochissimi minuti, sono costretto a dare mentalmente ragione alla mia nuova compagna, perché non è l’unica ad essere oppressa dalla stessa, sgradevole, sensazione di una sciagura imminente: fin dal momento in cui ho aperto la prima misteriosa busta gialla, appena fuori dalle mura di Fox River, una parte di me aveva già capito che stavo andando incontro a qualcosa d’ignoto e terribile.

Qualcosa che, forse, mi avrebbe aiutato a chiudere i conti con il passato ed a espiare in parte i miei peccati, certo.

Ma qualcosa dal quale non sarei tornato indietro.

Non con le mie gambe, almeno.

Eppure, per quanto orribile possa essere, non sono spaventato dalla prospettiva di andare incontro ad un vero e proprio suicidio; ho solo un unico rimpianto: quello di non poter dare un ultimo abbraccio a Benjamin e di dirgli quanto suo padre lo ami profondamente.

Mi avvicino a Gracey e le passo le braccia attorno ai fianchi, avvolgendola in un abbraccio di cui ho più bisogno io che lei in questo momento; respiro per l’ultima volta il profumo dei suoi capelli e della sua pelle, imprimendolo nella mia mente, e poi le sollevo il mento con l’indice ed il pollice della mano destra, rifilandole quella che è spudoratamente una bugia.

Una delle peggiori e meno convincenti che ho raccontato in tutta la mia vita.

“Ti prometto che questo non accadrà. Risolverò ogni singola cosa e tra qualche giorno farò ritorno. E quando questo accadrà, ti prometto che ce ne andremo il più lontano possibile da Chicago: noi due e Benjamin inizieremo una nuova vita in un altro Stato. Te lo prometto, ed io mantengo sempre le mie promesse… D’accordo?”.

Ovviamente Gracey intuisce che si tratta solo di una menzogna, tuttavia non protesta né mi supplica ulteriormente: annuisce in silenzio, si asciuga le lacrime e mi lascia andare, seguendomi al piano inferiore.

E quando salgo nella macchina di Nickie, occupando il sedile anteriore del passeggero, l’ultima scena che vedo è lei, in piedi sotto il portico, con i capelli che le ricadono sulla schiena, bella e delicata come un giglio appena sbocciato.

“Speravo che impiegassi meno tempo”.

La voce della mia ex compagna e moglie mi riporta alla realtà, e mi abbandono contro lo schienale in pelle nera del sedile.

“Allora, dove siamo diretti?”

“Al porto. È quello il luogo prestabilito per l’appuntamento”

“Immagino che incontrerò… Lui” mormoro, dopo un attimo di esitazione.

Nickie annuisce, senza mai staccare gli occhi dalla strada, sistemando una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro; è strano vederla con i capelli scuri, del loro colore naturale, ma non posso non notare che le donano particolarmente.

Così come è apparso, questo pensiero bizzarro ed insensato abbandona subito la mia mente.

“Sì” sussurra a sua volta lei; si morde il labbro inferiore e, dopo sette lunghi anni, sento il mio nome uscire dalle sue labbra, senza essere seguito da appellativi offensivi “Theodore?”

“Sì?” domando, rivolgendo lo sguardo al paesaggio che sfreccia velocemente affianco a noi.

“Dato che abbiamo ancora qualche minuto di viaggio, risponderesti ad una mia domanda?”

“Credi di essere ancora nella posizione di poter esigere delle risposte da parte mia?”

“Non ricominciare a fare lo stronzo. Non riguarda né Benjamin né noi due… In verità riguarda una frase della lettera di Michael” controbatte Nicole, lanciandomi una rapida occhiata, tornando a concentrarsi immediatamente sulla strada, imboccando una deviazione a sinistra “che cosa significa che tu hai già visto tutto con i tuoi occhi anni fa?”

“Non so come Scofield faccia a saperlo, ma penso che si riferisse ad un episodio accaduto ventisette anni fa” commento, ricevendo uno sguardo perplesso che equivale ad una muta richiesta di proseguire con la spiegazione “ero appena uscito dal mio primo periodo di detenzione in un carcere quando ho sentito le prime voci circolare… Ed anche se sembravano essere solo tali, ho voluto controllare con i miei occhi perché avevo bisogno di una prova… E l’ho avuta già a quel tempo, ma non ho voluto crederci”

“Potresti essere più chiaro, Bagwell?”

“In questo momento non ci riesco… Sai, devo ancora riprendermi da quello che ho letto”

“Come preferisci” commenta Nickie, scrollando le spalle, spegnendo il motore della macchina “in ogni caso siamo arrivati e faresti meglio a scendere… Ti sta già aspettando”.

Con un cenno della testa mi indica un ragazzo che sta scendendo da un motoscafo e che si guarda attorno confuso, come se non sapesse l’esatto motivo per cui si trova lì, rigirandosi un vecchio barattolo di plastica tra le mani: lo stesso giovane che ho visto a Creta e che mi ha generosamente regalato un livido sotto l’occhio destro.
Prendo un profondo respiro e scendo dalla macchina, quando mi rendo conto che la mia compagna di viaggio non si è mossa di un solo millimetro dal posto del guidatore le rivolgo uno sguardo corrucciato, seguito da una domanda.

“Non vieni con me?”

“Ohh, no. Questo è un momento che riguarda solo voi due, Bagwell, io sarei di troppo. Ma non ti preoccupare, resterò qui a controllare che la situazione non prenda una brutta piega e sarò pronta ad intervenire se dovesse essercene bisogno. In ogni caso, buona fortuna, mi auguro che tu abbia pensato a qualcosa da dire”.

No, penso chiudendo lo sportello della vettura, in realtà non ho pensato a nulla.

Non so neppure come affrontare l’argomento.

Mi avvicino al ragazzo, che si sta ancora guardando attorno, ed aspetto che sia lui ad accorgersi della mia presenza; quando ciò accade, l’espressione confusa che ha sul viso si accentua perché mi riconosce senza un attimo di esitazione.

“Tu?” mi chiede, difatti “si può sapere per quale motivo sei qui? Anzi, no, non dirmelo. Mi hanno sempre raccomandato di non rivolgere la parola ai tizi inquietanti, soprattutto in luoghi isolati come questo. Ti saluto, amico, è stato un piacere”.

Insolente.

Irritante.

Arrogante.

“Capisco la tua confusione, ragazzo, scommetto che ti senti anche preso in giro, vero? Per anni hai riposto la tua fiducia in un uomo che pensavi di conoscere e poi hai scoperto che per tutto quel tempo ha indossato una maschera, mentendoti perfino sulla propria identità… Kaniel Outis non era altro che un alter ego… Anche io ne ho avuto uno per anni… T-Bag… Già… T-Bag era il mio soprannome. Anche ‘Whip’ è un soprannome, vero? Il tuo vero nome è David Martin”.

Whip spalanca gli occhi, la distanza tra noi due sparisce, e compie un’azione che non avevo previsto: mi afferra saldamente per la gola.

“E tu come cazzo fai a conoscere il mio nome?”

“Faresti meglio a dare un’occhiata a questi. Qui dentro troverai tutte le risposte che stai cercando” rispondo, a denti stretti, sbattendogli sul petto il fascicolo di fogli; lui li prende con la mano libera, e senza degnarli di una sola occhiata li lancia contro le assi del molo, rivolgendomi uno sguardo furioso, aumentando la presa sul mio collo, impedendomi quasi di respirare.

“Ti ho chiesto come cazzo fai a conoscere il mio nome!”

“Whip, lascialo andare subito!” urla Nicole, raggiungendoci ed interponendosi tra noi due “è dalla nostra parte, fa parte della squadra!”

“Ma lui conosce il mio nome!” grida a sua volta il giovane, puntandomi contro l’indice destro, in un gesto accusatorio “come cazzo fa a conoscere il mio vero nome?”

“Ti sei mai chiesto perché Michael ti ha fatto uscire di prigione?” intervengo, massaggiandomi la gola “aveva bisogno di qualcuno che lo affiancasse e quando gli è capitato il tuo fascicolo tra le mani ha capito di aver trovato esattamente ciò che stava cercando. La tua innata capacità di distinguerti anche nelle situazioni più infime gli ha… Gli ha ricordato una persona che conosceva…”

“Ma si può sapere che cazzo stai dicendo, vecchio?”.

Chiudo gli occhi e prendo un profondo respiro.

Si ostina ancora a non capire, e così non mi rimane altro che essere diretto.

“Sei terribilmente insolente, irritante e arrogante. Non hai alcun rispetto per le altre persone ed in te c’è una profonda vena d’ingratitudine” commento, con un sospiro “tutti tratti distintivi del tuo carattere che hai ereditato da me”.

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Capitolo 30
*** Progeny; Parte Due (Theodore) ***


All’interno della macchina regna il silenzio più assoluto e nessuno di noi tre sembra essere intenzionato ad iniziare una conversazione: né io che sono concentrato a guidare, né Nicole che occupa il sedile posteriore destro, né Whip che è seduto affianco a me.

Alla fine, dopo altri cinque minuti abbondanti, è lui a schiarirsi la gola prima di parlare.

“Dunque… Tu saresti mio padre?” mi domanda, con una strana espressione che non riesco a decifrare, e quando gli rispondo in modo affermativo si volta in direzione di Nickie, rivolgendole quella che è a tutti gli effetti una vera e propria accusa “e tu lo hai sempre saputo e non me lo hai mai detto?”

“Avevo ricevuto degli ordini ben precisi da Michael e non potevo trasgredirli”


“Come avrai ben capito, figliolo, la giovane donna che è seduta alle tue spalle è molto brava a mantenere i segreti. Scommetto che non ti ha neppure accennato al fatto che io e lei abbiamo avuto una relazione da cui è nato un meraviglioso bambino di nome Benjamin. Ohh, certo che non lo ha fatto. E sai perché? Perché la nostra storia per lei è stata solo un ‘piccolo contributo iniziale’ da parte mia quando abbiamo concepito Ben e nulla di più”

“È davvero necessario tirare fuori questa storia in questo momento? Hai appena scoperto di avere un altro figlio e vuoi parlargli dei nostri problemi personali?”

“Quindi voi due avete avuto una storia? Ed io avrei un fratello?”

“Sì, noi due abbiamo avuto una storia in passato, purtroppo. E sì, hai un fratello che ha sette anni”

“Grandioso!” esclama Whip, alzando entrambe le mani “tutta questa storia sembra uscita da una soap opera melodrammatica. E grazie alle tue parole non riuscirò più a togliermi dalla testa l’immagine di voi due che scopate nella camera di un motel!”.

Piego le labbra in una smorfia a causa del commento irriverente e fuori luogo di mio figlio; lancio una rapida occhiata allo specchietto retrovisore e vedo Nicole sollevare gli occhi al tettuccio della macchina, per poi scuotere la testa con un’espressione esasperata che è il riflesso della mia.

“Per tua informazione, io e lei non abbiamo mai scopato nella stanza di un motel. E comunque Nickie ha ragione: questo non è il momento migliore per tirare fuori i nostri problemi personali” dalle mie labbra esce una bassa risata “adesso, finalmente, capisco il significato di quelle parole”

“Quali parole?”

“Queste” dico, passandogli un foglio che ho portato da me “quando sono uscito da Fox River ho ricevuto una busta gialla che conteneva una fotografia di Michael. Leggi la frase che c’è scritta sotto”

“Per mano tua potrai conoscere le glorie della tua pro… Pro…”

“Progenie, figliolo. Si dice ‘progenie’” mormoro, correggendolo subito “in un primo momento credevo che avesse a che fare con la religione, o qualcosa di simile… Ma adesso so per certo che non è così, e che quella frase stava parlando di te, David. Capisci? Perché tutto è iniziato da quando ho deciso di sottopormi all’intervento per avere una nuova protesi”

“No, in realtà non capisco” risponde lui, appoggiando entrambe le mani sulle tempie “non capisco assolutamente nulla, questa situazione è assurda ed io non ho la più pallida idea di come affrontarla… Voglio dire… Fino a qualche minuto fa ero convinto di essere orfano… Ed ora scopro non solo di avere un padre, ma di avere anche un fratello minore che ha avuto dalla mia compagna di squadra. E lei, per tutto questo tempo, ha sempre saputo la verità e me l’ha tenuta nascosta! Ed in più, Michael mi ha costretto a salire in un motoscafo per raggiungere una boa a cui era attaccato un sacchetto che conteneva un barattolo pieno di sangue e… E io non so neppure il perché! Mi sta per scoppiare la testa”

“Non sei l’unico, David” commento, osservando con la coda dell’occhio il vecchio barattolo appoggiato sul cruscotto; non so perché, ma il solo fatto di sapere che contenga del sangue mi provoca un modo di nausea in bocca “forse è arrivato il momento che la tua compagna di squadra ci dia delle spiegazioni più approfondite, perché ormai è chiaro che lei è l’unica, oltre a Michael, a conoscere l’intero quadro generale. Stiamo aspettando una tua risposta, bambina”.

Gli occhi azzurri della diretta interessata, in netto contrasto con la chioma scura che scende in morbide onde ai lati del suo viso, mi fissano dallo specchietto retrovisore, e vedo il suo sopracciglio destro inarcarsi.

“Riceverai le dovute risposte quando arriverà il momento e non sarò io a dartele. È meglio se parcheggi, perché siamo arrivati” mormora Nicole indicando qualcosa con un cenno della testa; parcheggio la vettura vicino al marciapiede e quando scendo, chiudendo la portiera alle mie spalle, rivolgo lo sguardo in direzione di un piccolo molo di legno affacciato su un lago: proprio là, impegnati in quella che sembra essere un’accesa discussione, ci sono Sara e Michael in attesa del nostro arrivo.

La mia ex compagna è la prima a raggiungere i novelli fidanzatini: abbraccia entrambi e poi, sottoforma di un sussurro che riesco a malapena a cogliere, pone una domanda a Scofield di cui non riesco a sentire la risposta; David è il secondo ad arrivare sul molo, seguito subito da me.

Senza perdere tempo in inutili preamboli o abbracci strappalacrime di cui non sento la necessità (e so per certo che lo stesso vale anche per Michael) affronto il mio nemico di un tempo, chiedendogli di spiegarmi il motivo per cui sono stato coinvolto nel suo piano, dato che tra noi due c’è sempre stato un rapporto molto teso, senza soffermarmi sul fatto che l’ultima volta che abbiamo parlato lui ed il fratello mi hanno rifilato una gomma da masticare prima di comunicarmi che sarei ritornato nuovamente a Fox River.

E la sua risposta mi fa risalire il sangue al cervello.

“Poseidone controllava tutte le persone vicine a me. In questi anni ho provato più volte a contattare Sara e lui, puntualmente, ha intercettato ogni mio tentativo. Ecco perché dovevo scrivere a qualcuno che odiavo e disprezzavo, qualcuno di cui lui non sospettasse minimamente, e se avessi fatto qualcosa per quell’uomo… Poi lui sarebbe stato in debito nei miei confronti”

“E quindi hai pensato di prelevare mio figlio di prigione, coinvolgerlo in questa storia, mettere in pericolo anche la sua vita, per poi organizzare il nostro incontro, incastrandomi così a collaborare con te. E lei…” commento con una risata amara, rivolgendomi poi a Nicole “lei non ha fatto altro che rincarare la dose con Ben”

“Stai dimenticando la casa e la macchina nuova. Senza contare la protesi da un milione di dollari”

“Questo si chiama giocare sporco”

“Tu eri l’unica persona a cui potevo rivolgermi in quel momento, Teddy, perché sei l’unico che può porre materialmente fine a questa faccenda. E sai benissimo a che cosa mi sto riferendo” rincara la dose Scofield, senza battere ciglio, con la sua solita espressione imperturbabile: tutto l’opposto dell’uomo sofferente, in fin di vita, che ho visto a Creta.

Prima che possa ribattere, o saltargli letteralmente alla gola, David s’intromette nella nostra conversazione.

“Scusate, ma io continuo a non capire il punto della questione! Si può sapere di che cosa state parlando? Perché io continuo a non capirci nulla!”

“Vuole che io uccisa Poseidone” dico, dopo un attimo di silenzio, rivelando finalmente il misterioso compito al quale solo io posso adempiere, il suicidio al quale sto andando volontariamente incontro: perché fare ciò che il piccolo Michelangelo mi sta chiedendo, equivale a buttare al vento la possibilità di crearmi una nuova vita e di rinunciare per sempre a Benjamin, a David ed a Gracey per una causa più grande di tutti noi.

“Che cosa?” domanda mio figlio, alzando il tono di voce “ma questo significa che verrà arrestato!”

“David, ascolta, ho trascorso la maggior parte della mia vita dietro le sbarre. Sono abbastanza adulto da prendermi le responsabilità delle mie azioni…”

“Non così in fretta, bello!” m’interrompe lui, alzando la mano destra, e nella mia mente si forma in automatico una domanda: davvero mi ha appena chiamato ‘bello’? “non posso perdere mio padre proprio adesso che l’ho appena conosciuto!”

“Tutti noi stiamo rischiando tantissimo” interviene Sara, facendo sentire la sua voce per la prima volta, tormentandosi le mani “Jacob ha preso Mike. In questo momento ha nostro figlio e non abbiamo la più pallida idea di quello che potrebbe fargli per… Per farla pagare a me ed a Michael”


“Ehi!” protesta, picchiando i pugni sul finestrino “si può sapere perché diavolo mi hai appena chiuso fuori?”.

Abbasso il finestrino e mi sporgo leggermente verso di lui.

“Per un semplice motivo: tu non verrai con noi due”

“Che cosa? Stai scherzando, spero! Hai sentito quello che ha detto Michael? Io devo…”

“Ho sentito benissimo quello che ha detto Scofield, ed anche se mi consideri un vecchio ti posso assicurare che il mio apparato uditivo funziona ancora benissimo, ragazzo mio. E infatti ho anche sentito che ciò che ci aspetta è molto pericoloso, e l’ultima cosa che voglio è perdere mio figlio nello stesso giorno in cui l’ho conosciuto”
“Che cosa? Ma io…”

“Ohh, David, smettila!” sbotto, irritato “sei un maledetto cazzone impulsivo, mi è bastata solo un’occhiata per capirlo. Finiresti solo col fare un passo falso e mandare a puttane l’intero piano!”

“Ma Michael…”

“Michael non è tuo padre! Io sono tuo padre, e come tale voglio impedirti di commettere una stupidaggine. E poi…” m’interrompo per passargli un foglietto “in questo momento ho lasciato tuo fratello a casa insieme ad una ragazza, Gracey. Visto che potrebbero essere a rischio anche le loro vite mi sentirei più tranquillo a saperti con loro. Qui c’è scritto l’indirizzo, non farai fatica a trovarlo, è poco lontano. Così, nel frattempo, una bella passeggiata ti aiuterà a schiarirti le idee ed a capire che sto facendo questo solo per il tuo bene”.

Metto in moto la macchina e parto senza lasciargli il tempo di ribattere o di ricoprirmi d’insulti, lasciandolo solo, confuso ed incazzato in mezzo alla strada, con un pezzo di carta in mano e qualche chilometro da percorrere a piedi; mano a mano che la sua figura assomiglia sempre di più ad un puntino lontano, sento un peso togliersi dal mio petto.

Chiedo a Nicole delucidazioni riguardo alla nostra prossima destinazione e lei, in silenzio, digita un indirizzo nello schermo del navigatore.

“Hai preso la decisione migliore, ma avresti potuto esprimerti con parole diverse ed usando un tono meno duro. Mi auguro che tu non sia così brutale anche con Benjamin” commenta poi, appoggiandosi allo schienale del sedile “e visto che sei stato tu ad introdurre l’argomento, potresti spiegarmi chi è questa ragazza di nome Gracey?”

“Potrei… Ma non lo farò. A meno che tu, prima, non mi dia alcune delucidazioni sulla tua storia d’amore con Lincoln. Avrei potuto immaginare Michael visto che da bellissimo ragazzo si è trasformato in un bellissimo uomo… Ma Burrows. Andiamo. Burrows non ha un briciolo di cervello, non posso credere che tu sia attratta da quella montagna di muscoli… O vuoi dirmi che nasconde delle doti particolari, soprattutto nella zona del basso inguine?”.

Noto con piacere che l’impassibilità della mia ex compagna viene messa a dura prova da un intenso rossore che le attraversa le guance, ma lo stesso non vale per la sua voce, che non abbandona quella freddezza innaturale che continua a lasciarmi spiazzato.

Ma che cazzo le ha fatto Scofield in questi sette anni?

“Se dovessi basarmi solo su quello, allora starei ancora insieme con te visto che ragioni con l’uccello, Bagwell. Che tu ci creda o no, Lincoln è una persona dolcissima e comprensiva, che ha saputo starmi accanto in diverse occasioni… Ovviamente in modo diverso rispetto a suo fratello”

“Ohh, sì, questo lo avevo capito da solo, non avevo bisogno di questa precisazione da parte tua, ma ti ringrazio ugualmente per avermelo detto. E da quanto tempo… Da quanto tempo va avanti questa storia?”

“Un po’”

“Potresti essere più precisa?”

“Ormai sono quasi quattro anni”.

Mi aggrappo a tutto il mio autocontrollo per non premere il freno ed inchiodare la macchina, rischiando così di fare un incidente; stringo con così tanta forza il volante che le nocche della mano destra diventano bianche: credevo che la loro relazione andasse avanti da settimane, al massimo da qualche mese, non che fosse una questione di anni.

Non ero psicologicamente pronto a questo.

“Quasi quattro anni” ripeto, con lo sguardo sempre fisso sulla strada, seguendo le indicazioni della voce robotica del navigatore “quindi lui sapeva tutto di Michael e con me ha finto”

“No, lui era davvero convinto che Michael si fosse sacrificato. Sono stata costretta a mentirgli… E questo non me lo ha ancora perdonato”

“Ahh, ma allora c’è maretta in questo momento tra voi due”

“Non solo per colpa mia. Linc si è sentito smarrito dopo la perdita di suo fratello, ed è tornato alle brutte, vecchie, abitudini che lo hanno portato a Fox River” confessa Nickie, con un lungo sospiro “si è messo nei casini con una persona molto pericolosa”

“Chi?”

“Luca Abruzzi”.

Vengo colto, alla sprovvista, da un altro moto di nausea a causa della valanga di ricordi spiacevoli che il cognome ‘Abruzzi’ risveglia in me; i miei occhi si posano involontariamente sulla protesi che ha sostituito la mia mano sinistra e, per un attimo, rivedo me stesso dentro il vecchio capanno, durante la notte dell’evasione, rannicchiato a terra ed il mio arto amputato abbandonato a poca distanza, in una pozza di sangue.

Dei brividi freddi mi percorrono la schiena e sento la stoffa della felpa incollata alla pelle a causa del sudore.

“Il figlio di John?”

“Sì, proprio lui”

“Chissà perché, ma non ne sono affatto sorpreso: solo un idiota come Burrows può commettere una cazzata simile. Io al posto di Scofield m’incazzerei, dopo tutta la fatica fatta per organizzare un’evasione per salvargli il culo dalla sedia elettrica. Senza contare le conseguenze a cui siamo andati incontro”

“In ogni caso non sono faccende che ti riguardano. Al massimo riguardano me e Linc, o lui e Michael. Io ho risposto alla tua domanda, adesso devi fare lo stesso con la mia: chi è Gracey?”.

Sulle mie labbra compare un ghigno, perché già mi pregusto la piccola vendetta che sto per prendermi.

“Ricordi Susan?”

“Susan? La tua ex compagna?”.

Nicole corruccia le sopracciglia in un’espressione confusa, e ciò non fa altro che rendere la situazione ancora più divertente.

“Sì, proprio lei” confermo, facendo una pausa strategica prima di ‘sganciare la bomba’ “Gracey è sua figlia”.

Nicole gira il viso, di scatto, verso di me; un improvviso pallore si diffonde sulle sue guance, ma in compenso gli occhi chiari si accendono di una luce sinistra ed omicida, che per un secondo mi fa vacillare e pentire delle mie parole, e che fa sorgere in me una grande consapevolezza: non mi ha ancora stretto le mani attorno alla gola solo perché sto guidando.

Ed è lei stessa a confermarmelo.

“Ringrazia il cielo che stai guidando e che non ci tengo ad andare incontro ad un suicidio insieme a te” sibila, a denti stretti, facendo fatica a trattenersi “se è uno scherzo ti conviene dirmelo subito, perché è davvero di pessimo gusto”

“No, bambina, non si tratta affatto di uno scherzo. In realtà, non sono mai stato così serio in tutta la mia vita”

“E si può sapere come cazzo è potuto accadere?”

“Diciamo che si è trattata di una curiosa coincidenza” commento, con un sorriso che mi procura un’altra occhiata iraconda “una mattina, dopo aver accompagnato Ben a scuola, ci siamo incontrati per puro caso ed abbiamo chiacchierato un po’ in una caffetteria. Gracey ha iniziato a frequentare casa mia e… E poi è accaduto quello che è accaduto: questa è la sintesi della nostra storia, il resto non ti riguarda”

“Ci sei andato a letto?”

“Questa domanda rientra nella categoria ‘il resto non ti riguarda’” rispondo in modo secco, ricambiando i suoi sguardi fulminanti “come tu mi hai detto che non mi devo intromettere nelle questioni che riguardano te e quel gorilla senza cervello di Burrows, lo stesso vale per le questioni che riguardano me e Gracey. Non sono di tua competenza”

“Ohh, e invece si che lo sono, perché si tratta di una faccenda completamente diversa da me e Linc… Ferma la macchina, siamo arrivati”

“Lo so, tesoro, me lo ha appena annunciato anche il navigatore. Non ho bisogno che tu me lo ripeta” sbotto, parcheggiando, e ne approfitto per guardarmi attorno “perché siamo nel parcheggio di un motel?”

“Stai zitto, non sono affari che ti riguardano. Non provare a scendere dalla macchina ed a seguirmi, perché questa parte del piano di Michael non ti riguarda affatto!” mi ringhia contro, scendendo dalla vettura e sbattendo con forza la portiera; preferisco non protestare ed alzo entrambe le mani, in segno di resa, e poi la osservo allontanarsi a passo veloce, bussare alla porta di una stanza, ed entrare.

Quando la porta si richiude prendo un profondo respiro, appoggio la testa al sedile e mi copro gli occhi con la mano sinistra, aspettando il ritorno di Nickie e lottando contro un fastidiosissimo mal di testa.

Mio dio, penso, tutto questo deve essere solo un incubo.

Un incubo dal quale non riesco a svegliarmi.

Chiudo gli occhi, stringo i denti, e resto in questa posizione per diversi minuti, pregando di svegliarmi, ma quando socchiudo le palpebre nulla è cambiato: non sono né nella mia cella a Fox River, né nel mio letto insieme a Benjamin; mi trovo ancora in macchina, in un bagno di sudore freddo, in attesa di una giovane donna che mi odia con ogni fibra del suo corpo e con la prospettiva di non vedere un’altra alba sorgere.

Si, perché Scofield ha riposto in me la massima fiducia per uccidere Poseidone, ma sembra non aver neppure lontanamente considerato la possibilità che sia Poseidone ad uccidere me.

Che schifo.



 
Quando la mia ex compagna torna dalla sua ‘missione’, si siede affianco a me senza rivolgermi la parola e digita un altro indirizzo nello schermo del navigatore; rivolge lo sguardo verso il finestrino ed è solo a questo punto che riprende il discorso laddove l’avevamo lasciato in sospeso, dicendomi che devo troncare ogni rapporto con Gracey, non appena la questione Poseidone sarà chiusa.

“Troncare?” chiedo, incredulo, mentre guido “perché dovrei troncare? Lei mi fa stare bene…”

“Me lo stai chiedendo davvero? Non è abbastanza… Ovvio?” mi domanda lei, in tono più calmo e contenuto, ma sempre con la stessa luce sinistra nelle iridi azzurre “è la figlia di Susan”

“Sa tutto riguardo al mio passato, se è questo che ti preoccupa, perché al mio ritorno da Creta le ho raccontato ogni singola cosa. Anche tutto quello che a te non ho mai confessato”

“Non è questo il punto” ribatte subito Nicole, e le sue labbra si piegano in uno strano sorriso, che in parte mi ricorda un’espressione di disgusto “quanti anni ha? Sedici? Diciassette?”

“Non è una cosa che ti riguarda”

“Ahh, lo sapevo. La tua risposta vaga dice già tutto da sola. Non arriva neppure ai diciotto anni, vero? Sei tornato alle tue vecchie abitudini… Com’è che si dice in questi casi? Il lupo perde il pelo ma non il vizio, giusto? Chissà quante balle le avrai raccontato per farla cadere ai tuoi piedi. Sei disgustoso. Disgustoso e ridicolo”

“Per tua informazione, Gracey non è una mia vittima: non l’ho né rapita né segregata. In realtà… Lei per prima mi ha confessato di provare dei sentimenti molto profondi per me. L’aveva sempre considerata una semplice cotta passeggera, ma quando mi ha rivisto a Chicago ha capito di essere innamorata di me”

“E tu, ovviamente, hai colto l’occasione al volo”

“Su questo ti sbagli, perché quando mi ha confessato di provare qualcosa per me che andava ben oltre al semplice affetto io mi sono tirato indietro, dicendole che non ero la persona giusta per lei sotto molti punti di vista… Tutto è cambiato quando sono tornato da Creta. Diciamo che quel viaggio mi è servito per schiarirmi le idee e per capire molte… Cose…” mormoro, continuando a mantenere il contatto visivo con la strada; di sfuggita, mi accorgo che Nickie scuote la testa e che il sorriso sulle sue labbra si è definitivamente trasformato in una smorfia.

“E questo dimostra che tu non sei affatto innamorato di lei. Hai agito così solo per vendetta nei miei confronti… Oppure sei così disperato che hai intrapreso una relazione con Gracey perché assomiglia a sua madre?” chiede Nicole, affondando la lama di un pugnale in una vecchia ferita “no, non rispondere. Sei già abbastanza nella merda così, non peggiorare ulteriormente la tua situazione. Sai perché devi troncare ogni rapporto con Gracey, non appena questa storia sarà finita? Tralasciando il fatto che sei ritornato alle tue vecchie abitudini di predatore sessuale? Ormai sai meglio di me che non si può vivere per sempre in una bolla di sapone. Non hai mai pensato, neppure per un solo secondo, a quello che potrebbe accadere se Susan dovesse scoprire la vostra relazione? Sai benissimo che prima o poi accadrebbe e sai altrettanto bene quali sarebbero le conseguenze: verresti denunciato alla polizia, arrestato, riportato a Fox River per sempre… E Benjamin sarebbe costretto ad entrare in un carcere per trascorrere un po’ di tempo in compagnia di suo padre. Vuoi davvero questo per nostro figlio?”.

Anche se non rispondo, sono costretto a dare mentalmente ragione alla mia compagna di viaggio, perché mi ha appena sbattuto letteralmente in faccia un problema non indifferente, al quale io non ho mai voluto pensare: nel mio egoismo non ho neppure preso in considerazione l’eventualità che Susan possa venire a conoscenza del rapporto che c’è tra me e Gracey, e le successive conseguenze.

E solo ora, per la prima volta, lo realizzo con fredda lucidità.

Cazzo, cazzo, cazzo.

“Perché siamo in un altro motel?” domando, dal momento che siamo arrivati a destinazione “hai un altro appuntamento del quale io non devo sapere assolutamente nulla perché Michael ha deciso così?”

“No” risponde lei, scendendo dalla macchina, mostrandomi la chiave di una camera che deve aver prenotato in precedenza “trascorreremo qui qualche ora”

“Perché? Credevo che la nostra priorità fosse uccidere Poseidone, non chiuderci nella camera di un motel… O vuoi dirmi che Scofield ha iniziato ad occuparsi di terapia di coppia?” commento, con un ghigno; Nickie non risponde alla mia provocazione: inserisce la chiave nella fessura di una porta, la gira due volte verso destra, ed entra per prima, subito seguita da me.

Richiudo la porta alle mie spalle e mi guardo attorno, memorizzando il mobilio della camera: un armadio, una scrivania, una sedia, uno specchio dalla forma circolare, una porta che presumibilmente conduce al bagno.

Ed un letto matrimoniale.

A quanto pare Scofield ha davvero iniziato ad occuparsi di terapia di coppia.

Lentamente, con gesti misurati, Nicole si toglie prima la sciarpa nera che le copre il collo e poi il lungo cappotto, appoggia entrambi i capi d’abbigliamento sullo schienale della sedia e raccoglie i capelli in cima alla testa, lasciando che alcune ciocche ribelli le ricadano ai lati del viso; mi tolgo a mia volta la giacca e mi lascio cadere sul bordo del letto, sentendomi improvvisamente svuotato da ogni energia, forse a causa della pesante discussione che ha scandito l’intera durata del nostro viaggio.

“La nostra priorità è ancora Poseidone. E proprio perché voglio eliminarlo dalla faccia della Terra cerco di seguire alla lettera ogni singolo ordine di Michael, senza mai discutere o contraddirlo, perché lui sa come muoversi. Mi manderà un messaggio quando arriverà il momento di presentarci al luogo prestabilito per mettere la parola ‘fine’ a tutta questa storia… Fino a quel momento non possiamo fare altro che aspettare e prepararci”

“Nicole” richiamo la sua attenzione chiamandola per nome, e lei si volta subito, rivolgendomi uno sguardo altrettanto serio “perché?”

“Perché è questo che prevede il piano, Bagwell, ma se tu ne hai uno migliore nessuno t’impedisce di esporlo”

“No, non mi stavo riferendo a quello… Perché siamo arrivati a questa situazione?” indico prima lei e poi me stesso con la mano destra, ponendole finalmente la domanda che da un po’ di tempo mi frulla in testa “che cazzo ti ha fatto Scofield in questi sette anni?”

“Michael non mi ha fatto proprio nulla, Theodore. Mio dio, non hai ancora capito che l’unico responsabile sei tu?” dice, esasperata “che cosa avrei dovuto fare? Venire a Fox River una volta al mese per trascorrere mezz’ora a litigare con te? O, peggio, fingendo che non fosse mai accaduto nulla? No, Theodore, quella non sarebbe stata vita… Ed io non meritavo un trattamento simile dopo tutto quello che avevo sacrificato per stare a tuo fianco. Dopo che ti avevo difeso a spada tratta davanti al resto della squadra… Hai mai pensato a come mi sono sentita dopo il tuo abbandono? A quanto mi sono sentita stupida, ferita e tradita?”

“E tu hai mai pensato a come mi sono sentito quando Karla mi ha detto che tu non c’eri più? O a come mi sono sentito quando tu hai chiamato Lincoln ‘amore’?”

“No, e sai perché? Perché è stata una minima parte del dolore che io ho provato a causa tua” la mia ex compagna mi volta le spalle, prende un profondo respiro per calmarsi, ma quando torna a guardarmi negli occhi, sento un tremolio nella sua voce “io… Ho bisogno di una doccia. Questa discussione mi ha stremata. Tu sei libero di fare ciò che vuoi”.

Nicole mi lascia da solo in camera, chiudendosi in bagno.

Osservo in silenzio il legno della porta, ed alle mie orecchie, dopo qualche minuto, arriva il suono del getto d’acqua della doccia.

Come è già accaduto in passato, anche in questo caso mi sento prigioniero di un loop temporale, perché noi due abbiamo già vissuto un’esperienza simile, sette anni fa, dopo la mia evasione da Fox River: in quell’occasione eravamo nella camera di un lussuoso Hotel, e la mia ex compagna si era rifugiata in bagno perché delusa dal mio comportamento, perché pur di ottenere il nuovo indirizzo di Susan non mi ero fatto scrupoli a sedurre una ragazza che lavorava nell’ufficio postale di Tribune, e sempre in quell’occasione mi ero avvicinato alla porta, avevo appoggiato la fronte sul legno chiaro, ed a fatica ero riuscito a trattenermi dall’impulso di entrare, raggiungerla nella doccia e possederla, per farle capire la differenza tra ‘fare l’amore’ e ‘fare del volgare sesso’.

Ed infatti in quell’occasione sono arrivato ad un solo passo di distanza dal perderla per sempre.

Fatto che, poi, è accaduto ugualmente.

Mi alzo dal bordo del letto ed entro nella piccola stanza attigua alla camera, senza fare rumore; Nicole non si è ancora accorta della mia presenza, e la sua figura è in parte celata alla mia vista dalle tende bianche della doccia.

Lentamente, senza alcuna fretta, mi spoglio, ammucchiando i vestiti sul pavimento, e solo allora tiro la tenda, entrando nel piccolo abitacolo.

Gli occhi azzurri della mia ex compagna e moglie si spalancano e le sue pupille diventano delle stesse dimensioni della cruna di un ago; vedo le sue labbra carnose socchiudersi per parlare, ma non le lascio il tempo di farlo, perché mi avvento su di esse, baciandola con passione e spingendola contro la parete tappezzata di mattonelle verdi.

Sono io il primo ad allontanarmi; con il fiato ansante osservo Nicole in silenzio, in attesa di una qualsiasi reazione da parte sua, e non posso non notare quanto sia bella con i capelli bagnati, incollati al viso ed alle spalle.

Lei ricambia il mio sguardo senza pronunciare una sola parola, con le labbra ancora socchiuse, e dopo un lasso di tempo che sembra infinito, mi passa le braccia attorno alle spalle, attirandomi a sé, baciandomi con lo stesso trasporto e facendo aderire perfettamente i nostri corpi; un brivido di piacere mi percorre la spina dorsale mentre le appoggio la mano destra sulla nuca, afferrandole una ciocca di capelli, terrorizzato dal solo pensiero che possa staccarsi bruscamente a causa di un ripensamento improvviso.

Sento Nickie strusciarsi contro di me, in un tacito invito di andare ben oltre ad un semplice bacio, ed io non me lo faccio ripetere una seconda volta: l’afferro saldamente per le cosce, in modo che possa ancorarsi con le gambe attorno ai miei fianchi, e la penetro senza riuscire a reprimere un gemito e senza perdere tempo in altri, inutili, preliminari.

Appoggio la testa sull’incavo della spalla destra di Nicole, scandendo le mie spinte con altri gemiti, e con mia enorme soddisfazione sento dei respiri spezzati, alternati a qualche parola mormorata, uscire dalla sua bocca; e quando sento le sue unghie affondare nella pelle della mia schiena, a causa di un grido che si lascia scappare, sento esplodere in me un moto di orgoglio maschile che mi fa ghignare soddisfatto.

Dubito seriamente che Burrows riesca a farla godere così tanto.

Sollevo la testa solo quando sento di essere vicino all’orgasmo, avvicino le labbra all’orecchio destro della mia ex compagna e sussurro quella che è a tutti gli effetti una supplica.

“Chiamami col mio soprannome. Dimmi che vuoi che venga dentro di te”.

E lei, incredibilmente, accontenta la mia richiesta senza un attimo di esitazione, come se non aspettasse altro.

“Ti prego, Teddy-Bear, voglio che tu venga dentro di me”.

Il suo sussurro appena percepibile e la sua voce spezzata sono sufficienti per farmi raggiungere l’orgasmo, e questa volta sono io che non riesco a trattenere un grido: stringo con più forza Nicole, cerco quasi disperatamente le sue labbra per un altro bacio profondo, e poi nascondo nuovamente il viso contro la pelle della sua spalla destra, ansimando per riprendere fiato, concentrandomi sul tocco delle sue mani che accarezzano i miei capelli con gesti lenti.

E restiamo così, in questa posizione, senza pronunciare una sola parola, avvolti da un silenzio che è rotto solo dal getto d’acqua della doccia.

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Capitolo 31
*** Whip (Gracey) ***


Vago con lo sguardo sul viso del ragazzo sconosciuto, a cui ho appena offerto un bicchiere di whisky dopo che ha rifiutato sia una tazza di cioccolata calda che una tisana rilassante all’arancia perché, sue testuali parole, ‘queste sono bevande da ragazzina o da finocchio, e lui non è né l’uno né l’altro’.

L’osservo portarsi il bicchiere alle labbra e bere in un unico sorso il liquido ambrato, soffermandomi sui capelli castani, leggermente mossi, che gli scendono fino alla base del collo, sul pizzetto che gli ricopre il mento ma, soprattutto, sugli occhi scuri.

Perché sono gli stessi di Theodore, tutto in lui me lo ricorda.

Se Benjamin assomiglia al padre in alcune espressioni o quando sorride, questo ragazzo ne è la fotocopia vivente, solamente più giovane.

“Devo ammettere che il vecchio ha ottimi gusti in fatto di liquori” commenta, schioccando la lingua contro il palato, spostando il suo sguardo dal bicchiere a me “hai finito di mangiarmi con gli occhi, dolcezza? Sembra quasi che tu non abbia mai visto un uomo in tutta la tua vita…”

“Io… Sono sconvolta…” mormoro, ignorando il suo commento pungente.

“Perché non hai mai visto un uomo così bello in tutta la tua vita?” mi domanda lui, rincarando la dose, inarcando appena l’angolo sinistro della bocca in un mezzo sorriso che mi toglie quasi il respiro: è davvero identico a suo padre, la somiglianza è così impressionante che m’impedisce di dubitare delle sue parole.

“No” rispondo, secca “sono sconvolta perché non sapevo che Theodore avesse un altro figlio”

“Se è per questo neppure io sapevo di avere un padre fino a poche ore fa. In un primo momento non ci credevo, ma poi mi ha mostrato un fascicolo che ha subito eliminato ogni mio dubbio”.

Fascicolo.

Questa parola rimbomba nella mia mente, accompagnata dall’immagine di Nicole con in mano una busta gialla, e finalmente capisco cosa c’era lì dentro e perché Teddy era così sconvolto; stringo la presa attorno alla tazza di cioccolata fumante e preferisco concentrarmi su un altro argomento della massima importanza, almeno per me.

“Perché sei qui?”

“Me lo stai chiedendo veramente per la terza volta? Che cosa non hai ancora capito delle parole ‘sono qui per proteggere te e Benjamin’? Non mi sembra un concetto così complicato”

“Questo l’ho capito perfettamente. Quello che non riesco a capire è perché sei qui a proteggerci… Chi potrebbe farci del male?” chiedo, lanciando in automatico un’occhiata in direzione della finestra che si affaccia sul giardino anteriore.

“Mio padre ti ha accennato qualcosa del casino in cui siamo coinvolti?”

“Sì, mi ha raccontato ogni cosa. So tutto su Poseidone”

“Ohh, grazie al cielo! Già stavo male al solo pensiero di dover spiegare una faccenda così complicata ad una ragazza che fatica a capire dei concetti semplicissimi… E poi, ti confesso che alcuni passaggi sfuggono perfino a me. Diciamo che Poseidone è una persona estremamente pericolosa e dato che sarebbe capace di tutto, mio padre ha voluto mandarmi qui, da voi due, estraniandomi dalla vera azione: quando stavo per salire in macchina con lui e Nicole, ha bloccato le portiere, mi ha allungato un bigliettino in cui aveva scritto l’indirizzo di questa casa e poi è partito, lasciandomi da solo. E dopo una breve passeggiata di qualche ora sono riuscito a trovare questo quartiere” spiega lui, versandosi un’altra abbondante dose di whisky nel bicchiere; ed io, anziché togliergli dalle mani la bottiglia prima che possa ubriacarsi, mi concentro su una frase del suo discorso.

“Dove sono andati Theodore e Nicole?”

“Non ne ho la più pallida idea, dolcezza, dal momento che sono stato scaricato in mezzo alla strada”.

Mi mordo il labbro inferiore: il solo pensiero del mio uomo in compagnia di quella donna mi fa ribollire il sangue nelle vene; anche se tra loro due non c’è più nulla, ad eccezione di odio e rancore, devo lottare contro l’impulso di prendere il cellulare, digitare il suo numero ed avere delle certezze che solo la sua voce può darmi.

Non posso farlo perché apparirei come una stupida ragazzina piena di insicurezze, e lui non ha bisogno di una persona così a suo fianco.

“Io e Ben siamo in pericolo?”

“No, non credo, ma come ti ho già detto Poseidone è imprevedibile. E poi è sempre meglio prevenire che curare, giusto? Evidentemente, adesso che mio padre è stato coinvolto in prima persona, teme che il nostro nemico in comune possa prendersela con uno di voi due per soggiogarlo a sua volta… Visto che il piano di Michael prevede che sia proprio lui ad uccidere materialmente Poseidone”.

Il mio respiro si trasforma in un rantolo che non riesco a reprimere, le mie mani iniziano a tremare visibilmente ed alcune gocce di cioccolata finiscono sul legno del tavolo; ma non ho il tempo di chiedere altre spiegazioni al ragazzo sconosciuto che vengo colta alla sprovvista da una voce che arriva dal salotto.

“Gracey?”

“Ben!” esclamo, voltandomi di scatto verso il ragazzino, che se ne sta in piedi, vicino alla porta che separa la cucina dal salotto: con tutto quello che è successo negli ultimi minuti mi ero quasi dimenticata della sua presenza al piano superiore “che cosa ci fai qui?”.

“Non ti ho più vista tornare di sopra, mi sono preoccupato” mormora lui, spostando velocemente gli occhi chiari da me al ragazzo sconosciuto “e tu chi sei?”.

Merda.

E adesso come faccio a spiegargli che ha un fratello maggiore a cui è stato affidato il compito di proteggerci perché potremo essere in pericolo di vita a causa di un pazzo furioso?

Fortunatamente è proprio il diretto interessato a salvarmi dall’imbarazzante situazione in cui mi trovo.

“Sono un amico di Gracey”

“Gracey non mi ha mai parlato di un amico maschio” ribatte prontamente Benjamin, rivolgendogli uno sguardo diffidente, rimanendo vicino allo stipite della porta “come ti chiami?”

“Whip”

“Whip? Non l’ho mai sentito… E perché ti sei intrufolato in casa nostra nel cuore della notte? Gli amici di solito non lo fanno…”

“Ben, va tutto bene” tento di tranquillizzarlo con un sorriso “è meglio se torni in camera a dormire, visto che domani devi andare a scuola. D’accordo? Whip è un mio caro amico e gli ho chiesto di trascorrere qualche ora insieme perché mi sento più tranquilla in sua compagnia, ma mi sono dimenticata di lasciare la porta aperta, e siccome non rispondevo al cellulare è stato costretto ad entrare da una finestra”

“Se lo dici tu” sussurra il ragazzino, con una smorfia; lancia un’altra occhiata diffidente nei confronti del fratello maggiore e poi sparisce nel salotto: sento i suoi passi allontanarsi sulle scale e quando chiude la porta della stanza, posso finalmente tirare un sospiro di sollievo, anche se già so che le spiegazioni sono solo rimandate ad un altro momento.

“Avresti potuto inventare una balla migliore. Quella faceva davvero pena e lui non ci ha creduto affatto… Andiamo, perfino un bambino farebbe di meglio… Davvero la mia presenza ti fa sentire più tranquilla?”

“Davvero Whip è il tuo nome?”

“No, ma ormai è come se lo fosse” commenta lui, versandosi un’altra dose abbondante di whisky: a quanto pare ha ereditato da suo padre anche la passione per i liquori forti “di che cosa stavamo discutendo prima che venissimo interrotti? Ahh, si, stavamo parlando del compito che è stato affidato a mio padre… Toglimi una curiosità, Gracey, perché c’è un piccolo particolare che continua a sfuggirmi: tu come fai a conoscere Theodore?”

“Sarebbe una storia troppo complicata da raccontare dall’inizio, ti basta sapere che lui è il mio compagno”.

Whip inizia a tossire a causa del whisky che gli si è fermato in gola, ed impiega qualche minuto prima di riprendersi del tutto.

“Il tuo… Compagno?” mi domanda, con voce roca “che cazzo significa che è il tuo… Compagno?”

“Significa che io e lui abbiamo una relazione” rispondo, inarcando il sopracciglio destro “questa notizia ti sconvolge?”

“Credo che sconvolgerebbe chiunque al mio posto, dolcezza. Insomma… Voglio dire… Lui è… E tu sei… So che non bisognerebbe mai chiederlo ad una donna, ma sono costretto a farti questa domanda: quanti anni hai?”

“Quasi diciotto”

“Ecco. Appunto. È proprio questo ciò che intendevo: tu hai diciassette anni e lui è un vecchio… Tra voi due ci saranno almeno una trentina di anni di differenza”

“Hai mai sentito parlare del detto: l’amore non ha età?”

“Se è per questo ho sentito anche il detto ‘l’amore è cieco’. Ma nel tuo caso, dolcezza, stiamo parlando di un caso quasi patologico” mormora lui, lasciandomi senza parole e con il dubbio di essere stata appena offesa pesantemente “comunque sono costretto a modificare ciò che ho detto poco prima: il vecchio non ha buoni gusti solo in fatto di alcolici. A quanto pare li ha anche in fatto di donne”

“D’accordo, così può bastare!” esclamo, sbattendo i palmi delle mani contro la superficie del tavolo: prendo il bicchiere e la bottiglia di whisky, svuotando il contenuto di quest’ultima dentro il lavandino; dietro di me, Whip mi osserva con un’espressione sconcertata e le sue proteste non tardano ad arrivare.

“Ehi! Io non avevo ancora finito! Hai idea di quanto costi quella bottiglia?”

“No, e sinceramente non m’interessa. Come non m’interessa continuare a sentire le tue offese nei confronti miei e di tuo padre. Sei incazzato con lui perché ti ha costretto a venire qui? Non vuoi fare da ‘baby-sitter’ a me e Ben? Benissimo, nessuno ti costringe a farlo, da questo momento sei sollevato da ogni incarico e sei libero di tornare da loro, nel bel mezzo dell’azione, come hai detto tu stesso. Puoi usare la porta d’ingresso, senza ricorrere di nuovo alla finestra da cui sei entrato. Buonanotte, è stato un piacere conoscerti”.

Senza aspettare una risposta, esco dalla cucina e trovo rifugio nella camera da letto che, ormai, condivido con Theodore; mi siedo a gambe incrociate sul materasso, cerco dentro un cassetto del comodino il mio cellulare, e quando lo trovo digito subito il suo numero di cellulare, avvicinando lo schermo all’orecchio destro.

Mi tormento le unghie della mano sinistra mentre ascolto i numerosi squilli, in attesa di una risposta, ma questa non arriva mai; ritento così tante volte che ben presto perdo il conto, ma l’esito resta sempre lo stesso: la linea cade senza che io possa sentire la voce del mio uomo.

Osservo il cellulare senza vederlo veramente, rigirandolo tra le mani.

Perché non risponde? Non lo fa perché non può o per un altro motivo?

Gli è accaduto qualcosa?

O non vuole rispondere perché è in compagnia di Nicole?

È proprio quest’ultimo dubbio a procurarmi un nodo in gola ed a farmi salire le lacrime agli occhi, ma riesco a ricacciarle quasi subito, scrollando la testa, sforzandomi di pensare a mente lucida: no, mi dico, è pressoché impossibile che accada qualcosa tra loro due, perché non provano più amore l’uno per l’altra.

Solo odio, rancore e disprezzo reciproci.

“E così… Questo è il vostro nido d’amore?”.

Mi volto di scatto in direzione della porta socchiusa: Whip è appoggiato allo stipite, a braccia incrociate, intento a scrutare la stanza; lo degno appena di un’occhiata prima di tornare a fissare il telefono.

“Credevo te ne fossi andato”

“Mi dispiace deludere le tue aspettative, ma non posso farlo perché ho ricevuto degli ordini e sono costretto ad eseguirli… E poi, anche se volessi tornare dal resto della squadra, non ho la più pallida idea di dove potrebbero essere in questo momento. Di conseguenza dovrai sopportare ancora la mia presenza”

“Benissimo, basta che tu non apra più la bocca” rispondo, seccata, facendolo ridere.

“Ti danno fastidio le mie parole? Solo perché penso che sei sprecata affianco a Theodore? Tesoro, ma questa non è un’offesa, è semplicemente la verità”

“Se devi restare, puoi dormire sul divano in salotto” mormoro, ignorando appositamente la sua ultima frecciatina, ma quando mi accorgo che non si è mosso di un solo millimetro lo guardo di nuovo negli occhi, notando ancora quanto siano terribilmente identici a quelli del padre, forse perfino più magnetici “perché sei ancora lì?”

“Perché non ho alcuna intenzione di spostarmi da qui. Come posso proteggere te e Benjamin se vengo rilegato a dormire sul divano in salotto?”

“Oh, mio dio!” esclamo, intuendo le sue intenzioni “tu vuoi trascorrere l’intera notte qui dentro? In questa camera?”

“Ohh, ma allora se lo vuoi, sai essere perspicace, dolcezza”

“Tu sei completamente pazzo!” esclamo di nuovo, dimenticandomi momentaneamente di Theodore e dei miei dubbi che riguardano lui e Nicole “non puoi parlare sul serio e non puoi essere davvero intenzionato a trascorrere il resto della notte in questa camera. In mia compagnia”

“Il vero pazzo è colui che rifiuterebbe di passare una notte in tua compagnia per dormire sul divano, non credi? E poi non sono intenzionato a chiudere occhio perché mi è stato affidato un compito, ricordi?” senza attendere il mio consenso, il ragazzo entra nella camera e prende posto sul davanzale della finestra, rivolgendomi uno sguardo ammiccante “se può farti sentire meglio, non staccherò lo sguardo dal tuo corpo per un solo secondo, dolcezza, così sarò davvero sicuro che nessuno potrà toglierti un solo capello”.

Questo è davvero troppo per me.

Lo raggiungo a passo veloce, costringendolo ad alzarsi dal davanzale, e lo spingo letteralmente fuori dalla stanza.

“Se non vuoi dormire sul divano, allora trascorrerai il resto della notte in corridoio, così potrai controllare meglio sia me che Benjamin. E se provi a rientrare nella camera di Teddy mentre sto dormendo, nessuno mi fermerà dal darti quel calcio ai gioielli di famiglia che in cucina hai evitato per un soffio. Buonanotte, Whip” dico a denti stretti, trattenendomi dall’urlare per non farmi sentire da Benjamin, prima di chiudere la porta con forza, in modo da sottolineare il concetto espresso dalle mie parole; attendo qualche istante, rimanendo in silenzio ed in ascolto: lo sento mormorare qualche parola incredula ed allontanarsi di qualche passo, e quando cala il silenzio capisco che deve essersi seduto sul pavimento del corridoio.

Mi sdraio sul materasso, chiudendo gli occhi, preferendo non cambiarmi a causa del ragazzo inquietante che se ne sta seduto a pochi passi di distanza da me e dal momento che c’è una semplice porta a dividerci; prendo in mano il cellulare e decido di fare un ultimo tentativo, che si rivela vano come i precedenti.

Sospiro, riponendo il piccolo apparecchio in un cassetto del comodino, e chiudo gli occhi, cercando di liberare la mente e di concedermi qualche ora di sonno.

Dopotutto, penso per tranquillizzarmi, se fosse accaduto qualcosa di grave a Theodore o a qualcun altro membro della squadra, Whip od io saremo già stati avvisati.



 
Spalanco gli occhi all’improvviso, avvolta dal buio più assoluto, a causa di una mano premuta con forza contro la mia bocca; d’istinto provo ad urlare, ma dalle mie labbra esce solo un flebile lamento, ed una voce maschile e strascicata soffia qualche parola a poca distanza dal mio orecchio destro.

“Zitta. Non gridare”.

La presa salda e rude sparisce, ed io riesco a girare il viso verso la figura apparsa a mio fianco.

“Whip?”

“Zitta, che cosa non hai capito delle mie parole? C’è qualcuno al piano di sotto”

“Cosa?” sussurro, incredula, disobbedendo al suo ordine, ed in tutta risposta sento un tonfo ovattato provenire dal salotto “che cosa sta succedendo? È qualcun altro della squadra che è venuto in nostro soccorso? Non sapete usare le porte?”

“No, Gracey, temo che sia un regalo spedito da Poseidone in persona”.

La paura blocca immediatamente ogni singolo muscolo del mio corpo: la sola idea che a pochi metri di distanza da noi ci sia un sicario mandato per uccidere me e Benjamin a sangue freddo, mi fa tremare come una bambina che si risveglia da un brutto incubo; mi aggrappo a Whip, stringendo con forza la stoffa della sua maglietta, per nulla intenzionata a lasciarla andare, perché ho già capito ciò che sta per accadere.

“Ti prego, non andare! Non lasciarmi qui da sola! Ti prego!”

“Andrà tutto bene se seguirai le mie istruzioni alla lettera, ma non possiamo restare qui dentro” mi ordina lui, con voce ferma ed autoritaria; scioglie la mia presa, allontanandomi da sé, e mi fa cenno di seguirlo in corridoio, ed anche se in questo momento è l’ultima cosa che vorrei fare, obbedisco cercando di non fare rumore “vai in camera di Benjamin e non ti muovere da lì per nessuna ragione al mondo. Nascondetevi e non fate nulla di stupido, d’accordo?”

“Ma non puoi andare in salotto da solo! E se avessi a che fare con una persona armata?”

“Non sono impreparato, dolcezza” risponde Whip, mostrandomi una pistola di cui, finora, ho ignorato l’esistenza “esegui il mio ordine e non farmi perdere altro tempo. E ricorda: qualsiasi cosa sentirai, non scendere le scale. Questo non è un gioco”.

Annuisco con il capo, lo guardo scendere i scalino uno ad uno con passo felpato e con la pistola impugnata nella mano destra, dopodiché gli volto le spalle ed entro nella camera da letto di Ben: la piccola abajour che ha sopra al comodino è accesa, e lui è seduto sul materasso, avvolto da un morbido piumone, con le ginocchia strette contro il petto; lo raggiungo velocemente e gli appoggio le mani sulle spalle.

“Va tutto bene” sussurro, prima che possa rivolgermi qualche domanda “va tutto…”.

Il rumore di uno sparo copre la mia voce e fa sgranare gli occhi al ragazzino, che stringe con più forza un lembo del piumone; lo sento tremare sotto il tocco delle mie mani e per un istante temo che possa avere una violenta crisi d’asma.

“Gracey… Quello era il rumore di uno sparo. Proveniva da dentro casa…”.

Resto in silenzio, perché qualunque parola in questo momento non farebbe altro che peggiorare la situazione, prendo Benjamin per mano e lo spingo dentro l’armadio.

“Resta qui e non ti muovere, d’accordo? Non posso lasciare Whip da solo”

“Gracey, se scendi ti faranno del male!”

“No, non succederà nulla, ma tu non devi muoverti da qui dentro… Fingi… Fingi che sia una partita a nascondino” mi sforzo di sorridere per calmarlo e chiudo le ante dell’armadio prima di uscire dalla stanza; scendo i scalini cercando di non far cigolare le assi di legno, trattenendo quasi il fiato, spostando velocemente lo sguardo da un angolo all’altro del salotto, che sembra essere completamente vuoto.

Provo a chiamare il ragazzo per nome, ma non ottengo risposta: non c’è alcuna traccia né di lui, né del misterioso sicario, ed in me inizia a farsi strada l’ipotesi di essere rimasta vittima di uno scherzo di pessimo gusto; ma quando i miei piedi toccano la moquette che ricopre il pavimento, ho appena il tempo di notare un rapido movimento alla mia sinistra che mi ritrovo vittima di un’aggressione.



 
 
Non so con esattezza quanto tempo trascorre prima che riapra gli occhi, ma un odore pungente e penetrante mi colpisce subito le narici e mi fa girare la testa; con un gemito, e con la vista appannata, riesco ad alzarmi in piedi, ed a trascinarmi vicino alla porta d’ingresso, laddove c’è una sagoma sdraiata sul pavimento, perfettamente immobile, che riconosco immediatamente: Whip.

Mi lascio cadere sulle ginocchia, pensando al peggio, ricordandomi dello sparo udito poco prima; con mani tremanti gli tocco il petto, alla ricerca di un possibile foro di proiettile, e mormoro qualche parola di ringraziamento quando mi rendo conto che è semplicemente svenuto.

Lo chiamo per nome, schiaffeggiando, e lui piano piano inizia a riprendere conoscenza, portandosi la mano destra sulla nuca: nonostante la semi oscurità lo vedo arricciare il naso in un’espressione sofferente.

“Quella maledetta vacca” impreca, con voce impastata “ero quasi riuscito a disarmarla. Credo che mi abbia colpito con il calcio della pistola. Si può sapere per quale motivo sei qui? Ti avevo detto di non scendere”

“Lo so, ma non potevo lasciarti da solo. Ho sentito uno sparo e sono subito scena… Ma qualcuno mi ha attaccato alle spalle… Non ricordo molto di quello che è accaduto, mi sono appena svegliata e ti ho visto a terra. Credevo ti avessero ucciso”

“Ohh, dolcezza, ci vuole ben altro per mettermi al tappeto. Sono solo un po’ ammaccato… Forse un bacio mi aiuterebbe a farmi sentire subito meglio, non credi?”.

Alzo la testa di scatto, ignorando la sua battuta, perché mi sembra di sentire una voce pronunciare, anzi gridare, il mio nome, e poco dopo la scena si ripete.

Il mio cuore perde un battito.

“Ben… Ben…” balbetto, alzandomi in piedi, scavalcando il corpo di Whip.

Quando spalanco la porta d’ingresso, ai miei occhi si presenza una scena che mi fa raggelare il sangue nelle vene: vedo una donna trascinare Benjamin in direzione di una macchina nera, mentre lui tenta di divincolarsi inutilmente, spingerlo dentro e poi salire al posto di guida; vedo il suo volto e le sue mani premute contro il finestrino posteriore sinistro, vedo le lacrime che gli solcano il viso e, sopratutto, vedo la sua bocca spalancata in un urlo, soffocato a metà dal rumore di una sgommata.

“Gracey!”.

Inizio a correre come non ho mai fatto in tutta la mia vita.

Inizio a correre infischiandomene di essere investita, del dolore al fianco sinistro, delle gambe che m’implorano di fermarmi e del cuore che rischia di scoppiare da un momento all’altro, con un unico pensiero in testa: raggiungere quella maledetta macchina e strappare Benjamin dalle grinfie di Poseidone; ma come accade nella maggior parte dei casi è il corpo a prevalere sulla mente, le mie gambe cedono ed io mi ritrovo a crollare, esausta, sull’asfalto deserto, ansimante, a guardare impotente la macchina che si allontana sempre di più, trasformandosi ben presto in un puntino lontano, con l’urlo disperato di Ben che ancora echeggia nelle mie orecchie.

Una sagoma appare a mio fianco e delle dita mi toccano la spalla destra, risvegliandomi dal torpore in cui sono caduta.

“Benjamin… Benjamin…” ripeto con un filo di voce e con la vista già appannata dalle lacrime “hanno preso Benjamin… Dobbiamo inseguire quella macchina prima che si allontani troppo… Oh, mio dio, hanno preso Benjamin… Lo hanno preso…”

“Gracey, il tuo braccio”.

Le parole di Whip mi spingono ad abbassare il viso e ciò che vedo sembra essere uscito dal peggiore degli incubi: il mio braccio sinistro è quasi interamente ricoperto di sangue, alcune gocce scivolano lungo il polso formando una piccola pozza scarlatta sulla strada, e nell’incavo c’è un oggetto bianco, appuntito, che sporge di un paio di centimetri dalla pelle; come in un sogno, a rallentatore, vedo me stessa allungare la mano destra e sfiorare lo strano oggetto.

Contemporaneamente, un dolore acuto, indescrivibile, attraversa ogni muscolo del mio corpo, partendo proprio dal braccio, complice anche l’effetto dell’adrenalina che sta velocemente sparendo; nella mia mente rivivo alcune scene successive all’aggressione che ho subito in salotto, in particolar modo il momento in cui il sicario mi ha afferrata proprio per il braccio sinistro, immobilizzandomelo dietro la schiena.

E mentre scivolo nell’incoscienza capisco finalmente che lo strano oggetto bianco e appuntito è, in realtà, un pezzo di osso che sporge dalla pelle.



 
Mi risveglio, con un urlo, nello stesso momento in cui qualcuno spinge il moncone di osso dentro il mio arto, per farlo combaciare con l’altro pezzo; il dolore è così forte e devastante che non riesco a smettere di gridare con tutto il fiato che ho nei polmoni, eppure dai miei occhi non esce una sola lacrima.

Annaspo con la mano destra, alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparmi, e trovo un appiglio nella stoffa di una maglietta, che scopro appartenere a Whip; e nonostante sia scossa da brividi così violenti da essere quasi delle convulsioni, non lo lascio andare e lo attiro a me, ansimando e guardandolo con gli occhi spalancati.

“Benjamin” dico per l’ennesima volta, mentre attorno a me vedo appena delle figure in camice bianco muoversi e sento delle voci che ignoro completamente “dov’è Benjamin? Dove siamo noi?”

“Gracey, va tutto bene, siamo in ospedale”

“No, no, cazzo, non va tutto bene! Non va tutto bene!” urlo, istericamente, rafforzando la presa sulla maglietta “non dovremo essere qui in ospedale! Dovremo essere alla ricerca di Benjamin! Dobbiamo andarcene subito!”

“Hai perso molto sangue, hai bisogno di cure mediche! Entrambi abbiamo bisogno di cure mediche!”

“No! La vita di Ben è in pericolo in questo momento! È nelle mani di Poseidone! È nelle mani di Poseidone!”

“Sta vaneggiando, ha bisogno di un sedativo”.

Le parole di Whip hanno lo stesso effetto della goccia che fa traboccare il vaso e scatenano in me un altro eccesso di urla e proteste, alternate a imprecazioni ed offese rivolte proprio a lui: come può pensare che la priorità, in questo momento, sia il mio braccio rotto quando la vita del suo fratellino è seriamente in pericolo?

Lascio andare la stoffa della sua maglietta e lo colpisco con un pugno, riversandogli addosso tutto il disprezzo che provo nei suoi confronti, provo a liberarmi ma vengo afferrata da più braccia ed immobilizzata contro il materasso del lettino, e l’ultima cosa che percepisco, prima di cadere di nuovo in un baratro nero e privo di alcun suono, è il pizzico fastidioso provocato dall’ago di una siringa che mi buca la pelle.



 
Quando socchiudo le palpebre tutta la rabbia, l’odio e l’amarezza sono scomparsi, sostituiti da una sgradevole sensazione di torpore e da un dolore sordo, pulsante, che proviene dal mio braccio sinistro; abbasso lo sguardo e mi rendo conto che è completamente ingessato, non posso neppure muovere le dita.

Vago con gli occhi per la piccola stanza d’ospedale e ben presto incontro quelli di Whip, che se ne sta in piedi, a braccia incrociate, vicino all’unica finestra; la mia attenzione viene subito catturata dal livido violaceo che gli circonda l’occhio sinistro, di cui io sono la responsabile.

“Benjamin…” mormoro, mentre il ricordo di ciò che è accaduto nelle ultime ore mi colpisce con tutta la sua violenza.

“Non dovresti parlare, dolcezza. I dottori hanno detto che hai perso molto sangue ed hai bisogno di riposo… Anche se io la penso in modo diverso, visto il piccolo regalo che mi hai fatto” risponde lui, con un sorriso mesto, indicando il livido “ritieniti fortunata, perché tutte le persone che mi hanno colpito in faccia a tradimento adesso non hanno più una bocca per poterlo raccontare. In verità, credo che ormai non abbiano più nemmeno un corpo…”

“Non possiamo restare qua, dobbiamo andare a cercarlo, abbiamo perso fin troppo tempo” ribatto, ignorando il suo commento; tento di alzarmi dal lettino, ma in un attimo Whip appare a mio fianco e m’impedisce di toccare il pavimento con i piedi, costringendomi letteralmente a rimanere sdraiata.

“Non così in fretta, Gracey, come ti ho già detto i dottori sono stati molto chiari: non sei nelle condizioni migliori per uscire da questa stanza, figuriamoci affrontare a mani nude dei sicari professionisti. Ti spezzerebbero l’osso del collo prima che tu possa avere il tempo di muovere un solo passo. E poi, se devo essere sincero, non mi dispiace affatto vederti sdraiata e con addosso solo un camice… Anzi, mi ci potrei abituare”

“Ma come puoi parlare in questo modo dopo quello che è appena successo?” dico, a voce alta, senza prestare attenzione ai consigli dei medici “ma ti rendi conto che Ben è nelle mani di un pazzo e noi non abbiamo la più pallida idea di dove si trovi in questo momento e che cosa gli abbiano fatto? Non sappiamo neppure se è… Vivo”.

Concludo la frase a fatica, con un gemito, terrorizzata dalla prospettiva che Poseidone, od uno dei suoi uomini fidati, abbiano ucciso Ben solo per colpire Theodore e Nicole.

No, non voglio neppure considerare questa eventualità.

“So benissimo in quale casino del cazzo ci troviamo, dolcezza, non ho bisogno di sentire le tue parole acide che me lo ricordano. Pensi che io sia una persona completamente insensibile o che non me ne freghi un cazzo? Prova a metterti solo per un secondo nei miei panni: fino a qualche ora fa credevo di essere completamente solo al mondo ed ora, invece, mi ritrovo ad avere un padre ed un fratello che rischio di perdere ed io non posso fare nulla per impedirlo. Quindi, mi rendo conto di quello che sta succedendo, ma se c’è una cosa che ho imparato in questi ultimi sette anni è che bisogna rimanere sempre lucidi e freddi in qualunque situazione, ed è quello che sto cercando di fare anche adesso, di conseguenza non provare più a farmi un discorso simile o potrei arrabbiarmi” sibila Whip, a denti stretti, senza mai sbattere le palpebre e senza mai interrompere il contatto visivo con me, lo fa solo per chiudere gli occhi e prendere un profondo respiro, per calmarsi, ed io mi sento improvvisamente in colpa per le accuse che gli ho sputato contro, senza fermarmi un solo secondo a pensare a come lui stia vivendo l’intera situazione; ma non ho il tempo di rivolgergli le mie scuse perché riprende a parlare, rigirandosi un cellulare tra le mani “non voglio allarmarti ulteriormente, ma ho già provato diverse volte a chiamare Nicole e Michael… E nessuno di loro ha mai risposto. A quest’ora avrebbe dovuto essere già tutto finito. Sono trascorse quasi ventiquattro ore da quando ci siamo separati vicino a quel lago…”

“Whip, che cosa stai dicendo?” mormoro con un filo di voce, sentendomi già il cuore in gola “vuoi dire… Vuoi dire che siamo rimasti solo noi due?”

“Non lo so”

“Ma se così fosse… Se così fosse, questo significa che non possiamo restare qui un solo minuto in più. Poseidone avrà già sguinzagliato qualcuno dei suoi mastini sulle nostre tracce… Non possiamo farci catturare… Dobbiamo trovare Benjamin prima che sia troppo tardi!”

“Gracey, calmati, non scendere a conclusioni affrettate. Ricordi che cosa ho detto poco fa? Lucidità e freddezza in ogni situazione. Noi due siamo ancora vivi: se davvero Poseidone voleva le nostre teste ci avrebbe fatto uccidere dal sicario che ha mandato, le occasioni non le sono mancate. Sono sicuro che lo stesso vale anche per Ben. E sono anche sicuro che gli altri stiano bene, forse il piano ha avuto qualche piccolo intoppo. Riceveremo presto loro notizie” e come per dare conferma alle sue parole, il cellulare che ha in mano inizia a vibrare “hai visto? Che ti dicevo? È Nicole”.

Whip si allontana da me, tornando vicino alla finestra, per rispondere alla chiamata, ed anche se siamo a pochi passi di distanza l’uno dall’altra parla a voce così passa che non riesco a seguire l’intero discorso: di tanto in tanto riesco a captare qualche ‘si’, ‘d’accordo’ e ‘capisco’.

Quando allontana il cellulare dall’orecchio resta in silenzio, con lo sguardo rivolto al paesaggio composto da edifici grigi e macchine che sfrecciano lungo la strada, e sono costretta ad esortarlo a raccontarmi tutto.

“Allora? Hai detto che era Nicole, giusto? Che cosa ti ha detto? Le hai raccontato dell’aggressione…”

“Puoi stare tranquilla, dolcezza, Benjamin è al sicuro. E Poseidone non è più un problema” m’interrompe lui, senza però voltarsi; è sufficiente il suo tono di voce, improvvisamente piatto, a farmi capire che c’è qualcosa che non va.

“C’è altro che dovrei sapere?” mormoro, sedendomi sul materasso.

“Si” confessa, facendo una lunga pausa “ma non so come dirtelo”

“Dillo e basta” dico in un sussurro strozzato, preparandomi già al peggio.

Finalmente Whip si volta, ed io posso vedere il suo viso: la carnagione quasi grigiastra e la mascella tesa sono già una risposta fin troppo chiara e lampante ai miei occhi.
No.

No, ti prego, non dirlo.

“Benjamin è al sicuro. E Poseidone non è più un problema” ripete, fissando un punto indefinito della camera “ma il piano non è andato esattamente come Michael aveva previsto”

“Whip, maledizione, dimmi che cosa è successo!” grido, esasperata, e sono costretta a compiere un enorme sforzo per dare voce alla mia paura più grande “qualcuno della squadra è stato ucciso?”.

Non risponde, ma i suoi occhi scuri si concentrano nuovamente sui miei.

E restiamo in silenzio, a fissarci.
 

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Capitolo 32
*** Behind The Eyes; Parte Uno (Theodore) ***


Allungo la mano destra, senza aprire gli occhi, cercando la persona sdraiata a mio fianco; ma le mie dita, anziché sfiorarne la pelle morbida e nuda, incontrano solo la consistenza soffice del materasso ed un posto vuoto.

“Buongiorno… O forse sarebbe più appropriato dire buonasera”.

Sollevo le palpebre, mi siedo appoggiando la schiena alla testiera del letto, e mi massaggio le tempie con entrambe le mani; la stanza attorno a me è immersa nella semioscurità, resa meno opprimente dalla luce di un lampione che filtra dalla finestra, tuttavia i miei occhi individuano subito Nicole, senza la minima traccia di difficoltà: è seduta davanti alla piccola scrivania, apparentemente impegnata a pettinarsi i capelli, ed incontro il suo sguardo attraverso il riflesso dello specchio.

“Buongiorno anche a te. Per quanto tempo ho dormito?”

“Qualche ora. Sembravi molto stanco, così ho preferito non svegliarti” risponde la mia ex compagna, senza mai smettere di sistemarsi le lunghe ciocche castane “sopra al comodino c’è qualcosa che dovrebbe essere di tuo gradimento. Se la memoria non m’inganna, questo è un rito che fai sempre dopo i momenti di intimità”.

Sposto lo sguardo sul mobile e ciò che vedo mi fa piegare le labbra in un sorriso compiaciuto, perché Nicole ha centrato in pieno ciò che desidero fare in questo momento: prendo in mano la sigaretta, l’accendo ed aspiro una profonda boccata, buttando poi fuori il fumo dalle labbra.

“È stato meraviglioso” dico dopo un po’, rompendo il silenzio, e gli occhi azzurri di Nickie tornando a concentrarsi sul mio viso.

“Non credere che il sesso risolva ogni cosa”

“No, ma ammetterai anche tu che è un ottimo punto di partenza su cui lavorare” rispondo, prendendo un’altra boccata di fumo “siamo entrambi adulti, ed entrambi sappiamo come gira il mondo: se tra noi due non ci fosse più nulla, non sarebbe accaduto ciò che è accaduto sotto quella doccia”

“Non mi hai dato molte opzioni, dal momento che sei entrato senza vestiti nella doccia”

“Tesoro, non mi sembra che tu abbia provato a ribellarti o a cacciarmi. Anzi. A giudicare dai graffi che mi hai lasciato sulla schiena, hai apprezzato molto la mia piccola… Intrusione. Sei sicura che tra te e Linc ci sia solo un po’ di maretta momentanea e non una crisi più profonda? Sono sicuro che in quattro anni non ti ha fatta neppure lontanamente godere come ci sono riuscito io prima”

“Se fossi in te non mi preoccuperei per la vita sessuale mia e di Linc, ma per Gracey”

“Mh” mormoro, prendendo rapidamente coscienza di ciò che ho appena fatto: sono andato a letto con la mia ex compagna e moglie, fregandomene altamente della mia attuale ragazza, e non ne sono affatto pentito; anzi, se potessi rifarei tutto da capo in questo stesso momento “in ogni caso ero serio poco fa, quando ho detto che è stato meraviglioso. Erano anni che non facevo del sesso così perfetto in ogni più piccola sfumatura”

“Anche io ero seria quando ho detto che il sesso non può risolvere ogni cosa, Theodore” ribatte lei, senza scomporsi minimamente, perché è tornata ad indossare quella maledetta maschera di ghiaccio “e come hai detto tu stesso siamo entrambi delle persone adulte, in grado di gestire ciò che è appena successo: è chiaro che si è trattato solo di un attimo di debolezza… Un attimo di debolezza piacevole, ma che non deve ripetersi mai più per il bene di entrambi, dei nostri partner e soprattutto di Benjamin. Non possiamo illudere nostro figlio con qualcosa che non esiste più. Lo sai benissimo tu come lo so anche io”.

Non rispondo subito.

Prendo del tempo spegnendo il mozzicone della sigaretta dentro un posacenere e poi rivestendomi, lentamente; mi alzo dal letto, raggiungo Nickie e le accarezzo il collo spostando delle ciocche scure.

Scendo lungo le spalle e le braccia, per poi risalire e concentrarmi di nuovo sulle spalle e sul collo: la vedo chiudere gli occhi e la sento rilassarsi sotto il tocco delle mie mani; continuo con il massaggio per qualche minuto prima di sostituire le dita con le labbra, posandole una serie di baci sulla pelle ancora ricoperta da un lieve velo di sudore.

Nicole emette un sospiro, senza sottrarsi alle mie attenzioni, gira il viso verso di me e mi passa le braccia attorno alle spalle, avventandosi sulle mie labbra per baciarmi con passione; senza perdere altro tempo, l’afferro per le cosce, sollevandola, permettendole di passarmi le gambe attorno ai fianchi.

Muovo qualche passo all’indietro, lasciandomi cadere sul materasso, ribaltando le posizioni ed assumendo quella di comando; la mia ex compagna scioglie la presa, le sue mani vagano sul mio petto, scendendo sempre più in basso, e la sento armeggiare con la zip dei miei pantaloni.

Intuendo il suo desiderio l’aiuto a liberare entrambi dal peso ormai ingombrante degli indumenti, e la penetro, di nuovo, senza perdere tempo in preliminari; Nicole si lascia scappare un grido, inarcando la schiena, ed io ne approfitto per passarle il braccio destro attorno ai fianchi, spingendola contro di me, facendo aderire ancora di più i nostri corpi.

M’impossesso della sua bocca, baciandola e mordendola, staccandomi solo dopo aver riversato nuovamente il mio seme dentro di lei, con il respiro ansante e con il petto che si alza ed abbassa velocemente; le mie labbra si distendono in un sorriso quando mi rendo conto che la mia compagna di viaggio si trova nelle mie stesse condizioni.
“Sai…” mormoro, dopo aver ripreso fiato, accarezzandole i capelli “sono davvero contento del discorso che hai fatto qualche minuto fa, perché con poche frasi hai detto molto chiaramente che io sono la tua più grande debolezza. E questo mi lusinga parecchio”.

Nicole non risponde alla mia provocazione: mi scosta con un gesto rapido, si riveste e raggiunge il cellulare, che ha appena emesso uno squillante ‘bip’; lo afferra, scorre velocemente il contenuto del messaggio che ha appena ricevuto e poi lo comunica anche a me.

“Ci siamo” dice, mentre mi rivesto a mia volta “è arrivato il momento. Dobbiamo andare”.



 
Mi sporgo di qualche centimetro dal container che funge da nascondiglio per me e Nicole ed osservo Michael, in piedi e a braccia incrociate, al centro di quello che è il luogo del fatidico appuntamento, della resa dei conti: un vecchio magazzino situato nel porto di Chicago.

“Siamo sicuri che verrà?” sussurro, rivolgendo la domanda a Nickie, posizionata a mio fianco.

“Sì, Poseidone non si lascerà scappare questa occasione. Anche lui, esattamente come noi, vuole chiudere questa faccenda una volta per tutte. E quando arriverà quel momento, tu dovrai limitarti a seguire i miei ordini. Se vuoi che ogni cosa vada nel verso giusto, non provare a fare di testa tua”

“E se dovesse fiutare la trappola?”

“Abbi un po’ di fede” mormora lei, guardandomi negli occhi, prima di concentrarsi nuovamente sulla figura solitaria di Scofield; la sua esortazione mi fa piegare le labbra in una smorfia scettica per due motivi.

Primo: è un ritornello che ho sentito fin troppo spesso uscire dalla bocca di Michael.

Secondo: ci sono tutti i presupposti perché il piano fallisca miseramente; ma, a quanto pare, sono l’unico a vedere questo.

Il rumore di alcuni passi che rimbombano nel silenzio più assoluto mi strappa dai miei pensieri negativi: dall’ombra, avvolto in un completo estremamente elegante che stona con l’ambiente che lo circonda, appare il marito di Sara, l’uomo che non mi ha convinto fin dal primo momento in cui i miei occhi si sono posati sul suo viso, l’artefice di questo enorme gioco perverso.

Poseidone: l’agente corrotto della CIA.

All’anagrafe, Jacob Ness.

L’osservo in silenzio, senza perdermi una sola delle sue mosse, scambiare qualche battuta con Scofield, e quando quest’ultimo gli punta contro la canna lucida di una pistola, vedo chiaramente le sue labbra piegarsi in un sorriso compiaciuto, e per la prima volta sento la sua voce.

“Avevo previsto questa mossa da parte tua” dice, scandendo le parole con alterigia “e di conseguenza non sono venuto impreparato”.

Schiocca le dita della mano destra e dall’ombra appare una donna bionda, uno dei due sicari che hanno aggredito me e Kellerman: la sua mano sinistra è saldamente stretta attorno al braccio di un bambino di sette anni, mentre nell’altra impugna una revolver puntata contro la testa del piccolo, che ha gli occhi arrossati e spalancati.

Benjamin.

Un velo rosso cala davanti ai miei occhi, togliendomi completamente la capacità di ragionare con lucidità.

“Allontana immediatamente quella pistola dalla testa di mio figlio” urlo, uscendo dal nascondiglio, mandando letteralmente a puttane l’intero piano; gli occhi di Ben si posano in automatico sul mio viso, e non riesce più a trattenere le lacrime ed i singhiozzi.

“Papà…”

“Benjamin, non ti preoccupare, non permetterò loro di toglierti un solo capello. Andrà tutto bene, tesoro, te lo prometto. Ed io mantengo sempre le mie promesse, ricordatelo”

“E tu prova a fare un solo passo e sarai costretto ad asciugare la materia cerebrale di tuo figlio con uno strofinaccio” mi minaccia Jacob, prima di rivolgersi di nuovo a Michael, allungando il braccio destro “dammi quella pistola, Scofield, non te lo chiederò una seconda volta. O vuoi avere sulla coscienza la vita di un ragazzino innocente? A te la scelta”.

Michael non pronuncia una sola parola: lentamente abbassa l’arma ed è costretto a consegnarla nelle mani del suo nemico; la donna bionda, però, non accenna ad allontanare la sua da mio figlio.

“Abbassa quella pistola” sibila Nicole, poco lontana da me, con una luce inquietante che le brilla negli occhi “abbassa quella pistola, maledizione, è solo un bambino di sette anni. Lui non c’entra nulla in tutta questa storia”

“Non un solo passo in avanti” le ordina il sicario, ripetendo le parole del suo Capo, puntando la canna nera e lucente contro il viso della mia ex compagna.

Capisco che è il momento di agire, che un’occasione simile non si ripeterà una seconda volta, e che ho pochissimi secondi a mia disposizione.

Aggredisco la bionda con un urlo, cogliendola totalmente alla sprovvista, cercando di disarmarla; ma commetto un enorme errore sottovalutando le sue capacità fisiche e me ne accorgo quando, ormai, è troppo tardi per tornare indietro: con un gesto rapido e fulmineo, degno di un gatto, s’impossessa nuovamente della revolver, posa la canna contro il mio petto e preme il grilletto.

Il rumore dello sparo riecheggia per tutto il vecchio magazzino, confondendosi e mischiandosi con un urlo femminile proveniente dalla mia destra.

Barcollo all’indietro e abbasso lo sguardo, sbattendo più volte le palpebre, confuso: nella felpa nera che indosso è apparso un buco, da cui esce un liquido scuro e viscoso, che si confonde con il colore della stoffa; lo sfioro con le dita della mano destra  e le vedo tingersi di un rosso acceso, nauseante, dall’odore ferroso.

Sangue.

È il mio stesso sangue.

Quella stupida vacca mi ha appena sparato all’altezza della cassa toracica, esattamente dove è posizionato il cuore.

Non appena prendo coscienza di essere completamente fottuto, tutto appare ai miei occhi rallentato, strano e terribilmente distorto: cado a terra senza sentire il dolore del violento impatto e nel mio campo visivo appaiono Nickie e Michael; vedo le loro labbra aprirsi e chiudersi velocemente, ma le loro voci sembrano provenire da molto lontano, e giungono ovattate alle mie orecchie, come se mi trovassi sott’acqua.

“Theodore! Theodore! Non chiudere gli occhi! Resta con me, resta con me!”

“No, no, no, no, maledizione… Maledizione… Non avresti dovuto farlo!”.

Provo a parlare, ma quando socchiudo le labbra riesco solo a sputare un grumo di sangue che sale direttamente dai miei polmoni, che stanno collassando insieme a tutti gli altri organi del mio corpo; la vista mi si annebbia, ed i volti della mia ex compagna e del mio nemico di un tempo diventano sempre più sfocati, prima di essere inghiottiti dall’oscurità più assoluta.

Eppure non sento alcun dolore.

Anzi, in realtà è una sensazione quasi piacevole e liberatoria: è come se un enorme peso che gravava sulle mie spalle svanisse in un istante, sostituito da una pace assoluta.

E mentre esalo l’ultimo respiro mi ritrovo a pensare che essere completamente fottuto non è così orribile, anche se non credo di essere pronto ad affrontare le fiamme dell’inferno.

Sempre se l’inferno esista, ovviamente.

Mi aggrappo all’ultimo barlume di vita per formulare un pensiero che mi dà la forza di lasciarmi andare del tutto e smettere di lottare: ho sacrificato la mia vita per salvare quella di mio figlio; non ho trascorso i miei ultimi giorni tra le quattro mura spoglie di una cella a Fox River e non mi sono beccato una pugnalata letale nel mezzo di un regolamento di conti.

E questo mi può bastare.

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Capitolo 33
*** Behind The Eyes; Parte Due (Theodore) ***


“Theodore? Theodore, riesci a sentirmi?”.

Con uno sforzo enorme apro gli occhi, sbattendo più volte le palpebre, e nel mio campo visivo appare un volto femminile, dai lineamenti dolci e delicati, incorniciato da una lunga chioma di capelli castani ed ondulati.

“Mamma?” domando, con voce impastata, riuscendo finalmente a mettere a fuoco la sconosciuta china su di me, che mi ha strappato dall’oblio nero in cui ero caduto “Nicole?”

“Sì, Theodore, sono io. Sono qui” conferma lei, annuendo con il capo, con l’angolo sinistro della bocca piegato leggermente all’insù.

D’istinto, senza pensarci, allungo la mano destra, appoggiandogliela sulla nuca, l’attiro a me e poso le labbra sulle sue, in un bacio casto; mi allontano dopo qualche secondo, senza riuscire a trattenere una mezza risata.

“Cavolo” mormoro, scuotendo la testa, incredulo “se avessi saputo prima che questo è l’inferno, mi sarei fatto sparare contro molto tempo fa”

“Non sei all’inferno. E non sei neppure in paradiso. In realtà, ci troviamo entrambi a Chicago, in ospedale”.

Le parole di Nickie mi fanno aprire gli occhi e corrucciare le sopracciglia, ma soprattutto spezzano l’incantesimo riportandomi alla realtà: vengo aggredito dall’odore di sterilizzante, tipico delle strutture ospedaliere, e da un dolore sordo all’altezza del petto che mi toglie quasi il respiro; tento di alzarmi, ma Nicole me lo impedisce, dicendomi che non devo compiere sforzi perché sono ancora debole e necessito di molto riposo.

Ed in tono pacato mi spiega che sono stato molto fortunato, perché il proiettile che mi ha colpito si è fermato a pochi millimetri di distanza dal mio cuore.

“Ohh, sì, sono stato davvero fortunato” commento, con un sospiro, appoggiando nuovamente la testa sul cuscino; i ricordi mi colpiscono all’improvviso, come una pugnalata, e giro di scatto il viso in direzione di Nickie, seduta sul bordo del letto “Ben! Dov’è nostro figlio? Dove sono gli altri? David? Gracey?”

“Puoi stare tranquillo, Theodore, perché stanno tutti bene. Poco fa ho parlato con Whip al telefono e mi ha raccontato dell’aggressione che lui e Gracey hanno subito da parte di quella donna. Per loro fortuna hanno rimediato solo un paio di punti in testa ed un braccio rotto, tutte ferite che guariranno in un paio di settimane e resteranno solo un brutto ricordo. Anche quella puttana, proprio come Poseidone, non è più un problema” confessa Nickie, abbassando il tono di voce, con gli occhi che brillano ancora di quella luce inquietante “le ho spezzato l’osso del collo con le mie stesse mani. Nessuno deve permettersi di minacciare mio figlio con una pistola, o di sparare a suo padre”.

Deglutisco a vuoto, perché ancora non ho fatto l’abitudine al lato sanguinario e violento della mia ex compagna e moglie, e prendo un veloce appunto mentale: mai farla incazzare, per nessuna ragione al mondo.

“Sono contento di sapere che stanno entrambi bene. Quando ho visto Ben, dentro quel magazzino, ho temuto che quella donna avesse ucciso entrambi” mormoro, con un sospiro, chiudendo gli occhi; nonostante la stanchezza li riapro quasi subito, perché ci sono diverse domande che voglio porgerle “come siete riusciti a sconfiggere Poseidone? Credevo fossimo spacciati”

“Lo credeva anche lui, ed è stato proprio il peccato di presunzione a tradirlo. Ricordi il motel in cui ci siamo fermati per qualche minuto?”

“Sì, quando io ti ho aspettato in macchina. Non mi hai mai detto che cosa sei andata a fare dentro quella stanza”

“Ho incontrato un nostro contatto. Un tipo piuttosto bizzarro, con una passione quasi maniacale per il modellismo. Michael gli ha chiesto di riprodurre fedelmente, nei più piccoli particolari, il luogo in cui lui e Jacob avevano incontrato il vicepresidente della CIA”

“L’uomo che Jacob ha ucciso?”

“In quell’occasione lui aveva fatto in modo di cancellare dalle telecamere di sorveglianza tutte le immagini che riprendevano il momento esatto dell’omicidio, lasciando solo quelle di Michael che spostava il corpo, scaricando su di lui tutta la responsabilità… Quando quella puttana ti ha sparato al petto, io sono rimasta con te, ma Jacob ha condotto Mike fuori dal magazzino. E Mike lo ha portato dentro il container che era stato allestito come la scena del crimine. Quando quell’idiota gli ha sparato alle spalle, ignorava completamente che indossasse un giubbotto antiproiettile, e non appena Michael è caduto a terra ha azionato il telecomando di una telecamera che era stata posizionata in alto, su una delle quattro pareti. E lui si è incastrato con le sue stesse mani”

“Aspetta, stai dicendo che…”

“Dal momento che Jacob aveva distrutto tutte le prove, non ci ha lasciato altra opzione se non quella di crearcele, giocando sporco. Il resto del lavoro lo ha fatto il sangue ritrovato all’interno del suo ufficio. Lo stesso che Whip ha recuperato in un barattolo attaccato ad una boa. Una precauzione necessaria per evitare che si seccasse. Inutile dirti che apparteneva al vicepresidente. Il regno di terrore di Poseidone è finito, a meno che non ne crei uno nuovo a Fox River, ma questa non è una faccenda che ci riguarda”.

Mi lascio scappare un lungo fischio, adesso che ogni tassello del quadro generale è finalmente al suo posto.

Mai e poi mai avrei pensato di vedere Michael giocare sporco; ma quando si tratta di una giusta causa, ogni mezzo è lecito, anche quello più infido.

“Questo significa che è tutto finito?”

“Sì, è tutto finito. E questa volta per davvero”

“Bene” prendo un profondo respiro e le rivolgo un’altra domanda della massima importanza “posso vedere Benjamin?”

“No, hai bisogno di riposare adesso, ma non ti preoccupare per lui: è un bambino forte e si è già ripreso da quello che è successo. Ti somiglia tantissimo” sussurra lei, prendendomi per mano “ti prometto che non appena ti sarai ripreso, sarà la prima persona che vedrai, ma è meglio se per il momento rimandiamo questo incontro. Non vorrai che Benjamin ti veda in queste condizioni, vero?”

“Ohh, no di certo. Chissà che cosa penserebbe poi di suo padre. Ho già un figlio che mi ha affibbiato l’etichetta di ‘catorcio da rottamare’. Due non riuscirei a gestirli” vedo le labbra di Nickie piegarsi in un sorriso appena accennato e rafforzo la presa sulla sua mano destra, accarezzandole con il pollice il dorso delle dita; adesso che siamo soli,  e che Poseidone non è più un problema, possiamo affrontare i nostri problemi uno ad uno, senza urlarci addosso e recriminarci fatti che appartengono ad un passato lontano “Nicole…”

“Non mi hai ancora detto a che cosa si riferiva quella parte della lettera di Michael” m’interrompe lei, con un tempismo sospetto “quella che riguardava Whip. Adesso me lo puoi spiegare?”

“È accaduto molti anni fa, al termine del mio primo periodo di reclusione in un carcere. Conecuh County non è mai stata una grande cittadina, di conseguenza le voci circolano molto velocemente, soprattutto quando di mezzo ci sono questioni delicate. Mentre aiutavo mio cugino ad uscire dalla tossicodipendenza, sono giunti alle mie orecchie alcuni pettegolezzi che riguardavano una ragazza con cui avevo avuto una brevissima relazione prima del mio arresto” spiego, preferendo non raccontare come si sono svolti veramente i fatti con Ava: non voglio litigare di nuovo con Nicole, non ora che abbiamo raggiunto un equilibrio precario “aveva avuto un figlio, ma nessuno sapeva chi fosse il padre perché lei non aveva mai voluto rivelarne l’identità. Ho voluto vederlo con i miei stessi occhi, per fugare ogni possibile dubbio. È stato più semplice del previsto trovare la nuova casa di Ava, e la fortuna mi ha assistito parecchio in quell’occasione perché l’ho vista giocare in giardino con un bambino. E quel bambino era Whip. Mi è bastato uno sguardo per capire ogni cosa, ma per anni mi sono rifiutato di guardare in faccia la realtà”.

Con gli occhi della mente rivivo la scena che ho appena descritto a Nickie: Ava che batte le mani, sorridente, e che incita un bambino di cinque anni, concentrato a non cadere da una bicicletta molto più grande di lui; ed il piccolo, dopo un paio di tentativi andati a vuoto, riesce a trovare il giusto equilibrio e prorompe in un grido di esultanza, sfrecciando lungo il perimetro del giardino, con i capelli ondulati mossi dal vento.

“E perché ti sei rifiutato di guardare in faccia la realtà fino ad oggi?”.

La domanda della mia ex compagna spalanca le porte ai demoni del mio passato, e sono costretto a raccogliere tutto il mio coraggio per confessare, in un sussurro, ciò che ho sempre temuto di dire perfino a me stesso.

“Perché avevo paura di trasformarmi in un mostro. Proprio come mio padre”.

Sento la mano destra di Nicole accarezzarmi il viso, sostituita ben presto dalle sue labbra che si posano con delicatezza sulle mie, per restituirmi il bacio che io le ho dato quasi mezz’ora prima; appoggia la fronte contro la mia ed io resto letteralmente inebriato dal profumo dei suoi capelli, così morbidi e folti che sembrano essere tanti fili di seta preziosa.

Ma quando provo a parlarne di noi due, vengo interrotto una seconda volta.

“Riposati, riprenderemo la nostra conversazione al tuo risveglio. Io sarò qui, non me ne andrò” mi sussurra, accarezzandomi la guancia sinistra, e mi ritrovo costretto a darle ragione perché sento le palpebre improvvisamente pesanti come macigni e fatico a tenerle aperte; annuisco lentamente, piego il viso verso destra e lascio che la stanchezza abbia il sopravvento su di me.

Quando mi sveglio, diverse ore più tardi, è notte e Nicole è sparita; in un primo momento penso che si sia assentata per parlare con i dottori o per prendere qualcosa alle macchinette, cambio rapidamente idea non appena i miei occhi si posano su un foglio ripiegato con cura, posato esattamente nel punto in cui lei era seduta.

Lo prendo in mano, lo apro e leggo le poche e concise frasi.

 
‘Benjamin resterà con me durante il tuo periodo di convalescenza, e molto probabilmente quando aprirai gli occhi e leggerai questa lettera noi due saremo già molto lontani da Chicago. Mi dispiace non avertelo detto prima, ma già immaginavo quale sarebbe stata la tua reazione.
Non odiarmi, ma Benjamin è anche mio figlio e dopo i recenti avvenimenti ho tutto il diritto di trascorrere un po’ di tempo con lui, e tu hai bisogno di tranquillità per sistemare un po’ di faccende.
Ti prometto che quando ti sarai ripreso ed avrai chiarito la confusione che hai in testa, Ben sarà la prima persona che incontrerai. Non sei l’unico a mantenere sempre le promesse. Ma fino a quel momento, per il bene di tutti, è meglio che tu sia all’oscuro del luogo in cui ci troviamo.
Buona fortuna, Teddy’.

 
Accartoccio il foglio, scagliandolo contro una parete, sfogando sulla carta tutta la frustrazione che provo in questo momento.

Non dico una sola parola, non urlo e non faccio alcuna sceneggiata melodrammatica; semplicemente mi piego in avanti, mi copro il viso con le mani e scoppio in un pianto silenzioso, sentendomi preso in giro dalla donna di cui mi stavo innamorando per la seconda volta.



 
Il tepore del sole è così piacevole che chiudo gli occhi per godermelo più affondo, e quando li riapro mi concentro sul piccolo gruppo di persone impegnate a fare un piacevole pic-nic sull’erba del parco pubblico: due uomini, due donne ed un bambino che tiene in mano un pallone da football.

Michael, Lincoln, Sara, una bellissima ragazza dai tratti orientale, ed il piccolo Mike.

Scofield è l’unico ad accorgersi della mia presenza: si alza in piedi e mi raggiunge sotto l’ombra dell’albero che mi cela alla vista del resto della compagnia; infila le mani nelle tasche dei jeans, si guarda attorno, e solo allora mi rivolge la parola, come se fossimo amici di lunga data.

“Come stai?”

“A parte il fatto che mi sono beccato una pallottola che si è fermata a pochi millimetri di distanza dal mio cuore, che ci ho guadagnato una cicatrice che non se ne andrà mai via del tutto e che la mia ex compagna è sparita nel nulla con mio figlio, ed io non ho notizie di loro due da settimane? Magnificamente” rispondo, accennando un ghigno “scommetto che tu sapevi già ogni cosa, e sai anche dove si trovano ma non hai alcuna intenzione di dirmelo”

“Ha rischiato di perdere suo figlio ed è stata costretta a stare lontana da lui per sette anni. È normale che voglia recuperare il tempo perduto. E poi mi ha accennato a delle faccende di cui ti devi occupare prima di risolvere quelle che riguardano voi due e Benjamin”

“Ohh, sono contento di sapere che la mia vita privata sia diventata di dominio pubblico. Ed è quasi eccitante il fatto che t’interessi così tanto”

“Nicole ha fatto molto per me, di conseguenza voglio solo il meglio per lei”.

Ignoro accuratamente la provocazione di Scofield, ed il modo in cui ha marcato la parola ‘meglio’, preferendo concentrarmi sul vero motivo per cui ho interrotto la sua piacevole riunione di famiglia.

“Sei riuscito a procurarmi quello che ti ho chiesto?” domando, e prontamente nella sua mano destra appare una piccola busta gialla; le sue labbra, invece, si distendono nel sorriso enigmatico che ormai conosco fin troppo bene, e che tante volte ho desiderato cancellare con un pugno.

O con un bacio.

Ma questi sono particolari che appartengo al passato.

“Non è stato per nulla difficile, ed i miei superiori hanno acconsentito in modo unanime alla tua richiesta. Considerala un piccolo risarcimento per quello che è successo. Tutto quello che devi fare è consegnare questa busta al tuo arrivo, fare ciò che devi fare e poi andartene. Nessuno t’impedirà di farlo” spiega Michael.

Rigiro la busta tra le mani, osservandola con attenzione, socchiudendo gli occhi.

“Non si tratta di una trappola, vero? Voglio dire… Dopo i nostri precedenti…”

“Nessuna trappola. Lo vedrai tu stesso”

“Immagino che dovrò avere un po’ di fede, giusto?” commento, divertito; ripongo il piccolo rettangolo di carta in una tasca della giacca perché è arrivato il momento di congedarmi da Scofield, ma lui richiama la mia attenzione, per rivolgermi delle parole che mi sorprendono.

“Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per Sara, sono in debito con te”.

Ritorno sui miei passi, mi scompiglio i capelli con la mano destra e faccio schioccare la lingua contro il palato.

“Vuoi davvero farmi un favore? Non mettermi più in mezzo a nulla d’ora in avanti, d’accordo? Le nostre strade si separano da questo esatto momento, per sempre. Ti saluto, Michael, e porta i miei saluti anche alla madre di mio figlio” sibilo, a denti stretti, prima di allontanarmi a passo veloce senza mai voltarmi indietro.



 
È strano, e quasi grottesco da ammettere, ma considero Fox River come la mia vera casa.

Non so con esattezza quali siano i motivi che mi spingono a questa conclusione, forse perché da quel luogo ha avuto inizio una lunga serie di eventi che hanno stravolto totalmente la mia vita, ma dentro di me sento che è così, e niente e nessuno potrà mai farmi cambiare idea; e di conseguenza provo quasi una piacevole sensazione di calma e tranquillità quando un secondino mi scorta personalmente all’interno del Braccio A, accompagnandomi dinanzi ad una cella vuota, eppure questa volta tutto è diverso: non sono stato arrestato, non ho commesso alcun crimine, e mi trovo qui dentro per svolgere un compito ben preciso.

Mi arrampico sulla brandina superiore e mi siedo sul materasso, lasciando ondeggiare le gambe al di là del bordo, guardandomi attorno: non è cambiato nulla dall’ultima volta che sono stato qui dentro, ma è comprensibile visto che sono tornato ad essere un uomo libero appena da qualche mese.

Il suono, fin troppo familiare, di una sirena giunge alle mie orecchie, e sulle mie labbra appare un sorriso perché ciò significa solo una cosa: l’ora all’aria aperta è giunta al termine, ed i detenuti stanno per rientrare nelle loro rispettive piccole abitazioni.

Attendo il mio compagno di cella con trepidazione e dopo qualche minuto lo vedo finalmente arrivare: si tratta di un uomo alto, slanciato, con i capelli castani e l’aria di essere il padrone incontrastato di ogni singola cosa; ed è proprio la sua espressione carica di sicurezza ed arroganza a farmi capire che non ha ancora capito come funziona il mondo della prigione e che pensa davvero di uscire da qui molto presto.

Non mi degna neppure di un’occhiata, tuttavia capisco che la mia presenza non gli è sfuggita perché, dopo essersi seduto sulla brandina inferiore, inizia un lungo e noioso monologo; lo ascolto distrattamente, per qualche minuto, finché non decido di porre fine a quella vera e propria tortura per le orecchie: scendo dalla brandina con un salto e lo affronto, posizionandomi davanti a lui.

Quando gli occhi di Jacob si posano sul mio viso, e mi riconosce, le sue guance sbiancano velocemente e le iridi scure si riempiono di un terrore indescrivibile, palpabile, che accende un fuoco dentro di me.

“No, no, ti prego, no…” balbetta, supplicandomi, ma io lo ignoro e lo afferro per la maglietta della divisa, portando il mio viso a pochi centimetri di distanza dal suo.

“Ricordi che cosa mi hai detto dentro il vecchio magazzino, quando mi hai ordinato di non muovere un solo passo in più?” dico in un soffio, senza sbattere le palpebre “hai detto che se avessi trasgredito sarei stato costretto a raccogliere la materia cerebrale di mio figlio con uno strofinaccio. Vediamo quanti ne useranno i secondini per ripulire il pavimento della cella dalla tua”

“No, no, no! No!”.

Ignoro di nuovo le suppliche dell’ex agente corrotto della CIA.

Stringo la mano sinistra attorno ad una ciocca dei suoi capelli e, con tutta la forza che ho in corpo, gli fracasso la testa contro le sbarre della cella, incitato dalle urla degli altri detenuti che non sono intenzionati a perdersi un solo istante della brutale esecuzione.

E, per l’ultima volta, lascio che T-Bag abbia il soppravvento su di me.
 

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Capitolo 34
*** It's Over (Gracey) ***


Immergo la spugna nel lavandino colmo d’acqua calda, la strizzo con cura, lasciando cadere le gocce in eccesso, e provo a lavarmi la schiena; ma ogni mio tentativo si trasforma ben presto in una serie di sbuffi seccati perché si rivela essere un’operazione pressoché impossibile per una singola persona: purtroppo avere un braccio ingessato porta con sé una serie infinita di risvolti negativi e limiti fisici.

Ho bisogno di essere aiutata anche per compiere i gesti più banali, e ciò mi irrita parecchio.

Senza contare il fatto che in diverse occasioni può essere terribilmente imbarazzante.

“Ti serve una mano?”.

Mi blocco all’improvviso, i miei occhi scattano subito in direzione dello specchio e vedo Whip appoggiato allo stipite della porta del bagno; istintivamente premo il braccio destro contro la stoffa del reggiseno che indosso, e la mia reazione scatena una risata divertita nel ragazzo.

“Voi donne siete davvero delle contraddizioni viventi!” esclama, scuotendo la testa, ed alcuni ciuffi di capelli ondulati gli ricadono sugli occhi; ciuffi ribelli che si preoccupa di spostare con un gesto sensuale della mano destra, ed io non riesco a capire se l’abbia fatto involontariamente o apposta, ed è sempre così: ogni sua azione sembra essere compiuta con il solo fine di provocare “quando andate al mare indossate bikini striminziti perché volete attirare il maggior numero di sguardi maschili, ma quando qualcuno vi vede in reggiseno vi coprite ed iniziate ad urlare. Ma si può sapere per quale motivo lo fate? Che cosa cambia da un costume da bagno ad un paio di slip e reggiseno? Non ha alcun senso!”

“Vuoi davvero discutere riguardo a questo?”

“No, dolcezza, infatti io ti ho chiesto se hai bisogno di una mano”

“Assolutamente no” rispondo categorica, ritentando per l’ennesima volta, ma Whip non mi ascolta: prende uno sgabello, si posiziona alle mie spalle e mi strappa la spugna dalla mano “ehi!”

“Andiamo, non essere ridicola, dolcezza! È palese che tu abbia bisogno di aiuto! A meno che tu non sia una contorsionista dubito seriamente che riuscirai a lavarti la schiena con questa spugna… O sei così masochista e sadica che vuoi romperti anche il braccio destro?” sussurra lui, è così vicino che sento il suo respiro sul mio collo, scrollo le spalle senza degnarlo di una sola risposta, permettendogli di occuparsi della mia schiena, e prendo in mano il cellulare: quando sblocco lo schermo sospiro, perché ho ancora come sfondo una foto che io ed Ashley ci siamo fatte poco tempo prima che la nostra amicizia finisse in modo così brusco; un lungo fischio compiaciuto mi coglie alla sprovvista “ohh, chi è quello schianto biondo?”

“Si chiama Ashley. È la mia migliore amica”

“Me la presenti?”

“No” dico, in tono secco, possibile che il suo unico chiodo fisso siano le ragazze? “e comunque noi due non ci parliamo più da un po’… Può bastare così, ti ringrazio per l’aiuto”.

Provo a liquidarlo, alzandomi dallo sgabello, proprio perché questa è una di quelle situazioni che stanno diventando estremamente imbarazzanti, ma mi ritrovo ben presto costretta a chiedere di mia spontanea volontà il suo aiuto per riuscire ad indossare una maglietta; e quando le sue mani sfiorano per puro caso i miei fianchi, a stento riesco a trattenere un brivido: anche le sue, come quelle di Theodore, sono grandi e calde.

“E per quale motivo avete troncato ogni rapporto?”

“Non accetta la mia storia con Theodore. Secondo lei dovrei troncare subito ogni rapporto prima di ritrovarmi con il cuore spezzato. È seriamente convinta che la nostra frequentazione non porterà a nulla di buono”

“Cavolo… Una bionda intelligente? Non credevo che avrei mai visto arrivare questo giorno! Davvero non c’è alcuna speranza che me la presenti?”.

A quell’ennesima provocazione gratuita, giro di scatto il viso verso di lui, fulminandolo con lo sguardo: a tutto c’è un limite, e lui lo ha appena oltrepassato.

“Le tue parole sono assolutamente fuori luogo. Sono stufa di sentirti criticare ed umiliare il rapporto che ho con Theodore. Tu non sai quello che c’è tra di noi, non puoi capirlo e di conseguenza non puoi permetterti di giudicarlo”

“Desolato, dolcezza, ma dal momento che Theodore è mio padre ho tutto il diritto di esprimere il mio parere riguardo alle sue scelte di vita. E poi non voglio né umiliarti né criticarti né tantomeno giudicarti; semplicemente, siccome ho qualche anno più di te ed una lunga esperienza in campo sentimentale, voglio cercare di farti ragionare prima che tu possa commettere un enorme errore. Te l’ho detto: sei sprecata a fianco di mio padre. E non sto parlando di un fatto di età” commenta Whip, agitando una mano “lui non ti ama. È innamorato di un’altra donna”

“Non ti starai riferendo a Nicole, vero?”

“E invece sto parlando proprio di lei, dolcezza”.

Le sue parole, e la sicurezza con cui le ha pronunciate, mi fanno scoppiare a ridere.

“Per fortuna che dovrei essere io quella ad aprire gli occhi!” esclamo, scuotendo più volte la testa “se parli in questo modo di loro due, allora significa che non hai capito assolutamente nulla”

“Ho affrontato un viaggio in macchina in compagnia di mio padre e Nickie. Ho visto il modo in cui si parlavano ed in cui si guardavano quando pensavano di non essere visti dall’altro. Stai sprecando energie per una storia che esiste solo nella tua testa, Gracey”.

Se prima aveva oltrepassato il limite, adesso lo ha appena calpestato ripetutamente senza alcun ritegno.

Mi avvicino a lui e lo affronto a muso duro, per nulla intimorita, anche se sono costretta a sollevare il viso perché è molto più alto di me: a malapena la mia testa arriva al suo petto.

“Quei due si odiano. Theodore mi ha raccontato tutta la storia d’amore che ha avuto con Nicole, soprattutto il modo in cui è finita. A te l’hanno mai raccontata?”

“Diciamo che negli ultimi quattro anni io, Nicole e Michael avevamo altro a cui pensare. Raccontare le nostre corrispettive vite private non rientrava nelle nostre priorità”

“Proprio come immaginavo: tu non sai assolutamente nulla. La tua amica non si è semplicemente limitata a spezzare il cuore al mio uomo, ma lo ha anche calpestato senza alcuna pietà, ed adesso tocca a me recuperare tutti i pezzi. Ha avuto la faccia tosta di abbandonare suo figlio poco dopo la nascita e di far credere a Theodore che non era riuscita a sopravvivere al parto a causa dello stress che lui le aveva provocato. Quale donna avrebbe mai il coraggio di fare questo e di continuare a guardarsi allo specchio come se non fosse accaduto nulla? Nessuno riuscirebbe mai ad amare un mostro simile. Tu non c’eri quando Teddy mi ha parlato di lei, ma posso assicurarti che non prova più nessun sentimento per la sua ex compagna, ad eccezione di odio e disprezzo”

“Sono senza parole”

“Adesso che sai come si sono svolti i fatti, faresti meglio a pensarci due volte prima di dare fiato alla bocca”

“Davvero chiami mio padre ‘Teddy’? Come ‘Teddy-Bear’? Sto per avere un conato di vomito”.

Non riesco più a trattenermi e lo colpisco con un sonoro schiaffo sulla guancia destra, un po’ perché se lo merita ed un po’ per sfogare la tensione che ho accumulato nell’ultimo periodo; la vista mi si annebbia a causa di un velo di lacrime provocate dalla rabbia, ma non permetto ad una sola goccia di scivolarmi lungo le guance, perché Whip non merita di vedermi piangere: se ciò accadesse, ho il timore che non farebbe altro che aumentare il suo ego già smisurato.

Incassa il colpo senza replicare, ma quando i suoi occhi incontrano di nuovo i miei vedo una tempesta in procinto di scatenarsi: sto giocando col fuoco, tuttavia non sono intenzionata ad arretrare di un solo passo o a chiedere scusa per il mio gesto.

“Mi hai stancata. Da questo momento in poi non voglio più sentire una sola parola riguardo me e Theodore uscire dalla tua bocca. Anche se è tuo padre, non c’entri nulla nella nostra relazione. D’accordo?”

“D’accordo, Gracey” risponde lui, piatto, facendomi intuire che sta utilizzando tutto il suo autocontrollo per non esplodere e questo, in parte, mi spaventa: dopotutto non so nulla sul conto di questo ragazzo, solo che è il figlio maggiore del mio compagno “se è questo ciò che desideri, allora così sarà, ma quando lui ti lascerà perché si è reso conto di essere ancora innamorato di Nicole, e che nei tuoi confronti ha avuto solo una sbandata momentanea, sarò il primo a dirti ‘te l’avevo detto’. E per festeggiare stapperò una bottiglia di spumante”.

L’unica cosa che mi trattiene dal ricoprire Whip di insulti irripetibili è il rumore della porta d’ingresso che si apre e si chiude, seguito da quello di alcuni passi che si spostano in direzione del salotto; senza dire una sola parola esco dalla camera da letto, scendo le scale correndo, rischiando quasi di cadere e lesionarmi anche l’altro braccio, e mi butto letteralmente tra le braccia di Teddy, stringendolo a me nonostante il gesso ingombrante.

“Oh, mio dio, sono così contenta di vederti” sussurro, senza più riuscire a trattenere le lacrime “ho avuto paura di perderti per sempre. Quando Whip ha ricevuto quella telefonata in ospedale, ho temuto il peggio… Credevo che…”

“Anche io l’ho creduto per un solo istante, ma ormai è tutto finito, non piangere” mi consola, passandomi le braccia attorno ai fianchi; mi stringe per qualche istante e poi scioglie la presa per raggiungere Whip, che nel frattempo è sceso dalle scale a sua volta, ed avvolgerlo in un abbraccio: lui spalanca gli occhi, inarca il sopracciglio destro e si trasforma in una perfetta statua di cera.

“Non ti offendi, vero, se non ricambio? Non lo trovo molto mascolino… E poi rischierei di spaccare tutte le tue fragili e vecchie ossa” commenta poi, sottraendosi dalla manifestazione di affetto paterno, facendo un passo indietro “piuttosto, adesso che sei qui, che ne dici di darmi qualche spiegazione più approfondita riguardo a quello che è accaduto quando ci siamo incontrati con Michael? Ti do un piccolo indizio, in caso la memoria ti giocasse qualche brutto scherzo a causa della vecchiaia: mi hai abbandonato in mezzo alla strada e sono stato costretto a camminare ore ed ore prima di arrivare qui”

“Dopo. Adesso non è il momento” dice Theodore, indicandomi con un cenno della testa; Whip mi lancia un’occhiata prima di fissare il soffitto del salotto, visibilmente esasperato.

“Ho capito. Vado a fumare una sigaretta sotto il portico. Se avete bisogno di me sapete dove trovarmi” borbotta, uscendo dall’abitazione; e non appena la porta si richiude alle sue spalle, dimentico l’astio che provo per lui e mi concentro di nuovo sull’uomo di cui sono innamorata e che ho rischiato di perdere: gli passo nuovamente il braccio destro attorno alle spalle ed avvicino le mie labbra alle sue, ma il suo indice destro m’impedisce di farlo e riapro gli occhi, chiedendogli spiegazioni tramite un’espressione confusa.

“Dobbiamo parlare” mormora in un soffio.

Dobbiamo parlare: non esistono parole peggiori in una relazione, perché non portano mai a nulla di buono.

Non protesto, mi lascio prendere per mano e condurre verso il divano; quando prendo posto sui cuscini mi sembra quasi di percepire un peso premere sulle mie spalle.
Qualunque cosa voglia dirmi, io non sono pronta a sentirla.

“Perché?” domando, facendomi forza “sei vivo e stai bene, dobbiamo solo pensare a festeggiare e a noi due. Finalmente hai chiuso questa maledetta storia… Che cosa è successo? Riguarda Benjamin? Ho provato ad inseguire quella macchina, ma era troppo veloce e le mie gambe hanno ceduto…”

“Tu e Whip non avete colpa riguardo a quello che è accaduto a Benjamin: state tutti e tre bene, questa è la cosa più importante, il resto non ha importanza”

“Dov’è ora?”

“Lui è… Non lo so con esattezza, ma è in compagnia di Nicole”

“Che cosa? Che vuoi dire?”

“Quando mi sono svegliato in ospedale ho trovato questo biglietto” spiega in modo laconico, passandomi un foglietto di carta stropicciato; lo prendo, lo leggo e stringo le labbra: credevo che più nulla potesse sorprendermi riguardo Nicole, invece ci è riuscita ancora una volta perché ciò che i miei occhi hanno appena visto non merita neppure di essere commentato.

“Non ho parole” mormoro, amareggiata, restituendogli il foglietto “non capisco come abbia avuto il coraggio di fare questo dopo che hai rischiato la vita e dopo che l’hai aiutata nonostante il dolore che ti ha arrecato. Quella donna è senza cuore: prima abbandona te e Benjamin, e poi ricompare nelle vostre viste, rivendicando il suo ruolo di madre e, non contenta, sparisce con vostro figlio lasciandoti un biglietto che non ha alcun senso. Che cosa significa che hai alcune faccende da sistemare? A quali faccende si riferisce?”

“Ci ho pensato a lungo durante il periodo di convalescenza e sono giunto alla conclusione che si stava riferendo a due faccende”

“Due faccende?” ripeto, continuando a non capire.

In realtà, l’intero discorso mi sembra privo di senso.

“In cambio di tutto questo” inizia Teddy, indicando la stanza che ci circonda “Michael mi aveva affidato un compito ben preciso: porre materialmente fine alla vita di Poseidone. Non ho potuto farlo a causa del proiettile che mi sono beccato, ma una volta uscito dall’ospedale sono riuscito a rimediare… Diciamo che Michael, grazie ai suoi contatti, è riuscito a procurarmi un permesso speciale per far visita in carcere a Poseidone”

“Lo hai ucciso?”

“Ha minacciato di spappolare il cranio a mio figlio, io gli ho solo restituito il favore”

“Se lo meritava” mormoro, e lo prendo per mano per fargli capire che sono dalla sua parte “quell’uomo meritava di fare una fine così violenta. Immagino che questa era la prima delle faccende a cui si riferiva Nicole, ma qual è la seconda?”.

L’ex compagno di mia madre allontana la mano dalla mia, passandosela sugli occhi, si schiarisce la gola e si scompiglia i capelli: ormai lui non è più un mistero per me e so perfettamente che si comporta in questo modo quando è nervoso; ed un’ulteriore conferma mi viene data dalla sigaretta che accende e da cui prende una profonda boccata.

Nonostante i miei numerosi tentativi, non vuole smettere di fumare.

“Come ti ho accennato poco fa, ho avuto molto tempo per pensare in ospedale. Ho riflettuto su tante cose, in modo particolare su quello che è accaduto nel corso degli ultimi mesi e su quali sono le mie priorità in questo momento e…” si blocca, aspira dell’altro fumo e rivolge lo sguardo altrove, lontano dal mio viso; una vocina, nella mia mente, mi sussurra che devo prepararmi al peggio “io… Ecco… Quello che sto cercando di dirti è che… Quello che sto cercando…”

“Maledizione, Theodore, dillo e basta!” esclamo, esasperata, perché l’ansia mi sta uccidendo da dentro; e me ne pento subito dopo.

Anche se una parte di me già lo sapeva, pur non volendo ammetterlo, sentirlo dire è ugualmente devastante.

“È meglio finirla qui”

“Che cosa? Che cosa è meglio finirla qui? Non capisco”

“Questo. Noi due”.

Non ha neppure il coraggio di chiamare per nome il sentimento che ci lega, non ha neppure il coraggio di dire ‘storia’ o ‘relazione’ e così facendo mi assesta non una, ma bensì due pugnalate in rapida successione.

Una più dolorosa dell’altra.

Sento gli occhi inumidirsi per la seconda volta, ma ora non si tratta né di lacrime di rabbia né di gioia; sbatto più volte le palpebre, ricacciandole indietro, ed abbasso lo sguardo, rialzandolo solo quando riesco a ritrovare il controllo del mio corpo e della mia voce: non voglio urlare, comportandomi come un’isterica ragazzina di diciassette anni, voglio capire quali motivi lo hanno spinto a prendere questa drastica decisione.

E, chissà, magari riuscirò a farlo tornare sui propri passi prima che sia troppo tardi.

Forse si tratta solo di qualche dubbio momentaneo, nulla che non possa essere risolto con una lunga chiacchierata.

“Perché?” gli domando, cercando un contatto visivo “perché vuoi troncare la nostra relazione? È colpa mia? Ho sbagliato qualcosa?”

“No, Gracey” risponde prontamente lui, ma senza guardarmi negli occhi “la colpa non è tua. È solo mia. Sono stato terribilmente egoista e non ho pensato alle conseguenze delle mie azioni”

“Ma questa non è una risposta! Queste sono le solite scuse che voi uomini inventate quando non sapete come scaricare una ragazza! Non capisco, fino al giorno della tua partenza andava tutto così bene… Perché ogni cosa è cambiata? Non dirmi che si tratta di quel bigliettino” mormoro, osservando il piccolo pezzo di carta stropicciata che Theodore continua a rigirarsi tra le mani “oh, mio dio, non dirmi che vuoi troncare la nostra relazione perché Nicole ti ha detto che devi sistemare alcune faccende! Lei non è intenzionata a farti vedere Benjamin finché non ci saremo lasciati, lo sai che questo si chiama ricatto? Ma che cosa vuole quella donna dalla tua vita? Dopo tutto quello che ti ha fatto, come può avere il coraggio di avanzare una richiesta simile? È pazza, ha bisogno di vedere un buon psichiatra”

“Nicole non è pazza” mi contraddice Theodore, chiudendo le palpebre per pochi secondi, e l’irritazione che traspare dalla sua voce mi coglie del tutto impreparata: davvero si è offeso per ciò che ho detto sulla sua ex compagna? “non ha bisogno di vedere un buon psichiatra e non mi ha rivolto nessun ricatto, semplicemente mi ha aiutato a vedere in modo più chiaro l’intera situazione generale. E poi, non potevo occuparmi di Ben durante il mio decorso ospedaliero, di conseguenza le sono grato. È solo questo ad irritarmi: il fatto che se ne sia andata senza dirmi nulla, lasciandomi solo un biglietto, ed il fatto che sia all’oscuro del luogo in cui si trovano ora. Sono sicuro che con lei Benjamin sia in buone mani, ma non capisco perché non posso avere loro informazioni… Come se potessi essere un pericolo per loro… O forse Nicole temeva una mia possibile reazione violenta”

“Come puoi difendere una donna che si comporta in modo così assurdo?”

“Il punto della questione non riguarda Nickie! Non siamo qui per parlare di lei e di Ben! Siamo qui per parlare di noi due!” Teddy alza la voce, zittendomi all’istante “ricordi che cosa ho detto quando ti ho raccontato il mio passato? Per quale motivo la mia storia con Susan non ha funzionato? Per quale motivo la mia storia con Nicole non ha funzionato? Perché in entrambi i casi ho commesso lo stesso, stupido, errore: mi sono rinchiuso in una bolla di sapone. E una bolla di sapone non può durare per sempre, basta un piccolo soffio di vento per farla esplodere. Credevo di averlo capito, ed invece Nicole mi ha aiutato a comprendere che sto commettendo lo stesso, identico, errore per la terza volta, e questa bolla di sapone rischia di infrangersi più velocemente delle altre due… Ci sono tutti i presupposti perché accada”

“Di quali presupposti stai parlando? Io non riesco a vederli”

“Ohh, per favore, Gracey! Non essere così ingenua. Non è che non riesci a vederli, non vuoi vederli. È diverso” sbotta lui, spegnendo il mozzicone di sigaretta “devo davvero elencarteli? Da che cosa devo iniziare? Dal fatto che io ho cinquantatre anni e tu appena diciassette? Dal fatto che ho un figlio? Che ho avuto una storia con tua madre? O che sono un vero e proprio mostro? Non sono presupposti sufficienti?”

“Nessuno di questi è un ostacolo invalicabile” mormoro, deglutendo; allungo timidamente la mano destra e stringo la sua sinistra “per me l’età non è un problema, pensi davvero che mi sia innamorata di te per una questione puramente estetica? Per quanto riguarda Benjamin, io mi sono già affezionata tantissimo a lui e so che il sentimento è ricambiato. Molte ragazze della mia età si ritrovano, loro malgrado, ad essere madri… Io sono pronta ad assumere questo ruolo, sarei una madre molto più presente e protettiva di quello che è stata Nicole. Riguardo al tuo passato… Sai già che cosa penso, e sai anche benissimo che io sono dalla tua parte e che non sono intenzionata a lasciarti. Infine, per quanto riguarda mia madre… Questa non è una faccenda che le riguarda, giusto?”

“Quanto sei stupida!” esclama Theodore, seccato, allontanando con un movimento brusco la mia mano; ciò che dice ed il gesto che compie mi spingono di nuovo sull’orlo di una crisi di pianto, perché non riconosco più l’uomo di cui mi sono innamorata: la persona che è partita, un paio di settimane prima, insieme alla sua ex compagna non è la stessa che adesso è davanti ai miei occhi, ed io non so più a che cosa aggrapparmi per non perderla per sempre “questa non è una faccenda che riguarda tua madre? Sicura, Gracey? Credi davvero alla cazzata che hai appena detto? Sai come andrà se adesso non tronchiamo tutto? Ben presto Susan scoprirà ogni singola cosa, ed io finirò di nuovo in prigione per il resto della mia vita perché tu hai solo diciassette anni. A quel punto chi si prenderà cura di Benjamin?”

“Ma io dirò che la nostra storia è consenziente!”

“E tu credi che daranno ascolto alle tue parole? Dopo i miei precedenti? Diranno che ho usato violenza psicologica su di te. Oppure che sei affetta dalla Sindrome di Stoccolma, ne hai mai sentito parlare? Accade quando una vittima inizia a provare dei sentimento per il suo carnefice”

“Ma tu non sei il mio carnefice!”

“Lo so, Gracey, ma il tribunale la penserà esattamente in questo modo. Ed io non sono intenzionato a perdere mio figlio. Entrambi i miei figli. Mi dispiace, tesoro, non avrei mai voluto arrivare a questo punto, ma sono loro la mia priorità. Michael mi ha già fatto uscire di prigione una volta, e lo ha fatto perché aveva bisogno di me nel piano che aveva organizzato per rovesciare Poseidone. Se io finisco ancora una volta dentro, non penso che si adopererà di nuovo per mettermi in libertà. Voglio costruirmi una nuova vita, ma non posso farlo finché avrò te al mio fianco, perché mi leghi al passato. Mi dispiace dirtelo in questo modo, mi dispiace essere così brutale, ma questa è la realtà dei fatti. Ti chiedo scusa per non averlo capito prima e per averti illusa, Gracey, perché non te lo meriti. Se vuoi odiarmi, sei libera di farlo, perché ne hai il pieno diritto”.

Adesso è il mio turno di non volerlo guardare negli occhi: concentro lo sguardo sul tavolino posto di fronte al divano, senza vederlo veramente, e mi sforzo di non versare una sola lacrima o di supplicarlo di ripensarci e di dare al nostro rapporto una seconda possibilità; la parte più infantile di me spera che sia tutto solo un brutto incubo, od uno scherzo di pessimo gusto, spera che da un momento all’altro l’ex compagno di mia madre scoppi a ridere e che mi accolga tra le sue braccia per baciarmi.

Naturalmente non accade nulla di tutto questo, in compenso mi ritornano in mente alcune parole pronunciate da Whip durante la discussione che abbiamo avuto, e che riguardava proprio il triangolo ‘io,Teddy, Nicole’, ed in automatico ripenso anche alle numerose chiamate a cui Theodore non ha mai risposto.

Serro con forza i denti nello stesso momento in cui la mia mente viene attraversata da un terribile dubbio che assume sempre di più una forma concreta.

“Tu e Nicole avete fatto sesso?” gli domando senza alcun preavviso, girando di scatto il viso verso di lui; la mia domanda lo coglie del tutto impreparato, ma ben presto lo stupore che leggo nei suoi occhi scuri lascia spazio ad un’altra emozione che non faccio fatica ad identificare: colpevolezza.

Non aspetto una risposta da parte sua, non gli lascio neppure il tempo di inventare una bugia o di darmi qualche inutile spiegazione, lo colpisco con due sonori schiaffi e gli rivolgo uno sguardo carico di odio, disprezzo e disgusto; esco dall’abitazione senza raccogliere i miei effetti personali, con il solo desiderio di lasciarmela alle spalle il prima possibile e per sempre, ma mi blocco sotto il portico non appena vedo la figura inconfondibile di Whip: come se nulla fosse, sta tranquillamente fumando una sigaretta a pochi passi di distanza da me, con la nuca ed il piede sinistro appoggiati alla facciata della villetta.

Quando si rende conto della mia presenza allontana la sigaretta dalle labbra, butta fuori il fumo e piega le labbra in un sorriso così compiaciuto che mi fa intuire che non si è perso un solo istante dell’intera discussione.

“Hai visto?” sussurra, senza smettere di sorridere “te lo avevo detto, dolcezza. Adesso sono costretto a comprare una bottiglia di spumante”.

La goccia che fa traboccare il vaso.

Mi avvicino a lui, senza replicare, lo guardo negli occhi e poi, con più forza possibile, gli assesto una ginocchiata in mezzo alle gambe che gli strappa un gemito, che è un misto di sorpresa e dolore, e che lo costringe ad aggrapparsi al davanzale di una finestra per non crollare a terra.

“Assicurati che la bottiglia sia ben ghiacciata per lenire il gonfiore. Stronzo” sibilo a denti stretti prima di allontanarmi velocemente, senza mai voltarmi indietro una sola volta.



 
Adesso che Theodore mi ha lasciata, c’è un solo posto in tutta Chicago in cui posso trovare un momentaneo rifugio sicuro, ed è proprio lì che i miei piedi mi conducono, nonostante la paura di ricevere una porta sbattuta in faccia.

Suono il campanello, indietreggio di un passo, e quando la porta si apre mi ritrovo faccia a faccia con Ashley, che non so più se considerare come la mia migliore amica od ex migliore amica; ed è proprio la sua reazione a farmi chiarezza proprio su questo punto: si appoggia allo stipite, incrocia le braccia, inarca il sopracciglio destro e mi rivolge uno sguardo tutt’altro che amichevole.

“Che cosa vuoi? Non dovresti essere insieme all’uomo dei tuoi sogni?”.

Mi basta una battuta riferita al mio ex compagno per farmi dimenticare il discorso che avevo preparato e scoppiare in lacrime, disperata; e quasi non mi rendo conto che Ashley mi passa un braccio attorno alle spalle e mi aiuta a sedersi sul divano, chiedendomi con voce preoccupata che cosa sia successo.

A fatica, e con voce rotta dal pianto, le racconto tutto quello che è successo ed il modo brutale in cui Theodore mi ha lasciata, dopo avermi tradita Nicole.

“Io ci credevo tanto in questa storia” mormoro singhiozzando, facendo fatica a scandire con chiarezza le parole “ero davvero convinta che fosse l’uomo giusto per me, perché era tutto perfetto prima che quella stronza ricomparisse nella sua vita. Lo sapevo che non doveva partire, ho provato a fargli cambiare idea. Ho provato a convincerlo in qualunque modo possibile, ma lui mi ha assicurato che non dovevo preoccuparmi di nulla e che al suo ritorno avremo finalmente iniziato una vita insieme. Invece è andato a letto con lei e mi ha scaricata senza battere ciglio. Ti giuro che quando parlava non riuscivo a riconoscerlo, non sembrava neppure lui. Era come se… Come se fosse…”

“Un emerito bastardo!” esclama Ashley, concludendo la frase con un concetto ben differente da quello che volevo esprimere io “ecco che cosa è. Un emerito bastardo che ti ha illusa fin dal primo momento in cui vi siete ritrovati per caso. Ti ha usata e si è preso gioco di te, e quando si è stancato non ci ha pensato neppure per mezzo secondo di scaricarti senza tanti complimenti”.

Per la prima volta non ho alcuna intenzione di prendere le difese di Teddy dinanzi ad Ashley, perché ha perfettamente ragione.

Mi sento una grandissima stupida per non averlo capito prima.

“Non riesco neppure a dargli la colpa” sussurro con un filo di voce, senza riuscire a fermare il fiume in piena che esce dai miei occhi “perché sono stata io l’idiota che si è lasciata rigirare come uno strofinaccio”

“No, non devi dire così, sei stata raggirata da un individuo spregevole. Tu non hai nessuna colpa, è stato lui a farti un vero e proprio lavaggio del cervello, mi dispiace non essere riuscita a fartelo capire prima”

“Tu ci hai provato in qualunque modo, sono stata io che non ho voluto guardare in faccia la realtà… E tutto ciò che ho guadagnato è stato il cuore spezzato ed un braccio rotto” commento, con amarezza, osservando il gesso bianco; Meg salta sul divano con un balzo agile, strofinandosi contro le mie gambe, ma a nulla servono i suoi tentativi per migliorare il mio umore: le accarezzo la testolina con la mano destra, ed emetto un lungo sospiro “non voglio più parlare di quello che è successo. Non voglio più sentire il suo nome. Voglio solo dimenticare ogni singola cosa che è accaduta negli ultimi mesi… E voglio tornare a casa”.

Ashley mi stringe in un abbraccio, facendo attenzione a non esercitare troppa pressione sul mio povero arto rotto.

“Hai preso la decisione migliore, Gracey” mi mormora ad un orecchio “vedrai che tornare a Tribune ti aiuterà a guarire”

“Lo spero” sussurro a mia volta, senza crederci veramente.
 
 

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Capitolo 35
*** Sweetheart (Gracey) ***


Non è mai semplice fare i conti con la realtà, soprattutto se dopo un anno trascorso in una grande città ti ritrovi di nuovo catapultata in un piccolo paese di provincia, di un altrettanto piccolo Stato del Sud.

Mia madre e Zack sono all’oscuro della maggior parte degli eventi che si sono verificati nell’ultimo periodo della mia permanenza a Chicago: non sanno nulla né del mio incontro con Theodore né della nostra fugace ‘relazione’ (sempre se così può essere definita) né tantomeno della storia delicata in cui mi sono ritrovata coinvolta mio malgrado; per quanto riguarda il braccio rotto, infatti, ho giustificato la frattura scomposta con una mia sbadataggine durante un pomeriggio trascorso su una pista per il pattinaggio sul ghiaccio in compagnia di Ashley, e loro ovviamente ci hanno creduto.

Come hanno creduto, senza alcun dubbio o sospetto, alla mezza bugia che ho raccontato loro al mio ritorno: con voce che mi tremava, ho spiegato di essere rimasta delusa dal mondo della moda in seguito ad un provino che doveva essere il mio trampolino di lancio e che, invece, ha solo infranto il sogno della mia infanzia ed adolescenza.

Ed infatti questo è vero, ma non potevo aggiungere che il colpo di grazia me lo ha assestato Theodore con il suo tradimento e rifiuto; a volte la mia mente è stata attraversata dal pensiero di vendicarmi, di raccontare a mia madre e Zack del nostro incontro e di inventarmi cose orribili che, in realtà, non ha mai fatto, solo per restituirgli tutto il dolore che mi ha procurato, ma sono sempre riuscita a fermarmi in tempo, a prendere un profondo respiro, ed a capire che sarebbe una bastardata senza senso.

Soprattutto perché le conseguenze si abbatterebbero anche su Benjamin, e lui non c’entra nulla con quello che c’è stato tra me e suo padre.

Non ho ripreso gli studi in veterinaria, tuttavia sono riuscita a trovare un impiego stabile che, però, nasconde un risvolto poco piacevole: per ironia della sorte sono stata assunta nella stessa biblioteca in cui lavorava l’ex compagno di mia madre, e devo svolgere il ruolo che una volta ricopriva lui; in sintesi, mi devo occupare delle richieste dei clienti, di ordinare i libri che non sono disponibili in biblioteca e di tenere sempre in ordine i numerosi scaffali.

Devo fare tutto questo ignorando la ferita che non riesce a sanarsi, perché mi basta fermarmi un solo istante e tutto in questo posto mi ricorda lui.

E nonostante siano trascorsi già sette mesi dal mio ritorno a Tribune, fa ancora terribilmente male.

È proprio in uno dei momenti di maggior sconforto che ricevo un aiuto del tutto inaspettato da quella che è la mia ancora di salvezza da una vita: mio fratello Zack.

Lo vedo entrare in biblioteca con in mano due bicchieri di cartone, ed io mi affretto ad asciugarmi le lacrime che non sono riuscita a trattenere per l’ennesima volta, prima che lui le veda; scendo dalla scala a pioli e gli rivolgo uno dei miei migliori sorrisi.

“E questa sorpresa?” domando, indicando con l’indice destro prima lui e poi i bicchieri.

“Passavo di qui per caso, ed ho pensato di portare una cioccolata calda con panna e marshmallow alla mia sorellina preferita”

“Ti ringrazio, ma il tuo gesto dolce conta ben poco dal momento che sono la tua unica sorella”

“Ma sei comunque la mia preferita, dovresti essere lusingata di questo”

“Sei davvero un idiota!” esclamo, senza riuscire a trattenere una risata, mentre prendo in mano un bicchiere; ecco una delle tante sfaccettature del carattere di Zack che adoro: è in grado di risollevarmi l’umore e di farmi ridere in qualunque situazione, perfino adesso che mi sento imprigionata in un periodo nero e buio dal quale non so come uscire.

Assaporo un sorso di cioccolata calda e poi attacco i marshmallow: prendo una delle piccole e soffici nuvole bianche, raccolgo un po’ di panna, e lo faccio sparire in bocca.

Sì, adesso mi sento decisamente meglio.

“Posso farti una domanda?” mi chiede Zack, sorseggiando la sua bevanda calda; sollevo il sopracciglio destro e gli rivolgo uno sguardo scettico, perché quando usa quel tono di voce così serio non significa mai nulla di buono.

“Spara”

“Davvero sei tornata a casa per colpa di quel provino andato male?”

“Sì, perché?”

“Sei davvero sicura che dietro non ci sia un altro motivo?” domanda ancora, appoggiandosi alla scala “andiamo, Gracey, sono tuo fratello: conosco tutto di te, so quando c’è qualcosa che non va, mi basta guardarti negli occhi per capirlo. Ed in questo momento c’è proprio qualcosa che non va, perché da quando sei tornata a Tribune sei strana, anche mamma lo ha notato, sai? Ed è molto preoccupata”

“Apprezzo molto il fatto che ti stia così a cuore il ruolo di ‘fratello maggiore iperprotettivo’, ma va tutto bene! Sono solo triste perché a Chicago non ho trovato ciò che speravo di trovare, ma passerà. Il tempo guarisce ogni ferita, giusto?” rispondo, scrollando le spalle e sorridendo; ma Zack insiste ancora una volta: mi rivolge uno sguardo scettico e pronuncia il mio nome con un sospiro esasperato.

“Gracey…”

“Va bene, d’accordo… D’accordo!” mi arrendo, alzando entrambe le mani; decido così di svuotare il sacco, con la speranza di ricavarne qualche beneficio o di trovare una spalla su cui piangere, tuttavia preferisco continuare a tacere qualche ‘piccolo’ particolare per non sconvolgere la vita a mio fratello ed a mia madre, altrimenti non riuscirebbero più a guardarmi come prima “mentre ero a Chicago ho… Ho conosciuto un ragazzo. Ci siamo frequentati per due mesi, circa, e tutto sembrava essere perfetto… Almeno finché lui non mi ha detto che era meglio troncare perché la nostra storia era destinata a finire da un momento all’altro. Non riuscivo a capire il perché di questa sua decisione drastica, visto che fino al giorno prima tutto andava a meraviglia, e poi ho scoperto il vero motivo che si nascondeva dietro a tutto: si era rivisto con la sua ex ragazza ed avevano fatto… Sesso. tutto qua”

“Lo sapevo io!” esclama Zack, scuotendo la testa: mi basta una sola occhiata per intuire che in questo momento vorrebbe essere faccia a faccia con la persona che mi ha spezzato il cuore per picchiarla selvaggiamente “sapevo che aveva a che fare con un ragazzo, me lo sentivo… Devi lasciare perdere questo coglione, Gracey, non vale la pena soffrire per lui. Se è stato così idiota da lasciarsi scappare una ragazza stupenda come te, allora è un problema suo. Non merita le tue lacrime”

“Ma io ci credevo moltissimo in questa storia” mormoro, rigirandomi il bicchiere tra le mani “e lui si era presentato come il… Ragazzo perfetto. Ed io, come una stupida, sono caduta letteralmente ai suoi piedi. Avrei dovuto capirlo fin dall’inizio che mi stavo infilando in una situazione poco chiara, ed invece non ho voluto vedere ed ascoltare i segnali… Ed eccomi qua”

“Lascialo perdere, davvero, non ne vale la pena. Non voglio vederti star male per un cretino simile” Zack appoggia l’indice destro sotto il mio mento, invitandomi a sollevare il viso “e adesso fai un bel sorriso per il tuo fratello preferito”.

In automatico, le mie labbra si distendono in un sorriso.

Mio fratello è davvero l’unica persona al mondo ad avere un ascendente così forte su di me.

È davvero la mia ancora di salvezza: senza di lui sarei già colata a picco.

“Ti prometto che farò di tutto per togliermelo dalla testa il prima possibile, ma tu, in cambio, non devi dire nulla a nostra madre. Sai benissimo come reagirebbe, ed io non voglio farla preoccupare inutilmente”

“D’accordo”

“Zack?”

“Sì?”

“Grazie… Di tutto”

“È a questo che servono i fratelli, giusto?”.

Mi fa l’occhiolino ed esce dalla biblioteca; sorrido di nuovo, l’osservo allontanarsi e salgo nuovamente in cima alla scala a pioli perché devo ancora occuparmi di uno scaffale in cui regna letteralmente la polvere.

Trascorrono appena pochi secondi prima che alle mie orecchie giunga di nuovo il suono inconfondibile della piccola campanella posta in cima allo stipite della porta: ogni volta che viene aperta, il trillo del monile mi avvisa dell’arrivo di un cliente.

“Arrivo subito!” grido, per farmi sentire “mi scusi, ma devo finire di occuparmi di questo scaffale”

“Non ti preoccupare, dolcezza, ho tutto il tempo del mondo”.

Mi blocco nello stesso istante in cui ricevo una risposta da una voce maschile, e rischio di perdere l’equilibrio e di fare una rovinosa caduta a terra; sbatto più volte le palpebre, confusa, senza staccare lo sguardo dalla superficie ormai pulita e dal panno che stringo nella mano destra: il tono, le parole strascicate, ma soprattutto l’epiteto ‘dolcezza’, appartengono solo ad una persona di mia conoscenza, che non vedo da sette mesi.

Inizio a ripetermi che non può essere possibile, lui non può essere qui perché non sa dove abito, l’unica spiegazione plausibile è che sono appena rimasta vittima di una allucinazione uditiva a causa dei ricordi che sono riemersi durante la conversazione che ho avuto con Zack, e così cerco di vedere l’intera situazione con occhio critico e razionale: in fin dei conti sono ancora scossa da tutto quello che è successo, come ho confessato a mio fratello, ed è sufficiente un piccolissimo particolare per risvegliare ancora… Tutto; e poi esistono tantissimi ragazzi sulla faccia della Terra che per provarci in modo spudorato utilizzano l’epiteto ‘dolcezza’.

Ma quando distolgo lo sguardo dallo scaffale, abbassandolo in direzione del cliente che è appena entrato, sono costretta a ricredermi totalmente: anche se ha i capelli più corti e lisciati all’indietro con del gel, anche se ha il viso completamente sbarbato, il ragazzo appoggiato al bancone, che mi sta rivolgendo un cenno di saluto con la mano sinistra, è indubbiamente lui.

Scendo dalla scala, lo raggiungo e lo guardo negli occhi senza pronunciare una sola parola; allungo il braccio destro e quando sento la consistenza della camicia jeans che indossa sotto i polpastrelli delle mie dita, mi rendo finalmente conto che non si tratta di un’allucinazione e ritiro la mano di scatto.

“Tu?” domando, con un filo di voce, incredula.

“In carne ed ossa, dolcezza, ti sono mancato? A giudicare dalla tua accoglienza calorosa direi di si” risponde Whip, con un sorriso compiaciuto; non so da dove abbia origine la sua allegria, ma io sono appena ripiombata nel malumore più assoluto.

“Come hai fatto a trovarmi?”

“Diciamo che ho… Seguito il mio cuore. Ed il mio cuore mi ha sussurrato ad un orecchio di venire a Tribune”

“Come hai fatto a trovarmi?” ripeto, per la seconda volta, scandendo le parole; Whip solleva gli occhi al soffitto e sbuffa, passandosi la mano destra tra i capelli: è sufficiente questo gesto involontario per provocarmi una fitta al cuore, perché è lo stesso che fa sempre suo padre quando è nervoso o esasperato.

Ma perché deve assomigliargli così tanto?

“D’accordo, d’accordo, volevo solo essere romantico perché so che voi ragazze avete un debole per queste frasi sdolcinate da film d’amore… Ho chiesto al vecchio se poteva darmi il tuo indirizzo, ma visto che la nostra conoscenza è ancora ad un livello superficiale ho preferito non bussare alla porta d’ingresso di casa tua. Così ti ho osservata per un po’ di tempo, e quando ho capito che lavoravi qui… Ho aspettato il momento migliore e poi sono entrato”

“Sei inquietante” mormoro, scuotendo la testa, sconvolta dalla sua confessione, soprattutto perché non ho  mai sospettato di essere seguita ed osservata da qualcuno.
“Sai, questa è la prima volta che una ragazza mi definisce ‘inquietante’. Di solito le altre preferiscono descrivermi con aggettivi diversi che iniziano con la lettera ‘i’… Incredibile, indimenticabile, instancabile… Vuoi sapere perché mi hanno detto che sono instancabile?”

“No, grazie” rispondo, seccata, voltandogli le spalle “adesso puoi andartene. Sono molto occupata”

“Perdonami, dolcezza, ma siamo completamente soli qui dentro. Sei davvero sicura di non avere il tempo per scambiare qualche parola con me?”

“Si può sapere per quale motivo sei venuto a Tribune?”

“Ohh, dobbiamo rifare lo stesso balletto del nostro primo incontro? Te l’ho spiegato poco fa, Gracey, sono venuto qui per chiacchierare un po’ con te… Sei letteralmente scappata da Chicago senza dire una sola parola, pensavamo che ti fosse accaduto qualcosa. A Benjamin è dispiaciuto molto non salutarti… Non so perché, ma mi ha raccomandato di non chiederti mai di preparare dei biscotti al cioccolato”

“Non è assolutamente vero che me ne sono andata senza avvisare: la mia famiglia e la mia migliore amica sapevano della mia partenza”

“Ahh, la tua migliore amica? La bionda intelligente? Come sta?”

“Sta bene” dico, in un soffio “ed ha avuto molta più fortuna di me: ha fatto un provino ed è riuscita ad ottenere una piccola parte in un film”

“L’avevo capito fin dal primo momento che quella è una ragazza che nasconde un enorme potenziale” commenta lui, ed il suo sorriso mi fa capire che non si sta affatto riferendo al talento di Ashley nella recitazione; è il mio turno di alzare gli occhi al soffitto e prego affinché questa tortura finisca il prima possibile.

“Lascia perdere. Sta con un ragazzo da un paio di mesi, e poi non sei il suo tipo. A lei non piacciono le persone inquietanti, per quanto possano essere incredibili, indimenticabili ed instancabili”

“Noto una leggera vena di sarcasmo nella tua voce, dolcezza, e questo mi fa capire che abbiamo iniziato la nostra rimpatriata nel modo sbagliato, quindi cercherò di ricominciare dall’inizio e di porvi rimedio prima di rovinare tutto: allora… Come stai?”

“Secondo te?”

“Sei ancora arrabbiata con mio padre?”.

Perfetto, penso, come se la situazione non fosse già abbastanza difficile da gestire, ecco un’altra pugnalata a tradimento.

“No, ma se lo vedi digli che per quel che mi riguarda può marcire all’inferno”

“D’accordo, sei ancora arrabbiata con lui… Lo sai che quando te ne sei andata ha provato a chiamarti più volte per avere una conversazione più pacifica?”

“No, non lo sapevo perché ho cambiato numero. E comunque, immagino che lui abbia rinunciato in fretta a cercare un modo per contattarmi perché sarà stato molto impegnato con Nicole”

“Sì, in effetti quei due hanno molto da chiarire”

“Immagino benissimo in quale modo” commento, rivolgendogli un’occhiata risentita.

“Dolcezza, la vita sessuale di mio padre non rientra nelle mie priorità, ma se per te è così importante la prossima volta ti posso portare un grafico. E poi, sono sicuro che al momento lui e Nicole abbiano ben altre preoccupazioni perché devono trovare un accordo sull’affidamento congiunto di Ben”

“Non sono affari che mi riguardano” mi sposto dietro al bancone e mi occupo di alcuni libri da catalogare al computer; non è un lavoro della massima urgenza, ma ho bisogno di qualcosa che mi aiuti a scaricare il nervosismo, altrimenti rischio di mettere le mani addosso a Whip e di beccarmi una denuncia per aggressione fisica “alla fine l’hai stappata la famosa bottiglia di spumante?”

“No, non sono un amante dello spumante, e poi trovo che sia terribilmente deprimente bere da soli. Preferisco stappare una bottiglia di birra in compagnia… Ti andrebbe di farlo con me?”.

Il volume che ho in mano cade sul pavimento con un tonfo sordo; giro il viso di scatto in direzione del mio ‘stalker’ e lo fisso con gli occhi sgranati, incapace di sbattere le palpebre e di pronunciare una sola parola.

Non posso credere a ciò che ho appena sentito.

“Mi stai chiedendo di uscire insieme?”

“Sì, non è evidente?”.

Oh, mio dio.

“Stai scherzando, vero?”

“E secondo te io avrei fatto chilometri e chilometri per venire a Tribune solo per farti uno scherzo di pessimo gusto? Credi davvero che la mia vita sia così patetica e banale? Ti sto chiedendo di uscire, Gracey, vorrei trascorrere qualche ora in tua compagnia e bere qualcosa insieme, e dopo tutta la strada che ho fatto non sono intenzionato ad accettare un ‘no’ come risposta”

“Perché dovrei uscire con te?”

“La vera domanda è: perché non dovresti uscire con me?”

“Non ti conosco neppure”

“Allora questa potrebbe essere un’ottima occasione per conoscerci a vicenda, non trovi? E poi, non dimenticare che sette mesi fa mi sono occupato di vegliare su di te e su Ben. Quando siamo stati attaccati da quel sicario, sono stato io a portarti in ospedale, e sono stato sempre io a rimanere a tuo fianco, per settimane, fino a quando non è tornato mio padre. E l’ho fatto nonostante il pugno che mi hai dato all’occhio sinistro. Sei in debito con me, Gracey, di conseguenza accettare il mio invito sarebbe un modo carino per pareggiare i conti”.

Cazzo.

Anche se non sono intenzionata a dirlo ad alta voce, Whip ha ragione: nei suoi confronti ho un debito che non ho mai saldato; e poi, ho l’impressione che un semplice rifiuto non lo farebbe affatto desistere dall’obiettivo che si è prefissato.

In sintesi: non ho affatto voglia di uscire con lui, ma sono costretta a farlo.

“In centro città c’è un piccolo pub. Non è difficile da trovare, lo vedi subito perché ha un’enorme insegna rossa con le luci ad intermittenza… Possiamo trovarci lì per le nove, ma a due condizioni: non accetto un solo minuto di ritardo e si tratta solo di bere una birra insieme, togliti qualunque altra idea dalla testa, d’accordo?”

“D’accordo. Alle nove mi troverai fuori dal pub ad aspettarti” mormora lui, facendomi l’occhiolino prima di uscire dalla biblioteca.

Non ho la più pallida idea di dove trascorra l’intera giornata, e neppure voglio saperlo, ma incredibilmente quando scoccano le nove in punto di sera, Whip mi sta aspettando fuori dall’ingresso principale del pub di cui gli ho parlato: speravo in un suo ritardo, in modo da potergli dare buca, invece è stato fin troppo puntuale e di parola.

“Hai mantenuto la promessa” commento, infilando le mani nelle tasche della giacca.

“Questo perché io mantengo sempre le mie promesse”

“Buffo… Anche tuo padre mi ha detto spesso queste stesse parole, e poi non lo ha quasi mai fatto”

“Ma io non sono mio padre, dolcezza” risponde lui, sorridendo; per la prima volta mi accorgo delle fossette che gli appaiono sulle guance ogni volta che distende le labbra, e mi domando come abbia fatto a non notarle in precedenza.

Non so spiegarmi il perché, ma questo pensiero mi agita e così sposto il peso del corpo da un piede all’altro.

“Possiamo entrare? Fa freddo e non vorrei mai che qualcuno mi riconoscesse”

“Perché? Ti vergogni di me?”

“Ho detto a mia madre ed a mio fratello che sono uscita con alcune colleghe. Non potevo raccontare che avevo un appuntamento con un ragazzo di cui non conosco neppure il nome”

“Ohh, ma questo significa che sono il tuo piccolo e sporco segreto. Intrigante”

“Possiamo entrare?” insisto per la seconda volta, a denti stretti, e finalmente Whip apre la porta facendomi cenno di entrare per prima; senza neppure guardarmi attorno, mi fiondo subito in direzione del primo tavolo libero che vedo, mi siedo e sfrego i palmi delle mani l’uno contro l’altro per scaldarmi.

Odio con tutta me stessa l’inverno, se fosse per me dovrebbe essere estate trecentosessantacinque giorni l’anno.

Whip occupa l’altra sedia, schiocca le dita della mano sinistra in direzione di un cameriere e ordina due bottiglie di birra, senza neppure chiedermi se ho qualche preferenza; in realtà, neppure mi piace la birra, ma lui non sembra interessato a voler conoscere questi piccoli particolari.

E quando arriva la nostra ordinazione, infatti, la mia bottiglia resta letteralmente intatta, mentre il contenuto di quella del mio ‘stalker’ sparisce in fretta nel suo stomaco; non contento se ne ordina un’altra e, mentre l’aspetta, si accende una sigaretta.

Stringo le labbra ed esprimo il mio disappunto in tono duro, senza mezzi termini: ho sempre odiato le persone che fumano e bevono senza alcun ritegno, adesso ancora di più perché sono due azioni che collego a Theodore.

“Credevo che a voi ragazze piacessero i ragazzi con l’aspetto da ‘bello e dannato’. Tutte le donne che ho avuto mi hanno sempre confermato che trovate terribilmente irresistibile l’immagine del maschio alpha che si porta alle labbra una sigaretta ed aspira una boccata di fumo”

“Mio padre era un alcolizzato. Non ricordo molto di lui perché ero solo una bambina quando i miei genitori si sono separati, ma mia madre mi ha raccontato che un giorno è arrivato a spaccare un bicchiere in testa a mio fratello, e Zack lo ricorda ancora benissimo. Di conseguenza non ho un’alta stima delle persone che abusano di bevande alcoliche”

“Vuoi fare una partita a biliardo?”

“Hai sentito una sola delle parole che ho appena pronunciato?”

“Si, infatti ti ho chiesto se vuoi fare una partita a biliardo visto che c’è un tavolo ancora libero”

“Non so giocare”

“Ti insegno io”.

Controvoglia, sono costretta ad abbandonare il tavolo ed a seguire Whip, ritrovandomi tra le mani una stecca di legno che non so neppure come impugnare; sposto lo sguardo dall’oggetto al mio accompagnatore e sollevo il sopracciglio sinistro.

“Che cosa dovrei fare con questa in mano?”

“Spaccare le palle… Non le mie, sia chiaro, perché mi è già bastato il calcio di sette mesi fa… Vedi questa bianca?” mi dice, indicandomela, ed io annuisco “devi colpirla con la punta della stecca, con più forza possibile, in modo da colpire le altre palle, disposte a triangolo, e sparpagliarle sul tavolo. Questo serve per iniziare la partita, il resto te lo spiegherò passo dopo passo. Guarda, ti faccio vedere come devi impugnare la stecca in modo corretto”.

Si sistema alle mie spalle, senza smettere di parlare per un solo secondo, mostrandomi effettivamente come devo usare l’oggetto e come devo posizionare le braccia per effettuare un tiro mirato e preciso; ma lo ascolto in modo distratto, senza prestare attenzione alle sue istruzioni, perché continuo a pensare al suo petto premuto contro la mia schiena, alle sue mani grandi e calde che coprono le mie, ed alla sua guancia sinistra appoggiata alla mia destra.

È troppo vicino.

Troppo, troppo vicino ed io sento le gambe trasformarsi improvvisamente in gelatina tremolante; e ciò contribuisce solo a confondermi sempre di più: se lo odio, perché è chiaro che lo odio, perché allora mi provoca questo effetto?

Quasi non mi accorgo di muovere la stecca in direzione della palla bianca che colpisce le altre colorate, sparpagliandole per il tavolo ricoperto da un tappetino verde; Whip si allontana da me, ed il mio respiro torna ad essere regolare, lasciandomi però i palmi delle mani appiccicosi a causa del sudore.

“Allora? Sono stata brava?”

“Sì, non male per una principiante, ma solo perché hai un ottimo insegnante”

“Dove stai andando?”

“Ohh, tranquilla, dolcezza, non ti voglio abbandonare. Mi assento solo per qualche minuto perché ho bisogno di svuotare il serbatoio, purtroppo la birra mi fa sempre questo effetto”.

Dopo avermi dato quell’elegante e raffinata spiegazione fin troppo dettagliata, Whip si allontana in direzione del bagno ed io mi aggrappo con entrambe le mani ai bordi del tavolo, piegandomi leggermente in avanti, e prendo una serie di lunghi respiri per calmarmi; il breve contatto fisico tra i nostri corpi sarà durato non più di una ventina di secondi, eppure è stato sufficiente per farmi perdere lucidità e per non farmi capire più nulla.

E la cosa peggiore è che non riesco a dare una motivazione a ciò che si agita dentro di me; so solo che non mi piace e che non voglio portare avanti l’appuntamento per un solo minuto in più: quando lui ritornerà dal bagno, difatti, gli dirò che per me è tardi e che è arrivato il momento di tornare a casa prima che Zack e mamma inizino a preoccuparsi.

Lo ringrazierò e gli dirò di non tornare mai più a Tribune e di uscire per sempre dalla mia vita.

Sarà un discorso chiaro, semplice, lineare ma diretto e chiuderò questa faccenda una volta per tutte.

Dopo la brutta esperienza che ho avuto non ho alcuna intenzione di uscire con un ragazzo, soprattutto se il ragazzo in questione è un tipo inquietante, arrogante e sbruffone, oltre ad essere il figlio maggiore della persona che mi ha prima usata e poi abbandonata come una bambola di pezza.

Strofino i palmi delle mani sulla stoffa dei jeans, continuando a ripetermi mentalmente il discorso da fare a Whip, ma vengo bruscamente interrotta da qualcuno che mi appoggia una mano sulla spalla destra; sollevo gli occhi dal tappetino verde del tavolo e mi ritrovo a fissare un giovane uomo sconosciuto, che mi rivolge un sorriso fin troppo ammiccante.

“È da un po’ che ti osservo” dice, ed il modo in cui strascica le parole mi fa subito capire che ha già alzato parecchio il gomito “che ne dici di unirti alla mia compagnia per bere qualcosa insieme?”.

Lancio una breve occhiata in direzione del gruppo che mi indica con un cenno del capo: anche loro hanno sicuramente bevuto e non c’è una sola ragazza.

Un campanello d’allarme inizia a trillare con forza nella mia testa, perché questa è esattamente una di quelle situazioni in cui una diciassettenne come me non vorrebbe mai trovarsi.

“No, grazie” rispondo, in tono fermo, spostando lo sguardo altrove.

“Andiamo, ti piacerà”

“Ho detto di no” ripeto per la seconda volta, continuando a lanciare occhiate in direzione della porta del bagno.

Dove diavolo è finito il mio ‘stalker’? Possibile che sparisca proprio nell’unico momento in cui ho bisogno della sua presenza?

“Avanti, ti ho solo chiesto di unirti a noi per una birra e per fare quattro chiacchiere”

“Ed io ti ripeto per la terza volta che non ho alcuna intenzione di muovermi di qui” ribatto a denti stretti, alzando apposta il tono di voce, sottraendomi alla sua presa, e per rimarcare il concetto gli do una spinta; lo sconosciuto retrocede di qualche passo, barcollando, ed alcune gocce di birra escono dal boccale che regge nella mano destra, macchiandogli la maglietta che indossa, e facendomi guadagnare un’occhiata furiosa.

“Vaffanculo, stronza” mi sibila contro, risentito per il rifiuto, e non si limita ad apostrofarmi con epiteti poco gentili: mi rovescia addosso il resto del contenuto del boccale, io non ho il tempo di spostarmi, e così mi ritrovo i capelli, il viso e la giacca fradici di birra rossa; ma proprio nell’istante in cui sto per aggredire lo stronzo, ripagandolo con un calcio al basso inguine, una figura appare a mio fianco e mi precede, scagliandosi contro il mio aggressore.

Impiego qualche minuto per rendermi conto che si tratta di Whip, ed altrettanti per notare che ha bloccato lo sconosciuto contro il tavolo da biliardo, tenendolo saldamente per il collo.

“Whip… Whip!” esclamo, precipitandomi da lui, stringendogli con entrambe le mani il braccio destro in modo da fargli allentare la presa “lascialo andare, lascialo andare immediatamente! Così lo ammazzi!”

“Questo figlio di puttana ti ha appena versato addosso della birra. Nessuno può azzardarsi a compiere un gesto simile a ciò che mi appartiene. Odio quando toccano le mie cose”

“Lascialo!” urlo di nuovo “lascialo andare! Ora!”.

Lentamente allenta la presa dalla gola dell’uomo, prima di allontanare la mano di scatto; lo prendo sottobraccio e gli mormoro che è arrivato il momento di pagare il conto e di andarcene, perché ormai abbiamo attirato l’attenzione di tutto il locale, ma nello stesso momento in cui poso una mano sulla maniglia della porta lo sconosciuto grida, con voce strafottente, una provocazione rivolta al mio accompagnatore.

“Bravo, segui il consiglio di quella stronza, femminuccia! È ovvio che ti mancano le palle, altrimenti avresti il coraggio di affrontarmi come un vero uomo!”.



 
“Fermo, non ti muovere” mormoro; strappo un piccolo batuffolo di cotone, lo imbevo di disinfettante e lo avvicino al profondo taglio che Whip si è procurato sulla fronte: tampono più volte la ferita con delicatezza ed il bianco del cotone s’impregna ben presto del rosso carminio del sangue, costringendomi a prenderne dell’altro.

“Ahh, cavolo, potresti essere più delicata? Fa terribilmente male!”

“In realtà dovrei metterci più forza, perché te lo meriti” borbotto, risentita, continuando ad occuparmi del piccolo flusso di sangue che non vuole saperne di arrestarsi “ti avevo detto di lasciar perdere, non avresti dovuto dar retta alle parole di quell’idiota”

“Ma hai sentito quello che mi ha detto? Mi ha chiamato ‘femminuccia’! Nessuno può chiamarmi ‘femminuccia’ e sperare di passarla liscia”

“Quell’uomo era completamente ubriaco, di sicuro domani mattina non ricorderà più nulla di quello che è successo… Ohh, quasi dimenticavo! Se lo ricorderà eccome perché gli hai spaccato la mandibola ed un paio di costole prima che riuscissi a trascinarti fuori da quel maledetto pub. Lo sapevo che non avrei mai dovuto accettare di uscire insieme a te…” insisto, scuotendo la testa “se la polizia…”

“Sei preoccupata per me, dolcezza?”

“No!” esclamo, esasperata, lanciando il cotone che ho in mano contro i sedili posteriore della macchina di Whip “non sono preoccupata per te, maledetto idiota! Sono incazzata! Furiosa! Semplicemente arrabbiata! Cazzo, possibile che tu non riesca a capirlo? Gli ultimi sette mesi sono stati infernali per me, ho provato in qualunque modo a dimenticare tuo padre, ma non ci sono riuscita e ancora non ci riesco. E poi ci sei tu, che compari all’improvviso, mi obblighi ad uscire per uno stupido appuntamento e mi coinvolgi in una stupida rissa!”

“Gracey…”

“Ohh, maledizione” lancio un’occhiata prima all’orologio che porto al polso sinistro e poi alla piazzetta isolata in cui ci troviamo, e mi stringo nelle spalle “accompagnami a casa. È terribilmente tardi e non voglio far preoccupare mia madre e mio fratello”

“Gracey…”

“Che cosa c’è?” chiedo, esasperata, dopo aver sentito per la seconda volta il mio nome; giro di scatto il viso verso di lui e sussulto, perché mi ritrovo il suo a pochi centimetri di distanza dal mio.

E prima che possa dirgli qualunque cosa, mi ritrovo la sua mano destra premuta sulla mia nuca e le sue labbra appoggiate sulle mie; quando si allontana chiedo subito spiegazioni riguardo a ciò che ha appena fatto.

“Un piccolo ringraziamento per esserti presa cura di me, anche se mi consideri un maledetto idiota che ti ha fatta incazzare, infuriare, semplicemente arrabbiare, che ti ha trascinata ad uno stupido appuntamento e che ti ha coinvolta in una stupida rissa”

“Era… Era un bacio?”.

Domanda retorica ed inutile, ovviamente.

“No” risponde, però, lui sorprendendomi “te l’ho detto: quello era solo un piccolo ringraziamento. Questo è un bacio”.

Prima che possa fermarlo, mi ritrovo nuovamente le sue labbra premute con forza sulle mie, in un contatto fisico molto meno dolce e delicato del precedente; sussulto sentendo la sua lingua sfiorare la mia, eppure non mi sottraggo al bacio: esattamente come è accaduto dentro al pub mentre m’insegnava a giocare a biliardo, un brivido caldo mi percorre la schiena, le gambe si trasformano nuovamente in gelatina e gli getto le braccia attorno alle spalle, premendo con più forza il mio viso contro il suo.

Ritorno in me solo quando sento le sue mani armeggiare con la zip dei miei pantaloni; lo allontano di scatto e lo colpisco con uno schiaffo.

“Ma che diavolo pensavi di fare? Per chi mi hai preso?” domando, riprendendo fiato.

“Perdonami, dolcezza, mi sono lasciato trasportare troppo dall’atmosfera che si era creata. Credevo che lo volessi anche tu… Sai… Per rimediare alla disastrosa serata…”

“Io non sono quel genere di ragazza che fa sesso al primo appuntamento… E poi sono ancora vergine” mormoro, confessando in modo indiretto che tra me e Theodore non c’è mai stato nulla al di là di qualche bacio e abbraccio; sul volto di Whip appare un’espressione sorpresa, sostituita quasi subito da una sollevata.

“Quindi, questo significa che tu e mio padre…”

“No”

“Ohh, grazie al cielo! Devo essere sincero con te, dolcezza, temevo che voi due aveste consumato”

“Temi il confronto?” decido di stuzzicarlo per vedere la sua reazione, ma lui incassa alla perfezione e si limita ad emettere uno sbuffo sonoro.

“Con chi? Con mio padre? No, non c’è alcun confronto. È ovvio che io lo batto, questo è assolutamente fuori discussione, magari a suo tempo avrà avuto i suoi assi nella manica, ma adesso è da rottamare… Comunque anche io sono vergine”

“Davvero?” chiedo, rivolgendogli uno sguardo scettico.

“Assolutamente no, ma mi sembrava una cosa carina da dire, dolcezza”.

Non so se la sua sia una battuta studiata con arguzia o se gli è venuta in mente spontaneamente dopo aver ascoltato le mie parole, in ogni caso scatenano in me una reazione del tutto inaspettata: mi copro la bocca con la mano destra, reprimo a stento un singhiozzo, e scoppio in una risata così divertita e contagiante che ci ritroviamo entrambi a ridere con le lacrime agli occhi, incapaci di fermarci e di riprendere fiato.

Nessun ragazzo, prima d’ora, era mai riuscito a farmi ridere così tanto, neppure mio fratello Zack.

Quando mi asciugo le lacrime e lo guardo negli occhi, mi sembra di vederlo veramente per la prima volta, come se qualcuno avesse appena tolto un panno che mi oscurava la vista; in un attimo, tutta la tristezza, la delusione ed il rancore che mi porto appresso da sette mesi spariscono, come se non fossero mai esistiti, insieme ai momenti trascorsi in compagnia di Theodore.

“Cavolo…”

“Che cosa c’è, Gracey?”

“Non capisco”

“Che cosa non capisci?”

“Non capisco perché solo ora mi rendo conto di quanto tu sia terribilmente bello ed affascinante”.

Nonostante gli abbia appena offerto su un vassoio d’argento un’occasione da non sprecare, Whip non inferisce su di me e non mi rivolge alcuna battutina piccante; potrebbe ordinarmi di uscire dalla macchina ed abbandonarmi nella piazzetta isolata in cui ci troviamo, visto l’atteggiamento ostile che finora ho avuto nei suoi confronti, eppure non lo fa.

Anzi.

Compie un’azione completamente diversa: distende le labbra, con l’angolo sinistro della bocca leggermente incurvato all’insù, nel sorriso sornione più compiaciuto e mozzafiato che io abbia mai visto in tutta la mia vita.

Ed è proprio quel sorriso sornione a fottermi completamente.
 

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Capitolo 36
*** Epilogo: ***


Dicono che il tempo sia in grado di guarire qualunque ferita, anche quelle più profonde e sanguinose; non so quanto sia vero questo detto, o in quanti casi possa essere applicato alla lettera, tuttavia ci sono momenti in cui i giorni, le settimane, e perfino i mesi, si susseguono con una velocità così impressionante da lasciarti confuso e quasi senza fiato.

Sono trascorsi già sei anni da quando la questione ‘Poseidone’ si è conclusa, incredibilmente, con un lieto fine; e sono accadute così tante cose, che al solo pensiero di ripercorrerle mentalmente sento l’istinto di prendere un bicchiere d’acqua ed un’aspirina per il mal di testa.

Michael e Sara, dopo sette anni di lontananza forzata, si sono finalmente ricongiunti per formare la perfetta famigliola che racchiude in sé il sogno americano.

Il gorilla ottuso che risponde al nome di ‘Lincoln Burrows’ ha chiuso definitivamente i conti con la vita scapestrata che lo ha portato ad essere incarcerato a Fox River, e dopo essere riuscito ad incastrare e far arrestare il giovane Luca Abruzzi (con mio sommo compiacimento) sembra averne iniziata una nuova senza segreti, debiti, ed ombre ingombranti.

Riguardo a Jacob Ness, so che i secondini di Fox River hanno dovuto usare parecchio olio di gomito e diversi panni per ripulire il sangue e la materia cerebrale che ricoprivano il pavimento e le pareti della cella dopo il mio passaggio.

In quanto a me, la faccenda è leggermente diversa e complicata.

Dopo la violenta rottura con Gracey ho atteso, con pazienza, il ritorno di Nicole e Benjamin; e quando ciò è accaduto, io e la mia ex compagna abbiamo trascorso un’intera giornata, da soli, a discutere sul nostro rapporto, su nostro figlio ed in particolar modo su come gestire l’affidamento congiunto: siamo stati costretti a trovare il miglior accordo possibile parlando civilmente, cercando di non discutere, litigare ed urlarci addosso perché assumere degli avvocati ed andare in tribunale era assolutamente fuori discussione.

Quale giudice sano di mente lascerebbe un bambino alle cure di un padre che è stato ribattezzato dalla stampa ‘Il Mostro dell’Alabama’ per i crimini disgustosi che ha commesso, e di una madre che ha ucciso i suoi stessi genitori, altri quattro uomini, e che per questo è costretta ed usare un’identità fittizia?

La risposta è molto semplice: nessuno.

Tuttavia, non si è rivelata un’impresa così impossibile da realizzare; soprattutto perché dopo essere tornata a Chicago, Nicole mi ha rivelato un piccolo segreto che si portava appresso da qualche mese e di cui io ne ero il responsabile, visto che durante i due rapporti sessuali che abbiamo avuto nel motel non abbiamo usato alcun genere di precauzioni.

La sua gravidanza inaspettata ha aiutato entrambi a riallacciare i rapporti, anche se non siamo tornati ad essere una coppia, e la mia ex compagna è riuscita a sorprendermi facendo un ulteriore passo avanti, in segno di riconciliazione, nel giorno della nascita del nostro secondo, piccolo, fagottino: dal momento che non ho potuto essere presente al parto di Benjamin, ha voluto che questa volta spettasse a me il compito di scegliere il nome.

Ed io, senza la minima esitazione, non appena l’ho preso in braccio, ho dato al piccolo fagottino quello che, ai miei occhi ed alle mie orecchie, è il nome più bello e più dolce che esista al mondo.

“Audrey!” esclamo, sentendo un piagnucolio provenire dal salotto “che cosa succede? Perché stai piangendo?”

“Perché mi sono bloccata, papà!” esclama a sua volta lei, prima di emettere un altro singhiozzo disperato; chiudo il rubinetto, appoggio sopra un ripiano il cacciavite che ho in mano, e raggiungo la piccola donna che è la padrona del mio cuore.

Anche Michael e Sara hanno avuto una bambina, e dal momento che l’originalità è una prerogativa della famiglia Scofield l’hanno chiamata Sara jr.

Qualche volta l’ho vista, sempre in compagnia della madre, perché le nostre figlie frequentano la stessa scuola a Chicago: ha ereditato i capelli rossi da Sara, mentre i tratti del viso e gli occhi azzurri sono i medesimi di Michael; è bella, sembra una bambolina di porcellana, e quando sarà più grande farà letteralmente strage di cuori, ma non può compere con la mia piccola donna.

Perché Audrey è la bambina più bella che esista sulla faccia della Terra, e non lo dico solo perché sono suo padre.

A differenza di Benjamin che assomiglia molto a Nicole, lei, proprio come David, ha ereditato tutto dal ramo dei Bagwell: i capelli castani, gli occhi scuri, i lineamenti, le espressioni e le labbra sottili appartengono a me; fortunatamente non posso dire lo stesso del suo carattere, perché Audrey è una bambina dolcissima e sorridente, per nulla irrequieta, timida o scontrosa.

Ed anche se non ho mai visto una sola foto di mia madre alla sua età, dentro di me so per certo che ne è la copia vivente.

“Che cosa succede?” domando, prendendo posto a suo fianco, passandole il braccio sinistro attorno alle spalle esili; lancio un’occhiata al quaderno appoggiato sopra al tavolo, in modo particolare alle numerose cancellature che deturpano la pagina, e poi concentro lo sguardo su mia figlia, che si copre il volto con le mani: le sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro, così lunghi da sfiorarle i fianchi, e le parlo nuovamente “Audrey, tesoro, papà non può aiutarti se non rispondi alla sua domanda”

“Non ci riesco” si lamenta, indicando con l’indice destro uno scarabocchio scritto a matita sulla pagina; lo guardo con più attenzione e mi rendo conto che si tratta di una addizione “la maestra ci ha dato queste addizioni da risolvere, ma sono troppo difficili perché i numeri hanno le decine, ed io non riesco a capire come risolverla!”

“No, tesoro, non è così difficile. Anzi, è molto semplice, basta che ti aiuti con le dita. Guarda” prendo le sue piccole mani paffute, le dico di chiuderle a pugno e poi l’aiuto a contare ad alta voce, per trovare la soluzione all’operazione “ventuno… Allora, Audrey, che cosa fa undici più dieci?”

“Ventuno?”

“Sì, esatto! Bravissima! Te lo avevo detto che non erano affatto difficili!”

“Grazie, papà!” grida, buttandomi le braccia attorno al collo, stampandomi un bacio sulla guancia sinistra “sei il mio eroe”.

Sei il mio eroe.

Come far sciogliere il cuore al peggior avanzo di galera.

Adesso che ha quasi sei anni dice così, ma quando ne avrà sedici ed io la chiuderò a chiave in camera sua per impedirle di uscire con un ragazzo, allora diventerò il ‘vecchio bastardo che deve marcire all’inferno’.

Ma fortunatamente quei tempi sono ancora lontani, ed io preferisco non pensarci prima del dovuto.



 
Audrey è una bambina semplicemente deliziosa che non fa mai i capricci; l’unico e vero problema arriva sempre quando Nicole viene a prenderla per la settimana che deve trascorrere con lei: abbiamo deciso così per l’affidamento dei nostri figli.

Una settimana Ben e Dee stanno in compagnia di Nicole, quella successiva la trascorrono insieme a me.

Dee adora sua madre, ma il loro rapporto non ha nulla a che vedere con quello simbiotico che c’è tra noi due: è come se fossimo un’unica cosa.

E così, ogni volta che il campanello squilla ed io le abbottono il cappottino rosa con il collo in pelliccia bianca, la mia piccola donna inizia a piangere, disperarsi, ed affonda il viso sulla mia spalla destra, mentre io la prendo in braccio e cerco di consolarla, dicendole che una settimana passa in fretta e che può telefonarmi in qualunque momento; ed ogni volta che apro la porta, sulle labbra di Nicole appare sempre un sorriso compiaciuto.

Proprio come in questo momento.

“Come stai, amore?” mormora a nostra figlia, dopo avermi salutato, accarezzandole i capelli; piano piano, come solo una madre riesce a fare, convince Audrey a staccare le braccia dal mio collo e ad allacciarle al suo.

“Bene. Mamma, sai che papà mi ha aiutata con i compiti? Mi ha insegnato le addizioni con le dita. Guarda: devi chiudere le mani a pugno e poi inizi a contare, non è difficile”

“Ohh, davvero, tesoro? Allora appena arriviamo a casa me lo farai vedere. Perché non vai a dondolarti sull’altalena? Mamma e papà devono parlare” mormora Nicole, con un sorriso, posando nostra figlia a terra ed indicandole l’angolo del giardino che funge da piccolo parco giochi a sua completa disposizione: oltre all’altalena, infatti, c’è anche uno scivolo di plastica rosa e della sabbia su cui spiccano un secchiello, una paletta e delle biglie colorate; Audrey sposta lo sguardo su di me e si allontana da noi solo dopo un mio cenno affermativo “incredibile. Non muove un solo passo senza il tuo consenso. Lo sai che ti adora, vero? Mi parla sempre di te”

“Ed io adoro lei” mormoro, sorridendo a mia volta, guardando Dee che si dondola sull’altalena con qualche difficoltà, perché i suoi piedini non sfiorano neppure l’erba; ritorno serio nello stesso momento in cui mi concentro di nuovo sulla mia ex compagna, e noto la busta gialla che è apparsa tra le sue mani “queste buste stanno iniziando seriamente a darmi la nausea… Di che cosa si tratta? Michael ha voluto mandarmi una cartolina natalizia con largo anticipo perché sente la mia mancanza?”

“Non è da parte di Mike. Te la manda Alex. È un nuovo caso”.

Anche se molte cose sono cambiate dopo l’archiviazione della questione ‘Poseidone’, una è rimasta purtroppo immutata: con mio sommo rammarico Michael Scofield non è uscito per sempre dalla mia vita, tutt’altro; si è trasformato in una presenza costante, sempre annidata nell’ombra, a cui sono legato a doppia catena.

E lui si è assicurato di forgiare i primi anelli di ferro con il suo inaspettato slancio di generosità nei miei confronti, regalandomi una costosissima protesi cibernetica, una villetta a due piani ed una macchina sportiva: tre doni bellissimi, abbaglianti e invidiabili da chiunque.

Peccato che la protesi, essendo ancora un prototipo, ha bisogno di controlli mensili.

E per quanto riguarda la villetta e la macchina nuova, le bollette di acqua, gas, luce e la benzina non si pagano magicamente da sole.

E dopo i miei trascorsi, chi mai offrirebbe un lavoro ad un uomo come me? A me?

Anche in questo caso la risposta è molto semplice: nessuno.

Ancora una volta, però, Michael Scofield è apparso al momento giunto offrendomi una catena mascherata da ancora di salvezza, ed io sono stato costretto ad accettarla perché non avevo altra possibilità: in via segreta, del tutto non ufficiale, ricopro il ruolo di ‘consulente’ per l’FBI per i casi più cruenti ed intricati, nella maggior parte si tratta di crimini molto simili, se non quasi identici, a quelli che io stesso ho commesso.

Perché, dopotutto, chi meglio di un mostro può riuscire ad entrare nella mente di un altro mostro ed anticiparne le mosse?

Magari alcuni diranno che questo è il modo migliore per espiare i miei peccati, ma io so che la realtà è un’altra: non si tratta della possibilità di redimermi, ma bensì di una tortura studiata ad arte dal mio nemico di un tempo affinché io non dimentichi, neppure per un solo secondo, qual è il mio passato e che qualunque sforzo non riuscirà a scrollarmi dalle spalle l’etichetta di ‘Mostro dell’Alabama’; e come se ciò non fosse già una dura punizione, sono costretto a indossare sempre un braccialetto elettronico che monitora ogni mio singolo movimento, ed il suo significato è impresso forte e chiaro nella mia mente: alla prima cazzata, al primo passo falso che commetto, sono dentro a vita, e questa volta niente magico lasciapassare per la libertà, niente Poseidone da fermare.

In compenso, però, la paga è ottima.

“Ohh!” esclamo, prendendo in mano la busta, rigirandola senza aprirla “mi domandavo quando sarebbe arrivato altro materiale su cui lavorare”

“Forse dovrei avvisarti sulle foto che vedrai, perché sono piuttosto forti, ma sono sicura che tu abbia visto di peggio” mormora Nickie, lanciando un’occhiata in direzione di Dee, per assicurarsi che sia tutto a posto “ti consiglio di darci un’occhiata il prima possibile perché questo caso ha la priorità assoluta. Alex vorrebbe chiudere questa faccenda il prima possibile dato che sono coinvolti dei minori…”

“Lo farò. Puoi dire a Mahone che non ha nulla di cui preoccuparsi… Salutalo da parte mia”

“Vuoi davvero che dica questo ad Alex? Sul serio?” domanda Nicole, concedendosi una breve risata divertita “non credo che sarà molto contento di ricevere i tuoi saluti”

“Però non disdice il mio aiuto laddove perfino il suo straordinario cervello fa cilecca. Non mi dire che porta ancora rancore per la questione di Scylla… Ormai sono passati anni, non pensa che sia arrivato il momento di lasciarsi il passato alle spalle?”

“Se sei davvero così convinto che portare rancore non serve a nulla, allora perché qualche volta non accompagni tu i nostri figli da Michael e Sara?”

“Questa si tratta di una faccenda completamente diversa”

“Immaginavo che avresti risposto in un modo simile” risponde Nickie, sistemandosi la cinghia della borsa sulla spalla destra, abbassa per qualche istante lo sguardo e si schiarisce la gola per riempire l’improvviso silenzio che è sceso tra di noi; accade ancora così a volte, nonostante i sei anni trascorsi, ci sono delle pause imbarazzanti che non riusciamo ad evitare “adesso devo proprio andare… A proposito, è meglio se oggi vai tu a prendere Ben a scuola”

“Perché?” chiedo subito, allarmato “è successo qualcosa?”

“Questa mattina sono andata a parlare con il preside perché è stato sorpreso mentre tentava di bucare le gomme all’auto di un suo insegnante. E due settimane fa, sempre allo stesso insegnante, ha scritto sulla cattedra la parola ‘stronzo’ con la cancellina, e poi ha dato fuoco alle lettere con un accendino… E come ciliegina sulla torta, ho trovato un pacchetto di sigarette in camera sua proprio poco prima di venire qui. Credo che sia arrivato il momento di un bel discorso ‘padre-figlio’, Theodore”
“Sì, lo credo anche io” mormoro con una smorfia, perché Benjamin sta iniziando ad assomigliare troppo a me ed è come vedere un incubo che, piano piano, assume una forma sempre più concreta; tormento ancora la busta, e prima che la mia ex compagna possa voltarmi le spalle, richiamare Dee e salire in macchina con lei, do voce ad un pensiero che mi attraversa velocemente la mente “magari questa sera, se non hai altri impegni, potremo discutere meglio di questa faccenda davanti ad un calice di vino”.

Merda, penso nello stesso istante in cui mi rendo conto di ciò che ho detto, davvero ho appena chiesto a Nicole di cenare insieme con la pretesa di parlare di nostro figlio e del suo carattere ribelle ed indomabile?

Lei solleva il sopracciglio destro e le sue labbra si distendono in un sorriso divertito e compiaciuto, eppure non c’è la minima traccia di ironia nella sua espressione.

“Aspetta… Stai parlando di un appuntamento?” mi chiede, senza mai smettere di sorridere, ed io scrollo le spalle, cercando di uscire dalla spinosa situazione in cui mi sono infilato con le mie stesse mani.

“Visto che il comportamento di Ben sta assumendo una piega così preoccupante, credo che sia meglio per entrambi parlarne di persona piuttosto che attraverso un cellulare… E un ristorante potrebbe essere un luogo perfetto… Ma se hai altri impegni, possiamo rimandare il tutto ad un’altra occasione. Oppure parlarne a telefono… Per me non c’è alcuna differenza…” dico, incrociando le braccia.

Nicole non risponde subito, mi osserva in silenzio con il sorriso che ancora le aleggia sulle labbra, forse perché sta valutando la mia proposta audace, ed infine ritorna sui suoi passi, parlandomi a bassa voce per non farsi sentire da Audrey.

“Hanno aperto un ristorante italiano in centro città, io e Karla lo abbiamo provato la scorsa settimana. È un posto carino e tranquillo, perfetto per parlare. Possiamo trovarci là per le sette e mezza, così mi racconterai come è andato il discorso ‘padre-figlio’”

“Sette e mezza. D’accordo. Perfetto”

“Adesso devo proprio andare. Ci vediamo questa sera, Theodore”

“Sì, a questa sera” ripeto, confuso, perché non posso credere che la mia ex compagna abbia davvero accettato il mio invito; mi appoggio allo stipite della porta d’ingresso e la guardo allontanarsi lungo il vialetto, mano nella mano con la mia piccola donna che mi rivolge un ultimo cenno di saluto prima di salire in macchina: avvicina le dita della manina destra alle labbra e poi le allontana, mimando un bacio invisibile.

Ed io chiudo la mia mano sinistra a pugno, prima di portarmela al petto, appoggiando il palmo all’altezza del cuore.



 
Studio in silenzio, con gli occhi socchiusi, un ragazzo appena adolescente che se ne sta da solo, con la schiena ed il piede destro appoggiati al palo della fermata del bus, dall’altra parte della strada: se ne sta lì, ignorando i suoi coetanei che gli passano affianco, con gli occhi chiusi ed il cappuccio della felpa calato sulla testa.

Resta in quella posizione, perfettamente immobile, per qualche minuto; poi solleva le palpebre, si guarda attorno, ed infila la mano destra in una tasca del giubbetto, estraendone un pacchetto di sigarette ed un accendino di plastica nera, su cui spicca il disegno di un teschio bianco.

Attendo ancora qualche istante e poi, proprio nel momento in cui lo vedo portarsi la sigaretta alle labbra, suono più volte il clacson, richiamando la sua attenzione; lui solleva il viso di scatto, spalanca gli occhi azzurri, ma la sua confusione dura non più di una manciata di secondi: impassibile, getta la cicca a terra, la calpesta, nasconde di nuovo l’accendino ed il pacchetto nella tasca e mi raggiunge a passo veloce, occupando il sedile affianco al mio e distendendo le gambe sul cruscotto.

Sa perfettamente che è un gesto che detesto, eppure quando gli ordino di sedersi in modo composto, dalle sue labbra esce un verso simile ad un grugnito, e mi ritrovo costretto a ripetere le mie stesse parole per la seconda volta: un’altra cosa che odio profondamente.

“Mh-mh…” borbotta Benjamin, concentrandosi sullo schermo del cellulare che gli ho regalato qualche mese prima, per il suo quattordicesimo compleanno, ma le sue gambe non si spostano di un solo millimetro.

“Ben, sai che a tuo padre non piace ripetere una cosa per la seconda volta, ed ancora meno gli piace ripeterla per la terza volta. Sei davvero sicuro di non voler togliere i piedi dal cruscotto?” finalmente, dietro la mia esortazione, decide di assumere una posizione più composta “fai sparire quel cellulare, non credi che dobbiamo parlare?”

“No, non lo credo affatto”

“Ohh, ma allora hai ancora una voce per parlare. Iniziavo a temere che ti fossi trasformato in una mucca, visto che ormai rispondi solo a muggiti. Fai sparire quel cellulare, avanti, perché dobbiamo fare un bel discorso”

“Che palle!” esclama Ben, sollevando gli occhi al tettuccio della macchina “ma si può sapere per quale motivo sei venuto a prendermi a scuola? Oggi inizia la settimana con mamma, non dovresti essere qui. Lei lo sa?”

“Sì, lo sa, e vuoi sapere un’altra cosa? È stata proprio lei a dirmi di venire a prenderti a scuola”

“Che palle!”

“Puoi continuare in questo modo anche per tutta la giornata, ma ciò non ti aiuterà ad evitare il discorso ‘padre-figlio’ che dobbiamo fare. Prima di tutto: dammi il pacchetto di sigarette e l’accendino che hai nella tasca del giubbetto. E non provare nemmeno a fingere di non sapere di che cosa sto parlando perché ti stavo osservando da un pezzo. Avanti” ordino, allungando la mano destra verso di lui; questa volta mio figlio non prova neppure a ribellarsi, mi passa controvoglia i due oggetti di cui mi libero subito, buttandoli fuori dal finestrino alla mia sinistra.

“Ehi!” protesta Ben, spalancando di nuovo gli occhi, voltandosi in direzione della strada “non puoi farlo!”

“In qualità di tuo padre posso fare questo ed altro. E se ti becco ancora con quella merda in mano, ti metto in punizione per un intero mese. Ma che cosa credi di fare?” domando, ad alta voce, senza riuscire più a trattenermi, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata fulminante al mio secondogenito “che cosa credi di dimostrare? Da quanto va avanti questa storia? Tua madre mi ha detto che ha trovato un pacchetto di sigarette nella tua camera da letto. Lo sai che non devi assolutamente fumare perché…”

“Perché ho una forma violenta di asma”

“Esatto. È come accendere la miccia di una bomba che potrebbe esplodere da un momento all’altro”

“E potrei finire in ospedale, o potrebbe andarmi molto peggio… Pensi che non sappia tutte queste cose, Theodore? Ho quattordici anni, non sono più un ragazzino! Ho questa malattia fin dalla nascita e so che dovrò portarmela appresso per tutto il resto della mia vita. E per colpa di questa stupida malattia non posso fare la maggior parte delle cose che fanno gli altri ragazzi” commenta, amareggiato, incrociando le braccia ed appoggiando di nuovo le gambe sopra al cruscotto “vorrei essere in squadra con Mike, invece mi devo accontentare di vedere il mio migliore amico dalle tribune”.

Ecco, questo è esattamente quel genere di parole che un genitore non vorrebbe mai sentire pronunciare dal proprio figlio, perché non c’è nulla che possa dire in questo momento per consolare Ben: ogni frase non sarebbe altro che una bugia, perché come ha detto lui stesso non esiste una cura definitiva alla sua malattia.

L’asma lo accompagnerà per tutta la vita e non potrà fare tantissime cose normali per qualunque altro adolescente.

Ed io, anche se sono suo padre, non posso fare nulla per cambiare questa situazione.

Quando arriviamo a casa preferisco non riprendere la discussione e lo lascio salire al primo piano per auto segregarsi in camera da letto, con la speranza che sbollisca un po’ la rabbia, e ne approfitto per dare una prima occhiata al materiale che Nicole mi ha portato; mi siedo davanti al bancone in cucina, apro la busta gialla, estraggo alcuni fogli ed una serie di fotografie forti e raccapriccianti: in tutte, da diverse prospettive, è raffigurato il corpo martoriato, quasi irriconoscibile, di una bambina, il cui volto è nascosto dai lunghi capelli castani, incrostati di sangue raffermo, foglie e terriccio.

Un brivido freddo mi percorre la spina dorsale e, con orrore, mi rendo conto che la chioma e l’età della piccola vittima si avvicinano molto a quelle di Audrey.

Della mia Audrey.

Sistemo con cura fogli e le fotografie dentro la busta, nascondo il tutto con cura nella mia camera da letto e poi busso alla porta di quella di Benjamin; ed anche se non ottengo alcuna risposta, abbasso ugualmente la maniglia ed entro nella stanza.

Anche se Ben non è come gli altri ragazzi della sua età, la sua camera da letto è uguale a quella di qualunque altro adolescente: ha una scrivania, un computer, una playstation, una TV, un lettore DVD e pile infinite di film, videogiochi e CD; le pareti sono tappezzate di poster dei suoi gruppi musicali preferiti, mentre quella dietro al letto è costellata da fotografie che lui stesso ha scattato con una polaroid che Nicole gli ha regalato sempre per i suoi quattordici anni.

È proprio a quest’ultima parete che mi avvicino per osservare con maggior attenzione le diverse fotografie su cui Benjamin è sempre presente insieme alle persone a cui è più affezionato: sua madre, Dee, Mike (straordinariamente simile a Sara), David e Gracey.

Ne ha perfino una in cui è in compagnia della famiglia Scofield al completo, ma non ne ha una sola con me.

Non mi ha mai chiesto di fare una singola, fottuta, foto insieme.

“Che cosa farai quando questa parete sarà completamente piena?” domando a mio figlio, che se ne sta sdraiato sul letto, con il braccio sinistro appoggiato sopra al viso e le cuffiette infilate nelle orecchie, ma io so che riesce a sentirmi benissimo, ed infatti mi risponde prontamente.

“Staccherò qualche poster ed inizierò a riempire un’altra parete” dice, digitando qualcosa sul cellulare.

“Che cosa stai facendo?”

“Sto messaggiando”

“Con chi?”

“Con mio fratello”

“Ohh, davvero?” domando, sorpreso “non immaginavo che fossi al telefono proprio con lui. Sono quasi due mesi che non ricevo una singola notizia da parte sua”

“Questo perché non puoi comparire all’improvviso nelle nostre vite e pretendere di farci da padre”.

Colpito e affondato.

Senza pronunciare una sola parola afferro Benjamin per un braccio, costringendolo ad alzarsi dal letto ed a liberarsi delle cuffiette, e lo trascino in garage, ordinandogli di salire in macchina e di allacciarsi la cintura di sicurezza (perché la prudenza non è mai troppa); Ben obbedisce, con riluttanza, lanciandomi un’occhiata risentita per il modo brusco in cui l’ho appena trattato e domandandomi dove siamo diretti.

Dove cazzo siamo diretti, per la precisione.

“In un posto che devi vedere con i tuoi stessi occhi e forse, allora, capirai tante cose” gli rispondo in tono secco, guidando, senza dargli ulteriori spiegazioni; Benjamin sbuffa e solleva ancora gli occhi al tettuccio della vettura.

Possibile che gli adolescenti siano in grado di fare solo questo?

“E dobbiamo andarci proprio adesso? Ho fame”

“Il tuo appetito ha un tempismo piuttosto curioso, dato che fino a poco fa te ne stavi chiuso in camera tua senza la minima intenzione di voler uscire. Al ritorno prenderemo qualcosa da un fast-food, ma in questo momento non sono intenzionato a fermarmi fino a quando non arriveremo a destinazione”

“E quanto manca?”

“Ohh, non molto, tesoro. Meno di una decina di minuti” mormoro, lanciando un’occhiata all’orologio che porto al polso destro; ed infatti, qualche minuto più tardi, parcheggio la macchina poco lontano dalle mura grigie di un’imponente struttura di cui si riescono a scorgere appena i tetti dei diversi edifici “ecco. Siamo arrivati”.

Mio figlio avvicina il viso al finestrino, piega le labbra in una smorfia e mi rivolge uno sguardo perplesso.

“Che razza di posto è questo?”

“È un carcere di massima sicurezza, si chiama ‘Fox River’. Qui dentro ho trascorso complessivamente dodici anni della mia vita. Non è stato il mio periodo di detenzione più lungo, ma è stato l’ultimo carcere in cui sono stato rinchiuso, ed è stato qui che ho conosciuto tua madre” mormoro, vagando con gli occhi sulle mura rinforzate da filo spinato, e per un attimo rivivo la notte dell’evasione: otto uomini che si lasciano cadere al di là delle mura e che corrono in direzione del bosco, con i poliziotti, i cani e gli elicotteri già alle costole, verso un volo per il Messico che non riusciranno mai a prendere; sospiro e concentro lo sguardo sul mio secondogenito, che ancora mi osserva perplesso “Benjamin, hai tutto il diritto di essere incazzato con il mondo intero per quello che ti è successo. So che stai passando un periodo delicato, ma…”

“Ohh, ti prego!” m’interrompe lui, mettendo il broncio “non iniziare con questo genere di discorsi. Sono terribilmente imbarazzanti! Soprattutto perché non hanno né capo né coda. Sono i classici discorsi che voi adulti vi sentite costretti a fare a noi ragazzi”

“Ascoltami, per favore!” lo interrompo a mia volta “quando avrò finito potrai dire qualunque cosa, ma devi lasciarmi finire questo discorso, d’accordo? Ascoltami, Ben, hai tutto il diritto di essere incazzato per quello che ti è successo, ed hai anche tutto il diritto di essere incazzato con il mondo intero. Lo so quale è il tuo pensiero fisso. Ti domandi in continuazione perché l’asma deve perseguitare proprio te e che cosa hai fatto di male per meritarti una croce simile da portare sulle spalle per il resto della tua vita. Purtroppo io non ho la risposta alle tue domande, ma capisco benissimo la tua frustrazione perché non puoi fare la maggior parte di cose che i tuoi coetanei fanno. Capisco benissimo la tua voglia di ribellarti, perché anche io ho avuto quattordici anni”

“Sì, certo, secoli fa” commenta lui, acido, incrociando le braccia “e comunque non puoi capire davvero, perché tu non hai mai avuto l’asma. Nessuno può capire anche solo lontanamente come mi sento”

“Ho avuto anche io i miei problemi, Benjamin, e proprio a causa loro mi sono sempre sentito inadeguato e diverso dagli altri ragazzi. E quando ho iniziato ad andare a scuola mi sono isolato da tutto e da tutti, diventando lo sfigato dell’intero edificio. Mio cugino James era il mio unico amico… Il punto è questo, tesoro: ad ogni giorno che passa, rivedo sempre di più in te ciò che io ho vissuto in prima persona, e non voglio che mio figlio imbocchi una strada senza ritorno”

“Ma ho solo fumato delle sigarette!”

“Adesso si tratta di sigarette e di qualche dispetto ad un insegnante. Poi arriverà il momento di piccoli furti dentro i negozi di alimentari e poi quello della cazzata che ti porterà a trascorrere anni dentro un carcere minorile. E quando uscirai, e sarai ormai un uomo, continuerai con quella strada perché sarà l’unica che avrai imparato a conoscere… E tutto si trasformerà in un enorme circolo vizioso: crimine, carcere, libertà… Crimine, carcere, libertà… Il carcere è un inferno in Terra. Non immagini neppure il mondo che si nasconde dietro queste mura, Benjamin… Potrei raccontarti storie che non ti farebbero più chiudere occhio per il resto della tua vita” mormoro, guardando ancora una volta il cancello imponente di Fox River; potrei davvero raccontare a mio figlio storie da incubo che spegnerebbero subito la fiamma di ribellione che arde in lui, ma non posso farlo perché la maggior parte (anzi, tutte) riguardano me.

Ben abbassa il viso, rivolgendo lo sguardo corrucciato alle scarpe da ginnastica, tormentandosi il labbro inferiore; dopo qualche minuto di silenzio assoluto, in cui l’osservo in attesa di una qualunque risposta da parte sua, infila la mano destra in una tasca dei pantaloni, tirandone fuori una bustina di plastica trasparente che allunga verso di me, senza guardarmi negli occhi.

“È meglio se butti fuori dal finestrino anche questa”.



 
Benjamin ed io non ci rivolgiamo la parola per il resto dell’intera giornata, ma mentre mi sto preparando per l’appuntamento vedo il suo viso riflesso nello specchio posizionato di fronte a me; lo degno a malapena di un’occhiata e torno a concentrarmi sulla cravatta che sto provando ad annodare, lui non si scoraggia, muove qualche passo e si lascia cadere sul materasso.

“Togli la scarpe dal letto” lo ammonisco immediatamente “non dovresti essere in camera tua a fare i compiti?”

“Li ho già fatti”

“Allora dovresti studiare. Sono sicuro che avrai qualcosa da studiare”

“Ho già fatto anche quello”

“Allora ripassa”

“È tutto il pomeriggio che non esco dalla mia camera…”

“E dovrà trascorrere molto tempo prima che potrai farlo di nuovo” lo interrompo, voltandomi a guardarlo negli occhi, per fargli capire quanto io sia ancora profondamente furioso con lui a causa della busta trasparente che mi ha consegnato in macchina; Ben si tira su di scatto, sedendosi sul bordo del materasso e mi fissa con gli occhi azzurri sgranati ed un’espressione sinceramente pentita.

“Mi dispiace, d’accordo? Ho fatto un’enorme cazzata a comprare quella roba, ma ti giuro che non l’ho provata! Te lo giuro su Dee! Me ne sono pentito subito! È tutto il pomeriggio che non esco dalla mia camera per fare i compiti e studiare… Mi domandavo se… Ehi, per quale motivo sei vestito in modo così elegante? Stai uscendo?”

“Ho un appuntamento”

“Un appuntamento?” ripete il mio secondogenito, sostituendo l’espressione costernata con una curiosa ed indagatrice “intendi dire che hai un appuntamento con una donna? Ma tu non frequenti una donna da anni, quando l’hai conosciuta?”

“Non si tratta di un appuntamento romantico, infatti: io e tua madre usciamo a cena perché dobbiamo parlare di una questione molto importante, ed è meglio farlo di persona. tutto qua” mormoro, riuscendo finalmente a realizzare un nodo dall’aspetto decente; Ben piega il viso di lato e sorride divertito.

“Tutto qua? Ne sei davvero sicuro, Theodore? Non è che voi due avete ricominciato a frequentarvi, ma volete tenere all’oscuro sia me che Audrey per non… Scombussolarci troppo?”

“Assolutamente no. Non farti strane idee”

“Mh, se lo dici tu…” commenta Benjamin “quindi… Siccome stai per uscire, anche se sono in punizione, Mike può venire qui a mangiare una pizza ed a guardare un film?”.



 
Nicole entra nel ristorante poco dopo il mio arrivo, e non appena poso gli occhi su di lei resto letteralmente senza fiato: l’abito da sera che indossa fascia le sue curve in modo perfetto, quasi come una seconda pelle, lasciandole le braccia e le spalle scoperte, fermandosi a pochi centimetri sopra le ginocchia; gli occhi chiari sono messi in risalto da una matita nera, ed i capelli castani e lunghi sono stati sostituiti da un corto caschetto biondo che non le sfiora neppure le spalle.

È bellissima, non posso negarlo: anche se abbiamo avuto una storia turbolenta, anche se ci sono state parecchie incomprensioni tra noi due, anche se c’è stato un periodo in cui ci siamo odiati a vicenda, ciò non cambia il fatto che in questo momento è uno spettacolo semplicemente mozzafiato che mi lascia tutt’altro che indifferente; e quando vengo colpito dal profumo dolce che indossa, misto a quello di una crema per il corpo, sento il sangue iniziare ad affluire verso il basso inguine.

“Accidenti…” commenta la mia ex compagna, facendo tintinnare gli orecchini luccicanti che indossa “in tredici anni che ti conosco non ti ho mai visto così elegante. Hai addirittura la cravatta”

“Non c’è mai stata l’occasione per un’uscita simile durante il periodo in cui siamo stati insieme. E poi, non potevo sfigurare questa sera… Che cosa hai fatto ai capelli?”

“Era da un po’ di tempo che stavo pensando ad un nuovo taglio, ho semplicemente colto l’occasione al volo… Allora? Andiamo al nostro tavolo, così possiamo parlare di nostro figlio?” mi domanda Nicole, e senza lasciarmi il tempo di acconsentire si avvicina ad un cameriere, che si offre di accompagnarci ad un tavolo posizionato ben lontano dal centro dell’immensa sala, in un angolino, vicino ad un’alta e stretta finestra “ho chiesto un posticino tranquillo ed intimo per non essere disturbati… Dunque? Che cosa mi dici riguardo al discorso ‘padre-figlio’? Sei riuscito a farlo? Quale è stata la reazione di Ben?”

“Ho fatto molto di più” rispondo, sedendomi di fronte a lei, sfogliando il menù velocemente “l’ho messo di fronte a quello che potrebbe essere il suo futuro se continua su questa strada”

“Cioè?”

“Gli ho fatto vedere le mura di Fox River e gli ho chiesto se quello che desidera veramente è trascorrere la maggior parte della sua vita dietro le sbarre di una cella”

“Un po’ troppo diretto, ma efficace” commenta Nicole, sorridendo “ed ha funzionato?”

“Ohh, sì!” esclamo, distendendo le labbra a mia volta “Benjamin è rimasto così impressionato dalle mie parole che ha infilato la mano destra in una tasca dei pantaloni e mi ha consegnato una bustina di plastica trasparente. Ho impiegato qualche secondo a capire di che cosa si trattasse, ma quando l’ho aperta ogni mio dubbio è stato sciolto dall’aroma speziato del contenuto: era della marijuana”.

Gli occhi di Nickie si spostano rapidamente dal menù al mio viso, scrutandolo a lungo, forse per capire se la sto prendendo in giro o se le sto raccontando la verità; e quando si convince che è la seconda opzione ad essere giusta, serra le labbra in una linea sottile e pallida.

Dal modo in cui butta fuori l’aria in uno sbuffo, capisco subito che si sta trattenendo a fatica dal fare una sceneggiata da madre preoccupata.

“Non immaginavo che la situazione fosse così seria. Quando ho trovato quel pacchetto di sigarette nella camera di Benjamin non mi aspettavo che potesse nascondere anche altro. Non ho mai…”

“Rilassati” mormoro, interrompendola, perché la sua voce sta iniziando a salire di tono ed a diventare sempre più acuta; senza pensarci, d’istinto, la prendo per mano per tranquillizzarla “Ben non ha preso quella merda. Mi ha confessato di essersene pentito nello stesso momento in cui è riuscito a procurarsi quella bustina, ed io gli credo. E poi, l’ho messo in punizione per un mese intero, penso che abbia capito la lezione… Ho fatto un’eccezione per questa sera perché non volevo che rimanesse a casa da solo, gli ho permesso di invitare Mike per una pizza ed un film… Molto probabilmente quando tornerò a casa, li troverò addormentati in camera mia, visto che ho un letto matrimoniale, ed io mi ritroverò relegato sul divano. Dee?”

“È da Karla”

“Ahh!” esclamo, con una smorfia, tutt’altro che contento di sapere che la mia unica figlia è in compagnia di una donna che mi odia profondamente, con ogni fibra del suo essere “dovevi per forza lasciarla dalla strega con i capelli rossi?”.

Nickie solleva il sopracciglio destro, rivolgendomi uno sguardo risentito, e ritrae la mano.

“Dovresti smetterla di offenderla” mi rimprovera, sfogliando per l’ennesima volta il menù.

“Ohh, sono sicuro che lei mi rivolge insulti molto più pesanti, non provare a negarlo” commento, ritornando a guardare a mia volta il menù, ma non riesco a trattenermi dal rivolgerle una piccola frecciatina, soprattutto perché sono curioso di sapere la sua risposta “mi domando se anche in quel caso la tua reazione è così immediata ed istintiva, o se ti diverti a mettere altra carne sul fuoco”

“Certo che reagisco nello stesso modo. Non permetto a te di parlare male di lei perché è una mia amica, ma non permetto neppure a lei di parlare male di te perché sei il padre dei miei figli. Ed anche se non sei la persona più candida e pura sulla faccia della Terra, con loro sei impeccabile e questo mi basta” risponde lei, senza la minima traccia di esitazione.

La nostra conversazione s’interrompe quando un cameriere viene a prendere le nostre ordinazioni, ed il silenzio prosegue anche durante il pasto; Nicole è assente, lo dimostrano il suo sguardo a tratti perso nel vuoto ed il filetto di manzo che giace quasi del tutto intatto nel suo piatto, e lo stesso vale anche per il calice di vino rosso.

Quando arriva il momento del dolce, decido di prendere io in mano la situazione.

“Non avere paura per Benjamin, sono sicuro che ha capito la lezione”

“Sono sua madre, è naturale che io sia preoccupata, tu non lo sei?”

“Ora non più, perché ho visto i suoi occhi mentre guardava le mura di Fox River. Non essere troppo dura con lui quando gli dirai che sai tutto della marijuana, soprattutto perché ci ho già pensato io a fargli una bella lavata di capo. Digli che ha sbagliato, che ha commesso una leggerezza, ma non farglielo pesare troppo: ha appena quattordici anni, tutti i ragazzini di quell’età commettono delle piccole cazzate. Io ne avevo solo uno in più quando ho scolato un’intera bottiglia di whisky insieme a mio cugino, e poi abbiamo fumato un intero pacchetto di sigarette. Siamo stati male un’intera settimana, mia zia credeva che avessimo preso qualche virus che girava nell’aria. Rilassati, Nickie, conosco nostro figlio proprio perché assomiglia a me. La sua mente è un libro aperto ai miei occhi” faccio una pausa per rinfrescarmi la gola con un sorso d’acqua “a quell’età tutti cercano un modello da seguire ed imitare, e Benjamin l’ha identificato in David: adora suo fratello, stravede per lui, di conseguenza cerca di assomigliargli il più possibile. Domani mattina lo chiamerò, gli spiegherò la situazione e gli chiederò d’incontrarsi con il suo fratellino per fargli a sua volta un bel discorso… Adesso sei più tranquilla?”.

Sì, è più tranquilla, e lo dimostrano le spalle rilassate, come se un enorme peso fosse improvvisamente sparito.

“Sì, però gli farò a mia volta un bel discorso… Uno di quelli che non dimenticherà per molto tempo. Come va con Whip e Gracey?”

“Stanno insieme, stanno bene, dovresti saperlo anche tu visto il legame di amicizia che hai con mio figlio”

“Lo so, infatti mi stavo riferendo ad altro. Non hai più avuto occasione di parlare con Gracey?”

“Ohh, adesso ho capito la tua domanda” mormoro, bevendo dell’altra acqua “anche se sono trascorsi sei anni non ho mai provato ad avere un altro chiarimento con lei. Non so se sarebbe disposta ad ascoltare le mie parole o a perdonarmi, e non voglio rovinare l’equilibrio che c’è tra lei e David. L’ultima cosa che voglio al mondo è rovinare la relazione più duratura di mio figlio. E poi, come tu stessa mi hai detto tempo fa, Gracey è la figlia di Susan… Non credo che sarebbe molto contenta se dovesse scoprire che David è mio figlio. Preferisco rimanere in un angolo, almeno per il momento. E Burrows?”

“La nostra è una storia finita da tempo, ma siamo rimasti in ottimi rapporti. Sta insieme a Sheba”

“Sheba?”

“Il contatto che C-Note aveva nello Yemen. L’ha conosciuta quando è venuto a cercare Michael”.

Ripenso al giorno in cui ho parlato con Scofield al parco, in modo particolare alla ragazza dai tratti orientali seduta sull’erba, che parlava e rideva con Sara.

Avevo ragione a sostenere che tra loro due c’era già un po’ di maretta.

Dopo essermi elegantemente offerto di pagare il conto, invito la mia ex compagna a fare una passeggiata al parco, dal momento che è una splendida nottata ed il cielo è tempestato da una miriade di piccoli puntini luminosi; entrambi prendiamo posto su una panchina per goderci appieno le stelle.

Ancora una volta tra noi due cala il silenzio, ed ancora una volta sono io ad interromperlo.

“Ho dato un’occhiata al materiale che mi hai dato” mormoro, scompigliandomi i capelli con la mano destra “per un solo istante ho avuto la terribile sensazione che quella bambina fosse Audrey”

“È la stessa, identica, sensazione che ho avuto anch’io, ma fortunatamente non è lei. E mai lo sarà” Nicole distoglie gli occhi azzurri dalle stelle per fissarli nei miei, e nonostante non sia più una ragazzina, ma una donna di trentaquattro anni, mi sembrano sempre grandi ed infantili “giusto?”.

Finalmente capisco che cosa si cela dietro la sua assenza mentale ed ai suoi lunghi silenzi: Nickie non ha paura che Benjamin possa prendere altre scelte sbagliate che condizionerebbero la sua vita per sempre, è semplicemente terrorizzata dalla prospettiva che Mahone la contatti per annunciarle, con immenso dolore, che la nostra Dee è rimasta vittima di qualche sadico mostro; è terrorizzata dalla prospettiva che la prossima busta non contenga foto di una bambina che assomigli ad Audrey, ma proprio della nostra Audrey.

Nicole continua a fissarmi con gli occhi azzurri sgranati e carichi di timore, in attesa di una mia risposta che possa farle dormire sogni tranquilli, vedo le sue labbra percorse da un lieve tremolio e devo lottare contro l’impulso di baciarle: rischierei solo di commettere uno sciocco errore e di rovinare l’intera serata.

È ancora troppo presto per un gesto intimo e profondo come un bacio.

Abbasso lo sguardo, vedo la sua mano sinistra appoggiata al legno della panchina e capisco che cosa devo fare.

Poso la mano destra sopra la sua e la stringo leggermente, ricevendo un sorriso inaspettato; non so se la mia ex compagna ha capito il perché del mio gesto, ma è proprio da esso che le nostre vite si sono intrecciate per la prima volta, tredici anni fa: tutto, ogni singola cosa, non è iniziato dal giorno in cui gli uomini di Abruzzi mi hanno pestato a sangue e Nicole si è occupata delle mie ferite, e non è neppure iniziato dal giorno in cui abbiamo parlato attraverso la recinzione.

No.

Tutto è iniziato dal giorno in cui, in infermeria, lei si è seduta a mio fianco sulla brandina e le dita della mia mano destra si sono intrecciate con quelle della sua mano sinistra.

Forse in questo momento, complice anche l’atmosfera da film romantico, dovrei prodigarmi in un discorso strappalacrime che lasci Nickie a bocca aperta, confessandole anche quanto io sia ancora profondamente innamorato di lei, dicendole che non ha senso continuare a stare l’uno lontano dall’altra e che è arrivato il momento di ricongiungerci e di creare la famiglia che ad entrambi è sempre stata negata e che entrambi desideriamo ardentemente.

Ma ancora una volta è troppo presto.

Ancora una volta rischierei di rovinare tutto.

E così, mi limito a sorriderle con dolcezza, dicendo esattamente ciò che vuole sentire uscire dalle mie labbra.

“Giusto”.

Per tutto il resto c’è tempo.
 
 

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